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Italian Pages 344 Year 2024
RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
Contro l’alibi del declino irreversibile Idee per un progetto nazionale prima che altri decidano per noi
UNA CERTA IDEA DI ITALIA LIMES È IN EBOOK E IN PDF • WWW.LIMESONLINE.COM
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Leonardo costruisce un futuro sostenibile con le proprie capacità industriali, investendo in competenze strategiche. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Rivista mensile n. 2/2024 (febbraio) ISSN 2465-1494 Direttore responsabile
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SOMMARIO n. 2/2024 EDITORIALE 7
Vedere in prosa (in appendice Mirko MUSSETTI - Le necessità dell’Ucraina e Le offerte dell’Italia) COME CAMBIA IL NOSTRO FATTORE UMANO
PARTE I 39
Romano FERRARI ZUMBINI - Tina o Tara?
45
Giuseppe DE RUVO - Il vincolo esterno (non) è un destino
57
Agnese ROSSI - La crisi dell’università è il suicidio dello Stato
67
Massimiliano VALERII - Vivere senza domani
85
Luca DI SCIULLO - Manifesto della immigrazione possibile
93
Moris GASPARRI - Il destino dell’Italia passa per il calcio
E viceversa 101
Guglielmo GALLONE - C’erano una volta i giovani:
come rianimarli IL DECLINO ACCELERA, MA NON È UN DESTINO
PARTE II 109
Fabrizio MARONTA - All’Italia serve l’industria all’industria serve lo Stato
123
Gabriele GUZZI - L’euro è la moneta del nostro declino.
Possiamo uscirne? 133
Giovanni LA TORRE - Il declino ce lo siamo scelto
143
Giuseppe DE RUVO, Alessandro FRANCESCANGELI e Jacopo RICCI - Autonomia
differenziata, o della fine dello Stato 153
Rosario AITALA e Antonio BALSAMO - Come battere la mafia ‘normale’
165
Alessandro ARESU - Usciamo dal giorno della marmotta
175
Laura CANALI - Seguendo l’acqua in salita
183
Germano DOTTORI - L’Italia riarma lentamente
191
Francesco ZAMPIERI - Game over nel Mar Rosso?
209
Mario ZANETTI - ‘L’Italia ha bisogno del suo mare’
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215
Lorenzo NOTO - Ritorno all’Adriatico
223
Marcello SPAGNULO - Spazio all’Italia
PARTE III
CHE FARE NELLA GUERRA GRANDE
233
Federico PETRONI - Per una relazione speciale con gli Stati Uniti
245
Marco MINNITI - ‘Nel Mediterraneo Italia e Francia devono agire insieme’
251
Laris GAISER - I Balcani allargati sono un problema italiano
259
Jahara MATISEK e Nils ZIMMERMANN - Per una profondità strategica
europea in Africa 267
Daniele SANTORO - Capire i turchi per usarli
279
Giorgio CUSCITO - Addio vie della seta
L’Italia naviga verso il Sol Levante 287
Orietta MOSCATELLI e Mauro DE BONIS - Per la Russia il futuro
è il passato 295
Giorgio STARACE - ‘Per riportare la pace in Europa
serve una nuova Helsinki’ 305
Giacomo MARIOTTO - Perché ci serve la Germania
315
Marc REVERDIN - Che cosa può fare l’Italia per tornare una potenza vera
AUTORI 321
LA STORIA IN CARTE Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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a cura di Edoardo BORIA
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Vedere in prosa 1.
P
ER LA PRIMA VOLTA NELLA SUA STORIA UNITARIA, L'ITALIA rischia di scadere da soggetto a oggetto. Se non lo è già. Soggetto è chi partecipa a fare storia. Oggetto chi si riduce a subirla. C’è chi l’oggetto lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, noi italiani né l’uno né l’altro: lo facciamo per passione 1. Siamo o non siamo il Belpaese, autocertificato da Dante e Petrarca? Titolo d’un prezioso «libro di lettura per il popolo» pubblicato con enorme successo nel 1876 dall’abate Antonio Stoppani 2. Tanto che nel 1906 Egidio Galbani, fondatore dell’omonima azienda casearia, indignato dall’arrogante dominio dei formaggi francesi sul mercato nostrano, fiero vi oppose il patriottico cacio fresco Bel Paese (o Italo), stampigliandovi sulla crosta una carta d’Italia affiancata al ritratto di Stoppani. Marchio di permanente successo, conferma della continuità nel tempo delle papille gustative nazionali, contro gli apocalittici della sostituzione etnica. Tanto da ispirare nel 1990 agli agitprop (copyrighters) della presidenza del Consiglio una pubblicità regresso che in nome dell’Europa assegnava ai vicini continentali golose porzioni del dolce paese-formaggio «ch’Appennin parte e ’l mar circonda et l’Alpe» 3. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Licenza di plagio da «Bocca di rosa» che ci concediamo in riconoscente memoria di Fabrizio De André. 2. A. STOPPANI, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali e la geologia e la geografia fisica d’Italia, Milano 1876, Casa editrice L. F. Cogliati. Reca in copertina la splendida coppia Italia-Galbani, geo-artistica invenzione di Egidio Galbani per decorare il suo buon formaggio. Fra le ristampe recenti: Santarcangelo di Romagna, 2018, edizioni Theoria. Per i nessi elvetici del volume, cfr. P. REDONDI, «Le ascendenze svizzere di un libro diventato best seller», Il Cantonetto, n. 56, fascicolo 24, 2014, pp. 123-132. 3. F. PETRARCA, Canzoniere, CXLVI.
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VEDERE IN PROSA
Quale crisma migliore per una nazione oggetto? Forse l’unica nella folta classe dei paesi a disposizione che in quanto oggetto reciti a soggetto. Fedeli a nostra antica tradizione teatrale, improvvisiamo come nessuno. Siamo geni del fuori contesto. O forse soffriamo d’una forma assai attenuata della sindrome di Clive Wearing, musicologo britannico cui un’encefalite virale indusse l’incapacità di ricordare il passato (salvo di aver moglie) e di pensare il futuro. Amnesia bilaterale profonda che impone di sopravvivere nel presente permanente. Momento per momento: «Giorno e notte per me sono la stessa cosa, il bianco. È esattamente come la morte. Non ho alcun pensiero» 4. Il bioingegnere Rodrigo Quian Quiroga, che si è appassionato al suo caso, ce lo descrive così: «Si ripete più volte, senza ricordare ciò che ha appena detto, fino a che sua moglie rientra nella stanza e lui fa un salto dal divano per abbracciarla con una passione che commuove. E ballano e si baciano come se non si fossero mai visti da anni» 5. Vivere fuori contesto nel presente che presumiamo eterno esonera da ogni responsabilità. Ricorda qualcosa? A noi sì. Eppur non ci commuove. 2. Nel volume scorso abbiamo avviato la perlustrazione del Belpaese, nave senza nocchiero nella tempesta della transizione dall’egemonia americana a X: un’altra improbabile America o il caos della Guerra Grande, epidemia bellica in espansione. Ripartiamo dal paradigma di Ardrey, tuttora influente nella percezione altrui del nostro piccolo mondo. Vi si bipartisce l’umanità in tipi ideali: italiani, stadio supremo delle collettività ad antagonismo interno, nucleo produttore di geni; e non italiani, nazioni che poggiano sulla pace domestica per esprimere potenza verso l’esterno 6. Un altro modo di distinguere il paese oggetto, qui negato alla competizione geopolitica, dal soggetto, sinonimo di nazione attiva. Il modello Ardrey è stereotipo. Precipitato delle percezioni altrui che determinano il nostro rango geopolitico ben più delle italiche autodefinizioni. Stranianti quando ci proiettiamo nel mondo e scopriamo di non venir percepiti per quel che avremmo potuto pensare di essere. Come se il Belpaese ci rendesse forti e rispettati. Però siamo amati perché non pretendiamo Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. Cfr. R. QUIAN QUIROGA, Borges e la memoria. Viaggio nel cervello umano da Funes al neurone Jennifer Aniston, Trento 2018, Edizioni Centro Studi Erikson, p. 121. 5. Ibidem. 6. R. ARDREY, The Territorial Imperative. A Personal Inquiry into the Animal Origins of Property and Nations, Cambridge (Massachusetts) 1996, Athenaeum. In particolare le pagine 152-154. Cfr. l’editoriale «Cronache dal Lago Vittoria», Limes, 1/2024, «Stiamo perdendo la guerra», pp. 9-12.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
granché dagli altri. E comunque ci adeguiamo. Così si sopporta meglio l’ingiustizia di non partecipare della competizione fra soggetti. Nostro paradigma esterno. Nel trittico che distingue potenze, satelliti e inerti, restiamo in bilico fra secondo e terzo grado. Con tendenza ad agognare quest’ultimo, fosse solo per la sindrome abbandonica diffusa fra i satelliti dal pallore improvviso del nostro Sole di riferimento 7. Qui ci concentriamo invece sul fronte interno della partita. Sfidiamo il senso comune che ci vuole confitti in irredimibile declino. Quasi una legge della storia. Storia dispettosa, che di leggi ne rispetta una sola: il mondo cambia. L’attuale non è mai eterno. Poi, se smania di classificazione opprime, ognuno s’inventerà i suoi cicli. Abbastanza lunghi da evitare figuracce a chi li proclama. Fra gli italici difetti, manca questo. Sostituito da uno peggiore: considerare che il lungo tempo di pace ci abbia immunizzato dalla guerra. L’oggi è fortissimamente incardinato nel passato in reinterpretazione permanente, che muta molto più velocemente del presente. Però è la chiave del futuro, per chi vuole esercitarsi su come affrontarlo. Con speranza: la dinamica geopolitica apre su evoluzioni impreviste, tristi o affascinanti che siano. Di qui l’impossibilità di interpretare linearmente traiettorie e incroci delle collettività umane. E la necessità di determinare la nostra rotta, sempre rivisitabile, considerando il nostro passato, sempre rivisitato. Se rinunciamo a conoscerci per quel che fummo, se trascuriamo i nostri vincoli interni – limiti con spiragli sul futuro, tutti da conquistare – allora sì il declino è segnato. E si svelerà brutale. Per ironia della storia questo paese di storia stracarico – il nome della sua capitale è universale sinonimo di impero (figura) – sta perdendo memoria e coscienza del suo imponente passato, dove luci e ombre s’alternano asimmetriche. E non a causa di chissà quale grandiosa pedagogia negativa, ma per il suo speculare opposto: deculturazione di massa. Galoppante nell’Occidente in confusione, di cui due millenni fa Roma pose le fondamenta quando Ottaviano prevalse ad Azio sulla coppia Marco AntonioCleopatra, simbolo della potenziale virata asiatista dell’impero. Da cui la sua forma Italiae (carta a colori 1). Peccato che nei club geopolitici non si ammettano soci vitalizi mentre pullulano i sedicenti fondatori. Come nell’attuale loggia Occidente, a geometria molto variabile (carta 1). Tanto peggio per chi soccombe alla carenza di memoria collettiva, moda suicida. Eppure vogliamo restare attivi, nel sentir comune sinonimo di ottimisti. Non solo perché lo dobbiamo a noi stessi. È che ci piace giocare, in omaggio Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
7. Cfr. l’editoriale «Non moriremo guardiani di spiaggia», Limes, 10/2020, «L’Italia è il mare», pp. 7-33.
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VEDERE IN PROSA
IMPERIUM SINE FINE
“Siamo tutti ancora cittadini dell’impero romano” T.S. Eliot, 1957
ROMA 27a.C. - 476 d.C.
Sacro romano impero 962 - 1806
Bisanzio Impero romano d’Oriente Costantinopoli (Seconda Roma)
Imperi europei che richiamano Roma (Asburgo, Francia, Spagna, Inghilterra, Germania)
Impero ottomano 1453 - 1922
Impero russo (1472, Ivan III sposa Sofia Paleologa, nipote dell’ultimo imperatore bizantino)
Terza Roma
Impero americano (Stati Uniti d’America) Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Quarta Roma
Unione Sovietica (1922 - 1991)
Federazione Russa Continuità diretta
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Richiamo indiretto
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
1 - L’OCCIDENTE VISTO DALL’ITALIA L’Occidente secondo l’Italia CUORE DELL’OCCIDENTE SECONDO L’ITALIA Francia
Norvegia Svezia Finlandia
Canada Usa
Islanda Danimarca Regno Unito Irlanda 1 32 Benelux 6 57849 Francia Italia Spagna Portogallo
Usa 1-Germania 2-Polonia 3-Rep. Ceca 4-Slovacchia 5-Austria 6-Svizzera 7-Slovenia 8-Croazia 9-Ungheria 10-Romania 11-Bulgaria 12-Grecia
Italia
Spagna
Australia
Nuova Zelanda
a Jean Cocteau, con la tentazione di identificarci francesi di buon umore. C’è luce nel rimuovere. Torniamo al simpatico Quian Quiroga, filosofo travestito da neuroscienziato: «Io credo che dimenticare definisca l’intelligenza umana, ne sia la caratteristica essenziale» 8. Memorizzare è processo dinamico. Non sinonimo di intelligenza. Però a scuola ci insegnano che vince chi ricorda di più. Quian Quiroga si oppone: la chiave del funzionamento dell’intelligenza umana sta nel dimenticare. Processo dinamico selettivo, necessario a immaginare. Addio alla partizione fra corpo e mente di cartesiana memoria. Benvenute le «cellule concetto». Dimenticare dettagli aiuta a sviluppare pensieri concettuali, libera l’inventiva. Ricetta consigliata dal nostro ai lettori, fate come me, rinunciate allo smartphone: «Io Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
8. J. MOUZO, «Rodrigo Quian Quiroga, neuroscientist: “Forgetting is the essential trait of intelligence”», intervista pubblicata l’8/2/2024, elpais.com
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VEDERE IN PROSA
posso permettermi di non possederne uno. Quell’oggetto uccide i momenti di noia in cui ti sembra di non far nulla, ma da cui improvvisamente scattano gli ingranaggi della mente e ne emergono idee cui non avevi pensato» 9. In slogan: o cellule o cellulari. Ci permettiamo di suggerirlo per la prossima pubblicità progresso della presidenza del Consiglio, affidata a creativi incorrotti dal fascino del Belpaese. La neuroscienza apre frontiere stimolanti alla geopolitica. Conviene richiamare quanto Antonino Cattaneo, neuroscienziato romano, ha già descritto su queste pagine. Constatato che la memoria non è pura registrazione del passato giacché il nostro cervello è prospettico, stabilisce: «La costruzione mentale che ci porta a immaginare o simulare una scena futura si determina con i medesimi circuiti nervosi con cui ricordiamo una scena passata. (…) Una funzione essenziale della memoria consiste dunque nel fornire elementi e dettagli dal passato e di ricombinarli come mattoni per simulare e immaginare scenari futuri. (…) I nostri processi mentali sfumano dunque la distinzione fra passato e futuro, come pure la distinzione tra spazio e tempo, in un continuum spazio-temporale che trova la sua espressione massima nel sogno». Dall’attivazione di certi neuroni modificati da stimoli adeguati si derivano tracce della memoria, ovvero diverse mappe del cervello, che «sono utilizzate per costruire e codificare in modo implicito un nostro modello della realtà e del mondo» 10. Affidiamo al nostro reparto cartografico, d’intesa con l’augusto linceo, la verifica della reciproca utilità delle mappe cerebrali per la maggior gloria della neuroscienza e del nostro modesto artigianato. Massimo Luciani, costituzionalista, critica la teoria di Pierre Nora che drastica separa memoria e storia. Intanto perché «ogni storia, per quanto sia deontologicamente tenuta a ricercare l’obiettività e la “verità”, è essa pure condizionata dalla memoria. Non solo: se storia e memoria fossero davvero così nettamente separate non si spiegherebbe il fenomeno dell’uso pubblico della storia» 11. Dove scopriamo, seguendo lo storico Nicola Gallerano, che «la storiografia è un’impresa non solo cognitiva ma anche affettiva» 12. Geopolitica allo stato puro. Immersione di memoria storicizzata nel discorso pubblico, nei suoi miti e riti. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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9. Ibidem. 10. A. CATTANEO, «Ricordare il passato per immaginare il futuro: il cervello prospettico», Limes, 10/2021, «La riscoperta del futuro», pp. 65-73. 11. M. LUCIANI, «Itinerari costituzionali della memoria», Rivista Aic, Associazione italiana dei costituzionalisti, 4/2022, pp. 80-126. 12. N. GALLERANO, «Storia e uso pubblico della storia», in ID. (a cura di), L’uso pubblico della storia, Milano 1995, Angeli, pp. 7-15.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Questo ci permette di schivare la versione fissista, dunque antiumana, del fattore umano. Affermandone l’indifferenza allo spaziotempo, ne inverte il senso. Ogni nazione confitta nel proprio destino. Tesi che recupera forse inconsciamente l’intraducibile Völkerpsychologie – riduttivo il calco «psicologia dei popoli», pessimo l’inglese «folk psychology» – elaborazione ottocentesca di germanici cervelli tardo-hegeliani, rielaborata dai nazisti in chiave razzista. Controgeopolitica per definizione. Il fattore umano esprime dinamiche collettive – abbiamo visto quanto radicate nelle individuali – cui l’analista deve porre ogni attenzione per distinguere tra le specifiche tecniche di potere che muovono collettività diverse o ne tetanizzano altre. Tipo Italia. Di oggi, non di sempre. Né si dà soggetto geopolitico che possa prescindere dal fattore umano maturato nella sua comunità. Esiste invece, eccome, la pseudopolitica che ne saccheggia pro domo sua stilemi utili a infiorare la sua recitazione. Retorica dalle foglie secche. Da noi il fattore umano cozza contro l’individualismo o peggio il corporativismo di burocrazie, accademie, lobby di settore. Qui confessiamo una punta di scoramento. Alle descrizioni sociologiche di tanta tabe preferiamo le rivelazioni della letteratura alta. Per esempio le struggenti pagine di Anna Maria Ortese, poco riconosciuta grandissima del Novecento, dedicate al piacere di scrivere. Perché sì, siamo da due millenni abbondanti terra di letterati, talvolta votati a privilegiare lo scrivere sul leggere. L’italiano che scrive tratta la lettura da arte, da esprimere di preferenza risfogliando i libri propri. Così Ortese, che firma «Il piacere di scrivere» sull’Unità, edizione milanese, del 13 novembre 1957. Vale citarne per esteso l’esordio, anche per il piacere di rileggerlo. E per non scrivere troppo: «Non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’attenzione dell’altro, come la pioggia su un vetro. Ma scivola è un’espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’altro: e se quello è più colmo sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tintegCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VEDERE IN PROSA
giato di nobile comprensione: “Un buon libro… Hai letto l’ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai tempo di leggere…» 13. Infatti scrive. Scoraggia l’Ortese osservare come il piacere di scriversi addosso rifiuti «la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia» 14. Condivisione che feconda il nostro fattore umano, oseremmo noi. Allora «si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi, nel peggiore, agli altri» 15. Escludiamo che la seconda parte del testo sia ossequio all’organo comunista fondato da Antonio Gramsci, o al lancio dello Sputnik, poche settimane prima. Però citiamo: «Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a sé stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura, è il carteggio M. Gorki-A. Cechov. (…) Ciascuno di essi sa che la propria vittoria è nulla, in un certo senso, che la lotta è comune, che la meta dell’altro è la propria verità, ma non senza la verità dell’altro, degli altri» 16. Fattore russo e sovietico. La convocazione di neuroscienza e letteratura al fianco della geopolitica obbedisce al principio speranza cui attingiamo in questa ricerca intorno al futuro della patria. Ottimismo dell’intelligenza e della ragione. Non per contestare Gramsci. Perché ci rifiutiamo di credere che il declassamento della storia, con annessa geografia, dalla scuola primaria all’accademia alta, insomma dal pubblico discorso, sia sopportabile in eterno. Non abbiamo inventato la cultura della cancellazione, ci mancherebbe. La recepiamo per riflesso condizionato in quanto di controllata origine americana. L’oggettivazione dell’Italia comincia dal provincialismo culturale, succube di occidentalismi in salsa angloamericana, come nei suoi primi cent’anni delle sirene tedesche o francesi. La moda che liquida la storia, recepita lungo lo Stivale su impulso di una cultura transatlantica in crisi di identità, è troppo insulsa per non consentirci di confidare nel suo rigetto. Per scampare al crollo nell’inerzia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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13. A.M. ORTESE, «Il piacere di scrivere», in ID., Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, Milano 2011, Adelphi, pp. 74-82. Qui pp. 74 s. 14. Ivi, p. 76. 15. Ivi, pp. 76 s. 16. Ivi, pp. 77, 79.
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infinita necessita non rassegnarsi alla deculturazione importata dal nostro protettore strategico in affanno, al quale auguriamo di guarirne. Valga un episodio vissuto. New York, 25 marzo 2022. Limes è presente all’appuntamento di formazione al dialogo internazionale organizzato ogni anno dall’Associazione Diplomatici nell’aula dell’Assemblea Generale. Vi partecipano tremila giovani e giovanissimi provenienti da 116 paesi, al 45% italiani. Dal palco si domanda: «Chi di voi conosce il politicamente corretto?». Tutte le mani scattano in alto. «Chi di voi l’approva?». Le mani sono due. Onore al loro coraggio. Ma quanta speranza in quel moto spontaneo di ragazze e ragazzi d’ogni origine. Concentrazione di apoti: gente che non se la beve. E quanti compatrioti. Il «voto» nel non-luogo del «parlamento» onusiano, dove per dettato originario dei padri sovietici e americani delle Nazioni Unite si parla per parlare, è raggio di luce. Di più: forse qualcuno fra i nostri giovani intuiva che l’Italia è vittima speciale del perverso innesto fra political correctness e cancel culture, coppia micidiale impegnata ad asfaltare il passato schiacciandolo sul presente, mentre i suoi fervidi interpreti woke estendono l’arte della character assassination dalla calunnia individuale alla scomunica di comunità e nazioni intere. Altro che declino dell’Occidente: tentato suicidio in diretta social. Questa ondata d’Oltreoceano rischia di annegarci. E non solo perché nell’America scoperta dal genovese Cristoforo Colombo si abbattono i monumenti dedicati all’usurpatore dell’autoscoperta di chi già vi era insediato, e a molti altri «scorretti», capi confederati in testa (carta 2 e tabella). No, qui ci giochiamo tutto. L’Italia custodisce nel suo codice genetico la matrice latina che, recepita la superiore sorgente greca e altre ispirazioni non solo orientali, produrrà la cultura classica, cui l’elevazione dell’umanità deve qualcosa. E l’Italia la sua anima. «Assassinata» la quale nessuno ne guadagnerebbe, tantomeno i suoi killer. Il Belpaese non deve morire inghiottito dal vortice dell’antistoria. Ma può. Scatta obbligo di reagire. La liberazione dalle strettezze del pensiero chiuso, intollerante, censorio e autocensorio, proviamo a cominciarla subito. Per non finire oggetto. E per gettare i semi che matureranno il recupero critico della storia nostra, condizione del ritorno dell’Italia al servizio geopolitico attivo. Se non ora, quando? Cominciamo mappando il campo di battaglia. Viaggio di Colombo all’incontrario. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. Università di Princeton, aprile 2021. Simbolo dell’Ivy League, fino allora aristocrazia incontestata dell’accademia su scala semiglobale. Il di-
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CALIFORNIA 5
NEVADA 1
ARIZONA 5
UTAH
SOUTH 1 DAKOTA
NORTH DAKOTA
1 IOWA
Fonte: Southern Law Center, Business Insider
M
WISCONSIN
MINNESOTA IC
H A N IG
3 NEW YORK 2
NEBRASKA
NEW HAMPSHIRE VERMONT MASSACHUSETTS RHODE ISLAND CONNECTICUT NEW JERSEY DELAWARE MARYLAND WASHINGTON D.C.
3 Numero di monumenti Alaska e Hawaii senza nessun monumento confederato
Oltre 50
da 25 a 50
Da 1 a 25
Nessuno
Numero di monumenti confederati negli Stati Uniti (aggiornato a luglio 2020)
MAINE
3 PENNSYLVANIA OHIO 3 S T A T I U N I T I ILLINOIS INDIANA 5 1 WEST 2 1 2 10 COLORADO 20 KANSAS 38 VIRGINIA 247 VIRGINIA MISSOURI KENTUCKY 168 105 NORTH CAROLINA AR TENNESSEE KA OKLAHOMA NS 194 NEW MEXICO 14 AS AL G 64 E 147 4 AB SOUTH CAROLINA OR AM MI GI A SS A 84 ISS 124 210 LO 202 IPP UI O CEA N O TEXAS SIA I NA 67 ATLAN T ICO FL OR ID A G o l f o M E S S I C O d e l M e s s i c o
WYOMING
MONTANA 2
C A N A D A
2 - MONUMENTI CONFEDERATI NEGLI USA
P A C I F I C O
O C E A N O
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2 IDAHO
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
OREGON
2 WASHINGTON
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
GUERRA AI MONUMENTI SUDISTI NEGLI STATI UNITI RESTANO PIÙ DI DUEMILA MONUMENTI SUDISTI AL NETTO DI QUELLI RIMOSSI ANNO 1865-2009 2010-2014 2015 (dopo il massacro di Charleston) 2016 2017 (anno dei disordini di Charlottesville) 2018 2019 2020 (dopo l’uccisione di George Floyd) 2021 2022
QUANTITÀ DI MONUMENTI RIMOSSI 2 3 4 4 36 8 4 94 16 48
Fonte: The Southern Poverty Law Center
partimento di Studi classici comunica: «Si elimina dai nostri corsi di laurea superiore il requisito di studiare greco o latino». Motivo: «La storia del nostro dipartimento testimonia il ruolo dei Classics nel lungo arco del razzismo sistemico». Sviluppo: «Il nostro dipartimento è ospitato in un edificio dedicato a Moses Taylor Pyne, benefattore dell’Università la cui ricchezza familiare era direttamente legata alla sofferenza di schiavi impiegati nelle piantagioni cubane di zucchero. Quella stessa ricchezza consentì l’acquisto di iscrizioni romane possedute dal dipartimento, oggi installate al terzo piano della Firestone Library. A pochi metri dai nostri uffici, affacciati su Firestone, si trova una statua di John Witherspoon, schiavista e sesto presidente dell’Università, antiabolizionista inconcusso, che poggia su una pila di libri, uno dei quali esibisce il nome “Cicero”» (si apprezzino le virgolette, n.d.r.). Cassazione: «Noi condanniamo e respingiamo totalmente il razzismo che ha reso il nostro dipartimento e il nostro campo di studi inospitale per gli studiosi di colore, neri e non-neri» 17. Il riferimento è alla polemica scatenata sul New York Times Magazine dal battagliero Dan-el Padilla Peralta, docente di colore d’origine dominicana, professore associato di Classics a Princeton, convinto che la tradizione classica sia inestricabilmente connessa alla supremazia bianca, di cui il Cicerone tra virgolette resta leader mondiale. Questa disciplina, distillata dall’Arian model che attribuisce lo sviluppo della civiltà greca all’invasione dell’Ellade da parte di popolazioni di pelle bianca calate dall’Europa settentrionale, non merita futuro. Parole d’ordine: «Risolvere immediataCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
17. C. SPIKE, «Curriculum Changed to Add Flexibility, Race and Identity Track», Princeton Alumni Weekly, edizione del maggio 2021.
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mente ed esponenzialmente la disparità demografica nel corpo docente di Princeton assumendo più docenti di colore. Riconoscere il lavoro invisibile che i docenti di colore sono obbligati a fare. Promuovere i docenti di colore a posizioni di primo piano». L’ultima frase chiarisce l’uso sindacal-corporativo della scienza di Peralta, peraltro desumibile dall’autobiografia, fieramente intitolata alla sua odissea da senzatetto dominicano all’Ivy League 18. Peralta sostiene che l’assunzione a Princeton gli spettava proprio in quanto nero. Niente di troppo nuovo. La corrente decolonizzazione del classico era anticipata nel 1987 dal primo volume del trittico dedicato da Martin Bernal a Black Athena 19. Tesi che al modello ariano, concepito dal colonialismo europeo e dalle sue correnti antiebraiche, opponeva l’esaltazione delle origini afroasiatiche della civiltà di Platone e Aristotele, rinvenute nell’influsso che vi ebbero colonizzatori egizi e fenici (ceppi di colore, nell’accezione vigente). Dotta disputa. Dialettica di congetture e confutazioni, di cui fino a poco fa si sarebbe potuto godere l’eventuale lato scientifico. Oggi finita nel tritacarte antigreco e antiromano impugnato dagli araldi della storia senza passato. Opposto del presente come storia, che Luciano Canfora propone metodo per capire come il passato ci chiarisca le idee 20. Il decreto di Princeton conferma scaduto l’approccio classico all’antichità e squaderna un Kulturkampf al cubo fra trumpiani assertori della superiorità bianca che s’impancano difensori di una monolitica civiltà occidentale compressa nello slogan «We are the West» e minoranze che antepongono l’esser tali ai criteri di merito nell’accesso allo studio e al lavoro. Sicché basano l’antirazzismo sul principio razziale e/o di genere. Boomerang che si ritorce contro di loro. Danneggia la qualità di studi fondati sull’intreccio tra filologia e storia. Riduce l’accesso che si propongono di aprire. Perché mentre contestano i criteri con cui i maschi bianchi viventi hanno consolidato nel tempo il loro modello di Classics, sviliscono senso e 18. D. PADILLA PERALTA, Undocumented: A Dominican Boy’s Odissey from a Homeless Shelter to the Ivy League, New York (NY) 2016, Penguin Random House. 19. Nell’ordine, tutti dovuti alla penna di M. BERNAL, si tratta di Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick (NJ) 1987, Vintage; Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, 2: The Archaelogical and Documentary Evidence, New Brunswick (NJ) 1991, Vintage; «Afterword», in B. e D. ORRELLS, G.K. BAMBRA, T. ROYON (a cura di), African Athena: New agendas, Oxford 2011, Oxford University Press, pp. 398417. Per una ritmica versione musicale, si ascolti Black Athena degli Almamegretta, che statuita la negritudine dei nostri nonni cantano: «A casa mia ca è accuminciata ’a storia, rinfriscate ’a memoria (…) Look back look back, Athena was black if you look back». 20. L. CANFORA, Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Milano 2014, Rizzoli. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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valore dei loro stessi studi sbianchettando a piacere il Gotha dei maschi bianchi morti. Tutti contemporanei, ovvio. Con spericolato paradosso, il documento di Princeton avverte: «Poiché chi entra qui potrebbe non aver studiato Classics al liceo né essere stato esposto in precedenza al greco e al latino, riteniamo che avere questi studenti in dipartimento ne farà una comunità più vibrante» 21. Il suprematista bianco “Aristotele” si agita nella tomba contro le apocrife virgolette, implicite o esplicite, estese a tutti i classici da decolonizzare. Pare intenda denunciare Princeton per il reato di cancellazione del principio di non contraddizione. Ma l’abolizione fisica dello spaziotempo, conseguenza logica della cancel culture, parrebbe inattuale. La brillante ricostruzione di Francesca Lamberti, romanista – intesa studiosa del diritto romano – le cui analisi ci orientano in questa ricerca, studia anche i riflessi dell’ultra-woke su Italia e resto d’Europa 22. Bilancio provvisorio, prodromo di tempeste a venire. Il contesto europeo sembra contenere a fatica l’arrembaggio anticlassico stile americano, pur a costo di gravi perdite. Per esempio il boicottaggio delle Supplici di Eschilo nell’anfiteatro Richelieu della Sorbona (marzo 2019) perché militanti del politicamente corretto non gradivano il colore nero dunque razzista delle maschere indossate dalle Danaidi, uso corrente per gli attori del teatro greco. Antico. In Italia s’accumulano venti di tempesta. I numeri disegnano il calante fascino del liceo classico e dei curriculum umanistici in accademia. Specialmente al Sud. È aritmetico che restringendo l’offerta didattica si riduca l’entusiasmo dei discenti, destinato nel tempo a contribuire all’ulteriore deculturazione. E gli studenti alla disoccupazione. Sono passati alcuni decenni da quando lo spettro di Ettore Paratore terrorizzava i discenti di Lettere all’Università di Roma. Non c’era bisogno di invitare le matricole ad approfondire nell’ordine lettura e scrittura della lingua di Cicerone (inconcepibili le virgolette), stabilito che avessero cominciato a leggerla e scriverla sul serio nelle scuole dedicate. Nella virtuale Ivy League mondiale della formazione classica, linguistica, filosofica o archeologica, l’Italia svettava, l’italiano era lingua franca. Aiutava (aiuta?) il fatto di giocare in casa. L’alta qualità media degli studi classici negli omonimi licei era dovuta a insegnanti che in molti altri paesi sarebbero stati ammessi al rango universitario, ma che qui respiravano l’aria di quella storia come realtà viCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
21. Cfr. nota 17. 22. F. LAMBERTI, «All’arrembaggio del “classico”. Riflessioni su “Politically Correct” e “Cancel Culture”», Codex, 4/2023, pp. 205-224.
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vente. Oggi qualsiasi testo greco o latino è a portata di traduttore automatico. La tecnologia arriva dove nemmeno il woke. Analoga funzione svolge il timore di scomodare i giovani che risolvono il diritto allo studio nella pretesa di non essere stressati con argomenti difficili. Per di più inutili. L’assalto agli studi umanistici ha valore strategico per l’Italia. Ne minaccia il marchio storico. Attaccato frontalmente dal tristo utilitarismo per cui con la cultura classica non si mangia, più subdolamente da chi spesso in buona fede (pessima notizia) è convinto che sbarazzando il campo da greci e romani in nome della promozione di gruppi etnici oppressi prepariamo la rivincita del «Sud Globale» sull’Occidente. In senso culturale, non geopolitico. Civiltà di cui i nostri antichi sono riconosciuta origine, almeno finché Roma resta in Italia. 4. Nel festival delle narrazioni contrapposte che rende interminabili le guerre, la nostra patria visceralmente paciosa rischia di sbandare. E intanto sbandarsi. Se l’autonomia differenziata per le Regioni diventasse legge – forma che nel regime nostrano non significa norma chiara e cogente – se ne scatenerebbe il mercato delle interpretazioni pelose, ciascuno per la sua piccola causa. Café para todos, nella metafora autonomistica diffusa in Spagna. Ogni Regione potrebbe produrre il suo caffè corretto: la storia come storie, filastrocche da recitare magari nella lingua/dialetto locale. Litanie da campanile. Vorremmo esplorare il percorso opposto. È tempo di riconnettere negli studi e nel senso comune i fili della storia patria alle sue origini, impossibile senza riconoscerne le tracce profonde nell’universalismo greco-romano. Nella sua ineguagliata produzione culturale. Dovremmo vergognarcene? Ripartiamo da Cavour: «In un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità, il sentimento della dignità personale esisterà solo come eccezione in pochi individui privilegiati» 23. E dal suo biografo massimo, Rosario Romeo, che quasi un secolo e mezzo dopo statuiva: «Un paese idealmente separato dal proprio passato è un paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione e senza quel sentimento di fiducia in sé stesso che nasce dalla coscienza di uno svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia del futuro» 24. Ora, non siamo popolo di apolidi. Né figli di ignoti. Ma siamo indotti a credere di poggiare su radici corte. Avventizie. Dalle quali può derivare rapsodico adattamento alla necessità dell’agire comune in emergenze esiCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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23. C. BENSO CONTE DI CAVOUR, «Des chemins de fer en Italie», Revue Nouvelle, 1/5/1846. 24. R. ROMEO, «I figli di ignoti», il Giornale, 22/3/1975. Si legga al riguardo il saggio di D. COFRANCESCO, «La lezione di Tocqueville», huffingtonpost.it
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stenziali – ultimo venne il Covid. Come l’edera incapace di reggersi da sola, il nostro sentimento nazionale ha andatura da rampicante in cerca di appigli. I famosi vincoli esterni. Nulla di straordinario. Come tutti, siamo ragni impigliati nella tela planetaria che connette e sconnette potenze e impotenze. Rete a corrente alternata. In breve, siamo e resteremo nella storia universale, ma molto peggio di quanto potremmo se non ci fossimo amputati base e consapevolezza della nostra identità. Per starci bene, occorre ricomporre i tasselli del nostro mosaico identitario. Solo la storia ci aiuterà a riattivare la memoria che stringe i cittadini in nazione, senza pretendere di smacchiarne le tracce nere. Anzi, urge affrontarla in piena libertà. Per scoprire che più di qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure. L’Italia, appunto. Nella battaglia della cultura storica l’obiettivo è ricontestualizzare. Alfa e omega della geopolitica. Ma anche imperativo morale, seguendo il monito di Cavour. Perché la condivisione della storia patria ne impedisce il sequestro da parte dei ceti prevalenti, che si beano nella presunta autosufficienza senza considerare che sarà precaria finché non coinvolgerà un sentimento diffuso inconcepibile se prodotto da un’élite minima, strumento di una sola classe. In confusione. Il conte fondatore e il suo moderno studioso erano entrambi liberali, convinti che libertà e nazione siano condizione l’una dell’altra. Quel liberalismo ha fatto una brutta fine, anche per la deriva declaratoria, ormai insita in qualsiasi idea politica che voglia stare sul mercato. La dannazione della retorica nostrana allarga la distanza fra i nomi e le cose. Per ridurla serve l’esercizio della storia. Come disciplina, anzitutto. Poi quale collante identitario, dunque sociale, in grado di resistere all’usura del tempo. Questo compito invita ad affrontare il tema che ci ha reso tristemente celebri nel mondo e che soggetti esterni rispolverano per stabilirsi a noi moralmente superiori: il fascismo. Che posto può avere il Ventennio nella vicenda nazionale, anno centosessantreesimo dell’èra unitaria? Qui si salta questo colosso di Rodi oppure si rinuncia a ogni progetto pedagogico. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5. Il 27 ottobre 1923, vigilia del primo anniversario della marcia su Roma, esce sul Giornale d’Italia un’intervista a Benedetto Croce. Titolo: «Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo» 25. Dopo Cavour 25. B. CROCE, «Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo», intervista concessa a F. DELL’ERBA, Il Giornale d’Italia, 27/10/1923, poi in ID., Pagine sparse, vol. 2, pp. 475-78, Bari 1960, Laterza. Vedi al riguardo le osservazioni di S. CINGARI, «Croce e il fascismo», treccani.it
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e Romeo, citare questo grande liberale di terzo tipo suggerisce una diagnosi generale e una specifica: mai prendere troppo sul serio le ideologie, la storia le eccede sempre; tanto meno le «rivoluzioni», come quella fascista, in cui il passato da abolire dispettoso rispunta anche se lo prendi a manganellate. Dobbiamo a Sabino Cassese la sintesi delle persistenze nel nostro Stato: «Come c’è continuità tra lo Stato liberale-autoritario del prefascismo, c’è continuità tra lo Stato del periodo fascista e lo Stato democratico post-fascista» 26. Per lui «il fascismo dura fino al 1962» 27. In certi settori dello Stato profondo molto di più. Ma allora perché dalla microstoria che quantifica le permanenze nella traiettoria dello Stato unitario non scaturisce un’interpretazione d’insieme della parabola italiana? Forse ne è causa l’antico deficit di base nazionale condivisa dalle forze politiche, escluse le attuali perché politiche non sono e nemmeno forze. Gli immangiabili avanzi dei partiti, ciascuno con la sua infima Bibbia, si contrappongono nel vuoto di cittadinanza, mentre lo Stato si appesantisce. Faceva eccezione la Prima Repubblica, deprecata partitocrazia che surrogava carismi e funzioni istituzionali grazie allo status di semiprotettorato americano. Preambolo geopolitico non scritto della costituzione materiale, prius logico e fattuale della Carta vigente. Quanto al Partito nazionale fascista è stato subordinato al fascismo regime, lo Stato di Mussolini. Dalle sue fibre sclerotizzate come dalle associazioni collaterali e del welfare littorio, si dirameranno infatti, dopo il 25 luglio, molti tra i futuri esponenti della classe politica post-fascista. Mentre le tecnocrazie dello Stato profondo migravano da un regime all’altro restando al loro posto, il collo più mobile della mente. Nulla di eccezionale se comparato al resto d’Europa. Nella Germania spartita Adenauer riciclava nazisti a manovella perché non aveva altro materiale umano cui affidare il suo paese dimidiato e rieducato a stelle e strisce, mentre all’Est Mosca imponeva schemi e vertici alla sua repubblichetta, vincolo «esterno» agli steroidi: dittatura è dettatura. Nella Francia gollista calava il sipario su Vichy, complice il tabù imposto dalla monarchia repubblicana al sistema educativo, sofferto persino da una storiografia altrimenti così ricca. In Inghilterra le fondate chiacchiere sulle simpatie naziste della molto germanica famiglia reale, forse estinte con Filippo, raramente valicavano le caffetterie di Oxbridge e i pettegoli club della City. Nell’Italia antifascista a struttura post-fascista, finalmente sorgeva negli anni Sessanta-Settanta il primo laboratorio accademico dedicato a studiaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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26. S. CASSESE, Lo Stato fascista, Bologna 2010, il Mulino. 27. ID., «Il vincolo esterno come rimedio al deficit di Stato», intervista a Limes, 5/2018, «Quanto vale l’Italia», pp. 117-120.
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re il fascismo con metodo storico. Cenacolo universitario romano guidato dall’ex comunista Renzo De Felice, che studiando il fascismo con la distanza necessaria, ne produsse un’interpretazione troppo originale. Bollata provocatoria, anzi apologetica, dal perbenismo non solo di sinistra. Libertà di tanatologo, posto che il «fascismo storico – come si è attuato dal 1919 al 1945 – è morto, ed è irresuscitabile. (…) E proprio per questo è possibile studiarlo storicamente, con un metodo e una mentalità da storici» 28. I suoi contestatori, non solo comunisti, a ogni seriale uscita dei volumi dedicati alla biografia di Mussolini gli rinnovavano l’accusa di simpatizzare per il Duce, di travestire da storia un monumento al dittatore. Oggi finirebbe a urlacci e schiaffoni nei talk show. Se dovessimo scegliere un prototipo di dibattito pubblico sul fascismo da cui rilanciare una pacata pedagogia nazionale, suggeriremmo di inserire nei curriculum scolastici e universitari il dialogo televisivo fra De Felice e il suo molto critico collega britannico Denis Mack Smith proposto dalla Rai nel 1976 29. Dove ciascuno contesta le tesi dell’altro, ma solo dopo averlo ascoltato. E magari recepito questo o quell’aspetto della sua versione. Sicché lo spettatore si forma un giudizio avendo capito le tesi dei duellanti. Nel confronto fra i due storici si esprime l’arte dello storicizzare, fedele alla definizione del dizionario Sabatini-Coletti: «Considerare qualcosa frutto di un processo storico». Processo significa revisione permanente. Eppure perseveriamo nel rialzare e rifucilare all’infinito i morti «cattivi» per santificare i «buoni» nell’eterno presente. Per qualche like in più. In verità, il primo grande storicizzatore del fascismo era stato Palmiro ToPalmiro Togliatti gliatti (foto) nel «corso sugli avversari» (1893 - 1964) (fascisti, socialdemocratici, massimalisti e repubblicani, anarchici) professato a Mosca nel 1935 davanti a una platea di militanti e dirigenti non solo italiani 30. Storia in diretta. Con linCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
28. R. DE FELICE, Intervista sul fascismo, a cura di M.A. LEDEEN, Roma-Bari 1985, Laterza, p. 6. 29. R. DE FELICE, D. MACK SMITH, «La polemica sul fascismo», produzione Rai del 1976, YouTube. 30. P. TOGLIATTI, Lezioni sul fascismo, Roma 2019, Editori Riuniti.
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guaggio piano scandito per farsi capire dall’ultimo operaio o contadino. Seguendo il metodo dell’analisi differenziata, che scarta le false analogie e avverte contro le trasposizioni meccaniche dell’etichetta fascista ad altri regimi – ciò che non impedirà ai comunisti di attingere alla categoria di nazifascismo, quasi-ossimoro da propaganda, euristicamente sterile. Il miglior modo per non capir nulla dell’uno e dell’altro. De Felice riconoscerà il debito verso Togliatti, che studiando il rapporto Mussolini-masse e l’irradiamento del regime nella società anticipava la defeliciana tesi del consenso, indigeribile per gran parte dell’accademia e impronunciabile nel gergo tardo-resistenziale che sminuendo il nemico sviliva l’eroismo dei partigiani. Fino a compiacersi di osservare come nessuno dei suoi critici, tantomeno comunisti, avesse mai citato il Migliore. Da Togliatti ricaviamo una traccia utile a intendere quanto difficile sia stato per Mussolini convincere gli italiani della bontà del suo nazionalismo guerrafondaio. E come per noi sia arduo maturare una pedagogia nazionale. Siamo paese di cultura universalista, figlia di universalismi diversi, ciascuno dotato di formidabile profondità ed elaborazione storica. Parlando a Mosca il 26 novembre 1943, il capo in esilio dei comunisti italiani spiegava: «Il fascismo, nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì a penetrare nel fondo dell’anima popolare ed a corromperla. Si urtò con tradizioni profonde, legate a tutto lo sviluppo della civiltà italiana. Tutte le volte che i popoli abitanti l’Italia riuscirono a dispiegare le loro volontà, le idee che essi affermarono furono di portata universale, e non ristrettamente, egoisticamente nazionali». Dalla civiltà di Roma, «capace di assimilare, fondere e trasmettere tutti gli elementi della cultura del mondo antico» (a Princeton Togliatti finirebbe in castigo, n.d.r.) alla civiltà cattolica, dai geni del Rinascimento ai «profeti dell’Unità d’Italia, Mazzini e Garibaldi», che «non seppero concepire la rinascita nazionale del paese se non come uno dei momenti della lotta per l’indipendenza di tutte le nazioni». Per culminare nell’internazionalismo del movimento socialista 31. Togliatti apre una prospettiva da considerare: fare dello spirito universalista il profilo della nazione. Al quale adattare l’interesse nazionale, per declinarlo nella geopolitica che di analisi differenziata vive. Come mostrano gli esempi citati scarrellando per duemila anni da Augusto a Turati, non abbiamo alternative al respirare a polmoni alternati. Meccanicamente assurdo quanto dialetticamente potente. A meno di non buttare nel cestino Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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31. ID., «L’Italia e la guerra contro la Germania hitleriana», Opere, vol. 4**, Roma 1979, Editori Riuniti, p. 378.
1 - LE REGIONI DELL’ITALIA AUGUSTEA R A E T I A
ALPES GRA I
AE ENIN T PO E AE
VENETIA et HISTRIA Comum
PA NNONI A
TRANSPADANA
ALPES COTTIAE
N O R I C U M (Sta to va s sa llo )
IAPOD
Patavium
REGIO IX
Mutina na AEMILIA REGIO VIII R Ravenna aventia Ariminum Faventia A Luna Fanum Fortunae Luca REGIO Pisisae isa Pisae PICENUM UMBRIA ETRURIA
LIGURIA ALPES MARITIMAE
Mare Ligusticum Lurinum
Aleria
Turris Libisonisis Nura
SAMNIUM Sipontum m APULIA et CALABRIA Luceria Beneventum
LATIUM et CAMPANIA
Olbia
Neapolis Salernum
ARI
RB
M a r e T y r r h e n u m
BA
Othoca
Brundisium Brund Potentia
Paestum m
A
B
ES AL AR
M a r e A d r i a t i c u m
Vulci Capena Tarquinia Pyrgi
CORSICA PROVINCIA SARDINIA et CORSICA
ES
Tarentum Hydruntum
LUCANIA et BRUTTII
Leuca
REGIO RE III Caralis Nora
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Messana Rhegium
Cephaloedium
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Via Corn elia Via A u relia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Agrigentum Agrigent nttum ntum SSyracusae PROVINCIA SICILIA
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Acquedotti più importanti Aqua Alsietina Aqua Traiana Aqua Virgo Aqua Alexandrina Aqua Marcia Aqua Claudia Aqua Iulia Tepula
Algeri
Stretto di Gibilterra 7,5 Bocche di Bonifacio 6,5 Stretto di Sicilia 53 Stretto di Messina 2 Canale di Malta 44 Canale d’Otranto 41 ampiezza espressa in miglia
Tunisi
Cagliari
La Spezia Livorno Ancona
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Canale di Corinto 6.300x21x8 (metri) Stretto di Citera 19 Tripoli Stretto di Caso 27 Stretto dei Dardanelli 2 Stretto del Bosforo 0,5 Canale di Suez 161.000x190x19,5 (metri)
Choke points (passaggi obbligati)
Gibilterra
Barcellona
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2 - I CHOKE POINTS MEDITERRANEI Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Napoli
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Principali linee di traffico Altre linee di traffico Porti principali
3 - LA GUERRA GRANDE VISTA DALL’ITALIA ITALIA
Stretti strategici Dardanelli-Bosforo Canale di Suez Stretto di Bāb al-Mandab Stretto di Hormuz Forti pressioni iraniane sugli stretti
Mondo arabo in crisi Area d’influenza iraniana Territori ucraini occupati militarmente dalla Fed. Russa Frizioni tra Stati Maggiori Minori
Pirateria hūtī-
Lambda Area di possibile collaborazione italo-turca ALGERIA
Alleanze regionali per dominare i corridoi commerciali emergenti Area d’influenza turca
UCRAINA
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Riyad BAHREIN Bandar Abbas QATAR A RA BIA SAUD I TA E.A.U.
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YEMEN
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Mumbai
SOMALILAND SOMALIA
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Territori e gruppi sotto influenza turca: Libia (Tripolitania) Gruppi estremisti islamici nel Nord della Siria Regione semiautonoma del Kurdistan iracheno
INDIA
Territori e gruppi sotto influenza saudita: Musulmani sunniti Territori e gruppi sotto influenza - iraniana: Hamās (Gaza) . Hūtī . 7 Area controllata da al-Qā‘ida e alleati
Oceano Indiano Aree di speciale interesse italiano Asse della Resistenza (Gaza-Beirut-Damasco-Baghdad-Teheran-Herāt) Corridoio medioceanico da tenere libero Guerra in Ucraina con indiretta partecipazione italiana Guerra Israele-Hamās a Gaza .
4 - LE MISSIONI DELLA MARINA MILITARE ITALIANA
OP. STRADE SICURE - Italia - 60 VIGILANZA PESCA Stretto di Sicilia - 1 PV - 66 OP. MEDITERRANEO SICURO - 750 FONDALI SICURI - Mediterraneo 1 MHC - 40 MIBIL - Libano 7 + sq. di addestramento mobili MIASIT - Libia - 1 GABINIA - G. di Guinea - 1 PPA - 160 IXL SPEDIZIONE IN ANTARTIDE - 3 CAMPAGNE ISTRUZIONE Mediterraneo - 4 navi - 430 CAMPAGNE IDROGRAFICHE Mediterraneo - 3 AGS - 185 PRIMA PARTHICA Iraq e Kuwait - 3
21
EMASOH AGENOR FHQ Hormuz/G. Persico - 1 CMF (BAHREIN) - Manama - 5 UNIFIL - Libano - 1
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
19
15 16 17 18
15
16
27
SNMG1 - Mar Baltico - 1 FREMM - 170 SNMG2 - Mediterraneo - 1 FREMM - 170 SNMCMG2- Mediterraneo - 1MHC - 37 KFOR - Priština - 13
20
17
18
MOZAMBICO 23
25
KUWAIT
26
24 22
25 nave idrografica pattugliatore costiero DDG: cacciatorpediniere FFGH: fregata FREMM: fregate europee multimissione MHC: cacciamine PPA: pattugliatori polivalenti di altura pattugliatore PV: AGS: CPV:
26 INHERENT RESOLVE - Baghdad - 11 27 MFO - Sinai - 3 CPV + Staff
19 EUNAVFOR IRINI OHQ - Roma - 60 20 EUNAVFOR IRINI BORDO - Mediterraneo - 1 FFGH - 120 21 EUNAVFOR ATALANTA OHQ - Rota (SPA) - 4 22 EUNAVFOR ATALANTA BORDO - Oceano Indiano - 1 FFGH - 170 23 EUTM - Mozambico - 7 24 EUTM - Somalia - 1 25 EUNAVFOR ASPIDES - Mar Rosso/G. Persico - 1DDG/FREMM - 200
5 - LE NUOVE ROTTE ARTICHE Jan Mayen (NORVEGIA) Svalbard (NORVEGIA) Terra di Francesco Giuseppe (FED. RUSSA)
O C E A N O
P A C I F I C O
Passaggio a nord-est Passaggio a nord-ovest Altre rotte di collegamento Rotta artica
Vancouver
CIRCOL OP OL AR Pevek E
Anchorage Alaska (STATI UNITI)
AR TI CO
Stretto di Laptev C A N A D A
Tiksi MAR GLACIALE ARTICO
Polo Nord magnetico
Stretto di Vil’kickij
Churchill
Polo Nord
Dikson
Groenlandia (DANIMARCA)
Kirkenes Finnafjörður
FED. RUSSA
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5+ 4 3 2 1
NORVE GIA
ISLANDA Reykjavík
Calotta artica (età del ghiaccio in anni)
Murmansk
O C E A N O DANIMARCA
A T L A N T I C O Colli di bottiglia strategici
REGNO IRLANDA UNITO
Porti del passaggio a nord-est
E U R O P A
Porti del passaggio a nord-ovest
Porti in progetto ghiaccio stagionale che si riforma ogni inverno ©Limes Fonte: The Arctic Institute, National Snow and Ice Data Center, The New York Times
SPAGNA
Algeri
FRANCIA
M a r
SVIZZERA
REP. CECA SLOVACCHIA
POLONIA U C R A I N A
BIELORUSSIA
UNGH.
Napoli GRECIA Sigonella Niscemi MONTEN. M ALBANIA e d i t MAC. DEL N. e r r a n Souda Bay e o
AUSTRIA
Creta
M A L I
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S U D A N
SUEZ
IRAQ
IRAN
AZERB.
Stato Islamico
Miliziani vicini alla Turchia
Esercito turco e miliziani vicini alla Turchia
Forze democratiche siriane (guidate dal Pkk)
Forze lealiste (Forze governative; milizie siriane filogovernative; milizie sciite libanesi, irachene e afghane; pasdaran; militari e contractor russi)
Controllo del territorio in Siria
ISR.
ARABIA S.
SIRIA al-Tanf GIORD.
CIPRO LIBANO
ARM.
GEORGIA
Paesi in equilibrio incerto
Territori filorussi
Paesi Nato Zee autoproclamate Algerina Libica Turca
TURCHIA
N e r o
FED. RUSSA
E G I T T O
DARDANELLI
TRANSN. ROMANIA SLOV. CROAZIA Deveselu BOSNIA SERBIA M a r ERZ. BULGARIA ITALIA KOS. Alexandroupolis
PAESI B. BELGIO GERMANIA LUSS.
TUNISIA Guerre in corso A L G E R I A Tobruk Gruppi estremisti saheliani Tripoli Bengasi Principali basi americane Controllo del territorio in Libia TRIPOLITANIA Esercito nazionale libico CIRENAICA Principali basi russe supportato dai russi Presenza russa Governo di unità Presenza turca nazionale L I B I A supportato dai turchi Colli di bottiglia Milizie tubu e alleati FEZZAN fondamentali per Oasi di Kufra Milizie tuareg e alleati l’Italia
Rota GIBILTERRA
PORTOGALLO
Rotta medioceanica
Aree dove prevenire lo scoppio di altre crisi AREA BALCANICA NORD AFRICA MEDIO ORIENTE Porto strategico per le basi Usa
6 - DOVE COLLABORARE CON GLI AMERICANI Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Rotte di connessione con l’Europa del Nord Import ed export di idrocarburi e biocarburanti
7 - L’ESPANSIONE DELLE MAFIE A U S T R I A
S V I Z Z E R A
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La Spezia Livorno TOSCANA
Rotte internazionali della droga Maggiore centro italiano di raccolta, compostaggio e smaltimento di rifiuti urbani dal Centro-Sud
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VALLE D’AOSTA
Smistamento di cocaina, crack e stupefacenti
Località con forte presenza mafiosa
UMBRIA
Messico
130 LAZIO
Numero di Comuni sciolti per infiltrazione mafiosa dal 1991 al 2024
ABRUZZO
CA
4 MOLISE Foggia ROMA Barletta Hub di smistamento Anzio Nettuno Orta Nova Trani stupefacenti e mercato Andria Bari Caserta 115 di forte consumo. Opportunità di relazioni PUGLIA Napoli Caivano SARDEGNA BASILICATA Taranto26 Salerno ANZIO e NETTUNO CAMPANIA 2 Gruppi mafiosi Traffico internazionale locali che dominano di stupefacenti il territorio “Case madri” delle mafie italiane della ‘ndrangheta LA e appalti truccati B Messico Brasile R Calabria (’ndrangheta) IA (enti pubblici locali Colombia Rende altamente contaminati) Campania (camorra) 130 Capistrano Sicilia (Cosa Nostra) Acquaro Gioia Tauro Puglia (mafie foggiane, camorra barese, Sacra corona unita) Scilla Principali porti di riferimento Mojo Alcantara per i traffici internazionali della droga Castiglione di S. 93 Randazzo SICILIA Livello d’innesto Palagonia delle mafie Guinea B. nelle Regioni Ghana Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Altissimo Costa d’Avorio Molto alto Alto Snodi logistici della ‘ndrangheta Medio in Africa Minimo occidentale (presenza non stabile) Fonte: relazionesecondo semestre 2022 Dia - Direzione investigativa antimafia, WikiMafia, Ansa
46
“Locali”: cellule dell’organizzazione che comprendono più ‘ndrine
“Locali” della ‘ndrangheta venuti alla luce nelle indagini fino al 2022 Consigli comunali sciolti nel 2023-24 per infiltrazione mafiosa
MAROCCO
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ROMA Napoli Sardegna
ITALIA Sarajevo
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Trieste
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TUNISIA
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Fonte: dati Istat, ministero della Difesa e Cruscotto statistico del ministero dell’Interno
Prime dieci nazionalità dei migranti arrivati MALI in Italia dal 1° gennaio al 16 febbraio 2024 172 Bangladesh 942 Etiopia DAKAR 712 134 Siria Sudan BANJUL BAMAKO 109 670 Tunisia Guinea B. FASO GAMBIA 467 64 Egitto Gambia GUINEA 225 336 Pakistan Altre* NIGERIA Totale** 4.045 Eritrea 214 SIERRA COSTA LEONE D’AVORIO * Compresi migranti in corso d’identificazione LIBERIA CAMERUN ** Sbarchi rilevati entro le ore 8 del 16/2/24
MAURITANIA
Sahara Occ.
SPAGNA I. Canarie (Unione Europea)
Primi 10 paesi per sbarchi in Italia
Unione Europea e Italia
I. TOGO BENIN
Principali luoghi Balcanica degli sbarchi Mediterraneo orientale Mediterraneo centrale Mediterraneo occidentale
GHANA
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Principali rotte della migrazione
GR
8 - I NUOVI MIGRANTI Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
ECIA
SUD SUDAN
SUDAN
EGITTO
Creta
TURCHIA
ETIOPIA
6.251 km distanza stradale Kabul-Trieste
Sri Lanka 26,0 Ucraina 13,4 8 Cina 6 Pakistan Romania 4,2 Bangladesh 3,7 Filippine 3,1 ERITREA Nigeria 2,8 32,8 Altri
BANGLADESH
PAKISTAN
2022
4.263
2023
9.141
2024
4.045
Numero di migranti sbarcati in Italia dal 1° gennaio 2024 al 16 febbraio 2024, comparati con i dati riferiti allo stesso periodo del 2022 e del 2023
(Totale stranieri residenti a Napoli 56.153 rappresentano il 6,1% dei residenti) in percentuale
Principali nazionalità straniere presenti a Napoli (dall’1/1/23)
AFGHANISTAN
KABUL
dal 1° gennaio al 31 luglio 2023 (picco a luglio del 28,9%)
7.890 Totale arrivi dalla rotta balcanica su Trieste
Slovenia Nazionalità dei migranti arrivati a Trieste nel 2023 Porte d’ingresso Arrivi italiane sotto Nepalesi 3,2% Curdi 4,3% di cittadini russi stress Bengalesi 3,8% Trieste 7 (2022) Lampedusa 2.100 (2023) Pakistani 11,6% Afghani 77,1%
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
tutta la nostra storia e trascorrere, ombre di esiliati, un mondo che non ci riconosce. E se invece De Felice si fosse sbagliato? Se il fascismo non fosse affatto morto? Parrebbe così, a giudicare da quanto la patente di fascista circoli per bollare questo o quel regime autoritario e bellicoso. Davvero aiuta gettare nello stesso calderone Trump e Mussolini, Putin e Hitler, Le Pen e Codreanu? Non crediamo. Specialmente misurando le radicali differenze tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco. Insomma sì, il fascismo storico è stramorto. Ma qua e là riaffiorano certi suoi «stilemi» – peraltro non esclusivi: dalla demonizzazione dell’avversario alla guerra igiene del mondo, dalla militarizzazione delle masse con sprezzo del ridicolo al culto dell’istinto, postulato superiore alla ragione. Su tutti, il darwinismo sociale: la vita è lotta e chi sopravvive ha ragione. Veleno tuttora diffuso, almeno quanto lo era in Europa prima che i nazisti se ne impadronissero. De Felice preconizzava che un «fascismo» rinnovato sarebbe molto peggiore dell’originale: «Un nichilismo assoluto, un rifiuto totale di quello che è l’attuale civiltà, una negazione che coinvolgerebbe tutto e che perciò assumerebbe l’aspetto del peggior nazismo» 32. Parole di mezzo secolo fa. Ma echeggiano sinistre nel contesto bellico che ci avvolge dall’Oriente europeo al Medioceano. Senza guerra niente fascismo. Appunto: senza guerra. Ma in guerra siamo. Cerchiamo di non completare l’equazione. 6. Stiamo scivolando dalla guerra in Europa alla guerra europea. Sicché i costi del conflitto ucraino che gli americani non vogliono né possono sostenere di qui all’eternità vanno ripartiti fra gli alleati disponibili. Washington invita europei e canadesi a stringere con Kiev accordi bilaterali più o meno impegnativi di sostegno finanziario, diplomatico e militare. Scadenza decennale, rinnovabile. Intese a geometria variabile, stipulate al volo o in corso d’opera. Dovrebbero coprire tutte le fasi della vittoria, o di qualcosa battezzabile tale: dall’armare la resistenza sul terreno volta a riconquistare le province cadute in mano russa alla futura ricostruzione dell’Ucraina integrata nell’Unione Europea. Ma nei magazzini dei Ventisette di armi ne restano poche e non tutti fremono dalla voglia di cederle a Kiev. Quanto ai soldi, misurabili nelle centinaia di miliardi, non è chiaro da quale sorgente magica sgorgheranno. Propaganda più che sostanza, specie nel nostro caso (vedi schede di Mirko Mussetti). Attenzione però: se Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
32. R. DE FELICE, Intervista sul fascismo. Appendice, Roma-Bari 1997, Laterza, pp. 102 s.
25
VEDERE IN PROSA
Grafico 1 - DOV’È LA VITTORIA? QUALE AFFERMAZIONE RIFLETTE MEGLIO L’ESITO PIÙ PROBABILE DELLA GUERRA RUSSO-UCRAINA? Media Polonia Svezia Portogallo Paesi Bassi Germania Spagna Romania Francia Austria Italia Ungheria Grecia
L’Ucraina vince la guerra
Ucraina e Russia raggiungono un compromesso
Indifferente
Nessuna delle opzioni proposte
Non sa
La Russia vince la guerra
Fonte: Ecfr su dati YouGov-Datapraxis, gennaio 2024
la propaganda poggia sul nulla, o peggio sul travisamento della realtà, la tentazione di trarne una strategia operativa potrebbe prevalere sulla ragione fredda e spingerci inavvertitamente alla guerra totale. Il cessate-il-fuoco cui parte degli apparati americani ed europei inclina e che la maggioranza delle opinioni pubbliche continentali, italiana inclusa, vorrebbe subito (grafici 1-3), è impraticabile perché sanzionerebbe la vittoria russa. O peggio preparerebbe la seconda ondata dell’aggressione, nei tempi scelti da Putin o dal suo successore. Almeno così temono i dirigenti ucraini e l’avanguardia antirussa della Nato, convinti che il Cremlino si lancerà alla riconquista dell’ex impero europeo dell’Urss. Ipotesi ardita, visto che scatenerebbe la guerra atomica. Il Cremlino non è club di suicidi. La virata tattica elaborata dalla Casa Bianca e accettata più o meno convintamente dai governi atlantici serve anche a mascherare le profonde faglie che dividono la nostra alleanza. Incompatibili, fra l’altro, con la visione occidentale che designa la guerra d’Ucraina epicentro del nuovo ordine bipolare in costruzione: Est autocratico (Russia, Cina e seguaci) contro Ovest democratico, con i pluriallineati del cosiddetto «Sud Globale» inviCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
26
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Grafico 2 - EUROPEI DIVISI SUL CHE FARE COSA DOVREBBE FARE L’EUROPA CON RIGUARDO ALLA GUERRA D’UCRAINA? Media Svezia Portogallo Polonia Francia Spagna Paesi Bassi Germania Austria Romania Italia Grecia Ungheria
Sostenere l’Ucraina nel recuperare i territori sottratti dalla Russia
Indifferente
Nessuna delle opzioni proposte
Non sa
Spingere l’Ucraina a negoziare un accordo territoriale con la Russia Fonte: Ecfr su dati YouGov-Datapraxis, gennaio 2024
tati a optare per noi – ma refrattari. Opzione rigettata da India, Brasile, Sudafrica, altri Brics e dintorni. Ma anche dalla Turchia, con un piede atlantico l’altro «globale» e orecchi non sordi alle sirene russe e siniche, disposta a rischiare di inciampare su sé stessa pur di accelerare la scalata neoimperiale (carta 3). Lo slogan «mondo libero contro dittature», recuperato dalle cantine della guerra fredda, eccita la controretorica del Citrus, sigla con cui l’Università di Oxford introduce lo stranissimo quartetto Cina-India-Turchia-Russia. Il 77% dei cinesi è convinto che la «vera democrazia» sia la propria, come il 57% degli indiani, il 36% dei turchi, ma appena il 20% dei russi, quasi pari alla quota di chi preferisce la democrazia americana (18%). I moscoviti in guerra contro l’Occidente sono più filo-americani degli atlantici turchi, mentre gli indiani correttamente fanno gli indiani 33. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
33. Cfr. T. GARTON ASH, I. KRASTEV, M. LEONARD, «United West, divided from the rest: Global public opinion two years into Russia’s war on Ukraine», European Council on Foreign Relations, Policy Brief, 22/2/2023.
27
VEDERE IN PROSA
Grafico 3 - ARMIAMOCI E PARTITE SE GLI USA, CON UN NUOVO PRESIDENTE, LIMITASSERO SENSIBILMENTE IL SOSTEGNO ALL’UCRAINA, COSA DOVREBBE FARE L’EUROPA? Media Svezia Polonia Portogallo Spagna Paesi Bassi Germania Francia Austria Romania Italia Ungheria Grecia
Aumentare il più possibile il proprio sostegno per compensare il deficit statunitense, affinché l’Ucraina possa continuare a combattere
Mantenere invariato il proprio sostegno all’Ucraina
Indifferente
Nessuna delle opzioni proposte
Non sa
Seguire l’America nel limitare il proprio sostegno all’Ucraina e incoraggiare un accordo di pace con la Russia
Fonte: Ecfr su dati YouGov-Datapraxis, gennaio 2024
E noi facciamo gli italiani. Le quindici pagine dell’accordo sulla cooperazione di sicurezza fra Italia e Ucraina ondeggiano fra vacuità e ambiguità. E non ci impegnano a nulla, perché altrimenti sarebbero dovute passare al vaglio del parlamento – tabù nell’autoproclamata repubblica parlamentare. Continuiamo a fare «politica» invece di geopolitica. Per «politica», accento sulle virgolette, s’intende il teatrino provinciale cui ci siamo accomodati dalla fine della Prima Repubblica in avanti, con progressione geometrica. La sceneggiata è come la droga: più ne prendi più ne dipendi. Della politica manca l’ingrediente base: culture politiche in competizione organizzate in partiti radicati nella società e usi di mondo. Quanto alla geopolitica, senza politica è impossibile, se non come gioco da tavolo. Senza dibattito pubblico qualche ragionamento geopolitico può esprimersi al massimo negli apparati dell’intelligenza e della forza. Per restarci. Lo Stato profondo suppone lo Stato, mai virgolettabile, sicché anche gli esercizi dei tecCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
28
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
nici tendono al futile. Questa repubblica ad amministrazione disaggregata diagnosticata da Cassese, ridotta ad arcipelago, «mal si presta a eseguire direttive altrui e a elaborare procedure proprie» 34. La propaganda è il sale della guerra, assicurano i propagandisti. Non concordiamo. Ma seppur fosse vero, quando l’incendio ti circonda e già lambisce le pareti di casa hai l’obbligo di dire la verità almeno a te stesso e ai tuoi. E di non credere alle balle che racconti per consumo esterno o per confondere il nemico, confondendoti. Salvo scoprirti sonnambulo alle soglie della terza guerra mondiale. Noi europei non siamo pronti alla guerra ultima. In realtà non lo è nessuno. Tantomeno gli abitanti del continente più ricco, vecchio, disarmato, pacioso. E fra i veterocontinentali gli italiani meno di tutti. Del bellicismo futurista da salotto che apparecchiò la tavola all’intervento nella Grande guerra resta il salotto. Le rodomontate del Duce contro le «plutocrazie democratiche e reazionarie» ci hanno almeno aiutato a perdere dalla parte giusta. Se slittassimo dalla guerra in Europa alla europea, a quel punto automaticamente mondiale, potremmo solo scegliere se arrenderci subito (a chi?) o scandire il conto alla rovescia dei giorni che ci resterebbero da condividere con altri umani. In caso di guerra fuori tutto le faglie atlantiche volgerebbero in trinceramenti contrapposti. Intanto, noi italiani stiamo già perdendo più dei consoci/competitori – tedeschi esclusi – perché le nostre debolezze strutturali ne sono specialmente minacciate. Per esempio sul decisivo fronte medioceanico (carta a colori 2). La guerra Israele-Õamås-õûñø – di fatto Occidente contro Iran – scombina le rotte commerciali Italia-Medio Oriente-Asia Estrema passanti per Suez e Båb al-Mandab. Lo si scopre a occhio nudo seguendo con un dito la rotta medioceanica da Trieste verso l’Indo-Pacifico, che lambisce o attraversa (Mar Rosso) i fronti della Guerra Grande (carta a colori 3). Uno sguardo d’insieme alla ripartizione delle nostre missioni navali nel Mediterraneo allargato – gergo militare per Medioceano – ci rassicura abbastanza sulla concentrazione della Marina nelle acque per noi critiche (carta a colori 4). Fin qui l’aspetto securitario. Ma se osserviamo lo stesso spazio in termini geoeconomici, cogliamo i segni di una possibile ristrutturazione dei traffici marittimi che ci colpirebbe al cuore. Il periplo dell’Africa cui gli õûñø costringono i supercontainer non si riduce a prolungarne il viaggio verso Rotterdam e cugini del Northern Range. Esalta il bivio di Gibilterra. Qui navi Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
34. Cfr. S. CASSESE, «Lo Stato arcipelago non funziona», Limes, 3/2021, «A che ci serve Draghi», pp. 89-92.
29
30 T
Origine del corridoio afro-oceanico della Turchia Sbocchi oceanici dell’Anatolia Snodi imprescindibili del corridoio afro-oceanico della Turchia Paesi di rilevanza strategica per il corridoio afro-oceanico della Turchia Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee turca Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee libica
NIG E R
LIBI A
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Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Mar Nero
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Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia 1 Porto di Aliağa 2 Porto di Taranto 3 Porto di Malta 4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) 5 Aeroporto militare e base navale di Misurata 6 Base aerea di al-Watiyya 7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar 8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio 9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Centri di addestramento delle Forze armate libiche
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Dakar 7 SENEGAL
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Ramo atlantico Ramo indo-pacifico Corridoio del Mediterraneo centrale
Mar Caspio
I colli di bottiglia 1 Kerč’ 2 Bosforo 3 Dardanelli 4 Gibilterra 5 Stretto di Sicilia 6 Mare di Creta 7 Dodecaneso 8 Golfo di Alessandretta 9 Canale di Suez 10 Bāb al-Mandab
VEDERE IN PROSA
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
un tempo dirette ai nostri porti, specie Gioia Tauro (infiltrato dalla ’ndrangheta), invece che proseguire verso Olanda e Germania cominciano a scaricare e caricare ad Algeciras o Tanger Med, sponde spagnola e marocchina dello Stretto. Sommiamo questa tendenza alla non troppo futuribile (guerra permettendo) rotta artica, percorso più rapido per collegare Cina e Giappone a Europa settentrionale e America atlantica, che declasserebbe il Medioceano. Se i due bracci della tenaglia che stringono il mare di casa si congiungessero a Gibilterra, saremmo spacciati. Proviamo a studiare lo stesso spazio con occhi americani. Che cosa vedrebbero gli apparati a stelle e strisce nella doppia erosione geoeconomica del Medioceano, da sud e da nord? A un primo sguardo forse nulla, tanto sono concentrati altrove. Poi però, congiungendo sulla mappa punti e frecce, scoprirebbero che in tanta distrazione si sta profilando un attacco strategico di Cina e Russia all’impero europeo dell’America, che nel nostro mare ha il baricentro. I russi controllano la rotta artica, ma i cinesi si apprestano ad affiancarli, forse a superarli (carta a colori 5). Pechino persegue da tempo la via marittima della seta, che penetra il Medioceano con la bandiera del commercio. Mosca ne ripercorre alcuni tratti, a stendardo di battaglia spiegato, per bilanciare la pressione della Nato artico-baltica. Somma algebrica dei punti di vista italiano e americano: esiste una obiettiva convergenza di interessi sulla quale far leva per evitare il nostro declassamento a oggetto. Per assumere le responsabilità che ci sconsigliano di delegare la difesa della patria agli atlantici con testa a nord-est (perché mai dovrebbero aiutarci?), mentre potrebbero indurci a stringere un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti. Decisamente più utile e concreto del prestampato siglato da Meloni e Zelens’kyj. Ricostituente per la nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti. Sondati sul tema alcuni amici americani, scopriamo aperture fino a ieri impensabili sulla collaborazione in aree di nostro interesse assoluto, per loro meno secondarie di quanto immaginassero (vedi l’articolo di Federico Petroni alle pp. 233-243 e la carta a colori 6). Scambio ineguale, certo. Meglio dell’isolamento totale. E possibile motore di intese ad hoc con altri Stati Nato. Su tutti Francia e Turchia. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
7. In questo volume trattiamo le nostre fragilità strutturali e proponiamo idee su come affrontarle: dalla demografia all’istruzione, dalle mafie alle migrazioni (carte a colori 7 e 8), cui si aggiungerebbe l’autonomia differenziata, proposta da un governo capeggiato da chi nel 2014 aveva proposto una legge specularmente opposta. Alcune Regioni muterebbero in
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4 - L’ITALIA PRE-UNITARIA (1858)
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Belluno Trento Lombardia Veneto Aosta Lecco Como Vicenza Brescia Biella Trieste Novara Milano Venezia Torino REGNO LOMBARDO-VENETO (AUS.) Mantova Asti Parma T Genova Romagna M AO ST Ravenna Cuneo DU I M Contea D S. MARINO La Spezia di Nizza Linea gotica (1944) Pesaro Monaco Nizza Firenze Linea isoglossa
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staterelli neofeudali, svuotando quel che resta dello Stato unitario (carta 4) e sancendo il distacco finale fra Nord e Sud. Ammesso che cominciassimo a sciogliere davvero qualcuno di questi nodi, Guerra Grande ci lascerà il tempo per farlo? Forse no. Ma non è alibi per l’inerzia. Invece di precipitare verso la guerra allargata, potremmo contribuire a una tregua illimitata in Ucraina, premessa della futura pace, che di riflesso sarebbe anche nostra. Dalla voragine in cui è precipitata, l’opinione pubblica ucraina si divide su se e quanto le convenga continuare nella guerra per procura in nome di un successo totale possibile solo ove la Russia sprofondasse nel caos o sparisse dalla faccia della Terra. Ciò che non lascerebbe immune nessuno, a partire da coloro che se l’augurano. Mentre il licenziamento da parte di Zelens’kyj del capo delle Forze armate, il popolare generale Zalužnyj, sostituito da un russo etnico ex soldato dell’Armata Rossa (sì, questa è anche una guerra civile post-sovietica), annuncia che a Kiev è riaperta la stagione della caccia al potere. Come non chiedersi chi gestirà gli aiuti che invieremo agli ucraini? Domanda accompagnata dall’inconfessabile senso di colpa di quegli occidentali che stanno perdendo la voglia di sostenerne la resistenza dopo averli eretti a combattenti per la nostra causa (non chiarissima). Però senza di noi, troppo preziosi a noi stessi. Vi armiamo finché possiamo e voi morite per noi finché potete. C’è ancora spazio per una morale pratica, guida di una strategia razionale? Crediamo di sì, anche nel nostro carissimo Belpaese. Però forse ci illudiamo. La nube delle propagande incrociate ci ha intossicato. Solo la letteratura ci salverà. Nel suo strepitoso Nessuno imbraccia i fucili, Sandra Lucbert illumina lo scontro fra «lingua generale», fanaticamente coltivata dalle istituzioni, e ciò che dentro di noi vi resiste e produce una cacofonia interiore 35. Spaesamento che dalla parola si trasferisce allo sguardo e rende invisibile il mondo per eccesso di presenza. Contravveleno di Lucbert: montiamo un apparecchio ottico per vedere in prosa. «Al modo degli oculisti, il trattamento in prosa non è sempre piacevole. Quando è terminato, il tecnico ci dice: ora guardate. Ed ecco che il mondo ci appare interamente diverso dal precedente, ma perfettamente chiaro» 36. Ma questo era Proust. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
35. S. LUCBERT, Personne ne sort les fusils, Paris 2020, Seuil. 36. Citazione che Sandra Lucbert estrae da Marcel Proust, ivi, p. 20. Cfr. M. PROUST, À la recherche du temps perdu. Le côté de Guermantes, Paris 1919, Nouvelle Revue Française, t. 7, p. 185.
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LE NECESSITÀ DELL’UCRAINA di Mirko
MUSSETTI
Il 24 febbraio 2024 l’Ucraina è entrata nel suo terzo anno di guerra a difesa della propria integrità territoriale messa a repentaglio dall’invasione delle Forze armate della Federazione Russa. Se si computano anche le operazioni belliche avviate nel 2014 dai separatisti filorussi del Donbas, l’esercito di Kiev combatte strenuamente contro Mosca da quasi dieci anni. A differenza del primo anno di guerra, in cui Kiev poteva contare su un discreto numero di veterani – coloro che hanno combattuto nel bacino del Donec’k – e un significativo numero di patrioti volenterosi, oggi le Forze armate del paese aggredito scontano una forte carenza di personale sacrificabile in prima linea. Situazione talmente grave da aver indotto il presidente Volodymyr Zelens’kyj a sottoporre alla Verkhovna Rada un disegno di legge volto a forzare all’arruolamento circa 500 mila connazionali residenti all’estero o in patria che non sono mai stati registrati presso i centri di reclutamento. La mancanza di uomini sufficientemente addestrati e sacrificabili in una guerra d’attrito è il principale problema per Kiev. Senza guerrieri, il lunghissimo fronte che si srotola dalla penisola di Kinburn (estuario del Dnepr) al fiume Oskil (Donbas settentrionale) rischia di non reggere. Oltre agli uomini c’è il serio problema della penuria di armamenti. Non si parla tanto di equipaggiamenti sofisticati, bensì di banali munizioni per l’artiglieria (in particolare calibro 155). Il fatto che la Corea del Sud sia attualmente il secondo fornitore di proiettili dopo gli Stati Uniti la dice lunga sulla impreparazione dell’Europa occidentale a esaudire le richieste materiali di Kiev. Seoul trasferisce infatti nel paese aggredito più munizioni di tutte le cancellerie dell’Unione Europea messe insieme. L’abbandono negli ultimi trent’anni dell’idea di un conflitto armato fondato sull’artiglieria nelle dottrine militari euroatlantiche sta causando un serio affanno nel partner in prima linea nella guerra per procura tra Occidente e Russia. Le stime della produzione annuale di proiettili in Russia vanno da 1 milione a 4,5 milioni di pezzi. Un volume che supera significativamente la quantità a disposizione dell’Ucraina. Per questo gli Stati Uniti starebbero pianificando di incrementare la produzione di munizioni per l’artiglieria fino a 1 milione di proiettili l’anno entro la fine del 2025 (prima della guerra ne producevano 190 mila circa). Sempre che si sciolga il nodo dello stallo al Congresso Usa sugli aiuti militari al paese invaso dalla Russia. In ogni caso, nessuna nazione del gruppo di Ramstein (oltre cinquanta paesi che supportano materialmente l’Ucraina) è in grado di fornire una roadmap precisa per il 2024. Tutti però concordano su tre punti 1: questa primavera, le Forze armate di Kiev dovranno resistere agli attacchi russi in assenza di attrezzature o personale formato, rinunciando dunque a un nuovo tentativo di controffensiva; grazie anche a una rete di alleanze, Mosca si è assicurata la superiorità numerica nella guerra d’attrito; in assenza di un rinnovato contributo occidentale, Kiev faticherà a organizzare una difesa credibile e duratura. La sensazione (o velleità) è che l’Ucraina debba cercare di resistere per tutto il 2024, sperando di disporre del materiale bellico necessario a condurre una grande controffensiva di successo nel 2025. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1.R. GOTTEMOELLER, «Ukraine Has a Pathway to Victory», Foreign Policy, 8/1/2024.
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LE OFFERTE DELL’ITALIA di Mirko MUSSETTI
Il 24 febbraio 2024, a due anni esatti dallo scoppio del conflitto armato, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è recata a Kiev per celebrare la resistenza del paese invaso dalla Federazione Russa e siglare un accordo di cooperazione in materia di sicurezza tra Italia e Ucraina. Il testo è stato reso pubblico dalle due cancellerie il giorno stesso. L’intesa non è assolutamente vincolante, tant’è vero che non richiede alcuna ratifica parlamentare né si è reso necessario un dibattito tra legislatori. Insomma, una semplice dichiarazione d’intenti. Dunque, l’Italia promette ma non si impegna a sostenere le esigenze politiche, militari e finanziarie del partner in guerra. Di più: nel documento non sono presenti cifre relative al sostegno materiale fornito dal Belpaese. Anzi, solo due numeri sono riportati: 10 e 24. Il primo è relativo alla durata in anni della vigente collaborazione (art. 1.7); il secondo al numero di ore entro le quali Roma e Kiev si impegnano a consultarsi per determinare le misure necessarie a contrastare o scoraggiare una seconda grande campagna bellica di aggressione delle Forze armate della Russia (art. 11). Di soldi non si parla proprio: «Le spese derivanti dall’attuazione del presente Accordo saranno coperte dai Partecipanti secondo le loro ordinarie disponibilità di bilancio senza alcun onere aggiuntivo per il bilancio dello Stato della Repubblica Italiana e dell’Ucraina» (art. 17). Nel merito, Roma si impegna a sostenere Kiev in diversi capitoli: produzione e fornitura di equipaggiamento bellico; addestramento militare; riforme nelle Forze armate di Kiev; intelligence; sicurezza cibernetica; lotta al crimine organizzato; cooperazione economica (in particolare nel settore dell’energia e delle infrastrutture critiche); sminamento dei campi di battaglia; congelamento dei fondi russi e consegna degli stessi all’Ucraina in qualità di riparazioni di guerra; ausilio umanitario; future sanzioni alla Russia; intervento a protezione dell’Ucraina in caso di ulteriori aggressioni; sostegno all’ingresso del paese invaso nella Nato; supporto diplomatico all’adesione di Kiev alla «famiglia europea» – intesa come Ue – che esclude implicitamente dal concetto di Europa una delle nazioni più iconiche del Vecchio Continente: la nemica Russia. Le forniture belliche a Kiev sarebbero in ogni caso vincolate all’approvazione del parlamento italiano, sebbene la prassi recente spinga il legislatore a votare pacchetti di sostegno militare senza essere a conoscenza del contenuto materiale a causa del segreto di Stato applicato. L’idea che gli accordi bilaterali di sicurezza sottoscritti da Kiev con diversi paesi europei siano uno stratagemma propedeutico al raggiungimento di una pace e di garanzie di sicurezza alternative all’ingresso nell’Alleanza Atlantica vacilla. L’articolo che prevede l’intervento indiretto dell’Italia in caso di una seconda grande campagna bellica di Mosca può rivelarsi controproducente. Se anche la dichiarazione d’intenti fosse credibile/vincolante e l’Italia avesse le forze per onorarla, la Russia sarebbe a quel punto propensa a non firmare alcun cessate-il-fuoco o trattato di pace pur di conservare l’opportunità futura di scatenare una seconda grande guerra d’Ucraina. Pare piuttosto una via per congelare l’ennesimo conflitto nello spazio post-sovietico. La fortuna per Roma e il fastidio per Kiev deriva dal fatto che il documento sottoscritto vale poco più di un tweet con hashtag #SlavaUkraini (gloria all’Ucraina). Cioè nulla. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Parte I COME CAMBIA
il nostro FATTORE UMANO Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
TINA O TARA?
FERRARI ZUMBINI La crisi della democrazia occidentale è testimoniata dal trionfo delle tesi senza alternative, ovvero dal rifiuto del confronto. Negazione del Tempo e della Storia, questa arroganza segnala un impressionante declino culturale. La lezione di Benedetto Croce. di Romano
Tina o non Tina? È questo il dilemma. Se sia più nobile nella mente assecondarne l’imperiosa volontà o prendere armi contro di essa e soffrire, lottare per la libertà di pensiero. Così esordisce il monologo scespiriano dell’Amleto (atto terzo) nella versione del XXI secolo.
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1. I VIVE ASSILLATI DA PROCEDIMENTI FORMALMENTE liberi e apparentemente democratici (persino nelle scuole di ogni ordine e grado genitori e scolari sono chiamati a vuoti riti elettorali per improbabili rappresentanze di classe), salvo poi scoprire che le grandi decisioni – quelle importanti, non le secondarie – sono calate dall’alto. «Lo vuole Bruxelles»; «lo prevedono i protocolli»; «è prescritto nell’algoritmo»: l’etero-direzione plasma di sé le torsioni epocali del XXI secolo e poi, con candore, ci si stupisce delle scarse affluenze alle elezioni politiche. Ma chi è Tina? Non la cassiera del bar dietro l’angolo. Tina (there is no alternative) è la regolatrice della società, che con suadente prepotenza si impone ed esprime la volontà di non precisate «divinità» invisibili. L’ellenica τύχη (Túche) era beffarda, ironica, imprevedibile. Lo Zeitgeist evocava invece un’atmosfera: così la concepì in lingua tedesca il poeta romantico Johann G. Herder nel 1769, contrap ponendola all’espressione latina genius saeculi, coniata invece pochi anni prima dal filologo Christian A. Klotz, che l’aveva forgiata dal concetto romano di genius loci. L’odierna Tina, invece, è volontà avida che ha ribaltato tante cose. Per secoli era stato l’artigiano ad adeguarsi ai desideri e ai capricci dell’acquirente; nel XXI secolo è l’acquirente a doversi adeguare ai desideri e ai capricci dei venditori, con i quali Tina è ben sintonizzata. Túche non perseguiva finalità monetarie o interes si geopolitici; viceversa, Tina si è fatta più accorta: al disinteresse del fato ha sosti tuito l’ingordigia del denaro. E di fronte a essa tutto deve recedere. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Tina si ammanta di buoni sentimenti, ma la sua non è morale con categorie precise, bensì iper-morale, senza categorie. Dà il meglio di sé (o il peggio, a seconda dei punti di vista) con le guerre. Forgiò il trattato di Versailles del 1919 con gli articoli 227 («Le Potenze alleate e associate accusano pubblicamente Guglielmo II di Hohenzollern, già Imperatore di Germania, per crimine supremo contro la morale internazionale e la sacrosanta autorità dei trattati») e 231 («La Germania riconosce la responsabilità propria»), che introdussero disastrosamente la condanna morale dei vinti. Fu J.M. Keynes ad antivedere, in quei mesi, i disastri che sarebbero seguiti, ma lo si ignorò. Tina proseguì nel 1946: istituì contro i gerarchi nazisti un tribunale a Norimberga dalla dubbia legittimità. Persino H. Kelsen, che pure era dovuto emigrare a causa del nazismo, sollevò forti perplessità circa la composizione del collegio giudicante, ma parimenti lo si ignorò. Tina chiuse il XX secolo bombardando popolazioni civili «a fin di bene». Apparve per la prima volta nel parlamento italiano con il disegno di legge per la ratifica del trattato di pace del 1947. L’assemblea costituente è stata eloquente spettatrice. Autorevoli protagonisti strutturarono un ragionamento di fronte al testo presentato dal governo De Gasperi; argomentarono da par loro, ma Tina fu impla cabile: «Questa ratifica s’ha da fare». In quel frangente non si notò o non si imma ginò la gravità della mancata interlocuzione con chi tentava un ragionamento, con chi ipotizzava soluzioni alternative. Si erano levate perplessità e problematicità verso quel disegno di legge da due prospettive diverse: squisitamente politiche (Togliatti, Nenni, Saragat) e culturali (espresse dai nomi migliori che l’Italia di quegli anni potesse offrire). Ma fu tutto vano. Tina pretendeva: apparve con le parole del relatore di maggioranza, Gronchi (che fece balenare i benefici del Piano Marshall), del ministro Einaudi («l’Europa che l’Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un’Europa chiusa contro nessuno, è un’Europa aperta a tutti»), del presidente De Gasperi («solo rati ficando diverremo parte della comunità internazionale») 1. Sono parole che riecheg giano il dibattito in Grecia del 2015, allorché il governo Tsipras dovette cedere all’imperiosità del Fondo monetario internazionale e dell’Unione Europea. 2. Nel luglio 1947, a Montecitorio, a nulla erano valse le riflessioni problema tiche (e di certo disinteressate) di Benedetto Croce: «La guerra è una legge eterna del mondo. (…) Chi sottopone questa materia a criteri giuridici cela l’utile ancorché egoistico del proprio popolo o Stato sotto la maschera del giudice imparziale». In cidentalmente, anch’egli osò porsi problematicamente verso il tribunale di Norim berga e per questo Tina si contrariò ulteriormente. A nulla erano valse le parole di dignità di Vittorio Emanuele Orlando, che la mentava un eccesso di servilismo: «Venne assunta (…) un’aria di umiltà (…) sino a vedere ministri d’Italia deferire a funzionari relativamente modesti. (…) Resistere si Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. La pressione fu esercitata in parallelo anche dai media: La Stampa del 25 luglio citò pure il Times di Londra: «Non fate i Machiavelli da strapazzo: oggi il solo nazionalismo possibile e utile all’Italia è il nazionalismo europeo».
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poteva e si doveva. (…) Ora, questa attitudine remissiva si è sempre mantenuta, come si mantiene tutt’ora nella forma e nel tempo e nel modo in cui si chiede questa ratifica». A nulla valsero le rievocazioni di un altro ex presidente del Consiglio, France sco Saverio Nitti: «La nostra difesa non è nel negare le nostre colpe, ma nel consta tare che la colpa nostra è stata divisa dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’America. Tutte le volte che l’Italia mostrava di volersi liberare del fascismo, i loro uomini o i loro giornali più importanti intervenivano (…) a favore del fascismo. (…) Noi ab biamo visto le cose più inverosimili. (…) Capi di governo e ministri potenti venire a Roma, mostrarsi ossequienti verso Mussolini, prodigargli espressioni di simpatia e di stima. (…) Dopo anni di lotte, d’esilio e di deportazione (…) per me è più penoso (…) accettare il sacrificio». Anche Luigi Sturzo, alla fine del 1946, aveva caldamente suggerito al governo di non far apporre la firma per contestare la durezza delle clausole 2. Ma l’intero arco argomentativo lasciò Tina indifferente. Tina non conosce esitazioni. Lo confermò il ministro degli Esteri, Sforza, che legò la ratifica all’immediato ingresso dell’Italia nell’Onu: argomentò veemente mente che, se non si fosse ratificato entro il 10 agosto, si sarebbe ritardato di un anno l’ingresso «nel più solenne areopago del mondo». È appena il caso di notare che la ratifica fu votata sì, entro i termini imposti (il 31 luglio 1947); divenne sì, la legge 811 del 2 agosto, quindi una settimana prima del 10 agosto, ma l’ingresso dell’Italia nell’Onu avvenne… appena 8 anni dopo, il 14 dicembre 1955. 3. Con gli anni Tina ha perfezionato la sua tecnica e ha imparato ad aggirare le scelte aperte. Opera attraverso impegni internazionali soft, dapprima non vinco lanti. Introduce concetti: si pensi al gender, è teoria – e in questa sede la riflessione è di metodo, non di merito – originale, estranea alle culture (religiosa e sociale) dell’Occidente; ebbene, si affacciò a Pechino nel 1995, durante la quarta conferenza mondiale sulle donne convocata dall’Onu. Seguì una delibera sul tema del governo tedesco nel 1999. Venti anni dopo le cattedre e gli insegnamenti gender nelle uni versità in Germania hanno raggiunto, e forse sorpassato, il numero di cattedre di letteratura tedesca. La politica crede di aggirare, ma è essa a esser aggirata. Vi è un tentativo di reazione da parte di Tara (there are reasonable alternatives). Ma, novella Cenerentola, è relegata nel sottoscala delle opinioni inappropria te. Può apparire timida a chi non la conosce: ha uno sguardo mediterraneo, lonta ni avi ateniesi, ha studiato seriamente, in un’epoca nella quale non esistevano an cora gli scambi Erasmus, alle università di Bologna, di Parigi, di Heidelberg (e non solo). Non è assertiva, ma sicura del metodo: ha imparato che A=A, che B=B; pertanto, che A non è uguale a B. Segue la logica e fa della riflessione la sua forza. Ha scoperto che la Storia è sì, anche una materia, ma in primo luogo è un Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
2. Sul punto G. FORMIGONI, «Sturzo e la collocazione internazionale dell’Italia nel secondo dopoguerra», in Universalità e cultura nel pensiero di Luigi Sturzo, atti del convegno internazionale di studio, Ro ma, Istituto Luigi Sturzo, 282930 ottobre 1999, Soveria Mannelli 2001, Rubbettino, pp. 361 ss.
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metodo. Tara ha studiato la cronologia dell’Occidente e scoperto che l’irruenta Tina è stata sconfessata tante volte. A partire da Salamina nel 480 a.C., nello scon tro navale vinto da Temistocle contro i più potenti e possenti persiani, dati per vittoriosi; lo constatò con Giovanna d’Arco, che si presentò a Carlo, delfino di Francia e lo guidò nello sbaragliare, contro tutte le previsioni avverse, gli inglesi, liberando Orléans dall’assedio l’8 maggio 1429. La Storia si fa spesso beffe dell’inevitabilità asserita da «grandi pensatori»: Dide rot si recò, convinto di sé e dell’assoluta bontà delle sue tesi, a Pietroburgo da Ca terina II. Ella ascoltò con interessata curiosità l’esposizione compiaciuta dei suoi progetti 3, ma poi lasciò cadere il tutto nel vuoto e il filosofo tornò furibondo a Pa rigi. Anche Marx vedeva come inevitabile la vittoria del proletariato 4, ma non riuscì a creare un legame, un’alleanza con il potere economico, che anzi voleva abbattere. Durante l’ultima guerra il mondo, attonito dopo la capitolazione della Fran cia, attese l’invasione del Regno Unito mentre le bombe della Luftwaffe cadevano su Londra e Coventry. Eppure l’inevitabile non ebbe luogo e Churchill piegò Hitler, a dispetto di tutte le previsioni. Anche l’energia atomica si presentò all’Expo di Bruxelles del 1958 come fonte energetica dell’avvenire, ovviamente inevitabile, e in onore di essa fu costruito, nel parco Heysel, un monumento alto 102 metri (l’Atomium, che rappresentava i 9 atomi di una cella unitaria di un cristallo di ferro ingrandito); eppure venne bandita nei decenni successivi, giacché divenuta «energia nociva». 4. Nel XXI secolo si è cementata un’alleanza inossidabile e fortissima fra certo pensiero filosoficopolitico (i neoilluministi che decantano il liber-5) e il potere economicofinanziario (Big Tech). Tina ha rafforzato la retorica dell’inevitabilità, che ricorda tanto l’astuzia del cavallo di Troia per far entrare nella città gli impera tivi economici più devastanti. Tina vuole davanti a sé un’umanità in fila indiana, con un passo cadenzato uguale per tutti, obbligati in modo uniforme in un calore cupo, come il popolo sottomesso del film Metropolis di Fritz Lang (1927). È un neocolonialismo alla conquista delle nostre coscienze. In gioco sono i fondamentali della cultura occidentale. Tina alimenta paura e rende insicuri, incapaci di decidere. Ha costruito meccanismi sofisticati, abilmente giocando sulle parole: quanto più è opprimente nei fatti, tanto più predica libertà e tolleranza. Tina è stentoreamente imperiosa; non replica mai, probabilmente perché non sa dibattere: disdegna con il deplatforming, sanziona con l’accusa di Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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3. D. DIDEROT, Mélanges philosophiques, historiques, etc., année 1773, depuis le 15 oct. jusqu’au 3 décemb. même année. Si tratta di manoscritti per la zarina i cui originali sono conservati a Mosca (Archivio di Stato della Federazione Russa, fondo 728, opis 1, n. 217). Per un’edizione recente, cfr. P. VERNIÈRE (a cura di), Mémoires pour Catherine II, Paris 1966, Garnier. 4. K. MARX, «Lohnarbeit und Kapital». Si tratta di una raccolta di editoriali pubblicati sulla Neue Rheinische Zeitung nei giorni 5, 6, 7, 8, e 11 aprile 1849. 5. Termine capiente, che descrive le mitologie di Tina spacciate come declinazioni di «libertà»: liberal, liberale, liberalism, liberality, liberalization, liberista, libertarian, libertario, libertino… cfr. R. FERRARI ZUMBINI, Il grande giudice. Il Tempo e il destino dell’Occidente, Roma 2022 (1a edizione rivista e am pliata), Luiss University Press.
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fake news, distrugge con l’imputazione di hate speech. Si è colpiti per «falsità», ma Tina non specifica cosa sia il vero (e ovviamente ignora cosa fu detto e scritto sulla verità nell’Atene del V secolo a.C.). Si è colpiti per «odio», ma è solo lei a sta bilire il metro di valutazione. Dovevano essere veramente brutti gli anni Cinquanta dello scorso secolo, quando Nat King Cole si permetteva di cantare «I hate you» (nella canzone Sometimes I’m Happy) alla donna che amava. Chi può mai osare contraddirla? È anche permalosa: guai a farle notare che non di rado cade in contraddizione, non lo ammetterebbe mai; del resto, avendo abolito il senso del Tempo e vivendo in un eterno presente non si pone il proble ma di quanto aveva imperiosamente statuito in precedenza. È appena il caso di sussurrare la contraddittoria analisi sulla società nordamericana: per decenni aveva narrato che gli Usa erano un riuscito esempio di melting pot, di convivenza e con vergenza tra popolazioni così diverse; da qualche anno, invece, sostiene al contra rio che quella sarebbe una società strutturalmente razzista e «tossicamente» bianca. Delle due, l’una: o non era una società pacificata, o non è razzista. L’ignoranza voluta del passato porta alla falsificazione del presente. Tina è sempre europeisticamente corretta e offre il dover essere come dato di realtà. Tara, al contrario, è garbata; sembra insicura, perché si pone domande, meno capricciosa della prepotente Tina: infatti, l’una dispone di una cosa che l’altra ignora. Tara si avvale costantemente del senso del Tempo, mentre Tina non congiunge i punti del passato, del presente, del futuro: non sa costruire linee nel Tempo. Tina è fluida, Tara è solida, Tina si alimenta di un consumismo dell’istante (Konsum macht frei) e ovviamente ignora che una società dimentica della Storia, della propria Storia, non cancella il senso del Tempo, bensì cancella sé stessa. Tara intercetta, invece, quelle traiettorie e non ha mai abbandonato la percezione della realtà. Tina si dichiara tollerante ma non lo è; per natura è intollerante: non vede altro che sé. Un esempio: la democrazia non è solo coltivare il rito elettorale, ma è anche – forse soprattutto – dialogo. Eppure, i corridoi di opinioni nel XXI secolo sono diventati angusti perché Tina fatica a rispettare opinioni divergenti dalle sue. Tina pretende di essere universale e, come tale, di detenere il monopolio della verità. Ma, priva com’è di un contatto con la realtà, ne discende il ribaltamento del tutto: se non si applica il principio di realtà, non si è a contatto con il mondo, e se non si è a contatto con il mondo, non si può esser universali e, quindi, non si di spone della verità. Ne rimane solo una sterminata intolleranza, strutturata su rozze aggregazioni di concetti semplificanti e semplificati. Tina vede nell’uomo il creato re di sé e da ciò parte la dissociazione dalla realtà. Pone a fine non la verità dell’es sere, ma il potere sull’essere. E ogni riflessione critica su tali imperativi si espone al ludibrio della condanna, scalettata fra l’isolamento (cancellazione da Internet) e la vessazione dell’imputazione di fake news, come pure, a livello ancor più alto, la condanna per hate speech. In sintesi Tina opera attraverso schegge di ragionamen ti, attraverso frammenti di una logica incompleta, mentre Tara è impegnata a su perare la visione parcellizzata e ricostruisce invece la conoscenza a partire dall’e sperienza sensibile. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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TINA O TARA?
5. Chi prevarrà? A voler fare un pronostico l’esito è… senza alternative: deve vincere Tina, che tutto travolge. Ma la Storia insegna che non ha sempre vinto. Speriamo almeno che, dopo averci vietato di odiare, non ci vieti pure di amare.
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
IL VINCOLO ESTERNO (NON) È UN DESTINO
DE RUVO Transizione egemonica e Guerra Grande obbligano Roma ad affrontare il caos in solitudine. Il veltro di Dante come mito (non) fondativo. Le radici filosofico-culturali dell’adesione all’impero americano. Leuropa come panacea per l’Italian way of life. di Giuseppe
L
1. A CIFRA DELL’ATTUALE CONGIUNTURA geopolitica è il venir meno delle certezze. I vecchi vincoli cui l’Italia si è affidata negli scorsi decenni sono in crisi. L’America, sovraestesa e in preda a una radicale crisi d’identità, pare non essere più disposta a salvare il mondo. Chiede a tutti, noi compresi, di assumersi maggiori responsabilità. Nel mentre, s’interroga sul dilemma dei dilemmi: come gestire contemporaneamente una guerra con la Russia in Europa e una con la Cina nell’Indo-Pacifico, considerando che la popolazione non è più quella di una volta e che il complesso militare-industriale è ai minimi storici? La risposta a questa domanda latita. Qualcuno, aspirante Kennan, propone coraggiosamente un nuovo Solarium 1; altri ritengono sia meglio, in pieno spirito americano, mandare tutti al diavolo e concentrarsi sulle questioni domestiche. Anche a costo di uscire dalla Nato 2. O dalla realtà, dato il clamoroso successo degli Apple Vision Pro, al momento principali porte di un Metaverso (targato Apple e non Meta) che si fa sempre più allettante 3. Veniamo al vincolo europeo. Definirlo in crisi è generoso eufemismo. In Germania si discute di paradossale «Dexit» 4. Ovvero di come Berlino potrebbe, vista la crescita di Alternative für Deutschland, uscire dalla sua sfera d’influenza geoeconomica. Se non addirittura da sé stessa, dato che il vestito europeo è (era?) ciò che Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Cfr. J.P. FARWELL, M. MIKLAUCIC, «Agli Usa serve disperatamente un nuovo Solarium», Limes, 4/2022, «Il caso Putin», pp. 153-161. 2. J.E. BARNS, H. COOPER, «Trump discussed pulling US from Nato», The New York Times, 14/1/2019; cfr. anche J., FITZGERALD, «Trump says he would ‘encourage’ Russia to attack Nato allies who do not pay their bills», Bbc, 11/2/2024. 3. Mi permetto di rimandare a G. DE RUVO, «Il virus del Metaverso, se l’America fugge dall’inferno della storia», Limes, 1/2022 «L’altro virus», pp. 41-46; cfr. anche ID., «L’insostenibile leggerezza del Metaverso: tra tensioni geopolitiche e questioni etico-politiche», Filosofia Morale, 2/2023. 4. K. CONNOLLY, «Far-right AfD leader vows to campaign for Brexit-style EU exit vote in Germany», The Guardian, 22/1/2024.
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garantisce (garantiva?) al paese di Goethe di sfogare la sua auri sacra fames e la sua (inconsapevole?) Wille zur Macht senza ridestare i fantasmi del passato. Parigi, invece, ha definitivamente perso l’Africa e gli africani 5. La grandeur resiste, ma è un guscio vuoto. In sintesi: siamo in fase di transizione egemonica. Gli americani non sanno chi sono e cosa vogliono, i tedeschi abitano il «complesso di Weimar» 6 mentre i francesi, forse perché troppo innamorati di sé stessi, si scoprono depressi e impotenti. Nel mentre, Guerra Grande infuria in Ucraina, in Terrasanta e nel Mar Rosso. Aspettando Taiwan come si aspetta Godot. Parafrasando Shakespeare, «the world is out of joint» 7. I vincoli che lo tenevano insieme si stanno sciogliendo, come gli orologi de La persistenza della memoria di Salvador Dalì. E tuttavia, se la geopolitica fosse scienza dura e astorica, un acuto osservatore non mancherebbe di farci notare come, in realtà, per l’Italia si stiano aprendo enormi finestre d’opportunità. Il disimpegno americano ci permetterebbe di proporci come soggetti riconosciuti nel Mediterraneo-Medioceano cui dobbiamo la nostra sopravvivenza. La crisi tedesca potrebbe aprire degli spiragli per ridiscutere il trattato di Maastricht, il patto di stabilità e altre follie, come il pareggio di bilancio in costituzione. Da ultimo, la fine della Françafrique ci candida automaticamente a soggetto geopolitico eurafricano. Non avendo un passato coloniale paragonabile a quello francese (o avendolo completamente rimosso), potremmo proporci come partner alla pari dei paesi del Maghreb e del Sahel, trasformandoci in inaggirabile hub energetico e logistico 8. Tutto questo, direbbe il nostro acuto osservatore, è oggettivo. Non c’è un motivo per cui Roma non debba approfittare di questa situazione. Se ciò non dovesse avvenire, la responsabilità sarà senza dubbio dell’assolutamente inetta e incapace «attuale classe dirigente». Purtroppo, però, le cose non sono così semplici. E ci dispiace. Altrimenti, alle prossime elezioni avremmo certamente votato per il nostro acuto osservatore. Il quale, pur avendo perfettamente ragione nel merito, sbaglia completamente nel metodo. Il problema fondamentale è che l’Italia ha basato la sua costituzione geopolitica sul concetto stesso di vincolo esterno. Abbiamo sovrapposto i nostri interessi a quelli americani e a quelli europei, convinti che gli altri paesi avrebbero fatto lo stesso. Abbiamo creduto all’ideologia della Pax Americana più degli americani stessi, nonostante – dopo la fine della guerra fredda – il nostro estero vicino abbia conosciuto più volte la guerra (Jugoslavia e Libia). Abbiamo considerato l’Unione Europea un fine in sé, mentre tutti gli altri la trattavano per quello che è (era?): un utile mezzo per promuovere specifici interessi nazionali. Il venir meno di queste strutture, implicito nella transizione egemonica cui stiamo assistendo, non porta Roma – come vorrebbe il nostro acuto osservatore – a guardare oggettivamente ai Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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5. Cfr. Limes, 8/2023, «Africa contro Occidente». 6. G. MARIOTTO, «La Germania travolta da sé stessa», Limes, 1/2024, «Stiamo perdendo la guerra», pp. 233-243. 7. Il riferimento è ovviamente al celeberrimo scardinamento del tempo – «Time is out of joint» - tematizzato da Shakespeare in Amleto, Atto I, Scena V. 8. F. MARONTA, «Smettiamo di giocare ai piccoli francesi», Limes, 8/2023, «Africa contro Occidente», pp. 167-171.
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propri interessi, ma la pone in una situazione di sgomento e di spaesamento. L’Italia assiste al passaggio d’epoca con uno sguardo pieno di timore. Non intravede nella crisi l’opportunità. Piuttosto, come il folle nietzscheano che annuncia la morte di Dio, si chiede – carica d’angoscia – «esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?» 9. Abituata ai vincoli esterni, Roma ne teme l’assenza. Tipica Angst vor der Freiheit (angoscia della libertà). La notte pare farsi sempre più scura. E, nell’oscurità, è difficile allenare lo sguardo per cogliere oggettivamente le opportunità che si aprono. Ecco cosa mancava al ragionamento, accademicamente perfetto, del nostro acuto osservatore: la storia. Non è possibile tracciare gli interessi di un soggetto geopolitico senza comprenderne il passato, senza conoscerne traumi e abitudini. E la nostra storia, ci piaccia o meno, è per larga parte la storia dei vincoli che ci siamo scelti per rimanere inoperosi. Ma, a differenza di Bartleby lo scrivano, protagonista dell’omonimo racconto di Melville 10, non abbiamo scelto l’inoperosità – il proverbiale «I would prefer not to» – per sottrarci all’arbitrio dei nostri superiori. Piuttosto, l’abbiamo scelta proprio per liberarci dal peso della scelta. Per evitare di affrontare il nostro passato, le nostre responsabilità e, dunque, il nostro futuro. Ciononostante, è difficile essere in disaccordo con l’acuto osservatore più volte menzionato. L’attuale congiuntura offre all’Italia delle opportunità. Ma, per riuscire a coglierle, bisognerà prima guardarci dentro. Per scoprire, nel susseguirsi dei vincoli esterni, una qualche forma di rimosso. Utile per affrontare il presente. E magari anche il futuro. 2. Se il vincolo esterno fosse solo il frutto di scelte politiche, liberarsene o aggiornarlo sarebbe cosa semplice. Purtroppo non è così. L’idea secondo la quale l’Italia non è in grado di badare a sé stessa e dunque necessita di un tutore per non finire nel baratro ha un’incredibile profondità storica. La quale, con il passare dei secoli, si è sedimentata nella psicologia collettiva del Belpaese. Al punto da configurarsi oramai come tratto antropologico che gli italiani si autoattribuiscono. A voler andare davvero in profondità, il mitologema del vincolo esterno potrebbe essere fatto risalire a Dante. In particolare alla misteriosa figura del Veltro. Ovviamente, la simbologia dantesca è piena di rimandi allegorici, mistici e teologici, ma il punto è che – nella vulgata – queste pagine del sommo poeta sono state lette in maniera estremamente politica 11. Il Veltro appare per la prima volta nel Canto I dell’Inferno. In questo contesto, Virgilio profetizza il suo avvento pur rimanendo estremamente vago, limitandosi ad affermare che esso porterà alla salvezza «di quella umile Italia» 12 dilaniata da Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
9. F. NIETZSCHE, La Gaia Scienza, Milano 2018, Adelphi, aforisma 125. 10. H. MELVILLE, Bartleby, lo scrivano, Milano 2019, Mondadori. Per un’interpretazione dell’inoperosità, G. DELEUZE, G. AGAMBEN, Bartleby. La formula della creazione, Milano 1993, Quodlibet. 11. H. KELSEN, La teoria dello Stato in Dante, Bologna 1974, Massimiliano Boni Editore. 12. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inferno, Canto I, v. 106. Cito dall’edizione Einaudi, a cura di Roberto Mercuri.
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cupidigia e invidie. Per avere un’idea più precisa circa l’identità del Veltro, bisognerà attendere fino al Canto VI del Purgatorio. Tuttavia, quel che a noi interessa non è cercare di capire a quale personaggio storico Dante si riferisca con tale immagine. Piuttosto, ciò che per i nostri scopi è più interessante è mostrare come in questi versi danteschi si sviluppino le principali caratteristiche del concetto di vincolo esterno. L’occasione è l’invettiva di Dante contro l’Italia (Purg. VI, vv. 76-126), icasticamente definita «nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!» 13 Nonostante la crudezza del celebre secondo verso, il centro semantico di questo passaggio, che infatti ricorre per il resto del componimento, è il «sanza nocchiere». L’Italia, pur essendo in tempesta, si scopre priva di una guida riconosciuta e legittima, nonostante lo straordinario lavoro giuridico promosso da Giustiniano, il quale – già nel 534 d. C. – aveva varato il Corpus Iuris Civilis. In questi passaggi, Dante manifesta quella tragicità realistica che lo rende davvero il padre dell’umanesimo italiano 14. A essere annunciata è infatti la scissione tra forma e contenuto, tra la bellezza del Codex Iustiniani e il fatto che, però, non c’è nessuno in grado di applicarlo: «Che val perché ti racconciasse il freno/ Iustinïano, se la sella è vòta?» 15. Di chi è la colpa? Per Dante, c’è un chiaro responsabile: Alberto d’Asburgo, reo d’aver abbandonato l’Italia a sé stessa, rifiutandosi di stringere il «freno» e gli «arcioni» 16 della sella. L’Italia viene qui paragonata a un cavallo impazzito, privo di vincoli e «sproni» 17 capaci di domarla. Il Belpaese, dilaniato dalle lotte intestine e dagli abusi, necessita dunque di una figura in grado letteralmente di vincolarlo. Solo così, prosegue Dante, la penisola potrà tornare a occupare il posto che le spetta. Quale? Semplice: «giardin de lo ’mperio» 18. Prospettiva interessante: incapace di governarsi da sola, l’Italia necessita di un intervento esterno per garantirsi una tranquilla esistenza da provincia asburgica 19. Non si tratta di «fare l’Italia», quanto di garantire alla penisola una vita pacifica, armoniosa, libera dalle faziosità e dagli intrighi che la rendono simile a una meretrice 20. Estremamente interessante nell’analisi dantesca è come l’impero abbia quasi il dovere morale di salvare l’Italia, spesso rappresentata come una fanciulla in difficoltà, minacciata da draghi e giganti 21. In questo registro linguistico è impossibile non avvertire un’eco della lirica cortese. Gli Asburgo sono infatti raffigurati come dei cavalieri chiamati a soccorrere una donzella in difficoltà – cioè l’Italia – a qualsiasi costo, secondo i dettami dell’etica cavalleresca. Qualora si tirassero indietro, il 13. Id., Purgatorio, Canto VI, vv. 77-78. 14. Su questo, M. CACCIARI, La mente inquieta. Saggio sull’umanesimo, Torino 2019, Einaudi. 15. D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI, vv. 88-90. 16. Ivi, v. 99. 17. Ivi, v. 95. 18. Ivi, v. 105. 19. Chi sarà individuato per questa impresa è Arrigo VII di Lussemburgo, figlio di Alberto. Costui, come il padre, non porterà a termine l’impresa. La penisola resterà in tempesta, che poi virerà in vero e proprio uragano con il mezzo secolo delle guerra d’Italia (1494-1559). 20. L’immagine ricorre, oltre che nel celeberrimo passo di Purgatorio VI, anche in Purgatorio XXXIII, v. 44. 21. Ibidem. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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loro onore ne sarebbe per sempre macchiato. Anzi, qualora l’imperatore dovesse abdicare alla sua missione salvifica, precisa Dante, egli andrebbe incontro a una punizione divina talmente potente da spaventare tutti i suoi successori 22. Insomma, l’Italia è soggetto fondamentalmente passivo. Essa deve essere salvata. Non deve salvarsi. La salvezza viene da fuori e presuppone l’esistenza di un soggetto esterno in grado di reprimere la cupidigia, le divisioni e la brama di potere di una donna angelica che, però, è sempre sul punto di trasformarsi in meretrice. Il mitologema del vincolo esterno nasce qui. 3. Non possiamo analizzare tutte le incarnazioni del vincolo esterno. Una tale analisi ci porterebbe troppo lontano e, soprattutto, sarebbe ripetitiva, dal momento che lo schema concettuale è sempre lo stesso: l’Italia, litigiosa e incapace di controllarsi, deve essere salvata da un Veltro straniero, ovvero da una figura in grado di ergersi al di sopra delle parti e di dirimere le tensioni che dilaniano il Belpaese. Questo è il ragionamento portante. Poco importa, poi, se esso viene espresso dalle note liriche di Foscolo – che attende l’arrivo di Napoleone – o dalle espressioni più prosaiche della coscienza popolare, magnificamente sintetizzate nell’eloquente adagio «Franza o Spagna purché se magna». E tuttavia, l’attuale congiuntura geopolitica ci obbliga a riflettere sulla genesi culturale dei due vincoli esterni che oggi paiono in crisi: quello americano e quello europeo. Risalire alla loro origine, infatti, ci permetterà anche di comprendere a cosa Roma ha, consapevolmente o no, rinunciato. Scavando nella profondità dei vincoli, nostro obiettivo sarà dunque cercare di riportare alla luce delle stratificazioni, dei passati che – presenti nelle profondità mnestiche del nostro paese – sono stati sacrificati sull’altare dell’esterofilia. E che oggi, dinnanzi al crollo del vecchio mondo, possono aiutarci a illuminare il chiaroscuro che stiamo vivendo. Evitando che si generino mostri. La nostra analisi non mirerà, dunque, a ricostruire le ragioni politiche o economiche che hanno portato Roma a aderire all’impero europeo dell’America prima e all’Unione Europea poi (ammesso e non concesso che abbia senso tenere queste dimensioni separate) 23. Piuttosto, cercheremo di ricostruire il clima culturale di quegli anni, così da mostrare come la scelta di affidarsi a un vincolo esterno fosse basata su profondissime questioni storiche e antropologiche. Infatti, per quanto l’affannosa ricerca di vincoli esterni rischi di condannare l’Italia a una dimensione esostorica 24, essa ha, paradossalmente, una radice storica. E in questa contraddizione parrebbe risiedere la sua drammatica potenza: è davvero la nostra storia a spingerci verso l’esostoria? Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
22. Cfr. ivi, Canto VI, vv. 100-102 «giusto giudicio da le stelle caggia/ sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto,/ tal che ’l tuo successor temenza n’aggia!». 23. Peraltro, Limes si è più volte dedicato a tale lavoro. Cfr. Limes, 4/2019, «Antieuropa: l’impero europeo dell’America», e 4/2020, «Il vincolo interno». 24. Letteralmente «fuori dalla storia», condizione ancora più pericolosa del post-storicismo. L’espressione, a quanto ricordi, l’ho sentita per la prima volta da Federico Petroni durante una lezione della Scuola di Limes.
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Per tentare di imbastire una risposta, iniziamo dal caso americano. O meglio, da come – dopo la seconda guerra mondiale – si è diffusa l’idea dell’illegittimità storico-politica del popolo italiano. In quegli anni, il ventennio fascista era visto come una macchia indelebile, che poteva essere lavata solo in due maniere: o considerandolo un qualcosa di estraneo, una parentesi, un’«invasione degli hyksos» o legandolo indissolubilmente a una certa «italianità» che andava estirpata e rimossa. Le due letture sono al contempo divergenti e convergenti: divergono perché la prima – crociana – è caratterizzata dal rifiuto di storicizzare il fascismo, mentre la seconda lega, in qualche modo, l’esperienza fascista a una certa antropologia, al modus vivendi dell’homo italicus, caratterizzato dall’indifferenza e dal «me ne frego» 25. E tuttavia, le due letture convergono nel sostenere che, dopo il ventennio, il popolo italiano dovrà fondarsi su valori completamente nuovi. Per evitare che il fascismo latente - «eterno», direbbe Eco – torni a impossessarsi degli italiani, c’è insomma bisogno di un vincolo capace di portare l’Italia nel futuro, evitando che strapiombi nel passato. E cosa c’è di più nuovo, inedito e sorridente degli Stati Uniti d’America? Probabilmente, non esiste libro di storia o documento in grado di spiegare questo processo meglio de Il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Nel narrare la storia della resistenza, lo scrittore di Alba compie infatti una scelta stilistica inaudita per la letteratura italiana: il protagonista del romanzo, Johnny, parla con una lingua in cui italiano e inglese sono alternati e mescolati. Il motivo è che Fenoglio, dopo l’esperienza fascista, considerava la lingua italiana fondamentalmente impura, contaminata con la retorica mussoliniana e, dunque, incapace di raccontare la resistenza 26. Il partigiano Johnny non vive col mito dell’Italia, ma con quello degli Stati Uniti. È la voce di un ragazzo stanco della Vecchia Europa 27, che vorrebbe soltanto ricominciare da zero. E quindi dall’America: «Gli americani sono un’altra cosa, no? Più puliti» 28. E tuttavia, c’è un elemento che non può non saltare agli occhi. Il partigiano Johnny non è un semplice romanzo di costume o d’avventura. È un romanzo della resistenza. Narra la storia di un momento in teoria glorioso, di una guerra (a tratti civile) di liberazione nazionale. Ma Fenoglio non vuole trasformare la resistenza in un mito italiano. Non può farlo. In quanto italiana, anch’essa è impura. C’è stata resistenza perché c’è stato fascismo e, dunque, la lotta partigiana non può configurarsi come un vincolo interno in grado di unire definitivamente il paese nel suo ricordo. Piuttosto, essa viene rappresentata come un intermezzo necessario per traghettare l’Italia dal (cattivo) vincolo nazi-fascista al (buon) vincolo americano. La guerra di Johnny non mira alla rinascita dell’Italia 29. Il protagonista non vive per Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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25. P. ZUNINO, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 2013, il Mulino. 26. D. ISELLA, La lingua de Il Partigiano Johnny, in B. FENOGLIO, Il Partigiano Johnny, Torino 2022, Einaudi, pp. 469-493. 27. Cfr. ivi, p. 105. «I’ll get out of this all… I can’t abide it. I won’t never again go through this all. I’ve had really too much of this all». 28. Ivi, p. 9. 29. E, non a caso, in Una questione privata, la resistenza diventa letteralmente una questione privata, personale. Non c’è alcun mitologema nazionale.
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questo. Come scrive Fenoglio, egli «non viveva più che per i turni della Voce dell’America» 30. Il vincolo americano, dunque, non nasce solo con matrice strategica e politica. Piuttosto, esso aveva anche una forte carica storica e antropologica: l’America era vista come il luogo del domani e, dunque, essa si configurava come l’appiglio ideale per un paese che stava cercando in ogni modo di scrollarsi di dosso il passato. Se l’obiettivo degli italiani era tornare all’ora zero, allora era l’orologio di Washington quello su cui bisognava sintonizzarsi. Se lo ieri appariva luttuoso, l’America era il paese del futuro. Agganciarsi al vincolo americano non significava solo Nato e Piano Marshall, ma anche aderire a una visione progressiva della storia, a un modo di stare al mondo più leggero. Si trattava, finalmente, di diventare «giardin de lo ’mperio». Modus vivendi perfetto per non fare i conti con quel passato che avevamo deciso di mettere nel congelatore. 4. Se, da un punto di vista culturale, l’adesione al vincolo americano deve essere letta come il tentativo di legarsi a una filosofia della storia progressista e fondamentalmente poco orientata al passato, l’adesione al vincolo europeo – per come è stata raccontata – si configura invece come un paradossale tentativo di salvare l’Italia da sé stessa e dagli italiani. Come scrive Guido Carli nelle sue memorie, infatti, la progressiva adesione del Belpaese ai vincoli europei «nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo paese» 31. Nelle parole dell’ex governatore della Banca d’Italia risuonano echi danteschi. Il popolo italiano è caratterizzato da istinti animali che, se non governati e adeguatamente vincolati, avrebbero causato la distruzione del paese. Per placarli c’è dunque bisogno di un Veltro straniero al quale ancorarci. Obiettivo: costruire «altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria» 32. Tale prospettiva è basata su una peculiare autointerpretazione antropologica, secondo cui gli italiani sarebbero «ingovernabili» perché cinici, furbi e sospettosi. In un testo pubblicato in inglese nel 1963 per spiegare al pubblico internazionale il carattere nazionale degli italiani, Luigi Barzini scrive infatti che la priorità esistenziale di questi ultimi è quella di «non esser fatti fessi». Secondo l’autore di The Italians, infatti, «essere fatto fesso è l’ignominia ultima, così come la credulità è la colpa innominabile» 33. E quali sono, secondo Barzini, gli italici idealtipi dei fessacchioni e dei creduloni? Semplice, chi si fa tradire dal partner e chi rispetta le leggi 34. Ovviamente, poi, anche la classe politica è connotata antropologicamente. Essa è infatti sempre pronta ad applicare il principio giolittiano secondo cui «per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano». Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
30. ID., Il Partigiano Johnny, cit., p. 9. 31. G. CARLI (in collaborazione con P. PELUFFO), Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari 1993, Laterza, p. 267. 32. Ivi, p. 8. 33. L. BARZINI, Gli italiani, Milano 1965, Mondadori, p. 223 34. Ibidem.
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Il vincolo europeo, dunque, si configura come antidoto all’Italian way of life, caratterizzata da favoritismo, nepotismo e inaffidabilità. Infatti, se tutti gli italiani – politici in testa – sono furbi, chiacchieroni e potenziali approfittatori, allora è necessario che la stabilità venga ricercata fuori dall’Italia. Solo così sarà possibile porre un freno agli istinti animali che pervadono la penisola. Antropologia spiccia, purtroppo apparentemente confermata dai fatti. La situazione esplode infatti con il crollo della Prima Repubblica, a seguito dell’inchiesta Mani Pulite. Per gli italiani, e anche per una certa élite culturale, Tangentopoli è la prova dell’inaffidabilità del Belpaese e della faziosità truffaldina della sua classe dirigente. I partiti, in precedenza autentici luoghi di socializzazione, educazione e cultura politica, si svelano come detentori di un potere che viene esercitato in maniera arbitraria e disonesta. Il sistema politico italiano, basato costituzionalmente su una commistione tra Stato debole e partiti forti, si ritrova paradossalmente con uno Stato ancora più debole e senza partiti. Come rianimarlo, soprattutto in una congiuntura economica complicatissima? La soluzione è paradossale ed è ben riassunta da Carli. Con la firma del trattato di Maastricht, l’Italia «sottrae allo Stato gran parte dei poteri di sovranità monetaria. Li trasferisce a livello internazionale e li restituisce così ai cittadini» 35. Dal momento che le forze politiche italiane – faziose, inaffidabili e interessate solo alla loro riproduzione – erano incapaci di gestire le finanze pubbliche in maniera democratica ed efficiente, allora era necessario l’intervento di un’entità esterna, assolutamente neutra e lontana dai giochi di potere della politica nostrana. Tale operazione, come nota lo stesso Carli, non aveva solo un obiettivo economico. Al contrario, essa era pensata anche «per conseguire la moralizzazione della vita pubblica» 36. L’Italia non era soltanto tecnicamente incapace di gestire i propri denari. Non ne era nemmeno moralmente degna. Il vincolo europeo si configura allora come rimedio alla crisi di legittimità della classe politica italiana. Nello stato d’eccezione seguito al crollo del Muro portante 37 e dunque della Prima Repubblica, ci si è affidati a una figura che, per rimanere nella simbologia dantesca, assomiglia al DXV (Cinquecentodieci e cinque) annunciato nel Canto XXXIII del Purgatorio. Questa figura misteriosa e senza volto è un «messo di Dio» 38 incaricato di salvare, nuovamente, l’Italia e la Chiesa. Ma resta avvolto nel mistero: ancora oggi i commentatori dibattono sulla sua identità, cercando di capire se il DXV (anagramma di DVX) sia effettivamente il Veltro o un’altra figura (c’è chi sostiene, in base a ragionamenti cabalistici, che potrebbe addirittura essere Dante). Non vogliamo entrare in questo dibattito, anche perché è proprio la vaghezza di questa figura che ci aiuta a comprendere come la classe politica italiana abbia guardato all’Unione Europea: essa era vista come un potere senza volto, etereo, perfettamente neutro e provvidenziale. Dunque perfetto per vincolare la concretissima, faziosissima e nefasta classe politica italiana. Insomma, più Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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35. 36. 37. 38.
G. CARLI, op. cit., p. 7. Ivi, p. 12. Limes, 10/2019, «Il Muro portante». D. ALIGHIERI, La Divina Commedia, Purgatorio, Canto XXXIII, v. 44.
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prosaicamente, il DXV europeo «ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo a risolvere per le vie ordinarie del governo e del parlamento» 39. Ovvero quelle della democrazia parlamentare: «Ancora una volta, dobbiamo ammettere che un cambiamento strutturale avviene attraverso l’imposizione di un “vincolo esterno”. (…) Ancora una volta si è dovuto aggirare il parlamento sovrano della Repubblica» 40. Il vincolo europeo è dunque dipinto come il negativo del modus vivendi italiano. Se questo è caratterizzato da incapacità, quello è competente; se noi siamo faziosi, l’Unione Europea è oggettiva, neutra, priva di interessi. È un cavaliere senza macchia pronto a salvarci, come Arrigo VII di Lussemburgo, per i nostri begli occhi. Che l’Europa fosse moltiplicatore geopolitico (Francia) e geoeconomico (Germania) non ci passava minimamente per la mente. Noi mandavamo in soffitta lo Stato nazionale 41. Gli altri usavano l’Unione per rinvigorirlo. C’è poco da lamentarsi. Siamo stati noi a rifiutarci di guardare il DXV negli occhi. 5. Alla luce di questa storia, si comprende perché lo scioglimento dei vincoli è per Roma profondissimo trauma geopolitico. Siamo privati del Gängelwagen, del «girello da bambini» che Kant riteneva tipico di chi vive nello stato di minorità 42. Siamo obbligati a muoverci e a ripensare il nostro rapporto col mondo e con il nostro passato, per evitare che la nostra storia ci conduca direttamente nell’esostoria. Come già si notava più di vent’anni fa, «la stagione del vincolo “esterno” è finita con tutti gli onori. Ora si tratta di afferrarsi a un “vincolo interno”, di trovare in noi, qui in Italia e non in qualche mito eteronomo, le ragioni della nostra convivenza nazionale e democratica» 43. Insomma, il mondo è cambiato. Leuropa e Lamerica non sono più percepiti come Veltri salvifici. Non possono più esserlo. Dobbiamo imparare a fare da soli. L’attuale congiuntura geopolitica ci apre delle finestre di opportunità. Ma, per coglierle, dobbiamo mutare il nostro rapporto col mondo e smettere di pensarci destinati all’eteronomia. Le intemperie del presente ci obbligano a ripensare il nostro passato per mutare il nostro futuro. Per farlo, cerchiamo qui di indicare tre direttrici di pensiero che, se declinate pedagogicamente e culturalmente, potrebbero arrestare la nostra apparentemente inarrestabile caduta nell’esostoria. Prima questione: la nostra storia non è fatta solo di vincoli esterni. O meglio, il pensiero politico italiano non è riducibile alla teoria dell’eterodirezione. Troppo assuefatti all’esterofilia, tendiamo a dimenticare come il concetto moderno di Stato sia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
39. G. CARLI, op. cit., p. 435. 40. Ivi, p. 8. 41. Prospettiva implicita nella letteratura europeista, sia in quella democristiana sia in quella comunista. 42. Ci permettiamo di citare Kant, nonostante da Kaliningrad ci informino che l’autore della Critica della Ragion Pura sia il principale responsabile della guerra d’Ucraina. Nemo propheta in patria. Cfr. A. FEERTCHACK, «Emmanuel Kant, responsable de la guerre en Ukraine, selon le gouverneur russe de Kaliningrad», Le Figaro, 13/2/2024. 43. L. CARACCIOLO, Terra Incognita. Le radici geopolitiche della nostra crisi, Roma-Bari 2001, Laterza, p. 103.
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IL VINCOLO ESTERNO (NON) È UN DESTINO
nato proprio in Italia. Jean Bodin, canonicamente considerato il primo teorico della sovranità, non sarebbe esistito senza Machiavelli 44. Il quale, non a caso, viene indicato nei manuali di strategia americana come l’inventore di quella disciplina «artigianale» che è la statecraft 45. Agli occhi degli studiosi e dei decisori americani, Machiavelli è tappa pedagogica inevitabile. Come scrive Matthew Kroenig nella riedizione di The Makers of Modern Strategy, curata da Hal Brands, influente allievo di Kissinger, il segretario fiorentino «ha trasformato il pensiero politico moderno e, nel farlo, ha di fatto creato il moderno concetto di strategia. Ha enfatizzato la “verità della cosa”, studiando il mondo per come è e non per come dovrebbe essere. Separando morale e politica, Machiavelli ha permesso agli strateghi successivi di esaminare i comportamenti politici sulla base della loro efficacia, non della loro bontà» 46. In Italia, Machiavelli non gode della stessa fortuna. Conteso tra i dipartimenti di Letteratura e quelli di Filosofia, l’eredità del pensatore fiorentino si è diluita nello studio filologico e nella sua storia degli effetti. Tradotto: non studiamo Machiavelli per capire chi siamo e cosa potremmo essere, ma per vedere quanto abbia influenzato Hobbes, Spinoza o Bodin. E, invece, l’eredità del segretario fiorentino dovrebbe essere centrale in una fase come quella attuale, caratterizzata dal caos – che il nostro avrebbe definito fortuna – e dalla necessità, non più rimandabile, di procedere alle «necessarie riforme» per salvare lo Stato. Insomma, l’esistenza stessa di Machiavelli certifica come la nostra storia non sia riducibile a quella di un paese esclusivamente passivo. Al contrario, egli ci mostra chiaramente la necessità di una soggettività attiva: al caos non si resiste con la stasi, con il melvilliano «I would prefer not to», ma con l’azione e con la strategia. In una battuta: abbiamo bisogno di un Principe, ovvero di uno Stato in grado di costruire argini per ripararci dalla fortuna, e non di un Veltro. Una pedagogia nazionale che vada in questa direzione è oggi più necessaria che mai. Seconda e conseguente questione: l’Italia deve definire chiaramente i propri interessi nazionali e non può più permettersi di rinunciare alla sua sovranità nella (in)fondata speranza che anche gli altri lo facciano. Per farlo, è fondamentale fare davvero i conti con il fascismo. Bisogna storicizzare il Ventennio, così da evitare che qualsiasi riferimento alla sovranità o all’interesse nazionale possa essere bollato fascista 47. Non possiamo più nasconderci dietro alla foglia di fico di Leuropa o affidarci toto corde al Veltro americano: abbiamo dei chiari interessi nazionali dai quali dipendiamo esistenzialmente e dobbiamo avere la capacità di farli rispettare. E, prima o poi, bisognerà anche riesumare il concetto machiavelliano di «armi proprie» 48. Terza e ultima questione: gli italiani devono prendere coscienza della loro unità e uniformità nazionale. È incomprensibile che gli abitanti del Belpaese si Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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44. Su questo, G. MARRAMAO, Potere e Secolarizzazione, Torino 2005, Bollati Boringhieri. 45. P. PARET (a cura di), The Makers of Modern Strategy, Princeton 2010, Princeton University Press. Si veda in particolare il capitolo su Machiavelli curato da Felix Gilbert. 46. M. KROENIG, «Machiavelli and the Naissance of Modern Strategy», in H. BRANDS (a cura di), The new makers of modern strategy, Princeton 2023, Princeton University Press, p. 91. 47. Si veda C. GALLI, Sovranità, Bologna 2019, Il Mulino. 48. Su questo, si veda l’articolo di G. DOTTORI in questo volume.
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considerino più disuniti dei francesi o dei tedeschi. Questo dato è semplicemente falso: per cultura, modo di vivere e di stare al mondo gli italiani sono molto più uniti di quanto amino raccontarsi. A meno da non voler considerare le faglie generate dal calcio o dal Festival di Sanremo altrettanto profonde di quelle che in Germania dividono Ossis e Wessis e che in Francia dividono città e campagna, centro e banlieue. Affermare che la litigiosità degli italiani sulle frivolezze calcistiche o musicali sia il sintomo di un paese disunito e ancora non unificato significa negare il principio di realtà. Evidentemente, se litighiamo su Sanremo e sulla Serie A è perché non abbiamo cose più serie su cui farlo. Per fortuna. Insomma, dobbiamo renderci conto che non abbiamo bisogno di un vincolo esterno per unirci. Un vincolo interno c’è già. Si tratta tuttavia di riscoprirlo e di riportarlo alla luce, superando anche le tendenze della storiografia nostrana a insistere sulle nostre divisioni e sulle malefatte di questa o quell’altra parte. Ogni comunità nazionale si forgia nella guerra, anche civile. Ma per diventare soggetto geopolitico, essa deve essere in grado di sopportare il suo passato, facendoci i conti e assumendosene le responsabilità. Si tratta di un’operazione storiografica e pedagogica da far tremare i polsi. Essa, tuttavia, non è più rimandabile. L’alternativa è salire in groppa all’ennesimo Veltro immaginario, questa volta prenotando un viaggio di sola andata verso l’esostoria.*
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Questo articolo sarebbe stato impossibile senza Benedetta Alaimo, che ringrazio.
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LA CRISI DELL’UNIVERSITÀ È IL SUICIDIO DELLO STATO
di Agnese
ROSSI
Anni di disinvestimento hanno prodotto un’accademia precarizzata e asservita al mercato. La trappola autoreferenziale. Il falso dilemma tra sapere teorico e pratico. L’academica mediocritas si sconfigge rendendo gli atenei fucina di italiani consapevoli.
I
1. L SISTEMA ACCADEMICO È UN’ENTITÀ AL contempo materiale e immateriale, la cui natura interseca sistema di potere e sistema di sapere, infrastruttura e cultura, produzione e riproduzione della conoscenza scientifica. In ragione di questo carattere complesso e trasversale, le condizioni delle istituzioni universitarie dicono molto del paese cui pertengono, a partire dall’immagine che questo ha (o vuole diffondere) di sé e dalla profondità della sua proiezione nel futuro. La crisi del sistema accademico italiano è quindi un fenomeno difficilmente circoscrivibile, per origini e ripercussioni, entro le mura dei nostri atenei. Cosa intendiamo per crisi? Anni di riforme inefficaci e di tagli all’istruzione superiore e alla ricerca hanno eroso le risorse materiali a disposizione delle università, generando profonde ricadute sociali, economiche, territoriali, politiche, culturali. Ma la miopia con cui le diverse classi politiche hanno gestito la questione universitaria è solo l’epifenomeno della vera e propria crisi di senso su quale debba essere il ruolo dell’accademia nella nostra comunità. In uno studio del 1984 Pierre Bourdieu rilevava come, lungi dall’essere il regno del pensiero critico e della libertà intellettuale, il mondo universitario abbia come imperativo primario la riproduzione di sé stesso e di un sapere che legittimi, piuttosto che questionare, i rapporti di potere esistenti. Homo academicus 1 è una testimonianza preziosa soprattutto in quanto raro documento di autocritica del sistema accademico. Bourdieu, come sociologo e professore universitario francese, si cimenta nell’impresa di delineare l’anatomia di uno dei campi in cui il potere si esplica in forma più immateriale, quello della creazione del sapere. L’università, terreno mai neutro di produzione culturale, è infatti governata da leggi, gerarchie Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. P. BOURDIEU, Homo academicus, Bari 2013, Dedalo, p. 85.
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e interessi specifici. Spesso abbastanza robusti da dar vita a delle «società nella società». Che a seconda del momento storico hanno interagito con le autorità politiche in termini sinergici o conflittuali. Raccogliamo l’invito di Loïc Wacquant, autore di un saggio pubblicato in occasione della traduzione inglese del volume, che esortava a una lettura generativa dell’analisi di Bourdieu. E proviamo a sostituire l’homo academicus gallicus con l’homo academicus italicus. Per storia, potenziale e soprattutto necessità, le università italiane potrebbero svolgere una funzione decisiva nel produrre una cultura – scientifica ma anche strategica – comune. Così non è. E non tanto perché l’accademia sia un empireo isolato dal resto del mondo, ma perché la sua interazione con il potere pubblico e politico del nostro paese dà origine a una dialettica che accentua, piuttosto che sanare, vulnerabilità preesistenti. Questione che culmina nel problema della formazione della classe dirigente. 2. Qualche numero. In Italia gli iscritti a un corso universitario sono oggi circa 1 milione e 949 mila, oltre il 10% in più rispetto al 2011. La crescita va soprattutto a vantaggio delle università telematiche, i cui studenti si sono moltiplicati nel giro di un decennio: dai circa 44 mila nell’anno accademico 2011/12 ai 224 mila nel 2021/22 (l’11,5% del totale degli universitari), mentre le università tradizionali registrano nello stesso periodo un aumento di soli 2 mila studenti (da 1 milione e 723 mila a 1 milione e 725 mila) 2. Benché in termini assoluti la popolazione tra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo di istruzione terziaria sia in aumento – nel 2021 era il 28,3%, rispetto al 21% di dieci anni prima 3 – l’Italia rimane il penultimo paese dell’Unione Europea per numero di laureati, seguito solo dalla Romania e ampiamente scavalcato da paesi come Francia (50,3%), Spagna (48,7%), Germania (35,9%) 4. A spiegare questa congiuntura concorre uno dei tassi più alti di dispersione accademica fra i paesi Ocse: al termine della durata normale del corso di studi di riferimento, in Italia quasi un iscritto su tre (30,8%) ha abbandonato l’università. Il dato è quasi o più che dimezzato nei paesi considerati sopra. Questo scarto può essere in parte motivato con la scarsa offerta di corsi terziari di ciclo breve professionalizzanti, che in molti vicini europei rappresentano una parte importante dei titoli di laurea conseguiti. Il triste primato di paese più vecchio d’Europa restringe poi notevolmente la coorte di giovani in età universitaria rispetto a quella di altri paesi. Ma ciò non basta a spiegare la sostanziale diffidenza di molti diplomati italiani nei confronti dell’università, spesso abbandonata precocemente o scartata a monte come opzione formativa anche in assenza di alternative concrete. La percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che non studia, non lavora né è inserita in percorsi di formazione è del 27%, dato di gran lunga superiore alla media dei paesi Ocse (16%). Il fenomeno fa da complemento all’emorragia di giovani verso l’estero: dal Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. «Rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca», Anvur, 2023, p. 29. 3. Ivi, pp. 164-5. 4. «Educational attainment statistics», Eurostat, maggio 2023.
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2012 al 2021 sono stati 337 mila gli espatriati di età compresa tra 25 e 35 anni, 120 mila dei quali in possesso di una laurea 5. La crescita del numero di universitari italiani iscritti all’estero non è controbilanciata dall’ingresso di studenti provenienti da altri paesi, la cui presenza nei nostri atenei si è assai ridotta negli ultimi dieci anni ed è comunque molto limitata in termini assoluti (nel 2020 era pari al 2,9% degli iscritti). Se nel 2013 l’Italia poteva vantare un saldo migratorio studentesco positivo (+37 mila studenti), nel 2020 ha lasciato fluire all’estero molti più studenti di quanti ne abbia guadagnati (-20 mila iscritti) 6. Il dato più importante è l’impatto territoriale di questa congiuntura. In un’infelice concatenazione migratoria interna, molti giovani lasciano il Sud alla volta degli atenei del Centro o del Nord, da dove invece tanti partono alla volta dell’estero vicino o lontano. Le regioni centro-settentrionali compensano l’emorragia grazie all’afflusso di studenti meridionali (nel 2021 quasi uno su tre si è trasferito al Nord per motivi di studio) 7. Le università del Sud, al contrario, dal 2010 hanno perso circa 100 mila studenti. Nel giro di qualche decennio, diversi di questi atenei potrebbero scomparire per spopolamento. Rischio inasprito dall’avanzato processo di invecchiamento della popolazione, nel Mezzogiorno più marcato che nel resto del paese. Il meccanismo di finanziamento pubblico delle università (Fondo di finanziamento ordinario) tende a svantaggiare ulteriormente i centri universitari meridionali attraverso la cosiddetta quota premiale, che assegna fondi aggiuntivi agli atenei che si distinguono per la qualità della ricerca, dell’offerta formativa e delle sedi didattiche: parametri che, come sottolinea Gianfranco Viesti 8, premiano le università già in salute e penalizzano quelle in difficoltà. L’architettura del sistema universitario italiano, dunque, oltre a scontare vulnerabilità e fratture preesistenti contribuisce ad amplificarle, a riprodurle. Approfondendo così il già drammatico divario economico, demografico e produttivo tra Nord e Sud Italia. Mentre invece proprio l’università potrebbe dare un contributo cruciale a risanarlo, costituendosi vettore di mobilità sociale. Tale funzione pare tuttavia atrofizzata. Benché negli anni l’accesso all’istruzione terziaria si sia formalmente democratizzato, iscriversi all’università rimane infatti una scelta ancora in certa misura elitaria. I costi, solo parzialmente ammortizzati dalle borse di studio, restano considerevoli in rapporto ai nostri vicini europei e anche in assoluto per una media famiglia italiana con più figli. Non tutti possono permettersi l’investimento a fronte delle incerte prospettive lavorative che offre. Per gli studenti delle facoltà umanistiche e sempre più anche per quelli di materie tecnico-scientifiche l’esperienza universitaria va integrata con un’ulteriore formazione specializzante o professionalizzante, in molti casi non immediatamente attinente al percorso di studi. Ma se un così alto numero di ragazzi e ragazze abbandona gli studi (o non li comincia affatto) è anche perché ai loro occhi, spesso, l’università non appare in Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5. 6. 7. 8.
«Migrazioni interne e internazionali della popolazione residente | Anno 2021», Istat, 9/2/2023. «Rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca», cit., p. 162. «Rapporto sull’economia e la società del Mezzogiorno», Svimez, 2022, cap. VII. G. VIESTI, «Le politiche universitarie», Sinappsi, vol. IX, n. 3, 2019, pp. 94-105.
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grado di fornire conoscenze utili a integrarsi nel mondo a essa esterno, non solo in termini strettamente professionali. 3. Basso numero di laureati, fuga all’estero per lavorare o studiare, alti tassi di dispersione accademica, disparità territoriale e sfiducia giovanile nei confronti dell’università sono fenomeni ormai cronici, imputabili a una combinazione di anni di politiche poco lungimiranti e di fattori strutturali. O meglio, al maldestro innesto delle prime sui secondi. Ma per comprendere le ragioni dell’ostinata miopia con cui le nostre élite hanno gestito il problema universitario bisogna cominciare col chiedersi quale sia (quale debba e possa essere) il ruolo delle università in una società. L’idea che l’università abbia un’utilità pubblica o una funzione sociale è relativamente recente. In Italia fu il genio risorgimentale a introiettarla per metterla al servizio dell’unificazione nazionale. Per molto tempo è tuttavia prevalsa la concezione per cui l’attività accademica, in continuità con le sue origini medievali, servisse alla pura trasmissione del sapere. Cioè che fosse l’attività di dottori che generavano altri dottori. Vocazione genetica che permane tuttora nell’idea che associa la ricerca scientifica a una sorta di gratuità, come conoscenza non immediatamente utile o finalizzata a produrre qualcosa al di fuori di sé stessa. Benché l’università nel corso dei secoli si sia aperta al mondo esterno, tale retaggio corporativo non è affatto scomparso. Quando ci interroghiamo sulle disfunzionalità dell’attuale sistema accademico italiano, per esempio sulla sua difficoltà nel raccordare i percorsi di studio con i percorsi di lavoro, riaffiora questo dilemma: l’università ha una responsabilità pubblica? Deve assicurare risultati concreti e prevedibili ai propri studenti, formandoli in vista di una loro realizzazione professionale al di fuori dell’università stessa e aprendosi alle influenze di poteri esterni, come la pianificazione governativa o le regole del mercato? Oppure deve preservare un alto grado di autonomia e di isolamento per tutelare la libertà della ricerca, privilegiando la purezza dell’esercizio del sapere per il sapere e schermandosi da influenze politiche? In sintesi: l’accademia deve preparare al mondo o farsi essa stessa mondo? Come spesso accade con i dilemmi, non basta decidersi per una delle alternative. La storia delle università si è infatti dispiegata come contaminazione di queste due modalità essenziali. Sarebbe fuorviante immaginare le accademie come luoghi immacolati, frequentati da un’irenica comunità di ricerca dedita alla sola coltivazione della scienza e corrotti in seguito all’irruzione della realtà esterna. Man mano che si espandevano, le università si sono dotate di gerarchie interne sempre più complesse e hanno sviluppato sofisticate strutture egemoniche, efficaci perché capaci di intrecciare autorità scientifica e facoltà di consacrazione culturale. L’analisi di Bourdieu prende le mosse da qui. I professori universitari, benché si situino nel contesto sociale dal lato del «polo dominato» del potere, per Bourdieu sono «detentori di una forma istituzionalizzata di capitale culturale che garantisce loro una carriera burocratica e redditi regolari» 9. Hanno pertanto interesse a tutelaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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9. P. BOURDIEU, op. cit., p. 85.
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re quei valori, scientifici e morali, su cui l’istituzione è basata e che le permettono di riprodursi. Questa struttura di perpetuazione strettamente relazionale funziona esclusivamente grazie alla complicità di tutti gli attori coinvolti, dai ruoli apicali agli strati più bassi e precari come dottorandi e ricercatori. Ai quali vengono promessi e gradualmente elargiti riconoscimenti quanto più si dimostrano disposti a «investire nel gioco», cioè ad accettarne leggi e taciti presupposti, secondo una strategia premiale di carattere «iniziatico» fatta di grandi attese (in termini di carriera) e piccole ricompense (in termini di prestigio). Più si sosta nelle posizioni intermedie dell’apparato accademico, più si rafforza la disposizione a interiorizzare e difendere l’identità di corpo. Sullo sfondo di una competizione assimilabile alla lotta di tutti contro tutti, che però «lungi dal costituire la minaccia di una rivoluzione permanente, (…) contribuisce a riprodurre l’ordine» 10. La conservazione, principio ordinatore dell’esercizio di (ri)produzione del sapere accademico, contribuisce a plasmare la natura di quel sapere: anche le nuove leve, che potrebbero essere fonte di rottura epistemica, sono invece portate a replicare i modelli dell’ortodossia universitaria per guadagnarsi l’appoggio dei professori che potranno permettere loro di avanzare. Bourdieu inquadra in questa cornice di senso anche la pratica del nepotismo, strategia di riproduzione del corpo volta non tanto a garantire alla discendenza il possesso di una posizione rara, bensì a «conservare qualcosa di più essenziale, su cui si basa l’esistenza del gruppo, cioè l’adesione all’arbitrarietà culturale che è a fondamento del gruppo, l’illusio primordiale senza cui non si avrebbero né gioco né posta in gioco »11. L’insegnamento allora trasmette non solo un sapere, ma anche «un saper fare, un’arte di mettere in pratica il sapere che è indissociabile da una maniera globale di agire, da un’arte di vivere, da un habitus» 12. Questa economia simbolica fatta di vincoli, investimenti e attese sottrae tempo all’attività di ricerca e ne plasma le modalità, orientandola verso ciò che Bourdieu definisce academica mediocritas: disposizione improntata al sospetto del nuovo e del rischio intellettuale, che esorta alla prudenza e al rispetto dei canoni. E che difficilmente lascia emergere saperi eretici o potenzialmente trasformativi dell’ordine culturale vigente, la cui forza inerziale è continuamente alimentata da coloro che ne partecipano. Naturalmente, e fortunatamente, ogni contesto accademico ha le sue eccezioni felici. Bourdieu non intende negare che esistano moltissimi professori e professoresse che svolgono il proprio lavoro con dedizione e rispetto verso la propria disciplina e verso i propri studenti. Ma un merito fondamentale della sua analisi sta nell’aver individuato un meccanismo che opera al di là delle singole volontà e condotte. A tal proposito Bourdieu parla di «campo» come universo di presupposizioni che plasma le disposizioni degli individui nel momento in cui vi fanno ingresso, senza passare da un’imposizione autoritaria o da un consenso esplicito. Il campo accademico riposa per Bourdieu su un «blocco di silenzio» Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
10. Ivi, p. 152. 11. Ivi, p. 111. 12. Ivi, p. 113.
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non incrinato neanche dai movimenti di contestazione studentesca del 1968, superficiali fintantoché privi di una riflessione più profonda sulle modalità di insegnamento e produzione del sapere. 4. L’homo academicus italicus condivide certo con il cugino transalpino molte delle dinamiche descritte, come può confermare chiunque abbia un minimo di familiarità con l’ambiente accademico del nostro paese. Il tratto distintivo del caso italiano risiede tuttavia nella relazione delle nostre università con lo Stato, tema che spicca per assenza dal saggio di Bourdieu. Assenza legata al taglio sociologico e sincronico dell’analisi, che circoscrive il campo a un oggetto e ne viviseziona le componenti interne. Ma forse anche al fatto che, dalla scuola primaria alle Grandes écoles, lo Stato francese impronta di sé l’intero sistema della formazione, configurandosi come una presenza talmente pervasiva da diventare trasparente. Molte università del nostro paese esistono da prima che esso si riconoscesse tale. La dialettica storica tra università e Stato in Italia ha inizio con il primo governo unitario, cui si pose il problema di quale autonomia conferire agli istituti accademici. Nel 1859, alla vigilia dell’Unità, nel Regno di Sardegna fu approvata la legge Casati che regolava l’organizzazione dell’istruzione superiore e inferiore. Poi adottata con poche variazioni nell’Italia unitaria ed estesa a tutto il territorio nazionale, la legge Casati concedeva stretti margini di autonomia amministrativa e finanziaria ai singoli centri universitari e li sottoponeva a un forte controllo del re e dei ministeri, cui erano affidate le nomine delle principali autorità accademiche. L’impianto centralistico, parzialmente controbilanciato dal principio della libertà di insegnamento, veniva prediletto in nome di una visione programmatica e liberale del ruolo che le università avrebbero dovuto ricoprire nel processo di costruzione del paese. Cioè alla luce del loro ruolo decisivo nella formazione di una comunità scientifica nazionale e più in generale nel processo di unificazione culturale, da conseguire attraverso una stretta saldatura tra Stato e università. Il connubio si rendeva necessario anche perché nel XIX secolo, in Italia e altrove in Europa, le università iniziavano a occuparsi della formazione delle élite amministrative13. Assumevano così un ruolo sempre più importante per lo Stato, che quindi intese assicurarsene il controllo per non esserne controllato. Uno dei primi nodi da sciogliere per il governo post-unitario fu quello delle piccole università: la sussistenza di atenei minuscoli e periferici accanto alle sedi più grandi e prestigiose era illogica da un punto di vista del dispendio di risorse dello Stato, che peraltro sarebbe riuscito a controllare meglio un minor numero di centri. Tuttavia, decretarne la chiusura avrebbe implicato sacrificare gli interessi delle periferie – per cui quelle università avevano un forte valore simbolico – sull’altare di quelli del centro, che avrebbe così imposto una visione sostantiva e stabilita della conoscenza da trasmettere. La disputa si concluse a favore delle piccole università, i cui rappresentanti riuscirono a far valere le proprie ragioni e a Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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13. S. CASSESE, «L’università e le istituzioni autonome nello sviluppo politico dell’Europa», Rivista trimestrale di diritto pubblico, vol. XL, 1990, pp. 755-768.
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impedire la chiusura dell’Università di Sassari, simbolica posta in palio della partita. Il rapporto tra università e Stato si articolò quindi secondo il modello policentrico che conosciamo tuttora: nel 1870 Cesare Correnti, deputato del Regno di Sardegna e poi del regno unitario, notava come in Italia fosse «riuscito più facile, infinitamente più facile, sopprimere le capitali che traslocare le Università» 14. La vicenda portò a trasparenza un dato strutturale: l’università non era semplicemente un ente pubblico che lo Stato poteva amministrare come tutti gli altri, ma un soggetto (benché dalle molte teste) che si percepiva depositario e creatore di un sapere e di una visione del mondo non per forza collimanti con quelli dello Stato. Tale soggetto mal tollerava quindi le ingerenze esterne. Il governo unitario seppe concedere un margine di autonomia in virtù di una visione di lungo periodo: l’alternativa era piantare i semi di un risentimento regionale verso il centro, che nel tempo avrebbe potuto minare l’unità della giovane nazione. La riforma Gentile del 1923 pose le università sotto la stretta vigilanza dello Stato fascista, in linea con la strategia di accentramento del potere perseguita anche negli altri ambiti della vita politica. Al contempo, conferì loro per la prima volta personalità giuridica e limitata autonomia amministrativa, didattica e disciplinare. Da un punto di vista legale, l’università cessò di essere una pubblica amministrazione tra le altre 15. La costituzione repubblicana attribuì poi al sistema universitario il diritto di darsi ordinamenti autonomi, benché nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato (art. 33). Disposizione per certi versi sorprendente, nota Cassese, se considerata nel quadro della concezione monistica del potere pubblico che ispirò l’Assemblea costituente 16. Il provvedimento più significativo sotto il profilo dell’autonomia universitaria fu però quello avviato nel 1989 con la legge Ruberti, che conferiva agli atenei autonomia statutaria, regolamentare, di organizzazione della didattica, di ricerca, organizzativa e finanziaria. Nel tempo, ciò si tradusse in una riduzione dei finanziamenti statali e quindi in un aumento generalizzato delle imposte universitarie. I diversi istituti, chiamati a darsi un proprio regolamento e a reperire nuovi fondi, si mossero in ordine sparso. Il principio dell’autonomia finanziaria incoraggiò le università a procurarsi una quota sempre maggiore di entrate da fonti non statali, cioè da enti privati o pubblici che in cambio ottenevano voce in capitolo nei loro processi decisionali. Le riforme successive non invertirono la rotta inaugurata da questa impostazione, cioè la riduzione della partecipazione statale al finanziamento dell’istruzione terziaria e la conseguente apertura delle università al capitale privato. Deriva accentuata dall’integrazione delle università italiane nello spazio-mercato europeo e sancita dal Processo di Bologna, accordo intergovernativo tra paesi Ue mirato a creare Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
14. Per una ricostruzione del dibattito sulle «piccole università» nell’Italia post-unitaria, si vedano i contributi di M. MORETTI, I. PORCIANI, «Università e Stato nell’Italia liberale: una ricerca in corso», Scienza & Politica. Per una storia delle dottrine, vol. 2, n. 3, 1990, pp. 41-54 e la più recente e approfondita voce Treccani sul tema, ID., «L’Università (L’Unificazione)», Enciclopedia Treccani, 2011, da cui è tratta la citazione. 15. M. ROSBOCH, «L’autonomia universitaria fra passato e presente», Rivista di storia dell’Università di Torino, vol. 2, n. 1, 2013, pp. 117-124. 16. S. CASSESE, «L’autonomia delle università nel rinnovamento delle istituzioni», Il Foro Italiano, vol. 116, n. 2, 1993, pp. 81-88.
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uno spazio europeo d’istruzione superiore, che ha introdotto un apparato di parametri e controlli sovranazionali ispirati ai princìpi di innovatività, competitività e modernizzazione. A questo meccanismo si deve, ad esempio, l’introduzione del sistema dei crediti formativi e la riforma del «3+2» con cui i corsi precedentemente a ciclo unico sono stati frammentati in laurea di primo livello e biennio di specialistica. 5. Oggi l’Italia investe nell’istruzione terziaria lo 0,9% del pil: una percentuale molto ridotta rispetto ai vicini europei (la Francia spende quasi l’1,5%, Spagna e Germania circa l’1,3%), ma anche rispetto a quanto spendevamo nel 2012 (0,94%) 17. Se si scompone il dato distinguendo tra finanziamenti pubblici e privati, lo scarto è ancora più ampio: in Italia la spesa pubblica è pari solo allo 0,55% del pil, mentre il resto è a carico di privati – che nel caso italiano vuol dire principalmente a carico delle famiglie. Proporzioni analoghe si ritrovano nei dati nazionali sulla spesa in ricerca e sviluppo, pari all’1,47% del pil, con il 54,4% dei finanziamenti provenienti dal settore privato 18. Guadagnando autonomia dallo Stato, le università hanno sviluppato una dipendenza informale dal mercato, dovendo dare prova di «efficacia» e «competitività» per attirare quanti più investimenti possibili. Questa logica assimila le università a imprese sotto il profilo della gestione amministrativa e dell’attività didattica, sempre più concepita come erogazione di un servizio o di una prestazione di cui gli studenti sono i «clienti». L’impatto sull’attività di ricerca scientifica è evidente. Oggi in Italia il finanziamento della ricerca è in larga parte lasciato al capitale privato, il che costringe ricercatori e ricercatrici all’«intermittenza fra una posizione precaria e l’altra, alla competizione per l’accaparramento di risorse scarse e primariamente orientate alla soddisfazione di interessi corporativi», come si legge nel manifesto dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiana 19. Dall’abolizione della figura di ricercatore a tempo indeterminato con la cosiddetta riforma Gelmini del 2010, l’assegno di ricerca è stato il limbo in cui molti giovani accademici hanno sostato per anni in attesa di un inserimento in ruolo, traguardo preceduto – per coloro che lo raggiungevano – da periodi più o meno lunghi di disoccupazione e lavoro non retribuito. La pressione a produrre risultati tangibili finalizzati a dimostrare il valore del proprio lavoro (quindi a ottenere altri fondi) spinge ricercatori e ricercatrici ad accumulare il maggior numero possibile di pubblicazioni. Si compromette così la qualità della ricerca, il cui impatto scientifico è spesso inquantificabile nell’immediato e potrebbe venire in luce solo nel lungo periodo. Oppure mai: la possibilità che una ricerca non porti da nessuna parte, rischio fisiologico e terrore atavico del mestiere, non è contemplata. Tali evenienze non possono essere colte dai raffinati parametri quantitativi (numero di pubblicazioni, numero di altri articoli in cui il lavoro viene citato, fascia della rivista in cui si pubblica) introdotti in pieno spirito Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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17. «Rapporto sul sistema della formazione superiore e della ricerca», Anvur, 2023, p. 154. 18. Ivi, p. 167-9. 19.«Niente si fa con niente: manifesto per un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito», Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia, 2022.
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di trasparenza europeo e volti a valutare il rendimento di un ricercatore. Dunque a determinarne la finanziabilità. La recente riforma che sostituisce gli assegni con i contratti di ricerca fornisce condizioni lavorative meno precarie e stipendi più alti, ma senza aumentare la cifra complessiva del finanziamento ordinario. Cioè tagliando fuori dal mercato del lavoro accademico quasi metà degli assegnisti precarizzati negli scorsi dieci anni 20. È solo un esempio degli effetti paradossali scaturiti dalle politiche universitarie degli ultimi decenni, che dimostrano come il disinvestimento pubblico nell’università non l’abbia resa più autonoma, ma solo più esposta ad altre influenze. L’apertura degli atenei al mondo imprenditoriale non è di per sé un male, purché risponda a esigenze precise e avvenga secondo un disegno coerente. In alternativa, il vuoto lasciato dallo Stato è colmato da altri attori: finanziatori e insieme educatori, in grado di dettare le regole dell’insegnamento e della ricerca universitari. Se fosse solo questione di mancanza di risorse o di buona volontà i danni potrebbero essere arginati. A mancare però è un inquadramento dell’accademia in una strategia nazionale volta a valorizzare la ricerca e lo studio universitario come leva dello sviluppo del paese. Soprattutto, come attività in grado di produrre un sostrato culturale comune. In assenza di un simile disegno, se anche aumentassero i finanziamenti difficilmente verrebbero spesi in questa direzione. È anzi molto probabile che finirebbero per acuire fratture e localismi esistenti, come verosimilmente accadrebbe qualora entrasse in vigore il disegno di legge sull’autonomia differenziata delle Regioni. Analogamente, più denaro non si traduce automaticamente in una riforma dei rapporti tra sistema accademico e mercato, nel caso italiano storicamente poco ricettivo rispetto al personale altamente qualificato. 6. È facile individuare nella carenza di Stato la causa madre di queste e di altre disfunzionalità del sistema accademico italiano. Più complesso è riconoscere come lo Stato sia anche il soggetto che ne sconta di più le conseguenze. Non ponendo l’università tra le sue priorità, lo Stato depotenzia uno strumento decisivo per lo sviluppo civile, sociale e culturale dei cittadini. Su un livello più strutturale, rinuncia a (ri)produrre sé stesso: qui la questione universitaria si intreccia con quella scolastica, delineando una più ampia crisi del sistema educativo italiano che culmina nel problema della formazione di una classe dirigente. L’Italia non dispone di scuole di alta formazione per la pubblica amministrazione e quindi non ha un organo di qualificazione specifico per le élite politiche e burocratiche, né un bacino privilegiato per il loro reclutamento 21. Nel secolo scorso a questa esigenza sopperivano i partiti di massa, che coltivavano il futuro ceto politico tramandando una visione del mondo e un sapere pratico. Oggi l’assenza delle prime e la scomparsa dei secondi potrebbero rendere l’istruzione universitaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
20. Ibidem. 21. Si segnala il recente protocollo d’intesa firmato da Scuola nazionale dell’Amministrazione (Sna), ministero dell’Università e della Ricerca e Conferenza dei rettori delle università italiane (Crui), volto a promuovere la formazione di una nuova classe di dirigenti pubblici. È nel giro di anni, se non di decenni, che potranno essere tratti bilanci sulla nascente iniziativa.
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ria un anello fondamentale nella formazione di una classe dirigente. Al contrario, nonostante uno dei tassi più alti di parlamentari laureati degli ultimi trent’anni 22, assistiamo a un incontrastato declino della cultura istituzionale e politica delle nostre élite. Fenomeno paradossale solo in apparenza: nel nostro paese ci si può laureare in Storia anche senza aver frequentato un corso dedicato alla storia del Risorgimento o dell’Italia post-unitaria, insegnamenti perlopiù opzionali o del tutto assenti. Se i nostri rappresentanti politici perseguono fini particolaristici e volti a perpetuare l’insieme di condizioni che li mantengono al potere anziché anteporre l’interesse della comunità, è anche perché spesso di quest’ultimo non hanno una visione complessiva e di lungo periodo. In questa prospettiva, il problema non si distingue se non per grado da quello dell’istruzione scolastica. Politici, strateghi e dirigenti non si formano in appositi istituti di politica e strategia, ma primariamente fra i banchi di scuole e università. Un buon dirigente è anzitutto un cittadino con consapevolezza critica della propria posizione nel mondo, che si forma nella letteratura e nella storia dell’arte come nella giurisprudenza e nell’economia. Cioè preparato non soltanto a «giocare il gioco», per dirla con Bourdieu, ma anche a interrogarsi sulle sue regole. Solo in questo modo l’educazione universitaria può armonizzarsi con gli interessi dello Stato. E viceversa. Come già Humboldt stabiliva a proposito del rapporto tra Stato e università tedesche: il primo non deve esigere dalle seconde «nulla che si riferisca ad esso in modo diretto e immediato, e nutrire invece l’intimo convincimento che, quando esse conseguono il loro fine ultimo, adempiono anche i suoi scopi» 23. Nel caso italiano, inveramento rovesciato della prescrizione humboldtiana, sistema universitario e sistema politico si sintonizzano spontaneamente nella formazione di cittadini mediamente inconsapevoli. Come dalla politica, dall’università impariamo individualismo (dalle lezioni frontali all’attività perlopiù solitaria della ricerca) e frammentazione (disciplinare). Il vecchio adagio che rimprovera le università italiane di insegnare troppa teoria non coglie il cuore del problema: non abbiamo bisogno di più «pratica», ma di incardinare la teoria nella nostra storia e nella nostra società. Anche la teoria più pura può mettere in moto forze politiche e storiche, ma noi la insegniamo e la studiamo senza comprenderla. Cioè senza coglierne la portata rivoluzionaria, dunque trasformativa della realtà che ci circonda. L’espulsione di «giovani talenti» dall’Italia non è degenerazione accidentale, bensì logico esito di un sistema che produce e trasmette un sapere sradicato dalla comunità cui potrebbe essere applicato. Perfetto per essere applicato altrove. A vantaggio di tutti fuorché di noi stessi. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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22. Secondo i dati messi a disposizione dalle Camere, oggi circa il 75% dei parlamentari è in possesso di una laurea. Si vedano i documenti: «Composizione della Camera – Distinzione dei deputati per gruppo e per titolo di studio», camera.it e «Distribuzione dei Senatori per titolo di studio», senato.it. I dati si riferiscono alla corrente legislatura (XIX), iniziata il 13/10/2022. 23. W.F. HUMBOLDT, Università e umanità, Napoli 1970, Guida Editori, pp. 35-42. Ne segnaliamo una versione ampliata inedita e in revisione paritaria aperta, tradotta da M.C. Pievatolo: W.F. HUMBOLDT, «L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino», Bollettino telematico di filosofia politica, 14/9/2017.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
VIVERE SENZA DOMANI
di Massimiliano
VALERII
Le radici globali e specifiche della nostra crisi demografica. Il naufragio delle grandi narrazioni post-storiche e la società del rancore. Mai meno nascite dall’Unità d’Italia. Vademecum per salvarci: ripartire da giovani, donne e migranti.
U
NA INSIDIOSA INQUIETUDINE IMMALINCONISCE
la società italiana e come uno spettro attraversa tutte le società occidentali. Come se fosse l’indizio inequivocabile di un presagio malevolo o il sintomo impalpabile dello spaesamento di fronte al nuovo ordine mondiale, che ha mandato in frantumi le rassicuranti coordinate del passato. Eppure, se tiriamo un primo bilancio degli ultimi trent’anni osservando i principali indicatori economici e sociali, il mondo plasmato dai processi di globalizzazione presenta nell’insieme un aspetto decisamente migliore di quello di ieri. Rimossa la cortina di ferro, dal 1989 a oggi il pil mondiale è più che raddoppiato (+156% in termini reali), il valore dell’export di merci si è moltiplicato per otto, gli investimenti esteri a livello globale sono pari a nove volte quelli di allora. E la popolazione del pianeta che vive al di sotto della soglia internazionale di povertà (fissata convenzionalmente in 2,15 dollari al giorno) è diminuita dal 38% al 9% del totale – il che significa che centinaia di milioni di persone sono uscite dall’indigenza. Tutto bene, quindi? In questo ciclo storico trentennale, però, è successo anche qualcos’altro, che spiega in buona misura il nostro disorientamento, derivante dalla sensazione di vivere il crepuscolo del mondo per come lo avevamo conosciuto. Come conseguenza dell’apertura delle frontiere, della liberalizzazione dei commerci e dell’incremento del volume degli scambi internazionali, nel tempo si è determinato un riequilibrio dei pesi economici dei paesi: un accorciamento delle distanze, un tempo abissali, esistenti tra gli Stati ricchi e industrializzati, da una parte, e quelli in ritardo di sviluppo, dall’altra. Non solo un riequilibrio, per la verità, perché in molti casi si è trattato di un vero e proprio sorpasso. A questo punto, il bilancio diventa controverso. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VIVERE SENZA DOMANI
Grafico 1 - DISTRIBUZIONE PERCENTUALE DEL PIL DEL MONDO A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO: IL SORPASSO DEI MERCATI EMERGENTI E DEI PAESI IN VIA DI SVILUPPO SULLE ECONOMIE AVANZATE, ANNI 1989-2022 70 65
63,7 58,3
60 55 50 45 40 35
41,7 36,3
30 25 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022
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Economie avanzate
Mercati emergenti e paesi in via di sviluppo
Fonte: elaborazione su dati International Monetary Fund
Se consideriamo l’andamento del pil espresso a parità di potere d’acquisto, possiamo constatare che nel 1989 – all’epoca del vecchio mondo, prima della caduta del Muro di Berlino – il 63,7% della ricchezza mondiale era prodotto dallo sparuto numero di economie industrializzate occidentali, mentre a quelli che allora consideravamo paesi di serie B era attribuibile soltanto il restante 36,3% del totale. Poco più di trent’anni dopo, nel 2022, i rapporti di forza risultano completamente capovolti: le economie avanzate realizzano meno della metà del pil del mondo (il 41,7%), mentre la gran parte della torta (il 58,3% del totale) è riferibile ai mercati emergenti e ai paesi in via di sviluppo (grafico 1). Secondo questo criterio di misurazione, che tiene conto del differente costo della vita nei diversi paesi, come se in astratto esistesse un uguale sistema dei prezzi a livello mondiale, già dal 2016 l’economia cinese ha sorpassato quella statunitense, nel lontano 2004 l’India ha superato la Germania, dal 2011 l’Indonesia – un paese che molti italiani non saprebbero collocare correttamente sulla carta geografica – si posiziona al di sopra dell’Italia (grafici 2-4). Ma c’è di più. Consideriamo la Cina, il caso di maggiore successo della globalizzazione. Negli ultimi trent’anni, il pil a parità di potere d’acquisto cinese è aumentato di 14 volte. La straordinaria crescita economica si è coniugata con un altrettanto straordinario progresso sociale. In soli tre decenni, la popolazione in miseria è diminuita dal 72% allo 0,1% del totale; l’aspettativa di vita alla nascita si è Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Grafico 2 - PIL A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO: IL SORPASSO DELLA CINA SUGLI STATI UNITI, ANNI 1989-2022 (miliardi di dollari Ppp)
32 mila 28 mila 24 mila 20 mila 16 mila 12 mila 8 mila 4 mila
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022
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Stati Uniti
Cina
Fonte: elaborazione su dati International Monetary Fund
allungata da 68 a 78 anni (negli Usa oggi si attesta a 76 anni); il tasso di mortalità infantile è stato drasticamente ridotto, da 43 a 5 ogni mille nati; il tasso di iscrizione all’università è aumentato dal 3% al 72% dei giovani che concludono gli studi superiori. Con l’accesso di massa ai consumi, anche in quel paese si è stratificata un’ampia classe media: più longeva, più sana, più istruita, più benestante. Questo dimostra che la crescita economica e il miglioramento delle condizioni sociali non sono necessariamente correlati con un maggiore grado di libertà, visto che in Cina vige un regime autoritario e illiberale. Ma allora, a che serve la libertà, se una società può stare meglio anche senza essere libera? Questo dubbio è il virus con cui le democrazie occidentali si logoreranno nel prossimo futuro, perché, insinuandosi come un tarlo nelle coscienze, può mandare in pezzi la nostra granitica convinzione che la libertà sia l’elisir più prezioso, essenziale, indispensabile per favorire l’emancipazione sociale, per accrescere il benessere degli individui e far lievitare la prosperità dei popoli. Non solo la libertà rischia di perdere attrattività agli occhi di chi ci osserva da lontano, ma pure qualcuno dalla nostra stessa parte del mondo può sentirsi legittimato a porre qualche domanda scomoda. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VIVERE SENZA DOMANI
Grafico 3 - PIL A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO: IL SORPASSO DELL’INDIA SULLA GERMANIA, ANNI 1989-2022 (miliardi di dollari Ppp)
12 mila
10 mila
8 mila
6 mila
4 mila
2 mila
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022
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Germania
India
Fonte: elaborazione su dati International Monetary Fund
In effetti, nel discorso pubblico ha cominciato a circolare, senza più le censure e i pudori di una volta, la formula – un apparente ossimoro – delle «democrazie illiberali» come desiderabili forme di governo alternative all’archetipo liberale. Non solo nelle parole pronunciate da Vladimir Putin nella famosa intervista rilasciata al Financial Times nel giugno 2019 («Il liberalismo? Un’idea superata»), ma anche nelle dichiarazioni ufficiali di alcuni leader politici della Vecchia Europa. È sorprendente che due paesi membri dell’Unione Europea – l’Ungheria e la Polonia – siano stati sottoposti a procedura d’infrazione a causa del mancato rispetto dello Stato di diritto – benché i recenti risultati elettorali lascino supporre per il futuro una sorte diversa per Varsavia. Da questo punto di vista, anche l’assalto a Capitol Hill – il tempio inviolabile delle moderne democrazie liberali – nel gennaio del 2021 può essere interpretato come una plastica riprova del senso di minaccia avvertito dalle classi medie occidentali e della loro delusione nei confronti delle istituzioni democratiche, ora incapaci di soddisfare pienamente le aspettative sociali come riuscivano a fare in passato. Ecco delineata la sagoma dello spettro aleggiante nell’inconscio collettivo: la sensazione di un destino sfuggito di mano per esaurimento delle forze endogene, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Grafico 4 - PIL A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO: IL SORPASSO DELL’INDONESIA SULL’ITALIA, ANNI 1989-2022 (miliardi di dollari Ppp)
4.200 3.600 3.000 2.400 1.800 1.200 600
1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022
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Itaòoa
Indonesia
Fonte: elaborazione su dati International Monetary Fund
la segreta paura che prima o poi arriverà qualcuno a spodestarci dal piedistallo del benessere, il timore di essere rimpiazzati sul palco della storia. In cielo brilla il sole nero dell’avvenire, lunghe ombre si proiettano sulle terre d’Occidente. La grande trasformazione degli equilibri mondiali (in una parola: lo spostamento del baricentro del mondo dall’Atlantico al Pacifico) ha conseguentemente condizionato la curvatura della domanda politica, spingendola negli ultimi anni verso l’invocazione di una maggiore protezione delle classi medie. Il salto d’epoca è ben rappresentato dalle posizioni diametralmente opposte di due presidenti americani, entrambi appartenenti al Partito repubblicano, liberale e liberista. Il primo è Ronald Reagan, che nel giugno 1987, dalla Porta di Brandeburgo a Berlino, invitava Mikhail Gorba0ëv ad abbattere il Muro («Tear down this wall!») e ad aprire le economie dei paesi socialisti al resto del mondo. Il secondo, trent’anni dopo, è Donald Trump, che ricorderemo per un altro muro – quello tirato su al confine con il Messico – per i dazi contro la Cina – l’opposto dell’ideale delle frontiere porose, permeabili dai flussi della globalizzazione – e per avere inaugurato la «seconda guerra fredda». Con i suoi slogan – «America first!», «Make America great again!» – Trump è stato un formidabile interprete dello spirito del tempo nel punto di caduCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VIVERE SENZA DOMANI
ta di quella parabola durata trent’anni, dopo la rottura dell’incantesimo della «fine della storia», dando voce alla rabbia e alle paure dei forgotten men, degli esclusi e dei perdenti della globalizzazione. A quegli slogan hanno fatto eco il nostro più prosaico «Prima gli italiani!» e una torsione analoga della domanda politica in tutta l’Europa. Oggi si può osservare una perfetta continuità tra le politiche di Trump e quelle adottate dall’amministrazione Biden sia in merito ai dazi a danno dell’economia cinese sia con riferimento al rafforzamento dell’argine lungo la frontiera Sud contro l’immigrazione clandestina – una disponibilità di manodopera a basso costo ritenuta colpevole di far crollare i salari dei lavoratori americani. E se adesso ci domandiamo quale sarà il futuro della globalizzazione, che è stata il nostro paradigma economico, politico e culturale di riferimento degli ultimi trent’anni, ecco spuntare un neologismo: «friend-shoring». Ovvero, secondo le parole di Janet Yellen, segretario al Tesoro degli Stati Uniti, d’ora in avanti dovremo confinare le catene globali del valore, gli scambi internazionali, entro un perimetro definito unicamente da quegli Stati che condividono con noi i nostri stessi valori di democrazia e di libertà – un giro di parole che sembra un modo edulcorato per dire, ancora una volta, «seconda guerra fredda». Perché, come si è visto, quella in gioco non è soltanto una competizione tra i giganti del pianeta per assicurarsi il primato economico, tecnologico e militare, bensì un’accesa concorrenza sul piano dei valori fondanti di una civiltà. Dopo la narrazione apologetica della globalizzazione, ecco che anche i columnist del Financial Times hanno cominciato ad auspicare non semplicemente il reshoring delle produzioni («All economics is local», adesso scrivono), ma persino l’avvento di un «post-neoliberal world».
Il naufragio delle grandi narrazioni post-storiche Il racconto del salto d’epoca si svolge nella sequenza di alcune eloquenti copertine, che segnano i momenti salienti di una traiettoria terminata con il naufragio delle grandi narrazioni post-storiche – successive cioè al tramonto delle grandi ideologie novecentesche – egemoni negli ultimi trent’anni, ovvero le cornici simboliche e valoriali entro le quali ci eravamo impegnati a costruire la nostra identità e a radicare il nostro benessere. La prima copertina è quella del fortunato libro del politologo americano Francis Fukuyama, The End of History, pubblicato nel 1992, ma anticipato da un saggio dello stesso autore apparso sulla rivista The National Interest nel 1989, esattamente nell’anno della caduta del Muro di Berlino. Tradotto in tutto il mondo, quel libro divenne rapidamente un best seller internazionale. Con un ottimismo tracotante e una cieca ingenuità, sulle macerie del Muro abbattuto celebrammo la «fine della storia», che era giunta a compimento con la caduta rovinosa dei regimi comunisti e l’armistizio della guerra fredda, con il trionfo del capitalismo e la vittoria delle democrazie liberali. Secondo una concezione direzionale della storia, asseCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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condando un progresso che credevamo lineare e senza contraddizioni, parlavamo dunque propriamente del compimento del corso della storia, nel senso che non c’era più niente di nuovo da attendersi sul cammino della civiltà umana che procedesse in una direzione diversa da quella imboccata. Si annunciava un’epoca inondata di luce e di ardore, una rincorsa di radiose promesse e di belle speranze. Il saggio di Fukuyama ebbe un grande successo perché interpretava al meglio l’euforia di quel preciso momento storico: fu osannato dagli ambienti di destra perché letto come l’affermazione incontrastata a livello planetario del modello statunitense e suscitò indignazione e infinite polemiche tra gli intellettuali di sinistra, alle prese con la difficile metabolizzazione del lutto per il fallimento dell’ideologia socialista. La seconda copertina è quella del libro di Thomas Friedman sul «mondo piatto». The World Is Flat uscì nel 2005: ci convincemmo che la rivoluzione digitale avrebbe infranto per sempre le pareti spaziali, temporali e culturali che avevano diviso i paesi, che mai più sarebbero stati distanti tra di loro come in passato. Il destino sembrava segnato, il cammino predefinito secondo necessità. E grazie alla forte integrazione raggiunta dalle economie mondiali, la possibilità della guerra era solo una reminiscenza anacronistica. A risvegliare dal torpore il mondo post-storico arrivò, come una doccia fredda, la copertina dell’Economist del gennaio 2019. Titolava in modo allarmante: «Slowbalisation». Il riferimento era alla fase di crisi della globalizzazione che allora stava iniziando, con il raffreddamento della congiuntura internazionale, il rallentamento dei commerci mondiali, la «guerra dei dazi», il ritorno dell’idea di una sovranità nazionale forte in sostituzione dei precetti della globalizzazione. Poi, nel maggio 2020, nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria globale, la copertina del settimanale inglese certificava il colpo di grazia: «Goodbye globalisation». Per quanto ci riguarda, la prima grande narrazione naufragata aveva alimentato, nel recente passato, la fiducia che avremmo trovato una nuova patria in una Europa unita, senza più frontiere. Un sogno nato nel dopoguerra, con i padri fondatori Spinelli e De Gasperi, Monnet e Schuman, Adenauer; ma fu il trattato di Maastricht del 1992 (l’anno della pubblicazione del libro di Fukuyama, l’anno della dissoluzione dell’Unione Sovietica) a istituire l’Unione Europea. Un sogno che però si è infranto quando abbiamo constatato l’inadeguatezza della governance delle istituzioni europee di fronte alle due sfide epocali del nostro tempo: il rallentamento strutturale della crescita economica e la gestione dei flussi migratori internazionali. Allora abbiamo conosciuto l’Europa matrigna dell’austerità e l’Europa nemica di Bruxelles è diventata il capro espiatorio su cui scaricare tutta la nostra insoddisfazione. Poi, con il clamoroso Leave del Regno Unito votato dai britannici nel referendum del 2016, il Brexit ha sancito traumaticamente la retromarcia di un processo che credevamo irreversibile, interrompendo la progressiva integrazione economica, politica e culturale del continente. Confidavamo inoltre – seconda grande narrazione naufragata – che la globalizzazione si sarebbe presentata come una ricca tavola imbandita a cui chiunque si Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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sarebbe potuto accomodare, che avrebbe dispensato vantaggi e benefici per tutti, come in un ghiotto banchetto. Ma poi abbiamo dovuto constatare che c’era chi era rimasto indietro, nascosto nelle pieghe della deindustrializzazione: non soltanto i forgotten men di Trump, al di là dell’Atlantico, ma anche chi in Europa ha cominciato a trincerarsi dietro nuovi muri, barriere e fili spinati. Sotto i duri colpi inferti ai ceti popolari e alle classi medie lavoratrici, alle diverse latitudini europee si è scoperchiato il vaso di Pandora del sovranismo e del populismo. E avevamo creduto – terza narrazione andata in pezzi – che Internet sarebbe stata una formidabile leva universale per diffondere conoscenza e democrazia ai quattro angoli del pianeta. Ma oggi sappiamo che Internet non è una casa di vetro: ci confrontiamo ogni giorno con lo strapotere dell’oligopolio dei padroni della Rete, con la censura e la propaganda sul Web, le fake news, le violazioni della privacy, i reati digitali, l’individualismo esasperato amplificato dai social media. E si veda, da ultima, la copertina del settimanale tedesco Der Spiegel del luglio scorso, che titolava in modo perentorio: «Das Ende der Wahrheit», «La fine della verità». La provocazione era rappresentata sulla pagina del periodico con la forza delle immagini: una serie di fotografie artefatte e inverosimili (o forse no?) realizzate con software basati sull’intelligenza artificiale, come quella di papa Francesco con gli occhiali da sole impegnato in una danza scatenata in discoteca e quella di Greta Thunberg che sorseggia serafica un cocktail a bordo di un inquinante jet privato. Il risultato, in definitiva, è un enorme spaesamento: siamo sprofondati nella deflazione delle aspettative e in una nuova antropologia dell’insicurezza. Di norma, in questi casi cominciano ad aggirarsi i fantasmi. È cresciuto così un ideale securitario, un profondo bisogno di sicurezza che sfida le società aperte che avevamo edificato e finisce per incupire la società del rancore.
La società del rancore Abbiamo mangiato il frutto avvelenato del rancore e siamo caduti nella trappola della nostalgia. Che cos’è il rancore che caratterizza in modo così diffuso il clima sociale? È la sensazione di aver subito un torto, o comunque di non vedersi riconosciuto un merito. In ogni caso, nasce dalla convinzione di aver dato più di quanto si è ricevuto indietro. Perché oggi l’ascensore sociale si è inceppato: scende, ma non sale. È un fatto inedito nella storia sociale del nostro paese, che dal dopoguerra in avanti, per mezzo secolo, aveva imperniato il suo modello di sviluppo proprio sui potenti meccanismi di mobilità sociale ascensionale, quando le condizioni di vita miglioravano generazione dopo generazione. Il patto sociale non scritto si basava sulla tacita promessa – oggi non più mantenuta – che i figli sarebbero stati meglio dei padri. In effetti, era andata proprio così: nel giro di un paio di decenni, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta del Novecento, i figli dei contadini e degli operai si erano ritrovati insieme ai figli della borghesia a formare un grande ceto medio, caratterizzato dal rialzo generalizzato del tenore di vita. Quel modelCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
LA POPOLAZIONE ITALIANA NEL 2065 Nord-Ovest Nord-Est Centro Sud
TRENTINOA. ADIGE LOMBARDIA
Milano
Torino PIEMONTE
LIGURIA
FRIULI V.G.
VENETO
per 1.000 abitanti
- 5,8 - 6,5 -7 - 10,1
Trieste
Venezia
Saldo migratorio con l’estero
EMILIA-ROMAGNA
Genova
15,7 milioni (29%) 11,1 milioni (20,5%) 11,6 milioni (21,4%) 15,8 milioni (29,2%) Saldo naturale (nascite-decessi)
Trento
VAL D’AOSTA Aosta
Popolazione 54,1 milioni
(arrivi-partenze) per 1.000 abitanti
Bologna Firenze
2,7 2,5 3,2 1,8
Ancona
TOSCANA
MARCHE
Perugia
Età media Nord 50 anni Centro 50 anni Sud 52 anni
UMBRIA
L’Aquila
ROMA
MOLISE
ABRUZZO LAZIO
Campobasso CAMPANIA
Napoli Potenza
Bari
BASILICATA
SARDEGNA
Cagliari
PUGLIA
CALABRIA
Catanzaro
Palermo
Saldo migratorio interno 2020-2065
SICILIA
(spostamenti di residenza previsti all’interno del paese):
Nord + 900 mila Centro + 400 mila Sud - 1,3 milioni Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Fonte: elaborazione dell’autore su dati Istat e Censis
lo di sviluppo traeva vigore dalla forza di riscatto del lavoro, dal progressivo innalzamento dei livelli di istruzione, dalla spinta di trasformazione degli stili di vita mediante l’accesso ai consumi, dalla rasserenante patrimonializzazione immobiliare familiare, dalla copertura di ultima istanza di un generoso sistema pubblico di welfare. La dinamica incrementale del pil si era accompagnata a una traiettoria di
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inclusione sociale che riduceva le disuguaglianze e favoriva la coesione della comunità nazionale. Il pil italiano era cresciuto complessivamente di oltre il 76% in termini reali nel decennio degli anni Sessanta, di oltre il 36% cumulato negli anni Settanta, di oltre il 22% negli anni Ottanta, del 13% negli anni Novanta. Successivamente i tassi di crescita si erano via via ridimensionati: +1,4% complessivamente nei primi dieci anni del nuovo millennio, poi ancora nel limbo dello «zero virgola», per poi crollare nella recessione del 2020 causata dalla pandemia: -9% in un anno. Così, l’altro volto mostrato dalla società del rancore è stato il «sovranismo psichico»: un fenomeno eminentemente prepolitico, nutrito da profonde radici sociali.
La ricerca della competitività e la depressione della domanda interna Come aveva reagito il nostro sistema economico al quadro di incertezza che si stava componendo? Aveva risposto all’insegna di una parola d’ordine: competitività! Bisognava diventare competitivi per sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione, per integrarci al meglio nelle catene globali del valore e presidiare i mercati esteri. La prima declinazione di questa formula comportava il precetto di tenere bassi i costi di produzione. Così, nei trent’anni tra il 1990 e il 2020 le retribuzioni annue lorde in Italia sono diminuite mediamente del 2,9% in termini reali – caso unico tra tutti i paesi dell’Ocse. Nello stesso intervallo di tempo, misurati a parità di potere d’acquisto (ossia neutralizzando i differenziali del costo della vita nei diversi paesi), i salari in Francia sono aumentati del 31,1%, in Germania del 33,7%, nel Regno Unito del 44,3% (grafico 5). Non si è trattato di avidità di margini di profitto imputabile alle imprese: per diventare competitive, è stato certamente più agevole comprimere quel fattore di costo, piuttosto che intervenire su altre zavorre difficili da manovrare (il prezzo occulto di una burocrazia ipertrofica e vessatoria, ad esempio, o l’elevata pressione fiscale). La seconda declinazione di quella parola d’ordine – competitività! – imponeva di mettere un freno alla spesa pubblica, nel rispetto dei parametri europei di finanza pubblica. Piuttosto che agire sulla spesa corrente, nel decennio pre-epidemia (2009-2019) gli investimenti pubblici hanno subìto un crollo del 34,8%. Risultato della ricetta? Il primo effetto è stato senz’altro positivo. Abbiamo registrato un vero e proprio boom del valore delle nostre esportazioni: +43,9% nel decennio 2009-19. Dato che mascherava però una prolungata depressione della domanda interna – ancora alla fine del 2022, infatti, i consumi delle famiglie non avevano recuperato i livelli precedenti alla grande crisi economica e finanziaria internazionale scoppiata nel 2008: segnavano un -2,3% rispetto ad allora – e poiché l’export vale solo circa un terzo del nostro pil, il risultato finale di quell’opera di adattamento al nuovo mondo, nonostante i successi internazionali del made in Italy, si è tradotto in una bassa crescita economica complessiva: uno stentato +2,7% nel decennio pre-epidemia (2009-19) a fronte di una media europea pari al +16,9%. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Grafico 5 - VARIAZIONE IN TERMINI REALI DELLE RETRIBUZIONI ANNUE LORDE MEDIE PER DIPENDENTE FULL TIME EQUIVALENTE A PARITÀ DI POTERE D’ACQUISTO, ANNI 1990-2020 Lituania Estonia Lettonia Slovacchia Repubblica Ceca Polonia Corea del Sud Irlanda Norvegia Ungheria Slovenia Cile Islanda Svezia Stati Uniti Nuova Zelanda Regno Unito Danimarca Australia Lussemburgo Canada Germania Israele Finlandia Francia Grecia Svizzera Belgio Austria Paesi Bassi Portogallo Messico Spagna Giappone Italia
92,2 74,6
67,6 65,8 47,7 45,8 44,3 38,4 38,1 32,9
26,4
12,3 4,4
Fonte: elaborazione su dati Ocse
L’Italia figurava ultima in Europa in termini di crescita. Per la verità, sotto di noi si collocava solo un paese: la Grecia commissariata dalla troika. Nel frattempo, tra le famiglie attanagliate dall’incertezza si gonfiava una inedita bolla del risparmio cautelativo. Il portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie italiane (esclusa la ricchezza concentrata negli immobili di proprietà) ha oltrepassato il valore record di 5 mila miliardi di euro. In particolare, a crescere maggiormente è stata la liquidità precauzionale: soldi tenuti fermi sui conti correnti bancari, pronti per ogni evenienza, quindi sottratti ai circuiti dell’economia reale, cioè consumi e investimenti. La liquidità ha superato i 1.200 miliardi di euro: una Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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cifra che corrisponderebbe alla sesta economia europea, dopo Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna. La differenza incrementale delle riserve liquide delle famiglie nel confronto tra il 2007 (l’ultimo anno prima del fallimento della Lehman Brothers) e il 2022 è pari a 552 miliardi di euro: un valore superiore alla somma del pil di due paesi europei come il Portogallo e l’Ungheria. Insomma, ci siamo glorificati all’ombra dei successi delle nostre esportazioni – importanti, fondamentali, indispensabili – e abbiamo trascurato la depressione della domanda interna. Ma senza consumi e investimenti un paese non progredisce: illanguidisce, al contrario.
La crisi demografica: una bomba che sta per esplodere La perdita di una visione teleologica della nostra storia, senza più un chiaro fine da perseguire dentro un orizzonte di senso definito, non si riflette esclusivamente sulla frenata dei comportamenti di consumo e di investimento delle famiglie, ma incide anche su vitali scelte esistenziali individuali, come la genitorialità. Così, oggi la questione numero uno a cui è appeso il nostro futuro è la crisi demografica: siamo seduti sopra una bomba innescata che sta per esplodere. Il primo processo della radicale transizione demografica che il nostro paese sta vivendo è la senilizzazione della popolazione. L’aspettativa di vita si allunga progressivamente: si vive sempre più a lungo (in media, 85 anni per le donne e 81 anni per gli uomini) e si ingrossano le coorti della popolazione nella terza e nella quarta età. È un fenomeno di per sé positivo, se parallelamente non si verificasse il secondo processo della transizione demografica: la denatalità. Nel 2022 abbiamo battuto un nuovo record negativo in termini di numero di nascite, scese per la prima volta sotto la soglia delle 400 mila unità (sono state 393 mila, per l’esattezza): è il minimo storico di sempre, ovvero dal 1861, l’anno dell’Unità d’Italia (grafico 6). Siamo scesi a circa la metà del numero di figli che nel nostro paese nascevano durante la prima o la seconda guerra mondiale, quando gli uomini combattevano al fronte e sulle città venivano sganciati grappoli di bombe (ne erano nati 676 mila nel 1918, 821 mila nel 1945). Siamo precipitati a soli due quinti delle nascite registrate in coincidenza del picco storico recente (correva l’anno 1964: 1.035.000 nati). La curva delle nascite si piega inesorabilmente nonostante i progressi della medicina (oggi le morti al momento del parto sono un evento raro, la medicina riproduttiva consente di fare miracoli) e nonostante il contributo proveniente dalla popolazione straniera residente nel nostro paese (il tasso di fertilità delle donne immigrate è più elevato di quello delle italiane, benché si stia riducendo nel tempo, mano a mano che assimilano il nostro stile di vita: oggi comunque circa il 20% delle nascite in Italia è da attribuire ad almeno un genitore straniero). La combinazione dei due fenomeni – senilizzazione e denatalità – determina un forte squilibrio generazionale: una inversione di quella che non ha più alcun Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Nati
Tasso di natalità
(scala sx)
(scala dx)
50 40
1918 676.000
1945 821.000
30 20 2022 393.000
10
Tasso di natalità (nati per 1.000 abitanti)
60 1964 1.035
2022
2014 2016 2018 2020
2012
2004 2006 2008 2010
2002
1994 1996 1998 2000
1992
1984 1986 1988 1990
1982
1974 1976 1978 1980
1964 1966 1968 1970
1972
1962
1954 1956 1958 1960
1952
1944 1946 1948 1950
1942
1934 1936 1938 1940
1932
1924 1926 1928 1930
1922
1914 1916 1918 1920
1912
1904 1906 1908 1910
1894 1896 1898 1900
1902
1892
1884 1886 1888 1890
1882
1872
1874 1876 1878 1880
0 1864 1866 1868 1870
1.300 1.200 1.100 1.000 900 800 700 600 500 400 300 200 100 0
1862
Nati (migliaia)
Grafico 6 - NUMERO DI NATI E TASSO DI NATALITÀ IN ITALIA, ANNI 1861-2022
Fonte: elaborazione su dati Istat
senso geometrico chiamare «piramide demografica», che adesso si presenta come un cono rovesciato – con una base, formata dalle persone più giovani, sempre più esigua, e un vertice, formato dalle persone più avanti con l’età, sempre più largo. Come conseguenza dei primi due processi, va sottolineato il terzo processo della transizione: il rimpicciolimento demografico del paese. Si tratta di un fenomeno nuovo, iniziato nel 2014: da allora la popolazione residente in Italia si è ridotta di 1,5 milioni di abitanti. Perché il saldo naturale (nascite meno decessi) è ormai strutturalmente negativo e non è compensato dal movimento migratorio (il numero delle persone che vengono a stabilirsi nel nostro paese), per cui il ricambio demografico non è più assicurato. Un problema che riguarda in particolar modo il Sud e i piccoli comuni, con la desertificazione delle aree interne. Secondo le proiezioni demografiche, questa tendenza si aggraverà nel prossimo futuro, seguendo una traiettoria difficile da contrastare nel breve periodo, a causa principalmente del fatto che il numero delle donne in età feconda (le madri potenziali: statisticamente, per convenzione, la popolazione femminile di 15-49 anni di età) si è irrimediabilmente ridotto nel tempo. Mentre si compiva l’uscita dall’età riproduttiva delle generazioni molto numerose nate all’epoca del baby boom, avveniva l’ingresso di contingenti di donne giovani meno numerosi a causa della prolungata diminuzione delle nascite, cominciata a partire dalla metà degli anni Settanta. Perciò le future nascite non saranno sufficienti a compensare i futuri decessi. Fra meno di trent’anni, nel 2050, l’Italia avrà perso complessivamente altri 4,5 milioni di abitanti (come se le due più grandi città italiane, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VIVERE SENZA DOMANI
PROIEZIONI DEMOGRAFICHE PER L’ITALIA AL 2050 CLASSI DI ETÀ Fino a 64 anni Fino a 34 anni 65 anni e oltre 85 anni e oltre Totale
2023
2050
DIFFERENZA 2023-2050
VARIAZIONE 2023-2050
milioni
%
milioni
%
milioni
%
44,7 19,4 14,2 2,3 58,9
75,9 32,9 24,1 3,9 100
35,6 15,6 18,8 3,9 54,4
65,5 28,7 34,5 7,2 100
-9,1 -3,7 4,6 1,6 -4,5
-20,3 -19,4 32,3 71,7 -7,6
Fonte: elaborazione su dati Istat
Roma e Milano insieme, scomparissero). Questo dato sarà il risultato composto di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni (in particolare, -3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un contestuale aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (in particolare, +1,6 milioni con 85 anni e oltre) (tabella 1). I giovani italiani sono una generazione perduta innanzitutto nelle statistiche demografiche, insomma. Le persone con meno di 35 anni, che al primo censimento dell’Italia repubblicana – nel 1951, quando il paese si preparava al «miracolo economico» – pesavano per circa il 57% della popolazione complessiva, oggi si sono ridotte a meno di un terzo e sfioreranno il 29% del totale nel 2050. Se nel 1951 i grandi vecchi over 80 erano 510 mila, oggi sono 4 milioni; se le persone con più di 90 anni erano 28 mila, oggi sono 637 mila; e se gli oldest old, i centenari, allora erano una rarità (in quell’anno se ne contavano 165 in tutto, quasi a poterli conoscere per nome e cognome), adesso sono diventati un esercito di 20 mila persone. Questa tendenza pone una seria ipoteca sulla nostra capacità produttiva, per effetto della riduzione della popolazione in età attiva, quindi delle forze di lavoro: l’andamento demografico potrebbe determinare di per sé una consistente riduzione del pil, in assenza di un robusto innalzamento dei livelli di produttività, poco probabile in tempi brevi. I problemi per la sostenibilità del nostro ingente debito pubblico e per il finanziamento della spesa sociale (sanità, assistenza, previdenza) sempre più necessaria in ragione dell’invecchiamento demografico, sono del tutto evidenti.
Invertire la tendenza: ripartire da giovani e donne Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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È una deriva ineluttabile, si dice. In Occidente va così, ormai: è l’inverno demografico, che svuota le culle ovunque. Ma questa affermazione è falsa. Se è vero che la demografia è in sofferenza in tutto il continente europeo, è altrettanto vero che in paesi a noi vicini, meno fatalisti di noi, non c’è stata una emorragia di giovani di analoga portata. In Francia, un paese di ampiezza demografica leggermente superiore a quella italiana, ogni anno nascono quasi il doppio dei figli rispetto all’Italia; in Svezia il tasso di fertilità ha conosciuto una inversione di ten-
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denza grazie alle sagge politiche adottate, mantenendo in positivo il saldo naturale; in Germania, che è stata afflitta come l’Italia da un forte processo di invecchiamento, sono state introdotte misure efficaci per attrarre giovane capitale umano da altri paesi. La combinazione delle politiche pubbliche da mettere in campo per favorire un ritorno delle nascite, in un paese come il nostro che non ha mai brillato per le misure di sostegno alla genitorialità, è nota. Non si rivelano efficaci gli spiccioli di estemporanei bonus bebé o di voucher per le baby-sitter. Sono invece utili sgravi fiscali strutturali o trasferimenti monetari duraturi per le famiglie numerose; una dotazione di asili nido pubblici e di servizi per l’infanzia ben maggiore di quella attuale (oggi solo il 13,6% dei bambini di 0-2 anni trova posto nelle strutture pubbliche); congedi parentali più generosi e fruibili parimenti da madri e padri, intercambiabili nei ruoli casalinghi; misure di conciliazione lavoro-famiglia per le donne, sulle quali gravano prevalentemente le attività di cura, per favorire l’occupazione femminile. Perché è ampiamente dimostrato che nei paesi in cui il tasso di occupazione femminile è più elevato, risulta più alto anche il tasso di natalità. Proprio le donne costituiscono un segmento sociale tradizionalmente tenuto ai margini del mercato del lavoro italiano. Si può amare e nello stesso tempo lavorare, fare carriera, raggiungere traguardi ambiziosi, magari ricoprire incarichi prestigiosi e ottenere la giusta gratificazione economica con un lauto stipendio, nel nostro paese? Non sempre, se si è una donna. Perché, se ama un figlio piccolo da accudire o un genitore anziano di cui prendersi cura, ancora oggi una donna dovrà sacrificare parte dei propri sogni di realizzazione professionale. Non a caso, il tasso di attività femminile in Italia è fermo al 56,4%: ci separa un abisso dall’81,3% delle svedesi, dal 75,4% delle tedesche, dal 70,7% delle francesi. Siamo semplicemente all’ultimo posto in Europa, preceduti anche da Romania e Grecia. Nelle regioni del Mezzogiorno, poi, le donne che lavorano sono solo un terzo del totale (il 34,4% nel 2022), meno di quanto mediamente il paese intero registrava alla fine degli anni Settanta, cinquant’anni fa. In più, il 31,8% delle italiane che lavorano ha un impiego part-time (tra gli uomini il dato scende all’8,3%), quindi percepisce retribuzioni ridotte. L’altro segmento sociale tradizionalmente tenuto alla porta dal mercato del lavoro è quello dei giovani. Mai prima d’ora l’Italia ha potuto contare su giovani tanto istruiti (l’odierno tasso di laureati è senza precedenti), mai prima d’ora i giovani sono stati così dotati di competenze specifiche possedute in maniera pressoché esclusiva (rispetto ai quasi analfabeti digitali più vecchi di loro), mai prima d’ora i giovani sono stati così aperti alla globalità (con una conoscenza delle lingue straniere, ad esempio, superiore a quella di tutte le generazioni che li hanno preceduti). Per effetto delle tendenze demografiche, è aumentato il loro potere contrattuale nelle dinamiche di domanda e offerta di lavoro, in ragione della loro relativa scarsità. Tuttavia, nonostante il picco di occupazione toccato negli ultimi mesi (un record da quando esistono serie storiche sulle forze di lavoro: il 1977), tra di loro sono tanti gli scoraggiati, gli inattivi e i sottoinquadrati, molti gli espatriati e gli Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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VIVERE SENZA DOMANI
esuli residenti all’estero. Anche su questo punto l’Italia detiene un primato negativo: la più alta incidenza di Neet (Not in Education, Employment or Training), cioè giovani che non studiano, non sono impegnati in percorsi di formazione e non lavorano. Sono il 20,8% delle persone con meno di 35 anni (circa 2,5 milioni): un dato che ci colloca al primo posto della graduatoria europea. In aggiunta, sono indispensabili lungimiranti politiche migratorie che non si limitino alla gestione dell’emergenza e della prima accoglienza dei migranti che approdano sulle nostre coste. Occorre una realistica programmazione dei flussi d’ingresso legali degli stranieri tenendo conto delle esigenze di manodopera e di figure professionali manifestate dal sistema produttivo, prevedendo allo stesso tempo l’adozione di adeguati strumenti di formazione e di inclusione sociale a beneficio degli stranieri che arrivano nel paese. Come pure servirebbe una riforma dei meccanismi giuridici di concessione della cittadinanza italiana, secondo i criteri dello ius soli o dello ius culturae. Si tratta, insomma, di procedere con accortezza alla ricerca del delicato equilibrio tra gli argomenti della ragione (le esigenze dettate dalla crisi demografica) e una emozione legittima e potente come la paura: la paura di un’«apocalisse culturale», quella che si prova quando una società percepisce la minaccia dello sradicamento identitario.
Identità deboli e immaginario collettivo disincantato Tra i tanti cambiamenti in corso, c’è da considerare l’eventualità che per l’attuale generazione di giovani venga meno il triplice valore associato in passato al lavoro: la capacità di assicurare la prosperità economica, di funzionare come una forte leva identitaria, di rappresentare il mezzo per raggiungere le proprie aspirazioni esistenziali. Anche lo studio può essere percepito come un investimento – investimento di tempo e di energie, oltre che di risorse economiche pubbliche e private – non più in grado di garantire l’alta remuneratività assicurata in passato in termini di riconoscimento, quando l’istruzione era senz’altro lo strumento preferenziale per salire i gradini della scala sociale. Nella stagione del disincanto di fronte alle promesse tradite della modernità, vacillanti sulla soglia tra il vecchio e il nuovo mondo, l’incomunicabilità generazionale – la distanza esistenziale dell’attuale generazione di giovani dai boomers e da tutti gli altri più anziani di loro – sembra siderale. Si tratta in effetti della prima generazione dal dopoguerra nel cui immaginario è possibile ravvedere il completo rovesciamento degli attributi simbolici del passato: è la prima a misurarsi, in un defatigante corpo a corpo, con gli idoli infranti del progresso. Un esempio paradigmatico? La plastica. Da emblema dell’emancipazione sociale per le passate generazioni (si pensi al valore altamente simbolico associato all’ingresso degli elettrodomestici e degli utensili in plastica nelle case della classe media, in un periodo storico in cui peraltro l’industria chimica italiana poteva vantare importanti primati a livello mondiale), oggi la plastica ha perso la sua aura e anzi è scaduta a icona dell’inquinamento degli oceani, nell’ansiosa attesa di un Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
mondo finalmente «plastic free». Oppure si rifletta sulla colpevolizzazione di certi consumi in nome della preservazione dell’ambiente, quando invece nel recente passato proprio l’opulenza dei consumi era il segno tangibile dell’affrancamento dalla scarsità e dall’arretratezza, dell’accesso all’agognata società affluente. Ed è la prima giovane generazione alle prese con la difficile rielaborazione critica della narrazione ottimistica della globalizzazione imperante negli ultimi trent’anni. Senza però avere la forza di rappresentare le proprie istanze generazionali (forza numerica, innanzitutto: non si dimentichi mai che sono i figli della denatalità che abbiamo alle spalle). Senza avere la capacità di incidere politicamente (quale leader politico guarderebbe con interesse un bacino di potenziale consenso elettorale talmente esiguo e che si va ulteriormente restringendo nel tempo?) oppure di innescare il conflitto sociale per promuovere il cambiamento (come avevano fatto ben più folte generazioni di giovani prima di loro). E, soprattutto, senza avere pronta una palingenetica Weltanschauung che preluda a un mondo nuovo, una volta scampati al collasso. A questo proposito, mi sembra significativo che all’indomani della presentazione dell’ultimo Rapporto Censis sulla situazione sociale del paese (dicembre 2023), in cui per fare sintesi dell’identità di periodo degli italiani abbiamo usato la definizione di «sonnambuli» – apparentemente vigili, ma incapaci di vedere – diversi commentatori abbiano rievocato suggestivi antecedenti logico-storici. I sonnambuli dello storico Christopher Clark: un saggio che accusa la civiltà europea che stava precipitando nelle tenebre della Grande Guerra di essere stata cieca dinanzi ai presagi. E I sonnambuli di Hermann Broch: la trilogia di romanzi, pubblicata dall’autore austriaco fra il 1931 e il 1932 (il 30 gennaio 1933 Hitler sarà nominato cancelliere del Reich), che inscena la deriva nichilista e la disgregazione dei valori di una intera epoca. Qual è il nocciolo della questione? Se la modernità inizia quando alla fede nella provvidenza divina abbiamo sostituito la fede nel progresso, mondato da ogni mistero in quanto basato sulla razionalità tecnico-scientifica e riposto interamente nelle nostre mani, adesso – una volta disinnescato il sortilegio della «fine della storia» – si ripresenta per noi una gravosa assunzione di responsabilità per esserci consegnati a un insopportabile destino di integrale immanenza. «Dio è morto», aveva annunciato Nietzsche. Con la morte di Dio, però, non abbiamo ucciso la nostra inestinguibile smania di trascendenza: di un senso ultimo dell’esistenza. Quel bisogno di trascendenza lo avevamo laicamente sublimato con l’idea della libertà realizzata qui sulla terra e con la promessa di un benessere crescente e illimitato (la mitologia profana dell’ascesa sociale). Ma se quella profezia di redenzione terrena oggi traballa, e ci appare smentita dal nuovo corso della storia, che cosa potrà colmare quel malinconico vuoto domani, nel momento del pericolo? Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
MANIFESTO DELLA IMMIGRAZIONE POSSIBILE
DI SCIULLO La politica migratoria italiana ha fallito: non ‘protegge’ le frontiere, alimenta l’illegalità e scoraggia l’integrazione di giovani cruciali per un paese in declino demografico. Un’agenda per ribaltare il paradigma. La cittadinanza va riconosciuta, non concessa. di Luca
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1. DISPETTO DELLA RETORICA MEDIATICOpolitica di un’Italia invasa dai migranti, il numero di residenti stranieri nel paese si mantiene – tra lievi alti e bassi – sostanzialmente stabile: poco più di 5 milioni da almeno 6 anni (5 milioni e 141 mila nel 2022, 5 milioni e 31 mila nel 2021, 5 milioni e 172 mila nel 2020, 5 milioni e 40 mila nel 2019, 5 milioni e 256 mila nel 2018) 1. A Brexit compiuto, siamo il quarto paese dell’Unione Europea con il maggior numero di cittadini stranieri dopo la Germania (che ne ospita quasi 11 milioni), la Spagna (5,4 milioni) e la Francia (5,3 milioni). Questi paesi di immigrazione raccolgono, insieme, i due terzi dei 37,5 milioni di stranieri residenti nella Ue (l’8,4% dell’intera popolazione dell’Unione), che salgono a 55,3 milioni se si considerano anche i cittadini comunitari nati all’estero o naturalizzati. I non comunitari regolarmente soggiornanti in Italia ammontano a 3,7 milioni: numero anch’esso sostanzialmente inalterato negli ultimi anni, al netto delle oscillazioni indotte dalla crisi epidemica (erano 3 milioni e 616 mila nel 2019, 3 milioni e 374 mila nel 2020, 3 milioni e 562 mila nel 2021 e 3 milioni e 728 mila nel 2022). A restare pressoché intatta, a dispetto delle ben nove regolarizzazioni (sanatorie) in 38 anni 2, è anche la sacca di non comunitari irregolari, presenti cioè nel paese senza un valido titolo di soggiorno: fino al 2021 sono stati, per lungo tempo, oltre 500 mila e solo nel 2022 sono scesi a circa 458 mila grazie agli effetti – piuttosto tenui Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Salvo diversa indicazione, tutti i dati riportati nel presente contributo sono tratti da Dossier Statistico Immigrazione 2023, Roma 2023, Idos. 2. Alle note regolarizzazioni che, quasi sempre, hanno accompagnato gli interventi normativi, con una media quasi cronometrica di una ogni 4 anni (1986, in occasione del varo della legge Foschi, la prima sull’immigrazione in Italia; 1990, in occasione della legge Martelli; 1995, in occasione del decreto Dini, poi bocciato dalla Lega al momento di convertirlo in legge; 1998, in occasione del varo del Testo unico; 2002, in occasione della cosiddetta legge Bossi-Fini; 2009, appena successiva al decreto Maroni del 2008; 2013; 2020, stesso anno del varo del decreto Lamorgese), se ne aggiunge una primissima, nel 2002, promossa dall’Inps per ragioni prettamente amministrative.
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– della regolarizzazione del 2020 3, proceduta con sfiancante lentezza e non ancora terminata. Delle 207 mila domande presentate da datori di lavoro, a maggio 2023 soltanto il 31% avevano terminato l’iter con esito positivo (il rilascio di un permesso di soggiorno per lavoro); un altro 15% ha conosciuto un definitivo rigetto. Dopo tre anni i regolarizzati sono 65 mila, mentre erano stati circa 650 mila nel 2002: se quella regolarizzazione avesse avuto gli stessi ritmi, avrebbe impiegato trent’anni. In ogni caso, il rapporto medio tra non comunitari irregolarmente presenti e soggiornanti regolari resta pressoché stabile: circa 1 a 7. A impedire di prosciugare questo bacino fisso di irregolari è l’inefficacia delle regolarizzazioni di massa una tantum, che se non supportate da contratti di medio-lungo periodo e da solide tutele e condizioni d’impiego producono risultati labili e di breve durata: gli immigrati che ne beneficiano ricadono nel sommerso già alla prima scadenza del nuovo permesso di soggiorno, essendo nel frattempo decaduto il rapporto di lavoro regolarizzato. Problematica è anche l’estrema volatilità dei permessi di soggiorno «a termine», cioè legati a uno specifico motivo della presenza e soggetti a periodico rinnovo, stanti i rigidi e proibitivi requisiti necessari: in particolare, l’esibizione a ogni scadenza di un regolare contratto di lavoro in essere, il che presuppone una continuità occupazionale assai difficile. Eppure, i titolari di questi permessi precari sono cresciuti ultimamente in modo consistente: +267 mila nel 2022, per un totale di 1 milione e 486 mila (il 39,9% di tutti i soggiornanti non comunitari). Di contro, a fine 2022 i titolari di permessi di soggiorno di «lunga durata» (non soggetti a scadenza) sono 2 milioni e 241 mila: -101 mila rispetto al 2021, anche per l’avvenuta acquisizione della cittadinanza italiana nel corso dell’anno. Le naturalizzazioni sono state 214 mila, ma sarebbero oltre 1 milione gli stranieri nati in Italia che potrebbero acquisire la cittadinanza se vigesse lo ius soli e circa 900 mila quelli che, avendo terminato anche un ciclo quinquennale di formazione scolastica, ne avrebbero accesso se vigesse lo ius culturae o scholae. Tra i soggiornanti «a termine» spicca il notevole aumento, nel 2022, di quelli per protezione (richiesta di asilo, protezione internazionale e speciale, protezione temporanea): ben 353 mila (+172 mila rispetto al 2021), pari a un quarto (23,7%) del totale, per oltre due quinti costituiti da titolari della protezione temporanea riservata ai profughi in fuga dalla guerra in Ucraina (circa 146.400). Malgrado lo straordinario afflusso per la suddetta guerra, i 353 mila richiedenti asilo e titolari di protezione presenti in Italia rappresentano – contro ogni distorta rappresentazione strumentale – appena lo 0,7% della popolazione totale in Italia: meno della metà della media europea, dove i 7,5 milioni di richiedenti asilo e rifugiati incidono per l’1,7% sulla popolazione complessiva con punte del 4% in Repubblica Ceca, del 2,8% in Germania e in Svezia, del 2,7% in Polonia. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
2. Le persistenti politiche di chiusura, espulsione e respingimento dei migranti perseguite da Ue e Italia anche attraverso l’onerosa strategia della «esternalizza-
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3. XXIX Rapporto sulle migrazioni 2023, Fondazione Ismu Ets, Milano 2024, Franco Angeli.
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zione delle frontiere» – accordi con paesi di transito affinché blocchino e/o «riprendano» con la forza i migranti diretti verso l’Europa – non sono in grado di annullare la pressione migratoria. Nonostante i respingimenti illegali, realizzati anche con metodi brutali (precosse, denudamenti, bruciature, bastonate, docce gelide, torture) da diverse polizie nazionali lungo le rotte dirette verso l’Ue (oltre 25 mila tra il 2017 e il 2022, secondo il Black book of pushbacks 2022) e a dispetto dei memoranda e degli accordi sottoscritti con Turchia (cui l’Ue dal 2016 ha elargito 9,5 miliardi di euro), Libia (che solo dall’Italia ha ricevuto dal 2017 quasi 1 miliardo di euro, oltre a mezzi navali ed equipaggiamenti), Tunisia (firmato con l’Ue nel luglio 2023, dopo che tra 2011 e 2022 l’Italia aveva stanziato oltre 47 milioni di euro per sostenerne la Guardia costiera e dopo che l’Ue, tra 2015 e 2022, aveva stanziato altre decine di milioni di euro), Niger e Bosnia, nel 2022 sono stati oltre 331 mila gli ingressi irregolari nell’Unione, contro i 199.900 del 2021 e i 126.300 del 2020. Di questi, 105.600 sono avvenuti lungo la rotta del Mediterraneo centrale (erano stati 67.700 nel 2021 e 35.700 nel 2020, mentre nei primi nove mesi del 2023 si era già a 127 mila), ancora la più letale al mondo tra quelle marittime 4; 144.100 lungo la rotta dei Balcani occidentali (contro i 61.600 del 2021 e i 26.900 del 2020, ma 70.500 già nei primi 9 mesi del 2023), dove continuano i violenti respingimenti verso sud in quel surreale «gioco» (the game lo chiamano i migranti) in cui si è riportati al punto di partenza e di lì occorre di nuovo incamminarsi 5; circa 81.800 lungo altre rotte. L’Italia assorbe la quasi totalità dei flussi attraverso il Mediterraneo centrale – 105.100 nel 2022, il 13,4% minori non accompagnati – e una parte consistente di quelli provenienti dalla rotta balcanica (13 mila nel 2022). A tale incremento degli arrivi (comunque contenuto rispetto al picco dei 181 mila del 2016 e in generale alle punte del periodo 2014-2017) è corrisposto quello delle domande di protezione: 966 mila nell’Ue (tra cui oltre 240 mila minori di cui 39.500 non accompagnati) e 77.200 in Italia (8,7% del totale europeo). In aumento anche i richiedenti asilo e i titolari di protezione ospitati nel sistema nazionale di accoglienza. I primi sono tornati a essere relegati, su disposizione del decreto Cutro (disegno di legge 20/2023 convertito in legge 50/2023) nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) assegnati in gestione a enti del privato sociale su bando delle prefetture, diventati da subito più che «ordinari» se a fine 2022 accoglievano 71.882 persone, il 67% circa di tutti i migranti ospitati nel sistema nazionale di accoglienza. A tali strutture lo stesso decreto ha tagliato servizi fondamentali come l’assistenza psicologica, l’orientamento legale, l’insegnamento della lingua italiana L2, facendone mere «sale d’attesa» in cui i richiedenti asilo aspettano inerti, spesso per più di un anno, l’esito delle loro domande, alla mercè di reclutaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. In tutto il Mediterraneo, tra il 2014 e l’agosto 2023, i morti e i dispersi accertati sono stati circa 28 mila, di cui 2.411 nel solo 2022 – in 3 casi su 5 lungo la rotta centrale – e 2.324 nei primi 8 mesi del 2023. 5. Uno dei terminali di questa rotta è l’Italia, che nel 2022 ha ripreso a effettuare le «riammissioni» dei profughi in Slovenia, nonostante la pronuncia di illegittimità da parte del Tribunale di Roma (2021) e il fatto che, con ciò, essi subiscano – come recita la stessa sentenza – «trattamenti inumani e degradanti».
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tori di manovalanza da sfruttare sotto caporalato (nei campi) o per attività illecite l’(da parte di organizzazioni criminali). I titolari di protezione vengono invece ospitati nei centri Sai, gestiti dai Comuni. Nel 2022, delle 53 mila domande di protezione esaminate in Italia dalle Commissioni territoriali, ha ricevuto esito positivo in primo grado il 48,4%, in linea con la media Ue. In 7.610 casi è stato ottenuto lo status di rifugiato, in 7.200 la protezione sussidiaria (le due tipologie di protezione internazionale) e in quasi 10.900 casi la protezione nazionale «speciale», che dal 2018 ha sostituito in chiave fortemente restrittiva la vecchia protezione «umanitaria» secondo criteri ulteriormente contratti dal decreto Cutro. I richiedenti cui non viene riconosciuta una forma di protezione passano automaticamente in condizione di irregolarità giuridica e diventano passibili di espulsione (aggravata dal divieto di rientrare in Italia per un certo periodo di anni), il che sancisce il fallimento dell’intero percorso migratorio e la vanificazione di tutti i loro sforzi. Per questo si rendono irreperi bili, disperdendosi sul territorio. A fronte di una sacca di irregolari stimata in circa 460 mila immigrati (continuamente rimpinguata da simili meccanismi), nel 2022 quelli raggiunti da un provvedimento di espulsione erano appena 36.770, di cui solo l’11,7% effettivamente rimpatriato (4.304 persone), mentre dei 6.383 mi granti transitati nel 2022 in uno dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) sparsi sul territorio nazionale a essere rimpatriato è stato meno del 50%. Tutti gli altri restano in Italia come «invisibili». Le periodiche variazioni dei tempi di per manenza – da 30 giorni a 18 mesi – non sono state in grado di elevare il tasso di rimpatrio dei migranti. A fronte di una simile inefficacia del sistema di espulsione e rimpatrio, che alimenta la sacca di irregolarità e rende largamente inutile l’onerosa detenzione amministrativa nei Cpr (costata 56 milioni di euro tra il 2021 e il 2023, mentre per il 20232025 sono 42,5 i milioni stanziati) e pur a fronte delle condizioni di vita disumane che i trattenuti sono costretti a subirvi come da anni attestano i rappor ti del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, le recenti politiche governative puntano ad aumentare il numero dei Cpr, auspican do di istituirne almeno uno per regione. Per rimediare agli effetti strutturalmente disfunzionali di questi centri, il governo ha pensato di costruirne anche alla fron tiera, dove trattenere i richiedenti asilo provenienti da paesi terzi considerati si curi (o che abbiano provato a entrare illegalmente in Italia) per tutto il tempo necessario a vagliarne la domanda con «procedura accelerata». In caso di proba bile diniego, espellerli sarebbe più facile. Al contempo, è stato inaugurato un si stema di vaglio extraterritoriale delle domande di protezione con la costruzione di un hotspot e di un Cpr in Albania (sulla base del recente accordo sottoscritto con Tirana), dove dirottare i richiedenti asilo maschi e adulti intercettati in mare dalla Guardia costiera italiana. Problematico è anche il modello di segregazione occupazionale degli immi grati che, complice un impianto normativo vessatorio per meccanismi d’ingresso e modalità di gestione dei migranti economici, si è venuto consolidando e croni Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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cizzando nei decenni. La subordinazione del permesso di soggiorno per lavoro alla previa vigenza di un contratto e al suo rinnovo, insieme al meccanismo della chiamata nominativa dall’estero da effettuare senza aver mai incontrato il lavoratore straniero e all’abolizione di ogni altra possibilità di entrare e permanere in Italia a fini lavorativi, sono misure introdotte nel 2002 dalla legge Bossi-Fini che pongono il lavoratore straniero in posizione di debolezza rispetto al datore di lavoro e conferiscono a quest’ultimo un potere di ricatto. Ciò ha favorito abusi, sfruttamento e blocco della mobilità occupazionale e sociale dei migranti. Non a caso costoro restano schiacciati sui gradini più bassi delle professioni, in quel «mercato secondario» costituito dalle occupazioni più precarie, faticose, sottopagate, dequalificate ed esposte al lavoro nero, in cui i lavoratori italiani rifiutano di cimentarsi anche in anni di crisi. A dispetto della retorica che vorrebbe gli stranieri «rubare il lavoro» agli italiani. 3. Alla luce dei problemi qui richiamati e statisticamente documentati, cerchiamo di enucleare alcune proposte di revisione delle politiche migratorie nazionali. Lo stato d’irregolarità penalizza gravemente l’immigrato, giacché lo rende privo di diritti, tutele e potere contrattuale, dunque ricattabile e sfruttabile da organizzazioni criminali o datori di lavoro senza scrupoli. A dispetto della retorica politica che giustifica con argomenti securitari le norme restrittive a causa delle quali l’irregolarità si riproduce, aumenta anche l’insicurezza nel paese perché il sommerso cui queste persone sono condannate, insieme all’inefficacia dei rimpatri, le rende irrintracciabili e le sottrae al controllo. L’irregolarità danneggia inoltre l’economia italiana, perché alimenta l’evasione fiscale da parte del lavoratore straniero e del suo datore di lavoro. Dunque, il primo pacchetto di riforme risponde all’esigenza di abolire definitivamente lo status di irregolarità degli stranieri non comunitari. Tale misura farebbe decadere il reato di clandestinità, con conseguente abrogazione del provvedimento d’espulsione (se il soggiornante non può rinnovare il titolo di soggiorno per la perdita dei requisiti necessari) e della detenzione amministrativa. Ne deriverebbe la definitiva chiusura e abolizione dei Centri di permanenza per il rimpatrio. Funzionale, in tal senso, sarebbe l’estensione a cinque anni dei permessi di soggiorno per lavoro (subordinato e autonomo) e per famiglia, in quanto motivi che denotano l’intenzione di un radicamento duraturo in Italia. Terminato il periodo di vigenza, quanti intendano restare nel paese devono poter accedere al permesso di soggiorno Ue per lungo-soggiornanti non più soggetto a scadenza, oppure – dopo un esame sulla conoscenza di lingua, cultura, ordinamento civile e costituzione dell’Italia – acquisire per naturalizzazione la cittadinanza italiana. Occorre poi istituire un permesso annuale di (re)inserimento socio-occupazionale, da rilasciare ai soggiornanti per studio, residenza elettiva, ricerca lavoro il cui relativo titolo di soggiorno non si sia potuto rinnovare, alla scadenza, per la perdita dei requisiti necessari, come pure ai richiedenti asilo e ai titolari di protezione accolti nel sistema di accoglienza. Tale permesso implicherebbe, per il titolare, il conteCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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stuale ingresso in programmi di (re)integrazione sociale e lavorativa mirati, a seconda dei casi, a recuperare i requisiti utili a rinnovare il titolo di soggiorno originario o ad acquisire un permesso di soggiorno per lavoro o famiglia, valorizzando l’apporto del terzo settore. Il (re)ingresso nel mercato del lavoro di quanti avranno terminato tali programmi avverrebbe attraverso apposite sottoquote, da inserire nei decreti flussi annuali. Serve un piano triennale di completo riassorbimento della sacca di immigrati non comunitari in condizione di irregolarità giuridica, sempre mediante rilascio di un permesso annuale di reinserimento socio-occupazionale, ingresso in programmi di reintegrazione sociale e lavorativa, reingresso regolare nel mondo del lavoro attraverso apposite sottoquote previste nei decreti flussi. Il secondo ambito di riforme riguarda la revisione dei meccanismi di ingresso e soggiorno in Italia per motivi di lavoro. Il punto di partenza consiste nel ripristinare in maniera ordinaria e senza soluzione di continuità la programmazione triennale delle quote d’ingresso di lavoratori stranieri, basandola sull’intera stima del fabbisogno di manodopera aggiuntiva del mercato del lavoro italiano e non su un numero sottodimensionato rispetto al fabbisogno rilevato. A tal fine, occorre ripri stinare il permesso di soggiorno per ricerca di lavoro sotto sponsor per un anno, sia pure secondo criteri e meccanismi di attuazione riveduti, in grado di impedire gli abusi che ne avevano caratterizzato l’avvio. La procedura di chiamata nomina tiva dall’estero potrebbe essere limitata alle sole aziende (mediograndi) che abbia no previamente attivato corsi di formazione professionale nei paesi di origine o di transito degli aspiranti lavoratori non comunitari. Così la chiamata nominativa ces serebbe di essere una «pesca al buio» del lavoratore. Bisogna inoltre ripartire, all’interno dei decreti flussi annuali, le quote d’ingresso in quattro specifiche sottoquote: una riservata agli ingressi su chiamata nomina tiva da parte delle imprese mediograndi; una riservata agli ingressi per ricerca di lavoro sotto sponsor da parte delle piccole imprese (che non possono promuove re corsi di formazione all’estero) e delle famiglie; una per gli immigrati già presen ti che abbiano seguito corsi di reinserimento sociooccupazionale finalizzati al riac quisto dei requisiti di soggiorno; una riservata ai richiedenti asilo e ai titolari di protezione inseriti in «terza accoglienza». È necessario varare una legge quadro nazionale sull’integrazione che funga da riferimento unitario per le politiche regionali e locali, al fine di renderle coerenti tra loro e rispetto alle opzioni fondamentali e agli obiettivi generali stabiliti a livel lo nazionale. Questa legge deve contrastare i modelli dominanti di subalternità dei migranti, promuovendone la partecipazione attiva alla vita collettiva e rimuoven done le forme di discriminazione istituzionale e burocratica nell’accesso alle misu re di sostegno al reddito e di welfare, anche per contrastare i modelli dominanti di segregazione lavorativa. In ambito culturale, bisogna istituire e regolamentare un albo nazionale dei mediatori culturali da impiegare in maniera continuativa negli uffici pubblici, presso gli sportelli dei servizi fondamentali e nelle scuole, disegnando le linee di un modello d’integrazione basato sullo scambio e il dialogo interculturale, a spiccata connotazione territoriale e a strutturale coinvolgimento Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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delle collettività straniere. 4. È urgente riformare la legge sulla cittadinanza. Inteso che la cittadinanza abilita la persona che la possiede a esercitare la gamma di diritti e di doveri che sostanziano la piena partecipazione e corresponsabilità alla vita collettiva del paese, quindi la piena integrazione al contesto sociale, civile e politico. E inteso che il processo d’integrazione ha l’effettiva possibilità di prendere avvio, svilupparsi e compiersi solo se si è previamente abilitati a esercitare i diritti e i doveri che la cittadinanza dischiude. Diventa pertanto evidente che la cittadinanza non può essere concessa alla fine del processo d’integrazione, come un premio da conferire dopo un iter la cui fatica e responsabilità ricade esclusivamente sulle spalle dell’immigrato. Va piuttosto riconosciuta all’inizio di tale processo, come necessaria precondizione del suo successo. Alla luce di questi presupposti, la riforma potrebbe e dovrebbe riconoscere ai non comunitari maggiorenni il diritto di acquisire la cittadinanza per naturalizzazione dopo cinque anni di soggiorno regolare, previo superamento di un apposito esame. Ai minorenni dovrebbe invece riconoscerla alla nascita o all’arrivo in Italia, come seconda nazionalità insieme a quella dei genitori, con il diritto di scegliere al compimento della maggiore età: l’opposto di quanto accade oggi per i giovani stranieri nati in Italia, che solo quando diventano maggiorenni possono far richiesta di acquisizione della cittadinanza italiana in aggiunta o in sostituzione di quella dei genitori. Vanno revocati unilateralmente i memorandum d’intesa con Libia e Tunisia, gli accordi con il Niger, il protocollo con l’Albania, l’accordo con la Slovenia (per la «riammissione» dei profughi respinti dall’Italia) e, in generale, va abbandonata l’intera strategia di esternalizzazione delle frontiere sottesa a tutti questi protocolli. In sua vece occorre stipulare con i paesi di origine e di transito accordi finalizzati a istituire, al loro interno, corsi e percorsi di formazione pre-partenza, sostenuti dallo Stato italiano e realizzati – in collaborazione con altre strutture pubbliche e private – da aziende medio-grandi italiane interessate all’assunzione di lavoratori non comunitari da far rientrare nelle apposite sottoquote d’ingresso dei decreti flussi. Bisogna trasformare la consolidata buona prassi dei corridoi umanitari in politica ordinaria, da attuare lungo le principali rotte marittime e terrestri dei migranti diretti in Italia per garantire loro viaggi in sicurezza e combattere in maniera efficace le organizzazioni criminali di trafficanti. Va poi abrogata la procedura accelerata di domanda di protezione alla frontiera, prevedendo per tutti una procedura unica di presentazione da effettuarsi in presenza fisica sul suolo italiano, con diritto di permanervi fino all’esito definitivo. E vanno ripristinati i criteri di riconoscimento della protezione speciale (ex umanitaria) quale forma di protezione nazionale da affiancare, in ottemperanza dell’articolo 10 della costituzione, a quelle internazionali di asilo e di protezione sussidiaria, come previsti nel 2020 dal decreto Lamorgese. Criteri che tenevano conto, in fase di valutazione della richiesta, di fattori specifici del richiedente quali la durata della permanenza in Italia, il grado di integrazione e i legami familiari. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Dobbiamo adottare in maniera ordinaria, per la totalità dei migranti forzati, il sistema di accoglienza implementato per i profughi ucraini a partire dal 2022 (in forza della direttiva Ue 55/2001), la cui sperimentazione ha dato prova di assai migliore efficacia rispetto al sistema ordinario. Ai profughi dall’Ucraina è stato su bito riconosciuto il diritto di scegliere la città (o il paese Ue) in cui stabilirsi, cerca re un lavoro, affittare un alloggio, iscrivere i figli a scuola, accedere al sistema sa nitario nazionale, ricevere cure e vaccinazioni. Per la prima volta l’accoglienza diffusa è stata adottata come politica alloggiativa ordinaria per i profughi (acco glienza in famiglia o in alloggi messi a disposizione dal terzo settore in accordo con i Comuni, come ultima istanza in strutture alberghiere) e si è permesso ai profughi di reperire da sé un alloggio con un sostegno economico iniziale minimo, facendo leva sulla rete dei connazionali già presenti in Italia. Vanno infine aboliti i Cas, lasciando come sistema unico di «seconda acco glienza» per richiedenti asilo e titolari di protezione la rete dei centri Sai. Qui oc corre garantire a tutti percorsi di sostegno all’integrazione e, una volta usciti, pre vedere come «terza accoglienza» la politica alloggiativa diffusa sperimentata con i profughi dall’Ucraina. Su una simile agenda andrebbe costruito urgentemente un consenso più am pio possibile, per contrastare l’attuale oscillazione tra immobilismo e coazione a ripetere che tiene impantanate le politiche in materia. In nome di una ideologizza zione sterile e dannosa per l’intero paese.
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IL DESTINO DELL’ITALIA PASSA PER IL CALCIO E VICEVERSA
GASPARRI Radiografia del declino calcistico italiano. L’occasione persa della globalizzazione del pallone, a beneficio di inglesi e spagnoli. L’appartenenza alla squadra come bene rifugio e la rinascita della Serie A nel post-Covid. Dobbiamo costruire in casa i talenti del futuro. di Moris
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1. ECONDO UNA LEGGENDA POPOLARE UDITA qualche anno fa sulle tribune dello Stadio Castellani di Empoli – in piena provincia toscana, vero grande heartland del calcio italiano – se la notte del 3 luglio 1990 Walter Zenga non avesse bucato l’uscita che avrebbe poi permesso a Caniggia di segnare con un facile colpo di testa, l’Italia avrebbe evitato supplementari e rigori contro l’Argentina, sarebbe approdata in finale e avrebbe poi vinto il Mondiale casalingo. A quel punto l’euforia collettiva e l’afflato patriottico generati dalle notti magiche, oltre ad avere effetti benefici nell’immediato su pil e bilancio demografico, sarebbero stati così potenti da evitare negli anni a seguire Tangentopoli e il collasso di buona parte del nostro sistema politico. E il destino socioeconomico del nostro paese sarebbe stato molto diverso. La vera grande causa del declino italiano, tema di affanno da almeno due decenni per legioni di economisti e sociologi, risiederebbe nell’uscita a vuoto di un portiere. In una suggestiva, quanto ovviamente infondata, versione calcistica dell’effetto farfalla. 2. Spostiamoci qualche anno più avanti. Siamo al Forum economico mondiale di Davos nel gennaio 2006 e Jim O’Neill, economista inglese noto per il fresco conio dell’acronimo Brics e per essere un tifoso sfegatato del Manchester United, parlando con un cronista del Corriere della Sera vaticina per l’Italia un futuro difficile nel mondo globale: «Vi restano solo il cibo e un po’ di calcio interessante» 1. Non dice, come poi titolerà il Corriere, che ci resta il calcio tout court. E non si tratta di una sottigliezza. Nelle parole di O’Neill cogliamo già il riconoscimento di un declino parziale. Prima il monopolio planetario del «calcio interessante» era saldamente in mani italiane. Per rendersene conto basterebbe guardare su YouTube Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. «Vi restano solo cibo e calcio», Corriere della Sera, 26/1/2006.
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i migliori gol della Serie A 1997-98: un concentrato lunghissimo e unico di bellezza, tecnica, creatività, velocità e capacità balistiche. Solo dieci anni dopo l’Italia sta perdendo la sua egemonia. È già partita la nascente globalizzazione del calcio di club guidata dalle due nazioni «imperiali», Inghilterra e Spagna, spinta dai club principali e dai manager delle loro leghe, che sfruttano il retaggio storico dei due ex imperi in maniera strategica attraverso lingua e facilitazioni commerciali per aggredire il mercato mondiale dell’attenzione 2. Dopo qualche mese l’Italia vince sì il mondiale tedesco, ma si trova alle prese con la guerra civile a bassa intensità di Calciopoli e con l’introversione conflittuale che genera, preceduta dai collassi finanziari di Lazio, Fiorentina e Napoli. Nessuno vede gli orizzonti globali né prova a contrastare sul nascere il lavorio commerciale anglo-iberico. Questo è anche il motivo per cui oggi alcuni dei dirigenti protagonisti di quell’epoca raccontano il declino del nostro calcio come l’effetto di una legge di natura. Il frutto di un’Ananke irresistibile: è in ragione di uno dei tanti cicli naturali che ordinano le vicende umane che l’Italia diventa retroguardia del mondo pallonaro, non per cause e difetti strategici propri. Non sorprende quindi la latitanza di analisi interne sul perché nessuno si sia mosso per sfruttare in chiave globale le leve del nostro calcio. Un mancato afflato gesuitico e missionario che avrebbe avuto delle potenzialità espansive enormi, come dimostrano le genti europee, asiatiche e americane letteralmente innamorate di Totti, Del Piero e prima ancora di Baggio, o del Milan pluricampione a livello internazionale. Non sorprende nemmeno che le uniche analisi accurate e scientificamente fondate del declino internazionale della Serie A siano arrivate in tempi più recenti dall’esterno, addirittura da studiosi americani 3. Il colpo mortale che accelera il declino internazionale del nostro calcio è dato dalla nuova rivoluzione degli anni 2010. Cioè, dall’afflusso dei capitali arabi nel calcio europeo (ma non in Italia) e dalle nuove regole finanziarie volute dalla Uefa che mettono fine all’era del mecenatismo di cui il calcio italiano era stato avanguardia mondiale, rendendolo praticabile in forma surrettizia solo dai capitalismi statal-energetici emiratini, qatarini o sauditi, dotati di sfere d’influenza economica fuori scala. È la pietra tombale sulla stagione della centralità italiana. Milano capitale mondiale del calcio crolla. Per i club della Serie A prende il via un’epoca segnata da opacità finanziarie, indebitamenti crescenti, circonvoluzioni contabili e progressivo distacco in tutti gli indicatori economici dalle grandi leghe europee. I segni del declino si moltiplicano. La radiografia del potere della vittoria nelle grandi competizioni internazionali è impietosa: l’ultima Champions vinta da un club italiano risale al 2010 e l’ultima Europa League (ex Coppa Uefa) addirittura al 1999, a cui vanno aggiunte le due esclusioni consecutive dalla fase finale dei Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. Ho affrontato questo tema in M. GASPARRI, Il potere della vittoria. Dagli agoni omerici agli sport globali, Roma 2021, Salerno Editrice. 3. S.G. MANDIS, T. LOMBARDI, S. PARSONS WOLTER, What Happened to Serie A: The Rise, Fall and Signs of Revival, Edinburgh 2018, Arena Sport.
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mondiali maschili. La situazione impiantistica diviene oltraggiosa. La nazione che conserva la memoria architettonica degli avi romani, primi creatori dei grandi contenitori dello spettacolo sportivo, oggi vanta gli impianti più vecchi e brutti del calcio europeo e non solo. La malinconica rarefazione, se non l’estinzione, di campioni italiani fotografata dalle liste annuali del Pallone d’Oro sembra un processo irreversibile. Anche l’arrischiato tentativo della Juventus di Andrea Agnelli di cavalcare la globalizzazione del calcio da protagonista attraverso la modernizzazione delle strutture, l’innovazione di molti processi organizzativi e l’acquisto di una superstar come Cristiano Ronaldo finisce travolto per troppa hybris e per gli effetti del Covid. E affonda nella primavera del 2021, nella notte a tinte shakespeariane della Superlega, prima di venire definitivamente affossato dalle inchieste giudiziarie. Nella colonizzazione calcistica del globo guidata da Premier League e Liga il calcio italiano si muove con estremo ritardo, come nell’età delle grandi navigazioni moderne. Emblematicamente, l’approvazione del progetto di apertura della prima sede estera della Serie A, a New York, viene ratificato nel novembre 2021. La vera cartina tornasole è l’Africa. Per il massimo campionato inglese, che dai diritti televisivi internazionali ricava ormai quasi dieci volte (!) la Serie A, è la nuova grande frontiera di espansione. L’area geografica dove, tendenze demografiche alla mano, vive e vivrà la più vasta platea mondiale di giovanissimi appassionati di calcio, sempre più coinvolta dal tifo per i club inglesi, in una partecipazione popolare a cui non sfuggono molti capi di Stato 4. Per l’Italia, che storicamente vanta una pre senza molto forte di calciatori africani nelle rose dei propri club (tra cui numerosi grandi campioni), il continente africano è un universo totalmente incognito, in un atteggiamento sospeso tra ignoranza, visioni folcloristiche e paura. Sicuramente non pensato e vissuto come opportunità da cogliere. Si può parlare di occasione mancata? La risposta è sì. Tuttavia, come già ricor dato, senza che ci sia stato un sentimento autocosciente di perdere un’occasione. Da questa prospettiva, il calcio sarebbe come l’informatica, il nucleare, la telefo nia, la chimica industriale e l’automotive: tutti settori industriali in cui fino alla fatidica uscita a vuoto di Zenga vantavamo tradizioni e know-how importanti, salvo poi essere stati ridimensionati per cause molteplici dalla globalizzazione e dalle sue nuove catene del valore. Questo significa che i discorsi sopra lo stato del calcio italiano debbano unicamente corrispondere all’anatomia di un cadavere? Un corpo senza vita se non quella della memoria di campioni scomparsi e di celebrazione di successi passati? Il calcio italiano come il vecchio Nestore che negli agoni omerici partecipa solo attraverso la nostalgia dei successi ottenuti in passato quando le sue membra erano ancora vigorose? Le cose non stanno esattamente così. Potrebbe sembrare controintuitivo rispetto alle premesse fin qui sviluppate, ma una linfa c’è. Va infatti analizzata una vitalità socio-antropologica fiorita negli ultimi anni post-Covid. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. M. GASPARRI, «Una Premier League tridimensionale», Il Foglio, 11/2/2023.
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3. Partiamo da una formulazione: il calcio non è mai stato così rilevante per l’Italia e i suoi abitanti. Non perché si segnali un aumento in senso assoluto dell’interesse nei suoi confronti. Ma in quanto, come vedremo tra poco, è crollato tutto il resto. L’appartenenza alle grandi tribù italiche del tifo (inteso in un senso ampio, non come militanza ultras) è infatti nell’Italia contemporanea il modo principale attraverso cui si manifesta l’appartenenza collettiva. Attenzione, non parliamo di calcio in generale, dell’Italia dei cento club professionistici corrispondenti all’Italia delle cento città, o del senso di appartenenza alla nazionale – sentimento ormai episodico in nulla paragonabile all’intensità novecentesca del «secolo azzurro». Parliamo delle cinque grandi squadre di club, vere nazioni nella nazione. Sono queste che contano e rilevano come mai prima. Questo è ciò che emerge dai dati elaborati da StageUp e Ipsos – molto conosciuti dagli addetti ai lavori calcistici «da scrivania», meno noti all’esterno – che analizzano la composizione del popolo dei tifosi italiani, stimato in 24,5 milioni di persone. In testa c’è la Juventus a quota otto milioni, a seguire Inter e Milan con circa quattro milioni a testa, poi il Napoli a quota tre e la Roma vicina ai due. Tutti gli altri club sono ampiamente sotto il milione. I cinque grandi club messi assieme rappresentano il 90% del tifo e soprattutto rappresentano la quasi totalità dei discorsi sportivi della nazione. L’appartenenza politica, tanto partitica quanto di movimento, è ormai per varie ragioni archeologia novecentesca. Quella della cosiddetta «single-issue politics», dalle battaglie femministe a quelle ecologiche, non è capace di reggerne il peso. Quelle professionali e sindacali contano molto meno di un tempo in una nazione in cui, per ragioni demografiche, la popolazione che non lavora è molto più grande, numeri alla mano, di quella che lavora. Lo stesso ragionamento si applica al variegato mondo delle culture giovanili e di consumo, in passato fonte apparentemente inesauribile di rappresentazioni identitarie (tra cui la stessa cultura ultras), ma sempre più prosciugata nella nazione più vecchia del pianeta assieme al Giappone. Anche l’appartenenza religiosa, perlomeno quella cattolica, è meno rilevante di un tempo. La Chiesa bergogliana è molto più globale che italiana. Le parrocchie e gli oratori come elementi pulsanti della socialità (nonché, e per la nostra analisi non è un dettaglio, incubatori del talento calcistico) vivono un oggettivo indebolimento. Il discorso delle appartenenze va proiettato poi nella condizione di policrisi mondiale causato da epidemie, guerre e cambiamenti climatici. A cui l’Italia aggiunge le sue policrisi interne: dalle storiche fratture territoriali di carattere economico alle numerose fragilità idrogeologiche, dall’impatto delle migrazioni alla gestione del debito pubblico. Di conseguenza, l’appartenenza calcistica si rafforza nel «mercato» italiano delle identità antropologiche non solo in quanto è quella più forte in un contesto di scarsità, ma perché la situazione ambientale ne rende ancora più importante la funzione. In una situazione di caos e disorientamento avere una tribù a cui riferirsi in modo immediato, dei simboli e dei segni condivisi in maniera intergenerazionale e un insieme di riti e ritrovi stabili aiuta in termini di evoluzione cognitiva. Le neuroscienze mostrano infatti come il cervello umano sia configurato per cercare stabilità e riparo dalle insicurezze del mondo. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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L’appartenenza a una squadra è una sorta di bene rifugio, un’oasi esistenziale per mettersi in pausa dallo stato di policrisi interno ed esterno. Il rapporto contemporaneo tra gli italiani e il calcio si situa in un orizzonte pascaliano. Interpretato secondo una dimensione collettiva e non individuale come nella prospettiva del pensatore francese Blaise Pascal (1623-1662): un potente strumento per evitare la tragedia che è la realtà. Un’evasione costantemente attingibile nel rito bisettimanale della partita e nella costante chiacchiera che lo accompagna. Il calcio non trasforma il mondo, ne crea un secondo affiancato e sovrapposto al primo. Non è un caso che, tranne rare eccezioni, non sia mai veramente stato a disposizione di pedagogie politiche di impegno e trasformazione sociale. Motivo che spiega la storica diffidenza nei confronti delle vicende pallonare del movimento operaio. Il calcio mette in pausa la realtà. E in questo mettere in pausa c’è una grande affinità con l’atteggiamento italiano di fronte alle tensioni globali. Potremmo dire che nel legame così intenso con le comunità di destino rappresentate dai grandi club si esprime la kojèviana esistenza post-storica dell’Italia, il suo appagamento perpetuo del desiderio. 4. Roma, e la Roma, sono un interessante caso di studio di queste tendenze: una città in dissesto ormai irredimibile. L’unica capitale mediorientale senza un quartiere europeo, per riprendere la caustica ma efficace battuta primonovecentesca di Francesco Saverio Nitti. Piena di problemi elementari e da tempo avviata verso una dinamica entropica. Ma che ha trovato negli ultimi anni con la guida mourinhiana della squadra giallorossa un trascendimento dei problemi attraverso uno spirito di comunità fusionale realizzato e ritualizzato nella presenza allo stadio – sancito da 36 sold out consecutivi, partite minori comprese – e in un andamento dei risultati sportivi non sempre esaltanti. Un’esuberanza antropologica in grado di stupire gli appassionati calcistici di tutto il mondo, sulla scia di un precedente rito antropologico-sportivo di portata globale. Cioè, il più grande e commovente addio agonistico di sempre: quello di Francesco Totti, andato in scena il 28 maggio 2017. La vitalità passionale del calcio italiano si esprime nel rito della festa. La Serie A post-Covid si segnala per una ripresa della circolazione del potere della vittoria tra le grandi squadre, sia per la maggiore contendibilità del campionato sia per i migliori risultati europei. Fattori in grado di produrre un diverso e più intenso stato eccitatorio e una grande partecipazione popolare, rispecchiata nei dati record dell’affluenza agli stadi. Non si può tacere dell’Inter che arriva a disputare un’inattesa finale di Champions guidata da un coro-mantra nato dalla curva e subito diventato simbolo e riferimento universale di ogni interista, quando in passato la curva era solita insultare gli altri spettatori allo stadio. Un coro che nelle partite casalinghe è spesso decisivo. In senso letterale, producendosi il gol della squadra durante il suo canto, perché già Omero sapeva che il pubblico spettatore è altrettanto attivo di chi gareggia. Senza dimenticare la festa scudetto del Napoli, una processione gioiosa e tranquilla durata due mesi e vista da tutto il mondo. Una celebrazione che ha rispecchiato il carattere di un successo sportivo costruito non Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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mediante l’intercessione miracolosa di un semidio argentino, ma con la migliore organizzazione razionale sul campo, frutto del lavoro tattico e motivazionale di un allenatore figlio della già menzionata civiltà calcistica toscana, e fuori, grazie alle capacità nello scouting di giovani talenti. A cui ha corrisposto una civiltà nei festeggiamenti che ha scardinato ogni facile pregiudizio esterno. C’è però un aspetto apparentemente paradossale. Alla massima importanza antropologica fin qui esaminata corrisponde la totale irrilevanza politica del nostro calcio. Le possibilità industriali della Serie A e le strategie di un suo rilancio competitivo sono un tema di cui il sistema paese e soprattutto le sue classi dirigenti politico-burocratiche (composte anch’esse in parte prevalente da tifosi delle cinque grandi squadre) non vogliono occuparsi. Al contrario, l’avversione per il calcio professionistico viene usata dalle parti politiche in gioco come argomento per facili populismi e moralismi. Non casualmente, le politiche pubbliche per lo sport e le relative risorse, a partire dai fondi del Pnrr, si stanno indirizzando verso un modello «galenico» (da Galeno, il medico dei gladiatori nella Roma imperiale grande sostenitore dell’importanza degli esercizi fisici per la salute e grande avversatore dell’agonismo atletico), in una logica di contrasto alla sedentarietà che sperabilmente potrà agire da salvagente nell’Italia dell’invecchiamento demografico alle prese con le tante malattie da mismatch evolutivo. Il calcio italiano ha contribuito al fastidio con cui viene vissuto con la sua inabilità di autogoverno secondo linee manageriali, con la sua atavica incapacità di «fare lega» attorno a obiettivi industriali e sociali ben definiti e con la sua capacità di riuscirci talvolta solo nell’immagine leopardiana della «lega di birbanti» 5. Paradosso nel paradosso: dentro gli assetti politici del calcio italiano gli attori che contano di meno sono proprio i cinque grandi club più seguiti. 5. In chiusura, resta da indagare dove va il calcio italiano nel futuro. La ricchez za dei club della Premier, o dei clubStato come Paris SaintGermain (Psg) e Bayern Monaco, o ancora le nuove concorrenze arabe, non hanno ridotto il nostro calcio a una copia di quello olandese, scozzese o ungherese, movimenti con una grande tradizione alle spalle ma da tempo alle prese con un drastico declassamento di ambizioni e prospettive dovuto alle minori possibilità economiche. Al contrario, teniamo ancora. Siamo vivi, anche se non dominanti. Poco vittoriosi ma in netta risalita. Come testimoniato dall’insperato ranking Uefa delle ultime due stagioni, che evidenzia la capacità machiavellica italiana di cucinare con quello che c’è, riu scendo a ottenere pietanze decenti con meno ingredienti e risorse degli altri. Nella stretta di bilancio postCovid, l’aver adottato soluzioni intelligenti e creative privile giando le idee ai soldi 6 – la via contraria a quella araba e inglese – ci ha tenuti a galla. In particolare, la Serie A si sta dimostrando efficace nella gestione degli aspetti tecnici, dalla scelta di giovani giocatori sul mercato internazionale al lavoro Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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5. G. LEOPARDI, Pensieri, Milano 2014, Feltrinelli. 6. Il riferimento è al titolo del saggio di M. UVA, M.L. COLLEDANI, Soldi vs idee. Come cambia il calcio fuori dal campo, Milano 2023, Mondadori Electa.
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sul campo per utilizzarli e massimizzarne la rendita. Così come nell’abilità dimostrata nella valorizzazione di «semilavorati» acquistati in giro per il mondo e poi rivenduti ai club stranieri. In alcuni casi riuscendo addirittura a rilanciare e rivitalizzare gli scarti della Premier. La Serie A è stata in grado di compiere tutto questo disponendo di risorse nettamente inferiori rispetto ad altre leghe calcistiche. Una condizione, quest’ultima, che comunque non si modificherà nel breve o nel medio periodo. Nonostante i primi timidi tentativi di espansione estera del nostro calcio, soprattutto negli Stati Uniti, e la possibilità mai così concreta di costruire nuovi impianti e rinnovare gli esistenti, anche sfruttando gli europei che si terranno nel nostro paese (e in Turchia) nel 2032. Ci sono competenze profonde all’opera in questo lavoro (oltre a nuovi capitali, soprattutto americani). L’italico sapere calcistico, da decenni trasmesso e forgiato nelle aule di Coverciano, salva da sprechi e dissipazioni confuse. Citofonare Manchester o Chelsea per credere. Questa via ha un solo lato oscuro: la rinuncia alla costruzione in casa di talenti e futuri campioni. Non esiste un sentimento collettivo vero, e non retorico, che veda in questa produzione una priorità strategica del nostro sistema. Un obiettivo verso cui indirizzare risorse, idee, investimenti, capacità, pensieri e dibattiti intensi, anche conflittuali. Il fatto che i giovani abitanti di Napoli e della Campania – storicamente grande terra del talento calcistico nazionale, luoghi dove si sarebbe potuta immaginare una Clairefontaine italiana – vedano ormai nel rap e in TikTok i sogni di riscatto sociale è eloquente di questa tendenza.
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GALLONE Non sanno qual è il loro posto nel mondo perché non hanno gli strumenti necessari a capire che cosa li circonda. Troppi adolescenti crescono senza famiglia e senza scuola. Il tramonto dei padri. Come ricostruire un’identità comunitaria. di Guglielmo
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1. ERCATORI DI SODDISFAZIONI IMMEDIATE, accumulatori seriali di emozioni, condannati alla scomparsa di ogni punto di riferimento comunitario, abitanti dell’epoca in cui «alla bulimia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini» 1: c’erano una volta i giovani. Oggi tanti di loro, troppi, sono in letargo. La prontezza all’azione, tipica della gioventù raccontata e vissuta da Pasolini, Calvino, Pavese o Fenoglio, è stata sostituita dalla resa dello spirito, dall’idea secondo cui il presente è una prigione, dall’abbattimento delle comitive con conseguente trionfo del branco in cui per entrare si dev’essere uguali, dal privilegio di potersi considerare indifferenti perché ogni cosa è estranea, lontana. Dei giovani italiani si parla tanto che sembra siano dei marziani, estranei a niente ma impassibili a tutto. In effetti, in relazione al totale della popolazione sono pochi: in Italia ci sono 10 milioni e 200 mila individui tra i 18 e i 34 anni, un valore diminuito di oltre il 23% negli ultimi vent’anni. Si tratta di 100 giovani ogni 187 anziani. Inoltre, incidono in modo esiguo sul Belpaese: 1,7 milioni di coloro che hanno tra i 15 e i 34 anni non studia né lavora. Per descriverli, i media nazionali usano aggettivi come «ansiosi», «fragili», «isolati», «svogliati», inglesismi come «millennials» e «Neet»: Not in Education, Employment or Training, oppure frasi che suonano più o meno così: «se ne vanno all’estero», «nessuno fa i lavori umili di una volta», «vivono su Internet». I giovani non sono tutti così. Anzi, guai a demonizzarli più di quanto già non venga fatto dall’economicismo e dagli slogan. La geopolitica impone piuttosto di comprendere come si comportano gli aggregati umani per poi esaminarne gli atteggiamenti e indagarne la rappresentazione. Rovesciata la medaglia, si può azzardare la teoria: in Italia i giovani scarseggiano, contano poco e non hanno intenzioCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Espressione utilizzata dal filosofo francese Paul Ricoeur.
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ne di riprodursi perché non hanno idea di quale sia la loro vocazione. Un paradosso, se si pensa alle possibilità offerte dal progresso tecnologico, all’accesso all’istruzione o alla facilità con cui si possono soddisfare tanti desideri rispetto a solo vent’anni fa. Nonostante ciò, durante il percorso di crescita moltissimi giovani non riescono a conoscere il proprio talento né la propria passione, non sanno quale corso scegliere all’università né tantomeno cosa fare da grandi perché non hanno gli strumenti necessari a capire come funziona il mondo. 2. Comprendere i motivi di questa crisi antropologica è il primo passo per rianimare i giovani. Occorre calarsi all’interno del contesto educativo in cui un soggetto cresce: la famiglia e la scuola, i teatri delle prime esperienze affettive, le culle del compromesso tra il vivere bene e il vivere insieme. Allo stesso modo, va preso atto di come queste due istituzioni siano messe in crisi dalla società dell’individualismo. Tanto la scuola quanto la famiglia stanno attraversando un cambiamento capace di svuotarne l’identità, di comprometterne le funzioni educative. Per un adolescente che sta iniziando a domandarsi chi vuole essere, cosa vuole fare e dove vuole andare, è un problema. Se prima si pensava alla famiglia come a un nucleo formato da genitori e figli oppure a un gruppo di persone legate da un rapporto affettivo, oggi la realtà racconta ben altro. In Italia non solo sembra essere diventato di uso comune un ossimoro come «famiglie unipersonali», ma chi vive da solo rappresenta una percentuale sempre più alta – il 33,2% del totale dei nuclei familiari rispetto al 31,2% delle coppie con figli. Ci si sposa di meno – nel 2022 sono stati celebrati 189.140 matrimoni, nel 1995 se ne contavano 290.009 – si preferisce la convivenza more uxorio e si divorzia o ci si separa di più – nel 2022 l’Istat ha registrato 89.907 separazioni e 82.596 divorzi, valori stabili se confrontati con quelli degli ultimi dieci anni ma comunque alti rispetto al 1995, in cui si sono registrati 52.323 separazioni e 27.038 divorzi 2. Tutto ciò ha dei riflessi concreti nei rapporti casalinghi: i genitori non sono più dei punti di riferimento per i figli, che a loro volta non si sentono compresi né tantomeno ascoltati dai padri e dalle madri. In nome del giovanilismo, troppi adulti si sono spogliati delle proprie responsabilità, schierandosi dietro i luoghi comuni dei cambiamenti generazionali e del rapporto tra padre e figlio come rapporto fra amici. Così facendo, nascondono l’incapacità di essere educatori responsabili e lottano per accaparrarsi i successi dei loro ragazzi perché non sanno farsi da parte, non intendono delegare, non concedono occasioni, non hanno cura dell’avvenire 3. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. Gli adolescenti spesso crescono da soli, ciondolano tra la propria stanza, la PlayStation e il bar di quartiere, oppure sono costretti a dedicare ore a sport, mu-
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2. I dati citati sono raccolti dai rapporti Istat «Matrimoni, unioni civili, separazioni, e divorzi – anno 2022» e «Matrimoni, separazioni e divorzi – anno 1995». 3. Cfr. M. RECALCATI, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano 2013, Feltrinelli.
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sica e corsi di lingua straniera. In questo modo, il loro rapporto col tempo sta cambiando. Sopraffatti dalla fretta, dagli imprevisti e dalle abitudini, troppi giovani non sono capaci di fare progetti a lunga scadenza perché la società del consumismo e dell’individualismo li obbliga fin da piccoli a non fermarsi mai. La differenza tra presente e futuro si è appiattita a favore del presentismo, ossia dell’idea di vivere in un eterno oggi. A testimoniarlo, la scomparsa di due declinazioni del tempo necessarie alla crescita. Non esiste più la noia fatta di «momenti morti» in cui si sta in silenzio, non si fa niente e si finisce per riflettere. Ormai ci si annoia sempre, tanto col telefono in mano quanto a scuola o all’università, in famiglia, al lavoro, al mare o in viaggio. In nome del «qui e ora» il senso dell’attesa è svanito, ogni cosa è raggiungibile perché tutto è dovuto e tutti hanno i loro diritti. Non sembra esserci modo di pianificare, stabilire una destinazione e abbozzare un progetto di vita, né tantomeno di porsi domande di senso su dove si stia andando e quale orientamento si stia prendendo 4. La ricerca, l’immaginazione e il desiderio hanno finito per lasciare il posto a una sorta di perenne indifferenza: i giovani hanno difficoltà a lasciarsi stupire, non riescono a meravigliarsi più. Problemi individuali che hanno riflessi relazionali: in assenza di interlocutori credibili, la massima aspirazione di tanti ragazzi rischia di diventare quella di essere autosufficienti, farsi da soli, controllare ogni aspetto della propria vita e non sacrificarsi per il prossimo, neanche se si tratta del proprio partner o di un figlio, perché nell’indipendenza si nasconde la vera libertà 5. Secondo questo paradigma, la debolezza va nascosta e la propria immagine va ostentata. Ecco il branco omologato – difficile vedere oggi ragazzi e ragazze nello stesso gruppo, di solito i maschi stanno coi maschi e viceversa – che si muove prima nei centri commerciali e poi nelle discoteche. Oppure, protetti dall’algoritmo dei social network o da un filtro applicato ai selfie, molti finiscono per mettere da parte i propri veri stati d’animo in nome della formula magica «va tutto bene». Non è così. Oggi tantissimi giovani soffrono di disagi psicologici. Secondo la ricerca «L’era del disagio» pubblicata da Inc Non profit lab in collaborazione con AstraRicerche, «il 60,1% degli italiani ritiene di convivere, da anni, con uno o più disturbi della sfera psicologica. Ne soffrono di più le donne (65%), i millennials (62%) e la generazione Z (75%, con punte addirittura dell’81% nel caso delle donne)». Disturbi del sonno, ansia, apatia, panico, depressione e disturbi della condotta alimentare generano difficoltà a relazionarsi, assenza di valori condivisi, insoddisfazione per i propri percorsi professionali e per le pressioni sociali su obiettivi scolastici o sportivi. Si pensi poi alla scelta di almeno 50 mila giovani italiani di ritirarsi dalla vita sociale e rinchiudersi nella propria stanza – vengono chiamati hikikomori, termine giapponese usato per descrivere chi sta in disparte – oppure, all’estremo opposto, al bisogno di uscire sempre di casa per paura di essere tagliati fuori dalla società – negli Stati Uniti si parla di Fomo, ossia «Fear of missing out». Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. L. EPICOCO, La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente, Milano 2022, Rizzoli. 5. Questi temi sono stati analizzati, spesso con interviste e sondaggi rivolti ai giovani, sulla rubrica «#CantiereGiovani» del quotidiano L’Osservatore Romano.
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4. A distanza di anni e di innumerevoli discorsi fatti sull’importanza della pedagogia nazionale, Limes constata come in Italia non sia ancora possibile pensare che dove non arriva la famiglia possa arrivare la scuola. La scuola italiana non sembra avere né proporre alcun metodo. Mentre il mondo cambia, essa è rimasta ferma e sembra aver perso la sua anima 6. Non riflette sull’evoluzione del mondo giovanile, sui nuovi linguaggi, su come i paradigmi culturali contemporanei vadano convertiti dentro le aule. Al contrario, vanta un feticismo per i numeri che si concretizza nell’ossessione dei voti e dei giorni mancanti a «finire il programma». La possibilità di formare persone – e non solo studenti capaci – è assai remota. Forse perché, per molti, il mestiere dell’educatore è un ripiego. Per un professore non esiste carriera né merito. Anche chi lavora male ha il posto assicurato. Gli stipendi sono bassi e l’età media è tra le più alte in Europa. Si studia, certo, e di più rispetto ad altri paesi europei, ma la maggior parte dei ragazzi non ha consapevolezza di cosa studia e neanche ne capisce il senso. Avviene con matematica, fisica, greco, latino e filosofia, persino con la storia, materia che più di tutte dovrebbe fornire le chiavi di accesso alla comprensione del ruolo dell’Italia nel mondo. E invece sui libri di testo tante pagine sono dedicate al racconto delle sconfitte nazionali, quando si parla di mito associato all’Italia si torna ai fasti dell’impero romano, non si usano gli atlanti. Il Risorgimento, periodo simbolo dell’unificazione nazionale, cuore del pensiero di Cavour, Mazzini, Crispi, D’Azeglio e Gioberti, dell’inno di Mameli e dell’opera lirica, simbolo dell’intesa nazionale fra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, viene relegato a poche pagine. La costruzione della Repubblica dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale viene trattata a fine programma dell’ultimo anno, quando ormai sono tutti stanchi e spaventati dall’esame di maturità. Non esiste approccio più sbagliato per innescare un sentimento di apatia non tanto nei confronti della storia in sé, quanto nei confronti del proprio paese, dello spirito di sacrificio e della sofferenza che gli italiani hanno patito nel corso degli anni. La scuola dovrebbe animare il desiderio di sapere mettendo a confronto, nel presente, il passato col futuro. Chi eravamo, cosa siamo, dove andiamo. È invece a causa di questa assenza di passione che essa non è più decisiva nella formazione degli individui. Risultato: nel 2022 la media italiana della dispersione scolastica – l’insieme delle bocciature, degli abbandoni e quindi il mancato conseguimento dell’istruzione obbligatoria – è stata dell’11,5% e nel Mezzogiorno era superiore al 15% 7. Le ragioni, fornite dagli studenti all’Istat 8, sono varie: ansia da prestazione causata dallo stress della valutazione e dal carico di compiti, scarso interesse delle famiglie verso l’istruzione dei propri figli, disagio socioeconomico familiare, rapporto tra studenti e insegnanti. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5. L’ultimo rapporto Censis rivela che il 61,4% dei giovani italiani è convinto di contare poco nella società e il 65,3% di loro si dichiara insicuro sul proprio avve-
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6. Cfr. R. BARZOTTI, R. CETERA, L’anima della scuola, Milano 2023, San Paolo. 7. Dati forniti dal rapporto annuale Istat 2023 «La situazione del paese». 8. Dal rapporto Istat «Le cause della dispersione scolastica: parlano gli alunni».
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nire. Risolvere una crisi antropologica come questa non è cosa facile, né di certo muterebbe le sorti della penisola. Eppure, varrebbe la pena invertire la rotta per almeno un paio di motivi. Il primo: risollevare i giovani signifi ca ricostruire un’identità comunitaria e quindi cucire il tessuto di un’Italia che sia nazione e non solo (Bel)paese. La famiglia e la scuola non sono infatti casi isolati. Si pensi alla disaffezione alla «cosa pubblica» e al disprezzo per la politica, allo svuotamento delle parrocchie e con esso alla fine dell’epoca in cui il cristianesimo in Italia fungeva da aggregatore sociale e non solo religioso, così come all’inesistenza delle associazioni o delle scuole di partito di un tempo. Insomma, la vita comunitaria in Italia pare anestetizzata. Problema non da poco, dal momento che essa rappresenta il termometro con cui uno Stato misura la sua capacità di riconoscersi, confrontarsi, rispettarsi e proiettarsi. E lo è ancor più per un giovane che, proprio durante la fase della crescita, in questi spazi può sprigionare il desiderio del sapere, accrescere il pensiero critico, tenere accesi i sogni e non credere che per sopravvivere occorra omologarsi. L’Italia deve imparare a raccontarsi e, prima ancora, a conoscersi. Un grave problema è che in questo paese non esiste un dibattito pubblico degno di essere chiamato tale. Non si prendono in considerazione i soggetti che agiscono in determinati spazi, non ci si ferma a riflettere su chi sta subendo certi cambiamenti e, per natura, non è dotato di strumenti adeguati per poterli affrontare: i giovani, appunto. Che nella famiglia sperimentano la crisi delle relazioni e a scuola sono portati a credere che la parola non abbia alcun valore. Troppo spesso quando si parla di giovani lo si fa in modo retorico. La formula «ce lo chiedono i nostri ragazzi» andrebbe abolita. L’opinione di un ventenne è in continua evoluzione, spesso si rifà a princìpi idealistici e perciò inapplicabili, le idee che ha ora valgono meno rispetto a quelle che avrà da adulto. Questa espressione, oltre ad alimentare un distacco anagrafico e contenutistico, instilla l’opinione secondo cui i ragazzi sono tutti uguali e vogliono tutti la stessa cosa. Ecco il motivo per cui la tendenza a raggruppare gli individui in generazioni è superflua: la generazione Z includerebbe persone nate tra il 1995 e il 2009, ma tra un ragazzo nato nel 1999 e uno nato nel 2005 ci sono differenze abissali. Altra espressione da bollino rosso è «cervelli in fuga», con cui sembra si voglia lodare chi va a studiare o lavorare all’estero mentre chi resta in Italia è un «bamboccione». Che dire poi del rapporto conflittuale con la tecnologia, il cui divieto nelle aule viene visto come un’ulteriore barriera generazionale. Le parole vanno misurate, la semplificazione va evitata. Ecco perché i giovani dovrebbero essere stimolati proprio dalle istituzioni non tanto a parlare o a definirsi, quanto a porsi delle domande. Ed è questo il modo secondo cui crediamo che i ragazzi vadano rianimati: ponendo domande da cui avviare un dibattito serio. Chi sono i giovani oggi? Quali sono le loro necessità? Come comunicano? Cosa cercano? In cosa sono bravi? Chi può aiutarli a capire quale sarà il loro ruolo nel mondo? Cosa deve fare un educatore oggi? Come si fa a far coincidere il benessere indiviCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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C’ERANO UNA VOLTA I GIOVANI: COME RIANIMARLI
duale con quello collettivo? Perché i ragazzi hanno paura di mettere su famiglia? Contano le ragioni economiche e sociali, o dietro c’è altro? Come mai parlano sempre di «ansia» e «angoscia»? Una volta aperti i canali del dialogo, si deve iniziare a investire di più e meglio nella formazione. L’Italia spende il 4% del proprio pil nell’educazione, contro il 5,2% della Francia, il 4,6% della Spagna e il 4,5% della Germania 9. Una rinnovata attenzione alla pedagogia può avere effetti sulla comunità e, perciò, sulla demografia. Non ci si può arrendere all’omologazione degli individui basata sul motto economicista per eccellenza secondo cui «nessuno è necessario, tutti sono utili». Esso va invertito: tutti sono necessari. Ogni individuo deve poter respirare la propria unicità e aspirare a un certo ruolo attraverso un determinato percorso. Solo così si possono porre le basi per la costruzione di una comunità in cui non prevalgono le barriere generazionali. Occorre essere consapevoli del fatto che i modi per costruire dialogo ci sono e sono tanti. Si pensi, ad esempio, al fatto secondo cui, se pensano all’amore, moltissimi ragazzi pensano a canzoni scritte da autori italiani quando loro ancora non erano nati. Lucio Dalla, Riccardo Cocciante, Franco Battiato, Fabrizio De André, Francesco Guccini e via dicendo. Non c’entra solo l’eternità di una certa musica. Si tratta di curiosità che nasconde speranza. Questi sono gli stessi autori con cui sono cresciuti gli adulti di oggi. Testa, cuore, mani. I giovani non si rianimano da soli. Per farlo, si può ripartire anche dalle piccole cose.
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9. Dati forniti dall’Istat alla sezione «NoiItalia2023 – istruzione e lavoro».
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Parte II il DECLINO ACCELERA
ma non è un DESTINO
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
MARONTA Il ritorno della politica di potenza smaschera decenni di retorica sul primato dei servizi, scusa per delocalizzare. Il fai-da-te italiano dopo il 2008, nel vuoto della politica. La nuova tempesta europea innescata dal decoupling. Parigi e Berlino corrono ai ripari: muoviamoci. di Fabrizio
P
1. ER MASON COOLEY, AFORISTA STATUNITENSE tra i più prolifici del Novecento, «realtà è il nome che diamo alle nostre delusioni» 1. La massima si applica bene al brusco risveglio che il ritorno in auge della politica di potenza sta imponendo a un Occidente assuefatto alle proprie illusioni. Tra queste, da tempi meno sospetti degli attuali segnaliamo su Limes la pericolosa idea di un mondo diviso tra headquarter economies e factory economies. Cioè tra economie post-industriali avanzate, che mantengono saldamente sul collo la testa di filiere produttive transnazionali, ed economie – specie asiatiche – che si acconciano a produrre ciò che noi inventiamo a nostro uso e consumo (letteralmente). Le prime con alti redditi, alto tenore di vita, scarso inquinamento e zero conflitti sociali. Le seconde punteggiate di panorami dickensiani, in cui tra ciminiere fumanti e stridio d’ingranaggi Hu e i suoi fratelli fabbricano, sotto il giogo del capobastone, ciò che Rocco e famiglia esigono per vivere finalmente il loro eldorado consumistico. L’idea è pericolosa perché, volendo scomodare Eraclito, non v’è realtà permanente a eccezione della realtà del cambiamento. In economichese: come già gli europei nei mitizzati Trenta gloriosi (anni Cinquanta-Settanta), chi in Asia e altrove parte dalla bassa manifattura vuole giustamente «scalare la catena del valore aggiunto» per giungere a fare ciò che prima gli era precluso dalla propria arretratezza. Specie se a chiederglielo con insistenza siamo noi consumatori occidentali, affamati di beni complessi ma economici per la cui fabbricazione abbiamo trasferito knowhow e talenti, mettendo i produttori asiatici nella felice condizione di spingerci fuori mercato. A posteriori, sorge il forte dubbio che il mantra ipnotico della economia dei saperi sia stato anche un’illusione abilmente venduta agli sconfitti della Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. M. COOLEY, Halftones and Ironies, Sydney 1997, Pascal Press.
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
globalizzazione per sugellarne il triste destino e tenerli utilmente occupati a «riqualificarsi», nella spesso illusoria speranza che ciò servisse a tornare classe media. Ora, in tempi di decoupling (sganciamento) sino-statunitense e di conseguente spinta al reshoring (rimpatrio, riavvicinamento) delle produzioni, scopriamo che in un mondo iper-industriale quale è il nostro la manifattura resta un pilastro di tutte le economie, anche delle più avanzate. Perché «nessun paese è divenuto grande consumando, ma producendo» 2 e per restare grandi è necessario preservare saperi e filiere. Pena divenire economicamente, tecnologicamente, strategicamente e intellettualmente dipendenti da altri. Questa dura realtà, resa definitivamente manifesta dal Covid-19 e dalla guerra ucraina, vale anche per il nostro paese. Posto dunque che l’industria è il futuro dell’Italia, l’Italia più di altri rischia di perdere l’industria del futuro. 2. Il nostro paese viene da trent’anni di delocalizzazioni, dismissione della grande industria buttata a mare con l’acqua sporca di un Iri degradato a mangiatoia partitica, accaparramento di impianti e infrastrutture già pubblici da parte di capitalisti senza capitali desiderosi di rendite e refrattari all’investimento, assenza di politica industriale e infrastrutturale. In questo contesto, pur con tutti i suoi limiti, la manifattura italiana sembra un mezzo miracolo. Come molti altri paesi occidentali ci siamo infatti deindustrializzati, ma non al punto da divenire la rust belt, la cintura della ruggine che pure abbiamo rischiato di essere date le circostanze. A salvarci non è stato lo stellone ma un misto di tenacia e capacità, che però non tutto possono. In Italia dal 2000 a oggi la manifattura ha dato lavoro in media a 4,3 milioni di persone l’anno, pari al 17% circa degli occupati totali (21% considerando il solo settore privato). In questo periodo ha accresciuto del 12,3% lo stock di investimenti: poco in valore assoluto, molto rispetto ad agricoltura, servizi e resto del settore secondario, che hanno visto una generale e marcata contrazione. Anche nella spesa in ricerca e sviluppo il contributo maggiore è venuto dalla manifattura, specie negli ultimi dieci anni: +54% (oltre 10 miliardi di euro), molto di più rispetto a pubblico, non profit, università e al resto del for profit. Sempre negli ultimi vent’anni dalla manifattura è venuto il contributo determinante al commercio internazionale dell’Italia: 6,8 trilioni (migliaia di miliardi) di esportazioni cumulate, pari al 96% del totale 3. Questi numeri rilevano ancor più in quanto dal 2000 a oggi la crescita esponenziale dell’industria asiatica, specie della Cina (il cui ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio data al 2001), ha decimato settori chiave della manifattura italiana come la chimica di base (-21% di fatturato nel periodo) e gli elettrodomestici (-52%) 4, che per colpevole anacronismo affidavano ancora la loro competitività Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. R. LIGHTHIZER, «No Trade Is Free: Changing Course, Taking on China, and Helping America’s Workers», Northampton MA 2023, Broadside Books. 3. «Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo», The European House-Ambrosetti e Fondazione Fiera Milano, 2020. 4. Ibidem.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
LA FRONTIERA TECNOLOGICA IN EUROPA Vendite totali delle aziende di semiconduttori nei paesi europei Nr. aziende
Paesi Bassi € Germania € Regno Unito € € Austria € Francia € Malta Norvegia € € Turchia € Galles
Nexperia
40.273.646 15.577.504 3.721.401 1.617.380 1.101.073 1.063.664 485.584 457.224 181.000
3 1 1 7 2 4 1 5 1
Asml Nxp
Imec
IRLANDA Leixlip
Nr. aziende
€ Bielorussia Macedonia D. N. € € Svizzera € Belgio € Moldova € Italia € Ucraina € Fed. Russa € Irlanda
44 % 4 38 % 358 7% 3 6 % 49 2% 1 1% 4 1% 1 1 % 24 1
17.770.000.000 15.251.126.110 2.720.000.000 2.257.316.185 597.000.000 506.937.747 400.000.000 226.582.145 206.000.000
Melexis
PAESI BASSI
Intel
GERMANIA Magdeburgo Eindhoven Ypres Erfurt Dresda Maastricht Lovanio BELGIO Ludwigshafen Darmstadt FRANCIA Oberkochen Gerlingen Tours Bosch semic. Monaco 1 Grenoble
AUSTRIA Neubiberg Premstätten
SVIZZERA Ginevra
Intel GloFo X-FAB Merck KGaA BASF ZEISS SMT Fraunhofer Siltronic AMS Infineon
Milano
Cea-Leti Rousset ITALIA
1 St Microelectronics Tours Ginevra Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Milano Grenoble
Catania
Rousset Quartier generale
Catania
Tipo di impianti Stati che ospitano uno o più impianti Ricerca Macchinari Fonderie Composti chimici Wafer di silicio
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
al basso costo del lavoro. La conseguente, poderosa spinta alla deindustrializzazione non ha trovato alcun argine istituzionale, stante la totale assenza di politiche economiche: un vuoto aggravato dalla Grande recessione del 2008, dalla successiva crisi debitoria e dall’austerità fiscale che ha compresso ulteriormente consumi e investimenti. Come da manuale della (non) politica industriale italiana, le imprese hanno quindi dovuto fare da sé inventandosi un posizionamento nelle catene globali del valore basato sul presidio di nicchie altamente specializzate in macrosettori (macchinari, tessile, abbigliamento, metalli, mezzi di trasporto, farmaceutica, chimica, plastiche) quantitativamente dominati da altri, europei ed extra-europei. La geografia commerciale vede oggi due paesi dominare il panorama del nostro interscambio con l’estero: la Germania, con quasi 130 miliardi annui (16% del totale italiano) e in costante attivo; la Francia, con circa 80 miliardi (10% circa del totale) e un tendenziale attivo italiano. In entrambi i casi, a queste economie ci legano fitte relazioni di (sub)fornitura che vedono aziende italiane, in gran parte medio-piccole, a servizio di grandi gruppi tedeschi e transalpini. Fuori dall’Europa, lo squilibrio di gran lunga prevalente è quello con la Cina, che alla vigilia del Covid-19 forniva il 10% delle nostre importazioni di beni e assorbiva circa il 3% del nostro export industriale 5. Fortemente polarizzata è anche la nostra geografia industriale interna, che ha visto accentuarsi il divario Nord-Sud in quanto la deindustrializzazione ha colpito di più i territori con un tessuto economico, produttivo, demografico e infrastrutturale meno tenace. La dinamica «autogestita» delle medie imprese italiane che dal 2008 in poi hanno reagito specializzandosi e internazionalizzandosi si è dunque concentrata nelle aree più attrezzate. Oggi tra le venti provincie europee industrialmente più specializzate (misurate per valore aggiunto generato) otto sono italiane e sono tutte settentrionali: Brescia, Bergamo, Vicenza, Modena, Treviso, Varese, Monza e Brianza, Reggio Emilia. Le restanti dodici sono tedesche 6. Il miracolo, tuttavia, si ferma qui. 3. Negli ultimi vent’anni l’Italia ha registrato un andamento quasi piatto della produttività del lavoro (prodotto generato per ora lavorata): dal 2000 è cresciuta di un mero 1%, rispetto al 21% medio di Francia, Regno Unito, Germania, Spagna, Stati Uniti e Giappone. Ampliando il periodo di riferimento (1995-2019) e le economie considerate (36 dell’Osce più la Russia), l’aumento di produttività in Italia è stato del 7%: il dato più basso 7. Il modesto incremento del pil nell’ultimo decennio è stato pertanto sostenuto in gran parte da un maggiore utilizzo del lavoro, con (almeno) quattro conseguenze negative. Primo: il mancato investimento in tecnologia, surrogata da un uso sostitutivo e spesso improprio della manodopera. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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5. «L’Italia nell’economia internazionale - Rapporto ICE 2021-2022», Ice (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane), settembre 2022. 6. «Economic specialisation in EU regions», Eurostat, 6/4/2020. 7. «Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio», cit.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
THE ITALIAN JOB COSTO DEL LAVORO PER UNITÀ PRODOTTA (CLUP), SETTORE MANIFATTURIERO (ANNO BASE: 2000) 140 Germania Spagna
130
Francia Italia
120
Eurozona
110
100
90
2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 2022
80
Fonte: Centro Studi Confindustria su dati Eurostat
Secondo: la progressiva frammentazione delle tipologie contrattuali e il livellamento al ribasso delle tutele occupazionali, per scaricare sui lavoratori le fluttuazioni del ciclo economico. Espediente simile a quello dei mini-jobs tedeschi, ma senza una rete di welfare paragonabile a quella della Germania (o della Francia) che attutisca i colpi della disoccupazione temporanea e della sottoccupazione (semi)permanente, sostenendo con opportune misure anche l’occupazione di donne e giovani. Terzo: l’ingiusto squilibrio tra una parte minoritaria e iper-produttiva di popolazione che lavora troppo e bene (a fronte di remunerazioni di norma basse), un’ampia platea che – non sempre per proprie colpe, in quanto sovente male utilizzata – lavora molto ma mediamente male, una quota di forza lavoro che si giova di una cultura tenacemente antimeritocratica e di tutele negate ad altri – magari con analoghe mansioni – per lavorare poco e male, una fascia troppo estesa di persone – specie donne e giovani – impossibilitata a lavorare quanto vorrebbe e potrebbe. Quarto: un sistema fiscale progressivo nel nome ma regressivo nei fatti che, malgrado roboanti proclami, non può esimersi dall’iper-tassare i redditi medi da lavoro e d’impresa, rendendo anti-economico incrementarli in una cornice di legalità – cioè senza evadere il fisco. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
Ammesso e non concesso che competere con la Cina facendo i cinesi – o fingendo di essere ancora l’Italia povera e speranzosa degli anni Cinquanta – sia una strada saggia, o anche solo furba, c’è un grosso problema: siamo sempre di meno e questa (non) strategia deprime ulteriormente la natalità, perché impoverisce il paese e lo rende più insicuro, incentivando l’emigrazione dei giovani talentuosi – quanti se ne incontrano in Svizzera, Germania, Olanda o Inghilterra – e scoraggiando chi resta dal fare figli. L’Italia ha oggi un tasso di natalità pari a 7 nati per 1.000 abitanti: il 30% in meno della media europea, oltre il 4% in meno della Francia e il 2,5% in meno della Germania 8, per restare ai nostri riferimenti prossimi. Tra le molte definizioni di economia, ci sembra che quella concettualmente ed eticamente più giusta intenda «l’attività economica [come] diretta alla soddisfazione dei bisogni umani dal punto di vista pratico» 9. Un sistema economico che disincentiva la natalità nega se stesso e mina il fondamento primo della società cui si applica. Ancor più paradossale, ma solo in apparenza, è che il danno all’individuo viene da un apparato produttivo affetto da persistente nanismo: un sistema che, fatta eccezione per le «multinazionali tascabili» più specializzate e internazionalizzate rispetto alla media italiana, riproduce l’archetipo dell’azienda a misura d’uomo. Nella realtà, però, questo sistema risulta schiacciato su produzioni a medio-basso valore aggiunto e a scarso contenuto tecnologico, risultando così in balìa della grande industria committente, di norma estera. Tale committenza non esita a sacrificare i subfornitori stranieri in caso di gravi difficoltà, come quelle in cui versa ora l’apparato produttivo tedesco: orfano del gas russo e spiazzato dall’offensiva mercantilistica di Pechino nell’ambito della guerra tecnologica sino-americana. Ciò rischia di vanificare la scommessa a senso unico di Berlino sul mercato cinese quale alternativa a un’Europa fiaccata dall’austerità made in Germany e a un’America ansiosa di ricostruire la propria base industriale (anche) mediante un crescente ricorso al protezionismo, per ridare fiato all’esangue middle class. Se escludiamo elettricità, gas, acqua, rifiuti e settore estrattivo, le imprese prettamente manifatturiere in Italia sono circa 366 mila, con 3,8 milioni di occupati e un valore aggiunto di circa 250 miliardi di euro. Di queste, le aziende con meno di 20 occupati sono la quasi totalità (99% circa), ma impiegano circa un terzo (1,3 milioni) degli occupati e producono appena un quinto (50 miliardi circa) del valore aggiunto. Il resto – quattro quinti del valore aggiunto, due terzi degli occupati – afferisce alle circa 30 mila imprese con oltre 20 addetti, nocciolo duro dell’industria italiana 10. Di queste, le imprese manifatturiere di taglia davvero mondiale si riducono a Leonardo (50 mila dipendenti circa), Calzedonia (41 mila), Fca Italy (35 mila), Salini (31 mila), Pirelli (31 mila), Prysmian (30 mila), Parmalat (28 mila) e Fincantieri (21 mila). A queste vanno aggiunte le grandi realtà sopravvissute al sistema delle partecipazioni statali come Enel, Terna, Eni, Saipem, Ferrovie o TeleCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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8. «Continua il calo delle nascite: Natalità e fecondità della popolazione residente, anno 2022», Istat, 26/10/2023; «Fertility statistics», Eurostat, dati aggiornati al marzo 2023. 9. «Economy», Oxford English Dictionary, 2023. 10. A. GOZZI, «È l’industria il futuro dell’Italia», Piazza Levante, 21/9/2023.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
com, oltre a grandi gruppi finanziari e di servizi come Edizione, Almaviva, Costa Crociere, Manutencoop, Coopservice o Superit (Esselunga). Senza nulla levare al bacino di competenze e imprenditorialità rappresentato da questi gruppi, basta un rapido sguardo per cogliere la residualità delle grandi imprese italiane attive in settori tecnologici di punta. Nell’industria, grande non è sempre bello. Ma i volumi d’investimento necessari a concepire, produrre in massa e commercializzare nuovi accumulatori elettrici, microprocessori, apparati complessi ad alto livello di sofisticazione, nuove molecole farmaceutiche, nanomateriali e tutto quanto configura i nuovi ritrovati della scienza che innervano le nostre esistenze e determinano le gerarchie economiche mondiali, sono tali da richiedere adeguata massa critica. Oltre che una visione sistemica, dunque politica, di cosa vogliamo fare (nel senso di produrre) e dove vogliamo essere nei prossimi anni, in un mondo nel pieno di radicali trasformazioni scientifiche e strategiche. Detto così può suonare vago e qualunquista, ma la questione ha nome e cognome: politica industriale. 4. Il rapporto tra Stati sovrani, specie in epoca industriale, è da sempre improntato a una tensione più o meno latente tra integrazione economica e autonomia produttiva, che emerge con violenza in occasione di shock sistemici come le guerre o le grandi crisi economiche. Oggi viviamo un momento d’inflessione storica. Da un lato le profonde interdipendenze produttive e commerciali strutturatesi in quarant’anni di globalizzazione, cioè d’integrazione produttiva tra economie occidentali e asiatiche sotto l’egida del primato statunitense, amplificano gli shock generando spinte inflazionistiche attraverso materie prime, semilavorati e beni intermedi, che costituiscono il grosso del commercio internazionale. Dall’altro lato, la crescente sfida a un’America in evidente crisi di proiezione e motivazione da parte di Russia, Cina e altre potenze variamente revisionistiche spinge al brusco e disordinato allentamento di tali interconnessioni, esacerbando la competizione per la tecnologia e le materie prime strategiche – categoria assai lasca, la cui estensione dipende in ultima analisi dalla volontà politica. I contraccolpi di queste dinamiche sono tanto più forti quanto maggiore è l’integrazione di un’economia nelle filiere produttive internazionali. L’Europa, Italia inclusa, appare molto vulnerabile essendo composta in massima parte da economie di trasformazione povere di materie prime, che vivono del valore aggiunto di ciò che producono con input esterni e poi esportano. Determinante è anche dove esportano: storicamente il commercio intracontinentale ha costituito il grosso dell’interscambio tra paesi europei, ma negli ultimi anni – specie dopo la Grande recessione del 2008 – alcune grandi economie della Ue, specie la Germania, hanno scommesso in modo quasi unilaterale sul mercato cinese, trovandosi ora particolarmente esposte alla tempesta del decoupling sino-statunitense. Si è così creata, di nuovo, una tempesta perfetta: le economie europee restano fortemente integrate tra loro, ma il perno del mercato unico, la Germania, privata del gas russo (dalla guerra) e frenata sul mercato cinese (dal decoupling), annaspa Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
CHE COSA È “CRITICO”? 50
(% sul totale dell’import critico italiano)
45
45 40
40 35
Valore Numero di voci
32
30
25
25
20
20
18 14
15 10 5
2
1
2
0 Minerali, metalli e materie prime
Farmaci e principi attivi
Altro
Prodotti della chimica
Combustibile fossile
0
1
Legno
Fonte: Centro Studi Confindustria su dati Baci – Cepii
e rischia di trascinare con sé l’Eurozona, al limite sfasciandola. Nell’azzimata prosa dell’Istat: «Sullo scenario internazionale pesa l’incertezza legata al rischio di un’ulteriore frammentazione dei mercati come conseguenza dell’aggravarsi delle tensioni. (…) La debolezza del commercio mondiale e dell’economia tedesca, nostro principale partner commerciale, è attesa determinare una riduzione degli scambi con l’estero e soprattutto delle esportazioni» 11. L’indice delle dipendenze critiche elaborato da Confindustria 12 per il periodo 2012-2021 (ponderando la rilevanza industriale delle materie importate e il rischio geopolitico che incombe sul loro reperimento) quantifica tali dipendenze intorno al 16% del nostro import (29 miliardi di euro su 187 all’anno, in media) e intorno al 7% delle tipologie (370 prodotti su 5.042 importati). I valori bassi non ingannino. Tra i beni destinati alla manifattura, le dipendenze massime si riscontrano nella filiera dei trasporti (23% del totale, soprattutto ferro e acciaio); in quella chimico-energetica (22%, specie la chimica di base); in quelle agroalimentare ed elettronica (computer e periferiche, componenti e schede elettroniche), con quote del 15-18%; in quelle delle costruzioni e dei metalli di base (10% circa); nel tessile (23%). Insomma: i pilastri della nostra economia. In valore assoluto, i paesi da cui proviene il grosso del nostro import industriale critico sono Cina (primo fornitore per circa il 23% delle tipologie critiche e oltre il 25% del valore) e Stati Uniti (10% delle tipologie, 6% del valore), poi India e Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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11. «Le prospettive per l’economia italiana nel 2023-2024», Istat, 5/12/2023. 12. «Le dipendenze critiche e strategiche dell’industria italiana», Confindustria, 1/8/2023.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
DOVE SI CONCENTRA L’IMPORT CRITICO
(% sul totale dell’import critico italiano)
100 90
Trasporti 23
80
Tessile
23
70
Salute
60
Pa, difesa e altro 19
50
Ict, media e computer
40 30
22
Costruzioni, legno, metalli di base
28
20 10
Commodity, chimica ed energia
19
Agroalimentare
0 Valore
Numero di voci
Fonte: Centro Studi Confindustria su dati Baci – Cepii
Turchia (8-10% dei prodotti), Ucraina e Svizzera (1-4% delle tipologie, 9-11% del valore). Importante è anche la quota di dipendenza strategica sul totale importato dai singoli paesi: scopriamo così che tra 2012 e 2021 è stato «critico» oltre il 90% del nostro import da Russia, Svizzera e Brasile; il 60% di quanto abbiamo importato da Giappone, Ucraina, Cina e Stati Uniti; il 30-45% circa di quanto reperito in molti altri paesi 13. Siamo dunque una cartina tornasole della globalizzazione e rischiamo di essere il canarino nella miniera che ne preannuncia il tonfo. Nei vent’anni precedenti la crisi del 2008, gli scambi mondiali sono cresciuti in volume a una velocità più che doppia rispetto al pil globale, mentre nel 2022 il commercio estero, in rapporto alla produzione, risultava superiore di appena il 5% rispetto al 2008: meno di un decimo dell’incremento registrato nei quattordici anni precedenti. La quota cinese di supporti elettronici nel mercato americano è caduta dal 40% nel 2017 all’11% nel 2023, quella specifica di semiconduttori è crollata al 7% mentre la quota di Taiwan passava dal 10% al 20%. Dalla Cina però provengono oggi il 70% delle batterie al litio importate negli Usa e il 90% di quelle importate nella Ue, a riprova che il decoupling non è affare da educande 14. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
13. Ibidem. 14. «Rapporto: Catene di fornitura tra nuova globalizzazione e autonomia strategica», Confindustria, primavera 2023.
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
A ME I DAZI, PLEASE
58,3: % scambi bilaterali soggetta a dazi
25
% scambi bilaterali soggetta a dazi
58,3
58,3
65,5
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5 0
gen-18 mar-18 mag-18 lug-18 set-18 nov-18 gen-19 mar-19 mag-19 lug-19 set-19 nov-19 gen-20 mar-20 mag-20 lug-20 set-20 nov-20 gen-21 mar-21 mag-21 lug-21 set-21 nov-21 gen-22 mar-22 mag-22 lug-22 set-22 nov-22 gen-23 mar-23
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Dazi cinesi sull'import dagli Usa Dazi cinesi sulle importazioni dal resto del mondo
Dazi americani sulle importazioni dalla Cina Dazi americani sulle importazioni dal resto del mondo
Fonte: Centro Studi Confindustria su dati Peterson Institute
Le nostre imprese se ne stanno accorgendo: un’indagine 15 su un campione di quasi 800 aziende manifatturiere ubicate soprattutto in Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Toscana ha rilevato che il grosso (84%) non ha mai delocalizzato poiché realizza tutto il processo produttivo in Italia, direttamente o tramite subfornitori. Eppure sa di essere esposto: il 73% dichiara di approvvigionarsi all’estero per i materiali necessari alla produzione. Quanto alle imprese che producono fuori, il 16% circa dichiara di aver già rimpatriato in tutto o in parte la produzione, un altro 12% valuta di farlo, mentre un 14% ha cambiato paese estero optando per lidi auspicabilmente più sicuri perché più prossimi (nearshoring) e/o strategicamente neutri (friendshoring). 5. Non è possibile, tuttavia, affidarsi alla sola iniziativa di imprese già sottodimensionate rispetto alla media internazionale dei rispettivi settori. Anche perché la trasformazione cui devono far fronte è sistemica e molte tecnologie alla base delle loro filiere – elettronica, meccatronica, biomedicina, nuovi materiali – hanno dimensione civile-militare. Lasciarsele sfuggire in tutto o in gran parte, come già successo con il complesso di innovazioni noto come «rivoluzione informatica», implica relegare il paese a una condizione di permanente minorità economico-strategica. Condizione che pagheremmo molto cara in termini di sicurezza, benessere e sviluppo sociale. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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15. «In aumento le imprese manifatturiere italiane che scelgono fornitori domestici», Confindustria, 9/9/2023.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’EUROPA DELLE BATTERIE Capacità di produzione totale pianificata delle celle della batteria 2030 2025 2022 0,124 TWh 0,5 0,6 TWh 1,3 1,5 TWh Gigafactories in progetto Byd Calb Eurocell InoBat VW
Northvolt Freyr Beyonder Morrow
SVEZIA Northvolt
FINLANDIA Freyr
NORVEGIA
LETTONIA Anadox Amte/Britishvolt Envision Aesc West Midlands REGNO UNITO
POLONIA Leclanché/Eneris Lges
GERMANIA 1
REP. CECA MES FRANCIA Acc BlueSolutions Envision Aesc Verkor
SLOVAC. inoBat UNGHERIA Samsung Sdi SK On
SVIZZERA Leclanché Acc/Stellantis Italvolt Faam
SERBIA ElevenEs
SPAGNA BasqueVolt Mindcaps VW
ITALIA
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1 GERMANIA
Acc Blackstone Catl Cellforce Leclanché/Eneris Northvolt
QuantumScape Svolt Tesla UniverCell VARTA VW
Gigafactories Fabbriche di medio-grandi dimensioni per la produzione di batterie a uso autotrazione e per altre applicazioni
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ALL’ITALIA SERVE L’INDUSTRIA, ALL’INDUSTRIA SERVE LO STATO
Nella corsa europea all’accaparramento dei nuovi stabilimenti produttivi di chip e batterie, Germania e Francia sono oggi saldamente in testa seguite da Svezia, Ungheria, Polonia e Spagna. Intanto, archiviata l’eccezione virale prima e bellica poi che aveva portato a sospendere il Patto di stabilità e crescita, un fronte di paesi europei capitanati dalla Germania ha spinto per il ripristino di rigide regole contabili, ancorché parzialmente smussate. Timore della mediterranea indisciplina? Sì, non infondato. Volontà di sfruttare al massimo i margini fiscali per intercettare un friendshoring che è tutto fuorché un pasto gratis? Decisamente sì. Prima dell’8 febbraio 2022, giorno in cui la Commissione europea licenziava il Chips Act (il pacchetto legislativo europeo sui chip), Francia, Germania e Olanda erano gli unici Stati della Ue a prevedere incentivi fiscali per ricerca e sviluppo nel campo dei semiconduttori. Pochi giorni dopo la stessa Commissione annunciava un fondo comune poi ribattezzato Step (Strategic Technologies for Europe Platform) per colmare l’ormai tangibile ritardo rispetto a Washington e a Pechino sulle tecnologie chiave. Nel mentre, fuori dai palazzi bruxellesi gli Stati membri competevano a suon di miliardi per accaparrarsi pezzi di filiere che non dominano. Alcuni esempi. Nel marzo 2022 apre a Grünheide (Brandeburgo) una gigafactory Tesla, cui il Land ha promesso un miliardo di euro in sussidi. Ad aprile 2023 la Commissione europea approva un piano francese da 3,5 miliardi per sostenere piccole e medie imprese nella transizione energetica. Un mese dopo la svedese Northvolt (batterie) investe 5 miliardi di euro per la costruzione di uno stabilimento in Germania, a fronte di sussidi governativi per mezzo miliardo. A giugno il governo tedesco e Intel siglano un accordo per la costruzione vicino Magdeburgo di una fabbrica di chip da 30 miliardi di euro, un terzo dei quali coperti da sussidi pubblici 16. Una cordata capitanata dalla taiwanese Tsmc costruirà a Dresda un’altra fabbrica di circuiti integrati: cinque miliardi i sussidi federali. Entro il 2030, la capacità annua tedesca di produrre accumulatori dovrebbe salire a 325 gigawattora e quella francese a 162 gigawattora, mentre per l’Italia la previsione è di soli 40 gigawattora con lo stabilimento Stellantis-Mercedes-Total di Termoli 17. L’impatto degli aiuti di Stato, buttati dalla finestra del Mercato unico e rientrati comodamente dalla porta, è evidenziato dal Temporary framework, l’esenzione temporanea dal divieto di sussidi introdotta nel 2022 per rispondere alla crisi energetica (in cui rientrano alcuni degli esempi citati). Su 742 miliardi di aiuti autorizzati dalla Commissione, quasi il 50% è stato richiesto dalla Germania, oltre il 22% dalla Francia e l’8% scarso dall’Italia. L’italo-francese STMicroelectronics sta costruendo a Catania uno stabilimento da 730 milioni (con contributo statale di 292 milioni), mentre in Francia ne realizzerà uno da 7,4 miliardi (con quasi tre miliardi di sussidi), parte del piano France 2030 per raddoppiare la produzione nazionale di semiconduttori 18. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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16. Ibidem. 17. F. SANTELLI, «Così l’Italia rischia di perdere il treno per l’industria del futuro», la Repubblica, 2/10/2023. 18. Ibidem.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
6. Oltre a scommettere su un preciso modello economico con apposite politiche pubbliche, in scia all’esempio statunitense (e cinese), questi paesi si preoccupano di fertilizzare l’humus destinato ad accogliere e nutrire il tessuto industriale che verrà. L’Italia investe oggi, in media, l’1,3% del pil in ricerca e sviluppo: quasi l’1% in meno della media europea e meno della metà rispetto a Belgio, Svezia, Austria, Germania, Svizzera, Finlandia e Danimarca, ma anche molto meno di Paesi Bassi, Slovenia, Francia, Norvegia, Repubblica Ceca ed Estonia 19. Solo per stare all’Europa. I settori italiani con il maggior numero di brevetti (44% del totale) sono quasi tutti manifatturieri (7 su 10): trasporti, logistica, macchinari speciali ed elettrici, tecnologie mediche, apparecchi ed energia, macchine utensili ed elementi meccanici 20. Bene, ma chiaramente non basta. Grida poi vendetta che oltre il 60% delle aziende manifatturiere italiane (e oltre il 70% di quelle con più di 100 dipendenti) fatichi a reperire manodopera specializzata, tanto che quasi un terzo delle imprese in questione si acconcia a formarla da sé, con costi e tempi superiori. Eppure la domanda non manca, dato che un quarto delle medie industrie e il 35% delle grandi si dicono impegnate in un processo di ricambio generazionale della forza lavoro 21. Questa penuria non deve stupire in un paese abituato da decenni a trascurare la propria industria, al pari delle relative politiche scolastiche – delle politiche scolastiche tout court, in realtà. Nel 1969, in un’Italia avviata senza ancora saperlo al crepuscolo della sua rivoluzione industriale, l’Accademia dei Lincei ospitava il convegno «Tecnologie avanzate e loro riflessi economici, sociali e politici», i cui lavori affrontarono temi di frontiera nei campi più disparati: chimica avanzata, telecomunicazioni ed elettronica, energia, costruzioni, nuovi materiali e siderurgia, con un occhio alle implicazioni sociopolitiche delle tecnologie futuribili. Nella relazione introduttiva dal titolo «Uomini nuovi per un’era nuova», Mario Silvestri (fra i pionieri del nucleare italiano) affermava: «Scrutare il futuro è stata sempre impresa difficile, debitamente riservata, nell’antichità, agli dèi o ai fattucchieri. Se oggi invece si parla di scienza del futuribile (…) è perché solo con l’avvento della civiltà industriale il futuribile acquista un diverso sapore e diviene tentativo di precorrere i tempi» 22. I tempi però non aspettano. Per dirla con Mason Cooley: «Il tempo che ammazzo mi sta ammazzando» 23.
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19. «EU expenditure on R&D reaches €352 billion in 2022», Eurostat, 1/12/2023. 20. «Il futuro dell’industria italiana tra resilienza, rilancio», cit. 21. «Indagine Confindustria sul lavoro del 2023», Confindustria, 2/8/2023. 22. Cit. in V. MARCHIS, «Quale futuro per l’industria italiana?», Enciclopedia Treccani, Collana: Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica, 2013. 23. M. COOLEY, op. cit.
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’EURO È LA MONETA DEL NOSTRO DECLINO POSSIAMO USCIRNE?
GUZZI Per concezione e struttura, l’unione monetaria varata nel 1992 a Maastricht impedisce all’Italia di uscire dallo stallo economico. Con la crisi della Germania il rischio è che la stagnazione viri in crollo. Perché non se ne discute? Quattro possibili alternative. di Gabriele
N
EL 1999 UNDICI STATI EUROPEI FRA CUI IL
nostro scelsero di adottare l’euro come loro valuta. Nonostante la fragilissima performance economica del nostro paese negli ultimi venticinque anni, in Italia ancora non si è sviluppata una discussione franca sugli effetti della moneta unica per la nostra economia. Ancora peggio, si è generata una totale tabuizzazione del tema. L’euro è assurto a ruolo di indicibile, di totem, di feticcio. Invece di procedere in analisi equanimi, ci si nasconde dietro a una religiosità europeista spesso molto sterile. Malgrado questo, lo iato tra l’immagine edulcorata di Europa e l’Europa reale si fa ogni anno più insostenibile. Ad esempio, è sfuggita a molti la coincidenza tra il venticinquesimo anniversario della moneta unica e la proposta di riforma del patto di stabilità e crescita avanzata dai ministri delle Finanze proprio a dicembre 2023. Si dovrebbe definire non-riforma perché, eccetto alcuni cambiamenti, l’impostazione ordoliberale, deflattiva e mercantilista dell’Eurozona rimane assolutamente la stessa. Questo anniversario, quindi, è iniziato con una terribile doccia fredda. L’idea che l’epidemia avesse rappresentato un momento rifondativo per l’Ue si è scontrata con la durezza degli effettivi rapporti di forza tra Stati. Non ci sarà nessun salto di qualità, nessun momento hamiltoniano, nessuna prospettiva federalista. Mentre il mondo brucia tra guerre e divisioni, l’Ue continua a discutere di zero virgola, di percentuali, di saldo strutturale. L’ideologia contabilistica e ragionieristica di Bruxelles si mostra ancora l’unico collante economico realmente esistente oggi in Europa. Lo scopo di questo articolo, quindi, sarà triplice: tentare di spiegare i difetti strutturali dell’euro e le sue conseguenze sul nostro paese; comprendere il ruolo che ebbe la moneta unica nella crisi istituzionale italiana nel momento della sua introduzione; esaminare possibili alternative. Il fine complessivo è cominciare a Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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L’EURO È LA MONETA DEL NOSTRO DECLINO, POSSIAMO USCIRNE?
ridare un minimo di base razionale a quei processi economici che, se non verranno rapidamente affrontati, continueranno a contribuire al declino economico del nostro paese.
Il peccato originale dell’euro Uno Stato ha a disposizione diverse leve di politica economica. Tra di esse ci sono il tasso di cambio, il tasso d’interesse e la politica fiscale. Con l’introduzione dell’euro, la gestione dei primi due è stata delegata a livello europeo mentre la terza è stata vincolata a criteri di austerità. In un colpo solo, quindi, i paesi europei hanno perso una quota rilevantissima di sovranità. Il problema fondante è che tale perdita è stata solo in parte compensata a livello europeo. L’euro, infatti, è una moneta senza Stato, e quindi senza ministero del Tesoro: la perdita di strumenti di aggiustamento delle economie nazionali non è stata adeguatamente controbilanciata da trasferimenti fiscali consistenti. Tutto questo si aggiunge al fatto che i diversi ministeri del Tesoro emettono titoli di debito in una valuta che non controllano. L’Eurozona, infatti, è una sorta di ibrido istituzionale. Alcune prerogative sono state delegate a livello europeo mentre altre sono rimaste al grado nazionale. In questo limbo giuridico, l’autorità monetaria e quella fiscale non soggiacciono allo stesso ordinamento. Gli Stati nazionali sono così declassati allo status di ente locale, di colonia, ossia di un agente economico che non ha controllo sulla moneta in cui si indebita 1. La conseguenza è che proprio quell’istituzione a cui si voleva donare un’aura di indipendenza e lontananza dalle questioni politiche, ossia la Banca centrale europea (Bce), è dive nuta l’autorità più politica di tutte. La Bce è quel potere che oggi può decidere della sopravvivenza finanziaria non solo di interi paesi ma dello stesso progetto dell’euro. Il problema non da poco è che una Banca centrale non è un organo democratico e, inoltre, quella europea è stata costruita con il massimo grado d’indipendenza possibile, in quanto non esiste un parlamento o un governo vero e proprio che possa fargli da contropotere 2. Come ha scritto Joseph Stiglitz, questo 1. Scriveva l’economista Wynne Godley nel 1992: «Il potere di emettere la propria moneta (…) è l’e lemento principale che definisce l’indipendenza nazionale. Se un paese rinuncia o perde questo potere, acquisisce lo status di ente locale o di colonia» («Maastricht and All That», London Review of Books, vol. 14, n. 19, 1992); Paul Krugman, nel 2011, scriveva: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica» («Legends of the Fail», The New York Times, 10/11/2011). 2. È totalmente impossibile, infatti, fare un paragone tra la Bce e le autorità monetarie presenti in altri Stati occidentali. La Federal Reserve degli Stati Uniti, ad esempio, è sì formalmente indipendente ma in una modalità totalmente diversa da quella della Bce. Ci sono dei limiti impliciti all’esercizio di questa indipendenza in quanto il Congresso ha, alla fine, il potere ultimo sull’esistenza stessa dell’autorità monetaria. Come ha dovuto riconoscere l’ex governatore della Fed, Paul Volcker: «Il Congresso ci ha fatti, e il Congresso ci può disfare». In Europa non esiste questa «minaccia» ultima che l’autorità democratica può esercitare sul potere monetario e perciò quest’ultimo – sebbene all’interno del suo mandato – ha amplissime aree di discrezionalità e arbitrio. Esso si può scorgere proprio nella distanza radicale con cui i diversi governatori della Bce hanno interpretato un mandato che invece doveva essere oggettivo, chiaro, tecnico nel senso di scientificamente indiscutibile. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
ha spesso reso le scelte di politica monetaria europee «indipendenti» da centri democratici e trasparenti ma strettamente «dipendenti» da influenze di paesi, interessi e gruppi di potere opachi «per raggiungere risultati che favoriscono le banche e i poteri forti all’interno dell’Unione Europea a scapito dei cittadini comuni e dei paesi deboli» 3. Ciò che dovrebbe destare un’interrogazione profonda è che molti economisti avevano messo in guarda i politici europei su questi problemi. Prima dell’introduzione dell’euro, c’era un consenso piuttosto traversale contro lo specifico progetto di unificazione monetaria. Come ha riconosciuto lo stesso Antonio Fazio, il governatore di Bankitalia al momento dell’introduzione dell’euro, «non esistevano le condizioni, ben presenti nella teoria economica, per l’adozione di una moneta comune» 4. Queste condizioni attenevano a un mercato del lavoro omogeneo, a strutture produttive simili, a una mobilità dei fattori produttivi, a una solidarietà fiscale. Quest’ultima precondizione non solo non esisteva in Europa ma veniva esplicitamente avversata dal paese egemone, la Germania. E questo, dalla sua prospettiva mercantilista, era anche comprensibile. La creazione di una grande area dell’euro-marco, dove la moneta tedesca poteva non rivalutarsi in caso di avanzi commerciali strutturali, senza alcun obbligo di solidarietà verso i paesi periferici, con i suoi competitori privati della leva del cambio, era stato l’unico modo per convincerli del progetto di unificazione monetaria. Problemi più significativi emergevano invece per l’Italia, che aveva un modello di relazioni sociali totalmente diverso: turbolento, senza dubbio, ma comunque anche funzionante vista la grande potenza economica raggiunta. In caso di shock asimmetrici, la perdita della leva del cambio avrebbe invece reso il peso del riaggiustamento estremamente faticoso per il nostro paese. Con l’euro, quindi, si irrigidì la nostra economia evitando i «terremoti finanziari» 5, come previde Fazio nel 1997, e quindi quella dinamica di inflazione e svalutazione che aveva caratterizzato a fasi alterne la nostra economia dalla fine del sistema di Bretton Woods. Ma questo, alla fine, non ha reso più produttiva, ricca ed efficiente la nostra economia. Tutto il contrario: come lo stesso Fazio previde, questo finì per produrre «una sorta di bradisismo economico» 6, una strutturale perdita di crescita. Si creò stabilità, certo, ma una stabilità non vitale: una forma di rigor mortis. Il peccato originale dell’euro, quindi, è stato quello di pensare la moneta in chiave impolitica finendo per rendere tale questione estremamente politica. Si voleva ridurre la politicità in seno alle decisioni economiche ma si è semplicemente ridotta la dimensione democratica di tali decisioni. Il fulcro del politico, e quindi del conflitto, si è estremizzato. La chimera istituzionale dell’Ue ha finito per fagocitare le sovranità nazionali non riuscendo a offrire nulla di neanche lontanamente Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. J. STIGLITZ, L’Euro: come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Torino 2017, Einaudi, p. 171. 4. A.L.F. FAZIO, Le conseguenze economiche dell’euro, Siena 2023, Edizioni Cantagalli, p. 60. 5. Ivi, p.19. 6. Ibidem.
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126 A LG E R IA
ANDORRA
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TUNISIA
€ PRINCIPATO DI MONACO CITTÀ DEL VATICANO
SLOVACCHIA
M a r
MALTA
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M e d i t e r r a n e o
GRECIA
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TURCHIA
UCRAINA
FED. RUSSA
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STATI DELL’UNIONE EUROPEA NON IN ZONA EURO DANIMARCA corona danese SVEZIA corona svedese REP. CECA corona ceca fiorino UNGHERIA POLONIA złoty BULGARIA lev ROMANIA leu romeno
ARM.
GEORGIA
Mar Caspio
STATI EUROPEI NON APPARTENENTI ALL’UNIONE EUROPEA E ALL’EUROZONA ALBANIA lek MOLDOVA leu moldavo BIELORUSSIA rublo bielorusso NORVEGIA corona norvegese BOSNIA-ERZEGOVINA marco bosniaco REGNO UNITO sterlina GEORGIA lari RUSSIA rublo russo ISLANDA corona islandese SERBIA dinaro serbo LIECHTENSTEIN franco svizzero SVIZZERA franco svizzero MACEDONIA DEL NORD dinaro macedone UCRAINA grivnia UCRAINA OCCUPATA rublo russo
BIELORUSSIA
BOSNIA -ERZ. SERBIA BULGARIA € € MONT. M.D.N. KOS. ALB.
UNGHERIA SLOV. CROAZIA
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LITUANIA
POLONIA
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Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
STATI DELL’UNIONE EUROPEA APPARTENENTI ALL’EUROZONA (EURO) STATI NON APPARTENENTI ALL’UNIONE EUROPEA CHE UTILIZZANO L’EURO
R
PO
IRLANDA
S PAG N A
Oceano Atlantico
ISLANDA
LO
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LD MO
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Mare del Nord
L’EUROPA DELLE MONETE
L’EURO È LA MONETA DEL NOSTRO DECLINO, POSSIAMO USCIRNE?
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
paragonabile e significativo. L’euro, quindi, non fu un errore degli economisti, come troppo spesso ingenuamente si ritiene, ma dei politici che scelsero di ignorare la teoria economica per raggiungere una peraltro indefinita finalità politica su cui è oramai lecito avanzare forti e radicali perplessità.
Il fallimento economico dell’euro Nei propositi iniziali, l’euro avrebbe dovuto raggiungere diversi obiettivi. Tra gli altri, promuovere la crescita economica, ridurre le divergenze tra paesi, diventare un credibile competitore rispetto al dollaro. Dopo venticinque anni, possiamo dire che tutti questi obiettivi non sono stati raggiunti. Rispetto agli Usa, l’Eurozona è cresciuta meno e peggio. Non siamo riusciti a trasformare la nostra economia verso i settori più tecnologici. Questo processo ha vissuto la sua fase peggiore dopo la crisi del 2008: mentre gli Stati Uniti rispondevano compatti, in Europa si imponeva austerità agli Stati periferici mentre la Germania si rifiutava di aumentare la domanda interna per rendere meno gravoso l’aggiustamento degli altri paesi. La carenza di investimenti ha finito per produrre un ritardo strutturale rispetto all’economia americana e cinese. Anche la divergenza all’interno dell’Eurozona è aumentata 7. D’altronde, l’euro è l’unica area valutaria in cui lo Stato egemone pretende di rimanere creditore e di drenare domanda dal resto dei paesi piuttosto che fornirla. Utilizzando la formula attribuita a Joan Robinson, prima delle auto sportive la Germania è innanzitutto una grande «esportatrice di disoccupazione» 8. Se pensiamo solo al settore manifatturiero, d’altronde, l’Italia è passata dall’essere un competitore dell’industria tedesca a un suo fornitore. L’industria italiana è stata in gran parte assorbita nella catena del valore tedesca. L’incapacità della nostra impresa di innovare, la perdita della leva del cam bio e un quasi trentennale avanzo primario di bilancio pubblico hanno contribuito a dare un colpo quasi mortale alla produttività italiana. Soltanto agganciandosi alla produzione tedesca una quota della manifattura italiana è riuscita a sopravvivere. L’euro non è poi neanche risuscito a «minacciare» il dollaro come moneta di riserva internazionale. Ma questo può sorprendere solo il dibattito italiano. L’Euro zona non ha un titolo sicuro emesso a livello europeo 9, non ha una potenza mili tare, non ha un mercato di capitali unico e quelli presenti sono relativamente poco sviluppati, non ha un’unione bancaria e soprattutto si fonda su un approccio mer cantilista che drena liquidità dal resto del mondo. Queste cinque condizioni, tutte presenti fin dalla fondazione, rendono impossibile che l’euro minacci il dollaro come mezzo di pagamento internazionale. Come ha spiegato recentemente il goCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
7. J.R. FRANKS ET AL., «Economic Convergence in the Euro Area: Coming Together or Drifting Apart?», Imf working papers, 18/10/2018. 8. Cfr. H. DIETER, «La Germania crede nell’euro finché le conviene», Limes, 12/2018, «Essere Germania», pp. 209-215. 9. Evidentemente le obbligazioni emesse all’interno del Next Generation Eu non sono in alcun modo sufficienti per affrontare questo problema.
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L’EURO È LA MONETA DEL NOSTRO DECLINO, POSSIAMO USCIRNE?
vernatore di Bankitalia, Fabio Panetta, «il grado di integrazione finanziaria in Europa è oggi analogo a quello degli anni 2003-4. Si tratta di un risultato certamente inferiore alle aspirazioni iniziali della Commissione europea» 10. Nel complesso, quindi, l’euro ha favorito quei paesi che meglio si adeguavano all’impostazione ordoliberale dei trattati. Uno studio del Centre for European Policy di Friburgo ha provato a quantificare i benefici per le singole nazioni 11. La Germa nia e i Paesi Bassi avrebbero avuto un dividendo dall’euro rispettivamente di 1.893 e 346 miliardi di euro. L’Italia e la Francia avrebbero subìto una perdita rispettiva mente di 4.325 e 3.591. Il silenzio del dibattito pubblico italiano su questa vicenda, perciò, porta con sé qualcosa di assurdo, quasi inspiegabile. Nel nuovo scenario della globalizzazione, l’euro ha rappresentato un freno, una zavorra, un ostacolo per lo sviluppo economico del nostro paese. Ed è per questo che scandagliare le ragioni profonde dell’adesione fanatica delle nostre classi dirigenti all’euro diviene oggi un passaggio indispensabile per poter poi immaginare delle alternative.
L’euro: una questione materiale e religiosa L’Italia non aderì all’euro tanto per una ragione economica quanto per una scelta geopolitica: agganciarsi al treno del vincolo esterno europeo per non rima nere isolata. Troppa era la paura della liquefazione dello Stato. La firma del trattato di Maastricht d’altronde avvenne nel 1992: l’anno di Tangentopoli, della speculazione contro la lira, delle stragi di mafia. Un intero sistema stava collassando e le élite italiane valutarono il nostro paese come sprovvisto di quelle energie sufficienti per affrontare in sicurezza i nuovi scenari globali. In questo contesto, la crisi che stava attanagliando le due più importanti tradizioni partitiche del paese, la Dc e il Pci, è stata senza dubbio un acceleratore verso l’adesione pseudoreligiosa dell’Italia alla moneta unica. Tangentopoli e il crollo del Muro rappresentavano per loro delle sfide esistenziali di natura finale. L’euro fu allora visto come un surrogato ideologico, un marchingegno teologico-politico per risolvere la propria crisi d’identità senza interrogarsi troppo sul passato. L’unificazione europea divenne la nuova narrazione sostitutiva, il sol dell’avvenire verso cui convogliare quelle attese millenaristiche che caratterizzavano entrambe le tradizioni. Oltre a questo aspetto, non si può nascondere la questione materiale. Negli alti ambienti burocratici e accademici italiani era abbastanza accertata l’idea che l’economia mista, lo Stato pluriclasse, il welfare universalistico, la piena occupazione e quindi la risoluzione lavoristica del conflitto sociale non sarebbero stati più compatibili con le nuove regole europee. Ci sarebbe cioè stata un’implicita e indiscussa svolta «di carattere costituzionale» 12, come riconobbe Guido Carli. Per lui, il Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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10. F. PANETTA, «Oltre i confini della moneta: il ruolo strategico dell’euro nell’Europa del futuro», intervento alla conferenza «Ten years with the euro», Riga, 26/1/2024. 11. A. GASPAROTTI, M. KULLAS, «20 Years of the Euro: Winners and Losers. An empirical study», The Centre for European Policy, febbraio 2019. 12. G. CARLI, Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari 1991, Laterza, p. 436.
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vincolo esterno avrebbe costretto il nostro paese a modernizzarsi. In parole più brutali, l’Italia doveva attraversare un momento rifondativo dei propri rapporti sociali e politici. Tuttavia, i risultati furono più estremi di qualunque aspettativa. Non solo si è piegato il modello di economia mista ma l’intera economia italiana. Ed è per questo che una spiegazione solo materiale non è in grado di spiegare integralmente la postura delle élite italiane nei confronti dell’euro lungo questi venticinque anni. Piccole cerchie del grande capitale hanno beneficiato della moneta unica. Lo spostamento di potere che l’austerità ha prodotto nei rapporti produttivi è poi evidente. Ma la stragrande maggioranza dell’impresa italiana è stata colpita, certo in vari modi e con vari gradi, dalla desertificazione industriale vissuta dal nostro paese. C’è un’eccedenza ideologica che la sola interpretazione economicistica non è in grado di spiegare. Perciò, per offrire una spiegazione esaustiva sull’adesione acritica dell’Italia alla moneta unica si devono coniugare tre fattori: l’elemento materiale, ossia lo spostamento economico di potere; quello teologico-politico, ossia la creazione di una nuova fede politica dopo la crisi delle tradizioni partitiche; il vincolo esterno, ossia il desiderio di trasformare per via indiretta la costituzione materiale del nostro paese. L’euro fu interpretato come la soluzione della crisi sistemica e generale dei partiti, dell’economia, della cultura e delle istituzioni italiane. Esso non è mai stato per noi solo uno strumento economico. È stato il modo con cui le élite impostarono la nostra identità strategico-culturale del paese. Ed è per questo che è molto difficile metterlo in discussione. La sua vicenda si è intrecciata con la biografia del paese e di tanti esponenti della classe dirigente italiana. Ma la forza dell’evidenza preme sempre più forte. La realtà ha incominciato a bussare nuovamente alla porta.
Che fare? L’Eurozona è oggi divisa in due: una parte del tutto inglobata nella potenza manifatturiera tedesca (in grave crisi d’identità) e una vasta zona periferica lasciata al proliferare di servizi a basso valore aggiunto, alta disoccupazione e bassi salari. Con il venir meno del gas russo, e con una domanda interna mozzata da dieci anni di austerità, si presenta oggi come una modesta regione a vocazione mercantilista. Senza grandi prospettive di crescita, l’Europa sta continuando a vivere nel suo paradosso esistenziale: essere una delle aree più ricche del mondo e adottare il modello di sviluppo di un paese emergente. L’euro non solo non ha curato i mali tradizionali della nostra economia ma ha anche danneggiato i nostri punti di forza. Dopo venticinque anni, come paese, avremmo il dovere di agire. Dinanzi a noi, si ergono quattro possibilità. Conviene esporle, evidentemente in sintesi, per capire i vantaggi e i rischi di ciascuna. 1) L’Italia potrebbe proporre un’unione fiscale utilizzando il suo peso specifico in sede di contrattazione europea. Questa mossa, caldeggiata da gran parte delle élite italiane, auspica il completamento dell’unione monetaria in una sostanCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ziale unione politica: la centralizzazione di gran parte dei bilanci nazionali 13. I problemi sono almeno due: la Germania sarebbe favorevole? L’unione fiscale ci avvantaggerebbe come Italia? Se alla prima domanda si può rispondere negativamente, anche sulla seconda ci sono diverse perplessità. A oggi, il bilancio Ue ingloba 27 paesi. Elaborando i dati che riporta la stessa Commissione europea 14, dal 1999 al 2022 l’Italia è stata contributrice netta per circa 110 miliardi di euro. Ciò significa che un allargamento della spesa provocherebbe molto probabilmente un maggiore esborso per il nostro paese. A questo si aggiunge la perplessità politica di fondo: ci può essere tassazione e spesa comune senza una reale rappresentanza, e quindi senza un vero Stato, una costituzione? Su questo, sembra che la prudenza tedesca abbia le sue fondate ragioni. Uno Stato non si crea in un ufficio a Francoforte per volere di qualche burocrate ma in processi storici lunghi, profondi e spesso molto dolorosi. 2) La seconda via è quella di farci promotori di una riforma radicale dell’unione monetaria. L’euro si potrebbe trasformare da moneta unica a moneta comune 15. Le valute nazionali verrebbero ripristinate e l’euro diverrebbe una moneta per regolare i pagamenti tra paesi europei. Con un sistema simile al progetto presentato da Key nes e non accolto alla conferenza di Bretton Woods, si introdurrebbero incentivi per ridurre posizioni di surplus/deficit commerciale rendendo simmetrico il peso del riaggiustamento (oggi del tutto sulle spalle dei paesi in deficit). Ogni valuta nazionale sarebbe legata all’euro da un tasso di cambio fisso ma aggiustabile. L’obiettivo, in questo caso, non sarebbe più l’integrazione finanziaria ma il bilanciamento di piena occupazione ed equilibrio dei conti con l’estero. Al contrario della prima, questa seconda opzione non richiederebbe una condivisione degli oneri fiscali. Tuttavia, necessiterebbe che la Germania abbandonasse la sua politica di cannibalizzazione mercantilistica del resto dell’Eurozona. A oggi, non molto facile. 3) La terza via è quella più netta: l’uscita unilaterale dell’Italia 16. Un’operazione del genere, per poter essere anche solo pensata, dovrebbe essere condotta come «un’operazione militare» 17. Inoltre, l’opzione migliore richiederebbe il coordina mento collaborativo tra governo, Quirinale e Bankitalia. Un allineamento istituzio nale tutt’altro che scontato. La mossa dovrebbe essere preparata nella totale riser vatezza e annunciata un venerdì sera a mercati chiusi. Si dovrebbero prevedere nel breve termine controlli al movimento di capitali e una sospensione dell’attività bancaria. Tutti i rapporti creditizi sarebbero ridenominati nella «nuova lira» a un tasso di conversione uno a uno. Il debito pubblico emesso nella giurisdizione na Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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13. Una presentazione critica delle varie opzioni per il completamento fiscale di un’unione monetaria come l’euro è in P. DE GRAUWE, Economia dell’unione monetaria, Bologna 2022, il Mulino, pp. 167-186. 14. «Eu spending and revenue 2021-2027», Commissione europea. 15. Una proposta del genere è stata presentata da M. AMATO, L. FANTACCI, Come salvare il mercato dal capitalismo, Roma 2012, Donzelli editore, pp. 129-156; e poi da M. AMATO, L. FANTACCI, D.B. PAPADIMITRIOU, G. ZEZZA, «Going Forward from B to A? Proposals for the Eurozone Crisis», economies.com, vol. 4, n. 3, 2016. 16. Una presentazione della possibilità di divorzio di un paese dall’euro è presente in J. STIGLITZ, op. cit., pp. 278-301. 17. J. SAPIR, La fin de l’euro-libéralisme, Paris 2010, Seuil.
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zionale sarebbe convertito in nuove lire, mentre quello emesso in giurisdizione straniera sarebbe pagato nelle valute di riferimento. Il governo potrebbe prendere in considerazione un default selettivo verso alcuni paesi o istituzioni. Si dovrebbe poi prevedere la migrazione delle transazioni interbancarie verso una nuova piattaforma di pagamento con la fornitura di liquidità di Bankitalia. Evidentemente, molte altre misure temporanee dovrebbero essere prese per «attutire» il colpo (amministrazione dei prezzi, controllo delle importazioni, gestione del credito, creazione di canali di liquidità con altre Banche centrali). Un colpo, tuttavia, ci sarebbe. La domanda che dovremmo porci è se questo costo sul breve termine sarebbe compensato dai benefici futuri, e quindi dalla riappropriazione di un modello di crescita compatibile con le istituzioni produttive – più o meno virtuose – del nostro paese. Se l’alternativa fosse lo status quo, probabilmente alla lunga i benefici sarebbero superiori. 4) La quarta via è quella che, come paese, stiamo già prendendo. Essa consiste nell’accettare il declino senza fare nulla. L’insostenibilità del debito pubblico, la deindustrializzazione, la stagnazione dei salari: tutto sarebbe sopportato pur di concedersi il privilegio di restare fermi. La probabilità di continuare su questa via, d’altronde, è incrementata dalla pigrizia delle classi politiche, che mal volentieri accetterebbero un’azione con evidenti rischi personali e sistemici. Inoltre, nel dibattito pubblico italiano non c’è ancora una vasta consapevolezza sugli effetti nefasti dell’euro e quindi non c’è alcuna pressione sui nostri politici a fare qualcosa. L’uscita da questa quarta opzione, quindi, ha come precondizione la maturazione di una coscienza radicalmente diversa da quella attuale e l’emersione di una classe politica in grado di guidare, preparare e realizzare un mutamento radicale dello status quo. Queste quattro ipotesi evidentemente non prendono in considerazione che altri paesi possano agire autonomamente. Essendo la Germania il centro del progetto, è lei la candidata più probabile per una modifica o una disgregazione dell’euro. Non dovremmo sorprenderci, inoltre, se alla prossima folata di vento – che sia finanziaria, energetica o geopolitica poco importa – l’Eurozona crollasse sulle sue stesse contraddizioni. Un’ulteriore considerazione va fatta in merito alla possibilità di un completamento fiscale dell’Eurozona (la prima opzione), in quanto essa è la più presente nel dibattito pubblico italiano. Evidentemente, almeno per ora, quest’opzione non è solo ignorata ma radicalmente avversata dai partner europei. Allo stesso tempo, per un paese come l’Italia, la permanenza nell’euro senza strutturali modifiche equivale ad accettare la stagnazione economica. Se uniamo questi due dati, dovremmo concludere che la vera prospettiva che la classe politica sta offrendo implicitamente al popolo italiano è quella della «vigile attesa». Il non detto di chi sostiene l’idea di un salto politico dell’Eurozona, infatti, è quello di aspettare che in Germania o nei Paesi Bassi maturi un’opinione pubblica diametralmente opposta a quella attuale, ossia in linea con la nostra ipotesi di unione fiscale. Ora, al di là della realizzabilità di tale mutamento (alquanto improbabile nei prossimi decenni Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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o in assenza di eventi storici catastrofici), ci si dovrebbe chiedere se l’orizzonte dell’attesa di una svolta da realizzarsi in altri contesti nazionali sia compatibile con una concezione seria della politica e soprattutto con la visione della democrazia che emerge dalla nostra costituzione. Dovremmo concludere con una netta negazione: l’opzione prevalente nella nostra cultura politica è compatibile solo con uno stato di sconfitta esistenziale del nostro paese. L’Eurozona, senza Stato e con una leadership impaurita, si trasforma sempre più in quello che fin dall’inizio doveva essere: un’area mercantile molto ampia, senza unione politica, con l’euro-marco che domina e con gli altri paesi che sopravvivono in base alla prosperità oramai sempre più fluttuante e debole dell’industria tedesca. Il bivio che ha dinanzi l’Italia diviene ancora più radicale. Dovremmo sviluppare urgentemente una consapevolezza maggiore sul problema, un dibattito ampio e plurale e una presa di coscienza e di responsabilità sulle alternative.
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di Giovanni LA
TORRE Improduttività, corruzione, debito e scarsa innovazione soffocano economia e società italiane, ma tasse e costo del lavoro riempiono un dibattito sterile. I numeri del regresso. Il cortocircuito degli anni Settanta. Piccola agenda per non morire.
Q
1. UANDO UN PAESE DECLINA NON SE NE AVVEDE: l’incoscienza avviluppa popolazione e classe dirigente, rendendo il processo sempre più irreversibile. Il declino italiano emerge dai dati, ma per constatarlo basta osservare il livello e gli oggetti del dibattito politico. Le polemiche e le contrapposizioni, anziché riguardare il futuro del paese, concernono di solito argomenti minimalisti e rispondono più a beghe personali, a ripicche futili, a polemiche montate sul nulla per racimolare qualche zero virgola nelle urne o nei sondaggi. I punti più «alti» del dibattito riguardano la riduzione delle tasse e del costo del lavoro: argomenti la cui urgenza, se vera, confermerebbe lo stato declinante della nostra economia 1. Nel mondo in continua evoluzione il nostro paese accusa piuttosto un problema cronico di bassa produttività, di corruzione endemica e di alto debito. L’Italia registra, nel disinteresse generale, un andamento della produttività scadente. Secondo l’Istat 2 nel periodo 1995-2022 la produttività del lavoro (attenzione: non dei lavoratori) in Italia ha avuto un incremento medio annuo dello 0,4%, inferiore a quello medio Ue (1,6%), nonché a quello di Germania (1,3%), Francia (1,0%) e finanche Spagna (0,6%). La produttività del capitale nello stesso periodo ha registrato addirittura un decremento: -0,5%, segno di un impiego in settori inefficienti. Sconfortante è il dato relativo alla produttività totale dei fattori (ptf) 3 che registra, nel periodo, un variazione media annua dello 0,1%. Cioè: in 27 anni, nelCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Altro segnale di assuefazione al declino è l’accoglienza quasi entusiastica da parte del governo del rating del nostro debito pubblico, a un passo dai «titoli spazzatura». 2. «Misure di produttività», Istat, dicembre 2023. 3. La ptf è un dato residuale e rappresenta il contributo del progresso scientifico, del management, della ricerca alla produzione.
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la media dell’economia italiana, il progresso scientifico e tecnologico è come non ci fosse stato 4. Nel giugno 2023 la Commissione europea ha pubblicato l’ultimo «European Innovation Scoreboard», da cui si ricavano altri dati interessanti. I 27 paesi Ue vengono classificati in quattro gruppi: innovation leaders, strong innovators, moderate innovators e modest innovators. Nel primo gruppo figurano, in ordine, Danimarca, Svezia, Finlandia, Olanda e Belgio. Il secondo comprende sei paesi, tra cui Germania e Francia. L’Italia è quarta su dieci nel terzo gruppo, dietro Estonia, Slovenia e Repubblica Ceca ed è sotto la media Ue, mentre Germania e Francia sono sopra. Complessivamente siamo al 15° posto su 27 (la Germania è al 7°, la Francia all’11°). Agli ultimi posti ci sono Bulgaria e Romania. Allargando l’analisi a tutta l’Europa, il paese più innovatore risulta la Svizzera mentre il Regno Unito si colloca sopra la Francia e sotto la Germania. Al primo posto tra i paesi extraeuropei c’è invece la Corea del Sud, seguita da Canada, Stati Uniti e Australia; l’Ue nel complesso viene dopo questi paesi e prima del Giappone. Se invece consideriamo i singoli Stati, la Svizzera è il paese più innovativo anche a livello mondiale seguita da Danimarca, Svezia, Finlandia e Olanda, mentre la Corea del Sud è sesta. Nell’elaborare la graduatoria vengono considerati 32 parametri, 20 dei quali ci trovano sotto la media Ue. Quelli che ci vedono meglio piazzati e ci evitano di scivolare ancora più giù sono il numero di «pubblicazioni scientifiche collocate nel 10% delle più citate al mondo» (4° posto), il numero di «design presentati all’ufficio competente dell’Ue» (3° posto), l’«efficienza nell’utilizzo fisico delle materie prime» (3° posto). I primi due testimoniano che il nostro fattore umano è valido e costituisce un patrimonio enorme, se solo lo utilizzassimo. Per contro ci posizioniamo al 26° posto per numero di laureati tra i 25 e i 34 anni (peggio di noi fa solo la Romania) e poco meglio (22° posto) per numero di «specialisti nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione». 2. Dai dati è evidente come bassa produttività e scarsa innovazione siano tra le cause principali del nostro declino, ma nel dibattito politico si preferisce additare la pressione fiscale e il costo del lavoro. Eurostat 5 certifica che nel 2022 la pressione fiscale in Italia è stata del 42,9%, la settima più alta nell’Ue dopo quelle in Francia (48%), Belgio (45,6%), Austria (43,6%), Norvegia (43,6%), Finlandia (43,1%), Grecia (43,1%). Tutti paesi, tranne la Grecia, ai quali il peso fiscale non impedisce di essere più innovativi di noi. In Germania la pressione fiscale è stata del 42,1%: una differenza trascurabile rispetto all’Italia. Ancora più espliciti i dati sul lavoro. Secondo l’Ocse, nel 2022 il cuneo fiscale – sul quale tanto ci accaniamo – è stato del 53% in Belgio, del 47,8% in Germania, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. L’Istat precisa, per tutti i dati esposti, che «le attività di locazione dei beni immobili, famiglie e convivenze, organismi internazionali e amministrazioni pubbliche sono escluse dal campo di osservazione». Il comparto con più gravi problemi di produttività è il terziario. 5. «Main national accounts tax aggregates», Eurostat, 26/1/2024.
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del 47% in Francia, del 46,8% in Austria e del 45,9% in Italia 6. Quanto al costo orario del lavoro, secondo Eurostat nel 2022 7 è stato di 50,7 euro in Lussemburgo, di 46,8 euro in Danimarca, di 43,5 euro in Belgio, di 40,8 euro in Francia, di 40,3 in Olanda, di 40,1 in Svezia, di 39,5 euro in Germania, di 39,0 in Austria, di 37,9 in Irlanda, di 35,9 in Finlandia e di 29,4 euro in Italia. Il cuneo fiscale non solo è più basso in percentuale rispetto ai nostri concorrenti europei, ma si applica anche a un valore inferiore. Ciò nonostante, si chiede di ridurlo. Un ultimo dato: in Italia ogni anno un lavoratore lavora mediamente 1.694 ore, contro le 1.511 della Francia, le 1.341 della Germania e le 1.560 medie dell’Ue 8. Anche questo è segno di scarsa produttività. Questi dati dimostrano che concentrare tutta l’attenzione sulla pressione fiscale e sul costo del lavoro è sbagliato e ci fa perdere tempo prezioso. Accanirsi sul mercato del lavoro rendendolo sempre più precario fino a svilirlo, com’è accaduto e accade ancora in Italia (si veda per tutti il jobs act renziano) ha l’effetto opposto a quello asseritamente perseguito. In un paese avanzato la riduzione del costo del lavoro oltre una certa soglia diventa fattore regressivo e l’Italia questa soglia l’ha superata da tempo, a meno di voler ammettere che i nostri concorrenti siano i paesi emergenti. L’andazzo è economicamente negativo per il calo di domanda che determina, in quanto i percettori di reddito da lavoro hanno una propensione marginale al consumo maggiore dei percettori di profitti e rendite. Ma soprattutto, disincentiva gli investimenti in tecnologia e ricerca, determinando una diminuzione della produttività. Il precariato, tipico di un paese in declino, rende infatti più conveniente il lavoro rispetto all’investimento in ricerca e sviluppo, in quanto trattasi di fattore flessibile e a basso costo mentre l’investimento, una volta effettuato, diventa un costo fisso (ammortamento) da cui non si può prescindere. Un lavoro troppo flessibile ed economico disincentiva pertanto il rischio e consente la crescita di imprese inefficienti, che possono conseguire egualmente adeguati tassi di profitto. Aumentare la flessibilità del fattore lavoro può essere utile in alcuni momenti per ristrutturare e riconvertire l’apparato produttivo, ma dev’essere una politica temporanea e monitorata, per evitare che si risolva solo in un aumento dei profitti. 3. Al 31 dicembre 2020, secondo Eurostat, in Italia le imprese business non finanziarie erano 3.640.489, contro le 3.084.048 della Francia e le 2.485.804 della Germania. L’ente europeo fornisce i dati per differenti categorie dimensionali, qui prendiamo in considerazione le due estreme: più di 249 dipendenti e fino a 9 dipendenti. Le imprese fino a 9 dipendenti sono 3.449.178 in Italia, 2.923.454 in Francia, 2.097.898 in Germania. Quelle con oltre 249 dipendenti sono 3.647 in Italia, 4.897 in Francia, 10.870 in Germania. Se si considera il valore aggiunto proCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
6. A volte si paragonano i valori europei a quelli di Usa e Regno Unito, ma si tratta di un confronto incongruo in quanto in quei paesi sanità e previdenza sono per lo più private. «Tax Wedge», Oecd Data. 7. «Hourly labour costs», Eurostat. 8. «Hours worked», Oecd Data.
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dotto, in Italia le grandi imprese producono il 36,5% e le più piccole il 25,2%. Per la Francia, rispettivamente, 55,8% e 17,8%; per la Germania, 53,1% e 13,6%. Se si considerano i dipendenti, in Italia il 24,2% è occupato in imprese con oltre 249 dipendenti e il 42,5% in quelle fino a 9 dipendenti. Per la Francia i valori sono, ri spettivamente, 48,3% e 23,1%; per la Germania, 43,0% e 18,9%. Da qualunque lato si guardi, emerge il cronico nanismo del sistema imprendi toriale italiano. Con questa struttura diventa difficile competere se non chiedendo in continuazione, oltre alla licenza di evadere, riduzioni del costo del lavoro. Il nostro paese, che è parte del G7, necessita di un numero maggiore di grandi im prese perché i settori che danno sviluppo consolidato e duraturo hanno bisogno di capitali e investimenti ingenti. Gli investimenti significativi in ricerca e innova zione, tecnologica e di processo, richiedono imprese grandi anche per conseguire adeguate economie di scala, che consentano il recupero dei costi sostenuti. Noi invece ci siamo baloccati per anni con lo slogan «piccolo è bello», ed eccoci accon tentati. Ci sono forze di governo che hanno assunto la difesa delle partite Iva, ov vero delle microimprese, a loro missione. Giorgia Meloni ha definito «pizzo» la tassazione di tali imprese. In occasione della diffusione dei dati Istat sull’occupazione, capita di sentire giudizi rassicuranti; si è parlato di record occupazionale addirittura dal 1977. Si tratta di dati formalmente veri, ma fuorvianti. L’Istat considera infatti «occupata» una persona che abbia lavorato almeno un’ora in una settimana. Un disoccupato che il sabato sera consegna pizze a domicilio per l’Istat è un occupato che alza il livello dell’occupazione e riduce quello della disoccupazione. C’è un altro dato che elabora il nostro istituto di statistica e che non viene di vulgato con la stessa facondia, anzi bisogna andarselo a cercare: riguarda le «unità di lavoro», cioè il numero di occupati che avremmo se ogni lavoratore lavorasse il numero medio di ore del suo settore, lavorate dagli occupati a tempo pieno. Se prendiamo in considerazione questo dato, risulta che nel 2022 non abbiamo nean che recuperato le perdite della grande recessione, mancando ancora circa 800 mila posti rispetto al 2007. Alla stessa conclusione si giunge se prendiamo in con siderazione le ore lavorate: ne mancano 1,8 miliardi rispetto al 2007 9. I dati per l’intero 2023 non sono ancora disponibili, ma da quelli parziali (fino al 30 settembre) si può già desumere che siamo sempre molto al di sotto sia dell’occupazione «reale» che delle ore lavorate del 2007 10. D’altro canto anche se consideriamo il pil e facciamo 100 il valore del 2007, notiamo che a fine 2023 siamo ancora a 95,6, quando già a fine 2022 la Germania era a 116,6, la Francia a 117,7 e la Spagna a 107,4 11. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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9. Anche un «tecnico» come Mario Draghi si è abbandonato a dichiarazioni trionfalistiche nel commentare i dati occupazionali durante il suo governo. 10. Fa specie constatare che anche Banca d’Italia, di solito così attenta, alimenta l’equivoco. 11. Questo fa capire come siano patetiche le affermazioni «cresciamo più di…», perché ogni volta si tratta di rimbalzi che gli altri hanno fatto prima.
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4. L’Italia è ritenuta un paese corrotto. L’ultimo rapporto di Transparency International relativo al 2023 ci vede al 43° posto nel mondo con un voto di 56/100, comunque un miglioramento rispetto al tempo dei governi Berlusconi. Nell’Unione Europea siamo al 17° posto, ultimi tra i paesi del G7, che hanno tutti (tranne gli Usa) un voto superiore a 70: la Germania è al 9° posto (punteggio: 78), il Canada al 12° (76), il Giappone al 17° (73), la Francia al 21° (71), il Regno Unito al 23° (71), gli Stati Uniti al 25° (69). La corruzione danneggia il sistema economico perché seleziona una classe imprenditoriale inefficiente dedita alle tangenti e mortifica le imprese che puntano sulle capacità imprenditoriali. Inoltre è un cancro per il sistema democratico in quanto seleziona una classe politica scadente. Purtroppo non pare che il fenomeno venga avvertito nel nostro paese in tutta la sua gravità, come attesta il fatto che spesso si critica il «termometro» e non la «malattia». La critica più frequente è che tali graduatorie riguardano la percezione della corruzione: l’indice di Transparency (relativo al settore pubblico) si chiama infatti Corruption Perception Index e ciò induce molti a ritenerlo inadeguato, se non falso, anche perché si tende a far credere che la percezione sia quella dei cittadini. Invece la percezione è quella di tredici organismi internazionali, i quali a loro volta interpellano imprenditori e operatori. I critici preferiscono citare ricerche in cui si chiede agli intervistati se siano stati vittima di atti corruttivi e qui la situazione migliora tantissimo, fino a risultare che il nostro paese è tra i meno corrotti al mondo. Sono queste ricerche a essere insignificanti: perché gli intervistati non sempre si fidano della promessa di anonimato, ma soprattutto perché i cittadini non sono testimoni della grande corruzione, la più cospicua in termini finanziari. Quale cittadino potrebbe mai rispondere di aver subìto un atto corruttivo a proposito degli scandali Mose o Expo? Alla percezione dei cittadini fa comunque riferimento Eurobarometro: nel 2023, alla domanda «Quanto pensi sia diffuso il problema della corruzione nel tuo paese?», l’85% degli italiani risponde «molto» o «abbastanza». Questo ci colloca al 20° posto (su 27), contro il 69% della Francia (12° posto), il 57% della Germania (7° posto) e il 70% medio dell’Ue. Per i più esigenti ci sono altri rapporti sulla corruzione, in particolare un documento importante per autorevolezza e contenuti perentori. Può apparire datato, ma ai nostri fini non lo è affatto. È la Relazione sulla lotta alla corruzione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo del 2014, il cui allegato 12 è dedicato all’Italia. Il nostro paese ne esce malconcio: non solo per il posto in classifica (ultimo con Romania, Bulgaria e Grecia), ma per le umilianti considerazioni che avrebbero dovuto provocare le dimissioni di figure pubbliche per la vergogna, ovvero vibrate proteste qualora ritenute inaccurate. L’immagine che emerge è quella di un paese governato da una classe politica corrotta e collusa con l’illegalità, dove le grandi opere costano spesso un multiplo rispetto ad altri paesi e dove nessuno spiega il perché. «In Italia i legami tra politici, criminalità organizzata e imprese e lo scarso livello d’integrità dei titolari di cariche elettive e di governo sono oggi tra gli aspetti più preoccupanti. (…) Uno studio del Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2010 a cura del Center for the Study of Democracy considera il caso italiano esemplare per capire quanto stretti siano i legami tra criminalità organizzata e corruzione. Secondo lo studio è la corruzione diffusa nella sfera sociale, economica e politica ad attrarre i gruppi criminali organizzati, non la criminalità organizzata a causare la corruzione» (p. 5). «Degno di nota il caso di un parlamentare indagato per collusione con il clan camorristico dei Casalesi (…) per il riciclaggio di rifiuti tossi ci. Il Parlamento ha rifiutato ben due volte l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, impedendone la carcerazione preventiva. (…) I tentativi di definire un quadro giuridico in grado di garantire l’efficacia dei processi e la loro conclusione nei casi complessi sono stati più volte ostacolati» (p. 6). Ancora: «Non esistono codici di comportamento per le cariche elettive a livel lo centrale o regionale. Quanto al conflitto di interessi, non sono in essere specifici dispositivi di verifica» (p. 7). «I termini di prescrizione previsti dalla disciplina italiana, sommati alla lunghezza dei processi, (…) determinano l’estinzione di un gran numero di procedimenti. La revisione della normativa che regola la prescri zione rientra tra le raccomandazioni specifiche per paese che il Consiglio [d’Euro pa] ha rivolto all’Italia a luglio 2013» (p. 8). «Nel solo caso delle grandi opere pub bliche la corruzione (comprese le perdite indirette) è stimata nel 40% del valore totale dell’appalto. Grandi opere come la ricostruzione dell’Aquila dopo il terre moto del 2009, l’Expo Milano 2015 o l’alta velocità ferroviaria TorinoLione sono viste, nella sfera pubblica, come particolarmente esposte al rischio di distrazione di fondi pubblici e infiltrazioni criminali» (p. 13). «L’alta velocità in Italia è costata 47,3 milioni di euro al chilometro nel tratto RomaNapoli, 74 milioni tra Torino e Novara, 79,5 milioni tra Novara e Milano e 96,4 milioni tra Bologna e Firenze, contro gli appena 10,2 milioni di euro al km della ParigiLione, i 9,8 milioni della MadridSiviglia e i 9,3 milioni di euro della T§ky§†saka» (p. 13). Per quanto ri guarda la cosiddetta legge Severino (sulla corruzione), il rapporto la indica come un’occasione persa (pp. 23). Queste affermazioni umilianti sono passate nell’indifferenza generale, salvo qualche reazione sdegnata per il posto in classifica. Più grave, se possibile, è che il 3 febbraio 2014, data di pubblicazione del rapporto, precedeva di un giorno la visita del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Parlamento europeo. Si è trattato quindi di un esplicito affronto istituzionale al nostro paese. In quel periodo era molto forte in Italia la polemica contro le istituzioni europee e contro la Germania, quindi quel documento sapeva di monito all’Italia affinché guardasse i propri problemi prima di attaccare l’Ue. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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5. L’Italia ha il quarto debito pubblico del mondo in valore assoluto (dopo Sta ti Uniti, Giappone e Francia) e il terzo in rapporto al pil (dopo Giappone e Grecia). Oggi ammonta a circa 2.900 miliardi di euro. Potrebbe non essere un dato preoccu pante, ma lo diventa se sommato alle due precedenti emergenze. Alcuni economisti di sinistra non la pensano così. Per loro il problema è solo la «sostenibilità» del de bito, cioè la capacità dello Stato di far fronte sempre al pagamento degli interessi
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onde evitare il default. A tal fine sono state predisposte delle formule, che però servono solo a evidenziare la capacità di corrispondere gli interessi e trascurano le questioni più importanti connesse a un debito rilevante. Queste sono emerse in occasione del Covid-19, dove il nostro paese ha avuto minori possibilità di manovra rispetto a chi aveva un debito più basso. In particolare, un debito alto comporta lo spreco di grandi somme per il pagamento degli interessi (circa 100 miliardi di euro nel 2024) e il rischio di insolvenza in caso di forte crisi economica che riduca le entrate tributarie. In una situazione del genere il mercato può valutare un rischio d’insolvenza anche quando la stessa non si è ancora prodotta, ingenerandola con comportamenti speculativi o con la condotta dei normali investitori che tendono a liberarsi dei titoli ritenuti rischiosi. È quanto si stava verificando in Italia nel 2011. Comunemente si ritiene che a far deflagrare il nostro debito siano stati i governi degli anni Ottanta, specie la particolare stagione politica indicata con l’acronimo Caf: Craxi, Andreotti, Forlani. In effetti nel periodo 1980-89 il debito pubblico italiano in rapporto al pil è passato dal 56 al 92%. Detto doverosamente questo, la degenerazione della nostra finanza pubblica affonda nel decennio precedente. Il 1969 fu l’anno dell’autunno caldo, quando il risveglio del mondo del lavoro – la cui bonaccia negli anni precedenti aveva costituito un ingrediente chiave del «miracolo» italiano – rendeva necessario un ricambio di classe dirigente, ostacolato dal nostro «bipartitismo imperfetto». Gli equilibri internazionali imponevano il mantenimento di maggioranze che non rispondevano più alle esigenze del paese. Tali maggioranze non potevano tuttavia ignorare le istanze emerse, donde lo strabismo della politica, che da un lato rispondeva alle proteste per evitare che degenerassero in rivolta e dall’altro badava a non scontentare le categorie il cui voto assicurava la maggioranza ai governi. Venne così aumentata la spesa sociale senza però incrementare le entrate, dunque senza ritoccare le aliquote e tollerando l’evasione o prevedendo regimi fiscali particolari per quei ceti medi (commercianti, professionisti, artigiani, coltivatori diretti) che costituivano lo zoccolo duro dei partiti di governo. La spesa pubblica passò dal 34,2% del pil nel 1970 al 41,7% nel 1980, avvicinandosi a quella delle altre democrazie europee, a vantaggio soprattutto di pensioni e sanità. Nello stesso periodo le entrate passarono dal 30,4% del pil al 33%, quando nei paesi Cee erano mediamente del 41,6%. Quindi mentre le uscite, in rapporto al pil, aumentarono nel decennio del 21,9%, le entrate lo fecero appena dell’8,6%. La conseguenza è stata una dilatazione del deficit rispetto agli altri paesi europei. Il deficit medio italiano tra il 1972 e il 1980 si è attestato al 9,4% del pil, contro il 3,5% del Regno Unito, il 2,2% della Germania e lo 0,5% della Francia. I continui saldi negativi dovevano essere finanziati a debito 12, cresciuto dal 36% del pil nel 1969 al 58% nel 1979, mentre nel decennio 1960-69 era passato dal 33% al 36% del pil. L’innesco della successiva esplosione debitoria si colloca dunque negli anni Settanta e si deve alle entrate, non alla spesa. Gli aumenti salariali e la crisi Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
12. C. TRIGILIA, «Dinamismo privato e disordine pubblico. Politica, economia e società locali», in Storia dell’Italia repubblicana, Torino 1995, Einaudi, vol. 2, tomo I.
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petrolifera del 1973 aggiungono una forte spinta inflazionistica che avvia un circolo vizioso prezzi-salari-tassi d’interesse-debito. Il tasso d’inflazione medio annuo è del 13,3% nel periodo 1970-79 e dell’11,6% nel periodo 1980-88. 6. Oggi il problema più serio e preoccupante resta la produttività. La nostra classe dirigente è chiamata a fare qualcosa di decisivo su questo fronte. Bisogna smetterla di umiliare scuola e università 13, indirizzandovi gran parte delle risorse disponibili e quelle europee. Occorre poi riunire intorno a un tavolo datori di lavoro e sindacati e far loro questo semplice discorso: «Signori, i dati sono questi. Cosa volete per invertire la tendenza?». Ma attenzione! Il tavolo dev’essere piccolo, non comprendere dieci rappresentanti per ogni organizzazione, che è il modo più sicuro per renderlo inutile. Poi va concesso quanto concordato, previa attenta verifica e monitorando attentamente l’evoluzione, pronti a bloccare tutto se non dovesse funzionare. Bisogna anche smettere di incentivare direttamente le assunzioni e di svilire il lavoro senza un piano preciso di recupero della produttività, perché simili scorciatoie aprono un’autostrada al declino. L’esperienza ci dice che dare contributi per ogni assunto non aumenta di un’unità l’occupazione, perché spinge solo a concentrare nel periodo di validità dell’incentivo un’occupazione che comunque ci sarebbe stata. L’occupazione deve aumentare come conseguenza di una crescita sana. Per la corruzione serve certezza della pena e rafforzamento dell’organizzazione della giustizia. Per i reati dei colletti bianchi (corruzione, peculato, evasione fiscale, bancarotta fraudolenta) i detenuti in Germania sono oggi il decuplo di quelli presenti nelle carceri italiane, sebbene la Germania sia meno corrotta. Serve ferma volontà di perseguire il reato, anche attraverso regole da inserire negli statuti dei partiti e poi fatte rispettare. Volontà che al momento non pare esserci. La riduzione del debito pubblico per essere seria e permanente deve derivare dalla risoluzione delle altre due emergenze, altrimenti sarà sempre precaria. All’inizio di un percorso programmato può essere anche opportuna una tassa patrimoniale una tantum da destinare esclusivamente alla riduzione del debito. Ma il problema dei problemi è la qualità della nostra classe politica. Abbiamo selezionato politici non all’altezza di un paese del G7, privi di un disegno di sviluppo, come testimonia il livello del dibattito pubblico. Margareth Thatcher, nelle sue memorie, a proposito dei politici italiani annota: «Il sistema politico italiano richiedeva un talento per i gesti politici appariscenti, piuttosto che una convinta consapevolezza delle realtà politiche; il che era certamente considerato de rigueur nella Comunità. Ma io non potevo fare a meno di sentire un certo disgusto per quelli che lo praticavano». In Italia abbiamo avuto due filoni di governanti. Il primo comincia con Cavour, prosegue con Giolitti e De Gasperi e giunge fino a Ciampi e Prodi: è quello della «consapevolezza delle realtà politiche». Il secondo comincia con Crispi, prosegue Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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13. Emblematica l’affermazione di Giulio Tremonti secondo cui «con la cultura non si mangia».
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con Mussolini e arriva a Berlusconi, che sono per «i gesti politici appariscenti». I politici da trent’anni a questa parte appartengono, salvo eccezioni, più di frequente alla seconda categoria. Nell’autunno della Prima Repubblica era nato anche un terzo filone, quello del politico senza idee proprie e votato solo alla mediazione fine a se stessa, il cui prototipo è stato Forlani. Ma è potuto esistere solo allora perché non c’erano limiti alla spesa pubblica, lubrificante delle mediazioni politiche. L’esito odierno di questa particolare selezione è un sistema politico bloccato, dove l’unico potere che una forza politica riesce a esercitare è quello d’interdizione, di blocco dell’attività altrui. Ciò genera un circolo vizioso: l’impossibilità di portare avanti scelte di lungo periodo determina l’allontanamento dalla politica dei soggetti capaci, da cui il permanere di una casta generalmente inadeguata, se non peggio. Il periodico ricorso a governi tecnici per sbrogliare matasse complicate testimonia questa inadeguatezza.
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AUTONOMIA DIFFERENZIATA O DELLA FINE DELLO STATO Il ddl Calderoli devolve alle Regioni cruciali funzioni strategiche come istruzione, porti, energia e politica estera. Il mito della sussidiarietà e l’irrilevanza del parlamento. I dubbi sulla costituzionalità della riforma. Il premierato non ci salva da Caoslandia. di Giuseppe
DE RUVO, Alessandro FRANCESCANGELI e Jacopo RICCI
I
1. L GOVERNO PRESIEDUTO DA GIORGIA MELONI, contrariamente alla posizione storicamente assunta dalla sua area politica 1, attraverso la proposizione alle Camere del disegno di legge 615/2023 presentato dal ministro Calderoli e a oggi approvato dal Senato, ha compiuto il più concreto passo verso l’approvazione della cosiddetta autonomia differenziata. La costituzione italiana, all’articolo 116 comma 3 – nel testo vigente dopo la revisione costituzionale del 2001, che ha innovato profondamente le competenze tra Stato e Regioni a favore di queste ultime – prevede che possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario «forme e condizioni particolari di autonomia» relativamente a ventitré materie elencate nell’articolo 117, tra cui tre di competenza esclusiva statale oltre alle venti già di competenza concorrente (per cui lo Stato detta la normativa di principio valida per tutti e le Regioni possono intervenire in quella di dettaglio). Chi identifica nell’autonomia differenziata uno stravolgimento dell’attuale assetto costituzionale fondato sul principio di eguaglianza trascura pertanto una spiacevole, ma rilevante circostanza: la riforma Calderoli attua la costituzione vigente, o almeno una sua specifica disposizione. Più esattamente, costituisce attuazione legislativa dell’articolo 116 comma 3 come sostituito dalla revisione costituzionale del Titolo V del 2001, la quale ha ridisegnato i rapporti verticali inerenti al riparto di poteri tra Stato e Regioni. La legge in questione, dunque, è tutt’altro che orfana: può vantare magnifiche ascendenze nel revisionismo costituzionale d’inizio millennio, abbacinato dalla luCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. È nota la storica posizione contraria al regionalismo del Movimento sociale italiano, di cui è rimasto famoso il discorso fiume di Giorgio Almirante in occasione della discussione della legge di attuazione delle Regioni a statuto ordinario (26 gennaio 1970). Giorgia Meloni ha presentato nel 2014 una proposta di legge costituzionale per abolire le Regioni.
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minosa utopia della sussidiarietà. Il 116 comma 3 fu entusiasticamente approvato dalle forze politiche che attualmente osteggiano, almeno a parole, l’autonomia differenziata, con la sprezzante contrarietà delle destre che vent’anni dopo ripongono in tale norma fervide aspettative di modernizzazione. Da ambo le parti, come avviene nei disturbi psicotici, le amnesie sono strettamente correlate alle false percezioni. È necessario accennare quali siano le materie oggetto di potenziale devoluzione, per comprendere al meglio la portata della riforma. Le prime tre — oggi competenza esclusiva dello Stato – concernono la giurisdizione, seppur limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace; le norme generali sull’istruzione; la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali. Le materie di competenza concorrente, per le quali può essere attribuita l’autonomia differenziata, sono elencate nell’articolo 117 comma 3. Vi figurano, tra le altre: rapporti internazionali e con l’Unione Europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; altre norme su istruzione, professioni, ricerca scientificotecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute, protezione civile e governo del territorio; gestione di porti e aeroporti civili e delle grandi reti di trasporto e navigazione; ordinamento della comunicazio ne, della produzione, del trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; coordi namento della finanza pubblica e del sistema tributario. Tale elenco non basta però a definire le effettive competenze e i reali poteri richiesti dalle Regioni. Infatti, oggetto dell’attribuzione a queste ultime non sono le materie in sé, bensì «forme e condizioni di autonomia concernenti le materie» 2, la cui definizione è demandata a una «intesa» tra lo Stato e la Regione interessata, sulla base della quale il parlamento approva a maggioranza assoluta la legge di attribuzione. A definire nel dettaglio l’iter di approvazione è il disegno di legge Calderoli che, come ha notato Gianfranco Viesti, è concepito «nelle modalità più favorevoli alle Regioni richiedenti e tali da tenere l’opinione pubblica il più possibile all’oscuro di quanto sta avvenendo e di marginalizzare il ruolo del parlamento» 3. In sintesi, la procedura disciplinata dall’articolo 2 del disegno di legge Calderoli attua l’articolo 116 della costituzione riducendo le prerogative parlamentari e rafforzando quelle regionali 4. L’autonomia viene intesa come un atto di natura pattizia tra governo e Regione, in un’interpretazione ironicamente analoga a quella dell’articolo 8 concernente le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica. In tal modo, le Camere non hanno alcun potere di intervenire sul contenuto dell’intesa tra Stato e Regione. Il parlamento può solo ratificare o respingere il testo finale in un voto di fatto gravato, per la sua importanza, da una sostanziale questione di fiducia. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. «L’autonomia regionale “differenziata” e la sua attuazione: questioni di procedura e di metodo», Astrid Paper, n. 93, aprile 2023, p. 14. 3. G. VIESTI, Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Roma-Bari 2023, Laterza, p. 150. 4. «L’autonomia regionale “differenziata” e la sua attuazione: questioni di procedura e di metodo», cit., pp. 17 ss..
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Chi sostiene la riforma ritiene che il parlamento non agirebbe da mero ratificatore, perché chiamato in una prima fase del procedimento a contribuire alla definizione delle intese. Tale contributo, tuttavia, si esaurisce in una mera funzione consultiva, attraverso atti d’indirizzo giuridicamente non vincolanti per il governo e pacificamente disattendibili 5. Si determina così una partecipazione del parlamento non compatibile «con il principio costituzionale che richiede un pieno coinvolgimento parlamentare nei processi che possano aver riflesso sull’attribuzione di competenze legislative» 6. Alla fine del percorso sono direttamente operative le attribuzioni per le quali non sono necessari o sono stati definiti i Lep (art. 4 d.d.l. Calderoli), i Livelli essenziali delle prestazioni che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale ai sensi dell’articolo 117 comma 2 della costituzione. La questione dei Lep – affrontata dal governo Meloni nella legge di bilancio attraverso un percorso che, di nuovo, esclude il parlamento – non appare dal punto di vista logico e giuridico direttamente collegata all’autonomia differenziata. La definizione dei Lep, primo passo per la garanzia degli stessi, prescinde infatti dall’attribuzione dell’autonomia differenziata e rischia così di essere un mero strumento di distrazione dell’opinione pubblica. Inoltre, la garanzia dei diritti richiesta dai fondamentali articoli 2 e 3 della costituzione non può limitarsi al minimo, ma richiede l’impegno della Repubblica a garanzia di tutti i diritti, di tutti i cittadini, su tutto il territorio nazionale. 2. Che cosa viene effettivamente attribuito alle regioni? Non è dato saperlo, almeno ufficialmente. Le posizioni di governo e Regioni sono segrete e tali restano almeno fino alla presentazione dello schema d’intesa definitivo. Il decreto Calderoli, tuttavia, si pone in esplicita linea di continuità con gli atti d’iniziativa delle Regioni le cui bozze d’intesa sono circolate in via informale nel 2019. Tali documenti non solo costituiscono la base dei negoziati attuali, ma esplicitano postura e finalità delle Regioni interessate all’autonomia differenziata – oggi Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna 7. Il loro obiettivo non è rendere più efficiente l’amministrazione o migliorare le politiche pubbliche sul proprio territorio, bensì accaparrarsi quanto più potere e risorse a danno degli altri territori: quella che è stata efficacemente definita la «secessione dei ricchi» 8. Gli effetti non concer5. Ivi, p. 22. 6. La procedura descritta dal disegno di legge Calderoli prevede una prima fase, volta a disegnare uno «schema di intesa preliminare» negoziato tra il governo e la singola Regione a partire da una specifica iniziativa regionale e dai pareri espressi dai ministeri competenti e da quello dell’Economia. Al termine di tale fase, lo schema di intesa è approvato dal Consiglio dei ministri e inviato alla Conferenza unificata (Stato-Regioni-autonomie locali) e al parlamento. La prima potrà esprimersi con un parere, le Camere con meri «atti di indirizzo secondo le norme dei rispettivi regolamenti». Questa fase si conclude, previa eventuale negoziazione ulteriore governo-Regione, con l’approvazione, da parte del Consiglio dei ministri, dello schema di intesa definitivo (articolo 2 commi 1-5). La seconda fase vede l’approvazione dell’intesa da parte della Regione «secondo le modalità e le forme stabilite nell’ambito della propria autonomia statutaria» e poi da parte del Consiglio dei ministri. Il testo definitivo viene quindi trasmesso alle Camere allegato a un disegno di legge di approvazione (articolo 2 commi 6-8). 7. Quasi tutte le altre regioni hanno compiuto atti interni propedeutici alle intese con lo Stato. 8. G. VIESTI, op. cit. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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nono solo i diritti sociali e l’eguaglianza, ma pure la capacità dello Stato di operare come ente unitario e di adottare decisioni nelle materie strategiche, anche dal punto di vista dei rapporti internazionali. Volendo sistematizzare le materie oggetto di intese – con l’avvertenza che non è noto lo stato di aggiornamento dei documenti in esame e che sussistono alcune differenze tra Regioni – è possibile riassumere le attribuzioni più rilevanti 9. Una prima categoria riguarda i diritti costituzionali: salute, istruzione, ricerca e lavoro. Alcune Regioni avocano a sé la gestione della previdenza sociale complementare e integrativa, nonché la giustizia di pace. Il Veneto ha chiesto addirittura competenze in materia di flussi migratori, in evidente contrasto con la competenza esclusiva statale in materia, non derogabile attraverso l’articolo 116 comma 3. La competenza in cui si assisterebbe al cambio più radicale per quanto concerne i diritti fondamentali, è sicuramente l’istruzione scolastica e universitaria. Sul tema le Regioni hanno presentato un novero di richieste che spaziano dalla devoluzione alla competenza legislativa concorrente sulle norme generali che la disciplinano. Sicché le Regioni potrebbero assumere la capacità di indirizzare finalità, funzioni e organizzazione del sistema scolastico. La conseguenza sarebbe una vera «regionalizzazione della scuola» 10, raggiunta differenziando programmi e finanziamenti, ma anche le norme sulle assunzioni dei docenti e il loro stipendio. Nel caso delle università, invece, verrebbero devolute alle Regioni competenze relative al coordinamento universitario, alle retribuzioni del personale, alla mobilità dei docenti, alle tasse universitarie, alle doppie lauree, alla programmazione delle lauree professionalizzanti e, più in generale, all’offerta formativa, al diritto allo studio e all’edilizia universitaria. Importanti funzioni relative alla ricerca scientifica risultano poi oggetto delle intese. Anche per quanto riguarda la sanità, materia già oggetto di legislazione concorrente e di una competenza regionale disequilibrata, si prevede di affidare alle Regioni ulteriori e fondamentali funzioni, tali da diversificare ancor più i diversi sistemi sanitari regionali. Aumentando così la già insostenibile frammentazione. Una seconda categoria di competenze e funzioni attribuibili riguarda l’assetto del territorio: governo dello stesso, difesa del suolo, edilizia sportiva, rischio sismico, protezione civile e soprattutto infrastrutture. Queste ultime sono oggetto di alcune delle più rilevanti richieste autonomistiche: le Regioni vorrebbero acquisire al proprio demanio le reti ferroviarie, autostradali e stradali che insistono sul territorio regionale, assumendo tutti i poteri inerenti alla loro gestione e concessione, nonché il potere di approvare la realizzazione di infrastrutture strategiche 11. Anche con riferimento a porti e aeroporti le richieste regionali sono di particolare rilevanza. Per quanto riguarda i secondi, gli enti regionali hanno chiesto di subentrare come concedenti nelle gestioni aeroportuali o come proprietari degli aeroporti. Hanno Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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9. F. PALLANTE, «Ancora nel merito del regionalismo differenziato: le nuove bozze di intesa tra Stato e Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna», federalismi.it, n. 20/2019. 10. G. VIESTI, op. cit., p. 107. 11. F. PALLANTE, op. cit., 13.
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5 - LE 36 ’REGIONI’ ITALIANE
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
12
4
13
9
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6
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5 8
1
10 15
7
16
17 18
DEL TANARO LA GRANDE TORINO VALLE D’AOSTA VALSESIA / PIEMONTE SETTENTRIONALE LA GRANDE MILANO INSUBRIA LIGURIA PADANIA OCCIDENTALE / LE CITTÀ DEL PO DEL GARDA PADANIA ORIENTALE / DEL DELTA TRENTINO / DOLOMITIA ALTO ADIGE VENETO FRIULI / IULIA EMILIA / LA GRANDE BOLOGNA ROMAGNA TIRRENIA LA GRANDE FIRENZE
21 19
20
24
22
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23 25
28 26
35
30
29
36 31
32 34 19 20 21 22 23 24 25 26 27
ETRURIA UMBRIA MARCHE ROMA CAPITALE CIOCIARIA ABRUZZO NAPOLETANO CAMPANIA DAUNIA
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28 29 30 31 32 33 34 35 36
33 PUGLIA SALENTO BASILICATA CALABRIA DELLO STRETTO SICILIA IONICA SICILIA OCCIDENTALE SARDEGNA SETTENTRIONALE SARDEGNA MERIDIONALE
Fonte: elaborazione su carta e dati della Società Geografica Italiana
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addirittura richiesto la facoltà di individuare Zone economiche speciali (Zes) dentro le aree portuali e aeroportuali. Come è stato giustamente notato, un simile approccio alle concessioni infrastrutturali, lungi dal produrre una modernizzazione del paese, pare riflettere l’intenzione delle Regioni in cui sono presenti infrastrutture importanti di «sfruttare le rendite di posizione (…) attraverso l’imposizione di gabelle a propria discrezione, come in un mondo precedente all’unità del paese» 12. Considerazioni analoghe valgono per la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia. Qui le Regioni ambiscono, in modo più o meno variegato, a ottenere poteri di autorizzazione all’installazione e all’esercizio di impianti di produzione di energia fino a 900 mw, anche in deroga alla legislazione statale. Chiedono poi maggiore autonomia nello stoccaggio di gas naturale. Siamo di fronte a un tentativo di appropriazione delle risorse naturali del territorio 13, oltre che di quelle storiche, artistiche e culturali, pure oggetto di ampie richieste di devoluzione. L’autonomia differenziata concessa alle Regioni più ricche del paese minerebbe così la gestione nazionale di rilevantissime politiche pubbliche 14 come quelle dell’industria, del lavoro, dell’ambiente e dell’energia, oltre ad avere impatti rilevanti sull’eguaglianza dei cittadini, generando effetti antiredistributivi e dando luogo a un’incerta differenziazione normativa che renderebbe inefficiente non solo il settore pubblico, ma anche quello privato, con profonde differenze di disciplina e allocazione dei livelli decisionali tra territori limitrofi. Il fine ultimo non è migliorare l’amministrazione, ma ottenere risorse economiche aggiuntive in danno alle altre Regioni. La sovranità, la capacità fiscale dello Stato e la sua possibilità di operare politiche redistributive tra cittadini appaiono attaccate da un ulteriore fronte. Se la libertà di circolazione dei fattori economici a livello sovranazionale (in particolare europeo) ha reso debole il prelievo fiscale nei confronti di capitali e imprese 15, l’autonomia differenziata renderebbe decisamente più complessa una redistribuzione unitaria della ricchezza dentro i confini nazionali. La conseguenza è la distruzione materiale del vincolo politico e sociale che lega i cittadini delle diverse Regioni. Negli ultimi anni la potenziale devoluzione di poteri si è accompagnata al mutamento in senso presidenzialista delle forme di governo regionali, incentrate sulla legittimazione diretta del presidente della Regione – sedicente «governatore» – dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 1/1999. De iure e de facto, i Consigli regionali sono stati esautorati della funzione di controllo sull’operato delle Giunte 16. A livello nazionale, invece, si è conservata la forma di governo parlamentare disegnata dai costituenti. L’evidente disallineamento tra esecutivo regionale – guidato da un «capo» investito di legittimazione popolare diretta – ed esecutivo nazionale – privo di diretta investitura popolare e titolare di un rapporto di fiducia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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12. G. VIESTI, op. cit., p. 112. 13. Ivi, p. 116. 14. Ivi, pp. 119 ss. 15. P. BORIA, Il potere tributario. Politica e tributi nel corso dei secoli, Bologna 2021, il Mulino. 16. Ai sensi dell’articolo 126 comma 3, il principale strumento di sanzione rimasto al Consiglio (la mozione di sfiducia) comporta per lo stesso un esito suicidario, determinandone lo scioglimento.
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con le Camere – ha determinato uno sbilanciamento di poteri, sul piano della costituzione materiale 17, a vantaggio degli esecutivi regionali 18. 3. Il disegno di legge Calderoli costituisce formale attuazione di una disposizione costituzionale. Più difficile sostenere che esso sia attuazione della costituzione tout court, con riferimento al tipo di regionalismo previsto e alla luce dei princìpi fondamentali. Il tipo di regionalismo che traspare dalla Carta è infatti di tipo solidale 19, non competitivo. Leggendo congiuntamente gli articoli 2, 3, 5 e 119 comma 5 della costituzione, l’autonomia è intesa come strumento di superamento delle diseguaglianze, non come motivo per giustificarle, aggravarle o peggio crearne di nuove. I propositi revisionisti insiti nel decreto Calderoli, in linea con i precedenti della storia recente, portano tutti il segno del principio di sussidiarietà 20. Per sussidiarietà verticale s’intende il criterio di riparto dei poteri tra Stato centrale ed enti locali per il quale si ritiene preferibile la devoluzione in capo ai livelli istituzionali inferiori, connotati da una maggiore prossimità alla cittadinanza. In forza di tale principio, l’accentramento di competenze in capo allo Stato si giustifica solo nella misura in cui le istituzioni di prossimità si dimostrino inadeguate a perseguire i connessi obiettivi 21. Tuttavia il principio di sussidiarietà, che dovrebbe giustificare l’autonomia differenziata, va letto insieme al corollario dell’«adeguatezza» 22 che impone di devolvere poteri al livello istituzionale di maggiore prossimità solo se questo si dimostra capace di raggiungere i relativi fini pubblici. Il criterio dell’adeguatezza impone dunque di ripartire le competenze tra livelli istituzionali diversi conferendo alle Regioni esclusivamente quei poteri per i quali le strutture burocratiche, i servizi tecnici e le provviste finanziarie regionali risultino adeguate. Tale accezione della sussidiarietà non legittima la devoluzione incondizionata di poteri alle Regioni, ma impone al legislatore di trattenere presso lo Stato centrale quelle competenze per le quali soltanto il livello istituzionale ministeriale risulti adeguato a perseguire i fini di pubblico interesse. In tal modo il legislatore può garantire i princìpi di unità e indivisibilità della Repubblica sanciti dall’articolo 5 della costituzione valorizzando al contempo le autonomie territoriali. Alla luce dell’adeguatezza, nella definizione delle intese tra Stato e Regioni e nella successiva codifica legislativa delle «ulteriori e particolari forme di autonomia», il legislatore è chiamato a conservare in capo allo Stato le competenze strategiche la cui devoluzione comporti la frammentazione dell’indirizzo politico in ordine alla realizzazione e all’esercizio di opere e servizi di interesse nazionale. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
17. Cfr., C. MORTATI, La costituzione in senso materiale, Milano 1998, Giuffrè. 18. G. VIESTI, op. cit., pp. 39 ss. 19. A. VOLPE, Solidarietà. Filosofia di un’idea sociale, Roma 2023, Carocci. 20. Tale principio è attualmente positivizzato nell’articolo 5 paragrafo 3 del Trattato sull’Unione Europea. Nel 2001 è stato trasposto nel nuovo Titolo V (articolo 118 comma 1 della costituzione). 21. V. CERULLI IRELLI, «Sussidiarietà», in Enciclopedia Giuridica, vol. XII, Roma 2004, Treccani. 22. Espressamente menzionato nel medesimo articolo 118 della costituzione.
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AUTONOMIA DIFFERENZIATA, O DELLA FINE DELLO STATO
Anche senza stravolgere l’impianto del Titolo V vigente, l’articolo 116 comma 3 appare dunque suscettibile di un’interpretazione sistematica che impedirebbe una devoluzione incondizionata di poteri alle Regioni. In caso di adozione di una riforma del tutto arbitraria e svincolata dai parametri costituzionali, potrebbe infatti concretarsi la possibilità di un intervento della Consulta volto a delimitare l’ambito delle competenze devolvibili ai sensi dell’articolo 116 comma 3. La definizione dei Lep non sarebbe sufficiente a garantire la legittimità costituzionale della codifi ca legislativa a fronte dell’evidente minaccia dei princìpi di eguaglianza, unità e indivisibilità della Repubblica (articolo 5 della costituzione). Quanto all’eterogeneità tra forme di governo centrale e regionali, si rende ne cessario un riallineamento onde evitare l’acquisizione da parte dei sedicenti gover natori di poteri impropri. È possibile intraprendere due strade: presidenzializzare la forma di governo centrale in linea con l’assetto regionale, o consiliarizzare le forme di governo regionali in conformità al sistema parlamentare del centro. Il governo sembra intenzionato a perseguire l’elezione diretta del presidente del Consiglio (alias premierato). In un contesto di incontrollata devoluzione, una soluzione del genere intensificherebbe la conflittualità tra governo centrale ed esecutivi regionali, non definendo adeguate modalità di raccordo tra centri di potere che si sentirebbero parimenti legittimati ad agire sulla base della volontà popolare. 4. Il paradosso della cosiddetta autonomia differenziata risiede soprattutto nel fatto che essa è attuata in una congiuntura geopolitica caratterizzata dal ritorno in grande stile dello Stato. È dunque sintomo di una profonda incoscienza strategica del nostro paese e della sua classe dirigente, ancora ferma a una mentalità feudale. Mentre i nostri vicini, tra mille contraddizioni, cercano di ammodernare le loro strutture burocratiche per renderle adatte all’attuale fase storica, in Italia assistiamo al rigurgito di sentimenti particolaristici, preunitari, giustificati da potenziali vantaggi economici che, apparentemente, ben valgono la tenuta del paese. Non a caso, tra le competenze che verrebbero devolute ve ne sono alcune che rischiano di mettere in discussione non solo l’unità dell’Italia, ma la sua stessa esistenza. Prima questione: i porti. Il fatto che il disegno di legge Calderoli si riferisca – specificandolo – alla devoluzione esclusivamente di infrastrutture civili (sic) segnala totale inconsapevolezza dell’attuale scenario geoeconomico, in cui a rilevare è la dualità (civile-militare) di quasi ogni infrastruttura, porti sicuramente inclusi. A meno di non voler pensare che il progetto turco del Corridoio scandinavo-africano – passante per Trieste e per Taranto – o quello polacco-americano del Trimarium – da cui restiamo esclusi ma che ci tocca – siano privi di ogni dimensione strategico-militare. L’Italia esiste in connessione con il Mediterraneo. Il nostro mare, sempre meno nostrum, va tenuto sotto controllo, utilizzato strategicamente e difeso con ogni mezzo. O quantomeno con ogni mezzo utilizzato anche da altri. Ciò implica che lo Stato mantenga il controllo diretto su ogni infrastruttura marittima e portuale. Non è questione esclusivamente giuridica, ma geopolitica ed esistenziale. Suicidarci in punto di diritto non rende la morte più dolce. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Identico discorso vale per le linee di comunicazione, soprattutto nella fase attuale caratterizzata dall’aumento delle minacce cibernetiche. La sicurezza delle reti non può essere lasciata – come ora – agli enti regionali, troppo spesso privi delle competenze adeguate a gestire un dominio così complesso e strategico. La proposta di devoluzione arriva come una doccia fredda: l’Italia si è recentemente dotata di un’Agenzia nazionale per la cibersicurezza, composta da professionalità di altissimo livello e tecnologicamente all’avanguardia. In caso di autonomia differenziata, l’Agenzia rischia di non poter esprimere al massimo il suo potenziale, che non è esclusivamente difensivo. Terzo problema: la «secessione dei ricchi» rischia di generare pesanti effetti demografici. La riforma Calderoli impedisce una redistribuzione interregionale della ricchezza, ma per fortuna non può arginare una (probabile) redistribuzione della popolazione sul territorio nazionale. Il Sud rischia così di spopolarsi e di vedere la sua età media alzarsi ulteriormente, anche in virtù di come la riforma regola la gestione dei fondi scolastici e universitari. Con l’autonomia differenziata lo Stato si priva infatti di qualsiasi strumento utile a garantire l’unità socioeconomica del paese. Il rischio è che il Meridione sviluppi forme di particolarismo etnico, rese possibili dalla libertà nella definizione dei programmi scolastici. La secessione dei ricchi rischia di ribaltarsi dialetticamente in secessione dei poveri, di quanti cioè abitano alle soglie di Caoslandia dove l’attivismo turco e russo è concreto. Come escludere che tali Regioni stringano accordi, inerenti magari a infrastrutture portuali o energetiche, con paesi o altri soggetti tutt’altro che amici? Pensare di affievolire tali contraddizioni attraverso il «premierato» è vano. Non si capisce come il feticcio di un leader privo di effettive capacità decisionali possa garantire l’unità del paese e non scalfirla ulteriormente. Ingenuo è credere che tale figura possa garantire l’unità strategica e politica dello Stato, quando buona parte delle materie strategiche sono devolute alle Regioni. Il problema è anzitutto culturale. L’Italia non è consapevole di come il mondo sia cambiato. Si pensa, con trent’anni di ritardo rispetto alla Germania, Grande Svizzera: cantonizzata e neutrale (ma per incapacità). E priva di interessi strategici, a differenza degli svizzeri. Si può discutere di possibili soluzioni alternative con regìa centrale: l’istituzione di Zone economiche speciali al Sud, la dichiarazione di una Zona economica esclusiva italiana nel Mediterraneo. Finché non si affronteranno i problemi culturali che rendono difficile agli italiani pensarsi soggetti geopolitici, ogni proposta strategica è però destinata a rimanere inchiostro su carta. Nel mentre, i sogni di autonomia potrebbero averci già fatto scivolare nelle braccia di Caoslandia. Terra di Hobbes, o dell’assenza dello Stato. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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AITALA e Antonio BALSAMO La traiettoria storica di Cosa Nostra conferma le sue capacità di adattamento. Questo camaleonte criminale si è mescolato con successo nel mondo ‘pulito’. Criptofonini e altre magie tecnologiche. Il rilievo geopolitico della partita che non possiamo perdere. di Rosario
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1. « OI ABBIAMO INVENTATO LA MAFIA. E l’antimafia». Alle parole del consigliere del ministro degli Esteri italiano i partecipanti alla tavola rotonda annuiscono divertiti. Fra loro Hillary Clinton, segretario di Stato di Obama. Al Palazzo di Vetro di New York, a margine dell’Assemblea Generale, si discute come affrontare l’emergenza criminalità organizzata in America centrale, che da questione di ordine pubblico sta rapidamente evolvendo in catastrofe geopolitica. È il 2011 e Roma guida un denso programma di sostegno agli Stati del Sistema de integración centroamericana che supera la tattica puramente militare adottata senza successo da Washington in Messico e altrove, per focalizzarsi su misure idonee a incidere sul capitale strutturale, sociale, politico e geopolitico delle mafie. Dopo «spaghetti» e «pizza», «mafia» è la parola che il mondo associa di più all’Italia 1. Correlazione ineluttabile? Dobbiamo rassegnarci a vivere abbracciati alla piovra? Quali conseguenze per la collocazione internazionale della Repubblica? L’antimafia all’italiana è moneta geopolitica? Per punti. 2. «What is the Maffia?», si chiede il New York Times nel 1874, precisamente un secolo e mezzo fa 2. È la prima apparizione del lemma sul più autorevole dei quotidiani americani, che si risponde: «È una vasta organizzazione delle “classi pericolose”, tutti coloro che preferiscono vivere sfidando e calpestando la legge…nobili, giudici, avvocati, commercianti, agricoltori, insomma ogni grado della vita». La parola compare lo stesso anno anche in Francia, in un saggio pubblicato sulla Revue des Deux Mondes 3, dove, fra l’altro, si spiega che «in tutte le rivoluzioni della Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. L. ROSSI, «Assaggi da un dizionario di italianismi nel mondo», treccani.it, 25/6/2009. 2. «The Sicilian Maffia», The New York Times, 24/9/1874. 3. «La Sicile pendant les dernières années. La situation politique – le malandrinaggio», Revue des Deux Mondes, 1874, pp. 611 ss.
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Sicilia, la mafia ha giocato un ruolo molto importante». Paradosso, non sorprendente, vuole che la spiegazione accolta internazionalmente centocinquant’anni fa abbia faticato a essere accettata in Sicilia fino a tempi recenti. La vicinanza fisica al fenomeno ne impediva la precisa percezione. Presbiopia socioculturale. Perché la realtà profonda e complessa della mafia fosse nitidamente messa a fuoco si dovette aspettare la pubblicazione di Cose di Cosa Nostra di Giovanni Falcone, frutto di interviste concesse nel 1991 alla giornalista francese Marcelle Padovani. Chiudeva il libro una distinta sintonia con l’analisi della rivista francese: «Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana». Il libro di Falcone contiene episodi che scolpiscono una specie di «autocoscienza» mafiosa. Questo merita citazione per intero: «Uno dei miei colleghi romani, nel 1980, va a trovare Frank Coppola appena arrestato, e lo provoca: “Signor Coppola, che cosa è la mafia?”. Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e ribatte: “Signor giudice, tre magistrati vorrebbero diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia”». Le vicende della parola, storicamente polisemica, sono affascinanti. L’etimo è incerto, si ipotizza derivi da tre lemmi arabi. Mahyåâ, cioè «spavalderia», maõfal, «riunione di molte persone» e mu‘afå, «protezione» 4. In tempi lontani, nel colorito dialetto siciliano «mafioso» indicava valorosità senza nessun riferimento all’esser malviventi o malandrini. Mafiusu per esempio era un cavallo veloce, vincente. Il lemma viene utilizzato per designare una società criminale solo a partire dal 1863, quando è rappresentata per la prima volta a Palermo, nel teatro Sant’Anna, l’enigmatica commedia I mafiusi di la Vicaria, che ritrae le abitudini di un gruppo di «camorristi» detenuti nel carcere della città, ai quali vengono attribuiti i caratteri tipici del fenomeno mafioso: una struttura gerarchica, un rituale di ingresso e iniziazione, l’uso del termine pizzu, cioè «becco», metafora della punta della barba che il mafioso intinge nella minestra altrui, per riscuotere il prezzo della protezione. La corrispondente realtà criminale esisteva invece da tempo e aveva trovato il suo brodo di coltura nella fase immediatamente successiva all’abolizione del sistema feudale, quando il passaggio alla società borghese non era stato accompagnato da adeguate riforme sociali e trasformazioni economiche sorrette da un efficiente apparato amministrativo statale, come era avvenuto per esempio in Lombardia. Nell’isola l’amministrazione statale che veniva a sostituire il mero e misto imperio dei signori feudali, si rivelava «debole, inefficiente, corruttibile – fatta com’era di funzionari incapaci e mal pagati, che si ritenevano autorizzati a rivalersi sulla parte più debole, meno temibile, dei loro amministrati» 5. Si sviluppa così una società criminale collettiva con fini di arricchimento illecito che realizza una mediazione violenta e parassitaria fra i padroni delle terre e i lavoratori. Cosa nostra si conforma come un sistema di potere funzionale all’ordine socioeconomico del latifondo. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. J. DICKIE, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Roma-Bari 2005, Laterza, pp. 44-45. 5. L. SCIASCIA, «La storia della mafia», Storia illustrata, 1972.
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Come sempre, la terra è all’origine di tutto 6. Nel contesto delle campagne si sviluppa un’osmosi fra la proprietà latifondiaria e due classi in potenza mafiose chiamate a garantire il perpetuarsi del sistema parassitario articolato sullo sfruttamento del bracciante a ore. È un’organizzazione che paralizza lo sviluppo economico e sociale. Il napoletano Domenico Caracciolo che fu illuminato viceré di Sicilia dal 1781 al 1784, osservò che era l’unica regione d’Europa in cui i profitti generati dalla terra diventavano altra terra, non venivano cioè impiegati per migliorare l’agricoltura, suscitare industrie o incrementare i commerci 7. Il gabellotto è l’amministratore del feudo, nel quale esercita il potere giurisdizionale e mantiene l’ordine pubblico tramite un esercito privato. Il campiere svolge funzioni poliziesche e vessatorie, è il guardiano e ordinatore del lavoro nei campi, dai quali proviene e si è affrancato. Entrambi agiscono per conto dell’assenteista classe aristocratica ma la derubano mentre coltivano segreti propositi di egemonia sociale. Servendosi della violenza e dell’intimidazione riscuotono i canoni d’affitto, sovrintendono al raccolto, controllano la distribuzione dell’acqua e gestiscono il mercato del lavoro. Con l’eversione della feudalità, nell’Ottocento, le due figure iniziano a comporre il quadro gerarchico intermedio dell’associazione mafiosa in via di formazione, ancora allo stato larvale. Il potere dell’emergente organizzazione derivava dalla circostanza che il diritto a usare della forza, precedentemente attribuito all’aristocrazia, era stato solo formalmente trasferito allo Stato, ma rimaneva di fatto nelle mani di soggetti privati, coinvolgendo sempre nuovi gruppi sociali, al di là di qualsiasi rigida gerarchia di ordini o classi 8. Vengono così a crearsi le condizioni di un rapporto ambiguo, di convivenza, cooperazione e interesse fra la mafia e i detentori del potere politico-economico. Risale a questa fase la nascita di una «borghesia mafiosa» e la continuità di quei «piccoli governi nel governo» destinati invece a scomparire nelle regioni dell’Italia settentrionale. Le prime organizzazioni man mano si strutturano dandosi regole e forme. Cessano di essere entità esclusivamente rurali e iniziano a radicarsi in città penetrando dentro il corpo vivo della società e della politica. Emerge così una mafia «alta» o «in guanti gialli» che si afferma come forza elettorale, referente e strumento di istituzioni pubbliche e forze politiche. Negli anni successivi all’unificazione nazionale «mafia» comincia a definire nel dibattito politico-istituzionale un rapporto patologico tra politica, società e criminalità 9. «La maffia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale». Così dice a Montecitorio il 12 giugno 1875 Diego Tajani, deputato dell’opposizione di sinistra e già procuratore generale di Palermo. Un anno più tardi, due parlamentari della destra storica, Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, presentano in parlamento una «Inchiesta in Sicilia». Segnalano stupiti l’intreccio «nelle provincie siciliane infestate dai malfattori fra la Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
6. R. AITALA, Il metodo della paura, Roma-Bari 2018, Laterza, p. 85 7. L. SCIASCIA, op. cit. 8. S. LUPO, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Roma 1996, Donzelli Editore, p. 45. 9. Ibidem.
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popolazione e l’infinita varietà di facinorosi che, sotto il nome di briganti, di malandrini, di mafiosi, esercitano in vari modi l’industria del delitto». Morale: «Il brigantaggio è in quella condizione di società un’istituzione regolare e riconosciuta». In questo humus prende corpo la mafia che mai si è esaurita nella dimensione criminale per costituirsi componente strutturale della società, dell’economia, della politica, abilissima a adattarsi ai cambiamenti ed entrare in simbiosi con gli assetti di potere. Questi connubi ibridi danno vita a una «istituzione parallela e alternativa allo Stato», secondo la formula di Paolo Borsellino 10, che esercita poteri informali sovrapposti a quelli legali e al contempo funge da cerniera fra classi sociali diverse eppure complementari fra loro. Nonostante la parola sia andata incontro a un processo di volgarizzazione, a un uso aspecifico e poco significativo, descrive un fenomeno particolare 11. Il vero modello mafioso, con la capacità di radicamento territoriale e sociale, la vis espansiva e una soggettività geopolitica è risultato di precisi caratteri costitutivi e relazionali. Il sottomondo mafioso è disciplinato, cementato e garantito dalla saldezza del vincolo primario che lega gli associati: indissolubile, coercitivo, segreto. La mafia è aristocrazia, egemonia, privilegio, ma anche prigione. Ai vantaggi risultati dal far parte del nucleo degli eletti, corrisponde un costo di uscita o di tradimento esorbitante, il più alto: la vita. La struttura è a cerchi concentrici. Intorno al nucleo ristretto dei componenti si estendono reti di relazioni saldate da interessi economici, politici e sociali. Il successo dell’organizzazione è determinato dalla sapiente combinazione di violenza, paura, connivenza, interesse, reputazione e riconoscimento sociale. La natura e la funzione di ordinamento autonomo della società criminale è messo in luce con semplice spietatezza da Giovanni Brusca, colui che ha premuto il detonatore della strage di Capaci. Dovendo spiegare ai giudici perché un ragazzino sospettato di avere commesso furti «non autorizzati» dall’organizzazione era stato condannato a morte e ammazzato insieme alla fidanzata nel 1991 dice: «Non se ne poteva più… Succedevano tanti furti, la gente si lamentava. E siccome Cosa Nostra… la base principale che mi è stata detta a me era la funzione di fare, tra virgolette, funzione di polizia, quindi intervenire per tranquillizzare il territorio. Sennò la forza popolare di Cosa Nostra non avrebbe il motivo di esistere» 12. Memorabile la lezione di Salvatore Barbagallo, pentito di Caccamo, cittadina dell’entroterra palermitano: «Mi hanno insegnato una cosa, che nella vita ci sono tre tribunali, il tribunale della legge che nel dubbio assolve, il tribunale della mafia che nel dubbio condanna e il tribunale del padreterno che dubbi non ne ha» 13. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. Ci sono elementi contrastanti nella fase storica attuale. L’impressione è che la storia si ripeta. La esprime nitidamente Maurizio de Lucia, procuratore di Paler-
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10. P. BORSELLINO, «Legalità e ordinamenti giuridici paralleli», relazione tenuta in data 14 marzo 1992. 11. R. AITALA, «Fenomenologia dei poteri mafiosi», Limes, 10/2013, «Il circuito delle mafie», p. 15. 12. Corte di Assise di Palermo, Sez. IV, proc. n. 1/2004, udienza del 28 maggio 2004. 13. Corte di Assise di Palermo, Sez. IV, proc. n. 29/2000, udienza del 10 luglio 2001.
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mo, ripercorrendo le circostanze che hanno portato a catturare l’ultimo latitante importante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. La borghesia mafiosa, è la sua diagnosi, continua a garantire e rafforzare l’organizzazione mafiosa, restando immersa in una subcultura che supera i confini degli affari e dei ritorni economici per condurre all’incondizionata adesione morale e ideologica agli pseudovalori e alle finalità dell’associazione criminale 14. La visibilità di germi del cambiamento. Prima dell’arresto erano stati condannati dei colletti bianchi che orbitavano attorno al «sistema Messina Denaro». Trentatré giorni prima della cattura era diventata definitiva la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa di un importante esponente politico trapanese, già senatore e sottosegretario all’Interno, appartenente alla famiglia per cui aveva lavorato come campiere il padre di Matteo, Francesco «don Ciccio» Messina Denaro, morto per cause naturali da latitante 15. Negli anni del maxiprocesso e poi in quelli immediatamente successivi alle stragi del 1992, si era verificata una simile, precisa sincronia fra la messa in crisi della rete di relazioni esterne intessute da Cosa Nostra, la fine del mito dell’invincibilità della mafia, lo sgretolamento dei meccanismi di protezione di latitanti storici e la loro conseguente cattura. L’arresto di Messina Denaro produce anche un immediato impatto sociale di valore simbolico. Il 16 gennaio 2023 al momento dell’arresto la gente per strada applaude i carabinieri. Qualche giorno più tardi nel paese del mafioso, Castelvetrano, i ragazzi formano un corteo spontaneo. Sui cartelli si legge: «Io vedo, io sento, io parlo». Le immagini di assoluto rispetto da parte delle forze di polizia e della magistratura dei diritti e della dignità di un uomo già condannato più volte all’ergastolo per alcuni dei più gravi delitti della nostra storia appaiono speculari rispetto a quelle di Ilaria Salis trascinata in catene in tribunale a Budapest e costituiscono un patrimonio reputazionale dell’Italia come civiltà del diritto e dei diritti. Persino nei momenti più drammatici dell’attacco mafioso allo Stato, l’Italia ha sempre resistito alle suggestioni di interventi autoritari e di leggi eccezionali 16, una prova di forza e fermezza che ha proiettato per molti anni all’estero un potere geopolitico della Repubblica che abbiamo ignorato o trascurato, inclini come siamo all’autocommiserazione autolesionista. Il volto attuale della criminalità organizzata in Italia sembra profondamente mutato, ma questo cambiamento apparente è in massima parte riconducibile a un processo sottile e insidioso di mimetizzazione delle mafie nel tessuto sociale e nelle dinamiche economiche e politiche, che le rende difficilmente riconoscibili e comprensibili. La capacità di mimesi, cioè di imitazione e di riproduzione della realtà ambientale, sociale e culturale, è intrinseca nel modello mafioso. Sin dai primordi, le mafie hanno assunto come camaleonti i colori dell’ambiente circostante e si sono assicurate l’impunità comprando il silenzio della vittima ora con il prezzo della vita ora con quello del denaro. Adesso sempre più spesso la vittima è fagocitata dall’orCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
14. M. DE LUCIA, S. PALAZZOLO, La cattura, Milano 2023, Feltrinelli, pp. 139-141. 15. Ibidem. 16. G. FALCONE, «La lotta alla mafia - perché si vince coi giudici», La Stampa, 6/11/1991.
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ganizzazione attraverso una lenta e inesorabile strategia che progressivamente la trasforma in complice 17. Mentre i rituali di affiliazione e altri formalismi sono ormai repertorio storico, mentre vacilla il sistema delle estorsioni a commercianti e imprenditori, la tradizionale fonte di approvvigionamento, l’organizzazione mafiosa continua a mantenere una notevole vis attrattiva. Sempre più spesso sono gli stessi imprenditori che si attivano alla ricerca della «messa a posto» con la cosca locale, considerandola come un costo d’impresa, il corrispettivo di un utile servizio. I mafiosi sono attratti dalle imprese medie e piccole che vengono inquinate con forme di riciclaggio particolari che si trasformano in società di fatto, imprese «a partecipazione mafiosa». Nelle tornate elettorali più recenti a Palermo sono stati osservati casi di candidati che avvicinavano soggetti contigui a Cosa Nostra, non viceversa. Percorso fatale di normalizzazione della presenza di una mafia «sostenibile» che attraversa i più diversi strati sociali e le più varie aree geografiche. Nei contesti sociali più degradati, dove lo Stato brilla per assenza, la fama di mafiosità e la relativa reputazione di pericolosità è titolo di vanteria. In altre situazioni, le organizzazioni hanno geometrie variabili nelle quali convivono e si rafforzano vicendevolmente modelli di controllo del territorio e penetrazione economica. Il mafioso può presentarsi di volta in volta come il rappresentante dell’Antistato, un normale operatore di mercato o un fornitore di servizi illegali, dallo smaltimento a basso costo di rifiuti pericolosi alla riscossione di crediti, alla «consulenza» per ottenere appalti e contratti pubblici, al finanziamento usurario, fino alla richiesta di atti violenti o intimidatori. La storia delle mafie è tutta contrassegnata dalla mutevole sintesi fra il dominio sul territorio e la creazione di «alleanze nell’ombra» con la realtà economica esterna, secondo la riuscitissima formula e concettualizzazione di Rocco Sciarrone 18. Da una parte power syndicate, tendente essenzialmente all’estorsione e non all’impresa e dall’altra enterprise syndicate operante nell’arena delle imprese illecite 19. Da un lato struttura territoriale delle cosche con il sistema delle rigide affiliazioni, la continuità temporale, la forza militare e la conseguente capacità di continuare a esercitare una funzione vicaria della sicurezza pubblica come nell’ancestrale meccanismo della guardiania. Dall’altro, la rete affaristica, necessariamente comprendente affiliati e non affiliati» 20. Questa sintesi oggi assume contorni sempre più sfumati e sfuggenti, difficili da interpretare in un contesto nel quale le dinamiche dell’economia e della comunicazione sono mutate profondamente. Per adattarvisi le mafie hanno coinvolto nelle proprie dinamiche interi settori imprenditoriali in apparenza «puliti» con i quali vengono costruite reti relazionali fondate su una reciprocità di interessi, innestando il codice mafioso nel solco di strategie di investimento più sofisticate costituite per Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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17. A. BALSAMO, A. LO PIPARO, «La contiguità all’associazione mafiosa e il problema del concorso eventuale», in Le associazioni di tipo mafioso, a cura di B. ROMANO, Torino 2015, Utet, pp. 93 ss. 18. R. SCIARRONE, Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Roma 2011, Donzelli. 19. A. BLOCK, East Side-West Side. Organizing Crime in New York, 1930-1950, Cardiff 1980, University College, p. 129. 20. S. LUPO, «Mafia», in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma 1996, Treccani.
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esempio dall’uso delle criptovalute. La postura ipertecnologica è garantita dalla contrattazione di esperti che le istituzioni pubbliche non possono permettersi e dall’impiego di piattaforme di comunicazione criptate sconosciute alla stessa «generazione Z». Cosa Nostra è adusa perdere la dirigenza nelle guerre militari o nell’eterno conflitto con le forze dello Stato. Dopo l’arresto e la morte di Messina Denaro si concentra sugli appalti per sedersi nuovamente a quei tavoli relazionali con altri mondi con i quali interagisce da sempre. L’occasione di ritorno sulle scene è il Piano nazionale di ripresa e resilienza che si cerca di sfruttare con le imprese mafiose presenti sul territorio e il sistema dei subappalti, una ragnatela di imprese che sfugge più facilmente ai controlli preventivi 21. Giuseppe Pignatone, già procuratore di Reggio Calabria e acutissimo osservatore dei fenomeni mafiosi, ha rovesciato il tavolo concettuale tradizionale che guardava alla ’ndrangheta come semplice coacervo di strutture slegate e indipendenti. Ne ha dimostrato invece il verticismo, la coesione e la solidità strutturale. La ’ndrangheta pur restando immersa nella tradizione è riuscita a proiettarsi nella modernità, e ha sostituito la mafia siciliana quale principale intermediario del traffico internazionale di cocaina grazie a caratteristiche che Cosa Nostra non è più riuscita a garantire, in particolare affidabilità economica e segretezza assicurata dalla ridottissima diffusione della collaborazione con la giustizia. Le ’ndrine hanno conquistato livelli di potere criminale internazionale senza precedenti grazie all’accumulazione rapidissima di immense ricchezze 22 trasferite nell’economia legale da professionisti esterni negli spazi virtuali, che sono strumento di comunicazione e sede di profitto. Già negli anni Novanta, alcune organizzazioni mafiose, mentre mantengono un solido rapporto con il territorio, trasferiscono una parte delle attività nel mondo virtuale. Negli anni recenti prendono a servirsi di piattaforme sociali, criptovalute, dark web con i server in paesi ostinatamente ostili a ogni forma di collaborazione investigativa. Spostano ricchezze con il sistema informale dell’õawåla che elude transazioni bancarie formali e spostamenti fisici. Comunicano con «criptofonini», dispositivi nei quali restano disattivati videocamere, microfoni e sistemi di geolocalizzazione e che non funzionano sulle tradizionali reti telefoniche e telematiche ma su piattaforme informatiche crittografate non intercettabili. L’utilizzo a fini probatori dei messaggi scambiati su queste reti è al centro di controversie su cui devono ancora pronunciarsi Cassazione, Corte di giustizia dell’Unione Europea e Corte europea dei diritti dell’uomo: un nuovo e delicatissimo fronte all’interno del già incandescente dibattito sui rapporti fra i mezzi di ricerca della prova e le nuove tecnologie 23. Gli strumenti a disposizione degli Stati per affrontare le mafie in forCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
21. È l’accurata diagnosi contenuta nell’intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024 del procuratore generale di Palermo Lia Sava. 22. G. PIGNATONE, «La fine di un’epoca», Introduzione a S. PALAZZOLO, M. PRESTIPINO, Il codice Provenzano, Roma-Bari 2017, Laterza. 23. L. LUDOVICI, «I criptofonini: sistemi informatici criptati e server occulti», Diritto Penale e Procedura, n. 3, 2023, pp. 417-418.
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me flessibili di agenzie di servizi e attori economici affondano le radici nella drammatica stagione degli anni Ottanta e Novanta, quando le istituzioni politiche e giudiziarie si impegnano in una progettazione strategica innovativa destinata a lasciare una traccia profonda. 4. Nella storia della repressione della mafia c’è un prima e un dopo. Il confine è il 1980. All’inizio di quell’anno, Rocco Chinnici viene nominato capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Pochi mesi più tardi, affida al giudice istruttore Giovanni Falcone il processo contro l’imprenditore mafioso Rosario Spatola e altre 119 persone, scaturito da tre filoni investigativi su traffici internazionali di droga, reinvestimento dei profitti e sul simulato sequestro del finanziere Michele Sindona. È una svolta decisiva nella storia giudiziaria palermitana e italiana 24. Si afferma un «metodo Falcone» fondato sulla convinzione che il tallone d’Achille delle mafie siano le tracce che lasciano dietro di sé gli imponenti movimenti di denaro 25. Dunque, cooperazione giudiziaria internazionale, coordinamento investigativo e uso di risorse tecnologiche. Risale a quel tempo il procedimento «Pizza connection». È la prima indagine sull’impresa criminale transnazionale d’intesa con l’Fbi americano. Sono riuniti in un’unica azione globale investigatori e procuratori di dieci paesi. È il modello che verrà utilizzato per i programmi antiterrorismo decenni dopo 26. Dalle indagini di Falcone all’estero viene la collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta, «boss dei due mondi», che con le sue dichiarazioni renderà possibile il maxiprocesso. Un processo all’intero mondo della mafia. I «pentiti» svelano organigrammi, regole, codici e linguaggi sfatando il mito dell’impenetrabilità e dell’invincibilità della mafia che ne aveva rappresentato un formidabile capitale reputazionale 27. Sempre nel 1980, viene presentata in parlamento la prima proposta di quella che diverrà la legge Rognoni-La Torre, il 13 settembre 1982. Una normativa destinata a rivoluzionare la repressione della criminalità mafiosa e costituire un modello internazionale. Si punta a disarticolare le associazioni attaccandone il capitale economico e strutturale attraverso le misure di prevenzione patrimoniali che introducono confische non fondate sulla condanna, istituto non dissimile dal modello angloamericano delle non-conviction based confiscation che nel contesto del crimine organizzato assume un valore speciale. La logica della Rognoni-La Torre la spiega a distanza di oltre quarant’anni Piero Grasso, nell’editoriale di un volume dedicato alla confisca edito dalla Fondazione Scintille di Futuro. Grasso, autore delle settemila pagine della sentenza del Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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24. G. NATOLI, «L’organizzazione giudiziaria antimafia», in Mafie d’Italia nel nuovo millennio: Analisi e Proposte, a cura di Libera e Magistratura Democratica, Roma 2005. 25. G. FALCONE, G. TURONE, «Tecniche di indagine in materia di mafia», in AA.VV., Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso, Quaderni del Csm, Roma 1983, p. 46. 26. Così l’ex direttore dell’Fbi, Louis Freeh, cit. in C.J. ROONEY, L.D. SCHILIRO, «The Pizza Connection», fbistudies.com 27. S. MATTARELLA, «Intervento alla cerimonia commemorativa in occasione del 25° anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio», Palermo, 23/5/2017.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
maxiprocesso alla mafia istruito da Giovanni Falcone, prima e storica applicazione della legge, dice: «La storia della mafia in ultima analisi è una storia di soldi. Certo, c’è il sangue, la violenza, la paura, il controllo del territorio, la manipolazione sociale, la relazione con la politica, ma tutto in definitiva gira sempre e comunque intorno alla ricerca della ricchezza» 28. Il modello italiano di antimafia ha avuto un peso geopolitico. Molti Stati del mondo vi si sono ispirati, particolarmente in Europa settentrionale, nei Balcani e in America Latina. Nel 2000 è stata firmata proprio a Palermo la convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale. Un mese prima della strage di Capaci, il 21 aprile 1992, Giovanni Falcone aveva partecipato a Vienna alla prima sessione della commissione delle Nazioni Unite sulla prevenzione della criminalità e la giustizia penale, che della convenzione fu antecedente. La sua paternità morale e concettuale del nucleo fondamentale dello strumento fu riconosciuta nel ventennale della convenzione, che ormai con 192 Stati parte ha una sfera di applicazione universale. La fortuna della convenzione è nella flessibilità, che ne permette l’applicazione a ogni fenomeno criminale transnazionale collettivo a carattere economico, dalle mafie territoriali al crimine ambientale, cibernetico e finanziario. Uno strumento «vivente». Nell’ambito della convenzione sono in via di sviluppo iniziative relative alla raccolta delle prove digitali e alle tecniche investigative speciali, in particolare la sorveglianza elettronica delle comunicazioni. Il modello legislativo per adeguare le legislazioni interne è ricalcato in modo significativo sulla normativa italiana relativa all’associazionismo mafioso. Su proposta italiana nel 2018 la Conferenza delle Parti ha istituito un Meccanismo intergovernativo di revisione che riduce i vuoti di tutela e le diversità normative nazionali che vengono sfruttate dalle mafie in movimento. 5. L’evoluzione più pericolosa delle mafie in Italia è la normalizzazione e la quasi istituzionalizzazione di architetture sociali nelle quali si riuniscono in geometrie variabili e si confondono mafiosi, criminali comuni, politici, funzionari pubblici, imprenditori, professionisti, faccendieri, notabili. Grumi di interessi e affari sono il collante che salda spezzoni del sottomondo mafioso e del sopramondo ufficiale nel «mondo di mezzo» 29 in cui si incontrano relazioni di complicità, collusione, corruzione. Una melma densa, appiccicosa e opaca nella quale ciò che appare non è e ciò che è non appare, un luogo di ambiguità in cui i malviventi assumono le sembianze di galantuomini e coloro che dovrebbero servire l’interesse comune agiscono da malfattori 30. È una realtà che mette in crisi la retorica politica del contagio, della mafia del Mezzogiorno che alla stregua di un virus infetta il corpo altrimenti sano del Centro e del Settentrione. Le chiavi del fenomeno sono la sgranatura del capitale sociale e una deriva morale che attraversa vari segmenti della Repubblica. Se salta il confine che separa mafiosi e gente perbene, la questione Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
28. P. GRASSO, Cose nostre. Da beni mafiosi a beni comuni, scintilledifuturo.it, vol. 2. 29. G. PIGNATONE, M. PRESTIPINO, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari 2019, Laterza. 30. R. AITALA, «Se l’Italia matura», Limes, 3/2021, «A che ci serve Draghi», p. 109.
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non è più solo criminale ma esistenziale. La fornitura alle imprese di servizi illeciti sollecitati dagli stessi destinatari, l’assunzione di ruoli di intermediazione con la politica e con l’amministrazione pubblica, la penetrazione nell’economia trasformano le mafie in componenti sociali strutturali accettabili e accettate. Questa silenziosa normalizzazione delle associazioni e del metodo mafioso le allontana dal modello tradizionale, dominato da modalità di parassitismo e competizione anche violenta con le istituzioni, ma fiacca la coesione e la solidità interne dello Stato che sono essenziali alla sovranità, da cui dipende la soggettività geopolitica del paese. Anche il modello italiano di repressione delle mafie rischia la crisi. È come se la Repubblica soffrisse di quella «sindrome del torcicollo» che padre Pino Puglisi, sacerdote palermitano ucciso dalla mafia trent’anni fa, attribuiva a chi «guarda sempre indietro e ha paura del suo passato e (quindi) non riesce ad andare liberamente verso il futuro». Il legittimo dibattito parlamentare e politico su confische e intercettazioni, due capisaldi dell’antimafia all’italiana, a tratti è impoverito da calcoli elettorali e pregiudizi ideologici i quali semplificano in slogan vuoti questioni complesse. Bianco o nero. L’Italia rischia di ribaltare la direzione di marcia e assestarsi su posizioni di retroguardia anche nell’antimafia internazionale. Il giudizio in corso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo su alcuni aspetti qualificanti del sistema di prevenzione patrimoniale introdotto dalla legge Rognoni-La Torre è stato accompagnato da un dibattito pubblico denso di proposte demolitorie e povero di indicazioni di riforma idonee a ravvivare la modernità del modello italiano. Un paradosso singolare, se si considera che la legislazione europea è oggi vicinissima a un significativo salto di qualità nel contrasto all’economia criminale come effetto diretto dell’impronta del sistema italiano, del quale mutua logica e linguaggio. È prossima all’approvazione definitiva, già nel corso del mese di marzo 2024, la nuova direttiva europea sul recupero e la confisca dei beni che considera i profitti generati dalla criminalità organizzata come una minaccia all’integrità dell’economia, della società, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali: fattori geopolitici. La principale innovazione della direttiva è l’introduzione di una «confisca del patrimonio ingiustificato collegato a condotta criminale» che riprende le caratteristiche essenziali delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia introdotte in Italia dalla legge Rognoni-La Torre. Lo spazio applicativo viene utilmente esteso anche alle organizzazioni criminali non mafiose dotate di stabilità ed economicamente motivate. Potenziali soggetti geopolitici. L’attuazione della direttiva è occasione irripetibile per valorizzare la visione anticipatrice dell’Italia e consolidare la legittimazione europea delle nostre norme costruendo un processo di prevenzione più giusto e più corrispondente alle esigenze nazionali di sviluppo socioeconomico, per ridurre l’effetto collaterale di perdita di valore dei beni nel corso del procedimento. La discussione parlamentare sulle misure di intercettazione, che pure presenta proposte innovative opportune per proteggere la riservatezza e per valorizzare i controlli del giudice, ha trascurato le nuove tecniche investigative sulle piattaforme telematiche criptate. È necessaria la modernizzazione delle regole per adattarle al Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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tumultuoso sviluppo del sistema digitale delle comunicazioni e delle tecnologie utili a eludere i controlli e le indagini. Il pericolo è un isolamento internazionale suicida dell’Italia e un arretramento della capacità di reprimere gravi fenomeni criminali, come ha più volte avvertito sulla base di una profondissima comprensione delle strategie globali di contrasto alle mafie, il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo 31. 6. L’Italia inventrice di mafia e antimafia, veleno e antidoto, fronteggia ora la prospettiva di una crisi di modernità potenzialmente fatale proprio su questo terreno che attiene all’ossatura sociale della Repubblica, dunque alla sua stessa esistenza geopolitica. L’ingrediente principale è un generale impoverimento culturale di popolo, nazione e Stato che si amplifica in una politica spesso poco incline all’approfondimento, non di rado ripiegata su sé stessa, su dinamiche elettorali e partitiche, distante dai problemi reali e concentrata su piccolissime polemiche giornaliere armate dall’informazione innamorata di sensazionalismo, priorità apparenti e scomparenti che lasciano desolanti sensazioni di vuoto. Il declino non è destino. L’Italia non manca di energie vitali ma in forma disorganizzata, disorganica. Le politiche antimafia sono una delle tante declinazioni di un percorso di autoeducazione alla consapevolezza su cui da tre decenni insiste il sistema Limes. Un processo di autocoscienza che spinga ciascuno e tutti insieme a pensare e articolare pubblicamente chi siamo stati, chi siamo e chi vogliamo essere, programmando il futuro non della prossima settimana ma del resto del secolo. L’identità italiana, che tendiamo a concepire come materia eterodeterminata, affidandoci all’interessato sguardo altrui, è come tutte le identità collettive e private entità in movimento, non fatto immutabile. Non si può vivere, ma solo sopravvivere se si tiene il capo permanentemente voltato all’indietro. Il mondo è caos e noi ci siamo immersi fino al collo. Le reti di protezione che ci hanno fatto dormire sonni tranquilli stanno saltando. Ci svegliamo d’improvviso adulti. Sopravviveremo come potenza primaria se impareremo a definire e perseguire l’interesse nazionale, per noi questione delle questioni. Insomma, se apprenderemo a fare anche da soli. Meglio prenderne atto subito. Se solo iniziassimo a spegnere gli schermi su cui proietta chi pretende di definirci e manipolarci e ci affacciassimo alla finestra saremmo già sulla buona strada.
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31. «Audizione al Senato del procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo sul tema delle intercettazioni del 31 gennaio 2023», giustiziainsieme.it; documento approvato dalla 2ª Commissione permanente (Giustizia) nella seduta del 20 settembre 2023 (relatori: Bongiorno, Berrino e Zanettin) a conclusione dell’indagine conoscitiva sul tema delle intercettazioni, senato.it
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
USCIAMO DAL GIORNO DELLA MARMOTTA
di Alessandro
ARESU
A forza di riprodurre modelli obsoleti, l’economia italiana sta arretrando. Lo spreco dei cervelli. L’eroica anomalia delle multinazionali tascabili. L’ottusità delle politiche europee e il nuovo problema tedesco. Il vantaggio dell’arretratezza non dura in eterno.
N
1. EL 1993, MENTRE LIMES MUOVEVA I SUOI primi passi, Bill Murray rese immortale il «Giorno della marmotta» (Groundhog Day). Nell’omonimo film diretto da Harold Ramis, il meteorologo Phil Connors (interpretato da Murray) si trova nella cittadina di Punxsutawney, Pennsylvania, per assistere a una ricorrenza d’inizio febbraio. È il rito americano per cui le decisioni di una marmotta sul rientro nella propria tana determinano la durata dell’inverno. Phil, secondo un topos della letteratura fantascientifica, si trova però imprigionato in quel luogo, bloccato dalla neve e soprattutto intrappolato sempre nello stesso giorno. Ogni giorno si sveglia in quella stramaledetta cittadina con gli stessi problemi e le stesse questioni: sa quello che succede, sa che non accadrà mai nulla di veramente nuovo, ma non per questo riesce a cambiare le cose. Non sa prendere in mano la sua vita. È appunto intrappolato. In quello scorcio di anni Novanta è ancora possibile liberarsi dalla trappola, grazie al deus ex machina di Andie MacDowell: l’attrice interpreta Rita, che salva Phil dalla ripetitività del suo egoismo. Quando si addormentano insieme e poi si svegliano insieme l’incantesimo è rotto, saranno felici e contenti. Anche l’Italia dell’industria e della tecnologia vive un giorno della marmotta. Sappiamo già come va a finire: non arriva mai Andie MacDowell, non si spezza mai l’incantesimo e ci ritroviamo arrabbiati, stanchi e vecchi, con trent’anni di più. Una fotografia perfetta delle scelte industriali e tecnologiche dell’Italia è quella fornita su Limes ormai dieci anni fa, nel 2014, dal compianto Alessandro Pansa 1, che merita di essere ripresa integralmente. Pansa inizia la sua disamina ricordando Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. A. PANSA, «All’Italia serve una politica industriale per non fare la fine dei Buddenbrook», Limes, 11/2014, «Quel che resta dell’Italia», pp. 85-90.
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Dallas Austin
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Fonte: report Asml, www.asml.com, e autori di Limes
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Veldhoven
Taiwan 8.074,6 Cina 7.251,8 Corea del Sud 6.949,2 Usa 3.151,4 Emea 1.206,8 (Europa, Medio O., Africa) Giappone 613,6 Singapore 282,1 Paesi Bassi 25,1 Resto dell’Asia 3,9
Regioni geografiche delle vendite di Asml (2023)
Erlangen Oberkochen
Rossdorf
Wetzlar Jena Dresda
Singapore
Kulim Malaysia
Hong Kong Taipei Taiwan
Pechino Dalian Tianjin Tōkyō C i n a Xi’an Nanjing Giappone Wuhan Corea del Sud Shenzhen Shanghai
Città in cui si trovano uffici e industrie
Capitali con presenza di uffici e industrie
Mercato principale di Asml
Sede aziende chiave
Sede centrale globale
Stati Usa con sedi di aziende chiave di Asml
Il mondo di Asml Sede e origine di Asml
Cina - Shanghai (sede della Cina continentale) - Pechino - Dalian - Hefei - Xiamen - Jinjiang - Nanjing - Shenzhen - Tianjin - Wuhan - Wuxi - Xi’an Giappone - Tōkyō (sede centrale in Giappone) - Hiroshima - Kitakami - Kumamoto - Tsuruoka - Yokkaichi - Nagasaki Corea del Sud - Hwasung (quartier generale della Corea del Sud) - Cheongju - Icheon - Pyeongtaek Taiwan - Hsinchu (sede centrale di Taiwan) - Taipei - Taichung - Tainan
Bar Lev Israele Migdal haEmek Kiryat-Gat
Aquisgrana Berlino
Germania
Westbrooke - MAINE Francia - Crolles Danvers - MASSACHUSETTS Italia - Avezzano Wilton - CONNECTICUT Manassas - VIRGINIA
Irlanda - Maynooth Belgio - Lovanio
Regno Unito - Bellshill
Delft
Paesi Bassi sottoposte al vincolo Asml poli tico
NEW YORK
Zeiss Smt: joint venture di Asml e Zeiss Quartier generale di Zeiss Smt Sedi di Zeiss Smt
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Stati Uniti
1 - UTAH - Lehi 2 - COLORADO 3 - NEW MEXICO 4 - TEXAS 5 - NEW YORK Clifton Park Albany Fishkill
Dublin San José CALIFORNIA San Diego Chandler ARIZONA
OREGON Hillsboro
MINNESOTA Eagan
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IDAHO Boise
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ASML, L’AZIENDA CHE CONTA MA DI CUI NESSUNO PARLA
USCIAMO DAL GIORNO DELLA MARMOTTA
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
la profondità della crisi dell’Italia e il suo arretramento nell’economia internazionale. Al paese restano due principali punti di forza: il valore riconosciuto di alcuni prodotti grazie all’integrazione artigianato-industria e la riconoscibilità di alcuni marchi affermati. La prospettiva è per forza dolorosa. Pansa si domanda quanto avrebbe resistito la struttura industriale italiana, visto che il divario tecnologico tra europei e paesi emergenti era già diminuito e si prevedeva un’ulteriore riduzione. Questa è la sua principale preoccupazione. Pur nelle difficoltà che hanno caratterizzato i principali paesi europei, Pansa distingue infatti tra chi ha saputo perseguire una strategia industriale (la Germania, la Francia, a suo avviso perfino il Regno Unito con l’investimento in finanza e consulenza) e chi non l’ha fatto. L’Italia. Quest’ultima «ha sviluppato – forse non del tutto consapevolmente, ma di sicuro molto attivamente – un processo di deindustrializzazione e disinvestimento, ostacolando ripetutamente la creazione di grandi imprese in settori strategici» 2. Gli esempi fatti da Pansa sono tutti del Novecento: l’agroalimentare con Sme, la mancata fusione Telettra-Italtel nelle telecomunicazioni, il caso Olivetti-Bull nell’elettronica, un dinamismo farmaceutico che non sfocia mai in un vero campione nazionale. Perché è accaduto? Nella sua spiegazione, Pansa dà grande rilievo al tema culturale, al fatto che non vi sia sufficiente supporto e attenzione per l’attività d’impresa in Italia. L’imprenditorialità italiana, che vive nei fatti, è sempre frenata da ambiguità legislative anche per via delle culture che hanno plasmato la costituzione. In secondo luogo, Pansa tocca il classico tema della ritrosia delle imprese italiane a diluire o a cedere il controllo per perseguire la crescita dimensionale e la professionalizzazione manageriale. Il terzo aspetto su cui Pansa insiste è la difficoltà di agganciare e diffondere nei processi industriali l’ultimo, fondamentale paradigma tecnologico. L’Italia «non è riuscita a internalizzare la microelettronica nei prodotti e nei servizi offerti dalle sue imprese. Dagli anni Novanta in poi, mentre i concorrenti investivano nell’elettronica, l’ammontare di tecnologia contenuta nei prodotti italiani ha iniziato a calare. Questo paradigma ormai l’abbiamo perso e non possiamo fare nulla per recuperarlo» 3. Nella conclusione Pansa propone misure per recuperare lo stock di capitale, suggerisce l’abbandono di un’idea di neutralità dei settori industriali e la ripresa di iniziative per favorire la crescita dimensionale delle imprese. 2. Per integrare la tesi di Pansa che a un decennio di distanza regge ancora bene, si può considerare un punto approfondito, tra gli altri, da Paolo Bricco 4. Questi ricorda che l’Italia degli anni Novanta perde buona parte della grande impresa privata, ma approfitta dei processi di globalizzazione attraverso nuovi sogCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Rimando, per una sintesi, all’intervento di P. BRICCO nel dibattito «Cosa resta della globalizzazione», Festival della Politica, Mestre, 9/9/2023, nonché a ID., «Pmi leader d’Europa, ma la capacità produttiva crolla», Il Sole-24 Ore, 31/12/2023.
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San Francisco San José
OREGON
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Salt Lake City Lehi UTAH
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TEXAS INSTRUMENTS nuova fabbrica
T A T
A N A
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I
Azienda leader nei chip di intelligenza artificiale Azienda leader in electronic design automation Azienda leader in strumentazione/macchinari Identità americana di ASML
Oceano Pacifico M E S S I C O
SAMSUNG nuova fabbrica Golfo del Messico
Chatham County Charlotte N. CAROLINA
Licking County Columbus OHIO INTEL nuova fabbrica
NEW YORK Clay Marcy
MICRON investimento da 100 mld di $
Oceano Atlantico
WOLFSPEED nuova fabbrica
Washington, D.C. Bureau of Industry and Security
New York
WOLFSPEED nuova fabbrica Wilton CONNECTICUT
L’IMPERO DEI CHIP È ANCORA VIVO
AMD TSMC KLA nuove fabbriche da 40 mld di $ CALIFORNIA le più avanzate degli Usa NVIDIA ARIZONA SYNOPSYS San Diego Phoenix TEXAS INSTRUMENTS LAM RESEARCH nuova fabbrica CADENCE SYSTEMS Chandler Sherman APPLIED MATERIALS Dallas ASML INTEL TEXAS base produttiva ASML Taylor Global Support Center
WAFERTECH insuccesso di TSMC negli Usa
Seattle WASHINGTON Camas Principale base produttiva di INTEL Hillsboro
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getti: le medie imprese internazionalizzate, che emergono sempre più nel nuovo secolo con un dinamismo imprevisto. Tali soggetti, insieme a un nucleo di imprese a partecipazione pubblica – nucleo relativamente grande per l’Italia, ma piccolo su scala internazionale – hanno impedito la definitiva deindustrializzazione. All’innegabile perdita di capacità produttiva corrisponde una centralità di imprese non grandi, ma più efficienti di quelle tedesche. In ogni crisi degli ultimi anni – la Grande recessione, l’onda lunga della crisi debitoria, l’epidemia da Covid-19 e le difficoltà indotte dalla Guerra grande – questo segmento di imprese ha rappresentato un fattore essenziale di tenuta. La storia artigianale-industriale, soprattutto nel vasto campo della meccanica, continua a sorprendere in positivo. In parallelo, continua però il giorno della marmotta. Nelle occasioni perdute della storia tecnologica italiana possiamo citare gli stessi esempi fatti da Pansa. Occasioni che appartengono ormai a paradigmi tecnologici di un tempo remoto. Ne fanno parte casi dell’industria e della tecnologia italiana che si trascinano da oltre vent’anni. Prendiamo la triste vicenda di Tim, già trattata sei anni fa 5. Triste perché ha visto il netto ridimensionamento di una capacità tecnologica italiana che esisteva negli anni Novanta e che ha portato a un’espansione internazionale (nel mercato brasiliano) ancora fondamentale per il presente e il futuro dell’azienda. A parte la dimensione occupazionale e degli assetti proprietari, dal punto di vista tecnologico si tratta di un’impresa in un comparto che non potrà più trainare la crescita e l’innovazione di frontiera, spostatesi da tempo altrove. Nella galassia Tim sono presenti aspetti prettamente strategici, come i cavi di Sparkle, ma bisogna scansare le illusioni: la buona gestione di asset del genere non può generare il riposizionamento dell’Italia in una nuova geografia della tecnologia. Non stiamo parlando di Samsung o Nvidia. Se e quando i casi ultraventennali saranno risolti, o almeno gestiti in modo onorevole, il mondo sarà comunque cambiato secondo ordini di grandezza non più nella disponibilità dell’Italia. Rispetto alle proposte di Pansa qualcosa è accaduto: la neutralità dei settori industriali non esiste più. La politica industriale, sotto diverse forme ma soprattutto nella sua incarnazione di presidio della sicurezza nazionale attraverso la capacità tecnologica, viene praticata apertamente da tutti gli attori rilevanti del pianeta, come conseguenza e accelerazione della guerra tecnologica tra Cina e Stati Uniti. Tutti ormai compilano liste che discriminano settori e imprese: liste cinesi per scalare ulteriori posizioni nella catena del valore, liste statunitensi per negare alla Cina l’accesso alla propria tecnologia e a quella degli alleati, liste europee di auspici sulle materie prime critiche. Nell’attuale geopolitica della tecnologia, la politica industriale è già tornata e il problema riguarda anzi l’allineamento degli annunci con la capacità d’esecuzione. L’Italia giocoforza si colloca in questo paradigma, attraverso gli elementi che lo caratterizzano: ricerca, capitali, schieramento. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5. A. ARESU, «Per una biografia geopolitica di Telecom», Limes, 10/2018, «La Rete a stelle e strisce», pp. 109-22.
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3. Fei-Fei Li è la docente dell’Università di Stanford che ha contribuito in modo decisivo agli avanzamenti della visione artificiale (computer vision) soprattutto attraverso una base di dati denominata ImageNet, a partire dal 2010 protagonista di una competizione tra programmi elaborati dai ricercatori per classificare e riconoscere oggetti ed elementi contenuti nelle immagini. Una svolta significativa nell’accelerazione dei programmi d’intelligenza artificiale è comunemente identificata con la vittoria, nel 2012, della competizione da parte del gruppo dell’Università di Toronto formato da Geoffrey Hinton e dai suoi studenti Alex Krizhevsky e Ilya Sutskever (AlexNet). Qual è il ruolo dell’Italia in quest’ambito? Nella sua autobiografia 6, Fei-Fei Li racconta una storia dell’intelligenza artificiale degli ultimi decenni intrecciata con la sua vicenda personale, quella di una ragazzina emigrata a 15 anni dalla Cina agli Stati Uniti. Va a vivere in una cittadina del New Jersey e grazie al suo professore di matematica, un italiano di seconda generazione, riesce a entrare a Princeton per studiare fisica. In seguito deve scegliere dove fare il dottorato sui temi che caratterizzeranno la sua ricerca e le possibilità principali sono due grandi istituzioni: Massachusetts Institute of Technology (Mit) o California Institute of Technology (Caltech). Mit vuol dire Genova. Perché il pioniere di questi studi è il genovese Tomaso Poggio, che fonderà nel 2013 il Center for Brains, Minds, and Machines portando avanti la tradizione di ricerca interdisciplinare tra neuroscienza e robotica al Mit. Fei-Fei Li sceglie però Caltech, l’università (tra l’altro) del mitico Richard Feynman. Caltech in quel caso vuol dire Padova, perché identifica la scuola del padovano Pietro Perona. E un brillante collega di studi della scienziata, che poi diventa suo marito, è napoletano. Genova, Padova e Napoli nella grande storia della visione artificiale. Non è una barzelletta, è andata veramente così. Questa vicenda è solo un esempio del ruolo che l’Italia ha come esportatrice netta di talenti: segnale della buona preparazione ricevuta da chi poi si colloca nelle reti globali dell’istruzione superiore, ma riprova della ridotta capacità italiana di intercettare i flussi dal resto del mondo e di trattenere i talenti, per diverse ragioni tra cui quella economica. Se le persone non vengono pagate in modo adeguato o non possono intraprendere carriere commisurate al loro talento, non scelgono l’Italia. C’è inoltre un problema europeo: raramente i ricercatori si fanno imprenditori. La vicenda dell’azienda olandese ASML, leader nei macchinari per semiconduttori, è una felice eccezione perché lo spin-off di un laboratorio privato ha dato vita a un campione mondiale. Anche grazie alla lungimirante decisione di quotarsi presto in borsa e alla volontà di crescere attraverso uno stretto rapporto con clienti e fornitori, nonché mediante un’ambiziosa politica di acquisizioni. Per quanto riguarda i capitali, il posto dell’Italia nell’ultimo decennio ha visto un ulteriore declassamento rispetto all’analisi di Pansa. È vero che le medie impreCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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6. FEI-FEI LI, The Worlds I See: Curiosity, Exploration, and Discovery at the Dawn of AI, New York 2023, Macmillan.
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se internazionalizzate continuano a trainare il paese, ma queste imprese non crescono mentre la scala richiesta dai paradigmi tecnologici aumenta sempre più: si tratti di elettronica, automazione, meccanica, manifattura avanzata o biotecnologie. Tra le prove del capitalismo italiano in questo decennio c’è la crescita dimensionale, anche attraverso fusioni e acquisizioni, delle nostre aziende di maggior successo come Brembo o Ima. In caso contrario, il finanziamento della ricerca applicata sarà sempre più ridotto di quanto richiesto per competere. In questo secolo è anche fortemente aumentato il divario finanziario tra Stati Uniti ed Europa. Lo sviluppo di una capital markets union, obiettivo dimenticato dalla recente politica europea, è più importante per il finanziamento della tecnologia rispetto ai vari fondi pubblici di venture capital dei paesi europei, che finanziano in prevalenza fasi iniziali delle start-up e non competono certo con realtà quali l’americana Qualcomm Ventures o la cinese Xiaomi Ventures. Senza un vero mercato dei capitali e un’alfabetizzazione degli investitori istituzionali sul tema, non si vede come tale divario possa essere colmato. 4. Un paradossale vantaggio per l’Italia può derivare dall’esigenza di schierarsi, fattasi più pressante nel contesto della guerra tecnologica tra Stati Uniti e Cina e dell’allargamento della sicurezza economica alle filiere tecnologiche. L’Italia beneficia di un relativo vantaggio dell’arretratezza, per riprendere in termini nuovi la celebre formula di Alexander Gerschenkron. L’arretratezza italiana è l’interconnessione ridotta con l’economia cinese sul piano industriale e tecnologico. In termini diretti, l’Italia sarà meno colpita dal rallentamento dell’economia cinese e dal processo, problematico e violento, di disconnessione delle varie sfere industriali e tecnologiche. Poiché l’Italia, se non per le medie imprese internazionalizzate (comunque meno esposte di altre realtà straniere con la Cina), non è mai uscita dal giorno della marmotta e dunque non è mai entrata nella trappola cinese, al contrario della Germania. Per il cuore industriale tedesco c’è ormai un problema enorme, reso evidente dalla scommessa totalmente sbagliata dell’accesso al mercato cinese: in tutti i settori tecnologici le imprese tedesche saranno sempre più sostituite da imprese cinesi, prima in Cina e poi all’estero. L’aggiustamento a questo shock è un processo molto doloroso per Berlino: aumenteranno sempre più i casi di imprese tedesche criticate per gli investimenti fatti nel Xinjiang per compiacere Pechino, ma superate da aziende cinesi che vincono sul mercato interno e poi esportano. La microelettronica, paradigma tecnologico individuato da Pansa e ancora alla base degli sviluppi attuali (compresa l’intelligenza artificiale), sarà un altro ambito di contrasto. La crescita delle imprese cinesi nella filiera automobilistica, ormai un fatto, comporta infatti una crescita di capacità progettuale e produttiva nell’elettronica che si pone in diretta concorrenza con le aziende europee del settore. Non solo le aziende automobilistiche, quindi, ma anche le aziende di elettronica che servono il mercato dell’automotive. Se quelle aziende pensano di poter giocare un ruolo nel mercato cinese, sono già morte. Per loro ci saranno solo briciole. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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58 38 30 23 20 18 13 12 9 6 2
39%
A EUROP
AFRICA
SUDAMERICA
9%
4%
NORDAMERICA
7%
75%
Tibet
Xinjiang
Qinghai
C
Gansu
20%
I
A
Yunnan
Sichuan
N
Nessun investimento Nessun dato
19%
Maggiore presenza di aziende tedesche (in % per Provincia + Taiwan) da 4,8% a 4,1% 32,1% da 2,9% a 2,2% da 17,1% a 11,3% da 1,4% a 0,1% 9,3%
ASIA
Incremento Diminuzione
54%
10,1% 6,2% 4,8%
Guangxi
Guizhou
Hunan
Hubei
Henan
Hebei Shanxi
Shaanxi
11%
Hainan
Jiangxi
Anhui
Hong Kong Macao
TAIWAN
Shanghai
Pechino Tianjin
Fujian
Jiangsu
Liaoning
Jilin
Heilongjiang
Servizi aziendali Elettronica Servizi e prodotti di consumo
20,7%
Piani di investimento delle industrie tedesche in Cina
Attrezzature industriali Settore automobilistico
32,9%
Settori industriali tedeschi in Cina
Ningxia
Fonte: AHK Camera di commercio italo-germanica
India Vietnam Thailandia Malaysia Singapore Indonesia Giappone Corea del Sud Filippine Altri paesi Myanmar
DOVE VANNO LE INDUSTRIE TEDESCHE CHE LASCIANO LA CINA (%)
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C h o ngq ing
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LA CINA SECONDO LE AZIENDE TEDESCHE
USCIAMO DAL GIORNO DELLA MARMOTTA
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Questi processi per l’Italia non sono buone notizie: la nostra interconnessione con il sistema tedesco deve farci guardare dalla Schadenfreude, dal segreto compiacimento per i guai della Germania. Tuttavia, le medie imprese internazionalizzate – eroine di questa fase storica dell’Italia – continueranno a tenerci a galla, per la loro flessibilità e capacità di adattarsi alle crisi. Avremo anche meno difficoltà a schierarci con gli Stati Uniti, con l’intatto e violento dinamismo americano, col dominio statunitense nelle infrastrutture di calcolo, perché non ci presentiamo all’appuntamento con un bagaglio cinese molto significativo e perché gli Stati Uniti sono per noi un grande mercato di riferimento. La geopolitica della tecnologia richiede però un cambio di paradigma nella modalità di funzionamento delle strutture pubbliche, nell’organizzazione delle loro competenze e funzioni. Per liberare le energie italiane non c’è qui alternativa a una migliore collaborazione con gli altri attori europei. Perché abbiamo tutti lo stesso problema: l’impalcatura burocratica che abbiamo costruito, ai livelli nazionali ed europeo, non serve più a granché e va riconvertita. Prima o poi questo problema andrà affrontato, anche in modo brusco. Prendiamo le politiche della concorrenza: dobbiamo veramente continuare con questa cerimonia degli aiuti di Stato? Ci possiamo permettere veramente di impiegare il tempo con questi processi e di farne pagare i costi burocratici alle imprese? Perché invece non riduciamo in modo netto queste regole e mandiamo le persone che ci lavorano a fare un altro mestiere, più utile al nostro futuro? Inoltre, dal momento che l’ipocrisia sulla politica industriale è finita e ormai tutti discriminiamo i settori, dobbiamo compiere il passaggio successivo e abbandonare alcune enormi incongruenze nel rapporto tra pubblico e privato sulla politica ambientale. Non possiamo più discriminare in Europa le industrie chimiche con regole ambientali problematiche e farraginose, inducendole ad andare in Cina o altrove e così erodendo la nostra base industriale e tecnologica. Poiché la transizione ecologica e quella digitale sono processi in cui la chimica è indispensabile, il nostro futuro tecnologico passa per la liberazione da regole autolesionistiche, da realizzare attraverso una stretta collaborazione con le imprese. La politica dell’industria e della tecnologia si fonda ormai sempre più sul conosci te stesso: lo studio delle supply chain più rilevanti e l’individuazione dei colli di bottiglia, di nicchie dove esistono capacità da difendere e da sostenere, energie da liberare. La riconversione degli apparati statali a questo ruolo conoscitivo, in un senso allargato di intelligence economica, è già in corso nei principali sistemi. Rappresenterà sempre più, anche per l’Italia, un passaggio obbligato per uscire dal giorno della marmotta. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
SEGUENDO L’ACQUA IN SALITA
di Laura
CANALI
Ripercorriamo il corso del fiume Adige per scoprire la preziosità del suo flusso, alterato in età asburgica per limitare le ondate di piena. Origini e conseguenze della produzione idroelettrica. Il deficit di neve in quota minaccia il sistema fluviale e l’intero ambiente. Tutte le acque erano dolci per gli Egizi, ma in particolare modo quella attinta dal fiume, emanazione di Osiride. Gérard de Nerval, Le figlie del fuoco
V
EDERE L’ACQUA CHE ZAMPILLA DA UNA 1. fontana o che esce da un qualsiasi tubo dà sempre l’impressione che sia nuova, che stia uscendo ora per noi. Invece l’acqua, tutta quella che abbiamo, è antichissima. E senza di essa non si sarebbe formata la vita. L’acqua si rigenera continuamente tra pioggia, vapore e terra e poi sgorga all’improvviso sotto tante forme. A volte le sorgenti sono minuscole e prendono lentamente il loro corso, a volte sono impetuose ed emergono quasi come un vulcano. Come la sorgente del Gorgazzo, per esempio, in Friuli Venezia Giulia, che affiora da una grotta subacquea, una delle più profonde e inesplorate al mondo. Inesplorata perché forti correnti interne la rendono pericolosa, tanto che il soccorso è garantito solo fino alla quota di -42 metri. L’acqua di questa sorgente valchiusana si presenta con tonalità brillanti di celeste e verde smeraldo. Tanto bella da ispirare poeti e pittori. Come se non bastasse, è da questa sorgente così potente che nasce il fiume Livenza. E come ci ricorda de Nerval, gli egizi lo avevano capito subito che l’acqua dei fiumi era acqua sacra, da tenere in grande considerazione, preziosa e magica. Oggi, nel nostro mondo così «moderno», abbiamo difficoltà a rispettare le acque, a dar loro un significato salvifico, anche perché siamo sopraffatti da un inquinamento di cui non possiamo fare a meno. Negli ultimi anni anche la modalità con la quale la pioggia cade è cambiata e i nostri fiumi, dei quali abbiamo alterato i corsi, non ci danno più il tempo di fermarla. La pioggia corre via veloce a valle trascinando con sé tutto quello che può trasformandosi in bombe potenti una volta finita la discesa. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
175
SEGUENDO L’ACQUA IN SALITA
2. A metà dell’Ottocento nelle valli alpine molti fiumi vennero rettificati per poter trasformare le poche aree pianeggianti, piuttosto incolte e paludose, in aree adatte ad agricoltura pregiata. Il fiume Adige è il principale esempio di questa trasformazione iniziata nel 1803 e conclusasi nel 1918. La spesa fu di circa 53 milioni di corone austriache. Per valutare questa cifra basti pensare che l’irreggimentazione del Danubio costò 77 milioni di corone. La trasformazione progettata per l’Adige prevedeva un sistematico raddrizzamento che sarebbe servito a evitare le continue inondazioni, oltre alla necessità di guadagnare spazio coltivabile. Il corso del fiume era ricco di anse e copriva quasi tutta la valle dell’Adige. Le grandi anse si appoggiavano da una parte all’altra delle montagne creando isole, canali, barre di sedimento e barre con vegetazione sparsa. Un po’ come è parte del corso del Tagliamento ancora oggi. Il fiume Adige era però molto pericoloso perché quando arrivava l’ondata di piena travolgeva la sua valle. Persino Verona subiva spesso danni. Il cambiamento dell’alveo del fiume ha trasformato anche questa città, togliendole un rapporto secolare che aveva con l’acqua, tale da renderla simile a Venezia. La morfologia del fiume appena descritta rendeva l’ambiente della valle molto più ricco di biodiversità. Questo cambiamento nell’andamento del fiume, completamente alterato rispetto al suo assetto naturale, è oggi più compatibile con la vita degli esseri umani che abitano la valle. La regimentazione del fiume è servita anche a produrre energia idroelettrica. Già prima dell’inizio della trasformazione dell’alveo dell’Adige non si poteva più pensare che il suo corso fosse «naturale», perché esistevano diverse opere di difesa dalle acque. Durante i lavori anche gli affluenti del fiume sono stati ampiamente modificati e addirittura i punti di immissione nell’Adige sono stati spostati. Insomma, non c’è più niente che possa ricordare come fosse questo fiume. Rimane solo l’immaginazione. 3. Il nostro paese è stato sempre ricchissimo di acqua, fino a qualche anno fa. Questo fattore ha fortemente incoraggiato la produzione di energia idroelettrica fino agli anni Cinquanta del Novecento, quando si realizzò il massimo sfruttamento delle acque e furono costruite grandi centrali. Purtroppo la tragedia del Vajont ha minato il prestigio di queste strutture. Dopo quel disastro in Italia si è continuato a costruire centrali idroelettriche, ma molto più piccole. Così, secondo i dati raccolti da Sorgenia 1, l’idroelettrico rappresenta ancora la prima fonte di energia rinnovabile in Italia e produce il 41% dell’energia verde complessiva necessaria al paese. Questo tipo di energia è già ampiamente sfruttato, soprattutto se si pensa che la sua potenza è aumentata del 10% negli ultimi dieci anni e il numero delle installazioni è salito al 78%. Nel 2021 Terna ha registrato in Italia 4.652 impianti idroelettrici. Con un aumento del 3%, nel 2022 ne sono stati registrati 4.790. A dicembre 2023 Terna ha confermato un incremento della produzione idroelettrica rinnovabile (+40,2%). Nel 2023 il peso della produzione idroelettrica rinnovabile è Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. I dati cui si fa riferimento sono reperibili su sorgenia.it alla voce «energia idroelettrica».
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
risultato in aumento, mentre il contributo delle restanti fonti è in generale calato rispetto al 2022 2. Tuttavia, i problemi non mancano. Innanzitutto, gli impianti idroelettrici neces sitano di costante manutenzione e continui investimenti: il mancato ammoderna mento delle strutture e ancor più il minore potenziale idroelettrico, cioè il calo drastico dell’acqua disponibile in alta quota, possono metterne a dura prova il funzionamento. Pesa poi la mancata uniformità nella distribuzione territoriale, do vuta però al fatto che, per far funzionare gli impianti, servono le montagne. Primo in classifica per numero di centrali risulta essere quindi il Piemonte (1.050 impianti) seguito da TrentinoAldo Adige (885 impianti) e Lombardia (725 impianti). Secondo i dati forniti da Terna, nel Nord Italia il numero di impianti idroelettrici supera quo ta 3 mila. Per quanto riguarda il Centro e il Meridione, invece, si registrano rispetti vamente 555 e 327 impianti 3. Sempre secondo Terna, nei primi due mesi del 2023 la generazione di elettricità dall’acqua è segnata con un 51% e il solo mese di febbraio segnala 60%. Il rischio è che, per produrre l’energia mancante, si compen si con le fonti fossili, causa primaria dell’inquinamento atmosferico e della riduzio ne del vapore acqueo nell’atmosfera. Il classico cane che si morde la coda. 4. Proviamo dunque a seguire l’acqua italiana ma non nel suo verso naturale, cioè verso il mare. Risaliamo la corrente e arriviamo sulle cime delle Alpi, perché è qui che dobbiamo rivolgere lo sguardo. Saliamo controcorrente i fiumi che nascono dai ghiacciai e andiamo a vedere cosa vi sta accadendo. La vita sulle Alpi è iniziata quando è finita l’ultima glaciazione, circa 15 mila anni fa. In quel periodo preistorico i ghiacciai erano moltissimi e ricoprivano una vasta parte del territorio alpino (carta a colori 1). L’era quaternaria inizia circa due milioni di anni fa e arriva fino ai nostri giorni. Si divide in due parti, una definibile come preistorica e la seconda storica. L’ingresso nella storia è definito dall’invenzione della scrittura, circa 5 mila anni fa. Da quel momento in poi abbiamo fonti scritte. L’ultima glaciazione è terminata da circa 10 mila anni. Quindi i ghiacci hanno cominciato la fase di contrazione 10 mila anni fa. Per questo motivo è ragionevole pensare che comunque, anche senza effetto serra, si sarebbero sciolti, ma sicuramente molto più lentamente di quanto sta accadendo in questi ultimi anni. Ed è questo il nocciolo del problema, quello che dobbiamo tenere presente e per molti motivi. Il primo è legato all’adattamento delle specie, compresi noi esseri umani. Ma torniamo prima ai ghiacciai di casa nostra, che a causa dell’effetto serra si stanno sciogliendo troppo velocemente. Fino a qualche anno fa, la neve che cadeva in inverno creava uno strato protettivo sul ghiacciaio ed era questo strato nivale a restituire lentamente, durante l’estate, l’acqua a valle attraverso i fiumi, così andando a nutrire le falde acquifere. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
2. I dati cui si fa riferimento sono tratti da: «Rapporto mensile sul sistema elettrico – dicembre 2023», Terna. 3. «Dati statistici sull’energia elettrica in Italia – 2022», Terna.
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SEGUENDO L’ACQUA IN SALITA
Oggi questo strato prezioso è sempre più esiguo nei ghiacciai. Inoltre sulla loro superficie si deposita una polvere nera, visibile ad occhio nudo, risultato dell’inquinamento atmosferico da polveri sottili, muschi e parassiti che aumentano la temperatura sulla crosta del ghiaccio, velocizzandone ulteriormente la fusione. Questo scioglimento così rapido apre scenari di difficile soluzione in tempi brevi, ma anche nel lungo periodo. Secondo lo studio condotto dalla Fondazione Cima (Centro internazionale di monitoraggio ambientale), a dicembre 2023 il deficit di neve a livello nazionale era pari al -44%, mentre a gennaio 2024 il valore era in lieve ripresa con un -39%. I valori sono rassicuranti rispetto allo scorso anno per quanto riguarda le Alpi, dalla Liguria al Friuli Venezia Giulia, dove il deficit attuale è del -26% rispetto alla media storica: basti pensare che nel 2023, in questo stesso periodo, il deficit alpino era pari al -67%. Eppure, il problema della fornitura d’acqua dolce al bacino del Po, che ospita circa la metà delle risorse idriche italiane, persiste proprio a causa di questo deficit di neve (carta a colori 2). Per avere un quadro ancora più netto diciamo che, all’inizio del mese di marzo, normalmente in Italia possiamo contare su 10-13 miliardi di metri cubi di acqua. Nel 2023 se ne contavano meno di 4 miliardi. Nel 2022 ne avevamo 6 miliardi. Questo conteggio porta alla conclusione che ad oggi c’è circa un terzo della neve rispetto agli anni immediatamente precedenti. Questo deficit non riguarda solo le Alpi ma anche tutto l’Appennino, infatti anche il fiume Tevere ha subìto un grave calo di acqua dovuto alla mancanza di neve. Ma i fiumi più sofferenti al riguardo sono il Po con un deficit 4 del -47% e il fiume Adige che, nel 2023, aveva toccato un deficit di acqua del -73%. 5. L’Adige è il secondo fiume più lungo d’Italia dopo il Po e il terzo per portata, almeno fino ad ora. Nelle ultime estati calde che hanno investito l’Italia, l’Adige, come anche altri fiumi di origine alpina, in primavera e in estate ha ricevuto acqua di fusione non dalle nevi stagionali ma dalla zona di accumulo dei ghiacciai, vale a dire dal suo nocciolo centrale finito il quale il ghiacciaio si esaurirà. Risaliamo ancora le acque dell’Adige, i ghiacciai che lo nutrono sono molti e comprendono quasi tutti quelli dell’Alto Adige e alcuni del Trentino. Le quote del fronte del ghiacciaio vanno da 2.260 a 2.940 metri. La siccità non è una novità per questo fiume, ma piuttosto un fenomeno endemico. Infatti il vero problema sono le temperature molto elevate di questi ultimi anni, che si vanno a sommare al clima secco caratteristico di questa zona d’Italia. La prima valle che il fiume percorre dopo le sue fonti è la Val Venosta, siccitosa per natura (carta a colori 3). L’Adige nasce da una sorgente vicina al lago artificiale Resia a quota 1.550 metri s.l.m. e ha un bacino imbrifero di circa 12.100 kmq, un percorso di 409 km. Sbocca nel Mare Adriatico a Porto Fossone, tra le foci dei fiumi Po e Brenta. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. «Lo stato delle risorse idriche in Piemonte a metà inverno 2023-2024», Arpa, 5/2/2024.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Il bacino del fiume Adige comprende la Provincia autonoma di Bolzano e la Provincia autonoma di Trento, entrando nella Regione Veneto riguarda le province di Verona, Vicenza, Padova, Rovigo e Venezia. Il 62% del bacino si sviluppa sul territorio della Provincia di Bolzano, il 29% sul territorio di Trento e il restante 9% nella Regione Veneto (carta a colori 4). Lungo tutto il suo percorso, il fiume Adige assume un aspetto vario. Nella prima parte, cioè dalle sorgenti fino alla città di Merano ha le caratteristiche di un torrente montano. Nella parte iniziale attraversa la Val Venosta, una delle quattro principali valli del Trentino-Alto Adige (le altre sono la Valle dell’Adige, la Valle dell’Isarco e la Val Pusteria). La Val Venosta è zona di confine con la Svizzera e l’Austria. In Svizzera, precisamente nel Cantone dei Grigioni, sconfina una piccola parte del bacino idrico dell’Adige. Nel 1950 in questa prima parte del corso dell’Adige è stata costruita una diga a causa della quale fu necessario ricostruire il paese di Curon Venosta. Il vecchio paese di Curon fu sommerso dalle acque del lago artificiale. Da qui il caratteristico paesaggio del campanile che emerge dal lago, ormai famoso nel mondo. Il lago sommerse 677 ettari di territorio che oggi, a causa di lavori in corso per il restauro della strada statale che raggiunge proprio il paese nuovo di Curon, sono riemersi. Il lago è stato prosciugato dall’acqua per consentire gli scavi fino a tutto maggio 2023, quando i lavori sono stati sospesi per poi riprendere quest’anno fino al 2025. L’area della Val Venosta è la meno piovosa di tutto l’arco alpino. Ha un clima arido-stepposo e di conseguenza una vegetazione unica fatta di roverelle, lecci, prugnoli selvatici, rose canine e olivelli spinosi. Il sole è una costante per circa trecento giorni all’anno. La notte le temperature scendono di molti gradi causando una forte escursione termica. Questo crea un microclima che favorisce l’agricoltura. Oggi la Val Venosta si dedica infatti alla monocoltura delle mele, ma precedentemente vi si produceva anche grano. L’escursione termica blocca la nascita di molti insetti e parassiti favorendo la coltura delle mele, ma purtroppo l’utilizzo massiccio di pesticidi è dominante per il raggiungimento di una produzione intensiva. È stato pubblicato di recente un articolo scientifico sull’utilizzo di pesticidi in Val Venosta. Sono stati effettuati due studi da università distinte, la Rptu di Kaiserslautern, università pubblica tedesca, e la Boku di Vienna. I risultati sono stati pubblicati su Communications Earth & Environment, rivista scientifica di livello mondiale. Sono stati analizzati campioni di terreno tra i 300 e i 2.300 metri di quota e sono stati rintracciati ben 27 tipi di pesticidi, tra cui diversi ormai vietati in Germania. Ma già nel 2017 l’Istituto per l’ambiente di Monaco di Baviera (Umweltinstitut) si è guadagnato una denuncia penale da parte dell’assessore all’Agricoltura dell’Alto Adige Arnold Schuler, per aver affisso in una stazione della metropolitana della città un manifesto satirico – «Pesticide Tyrol» – che denunciava l’uso di pesticidi nei meleti della Val Venosta. Grazie al processo si sono scoperti i registri sull’uso dei pesticidi da parte di 681 aziende agricole (su un totale di 1.375). È obbligatorio, all’interno dei paesi dell’Unione Europea, denunciare e tenere i registri dei pesticidi che si utilizzano, ma questi spesso non vengono controllati e tantomeno regolarmente Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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SEGUENDO L’ACQUA IN SALITA
pubblicati, lasciando margine per azioni illegali. Nei meleti della Val Venosta sono stati utilizzati fino a nove agenti chimici insieme. La coltura di mele è diventata talmente pervasiva che anche a un occhio inesperto non può sfuggire l’effetto sgradevole di una valle che sembra «infilzata» da enormi stecchini, persino ai bordi delle strade o dietro ai benzinai. Continuando a scendere con il fiume Adige, dopo la Val Venosta si entra in Val d’Adige fino a Trento e poi in Val Lagarina fino a Verona. Da quest’ultima valle il fiume diventa di pianura fino alla località di Albaredo d’Adige che si trova a sud-est, poco fuori Verona. Da questo punto in poi il fiume diventa pensile: il suo letto tende ad alzarsi di livello e quindi, lentamente, a superare gli argini. Questo tipo di fiumi necessita di un lavoro costante di pulizia del suo letto per evitare che i detriti depositati sul fondo velocizzino tale fenomeno. Gli affluenti principali dell’Adige sono l’Isarco, il Noce e l’Avisio. I laghi del bacino idrico sono oltre 546. La maggior parte di questi laghi è di piccole dimensioni e di origine glaciale. Il lago più grande è quello di Caldaro. Altri rilevanti sono il lago Nero, il Valdurna, l’Anterselva, Ledro e Dobbiaco, il lago di Braies, i laghi di Lagorai, il lago delle Piazze, il lago di Tovel, il lago di Terlano e il lago di Carezza. Nella parte alta del fiume l’utilizzo delle acque è prevalentemente per pascolo e bosco. Nella Valle d’Adige e in quella del Noce, soprattutto nella parte terminale, le acque sono utilizzate per la coltivazione di alberi da frutto e vigneti. Nella Regione Veneto inizia la coltivazione intensiva dei cereali e di altri prodotti agricoli. L’irrigazione è gestita dai consorzi di bonifica. L’area antropizzata irreversibile (zone abitate) vale circa il 3% del bacino idrico. Le aree di cava occupano lo 0,1%. Le aree legate all’agricoltura considerate ad antropizzazione reversibile sono l’8% (mais, prati, frutteti e viticoltura). I boschi ricoprono il 40,4% del bacino e sono gestiti dall’uomo, i pascoli il 3,1% e i prati da pascolo il 7,2%. Il 23,6% del bacino è occupato da vegetazione pioniera che ricopre le aree dove si sono creati suoli nuovi dovuti a eventi franosi o a dissesti idrogeologici. Le rocce occupano quasi il 10% dell’area del bacino idrico dell’Adige. La copertura nevosa, in rapida regressione, copre il 5,6% della superficie. Cadendo poca neve come in questi ultimi due anni scatta un maggior fabbisogno di acqua per l’irrigazione, a partire già dalla parte alta del fiume, appunto in Val Venosta. Quando la neve scarseggia bisogna sperare in una primavera e in un’estate piovose per compensare. Come ricorda Mario Togni, amministratore delegato di Alperia, società energetica della Provincia autonoma di Bolzano: «In un anno di nevosità normale, non ci preoccupiamo delle piogge almeno fino ai primi di agosto. La neve di adesso, invece, si scioglie a inizio primavera quindi devi sperare che piova in estate». Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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6. L’anno 2022 è stato uno dei più caldi da quando, verso metà Ottocento, sono iniziate le rilevazioni meteorologiche. Nella città di Bolzano è stata misurata una temperatura media annua di 14,3 gradi Celsius, che supera di 0,2 gradi il valore precedente più alto, risalente al 2018.
Fonte: Atlante Fisico Economico D’Italia di Giotto Dainelli, copyright 1939 by Consociazione turistica italiana Milano, novembre 1939
«Per la costruzione della carta servì di base l’opera fondamentale di A. Penck e E. Brükner “Die Alpen im Eiszeitalter” (Leipzig 1909), con le varie cartine in essa contenute. Di notevole ausilio riuscirono anche le seguenti opere generali: A. Heim, “Geologie der Schweiz”, 1919-21; P. Beck, “Eine Karte der Letzten Vergletscherung der Schweizer Alpen” (Bern 1926); R. v. Klebelsberg, “Geologie von Tirol” (Berlin 1935); nonchè le copiose notizie contenute in ”Die Literatur zur alpinen Eiszeitforschung” (1908-1935), compilata da F. Machatschek (Zeitschr. f. Gletscherkunde, XXIII-XXIV). Venne poi tenuto conto di un gran numero di pubblicazioni speciali, regionali e locali. Vennero tenute presenti numerose carte geologiche e le carte topografiche a grande scala delle aree coperte dai ghiacciai quaternari, dovendosi condurre ex-novo i contorni e le isoipse della maggior parte di tali ghiacciai.» (B. CASTIGLIONI)
1 - GHIACCIAI NELL’ERA QUATERNARIA Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Neve
t
A C C
Condotti endo-subglaciali
H I
2024
Morena basale
tt ov ic en Feb Mar Apr ag Giu ug go 1-O 1-N 1-D 1-G 1- 1-M 1- 1-L 1-A 1- 1-
2023
I O
Till supraglaciale (Morene derivate dell’erosione e dal trascinamento da parte del ghiaccio)
1
1-S
0
2
3
et
Tunnel subglaciali
1-O
tt
2024
ov Dic en -Feb Mar -Apr Mag -Giu -Lug Ago 1 1 1 1 1-N 1- 1-G 111-
2023
Torrente proglaciale
Morena terminale FRONTE glaciale
Volume totale di acqua nevosa FIUME ADIGE deficit 35% Primo quartile Terzo quartile media 2011-22
Cavità subglaciali
Crepacci
Torrenti epiglaciali (Corso d’acqua che si forma sul ghiacciaio alimentato dalla fusione)
AREA DI ABLAZIONE (zona di fusione)
2 - IL GHIACCIAIO E IL DEFICIT NIVALE
I fattori principali che concorrono a determinare l’accumulo di neve sono due: temperatura e precipitazioni. Nel mese di novembre 2023 sulle Alpi si sono registrate temperature più basse rispetto agli ultimi due anni mentre sulle Alpi sud-occidentali e negli Appennini le temperature sono state più alte. Questo ha causato il deficit di Swe, aggravato dalla scarsità di precipitazioni.
e 1-S
0
5
10
15
G
Zona satura d’acqua (acqua “pensile”)
Linea della neve
Volume totale di acqua nevosa ITALIA deficit 64% Primo quartile Terzo quartile media 2011-22
Scorrimento d’acqua di fusione
Passaggio lento dell’acqua (percolazione)
Swe, 109 m3 Snow Water Equivalent
Firn (neve delle passate stagioni cristallizzata in una struttura più densa)
AREA DI ACCUMULO (limite delle nevi persistenti)
Swe, 109 m3 Snow Water Equivalent
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UNGO IL FIUME ADIGE AUSTRIA
AUSTRIA
Va
Sorgente fiume Adige
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SVIZZERA
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Curon Lago di Resia ge F. Adi
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Bressanone
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I F.
l V e n o s t a Provincia Autonoma di Bolzano - Alto Adige
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Provincia Autonoma del Trentino
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Nago-Torbole
F. Adige
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TRENTO
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Rovereto Mori
VENETO
gana
Ripartizione bacino idrico del fiume Adige Copertura nevosa 5,6%
Lago di Garda
I T A L I A Verona F. Adige
Rocce 10% Vegetazione pioniera 22,6%
Area con antropizzazione irreversibile 3% Aree di cava 0,1% Aree con antropizzazione reversibile 8%
Boschi 40,4%
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Prati pascoli 7,2% LOMBARDIA
EMILIA ROMAGNA
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Mare Adriatico
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4 - IL BACINO IDRICO DEL FIUME ADIGE
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Provincia Autonoma di Bolzano - Alto Adige
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Fonte: Provincia autonoma di Bolzano - Alto Adige, agenzia provinciale per l’ambiente e la tutela del clima
Porto Fossone
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’inizio delle misurazioni è avvenuto nel 1986 e il 2022 è stato l’anno più soleggiato rilevato. Le precipitazioni nel Nord e nell’Est dell’Alto Adige sono state vicino alla media mentre nell’Ovest e nel Sud ha piovuto circa il 30% in meno rispetto al solito. Per fare un esempio, a Bolzano in media in inverno si registrano 86 litri di acqua per metro quadrato, nel 2022 la media è scesa a 50. A Silandro, in Val Venosta, sono caduti 27 litri di acqua per metro quadrato contro una media di 64. La situazione è migliore solo a Bressanone con 67 litri contro una media di 71. Comunque sotto la media. In Provincia di Trento, nei bacini di raccolta, c’erano nel 2022 125 milioni di litri di acqua rispetto ai 410 milioni della quota definita normale. Nel marzo 2022 la portata dell’Adige misurata alla stazione di rilevamento Ponte Adige era del 37% sotto la media. Per tutto quanto sopra descritto, il 22 marzo 2023 il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher, ha firmato un’ordinanza con la quale faceva appello al risparmio idrico. Chiedeva ai coltivatori di effettuare l’irrigazione antibrina solo in caso di necessità. L’ordinanza proibiva qualsiasi tipo di innevamento tecnico. Un fatto epocale. Solo il preludio di future liti con la Regione Veneto a causa del probabile razionamento estivo dell’acqua in Trentino-Alto Adige. Nel dicembre 2022 l’Agenzia provinciale per la protezione dell’ambiente (Appa) ha pubblicato il rapporto «I cambiamenti climatici in Trentino», con una previsione di costante aumento delle temperature per la città di Trento rispetto alla fase preindustriale. Tale aumento corrisponde a circa 2° Celsius. Questa previsione è maggiore rispetto all’aumento medio globale, che al momento si attesta a 1,2° Celsius. Anche altre località alpine rientrano in questo quadro predittivo. È evidente che l’arco alpino rappresenta un vero hotspot del cambiamento climatico. Per quanto riguarda le precipitazioni, il report di previsione mette in evidenza un calo del 30% delle piogge annuali nel periodo 2035-65. Cambiamenti così repentini sono traumatici sia per l’ambiente sia per la salute umana. Ci sarà un aumento dei fenomeni catastrofici naturali, anticipati dalla tempesta Vaia e dalla frana sulla Marmolada nell’estate 2022. D’altronde, il carattere torrentizio dell’Adige e alcuni fenomeni di straripamento sono eventi che risalgono anche molto indietro nel passato. Questo fiume, già citato da Virgilio, Strabone e Plinio, era noto in età romana con il nome di Athesis cioè senza tesi, per la sua caratteristica di non avere un regolare corso. E nei secoli è stato protagonista di devastanti alluvioni. Ad esempio, quelle catastrofiche del VI secolo e poi, in età moderna, del 1882, del 1966 e del 1981. La piena del 1882 provocò la rottura degli argini a Bolzano in nove punti, inondò San Michele all’Adige e la zona Nord della città di Trento. L’ondata di piena causò anche un’alluvione a Verona e nel Polesine. Nel 1959 fu costruito un tunnel diversivo per gli eventi di piena, che dalla località di Mori può scaricare fino a 500 m3/s di acque verso il lago di Garda, precisamente presso la località di Nago-Torbole, poi anche nel fiume Po. Questo tunnel è stato utilizzato dodici volte tra il 1960 e il 2023. Per l’uso di questa infrastruttura Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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SEGUENDO L’ACQUA IN SALITA
è stato e sarà sempre necessario un coordinamento con il livello delle acque del lago di Garda e del fiume Mincio. Nel 1966 fu la città di Trento a essere invasa dall’acqua del fiume Adige. Fu la più grande alluvione subita dalla città. Al seguito di quella catastrofe naturale gli argini furono alzati di un metro. Eppure nel luglio 1981 le muraglie cedettero nelle vicinanze di Salorno. Anche le campagne limitrofe furono inondate. Tra il 26 ottobre e il 5 novembre 2023 un uragano con violente piogge e schianto di alberi massicci si è abbattuto su alcune zone del Trentino-Alto Adige, del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. 14 milioni di alberi sono andati distrutti. A questo punto si possono fare diverse considerazioni e la più semplice di tutte è quella di dare la colpa ai «mitici» cambiamenti climatici che nella storia, è chiaro, ci sono stati sempre. Scegliere questa strada vuol dire scaricare completamente le responsabilità. Chiudiamo la testa pensando a un concetto troppo grande per noi: è una scorciatoia per non prendere decisioni. Noi invece possiamo intervenire cercando, per esempio, di raccogliere l’acqua che ora viene giù sotto forma di tempesta, creare bacini di raccolta non solo per gli sport invernali ma per fare delle scorte per l’estate. Per rendere più forti i nostri boschi bisognerà piantare alberi che possano fare più ombra, siano più resistenti alle malattie: ci sono alberi anti-inquinamento che oggi vengono usati proprio vicino alle grandi vie di scorrimento. Potremmo intervenire sulla rettificazione dei fiumi fatta nell’Ottocento, perché oggi questi fiumi così stretti e veloci non vanno più bene. Se consumassimo meno mele forse potremmo rivedere più farfalle in Trentino-Alto Adige. Gli esperti locali hanno analizzato il terreno per capire come mai non se ne vedessero più sui fiori. L’Italia è forse il paese più bello del pianeta e la sua bellezza è un antidoto al caos del mondo. Lo stile italiano significa cura della bellezza. Se lo perdiamo avremo perso la nostra caratteristica migliore.
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’ITALIA RIARMA LENTAMENTE
DOTTORI Anche a Roma cresce la consapevolezza del mutato spirito dei tempi. Secondo il ministro Crosetto, il modello di Difesa del nostro paese deve cambiare. Servono Forze armate funzionali alla protezione del territorio e degli interessi nazionali all’estero. di Germano
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1. I TUTTE LE AMMINISTRAZIONI STATALI italiane, la Difesa è quella che sembra avere la percezione più chiara del cambiamento in atto in questa fase storica. Per quanto il personale della Farnesina segua con grande attenzione quanto capita nel mondo, i militari hanno infatti colto per primi alcuni tratti essenziali del mutamento in corso. Già all’epoca in cui Enzo Vecciarelli si trovava al vertice dello Stato maggiore della Difesa, avevano informato il parlamento di alcune caratteristiche fondamentali dei tempi nuovi: in primo luogo, non sempre avremmo più avuto gli americani al nostro fianco in tutte le circostanze in cui gli interessi nazionali italiani fossero stati a rischio. Proprio per questo sarebbe stato necessario equipaggiarsi in anticipo, con l’obiettivo di consegnare alla nazione uno strumento militare tendenzialmente in grado di affrontare da solo o con qualche alleato regionale ogni genere di crisi al di sotto dello scenario della guerra mondiale tra superpotenze, ovvero quello descritto dall’articolo 5 del Patto Atlantico relativo alla mutua difesa collettiva 1. Da allora, non hanno cessato di susseguirsi i Documenti programmatici pluriennali della Difesa (Dpp), che prospettano scenari di rischio sempre più complessi nel contesto del cosiddetto Mediterraneo allargato, in cui l’Italia non solo ritiene si collochino i suoi più importanti interessi nazionali ma dove vorrebbe anche assumere un ruolo di più elevato profilo. È in quei testi, inoltre, che figura la lista aggiornata annualmente delle acquisizioni di materiali d’armamento in cui viene dettagliata la spesa d’investimento dei prossimi anni. Al suo interno, sono presenti tutti i progetti da finanziare, che corrispondono ai programmi «attivi» e a quelli di «previsto avvio», con tanto di cronoprogramma e costi previsti. Certo, i soldi sono Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Così si era espresso proprio il generale Enzo Vecciarelli davanti alle commissioni Difesa di Camera e Senato il 28 ottobre 2021, alla vigilia del suo avvicendamento alla testa delle Forze armate.
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L’ITALIA RIARMA LENTAMENTE
pochi e basso è ancora il consenso nei confronti dell’incremento delle spese militari italiane. Il traguardo di un bilancio della funzione Difesa al 2% del prodotto interno lordo è conseguentemente rimasto lontano, malgrado gli impegni contratti nell’ambito della Nato, e nessuno ormai pensa sia realistico ipotizzarne il raggiungimento a medio termine. Se non accadranno fatti al momento imprevedibili, saremo sotto questo profilo inadempienti anche dopo il 2028, per espressa ammissione dei vertici politici della Difesa, che peraltro hanno evidenziato come l’Italia stia facendo la propria parte in ambito atlantico anche attraverso misure di tipo diverso, come lo schieramento di uomini, mezzi terrestri, navali e aerei in alcuni fra i teatri di crisi più caldi del pianeta, anche a ridosso della Federazione Russa. Mostreremo presto bandiera con la nostra portaerei (leggera) Cavour anche nell’Indo-Pacifico, seguendo l’esempio dato recentemente prima dagli inglesi e poi dai francesi, tra l’altro consolidando le nostre partnership industriali in campo militare, che ormai coinvolgono al più alto livello, con il caccia da superiorità aerea di sesta generazione, anche il Giappone. 2. I programmi di acquisizione armamenti sono oggetto di decreti ministeriali che vengono periodicamente sottoposti alle competenti commissioni di Camera e Senato in vista dell’acquisizione del loro parere: un passaggio quasi sempre puramente formale, ma che non è privo d’importanza. Il parlamento, che non si esprime mai sul Dpp malgrado lo riceva sempre e talvolta lo discuta, viene infatti associato in questo modo alla gestione delle scelte di spesa in campo militare. Da anni si osserva un flusso significativo di commesse che concerne il rinnovo e l’acquisizione di capacità per le quali noi italiani siamo stati a lungo dipendenti dai nostri alleati. E la tendenza è all’accelerazione: soltanto nei primi due mesi del 2024 sono stati esaminati e approvati dieci nuovi programmi. Quanto è avvenuto in Ucraina e sta accadendo a Gaza sembra essere fonte d’ispirazione per la pianificazione militare. Abbiamo infatti deciso di investire nella ricostruzione del parco corazzato dell’Esercito, aggiornando i carri Ariete C1 e comprando i Leopard 2A8 It 2, mentre si provvede a rimpolpare anche la linea dei blindati, in particolare con il programma per i 570 nuovi mezzi che sostituiranno i Dardo e gli M113. Acquisteremo gli Himars nel quadro del rafforzamento dell’artiglieria terrestre 3. Stiamo accrescendo le nostre capacità anche nel campo delle azioni cosiddette «sottili», quelle che interessano i nostri corpi d’élite e in particolare, ma non solo, gli operatori del Comsubin, il Comando degli incursori subacCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. Gli Ariete C1 aggiornati saranno 125. Il programma, iniziato lo scorso anno, si concluderà nel 2033 al costo di 980 milioni di euro. I Leopard 2A8 It di cui è autorizzato l’acquisto saranno al massimo 132, ai quali si aggiungeranno 140 piattaforme specializzate derivate dal mezzo principale, a un costo stimato di 8,2 miliardi di euro, di cui 4 già stanziati. La commessa si estenderà su quattordici esercizi finanziari. L’accordo tra Leonardo e Knds per la loro realizzazione è stato firmato lo scorso 13 dicembre a Roma. I carri saranno prodotti in Italia a partire dal 2027. 3. Acquisteremo di qui al 2033 per l’Esercito un gruppo di 21 lanciatori e relativo munizionamento guidato al costo di 960 milioni di euro. I vettori potranno colpire bersagli situati nel raggio di 150 chilometri, una distanza che si conta peraltro di raddoppiare cammin facendo.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’ITALIA È NELLA TOP 10 DELLE POTENZE MILITARI Stati Uniti Russia Cina India Corea del Sud Regno Unito Giappone Turchia Pakistan Italia Francia Brasile Indonesia Iran Egitto
POWER INDEX 0,0699 0,0702 0,0706 0,1023 0,1416 0,1443 0,1601 0,1697 0,1711 0,1863 0,1878 0,1944 0,2251 0,2269 0,2283
EFFETTIVI 117,5 139,5 141 141,7 135,5 121 121 133,7 137,2 114,2 117,3 133,8 130,3 128,8 133,2
FORZA AEREA 144 142,8 141,5 138,4 136,4 135,6 135,6 118 135,1 130,5 120 111,3 121,9 122,9 116,6
FORZA TERRESTRE 138,6 143,4 140,4 135 138,2 115,4 115,4 133 136,2 97,8 83,4 116,6 107 135,8 138,8
FORZA NAVALE 119,7 126,1 142,6 108,2 119,6 116,2 116,2 87,6 100,9 102,6 116,6 98,8 91,4 82,3 103,7
FINANZIAMENTO 114,5 119 118 118,5 116,8 114,8 114,8 112,5 100,3 110,5 110,3 112,8 113 123,5 106,3
Fonte: Global Firepower (Gpf), Power Index 2024. Gpf è un centro studi specializzato nella valutazione della potenza militare nazionale. Il Power Index è un indice sintetico calcolato annualmente tenendo conto di oltre 60 indicatori, di cui si riportano in tabella le macrocategorie. Più l’indice si avvicina a 0,0000 più lo Stato è militarmente forte. I sotto-indici indicano il peso ponderato di ciascun comparto sul complesso militare del paese.
quei 4. Continua a ricevere grandi attenzioni la Marina, che è prossima a registrare l’ingresso in squadra del Trieste, la più grande realizzazione della cantieristica militare italiana dalla fine della seconda guerra mondiale, mentre sta espandendo tanto la linea delle Fremm, le fregate multiruolo che ormai rappresentano la colonna portante delle nostre missioni sul mare, quanto il numero dei pattugliatori d’altura e dei sottomarini U-212 di ultima generazione. Cerchiamo di coprire uno spettro sempre più ampio di possibili circostanze operative: la nostra non è più la flotta della scorta al traffico mercantile, malgrado la nuova missione Aspides in atto nel Mar Rosso, e neanche quella delegata alla protezione ancillare delle grandi squadre navali guidate dalle portaerei americane. Si sta piuttosto connotando come uno strumento capace di operare in modo indipendente sopra, sul e sotto il livello del mare, difendendo asset sensibili come i cavi e i tubi sottomarini, ma anche proiettando forza verso terra ovunque occorra. Non a caso, l’ammiraglia nei prossimi due decenni sarà una nave a spiccata connotazione anfibia. Anche l’Aeronautica si sta facendo notare per il livello tecnologico e di potenzialità operative raggiunto: è in pieno sviluppo l’acquisizione degli F-35A e B, mentre stanno per arrivare anche velivoli per le operazioni speciali, oltre ai Gulfstream 550 Caew da guerra elettronica. Mancano fondi nell’immediato. Certamente non ci sono i cento miliardi di cui si parla in Germania, ma si supplisce con un espediente, che ovviamente rappresenta una soluzione di compromesso: i programmi pluriennali vengono spesso articolati in più fasi, finanziandone subito la Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. Si pensi in particolare alle due nuove linee di Trasportatori speciali subacquei, o TT.S.S., la cui acquisizione è stata autorizzata nel 2019 e dovrebbe concludersi nel 2027. Appare rilevante anche la più recente commessa per l’acquisto di 269 mezzi tattici Flyer, pensati soprattutto per la Folgore, ma utilizzabili da tutte le unità delle nostre forze speciali.
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L’ITALIA RIARMA LENTAMENTE
prima e differendo a un imprecisato momento futuro il reperimento delle risorse necessarie alla loro conclusione, in modo da generare una sequenza di fatti compiuti e interessi, anche industriali, che a tempo debito potranno esser fatti valere per completare ogni processo di acquisizione. Talvolta si fa anche ricorso a obbligazioni esigibili nell’esercizio di bilancio successivo: non manca la creatività. Non più tardi di due anni fa, in un articolo pubblicato su questa rivista, si dava conto di tali linee di tendenza, che nel frattempo si sono consolidate sotto la spinta degli eventi e dei vincoli imposti dalle condizioni della finanza pubblica. Si va quindi avanti, anche se è impossibile immaginarsi risultati a breve termine: l’orizzonte temporale dei piani di acquisizione è infatti sempre di medio-lungo periodo. Alcuni programmi durano qualche anno, ma in diversi casi vengono spalmati ben oltre il decennio, al punto che per i sistemi che ne costituiscono l’oggetto non sono esclusi aggiornamenti in corso d’opera, per evitare che entrino in servizio già obsoleti. 3. Ma non è solo questione d’armamenti. I conflitti in cui si sta articolando la Guerra Grande stanno facendo giustizia di un’illusione in cui a lungo ci eravamo cullati dopo la fine della guerra fredda. Il combattimento contemporaneo consuma elevati quantitativi di munizioni e richiede quantità di effettivi incompatibili con i modelli di difesa di cui ci siamo dotati progressivamente dopo il crollo del Muro di Berlino. Nel corso di recenti audizioni svoltesi presso le competenti commissioni permanenti di Camera e Senato, sono stati forniti alcuni dati assai significativi: in una circostanza, esponenti dell’industria hanno reso noto come l’Esercito ucraino abbia consumato mediamente due milioni di proiettili d’artiglieria da 155 millimetri all’anno, a fronte di una capacità produttiva americana ed europea congiunta che nel 2022 era di poco superiore al mezzo milione 5. Il 1° febbraio scorso proprio il ministro Guido Crosetto ha inoltre ricordato come nel corso degli attacchi condotti dalle unità navali americane contro gli õûñø, yemeniti fosse già stata utilizzata l’intera produzione annuale dei missili da crociera Tomahawk 6. Esiste quindi, sul versante del munizionamento, un grosso divario tra quanto l’Occidente possiede in termini di stock e la realtà del flusso di proiettili e vettori richiesto dalla guerra moderna. E l’Italia non sta tanto meglio: proprio al ministro della Difesa è stata attribuita una frase relativa al basso numero di missili in dotazione alle nostre navi, circostanza che avrebbe concorso a spiegare la riluttanza del nostro paese ad accettare il proprio coinvolgimento nella missione anglo-americana Prosperity Guardian che incrocia nei pressi delle coste yemenite 7. Successivamente, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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5. Dati forniti il 29 novembre scorso alla commissione Difesa della Camera dall’ingegner Alessandro Ercolani, amministratore delegato di Rheinmetall Italia, durante un’audizione. 6. Si tratta di un passaggio dell’intervento in replica fatto dal ministro Crosetto nel corso della sua audizione presso le commissioni Esteri e Difesa dei due rami del parlamento lo scorso 1° febbraio. Della seduta esiste il video sul sito web della Camera dei deputati. 7. S. CANNETTIERI, L.GAMBARDELLA, «Crosetto allarmato: “La nostra Marina ha solo 63 missili”», Il Foglio, 3/1/2024. Secondo la fonte, il ministro avrebbe commentato l’azione con la quale il cacciatorpediniere americano Thomas Hudner aveva distrutto alcuni droni degli õûñø, impiegando un’ottantina di missili. Allo scoop è seguita una smentita di Crosetto. È peraltro assai significativo di per sé che l’Hudner disponga di 96 celle lanciamissili, contro le 16 delle nostre Fremm.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
però, l’affermazione è stata in qualche modo ritrattata e l’Italia ha accettato di prendere parte assieme a Francia e Grecia alla missione navale Aspides, assumendone tra l’altro il comando tattico in mare a bordo del cacciatorpediniere Duilio. Alla fine, è emerso come il vero problema fosse in realtà politico: l’Italia voleva prender parte a un’operazione che non contemplasse alcun aspetto offensivo, ma si limitasse a proteggere il traffico mercantile d’interesse europeo in transito nel Mar Rosso. Con un evidente sottotesto: evitare qualsiasi genere di provocazione, anche indiretta, nei confronti dell’Iran, ritenuto prossimo agli õûñø. A queste condizioni, anche le limitate dotazioni missilistiche in nostro possesso dovrebbero in effetti bastare. Come invece gli inglesi stiano interpretando la loro crociera dalle parti di Båb al-Mandab lo abbiamo visto su una delle fiancate del cacciatorpediniere britannico Diamond, che ha sfoggiato nel porto di Gibilterra le sagome di nove droni abbattuti 8. In realtà, anche la prima Fremm francese schierata nell’area, la Languedoc, si era fatta valere, ingaggiando con successo nel dicembre scorso diversi velivoli senza pilota lanciati dai miliziani yemeniti 9. La transizione da una mentalità in cui la forza è utilizzata come pedina diplomatica a una in cui viene effettivamente impiegata per conseguire degli obiettivi militari passa anche per investimenti più adeguati nell’acquisto di munizioni 10. 4. L’elemento umano costituisce una vulnerabilità ulteriore: in Ucraina e a Gaza si è avuta la conferma di un dato che era già emerso agli inizi del secolo in Iraq, quando Donald Rumsfeld pensò che bastassero poche decine di migliaia di soldati per abbattere il regime di Saddam Hussein e avviare la ricostruzione su basi nuove di quel paese. Scoprimmo allora come la war on the cheap, la guerra al risparmio, combattuta da dispositivi di dimensioni limitate, altamente digitalizzati, non fosse un’ipotesi realistica in presenza di un avversario insensibile alle proprie perdite o disposto a strumentalizzarle contro il nemico nel quadro di sofisticate strategie asimmetriche miranti a trasformare in debolezze i fattori di potenza dei più forti. A rimettere le cose a posto ci aveva pensato il generale Petraeus, con il suo manuale sulla counter-insurgency. Ma il dato che la guerra nell’Est Europa ha trasmesso e quella in corso nella Striscia ha confermato recentemente è molto più pesante, dal momento che non si riferisce alle esigenze successive alla fase più calda delle operazioni – quando si tratta di ripulire, stabilizzare e ricostruire – ma riguarda proprio il combattimento. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
8. A. WALTERS, «HMS Diamond displays kill markings after shooting down nine Houti drones in Red Sea», forces.net 12/2/2024. 9. F. WOLF, «Quali domande solleva l’attacco alla fregata Languedoc», meta-defense.fr, 11/12/2023, in cui si spiega che l’attacco alla nave francese è avvenuto il 9 dicembre scorso a opera di due droni, che sarebbero stati abbattuti da missili Aster 15 o forse intercettati dal cannone a tiro rapido da 76 millimetri prodotto dalla Oto-Melara o magari deviati da contromisure elettroniche. 10. Qualcosa comunque si sta muovendo. Il 15 febbraio 2024 l’Ansa ha dato notizia dell’approvazione, da parte dell’amministrazione Biden, della possibile vendita all’Italia di una partita di missili aria-aria a medio raggio del valore di 69 milioni di dollari e di un quantitativo di bombe di piccolo diametro con relativo equipaggiamento per un importo pari ad altri 150 milioni. «Pentagono, ok a possibile vendita missili e bombe a Italia», Ansa, 15/2/2024.
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L’ITALIA RIARMA LENTAMENTE
In presenza di conflitti prolungati tra apparati militari contrapposti di grandi dimensioni, le perdite possono essere elevate e occorre tener conto anche dell’impossibilità di trattenere al fronte per periodi indefiniti il personale alle armi. E così sono tornate di moda le discussioni sul modello di reclutamento da preferire, circostanza che ha restituito diritto di cittadinanza ai paladini del ritorno alla coscrizione obbligatoria, malgrado resti un passo politicamente molto impervio in ragione della sua impopolarità, come ha scoperto a sue spese anche il generale Zalužnyj, rimosso anche perché restio ad assecondare il desiderio di mobilitare mezzo milione di giovani manifestato dal suo presidente. Di fatto, si sta procedendo in altro modo: dilatando il numero dei militari volontari, opportunamente incentivati, istituendo riserve e strutturando sistemi di mobilitazione. Per alcuni Stati, che hanno eccezionali bisogni difensivi ma non hanno grosse popolazioni, il ricorso a meccanismi che consentano la rapida espansione degli effettivi si è rivelato indispensabile persino in presenza della leva, come in Israele. Anche in Italia, peraltro, si sono verificati due fatti importanti in questa direzione. Innanzitutto, nel 2022, sul finire della XVIII legislatura, le Camere hanno varato una legge che ha spostato in avanti di un congruo numero di anni, dal 2024 al 2033, il raggiungimento del modello a 150 mila effettivi immaginato nel 2012 dall’allora ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, con l’effetto di garantire alle Forze armate una maggior disponibilità immediata di uomini e donne. Nella stessa circostanza, era stata altresì dischiusa la porta a un aumento di 10 mila unità negli organici 11. Ciò malgrado, nel corso delle audizioni svoltesi negli ultimi mesi presso le competenti commissioni parlamentari di Camera e Senato, tutti i capi di Stato maggiore, da quello della Difesa a quelli delle tre Forze armate, abbiano dichiarato di considerare insufficienti i tetti attualmente previsti, chiedendo unanimemente di elevarli. In secondo luogo, più recentemente, ha ripreso quota il dibattito sulla creazione di una vera e propria riserva «ausiliaria» da alimentare con i militari volontari cessati senza demerito dal servizio, anche in attuazione della delega prevista dalla legge 119 del 2022. La prima proposta in questa direzione l’aveva fatta nella scorsa legislatura la Lega, primo firmatario l’allora onorevole Roberto Paolo Ferrari, in parte ripresa ora dall’attuale presidente della commissione Difesa della Camera, onorevole Antonino Minardo. Si attende a breve un’iniziativa in materia da parte del governo: se la futura riserva avrà le caratteristiche annunciate dal ministro Crosetto, oltre agli ex militari probabilmente includerà anche il personale delle forze dell’ordine 12. Andranno chiarite anche le ambizioni quantitative: è emersa in effetti una propensione significativa per uno strumento espandibile fino al limite dei 10 mila effettivi, ma nulla vieta di pensare che alla fine possano essere anche di più. Va inoltre chiarito come nell’ordinamento italiano la coscrizione non sia stata abolita, ma semplicemente «sospesa in tempo di pace» e ne sia prevista la riattivazione non soltanCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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11. Si tratta della legge 119 del 5 agosto 2022, esito di un iter assai complesso conclusosi proprio alla vigilia dello scioglimento delle Camere. 12. Cfr. «Crosetto: No al ritorno della leva obbligatoria, ma ragionare su periodi volontari e forze di riserva», Huffington Post, 11/12/2023.
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to in caso di guerra, ma altresì in costanza di gravi crisi internazionali. Una soluzione ulteriore potrebbe giungere dall’accelerazione della robotizzazione militare assistita dall’intelligenza artificiale: ma è una strada sulla quale, come è stato recentemente notato dal Besa Center, l’Occidente è riluttante a incamminarsi 13. 5. In ogni caso, si naviga avendo sulla linea dell’orizzonte degli obiettivi non immediatamente raggiungibili. La traduzione della pianificazione militare in autentiche capacità aggiuntive richiede infatti un lungo periodo di tempo, circostanza che sfugge alla gran parte dei non addetti ai lavori. Lo strumento che abbiamo è stato immaginato dieci-quindici anni fa, e oggi stiamo costruendo il percorso che definirà le Forze armate degli anni Trenta e Quaranta di questo secolo. Un certo impatto potrebbe averlo il cambio di narrazione al quale l’attuale ministro della Difesa vorrebbe legare il proprio mandato. In una recente intervista, Crosetto ha fatto chiaramente intendere come il tempo delle Forze armate specializzate nel mantenimento della pace sia terminato e sia ormai necessario disporre di uno strumento militare più adatto al combattimento, dal momento che la conflittualità sta aumentando anche in zone in cui il nostro paese ha importanti interessi nazionali da tutelare 14. In futuro, questo il senso, non potremo più, senza pagare un prezzo salato, rispondere negativamente agli amici che chiedono il sostegno anche armato del nostro paese, come facemmo con il capo del governo libico Fåyiz al-Sarråã alcuni anni fa, spianando la via di Tripoli ai consiglieri militari turchi. Specialmente nel momento in cui le linee marittime di approvvigionamento sono insidiate, si teme per la sicurezza delle condotte e dei cavi sottomarini e si ipotizza con il Piano Mattei di assumere un ruolo di più alto profilo in Africa non possiamo più permetterci di rimanere inerti. Ma non esistono soluzioni immediate. Cambiare le leggi richiederà del tempo, anche se forse non tantissimo. Per ottenere i materiali e i sistemi d’armamento che ci occorrono, ci vorranno invece dai cinque ai quindici anni. Cambiare la mentalità di un sistema e la cultura politico-strategica del nostro paese, infine, sarà un processo ancora più lungo, complesso e incerto, a meno che non si verifichi un grosso shock. Specialmente per noi italiani, tra i quali è già affiorata la tentazione di trasferire al più presto la delega a proteggerci esercitata dagli Stati Uniti, che non vogliono più assumersi questa responsabilità, a un’Europa nella quale sarà difficile trovare interlocutori più sensibili di noi alla salvaguardia dei nostri interessi nazionali. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
13. Cfr. K. GRIVAS, «The Coming Storm of Autonomous War Robots and the West’s Dangerous Phobias», Besa Center Perspective Papers, n. 2, 262, 8/2/2024. 14. In particolare, il ministro Crosetto ha chiarito come le attuali Forze armate siano state pensate in funzione dell’esigenza di partecipare al mantenimento della pace, in un periodo in cui non si riteneva necessario difendere il proprio territorio e gli interessi nazionali minacciati all’estero. Il mutamento di scenario ora imporrebbe di riconsiderare il modello. Cfr. F. OLIVO, «Guido Crosetto. “Il mondo è cambiato, l’Italia si prepari se c’è pericolo servono i riservisti”», La Stampa, 29/1/2024.
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di Francesco
ZAMPIERI
Per l’Italia, la crisi di Båb al-Mandab è potenzialmente mortale. Dobbiamo difendere la libera navigazione o perderemo ogni credibilità e ambizione a un ruolo geopolitico. Possiamo supportare la missione degli Usa anche senza bombardare gli õûñø.
«
A
L MEDITERRANEO POGGIANO I TRE CONTINENTI
Europa, Asia e Africa e, col Canale di Suez, questo mare forma la grande arteria che unisce l’occidente all’estremo oriente. Per l’Italia è quindi quistione d’esistenza godere su esso una certa supremazia che non deve essere intesa nell’assoluto senso della frase superba dei poeti della corte augustea, “mare nostrum”, bensì con quello più modesto di volere che il paese nostro possa liberamente sviluppare il suo commercio e le sue industrie, sicuro da qualsiasi assalto dal mare, sotto la protezione di un’Armata forte, numerosa, adatta ai bisogni di una guerra odierna» 1. Basterebbero le parole del capitano del Regio Esercito Alfredo Cangemi, datate 1899, per comprendere quanto la crisi che sta interessando lo Stretto di Båb al-Mandab e, di conseguenza, il Mar Rosso e il Canale di Suez sia potenzialmente mortale per l’Italia. Senza la libertà di navigazione attraverso il Mar Rosso, non solo non esiste il Mediterraneo medioceanico – per riprendere una fortunata metafora che da Cangemi, attraverso Giuseppe Fioravanzo e Adalberto Vallega, è giunta agli onori della cronaca grazie a questa rivista – ma non vi sono neppure il Mediterraneo allargato e, forse, anche il Mediterraneo stesso. Partiamo da quest’ultimo. Fernand Braudel, nel suo monumentale Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II (1949) notava: «Il Mediterraneo (e il Più Grande Mediterraneo che lo accompagna) è quale lo fanno gli uomini» 2. Questi ultimi non si sono mai arrestati ai limiti geografici del Mediterraneo ristretto ma hanno ampliato l’orizzonte fino al Mediterraneo dei geologi e dei biogeografi, sempre per utilizzare le categorie di Braudel: «Gli uni e gli altri lo disegnano come una Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. A. CANGEMI, L’Italia e le lotte avvenire sul mare, La Spezia 1899, Tipografia della Lega Navale di Francesco Zappa. 2. F. BRAUDEL, Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino 2002 (4ª edizione italiana), Einaudi, p. 168.
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lunga zona filiforme, semplice linea alla scala vasta della crosta terrestre: per i ge ologi, è quell’interminabile fuso tirato dall’Atlantico all’Oceano Indiano, in cui si associano fratture tettoniche e corrugamenti recenti; per i biogeografi, è lo stretto dominio nel senso dei paralleli, in cui si ritrovano ovunque certe piante e certi animali caratteristici, dalle Azzorre alla lontanissima valle del Kashmir» 3. Sono limiti coincidenti con quelli della geostrategia e della geopolitica italiane, almeno da quando esse sono diventate tali, cioè dalla metà del XIX secolo in poi, sia pure con alterne fortune 4. Nel 1936, nel suo Basi navali, l’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo – una delle più brillanti menti del panorama geostrategico nazionale della prima metà del XX secolo – scriveva che «il Mediterraneo latino strategicamente comprende il Mediterraneo propriamente detto, il Mar Nero e il Mar Rosso», ovvero quegli spazi marittimi che oggi identifichiamo come parte del Mediterraneo allargato. «In esso», notava, «l’Italia deve poter contare sul mantenimento delle sue comunicazioni mondiali attraverso Gibilterra e Suez; sulle sue comunicazioni col Mar Nero; su quelle colle sue Colonie» 5. Nel 1941, Fioravanzo avrebbe ribadito la centralità del Mar Rosso quale elemento di raccordo tra il Mediterraneo latino e l’Oceano Indiano, scrivendo: «Il Mediterraneo non finisce a Suez e nemmeno a Bab-el-Mandeb (sic), ma (…) strategicamente finisce a levante del Golfo Persico comprendendolo tutto nel suo spazio vitale» 6. Infine, con attenzione anche alla dimensione strategica e geopolitica, scriveva che il Mediterraneo «dal punto di vista fisico, è un bacino limitato dalle coste meridionali dell’Europa, dalle coste settentrionali dell’Africa, da quelle dell’Asia Minore, dalla Siria e dalla Palestina; come entità geografica, il Mediterraneo comincia nello Stretto di Gibilterra e finisce sulla linea Porto Said-Dardanelli, tracciata seguendo il litorale asiatico; come entità strategica finisce invece, dopo l’apertura del Canale di Suez, nel Golfo di Aden a sud e sulle coste del Caucaso a nord; come entità geopolitica, cioè come zona comprendente regioni e nazioni aventi indissolubili vincoli di storia, di civiltà, di aspirazioni e d’interessi economici, si estende fino al Golfo; come entità d’importanza mondiale rappresenta la più breve via di comunicazione tra l’Occidente e l’Oriente» 7. In sintesi, pensare che i destini del Mediterraneo siano disgiungibili da quelli del Mar Rosso, del Mare Arabico e dell’area del Golfo appariva folle già nella prima metà del XX secolo. Fortunatamente oggi non possediamo più colonie nel Mar Rosso, ma quello spazio marittimo, Suez e Båb al-Mandab non sono diventati meno importanti per l’Italia. Non si tratta semplicemente di salvaguardare i flussi Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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3. Ivi, p. 167. 4. F. DE NINNO, F. ZAMPIERI, «Oltre gli stretti. La proiezione oceanica e il potere navale italiano», Limes, 8/2022, «Il mare italiano e la guerra», pp. 71-84. 5. G. FIORAVANZO, Basi navali, Milano 1936, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, p. 131. 6. ID., Panorama strategico dell’Oceano Indiano, Roma 1941, Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, p. 7. 7. ID., Il Mediterraneo centro strategico del mondo, Verona 1943, Mondadori (Pubblicazione a cura del Ministero della Marina), pp. 6-7.
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commerciali provenienti dall’area del Golfo, dall’Indo-Pacifico o dall’Africa orientale; se viene minacciato lo Stretto di Båb al-Mandab o se si perde la fruibilità di quell’arteria che è il Mar Rosso, a essere minacciato è l’intero destino del Mediterraneo e dei paesi che su di esso si affacciano.
Geostrategia del Mar Rosso Conviene allora conoscere meglio questo fondamentale spazio. Nello studio di un bacino marittimo da un punto di vista geostrategico, l’analisi del fattore geografico va condotta lungo due direzioni: quella dell’indagine degli aspetti naturali e quella dedicata agli aspetti artificiali del bacino stesso. Nella prima, rientrano l’osservazione della conformazione ed estensione del bacino, dell’andamento dei fondali e delle condizioni meteorologiche. Alla seconda appartengono lo studio degli apprestamenti militari finalizzati all’interdizione aerea e navale e quello delle altre capacità militari possedute dagli Stati che vi si affacciano. Il Mar Rosso è una fossa liquida avente una lunghezza di 1.930 chilometri (da Suez a Båb al-Mandab), una larghezza di 280 chilometri (la massima corrisponde a 360, all’altezza di Massaua), una superficie totale di 450 mila kmq e una profondità media di circa 500 metri ma con abissi che giungono fino a 2.500 metri 8. A rendere ancora più particolare questo spazio marittimo, va segnalata la presenza di barriere coralline, scogli e arcipelaghi che complicano non poco la navigazione e che possono costituire altrettanti punti di appoggio strategici. Gli accessi settentrionale e meridionale sono dei veri e propri colli di bottiglia. Il Golfo di Suez a nord-ovest ha una lunghezza di 314 chilometri e una larghezza che varia da 18 a 40 chilometri; esso comunica con il Mar Rosso attraverso lo Stretto di Ãubål, ricco di isolotti che formano più passaggi: le due terre emerse più importanti sono l’isola di Ãubål e quella di Šadwån. Quest’ultima è il vero guardiano dell’accesso meridionale al Golfo di Suez: l’isola è posta esattamente al centro del canale a circa 20 miglia dalla costa africana e ad altrettante dalla punta meridionale della Penisola del Sinai. L’accesso meridionale del Mar Rosso – lo Stretto di Båb al-Mandab – misura 23 chilometri ed è parimenti diviso in due parti dall’isola di Barøm: a est di essa, si apre un canale navigabile avente un’ampiezza tra i 2 e i 5 chilometri, attraverso il quale la navigazione è estremamente perigliosa a causa di forti correnti e di numerosi isolotti e isole; a sinistra di Barøm, dirimpetto alla costa africana, si apre un altro canale, avente una larghezza minima di 16 chilometri ma altrettanto flagellato dalle correnti. Più a nord, si trova l’arcipelago delle Dahlak, poco al largo dell’Eritrea e, sicuramente, il più importante di tutto il Mar Rosso. A sud delle Dahlak, e a circa 150 chilometri da Båb al-Mandab, sorge un complesso di isole: le Zubayr, sotto sovranità yemenita, le Muõabbaka appartenenti all’Eritrea e le Õanøš rivendicate sia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
8. H. COUTAU-BÉGARIE, Géostratégie de l’Océan Indien, Paris 1993, Economica, pp. 35-39.
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dallo Yemen sia dall’Eritrea, anche se la disputa è stata congelata da un arbitrato internazionale favorito dalla Francia. Da un punto di vista geostrategico, il Mar Rosso si protende fino al Golfo di Aden che ne rappresenta lo sbocco sul Mare Arabico e può essere definito un ma re stretto in termini militari, cioè uno spazio acqueo, compreso tra terre, che può essere controllato da entrambi i suoi lati 9. A oggi, nessuno Stato, tra quelli che si affacciano sul Mar Rosso, è in grado di farlo, a eccezione dell’Egitto, ma solo in corrispondenza della Penisola del Sinai. La guerra nei mari stretti differisce considerevolmente da quella nell’oceano aperto: innanzitutto, per la ristrettezza degli spazi fisici; in secondo luogo, per la vicinanza alle masse continentali. Con l’incremento prestazionale della portata e del raggio d’azione di sistemi d’arma quali aerei e missili, è diventato più semplice «vincere lo spazio». Nel caso del Mar Rosso, le distanze in gioco sono talmente limitate che la densità delle minacce – siano esse di superficie, aeree e subacquee – è assai elevata. Pertanto, questo bacino marittimo si presta a essere facilmente militarizzato. Più a sud, in corrispondenza dello Stretto di Båb al-Mandab, la fitta presenza di isole e scogli rende ancora più semplice qualsiasi processo di apprestamento bellico dell’area, come accaduto per le isole Õanøš e Barøm. Tra il 2015 e il 2017, proprio l’area dello Stretto di Båb al-Mandab era stata al centro delle attività navali degli õûñø, ma dopo un’offensiva delle Forze di resistenza nazionale – milizia spalleggiata dagli Emirati Arabi Uniti – i ribelli erano stati costretti ad abbandonare il porto di Muœå (regione di Ta‘izz) e a ritirarsi più a nord, nella regione di Õudayda 10. Qui la costa è caratterizzata dalla presenza di numerose isole: nella parte più settentrionale, vi è un arcipelago di circa 15 isole che il gruppo controlla da più di un lustro, le più importanti delle quali sono Kamarån, Ra’s Douglas e Taqfaš (localmente nota come Antofaš). Quest’ultima, insieme alle isole di Kamarån – la più vasta della zona – di Ãabal al-¡ayr e all’arcipelago di Zubayr, rappresenta una sorta di santuario delle attività navali õûñø 11. Più a sud, si trova l’isola di Zuqar – facente parte dell’arcipelago delle Õanøš – che era stata occupata dagli õûñø ma che, nel tardo 2015, fu riconquistata dalla coalizione a guida saudita, insieme alla più piccola isola di Õanøš al-Kabør, diventando una postazione della coalizione anti-õûñø 12. L’isola di Barøm/Mayyûn – sita a circa 3,5 chilometri a sud dell’estremità sud-occidentale dello Yemen – è invece in mano alle forze lealiste e della Guardia costiera yemenita; quest’isola vulcanica ospita pure una minibase aerea, probabilmente realizzata dagli Emirati Arabi Uniti, con una pista pavimentata della lunghezza di circa 1.850 metri e tre hangar 13. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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9. M. VEGO, Naval Strategy and Operations in Narrow Seas, London 2005, Routledge, pp. 5-7. 10. E. ARDEMAGNI, «From Mountain Fighters to Red Sea Disruptors: What the Houthi Attacks Mean for Yemen, the Region, and Global Stability», Sana’a Center for Strategic Studies, 27/12/2023. 11. Id., «Houthi Missiles and Drones Target Israel», Sana’a Center for Strategic Studies, 20/11/2023. 12. «Hadi allies capture Yemen island ahead of week-long ceasefire», The New Arab, 15/12/2015. 13. J. GAMBRELL, «Mysterious air base being built on volcanic island off Yemen», Associated Press, 25/5/2021.
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Tabella 1 - I DRONI DEGLI HŪTĪ Nome dell’Uav hūtī Raqeb Qasef-1 Marsad* Sammad** Shihab Waid-1*** Waid-2
Nome dell’Uav iraniano ? Ababil-T ? Sayad ? Shahed-131 Shahed-136
Tipo di Uav Ricognizione Attacco Ricognizione Ricognizione/attacco Attacco Attacco Attacco
Raggio operativo 3 ore 200-400 km Tra 8 e 10 ore 1.500/1.800 km 1.000 km 900 km 2.000-2.500 km
Carico pagante Apparati fotografici ? Apparati fotografici 20-50 kg 50 kg 20 kg 40-50 kg
* Esisterebbero almeno due versioni di questo drone: il Marsad-1 a decollo convenzionale (o con catapulta) e il Marsad-2 a decollo verticale; ** È accertata l’esistenza di almeno tre versioni che differiscono tra loro per componenti, cura costruttiva e capacità. Il Sammad-1 viene indicato dalle fonti yemenite come capace di operare ad una distanza massima di 500 km – per un tempo di missione di sei ore – trasportando un carico pagante di 20 kg. Il Sammad-3 disporrebbe di una testata da 20-50 kg ed avrebbe una portata di 1.800 km. *** Le fonti yemenite accreditano questo drone di una portata di 1.200 km e di una testata bellica da 30 kg.
Infine, nel Golfo di Aden, la militarizzazione dell’accesso al Mar Rosso è stata completata dalla realizzazione di insediamenti sull’isola di Socotra (Suqu¿rå) e su ‘Abd al-Kûrø, entrambe finite sotto controllo degli Emirati Arabi Uniti. A Socotra, sin dal 2020, «governa» il Consiglio di transizione del Sud, finanziato e appoggiato dal governo di Abu Dhabi; sull’isola è stato costruito un centro intelligence che gli Emirati Arabi Uniti condividono con Israele, in chiara funzione anti-iraniana 14.
Le capacità militari degli õûñø Come descritto, lo spazio geostrategico del Mar Rosso e dei suoi accessi offre enormi opzioni per l’interdizione marittima e per la guerriglia navale. Missili balistici e da crociera basati a terra, mezzi senza equipaggio (di superficie o subacquei), velivoli a pilotaggio remoto, mine e sbarramenti di ogni tipo consentono di minacciare in modo credibile il traffico navale attraverso questa fondamentale arteria. Sin dal 2014, il Corpo dei guardiani della rivoluzione e la Forza Qods iraniani hanno fornito ai ribelli õûñø materiali militari sempre più sofisticati, addestrandoli altresì a condurre attacchi contro il traffico marittimo mercantile e contro infrastrutture strategiche. Secondo alcuni rapporti statunitensi, tra il 2015 e il 2023, non meno di 18 mercantili iraniani hanno trasportato nei porti controllati dal movimento yemenita componenti missilistiche, droni di vario tipo, missili anticarro e altri sistemi d’arma. Per quanto riguarda i droni, gli õûñø disporrebbero di vari velivoli, aventi un raggio operativo compreso tra i 900 e i 2.500 chilometri (tabella 1) 15. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
14. E. ARDEMAGNI, «Yemen: Houtis’ Militarized Islands are Stoplights in the Red Sea», ispionline.it, 24/11/2023. 15. Evolution of the UAVs Employed By Houthi Forces in Yemen, London 2020, Conflict Armament Research.
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Ragguardevoli sono anche le capacità missilistiche: sono presenti vari tipi di vettori balistici a corto (Srbm) e medio raggio (Mrbm), perlopiù derivati da varianti dell’iraniano Shahab-3 e dello Scud – e anche missili antinave (tabella 2) 16. Sebbene alcuni dei missili balistici in possesso degli õûñø siano stati dedicati all’attacco antinave (Asbm), il movimento dispone anche di missili da crociera per la distruzione di bersagli navali (Ascm). I più vecchi provengono dalle scorte dell’esercito yemenita e risalgono all’epoca sovietica o ne sono la copia cinese, ma di questi vettori si ignorano le condizioni operative (tabella 3). Grazie all’assistenza dell’Iran, oggi gli õûñø disporrebbero di ordigni antinave con portata fino a 800 chilometri 17. Quindi, gli õûñø sembrerebbero in grado di realizzare una credibile bolla anti-access/area denial (a2/ad) che potrebbe essere resa ancor più resistente dalle unità navali di superficie di cui disporrebbero, con o senza equipaggio. A partire dal 2016, la «Marina» degli õûñø è stata in grado di distruggere una nave da trasporto militare emiratina – il catamarano Hsv-2 Swift (2016) – di danneggiare pesantemente la fregata saudita Al-Madinah (2017) con quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato uno dei primi esempi di ordigno improvvisato marittimo (in gergo, water-born improvised explosive device), di affondare una posamine emiratina (2017) e di danneggiare e catturare due mezzi da trasporto sauditi (2020 e 2022) 18. Nel corso degli anni, grazie a cantieri locali, a triangolazioni varie e a molta inventiva, il movimento yemenita è stato in grado di realizzare una flotta di mezzi senza equipaggio – molto spesso poco più che dei gommoni a pilotaggio remoto o dei barchini in vetroresina dotati di qualche quintale di esplosivo, ma particolarmente insidiosi 19. Gli iraniani avrebbero altresì ceduto un certo numero di mine navali – in aggiunta a quelle recuperate nei depositi della Marina yemenita – poi disseminate in grande quantità a protezione dei porti e degli ancoraggi di interesse e in corrispondenza delle linee di comunicazione marittima. La creazione di sbarramenti di mine si è concentrata in particolare al largo delle coste della regione di Õudayda. Finora, ne sono stati identificati vari tipi (ancorate o galleggianti), che hanno provocato già numerosi incidenti e vittime, soprattutto tra i pescatori locali. Secondo i dati, al novembre 2021 la coalizione internazionale a guida saudita aveva già individuato e distrutto non meno di 220 ordigni 20. 16. Iran: Enabling Houthi Attacks Across the Middle East, Defence Intelligence Agency, febbraio 2024; «Missile Threat. Missiles of Iran», Center for Strategic and International Studies, 10/8/2021; J. BINNIE, «Iran unveils Kheibar Shekan ballistic missile», Janes, 10/2/2022; F. HINZ, «Little and Large missile surprises in Sanaa and Teheran», International Institute for Strategic Studies, 17/10/2023. 17. F. HINZ, «Houthi anti-ship missile systems: getting better all the time», International Institute for Strategic Studies, 8/1/2024; O. YARON, «Saqr 358 Iranian Loitering Missile Targeting Israeli and American UAVs», Haaretz, 29/11/2023. 18. «Anatomy of a Drone Boat. A water-borne improvised explosive device (WBIED) constructed in Yemen», Conflict Armament Research, dicembre 2017; C.P. CAVAS, «New Houthi weapon emerges: a drone boat», Defense News, 19/2/2017. 19. S. MITZER, J. OLIEMANS, «A Maritime Menace: The Houthi Navy», Oryx, 2/1/2023. 20. «Armed forces reveal new weapons systems in military parade», Saba Net, Yemen New Agency (Saba), 24/9/2023; «Naval Mines Threaten International Shipping Lanes in Red Sea», Sheba Intelligence, 6/12/2023. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Tabella 2 - I MISSILI BALISTICI DEGLI HŪTĪ Nome del missile degli hūtī Mrbm Burkan-3/Zulfiqar Mrbm Toufan Mrbm Hatim Srbm Karar Asbm Asef/Asif Asbm Tankil Asbm Al-Rabij/Faleq-1 Asbm Mayun Asbm Al-Bahr al-Ahmar
Nome del missile iraniano Qiam-1/Rezvan* Shahab-3/Ghadr Kheybarshekan** Fateh-110 Khalij Fars (Fateh-313) Zohayr/Raad 500 Progetto indigeno con assistenza iraniana e di Hizbullāh
Portata 1.200 km 1.360-1.950 km 1.450 km 300 km 400-450 km 500 km 140 km ? ?
Testata 250 kg 800 kg 500 kg 500 kg 300 kg 300 kg 105 kg ? ?
* La variante iraniana viene classificata come missile balistico a corto raggio e ha una portata di 700-800 km, con una testata convenzionale (armabile anche con submunizioni) da 750 kg. ** Si tratta di una variante della famiglia del Fateh-110.
b D CROCIERA DEGLI HŪTĪ Nome del missile degli hūtī Ascm Rubezh Ascm Al-Mandab 1 – Sejil Ascm Al-Mandab 2 Ascm Sayyad Ascm Quds Z-0 Moheet Sam Saqr
Nome del missile iraniano Si tratta dei vecchi missili sovietici Styx Missile cinese C-801 Ghadir* Project 351/Paveh** Project 351/Paveh** Ss S-75*** 358****
Portata 80 km 40 km 200-300 km 800 km 800 km ? 100-150 km
Sistema di guida Radar/lr Radar Radar Radar EO/IR ? ?
* L’iraniano Ghadir è una copia dei missili cinesi C-801 e C-802. Da questi missili è derivata la famiglia di ordigni iraniani Noor, comprendente i vettori Qader, Kowsar, Ghadir, Nasr-e Basir e Zafar. ** Si tratterebbe di due varianti dell’originario Quds: una a guida radar (Sayyad) e l’altra con guida infrarossa ed elettro-ottica (Quds Z-0). *** Vecchio missile antiaereo sovietico (Sa-2) adattato all’impiego antinave. **** Presentato nel settembre 2023, il missile è in dotazione sia ad Hizbūllah sia agli hūthī e pare sia stato il responsabile dell’abbattimento di uno Uav Mq-9 Reaper americano (novembre 2023); il missile combina le caratteristiche di un ordigno antiaereo con quelle di una loitering munition; le fonti yemenite indicano l’esistenza di due distinti modelli Saqr-1 e Saqr-2.
Le azioni degli õûñø e le ricadute sul traffico marittimo Dal punto di vista economico, gli effetti dannosi degli attacchi õûñø contro le navi transitanti nel Mar Rosso rievocano l’incaglio, nel Canale di Suez, della portacontainer Ever Given, avvenuto nel 2021. Lo scenario che si sta profilando ora presenta però alcune componenti peggiorative: l’incertezza sulla sua durata e il rischio associato agli attacchi. Attraverso il Canale di Suez transita circa il 12-15% del commercio marittimo internazionale e il 30% di quello container 21: quando, nel dicembre 2023, quattro delle cinque maggiori compagnie di shipping mondiale (Maersk, Hapag-Lloyd, Cma Cgm e Msc) hanno annunciato una sospensione temporanea dei loro servizi Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
21. H. TRAN, «What attacks in the Red Sea could mean for the global economy», Atlantic Council, 18/12/2023; E. CURRAN, J. RANDOW, A. LONGLEY, «How Yemen’s Houthi Attacks Are Hurting the Global Supply Chain», Bloomberg, 24/1/2024.
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GAME OVER NEL MAR ROSSO?
nel Mar Rosso, non ha sorpreso assistere a una forte contrazione del traffico di naviglio, che nel gennaio 2024 si è attestata a un 35%. Se tra gennaio e dicembre 2023 sono passate per Suez 71 navi in media al giorno, tra metà dicembre 2023 e i primi quindici giorni del gennaio 2024 la media si è ridotta a 58. Ancor più significativa è stata la riduzione (55%) del numero di navi portacon tainer che, nei primi undici giorni del 2024, hanno attraversato Suez 22. Le prime quattro compagnie al mondo per il trasporto container – insieme rappresentano circa il 53-54% del commercio in questo settore 23 – hanno dichiarato che le loro navi eviteranno il canale fino a quando quest’ultimo non sarà nuovamente sicuro: nel frattempo, alcune di queste hanno già optato per la rotta del Capo di Buona Speranza. Un piano B tutt’altro che valido: oltre a prolungare di 13-15 giorni i tempi di navigazione, questa rotta è estremamente dispendiosa in termini di carburante, motivo per cui – una volta giunte in Europa – le navi cargo sono costrette a pagare multe salatissime, rischiando di ottenere un punteggio insufficiente nell’indice di emissioni di anidride carbonica dell’Unione Europea 24. Tutto ciò ha comportato, come previsto, un aumento astronomico dei costi di spedizione: per esempio, il costo del trasporto di un container da 40 piedi dall’Asia al Nord Europa è salito da 1.500 a circa 4 mila dollari 25. L’aumento ha riguardato anche il settore assicurativo, tessera imprescindibile del settore navale. Prima degli attacchi, se il valore economico di una nave si aggirava sui 100 milioni di dollari, il prezzo della sua assicurazione era compreso fra lo 0,1% e lo 0,2% dello stesso, per un totale di circa 100-200 mila dollari. A oggi, il tasso assicurativo ha raggiunto lo 0,5%: ciò implicherebbe, per la nave in questione, un’assicurazione da mezzo milione di dollari 26. La crisi di Suez si è riverberata sulle economie locali: l’Egitto, per esempio, incassa circa 13 miliardi di dollari annui, grazie ai transiti attraverso il Canale di Suez. Pesanti gli effetti anche su quelle legate strettamente ai traffici del Mar Rosso, in particolare sui paesi dell’Europa meridionale, Italia in primis. Del resto, i dati evidenziano chiaramente che questa crisi ha una connotazione regionale, più che globale: a dipendere dai traffici del Mar Rosso sono, nello specifico, l’Europa e una parte del Medio Oriente. Altri paesi – come gli Stati Uniti – sono stati toccati in maniera meno incisiva: se tra la fine di novembre e la metà di gennaio il costo di trasporto di un container da 40 piedi da Shanghai a Genova era arrivato a 6 mila dollari, quello di un container da Shanghai a Los Angeles è aumentato molto meno, passando da 1.985 a 3.860 dollari 27. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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22. AA.VV., «Port infographics 2024», Srm e Assoporti, 2024. 23. L. VON BREITHEN THURN, «Red Sea Crisis Exposes a Weak Point of Global Maritime Trade», Geopolitical Monitor, 9/1/2024. 24. N. SAVVIDES, «Container freight rates jump on Red Sea attacks, EU ETS start», Sea Trade, 3/1/2024. 25. G. MARZETTI, «Tensioni nel Mar Rosso, l’aumento dei costi di spedizione può risvegliare l’inflazione. Ma i mercati sottovalutano il rischio», Milano Finanza, 23/1/2024. 26. D. HINSHAW, D. MICHAELS, «On the High Seas, a Pillar of Global Trade is Under Attack», The Wall Street Journal, 1/2/2024. 27. T. DENAMIEL, M. SCHLEICH, W.A. REINSCH, W. TODMAN, «The Global Economic Consequences of the Attacks on Red Sea Shipping Lanes», Center for Strategic and International Studies, 22/1/2024.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Per quanto riguarda l’Italia, la crisi del Mar Rosso si è ripercossa su due aree d’interesse vitale per il paese: lo shipping (relativo, dunque, sia all’import sia all’export) e l’approvvigionamento energetico. I dati inerenti al primo settore lasciano pochi dubbi: tra novembre 2023 e gennaio 2024, l’Italia ha perso un totale di 8,8 miliardi di euro per il mancato approvvigionamento di prodotti manifatturieri: 3,3 miliardi (35 milioni al giorno) per mancate o ritardate esportazioni e 5,5 miliardi (60 milioni al giorno) per mancate importazioni 28. Prendendo in considerazione i primi sei terminal per ruolo negli interscambi nazionali (Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno), si è assistito a una riduzione dei traffici del 20%; fortunatamente, verso la fine di gennaio, questo crollo ha subìto un leggero miglioramento, attestandosi a un -11% 29. Rimane tuttavia il rischio che alcune navi – in particolare quelle addette all’importazione di beni in Europa – possano cambiare la propria destinazione finale, sbarcando il proprio carico direttamente nei porti europei accessibili dall’Atlantico (come quelli spagnoli o direttamente a Rotterdam). Ad aleggiare fin da subito tra i paesi europei è stato anche lo spettro della crisi dell’approvvigionamento energetico. Il campanello d’allarme è stata la decisione del Qatar – il primo esportatore al mondo di gas naturale liquido (gnl) – di bloccare il transito delle sue navi gasiere nel Mar Rosso 30. Ci sarebbe l’alternativa del gnl statunitense ma l’amministrazione Biden ha recentemente annunciato una progressiva riduzione delle vendite verso l’Europa, cresciute fino a 63 miliardi di metri cubi all’anno (2023), rispetto ai 50 miliardi (entro il 2030) inizialmente ipotizzati. Né appaiono più sicure le potenziali alternative di incrementi delle importazioni di gnl qatarino o australiano: in tutti questi casi, bisognerebbe transitare attraverso colli di bottiglia (Malacca, Hormuz, Båb al-Mandab, Suez) particolarmente insicuri 31.
Una risposta corale ma non unitaria Vi sono diverse ragioni e contrastanti interessi alla base della risposta, corale ma non unitaria, che l’Occidente ha fornito alla sfida lanciata nel Mar Rosso dagli õûñø – e dai loro padrini. Sin dal 7 ottobre 2023 gli Stati Uniti si sono assunti l’onere che spetta al custode dell’ordine internazionale, agendo con la consueta risolutezza militare. Gli attacchi contro gli õûñø e quelli contro le milizie filo-iraniane in Iraq e in Siria rispondono alla necessità di esercitare una credibile deterrenza non solo nei confronti degli õûñø ma anche dell’Iran. Quest’ultimo, evidentemente, auspica che l’incremento del costo politico e militare di sostenere Israele e stabilizzare il Medio Oriente induca Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
28. A. CARLI, «La crisi del Mar Rosso costa all’Italia 95 milioni al giorno», Il Sole-24 Ore, 26/1/2024. 29. «Mar Rosso, i costi della crisi: cinque grafici per capire», ispionline, 20/1/2024. 30. «Qatar pauses Red Sea tankers after Western strikes on Houthis», The Economic Times, 15/1/2024. 31. K. IRIÉ, B. CAHILL, J. MAJKUT, «Geopolitical Significance of U.S. LNG», Center for Strategic and International Studies, 7/1/2024.
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Impianti per esportazione gnl Acque contese (Libano/Israele) Importanti giacimenti di gas
Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
Creta
M a r
Limiti di Zee frutto di un accordo bilaterale Limiti di Zee non ufficiali
Area libica
Area turca
Accordo Turchia-Tripoli (2019)
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LIBIA
GRECIA
Rodi
Impianto gnl galleggiante israeliano in progetto per intensificare lo sfruttamento di Leviathan
Idku
Gaza
SIRIA
GIORDANIA
LIBANO
ISRAELE Cisg.
Tamar Leviathan
CIPRO
Dörtyol
Membri dell’East Med Gas Forum (Egitto, Israele, Cipro, Grecia, Autorità nazionale palestinese e Italia)
LE PARTITE ENERGETICHE NEL MEDITERRANEO ORIENTALE
Damietta
Zohr
Calypso Glaucus Onisiforos Occ. Aphrodite
T U R C H I A
Impianti gnl turchi Progetto di gasdotto 2 onshore e 2 offshore (EastMed)
M e d i t e r r a n e o
E G I T T O
M a r
Nuova frontiera marittima tra Egitto e Grecia (8/2020)
Nuova frontiera marittima tra Libia e Turchia (11/2019)
Kasos
Karpathos
E g e o
Aliağa
Marmara Ereğlisi Etki
GAME OVER NEL MAR ROSSO?
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Washington ad abbandonare l’alleato e l’area, così da liberare uno spazio che Teheran vorrebbe prontamente occupare 32. La principale minaccia alla credibilità dell’azione deterrente di Washington è rappresentata dalla sua sostenibilità nel lungo periodo, essendo pesantemente insidiata dalla sovraestensione cui è sottoposto l’apparato militare americano. Gli Stati Uniti sono contemporaneamente impegnati nel sostegno all’Ucraina – e, dunque, in un esercizio di deterrenza nei confronti della Russia – nella stabilizzazione del Medio Oriente – con particolare attenzione al contenimento dell’Iran e dei suoi clienti – e nel Mar Cinese Meridionale, dove cresce la tensione con Pechino, soprattutto in merito alla questione taiwanese 33. Impegni, quelli descritti, che rendono difficile dare concretezza all’icastica affermazione del segretario alla Difesa Lloyd Austin, secondo il quale la potenza globale americana deve essere in grado di «walk and chew gum at the same time», cioè di fare più cose in una volta 34. Il tutto, in un anno elettorale e con lo spettro di un candidato presidente (Donald Trump) che non perde occasione per annunciare un (problematico) ridimensionamento geopolitico, in caso di sua elezione. Tuttavia, indipendentemente dalla volontà di disimpegno dalla regione – che è rimasta costante dalla presidenza Obama in avanti – gli Stati Uniti sono costretti ad agire. In caso contrario, risulterebbero compromessi due obiettivi fondamentali: la salvaguardia della libertà dei mari – il motore della globalizzazione e della leadership planetaria americana – e il sabotaggio di qualsiasi possibilità che la Cina possa intervenire nell’area come potenza stabilizzante, anche se questa è una eventualità remota 35. Inoltre, con uno sguardo alla realtà locale, gli Stati Uniti non possono permettere che l’Iran – tramite i propri clienti – possa guadagnare la leadership regionale e, soprattutto, che possa assumere il controllo del secondo collo di bottiglia più importante nella regione, dopo Hormuz 36. Dunque, qual è la migliore strategia per Washington? Difficile rispondere a una simile domanda. Sarebbe stato preferibile agire contro gli õûñø prima che essi potessero provocare enormi danni al commercio internazionale e rafforzarsi sul piano militare, prendendo di mira le operazioni iraniane nell’area grigia della conflittualità 37. Tuttavia, gli Stati Uniti stanno reagendo con moderazione per non pregiudicare la tregua che con fatica ha pacificato lo Yemen e per non allargare il conflitto. In entrambi i casi, però, serve una strategia per il dopo. Perché appare 32. S. CROPSEY, «America Needs A Middle East Strategy», The Wall Street Journal, 26/12/2023. 33. D. CHENG, «Rising Tensions between China and the Philippines in the South China Sea», United States Institute of Peace, 14/12/2023. 34. P. APPS, «U.S. And Allies Face Though Choices Amid Growing Red Sea Crisis», Reuters, 21/12/2023. 35. H. BRANDS, «The U.S. Can’t – And Shouldn’t – Escape the Middle East», American Enterprise Institute, 4/2/2024. 36. K.M. POLLACK, K. ZIMMERMAN, «Washington Can’t Let The Houthis Take Yemen», The Wall Street Journal, 8/1/2024; A. OUDOT DE DAINVILLE, «Attacques dans le Bab-el-Mandeb: sale temps pour les détroits!», Revue Défence Nationale, n. 867, febbraio 2024, pp. 7-14. 37. N. RYDAN, G. RUMLEY, «How Washington Emboldened the Houthis», Foreign Affairs, 6/2/2024; F. ZAMPIERI, «La dimensione marittima della grey zone», in AA.VVV., Le sfide multidimensionali ed emergenti del Mediterraneo allargato: quale ruolo per l’Italia, Napoli 2023, Editoriale Scientifica, pp. 29-46. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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GAME OVER NEL MAR ROSSO?
poco probabile che lo Yemen possa essere sottratto agli õûñø. E va tenuto bene presente che la crisi non può essere scollegata dalle ambizioni iraniane o dall’esito del conflitto tra Israele e Õamås 38. Considerazioni, quelle esposte, che potrebbero aiutare a comprendere la logica sottesa a un tipo di intervento militare che, finora, sembra avere avuto una condotta più tattica che strategica. Con il rischio però di risultare poco efficace in termini di costi. L’esercizio di una credibile deterrenza per gli Stati Uniti sarebbe più semplice se fosse condiviso, cioè sostenuto dagli alleati 39. Per quanto riguarda quelli mediorientali, nessuno – con l’eccezione del Bahrein, dove ha sede la V Flotta statunitense – ha aderito all’operazione Prosperity Guardian, pur essendo essa inquadrata nella Combined Task Force 153, parte della Combined Maritime Force (Cmf) alla quale partecipano anche i paesi arabi. L’Egitto, sebbene pesantemente danneggiato dalla diminuzione del traffico nel Canale di Suez, teme ripercussioni sulle frontiere terrestri, in particolare mentre è impegnato a contenere la pressione degli abitanti di Gaza e il rischio, permanente, di un’insurrezione popolare. L’Arabia Saudita, altro membro della Cmf, ha parimenti declinato gli inviti di Washington perché ritiene di avere più da perderci che da guadagnarci: a essere minacciati sono i rapporti con Teheran – recentemente facilitati da Pechino (febbraio 2023) – e i colloqui di pace con gli õûñø, senza dimenticare che questi ultimi potrebbero riprendere a colpire le infrastrutture petrolifere saudite. Infine, gli Emirati Arabi Uniti, pur temendo anch’essi potenziali attacchi contro le infrastrutture strategiche, non hanno aderito sia per insoddisfazione nei confronti delle politiche regionali di Washington sia per il rischio di apparire contigui a Israele, visto che gli õûñø giustificano la propria azione con la solidarietà verso i palestinesi 40. Gli europei non hanno manifestato alcuna intenzione di imitare il muscolare approccio americano 41. Non è una novità, considerando la notevole frammentazione delle politiche e delle iniziative militari che l’Occidente, fino a oggi, ha saputo fornire per contenere la minaccia yemenita e le altre problematiche locali. Al contrario, sarebbe necessario incrementare il coordinamento tra le diverse operazioni, la maggior parte delle quali sono a guida americana e inserite nell’intelaiatura della Cmf 42. Invece, anche Prosperity Guardian è stata snobbata dagli alleati europei, che hanno preferito manifestare il proprio impegno nel quadro della European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz/Aghenor, attivando la nuova operazione Aspides. Solo il Regno Unito è stato solerte nel rispondere alla chiamata di Washington: in gioco sono la special relationship con i cugini americani ma anche la postura globale che sta cercando di darsi con una rinnovata attenzione a ciò che accade «a Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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38. A. STARK, «Don’t Bomb the Houthis», Foreign Affairs, 11/1/2024. 39. «The Houthis, Iran and U.S. Deterrence», The Wall Street Journal, 19/12/2023. 40. C. SCHAER, «Red Sea: Why Arab Nations Won’t Join New Naval Coalition», Deutsche Welle, 22/12/2023. 41. P. STEWART, D. LATONA, A. AMANTE, «US Allies reluctant on Red Sea task force», Reuters, 28/12/2023. 42. C. BUEGER, «Coordinating and Deconflicting Naval Operations in the Western Indian Ocean», Rusi, 9/2/2024.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
est di Suez», dall’Oceano Indiano al Pacifico. Londra deve poi difendere crescenti interessi economici, transitanti per Suez: nel 2022, grazie al Canale, il traffico container tra i porti britannici e l’Indo-Pacifico ha conosciuto un incremento del 4%, raggiungendo 1,2 milioni di tonnellate di merci. Inoltre, il Regno Unito possiede territori nell’Oceano Indiano – su tutti, la strategica base di Diego Garcia, condivisa con gli Stati Uniti – e la sicurezza del Mar Rosso e dei suoi stretti è fondamentale per mantenere il collegamento tra le basi navali di Gibilterra, Cipro, Ãuffayr (Bahrein), Duqm (Oman), la già citata Diego Garcia, Sembawang (Malaysia) e Brunei 43. La Francia ha interessi simili a quelli britannici. Innanzitutto, non può permettersi di vedere interrotta la via che – attraverso il Mar Rosso e i suoi stretti – le permette di raggiungere i propri territori d’oltremare nell’Oceano Indiano e nel Pacifico. In secondo luogo, deve mantenere il proprio status di potenza sia all’interno del Mediterraneo sia nel Mare Arabico e nel Golfo Persico, anche per tranquillizzare gli alleati regionali, peraltro generosi acquirenti di molti sistemi d’arma dell’industria transalpina. Nel Golfo di Aden, poi, si trova Gibuti, con cui la Francia ha un trattato di cooperazione militare (dal 1977) mentre quella economica è stata nettamente soppiantata dagli investimenti cinesi, dal momento che Pechino controlla circa il 77% del debito gibutiano 44. Sicuramente, tra gli alleati di Washington interessati alla sicurezza del Mar Rosso e dei suoi stretti c’è l’Italia, non fosse altro per l’importanza dei traffici mediterranei destinati ai porti italiani. A giustificare l’azione di Roma ci sarebbe un quadro giuridico ben definito, rappresentato sia da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sia dalla reiterata partecipazione italiana alle missioni antipirateria e anticontrabbando che sono attive nell’area, compreso il monitoraggio dal 1982 degli accordi di pace tra Israele ed Egitto nello Stretto di Tørån. Sul piano economico, le perdite fatte registrare dai porti italiani e, di conseguenza, dall’intero comparto produttivo nazionale e il rischio di pregiudicare le forniture energetiche – soprattutto quelle gasiere dall’area del Golfo Persico – non potevano lasciare indifferente il governo. C’è poi anche la necessità di dimostrare di essere in grado di fronteggiare – sia pure in un quadro di alleanze e di condivisione delle responsabilità – alcune forme di minaccia in un’area di primario interesse strategico: il Mediterraneo allargato e, in particolare, il suo ombelico nel Mar Rosso. Pena la rinuncia definitiva a qualsiasi ruolo geopolitico e la disintegrazione di ogni capacità deterrente nei confronti di tutti coloro che studiano la reale determinazione del nostro paese. La posta in gioco è così elevata che pure la Germania – notoriamente condizionata da vincoli costituzionali – ha deciso di inviare (8 febbraio) nel Golfo di Aden, anche se per un periodo di tempo non specificato, la fregata Hassen, priCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
43. J. FARGER, «The Red Sea: Britain’s uncertain link», Council on Geostrategy, 8/2/2024. 44. H. MOURAD, P. HÉBRARD, «La ruée sur la mer Rouge: la dimension militaire des enjeux et la stratégie des nouveaux acteurs», Observatoire du monde arabo-musulman et du Sahel, Fondation pur la Recherche Stratégique, giugno 2019.
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ma ancora che sia ufficialmente votata l’autorizzazione da parte del Bundestag e che siano stati ben definiti compiti e limiti della missione Aspides. Sicuramente si tratta di un grosso impegno per la Marina tedesca – soprattutto considerandone gli evidenti limiti tecnici e operativi – ma la Germania non poteva sottrarsi a que sta assunzione di responsabilità, anche in funzione della necessità di rafforzare le capacità militari europee, soprattutto in una prospettiva di ripiegamento da parte di Washington. Non si tratterà di una Zeitenwende navale – cioè di un cambia mento epocale – ma di certo è un primo passo verso una maggiore maturità strategica45. L’antagonista numero uno degli Stati Uniti, la Cina, guarda con molto interesse alle mosse di Washington. Sebbene gli õûñø abbiano evitato di attaccare navi bat tenti bandiera cinese o che rispondono agli interessi economici di Pechino, non v’è dubbio che l’insicurezza nel Mar Rosso ne danneggia il commercio con l’Occiden te. Innanzitutto perché obbliga i mercantili a una rotta più lunga e, dunque, incre menta i costi di trasporto; in secondo luogo perché ha già indotto alcuni suoi operatori a sospendere ogni spedizione verso Israele; in terzo luogo perché le turbolenze regionali potrebbero provocare un aumento del prezzo del petrolio, con tutte le ricadute negative che questo avrebbe sull’economia cinese, fortemente energivora e dipendente dalle importazioni dal Medio Oriente. Però la Repubblica Popolare non può nemmeno esercitare troppa pressione sull’Iran. Per prima cosa, non è detto che Teheran riesca a incidere significativa mente sull’agenda degli õûñø; poi, Pechino ha la necessità di mantenere una sorta di posizione equidistante tra l’Iran e l’Arabia Saudita che non pregiudichi la politica di riavvicinamento tra le due potenze regionali, evento di cui la Cina è stata sponsor. Infine, è altresì consapevole che lasciare che siano gli Stati Uniti a sbrogliare la matassa non solo li distrae da quanto accade nel Pacifico ma può altresì compromettere il prestigio americano nella regione: in qualche modo, qualcuno degli attori – o forse più di uno – resterà insoddisfatto per la politica di Washington 46. Anche la Russia guarda con attenzione al coinvolgimento militare americano nell’area. Auspica che l’impegno in Medio Oriente distragga Washington dall’appoggio all’Ucraina. Spera che l’immagine degli Stati Uniti esca danneggiata, almeno agli occhi dei paesi arabi, da questa avventura militare, non fosse altro per il pesante appoggio a Israele. Infine, Mosca non ha motivo di intervenire militarmente perché, almeno finora, gli õûñø e gli iraniani hanno dimostrato di voler salvaguardare il traffico petrolifero russo transitante nell’area, essenziale per continuare a vendere combustibile a India e Cina, così da mitigare gli effetti della chiusura del mercato europeo 47. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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45. P. MENNERAT, «Un navire allemand en Mer Rouge: un petite Zeitenwende navale?», Le Grand Continent, 10/2/2024. 46. Y. SUN, «Why China Won’t Fight the Houthis», Project Syndacate, 7/2/2024. 47. N. GROVER, R. HARVEY, A. GHADDAR, «Analysis-Russian Oil Flows Through Red Sea Still Face Lower Risks», U.S. News and World Report, 1/2/2024.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Una prima analisi della risposta militare Da un punto di vista militare, la crisi nel Mar Rosso presenta interessanti elementi di riflessione sia sul piano operativo sia su quello tattico. Al momento, però, queste riflessioni possono essere formulate solo con riferimento alle azioni anglo-americane, perché da parte europea – con la piccola eccezione della Francia – si registra un nihil sub sole novum. Gli õûñø hanno iniziato ad attaccare insistentemente bersagli nel Mar Rosso sin dal 19 ottobre 2023, incontrando subito la reazione della Marina degli Stati Uniti, che è stata in grado di abbattere i missili e i droni lanciati dal nemico 48. A oggi, le azioni cinetiche condotte dagli anglo-americani hanno permesso di limitare fortemente i potenziali risultati che gli õûñø speravano di ottenere. In totale, la U.S. Navy ha abbattuto non meno di una ventina di missili balistici, poco più di una decina tra missili da crociera e missili antinave, almeno un centinaio di droni. Forse, a fare difetto agli õûñø non sono solo mezzi di qualità ma anche adeguate dottrine operative. Sebbene in alcune occasioni il gruppo yemenita abbia colpito con una grande varietà di mezzi, finora non appare in grado di realizzare massicci attacchi di saturazione come quelli che, invece, si verificano nel Mar Nero. Le uniche eccezioni in tal senso paiono essere le due «battaglie aeronavali» del 26 dicembre 2023 e del 9 gennaio 2024, quando sono stati impiegati contemporaneamente diversi e numerosi sistemi d’arma 49. Questo non significa che la minaccia sia trascurabile, anzi. Una moderna nave da guerra può ricorrere a contromisure hard e soft per rendere inefficaci gli attacchi, siano essi diretti verso la nave militare o verso l’eventuale unità mercantile scortata. Tra le contromisure hard rientrano l’intercettazione e l’abbattimento dell’ordigno avversario con sistemi antimissile, con le mitragliere a canne rotanti – in grado di generare un intenso sbarramento di fuoco – con i cannoni di piccolo e medio calibro (76 e 127 millimetri, pressoché standard per tutte le Marine occidentali) o, ancora, con le armi a energia diretta (laser). Tra le difese soft, le navi da guerra possono contare su ingannatori di vario tipo e su dispositivi di guerra elettronica, entrambi capaci di confondere il sistema di guida del missile avversario. La chiave del successo, dunque, è identificabile nella stratificazione della difesa, nella capacità di impiego di tutti i dispositivi di bordo, nel coordinamento tra le diverse sorgenti di fuoco e nella disponibilità di efficienti sistemi elettronici e d’arma 50. Il problema è costituito dal fatto che i missili a bordo di una nave non sono infiniti – come pure le munizioni per i cannoni – e hanno un costo elevato: solo per limitarci ai dispositivi imbarcati sulle unità navali statunitensi, i missili Standard (Sm-2 e Sm-6) hanno un costo che oscilla tra i 2,5 e i 4 milioni di dollari al pezzo, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
48. H. MONGILIO, «U.S. 5th Fleet CO: Houthi Strikes Not Just Targeting Israel-Affiliated Ships», U.S. Naval Institute News, 4/2/2024. 49. U.S. Naval Institute Staff, «USNI News Timeline: Conflict in the Red Sea», U.S. Naval Institute News, 13/2/2024. 50. K. OSBORN, «How Did a US Navy Warship Destroy a Houthi-Fired 14-Drone Attack Swarm?», Warrior Maven – Center for Military Modernization, 6/1/2024.
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mentre i meno performanti Evolved Sea Sparrow non costano meno di 1 milione ciascuno. Per contro, il costo di un drone poco sofisticato come quelli in dotazione agli õûñø può oscillare tra i 2 mila e i 100150 mila dollari 51. Ancora, tra tutte le Marine occidentali solo quella statunitense dispone di unità navali con un numero di rampe missilistiche – i Vertical Launching Systems – sufficientemente distribuite e presenti in numero elevato: un cacciatorpediniere americano di classe Burke è armato con un centinaio di rampe (e altrettante munizioni) mentre un’omologa nave europea, anche a parità di dislocamento, non eccede le 48. Indipendentemente dal numero di colpi presenti a bordo, una volta sparati i missili bisogna ricaricare i sistemi di lancio ma, al momento, questa operazione può avvenire solo in porto, con la nave in banchina: ciò, però, comporta che l’unità lanciatrice debba abbandonare l’area di operazione, portarsi nella base più vicina – in questo caso, a Gibuti – e, dunque, lasciare scoperte le eventuali unità mercantili sottoposte alla scorta. Ecco, dunque, perché è importante che le Marine alleate siano presenti e si coordinino. Ma gli europei non sembrano disposti ad agire muscolarmente come fanno gli americani e a proseguirne l’azione cinetica quando essi dovessero risultarne impossibilitati. Altro aspetto non trascurabile è l’addestramento degli equipaggi: bisogna che il personale sia addestrato a scoprire, intercettare e abbattere i missili e i droni di vario tipo e questo si ottiene solo con frequenti e realistiche esercitazioni. Al momento, dunque, solo la Marina degli Stati Uniti appare nelle condizioni di poter attivamente contrastare la minaccia nel Mar Rosso: il contributo finora offerto da Francia e Regno Unito non è paragonabile a quello statunitense. La difesa contro la minaccia dei sistemi d’arma degli õûñø, però, non richiede solo l’ingaggio cinetico del bersaglio: la scoperta avanzata, il tracciamento, la condivisione di informazioni e dati, la scorta ai mercantili e il supporto sono tutte azioni che contribuiscono a irrobustire la risposta occidentale, creando massa critica e sinergia. Soprattutto, sono azioni alla portata degli europei. Parimenti importante è anche l’azione di interdizione dei rifornimenti o dei dati d’intelligence che gli õûñø continuerebbero a ricevere dall’Iran 52. Sono tutti aspetti questi nei quali è lecito attendersi una forte collaborazione tra le Marine europee, la U.S. Navy e la Royal Navy. Dove, invece, i distinguo paiono destinati a rimanere significativi è nell’azione preventiva contro le capacità militari degli õûñø. È evidente che questa sarebbe la soluzione più efficace. La logica è la stessa da millenni: essendo pressoché impossibile abbattere tutte le frecce quando sono in volo, è preferibile colpire gli arcieri prima che le scocchino. Nello specifico, questo significa che, anziché cercare di abbattere missili e droni quando sono in volo, è meglio neutralizzarli prima del lancio. Operazione però non facile, specie per i sistemi dotati di elevata mobilità. Così come è indispensabile distruggere i depositi, i centri di comunicazione, i raCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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51. B. LENDON, «Drones Vs. Warships: How U.S. Military Hardware Is Combatting Houthi Attacks on Maritime Shipping», Cnn, 27/12/2023. 52. B. FAUCON, D. LIEBER, G. LUBOLD, «Iranian Spy Ship Helps Houthis Direct Attacks on Red Sea Vessels», The Wall Street Journal, 23/12/2023.
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dar, le rampe, i posti comando e pure i siti produttivi. Di fatto, è ciò che hanno iniziato a fare gli statunitensi – con la coreografica partecipazione dei britannici – dall’11 gennaio 2024 53. Gli attacchi agli õûñø hanno assunto la caratteristica di azioni preventive o di ritorsione ma sia nell’uno sia nell’altro caso servono una decisa e chiara volontà politica e gli strumenti adeguati a condurre attacchi dal mare. Questo significa che bisogna avere a disposizione missili a lunga portata (come i Tomahawk americani), capaci di polverizzare bersagli nell’entroterra o sulla costa, ma pure l’aviazione (imbarcata e basata a terra). Con riguardo ai missili da crociera e alle capacità aeree imbarcate, si tratta di assetti che determinano, inevitabilmente, una netta gerarchia tra le Marine. A oggi, i paesi europei in grado di sostenere un simile impegno militare si contano sulle dita di una mano. Certo, se non si dispone delle capacità di attacco missilistico dal mare, soprattutto in uno spazio stretto come il Mar Rosso-Golfo di Aden, si può ricorrere agli assetti aerei. Ma, al momento, non risulta che gli alleati europei di Washington si siano affrettati a renderli disponibili. Che piaccia o meno, si tratta di limiti politici e tecnici assai importanti. Un’ulteriore conferma che, senza il potere aeronavale statunitense, la libertà e la sicurezza dei mari potrebbero non essere pienamente garantite.*
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53. H. MONGILIO, «U.S. Hits Houthi Targets in Yemen with Strike Fighters, Warships and Submarines», U.S. Naval Institute News, 11/1/2024. * Il paragrafo «Le azioni degli õûñø e le ricadute sul traffico marittimo» è stato realizzato da Isabella Chiara.
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‘L’Italia ha bisogno del suo mare’ Conversazione con Mario ZANETTI, presidente di Confitarma a cura di Lucio CARACCIOLO e Lorenza PAOLINI
Quali sono le conseguenze delle azioni degli õûñø nel Mar Rosso per il settore marittimo italiano? ZANETTI Il Canale di Suez rappresenta per l’Italia una porta di passaggio per oltre 150 miliardi di valore ogni anno. Il nostro import passa da lì per due terzi mentre l’export solo per un terzo. Questo perché le nostre direttrici dell’export sono spostate verso le Americhe e in particolare sul Canale di Panamá che presenta delle differenze sostanziali con Suez sia per il costo del passaggio sia per le modalità in cui questo avviene. Innanzitutto, a differenza di Suez, il Canale di Panamá richiede una prenotazione per il suo attraversamento e il costo di tutto questo può sfiorare anche un milione di dollari. Normalmente invece, i costi del Canale di Suez anche se non bassi sono comunque più accessibili. Una nave grande arriva a pagare anche 250 mila dollari a passaggio. I numeri ci riportano in chiaro questa situazione. La deviazione delle navi che scelgono la circumnavigazione dell’Africa partendo dall’Estremo Oriente e passando per il Capo di Buona Speranza aumenta i giorni di navigazione del 30%, quindi anche i costi. Una limitazione dei traffici, per non dire un blocco di Suez, avrebbe un impatto significativo per il nostro commercio. Tuttavia, per il momento il nostro sistema sta tenendo piuttosto bene e non abbiamo registrato un impatto troppo negativo sui prezzi. Gli armatori e i porti italiani possono contare su strumenti di sostegno perfezionati negli anni dell’intermodalità e della logistica integrata, come il fideraggio 1 e il transhipment, che aiutano a gestire la crisi e l’impatto sui prezzi. Questo vuol dire che i nostri porti nel complesso non risentiranno di una diminuzione dei traffici, semmai vi sarà una modifica della modalità del fideraggio. A cambiare sarà la natura dei traffici in arrivo, da intercontinentali a regionali. Qualora la crisi nel Mar LIMES
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1. Il fideraggio o feederaggio è la pratica attraverso cui le grandi navi smistano merci e container in navi più piccole più adatte a raggiungere porti regionali.
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Rosso perdurasse, le grandi navi che prima sceglievano i porti italiani come Genova o La Spezia potrebbero optare per porti esterni all’Italia, ad esempio Algeciras in Spagna. I nostri porti, quindi, accoglieranno un traffico marittimo diverso, non più contraddistinto da grandi navi che percorrono lunghe tratte ma da navi più piccole che arriveranno in Italia tramite un tragitto più breve. Assisteremo a una distribuzione dei traffici diversa: porti che normalmente erano abituati a ricevere grandi navi ora riceveranno navi più piccole e viceversa. Questo però non priverà l’Italia del suo traffico marittimo o del suo commercio. Il nostro sistema finora si è dimostrato resiliente. La preoccupazione è la durata di questa crisi. LIMES La scelta di evitare Suez, quindi, è strettamente legata alle azioni degli õûñø o a un fattore di rischio che a prescindere resta molto alto? ZANETTI Il problema è la selettività degli attacchi degli õûñø. Questo non permette di avere la piena sicurezza della navigazione e comporta un’azione disordinata degli operatori e delle compagnie di bandiera che adottano approcci diversi caso per caso. In questo il supporto della Marina militare italiana è stato e resta fondamentale per rendere più sicura la navigazione, non solo alle navi con bandiera italiana ma a tutte quelle che necessitano di assistenza. LIMES Si tratta quindi di un problema per ora sotto controllo. C’è stata forse un’esagerazione mediatica della situazione? ZANETTI Sulla natura del fenomeno non direi. È stato forse l’allarmismo sugli effetti della situazione a essere esagerato. Ribadisco che il sistema dell’armamento in generale con attenzione specifica a quello italiano ha mostrato un forte adattamento al contesto. LIMES Rispetto allo stesso periodo del 2023, qual è la differenza dei flussi di passaggio per Suez? ZANETTI Bisogna fare una premessa. Agli inizi dell’anno passato i flussi erano addirittura aumentati di un terzo, con un più 15%. Oggi risultano scesi esattamente nella stessa misura in cui erano cresciuti. È importante capire se questa differenza deve essere scontata dall’insolito aumento dell’anno precedente o interpretata invece come un vero calo dei flussi, effettivamente in discesa. LIMES Questa situazione potrebbe favorire dei contro-canali terrestri? ZANETTI Non credo. Il prezzo dei treni è aumentato e in ogni caso il trasporto terrestre non è in grado di sostituire i volumi di quello su nave. La vera differenza che avvertiamo oggi è che al contrario del periodo dell’epidemia di Covid-19, quando l’industria era ferma, questa crisi è mobile e costringe di conseguenza l’industria a riposizionarsi e a essere flessibile in base ai cambiamenti dei flussi marittimi. La difficoltà del trasporto e i costi lievitati potrebbero anche favorire il reshoring delle aziende, anche nella scelta di dove reperire le materie prime. Un’altra conseguenza inevitabile è il ritardo nella distribuzione delle merci. Mentre prima si era abituati a ricevere in poco tempo un prodotto realizzato in paesi molto distanti dal nostro, oggi si è consapevoli che questa velocità tra domanda e offerta non è più scontata. Per assicurare il giusto funzionamento del commercio e far fronte a tratte più lunCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ghe è stato necessario aumentare la capacità di stiva delle navi. Sarà interessante vedere come dopo un auspicato rientro dell’emergenza questa capacità verrà riassorbita dal sistema. Per questo è fondamentale evitare che questa situazione e le misure adottate per contenerla da emergenziali diventino strutturali. LIMES Rispetto a questa situazione di incertezza e all’aumento dei costi della navigazione, qual è l’atteggiamento degli armatori? ZANETTI La decisione dell’armatore di attraversare o meno un tratto di mare deriva dalla valutazione di diversi fattori, primo fra tutti la sicurezza, non solo delle merci ma soprattutto dell’equipaggio, solo dopo i costi. In questo momento, le navi di interesse italiano sono ancora abbastanza libere di scegliere se passare o meno il Canale di Suez. Questo non sarebbe possibile però senza la supervisione e il supporto da parte della Marina militare italiana. LIMES Restringiamo il campo al mare di casa. Dopo lo shock dell’epidemia di Covid-19, quali sono le tendenze in ripresa e quali le prospettive per il commercio dei traffici marittimi? ZANETTI Passato lo shock stiamo osservando un ritorno alla normalità dei traffici, rappresentato anche da un rientro dei prezzi dei noli e questo è un buon segno. L’andamento dei noli è un indice da tenere sempre sotto controllo, il loro aumento o ribasso ci permette di capire la salute del sistema. Dopo la crisi del 2020, gli obiettivi dell’industria armatoriale italiana sono focalizzati con grande attenzione verso la transizione ecologica insieme alla ricerca e allo sviluppo di nuove tecnologie. Inoltre, quest’anno subentra il grande tema del Sistema per lo scambio delle quote di emissione (Ets) come ulteriore elemento di pressione sul sistema dell’armamento italiano e su quello comunitario. Un vero fattore di influenza del nostro shipping. LIMES Qual è il fattore limitante della portualità italiana? ZANETTI I nostri porti stanno seguendo lo stesso ritorno alla normalità dei traffici marittimi. Nei prossimi mesi sarà necessario affrontare una loro riforma differenziando gli investimenti e scegliendo bene dove indirizzarli. Da queste decisioni dipenderà non solo lo sviluppo della portualità italiana ma l’allargamento delle connessioni, intese come delle vere e proprie alleanze tra i porti italiani e quelli all’estero. Questo determinerà un salto in avanti non solo per la logistica domestica ma anche per lo sviluppo dei traffici. Il modo in cui la riforma guarderà a queste necessità stabilirà il successo di questi obiettivi. LIMES Quali potrebbero essere le collaborazioni internazionali? ZANETTI La nostra area di azione è il Mediterraneo. Accordi con i paesi che toccano come noi questo mare sono decisivi perché favorirebbero traffici più snelli, con meno burocrazia. Resta imprescindibile però distinguere l’azione che svolgono i nostri porti da quella dei rispettivi paesi europei. La nostra portualità resta diffusa e cittadina, imparagonabile a quella di realtà molto più grandi e con capacità al di sopra delle nostre. LIMES Quali sono le collaborazioni che, come associazione degli armatori, avete intrapreso con il governo per i prossimi anni? Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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La nostra parola chiave è competitività. Come associazione degli armatori italiani richiediamo al governo il supporto e la collaborazione per posizionare le nostre imprese al pari dei competitori. Ma il nostro impegno non è mirato solo alle navi e al traffico marittimo-portuale. Abbiamo un forte bisogno di forza lavoro. Un punto di snodo importante per superare questo deficit sarebbe abbattere le barriere per l’imbarco dei marittimi che oggi si trovano ad affrontare difficoltà di costi e di burocrazia spesso invalidanti. Rendere questo settore più accessibile ma soprattutto più accattivante è fondamentale. Questo processo passa anche per un allentamento della rigidità delle regole legate alla nostra bandiera. L’estensione dei benefici del Registro internazionale alle bandiere europee ha messo in luce l’importanza della competitività della bandiera italiana che necessita di sburocratizzazione, digitalizzazione e di maggior certezza amministrativa. Non intervenire in merito a questi temi lede la flotta italiana e quindi la nostra influenza nei consessi internazionali. La nostra bandiera resta comunque ambita e mantiene una buona posizione a livello europeo. Ma è sempre più chiaro che il mancato intervento su questi punti cruciali renderebbe difficile continuare a occupare quelle posizioni. Finora, ciò che ha permesso alle navi di navigare con la bandiera italiana è una riforma varata nel 1998 che ha visto la nascita del Registro internazionale italiano, un pacchetto di aiuti che permette all’armatore di gestire la nave con il tricolore a poppa evitando un continuo cambio di bandiera per convenienza. Questo sistema ha consentito alla flotta italiana di crescere e tutelare i suoi armatori. Dal 1° gennaio, la Commissione europea ha deciso di estendere questo pacchetto di aiuti anche ad altre bandiere che fanno parte dello spazio economico europeo. In poche parole, una nave con bandiera maltese ha gli stessi diritti di una nave con bandiera italiana ma non gli stessi obblighi burocratici. Questa opportunità, qualora non intervenissimo urgentemente nel processo di semplificazione e adeguamento ai nuovi contesti competitivi, rischierebbe di minare la competitività marittima italiana. LIMES Il settore armatoriale in Italia è in crisi per la mancanza di vocazione marittima degli italiani? ZANETTI Una crisi esiste. La vocazione manca anche a causa di una scarsa conoscenza e rilevanza del ruolo chiave che giocano gli istituti nautici del nostro paese, oggi chiamati istituti tecnici di trasporti e logistica, così come gli Its del mare, entrambi il principale luogo di formazione della nostra forza lavoro. La scarsa conoscenza è anche riferita alle opportunità che questi offrono ai giovani. Una volta diplomati è possibile partecipare a vari concorsi e superarli dà accesso alla professione, un mondo con concrete possibilità di carriera e un sostentamento economico notevole. Eppure, gli italiani che scelgono il mare sono sempre meno, all’ incirca 40 mila. Questo ci ha spinti a indagarne le cause. Tramite alcuni questionari è venuto fuori che a trattenere le persone a terra è la paura di essere sconnessi dal mondo. Non ricevere il segnale sullo smartphone crea più disagio che stare lontani dalle proprie famiglie. Questo è sinonimo di come i tempi siano cambiati e così anche la percezione della distanza intesa non più come fisica ma social. NonostanZANETTI
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te questo, resistono delle realtà molto valide come gli istituti di Gaeta, Trieste, Catania, Cagliari, riconosciuti a livello internazionale per qualità e professionalità dei nostri giovani. LIMES Cosa si può fare per avvicinare gli italiani al mare inteso come fonte di sviluppo e lavoro? ZANETTI Partire dai giovani e giovanissimi come stiamo già facendo. L’anno scorso abbiamo lanciato il progetto Lupa Marina in collaborazione con la Marina militare, che mira a portare il mare nelle scuole elementari. C’è un grande interesse dei bambini verso questo mondo. Ma la difficoltà di avvicinare gli italiani al mare si riscontra soprattutto perché abbiamo assistito a un processo di demarittimizzazione del nostro paese, che ha perso la percezione del mare anche a causa della scomparsa di questa parola nel nostro lessico. Un’altra evidenza è la scelta della popolazione italiana di sposarsi dalla costa verso l’entroterra. Se ci pensiamo questa è anche una controtendenza nazionale: mentre la popolazione mondiale si sposta dalle zone interne verso quelle costiere, gli italiani vanno in senso opposto allontanandosi sempre di più da una risorsa che fa parte di noi. LIMES Che giudizio dà del ministero del Mare e quali sono le vostre aspettative al riguardo? ZANETTI Al ministro del Mare e al Cipom noi guardiamo con interesse, speranza e favore. Vorrei ricordare che il mare rappresenta circa il 10% del pil italiano. Certamente questo rinnovato impegno può rivelarsi importante per favorire lo sviluppo di un settore chiave per la nostra economia. È importante che l’attenzione di tutti sia direzionata anche verso le navi operate da armatori italiani, che consentono di continuare a sostenere il flusso costante di merci in entrata e uscita dal nostro paese. Chiediamo un approccio comunitario equo, capace di tutelare e rappresentare in misura eguale gli interessi italiani nel settore armatoriale. Noi siamo consapevoli che investire sulla marittimità italiana è nell’interesse nazionale.
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NOTO La guerra ucraina minaccia la stabilità dei Balcani, rischiando di chiuderci nella morsa di Caoslandia. Il Trimarium come opportunità di recuperare l’Est e sviluppare la nostra costa. Dialogo con Francia e Turchia nel segno dell’America. di Lorenzo
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1. A GUERRA IN UCRAINA HA AMPLIATO LA frattura tra la frontiera orientale della Nato e lo spazio geopolitico occidentale russo. Riesumando la cortina di ferro che nel secondo Novecento bisecava l’Europa da Stettino a Trieste, oggi tramutata in acciaio lungo una direttrice che dai ghiacciai baltici sfocia nelle acque anossiche del Mar Nero. Argine che non solo rompe il vincolo energetico con Mosca, ma alimenta una tensione prebellica permanente ai margini di casa nostra. Segno dell’introversione americana, confermata dal caos mediorientale successivo al 7 ottobre. L’assenza di una forte direzione di Washington rischia ora di favorire un’ulteriore spaccatura, interna al sistema euroatlantico, tra l’avanguardia antirussa del Nord-Est (baltici e polacchi in testa) e i perni occidentali: Germania, Francia, Italia e Spagna. Crisi che comprometterebbe ulteriormente il Mediterraneo/Medioceano, spazzato dai venti di guerra provenienti da Mar Nero, Levante e Mar Rosso. Priorità per l’Italia è mantenere libere le rotte marittime da cui essa dipende, ma anche prevenire la destabilizzazione del suo estero vicino contribuendo, nei limiti delle proprie capacità, a evitare l’approfondirsi del solco Est-Ovest. Questa faglia passa per il Mar Adriatico. Guardando da Trieste a Oriente, appare un’area d’instabilità che giunge fino al bassopiano sarmatico. Questo mare torna per noi (o ci ricorda d’esser sempre stato) di straordinaria importanza. Come nel Mediterraneo centrale, su di esso possono riversarsi le tensioni Nato-Russia. Il conflitto scoppiato il 24 febbraio 2022 ha infatti una specifica dimensione mediterranea che espone l’Adriatico a potenziali rappresaglie: sabotaggio di infrastrutture strategiche (gasdotti, cavi sottomarini), minacce di blocco del Canale di Otranto. La destabilizzazione dell’Ucraina rischia inoltre di riflettersi sul quadrante balcanico, peggiorandone il fragile equilibrio e accentuandone il ruolo di crocevia di traffici. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Abbiamo bisogno di una strategia medioceanica con il concorso degli alleati per cogestire questo spazio, magari giocando su più tavoli. Nel caso adriatico, non mancano iniziative a cui agganciarsi: come il progetto polacco-americano del Trimarium, di natura strategico-militare mascherata da infrastrutturale-economica. Può servire a pianificare un approccio comune con i baltici verso Mosca, a evitare lo sfilacciamento dei Balcani, a cercare un compromesso con Germania e Francia per intavolare un dialogo con la Turchia, presente ormai in tutto il nostro intorno geostrategico. 2. Percepito come mite, l’Adriatico non è esente dal confronto strategico. Soprattutto alla luce dello straordinario affollamento di navi da guerra nel Mediterraneo. Per la Federazione Russa siamo «paese nemico», dunque la minaccia alle nostre coste non è riducibile al traffico mercantile ma si estende ad arterie fondamentali come oleodotti, gasdotti e cavi sottomarini. Il ruolo di hub energetico continentale che vorremmo acquisire può incitare operazioni di disturbo e sabotaggio. Benché oggi la frequenza di navi russe sia diminuita rispetto all’apice del 2022, la proiezione militare tra Suez e Gibilterra resta un pilastro strategico per Mosca. In tale direzione va il negoziato in corso con l’Esercito nazionale libico (Lna) del generale Œaløfa Õaftar 1. Questi vorrebbe dai russi sistemi di difesa aerea e addestra mento per piloti e forze speciali in cambio di basi aeree e del diritto d’ancoraggio permanente per le navi russe in uno dei porti cirenaici. Probabilmente Tobruk, che con l’aeroporto di Banønå – già usato dalla milizia Wagner – è tra i luoghi dove la Russia intende replicare l’appoggio mediterraneo di ¡ar¿ûs-Õumaymøm (in Siria). Dallo scoppio della guerra il traffico navale russo lungo l’asse siriano-cirenaico è aumentato esponenzialmente, spesso ostentando «atteggiamenti provocatori mai visti nel passato» secondo quanto affermato dal capo di Stato maggiore della Marina Enrico Credendino 2. Alla vigilia del conflitto e per tutto il 2022 episodi di tensione con la Flotta russa oltre il Canale d’Otranto sono stati frequenti. Le incursioni hanno scopo di deterrenza ma anche di spionaggio su infrastrutture strategiche come il gasdotto Tap e il cavo subacqueo OteGlobe. Nell’estate 2022 il pattugliamento di un gruppo di navi guidato dalla fregata Ammiraglio Grigorovi0, tra le più moderne di Mosca e dotata di missili a lungo raggio Kalibr, ha costretto la Marina italiana a manovrare rapidamente per mantenerne il monitoraggio e agire per tempo in caso di blocco russo del Canale. Nel dicembre 2022 la nave cisterna russa Akademik Pashin, usata per operazioni di spionaggio e partita da ¡arñûs, stazionava alcuni giorni sopra il tracciato del Tap, nei pressi del litorale di Meledugno dove approda il tubo. Scortava il vascello una corvetta Stereguš0ij armata di missili cruise. La nave si trovava a quattro chilometri dall’incrociatore americano Leyte Gulf: dopo l’arrivo delle unità russe, elicotteri della U.S. Navy hanno compiuto lunghi voli di sorveglianza, con il sostegno di un bimotore P72 dell’Aeronautica italiana. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. «Putin’s Move to Secure Libya Bases Is New Regional Worry for US», Bloomberg, 5/11/2023. 2. C. MARRONI, «Mediterraneo: l’allarme della Marina Militare “Le navi russe provocano”», Il Sole-24 Ore, 27/5/2023.
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Non esistono precedenti in cui gli articoli 4 o 5 della Nato siano stati attivati in risposta a una minaccia ibrida come il sabotaggio di infrastrutture. Dal crollo dell’Unione Sovietica la Nato si è evoluta diventando più attiva «fuori area», come in Bosnia Erzegovina (1995) e in Kosovo (1999). Ma al sabotaggio di gasdotti, già verificatosi in Europa, non è mai seguito un intervento militare dell’Alleanza. La vicenda di Nord Stream, a prescindere dal colpevole, è un segnale chiaro in tal senso. 3. Oltre alle ripercussioni dirette sulle nostre acque, il conflitto russo-ucraino comporta un rischio strutturale nel nostro estero vicino. Se la guerra d’attrito perdurasse finirebbe per riversarsi sul processo di stabilizzazione dello spazio balcanico. Avremmo a che fare con una faglia che dalla cortina d’acciaio giunge alle coste adriatiche: la spaccatura dell’Occidente minaccerebbe di esporci a un’ulteriore Caoslandia, chiudendoci in una morsa da est e da sud. Sebbene negli ultimi anni i paesi dei Balcani occidentali abbiano cercato l’integrazione europea, restano una bomba a orologeria di cui l’Italia si è sistematicamente disinteressata. Ventre molle d’Europa dove alla lenta presa occidentale si contrappongono le influenze di Russia, Cina e Turchia. Eppure, per noi questo spazio è sempre stato vitale: gravissimo è stato impoverire i rapporti con i dirimpettai basso-adriatici, Montenegro e Albania, paesi non ostili che ci permettono di interfacciarci con la regione. Caduto il comunismo l’Italia ha sostenuto quasi da sola l’Albania, per prevenirne il collasso e la conseguente ondata migratoria. Arrivando nella primavera del 1997 a guidare la forza internazionale destinata a restaurare lo Stato albanese prossimo alla dissoluzione. L’operazione evidenziava un interesse italiano a garantire la stabilità albanese. Oggi Roma si limita a restare primo partner commerciale di Tirana, lasciando sterile questo dato perché non tradotto in schema strategico. Opposto l’approccio della Turchia, la cui presenza ha gradualmente rimpiazzato quella italiana: prima puntando a settori commerciali (aviazione civile, edilizia, energia, telecomunicazioni, turismo), poi concentrandosi sugli ambiti culturale e religioso tramite la comune fede musulmana e la diplomazia legata alla valorizzazione del patrimonio artistico ottomano, infine facendo perno sul comparto tecnico-militare con l’accordo di cooperazione del 2020. Negli anni Novanta l’Italia aveva curato anche i rapporti con il Montenegro, oltre a mantenere un canale aperto con Belgrado in vece degli alleati. Persino in tempo di sanzioni aveva riattivato la tratta marittima Bari-Bar e inviato aiuti alla piccola repubblica adriatica, senza però incentivarne l’indipendentismo. Qui aleggia l’influenza russa: un legame che risale all’occupazione delle Bocche di Cattaro nel 1806. Quando nel 2017 il Montenegro entrò nella Nato dopo un lungo dibattito in cui i cittadini di origine bosniaca e albanese erano favorevoli, quelli montenegrini più miti e quelli di origine serba contrari, Mosca lo prese come affronto volto a sottrarle uno sbocco all’Adriatico. L’interesse russo non riguarda però solo i porti, essendo motivato anche dallo storico radicamento slavo-ortodosso, dal turismo (russo per un quarto), da investimenti nel locale settore immobiliare (di cui i russi detengono il 40% circa 3), dal fisco blando e dalla Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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facilità di ottenere passaporti che fanno del Montenegro un santuario per gli oligarchi. Negli ultimi anni però le relazioni tra i due paesi sono peggiorate e nel marzo 2022 la Russia ha aggiunto il Montenegro alla lista degli Stati nemici. La vittoria del partito europeista Evropa sad! (Europa ora!) alle presidenziali di aprile e alle parlamentari di giugno 2023 ha sancito la fine dell’èra Djukanovi©, imprimendo forse una svolta all’iter di adesione all’Ue. Ma il Montenegro rappresenta ancora una cerniera tra i Balcani che guardano all’Occidente e quelli che tendono alla Russia, il cui interesse resta alto 4 rendendo la repubblica adriatica punto d’attrito con Wa shington. Tra i riflessi della guerra ucraina sulla sicurezza regionale c’è anche l’impatto sui traffici illeciti che dal territorio balcanico approdano all’Europa attraverso l’Italia. La dispersione delle armi inviate a Kiev può favorire le organizzazioni criminali che sono solite scambiarle con grosse partite di droga, favorendo il ripetersi di scenari come quelli successivi alle guerre jugoslave. Nel 2020 il ministero degli Esteri tedesco stimava in circa sei milioni le armi di piccolo e medio calibro ancora in circolazione nella regione da fine anni Novanta: armi che affluiscono nel territorio europeo tramite l’Italia e la rotta balcanica 5. Ne è recente esempio l’Operazione Europol Cartello dei Balcani insieme alla polizia croata, che ha portato nel maggio 2023 all’arresto di 37 persone in 7 paesi. Il capo, un cittadino bosniaco, è sospettato di aver orchestrato tutto dalla sua detenzione italiana. Si aggiunge il traffico di esseri umani, incentivato dall’accordo Ue-Turchia del 2016. Un’analisi di Global Initiative against Transnational Organized Crime della primavera 2021 notava un aumento del flusso di richiedenti asilo nei Balcani occidentali già prima della crisi ucraina, unitamente a quelli di droga (in particolare eroina e cannabis) tra Albania e Puglia 6. Regione chiave è il Friuli Venezia Giulia, su cui insistono immigrazione clandestina e traffico di stupefacenti a opera di organizzazioni transnazionali. La relazione della Dia (Direzione investigativa antimafia) presentata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi in parlamento a settembre 2023 nota che la presenza di camorristi, mafiosi e ’ndranghetisti nella regione è ormai consolidata e che grande preoccupazione desta la «progressiva espansione dell’immigrazione clandestina attraverso l’utilizzo della rotta balcanica» verso Udine, Trieste, Gorizia e Pordenone. 4. Per scongiurare un buco nero a Oriente, anche alla luce della futura ricostruzione ucraina di cui gli europei dovranno farsi carico, occorrono iniziative corali. Partendo dal buonsenso geografico, cioè dall’idea di essere utili dove possiaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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3. S. KAJOSEVIC, «Russian Interest in Montenegrin Real Estate Spikes Despite Sanctions», Balkan Insight, 7/7/2022. 4. S.F. STARR, S.E. CORNELL (a cura di), Putin’s Grand Strategy: The Eurasian Union and Its Discontents, Johns Hopkins University, 2014, p. 25. 5. «Westbalkan: Gemeinsam illegalen Waffenhandel stoppen», Auswärtiges Amt, 31/01/2020. 6. «Spot Prices. Analyzing flows of people, drugs and money in the Western Balkans», Global Initiative, 10/5/2021.
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mo contare: sul mare. Serve un obiettivo di lungo periodo per evitare il ripetersi di velleitarismi come il forum dell’Euroregione adriatico-ionica del 2006, o l’Iniziativa centroeuropea dell’ex ministro Gianni De Michelis. Potremmo trarre vantaggio dalla partecipazione al Trimarium inteso come opportunità di cogestione dello spazio adriatico-balcanico con paesi amici e alleati: ipotesi finora ignorata dall’Italia, affacciatasi nel settembre 2023 al forum annuale dell’iniziativa (ospitato da Bucarest) con il viceministro delle Imprese e del Made in Italy Valentino Valentini, il quale ha parlato del ruolo che le nostre aziende possono giocare nello sviluppo della regione. Approccio timido e riduttivo. Pianificato dagli Stati Uniti e incentrato sul trittico Polonia-Romania-Croazia, il Trimarium ha matrice spiccatamente strategico-militare. Non serve solo a integrare i paesi centro-est europei tagliandone i ponti con Mosca, ma anche a facilitare il transito di mezzi militari corrazzati, idrocarburi ed equipaggiamenti in caso di necessità. Si articola su tre livelli. Il primo riguarda le infrastrutture energetiche: il gasdotto Gipl (Polonia-Lituania), la connessione gas Brua (Bulgaria-Romania-Ungheria-Austria), il gasdotto Eastring (Slovacchia-Ungheria-Romania-Bulgaria), l’interconnettore Romania-Ungheria, il Baltic Pipe (Norvegia-Danimarca-Polonia, Polonia-Slovacchia e Polonia-Ucraina), il gasdotto Iap (Croazia, Montenegro, Albania), il terminale gnl di Krk (Croazia). Il secondo concerne i trasporti, con l’integrazione nelle linee ferroviarie e stradali della rete transeuropea Ten-T. Il terzo riguarda le linee digitali, per cui tutto il sistema dei Tre Mari sarà dotato di 5G e fibra ottica. L’iniziativa è per ora caratterizzata da un forte sbilanciamento a est che rischia di declassare l’area mediterranea. Lo attesta l’importanza di progetti come la Via Carpathia o la ferrovia Rail2Sea. Il primo è un corridoio stradale che collega Klaipėda a Salonicco via Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria. Il secondo è un asse su ferro che congiunge i porti di Danzica (Polonia) e Costanza (Romania), pilastri del fianco Nato orientale. L’ingresso della Grecia, ufficializzato a Bucarest, accentua lo sbilanciamento. La partecipazione ellenica serve in chiave anticinese (il Pireo è accesso marittimo delle nuove vie della seta) e per la valenza civile-militare del porto di Alessandropoli, dove ha sede la più importante tra le nuove basi previste dall’accordo di difesa Usa-Grecia rinnovato nel 2021. Atene è sempre più piattaforma militare dell’America 7: lo scalo tracio offre al progetto un gasdotto in costruzione (via terra) per il trasporto di idrocarburi fino al porto di Danzica, utile in prospettiva statunitense per rifornire l’approdo romeno aggirando un blocco del Bosforo da parte del riottoso alleato turco. L’assenza dell’Italia dal progetto ha lasciato alla Croazia il ruolo di pivot adriatico: Zagabria ha dato forte impulso all’iniziativa, dragando persino i fondali di Fiume (Rijeka) per renderli competitivi con quelli di Trieste. Al contrario dell’Italia, la Croazia esprime una chiara visione strategica: il progetto antirusso risponde alla necessità di stringersi all’alleato americano, le permette di affrancarsi dagli idrocarburi siberiani e ne aumenta il peso contro la filorussa Serbia, approdo degli inveCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
7. T. KADAN, «New US military buildup on Greek islands», United World, 18/8/2023.
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RITORNO ALL’ADRIATICO
stimenti cinesi. L’asso calato dal paese è il rigassificatore dell’isola di Veglia (Krk), cofinanziato dalla Commissione europea e costruito in tempi record, cui si affianca un ulteriore impianto in località Castelmuschio (Omišalj), in fase di progettazione. Zagabria sta anche studiando un metanodotto per collegarsi al tratto balcanico del Tap: progetto concordato con Albania, Montenegro e Bosnia Erzegovina che permetterebbe il transito di metano azero fino a Spalato. Nonostante la guerra russo-ucraina abbia stimolato un riorientamento nordsud delle forniture energetiche, l’iniziativa presenta diverse criticità. La prima è il modesto apporto finanziario degli Stati Uniti: l’investimento iniziale di un miliardo di dollari promesso da Trump non si è materializzato. Poi c’è lo scetticismo tedesco: la Germania, importante partner del Trimarium, non lo ama molto per paura che ne comprometta l’influenza a favore della Polonia in uno spazio che considera di predilezione. Si aggiungono l’incertezza economica dovuta all’inflazione e alla crisi ucraina e il diverso approccio che alcuni paesi dell’area hanno verso Russia e Cina. Oltre che antirussa, l’Iniziativa dei Tre Mari è infatti pensata per contrastare la penetrazione nei Balcani delle nuove vie della seta cinesi. 5. La presenza dell’Italia nel Trimarium potrebbe dare slancio all’iniziativa e attenuarne l’appiattimento sull’asse Baltico-Nero-Egeo con un respiro più mediterraneo. Del sistema di collegamenti ferroviari, marittimi e fluviali del Trimarium, per l’Italia è funzionale il corridoio Baltico-Adriatico: dorsale strategica di cui fruiremmo anche in termini di potenzialità interne per il recupero della marittimità, grazie a una maggiore interconnessione tra porti, retroporti e assi viari, dunque per lo sviluppo del Nord-Est e la riduzione del divario Nord-Sud. Di recente Consiglio e Parlamento europei hanno raggiunto un accordo provvisorio per lo sviluppo e la modifica delle reti Ten-T 8, che conferma la nuova proposta presentata dalla Commissione nel dicembre 2021 aggiornandola all’impatto della guerra in Ucraina. L’ambito su cui potrebbe premere l’Italia è appunto il prolungamento del corridoio Baltico-Adriatico, previsto dalla nuova proposta, fino a Bari. Al vertice di questo corridoio abbiamo già un asset da sfruttare: Trieste. Il porto franco può servire meglio lo spazio mitteleuropeo e controbilanciare l’importanza militare di Danzica-Costanza. Trieste è lo snodo su cui puntare nel Trimarium: la geografia ne fa approdo naturale delle rotte passanti per Suez e dirette ai mercati dell’Europa centro-settentrionale. I fondali profondi consentono di accogliere le grandi navi portacontainer da 14 mila teu. Approfittare dell’iniziativa polacco-americana per porre il capoluogo giuliano al centro di un progetto di cogestione dello spazio adriatico-balcanico: questo, in sintesi, l’intento. Potenziare le infrastrutture costiere adriatiche del nostro Centro-Sud, assieme a quelle dei Balcani, potrebbe consentirci di stringere importanti legami con la regione, creando sistemi integrati dell’Adriatico che colleghino i porti delle due sponde. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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8. «Rete transeuropea dei trasporti (TEN-T): il Consiglio e il Parlamento raggiungono un accordo per garantire una connettività sostenibile in Europa», Consiglio europeo, 18/12/2023.
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Ad esempio tra le autorità portuali di Trieste, Fiume e Capodistria, per stemperare la competizione tra i tre porti dell’Alto Adriatico rendendo Trieste perno del triangolo. Qui siamo avvantaggiati dal recente accordo sui confini marittimi stipulato nel maggio 2022 con Zagabria, che sopisce i dissidi per lo sfruttamento delle risorse coinvolgendo anche la Slovenia, messa a parte degli sviluppi. Schema simile potremmo proporre a Montenegro e Albania, potenziando i collegamenti Bari-Bar-Valona come prolungamento del corridoio Baltico-Adriatico. L’obiettivo non sarebbe riducibile al solo ambito economico, contribuendo anche alla stabilità dell’area. Un’altra opportunità a Trieste e a Taranto la concede la Turchia, con le interconnessioni portuali che ha incardinato tra Scandinavia e Nord Africa. Nel 2018 U.N. Ro-Ro, controllata dell’anatolica Gph (Global Ports Holding), ha acquisito una concessione di 23 anni nel porto giuliano (scadenza 2041). L’anno successivo, la turca Yılport ha ottenuto la concessione del terminal San Cataldo a Taranto fino al 2067. Gli approdi si aggiungono alle acquisizioni di Yılport nei porti di Oslo, Stoccolma, Malta e Biserta, a costituire una catena per connettere Norvegia, Svezia e Italia fino al Nord Africa. Integrando l’iniziativa di Ankara (magari sfruttando il favore tedesco e coordinandoci con la Francia) al progetto Trimarium via Trieste potremmo fare sistema tra Adriatico e Mediterraneo centrale, offrendo al Trimarium uno sfogo mediterraneo-africano. 6. L’Adriatico può fungere da trampolino verso l’Est e contribuire a evitarne lo iato con l’Ovest, secondo uno schema incentrato sulla nostra proiezione marittima che ci veda trait d’union. A questo servirebbe l’espediente di una partecipazione italiana al Trimarium che rilanci la centralità di Trieste, anello di congiunzione da sud verso nord-est finora ignorato dal nostro paese. Alimentando il dialogo italo-turco, consapevoli che andrà esteso a tutti i punti nevralgici di un’eventuale strategia medioceanica. Il fattore turco è ormai una costante nel nostro mare, dalle Libie ai Balcani al Mediterraneo orientale, ma anche in regioni per noi cruciali come il Corno d’Africa e il Sahel. Questo ci impone di comunicare con Ankara magari traendone vantaggio, per evitare di subirne l’influenza. Migliorare i rapporti con la Turchia può essere inoltre propedeutico a un’intesa tra Italia e Francia decisiva in chiave mediterranea, perché anche Parigi è interessata a contenere l’estroflessione turca dalla Grecia (di cui è stretto partner) all’Algeria, sino alle profondità subsahariane. Tutto ciò implica trasformare il nostro approccio da emergenziale a strategico. La perdita di credibilità dell’Italia nei Balcani ha favorito attori i cui interessi non sono sempre allineati con i nostri. Abbiamo sostenuto senza criterio le guerre americane e finito per relegare le nostre relazioni al solo ambito economico, incapaci di razionalizzare le risorse disponibili secondo un disegno di lungo periodo, perdendo prestigio, mancando l’obiettivo di farci riferimento regionale agli occhi degli alleati. La frattura della cortina d’acciaio e quella potenziale tra i settori orientale e occidentale della Nato sono oggi pericoli seri. Ma sono anche un’opportunità per recuperare terreno e giocare le partite in corso. Prima di subire i moti ondosi dei tempi che corrono. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
SPAZIO ALL’ITALIA
di Marcello SPAGNULO
Dipendiamo dalle industrie spaziali di Francia e Germania, a loro volta orfane dei lanciatori russi e in affanno di fronte al New Space statunitense. L’offensiva della Commissione Ue sull’Esa. Diamoci un governo del settore all’altezza delle sfide.
A
1. DUE ANNI ESATTI DALL’INVASIONE dell’Ucraina, il presidente russo Vladimir Putin ha premiato le divisioni delle Forze aerospaziali con una cerimonia densa di orgoglio nazionale. L’evento tenutosi a 9kalovskij, un aeroporto vicino a Mosca, è stato un chiaro segnale al mondo dell’importanza che la Russia attribuisce alle operazioni dei propri contingenti aerospaziali. Non è stata forse una coincidenza che la cerimonia si sia tenuta a pochi giorni dalla notizia diffusa dall’America di un nuovo ordigno nucleare russo antisatellitare che potrebbe essere lanciato in orbita già entro il 2024. La Casa Bianca ha allertato con toni e dettagli preoccupanti gli alleati europei e i propri partner. La militarizzazione dello Spazio nasce insieme all’esplorazione spaziale negli anni Cinquanta del secolo scorso. Sono facce della stessa medaglia. I razzi americani e sovietici erano derivati degli Icbm (missili balistici intercontinentali) e portavano in orbita astronauti appartenenti alle Forze armate, a bordo di capsule progettate nei laboratori militari. Dai successi delle missioni Apollo sulla Luna alla Space Defence Initiative di Ronald Reagan, gli Stati Uniti si sono affermati nella seconda metà del Novecento come l’unica inarrivabile superpotenza spaziale. Con la caduta del Muro di Berlino e l’avvento del terzo millennio si era diffusa l’idea di un mondo unipolare a guida statunitense, la cui leadership globale si sarebbe esercitata a terra e nello Spazio. La Stazione spaziale internazionale (Iss), collaborazione tra russi e americani impensabile fino a pochi anni prima, era il simbolo diplomatico e tecnologico della superiorità spaziale a stelle e strisce. Astronauti di tutto il mondo erano addestrati a Houston e a Mosca, poi vivevano fianco a fianco su una stazione gestita congiuntamente dagli ex nemici della guerra fredda. Ai primi anni Duemila risalgono però svariati segnali che avrebbero dovuto far presagire un mondo non così unipolare come veniva raccontato. La Russia aveva Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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iniziato un intenso programma di riarmo cibernetico e aerospaziale. La Cina, che opera in un orizzonte strategico di decenni e non di anni, portava avanti un grande programma di esplorazione spaziale intorno alla Terra e sulla Luna. Il Giappone modificava la sua costituzione per assegnare compiti tattici alle sue neocostituite Forze militari aerospaziali. L’India si dotava di una forza armata spaziale – prendendo a modello quanto fatto dalla Francia 1 – e conseguiva un’impressionante serie di successi spaziali, divenendo il quarto paese al mondo (dopo Stati Uniti, Cina e Russia) a far allunare un lander (veicolo d’esplorazione). Iran, Corea del Nord e Corea del Sud si affacciavano all’orbita terrestre. Lo Spazio è ulteriormente, drasticamente cambiato quando le Big Tech 2 si sono lanciate nella corsa ad accaparrarsi le risorse naturali del Cosmo, cioè le orbite terrestri e in prospettiva quelle lunari. In un contesto geopolitico di crescente instabilità, gli Stati Uniti hanno cominciato a rivolgersi a società spaziali private per qualsiasi cosa: dai servizi di lancio dei satelliti e degli astronauti alle comunicazioni, dall’imaging satellitare alle future stazioni spaziali orbitanti. Se prima il governo americano stipulava contratti con le aziende per costruire – talvolta anche gestire – satelliti e sistemi spaziali mantenendo però il controllo di proprietà e operazioni, oggi il paradigma è l’acquisizione di servizi da privati. I benefici appaiono significativi: costi ridotti per l’accesso allo Spazio e le operazioni, innovazione tecnologica, maggiore ridondanza e resilienza dei sistemi spaziali. Caratteristiche di fondamentale importanza per la sicurezza nazionale, dalle comunicazioni all’intelligence. Appare dunque inesorabile il progressivo passaggio da una militarizzazione dello Spazio (l’uso degli assetti orbitali per fini militari terrestri) a un suo armamento (weaponization), cioè all’uso sistemi d’arma in orbita. Ciò è in larga parte conseguenza del crescente sfruttamento economico dello Spazio, la cosiddetta New Space Economy, che in troppi vedono superficialmente come una cornucopia di benessere per tutti mentre è un accentramento di ricchezza per pochi. Passare da un uso dei satelliti per l’economia terrestre a uno sfruttamento diretto delle risorse spaziali (terre rare, energia solare) comporta la necessità di occupare posizioni strategiche e di stabilire infrastrutture produttive nello Spazio. Il che implica poterle proteggere e difendere, anche militarmente. 2. In questo quadro il destino dell’Italia quale attore spaziale è in larga misura legato a quello dell’Europa. Per cinquant’anni lo Spazio è stato governato dall’Agenzia spaziale europea (Esa), creata nel 1975 e con sede a Parigi: collocazione dall’ovvio simbolismo politico, dato che lo Stato francese ne era motore primo e azionista principale. Lo statuto dell’agenzia vieta lo sviluppo di programmi militari e ha scopi esclusivamente pacifici. L’ente spaziale ha da sempre il compito di federare i fondi degli Stati membri per realizzare progetti comuni. Questo ha permesso all’industria transalpina di attingere agli investimenti comunitari e a diversi paesi, tra cui il nostro, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. A. BANERJI, «The Slow Militarization of India’s Space Sector», The Diplomat, 23/9/2023. 2. L. SIGNÉ, H. DOOLEY, «How space exploration is fueling the Fourth Industrial Revolution», Brookings Institution, 28/3/2023.
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di far crescere le proprie industrie in progetti di ampio respiro. Un modello industriale perfettamente inserito nella politica continentale del secondo dopoguerra: welfare e sviluppo economico garantito dall’ombrello securitario statunitense. Dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica è cambiato tutto, mentre l’Esa è rimasta la stessa. A Parigi erano ben consapevoli del ritardo politico e tecnologico che l’Europa andava accumulando 3 – a proposito: sarebbe il caso di istituire anche in Italia un centro di intelligence economica come c’è in Francia da decenni – e così si è fatta avanti la Commissione europea, altra entità a trazione franco-tedesca, che ha gradualmente aumentato la propria influenza strategica, finanziaria e operativa sui programmi spaziali. Al punto da creare nel 2021 una propria agenzia spaziale alternativa all’Esa. Nel corso di una conferenza tenutasi a Bruxelles a inizio 2024, Thierry Breton, ora a capo della Direzione generale per l’industria della Difesa e lo Spazio, ha annunciato che la Commissione si candida a guidare la futura strategia spaziale del continente visti i pessimi risultati dell’Esa in vari ambiti, tra cui la gestione dell’accesso allo Spazio 4. L’uscita ha palesato il crescente divario politico intraeuropeo. Negli anni, infatti, le richieste di sovranità spaziale europea sono diventate sempre più forti, ma la distanza tra l’innovazione tecnologica del continente e quella altrui (statunitense, cinese, indiana, giapponese) è aumentata. L’Europa non riesce ad andare su Marte: l’Esa si era affidata a Mosca per il lanciatore e per il sistema di atterraggio, ma dopo l’invasione dell’Ucraina la collaborazione è tracollata. Non ha in cantiere neanche uno straccio di progetto per un piccolo lander lunare come hanno fatto Giappone, India e le società private statunitensi. Andare sulla Luna anche con un piccolo rover ha valenza geopolitica, ma anche tecnologica: è difficile essere presi sul serio quando non si dispone neanche più di un veicolo di lancio e bisogna ricorrere a Elon Musk 5 per lanciare i satelliti Galileo, equivalenti europei del Gps americano. Si può immaginare il Pentagono o le agenzie spaziali russa e cinese che acquistano all’estero dei vettori per lanciare i loro satelliti strategici? Difficile. In Europa invece accade. Ha ragione quindi il direttore generale dell’Esa a chiedere un cambiamento 6, peccato che il j’accuse appaia velleitario nel consolidato meccanismo burocratico europeo che ha prodotto la situazione attuale. Il cambiamento auspicato dall’Esa, che deve vedersela con la crescente rivalità della Commissione, rimanda a un modello in stile Nasa in cui l’agenzia acquista servizi predefiniti da aziende private invece di gestire lo sviluppo di sistemi che vengono poi commercializzati dall’industria. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. J.A. LEWIS, «Galileo visto dagli Usa», Limes, 5/2004, «Le mani sullo Spazio»: «Il presidente francese Jacques Chirac arrivò a dire che se l’Europa non avesse realizzato i propri satelliti Galileo sarebbe divenuta un vassallo tecnologico degli Stati Uniti». 4. M. CABIROL, «L’OPA de Thierry Breton sur les lanceurs spatiaux», La Tribune, 8/11/2023. 5. «L’Américain SpaceX choisi par l’Europe pour lancer quatre satellites en 2024», La Tribune, 23/10/2023. 6. P. HOLLINGER, «Europe’s independent access to space is at risk, says European Space Agency chief», Financial Times, 9/1/2023.
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Il problema è che tale modello non pare compatibile con le attuali strutture di finanziamento europee, che infatti Parigi vorrebbe cambiare in favore di un sistema sempre contributivo (cioè: con i soldi di tutti), ma competitivo e non più redistributivo (cioè: a vantaggio dei più grandi). Questo è un rischio per il nostro paese, che potrebbe ritrovarsi nella posizione finanziaria di contributore netto e in quella industriale di partner di minoranza. L’esternalizzazione dell’innovazione al settore privato ha funzionato alla Nasa per tre ragioni. In primo luogo, negli Stati Uniti ci sono mercati di capitali privati la cui taglia e propensione al rischio non trovano riscontri in Europa. In secondo luogo, il governo americano – meglio: il Pentagono – è in grado di agire come cliente di prima istanza affidabile e capiente per imprese e start-up, cosa che in Europa non avviene. La terza e fondamentale ragione è stata spiegata al Financial Times da Lori Garver, già vicedirettrice della Nasa, secondo cui «abbiamo avuto una situazione unica con la persona più ricca del mondo (Elon Musk, n.d.r.), la cui strategia commerciale era allineata alla nostra e lui voleva comunque fare ciò che ha fatto» 7. Una svolta strategica difficile, se non impossibile da replicare in Europa dove ci si chiede come garantire una domanda di lanci spaziali sufficiente a ridurre i costi e a sostenere un’industria competitiva. 3. Ecco entrare in gioco il piano di Bruxelles: un grande progetto spaziale in grado di rivaleggiare con SpaceX di Elon Musk e con i suoi onnipresenti satelliti Starlink. Nel 2023 il Parlamento europeo ha discusso la proposta di regolamento del Consiglio per istituire il programma spaziale da centinaia di satelliti per comunicazioni sicure (Iris²) nel periodo 2023-27. Nell’autocelebrativo gergo comunitario questo progetto è «un passo da gigante per la sovranità tecnologica dell’Ue, reso possibile dall’unione delle forze nei settori pubblico e privato. A finanziare la nuova infrastruttura critica dell’Ue saranno il bilancio comunitario con 2,4 miliardi di euro e l’Agenzia spaziale europea con 685 milioni di euro, mentre il resto sarà coperto dal settore privato» 8. Più che un passo da gigante si tratta di un gigantesco aiuto di Stato all’industria spaziale europea, che versa in condizioni difficili e che assai difficilmente potrà apportare al progetto fondi propri. Infatti, sono sempre più numerosi e intensi i segnali poco rassicuranti che arrivano dalla Francia, paese leader dello Spazio europeo. «Il gruppo Thales-Alenia (joint venture italo-francese, n.d.r.) seriamente scosso dagli attori del New Space» 9, «Il preoccupante vuoto d’aria dei produttori francesi di satelliti» 10: sono solo due esempi dei titoli allarmati che si susseguono sulla stampa d’Oltralpe. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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7. P. HOLLINGER, «Rocket revolution threatens to undo decades of European unity on space», Financial Times, 4/2/2024. 8. «Adoption by the European Parliament of IRIS², Europe’s new Infrastructure for Resilience, Interconnection & Security by Satellites», Commissione europea, 14/2/2023. 9. «Le groupe Thales sérieusement ébranlé par les acteurs du New Space», Air&Cosmos, 21/2/2024. 10. M. CABIROL, «L’inquiétant trou d’air des constructeurs de satellites tricolores», La Tribune, 15/2/2024.
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L’INDUSTRIA SPAZIALE ITALIANA Numero di aziende straniere presenti con partecipazioni maggioritarie, sedi o acquisizioni di industrie italiane 3
Altri 2 (Canada e Regno Unito)
3
Germania
Usa Robotica Leonardo
5 Francia MILANO Torino
Produzione moduli abitabili Thales Alenia Space Italia N. di sedi estere in Europa di industrie spaziali italiane Germania 10 Francia 5 Regno Unito 5 Spagna 3 Paesi Bassi 3 Rep. Ceca 2 Polonia 2 Romania 2 Grecia 2 Portogallo 1 Austria 1 Belgio 1
ROMA Centro produzione satelliti Thales Alenia Space Italia Colleferro Avio - produz. lanciatore Vega
Classifica delle prime 15 Regioni d’Italia per numero di aziende dell’industria spaziale italiana 84 (di cui a Roma 78) Lazio 37 (di cui a Milano 22) Lombardia 31 (di cui a Torino 30) Piemonte 27 (di cui a Napoli 17) Campania 17 Toscana Emilia-Romagna 16 13 Puglia 12 Veneto 11 Liguria 8 Basilicata 7 Abruzzo 6 Umbria 5 Sardegna 5 Sicilia I 12 distretti spaziali 4 Marche Teleporto del Fucino Centro spaziale di Telespazio (attivo dal 1963)
Bari
Centro integrazione Sitael
Napoli Matera
N. di sedi extra-europee di industrie spaziali italiane 5 Usa Brasile 3 2 Argentina
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THALES ALENIA SPACE Thales 67% Leonardo 33%
FRANCIA
Fonte: elaborazione dati S. Ciccarelli
SPACE ALLIANCE Accordo tra Thales e Leonardo (2005)
2 EAU
ITALIA
2 Singapore
2 Australia
TELESPAZIO Leonardo 67% Thales 33%
Province italiane con presenza di aziende spaziali
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SPAZIO ALL’ITALIA
Il problema è che la sfida globale dell’industria spaziale si è strutturata in un’attività di produzione di massa di satelliti piccoli ed efficienti e di razzi riusabili decine di volte. Il risultato sono costellazioni di migliaia di satelliti in orbita bassa, finanziariamente possibili grazie ai costi di lancio ridotti e all’uso di tecnologie innovative nell’elettronica e nei materiali. Pressati dalla competizione di SpaceX, i tradizionali operatori satellitari internazionali (Eutelsat, Intelsat, Ses, Viasat, Inmarsat) che costituivano il mercato principale dell’industria europea sono bloccati, non investono in nuovi satelliti e cercano mediante fusioni o acquisizioni di procrastinare un futuro che pare denso di nuvole nerissime. Le quote di mercato perdute saranno difficilmente recuperate dall’industria – la franco-tedesca Airbus, la franco-italiana Thales-Alenia posseduta al 67% da Thales Francia e al 33% da Leonardo spa) – che quindi si rivolge all’Esa e alla Commissione per garantirsi la sopravvivenza. Ora articoliamo una semplice domanda: se l’Esa divenisse un mero acquirente di servizi di lancio e non più un appaltatore dell’industria, quale sarebbe l’interesse di un governo come quello italiano a finanziarla? Si pone quindi il tema di dove posizionare il nostro paese in questo scenario europeo e mondiale. Limes ne parlava 11 già nel 2021, ma poco appare cambiato a livello nazionale rispetto ad allora. Il primo aspetto è quello della politica industriale. Al netto delle pmi (piccole e medie imprese), la nostra industria spaziale è strettamente interconnessa con quella francese e con quella tedesca. La Space Alliance tra Leonardo spa e Thales esprime due joint ventures italo-francesi, una per la manifattura dei satelliti a maggioranza francese e una per i servizi a maggioranza italiana. Nei lanciatori l’azienda nazionale dipende dalle commesse della francese ArianeGroup che acquista i booster per il razzo Ariane e dalla politica commerciale della francese Arianespace, che vende sul mercato il Vega prodotto in Italia (oggi bloccato a terra per un incidente). Recenti frizioni industriali hanno condotto a una separazione 12 poco consensuale tra francesi e italiani, e questi ultimi adesso vorrebbero commercializzare il Vega in autonomia. Non proprio semplice, dato che è l’Agenzia spaziale francese a possedere il sito di lancio della Guyana da dove decollano i razzi europei. Inoltre, pur di mantenere in Guyana il controllo dei lanci Parigi ha aperto alla concorrenza selezionando sette industrie che propongono nuovi lanciatori: l’italiana Avio, le tedesche HyImpulse Technologies, Isar Aerospace e Rocket Factory, le francesi MaiaSpace e Latitude, la spagnola Pld Space 13. Mentre l’industria dei lanciatori sembra espandersi dinamicamente – alla fine conteremo i sopravvissuti o il singolo superstite – quella dei satelliti, come visto, è in contrazione e per il nostro paese non è una buona notizia. Il difficile contesto Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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11. M. SPAGNULO, «L’Italia spaziale da terzo grande a satellite di chi?», Limes, 12/2021, «Lo Spazio serve a farci la guerra», pp. 191-208. 12. M. CABIROL, «Lanceurs spatiaux: vers un divorce à l’italienne entre Avio et Arianespace», La Tribune, 26/10/2023. 13. A. BAUER, «Le CNES veut ouvrir le port spatial de Kourou aux fusées privées», Les Echos, 20/9/2022.
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potrebbe preludere a potenziali cambiamenti industriali, magari attraverso una fusione nella manifattura dei satelliti tra la franco-italiana Thales-Alenia e la franco-tedesca Airbus Defence and Space. A Parigi l’ipotesi è sul tavolo da anni e la congiuntura economica potrebbe accelerare il processo. Non sussisterebbe neanche il rischio di uno stop antitrust da parte di Bruxelles, perché l’eventuale fusione non costituirebbe un monopolio. La competitività europea sarebbe infatti assicurata dall’esistenza di un altro rilevante attore industriale, OHB SE con sede a Brema, che negli ultimi vent’anni è diventato un gruppo da tremila persone con quindici sedi in Europa e decine di satelliti in orbita. La ditta tedesca possiede il 100% della OHB Italia di Milano, seconda azienda manifatturiera spaziale italiana con oltre duecento addetti. Oltre alla manifattura dei satelliti, un ipotetico – ma non tanto - scenario di aggregazione industriale potrebbe coinvolgere anche il settore dei lanciatori, dove un’ipotesi è replicare il modello della missilistica militare che vede il campione europeo Mbda quale unico attore industriale. Mbda sta registrando ricavi altissimi con le commesse derivanti dagli approvvigionamenti militari per la guerra ucraina (nel solo 2022 ha totalizzato oltre 9 miliardi di euro di ordinativi) e quindi avrebbe una capienza finanziaria in grado di assorbire anche l’industria missilistica civile, oggi in crisi. 4. Comunque evolva lo scenario, i rischi di un possibile ridimensionamento per l’industria nazionale non dovrebbero essere sottovalutati, anzi andrebbero prevenuti. Sinora la nostra industria, a parte il programma nazionale Cosmo Skymed e le iniziative bilaterali Asi-Nasa, è stata dipendente dai programmi dell’Esa. Se questa fosse ridimensionata dalla Commissione e dal suo programma spaziale, non potremmo esimerci dal rivedere i contributi all’agenzia e dal coltivare nuove capacità nazionali – che si stanno peraltro rafforzando grazie al Pnrr – anche con collaborazioni internazionali fuori dagli schemi consolidati. Strategia e politica industriale impongono inoltre il tema di un governo nazionale dello Spazio. La riforma del settore, approvata nel 2018, ha assegnato l’alta direzione e il coordinamento al presidente del Consiglio, coinvolgendo in un apposito comitato (Comint) i vari ministeri interessati. Nel 2022 sono intervenuti due dpcm che hanno introdotto un nuovo ufficio non compreso nella legge del 2018. Al contempo lo Stato maggiore della Difesa ha istituito un proprio Ufficio generale per gli Affari spaziali, recentemente integrato nel Combined Space Operations (Cspo): iniziativa multinazionale a guida statunitense con funzioni di coordinamento tra le difese spaziali delle nazioni partecipanti (Usa, Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Francia, Germania e Italia). Al momento contiamo dunque sei attori istituzionali che a vario titolo si occupano di Spazio 14. Ottimizzare questo assetto non è un’opzione, è un’esigenza. Non solo per rendere più fluido il processo relazionale tra gli enti coinvolti, ma anche Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
14. Cfr. AirPress, n. 143, aprile 2023, «Nuove regole per lo Spazio italiano».
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SPAZIO ALL’ITALIA
per valutare se adottare uno schema di governo centralizzato presso la presidenza del Consiglio, come fatto con la cibersicurezza o con la trasformazione digitale. Lo Spazio è intimamente legato al mondo della sicurezza informatica, delle comunicazioni avanzate e dell’intelligenza artificiale e assume una valenza strategica per la sicurezza e la difesa. Pensare i sistemi spaziali come infrastrutture critiche per il nostro paese significa prendere consapevolezza di doverne adeguare il governo, per definire la politica strategica e industriale nell’interesse nazionale. Si possono formulare in merito diverse ipotesi di soluzioni ed è interessante notare che l’ordinamento istituzionale italiano presenta già al suo interno realtà poco utilizzate, ma con potenzialità esplorabili. Il decreto del presidente del Consiglio dei ministri 139 del 1° giugno 2010 istituisce il Comitato politico strategico (Cops), presieduto dal presidente del Consiglio, che rileva l’indirizzo e la guida strategica nazionali nelle situazioni di crisi (non solo emergenziali, anche di sicurezza preventiva). Il Cops è dotato di un Nucleo interministeriale di situazione e pianificazione (Nisp) presieduto da un sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio o delegato al consigliere militare della medesima, che ha una vasta gamma di funzioni: acquisizione di informazioni, programmazione e pianificazione, coordinamento di operazioni. Si tratta di un nucleo di intelligence strategica e operativa che adotta un modello in teoria replicabile anche per lo Spazio. Di fronte alle sfide globali occorre cambiare approccio, non restare ancorati agli schemi di collaborazione sin qui percorsi. Ciò non significa deragliare all’improvviso, ma ripensare investimenti e programmi secondo le esigenze di sicurezza nazionale, strategiche ed economiche. Per fare ciò il primo passo essenziale è riconfigurare il governo del settore adattandolo al mutato contesto internazionale. Per il nostro paese il riordino della politica strategica e industriale dello Spazio non è procrastinabile.
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Parte III che FARE nella GUERRA GRANDE Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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PER UNA RELAZIONE SPECIALE CON GLI STATI UNITI di Federico PETRONI Un’America in difficoltà chiede agli alleati di assumersi compiti nuovi, per stabilizzare aree importanti ma secondarie rispetto ai fronti con Russia e Cina. L’Italia deve offrirsi àncora del Mediterraneo per aiutare Washington. E così sé stessa.
I
1. N UNA RECENTE RIUNIONE CON ANALISTI americani ben introdotti, Limes si è sentita rivolgere il seguente discorso. Gli Stati Uniti sono sempre più orientati verso la Cina, ma l’Italia non può fare granché nell’Indo-Pacifico. Potreste aiutarci in modo indiretto, contribuendo alla stabilità nella vostra regione: Balcani, Medio Oriente, Nord Africa. Come possono gli Stati Uniti aiutare l’Italia ad assumersi la responsabilità delle minacce alla sicurezza locale? Come possiamo aiutarvi a potenziare le vostre capacità, occupando nicchie nelle filiere produttive strategiche o costruendo una base industriale bellica transatlantica? Rivoluzione copernicana. Degli americani chiedono che cosa possono fare affinché l’Italia li sgravi di compiti negli spazi mediterranei. Tradotto: della vostra sicurezza dovete occuparvi voi in prima istanza, se serve con il nostro sostegno. I tempi in cui valeva il contrario sono finiti, il vento è cambiato. Gli Stati Uniti sono alla disperata ricerca di alleati cui delegare, in rapporto ovviamente sbilanciato ma aperto a un negoziato continuo, funzioni in aree essenziali di cui non si possono più occupare direttamente. Tra queste aree ricade l’Italia. Per noi è un terremoto. La garanzia americana è stata per decenni la base della nostra sicurezza. Con essa continuiamo pervicacemente a giustificare la nostra estraneità alle competizioni di potere attorno a noi. Ora ci troviamo in una posizione insidiosa: non abbastanza vicino a pericoli immediati da destarci, non così lontani da esserne al riparo. Prima linea della retroguardia, punto di vulnerabilità del sistema euroatlantico. Il disimpegno americano dal Mar Mediterraneo ci fornirebbe un’occasione irripetibile per adottare un grande obiettivo strategico sul quale imperniare il nostro operato: prevenire lo scoppio di ulteriori crisi nel nostro intorno geografico, in una divisione del lavoro (competitiva, se necessario) con i nostri partner di riCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ferimento. La tattica per perseguirlo: una relazione speciale con gli Stati Uniti. Proporci cioè come punto di riferimento del sistema euroatlantico per la sicurezza nel Mediterraneo, intimi interpreti delle sensibilità statunitensi. Senza per questo rinunciare a un margine d’autonomia, anzi rivendicandolo per galleggiare nelle mischie attorno a noi. Di questi propositi l’opinione pubblica italiana è ignara mentre parte della classe dirigente li rifugge, entrambe aggrappate a una mentalità esostorica (peggio che post-storica, proprio fuori dalla storia) e a un’immagine desueta dell’America. Quasi fosse la strapotenza di vent’anni fa o fosse possibile schivare la realtà solo chiudendo gli occhi. Prigionieri della nostra accidia, trascuriamo opportunità concrete – e non del tutto estranee alle nostre attitudini – per aggiornare il rapporto Italia-Stati Uniti alla Guerra Grande. Prima che questa finisca per archiviarlo. Non servilismo, dunque, ma spirito di sopravvivenza. 2. Che cosa rende così aperti gli americani con l’Italia? Sono al contempo sovraestesi, introvertiti e alle prese con uno slittamento geografico delle priorità. Tre condizioni impegnative se prese singolarmente, esplosive se sommate. La sovraestensione deriva da oneri accumulati in tre quarti di secolo sotto forma di garanzie di sicurezza che non si pensava di dover onorare, tantomeno contemporaneamente. L’America ha troppe missioni per risorse troppo scarse. Malgrado una spesa bellica tripla rispetto a quella cinese, gli armamenti statunitensi sono sempre più cari e sempre più costosi da utilizzare. Sono sempre meno: la flotta è la metà rispetto agli anni Ottanta, la Marina schiera il 70% del naviglio ritenuto necessario 1, navi e aerei prodotti ogni anno sono meno di quelli dismessi. In un giorno di attacchi agli õûñø in Yemen sono stati sparati i missili Tomahawk acquisiti in un anno e mezzo 2. L’impero informale dell’America si è tanto più allargato quanto più calavano i mezzi per difenderlo. L’introversione della nazione rende impossibile aumentare le risorse a disposizione. La popolazione chiede di ricostruire in patria, non di difendere l’impero. L’Ucraina conta meno dell’inflazione e dell’immigrazione – la logica esiste da sempre, ma ora siamo in clima bellico. La sfiducia nelle istituzioni è tale che un mancato golpista (Trump) è il politico di gran lunga più amato d’America. Il sistema politico è in crisi di legittimità, non più in grado di prendere decisioni strategiche. Anche la politica estera si è politicizzata: il rapporto con l’Europa, un tempo sacro, è oggetto di violenti dibattiti. La Russia non è più unanimemente il nemico, né Israele intoccabile. Lo iato tra ambizioni e risorse è tale che da più parti la strategia statunitense viene definita «insolvente» 3. La minore disponibilità a fare la guerra ha portato a un Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. M. ECKSTEIN, «Seeking 75 ships ready for combat, Navy turns to new readiness orgs», Defense News, 9/1/2024. 2. M. EAGLEN, «Why is the U.S. Navy Running Out of Tomahawk Cruise Missiles?», The National Interest, 12/2/2024. 3. D.A. OCHMANEK et al., «Inflection Point: How to Reverse the Erosion of U.S. and Allied Military Power and Influence», Rand Corporation, 2023.
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abuso della guerra economica che incita amici e nemici a creare circuiti alternativi per resistere all’intrusività del dollaro. Accelerando così la transizione da un’egemonia non più benigna a un mondo caotico, privo di centro ordinatore. Il cedimento di volontà e capacità dell’America ne incoraggia i rivali a sfidarla apertamente in Europa e in Medio Oriente: i teatri che tre amministrazioni consecutive hanno dichiarato di voler ridimensionare per dedicarsi all’Indo-Pacifico. Gli apparati si costernano: la deterrenza è saltata, non spaventiamo più nessuno. La disfunzione interna rende arduo ricorrere alla guerra per tornare a fare paura. Guadagnare tempo con gli avversari per tamponare l’emorragia? Al contrario: il riflesso culturale a considerare ogni idea del mondo alternativa una minaccia alla propria way of life induce gli Stati Uniti a un duro confronto con i rivali, anche in assenza dei mezzi adeguati. Bluff o meno è un fatto, per quanto a-strategico. Qui entrano in gioco gli alleati, concepiti come l’ultima àncora della deterrenza. Gli Stati Uniti ne hanno bisogno come mai dai tempi della rivoluzione americana. È una questione esistenziale. Si rendono anche conto di essere in crisi di persuasione: non sono nella posizione di ordinare e sono disposti a concedere agli alleati ampi margini di autonomia. Non nei confronti di Cina e Russia, ma per consentire di perseguire interessi specifici nelle rispettive aree. Specie quando ci si allontana dal cuore degli interessi statunitensi, come nel caso dell’Italia. Per capirlo, dobbiamo esaminare lo slittamento geografico delle priorità americane. 3. Sovraestensione e introversione costringono Washington a darsi una gerarchia delle priorità. Informale perché non pubblicizzabile, specie ai soci. Indigesta perché cozza con un congenito rifiuto a delimitare l’impero. In divenire perché negoziata fra più centri di potere e correnti d’opinione. Soprattutto, impossibile da cogliere se ci si concentra sulle narrazioni dei politici e se si ragiona in termini di regioni. A sentire Biden, gli Stati Uniti stanno lottando per difendere e ripristinare la supremazia, solo più condivisa con gli alleati. A sentire Trump, Washington sarebbe pronta ad abbandonare gli alleati che non pagano, a prescindere dalla loro utilità. La prima narrazione è deresponsabilizzante, perché induce – soprattutto in Italia – la falsa impressione che se l’America vince si torna ai tempi d’oro. La seconda convince altrettanto erroneamente che gli Stati Uniti siano pronti a liquidare la Nato. Fuorviante è anche limitarsi a constatare che gli americani si stanno spendendo su tutti i fronti: in Europa, in Medio Oriente, nell’Indo-Pacifico. Se si osserva da più vicino, si scorge una concentrazione su alcuni punti. La Guerra Grande ha rimesso al centro il presidio degli stretti marittimi. In funzione passiva: evitare che altri estendano il proprio controllo sulle principali arterie commerciali e digitali. In funzione attiva: usare gli accessi oceanici all’Eurasia per fare pressione sui rivali (Russia, Iran, Cina), attraverso la tradizionale proiezione talassocratica della forza, fondata sulla Marina e sulla flotta aerea imbarcata. Attorno alla Russia, gli Stati Uniti danno priorità alla fascia tra il Mare di Barents e l’Egeo, passando per i colli di bottiglia del Baltico e del Bosforo. Sviluppi reCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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centi confermano la decennale tendenza a spostare verso est il centro di gravità della Nato. Hanno ottenuto accesso a 36 nuove basi tra Norvegia, Svezia e Finlandia 4. Considerano il Baltico un’insenatura atlantica per tenere sotto minaccia Kali ningrad e San Pietroburgo. Hanno creato la prima guarnigione stanziale in Polonia, il V corpo d’armata dell’Esercito, che comanda oltre diecimila militari americani a rotazione, installati in caserme finanziate da Varsavia. Occupano almeno tre basi in Romania, bastione meridionale ed eusino dell’Intermarium. Hanno supportato gli ucraini nell’affondamento o danneggiamento di quasi un terzo della flotta russa nel Mar Nero. Stanno studiando basi nelle isole egee della Grecia, oltre alle nove fra Creta, Peloponneso e Tracia, per controllare i Dardanelli e trasferire parte del contingente dall’inaffidabile Turchia 5. Mappe alla mano, la proposta di Trump di fornire gradi di protezione diversi a seconda di quanto gli alleati spendono per la difesa formalizzerebbe la crescente divisione tra Nato A (linea di contatto con la Russia più inglesi) e Nato B (Europa occidentale) 6. Tutti i paesi lungo la cortina d’acciaio spendono almeno il 2% del pil nella difesa, salvo Norvegia, Danimarca e Bulgaria. La guerra Israele-Õamås, che gli Stati Uniti combattono direttamente al largo dello Yemen e in Mesopotamia, ha ridato priorità al triangolo Suez-Hormuz-Båb al-Mandab. Le poste in gioco sono due. Non farsi espellere dal Medio Oriente – in particolare da Siria e Iraq – per mano dell’Iran, ciò che darebbe continuità all’asse della resistenza sciita tra l’altopiano iranico e il Mediterraneo, avvicinando i persiani a Israele. E difendere la garanzia americana sulla libertà di navigazione da un attore – il governo yemenita degli õûñø – che cerca anzitutto di estorcere con le armi un riconoscimento internazionale. Nell’Indo-Pacifico la priorità dal 2017 è usare i principali soggetti spaventati dall’ascesa della Cina per rafforzarne il contenimento centrato su Malacca e sulla prima catena di isole. Gli Stati Uniti hanno promosso diversi formati di collaborazione navale e militare: il Quad con India, Australia e Giappone; un secondo Quad con le Filippine al posto dell’India; l’Aukus con Regno Unito e Australia; un trilaterale con Giappone e Corea del Sud. Inferiori i risultati lungo la fascia degli stretti indonesiani: Malaysia, Indonesia e Papua Nuova Guinea rifiutano a vario titolo di schierarsi, aprendo una possibilità ai cinesi per indebolire lo schieramento americano e conquistare appoggi negli Stati insulari del Pacifico meridionale. Unendo questi punti si nota che la fascia di massimo interesse degli Stati Uniti segue il Rimland, il margine marittimo dell’Eurasia, concetto popolarizzato da Nicholas Spykman negli anni Quaranta e da sempre riferimento delle correnti egemoniste della strategia americana. Quelle che premono per una definizione espansiva di impegni e oneri statunitensi, per una difesa perimetrale dell’Eurasia. Se ne trova traccia nell’Nsc 162/2, documento del 1953 che ufficializzò il contenimento Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. A.O. HOLM, «American Forces Enter the North With Free Access to 36 Military Bases», High North News, 15/12/2023. 5. T. KAKKONIDIS, «Congress Approves Amendment for New US Bases in Greece», Greek Reporter, 4/8/2023. 6. G. SLATTERY, «Exclusive: Trump adviser proposes new tiered system for NATO members who don’t pay up», Reuters, 13/2/2024.
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LE BASI USA/NATO IN ITALIA Collegamento funzionale tra basi Camp Ederle (Vicenza)
Aviano Trieste
N.B.: Molte basi sono composte da più infrastrutture nella stessa zona
Ghedi
Centro ricerche
- Usaraf - Esercito Porto usato dagli Usa per rifornire il fianco orientale della Nato
La Spezia
Presenza militare Usa di circa 15 mila unità, compreso il personale civile impiegato presso il dipartimento della Difesa. Il presidente Biden ha sospeso il piano di ritirare il contingente Usa dalla Germania e di riposizionarne una parte in Italia annunciato dalla precedente amministrazione Trump.
Camp Darby (Pisa-Livorno)
Defense College
Roma Gaeta - Allied Jfc - Navaf - Marina
Napoli Taranto (Navale)
VI Flotta
Principali basi concesse agli Usa Base italiana con limitata presenza Usa Comandi o infrastrutture Nato Presenza di bombe nucleari Aeronautica Usa Marina Usa Esercito Usa
Sigonella (Aeronavale) Augusta (Navale) Niscemi (Muos - Comunicazioni satellitari)
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Fonte: dipartimento della Difesa Usa (settembre 2020)
dell’Urss concedendo ai falchi del rollback di estendere le garanzie americane tra Corea e Medio Oriente 7. Concentrarsi sul Rimland non è un riflesso spontaneo negli Stati Uniti, anzi. Il progetto dell’amministrazione Biden, appena giunta al potere, era opposto: radu7. «Statement of Policy by the National Security Council», Nsc 162/2, 30/10/1953.
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nare una «lega delle democrazie» 8 saldando le due estremità dell’impero informale americano, gli alleati europei (Nato+Ue) e quelli nell’Indo-Pacifico. Una Nato globale, nei sogni più sfrenati degli americani. Ma il piano ignorava il Medio Oriente, che la dirigenza democratica pensava di declassare attribuendogli bassa priorità, fino a inimicarsi tutti gli attori più rilevanti. L’accordo Iran-Arabia Saudita mediato dalla Cina, l’allineamento di Riyad con Mosca per limitare la produzione di petrolio, il rifiuto indiano, indonesiano, saudita ed emiratino di sanzionare la Russia hanno convinto Washington di non poter contare soltanto sull’Occidente e di dover ridare enfasi ai paesi nel mezzo. (Geo)politica invocata pubblicamente da consulenti d’area repubblicana, ma praticata per necessità anche dall’amministrazione 9. Il Rimland invalida l’Occidente e viceversa. Anche in questa contraddizione sta la difficoltà strategica degli Stati Uniti. 4. E l’Italia dov’è? In un secondo girone di priorità, immediatamente esterno al primo, comprendente Europa occidentale, Balcani, Mar Mediterraneo da Gibilterra a Creta, Nord Africa. Aree essenziali, ma non a immediato rischio di guerra. Dunque delegabili, ove possibile, ai partner per liberare risorse utili nel primo girone. Sorgono in una posizione intermedia tra le zone che Washington deve gestire direttamente con sostanziosi contributi degli alleati e quelle dispensabili (buona parte di Africa e Sud America). L’osservazione non si basa su una ratio strategica, ma sul comportamento degli Stati Uniti negli ultimi decenni. Nessuno a Washington teorizzerebbe di rinunciare all’influenza in America Latina, ma in questi anni la dottrina Monroe è stata trascurata come attestano le incursioni cinesi a Cuba, Panamá o in Argentina. Da questa logica derivano tre constatazioni. Primo, dall’Italia gli Stati Uniti non se ne andranno perché le loro basi costituiscono il centro del loro schieramento mediterraneo. Ma quelle basi servono principalmente a proiettarsi verso Russia e Medio Oriente. Secondo, il vantaggio di essere nel girone secondario è che a noi gli Stati Uniti non chiedono di fare la guerra alla Cina. Al massimo economica, che non ci tocca vista la nostra trascurabile esposizione commerciale alla Repubblica Popolare. Tutt’al più possiamo offrirci di coprire la retroguardia medioceanica in caso di conflitto nell’Indo-Pacifico. Terzo, la nostra posizione può essere estremamente insidiosa. Tutti gli altri grandi paesi europei danno legittimamente priorità al fianco orientale. Gli americani hanno da tempo rinunciato a un ruolo dirimente nel Mediterraneo centro-occidentale: lo dimostra come abbiano incassato il fatto compiuto nelle Libie contese Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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8. A.J. BLINKEN, R. KAGAN, «‘America First’ is only making the world worse. Here’s a better approach», Brookings Institution, 4/1/2019; J.R. BIDEN, «Why America Must Lead Again», Foreign Affairs, 23/1/2020. 9. H. BRANDS, «The Battle for Eurasia», Foreign Policy, 4/6/2023; N. FERGUSON, «America Still Leads the World, But Its Allies Are Uneasy», Bloomberg, 18/6/2023; S. CROPSEY, «Controllare l’Eurasia: una strategia offensiva per gli Stati Uniti», Limes, 9/2023, «La Cina resta un giallo», pp. 143-148; J. GRYGIEL, A.W. MITCHELL, «5 Rules for Superpowers Facing Multiple Conflicts», Foreign Policy, 12/4/2024.
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da soggetti ostili o inaffidabili. Nel frattempo, si è innescata una corsa a occupare posizioni sulla sponda sud. Russi, turchi, egiziani, arabi del Golfo, cinesi e francesi si contendono spazi d’influenza dal Nord Africa al Golfo di Guinea. Questa competizione sta trasformando la costa africana con la sua profondità sahelo-sahariana in una propaggine dell’Eurasia, estendendo all’Africa il campo da gioco per stringere il Medioceano in una tenaglia di terra. È un aspetto presente nella cultura strategica di tutte le maggiori potenze eurasiatiche, persino dei cinesi 10. Il rischio è che il Mediterraneo si trasformi in un gigantesco stretto, controllabile da terra. Sviluppo permesso dall’aumento del caos, della gittata e della disponibilità degli armamenti, come insegnano gli õûñø. La manovra più pericolosa la realizza la Russia, che aggira lo schieramento Nato lanciandosi nell’afro-mediterraneo a partire dallo snodo siriano di ¡ar¿ûs e provando a estendere la propria rete alla Cirenaica. Una base navale russa a Tobruk o dintorni, in aggiunta a quella aerea già esistente ad al-Ãufra, comprometterebbe notevolmente la sicurezza italiana: consoliderebbe la profondità africana conquistata da Mosca in Sahel, permetterebbe spionaggio elettromagnetico e sabotaggi a cavi o tubi subacquei, complicherebbe le operazioni aeree dalle basi americane in Italia e, caso estremo, consentirebbe di puntare missili sullo Stivale. L’Italia è un bersaglio ambìto in quanto primo grande paese appena fuori dalla zona calda di immediata priorità americana. Un luogo ideale per fare pressione sulla Nato attraverso tattiche aggressive al di sotto della soglia bellica e di attenzione degli Stati Uniti. Questi ripetono di non essere disposti a intervenire in scenari diversi dall’invasione (articolo V), dunque suggeriscono ai rivali come attaccarli senza innescare la loro reazione. Non solo la Russia. Il vero rischio è che si chiudano gli stretti. L’Italia soffoca se si bloccano le rotte di approvvigionamento e di sbocco che la connettono ai mercati mondiali. Gibilterra e Suez, ma anche i cavi e le condotte energetiche sui fondali via Balcani e Africa. Oggi garantite dagli Stati Uniti, ma domani? Nello scenario peggiore, il controllo dei flussi marittimi (energetici, commerciali, digitali, migratori) passa dalla garanzia americana a una competizione permanente fra Russia, Turchia, Francia, Cina, Stati Uniti e altri. Condizione per noi costosa. E dilaniante. 5. Su quali basi fondare una relazione speciale Italia-Stati Uniti? Occorre anzitutto rovesciare la logica della relazione vecchia, che si basava su un uso politico di limitati contingenti italiani a supporto delle operazioni statunitensi per dimostrare allineamento e chiedere in cambio difesa. Il tempo di questo approccio è scaduto, ma sopravvive nelle attitudini italiane. Lo si vede nella decisione di inviare nell’Indo-Pacifico la portaerei Cavour con gli F-35 imbarcati. La missione ha una sua finalità: penetrare i mercati asiatici e stringere rapporti con le dirigenze locali mostrando il meglio della nostra proiezione militare. Ma è una logica mercantilista inadatta ai tempi, non serve ai nostri alleati e distrae risorse scarCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
10. Cfr. N. ROLLAND, «A New Great Game? Situating Africa in China’s Strategic Thinking», The National Bureau of Asian Research, Nbr Special Report, n. 91, giugno 2021.
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sissime dalla nostra regione di riferimento 11. Con il Giappone si possono allacciare fiorenti e strategici rapporti senza mandare la Marina a Yokosuka. L’Italia darebbe un segnale di maturità annunciando di non andare nell’Indo-Pacifico per concentrarsi sul Mediterraneo allargato. La relazione speciale italo-americana deve puntare sulla sicurezza marittima. Nel sistema euroatlantico dobbiamo offrirci nazione guida di una Coalizione per un Medioceano libero e aperto. Triplice missione: libertà di navigazione, sicurezza delle infrastrutture strategiche sottomarine, riaddestramento a combattere la guerra dal e sul mare. Compito enorme, nuova frontiera, per la quale l’Italia non ha sufficienti risorse. Dunque, ottima occasione diplomatica e di sviluppo tecnologico-industriale. Servono un’ampia coalizione di paesi membri, dottrine nuove, cluster di ricerca e sviluppo per creare strumenti per monitorare e proteggere cavi Internet e condotte energetiche. La Nato deve esserne parte, ma non ci si può aspettare che dalla Strategia per il fianco meridionale in discussione a luglio nel vertice di Washington emergano strutture per affrontare sfide non convenzionali. La Nato è un’alleanza militare non attrezzata a gestire le più vaste minacce alla sicurezza. Serve un accordo politico per condividere risorse, creare gruppi ristretti, riconoscere che i membri mediterranei dell’Alleanza contribuiscono a rafforzare il fronte Sud. È illusorio pensare che una guerra Nato-Russia si svolga solo nelle pianure nord-orientali. Questo non ci esime dal supporto all’Ucraina, abbinato alla ricerca ostinata di una soluzione negoziale per una nuova architettura di sicurezza europea. Ma l’Italia avrà peso se saprà arginare il disordine da sud. Solo così la sua voce verrà ascoltata tra Parigi, Berlino e Varsavia, che si considerano sempre più (loro malgrado) punti di riferimento reciproci per la sicurezza. Un esempio: se la Ue pensa a contingenti d’intervento rapido di una o due brigate da schierare in situazioni di crisi nordafricane, la Marina italiana può fornire le capacità di sbarco anfibio cui sta tornando a addestrarsi. La Coalizione per un Medioceano libero e aperto deve coinvolgere paesi non Nato. Dev’essere un mezzo per offrire soluzioni in cambio di influenza, a danno di potenze ostili. Esiste una domanda di Italia nelle piccole nazioni come Malta, Cipro o Bosnia Erzegovina, non ancora inquadrate e alla mercé dell’instabilità euromediterranea. Occorre offrire ruoli e riconoscimento agli Stati della sponda meridionale. Marocco, Algeria o Egitto non sono semplici oggetti alla mercé di potenze esterne, benché a francesi, turchi, russi e arabi del Golfo piaccia trattarli così. Hanno mezzi, capacità e ambizioni. Inquadrarli in un’iniziativa per la sicurezza marittima creerebbe strutture istituzionali ove gestire scontri e competizioni derivanti, per esempio, dalle sovrapposizioni tra le Zee (Zone economiche esclusive) o dall’uso ricattatorio delle risorse energetiche. La coalizione è estendibile alle monarchie della Penisola Arabica per coprire l’imbocco sud-orientale del Medioceano. Senza questa base, il Piano Mattei non produrrà alcun risultato. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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11. M. MAZZIOTTI DI CELSO, «Is Italy Needed in the Indo-Pacific?», War on the Rocks, 19/2/2024.
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6. In una relazione speciale ci si usa a vicenda. A noi gli Stati Uniti chiedono di innestarci nelle loro rotazioni navali per coprire alcune rotte. La U.S. Navy è esausta: le navi richiedono manutenzione e gli equipaggi sono allo stremo causa allungamento delle missioni 12. Il problema riguarda le regole d’ingaggio. Per gli americani chi dà il cambio è inutile se non autorizzato a sparare. È per noi più facile iniziare questa operazione tra Africa occidentale e Mediterraneo centrale, magari nell’ambito della Coalizione medioceanica. Nel segmento orientale del Medioceano, tra Creta e Båb alMandab, ci assume remo responsabilità militari dirette soltanto quando la guerra allargata di Gaza si ridurrà d’intensità. Ora l’Italia può svolgere un’utile funzione diplomatica: non partecipare all’operazione angloamericana Prosperity Guardian e agli attacchi con tro gli õûñø in Yemen non sarà un gesto di codardia se sapremo sfruttare la distan za dai belligeranti per aprire canali con gli iraniani e con le milizie yemenite, con cui prima o poi bisognerà negoziare. E a noi a che cosa servono gli Stati Uniti? A ottenere risorse finanziarie e tecnologiche per perseguire l’agenda marittima, ad avere appoggio logistico e diplomatico quando il gioco si fa duro. Gli americani hanno un bisogno disperato di esternalizzare la produzione bellica. La loro industria non può crescere rapidamente, in particolare la cantieristica e l’artiglieria. Gli analisti del Pentagono studiano come finanziare la produzione in altri paesi capaci. La Corea del Sud si sta arricchendo con la produzione in massa di proiettili. L’Italia interessa per la sua cantieristica. È fantasia pensare a incentivi americani alla produzione di navi loro e nostre che svolgano funzioni concordate? Qualunque investimento dovrebbe avere una componente per il Meridione. Lo schema va esteso alla produzione di tecnologie che servano a entrambi per il monitoraggio delle vie di comunicazione (marittime, spaziali, cibernetiche). L’Italia ha importanti nicchie, anche nel settore dello Spazio. Serve un dialogo a livello ministeriale per individuare specifiche funzioni su cui investire, anticipato da una mappatura precisa delle capacità integrabili fra noi e loro. Servono joint ventures, accordi con atenei americani d’élite per la ricerca e sviluppo o anche integrazioni d’interi rami d’azienda in colossi statunitensi. Occorre cavalcare l’interesse degli americani a setacciare l’Europa in cerca di investimenti da portare oltreoceano. Questo consentirebbe di correggere lo sbilanciamento della nostra manifattura verso la Germania, correzione peraltro già in corso. E di proteggere la nostra dipendenza dall’export verso gli Stati Uniti senza il bisogno di teatrini politici, come mostrarsi freddi verso i tedeschi sperando di sfuggire ai dazi americani. In fondo, l’industria europea dipende sempre più da quella statunitense e il suo peso è ridotto dalla crescita asiatica. Invece di indulgere nel miraggio del polo alternativo, sarebbe il caso di promuovere una divisione del lavoro transatlantica. Gli americani sono sinceramente preoccupati di perdere il vantaggio tecnologico su Pechino se Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
12. Cfr. « Navy Readiness: Challenges to Addressing Sailor Fatigue in the Surface Fleet Continue», U.S. Government Accountability Office, 11/10/2023.
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PER UNA RELAZIONE SPECIALE CON GLI STATI UNITI
le nicchie europee si allacciano ai capitali e alle tecnologie cinesi. C’è margine per strappare concessioni. Sul secondo scopo, Washington deve dare informale investitura a Roma per contribuire ad aumentare la credibilità del nostro punto di vista, sopperendo all’ampio divario tra la nostra ambizione e come siamo percepiti. Un buon segnale sarebbe allargare la presenza italiana nelle basi americane non solo sul nostro suolo, affinché vengano usate anche per missioni esclusivamente nostre. Napoli e Sigonella potrebbero essere i centri operativi della Coalizione medioceanica. Gli Stati Uniti devono aiutarci a divenire fattore imprescindibile nella rivalità franco-turca, che si estende a tutto il Medioceano rischiando di tagliarci fuori (vedi il protettorato anatolico sulle acque della Somalia). Per Washington siamo scelta obbligata, in quanto l’attore mediterraneo di un certo calibro dagli interessi più simili (mai identici): impedire l’allargamento russo o cinese, scongiurare nuove crisi, evitare che la contesa Parigi-Ankara si accenda o che l’una e l’altra si espandano troppo. Specie la Turchia, che ambisce a ereditare quote d’impero dagli statunitensi per sfinimento 13. Potremo così galleggiare nel triangolo FranciaTurchiaNord Africa, proteggendo i nostri interessi anche quando emergeranno inevitabili screzi con gli Stati Uniti. Sempre Washington può inserirci nella disputa GreciaTurchia, che vorrebbe sopire ma dove i contendenti la strattonano con una certa efficacia (basi in Grecia, armi a entrambe). Qui la diplomazia italiana, non insensibile alle posizioni anatoliche, può sfoggiare tutta la sua arte bizantina al servizio di un preciso scopo: far parlare Atene e Ankara e usare il dialogo come merce di scambio con i turchi in altre partite. Per esempio nei Balcani. Anche qui gli americani possono lanciarci, con l’obiettivo di impedire il surriscaldamento della questione bosniaca e l’esplosione di quella albanese (Kosovo) che favorirebbe l’infiltrazione di avversari. Sfruttando l’opportunità per fare dei Balcani un vettore strutturato della nostra proiezione all’estero, coordinando diplomazia, militari, servizi, imprese, infrastrutture. In una competizione collaborativa permanente con la Turchia. Aderire al Trimarium offrirebbe l’occasione per intestarci il ramo adriatico dell’iniziativa e fornire opportunità concrete per infrastrutture e industrie. Magari ricollocando sulla sponda orientale dell’Adriatico una parte degli investimenti di ritorno dall’Estremo Oriente oppure alcuni rami di un’eventuale espansione dei cantieri navali in Albania. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
7. La relazione speciale Italia-Stati Uniti resterà lettera morta senza una nostra maggiore credibilità. Agli italiani non crede nessuno perché non sparano. Anche i nostri talenti in empatia e mediazione finiscono per essere usati da soggetti sempre più autonomi senza produrre vera influenza. Nell’odierno clima bellico, stabilizzare l’estero vicino non vuol dire convocare una grande conferenza per mettere
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13. D. SANTORO, «La Nato uscirà dalla Turchia, non la Turchia dalla Nato», Limes, 1/2024, «Stiamo perdendo la guerra», pp. 253-263.
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d’accordo tutti una volta per sempre, ma giocare attivamente partite sporche per evitare che diventino conflitti e accumulare così sufficiente credito da sedersi al tavolo, in attesa del nuovo round. Uno strumento per invertire la nostra percezione all’estero è tracciare finalmente la Zee e difenderla attivamente. Non c’è bisogno di scatenare guerre per far capire che l’aria è cambiata. Opinione pubblica e classe dirigente devono accettare di assumersi maggiori responsabilità, dunque rischi. Per istinto siamo tentati di chiamarci fuori dalla Guerra Grande. È il vizio esostorico della nostra mentalità collettiva. Una parte del paese pensa che non ci riguardi perché si fida degli americani. Senza capire che se mai prevalessero (come?) se ne tornerebbero a casa lasciandoci il caos da gestire. Un’altra parte s’illude che se Washington sta andando a sbattere possiamo dichiararci neutrali. Senza accorgersi che solo con l’America possiamo garantire la libertà dei flussi marittimi vitali. E soprattutto che è nostro dovere almeno provare, nelle aree che ci riguardano, a colmare il deficit di pensiero strategico degli Stati Uniti e dell’élite atlantica più realista del re. Dobbiamo proteggere il nostro stile di vita da chi lo vuole sovvertire senza che l’Occidente s’imbarchi in uno scontro di civiltà. Tenere assieme questi due interessi è compito della strategia. Il resto sono crociate. La guerra mondiale non è un destino. L’idea italiana di Occidente è diversa da quella americana. Per noi è un insieme fisso, non allargabile. Per loro dev’essere allargato per usarlo contro i nemici. Pochi soggetti oggi sognano di essere Occidente, ancor meno di farsi usare da esso, in molti sognano una rivincita o almeno di trattare da pari. Questa seconda accezione è molto più vicina all’idea italiana. Dalla nostra abbiamo il non essere mai stati neocoloniali, con cui ci siamo fatti perdonare i crimini coloniali. Potremmo usare le nostre arti empatiche per costruire ponti con pochi e selezionati attori non occidentali, tra Marocco e India, allo scopo di controbilanciare le sirene di chi vuole cavalcare il revanscismo anti-occidentale. Esempio di come due interessi per nulla uguali fra Italia e America potrebbero produrre risultati strategici. Se solo fossero inquadrati in una relazione speciale.
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‘Nel Mediterraneo Italia e Francia devono agire insieme’ Conversazione con Marco MINNITI, presidente della Fondazione Med-Or a cura di Lucio CARACCIOLO e Giorgio CUSCITO
LIMES Che impatto stanno avendo le guerre in Ucraina e in Medio Oriente sulla stabilità del Mediterraneo e sugli interessi dell’Italia? MINNITI Sono passati due anni da quando Mosca ha attaccato Kiev. Nessuno pensava che tale guerra sarebbe durata così tanto. Poi ad essa si è aggiunta quella tra Israele e Õamås. Come se non bastasse, gli Stati Uniti si apprestano ad affrontare un delicato momento di transizione. Le presidenziali americane segneranno una nuova fase storica dei rapporti tra Washington e il resto del mondo, a prescindere da chi verrà eletto. Se vincerà Joe Biden il cambiamento sarà più lento, se avrà la meglio Donald Trump sarà più traumatico. A ogni modo il prossimo presidente dovrà gestire il crescente desiderio dei connazionali di anteporre in maniera assoluta il proprio paese al pianeta (America first). Tutto ciò rende più che mai il Mediterraneo un teatro cruciale per gli equilibri geopolitici globali. E impone all’Italia di svolgere il ruolo di attore primario, insieme alle altre potenze europee. Dobbiamo assumerci più responsabilità e affrontare da protagonisti le minacce che minano il nostro futuro. Il problema è che non siamo ancora pronti per questa sfida. Non è bastato neanche lo shock dell’invasione russa in Ucraina a determinare una svolta strategica. Non avremo sempre gli Stati Uniti a decidere al posto nostro. Prima o poi ci troveremo a un bivio: avviare la federalizzazione dell’Ue e gettare le basi degli Stati Uniti d’Europa per acquisire una nuova soggettività politica oppure compiere un passo indietro e tornare al modello della Comunità economica europea. Nel secondo caso, gli interessi dei singoli Stati assumerebbero ulteriore preponderanza in ciò che riguarda sicurezza e difesa e il caos sarebbe maggiore. Se dovessi scegliere, preferirei la prima opzione. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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‘NEL MEDITERRANEO ITALIA E FRANCIA DEVONO AGIRE INSIEME’
In attesa che arrivi il momento di prendere una decisione al riguardo, bisogna avallare l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue. In questo modo sosterremmo politicamente Kiev e contribuiremmo alla ricostruzione delle infrastrutture ucraine, incluse quelle difensive. Allo stesso tempo non affronteremmo il tema dell’annessione alla Nato, che invece aggraverebbe il confronto tra Occidente e Russia. Italia, Francia, Germania, Spagna e Polonia (che è in prima linea contro Mosca) dovrebbero essere il cuore pulsante di un’Europa più attiva nell’affrontare le molteplici crisi che ci circondano. Questa cooperazione rafforzata dovrebbe prevedere una maggiore intraprendenza nella definizione della politica estera e di difesa europea. Con priorità alla stabilizzazione del fronte con la Russia e del Mediterraneo allargato. Sarebbe un’operazione politica straordinaria. L’ordine mondiale vigente sta collassando e occorre svilupparne uno nuovo, con l’Europa e gli Stati Uniti quali garanti democratici. In pratica, dobbiamo assumerci maggiori obblighi laddove Washington non vuole o non può intervenire. A quel punto il Mediterraneo e l’Africa non sarebbero più teatri di competizione tra paesi del Vecchio Continente. LIMES Quali parti dell’Africa preoccupano di più? MINNITI Sulla sponda Sud del mare nostrum, Libia e Sahel restano cruciali. Dopo il colpo di Stato in Niger abbiamo assistito a quattro eventi clamorosi. Niamey ha cancellato con effetto retroattivo tutte le leggi per il contrasto all’immigrazione illegale. Poi ha messo in discussione la cooperazione militare con i partner europei, come testimoniato dall’abbandono del contingente europeo da parte della Francia. Inoltre, il Niger ha firmato con la Russia un accordo di collaborazione nel campo della difesa e ha annunciato con Mali e Burkina Faso il ritiro dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas). Il quadro è ulteriormente complicato dal tentato rinvio delle elezioni in Senegal, giudicato contrario alla costituzione dal Consiglio costituzionale. LIMES In Africa bisogna fare i conti anche con la presenza russa, turca e cinese. MINNITI La Russia sta diventando uno Stato canaglia. Punta a destabilizzare il pianeta e utilizza l’Africa come secondo fronte della guerra asimmetrica in Ucraina. Sebbene Mosca e Pechino si promettano «amicizia senza limiti», i loro interessi strategici non coincidono interamente. Anzi, il caos generato dal Cremlino danneggia l’economia della Repubblica Popolare. Quindi minaccia il patto sociale secondo cui la popolazione cinese tollera forti limitazioni alla propria libertà in cambio dell’aumento del benessere garantito dal Partito comunista. Se questo modello salta, la stabilità del paese è a rischio. La vicenda spiega perché la Cina stia cercando la distensione con gli Stati Uniti, come constatato in occasione dell’incontro tra Xi Jinping e Joe Biden a San Francisco lo scorso novembre. In questo scenario, il Piano Mattei dovrebbe diventare il simbolo dell’assunzione di responsabilità dell’Italia in Africa e favorirvi un maggiore impegno dell’Ue. È necessario elevare la questione a livello europeo perché un singoCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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L’ITALIA CONTRO GHEDDAFI Aviano
ITALIA Amendola Gioia del Colle Decimomannu Trapani - Birgi Sigonella Mar Mediterraneo
TUNISIA
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Località bombardate nell’ambito dell’Operazione Odyssey Dawn
Portaerei Garibaldi
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Basi e navi italiane coinvolte nella guerra alla Libia di Gheddafi
TRIPOLITANIA
Bengasi CIRENAICA Area della municipalità di Ağdābiyā EGITTO
No-fly zone durante l’Operazione Odyssey Dawn
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Confine marittimo italiano
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ALGERIA
NIGER
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SUDAN
lo paese non ha risorse finanziarie a sufficienza o capacità di interlocuzione tali da poter portare avanti da solo gli interessi veterocontinentali. Perciò bisogna rafforzare la collaborazione tra Stati mediterranei e imperniarla sull’azione congiunta di Italia e Francia. Pur con le dovute differenze, si tratta dei due attori europei con più know-how in merito alle questioni africane. Mettere a fattor comune le capacità di entrambi non è semplice, ma non ci sono alternative. Non è nell’interesse di nessuno circoscrivere il ruolo dell’Unione Europea alla sola sfera economica. Soprattutto ora che negli Stati Uniti si discute del futuro della Nato e che paesi come Germania e Polonia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ipotizzano di munirsi dell’atomica al pari della Francia, unica potenza nucleare nell’Ue. Dobbiamo assicurarci che il patrimonio difensivo francese sia considerato come europeo ed evitare una corsa agli armamenti. LIMES Sin qui Roma e Parigi non sono riuscite a collaborare concretamente in Africa. Come e in quale ambito si può rovesciare tale situazione? MINNITI Siamo abituati a pensare che la storia si ripeta. Riconduciamo qualsiasi evento alla consequenzialità e lo giudichiamo inevitabile, anche quando non è così. Ricordo quando anni fa, un lunedì mattina, il giornale satirico Il Male pubblicò una finta prima pagina di L’Unità secondo cui Enrico Berlinguer aveva pronunciato un discorso davanti a milioni di persone a Genova per dire «Basta con la Dc!», durante una manifestazione durata ben 28 ore. Qualcuno pensava che quella notizia fosse vera e perfettamente in linea con quanto accaduto in Italia fino a quel momento. Eppure per capire che si trattava di satira bastava leggere il resto del testo. Intendo dire che, anche se non lo ammettiamo a noi stessi, la realtà muta rapidamente. Talvolta anche tramite eventi che generano discontinuità, come le guerre. Perciò dobbiamo prendere l’iniziativa. Tra Africa ed Europa c’è uno squilibrio demografico impossibile da rovesciare nel breve periodo. La popolazione africana è giovane e in crescita, mentre noi siamo sempre più vecchi. Inoltre, l’Africa è ricca di risorse naturali. Non mi riferisco solo ai combustibili fossili, ma anche alle terre rare (su cui ha messo le mani la Cina) e ai materiali utili alla transizione ecologica. Ricordiamoci anche che il Sahel e il Corno d’Africa sono tra i principali incubatori di gruppi terroristici su scala globale. Non si possono gestire questi fattori senza calarli nel contesto del Mediterraneo allargato. In Medio Oriente, i paesi sunniti hanno trovato il modo di dialogare. Basti pensare alla recente visita del presidente turco Recep Tayyip Erdoãan in Egitto. Essa non pone fine alle tensioni tra Ankara e Il Cairo, ma è certamente una novità se si pensa che un viaggio del genere non si verificava da 12 anni. Inoltre, la frapposizione tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti da un lato e Qatar e Turchia dall’altro è in corso di superamento. Riyad intrattiene un complesso rapporto di cooperazione e competizione con gli Stati Uniti e ha avviato il disgelo con l’Iran grazie alla mediazione della Cina. Inoltre, secondo il New York Times, Abu Dhabi starebbe sostenendo sul piano economico, militare e logistico il generale Muõammad Õamdån Daqalû (detto «Hemetti») nell’ambito della guerra civile in corso in Sudan. Ovviamente gli emiratini smentiscono. Per inciso, Hemetti è molto vicino al gruppo Wagner e all’Egitto. Il Cairo è particolarmente esposto alle crisi in corso a causa di diversi fattori: il rischio di un esodo palestinese tramite il valico di Rafah, la messa in discussione del ruolo del Canale di Suez, la presenza sul suolo egiziano di 300 mila profughi sudanesi e la competizione con l’Etiopia. Infatti Addis Abeba ha elevato il suo status geopolitico tramite la diga sul Nilo Azzurro e l’accesso al mare consentito dall’accordo con il Somaliland. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Il paradosso è che per l’Africa e il Medio Oriente l’Europa sarebbe un interlocutore più naturale – e forse più affidabile – rispetto agli Stati Uniti. Tuttavia abbiamo sottovalutato le ripercussioni della guerra in Ucraina sul Mediterraneo. Ci siamo concentrati solo sull’impatto immediato che quel conflitto ha sul Nord Europa. LIMES La Libia, dove stazionano turchi e russi, è il teatro africano più rilevante per l’Italia. Cosa possiamo fare qui insieme alla Francia, tenuto conto che Parigi e Ankara non vanno d’accordo? MINNITI Il peso della Turchia è innegabile, ma sarebbe sbagliato considerarla come un interlocutore negoziale al posto della Libia. Quando Meloni ha incontrato Erdoãan, i giornali parlavano della possibilità di avviare un accordo per regolare il flusso dei migranti sul suolo di quel paese. Ma un’intesa del genere avrebbe rappresentato una violazione del diritto internazionale e soprattutto sarebbe equivalsa al riconoscimento della sovranità turca sulla Tripolitania. Un errore drammatico per l’intera Europa. Lo scopo di Roma e Parigi – nell’ambito di un progetto europeo – dovrebbe essere restituire la sovranità ai libici, per porre fine alla presenza militare turca e russa in loco. Arrendersi a una spartizione tra Ankara e Mosca sarebbe un terribile scacco geopolitico. La Libia è l’emblema del fatto che buona parte degli interessi italiani e francesi si giocano fuori dai rispettivi confini nazionali. Soprattutto per quanto riguarda temi quali immigrazione, energia e terrorismo. Vale la pena ricordare che solo qualche tempo fa Sirte era sotto il controllo dello Stato Islamico. Sviluppare un piano italo-francese che coinvolga anche gli altri paesi europei è l’unico modo per interagire efficacemente con Ankara, Mosca e pure Pechino, visto che aziende cinesi ricostruiranno Derna. Noi abbiamo un debito con la Libia. Riguarda l’iniziativa militare del 2011 guidata da francesi e britannici (con italiani al seguito) senza avere idea di come stabilizzare il paese nel lungo periodo. Sia chiaro, non ho alcuna nostalgia di Muammar Gheddafi. Resta il fatto che non abbiamo posto rimedio al caos seguente alla sua eliminazione. L’Europa – guidata da Italia e Francia – deve affrontare il tema della Libia nel solco di quanto approntato dalle Nazioni Unite, le quali attualmente non hanno grande capacità di aggregazione multilaterale. Bisogna permettere ai libici di eleggere i propri rappresentanti. Ma per raggiungere questo obiettivo prima dobbiamo aiutarli a dotarsi di un governo unitario. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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I BALCANI ALLARGATI SONO UN PROBLEMA ITALIANO
GAISER Da Trieste alla periferia orientale di Luhans’k, ogni singolo evento si riverbera nelle storiche fratture della penisola. L’importanza di un mondo euroatlantico compatto. Il ruolo di Roma e la proverbiale incapacità di fare sistema. Come invertire la rotta. di Laris
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1. A DEFINIZIONE DI BALCANI OCCIDENTALI, con cui si identificano i paesi dell’ex Jugoslavia e l’Albania, ha rappresentato sempre una scelta semantica infelice per chi conosce la storia di questa regione. Nel momento in cui le élite burocratiche di Bruxelles s’inventarono questa categoria, l’allora deputato del Partito popolare europeo Carlo d’Asburgo-Lorena chiese ai vari ambasciatori presso l’Unione Europea la loro opinione. Il commento più sibilino arrivò dal rappresentante dell’Albania: egli si domandò quali fossero a quel punto i paesi dei Balcani orientali, dal momento che Tirana era parte dell’Occidente. Ebbene, i Balcani occidentali sono morti. Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia la storia ha rimesso a posto anche le ridicole definizioni di comodo del mondo tecnocratico. È tornata la «questione d’Oriente» di ottocentesca memoria. Se davvero si vuol trovare una nuova definizione a uno spazio geopolitico nel quale i piccoli e pericolosissimi nazionalismi locali si inseriscono nel più ampio gioco delle grandi potenze, scopiazzando quanto scritto in altri documenti strategici riguardanti il Mediterraneo, potremmo iniziare a parlare di Balcani allargati. Da anni impegnata nell’indefessa opera di supervisione delle questioni balcaniche, la fondazione Nato Defense College, guidata dall’ambasciatore Alessandro Minuto Rizzo, preferisce parlare della regione Balcani-Mar Nero. Una scelta fatta per ricordare alle istituzioni e al più vasto pubblico che, già prima della guerra in Ucraina, i problemi sociali, politici ed economici univano le sponde del Mar Nero e del Mar Adriatico in un indissolubile concatenarsi di vulnerabilità e fragilità geopolitiche connesse alle dinamiche e alle interferenze degli attori globali 1. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Cfr. S. GIANTIN, A. POLITI, Background Policy Paper in Balkan and Black Sea Perspectives 2022, Milano 2023, Ledizioni.
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Ritornare a parlare di questione d’Oriente ci imporrebbe di rispolverare qualche vecchio libro e di uscire dalla comfort zone in base alla quale, per comprendere e gestire il quadro, sia sufficiente partire dall’ultima cesura: cioè, dal collasso della Jugoslavia e dalla fine del comunismo nell’Est Europa. 2. Le conseguenze della prima guerra mondiale hanno frammentato la cartina politica nella quale una volta l’ordine e il bilanciamento dei poteri era garantito dagli imperi austro-ungarico, ottomano e zarista. Se nel 1850, nel triangolo tra Stettino, Atene e Odessa si contavano quattro entità statali, al momento ce ne sono 18. A oggi nessuno ha risolto i problemi sorti dalle diverse ondate di frammentazione di wilsoniana ispirazione e, men che meno, nessuno ha attutito le medesime dinamiche che spingevano le capitali mondiali a ingaggiarsi tra Balcani e Mar Nero già nel periodo compreso tra il Congresso di Vienna e lo sparo di Gavrilo Princip. La Brexit, prodotto della gestione teutonica della questione migratoria, ha come sua diretta conseguenza il fatto che nelle stanze del potere di Londra sono tornati alla ribalta gli stratagemmi imperiali dell’Ottocento. Se il Regno Unito non può più influenzare da dentro il mantenimento della disunione tra le capitali del Vecchio Continente, ritorna a farlo con maggiore slancio da fuori. Obiettivo: impedire che un giorno qualcuno possa ancora sognare il blocco continentale. Le tensioni con l’ex impero zarista, il sostegno storico alla Sublime Porta e l’ingaggio delle potenze centrali nei Balcani sono l’antica ricetta che oltretutto ridà smalto al ruolo del Foreign Office di fronte alle strutture statunitensi cui Winston Churchill, nel 1946 a Fulton, passò la staffetta imperiale 2. I Balcani allargati, che da Trieste arrivano alla periferia orientale di Luhans’k, sono un problema italiano. Se quelli occidentali erano nell’incapacità strategica nazionale di capirli e gestirli, lo sono ora ancor di più quelli allargati. Ogni singolo evento che coinvolge Kiev si riverbera nelle storiche fratture della penisola balcanica, proverbiale barile di polvere da sparo a uso e consumo delle esigenze esterne a cui le specialità delle cucine irredentiste locali offrono la possibilità di crisi à la carte. L’invasione russa ha tolto di colpo all’Unione Europea la possibilità di tentennare con i Balcani. Messi in attesa di tempi migliori dalla precedente commissione Junker, sono ora l’amaro calice che il mondo nordatlantico pretende venga inghiottito, in tempi ben peggiori, dalle istituzioni comunitarie. I buchi dell’allargamento rappresentati dall’Albania e dai successori dell’ex Jugoslavia vanno gestiti al più presto in modo da rendere compatto il retroterra del fianco Est ovvero del fronte con la Russia. Non importa se stiamo parlando di un pezzo di mondo frustrato dalla corruzione, dagli odi reciproci e da istituzioni inefficienti. L’importante è che l’immagine di un mondo euroatlantico compatto giunga al Cremlino. C’è necessità di sicurezza e stabilità nelle retrovie di uno scontro che ufficialmente sta portando innanzi solo l’Ucraina. E, se si promette una prospettiva europea a Kiev, più come Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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2. Per il contenuto del discorso pronunciato all’Università di Fulton si veda «The sinews of peace (“iron curtain speech”)», International Churchill Society, 5/3/1946.
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messaggio di deterrenza a Mosca in fase di trattative segrete per la ridefinizione di un nuovo conflitto congelato che come vera e sincera offerta geopolitica, allora bisogna scongelare le incertezze nei confronti di Bosnia Erzegovina, Macedonia del Nord, Albania, Serbia e Kosovo, cui va garantito un sostegno finanziario. Non bisogna rischiare di creare inutili malumori. Ed è per discutere di questi finanziamenti che il 5 febbraio scorso, su invito del ministro degli Esteri Antonio Tajani, si sono ritrovate a Roma le controparti balcaniche insieme ai rappresentanti dei paesi facenti parte del gruppo Amici dei Balcani occidentali. Il gruppo, nato nel giugno 2023, riunisce Italia, Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Croazia, Slovacchia e Grecia con l’obiettivo di mantenere alta l’attenzione dell’Unione Europea sulla regione, promuovendo un’accelerazione del processo di integrazione. L’incontro è stato l’occasione per i paesi balcanici per reiterare le proprie posizioni e per introdurre all’immancabile virulenza dialettica balcanica gli ancor giovani, e inesperti dell’arte drammatica che impregna tutta la regione, rappresentanti del nuovo governo slovacco. Soprattutto, per l’Italia si è trattato di confermare il proprio sostegno alla definizione urgente dei criteri con cui agevolare il ricorso al fondo di crescita di sei miliardi di euro a favore dei Balcani occidentali. Posto che i soldi, mirati a investimenti per lo più infrastrutturali, torneranno in gran parte nelle casse dei paesi finanziatori attraverso le loro aziende, fino all’incontro romano Berlino pareva focalizzata nella ricerca di formule e criteri che rendessero difficilmente accessibili i finanziamenti a una capitale in particolare: Belgrado. Un po’ a causa della chiara antipatia politica che il governo del cancelliere Olaf Scholz, continuando nel solco della tradizione merkeliana, fatica a nascondere nei confronti del presidente serbo Aleksandar Vu0i©. Un po’ perché con la Serbia, paese più grande e popoloso della regione, la Germania è riuscita negli ultimi anni a raddoppiare il proprio interscambio surclassando l’Italia, fino a poco tempo fa partner di riferimento. In verità, negli ultimi anni, tranne in Albania, l’Italia ha perso molte posizioni nell’interscambio con le capitali della regione. Le statistiche pubblicate dalla stessa Farnesina parlano chiaro. Le forniture italiane, tra il 2019 e il 2022, hanno ceduto posti ai paesi concorrenti in Kosovo, Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord. Nella zona adriatico-balcanica primeggiamo solo in Croazia, mentre in Slovenia ci ha surclassato pure la Svizzera 3. 3. La posizione nella quale si trova l’Italia denota la proverbiale incapacità di fare sistema, unita alla schizofrenica relazione dei nostri passati governi e attori commerciali verso uno spazio geografico da sempre definito importante ma mai affrontato con logica strategica e coordinazione istituzionale. I decisori politici italiani sono stati riportati alla realtà dalla ferma e responsabile azione militare del comandante italiano della Kosovo Force (Kfor). Il generale Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. «Piano Strategico – Regione Adriatico Balcanica», Ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale, febbraio 2023.
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di divisione Angelo Michele Ristuccia, tra il 2022 e il 2023, ha evitato per almeno tre volte che i Balcani ritornassero alla guerra civile. Dopo che il sistema difesa italiano ha saputo gestire sulla Piana dei Merli l’anno peggiore, in termini di sicurezza e stabilità, dell’ultimo ventennio, la Nato è divenuta un attore alla pari dell’Ue e degli Usa nella ricerca di una soluzione delle secolari questioni che ancora affliggono le relazioni tra Belgrado e Prishtina. Nel frattempo, Roma ha compreso come gli interessi politico-economici francesi e tedeschi nella regione avrebbero di nuovo avuto bisogno di essere bilanciati dalla presenza di quelli italiani. I Balcani occidentali sono tornati a essere una questione di sicurezza nazionale. Il ministro Tajani, dopo la sua visita a Kfor insieme al ministro della Difesa Crosetto a fine 2022, ha deciso di rilanciare l’interesse geopolitico verso la regione. Ceduto nell’ottobre 2023 il comando della missione a guida atlantica alla Turchia, la Difesa e gli Esteri sono riusciti a ottenere dall’Unione Europea la guida della claudicante missione Eulex. Rilanciata nell’efficacia con grande capacità e senso del realismo dall’esperienza del generale di divisione dei carabinieri Giovanni Pietro Barbano, essa rappresenta ora l’unica contropartita sul terreno per un’Italia che da decenni primeggia nella fornitura di uomini e mezzi per la stabilizzazione e lo sviluppo della regione senza averne in cambio grandi vantaggi sistemici. Da ottobre 2022 è interesse del nostro paese essere impegnato nella ricerca di un compromesso che possa far avanzare il dialogo tra Belgrado e Prishtina. Il consigliere diplomatico del presidente del Consiglio ha affiancato i rappresentanti dell’Eliseo e della cancelleria tedesca nel lavoro del rappresentante speciale dell’Ue per il dialogo Belgrado-Prishtina, Miroslav Laj0ak. L’Italia è divenuta una fervente sostenitrice di una politica che prometta l’adesione futura di tutti i Balcani occidentali all’Ue. A Kiev, pochi mesi fa, si è regalata la possibilità di associarsi all’Iniziativa dei Tre Mari, altro forum di coordinazione e compattamento della regione. Essere partner di questa iniziativa significa non avere i diritti di voto ma godere di tutti i vantaggi dal punto di vista degli investimenti. Ci ha pensato il premier albanese Edi Rama a chiarire nei fatti che gli Amici dei Balcani occidentali a Roma strizzavano un occhio anche a Volodymyr Zelens’kyj, rilanciando con un’ulteriore riunione a Tirana, in marzo, sul tema ucraino. In Kosovo, a chiamare in causa i fantasmi dello scontro russo-ucraino per dimostrarne la simmetria alle tensioni tra Prishtina e Belgrado, è il premier Albin Kurti. Invece in Bosnia Erzegovina ad alzare la posta politica decantando i suoi legami con Vladimir Putin ci pensa il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik. Kurti, cercando di forzare la marcia verso la completa sovranità, implementa una politica di scontro con la quale spera che la Serbia, cedendo alle provocazioni, passi dalla parte del torto agli occhi della comunità internazionale e l’ormai esigua minoranza slava abbandoni definitivamente il Kosovo. Per i vertici kosovari è fondamentale che l’Occidente veda nella Serbia la longa manus della Russia e nel Kosovo l’unico vero alleato affidabile. Per le sue posizioni intransigenti, che tanti feriti hanno provocato tra le file del contingente italiano e ungherese della Kfor nel 2023, Kurti è sottoposto a una serie Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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di misure di isolamento economico e politico. A queste si è rifatto senza mezzi termini pure il nuovo assistente segretario di Stato per gli Affari europei del presidente Biden James O’Brien, ricordandogli che il Kosovo deve ritornare a comportarsi da partner anziché continuare a minare la stabilità del dialogo 4. L’Occidente ha bisogno della Serbia. La Serbia, che contrariamente al Kosovo è già parte della Partnership for Peace della Nato, deve riuscire a staccarsi al più presto dall’ondivaga politica estera neotitina dei non allineati. E, per entrare appieno nell’alveo delle capitali occidentali, bisogna trovare presto i migliori compromessi e offrire soluzioni di respiro europeo. Puro calcolo di Realpolitik, nel quale nessuno è nemico per sempre. Che, però, dilania gli schemi mentali kosovari: essi faticano a comprendere come proprio la balcanizzazione dell’Ucraina possa far rientrare nel gioco euroatlantico la nazione che in passato ha martoriato la popolazione albanese del Kosovo e scatenato la reazione militare della Nato. Sono smottamenti tettonici difficilmente accettabili per le vecchie sicure logiche di contrapposizione locali. Impantanato in una pura logica di calcolo politico di bottega è proprio il serbo Dodik, presidente dell’entità serba di Bosnia Erzegovina. Egli, manifestando a ogni piè sospinto la sua vicinanza a Putin e inseguendo l’unità di tutti i serbi, in tal caso anche in risposta diretta alla retorica kurtiana della Grande Albania, ha finito per creare i maggiori imbarazzi a Belgrado. Il protettorato internazionale bosniaco soffre l’impossibilità di una pur minima riforma costituzionale, dato che l’intero impianto istituzionale e legale è parte del trattato di Parigi ovvero degli accordi di Dayton. In questo modo, i politici locali sono spinti a innalzare i toni nazionalistici barricandosi nella strenua difesa dei propri diritti intoccabili così come voluti dalle grandi potenze che hanno imposto negli anni Novanta un cessate-il-fuoco che sul terreno nessuno voleva. Ad absurdum, per riformare in maniera efficiente lo Stato, servirebbe un nuovo accordo internazionale con la collaborazione della Russia. Infattibile. Almeno per ora. Ed ecco che, dopo aver parlato ai kosovari, O’Brien è atterrato a Sarajevo. Obiettivo: informare il pubblico locale che egli non ha bisogno di lezioni sull’accordo di Dayton essendone stato un autore. O’Brien ha chiarito a Dodik che l’accordo è pienamente valido e la Bosnia Erzegovina ha confini internazionalmente riconosciuti. Messaggio chiaro: non è il momento di discutere. Bisogna concentrarsi sul compattare le retrovie. Dodik va considerato un politico manipolatore assetato di protagonismo ma gestibile nell’alveo della cacofonia europea. La sfida italiana a marzo consiste nel riuscire a far ottenere, da parte del Consiglio europeo, lo status di paese candidato alla Bosnia Erzegovina. Non dovesse succedere, se ne riparlerà non prima di un anno. L’intera politica dei Balcani allargati risente della fretta e dello stress provocato dalle imminenti elezioni europee che, unitamente a quelle americane, congeleranno qualsiasi capacità decisionale. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. Per un’analisi di dettaglio delle problematiche legate al Kosovo, si veda «Kosovo Report 2023», Commissione europea, 8/11/2023.
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Con la Bosnia Erzegovina l’Ue si trova di fronte al medesimo dilemma affrontato dall’Austria-Ungheria agli inizi del XX secolo. Vienna sapeva che, non incorporandola in toto all’impero, la Bosnia avrebbe destabilizzato la regione. Annettendola nel 1908 sperava di riuscire a gestirne le dinamiche nazionaliste e disgregatrici. Finì male comunque. 4. Per attutire gli eventuali contraccolpi, le grandi capitali dell’Ue hanno impostato la narrativa salvifica di un allargamento certo ma che giungerebbe, e questo è il non detto, solo dopo che l’Unione Europea sarà riuscita a riformare i propri meccanismi di voto e gestione istituzionale. Allargamento certo sottoposto a una riforma incerta. Se nei prossimi due o tre anni dovesse comportarsi bene, forse solo il Montenegro potrebbe essere accettato a Bruxelles. Con poco più di 600 mila abitanti, esso non influirebbe sulle dinamiche istituzionali, anzi maschererebbe la lotta in atto per il controllo politico ed economico del continente, proiettando l’immagine che le porte dell’Europa sono sempre aperte. Anche l’Italia è impegnata nella ricerca di voti che a Bruxelles sgancino le future votazioni dalla logica dell’unanimità. Così facendo, il nostro paese taglia in maniera netta con le posizioni del passato e l’eredità della politica delineata da Franco Frattini. L’ex ministro degli Esteri è sempre stato contrario a un’Europa a due velocità in quanto convinto che solo il continuo compromesso e il rispetto dell’eguaglianza formale di tutti gli Stati potesse essere garanzia di futura stabilità continentale. I Balcani, con le loro irrisolte, complesse e rozze dinamiche, fanno paura. Ma ancora più paura fanno le possibili prospettive dei fondi economici e agricoli una volta che i Balcani e l’Ucraina, ben più bisognosa e numerosa, dovessero essere gestiti con i criteri attuali. Tra ricostruzione e politica agricola, la maggior parte dei soldi sarebbe per decenni incanalata verso indirizzi assai più orientali degli attuali. È urgente chiudere il buco nero dei Balcani per non rischiare contraccolpi sul fianco orientale e per potenziare le posizioni occidentali nei vari consessi di dialogo informale con Mosca. Eppure, il mondo euroatlantico, pressato dalle imminenti elezioni, non propone visioni chiare e appronta solo mezze soluzioni. Una su tutte: sopravvivere per un anno, poi ci saranno leader e istituzioni legittimate da un nuovo mandato sufficientemente lungo. 5. L’Italia desidera aiutare i paesi dei Balcani a trovare la via, mai intrapresa, verso lo Stato di diritto, dello sviluppo economico e democratico sfruttandone al massimo le possibilità d’interscambio. Interessi del tutto legittimi. Come lo è quello di evitare che in futuro la sicurezza nazionale debba risentire degli irrisolti nazionalismi balcanici. Come ha dimostrato l’isolamento nelle stanze di Washington, a favore di James O’Brien, del rappresentante degli Usa per i Balcani Gabriel Escobar, eccessivamente, americanamente, convinto della portata salvifica dell’economia a favore della regione, l’homo balcanicus vive di istinti geopolitici mitologici, primordiali, con cui l’eventuale sviluppo economico non potrà mai competere. L’uomo balcanico ha Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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bisogno innanzitutto di realizzare il fato, economicamente è abituato a vivere in situazioni disastrate e a cavarsela comunque da centinaia di anni. Il Kosovo sarà pure il luogo più povero d’Europa e con la maggiore percentuale di emigrati, ma è anche il luogo con la maggiore concentrazione di macchine di lusso. Per tale ragione, una volta che con i grandi smottamenti internazionali la prospettiva euroatlantica dei Balcani allargati inizia a farsi concreta e vi è la necessità di trovare soluzioni per numerosi fronti, interni ed esterni, è bene che Roma comprenda che l’economia non è la soluzione. Non viviamo più nell’epoca della guerra fredda. Non vi è più un chiaro effetto a specchio tra azione e reazione e il rollback non è più un’opzione. L’area della ex Jugoslavia è legata a doppio filo a molte decisioni geopolitiche russe. Le decisioni portate innanzi dalla comunità occidentale in Jugoslavia hanno creato i precedenti per gli eventi in Nagorno Karabakh, in Ossezia e in Ucraina. Il Kosovo nello specifico è stato il precedente prodromico per la questione del referendum e della riannessione alla Russia della penisola di Crimea. Senza la Russia non vi saranno riforme in Bosnia Erzegovina, a meno della creazione di ulteriori precedenti. E creare precedenti geopolitici nei Balcani non è mai stata una buona idea. La Turchia alla ricerca di una rivincita riconoscibile e accettata dal grande pubblico è della partita. Grazie – anche – all’Italia, Ankara è riuscita a ottenere il comando della sua prima missione internazionale. Forse dovremmo continuare proprio su questa strada. La questione d’Oriente non è la guerra fredda. La questione d’Oriente pretende compromessi e soluzioni identificate con bilancino e compasso intorno a tavoli lontani dalle correnti mediatiche. La soluzione per l’Ucraina è legata ai Balcani e viceversa. Non ci sarà pace nelle steppe orientali senza che queste vengano gestite in pacchetto con le questioni sospese nell’aria al termine della tangenziale di Trieste. Il governo italiano, in passato, ha dichiarato molte volte che i Balcani sono una priorità strategica nazionale. I fatti non hanno mai seguito le parole. Negli ultimi decenni, grazie alla diplomazia, abbiamo migliorato molti rapporti bilaterali ma non abbiamo affrontato la regione nel suo insieme se non per provare ad arginare il dilagare dell’influenza tedesca nel cortile di casa. Quale primo contributore per la sicurezza regionale, dobbiamo iniziare a presentarci come controparte credibile e interessata. Occorre avanzare il nostro punto di vista nelle cancellerie di Londra, Washington, Ankara, Mosca, Parigi, Berlino, Varsavia e Kiev oltre a quelle della regione. Diventare il giocatore dal valore aggiunto. Non reagire alle azioni altrui. È necessario che qualcuno inizi a pontificare soluzioni bizantine, in cui siam stati sempre maestri. Ma per essere credibili non bastano i numeri delle truppe sul terreno. Serve visione d’insieme. Serve un paese che sostiene i propri investimenti, le proprie società con un’azione complessa di intelligence economica. Bisogna apparire uniti nell’affrontare sistemi corrotti e privi di diritto, senza cadere nella trappola del perbenismo istituzionale. La cortesia diplomatica non dev’essere la scusa per credere che una legge approvata da un parlamento sia sufficiente a fare uno Stato di diritto, o che ricorrere ai tribunali nella regione sia garanzia di giustizia per cui la diplomaCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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zia cessa il suo lavoro nel momento in cui indirizza gli imprenditori italiani a rispettare le leggi locali. Gli altri paesi, quelli che fanno sistema e guidano le partite sul terreno, non fanno così. Un caso Fantinel – il più importante investimento italiano nel settore agroalimentare kosovaro che da decenni è lasciato a soffrire negli interstizi delle istituzionali mafiose locali – non sarebbe concepibile per gli americani 5. Per i grandi scandali di corruttela legati alla costruzione di autostrade in Kosovo sono finiti in carcere politici locali, non ne hanno sofferto le società americane 6. Quando società private turche presenti nella regione hanno un problema con la politica consigliano alle controparti di chiamare Ankara. L’Italia deve imparare a giocare da grande. Politica, economia, Forze armate, università e banche non marciano disunite. Il rispetto nelle grandi cancellerie si guadagna giocando con i metodi dei Grandi. Solo dopo ci si può proporre quale attore credibile e capace, quale in effetti siamo, di comprendere meglio degli altri le innumerevoli sfumature dei conflitti proponendo soluzioni e tavoli di dialogo. Quando Vienna annetté la Bosnia Erzegovina lo fece in preda alla tracotanza. Non tenne conto delle posizioni di Serbia, Russia e impero ottomano. La mancanza di dialogo e compromesso portò a conseguenze disastrose. È necessario, urgente, ritrovare il metodo. Rispolverare gli archivi e i manuali dell’Ottocento. Deterrenza e dialogo. I vasi comunicanti della questione d’Oriente potrebbero travolgerci se gestiti con schemi postmoderni. Pechino, nella sua pazienza strategica, non vedrebbe l’ora di assistere a un ulteriore suicidio delle potenze fomentato dalla polveriera.
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5. La questione nel 2021 divenne di interesse anche del Parlamento europeo. 6. Cfr. M. KARNITSCHNIG, «How the US broke Kosovo and what that means for Ukraine», Politico, 15/2/2024.
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PER UNA PROFONDITÀ STRATEGICA EUROPEA IN AFRICA di Jahara MATISEK e Nils ZIMMERMANN L’immigrazione illegale va fermata, pena il caos in Europa. Ma l’unica linea di difesa non può essere il Mediterraneo. Proposte concrete per avviare lo sviluppo africano con servizi, infrastrutture e opportunità economiche. Chi paga? Stampiamo moneta.
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1. FLUSSI DI RIFUGIATI SONO DIVENTATI UNA questione centrale in Europa, in particolare dopo che Libia e Siria sono piombate nella guerra e nel caos. Il crescente numero di persone che ha cercato di entrare nell’Unione Europea da sud e da sud-est negli ultimi vent’anni ha avuto serie ripercussioni politiche, gonfiando le vele di molti partiti etnonazionalisti. Benché in guerra in Ucraina, la Russia continua a strumentalizzare le migrazioni facilitando il traffico di esseri umani verso l’Europa nord-orientale. I numeri di quest’ultima tratta sono relativamente ridotti, secondo un rapporto del Vienna Institute for International Economic Studies 1. Ma nei prossimi decenni i flussi attesi da Africa e Medio Oriente saranno massicci a causa di una quintupla minaccia: esplosione demografica, repressione politica, debolezza economica, guerre e peggioramento delle condizioni ambientali a causa dell’accelerazione del cambiamento climatico 2. Negli ultimi anni, l’attenzione mediatica sui rifugiati si è concentrata sulle sfide piuttosto ritualizzate tra Frontex (l’agenzia per il monitoraggio dei confini dell’Ue) e organizzazioni di volontari di buone intenzioni come Sea-Watch che cercano di salvare migranti alla deriva su piccole imbarcazioni operate da trafficanti. L’agenzia dell’Ue ha cercato di scoraggiare l’immigrazione illegale pattugliando il perimetro mediterraneo e rispendendo i barconi verso le coste africane. Ai pattugliamenti di Frontex si sono aggiunti fornitori nordafricani, come la Guardia costiera libica o milizie di confine spesso accusate di pratiche disumane 3. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. R. GRIEVESON, M. LANDESMANN, I. MARA, «Future Migration Flows to the EU: Adapting Policy to the New Reality in a Managed and Sustainable Way», The Vienna Institute for International Economic Studies, maggio 2021. 2. R. HERSHER, «A Major Report Warns Climate Change Is Accelerating And Humans Must Cut Emissions Now», Npr, 9/8/2021. 3. «EU continues training Libyan partners despite migrant abuses», Ekathimerini, 25/1/2022.
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Frontex non dovrebbe essere considerata la prima e ultima linea della difesa del territorio continentale. Per dissuadere o gestire i flussi migratori, l’Europa ha bisogno di una strategia lungimirante di difesa in profondità in Africa. A dispetto delle richieste di alcune organizzazioni umanitarie di aprire i confini, gli Stati europei non possono permettersi di abbandonare la politica di ridurre l’immigrazione illegale. Se lo facessero, il flusso diverrebbe un torrente. La lezione del Wir schaffen das («possiamo farcela») pronunciato da Angela Merkel nel 2015 è che la decisione di aprire indiscriminatamente le frontiere ai migranti destabilizzerebbe seriamente gli equilibri politici ed economici nel continente. L’Europa ha bisogno di una strategia di lungo periodo, che vada oltre le missioni del Servizio europeo per l’azione esterna, mirata a sviluppare e stabilizzare i paesi lungo il perimetro meridionale e sud-orientale. 2. Per prima cosa, occorre concentrarsi sulle cause primarie dei flussi migratori. I politici europei parlano spesso con vaghezza di «rimuovere alla radice le motivazioni dell’emigrazione» aiutando gli Stati africani a costruire stabilità e prosperità. A tanta retorica non sono corrisposti sufficienti investimenti e risorse. Alcuni sforzi sinceri sono stati tentati, come il tedesco Piano Marshall per l’Africa, lanciato dal governo Merkel nel 2017. Ma hanno bisogno di essere incrementati. Per risolvere la sfida di lungo termine dell’emigrazione di massa sarà necessario un investimento in termini di pensiero strategico. Che cosa proporrebbe un ingegnere, cioè qualcuno che pensa sistematicamente a soluzioni realistiche e scalabili? Una figura del genere individuerebbe anzitutto le variabili chiave da affrontare. Sono state identificati innumerevoli indicatori sociali, politici ed economici, elencati nella lista degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu. Qui ci concentreremo su cinque di essi: accesso ai servizi sanitari, energia pulita, acqua pulita, comunicazioni moderne e finanza cooperativa. Pensiamo quali conseguenze si verificherebbero in Europa se questi obiettivi fossero presi sul serio e se i paesi dell’Ue decidessero di finanziare una rete di fornitura di servizi per assicurare a ogni famiglia africana queste cinque aree. Come si potrebbe raggiungere l’obiettivo? Quali strutture organizzative sarebbero appropriate? E quanto costerebbe? Pensando come ingegneri e come realisti, immaginiamo che questi servizi siano erogati attraverso una rete panafricana di operazioni non governative, invece di affidarsi ad agenzie o funzionari governativi locali, spesso corrotti. Come potrebbero queste reti di fornitura scavalcare i clientelismi costituiti? La nostra risposta a questa sfida potrebbe essere un mero esercizio scolastico, però contiene proposte concrete. Pensiamo a due istituzioni che attualmente non esistono ma che potrebbero essere impiegate come strumenti per erogare servizi. La prima è una rete euro-africana di corpi del genio per lo sviluppo sostenibile, composti da personale militare riaddestrato, formato e rischierabile. La seconda è una rete panafricana di salute e prosperità comunitaria, composta da personale civile. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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3. Partiamo dal genio. Che forma potrebbe avere una rete dei corpi di genieri per lo sviluppo sostenibile? Potrebbe essere ispirata al Corpo del genio dello U.S. Army che, oltre a costruire basi e infrastrutture militari, ha realizzato diverse grandi opere civili, si è occupato di conservazione ecologica e di lavori di restauro e ha aiutato a ricostruire le comunità locali dopo grandi catastrofi naturali. Già un importante intellettuale africano, l’ex presidente della Sierra Leone Koroma, ha invocato l’istituzione di un Corpo del genio africano 4 e nostre ricerche precedenti hanno dimostrato che questo concetto ha il potenziale per facilitare lo sviluppo e il peacebuilding nel continente 5. Questa rete potrebbe essere organizzata sotto gli auspici dell’Unione Africana e/o di organizzazioni regionali come la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. Potrebbe operare con le cinque brigate dell’Africa Standby Force (Asf) e all’interno delle rispettive Forze armate nazionali. Anche gli Stati europei potrebbero organizzare questi reparti entro i propri eserciti e schierarli, su invito, nelle esistenti missioni di addestramento dell’Ue o nelle Security Force Assistance Brigades per assistere i corpi omologhi africani, specialmente durante la fase di lancio. I centri di addestramento potrebbero essere costituiti nell’ambito delle cinque regioni dell’Asf (Nord, Est, Ovest, Sud e Centro). In essi, i soldati di diverse nazioni potrebbero interagire, esercitarsi e acquisire competenze tecniche e relazionali. In alcuni casi, il personale potrebbe costituire reparti misti multinazionali per contribuire a preservare la pace fra paesi confinanti. Oltre a costruire infrastrutture civili, questa rete panafricana servirebbe così alla causa del mantenimento della sicurezza nel continente. Equipaggiate, addestrate e finanziate con l’aiuto dell’Ue, le unità congiunte euro-africane potrebbero essere impiegate per realizzare impianti fotovoltaici, acquedotti, reti fognarie, reti elettriche, antenne per la telefonia mobile, strutture ospedaliere e altre infrastrutture fondamentali. I progetti dovrebbero essere individuati in accordo con gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu numero 7 (assicurare accesso universale a servizi di energia convenienti, affidabili e moderni) e 13 (condurre azioni urgenti per combattere il cambiamento climatico e il suo impatto). Ipotizziamo che l’Ue stanzi regolarmente nel proprio bilancio 125 miliardi di euro annui per finanziare i Corpi del genio, le loro operazioni, i loro equipaggiamenti. Sembra un’esagerazione, considerando che il Servizio esterno dell’Ue spende circa 700 milioni l’anno e che Frontex ne spende circa 75 per pattugliare il perimetro meridionale del Mediterraneo. Ma abbiate pazienza: questi soldi sarebbero investiti, non gettati al vento. E abbiamo anche una proposta non a somma zero per raccogliere questi investimenti. Una proposta che consentirebbe agli europei di non dover tagliare i propri bilanci interni per finanziare lo sviluppo infrastrutturale africano. Ci arriviamo fra un attimo. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. E.B. KOROMA, «An African Peace Engineering Corps can help the continent respond to COVID-19 and other such emergencies», accord.org.za, 5/5/2021. 5. N. ZIMMERMANN, J. MATISEK, «A Developmental Role for Militaries in Africa: The Peace Engineering Corps Solution?», S&F Sicherheit und Frieden, vol. 38, 2020, pp. 112-17.
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4. Consideriamo ora la seconda istituzione da creare, la rete panafricana di sanità e prosperità comunitaria, composta da personale civile. La sua funzione specifica sarebbe aiutare le famiglie dando opportunità alle donne africane. Diverse ricerche suggeriscono che le disuguaglianze di genere sono associate a instabilità e a conflitti interni 6. Immaginiamo centri di addestramento di personale sanitario collocati in regioni prive di servizi, in cui le donne vengano formate ad alcune funzioni fondamentali per la salute e la prosperità della comunità, dall’infermieristica alla pianificazione familiare. Pensiamo a un modello operativo simile alla microfinanza. Ogni operatore sanitario di comunità fa visita a un gruppo di sette donne per due ore ogni due settimane e visita tre gruppi diversi al giorno per quattro giorni la settimana, con il quinto giorno lavorativo speso alla base regionale per ricevere ulteriore formazione da esperti o da pari. Gli operatori dovrebbero aiutare ragazze adolescenti e donne in ogni villaggio africano ad acquisire reti da letto antimalaria, pannelli solari, smartphone con accesso Internet, portafogli elettronici, kit medici di primo soccorso, vaccini, opportunità economiche appropriate, sementi ad alto rendimento, competenze per la gestione dei bambini, microprestiti imprenditoriali… e qualunque cosa che le donne chiedano e gli operatori siano in grado di fornire. In virtù di questo schema, ogni operatore sarebbe responsabile di 168 donne. Se ipotizziamo un programma per 400 milioni di donne e ragazze africane, sarebbero necessari 2,4 milioni di operatori. Se ipotizziamo un costo per operatore di 4 mila euro al mese (salario, trasporti, equipaggiamenti, assicurazione, beni e servizi forniti agli utenti), il costo annuale di un programma africano ammonterebbe a 114 miliardi di euro. Se aggiungiamo alcuni miliardi per coprire la costruzione e la manutenzione di circa 48 mila basi regionali del programma (una base ogni 50 operatori), ci avviciniamo a 125 miliardi l’anno. 5. Sommati assieme, i Corpi del genio e la rete di operatori comunitari costerebbero 250 miliardi di euro all’anno. Sono tanti soldi se confrontati al pil totale dei paesi africani: il 10,5% di 2.370 miliardi. Ma sono una piccola frazione del pil dei membri dell’Ue: l’1,7% di 15 miliardi di euro. Queste somme devono essere amministrate da professionisti in formali fondi d’investimento – chiamiamoli Fondi di solidarietà euro-africana. Devono inoltre essere spese con intelligenza da organizzazioni panafricane affidabili, non corrotte e responsabili di fronte ai dirigenti dei fondi stessi – e indirettamente devono rispondere anche a Ue e Unione Africana. In questo modo, i 250 miliardi di euro annui potrebbero generare enormi ritorni in termini di sicurezza per l’Europa e di stabilità e prosperità per l’Africa. Veniamo al punto cruciale. I soldi investiti non devono essere tolti ai bilanci nazionali o al budget dell’Unione Europea in un gioco a somma zero. L’Ue dovrebCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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6. I. VIK BAKKEN, H. BUHAUG, «Civil War and Female Empowerment», Journal of Conflict Resolution, vol. 65, n. 5, pp. 982-1009.
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TRAFFICI E TERRORISMO ALL’INTERNO DEL SAHEL Oceano Atlantico
Tunisia
Marocco
Mar Mediterraneo TRIPOLI
Algeria
Sahara Occ.
Gambia Guinea Bissau Guinea Sierra Leone Liberia Costa d’Avorio Burkina Faso Ghana Togo Benin Capo Verde
Libia Oasi di Kufra
Egitto
Mauritania Senegal
Niger
Mali
Eritrea Sudan
Ciad Nigeria
Etiopia São Tomé e Príncipe Guinea Eq.
Guerra in Sudan (da 10 mesi e 9 milioni di sfollati)
Paesi con produzione petrolifera interna
Oasi di Kufra sotto pressione per il grande afflusso di rifugiati Tripoli sotto pressione per presenza rifugiati sudanesi
Uganda go
Rotta della migrazione sudanese
Co n
Gruppi estremisti
Rifugiati sudanesi attraversano il confine per raggiungere l’oasi di Kufra in Libia
Centrafrica
Camerun
Gabon
el
Oceano Atlantico
Sud Sudan
Rep
.d
Kenya Rep. Dem. del Congo
Ruanda Burundi Tanzania
Paesi con limitata produzione petrolifera interna Traffici di carburante
Angola Boko Haram (Lago Ciad) Violenti scontri tra Boko Haram e Iswap, Islamic State West Africa Province.
Zambia
Zimbabwe
Namibia
Malawi
Mozambico
Botswana
be invece capire che, per aumentare il raggio e il potere mondiale della sua valuta, eSwatini sarebbe sufficiente che la Banca centrale europea emettesse 250 nuovi miliardi di euro ogni anno, sotto forma di prestiti a tasso zero ai Fondi di solidarietà. Questi soldi sarebbero a loro volta fatti circolare in forma elettronica attraverso gli investimenti dei Fondi in Africa. Nel 2020 esistevano già 15.400 miliardi in euro in circolazione sotto forma di moneta ampia, quantità che cresce del 7,5% circa annuo: incrementarla di un ulteriore 1,7% l’anno non fa male a nessuno. Anzi, aiuta tutti perché aumenta la capacità degli africani di acquistare merci sia africane sia euroCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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pee, cioè stimola a sua volta la domanda di beni europei depressa dal progressivo invecchiamento della popolazione veterocontinentale. Il punto è che «stampare» nuova moneta denominata in euro e spenderla in Africa a un ritmo di 250 miliardi l’anno sarebbe una cosa buona, non cattiva, per l’Europa. A patto che questi soldi siano investiti con intelligenza per aumentare la produttività africana. Potrebbe essere difficile persuadere gli europei del Nord a farlo – sembrano continuare a credere che emettere nuova moneta sia sempre un male che genera automaticamente inflazione. In pochi si interrogano su come si crea davvero la moneta e sarebbero sorpresi di sapere quanto velocemente aumenta anno dopo anno. Nonostante quest’ostacolo, bisognerebbe comunque fare un tentativo di convincere gli europei che tutti trarrebbero profitto da una modesta espansione annua dello stock monetario per costruire capacità in Africa. Contrariamente alle credenze comuni, creare moneta non è un gioco a somma zero. Se le famiglie africane fanno circolare euro, non vuol dire che gli europei ne hanno meno né che il potere d’acquisto della moneta unica cala. Uno stock fisso di beni non esiste: la quantità di merci prodotte è funzione dinamica di una domanda reale e la domanda è reale soltanto se le persone hanno soldi in tasca da spendere. La capacità produttiva potenziale dell’Europa sta rapidamente sorpassando la sua domanda interna. Invece la domanda potenziale africana sta crescendo a ritmi vertiginosi, ma non è ancora reale perché l’africano medio non ha moneta pesante con cui acquistare beni europei. La capacità produttiva africana potrebbe aumentare nettamente grazie a investimenti in infrastrutture basilari, come una rete panafricana di impianti di energia solare realizzati presso le città in più rapida crescita. Il tutto getterebbe le basi per una crescente relazione commerciale fra i due continenti. Quanti sarebbero i vantaggi in termini di capitale umano, sicurezza e ricchezza se si potessero superare le superstizioni voodoo degli europei sulla creazione di moneta! Si potrebbero poi istituire diversi meccanismi finanziari per far sì che i soldi investiti generino flussi monetari di rientro verso i Fondi di solidarietà euro-africana. Per esempio attraverso la vendita di elettricità generata dai parchi solari creati grazie agli investimenti. I Fondi stessi potrebbero puntare a diventare autosufficienti nel lungo periodo, magari con un orizzonte di venticinque anni. Aumentando gli standard di vita in Africa, gli europei guadagnerebbero molti nuovi partner commerciali dotati di maggiore potere d’acquisto e creerebbero nuove opportunità d’impresa per sé stessi. Inoltre, fare investimenti costruttivi in Africa è un obbligo morale per l’Europa, alla luce di cinque secoli di abusi coloniali finiti solo di recente. Lo è anche alla luce degli alti costi in termini di cambiamento climatico che il mondo industrializzato sta sempre più imponendo agli africani attraverso le emissioni di gas serra. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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6. I 250 miliardi di euro annui, equivalenti all’1,7% del pil dell’Ue nel 2021, possono essere messi in circolazione senza toglierli ai bilanci europei. Non è un gioco a somma zero. Non è vero che spendere più in Africa e aumentare il potere
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d’acquisto locale significa necessariamente spendere meno in Europa e diminuire il suo potere d’acquisto. Chi lo sostiene non capisce la finanza, le dinamiche di domanda e offerta e l’economia monetaria. E comunque chi lo sostiene dovrebbe realizzare che il prezzo da pagare sarebbe molto inferiore rispetto ai costi economici e umani di Stati in fallimento, stagnazioni economiche e bombe demografiche tra Africa e Medio Oriente. Ogni calcolo di costi e benefici deve tenere conto delle conseguenze di un esodo in fuga da condizioni disperate, di un’immigrazione fuori controllo e del conseguente scivolare dell’Europa nei nazionalismi. Ora la domanda è: chi può promuovere questo approccio strategico allo sviluppo in Africa attraverso investimenti seri, con strumenti efficaci e su una scala adeguata? Serve una coalizione di statisti coraggiosi e consapevoli delle dinamiche economiche in grado di guadagnarsi i consensi delle istituzioni europee. Esiste ancora chi può e vuole raccogliere la sfida? * (traduzione di Federico Petroni)
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* Le opinioni qui espresse non riflettono le posizioni della U.S. Air Force.
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CAPIRE I TURCHI PER USARLI
di Daniele SANTORO
L’italiano è l’opposto antropologico del turco: individualista, privo di strategia, inadatto a pensarsi entro una collettività diacronica. Ankara penetra nel nostro estero vicino. Nel triangolo con la Francia, ci conviene appoggiare Parigi. O riscoprirci turanici.
L’
1. ASCESA DELLA TURCHIA NEL MEDITERRANEO è il fenomeno che rivoluziona il nostro intorno geografico, generando aggiustamenti geopolitici ben più strutturali di quelli innescati dai conflitti combattuti nei due fronti caldi della Guerra Grande, Ucraina e Terrasanta. Delineare un approccio volto a comprendere e ad affrontare l’arrembante espansionismo di Ankara – ammesso e non concesso che ciò sia possibile – dovrebbe essere dunque tra le priorità strategiche dell’Italia. Perché il modo in cui (non) cavalcheremo la marcia acquatica dei turchi contribuirà in misura decisiva a decretare il grado di controllo che saremo in grado di esercitare sulla nostra profondità difensiva (Nord Africa e Balcani, dunque Mediterraneo centrale e Adriatico) e soprattutto la configurazione e la cogenza delle nostre garanzie di sicurezza nella fase di transizione dall’egemonia americana all’incipiente caos apolare generato dal rattrappimento della proiezione globale della superpotenza. La Turchia si è ormai da anni insediata con prepotenza nel nostro estero vicino. Ankara occupa militarmente la Tripolitania, resa poco più di un vilayet repubblicano, si è di fatto spartita con francesi e arabi del Golfo la gestione della Tunisia, contende con successo a Parigi l’egemonia in Algeria, sta restituendo ad Albania e Kosovo la dignità di protettorati ottomani, sorveglia i Balcani dall’avamposto di Sarajevo, la «Gerusalemme d’Europa», dove i locali musulmani vedono in Erdoãan la reincarnazione di Solimano il Magnifico. Tanto che il presidente turco inaugurò proprio dall’unico insediamento urbano della «Turchia in Europa» di marca propriamente ottomana la campagna elettorale per le elezioni presidenziali del giugno 2018. Ma la peculiarità del dinamismo imperiale anatolico sta nella capacità di Ankara di avvinghiare a sé i soggetti potenzialmente rivali, oltre che di strappare a essi i territori oggetto di contesa. Il 4 febbraio scorso il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan ha ad esempio annunciato che la Turchia fornirà all’Egitto i suoi celebri droCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ni da combattimento 1. Suggello della riconciliazione inaugurata dalla stretta di mano a Doha tra Erdoãan e alSøsø del novembre 2022 e culminata nella storica visita al Cairo del presidente turco del 14 febbraio scorso. La prima dal «giro d’ono re» del settembre 2011, quando la via che collega l’aeroporto della capitale egiziana al centro cittadino era affollata da arabi che esibivano con orgoglio la bandiera della Repubblica di Turchia e i ritratti del suo sorridente primo ministro 2. La nor malizzazione con l’Egitto permetterà innanzitutto ad Ankara di consolidare la pro pria egemonia in Tripolitania e di estendere il proprio raggio d’azione alla Cirenai ca irredenta, destinata alla cogestione turcoegiziana. Potenzialmente, di indurre Il Cairo a legittimare l’accordo sulle frontiere marittime con Tripoli del novembre 2020 e a stipularne uno analogo. Senza contare che se triangolata su Israele – altro soggetto regionale in profonda crisi d’identità che quando si riavrà dal corrente accesso di follia sarà costretto a bussare al portone del külliye di Beştepe – l’intesa tra Turchia ed Egitto ha evidentemente il potenziale per sovvertire i parametri stes si della geopolitica mediterranea, non solo in termini energetici. E che sfruttando il volano egiziano Ankara può raggiungere a Gaza la stessa centralità geopolitica conquistata in Ucraina. La vicenda dei droni è peraltro emblematica della natura propriamente impe riale dell’approccio geopolitico della Turchia. Erdoãan ha dapprima fornito i veli voli senza pilota all’Etiopia, non tanto per aumentare l’efficacia delle operazioni militari delle Forze armate di Addis Abeba contro i separatisti del Tigrè quanto per concederle un vantaggio competitivo rispetto a Egitto e Sudan. Così da suscitare la prevedibile reazione del Cairo e di Khartûm. Risultato: al-Søsø ha fatto da intermediario per la consegna dei droni turchi al regime sudanese 3 e poi si è piegato a dotarsi personalmente degli iconici velivoli senza pilota made in Türkiye. Che dunque figurano negli arsenali di tutti e tre i contendenti dell’Africa nord-orientale. Modus operandi analogo a quello adottato da Ankara all’altro capo del Continente Nero. Già a fine 2020 la Turchia ha fornito i Bayraktar Tb2 al Marocco, che attualmente sta negoziando l’acquisto dei velivoli senza pilota anatolici di terza generazione, gli Akıncı 4. Mossa con la quale Erdoãan ha inteso bilanciare e valo rizzare le fiorenti relazioni militari con l’Algeria. Allo scopo di stringere sempre più a sé Algeri e di posizionarsi come arbitro ideale nel confronto algerino-marocchino. La medesima logica è all’opera nei Balcani. Qui Ankara sfrutta innanzitutto la profondità culturale che la lega alla Grande Albania e ai musulmani di Bosnia. Ma il raggio d’azione della Turchia nell’Europa ottomano-asburgica non è limitato ai residui brandelli islamici della penisola balcanica. Malgrado la consegna dei Bayraktar Tb2 al Kosovo a luglio dello scorso anno, il recente accordo di cooperazione militare tra Ankara e Prishtina (che si sovrappone a quello già sottoscritto con TiCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. «Turkey agrees to provide drones to Egypt», Reuters, 4/2/2024. 2. S.A. COOK, «Erdogan’s Middle Eastern Victory Lap», Foreign Affairs, 15/9/2011. 3. B. FAUCON, N. BARIYO, S. SAID, «Ignoring U.S. Calls for Peace, Egypt Delivered Drones to Sudan’s Military», The Wall Street Journal, 14/10/2023. 4. M. ARREDONDAS, «Morocco negotiates the acquisition of the Turkish drone Akinci», Atalayar, 29/8/2023.
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rana) e il contestuale inasprimento delle tensioni al confine serbo-kosovaro, le relazioni tra Turchia e Serbia sono più fiorenti del maggio 2018, quando Aleksandar Vu0i© accolse Erdoãan e consorte all’aeroporto di Belgrado a mezzanotte. Scomodando l’intero Consiglio dei ministri. Il giorno dopo l’arrivo dei droni turchi in Kosovo il ministro della Difesa serbo Miloš Vu0evi© giustificava la morigerata reazione del suo governo ricordando che «la Turchia è una grande potenza, è in grado di proiettare una notevole influenza economica e politica nei Balcani occidentali: dobbiamo fare in modo di avere le migliori relazioni possibili con Ankara» 5. Emblematico è in tal senso l’ancestrale timore – più che il contingente fastidio – con il quale Vu0evi© ha richiamato il nome scelto dai kosovari per battezzare la base militare di Prizren, dove sono stanziati i soldati turchi. Intestata a sultan Murat, il condottiero ottomano che nel 1389 sconfisse i serbi del principe Lazar nella piana di Kosovo Polje. Evento che nell’immaginario nazionale serbo equivale alla nascita di Gesù Cristo 6. I serbi sanno cosa significa avere a che fare con i turchi e riescono a proiettare nel medio periodo le correnti dinamiche balcaniche. Tanto che il serbo-bosniaco Milorad Dodik – erede politico di coloro che appena trent’anni fa intendevano sterminare i musulmani di Bosnia in quanto «turchi» – ha fatto campagna elettorale per Erdoãan – «uomo di pace e di dialogo, patriottico e tutto d’un pezzo» – in occasione delle elezioni presidenziali di maggio 7, ha poi presenziato al congresso dell’Ak Parti di ottobre 8 e ha infine stabilito che l’approccio del presidente turco alla questione bosniaca è «accettabile» per i serbi di Bosnia 9. Già nel novembre 2021, all’apice della recente iniziativa secessionista, Dodik chiese di essere ricevuto da Erdoãan prima di incontrare Putin a San Pietroburgo. Incensandolo come «il più grande statista dei Balcani» 10. Tesi quantomeno discutibile considerando che il Reis si fa vezzeggiare in patria con il titolo di «leader del mondo» (dünya lideri). Al netto delle conseguenze geopolitiche derivanti dal crescente espansionismo della Turchia nella nostra profondità difensiva, è proprio dalle ancestrali ambizioni egemoniche insite nella tradizione culturale di cui Erdoãan è manifestazione contemporanea che bisognerebbe idealmente partire per delineare un approccio auspicabilmente strategico al fenomeno turco. Anche perché nella miserevole condizione geopolitica in cui versiamo potremmo trarre utili lezioni pedagogiche dal confronto con un paese nato nel 1923 il cui esercito rivendica istituzionalmente di essere stato fondato nel 209 a.C. E che quarant’anni fa si è attribuito per decreto 5. T. ÖZTÜRK, «Conflict with Türkiye over Kosovo not in Serbia’s national interest, says minister», Anadolu Ajansı, 18/7/2023. 6. Cfr. D. SANTORO, «I Balcani sono una bomba a orologeria», Limes, 8/2022, «Il mare italiano e la guerra», pp. 215-231. 7. Z. RADOSAVLIJEVIC, «Bosnian Serb leaders back Erdogan in Turkish election», Euracitve, 11/5/2023. 8. D. GÜLDOãAN, «Turkish President Erdogan meets Bosnian Serb leader in Ankara», Anadolu Ajansı, 7/10/2023. 9. «Dodik: Erdogan has his own Position on BiH and I can say that it is acceptable to the RS», Sarajevo Times, 9/10/2023. 10. H.F. BÜYÜK, «Feuding Bosnians Look to Turkey’s Erdogan to Mediate Crisis», Balkan Insight, 10/11/2021. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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INIZIATIVE GEOPOLITICHE TURCHE
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Paesi ai quali sono stati venduti droni da combattimento Bayraktar Tb2, Akıncı o Anka-S Potenziali acquirenti di droni da combattimento turchi
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LETTONIA
CAPIRE I TURCHI PER USARLI
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
presidenziale l’eredità imperiale di 16 Stati – nell’immaginario turco il concetto di Stato assume connotazioni geopolitiche differenti da quelle occidentali, includendo semanticamente l’idea d’impero, tanto che i turchi si riferiscono comunemente all’«impero ottomano» come «Stato ottomano» (Osmanlı Devleti) e che gli stessi ottomani si rappresentavano ufficialmente non come «impero» ma come «Stato grande» (Devlet-i Aliyye) – che hanno contribuito a orientare il corso degli scorsi due millenni abbondanti dalla taiga siberiana alle profondità sahariane, dal bacino del Danubio alla pianura indo-gangetica 11. 2. I media italiani veicolano da anni un’immagine caricaturale della Turchia. Descritta come la satrapia di un «dittatore» islamista che ha divelto le fondamenta laiche dello Stato fondato da Atatürk per ridurlo a una repubblica islamica nella quale vengono negate le più banali libertà, perseguitati gli oppositori, «sterminati» i curdi. I successi geopolitici di Ankara vengono perlopiù ignorati e quando non è possibile farlo attribuiti alle perverse megalomanie di Erdoãan, che per perseguire anacronistiche ambizioni personali – quasi il presidente turco risiedesse nell’iperu ranio – ha ridotto la nazione sul lastrico. È dunque solo questione di tempo. Le difficoltà economiche si faranno insostenibili, Erdoãan ne verrà travolto e con lui tornerà nelle tenebre anche il fantasma imperiale ottomano. È una visione che ci tranquillizza. Perché ci permette di evitare di interrogarci realisticamente sul quesito che ci assilla sullo sfondo: com’è possibile che i turchi – più poveri e meno capaci di noi, in sostanza razza inferiore dalla prospettiva degli europei – siano diventati potenza globale, temuti e rispettati dal resto del mondo, mentre noi affoghiamo nella quotidiana umiliazione geopolitica (e non solo)? Considerare l’ascesa della Turchia un evento paranormale legato alla figura di Erdoãan – in quanto tale occiduo – ci rassicura. Ma ci impedisce di comprendere la reale natura del fenomeno che volenti o (soprattutto) nolenti saremo costretti ad affrontare. L’ossessione per Erdoãan e la tendenza ad attribuire al presidente turco tutto ciò che accade in Turchia o che fa la Turchia sono figlie dei vizi culturali degli europei: la convinzione che contino solo gli individui (in particolare i capi), l’ideologico primato attribuito alla politica, l’inscalfibile certezza che gli esseri umani siano spinti ad agire principalmente in reazione a stimoli di tipo economico o utilitaristico. Tutto ciò ci preclude di capire cosa sia un turco, in effetti antitesi antropologica di un italiano, o meglio cosa siano i turchi. Soprattutto, cosa vogliano e perché proveranno a ottenerlo a qualsiasi costo. La premessa (ideo)logica è che Erdoãan non è sé stesso e neppure solo il presidente della Repubblica di Turchia. Recep Tayyip Erdoãan è lo spirito della storia (turca). Manifestazione apicale di un sentimento ancestrale coltivato con amorevole cura da tutte le articolazioni della nazione turca. Burocrazie, scuole, moschee. Ma anche famiglie, centri sportivi, luoghi di ricreazione. Il turco è turco Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
11. Cfr. D. SANTORO, «Perché la Turchia deve tornare impero entro il 2053», Limes, 10/2021, «La riscoperta del futuro», pp. 169-182.
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CAPIRE I TURCHI PER USARLI
perché gli viene insegnato a essere turco. A casa, a scuola, al lavoro, in palestra, al bar, in televisione. Soprattutto a scuola. Compito fondamentale del sistema scolastico anatolico è formare membri di una collettività che si percepisce intrinsecamente diacronica. Istruirli sulle responsabilità che derivano loro da tale condizione. L’interpretazione del mito di Atatürk che diamo in Italia è in tal senso emblematica della nostra incapacità di comprendere il fenomeno turco. Secondo accademia e media italiani Mustafa Kemal sarebbe divenuto Atatürk perché ha salvato i turchi dall’islam. Al turco medio viene insegnato in tutti gli ambiti della sua esistenza che Mustafa Kemal è il «turco padre» perché ha salvato la patria dagli invasori europei. L’immagine più iconica di Kemal è quella che lo ritrae mentre osserva le operazioni militari a Çanakkale. Atatürk è soprattutto Çanakkale. Duecentocinquantamila figli della patria morti, feriti o dispersi. Essere turco significa innanzitutto essere all’altezza di questo sacrificio. Essere disposto come i propri antenati – per non sfigurare davanti a essi e per figurare come essi davanti ai propri figli – a versare il proprio sangue per la patria. Entità sfuggente, itinerante. Come l’evoluzione storica di cui i turchi repubblicani sono consapevole manifestazione contemporanea, che ha condotto i discendenti degli unni dagli aviti monti Altay alle porte di Vienna. Tra disperate sofferenze ed eroiche imprese. Complessità esistenziale di cui il giovane turco viene reso edotto innanzitutto attraverso l’iconografia scolastica, che rappresenta la «Turchia» come l’insieme delle patrie. Laddove la patria sono i territori abitati dai turchi. Diaspore europee incluse. Perché «la terra calpestata dal turco diventa patria» 12. Vastità spaziale cui dà senso dinamico la parabola storica del fe nomeno turco. La cui gloriosa evoluzione è parte preponderante non solo della pedagogia nazionale ma anche e soprattutto della cultura popolare. Mitologia ado lescenziale inclusa. La patria dei turchi è dunque entità nomade come lo spirito che li ha spinti a uscire dalle profondità asiatiche. La prospettiva di perdere il focolare nazionale è ciclica ricorrenza storica. La difesa della patria del proprio tempo – se necessario con il sacrificio, anche estremo – è dunque dovere imprescindibile del cittadino turco. Fondamento del senso di appartenenza nazionale, il bene più prezioso posseduto dall’individuo. Ma il dovere patriottico implica un conseguente obbligo collettivo altrettanto scrupolosamente custodito dalla tradizione statuale originata nella steppa mongola, al confine tra la Fascia settentrionale e la Pianura centrale. Alla metà dell’XI secolo il lessicografo Kâşgarlı Mahmud, alto esponente dell’ intelligencija selgiuchide, spiegava al califfo abbaside al-Muqtadø che «l’Onnipotente ha fatto sorgere il Sole del Destino nello Zodiaco dei Turchi e posto il loro Regno nell’Alto dei Cieli. Poi li ha chiamati “Turchi” e gli ha dato il Governo. Li ha resi signori del Tempo e messo nelle loro mani le redini dell’autorità temporale. Ha affidato loro il genere umano» 13. Dieci secoli dopo il popolare psichiatra sociale Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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12. Il proverbio completo recita: «Il cucciolo di turco diventa lupo, la terra che calpesta diventa patria» («Türk balası kurt olur, bastıãı yer yurt olur»). 13. A.C.S. PEACOCK, The Great Seljuk Empire, Edinburgh 2015, Edinburgh University Press, p. 124.
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Erol Göka stabilisce che «in ogni periodo storico i turchi hanno cercato di “dominare il mondo”, come se pensassero che sarebbero stati a loro agio solo se avessero conquistato il mondo intero. Non importa quanto siamo infelici, il nostro inconscio brama questo dominio. Anche adesso. E quando una comunità che nutre un’ambizione del genere realizza la natura della sua condizione in un dato momento storico può cadere in preda al malessere e all’avvilimento» 14. L’alternativa è netta: o noi dominiamo il mondo, o il mondo domina noi. Da qui il più celebre, e sottilmente ironico, õadøñ di Mustafa Kemal: «Pace nel mondo, pace in patria» (yurtta sulh, cihanda sulh). Originato dalla presa d’atto che il primo termine dell’alternativa sarebbe stato impraticabile a lungo. La dimensione imperia le, il dominio del genere umano, è immaginata come soluzione definitiva – in realtà sempre temporanea – al problema della patria. Alla «questione della perpetuità» (beka meselesi). La patria è in pericolo quando l’impero svanisce e fintanto che l’impero (ri)sorge. È questa la lezione retrospettiva che i Giovani Turchi di seconda generazione hanno tratto dall’esperienza kemalista. Elaborando una tesi della storia propriamente imperiale che depura l’evoluzione più recente della parabola storica del fenomeno turco dai batteri ideologici. In fondo Mustafa Kemal era diversamente ottomano, o gli ottomani diversamente kemalisti. Quel che conta è che la patria è salva solo se c’è l’impero. Il dovere patriottico si diluisce nell’obbligo imperiale. Sicché il turco non si avvilisce per l’inflazione a tre cifre o per la dittatura islamista di Erdoãan. Si avvilisce perché non ha (ancora) l’impero. 3. Quando incrociamo la Turchia ci troviamo di fronte non già un paese ma una civiltà millenaria che coltiva un’idea di sé stessa spropositatamente elevata. Certamente sproporzionata rispetto alla stazza geopolitica della Repubblica fondata da Atatürk. Ma indubbiamente adeguata ai trascorsi imperiali delle sue 16 «madri». I turchi sanno perfettamente chi sono e cosa devono volere. Sono consapevoli fin dalla prima settimana di scuola primaria di essere i gloriosi e temibili eredi degli unni di Attila e dei moãul dell’India, dell’Orda d’Oro che impiantò la tradizione turanica nelle Russie e di Tamerlano, di Solimano il Magnifico e dei tenebrosi guerrieri nomadi che piegarono la Cina. È questa la differenza principale tra noi e i turchi – dalla quale discendono a cascata tutte le altre. È in questo senso che il turco è l’antitesi antropologica dell’italiano. Noi ci arrangiamo nella soporifera inconsapevolezza geopolitica. Non vogliamo sapere chi siamo, né tantomeno cosa dovremmo volere in quanto italiani. Rifiutiamo di definire la nostra identità nazionale, detestiamo coltivare un senso di appartenenza collettiva che ci distingua dal resto dell’umanità. I turchi si percepiscono innanzitutto e soprattutto come turchi – forse a tempo perso come musulmani. Noi italiani ci pensiamo qualunque cosa tranne italiani. Europei, occidentali, esseri umani. Diluiamo – crediamo di poterlo fare – la nostra identità geopolitica in insiemi che Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
14. E. GÖKA, «“Noi turchi abbiamo sempre voluto dominare il mondo e continueremo a volerlo”», Limes, 7/2023, «Il gran turco», p. 38.
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per loro natura non possono avere una strategia. Leuropa, l’Occidente, l’umanità. Siamo terrorizzati dai cosiddetti cambiamenti climatici, mentre tolleriamo con noncuranza il fatto che Turchia e Russia si siano spartite casa nostra – tale è la Libia da noi inventata. Attraverso una brillante operazione intellettuale – caso di studio che dovremmo mandare a memoria, perché è questa la premessa culturale imprescindibile per poter riconoscere la grande strategia nazionale – i turchi hanno ricomposto la frattura tra Kemal e gli ottomani. Dotandosi dell’arma più micidiale che un paese possa custodire nel suo armamentario geopolitico. Un’ininterrotta parabola storica bimillenaria che tiene insieme Mete Han ed Erdoãan. Senza interruzioni, senza cesure. Cristallina continuità imperiale. Noi ci crogioliamo in anacronistiche dispute ideologiche che lacerano la storia patria. Precludendoci così di avvertire la necessità stessa di inventare una tradizione che le appanni per valorizzare l’adesione a un sistema ideale condiviso. Sta qui la più grave vulnerabilità geopolitica dell’Italia. L’assenza di un sistema pedagogico ramificato nelle scuole, nelle famiglie, negli spazi pubblici, nei luoghi di lavoro e di ricreazione che insegni all’italiano come si fa a essere italiano, che tipo di responsabilità comporta, quali doveri presuppone, quali diritti implica. Senza italiani, è del tutto evidente che non possa esistere una strategia italiana. Perché la strategia è privilegio delle collettività che si riconoscono tali, cioè distinte – e superiori – rispetto al resto dell’umanità. Che coltivano tale differenza e ne fanno la loro ragion d’essere. Il valore che infine orienta il comportamento degli individui che ne fanno parte. Non possiamo quindi avere una strategia nei confronti della Turchia perché non abbiamo una strategia nazionale nella quale diluire e comporre l’approccio verso Ankara. Un soggetto, una questione o una minaccia non possono essere – in quanto tali – l’oggetto né tantomeno l’origine di una riflessione strategica. Nessun paese è di per sé stesso amico o nemico. Il grado di cooperazione o di competizione con un altro attore geopolitico dipende dagli interessi nazionali, dalla natura della posta in gioco, dal territorio in cui si produce l’interazione. Dalla contingenza geopolitica, dunque dall’adattabile piano tattico adottato per raggiungere gli obiettivi strategici. Dai rapporti di forza, dalla posizione degli altri contendenti, dal momento storico. La sofisticata relazione intessuta da Turchia e Russia nell’ultimo decennio abbondante è in tal senso emblematica. Ankara e Mosca fanno la guerra di giorno e la pace di notte. A volte il contrario. In alcuni casi non si capisce se stiano facendo la guerra o la pace. Perché per i turchi – a parti invertite per i russi – il punto di partenza della riflessione geopolitica non è la Russia ma l’equazione strategica nella quale sciogliere l’incognita russa. È da questa operazione che dipende la natura dell’interazione in un contesto territoriale e in una contingenza storica determinati. E l’equazione strategica – la (grande) strategia – è conseguenza naturale dell’idea di sé stessa coltivata da una collettività. Deriva dal posto che tale collettività ha scelto di assegnarsi nel tempo e nello spazio. Decisione che costituisce a sua volta il frutto di una pedagogia nazionale sedimentata nei decenni – spesso nei secoli – e nelle generazioni. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Chisinau CONFINI MARITTIMI SECONDO LA TURCHIA UCRAINA R O MA N I A
Mar d’Azov
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FED.RUSSA
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Mar Egeo
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SIRIA CIPRO
Mar Mediterraneo
LIBIA EG IT TO
Area di giurisdizione marittima turca
AREA: Bulgara LIBANO Romena Ucraina ISRAELE Russa Georgiana GIORDANIA Siriana Nord-cipriota
Sud-cipriota Libanese Israeliana Palestinese Egiziana Libica Greca
Noi abbiamo scelto di non compiere questo passaggio. L’Italia non genera italiani. Dunque non può produrre strategia, né tantomeno strateghi. E se per accidente biologico dovesse darsi uno stratega italiano, costui sarebbe chiamato al più ingrato dei compiti. Prolungare l’agonia della sua collettività, nutrendosi di speranza e utopia. Nella (forse vana) attesa che gli italiani percepiscano e manifestino il desiderio di cambiare, di vivere il loro tempo e nel loro tempo. Anche per questo potrebbe tornarci utile guardarci allo specchio turco. Nella nostra irriducibile prospettiva individualista siamo convinti che Mustafa Kemal abbia cambiato i turchi. È in quest’ottica che leggiamo e spieghiamo l’adesione dei discendenti degli ottomani alla modernità con caratteristiche turche. Vediamo l’adesione alla modernità dei turchi, ci sfuggono le caratteristiche turche. Soprattutto, ci sfugge il fatto che Kemal non impose nulla. Corrispose la stessa necessità collettiva che ne generò l’impeto Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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rivoluzionario. Non fu Atatürk a cambiare i turchi, furono i turchi a voler essere cambiati (da Atatürk). 4. Sotto il profilo operativo prolungare l’agonia significa perseguire due obiettivi tattici vitali, nitidamente riconoscibili. Il primo è prevenire che nel nostro estero vicino – nella nostra profondità difensiva – si affermi una potenza egemonica o un consorzio di potenze egemoniche. In altri termini, dobbiamo impedire che la Turchia si riappropri in via esclusiva dello spazio ottomano eurafricano o che turchi, arabi, russi e francesi si spartiscano Balcani e Nord Africa. Si tratta in sostanza di scongiurare che nello spazio mediterraneo la transizione dall’egemonia americana al mondo nuovo si compia prima dell’epifania della nostra rivoluzione antropologica. Il cui avvento potrebbe evidentemente essere favorito proprio dall’alto livello di competizione nel nostro cortile di casa, caratterizzato da un crescente tasso di violenza che dovrebbe auspicabilmente fungere da stimolo per una più profonda presa di coscienza delle nostre vulnerabilità geopolitiche, dunque culturali. Con un caveat: la competizione deve essere tra potenze regionali. Dobbiamo contribuire in ogni modo a evitare che il Mediterraneo diventi teatro dello scontro tra l’America e i suoi avversari. Dunque che i russi vadano a cercare gli americani nei Balcani, o che gli americani vadano a cercare i cinesi in Nord Africa. La nostra stella polare deve essere il confronto di prossimità tra Turchia e Francia, dinamica nella quale potremmo imparare a comodamente fluttuare pur se privi di strategia. Per i profondi e storici rapporti culturali, economici e militari che ci legano a turchi e francesi, che in linea teorica ci permettono una conoscenza sufficientemente approfondita dei loro interessi – ciò a cui non intendono rinunciare e ciò che invece è per loro negoziabile – e che ci forniscono solide leve per orientarne il comportamento tattico. Il nostro primo compito dovrebbe essere dunque quello di contribuire ad aumentare il peso della competizione tra Ankara e Parigi nell’equazione regionale. Dovremmo poi adattarci a fare da membrana del mantice franco-anatolico, allontanando le due lastre quando francesi e turchi si avvicinano troppo – magari con l’intenzione di fare un accordo sulla nostra testa – e accostandole quando rischiano di venire alle mani, circostanza che ci costringerebbe a fare una scelta di campo che naturalmente non faremmo. Come sempre condannandoci all’irrilevanza. Per svolgere efficacemente tale delicata operazione dovremmo studiare dettagliatamente i propositi strategici e le iniziative tattiche progettate dai nostri interlocutori, fino a conoscerle meglio dei diretti interessati. Sulla base di questa conoscenza, dovremmo imparare a schierarci con la parte svantaggiata. Per non pregiudicare il peso del confronto franco-(italo)-turco nel Mediterraneo e per segnalare all’altro termine della nostra equazione regionale la capacità italiana di spostare gli equilibri in modo decisivo. Modulando il nostro approccio tanto in termini sincronici quanto in termini diacronici, a seconda del teatro e in base ai rapporti di forza prevalenti in quel teatro in un dato momento storico. Ancora un anno fa avrebbe ad esempio avuto perfettamente senso raggiungere un’intesa tattica con la Turchia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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nelle Libie, perché Ankara era allora relativamente isolata e sotto pressione. Oggi – dopo che Erdoãan ha stravinto le elezioni e stabilizzato il fronte interno, normalizzato i rapporti con arabi del Golfo ed Egitto e che la Francia ha definitivamente perso il Sahel, dove peraltro si stanno infilando i turchi - dovremmo viceversa (ri) lanciare un’iniziativa nordafricana con Parigi per indebolire Ankara, far saltare la riconciliazione turco-egiziana (che implica una dimensione libica per noi potenzialmente letale), cooperare con i francesi per alzare un po’ di maretta tra turchi e arabi del Golfo. Si tratta in sostanza di mantenere aperta la partita. Di contribuire a definire un campo e delle regole del gioco che ci permettano di tornare tra i titolari, se e quando l’auspicabile catarsi geopolitica avrà mondato il nostro inconscio dalle impurità utilitaristico-individualiste. E soprattutto di preservare la materia indispensabile al compiersi della palingenesi antropologica, la nostra integrità territoriale e la nostra esistenza in quanto Stato nazionale formalmente indipendente. In un contesto nel quale l’egemone che garantisce la nostra sicurezza – il titolare dell’impero di cui siamo periferia strategica – è in evidente crisi identitaria e culturale, in caotico e tumultuoso declino. Dobbiamo mettere nel conto che tra qualche decennio gli Stati Uniti potrebbero non essere più in grado di proteggerci, per insufficienza di risorse mentali e materiali, e che a quel punto, stante il nostro (s)vantaggio geografico, diverrem(m)o ambita preda nelle battute di caccia organizzate dagli aspiranti (co)egemoni. Molti dei quali incattiviti da qualche decennio – o peggio qualche secolo – di umiliante frustrazione geopolitica. È tutt’altro che irrealistico immaginare che tra mezzo secolo, sotto la pressione delle spinte di Russia e Cina rispettivamente verso l’Europa orientale e i mari non solo cinesi, gli americani non riusciranno più a tenere il fronte (euro)mediterraneo. Basta leggere in prospettiva gli inquietanti scricchiolii libici, tunisini, bosniaco-kosovari ed egei. Nelle prove della Guerra Grande la Turchia si è piazzata in pole position. È pronta a scattare per riempire il vuoto creato dalla contrazione della proiezione americana nella regione. A ripristinare la propria egemonia sull’Europa e sul Nord Africa ottomani. O a spartirseli con russi, francesi, tedeschi, forse polacchi – quantomeno dalla prospettiva di Ankara le varie specie di arabi restano invece pietanze, non commensali. In entrambi i casi, sarem(m)o la portata successiva. Perché ventre molle di un impero in decadenza. In quanto tale, obiettivo ideale di ritorsioni geograficamente asimmetriche di russi e cinesi, prolungamento quasi naturale di conflitti non più indiretti tra grandi potenze combattuti nell’Europa in mezzo o a Taiwan. È anche a scongiurare questi scenari che ci serve il meccanismo informale con Francia e Turchia. O meglio, elevare lo scontro tra Ankara e Parigi e la nostra fluttuazione in esso a dinamica prevalente della geopolitica mediterranea. Dobbiamo raggiungere una contiguità tale con turchi e francesi da indurli ad assumersi fino in fondo la responsabilità della regione – cioè della nostra profondità difensiva. A consolidare strutturalmente la loro aspirazione a contendersela e idealmente a dominarla. Il che significa in primo luogo renderla per quanto possibile impermeabiCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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CAPIRE I TURCHI PER USARLI
le alle incursioni esterne e impedire che da essa possano originare minacce potenzialmente esiziali. Per noi in senso lato, per Ankara e Parigi quanto ad ambizioni geopolitiche. In termini operativi, è ad esempio controproducente antagonizzare la Turchia sulla questione del Pkk. Oggi dovremmo al contrario offrire ai turchi tutto il nostro sincero sostegno materiale in un conflitto nel quale è potenzialmente in gioco l’integrità del loro Stato. Senza ambiguità e con una certa proattività. Perché domani l’opzione meno peggiore potrebbe essere quella di affidare ad Ankara – in quanto capitale di un’entità verosimilmente molto diversa dall’attuale Repubblica di Turchia – la garanzia di quantomeno parte della nostra sicurezza. Al contempo, dovremmo cooperare con la Francia per scongiurare una tutt’altro che improbabile intesa libica tra turchi, russi, egiziani e arabi del Golfo. Dal momento che viste la natura dei «soggetti» coinvolti (Egitto e petromonarchie) e la diversa posizione delle Libie nella scala delle priorità geopolitiche (Russia) tale intesa sarebbe preludio naturale all’instaurazione di un protettorato turco non tanto nell’ex Quarta Sponda quanto soprattutto nei territori acquatici che la uniscono all’Anatolia. Dunque nel cuore del nostro spazio geopolitico. 5. Non si potrebbe certo biasimare l’accidentale stratega italiano se colto dallo sconforto cedesse infine al vizio nazionale dell’individualismo. Resta pur sempre un italiano. E resta pur sempre uno stratega, in quanto tale in fondo consapevole che la rigenerazione culturale e antropologica necessaria a fare dell’Italia un soggetto geopolitico con una strategia non verrebbe innescata neppure in caso di invasione aliena della penisola. Lo stratega italiano potrebbe dunque arrendersi alla tentazione di mettere il suo senso strategico al servizio dei propri fini personali. Colto lo spirito del tempo e attratto dalle gloriose gesta di illustri predecessori come Alvise Gritti – figlio illegittimo del doge di Venezia Andrea, il beyoãlu che divenne consigliere per gli affari europei di Solimano il Magnifico e al quale è tutt’ora dedicato il quartiere più iconico di Istanbul – deciderebbe verosimilmente di offrire i suoi servigi al sultano di Ankara. Sottoposto a violento processo di turchizzazione finalizzato a convincerlo di essere (sempre stato) turco, scoprirebbe alla prima lezione di pedagogia nazionale testi di suoi ex connazionali che perorano l’origine turca degli etruschi 15, tesi naturalmente incorporata nella narrazione pedagogica neokemalista16. Realizzerebbe che nelle vene degli italiani scorre sangue turanico. Da stratega ormai turco svelerebbe dunque l’arcano che ne aveva tormentato l’esistenza da stratega italiano, il trauma identitario che ci impedisce di voler essere italiani. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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15. Cfr. ad esempio M. ALINEI, Gli Etruschi erano turchi. Dalla scoperta delle affinità genetiche alle conferme linguistiche e culturali, Alessandria 2013, Edizioni dell’Orso. 16. Cfr. ad esempio S. MEYDAN, Atatürk ve Türklerin Saklı Tarihi (Atatürk e la storia celata dei turchi), İstanbul 2017, İnkilâp, pp. 644-646, che cita uno studio del 2004 condotto dalle università di Ferrara, Firenze, Bologna, Parma, Pisa e Barcellona.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
ADDIO VIE DELLA SETA L’ITALIA NAVIGA VERSO IL SOL LEVANTE
CUSCITO Ripudiata la Bri cinese, l’Italia rinsalda i rapporti con il Giappone per riposizionarsi nello scontro Cina-Usa. Le implicazioni della svolta. La reazione di Pechino, tra stizza e diplomazia. Il Cavour è atteso in Asia, ma è nel Mediterraneo che dobbiamo impegnarci. di Giorgio
L’
1. ITALIA STA CAMBIANDO IN MANIERA significativa il proprio approccio all’Indo-Pacifico, principale teatro di scontro tra Stati Uniti e Repubblica Popolare Cinese. Tale mutamento si basa su due mosse, entrambe volte a sostenere la strategia americana per contrastare Pechino. La prima consiste nel mancato rinnovo della partecipazione alla Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta) lo scorso dicembre. Così il governo guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha confermato l’opposizione alla penetrazione cinese in settori di interesse strategico italiano. E ha ferito parzialmente il soft power della Repubblica Popolare, che usa la Bri per evadere il contenimento statunitense in Estremo Oriente e proiettare i propri interessi politici, economici e militari all’estero. Roma ha motivato il dietrofront con gli scarsi ritorni economici rispetto alle attese del 2019, anno dell’adesione. Probabile, tuttavia, che sulla scelta abbia pesato anche la maggiore attenzione degli apparati di sicurezza italiani e statunitensi alla presenza cinese nella penisola, posta al centro del Mediterraneo assurto a Medioceano: collo di bottiglia che al pari dei Mari Cinesi connette Atlantico e Indo-Pacifico via Gibilterra e Suez. La seconda manovra compiuta dall’Italia consiste nell’accresciuta collaborazione con il Giappone, storico antagonista della Repubblica Popolare. In tale ambito spiccano l’elevazione delle relazioni bilaterali a partenariato strategico, la creazione di un meccanismo di consultazioni su politica estera e difesa, ma soprattutto l’interazione sul piano tecnologico e militare. Quest’ultima è resa evidente dal Global Combat Air Programme (Gcap), l’accordo con il paese del Sol Levante e il Regno Unito per realizzare entro il 2035 dei caccia di sesta generazione, superiori agli F-35 e agli Eurofighter. Di fatto, fusione tra il progetto Tempest (guidato da Londra, ma che coinvolge l’Italia) e il nipponico F-X Program. Protagonisti dell’iniziativa sono Leonardo, Mitsubishi Heavy Industries e Bae Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1- KAZAKISTAN 2- KIRGHIZISTAN 3- UZBEKISTAN 4- TAGIKISTAN 5- IRAN 6- PAKISTAN
6
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EAU ARABIA SAUDITA
5
2
INDIA
Principali rivali della Cina Usa Giappone
Guam m (USA))
Aree d’instabilità per le nuove vie della seta
TAIWAN
GSI
Militare
GDI Iniziativa sviluppo globale
-
Culturale
U S A
BRASILE
GSI Iniziativa sicurezza globale Organizzazione per la cooperazione di Shanghai Membri dei Brics Forum Cina-Africa (Focac, esclusi Sahara Occ., B. Faso e Malawi) Forum sicurezza in Medio Oriente (Rete cloud Huawei in Arabia Saudita) Forum di Xiangshan (Collaborazione con i paesi dell’Estremo Oriente) Cooperazione globale pubblica sicurezza Cooperazione Lancang-Mekong (Paesi lungo il bacino del fiume Mekong)
Economico
GCI Iniziativa civiltà globale
POTENZIAMENTO Nuove vie della seta
Iniziativa sicurezza globale
PONE GIAPPONE
I 3 perni del mondo sinocentrico
Fed. Russa e Cina intesa poco solida accordo “Amicizia senza limiti” febbraio 2022
Pechino C I N A “Alfiere della pace globale”
Xi Jinping stringe legami con partito taiwanese all’opposizione (Kuomintang)
Prima catena di isole pressione Usa sul Mar Cinese Orientale e Meridionale
SUDAFRICA
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3
FEDERAZIONE RUSSA Mosca 1
LA GLOBALIZZAZIONE CINESE
ADDIO VIE DELLA SETA. L’ITALIA NAVIGA VERSO IL SOL LEVANTE
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Systems, ma vi prendono parte anche altre aziende italiane come Avio Aero, Elettronica e Mbda Italia. Il Giappone userà il Gcap per diversificare le fonti d’approvvigionamento tecnologico in campo militare a fronte delle minacce poste dai suoi tre rivali strategici: Cina, Russia e Corea del Nord. Infatti, l’invasione dell’Ucraina da parte russa e l’aumento delle tensioni intorno a Taiwan spingono T§ky§ ad accrescere gli investimenti bellici, malgrado la recessione economica e l’indice di gradimento del premier Kishida Fumio ai minimi storici a causa di alcuni scandali in seno al suo partito. Lo scorso aprile Italia e Giappone hanno svolto esercitazioni navali congiunte nel Golfo di Aden. Quattro mesi dopo le rispettive aviazioni si sono addestrate insieme presso la base di Komatsu, sull’isola di Honshu, perno geopolitico del paese del Sol Levante. Operazione in linea con il corso di formazione dei piloti nipponici presso la International Flight Training School di Decimomannu (Sardegna). A fine giugno il pattugliatore d’altura Morosini è arrivato nella baia di T§ky§, mostrando la qualità della tecnologia italiana ai paesi dell’Indo-Pacifico. Viaggio storico, che spiana la strada per la partecipazione delle nostre Forze armate all’esercitazione Pitch Black in programma a luglio in Australia e all’arrivo, il mese successivo, del gruppo navale guidato dalla portaerei Cavour e del veliero Vespucci in Giappone. Il tutto probabilmente tenendosi a debita distanza dallo Stretto di Taiwan, per non esacerbare i rapporti con Pechino. Queste attività rientrano nel piano di interoperabilità della Marina con i partner canonici (inclusa l’efficiente controparte nipponica) e sono in linea con l’impegno di Roma per promuovere l’industria della difesa italiana all’estero. 2. Il fermento coinvolge anche il fronte civile. Al 2022 risale il lancio di Blues, treno ibrido progettato e costruito da Hitachi Rail per Trenitalia; si ventila inoltre una possibile collaborazione tra Eni, la giapponese Euglena e Petronas per la costruzione congiunta di una bioraffineria nel complesso industriale di Pengerang, ubicato in Malaysia e affacciato sullo strategico Stretto di Malacca. Nel febbraio 2023 Meloni e Kishida hanno affermato di voler espandere le attività bilaterali in settori quali i chip, l’intelligenza artificiale e lo Spazio. Su tali fronti il Giappone si muove più rapidamente dell’Italia: collabora con la società taiwanese di semiconduttori Tsmc di cui punta a ospitare alcune fabbriche per contare nelle filiere produttive ad alto contenuto tecnologico. Ciò potrebbe favorire il consolidamento dei rapporti tra il paese del Sol Levante e Taiwan, che con il supporto statunitense sta potenziando le proprie capacità belliche simmetriche e asimmetriche in vista di un eventuale attacco cinese. Circa 200 addestratori americani stanno formando le Forze armate di Taipei: alcuni stazionano a Penghu (Pescadores) e Kinmen (Quemoy), arcipelaghi taiwanesi che distano pochi chilometri dalle coste della Repubblica Popolare 1. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. «Meijun lu bian mao guwen chang zhu lujun liangqi ying» («Consulenti dei berretti verdi stazionano presso i battaglioni anfibi dell’Esercito»), udn.com, 5/2/2024.
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La revisione della postura di Roma verso Pechino è confermata dall’attenzione prestata ai rapporti con l’India, che insieme ad Australia e Giappone integra il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad) promosso dagli Stati Uniti in chiave anticinese. Meloni ha appoggiato il corridoio India-Medio Oriente-Europa (la cosiddetta via del cotone) durante il G20 di Delhi, poco dopo l’uscita dell’Italia dalle nuove vie della seta. Entrambe le iniziative dovranno comunque fare i conti per diverso tempo con le ripercussioni delle guerre in Ucraina e a Gaza. Il Giappone va trattato con i guanti. Non è solo l’atavico rivale dell’Impero del Centro. È una potenza intenzionata a ritagliarsi nuovamente una sfera d’influenza nell’Indo-Pacifico, teatro così ribattezzato dal defunto premier nipponico Abe Shinz§, il cui impatto sui piani dell’attuale esecutivo guidato da Kishida è lampante. In sintesi: potenziamento delle spese militari, consolidamento del rapporto con l’America, proiezione oltre lo Stretto di Malacca passando per Taiwan e Sud-Est asiatico, stimolo fiscale e allentamento monetario (formula nota come «Abenomics»), sviluppo tecnologico per compensare in parte i problemi demografici. L’impegno nipponico a interagire con Roma ha perfettamente senso. Collima con il bisogno di affollare le acque di casa con «partner dalla mentalità affine» quale deterrente contro la Cina. Inoltre, agevola i tentativi dell’America di allacciare la Nato ai propri satelliti orientali. Lo esemplificano la partecipazione di Corea del Sud e Giappone ad alcuni vertici dell’Alleanza Atlantica e il dibattito sull’apertura di un ufficio Nato a T§ky§. A Roma, un anno fa, Kishida aveva affermato che la sicurezza dell’Indo-Pacifico e dell’Euro-Atlantico sono inscindibili. Cogliendo appieno la dimensione medioceanica che accomuna Mediterraneo e Mari Cinesi. Pechino non ha criticato eccessivamente il ritiro italiano dalla Bri. Roma aveva cominciato a sganciarsi dall’iniziativa quasi subito dopo avervi aderito, servendosi del golden power per ostacolare investimenti cinesi in settori strategici e in porti quali Trieste, Catania, Taranto e Palermo. Inoltre, se la Cina avesse protestato eccessivamente per il ripensamento italiano avrebbe danneggiato il proprio già scricchiolante soft power. Ora l’Italia vorrebbe salvare quel che rimane della collaborazione con Pechino nel quadro del partenariato strategico approvato nel 2004 dal governo di Silvio Berlusconi e sin qui inattuato. Non si può tuttavia escludere che l’avvicinamento dell’Italia al Quad incida sul dialogo con la Repubblica Popolare più di quanto accaduto con l’abbandono delle nuove vie della seta. 3. Le relazioni tra Italia e Giappone hanno radici antiche, sono segnate da reciproca attrazione culturale e da periodi bui. Nel XIII secolo, ne Il Milione Marco Polo racconta di Cipango, o Zipangu. Forse un rimando fonetico a Ribenguo, il nome cinese del paese del Sol Levante. Eppure, probabilmente il viaggiatore veneziano non mise mai piede sul suolo nipponico. Nel XVI secolo vi approdarono invece i gesuiti italiani e nel 1585 la prima delegazione diplomatica giapponese giunse in Europa facendo tappa nella penisola. Le relazioni bilaterali iniziarono formalmente il 25 agosto 1866 con la firma del Trattato di amicizia, navigazione e commercio. Ad apporla a Edo (futura T§ky§) per il Regno d’Italia fu il Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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capitano di fregata Vittorio Arminjon, che poi siglò un analogo documento con la Cina. Il regime feudale giapponese era collassato e stava per iniziare la restaurazione Meiji (1868). L’anno dopo giunsero in Giappone il primo ministro plenipotenziario conte Vittorio Sallier de La Tour (o «della Torre») e il console Cristoforo Robecchi. L’obiettivo era tutelare gli interessi dei commercianti italiani di seme-bachi, termine che si riferiva alle uova dei bachi da seta. Possibilmente senza essere coinvolti nelle partite più grandi che interessavano Francia, Regno Unito e Giappone. Si stima che tra il periodo Tokugawa (1603-1868) e l’inizio della restaurazione Meiji l’Italia abbia incamerato un quinto delle esportazioni nipponiche 2. Forse per questo il nuovo governo del Sol Levante nutriva simpatia per i rappresentanti italiani; o forse anche perché de La Tour fu il primo rappresentante straniero a consegnare le proprie credenziali all’imperatore (tenn§) anziché allo sh§gun. Inoltre, i nipponici riscontravano somiglianze tra i cambiamenti in corso nel loro paese e le vicende risorgimentali. Un curioso spaccato di quel periodo fu messo per iscritto da Giacomo Farfara, intrepido commerciante di bachi livornese, nel Giornale di un viaggio nel Nord del Giappone. Come riporta Giulio Antonio Bertelli (professore all’Università di †saka), Farfara ne inviava le pagine alla moglie di de La Tour, la contessa parigina Mathilde. La prima spedizione di Farfara fu un’avventura: nel 1868, a bordo del bastimento Gaucho partì da Yokohama diretto a Miyako in compagnia di un gruppo di soldati francesi. Giunse in porto dopo aver sfidato un tifone e qui consegnò armi e munizioni al principe di Morioka, Nambu Toshihisa. Questi di lì a poco si sarebbe sottomesso all’imperatore Meiji senza però cessare di tramare alle sue spalle, il che lascia pensare che Farfara fosse più di un semplice commerciante. Pur collaborando con trafficanti d’armi francesi aveva infatti un rapporto piuttosto stretto con il governo italiano, che però all’epoca non voleva interferire ufficialmente negli affari interni nipponici 3. Nel maggio del 1873 la spedizione Iwakura diretta verso Stati Uniti ed Europa fece tappa in Italia. Nel 1881 l’incrociatore corazzato della Regia Marina Vettor Pisani fu la prima nave straniera ad accogliere l’imperatore Meiji. Prima sostò in Cina, mentre tra questa e la Russia spiravano venti di guerra. Sette anni dopo nacque la Società italo-giapponese, che alimentò ulteriormente lo scambio culturale. Nel XX secolo la sintonia bilaterale assunse connotati strategici. Durante la prima guerra mondiale i due paesi si schierarono contro la Germania al fianco della Triplice intesa composta da Francia, Regno Unito e Russia. Al termine del conflitto i rapporti si consolidarono ulteriormente, come attesta nel 1920 la visita in Italia del principe Hirohito, futuro imperatore. Oltre a Roma visitò Napoli, dove l’Università Orientale esibiva la prima cattedra di giapponese del nostro paese. Sempre nel 1920, undici biplani partirono dall’aeroporto Francesco Baracca di CenCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
2. N. LANNA, «Italia-Giappone: 150 anni di amicizia costante», sito dell’ambasciata italiana in Giappone. 3. G.A. BERTELLI, «Il giornale di un viaggio nel Nord del Giappone di Giacomo Farfara», in P. VILLANI, N. HAYASHI, L. CAPPONCELLI, Riflessioni sul Giappone antico e moderno, vol. 3, luglio 2018, Ariccia, Aracne Editrice, pp. 201-234.
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tocelle (Roma) per raggiungere T§ky§. Solo due completarono la traversata: fu il primo volo tra le due città. L’idea fu di Gabriele D’annunzio (alcune opere del quale furono tradotte in giapponese), che l’anno prima la condivise con lo scrittore Shimoi Harukichi mentre insegnava all’Orientale. L’impresa venne celebrata in Giappone ricevendo gli aviatori al palazzo imperiale e con 42 giorni di festeggiamenti. Uno dei biplani fu collocato nel Museo imperiale delle armi a †saka 4. Nel 1922 Shimoi partecipò alla Marcia su Roma. Negli anni Trenta il partenariato prese toni ancor più ideologici e bellicosi. Tra Mussolini e il Tenn§ non vi era fiducia, ma li accomunava il desiderio di espandere le rispettive influenze all’estero. Nel 1940 il Duce aderì al Patto tripartito con Giappone e Germania nazista. Nel luglio del 1945, poco dopo la fine del regime fascista, anche l’Italia dichiarò guerra al paese del Sol Levante che si arrese ad agosto, pochi giorni dopo le atomiche statunitensi su Hiroshima e Nagasaki, con l’annuncio formale di Hirohito. La fine della seconda guerra mondiale innescò un cambio di paradigma. Da quel momento Italia e Giappone intrapresero una svolta in senso democratico e divennero parte della sfera d’influenza americana. Come tracce della sconfitta restano gli articoli 53, 77 e 107 della Carta delle Nazioni Unite, le cosiddette enemy clauses, che autorizzano azioni coercitive dei firmatari verso gli «Stati nemici». Per Roma la vicenda non merita attenzione, giacché l’Italia è ormai nell’Onu. Non la pensano così i giapponesi, che negli anni Novanta tentarono di far abrogare quegli articoli poiché squalificano il loro paese e ne rimarcano la subordinazione agli Stati Uniti 5. A conferma del diverso modo in cui Italia e Giappone leggono il rispettivo posto nel mondo. Durante la guerra fredda Roma e T§ky§ erano integrate nel fronte anticomunista e antisovietico. Incaricate di svolgere funzioni analoghe nel quadro della strategia americana, per contenere le potenze rivali in Eurasia grazie alle rispettive posizioni geografiche. Il rapporto tra Italia e Giappone riprese, con contestuale miglioramento delle relazioni culturali e commerciali. Tra gli anni Cinquanta e Novanta il sostegno statunitense consentì alle due economie di crescere rapidamente, salvo poi rallentare entrambe, complice il declino demografico. 4. Dagli anni Novanta l’Italia ha abbozzato maldestri tentativi per approfittare del «decollo» cinese, sulla scia di quanto fatto da altri paesi europei grazie alla fase relativamente favorevole delle relazioni sino-statunitensi. Il desiderio di stringere rapporti con Pechino è diventato ufficiale nel 2019, quando Usa e Cina erano già in rotta. Roma ha aderito alle nuove vie della seta convinta di poter così superare Germania, Francia e Regno Unito in termini di relazioni commerciali e industriali con la Repubblica Popolare. Non solo ciò non è accaduto, ma la scelta del governo Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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4. P. CONVERTINI, «Raid Roma-Tokyo, 100 anni fa il volo record dell’aviazione italiana», aeronautica.difesa.it, 15/5/2020. 5. HITOKI DEN, «U.N. Charter’s anachronistic enemy state clauses», The Japan Times, 19/1/2017.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
I POLI DI HUAWEI E ZTE E LE PRINCIPALI BASI USA/NATO Aviano Milano Area di test in collaborazione Camp Ederle con Vodafone L OM BAR D I A (Vicenza) Segrate PIE MO NT E Centro globale di ricerca e sviluppo per la tecnologia Torino Sperimentazione con Vodafone wireless 5G per estendere la copertura della rete 5G La Spezia
Aree di test in collaborazione con Open Fiber e Wind 3 (controllata al 100% dalla cinese Hutchison)
Prato Firenze
Camp Darby T OS C AN A (Pisa-Livorno)
LA Z I O ROMA Telecamere di sicurezza Huawei installate al Colosseo e nel quartiere San Lorenzo; laboratorio Zte per la sicurezza cibernetica
Centro d’innovazione e ricerca per la sperimentazione del 5G, in collaborazione con l’Università dell’Aquila, presso il Tecnopolo d’Abruzzo L’Aquila Area di test in collaborazione con Tim e Fastweb (investimento di 60 milioni A BR U Z ZO di euro in 4 anni e coinvolgimento di 52 partner) P U G L IA Bari Gaeta
Napoli
SARDEGNA
Matera BASILICATA
Poli di Huawei Poli di Zte Cagliari Pula Centro per l’innovazione congiunto sulle smart and safe cities, in collaborazione con il Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna (Crs4) (Non rinnovato)
Principali basi e comandi Usa e Nato in Italia
SICILIA
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Sigonella
Catania Centro per l’innovazione in collaborazione con Tim
Niscemi Muos - Comunicazioni satellitari
Le informazioni relative a Huawei e Zte sono del 2019 escusa Pula
di Giuseppe Conte ha generato tensioni con l’America. Nel giro di mesi l’Italia ha bloccato l’accesso di aziende cinesi in settori quali 5G, semiconduttori, robotica, agroalimentare e droni. L’unico porto in cui gli operatori della Repubblica Popolare sono riusciti a investire significativamente è quello di Savona-Vado Ligure. Intan-
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ADDIO VIE DELLA SETA. L’ITALIA NAVIGA VERSO IL SOL LEVANTE
to Roma si apprestava a rilanciare i rapporti con una T§ky§ desiderosa d’imporsi nuovamente nelle acque rivierasche. Le opportunità schiuse da questo nuovo cambiamento dei rapporti con il Giappone sono molteplici e non riguardano solo l’ambito militare. Si profilano infatti possibili vantaggi da una maggiore interazione in campi quali la biomedicina, le nanotecnologie, la robotica, lo Spazio e il ciberspazio. Interazione che potrà far leva sui 200 accordi già stipulati da università ed enti di ricerca italiani e nipponici. Occorrerà naturalmente tutelare le nostre conoscenze tecnologiche, civili e militari, come fatto nei confronti della Cina. Il Giappone continuerà a incentrare la propria impronta strategica sull’Indo-Pacifico. Altrettanto dovrà fare l’Italia con il Mediterraneo. Roma non ha risorse sufficienti a espandere stabilmente le proprie operazioni militari in Estremo Oriente. Una concreta estensione del raggio operativo verso l’altro capo dell’Eurasia sarebbe controproducente alla luce delle minacce generate dalla guerra in Ucraina, da quella in Terrasanta, dai turbolenti Balcani e dalla presenza russa, turca e cinese in Africa. A questi problemi si somma il dibattito sul futuro della Nato, stante il desiderio degli Stati Uniti di ridimensionare il loro impegno in Europa per concentrarsi sulla Cina. Le prossime visite delle nostre Forze armate in Giappone e in Australia avranno dunque un valore soprattutto simbolico. Kishida potrebbe rimarcarne l’importanza durante il vertice del G7 a presidenza italiana previsto in Puglia a giugno, la cui agenda potrebbe essere condizionata dai venti di guerra nell’Indo-Pacifico. Per Roma sarà impegnativo salvaguardare il rapporto con la Repubblica Popolare tramite il cosmetico partenariato strategico e al tempo stesso bloccarne gli investimenti rischiosi per la sicurezza nazionale. Pechino sta lavorando all’attivazione di gemellaggi tra città cinesi e italiane, per interloquire più agevolmente con le nostre amministrazioni territoriali senza siglare accordi di portata nazionale. La mossa ricorda gli undici avamposti della polizia cinese dislocati lungo lo Stivale e impiegati per monitorarvi la diaspora immigrata. Pechino continuerà dunque a coltivare le relazioni diplomatiche ed economiche con l’Italia, tenendone a mente il ruolo di ponte tra Europa e Africa. Tanto più che aziende cinesi potrebbero tornare a operare in Libia per contribuire alla ricostruzione della città di Derna. La fugace partecipazione alle nuove vie della seta indica che muoverci tra grandi potenze in rotta di collisione non fa per noi. Domare il caos che preme sul Mediterraneo, fronteggiare l’aumento delle turbolenze nell’Indo-Pacifico e gestire l’immutata rivalità tra Cina e Giappone richiede di collocare con precisione queste potenze nella gerarchia dei nostri interessi nazionali. Per non soccombere alle onde prodotte nei due Medioceani dagli attriti tra Washington e Pechino. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
PER LA RUSSIA IL FUTURO È IL PASSATO
MOSCATELLI e Mauro DE BONIS Secoli di fascinazione e complementarità nei rapporti italo-russi. Ora Mosca ci considera un nemico. Ed è nostro scomodo vicino di casa (in affitto) nel Mediterraneo e in Africa. Con la Federazione bisognerà tornare a parlare. Per non rassegnarsi alla guerra. di Orietta
I
1. L 24 FEBBRAIO 2022 HA BRUSCAMENTE interrotto una lunga storia di reciproca fascinazione e ricorrente mutua convenienza tra Roma e Mosca. La fascinazione arriva da lontano, dai tempi in cui gli architetti italiani venivano invitati a costruire palazzi e torri al Cremlino e poi nella nuova capitale San Pietroburgo, concepita da Pietro il Grande come affaccio sull’Europa di una Russia finalmente dotata di una flotta con cui reclamare un posto nel consesso delle potenze. La mutua convenienza ha portato nel tempo a incroci di simpatie e vantaggi: al meglio ispirati da interessi strategici, a tratti tracollati nell’imbarazzante. Nella seconda categoria il più recente episodio è stato lo sbarco a fine marzo 2020 di un convoglio russo con uomini in uniforme e unità per la lotta batteriologica, che da Pratica di Mare ha risalito la penisola sino alle province lombarde devastate dal Covid-19. In quella fase l’Italia era considerata dai vertici russi il ventre molle dell’Europa, non tanto affidabile ma utile piazza per coltivare voci fuori sistema e populismi vari, in ottica anti-Ue e anti-Nato. A onore del vero, due settimane dopo la missione italiana un cargo di attrezzature contro il coronavirus atterrò anche a New York, con la stessa insegna From Russia with Love, ma niente mezzi militari in giro per la Grande Mela. Per Mosca era importante mostrarsi al pubblico occidentale con la mano tesa nel momento dell’emergenza: diplomazia e propaganda in un solo colpo. E l’aiuto fornito nelle Rsa lombarde è stato probabilmente utile allo sviluppo del primo vaccino anti-Covid, lo Sputnik, travolto dalla competizione geopolitica che ha accompagnato la crisi epidemica e mai approdato ai mercati occidentali. Il «disinteressato» soccorso è citato ancora oggi dalle autorità russe, per ricordare i bei tempi (andati) delle amichevoli intese con l’Italia. L’ambasciatore della Federazione Russa a Roma ha commemorato il centenario del riconoscimento ufficiale dell’Unione Sovietica da parte del Regno d’Italia Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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definendo l’attuale «posizione ufficiale delle autorità nei confronti della Russia, in sostanza, di carattere nemico». In un’intervista alla Tass, Aleksej Paramonov lamenta gli otto pacchetti di aiuti militari destinati all’Ucraina e ipotizza che un aereo spia italiano individuato nei pressi della Crimea a fine gennaio possa aver fornito informazioni usate per attacchi ucraini sulla penisola dichiarata annessa nel 2014 1. Per il capomissione, «le relazioni tra i nostri paesi ora, certo, sono migliori rispetto al 19411943. Ma, purtroppo, di poco». Le dichiarazioni di Paramonov fanno parte della militarizzazione della diplo mazia russa che accompagna la guerra in Ucraina, processo certo non mirato solo al nostro paese. Rimarcano un disappunto per il «totale allineamento» del governo italiano alle posizioni Nato che nella capitale russa descrivono come delusione «sincera». Perché «c’è modo e modo» e «non si distruggono decenni di lavoro senza pensare a cosa verrà dopo». Ma cosa verrà dopo? Nessuna risposta, confusione molta. L’Italia, come tutti da questa parte dell’Atlantico, si ritrova a dover riflettere sul cosa verrà. E su come rapportarsi a una Russia che oggi ci definisce nemico e con ogni probabilità resterà domani attore geopolitico di prossimità: nel Mediterraneo, nel Mar Rosso, in vari paesi africani chiamati a aderire al Piano Mattei e in minore misura nei Balcani. 2. Non c’è una direzione univoca nell’ultimo secolo di relazioni italo-russe, che sino a trent’anni fa erano italo-sovietiche e nel complesso sono state improntate a concretezza e pragmatismo. Nel 1924 il governo Mussolini, interessato allo Stato bolscevico ricco di materie prime, procedeva al precoce riconoscimento dell’Urss, nuova entità geopolitica ideologicamente agli antipodi. Lenin era appena morto, e proprio Lenin a una delegazione di socialisti italiani a Mosca avrebbe detto: «Peccato che abbiamo perso Mussolini, un uomo di primo rango, avrebbe potuto portare il nostro partito al potere in Italia». Stalin più tardi affermò pubblicamente che il fascismo non impediva all’Urss di avere «buone relazioni» con l’Italia 2. Può dunque stupire, ma non troppo, che nel 1929 la «crociera d’istruzione di un reparto da bombardamento marittimo» di Italo Balbo facesse tappa a Odessa, dove il triumviro della marcia su Roma fu accolto da eroe. Quattro anni dopo l’Italia firmava con l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche un patto di amicizia, non aggressione e neutralità, che portò alterne sorti alle relazioni bilaterali, sino al baratro del secondo conflitto mondiale e della campagna di Russia. Alla fine della guerra, fu l’Urss ad affrettare il ripristino delle relazioni diplomatiche con l’Italia. Alla Terza conferenza di Mosca, nel 1943, i sovietici avevano concordato con americani e britannici un quadro di gestione dell’armistizio, ma non ottennero alcun ruolo nell’amministrazione militare e politica della nostra penisola. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. «Posol Rossii v Italii o dvukhstoronnikh otnošenijakh: ne tak v 1941-1943 godakh, no po0ti» («L’ambasciatore russo in Italia sui rapporti bilaterali: non come nel 1941-1943, ma quasi»), Tass, 7/2/2024. 2. I.V. STALIN, «Ot0etnyj doklad XVII sezdu partii o rabote CK VKP 26 janvarja 1934 g.» («Rapporto al XVII Congresso del partito sul lavoro del Comitato Centrale del Partito comunista panrusso dei bolscevichi, 26 gennaio 1934»), archivio del Centre for 21st Century Humanities.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
L’atto unilaterale sulle relazioni diplomatiche sottolineava la frustrazione moscovita e apriva canali con un paese che sarebbe a breve entrato nella guerra fredda come membro della Nato e con il più grande partito comunista del mondo occidentale. E anche la forza di quel Pci percepito dagli Stati Uniti come una minaccia per tutto il sistema occidentale ispirò settori della politica italiana di opposte vedute a non restare dietro la cortina, a interloquire con Mosca. Non era comunista Giorgio La Pira, il primo politico occidentale a recarsi a Mosca e l’unico ad aver immaginato la conversione del sanguigno segretario del Pcus Nikita Khruš0ëv. Come il visionario sindaco di Firenze era democristiano Enrico Mattei, che negli anni Cinquanta portava l’Eni a firmare il primo accordo per forniture di greggio sovietico sfidando il nervosismo americano e continuando la sua sfida al cartello petrolifero delle Sette sorelle. Per Mattei l’interlocutore non doveva essere per forza un alleato, ma utile ai fini degli interessi nazionali. L’Italia trattata da reietta dopo la guerra poteva elevarsi a un ruolo primario nella regione mediterranea e il salto di qualità implicava forzare le regole di uno schema rigido: di qua l’Occidente, dall’altra parte il blocco comunista, in mezzo un muro. Mattei sull’altro versante vedeva gas e greggio a buon mercato in grado di alimentare l’impetuosa crescita economica italiana. Così nel 1969 Eni firmò con Gazprom un contratto per 6 miliardi di metri cubi di gas russo l’anno, stabilendo un vincolo energetico durato sino all’invasione russa dell’Ucraina. Nei rapporti economici con Mosca l’Italia ha da allora cercato di bilanciare gli interessi del blocco a cui appartiene con quelli specificamente nazionali. La Fiat nel 1966 firmò per la costruzione degli impianti che sfornarono l’automobile di massa sovietica, la mitica Žiguli, ovvero la 124 adeguatamente modificata. La produzione venne basata a Togliatti, l’ex Stavropol’ da poco ribattezzata in nome del segretario del Pci e l’unica città russa che dopo il crollo dell’Urss, con un referendum, ha rifiutato di tornare al nome originario. La casa torinese scavalcava simili aspirazioni di Ford, Renault e Volkswagen, malgrado Leonid Brežnev avesse ricevuto nella sua dacia di Zavidovo il prototipo italiano e francese e quello d’Oltralpe gli piacesse di più: l’Italia ci è più vicina della Francia, decretò, secondo una leggenda ancora in auge sui siti russi 3. Il bilanciamento è rimasto il faro una volta implosa l’Urss, con crescenti difficoltà in seguito all’annessione della Crimea e il punto accapo dopo l’invasione dell’Ucraina. L’Italia ha cercato di favorire un affiancamento, se non una partecipazione, della Russia alla riorganizzazione securitaria del continente europeo. Con un occhio attento ai rapporti energetici e a quelli commerciali e industriali cresciuti con la ripresa economica russa di inizio secolo. Complice la frequentazione personale tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e Vladimir Putin, in Italia fu varato il Consiglio Nato-Russia nel 2002, il foro con cui si pensava di dialogare e controllare i malumori russi per le politiche espansive dell’Alleanza. Da allora per un decennio Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
3. «Specoperacija po imeni Vaz, ili istorija o tom, kak rodilsja ote0estvennyj avtogigant» («Un’operazione speciale chiamata Vaz, ovvero come è nato il colosso automobilistico nazionale»), Automediapro.ru, 6/1/2023.
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si è parlato dello «spirito di Pratica di Mare» per invocare comprensione e compromessi tra Mosca e il Patto Atlantico. Erano i tempi in cui il presidente russo flirtava con l’idea di portare il suo paese nella Nato, prospettiva fantasiosa rievocata oggi come occasione fatalmente mancata, in realtà mai esistita. Nessuno in Europa pensava che la Federazione erede dell’Urss potesse unirsi al club a guida americana. Ma a Roma – come pure a Berlino e a Parigi – molti ritenevano che l’allargamento della Nato verso est avrebbe provocato la reazione russa e che l’integrazione degli ex satelliti comunisti poteva avvenire tramite l’Unione Europea. Al vertice di Bucarest i tre paesi si schierarono contro l’idea americana di accogliere Ucraina e Georgia nel Nato Membership Action Plan (Map), anticamera dell’iter di adesione. A quel summit Putin disse al collega americano George W. Bush che se i due paesi ex sovietici fossero stati inglobati nella Nato, la Russia avrebbe preso la Crimea con la forza. A Roma non era particolarmente apprezzata neppure l’idea di un Eastern Partnership Plan per avvicinare le repubbliche ex sovietiche, compresa la Bielorussia, lanciato dall’Ue nel 2009. Per questo, e per l’attivismo nei rapporti economici, l’Italia si è guadagnata la fama di ponte tra le posizioni russe e occidentali, malgrado i limiti impliciti nel vincolo atlantico. Nel 2008 il governo Prodi ha riconosciuto senza indugi il Kosovo, sulla scia della determinazione americana a renderlo indipendente dalla Serbia e sorvolando su un vulnus di diritto internazionale che la Russia ha usato poi per giustificare le sue politiche revisioniste sempre più assertive. Oggi l’Italia teorizza i Balcani occidentali tra le rinnovate priorità, promuove le aspirazioni europee dei paesi che temono il sorpasso a sinistra da parte di Ucraina e Moldova nel nome del contenimento della stessa Russia. Nei Balcani occidentali la Federazione mantiene importanti relazioni energetiche con Serbia e Bosnia e cerca di usare l’afflato della «fratellanza ortodossa» per amplificare una influenza in realtà ridimensionata. Turchia e Cina invece avanzano. Un quadro da tenere in conto nell’ottica di un vero ritorno italiano nell’area, più che auspicabile ma difficile da immaginare oltre il tradizionale piacere a tutti perché non abbastanza influenti da dar fastidio a qualcuno. Il corso di bilanciamento praticato con la Russia è diventato una corsa a ostacoli dal 2014, quando Putin ha reagito alla perdita di controllo sull’Ucraina con l’annessione della Crimea minacciata sei anni prima. E praticamente impossibile dal 24 febbraio 2022. I tentativi di tenere aperto il dialogo – e i rapporti economici – nell’èra delle sanzioni e controsanzioni tra Europa e Russia hanno portato a passi di ispirazione ristretta, compiuti con il senno degli interessi elettorali del momento. E dopo la sbandata del convoglio russo anti-Covid in giro per la penisola, arrivato a Palazzo Chigi Mario Draghi ha riallineato senza se e senza ma l’Italia. Quando il 17 febbraio 2022 il premier italiano annuncia una missione negoziale in Russia e Ucraina, con un documento stilato a Roma, al Cremlino hanno già deciso di procedere con la cosiddetta operazione militare speciale: di lì a cinque giorni i carri armati russi avrebbero varcato il confine ucraino. A Mosca la notizia del coinvolgimento dell’ex presidente della Bce suscitava le speranze di chi ancora non sapeva e, c’è da pensare, la preoccupazione dei pochi al corrente dell’imminente Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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avventura ucraina. Il governo Meloni, che qualche attesa l’aveva suscitata, non si muove di un centimetro dall’inflessibile linea atlantista. 3. Draghi ha avviato, e Meloni ha continuato, il percorso di emancipazione delle importazioni di gas dalla Russia, accelerando il processo a livello europeo. Con notevoli risultati in termini di diversificazione, incerti esiti economici e conseguenze geopolitiche ancora da verificare. Le forniture dalla Russia nei primi dieci mesi del 2023 hanno rappresentato il 4,5% di tutti gli acquisti italiani, a fronte del 40% dello stesso periodo del 2021. L’Algeria ha praticamente sostituito Gazprom, seguita da Azerbaigian, paesi nordeuropei e una piccola quota dalla Libia. Nella bussola energetica le principali fonti di gas arrivano ora da sud, da cui l’idea di fare dell’Italia uno hub energetico mediterraneo nell’ambito del Piano Mattei. Proiezione confortata dalla visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz lo scorso giugno, interessato al progetto del Corridoio H2 Sud inteso a portare idrogeno dal Nord Africa all’Europa. Per la Germania orfana del Nord Stream, l’asse energetico con Roma si prefigura necessario, ma «domani cosa verrà» resta domanda valida. Prima che il gasdotto russo-tedesco venisse fatto saltare in aria, nei circoli imprenditoriali tedeschi innamorati (tuttora) del patto con la Russia si discettava di riempirne in futuro i tubi con idrogeno. A Mosca continuano a parlarne, convinti che il tracciato sui fondali baltici a un certo punto verrà riesumato e l’unica linea intatta riattivata prima di quanto si possa pensare. La nuova configurazione delle forniture gasiere all’Italia non è senza rischi geopolitici. L’Algeria è da tempo affidabile fornitore. Tuttavia sul «partenariato strategico» dichiarato da Giorgia Meloni un anno fa grava il paradosso del parallelo «partenariato strategico approfondito» tra la Russia e il paese maghrebino sottoscritto lo scorso giugno. Nel testo spicca il proposito di coordinare le rispettive posizioni in seno al gruppo Opec+ e di tenere esercitazioni militari congiunte. Il presidente Abdelmadjid Tebboune in quell’occasione ha sottolineato il comune interesse alla stabilità libica e ha apprezzato la collaborazione tra Russia e Mali. Nella guerra a Gaza, il cuore di Algeri batte per Õamås. Guardi da Roma verso sud e la lontana Federazione Russa è un vicino di casa con vocazione all’ubiquità, impossibile da ignorare. Nei giorni in cui la premier italiana riuniva il primo vertice Italia-Africa, il viceministro russo Junus-bek Evkurov completava l’ennesimo tour africano con l’ennesima visita al generale Œaløfa Õaftar, l’uomo che può concedere alla Federazione l’agognata base navale sulla costa libica. Mosca da tempo corteggia anche l’Algeria e l’Egitto per ottenere un avamposto navale da aggiungere a ¡ar¿ûs in Siria. Sul Mar Rosso, dove la Cina è già presente a Gibuti, le partite aperte per Mosca sono due: Sudan e di recente Eritrea. Ci sarebbero colloqui a stadio avanzato per far sbarcare la Marina militare russa sulle isole Dahlak e il presidente eritreo Isaias Aferwerki ne deve aver parlato con il ministro della Difesa Guido Crosetto nell’incontro di gennaio, a margine del vertice italo-africano. Terminata ufficialmente l’èra Wagner con la morte di Evgenij Prigožin, la Difesa russa è passata dal negare la propria presenza in Africa a ostentarla. Da ultimo Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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con l’annuncio della creazione di un Afrikanskij Korpus, una divisione dell’esercito riservata al continente meridionale, dove la Russia in guerra con l’Occidente mira a sistematizzare la raccolta di profitti economici e consensi politici. Al summit Italia-Africa hanno partecipato 46 delegazioni, oltre venti capi di Stato e di governo. Non pervenuto il presidente algerino che comunque ha inviato una rappresentanza di livello, assente il Niger reduce dal golpe della scorsa estate e da allora in crescente sintonia con Mosca. Tutto sommato una buona platea, in attesa di vedere i fatti dopo le parole su energia e investimenti. Meloni ha evocato anche il contrasto «all’immigrazione illegale di massa» e le rotte migratorie dall’Africa hanno nell’area del Sahel importanti punti di origine e snodi verso le coste italiane. Mali, Niger, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana: tutti paesi che hanno concreti legami con Mosca e si mostrano interessati ad approfondirli, in barba alle previsioni di un ridimensionamento della presenza russa nel dopo-Prigožin. La Federazione Russa è un po’ ovunque nel mare nostrum e nella fascia del Sahel, attore di prossimità che ci ha promossi al grado di nemico. E questa vicinanza impone di darsi regole di gestione, quantomeno sul medio termine, data l’attuale rotta di collisione tra Nato e il Cremlino. Da Mosca, dove si adora rileggere la storia per tentare di illuminare il presente, il consiglio all’Italia è di ragionare in termini di convenienze nazionali, come avveniva nei decenni passati e come se la dimensione atlantica fosse un orpello scaricabile senza conseguenze. «Siamo fortemente convinti che il rifiuto da parte dell’Italia di una politica antirussa e il graduale ripristino di una cooperazione pragmatica e di reciproco rispetto risponderebbe davvero ai nostri interessi comuni», ha affermato a fine gennaio la portavoce del ministero degli Esteri Marija Zakharova. Dalle dichiarazioni militar-diplomatiche in arrivo dalla Russia trapela il sospetto che la presidenza italiana del G7 possa diventare cabina di regia per un ulteriore affondo in termini di sanzioni. 4. Non oggi, ma l’aggettivo «pragmatico» potrebbe ritrovare cittadinanza nei rapporti con la Russia. Che non saranno fuori dalla cornice atlantica, benché al Cremlino continuino a sperare che l’Alleanza a un certo punto imploda, mentre in alcune capitali europee si sogna di creare in tempi brevi una difesa comune meno dipendente dalle urgenze americane. Il punto di partenza, e forse di arrivo, è che l’America dovrà tornare a parlare con la Russia. Per evitare che il tandem russo-cinese si consolidi oltre la soglia di allarme, scenario molto temuto anche a Mosca e quindi leva per possibili negoziazioni. E, in prospettiva lunga, per riorganizzare un’architettura securitaria nello spazio eurasiatico, impresa che riporterà in auge il grande dilemma tra quanto ci si possa fidare dei russi e quanto sia pericoloso tenerli fuori da ogni processo decisionale. Sul caos eurasiatico, e globale, aleggia la tenzone mai risolta sul principio di indivisibilità della sicurezza, caldeggiato da Mosca sin dagli anni Settanta e filo rosso del processo di Helsinki, tirato da un capo e dall’altro e infine spezzato dall’annessione russa della Crimea. Il Cremlino ha sempre dichiarato essenziale il riconoscimento di specifici interessi territoriali espressi in zone di influenza, da cui Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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la necessaria astensione della Nato da ingerenze nella sfera di vitale interesse russo. La compagine occidentale a guida americana, che dettava in fin dei conti le regole del gioco, ha invece difeso il principio di libertà e di scelta come principio guida per la composizione di alleanze, anche militari. In realtà, gli Stati Uniti con la Russia non hanno smesso di parlare, nemmeno dopo il 24 febbraio, e negli ultimi tempi hanno intensificato i contatti. Nell’ambito di questa interlocuzione, l’Italia non può certo pensare di agire da sola, ma può aspirare a un ruolo e una delega nell’area che concentra i suoi interessi. Per tenere a bada i russi e la tendenza della Turchia ad allargarsi sulle quarte sponde italiane, Libia e Balcani, Roma dovrà cercare la complicità con Parigi. E viceversa, dato che nella Francia il governo italiano ciclicamente scopre un concorrente strategico vestito da partner, tanto da sobillare che sia più facile intendersi con un leader votato al commercio su più piazze come Recep Tayyip Erdoãan. Nelle Libie in scontro tra di loro, il presidente turco ufficialmente sta a fianco dell’Italia, con l’esecutivo di unità nazionale (Gnu) a cui fornisce un sostegno militare che Tripoli avrebbe preferito ottenere da Roma, ma questa è una storia già invecchiata. Sul dossier libico il leader turco intanto coltiva intese con il Cairo. E dall’altra parte c’è la Cirenaica, controllata da Õaftar e appoggiata dai russi. Erdoãan trova il modo di scontrarsi e fare affari con tutti e il risultato è una sorta di gestione a quattro: Turchia, Egitto, Russia ed Emirati Arabi Uniti. Ci sono quindi diverse triangolazioni ipotizzabili per rientrare in gioco con il senno degli interessi primari italiani, idrocarburi e controllo delle rotte migratorie. La costante non variabile resta il sostegno dell’America e c’è da pensare, nonché da sperare, che lo resti a lungo: la solitudine securitaria non è dimensione a cui l’Italia possa aspirare. 5. La Nato, intanto, appoggiata dalla regia brussellese dell’Unione Europea, sembra tentata di scommettere sull’opzione di armarsi più della Russia per rafforzare la deterrenza sul suo fianco orientale. Non passa giorno senza che un generale o un leader europeo paventi un attacco russo a un paese dell’alleanza entro tre, cinque o dieci anni. Previsioni propedeutiche all’aumento della spesa militare necessaria per gestire in loco futuri conflitti. Alzi la mano, nel frattempo, chi considera una difesa comune funzionale obiettivo possibile a breve termine. Più facile pensare che di rimando la Federazione Russa cronicizzi lo sforzo attuale di produzione bellica e si trasformi in un’enorme fabbrica di arsenali a disposizione di chiunque piazzi un ordine. Quest’anno il bilancio russo per il settore difesa è stimato all’equivalente di 140 miliardi di dollari 4, mille dollari ogni abitante. Storicamente, la Russia si chiude ed estremizza nelle fasi di scontro con l’esterno e tende ad aprirsi all’idea di cambiamento e riforme quando in crisi al suo interno o in pace con il resto del mondo: congiuntura quest’ultima, è vero, tendente Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
4. «Russia’s new budget law signals determination to see the war in Ukraine through», Stockholm International Peace Research Institute, 13/12/2023.
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all’effimero. Immaginare il dopo-Putin come fase di repentino cambiamento è, nella migliore delle ipotesi, un rinvio a un tempo che potrebbe essere domani, oppure molto lontano. Nella peggiore, il blocco dei siloviki saprà mantenere il potere e gestire una successione a Vladimir Vladimirovi0 in tutta continuità. «Il futuro è il passato alla scuola del presente», avverte un modo di dire russo. Meglio attrezzarsi, pensando all’impensabile oggi. A due anni dall’inizio della guerra in Ucraina, la Russia è materia radioattiva per l’Occidente. Ma tornare a considerare il confronto non significa rassegnarsi all’idea di trovare un giorno i cavalli cosacchi attorno alle fontane del Vaticano o di vedere nuovi convogli russi sulle strade italiane, questa volta non invitati. Che fare con la Russia è questione irrisolvibile con le lenti da presbite dell’immediato. O cedendo alla tentazione di derubricare a male minore l’eventualità di uno scontro diretto tra Nato e Russia, potenza ridimensionata dotata di uno smisurato arsenale nucleare.
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‘Per riportare la pace in Europa serve una nuova Helsinki’ Conversazione con Giorgio STARACE, già ambasciatore della Repubblica Italiana nella Federazione Russa, a cura di Lucio CARACCIOLO, Federico MASSA e Orietta MOSCATELLI
Lei era a Mosca quando è iniziata la guerra in Ucraina, il 24 febbraio 2022. Come ha reagito e soprattutto come ha visto reagire la Russia a quell’annuncio all’alba? STARACE Eravamo sul «chi vive» da settimane. Le cose degeneravano velocemente. Si vedeva l’ammassamento di truppe russe. Si susseguivano gli ammonimenti dei nostri alleati. In particolare, americani e britannici ci dicevano in maniera insistente che ci sarebbe stato un attacco. Poi, a circa due settimane dal 24, cominciarono persino a citare i giorni. Ma queste previsioni non si avveravano. C’era la segreta speranza – non solo tra noi italiani – che tutto fosse parte di un gioco che portasse all’apertura di un negoziato secondo le linee che i russi avevano proposto nel dicembre 2021. LIMES In che cosa consistevano queste proposte russe? STARACE Erano delle proposte che io chiamo di sfondamento diplomatico. I russi tiravano fuori la necessità di un riassetto degli equilibri di sicurezza europei a cui Putin aveva già accennato nel famoso discorso di Monaco del 2007. Naturalmente sotto c’era quello che è sempre stato teorizzato dal ministro degli Esteri Sergej Lavrov: «L’inscindibilità della sicurezza», per cui un sistema non può rafforzare la propria sicurezza a discapito di un altro. Quindi, alla luce di ciò, la necessità di sedersi al tavolo e indire una conferenza sugli assetti dell’Europa che superasse sia Helsinki I (reso obsoleto dalla fine del comunismo secondo Putin) sia il fallimento degli accordi di Minsk per quanto riguardava il problema del Donbas e altre questioni. LIMES Le reazioni della Nato e dell’America furono diverse. STARACE Sì. Gli americani all’inizio reagirono in maniera interessata alle proposte di Putin. Non dimentichiamoci che a quell’epoca eravamo fuori dal conflitto, quindi tutto sembrava possibile. In secondo luogo, eravamo lontani dalla gravissima degenerazione dell’autunno 2022. Quando ci furono l’annessione da parte della RusLIMES
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‘PER RIPORTARE LA PACE IN EUROPA SERVE UNA NUOVA HELSINKI’
sia delle province ucraine occupate e il successivo decreto di Zelens’kyj di chiusura a qualsiasi negoziato con i russi. Ma fino a quel momento tutto era possibile e quindi tra gli americani ci fu una reazione di cauto interesse. La reazione della Nato fu invece di veloce bocciatura. LIMES Con una nuova Helsinki la Nato sarebbe morta. STARACE Non c’è dubbio che la Nato stava vivendo un periodo difficile. In quel momento, io e altri confidavamo che la ragione guidasse Putin. Quando poi c’è stato l’attacco, le reazioni degli amici russi – e di amici russi me ne ero fatti tanti – sono state di smarrimento. Non abbiamo avuto notizie del ministro degli Esteri Lavrov per una settimana. A riprova del fatto che in pochi, secondo il sottoscritto e molti altri, erano stati avvertiti di questa iniziativa. LIMES Secondo lei era spontanea la famosa scena televisiva in cui il capo dei Servizi segreti esteri Sergej Evgen’evi0 Naryškin balbettava incalzato da Putin? STARACE Penso sia stata spontanea. Ci colpì moltissimo per l’utilizzo mediatico che ne fecero Putin e il sistema al fine di propagandare un messaggio minaccioso rivolto all’interno: qui comanda il Cremlino. E molte persone parte del sistema non erano né informati né capaci di reagire in modo coordinato. Diversi colleghi russi mi hanno detto che non si aspettavano l’attacco. Parlo anche di persone con incarichi istituzionali. A Mosca subentrò la speranza che quella che Putin andava propagandando come «operazione militare speciale» finisse velocemente. LIMES I russi non se l’aspettavano, però gli americani sì. Già a novembre c’era stata la telefonata a Putin del direttore della Cia William Burns, che prendeva atto dell’invasione e ne concordava certi limiti, mentre Biden disse pubblicamente che «una modesta incursione» in Ucraina sarebbe stata possibile. STARACE Biden fece una lunghissima telefonata con Putin a dicembre in cui evidentemente qualcosa si sono detti. Ma penso che la questione sia stata sottovalutata da Putin, come è stata sottovalutata dagli americani e da tutti noi. Davamo per scontato che tutto questo terminasse velocemente con l’imporsi della Russia. La resistenza ucraina ha invece sorpreso tutti, anche gli americani. E lì è cominciato un cambiamento di impostazione. LIMES Non ha sorpreso gli inglesi. STARACE Loro hanno avuto un ruolo determinante. Ciononostante, alcuni colleghi inglesi mi hanno confermato che, pur avendo aiutato Kiev, ad esempio, nella difesa dell’aeroporto della capitale, non erano sicuri che funzionasse. A questo si aggiunse poi l’immagine della colonna dei carri armati russi bloccata sulla via di Kiev. Questo sicuramente è stato un passaggio che, entrando nelle case degli occidentali, ha suscitato un mutamento di prospettiva. Tutti i conflitti purtroppo vengono scatenati da una sequenza di errori umani di calcolo. Ha sbagliato Putin, e sono certo che si è reso conto di aver commesso un errore marchiano. Ma hanno sbagliato un po’ tutti sottovalutando la resistenza ucraina e sopravvalutando la forza russa. La conclusione di tutto questo è che l’«operazione militare speciale» è fallita. A distanza di un mese era già diventata guerra. Lo dicevo in continuazione ai colleghi Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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russi che stavano facendo un errore colossale, che sarebbe durata a lungo e che sarebbe stato un disastro per la Russia. Certe volte i russi mi sorridevano e mi dicevano: «Certo che anche voi avete la vostra propaganda. Tu sei un propagandista che ripete sempre le stesse cose». E io rispondevo: «Vi ringrazio per questo apprezzamento. Ma siccome faccio il diplomatico sono profondamente convinto che i conflitti non risolvono i problemi, anzi li acuiscono». LIMES Ipotizziamo che l’«operazione militare speciale» fosse riuscita, non sarebbe stato un problema colossale per la Russia gestire l’Ucraina? STARACE Dipende. Perché un conto sarebbe stato gestire l’Ucraina a distanza di tre mesi dall’inizio dell’«operazione militare speciale». Adesso sarebbe diverso. Supponiamo che ci sia una Caporetto, che la Russia sfondi il fronte e l’Ucraina abbandonata dall’Occidente sia costretta alla resa. I russi avevano scommesso su un’«operazione speciale» che si doveva risolvere con rose e fiori e con famiglie che andavano incontro ai soldati russi. Senza grandi spargimenti di sangue. Come andò in Crimea, forse un po’ peggio. Ci sarebbe stato un nuovo governo e tutto sarebbe finito più o meno bene per la Russia, secondo la logica imperiale del Cremlino. Adesso non è più così. C’è il dopo. E sarà un dopo di odio, rancore, molti morti e distruzione. Sarebbe un enorme peso per una Russia già in difficoltà sostenere la ricostruzione di un grande paese completamente distrutto. Non li aiuterebbe nessuno. L’ho detto fino alle nausea ai miei colleghi russi. LIMES Ed è per questo che adesso non sembrano voler andare oltre il Donbas, anche se dopo la presa di Avdijivka potrebbero. STARACE Questo è importante. Però è altrettanto importante – e arriviamo al nocciolo della questione – che su questo noi europei e l’intero Occidente avremmo avuto una leva considerevole con i russi. Potevamo dire loro: «Avete sbagliato. Adesso dovete gestire la situazione. Al limite possiamo trovare un modo per gestirla. Però se la gestite male vi ritrovate con un problema di terrorismo – basti pensare a tutte le armi che circolano in Ucraina e in quell’area – che avrà delle ripercussioni per decenni in Russia». Bisogna trovare un modo per risolvere questo conflitto e per andare incontro a problemi su cui bisogna riflettere con visione prospettica. Ma l’Occidente non dovrà mai rinunciare alla difesa dei princìpi alla base della Carta delle Nazioni Unite, la cui violazione ha messo la Russia dalla parte del torto. LIMES Dal ragionamento che lei faceva sull’errore strategico di Putin deriva che il negoziato della primavera 2022 a Istanbul era il riconoscimento di un errore o di una sconfitta? STARACE Nutrivo qualche speranza nel tentativo di mediazione di Erdoãan. Il conflitto era iniziato da poco ed eravamo lontani dalla grande degenerazione politico-giuridica provocata dall’annessione delle province occupate e dal decreto di Zelens’kyj. In quel momento girava tra le delegazioni un’ipotesi su quale sarebbe dovuta essere l’Ucraina del futuro: neutralizzata, demilitarizzata, dentro l’Unione Europea ma non nella Nato. All’epoca il portavoce di Putin Dmitrij Peskov diceva che per la Russia l’ingresso di Kiev nell’Unione Europea non costituiva un probleCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Popolazione russa espatriata a causa della guerra in Ucraina (in migliaia) Kazakistan 300 Georgia 100 Armenia 300
Paesi parte del sistema di triangolazione economica per aggirare le sanzioni contro la Russia
Territori filorussi: Transnistria Abkhazia Ossezia del Sud
Territori ucraini occupati dalla Russia
CINA
Ürümqi
Corridoio Instc (International North-South Transport Corridor)
Corridoio Titr (Trans-Caspian International Transport Route)
Armenia (riluttante)
Paesi membri
Csto - Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (alleanza militare)
(DIS)UNIONE POST-SOVIETICA
KAZAKISTAN
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Verso il porto di Bandar Abbas e verso Mumbai
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Popolazione nella Comunità degli Stati indipendenti (%) IRAQ Armenia 1,9-3,6 Azerbaigian 1,3 Bielorussia 8,3 Kazakistan 18-20 Kirghizistan 5,2 Moldova 5,95 1 - Georgia Tagikistan 0,5 2 - Armenia Turkmenistan 2 Uzbekistan 2,3 3 - Azerbaigian
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POLONIA Varsavia
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ma di particolare entità, purché si ragionasse su determinati regimi di facilitazione per le merci russe in Ucraina. Poi c’è stato un altro momento da non sottovalutare: l’entrata in scena della Repubblica Popolare Cinese nell’autunno del 2022. Il ministro degli Esteri Wang Yi presentò il famoso piano dei dodici punti. Inoltre, sempre in quei giorni la Russia veniva messa duramente in minoranza all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Diversi paesi Brics passarono dalla parte nostra nella risoluzione sulla condanna dell’aggressione. Il documento dei cinesi era pieno di princìpi impossibili da non condividere a livello internazionale, con un concetto che non andava sottovalutato: il principio della non interferenza negli affari interni di un altro paese. Purtroppo non c’era nessuna condanna dell’aggressione di Putin, né si pretendeva il ritiro dei soldati russi nei confini del febbraio 2022. E quindi il piano fu velocemente liquidato dall’Occidente. Ciononostante, Zelens’kyj aveva reagito in maniera più educata al piano cinese rispetto ad americani ed europei. Tant’è che il piano dei dodici punti fu accolto a Mosca con una certa fredda e diplomatica gratitudine. I russi sicuramente non potevano essere critici dell’iniziativa cinese. Ma hanno sempre temuto che la crisi diventasse oggetto di un negoziato a due tra Stati Uniti e Cina. E quindi Putin ha sempre temuto di diventare una specie di Zelens’kyj di questa guerra. Cioè uno dei protagonisti della crisi ma non quello che ne determinerà la soluzione. Paradossalmente la velocità della liquidazione del piano cinese ha fatto piacere ai russi. LIMES Cosa avevano stabilito russi e ucraini in Turchia? STARACE In Turchia si stabilì l’ipotesi di creare una vera e propria coalizione di paesi garanti di un sistema di sicurezza nell’area della crisi. L’idea era sicuramente ambiziosa. Si parlava della presenza della Turchia, di paesi Brics, della Cina e di europei. Si parlava perfino del fatto che ci dovesse essere l’Italia. Era un interessante tentativo di multilateralizzare la crisi. Si era capito che era molto difficile che russi e ucraini da soli con gli incontri periodici che intanto andavano avanti tra gli ufficiali dei rispettivi eserciti riuscissero ad andare al di là di intese per scambi di prigionieri e altre cose tecniche. LIMES A parte la cintura di sicurezza multilaterale, i russi si sarebbero dovuti ritirare dal Donbas? Ci sarebbe quindi stata una neutralizzazione dell’Ucraina? STARACE Si discuteva del ritiro dei russi dal Donbas, ma in cambio di stringenti garanzie di autonomia e tutela per le popolazioni russofone. Piano ambizioso che non decollò perché forse era già troppo tardi, LIMES Secondo lei gli ucraini sono mai stati davvero interessati al Donbas? Parliamo di un’area abitata in gran parte da russi... STARACE Vi dirò una cosa che vi sorprenderà. Ebbi una conversazione con il viceministro degli Esteri russo Aleksandr Gruško. Gli dissi di aver letto le dichiarazioni del presidente Putin sul fatto che l’Ucraina, al pari della Bielorussia, non fosse una nazione e facesse parte della «Grande Russia». Allora gli ricordai che Metternich diceva le stesse cose a proposito dell’Italia. E che probabilmente a quell’epoca Metternich poteva anche avere ragione. Senonché ci fu la prima guerra mondiale, Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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in cui italiani che non si erano mai visti prima combatterono assieme al fronte. Quella guerra costituì la nazione italiana. Perché le nazioni si creano anche in contrapposizione ad altre potenze. Gli dissi che pensavo che con la guerra la Russia avesse costituito la nazione ucraina. Per rispondere alla vostra domanda, alcuni anni fa forse a un ucraino di lingua russa non gliene sarebbe importato nulla. Adesso però c’è una tale situazione di odio che non escludo che nel Donbas, di pari passo a sentimenti anti-ucraini, ci siano sentimenti antirussi. È tutto legato all’estremizzazione dei sentimenti umani, conseguenza dei conflitti. Si va verso un’irrazionalità collettiva. Cosa c’è di razionale in un paese immenso come la Russia che rischia la propria credibilità, l’isolamento internazionale, la catastrofe economica, il peggioramento del gigantesco problema demografico, la fuga dei cervelli e dei problemi ambientali fondamentali per uno spicchio di territorio che è una minima parte di quello russo? LIMES Il vero obiettivo di Putin era essere riconosciuto dagli americani. STARACE Il tema è molto più vasto. Putin è figlio della fine del comunismo, del periodo dell’esperimento democratico, del caos degli anni Novanta, della ricostruzione del paese, della grande apertura all’Occidente fino al 2005 e della successiva delusione e frustrazione. Il revanscismo e il neonazionalismo, chiamiamolo imperiale, russo è conseguenza anche di tutto questo. Putin ha a mente la cortina di ferro, i missili occidentali da una parte e sovietici dall’altra. Ragiona nei termini di quell’epoca. Non lo sto difendendo, sto cercando di capire il suo ragionamento. LIMES Nell’intervista al commentatore americano Tucker Carlson, Putin ha detto di essere disposto a trovare una soluzione, ma che più dura la guerra più sarà dura. Come la vedono in Russia? STARACE Secondo delle interessanti analisi di opinione, che naturalmente sono viziate dal controllo da parte del potere, il consenso a Putin si basa su due schieramenti. In Russia ce ne sono tre in tutto. I giovani fino a trent’anni che vivono nelle grandi città – quelli poveri vengono perlopiù mandati al fronte – sono completamente dissociati dalla realtà che li circonda. Si informano sui social e non guardano mai la televisione. Non andranno a votare e non sono interessati alla politica. Sono critici di questa guerra, ma sanno di non avere nessuna possibilità di incidere. Infatti non preoccupano più di tanto il regime. Poi, passiamo al consenso: c’è una percentuale che gli analisti stimano al 20-25% di persone generalmente di età matura che sono fortemente nazionalisti e imbevuti di sentimenti di conflittualità nei confronti degli Stati Uniti, soprattutto in quanto hanno vissuto l’epoca sovietica. Infine, c’è la grande fetta del consenso a Putin, che lo porterà a prendere quell’80-85% alle prossime elezioni (che io chiamo «celebrazioni»). Sono i cosiddetti «opportunisti-fatalisti». La maggioranza dei russi sa che per loro è difficile influire sulla realtà. Magari pensano pure che la guerra sia un disastro. Ma credono che sia bene che finisca velocemente e che Putin non ne esca sconfitto, altrimenti perderebbe il potere e la Russia tornerebbe nel caos. Non dimentichiamo che Putin ha goduto a lungo di un forte consenso per aver posto fine a un periodo di grande disordine, corruzione e violenza che incideva Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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nella vita quotidiana delle persone. Però non possiamo parlare di un consenso patriottico; possiamo parlare di un consenso interessato. LIMES Che cosa pensa della morte di Naval’nyj? STARACE Io tendo a escludere si sia trattato di un incidente. Malgrado il fisico provato da difficili condizioni di detenzione, Naval’nyj era un uomo non anziano che solo il giorno prima, in un video circolato sui social, scherzava con un magistrato inquisitore. Questo turberà le elezioni anche se Naval’nyj aveva più seguito in Occidente che in Russia. Certo, era seppellito in un gulag, non poteva fare particolare danno con scontate critiche alle elezioni. Conclusione: se l’iniziativa è partita da Putin è il segno della degenerazione del dittatore. Penso a Stalin, ma anche all’imperatore romano Tiberio e a molti altri capi che in vecchiaia perdono ogni freno e compiono efferatezze indicibili, nel clima di sospetto verso i rivali come anche nei confronti dei collaboratori. Se invece la morte non accidentale di Naval’nyj è sfuggita al controllo di Putin, è un segnale di debolezza del suo sistema. Significa che il presidente non è in grado di controllare l’ala più dura del regime. La quale trasmette così un segnale di intolleranza per il dissenso e condiziona il prossimo nuovo mandato di Putin, sempre più stretto dal controllo degli apparati di sicurezza. LIMES Che possibilità ci sono che questa guerra finisca con la frammentazione della Russia? STARACE Più che la frammentazione, la Russia sta rischiando di perdere prestigio politico e presenza economica in Asia Centrale a beneficio di Cina, Turchia e altri Stati. Ad esempio, il Kazakistan ora si muove in maniera molto più disinvolta rispetto al passato, come l’Uzbekistan e altri paesi. La frammentazione delle oblast’ a me pare poco possibile a meno di una vera e propria catastrofe economica. È la leva economica che può creare problemi all’impero russo. Un impero che, nonostante le tradizioni di popoli molto diversi, è piuttosto omogeneo. Il russo è parlato con poche sfumature di accenti a distanze siderali. LIMES Lei vede vita politica fuori dal circolo dei siloviki, ovvero degli apparati d’intelligence e della forza? STARACE Il circolo dei siloviki è a sua volta composto da circoli. Ci sono naturalmente dei personaggi vicini al presidente. Ma poi ce ne sono altri che pensano con la loro testa. Anche nel mondo accademico. Di vita quindi ce n’è eccome. Il sistema non è più in grado di reprimere come faceva in epoca sovietica. Perché non c’è più la leva del partito che era nei gangli di tutto il paese. Il controllo e la repressione violenta colpiscono solo ciò che è più eclatante. LIMES Quindi potrebbe crollare il regime ma non la Russia? STARACE Il problema vero è che Putin non ha ancora strutturato un meccanismo di successione oliato. I russi restano appiccicati a Putin perché consente loro la vita quotidiana in determinati bozzoli che sono le città, dove sembra che la guerra non esista. Poi però sono arrivati i droni ucraini sul Cremlino e sulla Piazza Rossa e questo ha sicuramente creato panico. Lo stesso si è verificato quando ci fu la ribellione di Prigožin, che provocò enorme preoccupazione perché i russi sono spaven tati dal disordine. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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LIMES Cosa è successo nella vicenda di Prigožin? STARACE Sicuramente c’è stato un semi-ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito.
Ed è altrettanto vero che invece un certo numero di reparti ha bloccato tutto. L’obiettivo principale era il ministro della Difesa Šojgu, più che Putin. Prigožin voleva, se non prenderne il posto, mettere in chiaro che Šojgu se ne doveva andare. LIMES In un modo o nell’altro questa guerra sarà sospesa. Lei pensa sia possibile una Minsk III? STARACE Non lo so. Ma ci rendiamo conto della gravità di questo conflitto? Probabilmente non ce ne rendiamo più conto perché dal punto di vista mediatico è quasi scomparso. Questa guerra va avanti da due anni, con un numero di morti militari e civili che si avvicina al mezzo milione: è il più grande conflitto dalla seconda guerra mondiale in termini di perdite e distruzioni. E tutto questo in Europa. La mia conclusione è che l’Europa si gioca tutto su questo: dobbiamo uscire dalla nostra adolescenza e crescere sia dal punto di vista politico sia in termini di deterrenza militare. Il combinato disposto di un certo neoisolazionismo americano e della follia di Putin potrebbe forse suonare come campanello d’allarme per l’Europa. LIMES Come si possono mettere d’accordo 27 paesi europei? STARACE È quello il punto. Deve muoversi il nucleo europeo formato da Francia, Germania e Italia. LIMES Ma non c’è più il nucleo. Francia e Germania sono due pianeti diversi. L’Italia sembra fuori dai giochi. Eppure il primo abbozzo di piano di pace lo avete fatto voi alla Farnesina nella primavera del 2022 e non era molto diverso dal piano turco. Non se ne è più parlato? STARACE No. Quel lavoro fu sviluppato durante lunghe discussioni che facemmo. C’era il ministro Di Maio. Era prematuro? Non lo so. Però io penso che in politica estera quando c’è un conflitto sia meglio fare e sbagliare che non fare niente. LIMES Infatti la portavoce del ministero degli Esteri russo Marija Zakharova ogni tanto se ne viene fuori dicendo che l’Italia deve tornare al suo atteggiamento pragmatico. Però adesso il nuovo ambasciatore russo ci ha definito un paese nemico. STARACE Credo che lì ci siano anche dinamiche interne. La Zakharova fa la sua propaganda. Le ho detto personalmente: «Avete una delle migliori diplomazie al mondo, peccato che l’avete messa in freezer». Il ministero degli Esteri è completamente ininfluente. I russi hanno tante virtù, ma non hanno nessun tipo di soft power. Perché non sono interessati ad averlo. LIMES Però i russi hanno soft power nel cosiddetto Sud Globale. STARACE Ce l’hanno ad esempio in Africa e solo in qualche misura. Ma c’è molta diffidenza. E poi in quei paesi misurano anche il peso economico di uno Stato. Forse una volta di più bisognerà aspettare l’intervento della Cina e degli Stati Uniti in questa questione che va al di là del problema del Donbas. LIMES Proprio per questo: in una prospettiva di lungo periodo è ancora sensato ragionare in termini «helsinkiani»? STARACE Helsinki è un sistema di sicurezza reciproca, varato in piena guerra fredda per prevenire conflitti e tensioni fra i due blocchi. Io sono uno di quelli che prediCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ca che dobbiamo recuperare il filo di quel discorso. Ci sarà un giorno in cui dovremo ritrovare un confronto con la Russia. Io posso assolutamente capire l’atteggiamento di paesi come la Polonia e il Regno Unito. Sono sulla linea del fronte. Si trovano di fronte un paese che nel 2022 ha utilizzato una logica da prima guerra mondiale, aggredendo un altro paese e occupandone parte del territorio. Però io credo molto nel modello Helsinki, bisognerà arrivarci. Sarà difficilissimo. Ma penso sia la chiave di volta di tutto. Il conflitto in Ucraina, come altri focolai di tensione (penso ai Balcani occidentali, al Nagorno Karabakh, alla Georgia, alla Moldova eccetera) sono figli dell’assenza di uno schema di sicurezza nel continente che prevenga la grave degenerazione dei sistemi verso le economie di guerra. E si sa, le economie di guerra, per crescere, sostenersi e legittimarsi hanno bisogno di conflitti.
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PERCHÉ CI SERVE LA GERMANIA
MARIOTTO La crisi tedesca mina il cuore dell’Eurozona, ma è anche occasione di sanarne gli squilibri. Il nodo dei mega attivi commerciali. Il totem del rigore contabile, irriso dalla stessa Berlino. Le carte dell’energia e del Mediterraneo. Subire il triangolo di Weimar non è obbligatorio. di Giacomo
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1. A CRISI DELLA GERMANIA RISCHIA DI travolgerci. L’emergenza epidemica prima e l’invasione russa poi hanno colto Berlino impreparata e stravolto il sistema delle certezze tedesche, in particolare la convinzione che sia possibile sviluppare una potenza economica senza implicazioni politiche o militari. Dopo il 24 febbraio 2022 la Repubblica Federale ha preso atto di un mondo in cui i conflitti sono la norma e la sicurezza non può più darsi per scontata. Cambio di paradigma classificato dalle disorientate burocrazie fede rali con la locuzione Zeitenwende, a indicare l’avvento di una svolta epocale nella storia del continente europeo. Per l’Italia è un problema perché non si tratta di un fenomeno congiunturale. Oggi la Germania fatica a riprendere il controllo della realtà. L’effetto più evidente è che Berlino ha perso prestigio e influenza all’estero. Il 24 febbraio 2022 ha inau gurato un mondo pericoloso e disordinato, in cui la garanzia strategica americana è apertamente in discussione, il collegamento commerciale con la Cina vacilla, l’arteria energetica russa è stata recisa sine die, l’Europa orientale è sempre più ir requieta e i rapporti con Parigi sono in crisi. Tutto ciò mette a rischio la tenuta dell’informale sfera d’influenza geoeconomica tedesca, nella quale è incluso anche il Nord Italia. La portata dell’attuale emergenza imporrebbe a Berlino di prepararsi a un contesto di conflitti sistemici persistenti e, soprattutto, di elaborare un nuovo sguardo sul mondo. Ma lo Stato federale, organizzato per operare in una realtà in cui la guerra è obsoleta, sembra privo dell’energia necessaria. Nel dibattito pubblico italiano è spesso trascurato quanto la Germania abbia cambiato volto negli ultimi due anni. Vista dalla Repubblica Federale, la Guerra Grande rappresenta una rivoluzione geopolitica. Estemporanea e temibile distru zione dello status quo. Questo è il cuore emotivo della crisi di Berlino. La diffiden za tedesca per le rivoluzioni ricorre nella storia e distingue nettamente la Germania Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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dalla Francia, che sul mito della presa della Bastiglia ha costruito una missione civilizzatrice di respiro mondiale. Nel luglio 1789 molti tedeschi guardarono con favore allo sforzo del Terzo Stato contro l’ancien régime. Inizialmente, pensatori e poeti affermati quali Immanuel Kant, Friedrich Schiller e Johan Gottfried Herder simpatizzarono con gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità della borghesia. Ma il fermento sulla riva destra del Reno non durò a lungo. A partire dalla primavera del 1790 le critiche all’Assemblea nazionale costituente divennero sempre più aspre. Herder, prima apertamente entusiasta, giunse presto alla conclusione che i tedeschi potessero «osservare la rivoluzione francese dalla sicurezza della terraferma come un naufragio in mare aperto» 1. Dello stesso avviso erano finanche i cosiddetti giacobini tedeschi, che consi deravano il modello francese assolutamente impraticabile «nei paesi protestanti» e «quasi altrettanto nei nostri paesi cattolici» 2. Nessuno fu però più esplicito del mi nistro prussiano Carl August von Struensee, che nel 1799 rimarcò a un omologo francese: «La rivoluzione che voi avete fatto dal basso verso l’altro avrà lentamente luogo in Prussia dall’alto verso il basso» 3. In altre parole: ai francesi la rivoluzione, ai tedeschi la riforma. È forse per questa ragione che le idee filosofiche di Karl Marx non ebbero mai concreta applicazione in Germania. Tesi peraltro diffusa dopo la fine della secon da guerra mondiale dallo storico wurttemburghese Rudolf Stadelmann, per il qua le i tedeschi si differenziavano dalle democrazie occidentali in quanto «popolo senza rivoluzione». 2. La rivoluzione della Guerra Grande ha travolto il fragile fronte interno tede sco. Oggi la locomotiva industriale d’Europa risulta piuttosto intorpidita. Secondo una stima dell’Institut der deutschen Wirtschaft (IW), se si tiene conto del solo impatto finanziario diretto la guerra in Ucraina è costata finora circa 240 miliardi di euro alla Repubblica Federale 4. Le imprese hanno subìto il contraccolpo della de globalizzazione. Tra le cause più segnalate l’aumento vertiginoso dei prezzi, le in terruzioni nelle catene di approvvigionamento, la perdita di clienti e fornitori, la mancanza di materie prime, il circolo vizioso di sanzioni e controsanzioni. La Germania si era convinta più di ogni altro paese di poter cambiare la Russia attraverso gli scambi commerciali (Wandel durch Handel). Il fallimento di questa visione è testimoniato dal fatto che in due anni il commercio tra Berlino e Mosca è crollato. Rispetto al 2021, il volume complessivo degli scambi si è contratto di qua si l’80%. Ma i dati ufficiali potrebbero nascondere una svolta meno radicale delle apparenze. Il calo del commercio diretto con la Russia è stato infatti seguito da un Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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1. Cit. in H.A. WINKLER, Die Deutschen und die Revolution. Eine Geschichte von 1848 bis 1989, Münc hen 2023, Verlag C.H.Beck, p. 10. 2. Ibidem. 3. Ivi, p. 11. 4. «Ukrainekrieg kostete Deutschland bislang mehr als 200 Milliarden Euro», Der Spiegel, 21/2/2024.
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aumento significativo delle esportazioni verso paesi dello spazio ex sovietico. Caso esemplare quello del Kirghizistan. Qui il valore delle esportazioni di veicoli teutonici è salito a 174 milioni di euro nel corso del 2022, rispetto ai soli 4,2 milioni di euro del 2021: un aumento di oltre il 3.100% 5. Sulla macchina produttiva tedesca aleggia lo spettro della deindustrializzazio ne. Il ministro delle Finanze Christian Lindner e il ministro dell’Economia Robert Habeck dichiarano apertamente che la Germania ha un problema e non sembra più invitante per molte aziende 6. Colossi come BASF spendono sempre più all’e stero e meno in patria 7. Inoltre, da quattro anni gli investimenti diretti esteri nella Bundesrepublik registrano una tendenza al ribasso significativa. E a partire dal 2018 la produzione si è contratta nei settori chimico (20%), automobilistico (14%), metallurgico (13%) e meccanico (10%) 8. I principali settori dell’industria nazionale sembrano essere diventati obsoleti, incapaci di tenere il passo con i nuovi sviluppi tecnologici. Tendenza evidente nel caso del legame con la Repubblica Popolare Cinese, mercato primario per l’export tedesco oggi in discussione a causa della tensione sinostatunitense e della competitività di Pechino in alcuni settori chiave. Merce des, Volkswagen e BMW sono impegnate in programmi di elettrificazione rapida per recuperare il terreno perduto, ma non è chiaro se riusciranno a gestire la tran sizione. Entro il 2030, l’ascesa dei veicoli elettrici made in China potrebbe arrivare a imporre una perdita di 7 miliardi di euro alle case automobilistiche del Vecchio Continente. Con gravi ripercussioni sull’intera catena del valore tedesca 9. Il quadro è complicato da una classe dirigente federale fuori asse e in netto deficit di consenso. La novità è che l’insoddisfazione per lo stato della democrazia tedesca si insinua nel cuore della società. Gli indici di gradimento della AmpelKoalition, peculiare composto di socialisti d’establishment, ambientalisti e falchi fiscali, sono ai minimi storici. Negli ultimi due mesi gli scioperi di macchinisti, ferrovieri, agricoltori e personale delle compagnie aeree hanno quasi paralizzato la Germania. La popolazione è sempre più concentrata sull’interno: in cima alla lista delle minacce prioritarie non figura più la Russia, ma l’immigrazione e il fon damentalismo islamico 10. Si rafforzano così le correnti antisistema. Su tutte Alternative für Deutschland (AfD), attualmente secondo partito più popolare del paese, la quale sembra trarre beneficio dalla persistente demonizzazione da parte delle istituzioni berlinesi. Por tatrice di istanze e valori diffusi nell’ex DDR, AfD contesta l’integrazione della Re pubblica Federale nell’Occidente (Westbindung). Quindi anche il suo aggancio Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
5. H. MORTSIEFER, «Auf Umwegen nach Moskau: Umgehen deutsche Autobauer die RusslandSanktio nen?», Tagesspigel, 19/12/2023. 6. J. FORSTER, F. KAIN, «Brutaler Offenbarungseid von Lindner und Habeck: Deutschland “nicht mehr wettbewerbsfähig”», Bild, 6/2/2024. 7. M. KARNITSCHNIG, «Rust Belt on the Rhine», Politico, 13/7/2023 8. P. WELTER, «Verliert Deutschland seine Industrie?», Frankfuter Allgemeine Zeitung, 10/2/2024. 9. «The Chinese challenge to the European automotive industry», Allianz Research, Munich, 9/5/2023. 10. S. LYNCH, «Russia no longer perceived as top threat by Germans», Politico, 12/2/2024.
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PERCHÉ CI SERVE LA GERMANIA
alle strutture comunitarie. In un manifesto stilato a luglio 2023 e poi solo parzialmente ritrattato, il partito neonazionalista auspicava una «dissoluzione controllata» dell’Unione Europea e chiedeva un ritorno alle valute nazionali 11. Intento ribadito lo scorso gennaio dalla sua coleader Alice Weidel, che parla di «Dexit» e vorrebbe indire un «referendum per l’uscita della Germania dall’Ue» 12. Queste fragilità non sono passeggere e incidono sulla capacità dello Stato fe derale di invertire il declino della Bundeswehr. I funzionari berlinesi discutono apertamente di fine della Pax Americana e stanno venendo a patti con l’idea che la guerra non sia più uno scenario impensabile. Parlare di bomba atomica tedesca non è più un tabù. Inoltre, per la prima volta dalla fine della guerra fredda la Ger mania disporrà di un piano operativo per la propria difesa territoriale 13. Il riarmo è considerato l’unica opzione e il tempo scarseggia. La priorità del ministro della Difesa Boris Pistorius è riorganizzare da capo a piedi l’apparato della sicurezza, ma sta incontrando considerevoli resistenze interne 14. I risultati finora scarseggiano. Quest’anno il governo ha annunciato che rag giungerà l’esborso del 2% del pil nella difesa, soglia minima secondo i criteri richie sti dalla Nato. Non sarebbe stato possibile senza il ricorso al fondo speciale per l’esercito da 102 miliardi di euro e a qualche trucco contabile. Secondo quanto ri levato da un’inchiesta dello Spiegel, diversi ministeri partecipano al bilancio con spese che poco hanno a che fare con il rendere la Bundeswehr idonea a combat tere una guerra (kriegstüchtig): benefici pensionistici per i veterani della Nationale Volksarmee, quote d’adesione all’Onu, spese per alcune assemblee parlamentari teoricamente di pertinenza civile 15. L’aspetto più preoccupante è la crisi del reclutamento. I giovani tedeschi non vogliono vestire l’uniforme. Pistorius sta studiando il «modello svedese» per reintro durre il servizio militare obbligatorio e si dice favorevole a istituire una legione straniera 16. Nel 2022 sono state ricevute soltanto 44 mila domande di ammissione, l’11% in meno rispetto all’anno precedente. Con il risultato che l’età media dei sol dati è sempre più alta: 33,5 anni, cinque in più rispetto al 2010 17. Nella lettura del generale Markus Kurczyk: «Si tratta di capire se abbiamo persone pronte ad andare in guerra per la Germania, pronte ad andare in capo al mondo per difendere le loro convinzioni e il nostro sistema di valori. (…) Nella Bundeswehr è necessaria una certa percentuale di persone molto robuste, resistenti, pronte a uccidere e, se 11. «AfDFührung will “geordnete Auflösung der EU”», zeit.de, 19/6/2023. 12. G. CHAZAN, «German farright leader hails Brexit as “model for Germany”», Financial Times, 22/1/2024. 13. «Bundeswehr stellt Plan zur Verteidigung Deutschlands auf», RedaktionsNetzwerk Deutschland, 25/1/2024. 14. M. GEBAUER, M. KORMBAKI, «Personalrat meutert gegen Pistorius», Der Spiegel, 3/2/2024. 15. M. GEBAUER, M. KORMBAKI, C. REIERMANN, «Die kreative Buchführung von Verteidigungsminister Pi storius», Der Spiegel, 13/10/2023. 16. «Pistorius sucht neues Wehrpflichtmodell: Eignet sich der schwedische Weg für die Bundeswehr?», Tagesspiegel, 17/12/2023; «Ausländer sollen in die Bundeswehr», Bild, 22/1/2024. 17. G. STEINGART, «Europa ist schwach und feige: Wir sind Putin schutzlos ausgeliefert», focus.de, 16/12/2023. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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UNA CERTA IDEA DI ITALIA
AFD L’ANTISISTEMA
DANIMARCA Mar Baltico SCHLESWIGHOLSTEIN 6,8% 12%
Mare del Nord
5% 14% AMBURGO
MECLEMBURGOPOMERANIA ANTERIORE 18% 32%
BREMA 6,9% n.d. BASSA SASSONIA 7,4% 18%
PAESI BASSI RENANIA SETTENTR. VESTFALIA 7,3% 14% BELGIO
ASSIA 8,8% 18,4%
LUSS.
RENANIA PALATINATO 9,2% 17%
BERLINO
SASSONIA-ANHALT 19,6% 33%
TURINGIA 24% 33%
BRANDEBURGO 18,1% 28%
SASSONIA 24,6% 34%
REPUBBLICA CECA
BADEN-WÜRTTEMBERG 9,6% 18%
AfD Alternative für Deutschland (partito neonazionalista) Länder orientali Länder occidentali 9% Percentuale ottenuta daSVIZZERA AfD alle elezioni federali del 2021 15% Proiezioni al gennaio 2024 Fulcri del neonazionalismo secondo il servizio segreto interno Turingia cardine dell’ala estremista del partito (Der Flügel) rappresentata da Björn Höcke Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
8,4% 15%
G E R M A N I A
SAAR 10% 10%
FRANCIA
POLONIA
BAVIERA 9% 15%
AUSTRIA Elezione federale 2021 Totale: 10,3% Länder orientali: 18,9% Länder occidentali: 8,2% ITALIA Oggi i tedeschi iscritti ad AfD sono più di 40 mila, circa il 37% in più rispetto alla fine del 2022, quando erano 29 mila.
necessario, a morire. Bisogna trovarle. La nostra società si è convinta per trent’anni che la violenza non serve, ne impedisce ogni forma fin dalla scuola materna. Dobbiamo tornare a insegnare ai giovani come funziona la violenza» 18. 18. K.
VON
HAMMERSTEIN, «“Keiner will gern andere Menschen erschießen”», Der Spiegel, 8/4/2023.
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PERCHÉ CI SERVE LA GERMANIA
3. Il crollo del Muro di Berlino colse l’Italia con la guardia bassa. Lo smantellamento non pianificato del più tangibile simbolo della cortina di ferro non dissol veva soltanto la Repubblica Democratica Tedesca. Sanciva la fine imminente della divisione del Vecchio Continente in due blocchi eterodiretti lungo l’asse Stetti noTrieste, epoca di pace calda travestita da guerra fredda. Cosa ne sarebbe segui to era tutt’altro che certo. La possibilità che la Repubblica di Bonn, già prima po tenza economica continentale, potesse annettere di punto in bianco 17 milioni di tedeschi in cerca di Stato inorridì le classi dirigenti europee. Su tutte quelle inglesi e francesi, fin da subito impegnate a immaginare l’impatto di una possibile riunifi cazione sul delicato equilibrio dell’Europa. Anticamera di terza guerra mondiale? L’Italia era disorientata. Esattamente come le altre cancellerie occidentali, Ro ma non disponeva di un piano d’azione. Nessuno esprimeva l’inedito senso di minaccia meglio di Giulio Andreotti, il quale già nel 1984, nei panni di ministro degli Esteri, aveva pubblicamente messo in guardia sul rischio di un riaffiorare del «pangermanesimo», sostenendo di amare tanto la Germania da volerne sempre al meno due 19. Sei anni più tardi, nelle vesti di presidente del Consiglio, vedeva all’improvviso i suoi timori inverati. Andreotti temeva una «Grande Germania» unita a furor di popolo poiché avrebbe inevitabilmente ridimensionato il ruolo dell’Italia. Lo preoccupava in par ticolare il processo diplomatico Due più Quattro, cui partecipavano le due Germa nie e le quattro potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. Primo assaggio di un direttorio occidentale da cui Roma sarebbe stata esclusa 20. Un’implicita con ferma di ciò arrivò a Ottawa, nel febbraio 1990, quando gli Stati Uniti informarono gli ignari capi della diplomazia dei paesi Nato e del Patto di Varsavia che l’accordo era finalmente stato trovato. Turbato, il ministro degli Esteri italiano Gianni De Michelis pretese un chiarimento dall’omologo tedesco HansDietrich Genscher, il quale lo gelò: «Voi non siete parte del gioco» 21. In quei giorni Andreotti si recava a Londra per incontrare Margaret Thatcher, che si spinse al punto di proporgli un’alleanza con l’Unione Sovietica: i britannici avevano vinto «due guerre mondiali e perso un impero» per impedire ai tedeschi di dominare il continente, ma questi erano tornati «ancora una volta la prima potenza economica d’Europa» 22. Se la Germania si fosse riunificata, pensava la Lady di Fer ro, avrebbe ottenuto in tempo di pace ciò che in passato le era stato precluso sul campo di battaglia. Andreotti, meno ambizioso perché piuttosto rassegnato, si limitò a porre una condizione sulla scia di quanto già fissato dai francesi. Occorreva ancorare la Re pubblica Federale alla Cee sottraendole il suo principale fattore di preponderanza, il marco tedesco. Il tutto all’interno della cornice atlantica. Era l’alba dell’Eurozona. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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19. Cfr. G. FABRIZIO, «Andreotti è rimasto isolato», la Repubblica, 16/9/1984. 20. Cfr. A. VARSORI, «L’Italia del governo Andreotti e la riunificazione tedesca», Atti del convegno «Giu lio Andreotti e Helmut Kohl. La riunificazione della Germania, lezioni per oggi», Università degli Studi Carlo Bo di Urbino, 2829 ottobre 2021. 21. Cfr. A. ARMELLINI, «La grinta di Genscher con gli esclusi dal “4+2”», Corriere della Sera, 1/4/2016. 22. M. THATCHER, The Downing Street Years, London 1995, HarperCollins.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
Eppure, anche a causa dei criteri successivamente stabiliti a Maastricht, col tempo il proposito di depotenziare la Germania ha finito per rivolgersi nel suo esatto contrario. E la moneta unica ha servito gli interessi dell’economia tedesca contro i suoi ideatori. Oggi forse Andreotti sosterrebbe di amare tanto la Germania da pregare che resti in piedi. Berlino sembra infatti troppo fragile per curarsi del proprio intorno e meno disposta a conferire vesti europee ai propri interessi. Per noi è un problema. Come effetto del compromesso degli anni Novanta, il segmento più pregiato del sistema industriale italiano è stato progressivamente incorporato nella catena del valore tedesca. Tanto da stabilire un limes germanico corrispondente, seppur con qualche eccezione, con l’Appennino ligure e tosco-emiliano. Autentica linea di faglia geopolitica che divide lo Stivale 23. Alcuni dati mettono in rilievo l’ampiezza del solco. La Repubblica Federale è il primo partner commerciale dell’Italia, con un interscambio che nel 2022 ha toc cato i 168,5 miliardi di euro, un massimo storico, in crescita di oltre il 18% rispetto a due anni fa. Si tratta però di attrazione asimmetrica, poiché coinvolge in massima parte il Nord, con fulcro sulla Lombardia (56 miliardi) seguita da Veneto (24 miliar di), EmiliaRomagna (19 miliardi) e Piemonte (15 miliardi) 24. Il quadro è analogo se si considerano le imprese a controllo tedesco nel nostro territorio, oltre 1.700 con un fatturato che supera i 96 miliardi di euro annui. Quasi la metà è concentra ta nella sola Lombardia (47,4%) e buona parte delle restanti è localizzata in Trenti noAlto Adige (13,8%), Veneto (10,2%), EmiliaRomagna (7,4%) e Piemonte (6,6%) 25. Così, il Nord Italia è inserito nella filiera industriale teutonica assieme a Benelux, Danimarca ed Europa centrale. La nostra partecipazione è conseguenza fisiologica della forma dei rapporti di fornitura: una costellazione di piccole e me die imprese settentrionali procurano prodotti intermedi a colossi industriali tede schi. Nel caso lombardo, le esportazioni riguardano prevalentemente gli ambiti metallurgico (18,7%) e chimico (10,9%), oltre che i macchinari e le apparecchiatu re (14,4%) 26. È proprio questa intrinsechezza che nel 2020 ha spinto la Germania a spender si per noi, contro il giudizio dei nordici cosiddetti «frugali» – Paesi Bassi, Austria, Danimarca, Svezia e Finlandia i più agguerriti. Il risultato è stato il Next Generation Eu, che via Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) vede non casualmente l’Italia come maggiore beneficiaria. Berlino ha optato per salvarci per salvare a sua volta l’intero edificio europeo. Dunque sé stessa, posto che circa il 60% dell’export tedesco è destinato a paesi membri del blocco comunitario. Ancora, l’Institut der deutschen Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
23. Per un approfondimento sul tema si veda F. PETRONI, D. FABBRI, «Il limes germanico, ferita e destino dell’Italia», Limes, 4/2017, «A chi serve l’Italia», pp. 3140. 24. «Interscambio ItaliaGermania 2022 ancora da record: oltre 168 miliardi di valore nell’anno della guerra e della crisi energetica», DeutschItalienische Handelskammer, 23/3/2023. 25. «Imprese estere, con 1.700 aziende la Germania è il primo investitore in Italia», Il Sole-24 Ore, 27/2/2023. 26. «La recessione della Germania e gli impatti sul nostro export», Confartigianato Lombardia, 14/7/2023.
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PERCHÉ CI SERVE LA GERMANIA
Wirtschaft di Colonia stima che in caso di «Dexit» o smantellamento dell’area di libero scambio la Repubblica Federale perderebbe il 10% della sua produzione economica e fino a 2,2 milioni di posti di lavoro 27. Dal punto di vista della Germania, con il Pnrr ci giochiamo (quasi) tutto. È bene tenerlo a mente. Roma ha finora incassato poco più di metà dei 194 miliardi messi a vigilante disposizione. Di recente ha ottenuto il via libera alla necessaria revisione del piano, che permette di guadagnare tempo ma non risolve le criticità più lampan ti. Meglio non cantar vittoria. Perché i ritardi finora accumulati mettono a nudo i deficit della nostra costruzione statale. Nel 2023 abbiamo speso circa 2,5 miliardi di fondi, appena il 7,4% delle risorse programmate inizialmente. Nel 75% dei casi si registrano ritardi. A trainare la spesa sono in larga parte le iniziative che non preve dono realizzazione di opere da parte di soggetti pubblici. La quota di progetti già conclusi, generalmente bassa, è doppia nelle regioni del Nord rispetto a quelle del Sud, dove si incontrano le maggiori difficoltà a indire le gare e assegnare i lavori. 4. Fino al febbraio 2022, appoggiarci alla Germania nella speranza di essere salvati era una strategia imprudente. Oggi è la ricetta per un disastro. La Guerra Grande ha definitivamente cambiato le regole del gioco. La conseguenza è che l’Italia ha l’obbligo di tornare a guardare il mondo con i propri occhi. Partiamo quindi dal domandarci perché ci serve la Repubblica Federale. Cosa possiamo chiedere concretamente a Berlino? E cosa possiamo offrirle a nostra volta per es sere tenuti in considerazione? Germania per noi significa anzitutto Europa occidentale, l’orizzonte strategico più prossimo del nostro paese, area in cui si strutturano le relazioni con Parigi e Madrid, oltre che con Berlino. Si tratta di un nucleo utile non a sostituire l’Allean za Atlantica ma a contare di più al suo interno. Con Francia e Germania formiamo un triangolo di cui siamo ineludibilmente estremità debole, talvolta persino disco nosciuta, ma decisiva. La fase geopoliticamente fluida innescata dalla guerra in Ucraina ha raffreddato il rapporto francotedesco, non più stabile pilastro del siste ma europeo. Con Berlino il primo passo dev’essere tornare a capirsi. Durante la guerra fred da le pur ricorrenti dissonanze avvenivano in un quadro di costante dialogo tra le classi dirigenti, imperniato sui legami tra partiti, con norme riconosciute e ideali condivisi. Da trent’anni non è più così. Il crollo della Prima Repubblica ha innescato una perdita di contatto, allora forse inevitabile, di certo adesso inammissibile. Oggi tra Roma e Berlino si fatica ad andare oltre lo stereotipo, sinonimo di soliloquio. Tornare a parlare sul serio è nel nostro interesse. Significa che dobbiamo strut turare i rapporti, sottraendoli alle tempeste dei cambi di governo. Non basta parte cipare allo spazio comunitario, né possiamo ricominciare ogni volta daccapo. Per questo a novembre Giorgia Meloni e Olaf Scholz hanno siglato il Piano d’azione italotedesco stabilendo che Roma e Berlino sono «partner strategici», un richiamo Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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27. «Der AfD“Dexit” könnte in Deutschland Millionen Arbeitsplätze kosten», focus.de, 13/2/2024.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
ai ben più consistenti accordi già stretti da entrambi i paesi con la Francia, verso la quale ci lega il trattato del Quirinale. È soprattutto nell’interesse italiano che il piano sia un punto di partenza, non di arrivo, volto a moltiplicare le circostanze in cui esplicitare il nostro punto di vista. Può essere anche un’occasione per smentire alcuni preconcetti tedeschi sulla nostra incostanza. Finora i segnali sono stati quantomeno incerti. L’accordo, inizialmente previsto per l’ottobre 2022, è stato rimandato di un anno causa crisi del governo Draghi e conseguenti elezioni anticipate. Inoltre, pochi giorni prima della firma, l’ambasciatore tedesco a Roma Hans-Dieter Lucas ha parlato della grande importanza che Berlino conferisce al piano. Per tutta risposta, i funzionari diplomatici di Palazzo Chigi hanno subito tentato di ridimensionare il nostro impegno, ricordando che si tratta di un’intesa meno vincolante rispetto a quella stabilita con Parigi28. Una partita esistenziale, quindi da affrontare con cognizione degli interessi in gioco, riguarda l’allentamento delle regole fiscali comunitarie. La Germania è l’ago della bilancia: non possiamo domandarle di indebitarsi per salvarci, possiamo però pretendere regole meno stringenti e irrealistiche per alleggerire il nostro debito. A dicembre Berlino ha vinto l’ultimo braccio di ferro sulla riforma del Patto di stabilità e crescita, che consente maggiore indipendenza nel concordare i piani di rientro ma prevede vincoli stringenti per contenere gli indisciplinati: più flessibilità oggi in cambio di più rigore domani. Ad aggravare il tutto, ci siamo trovati ai mar gini del processo decisionale poiché francesi e tedeschi si sono accordati separata mente e ci hanno imposto il fait accompli. Dobbiamo arrenderci al fatto che la nostra economia sarà soffocata dall’orto dossia fiscale? Niente affatto. Soprattutto perché in Germania il dibattito è più aper to di quel che sembra. Crisi epidemica, tensioni sinostatunitensi e guerre in Ucrai na e a Gaza hanno persuaso una quota non indifferente dell’establishment berline se che i freni all’indebitamento siano una misura insostenibile. Opinione diffusa tra socialdemocratici e verdi e persino tra alcuni conservatori. Lo testimonia il conti nuo ricorso negli ultimi anni a fondi speciali finanziati in barba alle molto restrittive (e autoimposte) regole di bilancio tedesche – se ne contano 29 attivi per un totale di 869 miliardi di euro 29. Esiste dunque un margine d’azione, che possiamo prova re a sfruttare creando un fronte unito con Parigi. C’è poi la profonda interdipendenza industriale, che crea occasioni per coope rare nel campo della difesa. Il riarmo tedesco tarda a dare effetti, ma ha il poten ziale di cambiare gli equilibri del continente. Sia chiaro, la Germania sta attrezzan do la Bundeswehr per difendere sé stessa, non noi e tantomeno l’Europa. Guarda però con favore alla possibilità di coltivare la propria filiera produttiva. In altre parole, può aiutarci nello sforzo di recuperare la credibilità del nostro strumento militare, che patisce livelli di munizionamento pericolosamente bassi. Un conto è non voler sparare, un altro non avere i proiettili per farlo. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
28. «Si fa presto a dire “alleati strategici”», Il Post, 21/11/2023. 29. K. SEIBEL, «29 Sondervermögen – Bundesrechnungshof rügt Lindners ausufernde SchuldenTöpfe», Welt, 4/9/2023.
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PERCHÉ CI SERVE LA GERMANIA
La Repubblica Federale può quindi tornarci utile: la nuova fabbrica che Rheinmetall ha inaugurato a Unterlüß, in Bassa Sassonia, dovrebbe produrre fino a 700 mila proiettili d’artiglieria annui entro il 2025. A patto però di lasciarci coinvolgere soltanto in progetti selezionati e d’alto valore, accortezza necessaria per non finire schiacciati su e da Berlino. Un buon esempio è il programma per sviluppare il carro armato Mgcs, ambiziosa iniziativa francotedesca rimasta bloccata a causa di disaccordi e in cui Roma sta provando a inserirsi. Inoltre, ci accomuna a Berlino l’intento di preservare forme di collaborazione industriale con soggetti esterni all’Ue, su tutti Stati Uniti e Regno Unito, contro le insistenze di Parigi per privilegia re soltanto le capacità manifatturiere europee. Il conflitto in Ucraina ha accentuato lo spostamento verso nordest del bari centro strategico europeo. Eleva il rango della Polonia, relativizza quello dell’Italia. Il nostro rapporto con la Germania non può dunque essere esclusivo, nemmeno nel quadro di un nucleo euroccidentale. Prende così sempre più slancio il triango lo di Weimar (BerlinoParigiVarsavia). Sviluppo che Roma soffre per timore di essere relegata ai margini. Ma questa geometria ci svantaggia solo se ci rifiutiamo di capirla e non sappiamo sfruttarla. In primo luogo perché non costituisce un blocco monolitico. Raccoglie sensibilità diametralmente differenti, dunque è in fluenzabile dall’esterno. La Germania vi legge uno strumento per ottenere una maggiore condivisione degli oneri nel sostegno all’Ucraina, con l’obiettivo di non trovarsi sola a sobbarcarsi la resistenza oggi e la ricostruzione domani. Francia e Polonia lo considerano invece un consesso utile a sorvegliare la traiettoria tedesca. Sono tutti aspetti che ci interessano ma verso cui possiamo offrire un contribu to limitato. La scelta peggiore è rincorrere il triangolo con il solo scopo di parteci parvi. Stringere accordi di sicurezza con Kiev per poi specificare che «non saranno giuridicamente vincolanti» e che «non prevedono obblighi sul piano del diritto in ternazionale né impegni finanziari» senza mettere nulla sul tavolo non aumenta la nostra voce in capitolo 30. Prendiamola invece come un’occasione da sfruttare e proponiamoci per quello che possiamo fare davvero. La vicinanza alla costa nordafricana rende l’Italia un partner prezioso per la gestione dei flussi migratori e per i futuri approvvigionamen ti energetici – tema particolarmente caro a Berlino, che dopo aver abbandonato il gas russo si trova di nuovo dipendente da un’unica fonte, la Norvegia 31. Inoltre, potremmo attribuirci un ruolo attivo nella sicurezza del Mediterraneo allargato. La Germania esporta circa la metà della sua produzione interna ed è drammaticamente dipendente dall’apertura delle rotte marittime, ma la Deutsche Marine non dispone dei mezzi per svolgere funzioni che non siano di semplice supporto, come dimostra to dalla forma del suo contributo nell’Operazione Aspides. Queste responsabilità ci renderebbero più autorevoli agli occhi di amici e nemici. Solo allora potremo con vincerci che un’Italia più consapevole non è soltanto nel nostro interesse. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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30. «Tajani: “Presto accordo bilaterale di sicurezza con Kiev”», Ansa, 22/2/2024. 31. V. ECKERT, R. BOUSSO, C. STEITZ, «Germany swaps Russia for Norway in gas supply dependence», Reuters, 21/12/2023.
UNA CERTA IDEA DI ITALIA
CHE COSA PUÒ FARE L’ITALIA PER TORNARE UNA POTENZA VERA
REVERDIN Un punto di vista francese sulle opportunità che si offrono oggi al nostro paese. In Europa, può unirsi agli Stati che cercano di costruire una sicurezza comune. In Africa, il rigetto delle ex potenze coloniali apre nuove prospettive. Senza trascurare l’Indo-Pacifico. di Marc
Q
UESTO TESTO DI RIFLESSIONE GEOPOLITICA
suggerisce i modi in cui l’Italia può affermare la propria posizione strategica in un mondo che cambia, esaminando quattro grandi blocchi geografici – l’Occidente, l’Europa, il Sud Globale e l’Indo-Pacifico. Il documento non ignora le questioni di valori o di diritto internazionale, ma si concentra sull’analisi delle dinamiche di potere e getta uno sguardo pragmatico sulle opportunità che si profilano per Roma. Infine, offre una serie di piste per costruire una narrazione rinnovata per l’Italia, suggerendo in particolare di sfruttare appieno la presidenza del G7 nel 2024 per riposizionare il paese a livello internazionale e rafforzare la sua coesione interna attorno a una serie di obiettivi strategici.
L’Occidente spaccato in due La guerra in Ucraina è ovviamente una cattiva notizia per l’Occidente. Certo, quest’ultimo sembra più unito che mai, dal momento che si dichiara compatto nel sostenere lo sforzo bellico ucraino. Allo stesso modo, la difesa europea sembra essere tornata all’ordine del giorno con una vera e propria ambizione, sostenuta da nuove risorse finanziarie e con la benedizione di grandi investitori istituzionali sempre più sensibili al continuum tra Esg 1 e sicurezza. Siamo tutti consapevoli che la geopolitica ha preso il sopravvento sulla geoeconomia, probabilmente per molto tempo, mentre anche i Mari Cinesi sono ora oggetto di molte speculazioni. Resta il fatto che dietro questa facciata di unità ci sono profonde differenze, in primo luogo tra le due sponde dell’Atlantico e in secondo luogo tra le nazioni europee. Americani ed europei hanno approcci molto diversi alla guerra in Ucraina: Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
1. Environmental, Social and Governance.
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CHE COSA PUÒ FARE L’ITALIA PER TORNARE UNA POTENZA VERA
• Per gli americani, al di là del sostegno a una nazione aggredita di fronte a una grande potenza revisionista, si tratta di una guerra per procura che apre la prospettiva di un allargamento delle alleanze strategiche fino al Mar Nero e di notevoli sbocchi economici sia civili (ricostruzione dell’Ucraina, fornitura di energia all’Europa) sia militari (riarmo europeo). • Per gli europei, pur essendo un’opportunità per accelerare la loro transizione energetica ed acquisire una maggiore autonomia strategica, rimane una guerra costosa in termini economici (sostegno allo sforzo bellico ucraino), energetici (il gnl americano è più costoso del gas russo) e simbolici (l’Europa non è più un continente sicuro). Più fondamentalmente, questa guerra segna la pausa, se non il fallimento, del progetto di autonomia strategica europea. Oggi l’Europa è emarginata nella risoluzione delle crisi globali. La sua incapacità di garantire la sicurezza nel proprio continente a partire dai Balcani negli anni Novanta, il suo seguire gli americani in Afghanistan nel 2002 e in Iraq nel 2003, i suoi errori di analisi strategica durante le cosiddette «primavere arabe» (Tunisia, Egitto Siria, Libia), la sua emarginazione sulla questione del nucleare iraniano (incapacità di apporre la propria firma senza gli americani), i suoi sforzi diplomatici dispersi e confusi di fronte a Putin intorno agli accordi di Minsk e prima dell’invasione dell’Ucraina, il suo ruolo di basso profilo nella guerra a Gaza: tutti segni che un’Europa potente geopoliticamente è ancora in gran parte una pia speranza. In effetti, il solo garante della sicurezza europea restano gli Stati Uniti, che i russi considerano il loro unico interlocutore legittimo in materia. Questa situazione di dipendenza strategica è preoccupante per gli europei, data la spaccatura della scena politica interna americana, segnata dalla brevità dei mandati dei presidenti e dalla crescente imprevedibilità delle loro scelte di politica estera. A questo proposito, le prossime elezioni in America potrebbero rivelarsi particolarmente temibili per l’unità atlantica, a seconda del profilo del futuro presidente. Resta comunque il fatto che dobbiamo fare i conti con gli Stati Uniti, la cui potenza combinata resta in gran parte ineguagliabile, così come il loro vantaggio tecnologico e la profondità e resilienza della loro economia. Da questo punto di vista, investire sugli Stati Uniti, unico paese occidentale ad uscire veramente rafforzato della vicenda ucraina, rimane una scelta obbligata.
Dietro la facciata unitaria, l’Europa è divisa Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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Di fronte alla guerra in Ucraina, ma non solo, le nazioni europee sembrano prendere strade strategiche molto diverse. • La Francia ha importanti asset industriali, energetici e strategici: la guerra in Ucraina le sta permettendo di rilanciare sia la sua industria della difesa sia quella nucleare. È il principale beneficiario del trasferimento delle multinazionali dalla City di Londra all’Europa continentale. Ma la sua politica estera è stata una sequenza di contrattempi, con un costo simbolico abbastanza pesante (Africa, Medio
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Oriente), mentre la sua scena politica interna è molto tesa, con una possibilità sempre più alta che un partito estremista vada al potere, mentre è indebolita economicamente (declassamento del rating). • La Germania si trova a un punto di svolta storico, come lo stesso cancelliere tedesco ha espresso il 27 febbraio 2022 in un discorso al Bundestag con il concetto di Zeitenwende. La Germania ha improvvisamente sperimentato la sua vulnerabilità strategica con la rottura delle relazioni economiche ed energetiche con la Russia, vulnerabilità che era già stata messa alla prova quando il presidente Trump aveva messo in questione la solidarietà americana verso i paesi della Nato. La Germania si appresta quindi a riarmarsi e a diventare, secondo il suo concetto strategico sviluppato già nel 2016, il principale esercito convenzionale in Europa. Possiamo aspettarci un rafforzamento dell’industria della difesa tedesca, che cercherà anche di consolidare le proprie catene del valore acquisendo aziende del settore in particolare nell’Europa centrale e meridionale. • Come la Francia, ma per ragioni in parte diverse, il Regno Unito è una potenza strategicamente indebolita. Il Brexit ha naturalmente incrinato la credibilità internazionale del paese. Il breve episodio di Liz Truss, nominata sulla base di un programma economico eterodosso, è degno di nota perché dimostra il declino della sovranità del paese, a vantaggio dei mercati finanziari. Dal punto di vista strategico, Londra ha approfondito il suo allineamento con gli Stati Uniti e ha scelto di essere, almeno dal punto di vista narrativo, in prima linea nel sostegno all’Ucraina. Anche in Asia l’ex potenza coloniale si è ritirata e, nonostante l’ambizione di diversificare le alleanze, è allineata con l’approccio statunitense alla Cina, come dimostra la sua adesione all’Aukus. • La Polonia si trova in una situazione ambivalente dal punto di vista strategico, dalla quale può uscire più forte o più debole. Il paese ha certamente beneficiato appieno, negli ultimi vent’anni, dei fondi strutturali europei, che ha gestito molto bene per sviluppare le sue infrastrutture, aumentando significativamente il suo tasso di crescita potenziale. Varsavia ha vinto la battaglia dell’analisi – e della narrazione – sulla Russia: i suoi messaggi di preoccupazione degli ultimi vent’anni sulla minaccia russa, a malapena ascoltati dopo l’annessione della Crimea, sono stati finalmente convalidati dai fatti. In questo contesto, la Polonia può trarre il massimo vantaggio dagli sforzi americani per rafforzare la dimensione orientale della Nato, che darà impulso alle sue industrie della difesa e più in generale alla sua economia. Ma a rischio di diluire seriamente la sua indipendenza. In questo contesto, l’Italia si trova in una situazione paradossale. Infatti, conferma le sue debolezze strutturali, significative e ben note: soffre di un debito pubblico massiccio e di una credibilità più debole rispetto a Germania e Francia sui mercati finanziari; ha una bilancia commerciale positiva ma al prezzo di una dipendenza industriale molto ampia da Berlino; sta affrontando una crisi demografica molto profonda, che peserà sui suoi principali equilibri macroeconomici, mentre la sua capacità di integrare le popolazioni immigrate rimane debole e con forti Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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reazioni identitarie; infine, continua a trascinare il peso del Mezzogiorno, che sta ancora faticando a integrare e a sviluppare. Un divario che gli equilibri politici del paese continuano a riflettere. Nonostante la copertura negativa e pregiudiziale che talvolta riceve dalla stampa internazionale, l’Italia sembra trovarsi in una posizione relativamente favorevole dal punto di vista strategico: stabilità politica interna e marginalizzazione delle forze antisistema; opportunità economica senza precedenti legata al piano di rilancio europeo; opportunità politica internazionale con la presidenza del G7 nel 2024. Inoltre, il paese può approfittare del clima europeo favorevole allo sviluppo di nuovi sistemi di difesa, per conquistare nuovi mercati e migliorare la sostenibilità finanziaria delle sue imprese del settore. Può anche costruire una strategia comune con i paesi europei che cercano di diversificare le loro alleanze di fronte alla forte dipendenza americana.
Il Sud: la crisi delle ex potenze coloniali è un’opportunità per l’Italia? Per molto tempo, lo status di ex potenza coloniale è stato utile soprattutto a Francia e Regno Unito, in quanto i profondi legami creati durante la colonizzazione hanno permesso loro di mantenere posizioni geopolitiche ed economiche avanzate in molte economie africane e mediorientali. Oggi, questa condizione li penalizza. La Francia è in difficoltà, se non addirittura respinta, nell’Africa subsahariana (Mali, Burkina Faso, Costa d’Avorio eccetera), nel Nord Africa (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia) e nel Medio Oriente (Palestina, Libano, Siria) e non può più portare la voce dell’Europa in queste regioni. Il Regno Unito, macchiato dal Brexit, soffre dello stesso rifiuto nel Golfo (Iraq, corresponsabile con gli Stati Uniti dell’invasione del 2003), nei Caraibi (rifiuto della monarchia britannica in Giamaica) e in diverse regioni dell’Africa (dove il Regno Unito ha ridotto massicciamente i suoi aiuti allo sviluppo). Ma se i paesi africani si sono distaccati dalla Francia e dal Regno Unito, non hanno completamente rifiutato l’Occidente, cui continuano a guardare pur non essendo più l’unico punto di attrazione. Certo, molti rifiutano di allinearsi alla condanna dell’aggressione russa all’Ucraina e ritengono che si tratti di una crisi europea. Ma questo non significa che vogliano allinearsi completamente con la Cina o con la Russia, come dimostra l’atteggiamento dell’India, ad esempio, la cui politica di neutralità ed equilibrio è stata imitata da molti paesi: Marocco, Turchia, Sudafrica eccetera. Anche i paesi europei saranno probabilmente interessati da questa diversificazione, che certamente penalizza le potenze tradizionali – Francia e Regno Unito – ma può creare opportunità per altri. In questo contesto, l’Italia ha una carta da giocare: è una grande potenza europea con innegabili asset industriali strategici. A differenza dei paesi del Nord Europa, in particolare della Germania, l’Italia ha svolto un ruolo storico nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Africa, e ha quindi una reale affinità culturale. Ma allo stesso tempo, come questa volta la GerCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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mania, le sue esperienze coloniali non sono durate abbastanza a lungo da lasciare macchie – e ferite – così durature come le presenze francese o britannica, che oggi rappresentano un handicap strategico per queste due ex potenze coloniali. Può quindi incarnare una voce europea e beneficiare di un profilo relativamente intatto di fronte a partner che chiedono di essere trattati da pari a pari e che sono assetati di autonomia strategica. In quest’ottica, l’ultimo vertice Africa-Italia organizzato dalla presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha rappresentato un interessante tentativo di sfruttare questo particolare posizionamento. Dopo l’innegabile successo della mobilitazione, sarà importante garantire un seguito attento agli annunci, soprattutto in termini di risorse stanziate. Un altro fattore chiave per il successo sarà la capacità di coinvolgere l’Unione Europea e gli altri paesi europei e di lavorare in partenariato. Infine, oltre al coordinamento economico, è importante posizionare le discussioni sulle principali sfide condivise dall’Europa e dall’Africa: la gestione delle migrazioni (sia interregionali che intraregionali), la lotta al terrorismo e all’islamismo e la lotta al cambiamento climatico.
L’Oriente: un territorio (quasi) nuovo per l’Italia, ricco di promesse Il centro geostrategico del mondo si è spostato dall’Oceano Atlantico all’Oceano Pacifico negli anni Novanta, con il riemergere economico della Cina. Il pivot strategico avviato dal presidente Obama nel 2011 ne è stato il primo riconoscimento. Grazie a una nuova visione geopolitica nippo-americana, inizialmente concepita per contenere la potenza cinese, e all’ascesa dell’India, questo centro geostrategico oscilla ora tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano, trovando la sua incarnazione nel concetto di area indo-pacifica, che oggi concentra la maggior parte del commercio mondiale, dal Golfo di Aden all’Ovest americano. In questa regione, pur ampiamente esplorata fin dal XIII secolo da Marco Polo, l’Italia è ancora molto indietro rispetto alle altre potenze europee. La Francia è l’unico Paese con un territorio significativo nella regione (1,6 milioni di cittadini, 7 mila militari, 93% della Zona economica esclusiva). Il Regno Unito è presente attraverso l’isola di Pitcairn e i suoi storici legami istituzionali con l’Australia e la Nuova Zelanda. La Germania è un importante partner commerciale nell’area, in particolare per la Cina, che è ancora il suo secondo cliente dopo gli Stati Uniti. Tuttavia, l’Italia ha compreso l’importanza di investire nella zona, come dimostrano tre importanti decisioni simboliche e pratiche. • L’adesione al progetto cinese delle nuove vie della seta nel 2019, una scelta che dimostra una forte volontà di impegno ma che è apparsa fortemente ambivalente in termini simbolici, dal momento che l’Italia è l’unico paese occidentale ad aver aderito a questo progetto. La presidenza italiana del G7 ha offerto un’occasione ideale per uscirne, con il pretesto di allinearsi agli alleati (Usa in testa). • L’accordo con Giappone e Regno Unito nel dicembre 2023 per lo sviluppo di un nuovo velivolo da parte di Leonardo, Bae Systems e Mitsubishi Heavy InduCopia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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stries, che consente all’Italia di avvicinarsi a due potenze dell’Indo-Pacifico e di posizionarsi come attore industriale della difesa in quella regione, quindi a livello globale. • La conferma del riavvicinamento con l’India nel 2023 con la visita a Delhi della presidente del Consiglio italiano, che sembra lasciarsi definitivamente alle spalle anni di freddezza diplomatica tra i due paesi e che elimina le restrizioni imposte alle imprese italiane dopo le difficoltà legate alla vicenda AgustaWestland. Nel 2020, la Germania, tradizionalmente poco presente nel Pacifico, ha adottato una strategia indo-pacifica e da allora ha aumentato costantemente la sua presenza militare nella regione (invio di fregate, esercitazioni militari congiunte con l’Australia, scambi in corso con diversi paesi, in particolare Giappone, Corea del Sud e Singapore). Allo stesso tempo, il suo ecosistema di think tank si è notevolmente rafforzato in termini di monitoraggio delle dinamiche regionali. L’Italia sta seguendo questo percorso, con una bozza di strategia indo-pacifica in discussione e diversi annunci di rafforzamento della propria presenza nella regione. Occorre naturalmente fare in modo che questi annunci abbiano un seguito, ma anche lavorare a stretto contatto con gli altri paesi europei storicamente presenti nell’area – Regno Unito e Francia – e con i nuovi arrivati come la Germania.
Conclusioni In questo mondo multipolare, l’unità dell’Occidente di fronte alla Russia nasconde divisioni e vulnerabilità strategiche; il Sud si afferma e cerca di diversificare le sue partnership; l’Estremo Oriente diventa – o riemerge – centro del mondo. Per l’Italia, che ha a lungo sofferto dello spazio occupato dalle vecchie potenze europee, si tratta di un’opportunità unica, perché può affermarsi nel grande gioco globale offrendo un volto diverso della potenza europea e diventare il nuovo partner privilegiato di molti attori in cerca di diversificazione in Europa, Africa e Asia. Per farlo, deve aumentare la propria comprensione delle dinamiche internazionali, sia nel Sud Globale sia nell’Indo-Pacifico, rafforzando il proprio ecosistema di think tank in grado di monitorare questi importanti sviluppi. Ma deve anche produrre una narrazione che la distingua dagli altri paesi impegnati nella competizione internazionale che si è aperta intorno alla riconfigurazione strategica del mondo. L’Italia ha innegabili risorse per avere successo: ma deve imparare a comunicare meglio, tanto è forte l’inerzia che può circondare certi luoghi comuni e pregiudizi. In questo contesto, la presidenza italiana del G7 rappresenta un’opportunità unica sia per riposizionare il profilo internazionale dell’Italia sia per rafforzare la sua coesione interna su queste grandi questioni geostrategiche. Inoltre, è anche un’opportunità di porsi al centro degli sforzi per regolare le questioni chiave del nuovo ordine geopolitico: l’intelligenza artificiale, la transizione energetica, la sicurezza alimentare, lo spazio esterno, le profondità marine – tutte realtà in cui l’Italia ha sia lacune da colmare sia innegabili punti di forza da mettere in campo. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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ROSARIO AITALA - Consigliere scientifico di Limes. Giudice della Corte penale internazionale. ALESSANDRO ARESU - Consigliere scientifico di Limes e autore di Il dominio del XXI secolo. Cina, Stati Uniti e la guerra invisibile sulla tecnologia (2022). ANTONIO BALSAMO - Sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione. EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scientifico di Limes. LAURA CANALI - Cartografa di Limes. GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese. Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina. Coordinatore relazioni esterne e Club Alumni della Scuola di Limes. MAURO DE BONIS - Giornalista, redattore e coordinatore Russie di Limes. Esperto di Russia e paesi ex sovietici. GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filosofia morale allo European Center for Social Ethics (Ecse) dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Collaboratore di Limes. LUCA DI SCIULLO - Presidente del Centro studi e ricerche Idos. GERMANO DOTTORI - Consigliere scientifico di Limes. ROMANO FERRARI ZUMBINI - Abilitato a ordinario in Storia delle istituzioni e delle dottrine politiche e in Storia del diritto. Insegna Storia costituzionale e Storia del diritto all’Università Luiss-Guido Carli di Roma. È presidente del centro studi Paracelsus. ALESSANDRO FRANCESCANGELI - Dottorando in Diritto costituzionale all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. LARIS GAISER - Membro dell’Itstime dell’Università Cattolica di Milano e Senior Fellow al centro studi Globis all’Università della Georgia (Usa). Insegna Geoeconomia e Geopolitica all’Accademia diplomatica di Vienna. GUGLIELMO GALLONE - Laureando magistrale in Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma. Studia all’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. Collabora con Limes e con L’Osservatore Romano. MORIS GASPARRI - Studioso di sport e saggista, collabora con Figc e Sport e Salute. GABRIELE GUZZI - Economista e poeta. Docente di Storia economica all’Università degli Studi Roma Tre. Già consulente economico della presidenza del Consiglio. GIOVANNI LA TORRE - È stato manager del settore finanziario. Ha collaborato con le fondazioni Di Vittorio e Critica liberale. Ha pubblicato diversi libri e saggi su Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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temi economici. È stato per nove anni presidente del Collegio dei probiviri del capitolo italiano di Transparency International. GIACOMO MARIOTTO - Analista geopolitico e collaboratore di Limes. FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifico e responsabile relazioni internazionali di Limes. FEDERICO MASSA - Laureato in Scienze politiche e relazioni internazionali. Studioso di geopolitica degli Stati Uniti. Tirocinante di Limes. JAHARA MATISEK - Tenente colonnello della U.S. Air Force, PhD, docente al dipartimento National Security Affairs dello U.S. Naval War College. MARCO MINNITI - Presidente della Fondazione Med-Or. ORIETTA MOSCATELLI - Caporedattore politica internazionale dell’agenzia Askanews. Si occupa di Russia ed Europa dell’Est. Coordinatrice Eurasia e iniziative speciali di Limes. Autrice di P. Putin e putinismo in guerra (2022). MIRKO MUSSETTI - Analista di geopolitica e geostrategia. Scriver per Limes e InsideOver. Autore di La rosa geopolitica (2021). LORENZO NOTO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica del Mediterraneo. LORENZA PAOLINI - Laureata in Scienze politiche delle relazioni internazionali. Studiosa di geopolitica e tirocinante di Limes. FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della Scuola di Limes. MARC REVERDIN - Consulente internazionale. JACOPO RICCI - Giurista ed esperto di diritto pubblico, è consulente legale per conto di Intellera Consulting. AGNESE ROSSI - Collaboratrice di Limes. Analista geopolitica e studiosa di filosofia. DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes. MARCELLO SPAGNULO - Ingegnere aerospaziale e consigliere scientifico di Limes. GIORGIO STARACE - Già ambasciatore della Repubblica Italiana nella Federazione Russa. MASSIMILIANO VALERII - Direttore generale del Censis. FRANCESCO ZAMPIERI - Docente di Strategia all’Istituto di Studi militari marittimi (Venezia) e Senior Researcher al Centro studi militari marittimi. Docente a contratto al master di Geopolitica e sicurezza globale e al corso di laurea in Sicurezza e Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma. MARIO ZANETTI - Presidente di Confitarma. NILS ZIMMERMANN - Consulente finanziario per le politiche climatiche e sull’energia pulita della Banca mondiale. Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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La storia in carte a cura di Edoardo BORIA 1. An Iodáil, Włochy, Olaszország. Le traduzioni della parola «Italia» non provengono sempre dalla medesima radice latina che ci è familiare, come per Italy, Italie o Italien. Ce lo ricordano i tre casi iniziali, rispettivamente nelle lingue gaelico irlandese, polacco e ungherese. Come per le lingue, anche l’immagine del paese non è sempre la stessa e anzi può variare significativamente smentendo così la nostra fuorviante tendenza a ritenere che tutti abbiano la stessa idea positiva di noi – gente allegra, spaghetti e canzonette. Dobbiamo, invece, ricordarci che non tutti e non sempre accettano l’equazione «italiani, brava gente», e anche quando l’accettano è effimera e soggetta a repentine variazioni. Nella Spagna di un secolo fa l’immagine dell’Italia passò rapidamente dalla cordialità all’ostilità, come dimostra il manifesto cartografico della figura 1, poster repubblicano del tempo della guerra civile contro l’aiuto italiano a Franco. Il «fattore simpatia» che gli italiani ritengono di poter mettere in campo nelle loro relazioni con gli altri popoli come fosse l’asso nella manica da tirare fuori al momento giusto per risolvere la partita, è indicativo della loro cronica incapacità a inquadrare realisticamente il gioco della politica internazionale, con tutto il portato di asprezza e cinismo che essa include. È il frutto della recondita ma pericolosissima inclinazione a immaginarla con le stesse logiche del bar del paese, dove i fronti di una discussione su un fatto di cronaca o su una partita di calcio si stabiliscono in base a elementi di consuetudine e affinità personale. Come se equilibri e alleanze internazionali venissero decise dalla parlantina efficace di un capo di Stato oppure dallo sguardo suadente di un primo ministro donna. Si devono, invece, a fattori ben più solidi: dalla potenza economica al retaggio della storia, dalla disponibilità di risorse al peso demografico, dalla coesione nazionale a quella delle istituzioni. Poi vengono, forse, le capacità e le incapacità dei leader. Fonte: Amado Oliver Mauprivez (Oliver), La garra del invasor italiano pretende esclavizarnos, Junta Delegada de Defensa de Madrid. Delegacion de Propaganda y Prensa. Sindicato profesionales Bellas Artes U.G.T., Madrid 1936 circa. 2-5. «Noi tireremo diritto». Tre parole dette per infervorare un popolo ignorando che nulla l’ha mai fatto entusiasmare più a lungo del tempo di un comizio o di una partita di calcio. Mussolini le pronunciò dal balcone di Palazzo Venezia l’8 settembre 1935, esattamente 8 anni prima che tirassero diritto gli altri facendogli le scarpe. In effetti, avrebbe dovuto sconsigliare l’uso di metafore rettilinee già la disposizione geografica di una terra che la natura ha voluto obliqua, protesa in senso né latitudinale né longitudinale ma curiosamente inclinato in diagonale tra nord-ovest e sud-est. Un orientamento indigesto a una pratica razionalista Copia di 89a987835a9e34aac717c9a86cb9da3b
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quale la cartografia moderna, come dimostrano le figure 2, 3, 4 e 5. Occorsero secoli perché la penisola si raddrizzasse ma si esagerò fino a mostrarla in verticale, una forma meno equivoca e sfuggente di quella sbieca ancorché vera, metafora di un paese perennemente in bilico, refrattario a perpendicolarità geografiche come anche politiche, in una parola «geopolitiche». Uscendo dal gioco del determinismo geografico, si può ricordare che sino alla metà del Seicento le carte geografiche deformavano ampiamente le forme della penisola italiana a causa dell’adesione al modello tolemaico, giunto in Occidente ai primi del Quattrocento. Lo stiramento longitudinale si doveva alla necessità di «riempire» il Mediterraneo, considerato più lungo di circa un terzo rispetto alla realtà. Fonte 2: Gerardo Mercatore, senza titolo, Colonia 1578, Kempen. Fonte 3: Nicolas Sanson, Italie, Paris 1680 circa. Fonte 4: Johann Walch, Charte von Italien, Augusta 1790 circa. Fonte 5: Joseph Mawman, Italy, London 1814. 6. Non fu il duce il primo a darsi come obiettivo l’unità nazionale, ma forse fu quello che lo perseguì con maggiore risolutezza. Lo slogan più efficace sul tema lo lanciò nel suo Foro Mussolini il 28 ottobre 1937: «Il fascismo deve volere che dentro i confini non vi siano più veneti, romagnoli, toscani, siciliani e sardi: ma italiani, solo italiani». L’ennesima previsione sbagliata. Altrettanto dispotico ma probabilmente più saggio l’egiziano Nasser, che aveva chiari i limiti dell’azione dell’autocrate: «Costruire fabbriche è facile, costruire scuole e ospedali è possibile, ma costruire una nazione è un duro e difficile lavoro». Una carta geografica altamente rappresentativa dell’ambizioso tentativo di omologare la nazione è nella figura 6 intitolata «L’Italia fascista», dove le distinzioni regionali sono ridotte all’essenziale lasciando spazio a un’immagine sostanzialmente unitaria del paese. Fonte: Domenico Locchi, «L’Italia fascista», da Costanzo Rinaudo, Atlante storico per le scuole medie, parte III: I tempi moderni, Paravia, Torino 1936, tav. XLVI.
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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
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RIVISTA MENSILE - 9/3/2024 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA