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Italian Pages 324 Year 2023
RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
Nessuno può perdere, nessuno può vincere? I piani per disgregare Ucraina e Russia L’Italia riscopre il vincolo americano
LA GUERRA CONTINUA LIMES È IN EBOOK E IN PDF • WWW.LIMESONLINE.COM
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1/2023 • mensile
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Rivista mensile n. 1/2023 (gennaio) ISSN 2465-1494 Direttore responsabile
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LA III EDIZIONE DELLA SCUOLA DI LIMES
Stiamo vivendo un cambio di paradigma. La storia ha ripreso a correre. Sono necessarie nuove chiavi di lettura. Per capire come cambia il mondo attorno a noi. Per collocare il nostro paese nelle competizioni internazionali. E per difendere e promuovere i nostri interessi in un pianeta sempre più disordinato. La Scuola di Limes è nata per contribuire alla formazione di una nuova cultura e di una nuova sensibilità per la geopolitica nella classe dirigente italiana. Oggi la sua missione è ancora più rilevante. Lo studio dei confitti nello spazio e nel tempo è il sale della geopolitica. La nostra Scuola ofre un metodo di analisi peculiare, assente nei centri di formazione accademici. Ed essenziale per interpretare le crisi che determinano il nostro tempo e il posto dell’Italia nel mondo. La crisi d’identità americana. La competizione Usa-Cina. La Russia in guerra. Il lungo declino degli imperi europei. L’ascesa di nuove potenze, dalla Turchia al Giappone. E molte altre, sino a un rigoroso esame strategico dell’Italia, alfa e omega del nostro ragionamento. La Scuola ofre ai partecipanti l’esperienza e l’autorevolezza della vasta rete di analisti e decisori intessuta da Limes
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in trent’anni di vita. Tutte le lezioni sono tenute dalla Direzione didattica e si avvalgono delle testimonianze di esperti provenienti dai paesi in esame e dotati di conoscenze dirette del tema afrontato, dall’intelligence alle Forze armate, dall’alta tecnologia alla cibernetica. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
La Scuola non dura un anno. Stiamo costruendo una comunità, attraverso la rete degli Alumni di Limes. Per continuare a confrontarci con chi condivide la passione per lo Stato e per i temi che trattiamo. La III edizione della Scuola prende il via venerdì 10 marzo 2023: 120 ore di lezione, tre fne settimana al mese, da marzo a giugno e da settembre a dicembre. Con alcune lezioni dal vivo ed esercitazioni per imparare a scrivere e a cartografare analisi geopolitiche. È possibile candidarsi inviando curriculum e lettera di motivazione all’indirizzo [email protected] La Scuola di Limes è aperta a tutti. Da chi già fa parte della classe dirigente a chi aspira a entrarvi. Da chi vuole acquisire strumenti analitici da integrare nella propria professione a chi è semplicemente mosso da passione e curiosità.
SOMMARIO n. 1/2023 EDITORIALE 7
Come un ladro nella notte (in appendice Agnese ROSSI Spezzatini di Russia in salsa ucraina, polacca e americana) IL SENSO STRATEGICO DELLA GUERRA UCRAINA
PARTE I 35
Fëdor LUK’JANOV - Un nuovo tipo di guerra mondiale
43
Jeffrey MANKOFF - ‘L’America accelera in Ucraina per non fare
la Guerra Grande’ 51
YOU Ji - La Cina si vede così: contro l’America e sopra la Russia
61
Doug BANDOW - Washington gioca col fuoco
69
Nicola CRISTADORO, Germano DOTTORI e Virgilio ILARI - Un anno dopo
Che cosa è diventata la guerra in Ucraina 77
Orietta MOSCATELLI e Mauro DE BONIS - L’imperatore è solo come
il suo impero 89
Igor PELLICCIARI - Dall’operazione speciale alla guerra normale contro gli ‘amerikani’
99
Mirko MUSSETTI - Qualcosa di nuovo sul fronte del Donbas
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109
Anatolij PROKHANOV - La vera posta in gioco per Mosca
117
Fulvio SCAGLIONE - L’Ucraina di domani può spaccare l’Europa
129
Tamila TASHEVA - ‘La Crimea tornerà ucraina’ Oleksij ARESTOVYCˇ - ‘Siamo pronti a negoziare con chiunque
135
succederà a Putin’ 141 PARTE II
Matteo FRIGOLI e Maurizio MARTELLINI - La difesa totale secondo Kiev EUROPEI PERDENTI, TURCO VINCENTE
149
Marco MINNITI - ‘Il mio piano per l’Africa’
155
Fabrizio MARONTA - Le sanzioni tra maschera e volto
171
Heribert DIETER - La Germania riscopre la guerra giusta
177
Elettra ARDISSINO - La paralisi strategica del Regno Unito
187
Olivier KEMPF - La guerra può declassare la Francia
193
Germano DOTTORI - Italiani, allineati e coperti
201
Daniele SANTORO - Il secolo della Turchia?
217
Alessandro POLITI - Non isoliamo i Balcani
225
Dan DUNGACIU e Leonardo DINU - L’unica garanzia di sicurezza della Moldova è la resistenza dell’Ucraina
235
Antonia COLIBA˘ S¸ ANU e George SCUTARU - Romania, fronte del porto
PARTE III
VIRATE IN CORSO NELL’INDO-PACIFICO
245
Giorgio CUSCITO - La Guerra Grande colpisce le nuove vie della seta
255
Bernardino REGAZZONI - ‘Ombre cinesi’
263
SATAKE Tomohiko - Toˉkyoˉ prepara il contrattacco
271
Lorenzo Di MURO - Pechino contro Delhi: l’eterna sfda sul Tetto del mondo
285
Riccardo BANZATO - ‘Rocket man’ si tiene stretti missili e bombe
LIMES IN PIÙ 293
Elio CIRILLO - Leuropa parla inglese per far fnta di esistere Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
AUTORI 301 LA STORIA IN CARTE 303
a cura di Edoardo BORIA
LA GUERRA CONTINUA?
Come un ladro nella notte M
1. AI NELLA STORIA I MASSIMI IMPERI SI SONO TROVATI contemporaneamente in crisi. Al punto da tutti temere per la propria esistenza. Condizione intollerabile per chi dalla nascita coltiva una grandiosa idea di sé. I colossi futano il pericolo prima degli altri. L’aria rarefatta che si inala alle vette della potenza eccita la sensibilità al declino. Ne fa ossessione. Facile perdere il controllo. E fnire fuori strada, trascinando con sé rivali, soci e passanti. Se poi i protagonisti dispongono di armi defnitive, tanto evolute da potersi rivoltare contro chi presume di maneggiarle, scatta l’allarme generale. Con l’inevitabile guerra delle narrazioni. Crolla il principio di realtà. Nulla è certo, tutto è credibile. La comunicazione intossicata disinforma fnanco i decisori che la producono. Per i mestieranti dell’analisi geopolitica che siamo, recuperare il flo degli eventi, stabilirne la gerarchia e concepirne lo svolgimento futuro è quasi impossibile. Il quasi è di incoraggiamento. Questa è, se vi pare, la Guerra Grande. Una sola certezza: è appena cominciata e nessuno può immaginarne la fne. Nemmeno l’inizio è fuori discussione, acclarato che la sgangherata marcia su Kiev avviata da Putin il 24 febbraio 2022 si voleva preludio alla parata della vittoria, non alla prolungata guerra d’attrito fra America e Russia in ripida scalata verso lo scontro diretto. E tuttavia a quel chiodo sulla parete dobbiamo fssarci per uno sguardo dall’alto sul sisma che sta ridistribuendo il potere su scala planetaria. Guerra Grande, appunto, disegnata dai tre protagonisti – Stati Uniti, Cina e Russia – in due teatri principali. Con la prima Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
coppia di antagonisti in frizione sempre meno fredda nell’Indo-Pacifco, mentre russi e americani si affrontano lungo i bordi dell’Eurasia occidentale, fra Mar Nero e Baltico, epicentro Ucraina (carta a colori 1). 2. L’occidentalizzazione del globo è fallita. La trentennale parabola che dalla vittoria dell’America contro l’Unione Sovietica conduce all’invasione russa dell’Ucraina di fatto atlantica traccia il tramonto di quell’alba a stelle e strisce che nel dopo-Muro aveva ipnotizzato il mondo. Eppure quell’ossimoro logico e geopolitico concepito da febbricitanti neoconservatori americani altrettanto ossimorici era fno all’altro ieri senso comune. Oggi quella verità non è creduta tantomeno voluta da gran parte degli stessi americani. Neanche dal più acuto fra i neocon viventi, Francis Fukuyama, che all’americanizzazione del mondo applicò nel 1992 l’etichetta defnitiva: The End of History 1. Ma già nel 2006 spergiurava: «Noi non vogliamo vivere in un mondo nel quale abbiamo gli stessi valori universali basati su qualche sorta di americanismo globalizzato» 2. La fne della storia siamo noi europei imbambolati nella contemplazione della nostra civiltà «gentile» mentre fuori la foresta brucia. La villa nella giungla si congratula con sé stessa mentre la giungla dilaga nella villa. In carenza di egemoni alternativi, la successione all’utopia dell’Occidente globale, fondativa dell’impero americano, sarà lenta, dolorosa, precaria. La Guerra Grande ne è espressione al grado bellico, capace di terza guerra mondiale. Ma gli storici non farebbero in tempo a classifcarla tale visto che probabilmente coinciderebbe con la fne dell’umanità. L’opposto della fne della storia. La primazia a stelle e strisce è sotto attacco, dall’esterno ma soprattutto da dentro casa, scossa dal dubbio esistenziale: «Chi siamo?» 3. A sfdarla risorgimento cinese, revanscismo russo e sconcerto dei satelliti veteroeuropei di Washington, fra cui brilla il Belpaese. Tre vettori che si ritorcono contro le velleità americane di egemonia planetaria. Quando in tempo inconoscibile l’alfa a stelle e strisce scolorerà in omega, scopriremo che insieme alla fatica imperiale del Numero Uno determinante non sarà stata tanto l’arroganza cinese o la disperazione russa, quanto il cedimento del fronte europeo. Compagnia del bel tempo, spaesata quanCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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1. F. FUKUYAMA, The End of History and the Last Man, New York, NY 2006, The Free Press. L’edizione originale è del 1992, elaborata dal saggio «The End of History?», The National Interest, estate 1989. Con imprudente omissione del punto interrogativo, per cui l’autore si morderà pubblicamente le dita. 2. Ivi, p. 344. 3. Cfr. S. HUNTINGTON, Who are We? America’s Great Debate, London 2004, Simon & Schuster.
LA GUERRA CONTINUA
do rannuvola, dispersa nella tempesta. Ma senza il Vecchio Continente l’impero a stelle e strisce non ha senso. Fin qui l’analisi classica. Utile perché sintetica. Però conftta nei paradigmi otto-novecenteschi cari agli ultimi credenti nell’ordinabilità del pianeta. Quali politeisti nel tardo antico virante al cristianesimo, costoro immaginano di mettere le brache al mondo come s’usava a Vienna o a Jalta. Henry Kissinger, ovvero Giuliano l’Apostata, è l’ormai centenario vate controcorrente che insiste, da idealista spacciato per bieco Realpolitiker, sulla possibilità dell’Ordine Mondiale per l’ottima ragione che è necessario. Nobile utopismo fuori tempo. Nelle storie, cui Kissinger meritoriamente ci esorta, c’è la stagione dell’ordine, quando si consolidano gli equilibri sanciti dai sedati confitti, e c’è quella del disordine, in cui si combatte per un ordine altro. La novità è che a differenza della doppia guerra mondiale (1914-45) diffcilmente la collisione dei tre imperi produrrà un Grundgesetz universale, una costituzione geopolitica concordata fra le potenze. Perché le potenze si svelano straordinariamente impotenti. Non più in grado di ridurre la complessità del sistema, anche solo della frazione di sistema, che pretendono governare. Commuove rileggere l’incipit di Diplomacy, summa del pensiero kissingeriano che nel 1994 intuiva, per chi volesse spingersi oltre le righe, il percorso verso la Guerra Grande. L’emulo di Castlereagh si rendeva forse conto delle conseguenze implicite nella sua tesi per cui l’America non può più dominare il mondo né estraniarsene? Le prime righe di quel capolavoro scandivano le cadenze della partizione ciclica della storia, moda che stava scadendo sotto i nostri occhi come il fnale di una gara a staffetta: «Quasi come per una legge di natura, in ogni secolo sembra emergere un paese con il potere, la volontà e l’impeto morale e intellettuale di forgiare l’intero sistema internazionale in accordo con i suoi propri valori. Nel Seicento la Francia del cardinale Richelieu introdusse l’approccio moderno alle relazioni internazionali, basato sullo Stato nazionale e motivato dagli interessi nazionali in quanto scopo ultimo. Nel Settecento la Gran Bretagna elaborò il concetto dell’equilibrio della potenza, che dominerà la diplomazia europea per i successivi duecento anni. Nell’Ottocento, l’Austria di Metternich ricostruì il Concerto d’Europa e la Germania di Bismarck lo smantellò, ridisegnando la diplomazia europea quale gioco a sangue freddo tra politiche di potenza» 4. L’elenco culmina con l’affermazione dell’America nel Novecento, superpotenza ambigua, pendolante fra ambizione di ergersi a faro dell’umanità e tenCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. H. KISSINGER, Diplomacy, New York 1994, Simon & Schuster, p. 17.
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
tazione di imporre i suoi valori ai refrattari. A forza di oscillare fra moralismo benigno e spirito guerriero, questa America non si identifca né con l’uno né con l’altro. Nessun’altra potenza può prenderne il posto. Se non hai a chi cedere il testimone, due ipotesi: lo tieni fnché puoi o lo lasci cadere per terra. La Guerra Grande è tutta qui. Per coglierne senso e possibili derive non possiamo limitarci a leggerla entro gli assi cartesiani della scienza internazionalistica e nelle versioni accademiche della distribuzione del potere, depurate d’ogni traccia storica. Modelli sorti nella tardo-ottocentesca età degli standard, quando forti spiravano vento positivista e fducia nel progresso. Trionfo di pesi e misure convenzionali, dal diritto internazionale inaugurato con la prima convenzione di Ginevra (1864) al metro di Sèvres (1872), dai fusi orari (1884) al meridiano di Greenwich (1885). Regole perfezionate nel secondo Novecento, circonfuse di universalismo tipicamente occidentale, mite prosecuzione della «missione civilizzatrice» inscritta nel colonialismo europeo, specie nella laicistica versione francese. Certifcata dalla gerarchia delle potenze prima europee poi americana. A Washington il merito di aver fuso le dissonanti ermeneutiche geopolitiche e le divergenti antologie valoriali che ispiravano europei e americani nel sistema atlantico a guida americana: the West. Ma il rules-based international order – inglese per Pax Americana – è immangiabile per the Rest, stragrande maggioranza degli umani. Sicché pare meno attraente persino per noi privilegiati del West europeo, indisposti a imporlo con la forza delle armi. Di quel paradigma residuano rifessi pavloviani, per cui attori geopolitici in contrasto s’industriano a legittimare guerre e altri orrori con arditi riferimenti alla Carta dell’Onu o ad altro materiale pieghevole vestito da cosmopolitismo umanitario. Mero abbellimento dei rapporti di forza. L’impotenza relativa dei potenti complica l’analisi. Implica di includervi i fattori che ostacolano la riduzione della complessità cui tali dispute mirano, così eccitando l’entropia del «sistema» – le virgolette a indicarne la decadenza. Su tutti demografa, ambiente ed epidemie diffuse (vulgo: pandemie). Non si gestisce un pianeta di otto miliardi abbondanti di umani, con più di duecento Stati e diverse migliaia di rilevanti attori informali o non statuali, come fossimo nel 1914, quando una manciata di imperi europei si spartiva insieme al nascente colosso americano un mondo popolato da meno di due miliardi di anime. Di cui oltre metà trattati da subumani, giuste le gerarchie razzistiche omologate all’epoca. Le asimCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
metrie demografche e le divaricazioni nell’età mediana fra soggetti e continenti contigui – massimo il caso della faglia euro-africana che divide Caoslandia da Ordolandia a ridosso della nostra frontiera con le Libie – potranno decidere nel medio periodo di confitti effettivi o latenti. E ci costringeranno a ritoccare le frontiere fra i due emisferi (carta a colori 2). Né le drastiche alterazioni dell’ambiente prodotte dall’uomo e dai mutamenti climatici o dall’insieme delle loro relazioni si lasciano descrivere con i paradigmi otto-novecenteschi, quando tali urgenze neanche si ponevano. Geopolitica consiglia di non cadere nel semplicismo che vuole «soluzioni globali a problemi globali». Vero il contrario: l’impatto asimmetrico del cambio di clima non può che produrre specifche reazioni contrastive. Si consideri il caso della rotta artica, partita coperta ma centrale nella Guerra Grande, dove la fusione dei ghiacci esalta l’entusiasmo russo per il futuro controllo della più economica connessione oceanica fra Asia, Europa e America, mentre scatena le opposte preoccupazioni di Pechino e Washington. Quanto alla «pandemia», ovvero la strage da Covid-19, troppo evidenti le ricadute geopolitiche ed economiche, a partire dalla chiusura di frontiere esterne e interne e dalla costruzione di muri nella gentile, civilissima Europa «unita» e altrove. Meno visibili, però forse più importanti e duraturi, gli effetti psicologici e culturali dell’«altro virus», contagio mentale di massa che altera le scelte dei decisori, meno decisivi che nel passato 5. Infne, la Guerra Grande è anche calda. E la guerra calda rischia di sfuggire al calcolo umano grazie all’applicazione dell’intelligenza artifciale (Ai) nelle tecnologie di comando e controllo. Stiamo per varcare la soglia delle armi autonome. Incompatibili con la strategia. Che senso avrà la deterrenza nella guerra cibernetica retta dai princìpi dell’intelligenza artifciale se questa sarà sottratta al controllo dell’uomo? Siamo ancora in tempo per arrestare la deriva? Dalla risposta dipende se l’umanità avrà un futuro. Ragione di più per scandagliare il fronte di guerra ucraino. Teatro tragicamente sospeso tra antichi e nuovissimi stili bellici. Dove il fattore umano, sale della geopolitica, è saturo di storia. Di storie incondivisibili e inconciliabili. Troppo vicino a noi italiani e altri europei, troppo indirizzato verso lo scontro frontale russo-americano e troppo imprevedibile per non obbligarci a scavarne le radici. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. Cfr. Limes, «L’altro virus», n. 1/2022.
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
3. Quest’anno i liceali russi sono chiamati dal presidente Putin a testimoniare il proprio patriottismo partecipando al concorso a premi «Novorossija: da Caterina la Grande ai nostri giorni». Scocca infatti il duecentoquaranteManifesto per il concorso sulla Nuova Russia simo anniversario del manifesto con cui la zarina di stirpe germanica incorporava nell’impero Crimea, penisola di Taman’ e territorio di Kuban’ – nucleo originario della Novorossija (Nuova Russia), affaccio russo sul Mar Nero (fgura). I giovani patrioti sono esortati a «immergersi nella storia» per «ricostruire la Russia e riprenderci tutto quello che è nostro, indipendentemente dall’opinione e dall’opposizione dei nostri partner occidentali, destinata a durare a lungo». Cinque le nominations neorusse tra cui scegliere per sfogare la propria creatività: «Nato dal profondo dell’anima» (bibliografa); «Fermati un attimo» (pittura); «Melodie della Novorossija» (musica); ArchHistory – licenza occidentale sfuggita al correttore; «Destini» (vite di personalità storiche). Obiettivo: mobilitare gli studenti nello «studio di eventi storici che testimoniano la comunanza culturale di Russia e Nuova Russia» 6. Pura pedagogia imperiale. La Nuova Russia è la posta per cui Putin sta rischiando il suo residuo d’impero nello scontro con l’«Occidente collettivo» (carta a colori 3). Mito geopolitico, indefnito nello spazio e nel tempo perché strumentale all’espansione della patria. Metafora territoriale e spirituale. Evocativa delle regioni affacciate sul Mar Nero strappate da Caterina II agli ottomani tra 1768 e 1774. Imperniate su Odessa e di lì estese fno alle coste del Mar d’Azov, abitate da popolazioni di vario ceppo. Ancora nel censimento del 1926 i russi erano netta minoranza (17%), con prevalenza di ucraini e minoranze tatare, romene, ebraiche. Per la russifcazione della Nuova Russia toccherà attendere l’industrializzazione staliniana degli anni Trenta. Ma a che valgono le statistiche di fronte alla sacralità della terra che la Russia vuole rinnovare eponima? La Nuova Russia è avanguardia del Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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6. Curiosi o nostri lettori in erba interessati a iscriversi al concorso possono consultare il sito www.concurs-history.ru
LA GUERRA CONTINUA
vagheggiato Mondo Russo (Russkij Mir), da scavare nello spazio già sovietico per aggruppare sotto Mosca un impero che ridia ferezza al popolo russo. Civiltà prima che nazione. Frantumata via parto cesareo multiplo della morente madre sovietica, che nella notte fra il 25 e il 26 dicembre 1991 abbandonò in Stati altrui 25 milioni di «compatrioti». Vergogna da riparare. Impresa per la quale Putin intende passare alla storia. Improbabile. Ma senza cogliere il valore identitario del molto operativo mito neorusso poco si capisce della guerra in Ucraina. La riconquista della Nuova Russia eleverebbe Putin a erede della grande Caterina. Con parole sue: «In tempi zaristi ciò che si chiamava Nuova Russia – Kharkov, Lugansk, Doneck, Kherson, Nikolaev e Odessa – non era parte dell’Ucraina. Quei territori vennero dati all’Ucraina negli anni Venti del Novecento dal governo sovietico. Perché? Chissà. (…) Il centro di quella terra era Novorossijsk, sicché la regione è chiamata Novorossija». (carta 1) 7. Cent’anni dopo, la Nuova Russia torna al centro dello scontro fra Mosca e Washington via Kiev. Se Putin riuscirà a riportarla a casa, avrà incassato un tattico premio di consolazione, spendibile in casa, che addolcirà l’arretramento strategico su scala globale cui l’avventura del 24 febbraio l’ha esposto. Se fallirà, passerà alla storia come l’ultimo imperatore. E la Federazione Russa sarà umiliata, forse spartita fra potenze esterne e potentati o mafe domestiche. Gli strateghi del Cremlino lavorano da anni alla demarcazione dello spazio neorusso, adattabile come ogni leggenda. Dalla poetica del mito alla prosa geopolitica. Come rivelato da Dmitrij Trenin, analista flo-occidentale deluso dalla deriva asiatica, già nel 2008 «alcuni ambienti non propriamente accademici di Mosca giocavano con l’idea di ridisegnare radicalmente l’area del Mar Nero settentrionale, per cui l’Ucraina meridionale, dalla Crimea a Odessa, si sarebbe staccata da Kiev per formare uno Stato cuscinetto flomoscovita, Nuova Russia» (carta 2) 8. L’idea era e rimane prendere tre piccioni con una fava: chiudere all’Ucraina lo sbocco al mare, per costringerla a rigravitare attorno alla Russia; rovesciare il declino avviato con il suicidio sovietico ravvivando lo spirito grande-russo; per poi trattare con la Turchia, guardiana degli Stretti, un condominio eusino tale da garantire a Mosca l’accesso libero al Medioceano. L’annessione delle quattro oblast’ ucraine che saldano alla patria la Crimea – per Putin l’equivalente russo-ortodosso di GeruCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
7. V. PUTIN, «Direct Line with Vladimir Putin», kremlin.ru, 17/4/2014. 8. D. TRENIN, Post-Imperium: A Eurasian Story, Moscow 2011, Carnegie Center.
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
1 - LA SECONDA PROVINCIA DI NOVOROSSIJSK TRA 1796 E 1800
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Fonte: G. Turčenko, F. Turčenko, Проект «Новороссия» 1764–2014 гг. (Progetto «Novorossija» 1764-2014)
LA GUERRA CONTINUA
salemme – è il primo passo, da consolidare, della marcia su Odessa. Il 21 settembre scorso al Cremlino, nella mesta cerimonia di riammissione in patria dei territori di Luhans’k, Donec’k, Kherson e Zaporižžja il presidente le ha battezzate «terre storiche della Nuova Russia». Concetto abbastanza elastico da potersi estendere a Odessa, fnanco alla Transnistria, exclave moldova in mano russa dal 1992, in modo da premere sul delta del Danubio e sulla super-base Nato di Costanza (carta a colori 4). Putin avrebbe potuto realizzare questo sogno nella primavera del 2014, sullo slancio del colpo di mano in Crimea e della rivolta florussa (meglio: anti-ucraina) nel Donbas. L’esercito ucraino era allo sbando, ma al Cremlino prevalse la prudenza. Il comandante supremo della Nato in Europa, generale Philip Breedlove, dava per scontato che ripresa la Gerusalemme russa con il porto di Sebastopoli le avanguardie di Mosca sarebbero penetrate fno alla Transnistria 9. Il piano era pronto dal febbraio e prevedeva che la rivolta nel Donbas e a Odessa sarebbe sfociata nell’annessione per referendum delle regioni orientali e meridionali dell’Ucraina. Nuova Russia molto espansa, dunque, per compensare il previsto crollo del regime di Viktor Janukovy0, ottimisticamente considerato florusso. Processo piuttosto brusco, travestito in forma legalistica ispirata al modello delle Euroregioni reinterpretato da certi revanscisti tedeschi, specie bavaresi, dopo la caduta del Muro: regioni transfrontaliere come ponti per agganciare e recuperare territori perduti nel 1945, dalla Slesia alla Pomerania ai Sudeti. Mascheramento con allegre tinte brussellesi di grevi ambizioni pangermaniche 10. Nella primavera-estate del 2014 il Cremlino aveva sostenuto la ribellione anti-ucraina nel Donbas e a Odessa, con tanto di appello presidenziale agli «insorti della Nuova Russia» 11. Miliziani florussi, agenti di Mosca e «uomini verdi» senza insegne, appena vittoriosi in Crimea, avrebbero raggiunto l’obiettivo con una operazione speciale di taglia ben minore rispetto all’infelice blitz del 24 febbraio scorso. Le terre irredente sarebbero state recuperate alla Grande Madre. I «falchi» rimproverano a Putin di non aver osato allora l’invasione. Sergej Glaz’ev, una delle menti del proCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
9. L. HARDING, «Russia ready to annex Moldova region, Nato commander claims», The Guardian, 23/3/2014. 10. Il progetto russo di annessione è in «Novaya Gazeta’s “Kremlin papers” article: Full text in English», unian.info, 25/2/2015. Per l’uso espansionistico delle Euroregioni da parte tedesca, specie bavarese, cfr. M. KORINMAN, «Euroregioni o nuovi Länder?», Limes, «L’Europa senza l’Europa», n. 4/1993, pp. 65-78. 11. N. MACFARQUAR, A.E. KRAMER, «Praising Rebels, Putin Toughens Tone on Ukraine», The New York Times, 29/8/2014.
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
getto neorusso, ricorda come dopo il ratto della Crimea il presidente rifutasse di scagliare le sue truppe in quell’avventura, pretendendo che fossero insorti locali a fare la prima mossa 12. Risultato: oggi Putin si trova con «il culo su due sedie che si stanno allontanando lentamente l’una dall’altra». Dobbiamo l’elegante metafora a Igor’ Girkin, famigerato colonnello dell’Fsb e combattente irredentista antemarcia 13. Le stenografe mediatiche trascurano che Putin non ha né mai ha avuto il controllo diretto della partita del Donbas. Il presidente è il regolatore supremo delle iniziative affdate zona per zona alla responsabilità dello specifco kurator, fgura vicariale – variante russa di un modello tipico degli Stati patrimoniali altamente informali – cui il capo affda pro tempore la regia delle operazioni sul campo. Missione ardita in quel groviglio di opportunisti, fanatici, paracapitalisti di ventura, mercenari e signori della guerra in competizione permanente. L’Ucraina è un cimitero di procuratori russi falliti o liquidati. La disgrazia del primo kurator dell’avventura neorussa, Vladislav Surkov, scintillante ideologo di cui si sono perse le tracce, illustra il caos in cui s’è impantanata l’operazione Nuova Russia. Difatti non ve n’è mai stata una, ma diverse per ispirazione, qualità, risorse, obiettivi. Tre le principali, di cui nessuna perfettamente allineata con Putin, una addirittura avversa, ma tutte da lui strumentalizzate quando necessario. Esitazioni e contraddizioni del Cremlino dallo smacco di Kiev (febbraio 2014) in avanti sono anche fglie dei contrasti fra le tre correnti neorussiste, identifcabili come rossa, bianca e bruna. Sfumature di ultranazionalismi in armi, dotati di supplementi d’anima e misticismi assortiti. Tutto molto russo 14. La corrente rossa è neosovietica. Colora di socialismo le utopie della Grande Russia. Il suo mentore è Aleksandr Prokhanov, in collaborazione con Aleksandr Dugin (quest’ultimo infuente anche fra bianchi e bruni). Il primo, ormai ottantacinquenne, era già noto scrittore e giornalista in età sovietica, più comunista del Partito comunista dell’Urss di cui infatti rifutava la tessera. La sua Nuova Russia fa leva sul flosovietismo diffuso nel Donbas – semplifcato in florussismo dal mainstream occidentale – che vorrebbe libero dagli oligarchi. In vista del Quinto Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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12. Cfr. G. TOAL, Near Abroad. Putin, the West and the Contest over Ukraine and the Caucasus, Oxford 2017, Oxford University Press, pp. 249 s. 13. A. BRASCHAYKO, «Chi è Igor Girkin, il “falco” russo condannato per l’abbattimento del volo MH17», Il Foglio, 17/11/2022. 14. Seguiamo qui l’interpretazione proposta da M. LARUELLE, «The three colors of Novorossiya, or the Russian nationalist mythmaking of the Ukrainian crisis», Post-Soviet Affairs, vol. 32, n. 1, 2016, pp. 55-74.
1 - TUTTO UN ALTRO MONDO
Teatri della Guerra Grande
CAOSLANDIA Area di massima concentrazione dei confitti, del terrorismo e della dissoluzione degli Stati
Epicentri della Guerra Grande
erra Gu
Via della seta artica prossima ventura
russo-americana FEDERAZIONE RUSSA
Mosca
o-americana a sin Sfd
UCRAINA USA
Pechino
Washington
GIAPPONE
CINA
Hawaii (Usa) INDIA
AM
TN
VIE
MALAYSIA
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Il triangolo della Guerra Grande Guerra russo-americana Coppia sino-russa in crisi Sfda sino-americana
MA GER
CIA
AN
FR
NIA
Avanguardie antirusse Alleato Nato ambiguo e autocentrato
ITALIA NA AG P S Paesi dell’EuroQuad
TAIWAN WAN FILIPPINE Guam (Usa) USA
INDONESIA
AUSTRALIA Quad (Usa, Australia, Giappone, India) Basi strategiche Usa per la pressione verso la Cina Isole o atolli statunitensi Avanguardie anticinesi Sub-imperi in (ri)formazione Tensioni coreane
Proiezione Usa nell’Oceano Pacifco
CAOSLANDIA Area di massima concentrazione dei confitti, del terrorismo e della dissoluzione degli Stati
2 - CAOSLANDIA (VERSUS ORDOLANDIA) LIMES INTERMARIUM Linea di faglia tra Nato e Russia compresa tra il Mar Baltico e il Mar Nero
FEDERAZIONE RUSSA C AOSLA
N
D
I A
FAGLIA MEDITERRANEA Confne tra il mondo dell’ordine e Caoslandia
Corea del Nord Minaccia balistica e nucleare
STATI UNITI CINA
FASCIA SAHELIANA CA
I CONFLITTI NEL MONDO
D C AO SL A N
Area di crisi Nato-Russia
IA
OS
Area di crisi del Levante
LA
CA
Area di crisi dei Mari Cinesi
OS
LA
CAO
ND
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SLANDIA
Attori protagonisti:
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
ND Confitti e instabilità siro-irachene IA Insurrezione di Boko Haram (Nigeria, Niger, Ciad, Camerun) Confitto interno e instabilità in Afghanistan Confitti curdo-turchi (Turchia, Siria, Iraq) Guerra civile somala Terrorismo jihadista in Pakistan Guerra della droga Confitti e instabilità nelle Libie Guerra in Yemen Instabilità in Sinai Guerra in Sud Sudan Invasione russa dell’Ucraina Kashmir conteso Instabilità del Balucistan (Pakistan e Iran) Insorgenza e repressione organizzazioni etniche armate Tensione israelo-palestinese Guerra civile nel Mali Instabilità nel Sahel Gruppi islamisti e mafe del deserto
Confitto del Tigrè (Etiopia) Confitti nel Centrafrica Guerra nella Repubblica Democratica del Congo Instabilità islamista nel Caucaso del Nord Instabilità nel Xinjiang (Cina) Confitti locali in India Insurrezioni islamiste/separatiste nelle Filippine e in Malaysia Guerra della droga (basi logistiche dei cartelli messicani della droga) Formazioni jihadiste attive (Gˇamā‘a aI-Islāmiyya e Abū Sayyāf) Confitto Armenia-Azerbaigian per il Nagorno-Karabakh
STATI UNITI FED. RUSSA CINA Coprotagonisti: GERMANIA FRANCIA TURCHIA IRAN
Libia turca Libia russa
GIAPPONE
3 - NOVOROSSIJA 2.0
Questa è la Nuova Russia (Novorossija), per usare la terminologia della Russia zarista; Kharkiv, Luhans’k, Donec’k, Kherson, Mykolajiv e Odessa allora non facevano parte dell'Ucraina. Questi territori furono dati all'Ucraina negli anni Venti dal governo sovietico. Come mai? Dio sa! (Vladimir Putin, 2021)
BIELORUSSIA POLONIA
VOLINIA RIVNE LEOPOLI
Černihiv
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ČERNIHIV
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Odessa
LUHANS’K
Luhans’k DNIPROPETROVS’K P Donec’k Zaporižžja I D Kryvyj Rih A DONEC’K J
I SS O R O NOV ZAPORIŽŽJA
Kherson
KHERSON
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Delta del Danubio Sebastopoli
BULGARIA
r
U
OL
TRANSNISTRIA (Protettorato russo de facto interno alla Moldova) BUDŽAK (Regione storica ucraina florussa. Repubblica popolare di Bessarabia mancata) GAGAUZIA (Regione autonoma moldava florussa)
KHARKIV ne
KIROVOHRAD
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Kharkiv
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Kirovohrad
Annessioni russe: 2014 2022
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Ternopil’ TERNOPIL’ Užgorod IVANOTRAN SCA RPA FRANKIVSK UNGH. Z
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L’viv (Leopoli)
M a r M a r
CRIMEA (Annessa alla Fed. Russa) N e r o N e r o
M M aa rr dd ’’ AA zz oo vv
Repubblica popolare di Luhans’k Repubblica popolare di Donec’k
FEDERAZIONE RUSSA
4 - FORTEZZA TRANSNISTRIA
Progetto di una nuova centrale idroelettrica che ridurrebbe drasticamente il fusso di acqua Possibili infltrazioni dall’Ucraina di gruppi ultranazionalisti Fium e
Rozkopyntsi
D
O B L A S T’ DI ČERN I VCI
TRANSNISTRIA Distretti della Transnistria: Camenca Rîbniţa Dubăsari Grigoriopol Slobozia Bender Tiraspol e hinterland
U C R A I N A nes tr
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Rîbnița
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(stoccaggio di munizioni)
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MOLDOVA
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Dubăsari Ungheni (centrale idroelettrica)
A
Nuovo gasdotto dalla Romania alla Moldova
O B LA ST’ D I O D E S S A
Chișinău
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Gura Bâcului Bender
A
Tiraspol (capitale) Dnestrovsc (centrale termoelet.) Odessa
O B LA ST’ D I O D ES S A Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
K IA ŽA AB D ) R BU SA ICA S R E (B STO
Transinistria Parti della Transnistria governate da Chișinău
Possibile ponte aereo russo tra Tiraspol e la Crimea
Giurgiulești Porto mercantile
Isola dei Serpenti
(Moldova)
O
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Mar Nero
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D anubio
Parti della Bessarabia governate da Tiraspol
De
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Base aerea Nato Mihail Kogălniceanu
Bucarest
(aeroporto di Costanza)
nubio Da
B U L G A R I A
Costanza Ponti di collegamento sul Fiume Dnestr Lungo il confne tra Moldova e Transnistria ci sono dogane mobili
Basi russe BIELORUSSIA Klincy 1-2-3 Druž Dispositivi navali ba (o Orël l eodotto Rečica Zyabrovk ) Fascia minata attorno Klimovo Bovharka alla linea di contatto FEDERAZIONE RUSSA VOLINIA Przewodów Blocco navale russo Volodymyr (15/11/22) località RIVNE (Mar Nero) ČERNIHIV Pastoyalye Dvory polacca dove è caduto il Černihiv missile terra-aria “ucraino” Oblast’ del Donbas Voronež Luc’k SUMY Rivne ŽYTOMYR Černobyl’ Desna ) L’viv (Leopoli) dotto Žytomyr (o leo Javoriv Sumy a b Belgorod ž u Dr Kiev SLOV. LEOPOLI TERNOPIL' Okhtyrka Khmel’nyc’kyj K I E V Valujki IVANOPOLTAVA FRANK. Kharkiv Vinnycja SC Čerkasy AR PA Z UNGH. J Izjum F. ČERKASY VINNYCJA IA KHARKIV Dn ČERNIVCI LUHANS'K e Kanatovo F. r Dnipro Dn KIROVOHRAD Bakhmut Esplosioni e bombardamenti Kropyvnyc’kyj DNIPROPETROVS'K Ucraina del Sud Kryvyj Rih Luhans’k Battaglia d’attrito per Bakhmut Kamensk-Shakhtynsky Zaporižžja TRANSNISTRIA e Soledar DONEC'K MYKOLAJIV Donec’k ODESSA Incidente di elicottero a Brovary Kuzminsky Mykolajiv del 18/01/2023, in cui hanno Kadamovsky Tiraspol Zaporižžja ZAPORIŽŽJA Kherson perso la vita il ministro dell’Interno Odessa Denys Monastyrs’kyj, il suo vice Melitopol’ Centrali nucleari operative Mariupol’ N. Kakhovka Evgenij Enin e il segretario di Stato Centrale nucleare dismessa all’Interno Jurij Lubkovič Berdjans’k KHERSON POLONIA
N
KH M EL’N YC
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Delta del Isola Danubio dei Serpenti
Possibile penetrazione di Russia e Bielorussia verso Kiev
5 - IL FRONTE UCRAINO Fonti: Liveuamap e autori di Limes aggiornata al 30 gennaio 2023 ore 13
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Oč
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tr es A DOV OL M ru t F. P
Bombardamento di un condominio di Dnipro del 14/01/2023 che ha causato 44 morti civili Riconquista ucraina
Novoozerne 1 e 2
CRIMEA
Fiolent Krug Cdaa Sebastopoli M a r N e r o
Ma r d’ Azo v Opuk
Territorio controllato dalla Russia Obiettivi strategici della campagna militare russa Territori russi e florussi Rep. Popolare di Luhans’k Rep. Popolare di Donec’k Crimea Transnistria (regione moldava florussa)
6 - CORIANDOLI DI RUSSIA
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6 bis - IDEE UCRAINE PER IL DOPO-RUSSIA
7 - NEL TEATRO INDO-PACIFICO RUSSIA
1 Isole Paracel contese tra Cina, Taiwan e Vietnam 2 Isole Spratly contese tra Cina, Filippine, Brunei, Malaysia, Taiwan e Vietnam 3 Bhutan
★
I 10 dell’Asean
★
mi r
★ ★
GIAPPONE (potenza in ascesa) OCEANO PACIFICO
Mar Cinese Orientale
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★
Ka
Paesi del Quad
★
★ ★
Isole Senkaku PAKISTAN
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TAIWAN 3
I N DI A Mare Arabico
★
MYANMAR
★
★
★ ★
Golfo del Bengala
★
★
Mar delle Filippine
Guam perno Usa
FILIPPINE
Mar Cinese
THAILANDIA VIETNAM Meridionale CAMBOGIA 2 Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
★
HONG KONG Hainan 1
LAOS
e di isol tena
C I N A
Stretti Malacca Sonda Lombok Makassar Balabac Mindoro Luzon Taiwan Tsushima
a ca ond Sec
Alleati (inafdabili) della Cina
★
COREA DEL NORD COREA DEL SUD
MONGOLIA
Possibili micce belliche Normalizzazione cinese di Hong Kong Taiwan si allontana dalla Cina
★
★ ★
BRUNEI M A L A Y S I A SINGAPORE
USA
Rotta principale Cina-Europa Direttrici strategiche cinesi per il dominio dell’Indo-Pacifco: oltre la seconda catena di isole e oltre Malacca
OCEANO INDIANO I N D
O N E S I
A ★
★
★
★ ★
AUSTRALIA
8 - UNA STRATEGIA ITALIANA PER METÀ SECOLO
Medioceano (Mar Mediterraneo più Mar Rosso)
FEDERAZIONE RUSSA Berlino UCRAINA
GERM.
Parigi FRANCIA
Aree di stabilizzazione e moderata infuenza italiana
Sa
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Washington
Roma ITALIA
(asse da aggiornare)
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Rotta balcanica
Kabul
TURCHIA
AFGHANISTAN SIRIA Tensione permanente Marocco- Algeria
TUNISIA
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EGITTO
ALGERIA LIBIA
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AREA DI RESPONSABILITÀ DEL TRIANGOLO STRATEGICO NIGER Agadez
Fascia
CIAD
ARABIA SAUDITA SUDAN Triangolo strategico
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
MALI
QATAR E.A.U.
di tensione saheliana
Berlino Parigi
Bamako
Conakry
GUINEA
Unione Europea
Faglia di “Caoslandia” Perni di co-stabilizzazione nordafricana
Paesi in guerra Paesi fortemente instabili
Paesi extraeuropei coinvolti nella gestione del Mediterraneo
Gibuti ETIOPIA
Roma
Potenze esterne infuenti in Nord Africa Arco di confitto
LA GUERRA CONTINUA
2 - PROGETTO RUSSO DI SPARTIZIONE DELL’UCRAINA (2008)
16
6
7
17
11 10 Kiev
2 5
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Russia
21 Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Unione Russa
annesse dalla Russia il 27 settembre 2022 annessa dalla Russia il 21 marzo 2014
Ucraina Province disputate
Regioni ucraine 1 2 3 4 5 6 7
Transcarpazia Leopoli Ivano-Frankivs’k Černivci Ternopil’ Volinia Rivne
8 9 10 11 12 13 14
Khmel’nyc’kyi Vinnycja Žytomyr Kiev Cerkasy Kirovohrad Odessa
15 16 17 18 19 20
Mykolajiv Cernihiv Sumy Poltava Dnipropetrovs’k Kherson
21 22 23 24 25
Crimea Zaporižžja Donec’k Kharkiv Luhans’k
Impero: superpotenza rossa d’impronta eurasiatica, derivata ma distinta dalle quattro matrici storiche di Kiev/Novgorod, Moscovia, impero dei Romanov e Unione Sovietica. Aperta a radicalismi eterodossi, perché la sua vena rossa deturpa la matrice russa dell’impero. Laboratorio dell’impresa è l’Izborskij Club, fondato nel 2012 da Prokhanov, circolo di intellettuali o aspiranti tali disperatamente impegnati a distillare la specifca ideologia di Stato necessaria alla Federazione Russa per darsi un’identità e perseguire più alti traguardi. L’Izborskij Club, frequentato anche
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
da Vladimir Medinskij, ex ministro della Cultura e primo negoziatore russo con Kiev nel marzo 2022, è sempre stato in prima linea nell’avventura neorussa. Nel doppio senso ideale e strategico. Se Prokhanov ricama con aghi grossi la trama ideologica, Dugin lavora all’arazzo geopolitico. Il celebre (in Occidente) ispiratore dell’eurasismo – l’altro nome del Mondo Russo – non si perde in distinguo politicheggianti. Va al sodo. Per lui l’annessione della Crimea è lo squillo di tromba che chiama a raccolta i fautori della Grande Russia. Intesa reintegrazione delle terre russe (sobiranie russkikh zemel’), riferimento alla ricostruzione dell’impero dopo l’invasione mongola. La Nuova Russia quale premessa della rinascita imperiale muove anche la corrente bianca. Qui la luce viene dalla tradizione ortodossa e dalla resistenza zarista al colpo di Stato bolscevico, che per cinque anni rese la vita impossibile ai seguaci di Lenin e Trockij. «Ortodossia, autocrazia, nazionalità»: il motto di Nicola I, sul trono dal 1825 al 1855, distingue questa variante neorussa, che attinge a simboli cosacchi. Nessun dubbio: l’Ucraina è perfda invenzione leniniana – tesi riproposta dall’ultimo Putin per legittimare l’aggressione del 24 febbraio. I bianchi sono caso di scuola dell’ossessione russa per la storia patria, da cui estrarre una nuova idea di Russia. Naturalmente imperiale, come certifca la bandiera della Nuova Russia adottata il 13 agosto 2014: tricolore bianco-giallo-nero, vessillo dei Romanov fra 1858 e 1883. Molto del sempre più esplicito orrore di Putin per il bolscevismo dissipatore dell’impero è assimilato dalle tesi bianche. Declinate da personalità così diverse come il metropolita Tikhon, presunto confessore del presidente (probabile il contrario); Natalija Naro0nickaja, distinta pubblicista ultraconservatrice che si aggira nei saloni parigini dell’Istituto per la democrazia e la cooperazione, da lei diretto nel palazzo di Rue de Varenne 63 bis, caro a Surkov; il «magnate ortodosso» Konstantin Malofeev, fnanziatore delle milizie irredentiste attive nell’Ucraina orientale. La vena bruna del neorussismo è ideologica più che territoriale. Nella discutibile approssimazione corrente, che estrapola fascismo e nazismo dai rispettivi contesti per trarne un’etichetta politico-ideologica buona per ogni latitudine, è appunto certifcata neofascista o neonazista. «Primavera russa», secondo i suoi promotori. Per Nuova Russia s’intende non tanto un territorio quanto il rinnovamento spirituale della patria in senso anti-occidentale, anticapitalistico e antiliberale. Con tonalità anti-Putin. Trattato da molle pragmatico che vuole tenere insieme l’intenibile, dagli ultranazionalisti ai neoliberisti globalizzanti. Uomo di potere Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
senza princìpi. Fino a ieri manipolato dalla «sesta colonna» occidentalista di Surkov, che nel 2014 lo avrebbe convinto a non attaccare l’Ucraina. Diffusi gli echi antisemiti, che in questi anni hanno attratto centinaia di combattenti stranieri, tra cui una manciata di italiani affliati a Casa Pound e a Forza Nuova. I guerrieri nostrani si sono equamente divisi fra milizie «neonaziste» ucraine e «neofasciste» russe. Le milizie neorusse deluse otto anni fa dal mancato appoggio del Cremlino all’insurrezione contro Kiev hanno rialzato la testa dopo l’invasione del 24 febbraio. La Nuova Russia, qualsiasi spazio vi s’intenda, torna una proiezione possibile. E se anche Mosca perdesse la guerra, o addirittura sé stessa, Novorossija resterà rappresentazione geopolitica disponibile al riuso in contesti anche lontani nel tempo. Un’occhiata alla letteratura sulla «scienza della Nuova Russia» (Novorossievedenie) e alla ristampa di storie e leggende neorusse conferma la persistenza di tanto magnetico simulacro, adattabile a punti di vista ideologicamente opposti. Mito pratico da integrare in una nuova/antica Idea Russa. Collante di una nazione imperiale che si è messa in gioco nella guerra in corso. Parole vuote? Nient’affatto. È proprio l’ispirazione metafsica, aperta a fungibili declinazioni linguistico-simboliche, a imprimere il marchio della potenza alla rappresentazione neorussa. Tale vigore potrebbe svelarsi autodistruttivo. È il dramma di ogni cultura estrema – la russa più di altre – che fa del sacrifcio collettivo un mortifero ideale di vita. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. Un giorno questa guerra sarà sospesa. Non fnita. Scontro di civiltà fra Occidente e Russia; confitto di emancipazione di una nazione in sviluppo da un impero in decadenza ma indisponibile ad abdicare al suo status; sanguinosa partita fra mafe e oligarchie russe e ucraine in un contesto regionale instabile: basta evocare le principali dimensioni della guerra in Ucraina, con radici che affondano al 1914 se non molto più indietro, per escludere la pace dall’orizzonte vicino (carta 3). Gli amanti delle classifcazioni vorranno includerla nella categoria delle guerre carsiche, che appaiono in superfcie e poi scompaiono allo sguardo ma sottoterra continuano a seguire il proprio corso. Fiumi a scomparsa. Dal Kashmir alle Coree, da Cipro ai Balcani, diversi gli esempi. Nessuno paragonabile al potenziale distruttivo del carsismo russo-ucraino. Per chi alla scienza archivistica antepone l’analitica amatoriale, proponiamo considerazioni alternative su quale potrà essere il punto di sospensione del confitto (carta a colori 5).
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Territori sotto il controllo polacco-lituano dal XIV secolo al 1772 Espansione massima del controllo polacco-lituano nel XVI secolo Regione sotto il controllo austro-ungarico nel 1914 Territorio sotto la dominazione ottomana nel XVII secolo poi conquistato dai cosacchi Crimea ceduta dall’Urss alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina nel 1954 Limite orientale della frontiera polacca fra la prima e la seconda guerra mondiale
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COME UN LADRO NELLA NOTTE
3 - LE DIVISIONI STORICHE DELL’UCRAINA
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Sgombriamo il campo dai pur pensabili esiti apocalittici: fne dell’Ucraina, della Russia, o di entrambe. In ordine di (im) probabilità, vista l’asimmetria di risorse che favorisce i russi ed è fnora compensata dai massici aiuti militari, fnanziari e propagandistici che America e associati stanno offrendo a Kiev. Da non considerare affatto costanti. Capita che un paese sostenga una causa altrui, ma non la prenderà mai sul serio come la propria. Comunque non per sempre. La Vladimir Putin inaugura una statua dello zar Alessandro III in Crimea (2017) Russia non ha questo problema. Putin cita Alessandro III: «Abbiamo solo due alleati: il nostro esercito e la nostra fotta» (foto). Restiamo quindi nel campo della sospensione, che si produrrà quando entrambe le parti la vorranno o dovranno considerare meno inaccettabile dello scontro senza fne. La sospensione non ripristinerà lo status quo ante. Anzitutto perché Mosca e Kiev divergono su quale sia: precedente all’annessione russa della Crimea, come insistono, in sintonia con la maggioranza degli Stati, Zelens’kyj e la diplomazia americana, oppure all’invasione del 24 febbraio, tesi cara a Kissinger, altri «realisti» occidentali e fazioni dello Stato profondo a stelle e strisce incardinate nel Pentagono. Poi perché la tregua deriverà dalla convinzione di entrambi che dissanguarsi in tante mini-Verdun non abbia senso una volta stabilito che nessuno potrà prevalere totalmente. La linea di provvisoria partizione, lungo la quale allineare osservatori internazionali (professione che si annuncia ricca di futuro per i giovani in cerca di occupazione), non riprodurrà nessuna delle due versioni. Il tracciato violerà i confni internazionalmente riconosciuti. A favore della Russia e di eventuali staterelli affliati. Paradosso vuole che quei confni siano stati inventati dai sovietici, per mutevoli volontà di Lenin, Stalin e Khruš0ëv. L’Ucraina indipendente ha ereditato lo spazio dipendente creato e adattato more sovietico, formalizzato Stato sovrano per referendum nel 1991. Lo Stato ha preceduto la nazione. Il mosaico Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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etnoculturale incorniciato negli ex confni amministrativi della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina è stato dalla nascita teatro di scontri di potere fra oligarchi e potentati regionali irriducibilmente opposti, concentrati soprattutto ma non solo nel Donbas. Il motto dell’Ucraina bolscevica era: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Quello informale della nuova Ucraina in via di emancipazione da Mosca è e sarà: «Ucraini di tutto il paese, unitevi!». Il contributo di Putin alla causa nazionale ucraina verrà un giorno riconosciuto. Nel frattempo, si tratta di stabilire entro quali frontiere si potrà riunire una popolazione ucraina suffcientemente coesa che nella resistenza contro l’invasore moscovita e le sue quinte colonne domestiche avrà guadagnato i galloni della nazione davvero indipendente e sovrana. Ammessa nell’impero europeo dell’America. La disputa sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato è superata perché la Nato è entrata in Ucraina. Per restarci. Se così non fosse, la sospensione delle ostilità sarebbe impossibile o di brevissima durata, giacché i russi subito ripunterebbero su Kiev, spina rimasta in gola a Putin. La linea del cessate-il-fuoco non riprodurrà nemmeno i sogni dei neorussi. Senza Odessa non si dà Nuova Russia. Ma se Putin prendesse Odessa rischieremmo la terza guerra mondiale. Gli Stati Uniti non potrebbero accettare tale umiliazione. Il sempre meno limitato sostegno a Kiev muterebbe in illimitato o quasi. Oggi un quinto del territorio ucraino è in mano ai russi. Se nei prossimi mesi fosse molto di più o molto di meno, signifcherebbe un passo verso la guerra totale. Sigillata poi da pace cartaginese, con Kiev cosparsa di sale russo o Mosca distrutta da atomiche americane. Ergo: la tregua congelerà una linea del fronte non troppo diversa dall’attuale. La diplomazia non può sovvertire la sentenza delle armi. Al massimo, addolcirla per stabilizzarla. In questo scenario l’Ucraina perderà parte del territorio ereditato dall’Urss. Poiché di tregua e non di pace stiamo trattando, ciò esclude la rinuncia per trattato ai confni del 1991, che equivarrebbe ad ammissione di sconftta. In questa guerra di religione nessun leader ucraino può permettersi di sottoscrivere la rinuncia alla Crimea e al Donbas, tantomeno il suo omologo russo, che sia Putin o un suo fantomatico successore liberaldemocratico. Per sostanziare la tregua ed evolvere verso il congelamento del confitto in stile cipriota o coreano – punto di convergenza fra idealismo e realismo – serve cambio di accento: dalla terra a chi l’abita. Il fattore umano determina alla lunga la vitalità (viaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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bility in gergo diplomatico) di uno Stato. Quel che l’Ucraina perderebbe in spazio guadagnerebbe in rientro di profughi e sfollati, dunque in stabilità e coesione nazionale, condizioni della ricostruzione su serie fondamenta istituzionali. Premessa della liberazione dalla corruzione endemica e dall’arbitrio degli oligarchi, senza scivolare verso il consolidamento delle prassi autoritarie cui è oggi obbligata dalla guerra. E pegno della integrazione euroccidentale. Se questa fosse la tregua, a quale scenario postbellico preluderebbe? L’analista britannico Samir Puri prevede che ne scaturirebbe l’equivalente ucraino delle due Germanie. Certo, «la divisione è prospettiva orribile per l’Ucraina». Ma la cessione della Crimea e del Donbas «precluderebbe al resto dell’Ucraina centrale e occidentale l’ingresso nell’Unione Europea? Città come Leopoli, Ivano-Frankivs’k e Kiev potranno diventare fulcri cosmopoliti attrattori di fondi europei per la ricostruzione, mentre Donec’k, Luhans’k e Mariupol’ resteranno in seno alla Russia?» 15. Dominic Lieven, aristocratico britannico originario di una famiglia di principi balto-germanici, storico dell’impero russo e delle vicende ucraine, è diretto: «Il mio scenario ideale – naturalmente non si avvererà – è che l’Ucraina riconquisti ogni pollice del suo territorio nei confni del 1991, promuova plebisciti in Crimea e almeno nel Donbas orientale e se, come probabilmente accadrebbe, al voto vincessero i russi, si liberasse di quella gente (…) e di quelle terre». In chiaro: «Se gli ucraini dovessero in qualche modo riprendere la Crimea, questa sarebbe semplicemente una fonte infnita di pericolo e di confitto. È chiaramente contro l’interesse dell’Ucraina riconquistare la Crimea. (…) Nel tuo territorio tu vuoi cittadini per quanto possibile fedeli al tuo Stato. L’ultima cosa che vuoi è una minoranza costantemente insoddisfatta, con un vicino alla lunga inevitabilmente più potente alla tua frontiera orientale, eccitato dalla loro presenza. (…) Il Donbas orientale è la più grande rust belt d’Europa, nella quale si combatte da un sacco di anni. Non penso proprio che l’Ucraina guadagni molto dal recuperare territori di tal genere. Oggi nell’Ucraina orientale la maggior parte della popolazione è probabilmente pro russa, altrimenti se ne sarebbe andata» 16. Lo stesso argomento potrebbe valere per i russi. Se il Donbas è un mucchio di ruggine, perché Mosca dovrebbe accollarselo? Fatto è che l’aritmetica russa non è l’alfabeto di noi economicisti euroccidentali. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
15. S. PURI, Russia’s Road to War with Ukraine, London 2022, Biteback, p. 251. 16. V. TAVBERIDZE, «Dominic Lieven: “It’s Against Ukraine’s Interest to Take Back Crimea”», RadioFreeEurope-RadioLiberty, 11/12/2022.
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Quando la guerra cala il suo sipario di ferro sulle steppe sarmatiche, a nutrire lo spirito russo restano vodka e mistica. Constata Trenin: «C’è un sommovimento nella nostra comunità culturale. Sono i primi passi dell’allontanamento dalla cultura dell’intrattenimento, del consumo, verso la cultura del servizio e della comprensione di cosa sia la vita, il destino dell’uomo. Stiamo tornando alla tradizione di casa nostra, che presta molta più attenzione all’intangibile» 17. Di sicuro la tregua non è alle viste. Non in Russia, dove Putin spera di poter sfondare il fronte per imporre all’Occidente le condizioni di un cessate-il-fuoco che ne sancisca la rinnovata egemonia sui «fratelli» ucraini. Meno ancora in Polonia e fra i popoli dell’avanguardia antirussa estesa tra Scandinavia e Mar Nero. È la falange ultrà. Ben rappresentata nel Forum delle libere nazioni della post-Russia, votato alla «decolonizzazione» della Federazione putiniana (vedi l’appendice di Agnese Rossi e le relative carte a colori 6 e 6 bis, capolavoro di espressionistico action mapping). Parola dell’ex ministro degli Esteri polacco, Anna Fotyga: «Dissolvere la Federazione Russa è molto meno pericoloso che abbandonarla ai criminali». Tali sono non solo Putin e la sua banda di «terroristi», ma i regimi russi d’ogni tempo e colore. Quindi, primo sconfggere la Russia, poi scomporla in «Stati liberi e indipendenti» 18. E poi? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. L’incubo del Pentagono è dover combattere su due fronti contro altrettante potenze nucleari. Poco più che scenario di scuola prima del 24 febbraio, probabilità concreta oggi. A inizio anno il generale a quattro stelle Mike Minihan, capo dell’Air Mobility Command e già vicecomandante Usa nell’Indo-Pacifco, ha inviato ai suoi uffciali un memorandum in cui annuncia lo scontro con la Cina entro due anni: «Spero di sbagliarmi. Ma sento che combatteremo nel 2025» 19. Prima dell’invasione russa dell’Ucraina a Washington si indicava la fne del decennio come «fnestra di (in)opportunità» per il duello con la Cina rossa. Il tempo stringe. Ed è proprio il tempo a orientare coloro che, su entrambi i fronti, considerano inevitabile, fnanco augurabile risolvere la partita con le armi. Due visioni apocalittiche. Per i falchi americani, in crescita, tra pochi anni il Numero Due sarà in grado di sfdare e battere gli
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17. E. UMERENKOV, «The crisis of half a century is coming to an end – Why Russia clashed with the West and how it will all end», Komsomolskaya Pravda, 4/1/2023. 18. A. FOTYGA, «The dissolution of the Russian Federation is less dangerous than leaving it ruled by criminals», Euractiv, 27/1/2023. 19. C. KUBE, M. GAINS, «Air Force general predicts war with China in 2025, tells offcers to prep by fring “a clip” to a target, and “aim for the head”», Nbc News, 28/1/2023.
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Stati Uniti, sicché va colpito e affondato al più presto. Secondo gli omologhi cinesi, oggi minoritari, occorre profttare della «tempesta» americana per colpire Washington prima che si riprenda. Ma proprio mentre l’Indo-Pacifco si riscalda, cinesi e americani hanno discretamente ricominciato a discutere ascoltandosi, dopo anni di insulti e propaganda (carta a colori 7). Motivo: se l’America attraversa una profonda crisi d’identità, la Cina è alle prese con una revisione tattica radicale. Tre anni di Covid-19 mal gestito, di approccio arrogante al resto del mondo, insieme a crisi delle nuove vie della seta, sofferenze nel mercato immobiliare e fnanziario, fuga di imprenditori e tensioni domestiche – da Hong Kong a Taiwan alla lotta fra i gerarchi del Partito – hanno azzoppato l’economia e demoralizzato la popolazione. L’anno scorso il pil è cresciuto appena del 3%, ben sotto il livello di guardia. Siccome il regime sta o cade per il consenso garantito dal benessere o per il suo degrado, Xi Jinping è intervenuto secco. Dopo il Congresso di ottobre le città hanno riaperto alla vita normale, le fabbriche alla produzione standard. E sono scattate le purghe in ambito politico e diplomatico. I «lupi guerrieri», specialisti nel distribuire sprezzanti pagelle a europei, americani e asiatici con il risultato di slabbrare il già tenue tessuto del soft power sinico, sono stati rimessi in riga. Qualcuno in punizione. Da novembre Pechino ha ristabilito un canale confdenziale di comunicazione con Washington. All’insegna del pragmatismo. Obiettivo: calmare il gioco e dividere gli avversari. Con qualche ritardo, Xi Jinping sembra aver aderito alla massima universale per cui i nemici vanno separati non uniti. Vale per europei e americani, ma anche per i partner asiatici di Washington, giapponesi e sudcoreani su tutti. Di qui a immaginare il leader cinese impegnato a spegnere l’incendio in Ucraina molto ne corre, ma il sostegno alla Russia sarà limitato allo stretto necessario. Per evitarne il collasso. Xi ha studiato la lezione ucraina e ne ha tratto quattro conclusioni. Primo: non fdarsi di Putin, che non lo ha correttamente informato sull’invasione e si è cacciato in una trappola da cui la Russia uscirà al meglio ridotta in prestigio e potenza, al peggio liquidata. Secondo: gli Stati Uniti dispongono di un sistema di alleanze a vasto raggio, dotato di risorse militari, economiche e immateriali in grado di dissuadere chi osasse sfdarli. Terzo: nel clima di sfrenate sanzioni e deglobalizzazione incipiente, investimenti stranieri e accesso ai mercati esteri restano vettori essenziali del rilancio economico, ovvero della stabilità domestica. Quarto: l’invasione di Taiwan è impossibile, oggi, domani e forse semCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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pre. Xi sta riannodando i fli con i suoi referenti a Taipei, a cominciare dal Kuomintang, nella speranza che alle elezioni presidenziali del 2024 si affermi un candidato moderato, non indipendentista. La Cina non può permettersi di abbandonare la Russia al suo destino. È l’unica potenza su cui puntare per evitare l’accerchiamento, che la sconftta di Putin e l’eventuale avvento di un regime flo-americano o comunque anticinese a Mosca renderebbero micidiale. Urge riagganciare i partner economici asiatici per impedire che si offrano chiavi in mano agli Stati Uniti. E insieme rilanciare i commerci con gli europei, tedeschi in testa. È anche il momento di accelerare la penetrazione in Asia centrale, a cominciare dal Kazakistan. Lo spazio postsovietico non accetta di subordinarsi a Mosca. Se poi la Federazione Russa implodesse, gigantesche steppe si aprirebbero alla Cina anche in Siberia – la memoria delle amputazioni territoriali subite dai Qing resta viva. Infne, lo strumento militare va ammodernato in velocità giacché tutti riarmano, nella regione e oltre. Nei prossimi mesi potremo forse capire se la revisione tattica di Xi evolverà in strategica. Se dunque la conquista di una sfera d’infuenza asiatica e il recupero di Taiwan continueranno a orientare la Cina verso lo scontro fnale con gli Stati Uniti, cui subentrare come potenza globale entro la metà del secolo, o se invece la barra virerà verso qualche forma di compromesso se non di condominio geopolitico (il mitico G2 caro a Kissinger e associati). La virata dovrebbe passare per l’allentamento o il rovesciamento del sistema di alleanze americane in Asia. Dunque per il compromesso o l’intesa con India, Giappone e Corea del Sud. Grado di improbabilità: altissimo. Specie per quanto riguarda gli arcinemici nipponico e indiano (carta 4). Durante l’incontro con Giorgia Meloni a Roma, il 10 gennaio, il primo ministro giapponese Kishida Fumio, informato della disponibilità italiana a considerare l’invio all’Ucraina del sistema di difesa aerea Samp-T, gioiello della nostra tecnologia militare condiviso con i soli francesi, ha lasciato cadere: «Ma quando i cinesi spareranno dalla Serbia contro l’Italia i missili appena installati, voi come vi difenderete?». Battuta che svela la preoccupazione di T§ky§. Se europei e americani si concentrano sulla guerra in Ucraina, sguarniscono il fronte asiatico a vantaggio della Cina. La nuova Strategia di sicurezza nazionale nipponica adotta toni inediti nel prospettare l’imminenza di una guerra in Asia. Più in concreto, il Giappone sta per raddoppiare le spese per la difesa: dall’1 al 2% in cinque anni. Dopo Stati Uniti e Cina, salirebbe sul Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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4 - VULNERABILITÀ INDIANE
Confni terrestri dell’India: 15.106,7 km Coste (isole incluse): 7.516,6 km
Lunghezza in km USH U K dei confni con: Passo Karakorum ND I H Bangladesh 4.096 Cina 3.488 AFGHANISTAN K A Pakistan 3.323 H RA C I N A KO Nepal 1.751 I RU T i b e t M M Myanmar 1.643 PAKISTAN A Bhutan 699 Ludhiana L Afghanistan 106 A Y ar N A h EP iT DELHI D eser to d A L Tropic o del C Jaipur BHUTAN ancro Kanpur Mawsynram Rajkot
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Vishakhapatnam Golfo del Bengala Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Inverno (nord-est)
Bangalore
Estate (sud-ovest)
Coimbatore
Zona di convergenza intertropicale
Laccadive
Luoghi più piovosi al mondo MALDIVE (11.462 mm all’anno in media)
Cochin
SRI LANKA
Is. Andamane (India)
Confni dell’India Confni disputati Confne aperto in base al Trattato di pace del 1950 Territori contesi
Fonte: ministero dell’Interno indiano
podio dei tre paesi più militarizzati del pianeta. Nel menu delle commesse missili ipersonici, batterie terra-aria e droni. Washington schiera in Giappone il suo massimo contingente militare all’estero. A ridosso di quello disposto a difesa della Corea del Sud, imperniato su un quartier generale congiunto che potrebbe allargarsi ai nipponici, malgrado la diffdenza fra i due principali soci asiatici dell’impero a stelle e strisce. Americani e giapponesi stanno inoltre riorientando lo schieramento armato verso sud-ovest, centrandolo sulle isole prossime a Taiwan per proteggere l’arcipelago della «provincia ribelle» dalla minaccia cinese. Punta avanzata Yonaguni – appena 111 chilometri da Taiwan – coperta da Ishigaki e Miyako, con Okinawa perno del
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fronte meridionale. Le intese con Filippine e Australia confermano che il Giappone ha decretato «chiusa la stagione del delfno, aperta quella dello squalo», ci assicura un alto uffciale della Marina. Conscio che il suo paese, più degli stessi Stati Uniti, rischia di combattere contemporaneamente contro Cina e Russia – con Mosca lo stato di guerra è congelato ma vigente dal 1945. Il sottotesto del programma di sviluppo delle Forze armate (nominalmente di autodifesa) è che T§ky§ non si fda dell’ombrello americano e si dispone a difendersi da sola. A scompigliare le carte potrebbe intervenire l’ennesima crisi fra le due Coree, annunciata dal ripetuto lancio di missili nordcoreani verso le acque prossime alle aree di sovranità di Seoul e T§ky§. L’illusione che la Corea del Nord rinunci all’arsenale nucleare, cioè si arrenda, è paragonabile al dogma per cui Giappone e Corea del Sud non ne produrranno mai uno proprio. T§ky§ potrebbe allestirlo in pochi mesi, disponendo del materiale e delle tecnologie necessarie. E costringerebbe Seoul a seguirla. Gli intrecci transoceanici fra Stati Uniti e alleati asiatici determinano la «globalizzazione» di fatto dell’Alleanza Atlantica (il diritto non seguirà perché fra gente pratica non serve). Sicché il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è volato a Seoul per implorare il ministro della Difesa Lee Yong-sup di inviare armi e soprattutto munizioni all’Ucraina, argomentando che la vittoria della Russia spingerebbe la Cina a seguirne l’esempio. Risposta: no grazie, servono a noi. Per ora. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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6. A differenza della geofsica, la geopolitica non dispone di una teoria dei cicli sismici che consenta di azzardare ipotesi su durata ed estensione dei terremoti. Ma i lampi di guerra che illuminano di luce sinistra la collisione delle faglie geopolitiche consentono di coglierne alcune tendenze. La principale è la progressiva unifcazione dei campi di battaglia. Per i geologi staremmo avvicinando lo stadio cosismico dei terremoti. La transizione dalla Guerra Grande alla terza guerra mondiale avanza nella notevole incoscienza o impotenza delle potenze che potrebbero scongiurarla. Tanto da sospettare che ai vertici di Stati Uniti, Cina e Russia qualcuno creda che lo scontro fuori tutto sia inevitabile perché se il suo impero non l’accettasse perderebbe sé stesso. Quando si è convinti che la guerra sia inaggirabile ci si deve illudere di uscirne trionfatori. E allestire corrispondenti propagande. Tutto è bianco o nero. La seconda deriva direttamente dalla prima. Chi è disposto a morire per la patria? Quando studiamo il fattore umano, questa è la domanda
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chiave. In attesa di produrre una cartografa della (in)disponibilità a battersi delle principali collettività – indizio dirimente per stabilire chi ha maggiore o minore probabilità di vincere – una grossolana valutazione produce cinque risposte, fra loro concatenate: a) per età mediana, benessere diffuso, abitudine alla pace e restringimento dei ceti da cui nelle guerre novecentesche provenivano i combattenti – contadini e operai – noi europei occidentali siamo indiziati come meno disponibili al duello; b) russi e americani, il cui pedigree bellico insieme alla diffusione delle armi e dell’abitudine a fruirne spicca sugli altri, paiono in vantaggio sui cinesi, non celebri per spirito guerriero e troppo recentemente giunti ai piaceri dell’agio per abdicarvi d’un colpo; c) dalla fne della pace nota come guerra fredda in Ordolandia si sono combattute solo due guerre vere, entrambe nelle Bloodlands compresse fra gli imperi americano e russo, di dominante ceppo slavo, dove erano infuriati i più aspri combattimenti delle due guerre mondiali; d) scocca l’ora dei mercenari e delle guerre per procura: non volendo/potendo combattere, armiamo chi lo può e vuole; e) la somma algebrica dei fattori precedenti informa che l’asimmetria antropologico-culturale fra i soggetti in competizione azzoppa l’«Occidente collettivo» e lo espone al rischio di eterodirezione da parte delle compagnie di ventura e delle comunità chiamate a sacrifcarsi in suo nome. A cominciare dall’ucraina, refrattaria a porre il suo destino nelle mani dell’amico americano tanto quanto a rinunciare al suo sostegno. Sdoppiamento non sappiamo quanto sostenibile. La terza è che indietro non si torna. Lo status quo ante è irrecuperabile. Faremmo bene a mettercelo in testa noi italiani, che con altri europei fatichiamo a convivere con l’idea che la seconda belle époque è trascorsa e mai più ritornerà. Legittimo sperare e d’obbligo operare perché non fnisca come con la prima, bruscamente scivolata dalla pace incantata alla «inutile strage». I russi sanno che i glamurnye nulevye, i magici primi anni Duemila, sono per l’album dei ricordi. Gli ucraini versano lacrime e sangue, sorretti dalla forza della disperazione o spinti in diaspora perché non sperano più e non sanno se e quando avranno ancora diritto a farlo. La nostra incapacità di sintonizzarci con la realtà, umanamente comprensibile, ci espone alla prospettiva di cedere di schianto, come Stato e come nazione, se solo sforati dalla guerra calda. La quarta e strategica riguarda la crisi di credibilità del presunto «ombrello americano» che proteggerebbe gli atlantici europei. Serve un atto di fede per credere gli Stati Uniti disposti a rischiare l’olocausto atomico per difendere ovunque i soci atlantici. Esiste una gerarchia impliCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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cita nella visione americana dell’Europa. Washington potrebbe ingaggiare lo scambio nucleare se Mosca distruggesse Londra o anche Parigi. Ma se il bersaglio fosse tedesco o italiano? Non parliamo dei paesi «minori», baltici in testa. Quanto all’Ucraina, il punto interrogativo è enorme. A Kiev sanno, per averlo sperimentato, che le garanzie occidentali hanno limiti. Risultato: tutti si armano. Chi non ha l’atomica e potrebbe permettersela, rifette a voce alta sulla necessità di dotarsene. Germania in testa. I tempi accelerati della guerra cozzano però con le velleità tedesche, non diciamo italiane, di dotarsi di eserciti e armi spendibili in guerra vera. Tacciamo della deterrenza nucleare, non concesso che valgano ancora le eleganti equazioni del bipolarismo sovietico-americano. Deprime ma non sorprende il modo in cui noi italiani affrontiamo l’emergenza. Nei media prevale una comunicazione impressionistica che riduce la guerra a sequenza di orrori. Cronaca nerissima, senza prospettiva storica né sguardo al futuro. Il defcit strutturale di statualità che comporta l’inibizione del pensare strategico; l’abitudine condivisa da tre generazioni a considerare la pace un diritto umano impermeabile alle tempeste in avvicinamento; il fondo ecumenico della nostra società, indisposta ad ammettere l’esistenza di nemici e sorpresa se altri ci considerano tali: tutto cospira all’inazione o alle manovre borboniche. In attesa di accedere alla pratica buddhista che trasforma il veleno in medicina – ancora la maledetta mancanza di tempo – l’Italia potrebbe riscoprire l’arte della diplomazia, in cui eccellevamo. Non siamo in grado di scrivere l’agenda della tregua. Ma contribuire a un fronte di paesi non solo europei, con sguardo profondo verso Mediterraneo e Africa, capace di massa critica dunque di infuenza su americani, russi e cinesi, questo non dovrebbe parerci impossibile. Da tempo tracciamo nella mappa della possibile evoluzione strategica nazionale (carta a colori 8) un quadrilatero che lega Roma a Berlino, Parigi, Madrid. Siamo diversi, d’accordo, ma meno di altri atlantici. Partecipiamo della civiltà euroccidentale, chi per nascita chi per tarda adesione, ma non pretendiamo di averne l’esclusiva. Negli ultimi anni abbiamo tessuto e quasi completato – manca il segmento italo-tedesco, chiuso in un cassetto dal quale converrebbe estrarlo – una tela di trattati e accordi bilaterali, pur meno ambiziosi del modello stabilito nel 1963 all’Eliseo da de Gaulle e Adenauer. È troppo immaginare che l’Italia inviti il quartetto a costituire un forum permanente per la pace (leggi: tregua) aperto a tutti e destinato a suggerire le condizioni minime di una lunga sospensione della guerra? Non sarebbe la soluzione. Ma segno dei tempi sì. Certi segni arrivano quando meno li aspetti. Come un ladro nella notte. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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SPEZZATINI DI RUSSIA IN SALSA UCRAINA POLACCA E AMERICANA a cura di Agnese ROSSI Il Forum delle libere nazioni della post-Russia, cornice di dialogo che raccoglie le istanze indipendentiste di minoranze etniche e realtà regionali russe (e dei loro simpatizzanti euroatlantici – americani, polacchi e baltici), il 31 gennaio si è riunito al Parlamento europeo per il suo quinto incontro. Il gruppo ha presentato il proprio progetto di «decolonizzazione e ricostruzione» della Federazione Russa a Bruxelles, sponsorizzato dalla componente polacca del Partito dei conservatori e riformisti europei. Anna Fotyga, eurodeputata e già ministro degli Esteri polacco (Pis, partito Diritto e giustizia) coinvolta nei lavori del Forum Ɠn dai suoi albori, ne ha ribadito la missione fondativa: «Come nel caso del Terzo Reich tedesco, la Federazione Russa, in quanto minaccia esistenziale per l’umanità e l’ordine internazionale, dovrebbe subire drastici cambiamenti. È ingenuo pensare che la Russia, dopo essere stata deƓnitivamente sconƓtta, rimarrà all’interno della stessa cornice costituzionale e territoriale. La comunità internazionale non può assumere una posizione comoda e deƓlata in attesa degli sviluppi, ma deve intraprendere una (…) rifederalizzazione dello Stato russo, tenendo conto della storia del suo imperialismo e nel rispetto dei diritti e dei desideri delle nazioni che lo compongono» 1. Tra i relatori dell’ultimo Forum Ɠgura anche l’analista statunitense di origini polacche Janusz Bugajski, già consigliere per il dipartimento di Stato e della Difesa cui non per nulla è stato assegnato l’epiteto di «nuovo Brzezinski». Il suo ultimo libro Failed State. A guide to Russia’s Rupture è Ɠnito nel mirino della stampa russa 2, additato come breviario dei piani americani per lo smembramento della Federazione via promozione dei separatismi etnici. Dalla sua inaugurazione (lo scorso 8 maggio a Varsavia) a oggi, il Forum è cresciuto in termini di notorietà e adesioni. La prima mappa prodotta dal gruppo (pubblicata nel numero 9/22 di Limes) prospettava un’implosione della Russia da cui sarebbero originati oltre una trentina di Stati diversi, delimitati secondo disparati criteri etnici e culturali. Ne riproduciamo qui un aggiornamento (carta a colori 6): la variazione più importante consiste nel ridimensionamento della regione di Mosca a favore di nuovi progetti etnico-nazionali. Ad esempio, alcuni esponenti delle regioni di Pskov e Tver’ (antichi principati non rappresentati nella versione precedente) insieme alla regione di Smolensk/Smalandia hanno annunciato la nascita della «Piattaforma della Kryvia orientale», raggruppamento nato allo scopo di «integrare i popoli del Grande Baltico» e inclinante «verso la variante est-europea del percorso euroatlantico, che implica la conservazione dell’identità e dei fondamenti culturali Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. A. Fotyga, «The dissolution of the Russian Federation is far less dangerous than leaving it ruled by criminals», Euractiv, 27/1/2023. 2. V. Nikiforova, «V SŠA obnarodovan plan razrušenija Rossii» («Negli Stati Uniti reso pubblico il piano di distruzione della Russia»), Ria Novosti, 16/9/2022; V. Kornilov, «Time to drop our illusions, the West is waging a war to destroy Russia», RT, 20/9/2022.
e demografici dei paesi e dei popoli» 3. Nella nuova versione della carta guadagnano poi spazio e conƓni speciƓci anche le repubbliche caucasiche di Inguscezia, Ossezia e Cabardino-Balcaria. A detta dei loro stessi autori, questa mappa-matrice è aperta a varianti potenzialmente inƓnite. Purché al servizio di un unico obiettivo: immaginare «strategie per uno smantellamento controllato, costruttivo e non violento dell’ultimo impero coloniale in Europa» 4. I separatisti russi e i loro portavoce euroatlantici non sono gli unici a prodursi in simili esercizi cartograƓci. Su una parete dell’ufƓcio del capo dell’intelligence militare ucraina Kyrylo Budanov, fotografata da alcuni giornalisti durante un’intervista, campeggia la carta a colori 6 bis. Tracciate a pennarello, le linee di partizione della Russia immaginata da Kiev contestano e sostituiscono gli attuali conƓni federali: il Giappone (Япония) ottiene le contese isole Curili, la Germania (ФРГ) Kaliningrad (Königsberg), la Finlandia (Ф) la Carelia e una porzione del Nord-Ovest russo. Alla Cina (Китай, cui corrisponde la lettera К) vanno tutta la Siberia e l’Estremo Oriente. Nella parte centrale dell’attuale Federazione dovrebbe poi prendere forma una «Repubblica centrasiatica», marchiata con la sigla ЦАР (Car). Alla Russia vera e propria, decapitata della sua testa orientale, resta il territorio segnato dalle lettere РФ (RF). In corrispondenza del Caucaso si legge «Ičkerija», nome della repubblica separatista cecena proclamata nel 1991 nonché territorio che il parlamento ucraino ha di recente riconosciuto come «temporaneamente occupato» dai russi 5, ciò che il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj aveva già fatto per le isole Curili 6. Soprattutto, nei conƓni ucraini sono ricompresi non solo Donbas e Crimea ma anche le regioni di Kursk, Belgorod e Kuban’. È stato chiesto a Budanov se la carta rappresentasse i piani di espansione territoriale di Kiev una volta riconquistati i conƓni del 1991. La risposta è stata sibillina: «Ognuno vede ciò che vuole vedere. Forse è solo un indicatore di massima. O forse no» 7. Se la prima mappa fraziona il corpo della Federazione lungo le sue linee etniche e secondo il criterio «autoctono» dei diritti storici, la seconda ricorda i progetti di partizione dell’Eurasia in sfere d’inŴuenza elaborati da una certa corrente strategica degli apparati americani 8. Statunitensi, polacchi, ucraini e separatisti etnici immaginano geometrie di disgregazione diverse, funzionali alle rispettive proiezioni geopolitiche. Ciò che più conta rilevare, al netto della plausibilità degli scenari prospettati, è però proprio la crescente diffusione e risonanza di simili cartograƓe, segno del recupero della dimensione spaziale nella grammatica delle potenze. A sancire l’obsolescenza della tesi della Ɠne della storia sta forse anche il ritorno della geograƓa. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Vostočno-Krivskaja Platforma, 16/1/2023, bit.ly/3DmRKDO 4. Dal canale Telegram del Forum, t.me/freenationsrussia 5. «Ukraine’s parliament declares “Chechen Republic of Ichkeria” Russian-occupied territory», Meduza, 18/10/2022. 6. «Ukraine declares Kuril Islands Russian-occupied Japanese territory», Meduza, 7/10/2022. 7. «Interv’ju – Kyrylo Budanov: Naši podrazdelenija zajdut v Krym s oružiem v rukakh» («Intervista a Kyrylo Budanov: Le nostre unità entreranno in Crimea armi in pugno»), liga.net, 26/12/2022. 8. Si veda ad esempio Z. Brzezinski, «A Geostrategy for Eurasia», Foreign Affairs, vol. 76, n. 5, 1997.
LA GUERRA CONTINUA
Parte I il SENSO STRATEGICO della GUERRA UCRAINA Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
UN NUOVO TIPO DI GUERRA MONDIALE
di Fëdor LUK’JANOV
La retorica non scongiura lo scontro totale. Nelle battaglie di logoramento l’Ucraina esaurirà per prima le forze. La Russia è alla ricerca della sua autodeterminazione nazionale e si gioca tutto. L’America ha solo da guadagnare. Si sta aprendo una nuova èra.
L
1. A CAMPAGNA MILITARE RUSSA in Ucraina prosegue ormai da un anno: come spesso accade, le operazioni militari non sono andate come erano state pianifcate. Lo shock provato nel febbraio 2022 dalla maggior parte dei politici, dei diplomatici, degli analisti sarebbe stato ancora maggiore se si fossero potute prevedere fn da subito la natura e la durata di questo confitto. Nel corso dell’ultimo anno è successo ciò che accade sempre: eventi che un tempo sembravano impensabili sono diventati routine, se non la norma. Molti dei russi contrari alla guerra hanno lasciato il paese (si parla di centinaia di migliaia di persone). Chi è rimasto è favorevole alle scelte di Mosca, conserva una propria indifferenza o riconosce l’entità dei problemi ma ritiene di dover rimanere assieme al proprio paese anche in questi tempi duri. Oggi è evidente che l’Ucraina ha preso le distanze dal passato. Si è chiusa un’epoca, che non tornerà a prescindere dagli esiti di questo confitto. Non si trattava solo del post-guerra fredda, anche se ci si riferisce soprattutto agli ultimi trent’anni. Si trattava di un’èra in cui una guerra tra grandi paesi non era considerata come soluzione possibile delle dispute geopolitiche. Più propriamente, si trattava di tutto il periodo che è seguito al secondo confitto mondiale e che ha assunto prima la forma della guerra fredda e poi quella del cosiddetto ordine internazionale liberale. Ciò che questi periodi avevano in comune erano il dominio delle superpotenze (all’inizio due, poi una) sulla geopolitica mondiale e l’esistenza di un sistema di istituzioni che escludeva ogni misurazione diretta, frontale dei rapporti di forza. Della deterrenza di un tempo è rimasta una sola cosa, forse la più importante: le armi nucleari. Si è preservata la consapevolezza che un confitto tra le maggiori potenze, tutte dotate della Bomba, conduce molto probabilmente a una guerra atomica. Questo meccanismo di deterrenza è ancora valido. Senza armi nucleari, Russia e Nato non intratterrebbero più una guerra ibrida, ma una vera e propria su Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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larga scala. Tuttavia, in primo luogo, la paura che incute la guerra atomica è chiaramente molto minore oggi rispetto a quaranta-cinquanta anni fa. All’epoca si trattava di un’eventualità da scongiurare in qualsiasi circostanza; ora su queste circostanze si comincia a rifettere, anche se fnora solo nelle fantasie più cruente e irresponsabili. In secondo luogo, l’esempio della campagna ucraina dimostra che il grado di scontro indiretto, anche se apertamente dichiarato, può farsi molto elevato. Si allontana a parole l’eventualità di impiegare mezzi estremi, dando l’impressione che la questione sia esclusa. Non v’è però certezza che non si tratti solo di un’illusione. Lo spettro della guerra mondiale si profla spiacevole nella retorica di tutte le parti in gioco. 2. La seconda metà del Novecento ci ha abituati all’idea che la guerra mondiale sia impossibile. Le armi nucleari, che incutono timore perché prospettano la distruzione del pianeta, hanno disincentivato agli occhi delle potenze che le detengono l’abitudine di chiarire i rapporti di forza attraverso lo scontro militare. Se i confronti avvengono indirettamente, attraverso terzi, allora non ci sono limiti se non quelli delle risorse disponibili. Ma in maniera diretta, la questione è esclusa. In questo senso, l’atomo «non pacifco» era disciplinante. Tuttavia, aveva come controindicazione la desensibilizzazione: nel momento in cui si è convinti che non scoppierà più una guerra mondiale, si apre un ampio e infnito spazio di manovra per scaramucce locali più o meno intense. Queste schermaglie hanno il fne di testare i lati più deboli del concorrente e tramite cui lo si può «smuovere» accumulando punti extra in un duello infnito che non prevede una vittoria per ko (la vittoria nella guerra fredda, in fn dei conti, è giunta in maniera inaspettata: uno degli avversari ha semplicemente abbandonato il ring). In questo senso, la guerra fredda non era meno «ibrida» di quella che vediamo svolgersi oggi sulla scena internazionale, malgrado a nessuno sia venuto in mente di chiamarla così. Anche la guerra mondiale, tuttavia, è diventata «mondiale» non nel momento in cui veniva combattuta, ma dopo, calata in una prospettiva storica. Le mobilitazioni di massa dell’estate e dell’autunno 1914 non inviavano gli europei sui fronti di una «guerra mondiale». Inoltre, ottimisticamente, si prevedeva che il confitto sarebbe durato appena fno a Natale, quando tutti avrebbero fatto ritorno a casa. L’inerzia della percezione data dalle frequenti guerre ottocentesche e novecentesche, a volte brutali ma limitate – guerre che andavano a «correggere» gli equilibri di potere – impedì di credere nella possibilità che scoppiasse uno scontro distruttivo totale. Tale consapevolezza arrivò gradualmente, con il moltiplicarsi delle perdite, con la portata sempre maggiore dei combattimenti e delle loro conseguenze. All’inizio del secolo scorso i politici europei si cullavano nella convinzione che all’interno del sistema di relazioni stabilito (quel «concerto europeo» esito del Congresso di Vienna, pur a inizio Novecento già fortemente incrinato) sarebbe sempre stato possibile evitare l’irreparabile, a prescindere da quanto sarebbe costato. Oggi un ruolo simile è svolto dalla funzione deterrente delle armi nucleari, che esclude una guerra mondiale. Ma cosa signifca? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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3. Il papa ha defnito il confitto in Ucraina una guerra mondiale che non fnirà presto, dato che vi si trovano già coinvolte molte «mani» e molti interessi. Il pontefce probabilmente ha ragione. La campagna militare in corso ha tutte le caratteristiche di un’autentica sfda tra grandi potenze. La disponibilità di armi nucleari le conferisce un carattere speciale, ma questo non rende la lotta meno feroce o fatale. La forma stessa dello scontro è particolare. Gli Stati Uniti (in quanto leader di un generico Occidente) sono coinvolti indirettamente ma molto attivamente, mantenendo in vita il proprio agente belligerante, l’Ucraina. La Russia conduce le operazioni militari da sé, scontrandosi direttamente con l’agente dell’America sul campo di battaglia. La Cina rimane in disparte, cercando un equilibrio, ma considera l’esito del confitto un fattore molto importante per il proprio futuro. Nonostante la sua categorica riluttanza a intervenire, Pechino ritiene che un ipotetico successo degli Stati Uniti in questo confitto sia svantaggioso per la Cina e si impegnerà perché non si realizzi. Tutti e tre i giocatori si stanno giocando il rango nella gerarchia internazionale in vista della prossima fase. Dei tre, la Russia è quella che rischia di più rispetto agli altri, perché è direttamente coinvolta e ha effettivamente avviato questa forma di confitto, senza valutarne correttamente lo sviluppo. Gli Stati Uniti hanno meno da perdere e più da guadagnare, anche in senso strettamente economico. L’Europa, altro attore coinvolto in questo confitto, si trova in una posizione particolare. Non sta lottando per un proprio ruolo futuro, ma per il mantenimento (impossibile) del precedente modus vivendi. In tutto l’Occidente si ripete lo slogan dell’inammissibilità della revisione dell’attuale «ordine internazionale basato sulle regole». Tuttavia, per l’America si tratta di difendere il proprio dominio, il quale, in linea di principio, può venire garantito anche in altri modi. Per l’Europa, invece, la fne del sistema precedente signifca la scomparsa di una forma di esistenza politica che le aveva garantito un discreto successo a partire dal secondo Novecento. Anche ammettendo che il confitto termini come auspica l’Occidente, la portata dei cambiamenti politici, economici e psicologico-culturali nel continente europeo esclude il ritorno all’età dell’oro dell’integrazione. I principali paesi europei, uno dopo l’altro, si stanno accorgendo della necessità di potenziare le proprie capacità come singoli. Non è ancora chiaro fno a che punto queste capacità saranno congiuntamente europee, così come resta aperta la questione del futuro dell’Ue. In un certo senso, per l’Europa è ora preferibile che il confitto continui. La forza maggiore provoca dispute interne e maggiori costi economici, ma funge anche da collante. Tanto più che le principali linee d’azione sono stabilite da Washington e l’Ue può permettersi di non scervellarsi sulla propria strategia, per il momento. Tutto ciò (non entriamo nel merito del comportamento di altri attori di primo piano, tra cui l’India, la Turchia, le petromonarchie del Golfo, l’Iran e molti altri paesi che contano sui dividendi del confitto) conferma il messaggio di papa Francesco: la portata degli interessi in gioco è quella di una guerra mondiale, che può Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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continuare nel tempo e persino ampliarsi, anche via armi nucleari. Certamente queste ultime limitano il quadro, che resta però abbastanza ampio da lasciare spazio a una lunga e feroce battaglia di logoramento. Cosa signifca tutto questo per la Russia, che ha deliberatamente deciso di lanciarsi in uno scontro serrato nel febbraio 2022? 4. Dietro a una guerra mondiale, qualsiasi forma essa assuma, si cela un problema di gerarchia internazionale. I confitti più specifci che si svolgono al suo interno si inseriscono in un quadro generale. Tuttavia, se uno degli attori attribuisce un signifcato storico o addirittura esistenziale a uno di questi singoli confitti, lo scontro assume una sfumatura particolare, non sempre razionale. Tale è la questione ucraina per la Russia. L’attuale operazione militare speciale include almeno tre singole campagne, ciascuna con una propria logica e propri retroscena. Per certi versi si completano a vicenda, per altri si contraddicono. Il fatto che fn dall’inizio dell’operazione era evidente quanto gli obiettivi fossero confusi e i piani poco chiari è legato proprio a questo. La motivazione che ha scatenato le azioni militari è stato il mancato rispetto delle garanzie di sicurezza a lungo termine richieste dalla Russia nel dicembre 2021. Mosca ha raccolto tutte le proprie critiche rispetto all’ordine politico-militare europeo sorto dopo la guerra fredda e le ha esposte in forma di ultimatum. L’ultimatum non è stato accettato e dunque sono state varate delle «misure tecnico-militari». Tutto questo si inserisce nella logica della guerra mondiale. La seconda componente della crisi è dovuta al problema della costruzione statale/nazionale all’interno di uno spazio di civiltà comune che negli ultimi decenni ha subìto degli sconvolgimenti. La questione è legata a circostanze storiche e culturali, le quali sono notoriamente soggettive e non si prestano a freddi calcoli. Un fenomeno tanto fragile come il sentimento nazionale e le reazioni sociali che esso suscita non costituiscono il miglior presupposto per un gioco geopolitico razionale. Questi primo e secondo livello del confitto sono stati saldamente legati tra loro sei mesi prima dell’inizio della campagna in un articolo di Vladimir Putin intitolato «Sull’unità storica di russi e ucraini». La terza questione è di politica interna. In che misura il desiderio di cambiare radicalmente la natura dello sviluppo della Russia abbia motivato la scelta, lo si può solo tirare a indovinare. Vladimir Putin torna regolarmente sul tema dell’indebolimento della sovranità tecnologica e della crescente dipendenza dall’estero come risultato del periodo post-sovietico. La leadership russa è convinta che la vecchia globalizzazione sia fnita e che stia arrivando un’epoca di autosuffcienza. Di conseguenza, i legami del passato devono essere tagliati. E non si tratta solo di troncare rapporti, ma soprattutto di un riorientamento interno, anche per quanto riguarda le strutture di base e il tessuto sociale. Una terapia d’urto ha drasticamente fatto voltare la Russia verso il mondo. Ce ne vorrà un’altra per spingerla a invertire la marcia. Alla luce del primo anno di Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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combattimenti, quali sono le possibilità di successo della Russia nelle diverse dimensioni del confitto? 5. Se andiamo a ritroso, l’operazione militare speciale ha confermato la vigenza di criticità fondamentali nella struttura del paese e la necessità di un suo ammodernamento qualitativo. La modernizzazione dei decenni scorsi è stata «presa in prestito», cioè è avvenuta in gran parte su basi mutuate dall’estero. I nostri difetti sarebbero emersi in ogni caso. Dalla qualità del lavoro di alcune istituzioni chiave, delle pratiche amministrative e dei meccanismi decisionali, fno all’obsolescenza delle visioni strategiche e alla contraddizione di voler mantenere una linea ideologica esclusiva, pur dipendendo profondamente dal mondo esterno. Ora questo insieme di difetti è sotto la luce dei rifettori. È diffcile dire quanto sia possibile far fronte a tutte queste criticità mentre dall’esterno giungono scosse dagli impatti fortemente negativi. Quantomeno però i punti deboli sono visibili e si può iniziare ad affrontarli. Naturalmente, nel momento in cui si impronta un nuovo modello di sviluppo, quello precedente irrimediabilmente scompare. Quella ucraina è un’altra questione. Sono tempi bui per l’«unità storica tra russi e ucraini», giacché nella pratica non v’è alcuna unità, semmai una separazione forzata. Nel corso del 2022 l’essenza del confronto si è ridotta a tal punto che si cerca solo di individuare lo spartiacque tra le due nazioni. Il concetto in parte vago di «Mondo Russo», che prevedeva vari modi per raggiungere l’autodeterminazione (compresa la «denazifcazione» o, in termini americani, il «cambio di regime») ha perso il suo contenuto nel corso di scontri sanguinosi e operazioni militari su larga scala. In un certo senso, le cose si sono semplifcate, i mezzitoni sono scomparsi. Per quanto riguarda le relazioni tra russi e ucraini, l’«ibridità» post-sovietica ha lasciato il posto alla semplice dicotomia tra gli uni e gli altri. I tragici eventi di questi mesi hanno profondamente acuito la questione dell’autocoscienza nazionale e delle basi su cui essa si costruisce. Il mezzo ora è chiaro: la forza. E ciò vale per entrambe le parti in confitto. L’autodeterminazione dell’Ucraina rispetta un copione classico: le guerre generano le nazioni. Tuttavia, anche la Russia si sta autodeterminando, defnendo letteralmente dove passano i propri confni, quelli geografci e quelli mentali. Il territorio ucraino, dove non è mai esistita una linea di demarcazione netta tra russi e non russi, è un campo di battaglia naturale e inevitabile. Da entrambe le parti riecheggiano riferimenti alla «Grande guerra patriottica» (la seconda guerra mondiale), ma sono asimmetrici. L’Ucraina defnisce sé stessa attraverso il confronto con la Russia. Quest’ultima parte dal presupposto che non sta combattendo l’Ucraina in quanto tale – gli atteggiamenti verso il paese vicino variano molto e spesso in maniera paradossale. Ma piuttosto lotta contro un «Occidente collettivo» che sta dietro a Kiev. Contro questo nemico conduce una «guerra patriottica» per la propria sopravvivenza nazionale. E, allo stesso tempo, per il proprio ruolo nella gerarchia mondiale. È qui che arriviamo al terzo livello. Se valutiamo gli eventi in prospettiva emergono dubbi fondamentali. È vero che retrocedere nella gerarchia mondiale deterCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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mina un rischio per la nostra sopravvivenza nazionale? La posizione uffciale è che sia così, ma sta venendo contestata. La campagna militare russa in Ucraina sta conducendoci verso un altro «piano»? Un «piano» superiore o inferiore? 6. Si ipotizzava che la Russia, opponendosi risolutamente all’espansione incontrollata della Nato e al monopolio dell’Occidente sulla defnizione dell’ordine mondiale, si sarebbe assicurata quasi automaticamente un posto nella Premier League geopolitica. Questo sarebbe stato probabilmente il caso se si fosse concretizzato lo scenario iniziale: un’operazione rapida ed effcace volta a ridefnire l’Ucraina. Ciò non è avvenuto e la Russia si è ritrovata invischiata in una prolungata guerra di logoramento trascinatasi fno a oggi. Il successo è possibile, anche se molto meno spettacolare del previsto: l’avversario esaurirà per primo le proprie forze e dovrà nuovamente riconoscere Mosca come interlocutrice. Gli stessi eventi possono però venire interpretati anche al contrario, cosa che l’Occidente è già intenzionato a fare: secondo questo punto di vista, la Russia si è allontanata dalla sua posizione di potenza mondiale, rimanendo impantanata in questioni regionali e perdendo la capacità di posizionarsi su scala globale. Le turbolenze nello spazio post-sovietico – scenario di cui è ben chiaro che Mosca non ha tempo di occuparsi, vista la questione ucraina in corso – mostrano quanto sia diminuita la capacità della Russia di ordinare la parte di mondo a essa più vicina. Pertanto, il confronto con l’Ucraina è il vero ago della bilancia per la Federazione. Mosca ha puntato tutto sul collasso della precedente confgurazione mondiale. La scommessa sembra logica: la crisi dell’intero ordine mondiale è iniziata circa quindici anni fa e da allora si è notevolmente aggravata. Le questioni ora sono due: quanto veloce sarà questo processo e quale sarà la relativa funzione della Russia. Per quanto riguarda la tempistica, il dubbio è se il nostro paese avrà abbastanza risorse per aspettare il momento in cui uno scossone generale porterà alla modifca dell’intera agenda internazionale. Quanto invece alla funzione che svolgerà la Russia, la faccenda è più complessa. I presupposti per la rottura del vecchio ordine mondiale si erano accumulati da tempo, ma è stata Mosca ad assumersi il ruolo di ariete. A tal riguardo, non si può dimenticare il destino che è toccato all’Urss: una volta avviati epocali cambiamenti nei rapporti di forza internazionali, ha fnito per esserne l’unica vittima. Il mondo ormai è entrato in un’èra che si annuncia durissima. Dato che tutti gli attori internazionali puntano a minimizzarne i costi, ognuno cercherà di trasferire questi costi sugli altri. Le vulnerabilità dovute a fattori interni ed esterni si intrecciano pericolosamente. La solidità dei sistemi statali è messa alla prova su tutti i fronti. E determinerà il successo in questi tempi torbidi. La capacità di resistere a forti pressioni e di garantire, contro ogni previsione, uno sviluppo al passo con i tempi costituisce il fattore decisivo. Nel triplice confitto in cui la Russia è impegnata – con l’ordine mondiale, con l’Ucraina e con sé stessa (per il cambiamento) – la terza dimensione è fondamentale. È direttamente connessa alla prima: la Russia ha un interesse oggettivo ad Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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accelerare lo smantellamento del vecchio ordine mondiale, ma più a lungo si conservano le fondamenta di quest’ordine, più risolutamente questo stesso ordine attaccherà coloro che desiderano cambiarlo. La parte più problematica è la seconda. Non è un caso che i più grossolani errori di calcoli siano stati commessi proprio nella preparazione della campagna militare. 7. Un secolo fa, nel 1923, il mondo mise la parola fne a un periodo di terribili sconvolgimenti. A Losanna venne frmato un trattato che fssò gli ultimi esiti della Grande guerra del 1914-18. In Russia la resa del generale Pepeljaev in Estremo Oriente pose fne alle ultime battaglie della guerra civile. Ci fu una pausa di un decennio e mezzo, che si rivelò preparatoria al secondo round della sfda mondiale. Ora è l’opposto: la pausa è terminata. Tuttavia la guerra mondiale, che questa volta non si presenterà come un unico scontro generale ma come una serie di scontri distinti, sta prendendo il via. Non sarà questione di un anno o di un biennio: il riassetto si preannuncia di lunga durata e su larga scala. È nel corso dell’anno appena iniziato, il 2023, che le prospettive del nostro paese verranno in gran parte determinate. Le dinamiche su tutti e tre i fronti sopra descritti si chiariranno. Così come le probabilità di vittoria, per come la possiamo intendere. (traduzione di Martina Napolitano) Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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‘L’America accelera in Ucraina per non fare la Guerra Grande’ Conversazione con Jeffrey MANKOFF, ricercatore al Center for Strategic Research della National Defense University, a cura di Federico PETRONI
Gli Stati Uniti sono in vantaggio nella competizione strategica con Cina e Russia? MANKOFF Per il momento, gli Stati Uniti sono in buona posizione. La guerra in Ucraina è un fasco strategico per la Russia. Mosca ha perso 180 mila soldati, migliaia di carri armati e di altri sistemi sofsticati, la sua economia è colpita da sanzioni che alla lunga incideranno sulla capacità di rigenerare le risorse belliche: uscirà dal confitto drammaticamente indebolita. Manterrà l’arma nucleare e mezzi per minacciare i vicini, ma quella minaccia sarà assai ridotta rispetto al preguerra. Anche la Cina si è indebolita nel corso degli ultimi anni. Il consolidamento del potere di Xi Jinping è avvenuto a spese del sistema di autoritarismo collettivo costruito dai suoi predecessori; così è più facile commettere errori, come la politica «zero Covid», che ha depresso la crescita e alimentato frustrazioni sociali. Ancora prima, la Repubblica Popolare stava già entrando nella trappola delle potenze a medio reddito, il diffcile passaggio dallo sviluppo alla diffusione delle opportunità e delle capacità tecnologiche. Di fatto, per Pechino è fnita l’èra degli obiettivi facili. Sono anche diminuiti gli investimenti infrastrutturali usati per incoraggiare o costringere altri paesi a seguire la volontà cinese. Il timore che Pechino usi risorse fnanziarie per modifcare importanti pilastri del sistema internazionale è oggi meno pressante. Tutto questo ha peggiorato l’equilibrio complessivo per la Repubblica Popolare. LIMES La Cina in diffcoltà potrebbe essere più pericolosa? MANKOFF Esatto. Il divario tra Cina e Stati Uniti in questi anni era calato, ma credo si stia tornando ad allargare. Per questo la dirigenza cinese potrebbe essere spinta a fare qualcosa per compensare la perdita di iniziativa. Continua a investire pesanLIMES
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‘L’AMERICA ACCELERA IN UCRAINA PER NON FARE LA GUERRA GRANDE’
temente nelle Forze armate, in particolare nella Marina, con il proposito di riprendere Taiwan. A Washington c’è preoccupazione per questa prospettiva. Se si guarda all’equilibrio militare non è più chiaro se gli Stati Uniti, Taiwan e gli alleati siano in grado di sconfggere un’offensiva cinese. LIMES Qual è l’obiettivo degli Stati Uniti in questa competizione, se esiste? MANKOFF Sul fronte indo-pacifco, dissuadere i cinesi dall’attaccare Taiwan nel breve periodo e nel medio-lungo ridurre gli investimenti militari necessari a Forze armate in grado di costruire una sfera d’infuenza. Sul fronte europeo, far fallire l’invasione russa e indebolire Mosca come avversario strategico, rendendola meno capace di porre minacce ai vicini. Se dovessi trovare il minimo comun denominatore, gli Stati Uniti vogliono impedire a russi e cinesi di avere i mezzi per costruirsi sfere d’infuenza. Vogliono il fallimento delle aspirazioni neoimperiali della Russia di Putin e della Repubblica Popolare Cinese. LIMES Avete i mezzi per conseguire questi obiettivi? MANKOFF Chiaramente li abbiamo nei confronti della Russia, che uscirà dalla guerra con minore infuenza sui vicini, con la non irrilevante eccezione della Bielorussia. Il concetto di Mondo Russo (Russkij Mir) ne uscirà compromesso. Con la Cina è più diffcile da dire. C’è un forte consenso interno negli Stati Uniti sulla necessità di impedire un attacco a Taiwan e nel caso di respingerlo. Ma se si arrivasse alla resa dei conti, non so se saremmo in grado di prevalere militarmente. Per esempio, per i cinesi è molto più facile ottenere il controllo delle acque che li separano dall’isola che per gli americani negarglielo. Per questo il nostro obiettivo primario è la dissuasione, spiegando che i costi di un’offensiva sarebbero troppo alti. Se i cinesi attaccassero, avremmo dunque fallito in partenza. Non vuol dire che avremmo automaticamente perso la guerra, ma che sarebbe molto più diffcile combatterla rispetto a quella in Ucraina. LIMES Nel suo ragionamento sullo stato di salute della Cina pesa molto il fattore della legittimazione popolare del governo. Anche gli Stati Uniti hanno i loro problemi di consenso. MANKOFF Sì, uno dei rischi più grandi che corrono gli Stati Uniti è sul fronte interno e riguarda la fragilità dell’ordine politico americano. Le forze che hanno scatenato l’insurrezione culminata nell’assalto al Congresso del 2021 si sono affevolite, non esaurite. Biden è l’ultimo presidente della generazione della guerra fredda. Ha un’idea degli Stati Uniti, del loro ruolo nel mondo, del rapporto con l’Europa, del posto del governo federale nel sistema interno che non è più ampiamente condivisa tra la popolazione come un tempo. Quando al potere salirà un altro presidente, di qualunque partito, questa idea sarà molto più contestata. La domanda più ampia riguarda la legittimazione delle istituzioni americane e del ruolo nel mondo che l’America ha giocato durante e dopo la guerra fredda. Le ali estreme di entrambi i partiti, sempre più affollate, hanno fgure infuenti che dicono che gli Stati Uniti dovrebbero fare di meno nel pianeta e preoccuparsi di più dei propri problemi domestici. E la discordia sulla struttura interna della politica americana rischia di generare tensioni che possono velocemente scatenare il caos. In Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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caso di autentica instabilità, la nostra capacità di fare da garanti del sistema internazionale sarebbe intaccata. LIMES Se gli americani contestano l’idea di un’egemonia statunitense sembrano comunque determinati a difendere il loro primato dai rivali. MANKOFF Sì ma primato per fare cosa? E con quale obiettivo? Questo è il dibattito. Non gradisco l’espressione «ordine liberale internazionale» perché non è necessariamente liberale né globale. Ma l’idea è che gli Stati Uniti dal 1945 hanno iniziato a costruire istituzioni e norme pensate per rafforzare il primato americano e per strutturare le relazioni tra le nazioni di modo che rifettessero i nostri interessi e i nostri valori. Nell’ultima generazione, quindi non solo sotto Trump, ci siamo concentrati sul mantenimento del primato, assicurandoci di disporre della forza militare più effcace e che la Cina non si costruisse una sfera economica per sfdarci. Tuttavia, la fede in quel sistema di norme e istituzioni è andata calando. Con Biden si è assistito a un ritorno di quella tradizione, di cui il presidente è un prodotto. Ma è un ritorno al futuro, cioè a un mondo che nel frattempo è cambiato molto. E con esso è cambiata l’America. Biden è un atlantista di ferro, capisce che avere dalla propria parte un’Europa prospera è il più importante moltiplicatore di potenza che si possa sperare. Non so se le giovani generazioni, a prescindere dall’orientamento politico, condividano questa profonda convinzione. Spero che la guerra d’Ucraina possa cambiare qualcosa, mostrando che la Russia è una minaccia concreta per gli interessi nostri e degli europei e che dunque è importante avere un’Europa in grado di provvedere alla propria sicurezza. I segnali sono incoraggianti: esiste un supporto piuttosto trasversale in America per continuare a fornire all’Ucraina armi e denaro per respingere l’aggressione. Per la prima volta molte persone vedono che l’Europa e la Nato sono rilevanti per la sicurezza nazionale americana. LIMES Al tempo stesso, molti in Europa dubitano della credibilità degli Stati Uniti. La vicenda dei carri armati è un buon esempio: i tedeschi hanno preteso che anche gli americani ne inviassero perché non ritengono suffcienti le garanzie di protezione di Washington? MANKOFF Sì. È innegabile che fno al 24 febbraio ci fossero dubbi sull’impegno americano verso la Nato. Ricordiamo le parole di Angela Merkel: gli europei devono abituarsi ad assumersi responsabilità perché l’America non sarà sempre lì per noi. La causa di questa posizione ha molto a che vedere con Trump e il suo atteggiamento verso l’Europa. Ma Trump è il sintomo di un distacco più profondo, che si può ripresentare in futuro con un’amministrazione non così legata alla Nato come quella attuale. Di morte cerebrale dell’Alleanza Atlantica non si parla più. Però gli anni scorsi hanno lasciato ferite che si saneranno solo col tempo e non è scontato che non vengano riaperte. LIMES A proposito di carri armati: una decisione simbolica, ma segna un cambio di passo. La guerra russo-ucraina è sempre più una guerra russo-occidentale? MANKOFF È sempre stata e continua a essere una guerra di prossimità tra la Russia e l’Occidente, come lo era quella in Afghanistan negli anni Ottanta. Mosca non minaccia soltanto Kiev, ma pure la sicurezza generale in Europa, dunque gli inteCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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ressi fondamentali degli Stati Uniti. Il tipo di armamenti fornito altera i rapporti di forza sul terreno, non la natura di questo confitto. Anzi, secondo me il ritmo con cui abbiamo inviato armi in Ucraina è stato più lento di quello che ci saremmo potuti permettere. L’approccio dell’aumento calibrato è fondamentalmente reattivo e non permette agli ucraini di riprendere l’iniziativa. Penso però che stia iniziando a cambiare, anche se il cambiamento non è ancora maturato. L’importanza della decisione sui carri sta nel fatto che ora appoggiamo apertamente il tentativo di Kiev di condurre prossimamente una controffensiva su larga scala. LIMES Perché gli Stati Uniti hanno necessità di accelerare? MANKOFF In parte perché il governo ha superato l’iniziale paura di innescare un’escalation. In parte è un’ammissione che più la guerra va avanti e maggiori sono i costi non solo per l’Ucraina, ma pure per gli europei. In parte infuisce anche la Cina e la consapevolezza di non potersi permettere il protrarsi della guerra vista la necessità di tenersi pronti nell’Indo-Pacifco. LIMES Qual è il dibattito interno all’amministrazione? MANKOFF Il dibattito ruota attorno ai nostri obiettivi fnali, alle risorse disponibili e ai rischi. Quanto agli obiettivi, ora la domanda è: aiutare gli ucraini a riprendere i territori persi dopo il 24 febbraio o quelli persi nel 2014? Oppure imporre soltanto costi altissimi ai russi senza legarsi a un preciso obiettivo geografco? Biden dice che la decisione spetta agli ucraini. E questa è la linea pubblica. È tutto da vedere se aiuteremo Kiev a riprendere la Crimea. Diversi fattori informano questa reticenza. Anzitutto, una differenza di status importante tra la penisola e gli altri territori occupati: la Russia ha formalmente annesso la Crimea, quindi potrebbe percepire diversamente da altre operazioni un tentativo di riconquistarla; se così fosse, sulla base della sua dottrina nucleare, potrebbe ricorrere all’atomica. Poi, l’aspetto logistico: una cosa è fare grandi manovre militari nelle piane orientali, un’altra è entrare in una penisola montagnosa e connessa al continente da un istmo strettissimo. Infne, la questione demografca, ossia la maggioranza russa: è diffcile capire che cosa preferisca visto che vive in regime di occupazione da nove anni, ma è possibile che in un libero referendum la maggioranza preferisca la Russia all’Ucraina. Per questo fnora gli Stati Uniti non hanno permesso a Kiev di usare i loro armamenti per bersagliare la Crimea. Gli ucraini hanno già colpito la penisola un paio di volte e il ponte di Ker0’ con l’evidente obiettivo di dimostrare agli americani di avere le capacità per farlo e che i russi non reagiscono con rappresaglie massicce. Al punto che oggi il governo di Washington inizia a dibattere se autorizzare Kiev a colpire la Crimea, ma siamo soltanto all’inizio. E non vuol dire che sosterremo una riconquista militare della penisola. L’altra componente del dibattito riguarda i rischi. Biden ha detto più volte che uno dei suoi obiettivi principali è impedire al confitto di espandersi in territorio Nato, per tenere uniti gli alleati. Per esempio, la Spagna potrebbe non essere interessata a difendere la Polonia. Non è una strada che vogliamo testare. Anche per questo, all’inizio la percezione dell’amministrazione era che la Russia avrebbe potuto veCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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dere qualunque fornitura d’arma agli ucraini come una provocazione. Oggi abbiamo visto che tutte queste linee rosse di Mosca non erano poi così rosse. Ma eccoci davanti a un altro rischio: abituarci troppo all’idea contraria, che nessuna nostra mossa sia intollerabile e che a un certo punto il Cremlino si senta obbligato ad alzare la posta. Il missile della contraerea ucraina caduto in territorio polacco è stato un episodio pericoloso, che il governo di Varsavia ha gestito bene, senza fretta, chiarendo l’accaduto. E la Russia per ora ha rispettato l’articolo V del Patto Atlantico, intuendo che siamo determinati a difenderlo. Ma ciò non vuol dire che non ci saranno altri momenti perigliosi. LIMES Gli ucraini dicono che dopo i carri riceveranno qualunque tipo di arma. Concorda? MANKOFF Non penso sia saggio dare loro tutto ciò che vogliono. Gli interessi ucraini non sono necessariamente gli stessi di quelli americani. Kiev deve capire di non essere l’unica preoccupazione degli Stati Uniti. La competizione con la Cina non sparirà perché l’Ucraina resiste. Washington deve calibrare ciò che può dare agli ucraini con una robusta posizione dissuasiva nell’Indo-Pacifco. E poi c’è la linea rossa fondamentale di non portare la guerra in Russia. Se la linea del fronte si sposta e si avvicina al confne della Federazione, anche l’artiglieria a raggio più corto che abbiamo già fornito potrebbe colpire il territorio russo. La questione quindi non è tecnica ma geopolitica: dobbiamo convincere gli ucraini a non bersagliare la Russia. LIMES Se tra qualche tempo si arriva a uno stallo, agli Stati Uniti può andare bene che la Russia rinunci a sottomettere l’Ucraina e l’Ucraina rinunci, non formalmente ma nella sostanza, alla Crimea? MANKOFF Finché c’è Biden presidente credo che la linea pubblica resterà: «Niente sull’Ucraina senza gli ucraini». Ma dietro le quinte continueranno le pressioni, già cominciate, affnché Kiev si dimostri più disponibile a negoziare, specie se si arriva a uno stallo dai costi insostenibili. Il problema è che una cessione di territori fssa un terribile precedente, non solo con la Russia ma pure con la Cina. E poi c’è la questione delle garanzie: come impedire che la guerra ricominci? Non mi piace questo approccio, ma se l’Europa, a differenza di quest’anno, non riuscisse a schivare la pallottola energetica nell’inverno 2024, potrebbero scatenarsi pressioni popolari tali da portare a cambiare politica in Ucraina. LIMES A proposito di guerra economica. Le sanzioni mordono ma non stanno cambiando i calcoli di Putin. Sono un fallimento? MANKOFF Da tempo critico l’approccio statunitense alle sanzioni: non riusciamo a spiegare a cosa servono, a parte a dire che stiamo facendo qualcosa, che siamo tutti dalla stessa parte e a far sostenere ad altri il grosso dei costi. Ma gli obiettivi strategici sono molto più vaghi. Sin dal 2014. Se lo scopo delle sanzioni era impedire una guerra, hanno chiaramente fallito. Se era far smettere l’aggressione dopo il 24 febbraio, hanno fallito. Se era innescare proteste contro il regime, hanno fallito e probabilmente continueranno a fallire. Se era indebolire le capacità russe di rigenerare risorse utili alla guerra, direi che hanno avuto successo e ne avranno ancora di più se resteranno in vigore. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Per ora però i russi compensano la riduzione della qualità delle risorse militari con la quantità. MANKOFF È così e più avanti va la guerra più costi avrà, per tutti. Ma se la pensiamo in termini di competizione strategica, è ovviamente nel nostro interesse avere una Russia più debole. Se Mosca è costretta a prendere i microchip dei suoi missili dalle lavatrici è chiaro che le sanzioni stanno avendo un impatto che a un certo punto avrà costi insostenibili per la sua industria e la sua economia. Non è detto che ciò cambierà i piani di Putin o che provocherà la sua rimozione dal potere. Ma nel lungo periodo la posizione russa sarà nettamente indebolita. Quello per me è il vero obiettivo delle sanzioni. Non è molto d’aiuto per gli ucraini, lo è più per la Nato e gli Stati Uniti. LIMES Vi conviene una Russia così dipendente dalla Cina? MANKOFF Finché Putin è al potere non avremo molta infuenza a Mosca. La nave sino-russa è salpata molto tempo fa, direi nel 2014. Putin ha riconosciuto che non si poteva tornare al ruolo di bilanciatore tra Stati Uniti e Cina. Almeno dal 2011, si è convinto che l’Occidente voglia abbattere il suo regime. Non ha un grande margine di manovra nei confronti di Pechino. Ma non avremo molto controllo sulle circostanze che porteranno alla sua fuoriuscita. Quindi non penso che in questo momento il nostro atteggiamento stia spingendo la Russia verso la Cina perché le due potenze sono già vicine. Quello che possiamo fare è diminuire il valore di Mosca come partner di Pechino. È una parte dei motivi dietro le sanzioni. LIMES Più indebolite la Russia e più la Cina guadagna infuenza nelle sue ex periferie imperiali, in particolare in Asia centrale. Vi conviene? MANKOFF L’impero russo-sovietico è in graduale refusso da fne anni Ottanta. Nelle ex periferie, Mosca ha mantenuto infuenza politica, economica e sociale anche dopo la fne dell’Urss. Ma in Asia centrale la classi dirigenti stanno cambiando: prima erano madrelingua russe, erano un prodotto della scuola sovietica, guardavano a Mosca come risolutrice dei problemi; oggi sono meno legate alla Russia. Inoltre, la guerra ha accelerato l’erosione dell’effettiva sovranità imperiale di Mosca, con la non marginale eccezione della Bielorussia. È evidente nel Caucaso, dove gli scontri tra Armenia e Azerbaigian a differenza del passato non hanno visto un ruolo decisivo della Russia, sostituita da altre potenze. Tutto questo è il frutto di dinamiche che sfuggono al nostro controllo. Inoltre, non è chiaro se la penetrazione cinese in Asia centrale sia completamente contro i nostri interessi. Pechino ha certo un’infuenza predatoria, illiberale e nociva per le minoranze che sono scappate dalla Repubblica Popolare. Ma per i governi locali avere rapporti più diversifcati con Cina, Turchia e Occidente li stabilizza e li protegge da minacce alla loro indipendenza. Gli Stati Uniti devono essere modesti in Asia centrale: non è una priorità e non riusciremo mai a pareggiare l’interesse e le risorse di Pechino per quest’area, così importante per la stabilità dei suoi confni occidentali. Il che non vuol dire che dobbiamo dimenticarcene: dobbiamo assicurarci che la regione non passi da un egemone all’altro. LIMES
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Eliminare l’identità imperiale della Russia è un obiettivo del governo degli Stati Uniti? MANKOFF Dovrebbe esserlo. È lì la genesi della sfda russa all’ordine a guida americana. Perché è la nostra mentalità a non ammettere altri imperi, nemmeno tra i nostri alleati. Basta vedere come abbiamo facilitato la dissoluzione dell’impero francese durante la decolonizzazione. LIMES Avete i mezzi per cambiare questa identità imperiale? MANKOFF No. LIMES Allora perché dovrebbe essere un obiettivo qualcosa che non avete i mezzi per raggiungere? MANKOFF Non possiamo necessariamente cambiare quel che accade in Russia e l’idea dei russi di sé stessi e del loro paese. Ma possiamo assicurarci di limitare i mezzi con cui Mosca conduce una politica imperiale all’estero. E nel tempo questa limitazione avrà effetti sugli sviluppi interni alla Russia. È un’infuenza indiretta, che potrà produrre conseguenze nell’arco di alcune generazioni. Quindi non è un obiettivo di breve periodo. LIMES Se non è possibile per gli Stati Uniti coesistere con altri imperi, non è nemmeno possibile un ordine mondiale? MANKOFF Non penso sia possibile un concerto di potenze à la Kissinger. Finché Russia e Cina rifutano i loro attuali confni, cercano di espandersi e di sottomettere i vicini, non possono stare in un sistema che rifuta questo tipo di logica. Non vuol dire che ne stanno completamente fuori, visto che fanno parte di alcune istituzioni internazionali. Ma il sistema non sarà mai in armonia. Non è un caso che i nostri rapporti con la Turchia, un alleato diffcile ma comunque un alleato, siano peggiorati proprio quando sono tornate a galla le tracce del suo passato imperiale. Ankara è una rivale di Mosca, gioca un ruolo importante nella guerra d’Ucraina, è meno minacciosa di russi e cinesi a causa di mezzi inferiori, sostiene in larga parte gli interessi americani in Medio Oriente – con l’importante eccezione della Siria. Ma le sue ambizioni imperiali generano inevitabilmente frizioni con gli Stati Uniti. E probabilmente nel tempo genereranno tensioni ancor più intense. LIMES Nel suo recente libro Empires of Eurasia, ha scritto che un impero plasma le strutture sociali e le istituzioni politiche delle periferie. Quindi anche gli Stati Uniti sono impero? MANKOFF Sì, lo sono stati e in un certo senso lo sono ancora. Non ci piace come si comportano gli altri imperi perché quel diritto lo vogliamo per noi stessi. È ipocrita? Sì, ma a Washington è marginale chi crede davvero che l’America non debba dire agli altri come gestire i loro affari domestici. Nessuno che abbia una vera infuenza politica pensa che gli Stati Uniti non debbano incoraggiare i paesi stranieri alla trasparenza, alla democrazia e a tutto il resto. Nemmeno l’amministrazione Trump ha cambiato questa logica: aveva valori diversi da diffondere, ma sempre di diffusione si trattava.* LIMES
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* Le opinioni qui espresse non rifettono quelle del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d’America.
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LA CINA SI VEDE COSÌ CONTRO L’AMERICA E SOPRA LA RUSSIA
di
YOU Ji
Per Pechino il conflitto in Ucraina è al contempo un rischio e un’opportunità. L’intesa ‘senza limiti’ con Mosca ha precise linee di fondo. Il sostegno a Kiev distrae Washington da Taipei. Il triangolo strategico si surriscalda. Le sfide nell’Indo-Pacifico.
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1. A GUERRA RUSSO-UCRAINA HA INASPRITO la rivalità tra grandi potenze, che ha assunto la forma di un confronto tra il campo occidentale guidato dagli Stati Uniti e quello anti-americano promosso dalla Repubblica Popolare Cinese, di cui la Federazione Russa è parte integrante. Resta diffcile stabilire se Pechino sia stata colta di sorpresa dall’invasione del 24 febbraio 2022. Sicuramente è rimasta delusa, poiché tale iniziativa ha reso sempre più imprevedibili le dinamiche geopolitiche globali. I funzionari cinesi non hanno condiviso la decisione di Putin di lanciare l’attacco, ma pubblicamente hanno dichiarato di comprendere le sue motivazioni, sostenendo che Mosca è stata provocata dal contenimento asfssiante di Washington e dal sostegno all’Ucraina da parte dei paesi della Nato. Pechino ha negato di essere stata a conoscenza dell’invasione. Ciò le ha permesso di non apparire complice della Russia, ma ha anche portato alla luce le crepe nella partnership con Mosca. Gli Stati Uniti avrebbero infatti avvisato i propri alleati prima di dichiarare guerra a un avversario. L’alto grado di autonomia nel rapporto tra Mosca e Pechino può anche essere considerato un vantaggio, giacché esclude che una parte diventi un problema per la sicurezza dell’altra. La mancata notifca preventiva della Russia è quindi un esempio eloquente del modo in cui è strutturata la relazione. Si tratta di una partnership, non di un’alleanza, poiché entrambi i paesi si battono per mantenere la propria autonomia strategica. La Cina, che ha sempre in mente i propri interessi nazionali, ha quindi deciso di mantenersi a debita distanza. Ciò contraddice tuttavia le dichiarazioni di Xi Jinping e Vladimir Putin dello scorso febbraio, secondo cui la relazione sino-russa sarebbe «senza limiti». Tale narrazione rifette soprattutto la comune necessità di fronteggiare le pressioni senza precedenti degli Stati Uniti e rappresenta un aggiornamento della «partnership strategica globale di coordinamento per una nuova èra» che il presidente cinese Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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aveva frmato a Mosca nel giugno 2019. Ogni parola di questa formula ricopriva una funzione precisa. Con «strategica» si sottolineava una forte propensione alla sicurezza e alla difesa. Il termine «globale» era volto a defnire un ambito di cooperazione ben più ampio della sola interazione economica. «Partnership» ribadiva che non si trattava di un’alleanza formale. Infne, «nuova èra» contribuiva a sottolineare il peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti dopo che Washington aveva identifcato Cina e Russia come principali avversari strategici 1. Prima dell’inizio della guerra in Ucraina, Pechino e Mosca si sono regolate su questi princìpi per sostenersi a vicenda. Ci si può chiedere se la successiva aggiunta dell’espressione «senza limiti» abbia indicato un salto di qualità nella cooperazione strategica, magari in direzione di un’alleanza segreta. È una formula che, anche a causa delle sue tempistiche, ha destato particolari attenzioni a livello globale. Ha forse favorito la decisione di Putin di ordinare l’invasione? I media occidentali sembrano propendere per questa logica. Il contenimento sempre più militarizzato di Washington ha spinto i due paesi ad avvicinarsi ulteriormente. «Senza limiti» potrebbe quindi suggerire quali siano le aspettative dei dirigenti cinesi qualora si avverasse lo scenario peggiore, ovvero una resa dei conti con gli Stati Uniti. In quel caso, Mosca dovrebbe tenere impegnate le forze americane in un confitto su due fronti, arginandole in Europa. Allo stesso modo, non è escluso che la Cina possa aumentare il proprio contributo se la Russia fosse in una situazione disperata. «Senza limiti» esclude però la cooperazione in una guerra contro uno Stato sovrano, come confermato dal ministro degli Esteri cinese Qin Gang 2. Anche Putin ha dichiarato di non aspettarsi che i due attori concordino su tutto. La Cina è contraria alla guerra perché pensa che la possa danneggiare. Nel 2021 è stata infatti il primo partner commerciale di Kiev, importando beni preziosi come grano, ferro e componenti per le attrezzature militari 3. I suoi investimenti nel paese hanno raggiunto i 9 miliardi di dollari e potrebbero essere andati persi nella loro interezza. Inoltre, fno all’inizio del 2022 gran parte delle merci cinesi dirette in Europa passavano attraverso la rete ferroviaria eurasiatica, resa oggi inutilizzabile dalla politica di sanzioni contro Mosca. Un duro colpo per la Belt and Road Initiative (Bri o nuove vie della seta) 4. Pechino non intende lasciarsi trascinare nella spirale del duello tra Russia e Occidente. Per questo motivo il ministero degli Esteri cinese ha presto fornito un’interpretazione uffciale del signifcato di «senza limiti». La formula si riferisce a una cooperazione bilaterale di ampio respiro, ma ha precise linee di fondo. Per esempio, durante il vertice di novembre con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, Xi Jinping ha rimarcato la propria contrarietà all’utilizzo di armi nucleari in Europa, accennando alle minacce russe in tal senso 5. Il gesto del presidente cinese va inteCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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1. Cfr. «National Security Strategy 2022», The White House, 12/10/2022. 2. Z. HUANXIN, «Envoy at Aspen: Take steps to avoid new Cold War», China Daily, 21/7/2022. 3. Cfr. B. GIRARD, «The cost of the war to the China-Ukraine Relationship», The Diplomat, 30/2/2022. 4. E. WILSON, «War in Ukraine threatens BRI, disrupts China-Europe rail freight», Euromoney, 3/2/2022. 5. A. RINKE, «Xi opposing nuclear weapons in Ukraine was reason enough to visit China, Scholz says», Reuters, 5/11/2022.
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so come un tentativo di mettere in guardia Mosca. La dicitura «senza limiti» comporta un certo allineamento di sicurezza contro una minaccia comune, ma riguarda esclusivamente la cooperazione in tempo di pace. Non serve ad avviare uno sforzo bellico congiunto. Non è rivolto contro una terza parte come l’Ucraina, né consiste in una guida pratica per la formulazione della politica cinese verso la Russia. Pertanto, dal punto di vista di Pechino la formula «senza limiti» rappresenta un’opportunità e una questione di principio. L’agenda dei dirigenti cinesi verso gli Stati Uniti e i paesi europei è chiaramente indipendente dal partenariato sino-russo. Cina e Russia sono entrambe attente a non farsi intrappolare dai possibili avventurismi dell’altra parte. Dall’inizio della guerra in Ucraina, infatti, una delle principali preoccupazioni della Repubblica Popolare è stata evitare di incorrere nelle sanzioni economiche secondarie dell’Occidente. Una scelta che ha ridimensionato lo sforzo bellico della Russia. Il rapporto bilaterale con Mosca non è quindi un’alleanza e non si spinge al di là degli interessi nazionali cinesi. Putin potrebbe pensarla allo stesso modo. 2. La guerra in Ucraina rappresenta un problema per la Repubblica Popolare, ma molti commentatori cinesi ritengono che abbia distolto gli Stati Uniti dalla loro ossessione per la Cina. Potrebbe infatti aver affevolito il ridispiegamento di truppe e la pianifcazione dell’America nell’Indo-Pacifco. La necessità di Washington di assistere Kiev con equipaggiamenti bellici ha ritardato consegne di armamenti a Taipei per oltre 18 miliardi di dollari. È sicuramente uno scenario positivo per Pechino, non importa quanto poco durerà questa defessione. Fintanto che il mondo occidentale verrà distratto dal compito di contenere la Russia, in Asia ci sarà maggiore margine di manovra. I dirigenti cinesi potranno così concentrarsi sull’affrontare le sfde più urgenti in patria, come la crescente pressione dovuta al rallentamento dell’economia e la gestione del fusso epidemico dopo la fne della politica di tolleranza zero. I paesi europei, direttamente coinvolti nella guerra commerciale e fnanziaria contro Mosca, rischiano di essere trascinati in una recessione economica. Tale scenario potrebbe costringerli a migliorare i propri legami con la Cina e avrebbe notevoli conseguenze geopolitiche. Per esempio, dall’inizio della guerra l’Unione Europea ha perfezionato la sua politica nei confronti della Repubblica Popolare e moderato il suo sostegno alle iniziative degli Stati Uniti. Qualora la riorganizzazione del sistema veterocontinentale si rivelasse un lungo processo e la Russia restasse il bersaglio principale, Pechino potrebbe promuovere un ulteriore allentamento delle pressioni. La visita di alcuni leader europei in Cina alla fne dello scorso anno rappresenta un primo segnale. Il cancelliere Scholz non ritiene possibile attuare il disaccoppiamento economico di cui parlano gli statunitensi ed è sostenuto dalla classe imprenditoriale tedesca, che nei primi tre trimestri del 2022 ha aumentato del 114% gli investimenti nella Repubblica Popolare. Anche il presidente francese Emmanuel Macron ha alzato la voce, rinnovando l’appello all’autonomia strategica continentale dopo che Washington ha venduto il proprio petrolio a un prezzo distorto. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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EUROPA
Le due ellissi intrecciate (in grigio) connettono i due oceani facendo perno sull’Asean, spazio decisivo per legare il Giappone all’India, al Medio Oriente e all’Europa
Cintura di crescita del Golfo del Bengala (BIG-B) GIAPPONE
MEDIO ORIENTE
Delhi
Gibuti
Ma nd ala y Da Nang
sean
Mumbai
Ya T ng Da hilaw on we a i
INDIA
àA vit
Duqm
Conn ett i
Ho Chi Minh
Colombo
O
c e a
n o
Mombasa Nacala Toamasina O c e a n o I n d i a n o Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Corridoio industriale Delhi/Mumbai con annesso corridoio commerciale Ammodernamento della ferrovia Yangon/Mandalay Corridoio economico Est-Ovest Corridoio economico meridionale Mombasa/Corridoio Nord Corridoio Nacala
C I N D O - P A
P a
c i f i
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L’INDO-PAC
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Nel frattempo, a Pechino si dibatte su quale tipo di guerra possa meglio servire gli interessi cinesi. Un confitto di breve durata riporterebbe il mondo rapidamente alla normalità e concederebbe alla Repubblica Popolare di riprendere i propri affari con le altre potenze in tutta tranquillità. D’altra parte, se i combattimenti si protraessero a lungo gli Stati Uniti sarebbero costretti a prosciugare ulteriormente le loro energie per aiutare l’Ucraina, sottraendo risorse al teatro indo-pacifco. Non è un caso che diversi leader occidentali abbiano già iniziato a fare dichiarazioni concilianti per stabilizzare i rapporti con la Cina. La guerra sembra infatti aver conferito a Pechino un ulteriore vantaggio per compensare le pressioni di Washington. La cooperazione militare sino-russa sembra essersi complicata. È stata rafforzata in campi come le esercitazioni congiunte, le vendite bilaterali, la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Nell’esercitazione di fne dicembre 2022, i due paesi hanno simulato la pratica di un blocco navale nei punti nevralgici del Mar Cinese Meridionale. Si sono inoltre impegnati in operazioni anti-aeree e antisommergibile. Eppure, la Repubblica Popolare ha evitato con decisione qualsiasi collaborazione che potesse associarla allo sforzo bellico in Ucraina. Ha sospeso le forniture alla Russia di chip per computer Longxin-3, ampiamente utilizzati dall’Esercito popolare di liberazione (Epl) per la sua modernizzazione militare. Il confitto russo-ucraino non presenta le stesse opportunità strategiche della guerra americana al terrorismo, ma potrebbe nuocere alla postura globale degli Stati Uniti, impegnati ad affrontare simultaneamente Cina e Russia 6. È così che si spiega l’auspicio emotivo di alcuni analisti cinesi che Mosca possa vincere la guerra. Gli Stati Uniti stanno indirizzando le proprie risorse migliori per contrastare l’impegno bellico della Russia. Vogliono impedire un potenziale attacco nucleare contro un paese della Nato. Nonostante la retorica anticinese continui a essere aspra, negli ultimi mesi le azioni ostili contro Pechino sono notevolmente diminuite. Per esempio, è calata la frequenza con cui le navi americane effettuano operazioni di libertà di navigazione (Fonop) nel Mar Cinese Meridionale. Inoltre, l’incontro tra il segretario di Stato Antony Blinken e il nuovo ministro degli Esteri cinese Qin Gang si è contraddistinto per l’utilizzo di toni particolarmente pacati. L’atmosfera in cui si è svolto il vertice bilaterale di Bali tra Xi e Biden, avvenuto lo scorso 15 novembre, ha inoltre ribadito l’intenzione di Washington di non compromettere eccessivamente i rapporti con Pechino. Il presidente americano si è congratulato con il suo omologo cinese per aver ottenuto il terzo mandato e ha confermato il proposito di non interferire nel sistema politico della Repubblica Popolare, di non cercare una nuova guerra fredda o uno scontro militare, di non sostenere l’indipendenza di Taiwan e di rispettare il principio «un paese, due sistemi». In altri termini, la Casa Bianca intende dare priorità alle sfde più urgenti in patria, dall’alta infazione alla recessione incombente. E per questo cerca di allentare le tensioni con Pechino. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. B. GLOSSERMAN, «The invasion of Ukraine is an opportunity for China», Japan Times, 30/3/22.
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3. La Repubblica Popolare considera il confitto in Ucraina nella più ampia prospettiva della nuova guerra fredda, nella quale si trova costretta a sopportare l’incessante pressione economica e militare degli Stati Uniti. Dal punto di vista morale molti cinesi non appoggiano le attività belliche della Russia, ma non sperano nemmeno che essa perda, poiché pensano che stia combattendo contro l’egemonia a stelle e strisce anche per conto della Cina 7. Nel calcolo di Pechino, messa alle strette dal rafforzamento di schieramenti ostili come il Quad, la questione di chi abbia dato avvio ai combattimenti è di secondaria importanza. I dirigenti cinesi hanno provato a mantenere una buona relazione con i russi anche senza supportare le sue operazioni militari in Ucraina. Il punto principale sta nella scelta tra l’allinearsi ulteriormente con la Russia e il mantenere una giusta distanza con essa per proteggere le relazioni economiche con l’Occidente. L’invasione del 24 febbraio 2022 ha accresciuto le tensioni all’interno del triangolo strategico tra Pechino, Mosca e Washington. Il futuro è ricco di incertezze. Gli Stati Uniti potrebbero considerare una Russia devastata dalla guerra un rivale meno signifcativo. Lo stesso vale per la Cina, che potrebbe perdere interesse per un partenariato sempre più oneroso a fronte delle pressioni occidentali. Questo scenario potrebbe avere un impatto tale da mutare la struttura dell’intero sistema internazionale. Se Mosca venisse paralizzata dal confitto e dalle sanzioni, i cinesi si troverebbero costretti a mettere in dubbio la sua utilità per bilanciare l’ostilità di Washington. Potrebbero forse arrivare ad accantonare la partnership in attesa di tempi migliori? Non sembra probabile, per ora. Lo confermano i toni amichevoli del vertice tra Putin e Xi del 30 dicembre 2022. L’aumento dell’animosità statunitense stimola i due paesi a costruire legami più stretti 8. Il presidente russo ha infatti invitato a sorpresa il suo omologo cinese in Russia la prossima primavera e Xi ha accettato volentieri la proposta. Tale visita potrebbe rappresentare il simbolo di una più stretta relazione sino-russa, ma dal punto di vista di Pechino potrebbe anche rivelarsi l’occasione per perseguire un’iniziativa di pace a nome di molti paesi, compresi i membri dell’Alleanza Atlantica. La Repubblica Popolare deve tenere sempre in considerazione la possibilità di uno scontro militare nel Mar Cinese Meridionale o nello Stretto di Taiwan. In tal caso, sarebbe molto utile se la Russia riuscisse a bloccare parte delle forze statunitensi nel teatro europeo. È questa possibilità che determina il calcolo cinese su quale ruolo recitare nel triangolo strategico. Pechino non vorrebbe assistere a una sconftta russa causata dalle sanzioni occidentali o dalla sua ineffcienza sul campo di battaglia. Al tempo di Kissinger il «due contro uno» si rivelò una formula vincente nel gioco trilaterale della guerra fredda. Oggi la Repubblica Popolare si trova di nuovo in una posizione di relativo favore, malgrado la Russia sia un socio decisaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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7. «Shankou xinzhi, Zhongguo he E Wu zhanzheng: Zhong E gongtong fan Mei guanxi de shenhua yu juxian» («Yamaguchi Shinji, la Cina e la guerra russo-ucraina: l’approfondimento e i limiti delle relazioni congiunte sino-russe in funzione anti-americana»), Nids Paper, n. 218. 8. Sul tema si veda B.K. YODER, «Power shift, third-party threats, and credible signals: explaining China’s successful reassurance of Russia», International Politics, vol. 57, n. 3, 2020.
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mente più debole 9. Se il confitto in Ucraina portasse il regime di Putin a un lento collasso, Pechino andrebbe incontro a un testa a testa con Washington che rafforzerebbe notevolmente la capacità americana di giocare da una posizione di forza. Lo ha dichiarato lo stesso Antony Blinken ad Anchorage nel marzo 2021 10. I dirigenti politici di Pechino non sono così imprudenti da credere che il confitto in Ucraina possa defnitivamente distrarre gli Stati Uniti dall’Indo-Pacifco. In termini strategici, come ricordato dal segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin, «la Russia è l’obiettivo prioritario, la minaccia acuta, ma la Cina rappresenta la competizione incalzante» 11. Insomma, la guerra in Ucraina non diminuisce la rilevanza della sfda cinese. Washington riesce sempre a trovare una tattica per perseguire il contenimento della Repubblica Popolare. Allo stato attuale, il suo obiettivo è paralizzare fatalmente la Russia e subordinare a sé i paesi europei 12. La maggior parte degli opinionisti internazionali ritiene che gli Stati Uniti siano gli unici vincitori della guerra in Ucraina. Hanno appianato le linee di faglia continentali. Hanno costretto Francia e Germania a esercitare una maggiore pressione economica sulla Russia. Hanno fatto una fortuna vendendo le proprie risorse energetiche in Europa a un prezzo più alto. L’America, in ultima analisi, si troverà in una posizione nettamente più favorevole per dominare la Nato e per dirigerla contro i propri avversari. Questo signifca che l’Occidente, una volta soffocata la Russia, potrebbe concentrare tutte le proprie risorse contro la Cina. Nella prossima fase della contesa tra Est e Ovest, Pechino potrebbe trovare sempre più diffcile gestire il suo già avverso intorno strategico. La sua reazione alla guerra in Ucraina deriva quindi dall’obiettivo di difendersi dalla pressione occidentale, non dal proposito di salvaguardare gli interessi di altri Stati. Compresa la Russia. Il comportamento cinese non è neppure infuenzato da valutazioni morali o ideologiche. Proprio come nel caso dell’India, la Repubblica Popolare tiene conto esclusivamente del rapporto costi-benefci 13. Pechino continuerà a percorrere una linea sottile, aiutando Mosca a controbilanciare la morsa occidentale senza tuttavia mettere a rischio i propri interessi vitali. Nel corso dell’ultimo anno la Repubblica Popolare ha aumentato del 40% le importazioni di prodotti energetici russi, una grande boccata di ossigeno per una Russia affamata di denaro. Ma si è rifutata di fornirle apparecchiature militari cruciali come i droni. E questo ha gettato un’ombra sulle relazioni bilaterali. Molte aziende cinesi si sono adeguate al regime di sanzioni occidentali e hanno ridotto i legami commerciali con Mosca. Se non lo ammettono apertamente è per paura dei Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
9. Cfr. L. DITTMER, «The strategic triangle: an elementary game-theoretical analysis», World Politics, vol. 33, n. 4, 1981. 10. D. BRUNNSTROM, H. PAMUK, M. MARTINA, «U.S., Chinese diplomats clash in high-level meeting of Biden administration», Reuters, 19/3/2021. 11. L.J. AUSTIN III, «Secretary of Defense Budget Posture Hearing Opening Testimony at the Senate Armed Services Committee», U.S. Department of Defense, 7/4/2022. 12. Cfr. M. RYAN, A. TIMSIT, «U.S. wants Russian military “weakened” from Ukraine invasion, Austin says», The Washington Post, 25/4/2022. 13. «US “understands” India’s position on Ukraine war», Deccan Herald, 12/4/2022.
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possibili contraccolpi, in particolare da parte dei cittadini cinesi, i quali sono in gran parte favorevoli alla causa russa. È probabile che Cina e Russia abbiano trovato una certa intesa sulla guerra in Ucraina. Eppure, la ricerca di autonomia strategica da parte di Pechino ha confermato i sospetti dell’Occidente verso un partenariato percepito come mero «asse di convenienza» 14. Nel lungo periodo, non è impossibile immaginare uno scenario in cui il legame sino-russo sarà attenuato. Per esempio, un cambio di regime in Russia potrebbe spingere Mosca tra le braccia della Nato. La Repubblica Popolare, a quel punto, si trasformerebbe in un rivale. È questa la ragione per cui la Cina fa affdamento soltanto su sé stessa. 4. Mentre il mondo assiste a un confitto sul suolo europeo senza precedenti dalla fne della seconda guerra mondiale, si intensifca anche la competizione per plasmare il futuro dell’Indo-Pacifco. La guerra in Ucraina ha alzato la posta in gioco tra le grandi potenze e portato alla formazione di coalizioni contrapposte. Gli Stati Uniti sono in fase offensiva e mobilitano la deterrenza collettiva contro Cina e Russia. Hanno organizzato con successo un ampio fronte unito contro l’invasione dell’Ucraina e spinto i loro alleati – per esempio Canada e Australia – a condurre attività di monitoraggio in prossimità delle regioni costiere della Repubblica Popolare. Ciò ha portato Pechino e Mosca a stringere ulteriormente i loro legami strategici. La nuova guerra fredda si sta surriscaldando e ciò aumenta il pericolo di un confitto nucleare. L’approccio di Washington è al contempo collettivo e militarizzato. Lo dimostra perfettamente la Strategia per l’Indo-Pacifco, pubblicata lo scorso maggio dall’amministrazione Biden. Descrive gli Stati Uniti come la forza trainante e dominante nella regione. Agli occhi degli americani, per contenere Pechino occorre anzitutto rafforzare le due catene di isole nell’Oceano Pacifco occidentale e fare ricorso alla Pacifc Deterrence Initiative. Ci sono quindi i quadri di cooperazione in materia di difesa, come l’Aukus, il Quad e la comunità d’intelligence dei Five Eyes. Infne, il documento menziona le principali direttrici geopolitiche americane: le alleanze bilaterali, l’Indo-Pacifc Economic Framework for Prosperity (Ipef), l’espansione della Nato in Asia e gli addestramenti militari multilaterali. Questo sistema forma un vasto ombrello volto a controllare tutta l’Eurasia. Dalla prospettiva dei dirigenti cinesi il confitto in Ucraina lancia un monito inequivocabile. Siccome una guerra nucleare tra le grandi potenze del pianeta non è più un fatto impensabile, occorre fare il possibile per mantenere la pace. La teoria del realismo politico sostiene che per evitare una «mutua distruzione assicurata» (mad) i principali attori non dovrebbero solo dissuadere gli avversari, ma anche rispettare le loro capacità di deterrenza 15. È questione di logica. Le parti più deboCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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14. B. LO, Axis of Convenience: Moscow, Beijing, and the New Geopolitics, Washington D.C. 2008, Brookings Institution Press. 15. R. JERVIS, «The Dustbin of History: Mutual Assured Destruction», Foreign Policy, 9/11/2002.
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li del triangolo Cina-Stati Uniti-Russia devono mettere da parte i confitti d’interesse e pervenire a legami più stretti. Oggi Pechino e Mosca sono ben lungi dallo stringere un’alleanza formale, ma se i loro interessi vitali fossero fatalmente minacciati potrebbero spingersi oltre, fno a rispondere all’unisono alle provocazioni percepite. La lezione da trarre dalla guerra in Ucraina è che una grande potenza deve rispettare le «linee rosse» delle sue rivali e lasciare spazio al compromesso, per il bene comune del mondo. Se i limiti verranno calpestati ancora, ne pagheremo tutti le conseguenze. (traduzione di Giacomo Mariotto)
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BANDOW Assuefatti al soccorso americano via Nato, gli europei condannano Mosca con forti riserve e scarse risorse. L’escalation è disastrosa anche per gli Usa. Le ipocrisie occidentali. Kiev dovrebbe scegliere: continuare la guerra senza di noi o finirla, presto, con il nostro aiuto. di Doug
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1. L CONFLITTO TRA UCRAINA E RUSSIA imperversa da un anno. Scatenare il demone della guerra è stato un crimine terribile e ingiustifcato, malgrado le molte menzogne e provocazioni dell’Occidente. Tuttavia, i paesi Nato dovrebbero smetterla con le grida di battaglia. America ed Europa non sono innocenti: Washington e i suoi alleati fanno ciclicamente guerre contro Stati più deboli e hanno ucciso molte più persone della Russia, comprese centinaia di migliaia di civili – involontariamente, certo, ma ciò importa poco ai morti e ai loro cari – in Iraq, Libia, Afghanistan e Yemen. Ci sono anche le vittime innocenti delle letali sanzioni economiche, sulle quali una fredda Madeleine Albright disse: «È un prezzo che vale la pena pagare» 1. Sinora il sostegno statunitense ed europeo a Kiev ha consentito a Zelens’kyj di frustrare gli aggressivi intenti russi di conquista o smembramento dell’Ucraina. Malgrado i benvenuti successi di questo sforzo difensivo, la vittoria resta però sfuggente. Incerte sono, in particolare, le prospettive delle offensive prospettate da ambo le parti. Con un sistema informativo così sbilanciato verso l’Ucraina, è diffcile valutare le affermazioni secondo cui Kiev avrebbe quasi esaurito le sue riserve di uomini e mezzi, mentre Mosca si appresterebbe a sferrare un attacco potenzialmente devastante. In ogni caso, la riconquista ucraina di Donbas e Crimea sarebbe possibile solo se Vladimir Putin evitasse l’escalation e accettasse la sconftta: ipotesi a dir poco fantasiosa. Mentre scrutano cupi l’incerto futuro, Stati Uniti e alleati continuano a dibattere sui limiti dell’aiuto all’Ucraina. La Germania ha ceduto sull’invio dei carri Leopard, ma la Polonia e altri Stati baltici appaiono molto più propensi a rischiare la Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. «Madeleine Albright justifes the deaths of 500,000 Iraqi children as “worth it”», Cbs (60 minutes), YouTube, 9/2/1997.
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guerra, presumibilmente certi che l’America combatterebbe con e per loro se il confitto si allargasse. Nemmeno a Washington, città colma di tracotanza e ipocrisia, la prospettiva di un confitto con Mosca suscita grandi entusiasmi. Vero è che David Petraeus, lo screditato ex direttore della Cia condannato per aver spifferato segreti alla sua amante, ha proposto un attacco su vasta scala 2 alle forze russe in risposta a qualsiasi uso di armi nucleari contro l’Ucraina da parte del Cremlino. In pochi però hanno sostenuto quest’idea balzana, che quasi certamente provocherebbe rappresaglie foriere di possibili scambi atomici. A parte alcuni barricaderi in posti come l’Atlantic Council, che pratica lobbismo uffcioso per Kiev, pochi in America credono che la difesa dell’Ucraina valga una guerra e men che mai un confitto nucleare. Ciò non deve sorprendere. L’iniziale promessa di ammettere l’Ucraina (e la Georgia) nella Nato fu fatta su pressione dell’amministrazione di George W. Bush, per insipienza e cattiva coscienza specie dopo la distruttiva guerra all’Iraq. Per fortuna, nessun membro dell’alleanza condivideva la volontà americana di minacciare una guerra per l’Ucraina, il che portò alla tiepida e vaga promessa di un ingresso futuro, formulata al vertice di Bucarest del 2008. Nei 14 anni successivi nessuno dentro la Nato era pronto a scendere in guerra per Kiev: i governi alleati si dicevano entusiasti all’idea di accogliere l’Ucraina nei loro ranghi, ma si rifutavano di muovere un dito a tal fne. Nemmeno l’ammasso di truppe russe al confne ucraino nell’autunno 2021 è valso a cambiare questo stato di cose. Quando il segretario di Stato Lloyd Austin visitò l’Europa ripeté le stesse, svergognate e vuote promesse dei suoi predecessori 3. Nessuno voleva dire la verità a governo e popolo ucraini: che americani ed europei non volevano battersi contro la Russia per loro. Perché avrebbero dovuto? Nessuno degli alleati aveva mai ritenuto Kiev vitale per la propria sicurezza. In tutta la storia degli Stati Uniti e in quella più recente dell’Europa, l’Ucraina è stata controllata dall’impero russo nelle sue incarnazioni zarista e sovietica. L’indipendenza ucraina era un prodotto del collasso sovietico, non una causa concepita o coadiuvata da Washington e Bruxelles. I membri europei della Nato non sembrano nemmeno desiderosi di sostenersi a vicenda. Su tredici alleati europei sondati 4 dal Pew Research Center, solo in tre una maggioranza scenderebbe in guerra per difendere i propri vicini, mentre ovviamente tutti i paesi si aspettano che gli Stati Uniti intervengano militarmente. Nei trent’anni di indipendenza dell’Ucraina poco o nulla si è fatto anche solo per portare il paese nella Ue. Dopo l’invasione russa Bruxelles ha svogliatamente acconsentito a un iter d’accesso accelerato, ma lo status di paese candidato è solo il primo passo. Diffcilmente l’Ucraina rispetterà i criteri d’adesione e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. E. HELMORE, «Petraeus: US would destroy Russia’s troops if Putin uses nuclear weapons in Ukraine», The Guardian, 2/10/2022. 3. J. GARAMONE, «Secretary of Defense Travels to Europe to Reassure Front Line States», dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, 17/10/2021. 4. M. FAGAN, J. POUSHTER, «NATO Seen Favorably Across Member States», Pew Research Center, 9/2/2020.
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con ogni probabilità l’entusiasmo europeo scemerà insieme al sostegno per la causa di Kiev. Tra dieci o vent’anni, verosimilmente, a Bruxelles si starà ancora discutendo dell’ingresso ucraino nella Ue e nella Nato. In ogni caso, che l’Europa non ritenga essenziale difendere l’Ucraina lo dimostra il fatto che non lo sta facendo. Se davvero agli europei importasse del paese, non si preoccuperebbero di quali conseguenze comporti inviare armi. La stessa Washington ha rintuzzato il tentativo ucraino di trascinare la Nato nel confitto dopo l’incidente del missile (ucraino) caduto in Polonia, rinfacciando aspramente a Kiev le sue tattiche disoneste 5. Purtroppo, la falsa affnità con l’Ucraina ostentata dall’Occidente ha sviato Mosca. I paesi Nato rifutano di ammettere le loro responsabilità per aver violato le ripetute promesse 6 alla Russia di non espandere l’alleanza; ignorare gli avvertimenti russi 7 è stato un imperdonabile azzardo. Putin non è esattamente la controparte ideale in un negoziato, ma anche gli occidentali hanno dimostrato che di loro non ci si può fdare. Ora l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ci informa 8 che gli accordi di Minsk, negoziati per porre fne al confitto nel Donbas, erano una menzogna: «Un tentativo di guadagnare tempo all’Ucraina. Tempo che Kiev ha speso per rafforzarsi, come possiamo constatare. L’Ucraina del 2014-15 non era l’Ucraina odierna». 2. La condotta occidentale non giustifca l’invasione russa dell’Ucraina, ma aiuta a spiegare la risposta di Putin. E gli Stati Uniti, che per due secoli hanno defnito l’emisfero occidentale sfera d’interesse americano – la Dottrina Monroe fu originariamente formulata in funzione anti-europea – considerano ora inaccettabile che la Russia agisca come essi hanno agito contro Mosca. Se quest’ultima avesse rovesciato il governo messicano, inviato suoi emissari a Città del Messico per installarvi un governo amico 9 e invitato quest’ultimo a entrare nel Patto di Varsavia, Washington avrebbe probabilmente trasudato isteria e minacce di guerra. Una crisi dei missili di Cuba al quadrato. Il confitto ucraino è ancora in pieno svolgimento, ma già si discute dei futuri assetti di sicurezza. Kiev chiede garanzie e l’Occidente avanza idee, fermo il rifuto di un ingresso ucraino nella Nato. Un anonimo consigliere di Emmanuel Macron ha dichiarato 10 che la Francia «è pronta a dare garanzie di sicurezza [all’Ucraina]: se questa venisse attaccata, potremmo valutare i mezzi per assisterla e consentirle di ripristinare la propria sovranità e la propria integrità territoriale». Tradotto: nessuna garanzia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. D. BANDOW, «War in Ukraine Reaches a Tipping Point», American Conservative, 24/11/2022. 6. ID., «Not In My Back Yard, But In Yours», American Conservative, 5/5/2022. 7. «2007 Putin Speech and the Following Discussion at the Munich Conference on Security Policy», Johnson’s Russia List, 27/3/2014. 8. «Merkel: Minsk agreements were meant to “give Ukraine time”», Al Mayadeen, 8/12/2022. 9. «F*** the EU: Alleged audio of US diplomat Victoria Nuland swearing», ODN News, YouTube. 10. J. HANKE VELA, «Brussels Playbook: French debate – Ukraine’s future – Janša’s notable quotables», Politico, 20/4/2022.
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Alconbury Molesworth Mildenhall Lakenheath (Aeronautica)
GERMANIA
NORVEGIA
Ra Sem Lan mst bach dst ein (E u (A se Sto hl (C eron rcito Spa cca ong au ) n rda iun tica B gdah (Co ta) ) aum lem ng (Ae ho A iu K Ho nsba nta) aise Wie lder rona he ch rsl sb (Es nfe (E au ad erc utica ter en ito ) ls ( serc Ga n ( (E ) Ese ito rm Ese ser rcit ) V isc c r i h( cito to) ilse Ese o) ) ck rcit (Es o) erc ito )
REGNO UNITO
Trondheim (Marina)
Chièvres Bruxelles (Esercito) PAESI BASSI GERMANIA Schinnen (Esercito) BELGIO
Redzikowo (Congiunta) Orzysz (Esercito) POLONIA Łask (Aeronautica)
Lajes Field, Azzorre (Aeronautica) Aviano (Aeronautica) Vicenza (Esercito) PORTOGALLO
ROMANIA Deveselu (Nato)
Rota (Marina) TURCHIA GRECIA Baia di Suda (Marina)
Mar Mediterraneo
ALGERIA TUNISIA
Paesi con importanti basi Usa Paesi con presenza militare in località segrete Circa 900 soldati americani in Siria (2022)
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Sigonella (Marina) Sidi Ahmed (Forze speciali - Cia)
MAROCCO
Kürecik (Congiunta) İncirlik (Aeronautica) SIRIA
CIPRO Akrotiri (Aeronautica - GB) ISRAELE
al-Wīġ (Forze speciali - Cia) LIBIA
M ar C as pi o
Mar Nero
Pisa-Livorno (Esercito) ITALIA Napoli (Marina)
SPAGNA
Mihail Kogălniceanu (Congiunta)
E G I T T O Il Cairo (Congiunta)
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PRINCIPALI BASI USA TRA EUROPA E MEDITERRANEO
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Mariya Omelicheva, del National War College, ha sottolineato 11 l’avversione dell’amministrazione Biden a «garanzie giuridicamente vincolanti». Da cui l’idea di un modello israeliano: «Incentrare la sicurezza ucraina sul principio dell’autodifesa come alternativa migliore alla sicurezza collettiva derivante da un’eventuale adesione di Kiev alla Nato». Cioè: proseguire l’attuale politica alleata di armare e addestrare le Forze armate ucraine. L’Ucraina, comprensibilmente, preferirebbe entrare nell’Alleanza Atlantica. Qualche mese fa Zelen’skyj ha affermato 12: «Di fatto, siamo già nella Nato. Di fatto, abbiamo già dimostrato di saper combattere con standard Nato». Perché, allora, non ammettere Kiev anche di diritto? I membri dell’alleanza, però, scimmiottano i Borbone, di cui Talleyrand diceva che non imparavano nulla né dimenticavano nulla. Se la Nato facesse sul serio, avrebbe ammesso l’Ucraina nei suoi ranghi già l’anno scorso. Invece, nel novembre 2021 l’alleanza collocava l’ingresso di Kiev in un imprecisato futuro 13: «Ribadiamo fermamente la nostra politica della porta aperta e quanto deliberato a Bucarest nel 2008 con riferimento a Ucraina e Georgia». Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg è apparso possibilista, ma ha evitato 14 qualsiasi riferimento alla tempistica: «È importante procedere un passo alla volta», ha detto. Ha anzi affermato che aiutare Kiev è più facile se questa resta fuori dalla Nato: «L’urgenza, ora, è assicurarci che l’Ucraina prevalga ed è ciò che stiamo facendo». Inutile cercarvi un senso: gli alleati non ammetteranno il paese nella Nato perché non lo reputano nel loro interesse. La commedia continua. Si tratta di una questione saliente per Washington. Malgrado le pretese europee di leadership, la formula della Nato resta «Nord America più gli altri». Finché l’Europa non prenderà sul serio la difesa – il solo pensiero induce al riso – il ruolo statunitense resterà decisivo 15, come evidenziano le ultime uscite dell’alleanza 16. Stare a ricasco degli Stati Uniti resta il fondamento della difesa europea, che era e rimane fardello primario di Washington. Pertanto, la posizione statunitense continuerà a orientare la politica europea. Voci minoritarie in Europa spingono per la guerra, non solo tra i baltici. Un non lucidissimo opinionista britannico, Simon Tisdall, ha sentenziato 17: «Per sconfggere la tirannia l’Europa deve battersi, e battersi per vincere. Il nostro futuro collettivo dipende da questo». Ovviamente, può fare sparate simili perché Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
11. M.Y. OMELICHEVA, «Fortress Ukraine», Ponars Eurasia, giugno 2022. 12. L. Bayer, «The West’s last war-time taboo: Ukraine joining NATO», Politico, 6/12/2022. 13. «Statement by NATO Foreign Ministers-Bucharest, 29-30 November 2022», Nato, 29/11/2022. 14. M. RYAN, E. RAUHALA, R. DIXON, «Ukraine presses NATO on membership, but alliance gives no guarantees», The Washington Post, 30/11/2022. 15. «Joint Declaration on EU-NATO Cooperation by the President of the European Council, the President of the European Commission, and the Secretary General of the North Atlantic Treaty Organization», Nato, 10/1/2023. 16. H. FOY, «Joint Nato-EU declaration enshrines “importance of the transatlantic bond”», Financial Times, 10/1/2023. 17. S. TISDALL, «Ukraine is fghting for all of us. Now Europe must fght Putin too», The Guardian, 22/1/2023.
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presume che se l’Europa dichiara guerra alla Russia, a combatterla sarà l’America. Del resto, l’esercito britannico possiede appena 227 carri armati 18. Votato alla sconftta di Mosca, il governo Sunak ne ha generosamente offerti 14 all’Ucraina 19. Contestualmente, il premier britannico ha però ritrattato il precedente impegno all’aumento della spesa militare 20. Come stupirsi, allora, se anche la Germania ridimensioni la sua «svolta» (Zeitenwende)? Se guerra sarà, sarà l’America a fare il grosso del lavoro sporco, con gli europei seduti a guardare. Anche alcuni negli Stati Uniti premono per uno scontro aperto con la Russia. Tisdall ha citato Wesley Clark, il comandante della Nato licenziato dall’amministrazione Clinton. Decenni dopo aver ordinato ai suoi subordinati di rischiare la guerra con Mosca 21 fronteggiando le truppe russe che accorrevano in Kosovo sulla scia dell’offensiva Nato in Jugoslavia, un Clark in pensione e alquanto confuso – come si evince anche dalle sue tirate guerrafondaie in vari webinar sull’Ucraina – non esiterebbe a rischiare di nuovo una guerra contro il Cremlino. Joe Biden è più realista e sembra speri ancora di scongiurare il baratro del confitto con Mosca. Donde la cautela della sua amministrazione nell’evitare l’espansione e l’intensifcazione della guerra. Kiev può decidere i propri obiettivi bellici, ma non pretendere il sostegno alleato a qualsiasi sua scelta. Non è nell’interesse di nessuno, specie di americani ed europei, venire alle armi con una potenza nucleare. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. L’invasione russa dell’Ucraina è stato un atto di aggressione criminale, ma ciò purtroppo non la rende unica, malgrado le isteriche asserzioni contrarie. Oltre quarant’anni fa l’Iraq di Saddam Hussein invase l’Iran, innescando otto anni di carnefcina in cui Washington sosteneva l’aggressore. Morti stimati: oltre un milione. Il decennio successivo vide i massacri nella Repubblica Democratica del Congo, in cui si calcola siano morti circa 5,4 milioni di persone 22. Pochi in America e in Europa si preoccuparono di quell’immane tragedia. Nel 2003 è stata la volta della gratuita invasione statunitense dell’Iraq sulla scorta delle inesistenti armi di distruzione di massa, con l’acquiescenza – se non il sostegno – di svariati esecutivi europei. La guerra russo-ucraina ha scatenato infnite litanie sui due lati dell’Atlantico perché «si combatte di nuovo sul suolo europeo». L’ordine basato sul diritto, così spesso evocato, è un costrutto che Washington vìola ogniqualvolta le conviene, cioè spesso. Il confitto ucraino non ha nulla a che fare con la presunta contrap-
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18. S. MANSOOR, «Ukraine Is Getting British Tanks. What Its Military Really Needs Is German Leopard 2s», Time, 19/1/2023. 19. P. WINTOUR, D. SMITH, «UK foreign secretary defends “moral imperative” of sending tanks to Ukraine», The Guardian, 17/1/2023. 20. J. SCOTT, «Rishi Sunak ducks 3% defence spending commitment - but points to “track record” on investment», Sky News, 14/11/2022. 21. M. TRAN, «“I’m not going to start Third World War for you”, Jackson told Clark», Guardian, 2/8/1999. 22. «Mortality in the Democratic Republic of Congo: An ongoing crisis», International Rescue Committee, 1/5/2007.
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posizione democrazie/autocrazie, che vede le prime corteggiare alla bisogna i peggiori regimi mediorientali e centroasiatici. Come l’Arabia Saudita, che per otto anni ha condotto una guerra criminale contro lo Yemen con il dichiarato sostegno di Washington e Londra. Negli ultimi vent’anni, i soli interventi militari degli Stati Uniti hanno fatto molte più vittime 23 di quante la Russia ne abbia provocate sinora in Ucraina. Niente di tutto ciò giustifca le azioni di Putin, ovviamente. Ma la retorica autocelebrativa dell’Occidente non farà che prolungare questo truculento confitto. L’imperativo, per Ucraina e Nato, è porre fne alle ostilità. Più facile a dirsi che a farsi, purtroppo. Il comprensibile ma semplicistico «sconfggiamo la Russia» è slogan buono per la guerra, non per la pace e tantomeno per la stabilità. Il desiderio di vendetta sull’aggressore è comprensibilmente forte – i cimini della Russia sono molti e le conseguenze dell’invasione gravi – ma gli alleati occidentali hanno fatto molto per avvelenare le relazioni con Mosca e precipitare le fatali decisioni di Putin. Inoltre, la pretesa di riparazioni e reintegri territoriali rende il Cremlino meno incline a trattare e più deciso a rilanciare. Cruciale, al riguardo, è che la Russia resta militarmente superiore all’Ucraina e più disposta dell’Occidente all’escalation. I governi sulle due sponde dell’Atlantico insistono che spetti a Kiev decidere se e quando trattare; essi non intendono forzarle la mano. Tuttavia, non possono nemmeno dare a Zelens’kyj un assegno in bianco. Il sostegno dev’essere condizionato e fnalizzato, in ultima istanza, ad aumentare la sicurezza della Nato. Questo implica lavorare per porre fne alla guerra il prima possibile, anche prima di quando governo o popolo ucraino eventualmente desiderino. La Nato deve imporre a Kiev una scelta: proseguire la guerra per conto proprio o terminarla con il suo sostegno. Che tratti avrebbe una pace? Ricostruire un ordine stabile e reintegrare la Russia può rivelarsi più diffcile che fermare le ostilità. Nel valutare la situazione oggi occorre ricordare cosa sarebbe potuto essere. Si ricordi l’amichevole discorso di Putin nel 2001 al parlamento tedesco e lo si confronti con la sua acrimonia alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007. In questo lasso di tempo la sua visione della Nato è mutata considerevolmente, per l’incapacità (specie) statunitense di mostrare la minima empatia strategica verso Mosca, come attestano l’ampliamento della Nato e lo smembramento della Serbia. L’opportunità di venire a patti è sfumata molto prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Una nuova guerra fredda, tuttavia, non serve a nessuno. La pace punitiva non funzionò nel 1919 e avrebbe conseguenze simili oggi, dove la principale alternativa a Putin sono nazionalisti ancor più duri, non liberali flo-occidentali. Puntare a mantenere la Russia isolata e sanzionata rischia di trasformarla in un’immensa e iper-armata Corea del Nord, minaccia alla stabilità regionale e alla Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
23. Per dati e statistiche dettagliate, cfr. l’osservatorio «Cost of war» del Watson Institute for International and Public Affairs, Brown University.
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pace globale. Stolto sarebbe anche ignorare i seri timori per la sicurezza nazionale nutriti da molti russi infuenti. Con buona pace dei moralisti, non ci sono soluzioni semplici. È tempo che gli Stati Uniti impongano la condivisione dell’impegno militare. Con la nuova maggioranza repubblicana alla Camera dei rappresentanti, l’amministrazione Biden dovrebbe fornire l’aiuto militare già autorizzato solo se gli altri membri della Nato corrispondono altrettanto. Washington dovrebbe inoltre ritirare i 20 mila soldati aggiuntivi schierati in Europa dal febbraio 2022, invitando altri Stati dell’alleanza a compensare l’ammanco. Il governo federale degli Stati Uniti spende più di quanto incassi e alimenta un debito enorme anche senza guerre o epidemie virali. L’America non può più permettersi di essere il benefattore dell’Europa, specie a fronte della sfda cinese. La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina è orribile e deve fnire il prima possibile. A sopportarne il costo maggiore sono gli ucraini, ma il rischio di escalation e allargamento del confitto minaccia anche gli alleati europei della Nato, sempre più ostaggi di una guerra per procura contro Mosca. I governi europei dovrebbero essere franchi con le loro popolazioni e iniziare un serio dibattito sui crescenti pericoli del sostegno a Kiev. (traduzione di Fabrizio Maronta) Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Un anno dopo Che cosa è diventata la guerra in Ucraina Tavola rotonda con Nicola CRISTADORO, Germano DOTTORI e Virgilio ILARI a cura di Lucio CARACCIOLO e Giuseppe DE RUVO
LIMES Di che guerra stiamo parlando? ILARI Se la limitiamo alla secolare partita
fra l’asse russo-tedesco e i suoi nemici storici (impero britannico, repubblica polacco-lituana e Stati scandinavi), risalirei al 1763, inizio del confitto russo-britannico; o al 1794, fondazione di Odessa e defnitiva spartizione russo-tedesca della Polonia. Ma possiamo anche partire dal 1854, guerra di Crimea (vinta dai russi con la cessione cinese della Manciuria) in cui nacque il primo Occidente anglo-francese coi satelliti italiano e turco. O dal 1863, con le insurrezioni polacco-lituane istigate e poi abbandonate da Londra, Parigi e Roma. O dal 1877, capitolo bulgaro della Questione d’Oriente e data di nascita del «jingoismo» britannico. O dal 1904, la «guerra mondiale zero», primo confitto per procura britannico contro la Russia, salvata da Theodore Roosevelt. O dal 1917, abbandono della Russia da parte delle potenze occidentali e guerra civile estesa all’intero impero zarista, conclusa col reimbarco antibolscevico dalla Crimea e la spartizione sovietico-polacca dell’Ucraina. O dall’«antemurale polacco» contro Urss e Germania di Weimar, concluso con la spartizione nazista-staliniana della Polonia (1939) e poi con quella sovietico-americana dell’Europa centrale (1945). Oppure, infne, dal 1991-94, riedizione del 1915-17, saccheggio e abbandono occidentale della Russia «liberale». Questo passato pesa nel rancore dei russi verso di noi assai più di quanto riusciamo a percepire. Ma il punto di svolta da cui ha preso avvio il piano inclinato che ci ha condotti fn qui mi pare quello indicato da John Mearsheimer, ossia il 2003. L’anno che, parafrasando il giudizio di Benedetto XV sul 1914 1, possiamo chiamaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. Defnito da quel papa «il suicidio dell’Europa civile».
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re del «suicidio dell’Occidente liberale», in cui gli Stati Uniti decisero l’ingresso della Cina nel nell’Organizzazzione mondiale del commercio, l’invasione dell’Iraq e il secondo allargamento della Nato. Con l’effetto di trasformare la Cina nella principale minaccia geoeconomica, di spingere Mosca verso Pechino e di offrire a entrambe l’occasione di sfruttare il boomerang occidentale della «lunga guerra al terrore» sfondando il settore centrale del containment atlantico dell’Eurasia e dilagando in Medio Oriente e nell’intera Africa. Incoraggiando anche gli altri ex imperi asiatici (Turchia, Persia e India) a ridiscutere l’egemonia, sedicente «benigna», degli Stati Uniti. Conseguenze prevedibili, e previste dalla minoranza di politologi realisti (come George Kennan, Henry Kissinger e John Mearsheimer), ma volutamente ignorate in ossequio all’ideologia liberal, che ha sostituito il progressismo socioeconomico del secolo scorso con un cupo estremismo messianico e distopico che porta a ignorare e fraintendere non solo le ragioni e gli interessi del resto del mondo, ma lo stesso principio di realtà. Quel che noi chiamiamo «guerra russo-ucraina» è solo un aspetto, vistoso ma non centrale e tanto meno decisivo, di una transizione storica di cui non è possibile prevedere durata ed esiti. CRISTADORO Mi viene in mente un parallelismo paradossale tra la guerra condotta dagli Usa in Vietnam e il confitto tra Russia e Ucraina. Gli Usa, in Vietnam, stavano per vincere sul piano tattico, ma persero a livello strategico. Allo stesso modo, la Russia può senz’altro vincere sul campo, anche grazie alla clamorosa superiorità numerica: i russi, infatti, possono permettersi di sacrifcare quattro soldati per ogni ucraino che riescono a uccidere, tanto sono impari le forze sul piano quantitativo. In termini strategici, però, Mosca ha già perso. All’inizio di dicembre, Putin ha tenuto un discorso in cui ha affermato di voler continuare l’operazione militare speciale in Ucraina, sottolineando che «l’annessione di ogni nuovo territorio è un importante risultato». Con queste dichiarazioni, Putin vuole far accettare alla popolazione la guerra di lungo periodo. Ciò signifca che la Russia non è in grado di ottenere una vittoria nel breve periodo. Putin, in quello stesso discorso, ha fatto riferimento a Pietro il Grande, sottolineando come egli, al pari dello zar, sia riuscito a garantire a Mosca il controllo del Mar d’Azov. Da queste premesse, capiamo che per il presidente russo vincere signifca oramai ottenere il riconoscimento di quei territori che è riuscito ad annettere. Ma questa è una vittoria esclusivamente tattica. La sconftta strategica è data dalla sempre più pressante necessità di mantenere il consenso interno e dall’aver compromesso la propria credibilità internazionale. Su un punto, però, bisogna essere cauti: per quanto Putin abbia perso prestigio, prima o poi qualcuno tornerà a fare affari con lui, almeno a livello economico. Pecunia non olet. DOTTORI Di guerre in corso a mio avviso ce ne sono almeno due. La prima è quella che si combatte sul campo tra Ucraina e Russia. La seconda è quella che contrappone la Russia all’Occidente: ha una dimensione economica e logistica importante, investendo le forniture energetiche russe all’Europa e gli aiuti militari della Nato a Kiev. Lo scontro tra ucraini e russi è parte di quello più ampio che coinvolge l’intero Occidente. Il legame emergerebbe ancora più chiaramente qualora, in Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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seguito a una crisi militare ucraina, la Polonia decidesse di intervenire direttamente con il proprio esercito in Ucraina. È uno sviluppo possibile, dato l’andamento delle operazioni. La Russia ha fallito il blitz e, dopo la controffensiva ucraina della scorsa estate, ha adottato una strategia di attrito che mira a consumare la componente organica dello strumento militare ucraino, sfruttando la superiorità demografca nazionale di quattro a uno. Questo rapporto numerico permette ai russi di considerare strategicamente conveniente qualsiasi tattica comporti un tasso di perdite proprie inferiore al quadruplo di quelle infitte. È l’attrito nella sua forma più brutale. Sembra che stia funzionando. Tuttavia non è certo che questo approccio costosissimo in termini di vite umane non determini una reazione ostile della società russa. Le motivazioni di questa guerra sono diverse per i russi e per gli ucraini: questi ultimi combattono per la loro libertà e per la loro terra. Sono estremamente motivati. In Russia la situazione è probabilmente differente: la guerra gode di ampio consenso nelle fasce più anziane della popolazione, meno in quelle più giovani. Quindi non è detto che si vada fno in fondo: il massacro può essere fermato, anche senza che gli obiettivi di guerra russi siano raggiunti. È però fondamentale che a Mosca nessuno pensi di essere sul punto di una disfatta catastrofca del genere di quelle subite nel 1917 e nel 1991. Evitarla è l’unico motivo che potrebbe indurre la Russia a utilizzare le armi nucleari. In un certo senso, tuttavia, Mosca ha già perso: volevano impedire l’allargamento della Nato e l’Alleanza Atlantica è sul punto di accogliere Svezia e Finlandia, Turchia (e non Russia) permettendo. Inoltre, se non sarà debellata, nessuno potrà negare a Kiev l’accesso alla Nato. L’Ucraina non rinuncerà infatti al destino euroatlantico che ha iscritto nel preambolo della sua costituzione: combatte anche per questo. Tornando alle origini del confitto tra Russia e Occidente, a mio avviso parte da lontano, dal 2003, quando i neoconservatori americani convinsero George W. Bush ad attaccare l’Iraq per avviare la democratizzazione del Medio Oriente. Nacque infatti allora il fronte del No, di cui la Russia era capofla assieme alla Francia e alla Germania. Lo «spirito di Pratica di Mare» venne meno e di lì a poco iniziarono le rivoluzioni colorate, che agli occhi di Mosca erano una ritorsione americana per l’opposizione a Iraqi Freedom. È in quel momento che iniziò a serpeggiare la sfducia reciproca. Seguì l’ingresso nell’Alleanza Atlantica degli ex alleati dell’Urss. E lo scontro prosegue. L’Occidente, comunque, lo sta vincendo: ha separato la Russia dall’Europa e di fatto ha sensibilmente ridotto i margini d’iniziativa di cui gli amici di Mosca disponevano fno al 24 febbraio 2022. Ritengo che i russi non potranno essere reintegrati a pieno titolo nella comunità delle potenze senza essere prima sconftti e quindi indotti al ripensamento della propria postura. ILARI Non sono d’accordo. Non è Putin ma la Russia che il 24 febbraio si è giocata tutto; e lasciamo ai tifosi e ai posteri discettare futilmente quanto a torto e quanto a ragione. La Crimea non è solo un simbolo: è la chiave indispensabile per l’accesso a quello che Limes chiama il Medioceano. E la Crimea non può essere sicura senza il controllo del Mar d’Azov e dunque senza le altre quattro oblast’ Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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ucraine che la Russia occupa parzialmente e che si è annessa senza defnirne i confni. È la Crimea con Azov a fare la differenza tra Moscovia e Russia. I nostri governi, appiattiti sui media, pretendono di combattere una guerra limitata, e sempre più chiaramente per procura, contro chi ha scelto di vincere o perire. Quanto più i russi hanno successo, accrescendo il rischio di scontro diretto con la Nato, tanto più torna puntualmente a circolare la cinica e vile teoria del salasso alla Russia in vista di una «sconftta non catastrofca», ridicola e tragica mediana di sangue tra avanzate e ritirate, con tanti saluti all’eroica e martoriata Ucraina di cui ci riempiamo ipocritamente la bocca. Ma se la guerra è a morte, non esistono più mediane, come dice Tolstoj in Guerra e pace: «Si getta la spada, si afferra un bastone e si colpisce fnché il disgusto e la pietà non prevalgono sull’odio e sulla paura». Su questo punto la propaganda iniziale della Nato e dell’Unione Europea concordava paradossalmente con la tesi di Mearsheimer: questa è una guerra «a somma zero», come dicono gli strategologi affascinati dalla teoria dei giochi. Ossia «se vince Romolo, vuol dire che perde Remo», come diceva la barzelletta disfattista del 1940-43. Se lo scontro è fra Washington e Mosca, non tiene il paragone con le altre due sconftte a cui l’America è sopravvissuta. Queste semmai dimostrano quanto poco la superiorità militare abbrevi e decida le guerre. Cominciato scherzando, il Vietnam è durato dieci anni e ce ne sono voluti altri otto (più gente eccezionale come Reagan e Kissinger) per riprendersi e chiudere la guerra fredda. Cominciata con la trappola afghana che affrettò il collasso dell’Urss, la lunga guerra globale contro il terrore ha occupato l’intero primo ventennio del XXI secolo. Oggi l’America sembra essere uscita dalla trappola afghana solo per fccarsi in quella ucraina (chiunque sia stato a tenderla). Ormai c’è dentro fno al collo e andrà avanti pagando tutto il prezzo che sarà imposto dalla Russia, prima per non cedere e poi per aver ceduto. Cercando di scaricarlo il più possibile sui vecchi alleati continentali, vedovi dell’asse geopolitico con la Russia e incapaci – una volta privi di Angela Merkel – di frenare sul piano inclinato imposto dall’Inghilterra e dai nuovi alleati. LIMES E la Cina? ILARI La Cina è il rivale strategico degli Stati Uniti, ma solo in potenza e comunque ancor meno alternativo di quanto sia stata l’Unione Sovietica. La Cina non potrà mai essere communis patria, come gli Stati Uniti sono stati durante la guerra fredda. Ciò facilita la penetrazione commerciale, ma Pechino sa di non poter sostituire Washington e non riesco a immaginare che possa neppure desiderarlo. Ancora una volta il problema siamo noi. Prima abbiamo scelto di conviverci, poi ci siamo fatti prendere dal panico, sragionando di trappola di Tucidide e altri arzigogoli pseudostorici che infarciscono penosamente la letteratura strategico-geopolitica. Dimenticando che in guerra il fattore decisivo è il tempo e che per tradizione, struttura e desiderio di riscatto dal secolo delle umiliazioni la Cina guarda più lontano di noi. La differenza di mentalità si rifette bene nei rispettivi giochi di strategia: noi faustiani abbiamo gli scacchi, loro confuciani il weiqi (go). La Cina guadagna tempo e spazio dal pantano ucraino, che distoglie l’Occidente dal Pacifco, Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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dal Golfo, dall’Africa e dal Sud America, e che accresce la dipendenza della Russia dalla Cina. E sceneggiando su Taiwan, distoglie l’attenzione dalla rotta artica. DOTTORI Un anno fa pensavo che i cinesi si sarebbero in qualche modo rafforzati, magari mediando con la Russia e cercando di ottenere qualcosa da Washington. Mi sono evidentemente sbagliato. In realtà, Pechino si sente danneggiata dal protrarsi della guerra e dall’indebolimento russo. I cinesi vedevano nella Russia un alleato forte, in grado di stabilizzare l’Eurasia, proteggendo così le nuove vie della seta. Invece, alla fne dei conti, si ritrovano con un partner in diffcoltà, il cui prestigio politico-militare è stato scosso. Non sottovalutiamo, peraltro, che in America non tutti sono d’accordo sul fatto che la Cina sia il nemico numero uno: per i repubblicani è certamente così, e in questo senso vanno viste le aperture di Trump alla Russia. Per i democratici, invece, la Russia è ancora il male assoluto, perché veicola un’ideologia radicalmente conservatrice che agli occhi di alcuni ne farebbe la guida della destra globale, una formazione transnazionale di cui sarebbe parte forse anche il Partito repubblicano. Parliamo ovviamente di percezioni. CRISTADORO Noi spesso parliamo della competizione tra queste tre grandi potenze, ma dobbiamo tenere a mente che hanno tutte enormi problemi interni. Pensiamo alla tempesta americana e al clamoroso fallimento dell’Afghanistan. La Russia è frammentata internamente e la guerra la sta distruggendo anche economicamente. La Cina è stata messa in ginocchio dal Covid, che ne ha mostrato le criticità interne, svalutandone anche il marchio. Al di là dei contrasti, queste grandi potenze hanno a che fare con problematiche interne, che non possono essere sottovalutate. LIMES Come è la situazione sul campo in Ucraina? Dove vogliono arrivare russi e ucraini? Come potrebbe fnire la guerra? CRISTADORO Come abbiamo detto, c’è un rapporto di quattro a uno tra attacco e difesa. Cosa non straordinaria, perché è la condizione numerica di base per fare un attacco, dato che chi difende è avvantaggiato. I russi hanno questa superiorità numerica, però nella guerra di posizione che si sta svolgendo tra Bakhmut e Donec’k stanno subendo perdite enormi. Certo, stanno combattendo soprattutto mercenari e persone appositamente scarcerate, la cui perdita non impatta più di tanto sull’opinione pubblica. Sul campo ci sono diversi contrattacchi locali degli ucraini. Sostanzialmente, i russi attaccano guadagnando posizioni. Poi, però, si fermano. Allora gli ucraini contrattaccano e i russi ripiegano. È un modello da prima guerra mondiale, da trincea. In alcune zone, i russi non hanno più logistica medica, perché stanno subendo tantissime perdite che non riescono a gestire. Curare i feriti sta diventando un problema, non hanno sangue per le trasfusioni. Per quanto riguarda gli ucraini, è evidente che Kiev voglia ricacciare i russi nei loro territori, all’altezza di Rostov sul Don. I russi vorrebbero arrivare quantomeno a Lyman, persa dal generale Lapin che infatti ha subìto un promoveatur ut amoveatur. È uno snodo logistico fondamentale perché in quel settore la rete viaria (strade e ferrovie) è importante tanto per i rifornimenti alle truppe impegnate negli scontri quanto per lo sgombero dei feriti. Al momento, i russi hanno perso quella zona. E hanno perso anche i territori a sud di Kharkiv e intorno a Kherson. I russi sono Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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arrabbiati perché costretti a cedere pezzi di territorio che avevano conquistato e che servivano per legittimare una sconftta accettabile, facendola passare per vittoria. In questo momento, oltre al personale precettato d’autorità, Mosca sta mandando al fronte i mobilitati appartenenti alla «riserva volontaria» (Bars), che però stanno già subendo numerose perdite, accanto ai mercenari della Wagner. Inevitabilmente, la Russia dovrà ricominciare a mobilitare. Questa guerra sta facendo tantissime vittime ed è per questo che si evitano battaglie nei grandi centri abitati, dove le morti aumentano esponenzialmente. Nessuno ha le risorse umane necessarie. Non dimentichiamoci, inoltre, che gli ucraini sono estremamente motivati. Hanno una fortissima volontà di vendetta. Al contrario, ci sono soldati russi che disertano e che vengono giustiziati se scoperti. Sul piano quantitativo, i russi possono mobilitare rapidamente altri trecentomila uomini. Ma poi bisogna vedere quanti non si presenteranno alla coscrizione, quanti diserteranno. È già successo nell’ultima mobilitazione. In linea teorica, comunque, i russi possono arrivare a impiegare anche due milioni di uomini. Gli ucraini possono mobilitare, con uno sforzo enorme, circa un milione di uomini, ma più realisticamente fno a seicentomila. È interessante che, per ora, i russi stiano mobilitando poche donne, mentre ci sono molte donne ucraine al fronte. Ciò, nuovamente, è sintomo della differente carica motivazionale dei due paesi. Non è possibile escludere che la guerra termini con uno scenario coreano. Ma comunque gli ex florussi dovrebbero abbandonare i territori ucraini, perché le epurazioni saranno estremamente severe. Altrimenti, potrebbe fnire con una balcanizzazione, con la creazione di enclave da tutelare col peacekeeping. ILARI Le perdite russe (che al 15 gennaio la Bbc stimava a oltre 22 mila caduti e 77 mila tra feriti, dispersi, disertori e prigionieri) sono, al momento, composte per il 36% dalle milizie del Donbas e dalla Wagner. I caduti appartenenti alle forze regolari della Federazione Russa saranno al massimo 15 mila, per lo più tratti da aree periferiche e non di etnia russa. L’impatto sul morale dell’esercito dipende dal successo. Senza contare che l’esperienza del fronte agguerrisce chi sopravvive. Come disse a luglio un uffciale ucraino: «Adesso i russi stupidi sono tutti morti». Sotto il proflo militare, a parità di caduti e feriti, l’Ucraina è in svantaggio di quattro a uno, e il differenziale di patriottismo ed eroismo non può supplire in eterno. Il suo armamento ex sovietico si sta esaurendo e quello occidentale è insuffciente per mezzi, munizioni e catena logistica. La brutale strategia di bombardamento aereo e missilistico della rete energetica incide anche sotto il proflo militare. Con tutto ciò l’Ucraina non è a rischio di essere interamente occupata né ovviamente spartita come nel 1921. È possibile che l’offensiva russa si concentri su Zaporižžja: sia perché le riserve ucraine che dovevano sfondare su Berdjans’k tagliando in due le forze russe e minacciando la Crimea sono state consumate nell’inutile difesa di Bakhmut, sia perché una volta caduta Zaporižžja sarebbe segnata anche la sorte delle forze ucraine nel Donbas. Se riuscisse nell’intento entro marzo, prima dell’arrivo dei due battaglioni di Leopard, la Russia avrebbe interesse a fermarsi e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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trattare. Non però l’Ucraina e la Nato, motivo per cui seguirebbe una nuova controffensiva con un maggiore coinvolgimento dell’Alleanza Atlantica. DOTTORI Tornerei sul discorso del rapporto quattro a uno. Qui non si tratta di far valere una superiorità locale per realizzare uno sfondamento o un aggiramento. Qui si cerca invece di «consumare» letteralmente gli ucraini creando un tritacarne come a Verdun. Per questo è guerra totale: agli occhi dei russi più anziani è giusto sacrifcare i giovani, anche tanti, purché muoia il maggior numero di ucraini. Chi deve andare a combattere, ovviamente, la pensa diversamente: c’è sicuramente una frattura generazionale, ma non sono i ragazzi a decidere. Se il meccanismo è questo, e si è disposti a sostenere perdite eccezionali, è chiaro che Mosca pensa ancora di poter imporre la propria volontà a Kiev. Restando al paragone con la prima guerra mondiale, non è escluso che al Cremlino qualcuno punti tuttora alla «vittoria di Hindenburg», cioè alla debellatio di Kiev. E qui sorge il quesito se l’Occidente lo possa o meno tollerare. Non ci sono certezze. Tuttavia, alla vigilia dell’attacco russo all’Ucraina, Zelens’kyj era stato abbandonato al proprio destino. Se «perdessimo» ora la guerra sul campo, avremmo comunque indebolito sensibilmente la Russia. E non sarebbe la fne della supremazia statunitense: l’America fu sconftta in Vietnam, ma vinse la guerra fredda. Il conto più salato lo pagherebbe l’Europa, che verrebbe costretta a rinunciare per un periodo prevedibilmente molto lungo a qualsiasi interazione con la Russia, indebolendosi economicamente e forse anche geopoliticamente. D’altra parte gli Stati Uniti non hanno più lo stesso interesse al successo del federalismo europeo che contraddistinse la loro azione ai tempi del Piano Marshall. LIMES Come si comporterebbe l’Italia in caso di confitto tra Nato e Russia? E come vi comportereste se foste Zelens’kyj o Putin? ILARI Possiamo fornire intelligence, forze aeronavali, polizia militare e ad pompam un paio di battaglioni per insaporire i pasticci di passero e d’elefante sperimentati nelle «missioni di pace» e nella dozzina di brigate miste che la Nato ha dislocato a scopo dissuasivo lungo le sue frontiere avanzate. Alla Cernaia i caduti piemontesi furono 91 e il resto morì di colera. Cercheremmo, come del resto tutti, tranne baltici e polacchi, di farci e fare il minor male possibile. Non vedo perché i russi dovrebbero sprecare un missile ipersonico per noi. Ma siamo vulnerabili agli attacchi informatici, satellitari ed energetici, oltre all’eventuale fall-out nucleare. Se fossi Zelens’kyj, Putin o Meloni farei esattamente ciò che stanno facendo, non perché li approvi, ma perché non avrei scelta. Se fossi Biden o Scholz farei Trump o Merkel. Non vedo Churchill, Roosevelt o Truman in giro da noi. Il resto sono personaggi insignifcanti e perciò assolutamente intercambiabili. DOTTORI In Italia non abbiamo molto da offrire, se il problema fosse quello di spiegare in Ucraina truppe che ora iniziano a scarseggiare. Non è un limite solo italiano. Nessuno possiede più in Europa eserciti di massa potentemente corazzati. Nel 1991 si è smesso di credere all’eventualità di un grande confitto convenzionale nel nostro continente e si sono adottati modelli di strumento militare adeguati a scenari del tutto diversi: operazioni di polizia internazionale o peacekeeping in terre Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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remote. Così, la nostra assicurazione sulla vita è ora più che mai la dissuasione nucleare. Per questo motivo è grave che sia stata messa in discussione e che nessuno creda più all’ipotesi che la Bomba possa essere utilizzata. Ciò nonostante, una guerra diretta tra la Nato e la Russia mi pare ancora improbabile. Meno irrealistico è invece un intervento polacco al di fuori della cornice dell’Alleanza Atlantica, nello scenario estremo di un collasso ucraino. Salvo il caso di massiccia rappresaglia russa contro gli alleati europei degli Stati Uniti, la Nato ne resterebbe fuori. Comunque siamo fortunatamente ancora molto lontani da tutto questo. Peraltro, non aiuta la causa del negoziato e della tregua la circostanza che Putin e Zelens’kyj abbiano ingaggiato tra loro un duello personale che andrà avanti fnché uno dei due non cadrà. Siamo in presenza di uno scontro che riguarda due paesi, ma anche due leader che non hanno molti margini di compromesso. CRISTADORO La Nato può intervenire solo se attaccata da un nemico esterno. Se, per ipotesi, ci fosse un attacco polacco alla Russia, anche autorizzato dagli Usa, la Nato non entrerebbe automaticamente in guerra. Qualora però il confitto si allargasse, l’Italia si comporterebbe da alleato: se dovesse arrivare l’ordine di partecipare, procederemmo a contribuire con i mezzi, le unità e gli uomini necessari. Sicuramente ci impegneremmo poi nel peacekeeping, ma ciò implica una situazione pacifcata. Anche io ritengo che Putin e Zelens’kyj non possano fare diversamente. Ci sono troppi punti di non ritorno. Per Putin le cose sono andate troppo per le lunghe, oramai si è compromesso. Zelens’kyj che altro può fare? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO di Orietta MOSCATELLI e Mauro DE BONIS Putin si identifica con la Russia quale inviato di Dio per salvarla. Il timore per l’unità della Federazione supera quello per la campagna in Ucraina. La rottura con l’Occidente invita a guardare a est, ma la penetrazione cinese in Asia centrale frustra questa aspirazione.
N
1. ELLA NOTTE DEL NATALE ORTODOSSO al Cremlino è stato celebrato il funerale del «Putin collettivo»: il leader russo si è fatto riprendere mentre assiste alla messa in totale solitudine; con lui nella chiesa dell’Annunciazione lo ieromonaco Iosif dell’eparchia di Sergiev Posad, altri due prelati e un coro di quattro giovani monaci. Putin ostentatamente «singolo», senza corte e senza alleati davanti all’iconostasi. Il messaggio è che «il capo dello Stato assume la responsabilità del destino del paese al cospetto di Dio e di tutto il popolo», dice un consigliere del cosiddetto blocco politico dell’amministrazione presidenziale, responsabile tra l’altro della comunicazione e dell’immagine del potere. Dietro una simbologia di vago sapore mistico traspare l’allontanamento dal cerchio magico che per oltre un ventennio ha rappresentato la dimensione collettiva della leadership putiniana. Quel gruppo che siede nel Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, chiamato il 21 febbraio 2022 a sottoscrivere in diretta televisiva la decisione di invadere l’Ucraina. Pochi giorni dopo, in tv venne trasmesso un incontro al Cremlino con imprenditori e oligarchi a capo delle principali realtà economiche del paese, altra componente della gestione collegiale arrivata al capolinea con la guerra. L’ostentata solitudine è tattica in vista di mesi durissimi e anche frutto di una crescente insofferenza del capo per compagni di viaggio che non si sono mostrati all’altezza delle sue ambizioni. Gli avevano prospettato un intervento lampo e a distanza di un anno c’è una feroce guerra di logoramento di cui è impossibile prevedere la fne imminente, salvo implosione di una o entrambe le parti belligeranti. Putin, raccontano in ambito governativo, è preoccupato dalla tenuta interna della Russia ancora più che dal corso dell’operazione militare speciale in Ucraina. I due fronti sono ovviamente interconnessi e nei prossimi mesi bisognerà prendere «decisioni molto dure», impossibili da realizzare senza il consenso dell’opinione pubblica, o quantomeno la sua acquiescenza. I sondaggi dicono che il sostegno all’operazione Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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BIELORUSSIA UZBEKISTAN KIRGHIZISTAN TAGIKISTAN LAOS THAILANDIA CAMBOGIA BRUNEI
Eaeu Eurasian Economic Union Federazione Russa Armenia Bielorussia Kazakistan Kirghizistan
FEDERAZIONE RUSSA
Paesi membri di Eaeu e Sco Bielorussia Federazione Russa Kazakistan Kirghizistan
1 KA ZAKISTAN MONGOLIA 3
2 4
Sco Shanghai Cooperation Organization
CINA IRAN
AFGH.
(Paesi osservatori inclusi)
PAKISTAN INDIA
Oceano Pacifico Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
MYANMAR
5 VIETNAM FILIPPINE
6 7
SINGAPORE 8 MALAYS I
SINGAPORE Oceano Indiano
A
Asean Association of Southeast Asian Nations Brunei Cambogia Filippine Indonesia Laos Malaysia Myanmar Singapore Thailandia Vietnam
IND
ONESIA
Afghanistan Bielorussia Cina Federazione Russa India Iran Kazakistan Kirghizistan Mongolia Pakistan Tagikistan Uzbekistan
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO
LA GRANDE PARTNERSHIP EURASIATICA
LA GUERRA CONTINUA
speciale è stabile su una maggioranza composita e nel suo insieme obbediente, mentre le percentuali di approvazione dell’operato presidenziale nel complesso sono sempre altissime: su questa divaricazione poggia l’idea del pilota unico al volante. Mesi di misurazioni demoscopiche e gruppi di studio confermano una collettività russa sostanzialmente inerte, incapace di opporsi e soprattutto non disposta ad accettare l’idea che la sconftta del proprio paese possa essere una soluzione. Quindi nell’apparato presidenziale ritengono che ci sia la riserva di sostegno popolare necessaria per i prossimi sette, dieci mesi, che in un modo o nell’altro saranno decisivi. O perlomeno così la raccontano a Putin, leader indebolito ma confortato dall’assenza di alternative e in ogni caso senza possibilità di ritorno da una impresa bellica in cui si gioca tutto e tutti, compresa la sopravvivenza della Federazione Russa. L’orizzonte è quello del 2023, anno elettorale e di vigilia delle presidenziali in agenda per marzo 2024. Fonti del Cremlino fanno fltrare informazioni sui preparativi per il secondo appuntamento con le urne, partendo dal presupposto che Putin si ricandiderà 1. La riforma della costituzione operata nel 2020 permette in teoria altri due mandati al leader oggi settantenne e in sella da quasi un quarto di secolo. Putin non ha mai preso posizione al riguardo e non lo farà probabilmente sino al prossimo dicembre. A quel punto, la situazione in Ucraina dovrà presentare un quadro più chiaro, «equiparabile a una vittoria». Sui termini dell’equazione nessuno si sbilancia: «Dipende dai prossimi mesi, potete immaginare che la guerra inizia di nuovo adesso», azzarda un consigliere coinvolto nelle attività preelettorali. Il confitto però compie un anno. Putin ha gradualmente preso le distanze anche dai sodali dei tempi del Kgb che hanno condiviso con lui il percorso verso il precipizio bellico. Anche con i più stretti collaboratori gli incontri sono ridotti al minimo, perlopiù via Internet. Di rado un passaggio con Nikolaj Patrušev, il segretario del Consiglio di sicurezza, collega e amico da decenni: alla vigilia dell’invasione avrebbe chiesto di attendere, salvo poi adeguarsi, e con lui Putin discute ancora dei rapporti con la Cina, per niente semplici eppure vitali. Un decisivo contributo fnale verso l’invasione sarebbe arrivato invece dal direttore del Servizio federale di sicurezza (Fsb) Aleksandr Bortnikov, a cui è attribuita l’idea di far partire il primo contingente per Kiev con un carico di uniformi da parata, perché i russi sarebbero stati accolti a braccia aperte e nel giro di una settimana si sarebbe potuto celebrare. Comprensibilmente, Bortnikov non lo si vede da un po’, e non vi è traccia di suoi recenti interventi pubblici, comunque rari anche prima della guerra. Nel cerchio ormai poco magico ci sono possibili reggenti in caso il presidente dovesse farsi da parte per questioni di salute o nell’eventualità, piuttosto remota, di un’uscita di scena forzata da proteste di massa. Lo stesso Patrušev potrebbe essere chiamato (o cercare di piazzare il fglio Dmitrij, dal 2018 ministro dell’Agricoltura) come pure l’eterno fedelissimo Dmitrij Medvedev. L’ex premier ed ex presidente, soprattutto ex favorito delle cancellerie occidentali, ha assunto il ruolo di oracolo di sventura per i nemici della Russia, lasciando tutti nel dubbio su quanto ci creda Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. A. VINOKUROV, «Vybory ne za gorami» («Le elezioni non sono così lontane»), kommersant.ru, 13/1/2023.
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o quanto si sia adeguato, sperando in un altro giro di giostra al Cremlino. Si tratta comunque di fgure senza un’agenda propria, guidate dall’assunto che il presidente resterà in sella per un quinto mandato e che il putinismo è abbastanza blindato da reggere a un improvviso cambio di guardia al vertice. 2. La prospettiva di un Putin V agita e paralizza il sistema. Cresce il malcontento e nulla si muove. «C’è uno stato di inerzia totale che riguarda sia l’élite sia l’opinione pubblica, in diverso modo incapaci di agire», sostiene in un colloquio con Limes Vladimir Gel’man, professore universitario a San Pietroburgo e Helsinki, fne analista dei meccanismi del potere russo. «Molti capiscono perfettamente che le cose non vanno come avrebbero dovuto, ma non si va oltre la constatazione, alternative non ce ne sono e non ci saranno fnché Putin sarà al potere. Potrebbe trattarsi di un periodo ancora lungo». Secondo Gel’man, il passaggio dal Putin collettivo a un Putin sempre più singolo non è mera conseguenza della guerra, ma di «una evoluzione del sistema che dal 2012 è sempre più marcatamente personalistico, ha gradualmente eliminato ogni dissenso e depotenziato i contrappesi al leader unico: gli oligarchi, i responsabili regionali, gli apparati amministrativi». Per Lev Gudkov, sociologo e direttore scientifco del Centro Levada, invece, si è ben oltre il regime personalistico, anche oltre l’autoritarismo: «Oggi possiamo dire che in Russia vige di nuovo un regime totalitario. Dal punto di vista ideologico c’è un irrigidimento su concetti recuperati dai tempi di Stalin, anche la retorica della lotta con il nemico interno è degli anni Trenta e accompagna misure di repressione contro ogni possibile forma di opposizione, mentre vengono recuperate istituzioni corporative di natura totalizzante come le organizzazioni per l’infanzia e la gioventù sul modello sovietico dei Pionieri, il Komsomol e oggi la Junarmija. Ci sono pochi dubbi sui processi in corso». Gudkov si dice «allarmato dal livello di passività della popolazione russa, che non vuole la guerra però in un modo o nell’altro vi partecipa» e consiglia di non aspettarsi proteste di massa in un prevedibile futuro. Eppure, la possibilità che dissenso e malcontento trovino canali di sfogo nelle prossime elezioni è studiata attivamente al Cremlino. Il 10 settembre si vota per i governatori e le assemblee regionali e municipali di oltre 20 soggetti della Federazione, compresi i territori del Sud-Est e del Sud ucraino dichiarati annessi a fne settembre e dopo mesi solo parzialmente sotto il controllo russo. Preoccupano le chiamate alle urne in aree come le repubbliche di Jacuzia-Sakha e di Altaj o il territorio di Primor’e, dove la mobilitazione ha fatto afforare nuove tensioni e vecchie incongruenze nel rapporto con il centro federale. Si voterà anche per il sindaco di Mosca, partita di massimo rilievo anche senza considerare che l’attuale primo cittadino è in lista per una eventuale successione a Putin. Per il sistema di potere russo le elezioni sono una verifca del funzionamento della macchina, molto prima di una valutazione del consenso per l’una o l’altra formazione politica. Le stesse divisioni dell’amministrazione che hanno scritto il copione della notte natalizia sono incaricate di individuare temi elettorali che posCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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sano reggere in ogni scenario. Il che signifca applicarsi all’unico tema non passibile di revisioni da qui all’estate, cioè allo scontro con l’Occidente per la sovranità e l’esistenza stessa della Russia. C’è anche un gruppo di lavoro su un «nuovo corso» post-bellico incentrato sul rilancio di una «economia sovrana» con cicli produttivi indipendenti dall’Occidente. Tuttavia si ragiona in termini di grandi categorie utilizzabili in chiave elettorale, i piani concreti per la tanto invocata «nuova idea per la Russia» latitano. 3. Nessuno, d’altra parte, crede all’imminenza di un armistizio. Questo impone una radicale modifca dell’ennesimo patto tra Putin e il popolo russo. La macchina della propaganda uffciale si attrezza per il cambio di registro: la guerra diventa immanente. Il tradizionale messaggio di Capodanno Vladimir Vladimirovi0 l’ha pronunciato con uomini e donne in divisa alle sue spalle, i toni da «guerra patriottica» più che da operazione speciale: «Il destino della Russia, la difesa della Patria sono nostro sacro dovere di fronte agli avi e ai nostri successori», ha detto con l’espressione grave ispirata da «un anno di eventi davvero cruciali e fatidici» 2. Nella stessa notte i missili ucraini hanno centrato un dormitorio delle truppe russe a Makiïvka e le autorità non hanno tentato di coprire la carnefcina, salvo attribuirla al frenetico utilizzo di cellulari, teoricamente proibito ai soldati. Il bilancio della strage è stato fssato a 89 morti e ha sdoganato la pubblicazione quotidiana di immagini dei funerali di caduti al fronte nelle regioni della Federazione. L’immersione nell’atmosfera di guerra è promossa da una raffca di iniziative: ai cinema è stato ordinato di proiettare documentari sul confitto, al ministero dell’Istruzione di «aggiornare» in gran fretta i libri per le scuole dell’obbligo. Dai cappelli iperpatriottici di alcuni deputati spuntano progetti come il divieto di espatrio da affdare alla magistratura, punizioni e pene detentive per i lavoratori poco effcienti nella produzione di forniture militari e premi per chi invece eccelle. Dopo tanti rovesci, lo spirito di mobilitazione è stato confortato dalla conquista di Soledar, nel Donec’k, di incerto valore strategico, ma inestimabile per l’umore delle truppe e dei russi. La battaglia per Soledar ha anche portato alla luce del sole lo scontro tra i vertici della Difesa ed Evgenij Prigožin, il fondatore del gruppo paramilitare Wagner. Talmente palese da far pensare che a Putin non dispiaccia vedere il patron dei mercenari strapazzare in pubblico il ministro della Difesa Sergej Šojgu e il capo dello Stato maggiore Valerij Gerasimov, di recente posto al comando delle operazioni militari in Ucraina. La nomina è stata vista come una retrocessione per il generale Sergej Surovikin dopo solo tre mesi alla guida del fronte ucraino. Si tratta piuttosto di una mossa da manuale putiniano: la nuova gerarchia per il teatro bellico sottintende piani per una nuova offensiva, possibilmente su più fronti. Gerasimov come capo di Stato maggiore era già il più alto in grado nel teatro bellico, ora però è in prima linea, a raccogliere oneri certi e onori tutti da guadagnare. Nel 2014 Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. «Novogodnee obraš0enie k graždanam Rossii» («Messaggio di Capodanno ai cittadini russi»), kremlin.ru, 31/1/2022.
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82 Progetti minerari Progetti condivisi per il Cmrec Ferrovia principale di collegamento Ferrovie esistenti Progetto per il doppio binario a scartamento russo Ferrovia pianifcata Ferrovia in costruzione Altre proposte di progetti ferroviari Autostrada costruita dalla Cina Posti di blocco Altri progetti Porti principali
Tomsk Krasnojarsk
FEDERA ZI ON E
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Baj
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Novosibirsk
La
go
Kuragino
KAZAKISTAN
Tsentralny Central’nij Elegest Mežegej-Vostočnij
Čita
Irkutsk
Kyzyl
Ulan-Udė
Kaa-Khem
Ereencav
Nuurstei
Arts Suuri
Kjahta
Môrôn Ovoot
Jilchigbulag
Erdenet
Manzhouli
Darhan
Nômrôg
Čojbalsan
Ulan Bator
Qiqihar Harbin
Huut
M O N G O L I A
Bičil
Čojr Sajnšand
Ürümqi
Tavan Tolgoi Giacimento di carbone Complesso minerario
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Miniera di carbone
Khus
Erenhot Shenyang
Giacimento di rame e oro
Gašuun Sukhait
Jining Datong
CMREC China-Mongolia-Russia Economic Corridor
C I N A
Changchun
Dandong
Zhangjiakou PECHINO Tianjin
Dalian Golfo di Liaodong
L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO
IL CORRIDOIO RUSSO-MONGOLO-CINESE
LA GUERRA CONTINUA
avrebbe bocciato l’idea di un intervento diretto in Donbas e all’epoca sì, poteva essere una passeggiata per i russi, mentre un anno fa si è espresso a favore di una missione lampo risultata chimera. Lo scontro tra i vertici dell’esercito e dei volontari a contratto riguarda il peso che una componente e l’altra avranno una volta terminato il confitto. Questione di posizioni da occupare: Prigožin si gioca una nomina a livello federale, per tutti si tratta di risorse da attribuire o accaparrarsi. Ma si tratta ancora prima della collisione tra diversi approcci alla guerra in corso. Alla Difesa, ministro Šojgu compreso, prevalgono i sostenitori della via negoziale o comunque di una pausa nel confitto, mentre wagneriani e alleati pensano che serva la mobilitazione totale, una nuova offensiva su ampia scala e l’utilizzo di tutte le armi a disposizione, senza escludere l’extrema ratio nucleare. Attorno ai duellanti gravitano altri gruppi, con interessi divergenti in tempi di pace ma posizioni affni sulla campagna militare in Ucraina. Al campo dei pragmatici vengono assegnati quasi tutti i tecnocrati, il primo ministro Mikhail Mišustin, il capo della compagnia petrolifera Igor’ Se0in e anche quello del conglomerato militare-industriale Sergej 9emezov. Il responsabile della diplomazia Sergej Lavrov è sospettabile di aver cercato la pensione per evitare il ruolo di ministro degli Esteri di guerra, ma la funzione lo pone automaticamente tra gli addetti al negoziato e lo esenta da ulteriori scrutini. Per ostilità senza freni si agita sempre il leader ceceno Ramzan Kadyrov. Meno teatrali, sul medesimo tono insistono i fratelli Koval’0uk, miliardari direttamente legati al Cremlino. Anche il presidente della Duma Vja0eslav Volodin, numerosi deputati del Partito comunista ed esponenti di Russia Unita vorrebbe spingere sull’acceleratore. Putin a volte sembra dare ragione ai moderati, a volte agli oltranzisti. Tutti convengono che a questo punto non si può tornare indietro e al netto del silenzio presidenziale nessuno osa alzare la testa oltre il limite ammesso. Nelle ore in cui infuriavano i combattimenti decisivi per Soledar, il capo dello Stato sarebbe volato direttamente dalla Baschiria a San Pietroburgo a incontrare il regista delle milizie Wagner che si aspettava un salto di ruolo per la sua organizzazione, mentre avrebbe dovuto incassare la richiesta di contenere le rivendicazioni e le invettive contro l’esercito. Anche in tempi di guerra l’ambiguità resta l’arma preferita del numero uno in diffcoltà. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. La solitudine e le diffcoltà del capo del Cremlino fanno il paio con quelle dell’intera Federazione Russa, paese in guerra chiamato a rimodulare il proprio posto nel mondo. Sfornito di autentici alleati di peso e tranciati i legami con Europa e Occidente tutto, l’erede del già impero sovietico si trova giocoforza costretto a guardare altrove per provvedere al sostentamento delle sue genti e mantenere alto il proflo di potenza. Svoltare defnitivamente verso oriente appare la soluzione più naturale, sia perché la Russia è eurasiatica per geografa e storia, sia perché conta sulla possibile integrazione del macrocontinente ora che l’ordine globale a guida americana è a parere di molti avviato al tramonto.
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L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO
Cercare in Eurasia e nelle strutture regionali esistenti un’alternativa di sviluppo è progetto non nuovo. Il confitto ucraino lo ripropone come necessità più che come scelta. Percorso disseminato di trappole fatali. Nel quadrante orientale Mosca si presenta indebolita, faccata da un lungo e cruento anno di guerra e da miriadi di sanzioni occidentali. Il peso diplomatico e di garante della sicurezza è inferiore a quello misurato prima della campagna ucraina. Il rischio di perdere ulteriore infuenza e autorità nelle aree ex sovietiche, come Caucaso e Asia centrale, è più che concreto. Inoltre, l’urgenza di ricalibrare la proiezione geopolitica in direzione est consegna alla Federazione minore potere contrattuale nelle trattative con altri colossi eurasiatici, col rischio di dover svendere per lungo tempo le portanti ricchezze energetiche e restare vittima degli interessi geopolitici della Cina alleata ma non troppo. Poco prima della fne dell’anno il presidente Putin ha assegnato ai responsabili per lo sviluppo strategico i compiti per il 2023. L’Occidente ci vuole relegare alla periferia del mondo, ha chiarito in videoconferenza, ma non sceglieremo l’autoisolamento e l’autarchia. Semmai il contrario. L’obiettivo è imbastire rapporti e cooperazione con regioni e mercati dinamici e cercare partner promettenti in parti del pianeta che non siano Occidente. Ma soprattutto Putin ha dettato ai suoi il potenziamento della dimensione eurasiatica del paese per ridurre l’impatto delle sanzioni e snocciolato progetti da realizzare o ultimare utili a creare potenti rotte e corridoi tra il mercato russo e quello dei principali attori regionali 3. Gli approcci a un inevitabile (ri)orientamento verso est, dunque a un’auspicabile e profcua integrazione eurasiatica, si colorano di sfumature diverse tra gli analisti russi e gli addetti ai lavori (al netto di quanti rimpiangono lo sguardo verso occidente distolto a causa del confitto). Alcuni tengono conto del grado di diffcoltà che vive oggi la Federazione, altri saltano l’ostacolo e ripropongono in chiave dominante la partecipazione della Russia allo sviluppo regionale, sicuramente al destino dei paesi ex Urss. La maggior parte delle tesi partono da un punto, dipinto con diverse tonalità: l’ordine mondiale così come lo abbiamo conosciuto fno al febbraio scorso, se non dall’inizio delle ostilità russo-ucraine nel 2014, è in crisi e con esso la globalizzazione, tutta da rivedere. Lo scontro generale in atto rende meno effcienti e sicure le reti di approvvigionamento planetarie e spinge verso interazioni regionali che possono risultare più protette. Questo il pensiero di Fëdor Luk’janov, direttore di Russia in Global Affairs, espresso dopo il vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) del settembre scorso. Secondo l’esperto russo, lo schema di un ordine mondiale costruito dall’alto verso il basso sta lasciando il posto al suo contrario, dove ci si può riunire in comunità regionali per entrare in modo più sicuro nel sistema globale. La vicinanza tra paesi rende in questo momento l’interazione più affdabile e protetta. E può permettere all’interconnesso, ideale spazio eurasiatico di far emerCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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3. «Zasedanie Sovieta po strategi0eskomu razvitiju i nacional’nym proektam» («Riunione del Consiglio per lo sviluppo strategico e i progetti nazionali»), kremlin.ru, 15/12/2022.
LA GUERRA CONTINUA
IL POTERE DI PUTIN Putin
Presidenziali 2024
Singolo Elezioni 2023
AMMINISTRAZIONE PRESIDENZIALE (BLOCCO POLITICO) Sergej Kirienko (Vicecapo di gabinetto)
Putin Collettivo (indebolito) Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev (Segretario) FSB - Servizio di sicurezza Aleksandr Bortnikov (Direttore) SVR - Intelligence estera Sergej Naryškin (Direttore)
DIPLOMAZIA DI GUERRA: Sergej Lavrov Ministro degli Esteri GLI OLIGARCHI Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
DI STATO (ALLINEATI/SILENTI) LLINEATI/SILENTI) Aleksej Miller Igor’ Sečin German Gref Sergej Čemezov
Gazprom Rosneft Sberbank Rostech
PRIVATI (IN BILICO) Oleg Deripaska Basic Element, Element magnate ma dell’alluminio Mikhail Friedman Alfa Group, Alfa-Bank, di origini ucraine Roman Abramovič Agente di collegamento/negoziatore
DETENTORI DELLA VALIGETTA NUCLEARE INSIEME A VLADIMIR PUTIN: Sergej Šojgu (Ministro della Difesa) e Valerij Gerasimov (Capo di Stato maggiore)
I PRAGMATICI Primo Ministro Mikhail Mišustin Complesso militare industriale Sergej Čemezov Rosneft Igor Sečin
Il popolo russo
IL PARTITO DELLA GUERRA Gruppo Wagner Evgenij Prigožin Leader ceceno Ramzan Kadyrov Duma Vjačeslav Volodin (Speaker) Deputati - falchi (Russia Unita - Partito comunista)
MAGGIORANZA SOSTIENE PUTIN MA VORREBBE LA FINE DELLA GUERRA
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L’IMPERATORE È SOLO COME IL SUO IMPERO
gere un «complesso geoeconomico autosuffciente». Secondo Luk’janov, il summit Sco di Samarcanda lo dimostra. L’organizzazione può ritrovare slancio con la crisi del vecchio schema di globalizzazione e i suoi membri sono partner naturali per una grande associazione regionale, dove il valore dell’integrazione può superare le storiche rivalità 4. L’idea di una nuova struttura di cooperazione commerciale ed economica tra la Federazione Russa e i suoi vicini asiatici ed eurasiatici viene riproposta a inizio anno da Timofej Borda0ëv. L’analista russo ne individua le condizioni per la messa a punto nella postura che la maggior parte dei paesi in questione hanno assunto nei confronti di Mosca dopo l’inizio del confitto in Europa, come il non avvio delle sanzioni. E immagina l’obiettivo di una possibile indipendenza dall’Occidente e di una Russia ancora attore centrale 5. Speranza vana se il Cremlino non darà prova di effcienza nello sviluppare quelle infrastrutture necessarie a reindirizzare i fussi commerciali verso oriente. Corridoi e rotte economiche lasciate colpevolmente indietro nonostante programmi e progetti messi in campo negli ultimi anni. E che ora si rendono più che necessari se il traguardo resta un’integrazione eurasiatica dove Mosca possa giocare un ruolo almeno da coprotagonista, e non di pura spalla di Pechino o Delhi. Nel discorso di dicembre il presidente Putin cita molti di questi progetti e chiarisce che per ridurre l’impatto delle sanzioni occidentali e allargare il ventaglio delle esportazioni sarà necessario lo sviluppo di infrastrutture, energetiche e non, nel Sud e nell’Est del paese. Come il Power of Siberia 2, per portare le forniture di gas verso oriente fno a 88 miliardi di metri cubi (mc) entro il 2030, o i nuovi impianti di Jamal per arrivare alla produzione di 70 miliardi di mc di gnl sempre entro fne decennio. Torna sulla modernizzazione delle ferrovie Transiberiana e Bajkal-Amur ancora in direzione est, elementi basilari per l’agognato e tardivo sviluppo della Siberia e dell’Estremo Oriente russo. Non dimentica la dimensione artica della Federazione, con il potenziamento della via marittima settentrionale. Lo stesso vale per quella meridionale, con l’ampliamento del Corridoio di trasporto internazionale Nord-Sud (Instc) verso il Mar Caspio, rotta essenziale per collegare la Russia al Medio Oriente ma soprattutto a India, Iran e Asia centrale 6. Il leader del Cremlino ricorda anche come la costruzione dell’autostrada Mosca-Kazan’ prosegua. Questa collegherà la Federazione a Kazakistan, Mongolia e Cina. Paesi, gli ultimi due, con i quali la Federazione intende proseguire nel programma di corridoio economico dopo che in un incontro del novembre scorso i leader mongolo e cinese hanno deciso di lavorare con la Russia per intensifcarne la costruzione, accelerare la modernizzazione del corridoio ferroviario centrale e lo sviluppo del gasdotto già citato attraverso la Mongolia, il cui inizio lavori è previsto Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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4. F. LUK’JANOV, «Globalizacija snizu vverkh» («Globalizzazione dal basso verso l’alto»), globalaffairs.ru, 21/9/2022. 5. T. BORDA0ËV, «Azija, Evrazija i evropejskij krizis: itogi 2022 goda» («Asia, Eurasia e crisi europea: i risultati del 2022»), russiancouncil.ru, 9/1/2023. 6. Si veda la nota 3.
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per il prossimo anno 7. Un passo ulteriore per legare Mosca a Pechino, nella speranza che il gigante asiatico possa in futuro assorbire le perdite dovute alla rottura dei rapporti commerciali tra la Federazione e l’Unione Europea. Un rafforzamento della cooperazione con la Cina che rimane priorità incondizionata della politica estera del Cremlino, spiega il numero due della diplomazia russa Andrej Rudenko 8. Col rischio però di diventarne vassalla, viste le turbolenze economiche previste in arrivo sulla Russia. Oggi però partner irrinunciabile sia per la tenuta fnanziaria sia per mantenere infuenza sulla regione ex sovietica dell’Asia centrale. 5. Se è vero, come suggerisce Andrej Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, che crollo e defnitiva disgregazione imperiale dell’Urss stanno avvenendo soltanto oggi, con relativa sofferenza degli Stati nati dalle ceneri sovietiche 9, allora la Russia deve prestare molta attenzione all’evoluzione politica, sociale ed economica di questi paesi. Pena una drastica riduzione dell’infuenza che Mosca ancora esercita sulle loro élite e sulla loro tenuta fnanziaria. Fiaccata dalla guerra in Ucraina e costretta a spostare truppe e attenzioni sul campo di battaglia, la Federazione può trovare enormi diffcoltà nel continuare a garantire sicurezza nel Caucaso o in Asia centrale, dove rimangono accesi confitti tra ex paesi sovietici come quelli azero-armeno e kirghizo-tagiko. Mosca può perdere il controllo su quelle regioni che occupa da tempo per impedire al paese di riferimento di entrare a far parte del campo atlantico, come per le «georgiane» Abkhazia e Ossezia meridionale. Inoltre, il quadro sanzionatorio imbastito dall’Occidente e le ricadute su Mosca possono sciogliere col tempo il nodo commerciale che lega questi paesi al Cremlino. Due aspetti, securitario ed economico, che se trascurati saranno in grado di creare quei vuoti che altre potenze dagli appetiti eurasiatici possono riempire, o come nel caso della Georgia accendere un nuovo e impegnativo fronte di guerra. Rischi e preoccupazioni che molti in Russia tendono a sottovalutare, sicuri di come i legami, soprattutto economici, che tengono insieme Mosca e le capitali di tanti paesi ex sovietici siano ancora diffcili da spezzare. Anzi, reputano che solo una Federazione forte può assicurare difesa e stabilità politica anche a quei governi che hanno strizzato l’occhio alle sirene occidentali e che ora dovranno rivedere i loro piani e seguire il Cremlino nei suoi progetti di integrazione eurasiatica 10. Il vivace sviluppo dei rapporti tra Mosca e Asia è il peggior incubo politico ed economico per l’Occidente, sentenzia il viceministro degli Esteri russo. Purché non lo diventi per la stessa Russia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
7. V. NAMŽILOVA, «Economic Corridor “China-Mongolia-Russia”: Infrastructure in Focus», russiancouncil. ru, 16/12/2022. 8. N. PORTJAKOVA, «My ne operiruem kategorijami stranovoj “fokusnosti” ili “centri0nosti”» («Non operiamo con le categorie del “focus” o della “centralità” applicati a un singolo paese»), iz.ru, 10/1/2023. 9. A. KORTUNOV, «Russia-Ukraine, India-Pakistan: Two Existential Conficts in Eurasia», russiancouncil. ru, 10/10/2022. 10. V. SUTYRIN, «The Future of Russia’s Eurasian Project in the Context of Growing Geopolitical Risks», valdaiclub.com, 28/11/2022.
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PELLICCIARI I russi si adattano al conflitto in Ucraina, da Putin ridipinto come scontro con l’Occidente guidato da Washington. La sorprendente capacità di assorbire le sanzioni e l’altrettanto imprevista incapacità dei militari. L’indifferenza per noi europei. di Igor
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EL DICEMBRE 2022 MI SONO
nuovamente recato in Russia. Durante la precedente visita estiva, organizzata per registrare la percezione locale del confitto, avevo riassunto la situazione in alcuni appunti di viaggio per Limes 1. A distanza di sei mesi, che sono sembrati anni, un nuovo giro di 21 interviste informali condotte nell’arco di tre settimane danno un quadro se possibile ancora più sorprendente del precedente. Ecco, in sintesi, come evolve la percezione russa del confitto. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Siamo in guerra con l’America Per Mosca questa è oramai una guerra contro gli Usa, più che contro l’Ucraina. In Occidente non è abbastanza considerata l’importanza assunta dal sostegno statunitense a Kiev nella ridefnizione della percezione russa del confitto. Collocarlo all’interno dell’ampia cornice della tradizionale contrapposizione con Washington permette di storicizzarlo come ennesima occasione di uno scontro a puntate tra eterni duellanti. Con quattro effetti sulla pubblica opinione. Primo. Vi è una normalizzazione e un’accettazione dell’azione militare, che in molti inizialmente aveva creato sentimenti di disagio misti a incredulità perché condotta contro un paese osmotico alla Russia, in particolare nelle regioni oggetto dell’invasione. Per molti russi è molto più digeribile e naturale l’idea di uno scontro con gli «amerikani» piuttosto che con un popolo «fratello». Peraltro, a oggi la campagna di «denazifcazione» rivolge contro l’Ucraina argomenti storico-culturali, 1. I. PELLICCIARI, «Questa è la Russia, voi non capite», Limes, «La Guerra Grande», n. 7/2022, pp. 173-184.
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mai etnici. Sarebbe una contraddizione criticare collettivamente gli ucraini mentre se ne rivendica l’unità con i russi. Non a caso a Capodanno le parole di Vladimir Putin sono state dirette contro l’Occidente e il suo «uso cinico della popolazione ucraina». Secondo. La convinzione che un confitto con gli Usa fosse inevitabile, sicché era solo questione di tempo prima che scoppiasse, declassa la decisione di invadere l’Ucraina da incomprensibile\incauta a semplice casus belli. Si è attaccato per difesa, prima che lo facesse l’Ucraina armata da Usa e Canada già dal 2014, per ammissione dello stesso segretario della Nato Jens Stoltenberg. Qualcuno si spinge a ipotizzare che le ultime elezioni americane siano state falsate con il voto postale proprio per fare vincere Joe Biden e arrivare allo scontro con Mosca. Tutti gli intervistati sono dell’opinione che con Donald Trump alla Casa Bianca non ci sarebbe stata la guerra. Terzo. Il sostegno militare all’Ucraina dell’Occidente, e in particolare degli Usa, riabilita agli occhi dei russi il bilancio e le aspettative di un’invasione militare che – oramai è chiaro a tutti – non ha preso la piega sperata e anzi sta incontrando serie diffcoltà. Una cosa è doversi giustifcare per un fallimento (non essere riusciti a schiacciare la debole Ucraina, subendo peraltro forti perdite), altra vantarsi di tenere testa alla coalizione dell’intero Occidente, guidata apertamente dagli Stati Uniti, ovvero dalla principale potenza militare al mondo. Da questa prospettiva, la missione del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj a Washington è servita a sostenere tale narrazione e a rafforzare l’idea di trovarsi nel mezzo di una guerra Usa-Russia, cui il russo medio non solo è preparato mentalmente ma che da sempre è stata raffgurata come un processo lungo e tutt’altro che facile. Dove conta il risultato fnale, non quello parziale. In altre parole, ha attecchito una tradizionale cultura storico-bellica russa che prende in considerazione solo il bilancio conclusivo della guerra e considera il successo fnale tanto più importante se ottenuto dopo un percorso sofferto e doloroso, costellato se serve di battaglie perse (l’ultimo caso è il confitto in Cecenia). Solo la vittoria defnitiva è «gloriosa» e celebrata con il rito delle parate (radicato nei russi come quello del ferragosto negli italiani). Un interlocutore mi fa notare che prima di conquistare Berlino, l’Urss era quasi capitolata davanti alle forze naziste, arrivate alle porte di Mosca mietendo sul campo vittorie su vittorie e uccidendo milioni e milioni di sovietici. Quarto. L’«americanizzazione» della guerra porta a caricarla di temi che poco hanno a che vedere con l’andamento del confitto e rimandano allo storico scontro frontale con la cultura dell’Occidente (in particolare quella anglosassone). È un terreno di confronto polemico al quale i russi sono mediamente abituati. Né sono a corto di argomenti, forniti da decenni di narrazioni domestiche volte a sottolineare le ipocrisie dell’Occidente. Si creano le condizioni per riproporre consolidate rivendicazioni storiche russe (dal «mito dell’incomprensione» a quello della «difesa contro lo straniero» all’«uno-contro-tutti») che hanno nobilitato il confitto come espressione del redde raCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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tionem in uno scontro identitario tra civiltà. Dove, quasi per nemesi storica, Mosca si erge a difesa di molti di quei valori «tradizionali» che per settanta lunghi anni l’ideologia sovietica ha strenuamente negato e combattuto.
Missili d’inverno, carri armati a primavera Con il passare del tempo, l’escalation militare ha portato a considerare la crisi come una guerra classica tra Stati, combattuta dai rispettivi eserciti. I colpi messi a segno dagli ucraini, inizialmente sottaciuti, ora vengono amplifcati dalle narrazioni di parte e messi in relazione con gli aiuti militari a Kiev e con le decine di migliaia di combattenti stranieri nell’esercito ucraino, soldati occidentali sotto mentite spoglie arrivati per operare armi tattiche sconosciute agli ucraini (per attivare ciascuna batteria di missili Patriot servono circa 90 militari che si dà per scontato saranno stranieri). Questo sortisce al contempo altri effetti poco considerati in Occidente. In primo luogo, l’opinione pubblica è oramai assuefatta al ricorso a iniziative militari e ad armamenti che all’inizio del confitto sarebbero stati diffcilmente accettati, in particolare se usati contro gli ucraini. È il caso dei bombardamenti missilistici sulle città ucraine, soprattutto su Kiev (a lungo risparmiata), intensifcatisi dopo l’estate e considerati inevitabile e «normale» rivalsa in una guerra classica senza esclusione di colpi. Nonché tattica bellica standard per azioni militari condotte nella stagione invernale inadatta per i combattimenti, che invita ad arroccarsi nelle posizioni controllate e a logorare il nemico da remoto. Missili d’inverno e carri armati a primavera. Eventuali azioni offensive di terra nei mesi freddi sarebbero circoscritte, rivolte verso obiettivi tattici, per giocare d’anticipo sull’arrivo di nuove armi dall’Occidente. Molti degli intervistati considerano punti di rottura che hanno sdoganato ogni tipo di reazione militare da parte russa episodi come l’affondamento dell’incrociatore Moskva davanti a Odessa (possibile, si dice, solo grazie al determinante aiuto straniero), il bombardamento del ponte che unisce la Crimea alla Russia, la strage di reclute intente a festeggiare il Capodanno a Makiivka. Semmai, il problema diventa conciliare le scelte tattiche di una guerra di logoramento con le narrazioni patriottiche e le aspettative dell’opinione pubblica, che nell’èra dei social media ha accesso anche alla propaganda della parte opposta. Viene fatto l’esempio di Kherson, apparentemente tornata in mano ucraina sulla base di un freddo calcolo militare russo (le perdite e i costi nel difenderla nel corso dell’inverno sarebbero stati molto superiori rispetto alla decisione di lasciarla prima, per assediarla poi con bombardamenti in vista di una futura campagna per riprenderla). Questa ritirata tuttavia non è stata spiegata ed è stata percepita dalla opinione pubblica russa come una scelta inaccettabile, per di più umiliante perché celebrata dagli ucraini come una vittoria. Il motivo di questo divario comunicativo sta nel fatto che la gestione operativa della guerra è nelle mani delle gerarchie militari, restie a svelare le proprie Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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tattiche belliche e per questo pessime nel gestire i rapporti con il pubblico (il portavoce dell’esercito è lo stesso Igor’ Konašenkov che nell’aprile 2020, a latere della missione di aiuti russi all’Italia, sforò l’incidente diplomatico con Roma). Analogo riserbo circonda la disponibilità di armamenti russa, che tuttavia non sembra essere agli sgoccioli, come da alcuni mesi vanno invece ripetendo i servizi di intelligence britannici. L’industria bellica russa, che a differenza di quella statunitense è pienamente controllata dallo Stato, pare stia funzionando a pieno ritmo e sopperendo, grazie a forniture esterne in arrivo da paesi amici, alla fondamentale crisi della componentistica tecnologica oggetto delle sanzioni occidentali. L’ultimo dei problemi a Mosca sembra sia quello di restare senza armamenti.
I russi approvano, senza entusiasmo La crescente assuefazione allo status quo bellico si trasforma nei fatti in un aumento dei favorevoli all’azione militare russa. Tuttavia, si tratta di un’accettazione passiva, visibile nel calo di manifestazioni spontanee popolari di sostegno alla guerra, come l’esposizione di simboli patriottico-bellici (ad esempio la «Z» identifcativa delle Forze armate russe in Ucraina). È espressione di un silenzio-assenso già ampiamente diffuso prima dell’estate, la cui crescita a scapito del dissenso-senza-opposizione avevamo già collegato al protrarsi del confitto. Il punto è che questo trend si è manifestato ben oltre le previsioni. Le non poche voci (circa un terzo delle totali) che a giugno 2022 – pur senza contestarlo – si erano espresse contro il confitto, o almeno si erano dette dubbiose, oggi sono quasi scomparse. La portata di questo fenomeno non si spiega solo con la crescita dei sostenitori del silenzio-assenso né tantomeno con la reticenza a parlare degli interlocutori per timore di incorrere nelle dure pene previste contro chi si oppone pubblicamente alla guerra. Misure restrittive in tal senso sono state introdotte e applicate senza sconti dall’inizio della crisi – quindi erano già ampiamente in vigore al tempo delle interviste condotte nella missione di giugno. Va piuttosto considerato un aspetto molto interessante, del tutto trascurato in Occidente: la quasi totalità degli oppositori, attivi o potenziali, non sono più fsicamente presenti in Russia. Sono parte dei 2-3 milioni di persone (cifre esatte non esistono) che si stima siano andati all’estero dall’inizio della guerra, con una forte impennata del fusso dopo l’annuncio della mobilitazione militare parziale da parte del Cremlino a fne estate. Per evitare la chiamata alle armi, ha precipitosamente lasciato il paese un imponente numero di giovani e adulti maschi under-55 ad alto tasso di educazione e concentrati nelle zone urbane – tutte categorie dove in media i critici verso il Cremlino sono preponderanti. Poiché le frontiere in uscita – fatto strano per la Russia – sono state chiuse ai reclutabili con notevole ritardo rispetto all’annuncio della mobilitazione, è lecito supporre che l’esodo di questi (potenziali) oppositori sia stato tra gli effetti calcolati del provvedimento. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Questa ricaduta politica sul piano interno, che di fatto svuota i ranghi del dissenso, offre una diversa chiave di lettura sull’effcacia di una decisione che l’Occidente ha ad oggi valutato criticamente solo da una prospettiva militare. Un apparente paradosso è che alla crescita esponenziale del silenzio-assenso verso il confitto corrisponde un tangibile calo delle vibrazioni positive e dei toni ottimistici che l’estate scorsa accompagnavano le vicende belliche. Al netto dello spleen di cui sempre soffrono nei mesi invernali i russi (popolo molto più meteoropatico di quanto si creda in Occidente), si tratta di un sentimento non legato tanto ai timori sull’esito della guerra quanto alla rassegnazione per il suo protrarsi nel tempo. L’unica sensazione comune a tutti – letteralmente – gli intervistati è quella di una crisi destinata, tra alti e bassi, a durare a lungo. Anche militarmente. Le menti più politiche fanno notare che all’origine di questa impasse non vi è solo l’alta posta in gioco ma anche una più banale considerazione. In questa fase la fne del confitto non servirebbe a nessuno, né agli aggressori né agli aggrediti. L’escalation militare ha rafforzato e congelato i gruppi dirigenti che gestiscono il potere a Mosca e a Kiev. Finché la guerra è in corso non ci sono vincitori, né soprattutto vinti. Superata la generale sorpresa iniziale per l’azione militare, lo stato di guerra è stato oramai metabolizzato, con annesse conseguenze negative. Delle quali nessuno si rallegra ma che sono affrontate con l’approccio di chi si prepara a conviverci piuttosto che a rimuoverne le cause. In altre parole, non saranno le pressioni dal basso a spingere la leadership russa al cambio di rotta in Ucraina. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Chi sale e chi scende (attorno a Putin) L’istituzionalizzazione della guerra ha appiattito la vita politica sul fronte interno, con poche novità. È confermata la crescita del peso dei militari nella leadership russa, già in atto da quando – fallito il tentativo iniziale di una guerra lampo per ottenere un cambio di regime a Kiev – si è virato sul piano opposto di una guerra «vera» sul modello siriano, affdandosi all’esercito professionale. In un paese dove è al comando l’élite della funzione pubblica che corrisponde alla priorità di governo del momento, l’attuale centralità dei militari conferma che il confitto è destinato a durare a lungo. O, peggio ancora, è avvisaglia di una nuova fase storica in cui il ricorso all’opzione militare torna a essere la prima scelta del Cremlino, dopo quasi due decenni abbondanti di prevalenza della diplomazia il ministro degli Esteri Sergej Lavrov (in carica dal 2004) è la fgura istituzionale in assoluto più visibile dopo Putin. I primi a subirne le conseguenze sono i diplomatici, che hanno assunto un ruolo più deflato, rientrando nel perimetro della stretta azione di competenza ministeriale. Esecutori tecnici di una politica estera alla cui defnizione contribuiscono meno che in passato. Per quanto riguarda i frequenti cambiamenti al vertici dell’esercito russo in Ucraina, questi sarebbero il frutto di decisioni-competizioni interne alle gerarchie militari, dunque ancora più imperscrutabili e imprevedibili degli avvicendamenti al Cremlino. Con il professionalizzarsi del confitto, il comando delle operazioni in
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Ucraina sarebbe maturato all’interno delle stesse Forze armate, previo il consenso non solo formale del presidente, che tuttavia non proviene dall’esercito, non ha una formazione militare né pretende di averla (si fatica a trovare – anche di questi tempi – ritratti uffciali di Putin in uniforme militare). È un aspetto non secondario per una superpotenza militare in periodo di guerra, dove lo Stato maggiore delle Forze armate, con a capo un generale da combattimento come Valerij Gerasimov, detta la linea al ministero della Difesa, retto da Sergej Šoigu, la cui esperienza di gestione amministrativa e contiguità con il mondo politico ricordano il curriculum dei vertici militari occidentali. Per quanto riguarda il Gruppo Wagner, è ancora percepito come un elemento «nuovo» dell’azione militare russa, tradizionalmente statalista e non abituata alla fgura del contractor di derivazione statunitense. Wagner è un corpo estraneo non solo all’esercito ma a tutta la mastodontica funzione pubblica russa. Sembrano molto azzardate le ipotesi occidentali che vorrebbero lanciato verso ruoli istituzionali il suo leader e fondatore Evgenij Prigožin, fgura estranea allo Stato profondo russo. Piuttosto, c’è da chiedersi il motivo dell’esaltazione che i media di Stato fanno dei successi di Wagner (come nel caso dell’offensiva a Soledar) o l’ampio spazio che danno alla prosa violenta e gotica di Prigožin, spesso carica di feroci critiche nei confronti delle gerarchie dell’esercito. Questo mainstream istituzionale sarebbe impensabile senza il placet del Cremlino. E sortisce effetti non casuali. Sprona le gerarchie militari a ottenere risultati migliori sul campo, ne responsabilizza pubblicamente le scelte tattiche, ne limita l’infuenza politica al di fuori della gestione della guerra. Dà inoltre voce alle aspettative della pancia patriottica e movimentista del paese, insofferente dei tatticismi della guerra ibrida stile «dottrina Gerasimov», mentre invoca nei confronti di Kiev il pugno di ferro di sovietica memoria. Il personaggio mediatico Prigožin ripropone una tecnica di comunicazione istituzionale che ruota attorno alla fgura del «superfalco» battitore libero (in passato impersonata da Vladimir Žirinovskij), interprete di un linguaggio volutamente truce e sopra le righe, a marcare la spontaneità di critiche che tuttavia hanno dei target mirati, concordati con il Cremlino. Diffcile pensare che siano casuali gli strali lanciati da Prigožin contro il rammollito stile di vita occidentale e quei russi che lo rimpiangono o che vi si sono rifugiati per evitare la chiamata alle armi. Per quanto riguarda fgura e ruolo del presidente, resto della mia vecchia convinzione che in Russia l’impero conti più dell’imperatore e che il paese non sia quella Putinlandia spesso raffgurata in Occidente da quanti sono convinti che un’uscita di scena dell’attuale inquilino del Cremlino risolverebbe tutto come per incanto. Illusione irrealistica e pericolosa se, come sembra, Putin si confermerà leader e punto di sintesi per tenere insieme gruppi di potere in stato di competizione interna permanente. Il carisma presidenziale comunque resta ancora forte e, altro paradosso, ha sofferto più ieri per via dell’epidemia (nonostante il successo della scoperta dello Sputnik V) che oggi per via della guerra (nonostante le diffcoltà incontrate nel Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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confitto in Ucraina). A dimostrazione di come – proprio perché non è un militare – non gli vengono addebitati i problemi al fronte. E chiarito che la guerra contro gli Usa era inevitabile, nemmeno la scelta di invadere l’Ucraina, decisione che inizialmente aveva sollevato forti dubbi pure tra i putiniani di ferro.
Dove va (e quanto dura) la guerra Anche in questa missione si fa sentire il fatto che nessuno dei miei intervistati provenga dalle Forze armate, che si confermano universo parallelo alla società russa, senza forme di contatto associative sul modello dei veterani statunitensi o degli alpini italiani che riducano la sensazione di un mondo che vive a parte. Tuttavia, a quasi un anno dall’inizio della guerra – in Russia come da noi – le questioni militari sono diventate di dominio pubblico e c’è meno reticenza a esprimere opinioni su temi su cui prima regnava l’ignoranza. A radicare la sensazione generale del prolungamento di un confitto destinato periodicamente a riacutizzarsi è il discorso di Capodanno di Vladimir Putin, cameo che nei simboli e nella parole racchiude l’attuale cornice dell’«operazione speciale». In genere tenuto poco prima dello scoccare della mezzanotte, quest’anno si è protratto per quasi dieci minuti, atteso da gran parte del paese, impaziente di apprendere più che il bilancio dell’anno passato una previsione per quello a venire. Con alle spalle tre fle di soldati decorati (e, non a caso, nessun alto uffciale), Putin come da suo stile ha tenuto un discorso asciutto nella prosa e diretto nel messaggio, lasciando poco spazio alle interpretazioni. Ha ribadito la determinazione russa a proseguire uno scontro inevitabile, provocato dall’Occidente, cui la Russia non può né intende sottrarsi. I toni del discorso hanno rafforzato i sostenitori della tesi per cui sarebbe imminente una seconda mobilitazione di riservisti con conseguente nuova offensiva di terra su larga scala. Anche in questo caso, si fa riferimento a tali eventualità senza particolare enfasi, come alle prossime partite di un campionato ancora lungo da giocare. Non vi è un’opinione comune su quale possa essere il risultato minimo richiesto dal Cremlino per arrivare alla pace. O meglio, a quella che molti raffgurano come una tregua in una disputa destinata nel medio-lungo periodo a ravvivarsi sul modello libanese, coreano o palestinese. Nessuno considera possibile la rinuncia di Mosca ai territori già formalmente annessi, anche di quelle parti che ancora non controlla militarmente. I confni dello Stato sono quanto di più sacrale ci sia nel patriottismo russo. In altre parole, perché avvenga la modifca di questi confni, non basta la fne dell’imperatore. Serve quella dell’impero. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Sanzioni macro Nella contrapposizione con le narrazioni occidentali, in Russia le sanzioni restano l’argomento preferito dopo le vicende belliche. Per il loro impatto macro-
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economico e per i risvolti che hanno sulla vita quotidiana. Vi è quasi sorpresa nel constatare che non si sono avverate le previsioni occidentali di default a marzo 2022, a cui i russi – memori del crack del 1998 e in genere pessimisti sul proprio futuro economico – avevano inizialmente creduto. Grande risalto viene dato sui media locali a una stima del Fondo monetario internazionale quasi introvabile su quelli occidentali: la Russia sarebbe diventata la nona economia al mondo con un pil da 2.100 miliardi di dollari nel 2022, grazie anche a un rublo forte e alle spese militari, sicché è riuscita a superare Italia, Brasile e Corea del Sud. Il paradosso è che, rispetto agli annunci fatti dal Cremlino all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, si sono avverate le previsioni in campo economico e non quelle in campo militare. Esattamente il contrario di quanto immaginabile sulla base della recente storia del paese, a partire dallo stesso crollo dell’Urss, scatenato dallo spettacolare fallimento dell’economia sovietica. L’impressione è che la tenuta dell’economia sia l’elemento su cui si basa l’attuale credibilità della leadership del paese. Per converso, è uno dei motivi che ha portato ad accogliere con maggiore scetticismo rispetto al passato i ricorrenti proclami catastrofsti sul futuro russo, economico e non, che continuano ad arrivare dall’Occidente. Più che facilitare il processo di disgregazione della Russia sul modello dell’Urss, le sanzioni sembrano avere prodotto un altro paradosso. Molti dei massicci investimenti russi riversatisi a oriente sono confuiti nei paesi dell’ex Urss, dando nuovo impulso a quella cooperazione economica eurasiatica che da tempo Washington teme possa preludere alla nascita di uno spazio geopolitico sovietico 2.0 a trazione russa. È il caso dell’Uzbekistan, dove pare oramai siano migliaia le società aperte da imprenditori russi, spalleggiate dal sistema bancario locale, estraneo alle sanzioni. Altri effetti positivi sul piano macro-economico si avvertirebbero nel campo fnanziario, segnato dal massiccio rientro in patria di grandi e grandissime ricchezze, invertendo la cronica fuga dei capitali verso l’estero e realizzando così un vecchio obiettivo strategico della Banca centrale russa. Questo fenomeno viene accompagnato sul piano interno da una comunicazione istituzionale già vista nel 2012-13 in occasione del congelamento dei conti dei correntisti russi nella crisi fnanziaria cipriota. Esemplifcata al meglio dalle parole dello stesso Putin, rivolte a quanti, oligarchi e non, hanno avuto le loro ricchezze bloccate all’estero: «Ja že vam govoril»: («Ve l’avevo detto», che i vostri soldi fuori dalla Russia non erano al sicuro). Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Sanzioni micro
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Le sanzioni sono, con diversa intensità, parte integrante della quotidianità russa degli ultimi due decenni. Al di là della infnita disputa sulla loro effcacia macroeconomica, è nella dimensione micro del commercio al dettaglio che offrono una prospettiva unica sui cambiamenti nella vita socioculturale del paese. Dal punto di vista pratico, l’impressione è che non esistano le «sanzioni perfette» per colpire il quotidiano e che il commercio – un po’ come l’umidità in un muro – trovi sempre una via alternativa per manifestarsi. Commercio al dettaglio e
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terziario, insieme al turismo in entrata e in uscita, sono destinatari di una campagna sanzionatoria occidentale data per scontata da tutti, anche se non a questo livello di intensità. Per ora, l’impatto resta abbastanza simbolico. Eppure reale e sentito, perché visibile. Mentre non si registrano disagi nell’approvvigionamento di beni o servizi al cittadino medio. Piuttosto che essere scintilla di un’improbabile protesta sociale, è una raffgurazione plastica che funge da memento mori nel rapporto con l’Occidente. Di quello che oramai è considerato un divorzio, accettato con malinconica determinazione. Non vi è carenza di prodotti negli scaffali. Le forniture di beni di largo consumo sono tornate a essere coperte da produzioni locali o di provenienza asiatica, con la politica di prezzi calmierati ereditata dai tempi sovietici. Per quanto riguarda i beni di lusso, si è tornati a vent’anni fa, quando tutto era reperibile su canali di importazione paralleli ma a prezzi doppi quando non tripli rispetto a quelli occidentali. Sul notevole incremento della domanda di lusso generata proprio dalle sanzioni si stanno registrando volumi d’affari enormi di cui benefciano quanti hanno contatti internazionali e reti distributive domestiche, per riorganizzare i canali di approvvigionamento dei prodotti. È un fenomeno che non determina la creazione di nuove micro-élite commerciali quanto la ridefnizione degli equilibri tra quelle macro già dominanti. È il caso del gruppo Bosco di Ciliegi del proprietario degli storici magazzini Gum sulla Piazza Rossa, Mikhail Kusnirovi0, diventato grazie alle sanzioni monopolista della vendita della popolarissima alta moda italiana; mentre il gruppo Mercury, principale distributore di beni di superlusso (orologi, gioielli eccetera), incontra maggiori diffcoltà nella catena di approvvigionamento per soddisfare la domanda di una clientela con alta capacità di spesa che prima comprava sul mercato retail europeo e ora si rivolge quasi esclusivamente a quello russo. Interessante è anche che le sanzioni – contro ogni previsione – non abbiano invertito il trend oramai quindicennale di progressiva contrazione dell’economia sommersa, una volta vastissima e oggi relegata a sacche residuali. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Rapporti internazionali tra ‘non amici’ e ‘non nemici’ Al pari della politica interna, anche quella estera in tempo di guerra non è particolarmente ricca di novità. I rapporti internazionali sono oramai tutti giocati a livello bilaterale a sud e a est di Mosca con paesi amici, lungo consolidate direttrici geopolitiche eurasiatiche, arabe, africane. Rafforzate da una ftta rete di rapporti diplomatici non occasionali e preesistenti alla crisi attuale, sono meno esposte ai richiami occidentali dell’ultimo momento. Riguardo alla Cina, l’impressione è che il mondo abbia preso coscienza del legame Mosca-Pechino (che i più in Occidente credevano impossibile) molto tempo dopo che questo è stato costituito e cementato. Un diplomatico mi dice: «Noi e i cinesi siamo molto diversi. Ma in comune abbiamo il rispetto della parola data. Non tradiamo gli accordi presi».
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DALL’OPERAZIONE SPECIALE ALLA GUERRA NORMALE CONTRO GLI ‘AMERIKANI’
Per quanto riguarda i paesi «non amici» (defnizione uffciale data a quanti hanno votato le sanzioni alla Russia), la novità principale sta nei distinguo introdotti verso alcuni, a dimostrazione appunto dell’attività bilaterale svolta negli ultimi mesi. I rapporti con gli Usa sono al minimo storico. Non ci sono contatti di rilievo, se non per operazioni singole come gli scambi di prigionieri, che confermano il clima da guerra fredda. La stessa apertura pubblica fatta intendere da Sergej Lavrov nei confronti di John Kerry (i due si dice abbiano evitato che l’attuale confitto esplodesse già nel 2014) non sembra il frutto di una strategia diplomatica verso la chimera di una Helsinki 2 quanto il banale tentativo di rimettere in piedi un canale di dialogo fduciario tra Washington e Mosca. Oggi del tutto assente, al punto che le rispettive ambasciate sono ridotte a mere basi lunari inattive. Al netto della degenerazione dei rapporti russo-americani, la tensione con altri paesi dell’Alleanza Atlantica (Germania e Italia su tutti) pare essere calata rispetto alle punte toccate all’inizio della crisi. Nessuno sembra nutrire speranze su un cambio di linea politica a Roma sui principali dossier (Ucraina, Libia, energia eccetera), ma i toni diplomatici più moderati adottati dal governo di Giorgia Meloni sono visti a Mosca come un passo avanti. Soprattutto dopo la retorica aggressiva di Mario Draghi. Infne, è interessante come il protrarsi della guerra abbia creato nello spazio di mezzo tra alleati e nonamici una terza zona fuida di cosiddetti «non nemici» su cui convergono quanti cercano di ottenere i notevoli benefci e vantaggi di cui hanno goduto paesi quali Turchia, Serbia, Ungheria, che sono riusciti a fare coesistere condanna formale e collaborazione sostanziale nei confronti di Mosca. Ormai non si parla quasi più di iniziativa multilaterale, a dimostrazione del calo di interesse russo nei confronti di quello che a lungo è stato il primo piano su cui la Russia ha puntato per riemergere come superpotenza e contenere il predominio Usa, in nome della dottrina che ha formulato le linee guida della politica estera post-sovietica, promossa da Evgenij Primakov (fgura ancora oggi stimatissima e che, dettaglio evocativo, era nato a Kiev nel 1929). Questo riguarda l’Onu ma anche la Ue, trattata con un disinteresse che rifette la fne dell’ossessione russa della ricerca di un riconoscimento europeo, culturale oltre che geopolitico. Il divorzio dagli europei sta tutto nel commento di un interlocutore sulla decisione russa di abbandonare in via defnitiva il Consiglio d’Europa davanti alla dura ma prevedibile condanna dell’invasione dell’Ucraina: «A Bruxelles stanno dei burocrati arricchiti, a Strasburgo solo dei burocrati. Pagare loro lo stipendio per ottenerne in cambio le critiche – anche no, grazie». Decisamente, ai russi non interessa più avere il nostro apprezzamento. Sicché rallentano il battito cardiaco in vista di un altro letargo nei rapporti con l’Occidente.* Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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* Questo articolo è dedicato alla memoria di Franco Frattini.
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MUSSETTI La decisione americana e tedesca di inviare moderni carri armati pesanti a Kiev prelude al tentativo ucraino di aggirare la tattica russa, basata sull’attrito. Il caso del sistema antimissile italofrancese e il rischio che la nostra difesa aerea resti sguarnita. di Mirko
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1. « A RUSSIA SI ASPETTAVA LA FINLANDIZZAZIONE dell’Europa, ma deve invece fare i conti con l’atlantizzazione della Finlandia» 1. Con queste parole pronunciate il 25 gennaio 2023 il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha riassunto i primi undici mesi di guerra scatenati dal capo di Stato russo Vladimir Putin. Alludendo al prossimo ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato (manca la ratifca di Turchia e Ungheria), l’inquilino della Casa Bianca ha ostentato sia la compattezza dell’Occidente contro il grande rivale atomico dell’America sia la volontà di proteggere il blocco alleato direttamente a ridosso dei confni della Federazione Russa. Nell’atteso discorso del 25 gennaio 2023 il presidente americano ha annunciato poi l’invio nel paese invaso di «31 carri armati Abrams, pari a un battaglione ucraino», precisando con gonfata magnifcenza che si tratta dei «tanks più potenti al mondo». Il capo di Stato americano ha quindi ringraziato il cancelliere della Germania Olaf Scholz per la sofferta decisione di fornire 14 carri armati Leopard-2 e di concedere ai paesi che hanno in dotazione i panzer tedeschi il permesso di riesportarli in Ucraina. La deliberazione di Washinghton e Berlino di inviare veicoli da combattimento pesanti a Kiev è un messaggio precipuamente geopolitico rivolto a Mosca, sebbene la quantità dichiarata di mezzi non sia tale da modifcare le sorti del confitto. Con l’intensità attuale, sarebbero necessarie centinaia – forse un migliaio – di carri armati l’anno per sopraffare l’invasore e sperare nella totale riconquista dei territori occupati. Qualche dozzina di carri armati moderni non possono di certo fare la differenza, soprattutto se consegnati in ritardo o con una certa intermittenza dovuta Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. «Remarks by President Biden on Continued Support for Ukraine», ambasciata degli Stati Uniti in Italia, 25/1/2023.
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alla preparazione dei carristi ucraini selezionati, che non può essere in alcun modo frettolosa. Inoltre, è sbagliato porre troppa speranza in veicoli per loro natura altamente vulnerabili alle moderne tattiche belliche, che contemplano l’impiego di droni e missili anticarro guidati e spalleggiabili. Abrams e Leopard non possono essere la panacea che Kiev va cercando. I carri armati Leopard-2 tanto agognati dalle autorità ucraine sono già stati oggetto di studio russo in Siria, dove le truppe affliate a Mosca hanno avuto modo di distruggerne in discreta quantità. La Turchia ha infatti optato per il loro inconsulto impiego offensivo nel Levante in violazione dei caveat imposti dalla Germania, che ne vincola l’export alle sole fnalità difensive per l’acquirente. Per la Russia non si tratta quindi di un’arma ignota. Mosca certamente non si lascia impressionare dall’alone di invulnerabilità alimentato dai media ucraini e occidentali. In tal senso, il portavoce del Cremlino Dmitrj Peskov è stato piuttosto chiaro seppur con toni sconsolati: «Bruceranno nello stesso modo degli altri» 2. La scelta di inviare carri armati all’Ucraina infastidisce il decisore politico russo non tanto per l’impatto che potrebbero avere nell’economia del confitto quanto per la probabile alterazione dei ritmi bellici che tali mezzi potrebbero apportare. L’uso precipuo di artiglieria signifca guerra lenta; l’impiego virulento di carri armati presagisce guerra veloce. Sul piano teorico, la comparsa di tanks moderni potrebbe accelerare il corso della guerra, sparigliando le carte sul tavolo degli strateghi moscoviti. Fallito il tentativo iniziale di inglobare l’Ucraina mediante una guerra lampo, la Russia ha iniziato a scommettere su un confitto armato lungo dove le sorti si legano all’enorme disparità demografca e di risorse dei belligeranti. In un confitto lento, la Grande Madre può alla lunga prevalere sull’ex paese satellite persino perdendo uomini e asset in un rapporto disonorevole di quattro a uno. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. La Russia spera di vincere questa guerra di logoramento per esaurimento delle risorse altrui, senza eccessivo coinvolgimento della propria popolazione. Ma la comparsa di nuovi carri armati occidentali tornerebbe a dinamizzare il confitto, richiedendo a Mosca un maggiore dispiegamento di uomini per la tenuta del lunghissimo fronte, che dal basso Dnepr (Kherson) attraversa tutto il quadrante sud-orientale dell’Ucraina fno al bacino del Donec (Donec’k e Luhans’k). L’approccio paziente di Mosca verrebbe meno per l’intromissione coordinata delle cancellerie occidentali nel confitto. Il sopraggiungere dei carri armati euroatlantici in Ucraina potrebbe spingere la Federazione Russa a intimidire l’Occidente e impedirne il trasferimento al fronte, bersagliando con missili a lunga gittata le infrastrutture logistiche ucraine nelle immediate vicinanze dei confni con Polonia, Slovacchia e Romania – l’Ungheria non presta il proprio territorio al transito di armi verso la Transcarpazia ucraina – e aumentando sensibilmente i rischi di un incidente diretto con i paesi della Nato.
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2. «Kremlin says U.S.-supplied tanks will “burn” in Ukraine», Reuters, 25/1/2023.
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L’escalation non sarebbe irrefrenabile, come testimonia il caso del missile di Przewodów, ma allontanerebbe le speranze di profcui negoziati tra le due superpotenze nucleari (Stati Uniti e Russia) protagoniste della guerra per procura. Nel caso di mezzi particolarmente sofsticati come gli Abrams può rendersi poi necessaria una maggiore presenza di tecnici militari americani in prossimità del campo di battaglia, assottigliando di molto la linea che separa una guerra per procura da uno scontro diretto tra Occidente e Russia. Ecco perché, disdegnando le parole di Biden del 25 gennaio secondo cui «non si tratta di una lotta contro la Russia, ma di una lotta per la libertà», Peskov ha preferito andare dritto al punto: «Ci sono state ripetute dichiarazioni dalle capitali europee e da Washington secondo cui l’invio di vari sistemi d’arma in Ucraina, compresi i carri armati, non signifcherebbe in alcun modo il coinvolgimento dei loro paesi nelle ostilità. Non sono d’accordo. Mosca percepisce tutto questo come un coinvolgimento diretto nel confitto» 3. La non cobelligeranza sarebbe ormai solo questione di retorica. L’interesse della Federazione Russa è preservare una superiorità numerica di carri armati al fronte rispetto alla controparte ucraina/occidentale. Per questa ragione, l’accelerata produzione in serie dei potenti tanks russi T-90M – paragonabili per prestanza proprio ai Leopard-2 − prevale per i notabili di Mosca sulla messa in servizio anticipata del carro armato di ultima generazione T-14 Armata (Oggetto 148), attualmente in fase di test. In una guerra d’attrito la quantità conta spesso più della qualità, sia in termini di stock (unità immediatamente disponibili) sia in termini di fusso (capacità di rimpiazzo). Ed è proprio per questo motivo che il Pentagono ha mostrato aperta riluttanza verso la scelta della Casa Bianca di trasferire a Kiev carri armati Abrams, suggerendo e sponsorizzando invece l’invio dei tedeschi Leopard 1 (modello vetusto) e 2 (modello aggiornato). Rimane assai improbabile nel breve periodo assistere a duelli tra T-14 russi (armi migliori) e Abrams americani (alta mobilità); mentre sarà assai più probabile assistere al confronto tra i moderni carri armati russi T-90 e i Leopard tedeschi di pari valore e di più facile utilizzo per i carristi ucraini. A ogni modo, i trentuno carri armati americani promessi da Biden non potranno giungere in Ucraina prima dell’autunno, secondo un calcolo piuttosto ottimistico. La scelta statunitense di fabbricare ex novo gli Abrams sollecitati da Kiev è sostenuta da diverse ragioni di natura interna e tecnico-operativa. Primo, la fornitura dei principali mezzi Usa per il combattimento campale diviene un meccanismo indiretto per sovvenzionare l’industria bellica a stelle e strisce; i nuovi mezzi dovranno essere comprati da società nazionali o straniere e poi trasferiti in Ucraina. Secondo, il Numero Uno – già alle prese con una inaspettata carenza di munizioni – non ha alcuna intenzione di intaccare le proprie riserve di armamenti, essenziali per affrontare future crisi in altri emisferi. Terzo, e forse più importante, la produzione dei trentuno Abrams destinati al teatro bellico ucraino terrà conto di apposite Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. «Involvement of US, collective West in confict in Ukraine grows: Kremlin», Tass, 26/1/2023.
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modifche e limitazioni, sia per agevolare/accelerare l’addestramento dei carristi ucraini sia per impedire un involontario trasferimento di tecnologia americana alla Russia in caso di cattura dei mezzi. A differenza di altri sistemi d’arma sofsticati − come le batterie Patriot o i lanciarazzi Himars – i carri armati presentano un’elevata probabilità di cadere in mano nemica in quanto operanti in prima linea, magari a poche decine di metri dal nemico. Inoltre, la scelta di fabbricare da zero un numero tutto sommato contenuto di carri armati Abrams sembra essere un modo pragmatico per avvicinare le opposte posizioni del dipartimento di Stato (favorevole all’invio) e del dipartimento della Difesa (contrario), i cui segretari hanno presenziato al succinto discorso di Biden impettiti alle sue spalle. Antony Blinken può riaffermare il «convinto» sostegno dell’America all’Ucraina, mentre Lloyd Austin può procrastinare di diversi mesi tutti i problemi tecnici legati alla consegna e al loro effettivo impiego. Prima preoccupazione del dipartimento della Difesa in merito al dispiegamento degli Abrams nel teatro del Donbas o sul fronte di Zaporižžja è lo spropositato consumo di carburante dei motori a turbina multifuel. Il timore principale di Austin è che i tanks americani operanti in prima linea in un paese già alle prese con carenze di combustibile possano immobilizzarsi per assenza dei rifornimenti di propellente adeguato, favorendo quindi la loro cattura da parte del nemico russo. Inoltre, i pesantissimi (68 tonnellate) carri armati americani entrati in servizio negli anni Ottanta non sono stati concepiti per un impiego precipuo in teatri bellici contraddistinti da terreno gelato o fangoso, come nel caso dell’Ucraina. Se persino la prima potenza militare del mondo nutre dubbi sull’invio di materiale bellico particolarmente sensibile (sistema antimissile Patriot, carri armati Abrams), anche le Forze armate di diversi paesi dell’Europa occidentale si domandano se sia il caso di trasferire in Ucraina i sistemi d’arma più preziosi di cui dispongono comunque in quantità limitata. È il caso dei sistemi terra-aria Samp/T a corto/medio raggio di produzione italo-francese, che il governo del Belpaese ha promesso alle autorità di Kiev generando l’irritazione del partner transalpino. Francia e Italia dispongono di poche batterie. Le cinque in possesso di Roma sono insuffcienti per l’esaustiva protezione del territorio della penisola. Il dispiegamento di una batteria in un paese estero in guerra aggraverebbe ulteriormente la lacunosa posizione difensiva dell’Italia, a maggior ragione se una seconda batteria dovesse essere spostata in Repubblica Ceca per onorare l’impegno di proteggere il fanco orientale della Nato. In caso di distruzione o danneggiamento di una sua componente, per esempio l’antenna radio, l’elemento dovrebbe essere immediatamente sostituito attingendo da un’altra batteria, riducendo così ipso facto di una unità i sistemi terra-aria immediatamente operativi nelle disponibilità delle Forze armate italiane. A questo si aggiunge il fatto che i tempi tecnici per la fabbricazione di una batteria completa non sono inferiori ai diciotto mesi. La Francia è gelosa di un sistema operativo che le permette di proteggere i cieli senza alcun vincolo politico o tecnico estero (Parigi e Roma sono sovrane del software) e per questa ragione vorrebbe evitare il trasferimento di tecnologia Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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preziosa in mani amiche o nemiche che possano praticare reverse engineering (ingegneria inversa, studio delle componenti e del funzionamento). Questo il motivo principale per cui l’insistita richiesta della Turchia di acquistare una batteria Samp/T è sempre stata rigettata, anche prima della compravendita operata da Ankara del sistema russo S-400 Triumph. Non solo, l’Esagono teme che le potenze rivali possano studiare il modo per neutralizzare l’effcace sistema difensivo. Mostrare in un contesto di guerra non direttamente legato alla sicurezza dello Stato gli ignoti talloni d’Achille di un sistema d’arma sofsticato comprometterebbe per sempre la sua prestanza e dunque la sicurezza nazionale. Ecco perché le voci che si sono rincorse durante l’incontro tra i ministri della Difesa Guido Crosetto e Sébastien Lecornu del 27 gennaio 2023 relative all’acquisto di 700 missili Aster-30 (commessa di oltre due miliardi di euro) per i sistemi Samp/T da inviare in Ucraina sono state prontamente smentite dagli interessati. Assumersi la responsabilità di consegnare al paese dell’Europa orientale i missili prodotti dal consorzio Eurosam signifca ammettere che gli stessi non potranno essere imbarcati sulle fregate italo-francesi Fremm, che operano lo stesso sistema missilistico per creare «bolle» difensive. Per proteggere il territorio altrui, Italia e Francia rischiano di rimanere nude per mare. Il nervosismo in Russia per le proposte/iniziative di riarmo e sostegno all’Ucraina trapela peraltro in modo sempre più palpabile, al punto che il vicecapo del Consiglio di sicurezza e già presidente della Federazione Russa Dmitrij Medvedev ha defnito il ministro italiano Crosetto uno «sciocco raro» 4. Per superare l’impasse diplomatica e contenere il malumore serpeggiante tra le Forze armate delle due nazioni neolatine, Roma potrebbe emulare la postura di Parigi. L’Esagono ha resistito per mesi ai solleciti di Kiev, spiegando che l’unica batteria Samp/T dispiegabile all’estero è già destinata alla protezione del porto di Costanza (Romania) e dunque del «corridoio del grano» per l’export di cereali ucraini; tanto basta. Il Belpaese potrebbe adottare un simile approccio, adducendo la necessità di inviare il Samp/T promesso all’Ucraina in Kosovo a protezione del contingente multinazionale Kfor della Nato a guida italiana. La strumentalizzazione retorica della tensione nel paese dei merli per ovviare all’invio della batteria a Kiev può rivelarsi una soluzione cinica, ma elegante. Anche se forse non totalmente apprezzata dagli Stati Uniti, i quali non vedono l’ora di vedere in azione il moderno sistema italo-francese che garantisce autonomia difensiva ai due alleati mediterranei, studiandone le prestazioni e alleggerendo le insistite richieste ucraine per un rapido trasferimento dei missili terra-aria Patriot di produzione statunitense. Washington si è impegnata al momento per la consegna di una singola batteria, per la quale un gruppo di circa cento militari ucraini è in fase di addestramento nella base di Fort Sill (Oklahoma). Troppo poco per la difesa esaustiva dello spazio aereo ucraino; troppo lungo il periodo di formazione del personale ucraino per soddisfare le esigenze contingenti. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. Pagina Telegram di Dmitrij Medvedev.
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CORRIDOIO CONCORDATO PER LE ESPORTAZIONI ALIMENTARI COMMERCIALI ATTRAVERSO IL MAR NERO FINO AL BOSFORO 1 Task Force delle Nazioni Unite per il grano ucraino 1 Task Force delle Nazioni Unite per fertilizzanti russi e cibo
BULGARIA
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6% 6% ALTRO 14%
Farina di girasole Olio di semi di girasole
Area d’ispezione settentrionale
DESTINAZIONE DEI CARGO (in tonnellate) 3M
TURCHIA Istanbul
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1M
Afghanistan Algeria Arabia Saudita Bangladesh Belgio Bulgaria Cina Corea Gibuti E.A.U. Egitto Etiopia Francia Germania Georgia Giordania Grecia India Indonesia Iran Iraq Irlanda Israele Italia Kenya Libano Libia Malaysia Marocco Oman Paesi Bassi Pakistan Portogallo Regno Unito Romania Somalia Spagna Sri Lanka Sudan Tunisia Turchia Vietnam Yemen
Area d’ispezione meridionale
2M
Fonte: UN Black Sea Grain Initiative Joint Coordination Centre
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3. I ripetuti annunci occidentali sull’invio di armi sempre più moderne e potenti all’Ucraina potrebbe in realtà causare un’accelerazione e un’intensifcazione delle operazioni belliche russe per sfruttare il lacunoso periodo transitorio che l’esercito ucraino dovrà affrontare per assimilare le pratiche e gli standard Nato. Gli assetti militari d’origine sovietica in dotazione a Kiev stanno infatti esaurendosi e non potranno essere rimpiazzati da una produzione autoctona. Il problema principale riguarda il munizionamento di qualsiasi tipo, dall’artiglieria alla contraerea. La saturazione russa dei cieli ucraini con missili anche dozzinali (come i dismessi To0ka) e droni kamikaze a basso costo di produzione iraniana (Shahed 136, rinominati Geran-2) hanno sortito l’effetto voluto di assottigliare le riserve missilistiche terra-aria del paese invaso. La carenza di sistemi d’arma immediatamente adoperabili dalle Forze armate ucraine è divenuta lampante con la consegna non concordata a Kiev di 20 vetusti carri armati sovietici T-72B di proprietà del Marocco, ma temporaneamente dislocati nella Repubblica Ceca per manutenzione e ammodernamento. Ormai si attinge ad armamenti fuori serie da ogni dove. La dipendenza di Kiev dalle forniture militari euroatlantiche sta divenendo totale e totalizzante. Presto le chiavi della difesa ucraina e delle contestuali trattative con Mosca saranno materialmente nelle mani dell’Occidente. In assenza di risorse proprie, l’Ucraina sarà in grado di difendersi fntantoché l’Occidente lo vorrà/permetterà o fntantoché gli Stati Uniti non saranno distratti da altre crisi mondiali. La Russia vuole martellare le truppe ucraine prima che queste possano essere dotate di adeguato materiale bellico occidentale. E prima che Kiev riesca a portare a termine il nuovo reclutamento forzoso per rimpolpare le proprie fla nel Donbas, dove le perdite sono ingenti per entrambi gli schieramenti ma premianti per i russi, soprattutto attorno alla città di Bakhmut (oblast’ di Donec’k). Ecco perché in primavera potrebbero sopraggiungere nei territori occupati le centinaia di migliaia di uomini arruolati dalla Federazione e attualmente sottoposti a addestramento intensivo. Parte di questi soldati è già dislocata in Bielorussia; probabilmente per segnalare la presenza moscovita anche sul fronte Nord e indurre Kiev a immobilizzarvi parte delle truppe, rendendo quindi più ostico qualsiasi tentativo di riconquista dei territori caduti in mano russa al Sud. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. Nei prossimi mesi l’Ucraina non dovrà affrontare solo il confuire sul campo di battaglia di un consistente numero di russi mobilitati, ma anche e soprattutto testare la tenuta del fronte politico interno. Ovvero la capacità di diramare ordini insindacabili e immediatamente eseguibili in tutte le dimensioni operative e a tutti i livelli amministrativi. La capillare sostituzione ai vertici di alcune cariche statali può essere preludio di una più vasta lotta per le investiture. Nel suo ultimo anno di mandato, il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelens’kyj sta ponendo le basi per la sua riconferma alle urne o per il consolidamento del suo potere in assenza di voto. Non è da escludere infatti che le elezioni presidenziali del maggio 2024 possano
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essere rinviate a causa del confitto che interessa tutto il territorio dell’Ucraina e rende impossibile l’organizzazione delle sezioni elettorali nelle oblast’ parzialmente occupate (circa un quinto del territorio nazionale): Kherson, Zaporižžja, Donec’k, Luhans’k. Con ogni probabilità, chi il prossimo anno siederà nell’uffcio di via Bankova gestirà non solo i negoziati sul cessate-il-fuoco con la Russia, ma anche i fondi internazionali – e quindi le priorità politiche e oligopolistiche – destinati alla ricostruzione di un paese largamente devastato. Ecco perché l’ex attore di Kryvyj Rih sta attuando un consistente repulisti nel mezzo di una guerra sanguinosa. La scusa/pretesto più impiegata per adoperare le sostituzioni subitanee è la corruzione, ma anche l’assenza di zelo e l’alto tradimento. «Se vogliono riposare ora, riposeranno fuori dal servizio civile. I funzionari non potranno più viaggiare all’estero per vacanza o per qualsiasi altro scopo non governativo» 5, ha annunciato Zelens’kyj in un videomessaggio notturno, anticipando alcune sostituzioni nella pubblica amministrazione nazionale e regionale. Il cambio di passo è stato reso noto dopo che è emerso che il viceprocuratore generale Oleksij Symonenko si era concesso una vacanza riposante in Spagna per festeggiare il Capodanno mentre il paese e la capitale erano sotto le bombe russe. Persino il viceministro della Difesa V’ja0eslav Šapovalov è stato indotto a rassegnare le dimissioni a causa di uno scandalo di corruzione sulla gestione delle forniture alimentari destinate alle truppe al fronte. Per la medesima ragione, l’infuente ministro della Difesa Oleksij Reznikov deve rispondere alla Rada (parlamento monocamerale), rischiando la destituzione e l’incriminazione. Faccenda piuttosto seria, se si considera che il dicastero da lui presieduto è in assoluto il più dirimente in tempo di guerra. Zelens’kyj ha poi deposto il viceministro delle Infrastrutture e dello Sviluppo Vasyl’ Lozyns’kyj, arrestato e accusato di aver ricevuto una tangente di 400 mila dollari e partecipato a uno schema criminale per trarre proftto dalla rivendita dei generatori elettrici donati dalle cancellerie occidentali come rimedio ai frequenti blackout che investono l’intero territorio nazionale. Anche i viceministri per lo Sviluppo comunitario e territoriale Ivan Lukerja e V’ja0eslav Negoda nonché il viceministro per le Politiche sociali Vitalij Muzy0enko si sono licenziati. Tra i dimissionari più infuenti vi è anche e soprattutto il vicecapo dell’uffcio presidenziale Kyrylo Tymošenko, il quale ha postato sui propri profli social la foto della lettera di dimissioni corredata da sentiti ringraziamenti verso il presidente Zelens’kyj, le Forze armate e i servizi segreti (Sbu). Sempre nella cerchia più ristretta, si registra l’inaspettata rinuncia all’incarico dell’infuente consigliere presidenziale Oleksij Arestovy0, colpevole di aver fornito al pubblico una lettura dei fatti (deviazione involontaria di un missile russo da parte della contraerea ucraina) legati alla tragedia di Dnipro (distruzione di un condominio) discostante dalla versione uffciale (attacco intenzionale russo). Le persone che succederanno ai vertici goCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. «Offcials will no longer be able to travel abroad for non-governmental purposes: President’s address», sito web uffciale del presidente dell’Ucraina, 23/1/2023.
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vernativi sembrano essere tutte molto legate a Andrij Jermak, capo dell’Uffcio presidenziale di Zelens’kyj. Il «rimpasto» pervasivo avviene in un contesto già particolarmente diffcile sotto il proflo amministrativo e securitario, aggravato dalla decapitazione dell’intero vertice del ministero dell’Interno. Il 18 gennaio 2023 sono rimasti uccisi in un sol colpo il titolare Denys Monastyrs’kyj, il suo vice Evhenij Enin e il segretario di Stato Jurij Lubkovy0 in un incidente d’elicottero a Brovary, città situata 20 chilometri a est di Kiev. La tragedia è stata subito derubricata a tragico incidente e l’attenzione mediatica interna si è presto spostata su altri dossier bellici e diplomatici, sebbene testimoni oculari abbiano riferito di un’esplosione all’interno del velivolo. Il danno esteso da impatto al suolo tende poi a escludere la possibilità di un’avaria al motore dell’elicottero. Ma se di attentato si tratta, la pista delle indagini diffcilmente condurrebbe ai russi. Mosca infatti non dispone di contraerea nei dintorni della capitale (nessun testimone ha visto missili) e attuare un sabotaggio mirato di questo genere è estremamente diffcile per i servizi speciali di qualsiasi potenza nemica, poiché la scelta del velivolo e il percorso da seguire sono defniti in genere all’ultimo momento. A ogni modo, trasportare su un unico mezzo soggetto a potenziali attacchi l’intero apice dirigenziale di un dicastero è errore quantomeno grossolano, che non dovrà ripetersi in futuro. L’incidente di Brovary ha visto la morte degli artefci della riorganizzazione e dell’inquadramento legale dei gruppi territoriali di autodifesa, che nelle fasi iniziali del confitto avrebbero potuto gettare nel caos un paese già scosso dall’invasione inaspettata da più direzioni (nord, est, ovest). Per questo Monastyrs’kyj godeva di una discreta reputazione all’interno delle Forze armate ucraine, sebbene non fosse sotto i rifettori quanto i colleghi degli Esteri (Dmytro Kuleba) e della Difesa (Oleksij Reznikov). In effetti, a Brovary ha perso la vita un potenziale candidato alla presidenza dell’Ucraina. Il carismatico capo di Stato non si limita a colpire con una scure legale i dicasteri, ma adotta sanzioni anche contro gli alti prelati della Chiesa ortodossa ucraina subordinata al patriarcato di Mosca, che «con il pretesto della spiritualità, sostengono il terrore e la politica di genocidio». Il fronte confessionale è agli occhi di Kiev una delle sfde cruciali per vincere la guerra cognitiva contro Mosca. Indurre i fedeli a passare sotto la Chiesa ortodossa autocefala d’Ucraina serve a recidere i legami culturali con la Russia e a compattare la popolazione contro il grande nemico orientale. Persino la proposta di passare al calendario liturgico gregoriano, ripudiando quello giuliano adottato dal patriarcato di Mosca, serve a segnalare la vicinanza collettiva all’Occidente mediante la sincronizzazione delle principali festività (per esempio, Natale il 25 dicembre anziché il 7 gennaio). Il dispositivo della propaganda lavora su tutti i livelli e tiene conto degli interessi nazionali, non delle ataviche tradizioni. Soprattutto in tempi di guerra. La portavoce del ministero degli Esteri della Federazione Russa Marija Zakharova ha accolto con sentimenti contrastanti le dimissioni di massa (entusiasmo Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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per le debolezze altrui) e le sanzioni ai religiosi «florussi» (rodimento), irridendo la «spartizione della torta» come opera di «demoni insaziabili» 6. È sicuro però che Mosca speri/confdi nell’inasprimento delle rivalità intestine a Kiev, che porterebbe all’indebolimento complessivo dell’apparato politico-burocratico del paese invaso. Secondo i calcoli del Cremlino, la stanchezza della guerra, gli scandali interni, la mortifcazione dei fedeli ortodossi e i contrasti tra autorità potrebbero favorire alla lunga la destituzione di Zelens’kyj. E quindi la possibilità di intavolare negoziati per un cessate-il-fuoco che tenga in debito conto i progressi militari russi nel quadrante sud-orientale dell’Ucraina. Che sia sogno o illusione, il desiderio del Cremlino pare al momento lungi dall’essere esaudito. Tutti si preparano a un 2023 di sangue e macerie.
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6. Pagina Telegram di Marija Zakharova.
LA GUERRA CONTINUA
LA VERA POSTA IN GIOCO PER MOSCA
PROKHANOV Dopo il fracasso iniziale la Russia ha puntato su Est e Sud ucraini, ma anche lì è andata male. Ora avanza nel Donbas, ma paga i successi tattici con il danno strategico. L’Ucraina come teatro del nuovo scontro con l’America per un posto al sole nell’ordine mondiale. di Anatolij
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1. UN ANNO DALL’INIZIO DELL’OPERAZIONE militare speciale i rapporti di forza tra la Federazione Russa e i suoi rivali risultano mutati a favore di Mosca dal punto di vista tattico. Sul piano strategico, invece, il Cremlino ne esce nettamente indebolito. Nonostante l’espansione territoriale nell’ex Ucraina orientale e meridionale, la Russia deve prendere atto delle proprie debolezze militari, propagandistiche e di intelligence messe in luce da questo scontro aperto con l’Occidente. Scontro che si consuma ora principalmente nel Donbas, ma che in futuro potrebbe estendersi ad altri teatri: Indo-Pacifco, Africa subsahariana, Levante, America Latina, Mitteleuropa. Per i decisori russi è necessario interrogarsi su come affrontare queste sfde affnché le conquiste territoriali si traducano anche in vantaggi geopolitici, cosa fnora avvenuta solo in parte. Il presupposto da cui partire è che nei primi dodici mesi di confitto l’operazione militare speciale non è andata secondo i piani. Questo primo anno di guerra può essere suddiviso in tre fasi operative dal punto di vista militare. Dopo che nelle prime due Mosca ha mancato di centrare gli obiettivi più importanti che si era prefssata, sta vincendo la terza fase oggi in corso. Resta però incerto quanto tale vittoria possa considerarsi anche strategica. La prima fase dell’operazione speciale è iniziata il 24 febbraio 2022, quando i nostri carri armati hanno varcato le frontiere ucraine e i nostri paracadutisti si sono lanciati alle porte di Kiev. L’attacco è stato battezzato dal presidente Putin «operazione militare» proprio perché non doveva dare il via alla lunga e pesante guerra di posizione ora in corso, bensì a un rapido Putsch che avrebbe rimosso Zelens’kyj sostituendolo con una giunta florussa protetta dal nostro esercito. Questa avrebbe dovuto porre fne a ogni ambizione dell’Occidente di inglobare l’Ucraina nella Nato e nei suoi altri sistemi di alleanze. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Le indicazioni ai soldati erano molto chiare: di fronte alla nostra avanzata nei territori ucraini, le forze armate di Kiev si sarebbero in gran parte sfaldate e dileguate. Gli ordini erano dunque di procedere verso il nemico, anche quando questo sembrava non volersi spostare. La conquista della capitale doveva avvenire nell’arco di pochi giorni. La fase più diffcile, veniva detto allora, sarebbe iniziata dopo la destituzione di Zelens’kyj. In quel momento i nostri soldati sarebbero stati chiamati a garantire manu militari l’insediamento della nuova amministrazione politica florussa, composta principalmente da politici e uomini d’affari leali a Putin. Tra questi ci sarebbero stati diversi ex membri del Partito delle regioni e del Blocco delle opposizioni, nonché persone giunte direttamente dalla Russia e dalla Bielorussia. Secondo le previsioni, la fase d’insediamento sarebbe stata minacciata dalle azioni di guerriglia dei gruppi nazionalisti ucraini e dalle componenti di esercito e intelligence di Kiev contrarie alla nostra presenza. Per questo i nostri uomini, accompagnati dalle loro fonti locali, sarebbero dovuti andare di casa in casa a prelevare gli elementi ostili, ponendo così fne anche all’esistenza dei gruppi nazionalisti che, consapevoli o meno, promuovono un’agenda flo-occidentale. Si sarebbe trattato di una operazione militare di polizia battezzata, appunto, di «demilitarizzazione e denazifcazione». Ciò spiega perché tra le truppe russe inviate a Kiev fossero preponderanti i reparti della Rosvgardija, il corpo militare dotato di un comando posto direttamente sotto il controllo di Putin specializzato nella gestione dell’ordine pubblico, nella lotta al terrorismo, nella protezione delle sedi istituzionali e nel contrasto alle attività di guerriglia. Insomma, secondo i calcoli iniziali le operazioni più delicate sarebbero state appannaggio di reparti con funzioni di polizia militare. Molti dei nostri soldati portarono con sé negli zaini le divise da parata, pronti a marciare attraverso la capitale ucraina (che fu sovietica e che prima ancora fu la culla della civiltà russa) per sancirne il ricongiungimento anche simbolico con la madrepatria e la liberazione dal regime russofobo e flo-occidentale messo al potere nel 2014. Oggi sappiamo che la presa di Kiev è stata un fallimento. Sono ancora fumose le motivazioni per cui il presidente Putin si mostrava convinto che avrebbe funzionato. C’è chi dice che l’integrazione di intelligence ed esercito ucraini nelle strutture occidentali fosse più profonda di quanto ci aspettassimo. Altri sostengono che il presidente russo sia stato mal consigliato dai suoi consulenti, uffciali e non: c’è chi punta il dito contro Vladislav Surkov – fno al 2020 consigliere uffciale del presidente per i rapporti con Abkhazia, Ossezia del Sud e Ucraina – e contro Viktor Medved0uk, già deputato ucraino e amico personale di Putin poi fatto arrestare da Zelens’kyj ed evacuato in Russia con uno scambio di prigionieri. Forse non sapremo mai la verità. Conosciamo invece con certezza le condizioni in cui si sono trovati i nostri soldati alle porte della capitale ucraina: le lunghe e lente colonne di carri armati che avanzavano verso Kiev sono state facile preda dei droni ucraini, principalmente Bayraktar Tb2 turchi, che in più occasioni bombardavano il centro delle colonne causando l’isolamento di quanti erano in testa. Questi, privi di riforniCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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menti, si sono trovati a pochi metri dalle truppe ucraine che a dispetto delle previsioni non si sfaldavano. Molti dei nostri soldati erano stati equipaggiati per operare in un contesto di guerriglia urbana, non di battaglia campale nelle piatte e gelide campagne ucraine, dunque non è diffcile capire perché non siano riusciti ad avanzare. Dinamiche analoghe sono avvenute nei dintorni di altre città, per esempio alle porte di Kharkiv. 2. Fallita la presa di Kiev già nella prima metà di marzo, le nostre truppe hanno ricevuto l’ordine di abbandonare progressivamente i sobborghi della capitale ucraina per essere ricollocate soprattutto nel Donbas, nell’Ucraina meridionale e intorno a Kharkiv, i territori che le Forze armate russe erano parzialmente riuscite a controllare. L’operazione militare speciale per come era stata inizialmente concepita terminava. Al suo posto iniziava una seconda fase, ma restava vietato chiamarla «guerra». Questa fase doveva consistere nel ricongiungere alla Federazione tutto il Donbas e gran parte dei territori ucraini permeati dalla storia e dalla cultura russe: le RosR di Kharkiv, Luhans’k, Donec’k, Zaporižžja, Kherson, Mykolajiv e Odessa, le prime quattro in parte già conquistate. La fase due rispondeva a esigenze geostrategiche, propagandistiche e identitarie. Dal punto di vista geostrategico l’obiettivo restava la fne dello Stato ucraino flo-occidentale esistito dal 2014 al 2022. Arrivate a Odessa le truppe avrebbero potuto ricongiungersi con i nostri soldati di stanza nella vicina Transnistria, privando così l’Ucraina dell’accesso al Mar Nero e concentrando in mani russe l’esportazione dei prodotti ucraini verso la Turchia e il Levante. Ciò avrebbe vincolato il paese a Mosca, perché la sopravvivenza del mercato ucraino sarebbe stata legata ai corridoi d’esportazione verso i mari caldi concessi dalla Russia e agli aiuti occidentali veicolati principalmente attraverso la Polonia. Ciò avrebbe potuto condizionare gli umori dei popoli europei su cui sarebbe gravato lo sforzo economico e militare a favore di Kiev. Grandi erano le aspettative dello Stato maggiore russo per l’autunno caldo dell’Europa occidentale, le cui popolazioni impoverite dal rincaro di energia e materie prime per via delle sanzioni alla Russia avrebbero chiesto ai loro governi di non fornire più armi e aiuti all’Ucraina. I successi del nostro esercito avrebbero dovuto mostrare l’inutilità di tali forniture. Dal punto di vista propagandistico e identitario la conquista del Donbas e dell’Ucraina meridionale avrebbe dovuto mostrare la forza dei legami tra questi territori e la Russia, sebbene negli ultimi otto anni Kiev avesse provato a reciderli. Pensiamo alla rimozione dei simboli russi e sovietici da Odessa o alla simbolica colonizzazione ucraina messa in atto a Mariupol’ per mano, tra l’altro, di una formazione nazionalista come il Battaglione Azov la cui convivenza con la popolazione locale era spesso diffcile, se non confittuale. Il ricongiungimento di questi territori alla Russia sarebbe stato da esempio per le altre popolazioni di lingua e cultura russe oggi fuori dalla Federazione, non solo in Ucraina. Ciò spiega l’accanimento nel conquistare Mariupol’, nonostante da metà marzo 2022 il Mar d’Azov fosse già sotto il nostro controllo, il che rendeva la conquista del centro urbano Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LO PSEUDOREFERENDUM RUSSO IN UCRAINA La carta rifette la situazione sul campo al 2 ottobre 2022
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Mykolajiv Nova Kakhovka
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I primi quattro seggi, uno per ogni entità territoriale del referendum, sono stati aperti in Russia nella Kamčatka, dove sono dislocati molti sfollati provenienti da quelle regioni
Kherson
72%
72% Percentuale del territorio dell’oblast’ occupata dai russi
ZAPORIŽŽJA Mariupol’
KHERSON
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Percentuale voti pro annessione Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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CRIMEA
99,23% nella Repubblica Popolare di Donec'k 93,11% nell'oblast' di Zaporižžja
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87,05% nell'oblast' di Kherson
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E O N I A Z Controfensiva ucraina Territorio ucraino sotto controllo russo
L’oblast’ di Kherson includerà anche due distretti di Mykolajiv (città di Sniguriivka e area di Oleksandrivka) che hanno partecipato allo pseudoreferendum Fonti: Liveuamap e autori di Limes
Sebastopoli
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Repubbliche florusse del Donbas al 23 febbraio, prima dello scoppio della guerra
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irrilevante sul piano militare. I nostri soldati hanno combattuto fno a maggio, quando l’ultimo soldato di Kiev si è arreso. Malgrado questa vittoria simbolica, usata dalla nostra propaganda per compattare il popolo russo, la seconda fase dell’operazione speciale ha mancato i suoi obiettivi strategici più importanti. Dopo avere conquistato anche Sjevjerodonec’k e Lysy0ans’k liberando così tutta l’oblast’ di Luhans’k, i nostri soldati si sono trovati ad affrontare una potente controffensiva ucraina che a fne estate ci ha costretto a una rovinosa ritirata dall’oblast’ di Kharkiv e addirittura alla perdita di territori lungo la strada che collega Svatove e Kreminna. Sjevjerodonec’k e Lysy0ans’k restano vicine ai combattimenti, esposte al fuoco e popolate da gruppi armati flo-ucraini che realizzano atti di sabotaggio e segnalano all’esercito ucraino le nostre posizioni. I missili americani permettono all’esercito ucraino di colpire le nostre basi con una certa precisione, risparmiando la popolazione civile se ritenuta non ostile. A causa delle alte perdite Mosca ha dovuto indire la mobilitazione parziale dei riservisti dell’esercito, chiamando centinaia di migliaia di uomini da tutta la Russia a combattere nel Donbas. Poi ha ordinato a gran parte delle truppe di rimanere nel Donbas, sebbene gli ordini iniziali fossero di trasferirsi nell’Ucraina meridionale dove avrebbero dovuto sfondare il fronte a Mykolajiv per giungere a Odessa. Le diffcoltà militari ci hanno imposto di difendere ciò che avevamo faticosamente conquistato e che rischiavamo di perdere. Lo spostamento delle truppe dal Donbas alle coste del Mar d’Azov è sempre più rischioso perché la strada che collega Donec’k a Mariupol’ passa in alcuni punti a poca distanza dalle posizioni ucraine. I missili occidentali consentono all’esercito di Kiev di bersagliare questa via di comunicazione, compromettendo il trasferimento dei nostri mezzi militari. Altre strade sono diffcilmente percorribili perché non asfaltate e minate dagli ucraini negli otto anni precedenti. Le nostre truppe nell’Ucraina meridionale hanno dunque fronteggiato seri problemi di approvvigionamento, aggravati dalla controffensiva ucraina dell’autunno 2022. Il ponte Antonivs’kyj, principale via di comunicazione tra la sponda Sud del Dnepr e la città di Kherson (unico importante centro urbano sulla riva da noi controllata), è stato abbattuto dall’artiglieria ucraina rendendo impossibile il trasferimento in città di uomini e mezzi necessari a difenderla. Il nostro esercito è stato quindi costretto a una progressiva ritirata sull’altra sponda, terminata a fne novembre 2022, che ha segnato il tramonto delle ambizioni – almeno per il momento – di giungere a Odessa e la fne della seconda fase. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. La terza fase dell’operazione militare è iniziata con la ritirata da Kherson e prosegue tuttora. Consiste in due manovre distinte. Una è la difesa dei territori nel Sud sotto il nostro controllo, cioè le parti delle oblast’ di Kherson e Zaporižžja conquistate dal 24 febbraio 2022. Qui sono state costruite enormi linee difensive per fronteggiare possibili contrattacchi degli ucraini attestati oltre il Dnepr. Sono state disposte anche centinaia di posti di blocco stradali per mettere in sicurezza il territorio dai gruppi armati flo-ucraini.
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In queste oblast’ infatti i nostri soldati devono fronteggiare un’emergenza molto meno marcata, se non assente, nel Donbas: l’ostilità di parti rilevanti della popolazione che solidarizza con l’esercito di Kiev e con i gruppi armati flo-ucraini che operano dall’inizio dell’operazione speciale. Si tratta di formazioni spontanee o create dall’intelligence ucraina, responsabili di omicidi, sabotaggi, incendi dolosi, attentati con autobombe o altri ordigni contro i nostri militari, i posti di blocco, gli esponenti delle nuove amministrazioni florusse e le famiglie che parteggiano per noi, accusate di collaborazionismo. Tra le popolazioni di queste oblast’ e i cittadini del Donbas non sussistono nette differenze etniche o linguistiche, ma il loro approccio ai russi è diverso. Non manca chi simpatizza con noi, ma i gruppi armati non potrebbero agire se non godessero di consensi tra i locali. Inoltre, l’intelligence ucraina ha infuenzato alcuni gruppi di tatari di Crimea qui residenti, che mostrano nei nostri confronti una freddezza diffcile da superare. Questa diffusa ostilità ha generato un sentimento di sfducia in alcuni nostri soldati, che si aspettavano di essere accolti come liberatori da una popolazione oppressa dai nazionalisti ucraini. Anche per questo stanno venendo massicciamente impiegate la Rosgvardija e le Forze speciali cecene, specializzate nelle operazioni di repressione di gruppi armati ostili e dediti ad azioni terroristiche. La seconda manovra si sta svolgendo nel Donbas settentrionale, nel Nord delle regioni di Donec’k e di Luhans’k. Partendo dalle posizioni intorno a Sjevjerodonec’k e a Lysy0ans’k, il nostro fronte avanza verso il centro della regione di Donec’k provando a tagliare in due l’oblast’ per impedire i collegamenti tra le truppe ucraine poste a ridosso della città di Donec’k e il grosso delle loro forze concentrato intorno a Slov’jans’k e a Kramators’k. La manovra punta a rompere lo stallo intorno a Donec’k, la città più importante del Donbas ancora adiacente alle posizioni degli ucraini, che la bersagliano costantemente. Per mesi abbiamo provato ad allontanare il nemico dal perimetro urbano, ma il fronte non si è mosso malgrado le numerose perdite tra le nostre fle. La diffcoltà è dettata dal fatto che negli ultimi otto anni l’esercito ucraino ha costruito una serratissima linea di difesa che cinge la città, fatta di cunicoli labirintici, fortifcazioni e sistemi di videosorveglianza che gli permettono di monitorare i nostri spostamenti. Tuttavia, per tenere le posizioni anche i loro soldati stanno subendo numerose perdite. Il nostro esercito sta quindi provando a isolare la zona per privarla dei rifornimenti e costringere le truppe di Kiev ad arretrare di qualche decina di chilometri, ponendo così fne all’assedio. Per questa operazione Putin ha deciso di affdarsi al Gruppo Wagner, la compagnia privata controllata da Evgenij Prigožin: un esercito distinto da quello russo che prende ordini da un vertice estraneo al ministero della Difesa, essendo alle dirette dipendenze di Prigožin. I suoi uomini hanno esperienze belliche diversifcate, venendo impiegati ovunque nel mondo la Russia combatta per promuovere i propri interessi o necessiti di realizzare azioni militari le cui responsabilità non devono essere direttamente ascrivibili al Cremlino. Come nel Donbas tra il 2014 e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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il 2015, oppure in Siria. Le truppe del Wagner stanno avanzando nella striscia di terra che separa Soledar da Bakhmut. In questo momento la Russia sta dunque vincendo sul piano tattico, sottraendo terreno all’Ucraina e infiggendole consistenti perdite umane e materiali. L’offensiva evidenzia quanto Kiev dipenda dal sostegno occidentale e di questo Mosca è consapevole, come anche del fatto che l’arrivo di nuovi armamenti – ed eventualmente truppe – a sostegno dell’esercito ucraino potrebbe risultare determinante. L’esito di questa terza fase è legato non tanto alle capacità operative degli ucraini, che pure dimostrano tenacia e capacità organizzative inaspettate, quanto alla determinazione occidentale nel continuare a sostenere Kiev dal punto di vista militare, economico e politico. In questo momento la Federazione Russa deve conquistare più territorio possibile, a fni strategici ma anche per convincere le opinioni pubbliche occidentali che il loro sostegno all’Ucraina è vano, così da rafforzare quanti vi si oppongono. Ormai anche noi riconosciamo apertamente che questo confitto è la manifestazione di un più ampio scontro tra Russia e Stati Uniti. Un esito dell’operazione speciale che soddisf entrambe le parti, russa e occidentale, non porterebbe automaticamente alla ricomposizione degli equilibri internazionali precedenti al 24 febbraio 2022. L’ordine prima in vigore è ormai obsoleto, servirà quindi la disponibilità di entrambe le parti a crearne uno nuovo fondato sul rispetto dell’interesse geopolitico altrui e delle linee rosse da non oltrepassare per garantire una convivenza accettabile. La Russia deve pertanto assumere un approccio realista, riconoscendo che se neanche questa operazione dovesse concludersi con un accordo soddisfacente, il nostro collocamento nel nuovo ordine internazionale sarà inevitabilmente meno favorevole di prima. Con l’operazione in Ucraina volevamo porre sotto scacco l’Occidente, dando prova della nostra forza militare e della presa emotiva sulla popolazione ucraina. Il fallimento delle prime due fasi ha invece comportato una perdita di prestigio: diffcilmente riusciremo a tramutare gli attuali successi nel Donbas in un vantaggio geostrategico nei confronti dei nostri avversari. Ma ci stiamo provando. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
L’UCRAINA DI DOMANI PUÒ SPACCARE L’EUROPA
di Fulvio SCAGLIONE
La guerra imposta da Mosca permette a Zelens’kyj di forgiare il suo potere sul paese invaso. Controllo sui media, sulla Chiesa ortodossa, epurazioni, fine di ogni opposizione e utilizzo delle destre sono scelte temporanee o le democrazie continentali dovranno farci i conti?
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1. GIORNALISTI DI NAŠI GROŠI (I NOSTRI SOLDI), il sito di giornalismo investigativo con base a Leopoli, sono piuttosto arrabbiati e non lo nascondono. All’inizio dell’anno il governo ha presentato in parlamento per la seconda lettura il progetto di bilancio per il 2023 e loro hanno scoperto che «vogliono ancora aggiungere un miliardo e mezzo di hryvni al Telethon nazionale» 1, con un provvedimento che era stato rinviato per le critiche dell’opinione pubblica già precedentemente alla prima lettura. Si tratta di una cifra folle per una trasmissione televisiva che pubblicizza in regime di monopolio il punto di vista delle autorità. I «servi del popolo» 2 pagano così i propri conti, a spese di tutti i contribuenti ucraini 3. Una cifra, quella citata da Naši Groši, che in effetti pare cospicua, soprattutto se confrontata con i 4 miliardi per il ministero dell’Agricoltura o i 5 per il ministero dell’Energia che l’Ucraina – già prima della guerra in lizza con la Moldova per il titolo di paese più povero d’Europa, ora piagata da un confitto estremamente distruttivo 4 che la costringe di fatto a farsi «mantenere» dall’Europa e dagli Usa – è riuscita a stanziare. Si sa quale importanza il presidente Zelens’kyj e i suoi attribuiscano alla comunicazione e alla propaganda, tanto da attrezzarsi allo scopo ben Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. Il programma televisivo istituito subito dopo l’inizio dell’invasione russa e che trasmette in forma di telemaratona sulle frequenze di Rada Tv, il canale del parlamento. Ai programmi e alle news contribuiscono a turno 30 diverse televisioni ucraine. 2. Il riferimento è a Servo del popolo, il partito del presidente Zelens’kyj che dal 2019 ha la maggioranza assoluta in parlamento. 3. «V urjadi dodali mil’jardiv na monopol’nyj telemarofon i remont dorih» («Il governo ha aggiunto miliardi al telethon e alle riparazioni stradali»), nashigroshi.org, 11/1/2022. 4. In una relazione al governo del 3 gennaio 2023, il premier Denys Šmyhal’ stimava i danni di guerra a 700 miliardi di dollari. D. KACHKACHISHVILI, «Ukraine war has caused over $700B in damage to nation’s economy: Premier», aa.com.tr, 4/1/2023.
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prima dell’irruzione delle armate russe 5. E quali validi risultati 6 abbiano accompagnato gli sforzi di un gruppo di comando che non ha esitato ad affdarsi anche a giovanissimi come il trentenne Mykhailo Fedorov, ministro alla Trasformazione digitale, vicepremier e diretto interlocutore di Elon Musk 7 per le questioni legate allo sfruttamento della rete di satelliti Starlink che il miliardario ha messo gratuitamente a disposizione dell’Ucraina. Ma non è questo il punto. Il punto è che di questioni come questa, che pure animano la vita politica e sociale dell’Ucraina, nessuno parla. Perché il paese, oggi, è surgelato nell’immagine che l’Occidente ha voluto dare di questa guerra e che Kiev, per comprensibilissime ragioni (cioè, per avere le armi con cui difendersi e il denaro con cui sopravvivere), si è acconciata a adottare e a promuovere. E che, forse semplifcando, possiamo sintetizzare così. La Russia invade perché è un paese con l’imperialismo nel dna; è lo scorpione che morde la rana, anche se questa gli fa attraversare il fume, perché mordere è nella sua natura. L’Ucraina combatte per la libertà sua e nostra, combatte per la democrazia di tutti. Bisogna sostenere l’Ucraina per evitare che l’idea e la pratica della democrazia vengano erose prima qui e poi chissà dove, con un ragionamento che molto somiglia a una riedizione della «teoria del domino» che il presidente americano Dwight Eisenhower illustrò nell’aprile 1954 8. Teoria che portò a una lunga serie di interventi militari in tante parti del mondo e che oggi consente di costruire un effcace parallelo mediatico tra la Russia di Vladimir Putin e l’Unione Sovietica di Iosif Stalin. C’è chi va oltre e all’interno della stessa impostazione sottolinea che questa guerra cambierà l’Europa che – come prevede Andrew A. Michta dell’Atlantic Council’s Scowcroft Center for Strategy and Security – uscirà rinvigorita da questa battaglia esistenziale e dall’ascesa di un’Europa nord-orientale che godrà, grazie al compatto appoggio alla causa ucraina, della dispersione «del concetto un tempo nebuloso dell’Europa orientale come un ristagno dell’Occidente» 9. Dentro questo genere di approccio fdeistico c’è spazio solo per l’Ucraina che combatte. Anche perché l’Ucraina che intanto prova a costruirsi un futuro, a decidere che cosa fare di sé in previsione della fne di una guerra che peraltro è convinta di poter vincere, potrebbe non essere perfettamente allineata a certe speranze o previsioni. Pensiamo a che cosa avrebbero scritto i giornalisti di Naši Groši, per esempio, se avessero immaginato quel che sarebbe successo dopo la loro invettiva. Se avessero visto la hotline aperta dagli ispettori generali del dipartimento della Difesa, del dipartimento di Stato e dell’Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale (Usaid) per consentire ai cittadini ucraini di denunciare eventuali casi di uso improprio, frode, appropriazione indebita (e persino di sfruttamento e abuso sessuale) degli aiuti Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. 6. 7. 8. 9.
G. GAGLIANO, «Cyber e hacker per difendere l’Ucraina», letteradamosca.eu, 1/3/2022. F. SCAGLIONE, «Guerra in Rete, vince l’Ucraina», ivi, 7/7/2022. «Il piano di Fedorov, fedelissimo di Zelensky e “amico” di Elon Musk», quifnanza.it, 31/7/2022. «Eisenhower explains the Domino theory (1954)», alphahistory.com. A.A. MICHTA, «Ukraine: A battle over the future of Europe», politico.eu, 26/12/2022.
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militari e umanitari in arrivo da Oltreoceano. O se avessero dovuto tenere il conto delle teste saltate nel corso dell’ennesima purga decisa dal presidente Zelens’kyj, che accampa l’obiettivo di combattere la corruzione. In pochi giorni sono stati cacciati il viceprocuratore generale Oleksij Symonenko, i procuratori di cinque oblast’ (Zaporižžja, Kirovod, Poltava, Sumy e 9ernihiv), il sindaco della stessa città di Poltava, quattro governatori (delle oblast’ di Dnipro, Zaporižžja, Sumy e Kherson), il vicecapo dell’amministrazione presidenziale Kyrylo Tymošenko (sodale di Zelens’kyj fn dai tempi del cinema e della tv, sostituito da Oleksij Kuleba, già governatore dell’oblast’ di Kiev e grande appassionato di pallacanestro), quattro viceministri (Vasyl’ Lozyns’kyj delle Infrastrutture, V’ya0eslav Negoda e Ivan Lukerya dello Sviluppo territoriale e comunitario, V’ya0eslav Šapovalov della Difesa). Un bel gruppo di controllori e controllati, tutti insieme appassionatamente. Il caso più eclatante è stato quello di Šapovalov, che alla Difesa era responsabile dell’assistenza logistica alle Forze armate. La sua uscita di scena è arrivata subito dopo che il giornalista di un sito indipendente, Yurij Nikolov di Zerkalo Nedeli, aveva denunciato dati alla mano gli acquisti a prezzi gonfati di vettovaglie per l’esercito, come le patate pagate 22 hryvni al chilo quando nei negozi costano 8 o le uova (pagate 17 hryvni invece di 7). Che l’Ucraina indipendente abbia un problema trentennale di corruzione imperante è noto – la lotta al malaffare, peraltro, era stata uno dei temi vincenti della campagna elettorale di Zelens’kyj nel 2019. E non ci si deve stupire che in tempo di guerra l’abbondante e rapido affusso di aiuti occidentali e le sbrigative procedure per gestirlo abbiano indotto in tentazione qualche arruffone vecchio e nuovo. Lozyns’kyj, ad esempio, sarebbe stato colto con le mani nel sacco mentre incassava una tangente di 400 mila dollari per agevolare una serie di contratti per la riparazione del sistema elettrico, avidità che risulterebbe particolarmente odiosa viste le diffcoltà che gli ucraini devono affrontare a causa dei continui bombardamenti russi contro il sistema energetico nazionale. Eppure si ha la sensazione che, al di là dei singoli casi, in questo presunto repulisti ci sia una discreta quota di cosmesi, per mostrare al mondo che cambia tutto mentre cambia poco. Primo, saltano solo i vice. Il vero cerchio magico zelenskiano ancora una volta ne esce indenne. Secondo, i governatori e i politici locali quasi mai appartengono a Servo del popolo, il partito del presidente, che alle elezioni amministrative del 2020 fu sconftto praticamente ovunque. Terzo, la purga resta la risposta tipica di Zelens’kyj nei momenti di diffcoltà. Ne abbiamo già parlato su Limes 10 in numeri precedenti, a partire dalla grande purga del luglio 2021 che portò alla rimozione di decine di funzionari dell’amministrazione militare e dei servizi di sicurezza della «vecchia guardia». In perfetta coincidenza con la sostituzione della procuratrice generale Iryna Venedyktova e del capo dei servizi di sicurezza (Sbu) Ivan Bakanov e poco prima della nascita Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
10. F. SCAGLIONE, «Epura et impera, il metodo Zelens’kyj», Limes, «La Guerra Grande», n. 7/2022, pp. 193-199.
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del nuovo Servizio per la sicurezza economica, ramo dei servizi segreti affdato al trentaseienne Kyrylo Budanov, «falco» dalla rapidissima ascesa all’interno degli apparati zelenskiani. Il repulisti non si è fermato al luglio scorso ma ha alzato la sua spada di Damocle sul capo di molti altri personaggi diventati improvvisamente, solo per occhi che non vogliono vedere il quadro generale, scomodi: per fare solo qualche esempio, V’ya0eslav Boguslayev 11, governatore della Banca centrale Kyrylo Ševcenko 12 e Alena Lebedeva, fglia di un ex ministro ucraino della Difesa, titolare dell’Aurum Group, importante azienda del settore militare. Tutti accusati di corruzione o, peggio, di tradimento o di «azioni di fnanziamento connesse con l’obiettivo di impadronirsi o rovesciare il potere dello Stato», come nel caso di Lebedeva. Un modo piuttosto effcace per fare spazio a nuove leve di fedelissimi e piazzarli nei gangli decisivi del sistema politico ed economico ucraino. E intanto trasmettere agli ucraini la sensazione di una coerenza e di un’effcienza che, al di fuori dal settore strettamente collegato alle operazioni militari e alla resistenza all’aggressione russa, sono lungi dall’essere raggiunte. Piuttosto prevedibile, quindi, che la strategia venisse applicata anche in questa fase, con le truppe del Cremlino all’offensiva nel Donbas, l’addensarsi di fosche previsioni di nuovi e massicci attacchi russi nei prossimi mesi, la richiesta pressante agli Usa e all’Unione Europea di armamenti sempre più potenti. Insomma, con la consapevolezza che l’Orso russo, dato per bolso e confuso nell’autunno scorso, nel quadro della controffensiva di Kiev, ha invece ancora carte da giocare. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. È ovvio che le svolte sul campo di battaglia abbiano avuto una forte infuenza sulla postura della classe dirigente ucraina, dal presidente Zelens’kyj all’ultimo dei ministri. La controffensiva – che ha consentito a Kiev di ripristinare il controllo su almeno metà del territorio perso nei primi mesi dell’invasione russa e di recuperare la città di Kherson, l’unico capoluogo di oblast’ che Mosca fosse riuscita a conquistare – li ha convinti che la disfatta totale è stata ormai evitata e che, più o meno mutilata o addirittura totalmente ripristinata nei confni del 1991 al momento della dichiarazione di indipendenza, un’Ucraina autonoma, affrancata dalla tutela del Cremlino e padrona del proprio destino continuerà comunque a esistere. Chi scrive non ha mai creduto che l’obiettivo del Cremlino fosse la conquista totale dell’Ucraina 13, al più la conquista da nord a sud della parte del paese a est del fume Dnepr, com’era quattro secoli fa quando a ovest comandava la Polonia. Resta il fatto che, per strategia cosciente o per necessità imposta, al momento i russi proprio quello fanno: si attestano sul Dnepr, da usare come confne naturale, e attaccano nel Donbas per conquistare l’intero territorio amministrativo delle regioni di Donec’k e Luhans’k, ovviamente più ampio di quello
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11. Amministratore delegato del gruppo Si0, principale produttore ucraino di motori per aerei ed elicotteri. 12. Costretto a dimettersi per accuse di corruzione, è scappato all’estero e ha poi chiesto asilo politico in Austria. 13. F. SCAGLIONE, «Il piano preparato dalla Russia vuole riportare l’Ucraina al 1656», avvenire.it, 9/3/2022.
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più o meno controllato dalle due ex repubbliche autoproclamate nel 2014 e rese obsolete dall’annessione alla Russia decretata a fne settembre 2022. Il che conferma quanto si diceva: se anche Mosca riuscisse nel proprio intento, conquistando Luhans’k e Donec’k con parte della regione di Kherson e di Zaporižžja, resterebbe pur sempre dall’altra parte un’Ucraina popolosa e vigorosa, aiutata dall’intero Occidente e con qualche non illusoria speranza di riuscire a farsi accettare sia nella Ue sia nella Nato. Zelens’kyj e i suoi operano chiaramente all’interno di questa prospettiva e di questa convinzione. E altrettanto chiaramente, pur impegnati a combattere una guerra durissima e sanguinosa, lavorano per costruire l’Ucraina del futuro. E quale dovrebbe essere, questa Ucraina di domani? Molto, com’è ovvio, dipende dalla durata della guerra. Volodymyr Zelens’kyj è stato eletto nella primavera 2019 e poco dopo è stato rinnovato il parlamento. Entrambi restano in carica cinque anni, quindi la prossima tornata elettorale dovrebbe in teoria svolgersi nel 2024, tra poco più di un anno. Tutti ovviamente pensano e sperano che per quell’epoca la guerra sia già fnita, ma l’ipotesi contraria, o qualcosa che le somigli, non può essere scartata a priori: con un confitto ancora in corso, o con la legge marziale in vigore, o magari nel pieno di una trattativa con la Russia e con una faticosa ricostruzione da avviare e dirigere, siamo sicuri che l’architettura politica e sociale dell’Ucraina potrebbe reggere anche l’impegno del rinnovo della massima carica istituzionale e della sede della rappresentanza popolare? E che non troverebbe legittimamente più facile rinviare il voto a tempi migliori, continuando ad affdarsi al presidente eroe e al parlamento, che è una catena di trasmissione delle sue decisioni (Servo del popolo, il partito di Zelens’kyj, nel 2019 ha ottenuto 254 dei 450 seggi della Verkhovna Rada, il parlamento monocamerale ucraino, e gode dell’appoggio di una quarantina di altri deputati) e si è forgiato dalle diffcoltà della guerra? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Teoria, dicevamo. Passiamo allora alla pratica, alle decisioni concrete che l’amministrazione Zelens’kyj ha preso da quando è cominciata l’invasione russa, cioè da quando ha dovuto impegnarsi per combattere una guerra che, come tutti dicono, da Mosca a Kiev a Washington passando per Bruxelles, è «esistenziale», ovvero deciderà degli equilibri mondiali per chissà quanti decenni a venire. E stiamo parlando delle decisioni che poco hanno a che fare con generali e soldati, carri armati e aerei, missili russi e vittime civili, e che invece sembrano mostrare un orientamento abbastanza preciso di rimodellamento della società. Per prima cosa va notato che con pochi tratti di penna su qualche decreto, approfttando delle leggi emergenziali prima (confitto nel Donbas) e della legge marziale poi (invasione russa), Zelens’kyj ha messo fuorilegge qualunque forma organizzata di reale opposizione politica. A destra come a sinistra. Prima della guerra erano state tacitate con la revoca della licenza e il sequestro dei beni le televisioni come Zik, Newsone e 112 Ukraine legate ai partiti florussi come Piat-
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taforma di opposizione per la vita 14. Poi, a guerra iniziata da venticinque giorni, sono state sospese le attività di undici partiti. In primo luogo quelle di Piattaforma di opposizione per la vita e Blocco di opposizione. Che erano di certo sospettabili di aver sostenuto e magari di sostenere ancora posizioni «florusse», ma erano anche le uniche forze davvero critiche all’interno del parlamento con i loro 43 e 6 deputati rispettivamente. Eliminate quelle, la distribuzione dei seggi in parlamento è diventata ancor più favorevole al già preponderante schieramento zelenskiano. Ma non basta. La grande maggioranza dei partiti messi al bando con la generica accusa di essere florussi (che è diventata il passepartout di una miriade di provvedimenti) non era nemmeno rappresentata in parlamento, e andava dal partitino personale come il Partito di Šarij 15 al Partito socialista d’Ucraina. Di fatto, dopo quel provvedimento hanno potuto operare legalmente in Ucraina solo i partiti governativi di sicura fede zelenskiana e la destra di Svoboda, fondato e diretto da Oleh Tyahnybok, a suo tempo già fondatore della formazione di ispirazione neonazista Partito social nazionalista ucraino. Nel 2004, diventato presidente, Tyahnybok ha ripulito il partito degli elementi più estremisti, portandolo nel 2012 a ottenere il 10,45% dei voti nelle elezioni politiche e ottenendo così 37 seggi in parlamento, e nel 2014, dopo Jevromajdan e la fuga del presidente Janukovy0, ad avere un’importante rappresentanza nel primo governo Jacenjuk 16. Poi il declino, il crollo dei consensi, le dimissioni dei ministri e nel 2019, alle elezioni che diedero la maggioranza assoluta a Servo del popolo, l’alleanza con Pravy Sektor e altri partitini ultranazionalisti, portando in parlamento un solo deputato. Si produce così, dal punto di vista della pratica democratica, un risultato paradossale: un partito pure assurdo come quello di Šarij, che aveva raccolto nel 2019 il consenso del 2,24% dei votanti (327.152 persone, tutte florusse e traditrici?) è stato cancellato mentre Svoboda e compagni, con il loro 2,16% dei voti (315.568 persone) hanno ricevuto la patente non solo di legalità ma di autentico patriottismo. Ma l’accusa di floputinismo, putinismo o addirittura di tradimento passa come uno schiacciasassi su qualunque altra considerazione. Riesce onestamente diffcile credere che le migliaia di procedimenti aperti per sospetto tradimento corrispondano a effettive collusioni con il nemico, anche perché i processi non sono certo celeri e le sentenze in proposito tardano ad arrivare. Per non parlare poi dei casi clamorosi come quello di Denys Kireev, fnanziere e membro della prima delegazione ucraina che provò a trattare con i russi. Nel febbraio 2022 Kireev è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco nel centro di Kiev. Come si disse allora, da agenti dei servizi segreti ucraini che cercavano di arrestarlo perché, appunto, colpevole di Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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14. A. DEL FREO, «Ucraina. Tre reti tv imbavagliate da Zelensky», articolo21.org, 4/2/2021. 15. Dal nome del giornalista e blogger Anatolij Šarij, critico di Zelens’kyj, convinto che la Crimea sia ucraina e che il Donbas sia russo. 16. Erano di Svoboda il vicepremier Oleksandr Sj0, il ministro delle Politiche agricole Ihor Svaika e il ministro delle Risorse naturali Andrij Mokhnyk.
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tradimento a favore dei russi. Qualche settimana fa Kireev è stato uffcialmente riabilitato dall’uffcio presidenziale di Zelens’kyj. Mentre metteva fuorilegge tutti i partiti sgraditi e varava per decreto il canale unico televisivo che poco piace ai giornalisti di Naši Groši, Zelens’kyj mostrava tutta la sua astuzia politica nel servirsi della galassia di movimenti di destra, dai nazionalisti estremi ai neonazisti, tenendoli però ai margini del sistema politico e decisionale come gli scarsi risultati di Svoboda perfettamente dimostrano. Proprio in quel periodo, il presidente ucraino parlò in teleconferenza al parlamento greco facendosi «accompagnare» nel collegamento da due uffciali del Battaglione Azov, presentati come «esponenti della comunità greca di Mariupol’», la città allora assediata dai russi e difesa, appunto, dai soldati dell’Azov. Una gaffe colossale, visto che quelli dell’Azov avevano condiviso molte esperienze con Alba Dorata, il movimento neofascista che la Grecia aveva messo al bando nel 2017, ma che ha indignato solo i greci. D’altra parte Denys Prokopenko, comandante dell’Azov a Mariupol’, aveva anche ricevuto dal presidente una delle più alte onorifcenze ucraine, la medaglia dell’Ordine della Croce d’Oro. Abbiamo fn qui parlato dell’Azov, e si potrebbe parlare anche dei Battaglioni Aidar, Dnepr 1 e Dnepr 2, di Pravy Sektor e di tanti altri movimenti più o meno piccoli. Potremmo anche ricordare che la Corte suprema ucraina, dopo cinque anni di pensamenti, nell’autunno dell’anno scorso ha sentenziato che i simboli della divisione delle SS «Galizia», così spesso ostentati nelle manifestazioni degli ultranazionalisti, non sono nazisti. Per la grande soddisfazione dell’Istituto ucraino di memoria nazionale, che si era assunto l’onere della «difesa» anche se la 14° Divisione Waffen Grenadier SS «Galizia» era stata formata da militanti nazionalisti ucraini nel 1943 su iniziativa del governatore nazista della Galizia Otto von Waechter ed era poi stata coinvolta in operazioni punitive e massacri di civili. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. Ma non bisogna confondere questi epifenomeni con la sostanza. L’Ucraina non è, come dicono al Cremlino e come molti ripetono volentieri anche in Europa, un «paese nazista». Gli uomini dell’ultradestra nazionalista sono la carne da cannone o i «volenterosi carnefci» di un’operazione politica e culturale le cui redini sono fermamente rette da Zelens’kyj e dai suoi, un gruppo dove i quarantenni sono gli anziani e in cui c’è poco spazio per le memorie del tempo che fu. I fanatici della destra sono in prima linea nello smantellamento dei monumenti alle grandi personalità della cultura russa – di cui pubblicano con orgoglio persino le mappe 17 – e ricevono gli elogi dell’ormai famoso ministro della Cultura Oleksandr Tka0enko, ispiratore delle due leggi che nel giugno scorso hanno proibito la stampa e la diffusione di libri di autori e autrici che dopo il 1991 e la dissoluzione dell’Urss abbiano mantenuto la cittadinanza russa e la riproduzione di musiche di autori e autrici russi post-sovietici. Quei fanatici 17. t.me/letteradamosca/11674
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pensano che le loro azioni servano a far rinascere la mitologica Ucraina del passato su cui amano fantasticare. Zelens’kyj, invece, sa che servono a far nascere l’Ucraina del futuro. Proprio come succede in ambito ecclesiastico, dove è partita la grande operazione per mettere al bando (una legge apposita è già in discussione in parlamento, e ci sono pochi dubbi su come andrà a fnire) la Chiesa ortodossa russa-patriarcato di Mosca e sequestrarne strutture e proprietà. Il segnale più clamoroso ed evidente non è venuto dall’espulsione di due decine di vescovi e sacerdoti, privati della cittadinanza ucraina. E nemmeno dalla serie infnta di perquisizioni ai danni di chiese, parrocchie, monasteri e seminari della Chiesa stessa, o dalle 129 chiese sequestrate nel 2022. Un fenomeno così pronunciato da portare per la prima volta nella storia un metropolita, Antonyj di Volokalamsk, presidente del dipartimento per le Relazioni esterne del patriarcato di Mosca, a parlare presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha poi timidamente invitato le autorità ucraine ad attenersi alle norme internazionali quando perquisiscono le chiese. A indicare la strada che viene percorsa sono state le celebrazioni del Natale ortodosso nella cattedrale della Dormizione del monastero delle Grotte di Kiev, uno dei luoghi più cari e sacri al mondo ortodosso. Fondato nel 1051 da un gruppo di monaci che si ritirò in meditazione e preghiera nelle grotte del Monte Berestov, è da sempre uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa russa, che peraltro nella religiosità e spiritualità degli ucraini ha sempre trovato un grande serbatoio di ispirazione e di vocazioni. Quest’anno i rappresentanti della Chiesa ortodossa russa sono stati espulsi dalle celebrazioni, che sono invece state affdate al metropolita Epifanij I (per il mondo Serhij Petrovy0 Dumenko), metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, il giovane (43 anni) capo della Chiesa ortodossa ucraina autocefala, nata nel 2018 in funzione palesemente antirussa sulla spinta del presidente Petro Porošenko, che considerava la Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Mosca una minaccia per la sicurezza nazionale 18. Dal punto di vista del diritto civile e del diritto canonico è tutto più che in regola. Il grande Monastero delle Grotte, con la sua splendida cattedrale1 metropolita Antonyj di Volokalamsk 19, è di proprietà dello Stato e il contratto di afftto con la Chiesa ortodossa russa-patriarcato di Mosca scadeva proprio nel dicembre scorso. E la Chiesa ortodossa ucraina metropolita Antonyj di Volokalamsk 20 è stata riconosciuta e dotata dell’autocefalia dal patriarca ecumenico Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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18. L’importanza che Porošenko dava al fattore religioso era in tutta evidenza anche nello slogan scelto per la campagna elettorale del 2019: «Esercito, lingua e fede». 19. Nel 1990 il complesso è stato dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. 20. La nascita uffciale di questa Chiesa, il 15 dicembre 2018, è avvenuta tramite un «concilio di riconciliazione» con la Chiesa ortodossa ucraina-patriarcato di Kiev (fondata nel 1992 dal metropolita Filaret, ovvero Mykhaylo Antonovy0 Denysenko, nell’Ucraina da poco diventata indipendente) e con la Chiesa ortodossa autocefala ucraina. La prima nata per opera di colui che era stato il grande pretendente al patriarcato nel conclave del 1990 della Chiesa ortodossa russa, che aveva invece eletto Alessio II. La seconda fondata nel 1921 durante la breve indipendenza ucraina, rinata nel 1942 all’ombra dell’occupazione nazista, sopravvissuta all’estero dopo la vittoria sovietica e defnitivamente ristabilita nel 1990 con l’indipendenza dell’Ucraina.
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Bartolomeo di Costantinopoli, che per questo ha affrontato la rottura totale con il patriarcato di Mosca e il patriarca Kirill. Eppure la Chiesa ortodossa russa-patriarcato di Mosca è tuttora la casa spirituale di milioni di ucraini 21 metropolita, che non per questo sono meno fedeli alla causa del proprio paese o meno preoccupati per le sue sorti. Ed è piuttosto evidente il desiderio delle autorità di accelerare il processo, che la nascita della nuova Chiesa nazionale e soprattutto l’invasione russa hanno peraltro già avviato, di sostituzione della Chiesa compromessa dai legami con Mosca – e con un patriarca come Kirill, che fn dal primo momento non ha esitato a giustifcare l’operazione militare 22 – con una Chiesa non tanto nazionale quanto nazionalista. E poco timorosa di prendere a bordo esponenti di una Chiesa storicamente compromessa con il nazionalismo più estremo e destrorso. Nei suoi quattro anni di vita, la nuova Chiesa ortodossa ucraina ha accolto circa 1.500 parrocchie, diocesi o comunità che hanno abbandonato la Chiesa ortodossa russa 23. Più di 700, però, l’hanno fatto dopo il 24 febbraio 2022, a conferma che la spinta decisiva è arrivata dall’aggressione decisa dal Cremlino. 5. Chiudiamo questa rassegna con un ultimo esempio tra le decisioni di Zelens’kyj destinate a tracciare i contorni dell’Ucraina di domani. Nel periodo natalizio il presidente ha controfrmato una legge molto discussa, approvata dal parlamento dopo anni di discussioni, considerata liberticida sia dall’Unione dei giornalisti ucraini sia dalla Federazione europea dei giornalisti, che l’ha defnita «degna dei peggiori regimi autoritari» 24. Una legge di cui persino Open Democracy, diffcilmente sospettabile di atteggiamenti anti-ucraini, dice 25 che è una cosa che nemmeno ai tempi delle presidenze di Ku0ma e Janukovy0 si era mai vista. E Ku0ma era uno accusato di aver fatto uccidere il giornalista Heorhij Gongadze nel 2000 26. Questa legge affda al Consiglio nazionale per la tv e la radio, cioè a una commissione statale, il controllo assoluto su tutti i media, con un potere totale di intervento ed eventualmente di censura. Considerato che già il più potente e seguito strumento informativo, la televisione, opera in regime di canale unico statalizzato, la nuova legge somiglia tanto a un tentativo di tirare le redini alla galassia di siti e canali assortiti che per ora sono sfuggiti ai controlli e che, pur nel generale sostegno alla causa patriottica e antirussa, hanno mantenuto qualche margine di autonomia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
21. Sono stati numerosi gli appelli di personaggi pubblici, semplici cittadini e persino soldati impegnati al fronte per la sospensione di quella che molti considerano una «persecuzione» ai danni della Chiesa ortodossa russa. 22. R. CRISTIANO, «L’omelia di guerra del patriarca Kirill: “Difendiamo i valori dalla deriva Lgbt”», reset. it, 7/3/2022. 23. «Do Pcu z 24 ljutogo priednalisja š0e ponad 700 parafj» («Più di 700 parrocchie hanno aderito all’Ocu dal 24 febbraio»), ukrinform.ua, 6/1/2023. 24. «La censura di Zelens’kyj», letteradamosca.eu, 16/12/2022. 25. S. GUZ, «Ukraine’s proposed new media law threatens press freedom», opendemocracy.net, 7/11/2022. 26. A. STABILE, «Ucraina, presidente sotto accusa. Ha fatto uccidere un giornalista», repubblica.it, 18/2/2001.
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Nessuno è così ingenuo da non capire quali possano essere i problemi e le esigenze di una classe politica alle prese con un paese povero, un invasore scatenato, la fuga all’estero di milioni di persone, la distruzione delle infrastrutture essenziali, l’ineludibile necessità di sacrifcare alla difesa le migliori energie umane, tecniche e fnanziarie. E il tempo della guerra non è mai il più adatto per badare alle sottigliezze. Allo stesso modo, però, non sarà irrispettoso chiedersi quanto siano importanti i provvedimenti di cui abbiamo fn qui parlato per vincere la battaglia contro la Russia e se non siano piuttosto il tentativo di creare una struttura di potere tagliata su misura per l’attuale classe dirigente. Che cos’abbiano a che fare la censura sui media, la discriminazione tra le Chiese, le continue epurazioni per via poliziesca all’insegna del possibile tradimento, lo sfruttamento delle destre più becere ed estreme dietro il fragile schermo della dignità nazionale con quei valori di democrazia e tolleranza così cari all’Europa e di cui l’Ucraina sarebbe addirittura la prima linea di difesa di fronte al potenziale dilagare dell’autocrazia. E soprattutto se questi provvedimenti, che oggettivamente avvicinano Kiev più a Mosca che a Bruxelles, siano temporanei, cioè dovuti allo stato di estrema emergenza e quindi eventualmente revocabili, o siano invece i tratti con cui l’Ucraina del futuro vorrà caratterizzarsi e gli strumenti con cui la classe dirigente vorrà governare il paese. In quel caso, anche l’Europa correrà il rischio di vedere radicalmente alterati i propri tratti distintivi. Un’Ucraina fortemente nazionalista andrebbe probabilmente a saldarsi con paesi come i baltici, la Polonia, la Repubblica Ceca, gli Stati dell’Europa del Nord, forse anche l’Ungheria, spostando in senso conservatore, sovranista e iperatlantista gli equilibri politici dell’Unione Europea che già scontano il declino della Germania, la parziale emarginazione della Francia, la latente ma perenne crisi dell’Italia. Non a caso ai tempi di Boris Johnson premier il Regno Unito provò a proporre una sorta di Ue anti-Ue 27 che del comune impegno antirusso faceva la propria incubatrice. In questa fase il presidente Zelens’kyj gode di una completa e indiscutibile libertà d’azione. Quella che gli deriva dalla composizione del parlamento, che abbiamo descritto prima. Ma anche quella che si è guadagnato con una gestione coraggiosa e astuta del potere, della propria immagine, dei rapporti internazionali. Il tasso di approvazione, secondo tutte le ricerche più affdabili, veleggia in questi mesi stabilmente intorno al 90%, in pratica l’unanimità dei consensi. Non è poco merito ma si tratta però di un favore popolare che Zelens’kyj si è guadagnato solo con l’arrivo della guerra. Per dimostrarlo basterà riprodurre le considerazioni dell’osservatorio Wilson Center di Washington D.C., considerato uno dei più autorevoli think tank del mondo. Il 2 novembre 2021 il Wilson Center pubblicava un articolo intitolato «Just Like All the Others: The End of the Zelensky Alternative?» 28, dedicato al crollo dei consensi (ridotti al 24,7%) per il presidente eletto appena due anni prima. Pochi Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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27. F. FUBINI, «Il piano segreto di Boris Johnson per dividere l’Ucraina da Russia e Ue: il Commonwealth europeo», corriere.it, 26/5/2022. 28. M.MINAKOV, «Just Like All the Others: The End of the Zelensky Alternative?», wilsoncenter.org, 2/11/2021.
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mesi dopo, il 9 giugno 2022, lo stesso Wilson Center, a frma dello stesso autore, pubblicava un articolo intitolato «The Three Ages of Zelensky’s Presidency» 29 in cui si prendeva invece atto del cambio di passo zelenskiano e venivano sottolineati i crescenti consensi di un presidente poco prima quasi disprezzato. È una realtà con cui occorre fare i conti. Zelens’kyj, che da politico improvvisato è riuscito a trasformarsi nel leader autorevole di un paese in guerra, rinuncerà agli strumenti di governo che trovano giustifcazione solo nell’attuale situazione di crisi? Vincerà la sfda con le diffcoltà enormi di un dopoguerra in un paese che, deposte le armi, inevitabilmente tornerà alla politica, cioè ai dibattiti e alle divisioni, o sceglierà la scorciatoia dei provvedimenti di emergenza? È una domanda che dobbiamo porci se abbiamo davvero a cuore il futuro dell’Ucraina e quello dell’Europa, ormai strettamente legati a prescindere da qualunque accordo, trattato o pezzo di carta ci venga presentato nei prossimi anni.
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29. ID., «The Three Ages of Zelensky’s Presidency», wilsoncenter.org, 9/6/2022.
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‘La Crimea tornerà ucraina’ Conversazione con Tamila TASHEVA, rappresentante permanente della presidenza ucraina per la Crimea, a cura di Greta CRISTINI
LIMES Pensate di riprendervi la Crimea? TASHEVA Un obiettivo fondamentale della
proposta di pace formulata dal governo di Volodymyr Zelens’kyj è il ritorno ai confni ucraini del 1991. Ciò include la liberazione della penisola dall’occupazione russa del 2014. A tal fne la nostra tattica è ibrida: affanca cioè iniziative diplomatiche con il sostegno dei nostri partner internazionali a mezzi militari. Fino all’invasione russa del 2022 Kiev sperava in una soluzione negoziale, ma con la sua aggressione Mosca ha vanifcato questa possibilità. L’attacco russo al resto del territorio ucraino è anche il risultato dell’annosa disattenzione internazionale nei confronti della Crimea. LIMES È vero che state preparando una controffensiva sulla penisola? TASHEVA Questa decisione è di competenza dei ministeri della Difesa e degli Esteri. Certamente l’Ucraina tiene aperta la possibilità di una simile operazione in Crimea e nelle regioni di Kherson e Zaporižžja. Sono aree strategiche, in quanto fondamentali per rifornire l’esercito russo. LIMES Di quali armi occidentali avete bisogno? TASHEVA Di qualsiasi mezzo di difesa e d’attacco, inclusi carri armati e droni. Anche in vista di una riconquista della penisola. Sul piano diplomatico, l’arma più effcace resta invece la pressione indotta dalle sanzioni sul presidente Vladimir Putin, sugli oligarchi e sul settore bancario russi. LIMES A quali condizioni Kiev potrebbe riaprire il dialogo con il Cremlino? TASHEVA Dopo i falsi referendum tenutisi nelle quattro oblast’ di Donec’k, Luhans’k, Kherson e Zaporižžja e l’inserimento di questi territori nell’alveo costituzionale russo, il presidente ucraino ha proibito qualsiasi contatto diplomatico con la Russia, tantopiù in relazione alla Crimea. Mosca ha chiuso ogni possibilità di dialogo conducendo una guerra sporca e non convenzionale. Solo quando interromperà le operazioni e si ritirerà oltre i confni ucraini del 1991 le relazioni potranno riprenCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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130 F E D .
Livello di concentrazione delle risorse minerarie per oblast’
R U S S A
B I E L O R U S S I A
Molto basso Basso od
VOLINIA
P O L O N I A
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Molto alto
ČERNIHIV SUMY ŽYTOMYR
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LEOPOLI
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VINNYCJA KIROVOHRAD
ČERNIVCI
DNIPROPETROVS'K
DO NE C'K
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M ar d ’Az ov
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Mariupol’
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SA
ZAPORIŽŽJA
ODESSA
FED
R O M A N I A
A O V L D
Yuživska (Giacimento di gas scisto)
MYKOLAJIV
Giacimenti di litio CRIMEA Bacino di Dnepr-Donec Bacino precarpatico Bacino della Crimea Acciaierie che prima della guerra producevano il 50-70% di neon globale
Bacino carbonifero Bacino del ferro Bacino di manganese
BULGARIA
M a r
N e r o
Gasdotti russi
‘LA CRIMEA TORNERÀ UCRAINA’
TESORI UCRAINI
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dere. Ma alle nostre condizioni. Uno scambio indiretto con la Federazione Russa procede comunque attraverso soggetti terzi come l’Onu o la Turchia, su temi specifci: l’accordo sul grano, i bambini deportati illegalmente in Russia, lo scambio di prigionieri, la liberazione dei civili. LIMES Se i russi vedessero minacciato il loro controllo sulla Crimea userebbero l’arma nucleare? TASHEVA Il rischio c’è. Dal punto di vista russo Donec’k, Luhans’k, Kherson e Zaporižžja sono ora soggetti della Federazione, perciò qualsiasi azione militare contro questi territori equivale a una violazione dello spazio territoriale e costituzionale russo. Specie da quando l’esercito ucraino ha liberato Kherson, la paura che Mosca usi armi nucleari tattiche è aumentata in America ed Europa. È emersa l’idea che la guerra sia per Kiev un’occasione di riprendersi la Crimea anche a costo di vasti spargimenti di sangue e si è diffusa la percezione che per difendere la penisola Mosca possa impiegare l’arma atomica. La Russia è però isolata e i suoi principali partner, come Cina e India, osteggiano l’uso del nucleare. Non crediamo dunque che Mosca sia davvero intenzionata a ricorrervi. LIMES I russi esportano cereali e altre materie prime ucraine dai porti della Crimea? TASHEVA Sì. Dall’inizio della guerra la Federazione Russa esporta dai territori occupati come Zaporižžja, Kherson e Sebastopoli il nostro grano e lo rivende illegalmente a terzi. La procura ucraina con giurisdizione sul territorio della Crimea, costretta a trasferire la sua sede a Kiev, ha denunciato per prima questi furti. Il suo uffcio monitora costantemente i movimenti russi attraverso il Mar Nero. LIMES A chi sono destinate queste esportazioni? TASHEVA Ad aziende di altri paesi, specie turche. Kiev non ha mai accusato apertamente la Turchia di acquistare il grano rubato in Ucraina, però ha chiesto ad Ankara di aprire inchieste sui soggetti coinvolti. LIMES Queste imprese rivendono poi ad altri paesi? TASHEVA Sì. In Asia centrale e in Siria, ad esempio, sono state rilevate tracce di tali scambi. Per strappare questo mercato illegale a Mosca, nell’ultimo anniversario dell’Holodomor (la grande carestia del 1932-33) Kiev ha avviato un progetto umanitario denominato “Grano dall’Ucraina”. Il programma è operativo da novembre e vede la partecipazione di diversi partner come Italia, Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud e Turchia. Questi ultimi comprano da noi il grano per poi rivenderlo ai paesi dell’Asia centrale, dell’America latina e dell’Africa che fnora lo acquistavano dalla Russia. LIMES Se riprendeste il controllo della Crimea, potreste indire un referendum o dichiarare la penisola indipendente? TASHEVA I tatari di Crimea otterranno probabilmente uno status speciale, ma Kiev non ha intenzione di promuovere alcun referendum né di sostenere l’indipendenza della penisola. La Repubblica autonoma di Crimea è parte del territorio ucraino. Dal punto di vista geografco è strettamente legata alla madrepatria e ne è dipendente per il rifornimento di acqua, gas ed elettricità. Dall’occupazione la Russia ha Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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infatti avuto grande diffcoltà a sostenerla. La narrazione di Mosca secondo cui la Crimea fu regalata a Kiev dal presidente russo Nikita Khruš0ëv negli anni Cinquanta del Novecento non è del tutto vera. Omette che la penisola non sarebbe riuscita a sopravvivere senza un collegamento diretto con il territorio ucraino. LIMES Chi abita oggi la Crimea? TASHEVA Stabilire cifre e percentuali precise è diffcile perché l’ultimo censimento risale al 2001 e Kiev non si fda di quello russo del 2014. Prima dell’occupazione in Crimea risiedeva un milione e mezzo di persone con passaporto ucraino, di cui 500 mila di etnia tatara: l’Ucraina continua a considerarli suoi cittadini, anche se hanno ottenuto il passaporto russo. Dal 2015, tra 55 mila e 150 mila persone hanno lasciato la penisola e Mosca ha favorito il trasferimento di 500-800 mila russi. Dopo l’invasione del 2022 in Crimea dovrebbero esservi ancora circa 470 mila tatari; molti uomini arruolabili se ne sono andati. Abbiamo fatto queste stime analizzando le immatricolazioni delle automobili e i cambi di residenza tramite l’amministrazione russa. Quando la Crimea sarà di nuovo sotto controllo ucraino, chiederemo ai russi di andarsene. In caso contrario rischiano la deportazione. LIMES Come comunicate con i locali? TASHEVA Siamo l’unico organo ad avere un collegamento diretto con la popolazione. Io sono tatara di Crimea e sento regolarmente parenti, amici e conoscenti che risiedono ancora nella penisola. Da metà 2020 a fne 2021 abbiamo avuto 9 mila contatti via lettera, telefono, email, social e canali di messaggistica non monitorabili da Mosca. Nel 2022 ne abbiamo avuti 3 mila, inclusi quelli con le famiglie dei prigionieri politici. Almeno 158 persone sono in carcere per attività di protesta contro la guerra, di cui 112 tatari di Crimea. LIMES Com’è organizzata la resistenza ucraina in Crimea? Kiev partecipa ad azioni di sabotaggio? TASHEVA Prima del 24 febbraio 2022 le proteste in Crimea avevano a oggetto i diritti personali e non avevano carattere flo-ucraino. Dall’inizio della guerra sono invece a favore di Kiev: sappiamo di almeno 247 processi in corso per crimini amministrativi contro le forze russe. Le persone vengono arrestate perché non hanno passaporto russo, perché diffondono volantini o promuovono manifestazioni nelle scuole contro l’invasione. Sui muri compaiono scritte inneggianti alle Forze armate ucraine, circolano adesivi e francobolli che esprimono dissenso verso Mosca. I responsabili vengono multati o incarcerati da 10 a 15 giorni. Movimenti come i Partigiani di Crimea (Krymsky Partisany), i Gabbiani combattenti di Crimea (Krymsky Boyovy Ciayki) e il Nastro giallo (Zhovta Strychka) coordinano le azioni di protesta. Noi non contribuiamo in alcun modo, ma abbiamo contatti con singoli membri e trasmettiamo loro informazioni da diffondere. Altri organi, come i servizi di sicurezza ucraini, potrebbero invece gestire operazioni insieme a questi gruppi. LIMES È vero che la mobilitazione dei tatari di Crimea indetta da Mosca non ha incontrato proteste locali rilevanti? TASHEVA Le manifestazioni in territori sotto il controllo russo sono impedite dalla Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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stretta sorveglianza di Mosca. La chiamata alle armi ha coinvolto in larga parte i tatari di Crimea e l’unico modo di evitarla era andarsene. Migliaia di uomini si sono trasferiti in Georgia, Uzbekistan, Kazakistan, Turchia e Unione Europea. Attraverso quest’ultima potrebbero rientrare in Ucraina, ma è una scelta complicata e dispendiosa. Il viaggio in uscita dalla Crimea dura in media una settimana e costa 500-600 dollari a persona. Per questioni di sicurezza, molti decidono di fermarsi all’estero e attendere la fne della guerra. (traduzione di Caterina Dell’Asta)
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‘Siamo pronti a negoziare con chiunque succederà a Putin’ Conversazione con Oleksij ARESTOVY0, già consigliere del capo dell’Uffcio del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, a cura di Greta CRISTINI
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UESTA INTERVISTA È STATA RILASCIATA
il giorno prima che Arestovy0 rassegnasse le sue dimissioni a causa di alcune dichiarazioni relative all’esplosione del 14 gennaio 2023 nella città di Dnipro, per le quali si è pubblicamente scusato. Dopo il suo congedo, Arestovy0 ha risposto a ulteriori domande di Limes incluse nel colloquio che segue. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
LIMES Perché vincerete ARESTOVYCˇ Per la causa
contro la Russia? che ci guida e per i limiti del nemico. La posta in gioco per noi è alta ed è parte di una storia lunga quattro secoli: lottiamo per la sopravvivenza in quanto popolo, per l’indipendenza e per l’affermazione del nostro destino storico. Tutte volontà che Mosca non ci riconosce. Nessuna delle due parti vuole arrendersi: secondo gli ultimi sondaggi, almeno il 70% della popolazione russa e il 77% di quella ucraina sostengono il confitto. Dal punto di vista militare, l’esercito russo combatte male e non ha una catena di comando effcace, a partire dai suoi generali. La recente cattura russa di Soledar è indicativa: per conquistare una città di circa due chilometri quadrati i soldati di Mosca hanno impiegato cinque mesi, (dal 2 agosto 2022 al gennaio 2023) e in realtà siamo noi ad aver arretrato la linea del fronte. A tutto questo va aggiunta la sofferenza economica infitta ai russi con le sanzioni. LIMES Qual è il vostro obiettivo? ARESTOVYCˇ Liberare tutto il territorio ucraino così come riconosciuto nella dichiarazione d’indipendenza del 24 agosto 1991, inclusi Crimea e Donbas, e come chiesto dall’87% della popolazione. Solo il 4% degli ucraini non è disposto a realizzare questo proposito per via militare. LIMES Vi state preparando a una guerra senza fne? La Russia può attingere a un bacino demografco più ampio del vostro per sostenere l’arruolamento di nuovi soldati.
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Non è tanto una questione demografca quanto di capacità, supporto logistico e approvvigionamento. Gli ultimi 200 mila russi inviati al fronte sono soldati mobilitati, non più professionisti come agli inizi del confitto. Non possiedono brigate complete: per una di queste occorre almeno un battaglione di carristi, loro ne hanno due e anziché 30 carri armati ne hanno dieci. La loro abilità militare è scarsa: nelle recenti battaglie attorno a piccoli centri come Bakhmut e Soledar, nel corso di tre mesi hanno perso la vita o sono stati feriti oltre 80 mila soldati russi. 200 mila uomini non sono affatto tanti come può sembrare. Hanno anche un problema alimentare perché il loro cibo è insuffciente e di pessima qualità. Lo dimostra il fatto che i prigionieri di guerra che catturiamo sono affamati. Ora il Cremlino intende inviare altre 200 mila persone, se non addirittura 500 mila, ma non è chiaro dove le troverà, come le equipaggerà, come le vestirà (non ha suffcienti uniformi e indumenti antiproiettile) e come le addestrerà. Mosca non possiede un numero di sergenti e uffciali adeguato per preparare le reclute; per 200 mila uomini ne servirebbero rispettivamente 70 mila e 50 mila. Hanno un grande potenziale di persone da mobilitare, ma non hanno il materiale concreto per armarle e supportarle. Chi arriverà adesso in prima linea sarà in condizioni ancora peggiori di chi sta già combattendo. Anche noi abbiamo più reclutati rispetto ai primi giorni, ma manteniamo una buona catena di comando e le nostre unità di difesa sono in sesto anche grazie al sostegno occidentale. Dall’inizio dell’invasione i nostri uomini hanno liberato il 40% dei territori occupati. Non sarà facile, ci aspetta una lotta sanguinosa e subiremo molte perdite. Ma nel giro di due o tre mesi li annienteremo. LIMES Come valuta le faide interne al Cremlino? ARESTOVYCˇ La Russia non assolve i leader che perdono le guerre, quindi la vita politica di Vladimir Putin terminerà. In quel momento si porrà una questione di responsabilità nella cerchia attorno al capo che abbiamo già visto nella storia dell’Unione Sovietica dopo la caduta di Josif Stalin. All’epoca, i suoi fedeli si giustifcarono dichiarando di essere stati costretti a sostenerlo. Ora a chi verrà attribuita la colpa? Una riforma fondamentale della struttura del potere moscovita è inevitabile e inizierà da una lotta tra le élite politico-governative. Ultranazionalisti come Evgenij Prigožin, fondatore del Gruppo Wagner, e Ramzan Kadyrov, leader ceceno, potrebbero contrapporsi a Nikolaj Patrušev, segretario del Consiglio di sicurezza, Sergej Šojgu, ministro della Difesa, e Valerij Gerasimov, capo di Stato maggiore delle Forze armate e comandante in capo dell’esercito russo in Ucraina. I fattori scatenanti saranno due. Primo, la presa di consapevolezza che Mosca non ha le capacità militari per vincere la guerra; quanto potrebbe verifcarsi anche prima dell’estate. Secondo, il timore delle sanzioni occidentali. Probabilmente il potere andrà prima in mano ai fascisti, che condurranno il paese a un ulteriore isolamento. Poi forse ai liberali, i quali dovrebbero agevolare una riapertura della Russia al mondo attraverso una maggiore disponibilità a fare concessioni e a negoziare. LIMES L’Ucraina è disposta a trattare a patto che le truppe russe si ritirino dai territori occupati, un’opzione diffcilmente praticabile per ora. Sono possibili altre condizioni di pace? ARESTOVYCˇ
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ARESTOVYCˇ
No. La posizione resta questa perché condivisa dal governo, dalla nostra popolazione e dagli alleati occidentali, secondo cui è l’Ucraina a decidere come fnirà il confitto. Ciò per noi include anche la riconquista della Crimea, il perseguimento penale dei responsabili e le indennità di guerra. A quel punto negozieremo con qualsiasi altra persona o organo collettivo che sostituirà Putin. Siccome Mosca ora non ha intenzione di liberare i nostri territori, le condizioni di pace saranno defnite dopo un cambio al Cremlino. Ovvero quando chi salirà al potere comprenderà di dover necessariamente scendere a patti con Kiev se vorrà ottenere l’abolizione delle sanzioni occidentali. LIMES L’ipotesi di una disgregazione dello Stato russo è verosimile? ARESTOVYCˇ No. Immagino piuttosto una sostituzione della leadership e una strutturazione del governo su basi nuove, che permettano di riconoscere gli errori compiuti, di non ripeterli e di stabilire nuovi rapporti di amicizia, anche con i vicini, per i prossimi 20-25 anni. LIMES Gli Stati Uniti caldeggiano l’idea di trovare un accordo con chi subentrerà a Putin? ARESTOVYCˇ Agli Usa non conviene una frammentazione della Federazione Russa; Mosca serve a Washington per contenere Pechino. Fino allo scoppio della guerra questa ragione spingeva gli americani a mantenere i rapporti con Putin. Adesso però il presidente russo non è più in grado di garantire tale ruolo per il suo paese; ha offeso e ricattato le potenze occidentali, che ora lo hanno sfduciato. Non esiste ancora un’idea comune su come sarà il mondo nell’èra post-Putin. Da una guerra intestina tra gli ambienti politici moscoviti emergerà una persona o un gruppo che assicurerà alla Russia il corso adeguato per la reintegrazione nella famiglia globale. LIMES A prescindere dall’esito della guerra, l’Ucraina continuerà a confnare con la Russia. Come immagina il rapporto tra i due Stati alla fne delle ostilità? ARESTOVYCˇ Putin sparirà, la Russia no, quindi occorrerà trovare una forma di interazione. Noi siamo disposti a collaborare e a raggiungere un accordo con chi succederà a Putin, rispettando i reciproci interessi. A patto che il successore del presidente russo riconosca il nostro diritto a una politica autonoma e che non ci consideri parte della propria sfera di infuenza. Altrimenti saremo pronti a un confronto aperto e duraturo, come avviene fra Israele e paesi arabi. Nel giro di decenni anche i traumi di guerra si attenuano. A volte guariscono prima di quanto impieghino persone sagge a salire al governo di certi paesi. LIMES Quanti sono attualmente i soldati ucraini e quanti di questi sono in fase di addestramento? ARESTOVYCˇ Il totale degli uomini impiegati nel settore militare (compresa la polizia, la Guardia nazionale eccetera) ammonta a circa un milione e 200 mila persone. I soldati che compongono le Forze armate ucraine sono invece tra i 600 e i 700 mila, di cui più o meno 200 mila sono al fronte. Vorrei sottolineare che date le frontiere con la Russia, Mar Nero incluso, la Bielorussia e la Transnistria, i cinque sesti dei confni ucraini sono attualmente circondati da truppe russe. Non posso rivelare il numero degli uomini che si stanno preparando in Ucraina o all’estero. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LIMES Come viene gestito l’addestramento secondo gli standard Nato? ARESTOVYCˇ Oggi l’Ucraina è l’unico paese che combatte una guerra sotto
l’egida dell’Occidente. L’addestramento avviene ad esempio nei paesi baltici, in Gran Bretagna, in Germania e può impiegare dalle poche settimane ai quattro mesi, a seconda del tipo di unità. Uno dei vantaggi principali della collaborazione con i partner occidentali è che non vengono addestrati singoli soldati, bensì interi battaglioni, uffciali compresi. Inoltre, non si preparano solo truppe di terra, ma anche specialisti dell’intelligenza artifciale. LIMES Il bollettino uffciale dello Stato maggiore ucraino parla di oltre 100 mila soldati russi uccisi fnora. Mosca ha iniziato questa guerra con circa 200 mila uomini. Se 100 mila sono morti, i feriti dovrebbero essere più del doppio. Come spiega questi numeri? ARESTOVYCˇ Le stime della nostra intelligence si basano su fonti russe, i mobilitati a Donec’k e Luhans’k non sono conteggiati, quindi i dati reali potrebbero variare. Penso però che la cifra di 100 mila russi morti sia verosimile, perché include non solo i soldati al fronte ma anche altro personale militare impegnato nel confitto. All’inizio dell’invasione, le forze russe erano composte da circa 330 mila uomini provenienti da varie sottounità, di cui 210 mila dall’Esercito. Gli altri erano uomini della Guardia nazionale, milizie del Donbas eccetera. Quanto ai feriti, credo che ammontino a circa 200 mila. I numeri delle perdite dell’artiglieria sono probabilmente sovradimensionati. Spesso, ad esempio, un carro armato distrutto viene conteggiato due volte a seconda di chi lo sta calcolando. LIMES Qual è lo stato degli aiuti militari in arrivo dall’Occidente? ARESTOVYCˇ In questa fase il supporto riguarda soprattutto l’artiglieria pesante; necessitiamo di scudi antimissilistici, armi a lunga gittata e difese anti-aeree. Questi mezzi sono utili sia per la difesa sia per costruire una controffensiva. Anche l’Italia è coinvolta in tale assistenza. Inizialmente abbiamo lamentato un’insuffcienza delle forniture. Ora capiamo che l’Occidente, uscito da decenni di pace in cui l’industria bellica si era fermata, ha bisogno dei suoi tempi e ci sta consegnando quanto è nelle sue capacità. LIMES Quali paesi hanno ecceduto le vostre aspettative? ARESTOVYCˇ Non ci attendevamo il forte sostegno militare del governo italiano di Giorgia Meloni, soprattutto dopo i due precedenti. In particolare quello del Movimento 5 Stelle, alquanto vicino alla Russia. Anche Francia e Germania hanno cambiato radicalmente la propria posizione una volta persa ogni fducia in Putin. La Polonia, i Baltici, gli Stati Uniti e il Regno Unito sono alleati tradizionali. Roma, Parigi e Berlino ora non sono da meno. LIMES Le diaspore ucraine nel mondo contribuiscono allo sforzo del paese? ARESTOVYCˇ Sì, moltissimo. Hanno raggiunto un livello di infuenza nel campo della politica e dell’informazione al pari delle lobby, sensibilizzando gli Stati e aiutando i media stranieri a dare notizie adeguate sul confitto. Inoltre assistono economicamente i parenti in patria attraverso le rimesse. Con i dieci milioni di connazionali Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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emigrati in Russia, il rapporto viene mantenuto a livello personale, grazie ai contatti con i membri delle famiglie rimasti in Ucraina. LIMES In relazione all’esplosione avvenuta a Dnipro il 14 gennaio scorso, lei ha dichiarato che la difesa aerea ucraina avrebbe colpito un missile russo poi precipitato su un edifcio della città. La posizione uffciale del suo governo invece accusa la Russia di aver bombardato il palazzo. Come spiega questa doppia narrazione? ARESTOVYCˇ Ho commesso un errore in base alle informazioni ricevute in quel momento, sebbene abbia sottolineato più volte che quella versione doveva essere ricontrollata. Stando alle ultime perizie, confermo che si è trattato di un missile russo non deviato in alcun modo dalla difesa aerea ucraina. LIMES Lei ha annunciato di volersi candidare alla presidenza se il presidente Volodymyr Zelens’kyj decidesse di non correre per un secondo mandato. Dobbiamo aspettarci un regolamento di conti politico nel dopoguerra? ARESTOVYCˇ La stampa russa prova incessantemente a creare frizioni all’interno della politica ucraina, già divisa da lotte domestiche. Al termine del confitto lo scontro diventerà ancora più pesante. Io continuerò a lavorare nel campo dell’informazione e della psicologia per contribuire alla vittoria dell’Ucraina contro la Russia. Il mio impegno si concentrerà inoltre sulla ricostruzione postbellica del paese affnché Kiev diventi un centro per il progresso della civiltà occidentale. È troppo presto per parlare di una carriera politica. Discuterò i dettagli solo dopo il nostro trionfo. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
(traduzione di Martina Napolitano)
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LA DIFESA TOTALE SECONDO KIEV di Matteo FRIGOLI e Maurizio MARTELLINI Per opporsi all’aggressione russa gli ucraini hanno fatto delle risorse militari e civili un corpo unico. Anche la Russia si avvia a seguire tale schema. Il senso delle battaglie urbane. Niente spazio per i compromessi. È lotta per la vita.
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1. EL PENSIERO STRATEGICO SI TENDE A contemplare le guerre future attraverso concetti applicati alle guerre del passato, che però potrebbero rivelarsi obsoleti. L’attuale confitto in Ucraina rappresenta un esempio di questa tendenza. Per varie ragioni legate alla sua natura e alle tattiche utilizzate nel teatro di battaglia. Nell’èra immediatamente successiva alla guerra fredda, molti esperti strategici sostennero che l’attenzione globale si fosse spostata dalla guerra ad alta intensità – implicante l’utilizzo di tutte le risorse disponibili da parte dei belligeranti – ai confitti a bassa intensità e interni agli Stati. In effetti, dopo il 1991 un numero considerevole di paesi alle prese con divisioni etniche, insurrezioni e movimenti separatisti fu testimone di un’ondata di guerre civili. Inoltre, gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti e la successiva «guerra globale al terrore» hanno indotto l’Occidente a riorientare le proprie dottrine strategiche e capacità militari verso operazioni contro gruppi terroristici transnazionali. Il contesto dell’invasione russa dell’Ucraina ha creato un cambiamento di larga portata nel panorama della sicurezza internazionale. La Russia è una potenza revisionista che ha impiegato varie tecniche di sovversione contro i suoi vicini nell’Europa orientale e nel Caucaso. Queste vanno da aperte minacce, guerre economiche, uso strategico dei fussi migratori contro la sovranità territoriale, sostegno alle secessioni e alle insurrezioni fno all’invasione su vasta scala. Il revisionismo russo in Ucraina non è un incidente isolato, è parte del continuum degli obiettivi di politica estera del Cremlino. Ed è uno strumento fondamentale della proiezione della potenza russa, soprattutto verso gli Stati europei, con lo scopo di creare una propria sfera di infuenza nello spazio ex sovietico. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Gli effetti dell’invasione russa dell’Ucraina sono ancora da discernere nella loro piena portata. Ma alcune implicazioni possono già essere osservate: gli Stati occidentali hanno riaffermato la loro unità strategica adottando una pressoché identica percezione della Russia di Putin come potenza revisionista; la Nato sembra pronta ad accogliere la Svezia e la Finlandia, tradizionalmente non allineate; l’Ue ha accelerato la sua autonomia energetica riducendo nettamente o in alcuni casi addirittura ponendo fne alla dipendenza dal gas e dal petrolio russi. Nel complesso, l’invasione del 24 febbraio 2022 si è già rivelata un evento fondamentale per la sicurezza nel dopo-guerra fredda, che ridefnirà gli equilibri regionali e globali per decenni a venire. Una tendenza di breve periodo è già osservabile: l’attacco della Russia all’Ucraina ha innescato una necessaria trasformazione della Nato, in termini sia di percezione della minaccia sia di capacità operative. L’invasione russa ha spinto singoli Stati membri o partner (come Regno Unito, Germania, Svezia e Giappone) a rivedere non solo le proprie strategie di difesa e sicurezza, ma anche la prontezza organizzativa e materiale delle Forze armate e delle società. Gli aspetti del confitto condotto dalla Russia sono tipici della guerra ad alta intensità: distruzione sistematica di aree urbane, ingaggio di infrastrutture civili critiche basilari per il sostentamento della popolazione, disumanizzazione dell’avversario rappresentato come «nazista», denuncia dell’artifciosità dello Stato ucraino. Tutto ciò evidenzia come il confitto armato tenda ad assumere le caratteristiche della «guerra totale». Ovvero uno scontro in cui l’apparato delle Forze armate di uno Stato e la società civile vengono coinvolti nello sforzo bellico come fossero un corpo unico. Un confitto totale a cui lo Stato ucraino ha reagito impostando una strategia di «difesa totale». Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. Questi aspetti devono far rifettere sulla natura e sulla gravità del confitto in atto alle porte d’Europa, sulla strategia di difesa totale intrapresa dall’Ucraina e sull’impiego sul campo della cosiddetta New generation warfare. Dall’inizio del confitto lo Stato ucraino è parso giustamente convinto che nonostante la crescente preparazione delle proprie Forze armate, l’esperienza acquisita nella guerra ibrida nel Donbas (2014-22) e i trasferimenti di tecnologia militare dall’Occidente, il suo esercito non possedesse le capacità per opporsi effcacemente a un’aggressione russa su un fronte esteso senza poter attingere a un notevole serbatoio di risorse umane da mobilitare e armare. Questa consapevolezza della situazione strategica ha mosso il parlamento ucraino a adottare nel luglio 2021 la cosiddetta legge sui fondamenti della resistenza nazionale. Con tale documento sono state create le basi per la difesa totale ucraina, cui tutte le componenti dello Stato e della società sono chiamate a contribuire in caso di una minaccia esistenziale. Quest’ultimo obiettivo è stato perseguito attraverso tre strumenti: le forze di difesa territoriale, il movimento di resistenza, un sistema generale di preparazione dei cittadini. Nella strategia di difesa totale, il concetto di resistenza è particolarmente importante in quanto viene scandito in due modalità operative: la popolazione tutta
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può parteciparvi, ma allo stesso tempo si istituisce un corpo più ristretto, il movimento di resistenza, dotato di organizzazione, dotazione e fnanziamenti secretati, con il compito di creare cellule all’interno dei territori ucraini temporaneamente occupati. La strategia di difesa totale richiede all’Ucraina di resistere all’aggressore su terra, mare, aria, nonché all’interno dello spazio informatico e informativo invocando il suo «potenziale nel dominio militare, politico, economico, diplomatico, spirituale e culturale». E impone di impegnarsi in tutte le forme di combattimento, inclusa la guerra asimmetrica. In particolare, si prefgge l’obiettivo di infiggere al nemico inaccettabili perdite politiche, economiche, militari o di altro genere, costringendolo a fermare l’escalation e quindi la guerra. La strategia ha avuto evidenti rifessi sulle tattiche utilizzate dall’esercito ucraino. Quest’ultimo ha infatti combattuto l’avversario russo prevalentemente nelle città. Il confitto in Ucraina è un confitto per le città piuttosto che uno scontro in campo aperto. I combattimenti in aree urbane hanno due effetti principali: rendono qualunque operazione offensiva russa più complessa e danno l’opportunità a forme di resistenza irregolare di emergere e colpire. Proprio questa tattica, caratterizzata dalla dispersione della resistenza e da un modello decisionale decentralizzato, ha permesso alle Forze armate ucraine, posizionate lungo l’immenso fronte, di intraprendere iniziative a livello di singolo plotone spesso essenziali per la difesa. Tali dimensioni del confitto si legano al tipo di minaccia cui lo Stato ucraino è sottoposto: dal punto di vista di Kiev è una guerra per la sopravvivenza. L’aggressione russa individua come bersagli sia obiettivi militari sia obiettivi civili, compiendo inoltre atroci crimini di guerra. Per questa caratteristica il confitto tende ad assumere per l’Ucraina una dimensione di totalità, di lotta per la sopravvivenza contro una minaccia esistenziale. Questa caratteristica viene rifessa nelle tattiche di difesa totale, di formazione delle forze di difesa territoriale e di emersione di forme di guerriglia irregolare urbana condotta da cittadini in armi. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. La Russia incontra a sua volta evidenti diffcoltà operative. Non ha raggiunto ancora alcun obiettivo strategico. Il modello di confitto a cui si avvicina la guerra russo-ucraina è quindi quello delle cosiddette «small wars», combattute tra potenze militarmente superiori e potenze militarmente inferiori, almeno per tre aspetti. A) Natura del confronto tra potenza superiore e potenza minore: la potenza superiore non perde la guerra ma non la vince. B) Guerra periferica: la potenza superiore combatte per uno scopo circoscritto. C) Asimmetria: il coinvolgimento nella guerra anche per la potenza minore è totale mentre per la potenza superiore è limitato. L’informazione russa tende a rappresentare al proprio interno il confitto come uno scontro con tutto il mondo occidentale, non con la sola Ucraina. L’obiettivo potrebbe essere quello di portare a un maggiore grado di coinvolgimento l’intera società russa, rendendo così totale la guerra dal punto di vista russo. Sul campo di battaglia si sta già assistendo a una forma di guerra che coinvolge tutti i domini, sia attraverso l’utilizzo di tecnologie avanzate sia di tecnologie low
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cost di tipo militare e commerciale. Ad esempio, quella russo-ucraina può defnirsi la guerra con il più vasto utilizzo di tecnologie senza equipaggio, civili e militari, che stanno giocando un ruolo fondamentale. Entrambe le potenze impiegano velivoli a pilotaggio remoto per l’intelligence, la sorveglianza e la ricognizione; acquisizione dei bersagli e ingaggio in tempo reale – più recentemente, come mini-bombardieri che trasportano esplosivi. Nel confitto hanno avuto un effcace impiego anche i vascelli senza equipaggio, i quali possono essere utilizzati per la ricognizione marittima, ma anche come vettore di attacco, in chiave kamikaze, esplodendo a contatto con l’obiettivo. In questo contesto è da sottolineare il diretto utilizzo di assetti commerciali low cost, ossia droni più o meno tecnologicamente avanzati, e satelliti come quelli della costellazione Starlink. Queste caratteristiche del confitto hanno un forte impatto prima di tutto in termini di costo: con un vascello senza equipaggio, o con un drone suicida, si possono danneggiare assetti che hanno un costo enormemente superiore al drone o al vascello stesso. A titolo di esempio, l’Ucraina ha colpito una fregata russa nel porto di Sebastopoli con un’imbarcazione a pilotaggio remoto. In secondo luogo, Kiev ha dimostrato come una difesa coordinata può negare la superiorità delle forze attaccanti, anche con l’utilizzo effcace di assetti low cost/commerciali. Immediatamente dopo l’avvio dell’aggressione russa, il ministero della Difesa ucraino ha fatto appello ai cittadini affnché donassero i loro droni commerciali o li usassero per aiutare a difendere la capitale. Utilizzando questi assetti sono state identifcate le posizioni russe e sono stati compiuti attacchi contro le forze russe. Infne, il confitto ucraino ha dimostrato un cambio netto nel bilanciamento tra offesa e difesa a livello tattico: muoversi nel campo di battaglia è estremamente pericoloso per gli attaccanti. Sono queste le capacità che hanno permesso all’esercito ucraino di condurre la Russia allo stallo e di riconquistare progressivamente parte del territorio perso. Tendenza, quest’ultima, che costa ai russi enormemente in termini di risorse materiali, fnanziarie e umane. Lo stallo blocca l’azione russa ed espone lo Stato russo a ritorsioni di tipo politico, economico e fnanziario da parte della coalizione di paesi che supportano le Forze armate ucraine. Queste ultime hanno l’obiettivo di contrastare la capacità dell’industria e del sistema fnanziario russi e di rendere più diffcoltosa la rigenerazione delle capacità che vengono utilizzate nel confitto. E per quanto la base industriale, energetica e civile dell’Ucraina venga fsicamente bersagliata da bombardamenti a lungo raggio, le capacità militari ucraine sono fondamentalmente delocalizzate, ossia provengono dall’esterno, da paesi Nato che la Russia non può attaccare. Le potenze che supportano l’Ucraina sono maggiormente infuenzate dall’andamento del confitto, mentre Mosca cerca di presentarlo come una guerra con l’intero mondo occidentale. L’estensione temporale indefnita della guerra è proprio in funzione di questo scontro geopolitico esistenziale che rende le possibilità di accettare dei compromessi sempre più remota: è evidente come nessuna potenCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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za direttamente o indirettamente coinvolta nel confitto possa permettersi un esito diverso dalla vittoria. Infne, quanto ai possibili futuri confitti nucleari tattici o sub-strategici da parte russa: l’«entropizzazione» della guerra russo-ucraina, come la delocalizzazione delle Forze armate ucraine, l’assenza di obiettivi rilevanti per un contro-attacco sub-strategico russo e soprattutto lo spostarsi della difesa ucraina onnicomprensiva nelle città e nei villaggi rendono impossibile la guerra nucleare tattica con ordigni a bassa intensità. Non è un modello perseguibile, a meno di voler trasformare tutta l’Ucraina in una sorta di 9ernobyl’ estesa e permanente 1.
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1. Per approfondimenti si segnalano i testi seguenti: H. SHELEST, «Defend. Resist. Repeat: Ukraine’s Lessons for European Defence», Ecfr Policy Brief, novembre 2022; E.I. KOTOULAS, W. PUSZTAI, «Geopolitics of the War in Ukraine», Foreign Affairs Institute, giugno 2022; O.C. FIALA, «Resilience and Resistance in Ukraine», smallwarsjournal.com, 31/12/2022; Per la legge «Sui fondamenti della resistenza nazionale» si veda zakon.rada.gov.ua, 2022; «President signed laws on national resistance and increasing the number of the Armed Forces», President of Ukraine, offcial website; H.I. SUTTON, «Why Ukraine’s Remarkable Attack On Sevastopol Will Go Down In History», navalnews.com, 17/11/2022; G. WOLOSHYN, E. STAKIV, «Ukraine’s “Total Defense”: A Critique», bintel.org.ua, 19/1/2022.
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LA GUERRA CONTINUA
Parte II EUROPEI PERDENTI TURCO VINCENTE Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
‘Il mio piano per l’Africa’ Conversazione con Marco MINNITI, presidente della Fondazione Medor a cura di Lucio CARACCIOLO e Guglielmo GALLONE
C’era una volta l’Italia che inventò la Quarta Sponda. Oggi nel Mediterraneo sembriamo non esserci più. Che succede? MINNITI Non siamo più capaci di leggere e interpretare cosa avviene nel mondo perché siamo disabituati a misurare il peso delle parole. Ci troviamo di fronte a un tornante decisivo dopo il quale nulla sarà come prima. Eppure, non ce ne stiamo accorgendo. Partiamo dal confitto in Ucraina. Che è insieme rottura della storia e brusca svolta della contemporaneità. Innanzitutto, la guerra non è conclusa. Né sappiamo quando fnirà perché non ne conosciamo l’orizzonte effettivo. Se qualcuno, il 24 febbraio 2022, ci avesse detto che il confitto dopo un anno non sarebbe fnito, non gli avremmo creduto. E invece la convivenza con una guerra lunga, allargata, sta diventando possibile. Persino l’idea di convivere con un 38° parallelo – la linea che ha permesso di congelare la guerra di Corea – nel cuore d’Europa sta diventando l’unica ipotetica soluzione. Parallelamente, l’interconnessione del nostro mondo non è cambiata. Anzi, neanche quel contrasto icastico tra lockdown e interconnessione rappresentato dall’epidemia è riuscito a raffreddare il sistema globale. Di qui, le grandi onde d’urto che dall’Ucraina partono e hanno un rifesso, così come una soluzione, nel Mediterraneo. La prima onda d’urto è quella energetica. L’Europa risolverà la crisi dell’energia iniziata in Ucraina nel Mediterraneo allargato, da Algeri al Cairo. Poi c’è la crisi alimentare, di cui non conosciamo l’esito. In Europa se si parla di impennata infattiva si pensa ai prezzi del carburante. In Africa al rincaro dei beni di prima necessità, dal grano al pane. Il rischio di un dramma irrisolto è la destabilizzazione generale di un’area intera. Caso di scuola è la Tunisia. L’unico paese dell’Africa settentrionale ad aver attraversato, dopo il 2011, un processo democratico viene ora piegato dalla crisi economiLIMES
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ca: l’infazione genera disaffezione politica, quindi tensioni sociali sempre più forti, con appena l’8% della popolazione che a dicembre si è recato a votare e il reclutamento di tantissimi giovani nelle fle dello Stato Islamico. LIMES Ecco, le «primavere arabe». Cosa è successo nel 2011? MINNITI Noi europei abbiamo lasciato un popolo da solo. Ci siamo fermati prima di raggiungere l’obiettivo. Perciò, abbiamo enormi responsabilità nell’esito fallimentare delle «primavere arabe». Non ho alcuna nostalgia del colonnello Muammar Gheddaf, ma l’intervento militare in Libia su iniziativa franco-britannica è stato disastroso. E siamo stati incapaci di comprenderlo. Stesso errore commesso in Afghanistan, che si è aggiunto ai precedenti di Iraq e Libia. Tutte esperienze che hanno trasmesso il messaggio secondo cui le grandi democrazie sono capaci nella promozione di iniziative militari, ma incapaci di dare continuità politica alle operazioni belliche. La storia della Libia è emblematica. In quell’iniziativa militare le componenti particolarmente egoistiche, ossia quella britannica e quella francese, sono emerse quando le truppe di Õaftar hanno circondato Tripoli nel 2019. Di fronte alla richiesta di aiuto di Fåyiz al-Sarråã, capo del governo formalmente riconosciuto dalle Nazioni Unite e per cui ci eravamo battuti, l’Europa è stata riluttante. Si è girata dall’altra parte. Lo stesso avviene con la maggior parte delle convenzioni internazionali che sono segnate da grande ambiguità. Basti pensare alla Conferenza di Berlino del 2020. Sulla carta, si decise l’embargo di tutte le armi verso la Libia. Nella realtà, ecco le immagini delle navi turche che consegnano armi sulle coste libiche. Nulla è avvenuto di quanto stipulato. Perché le grandi conferenze hanno il baco della grande ipocrisia. Insomma, si sa che certi princìpi sono frmati per essere disattesi. Non esiste solo l’assolutezza del dogma. Esiste la black diplomacy. L’Europa non ha né l’una né l’altra cosa. LIMES A differenza delle grandi potenze imperiali. MINNITI Il problema è proprio questo: nel 2019, con l’ingresso della Turchia in Tripolitania e della Russia in Cirenaica, abbiamo avuto il coronamento di due sogni imperiali che si materializzano entrambi sulla Quarta Sponda. Il primo sogno è quello dei russi. Arrivando in Cirenaica, Vladimir Putin compie il passo defnitivo di un disegno – imperiale e non neosovietico, necessario distinguere – in grado di toccare tre vette: Artico, Siria, Libia. Il tutto senza colpo ferire. E proprio per l’assenza di una risposta occidentale il disegno è proseguito in Ucraina. Putin ha approfttato del caos e ora persegue il caos. Prima del 24 febbraio, il presidente russo aveva fatto votare alla Duma l’annessione del Donbas. La protesta dell’Occidente non era stata sensazionale. Così, di fronte a un processo tattico importante, Putin pensa di poter andare oltre perché tutto può essere preso con la forza. Soprattutto l’Ucraina. Guerra utile anche per capire quanto, nonostante tutto, resta fondamentale e strategico il Nord Africa. Per quale ragione la Russia, in evidente diffcoltà militare in Ucraina, dopo una mobilitazione parziale e dopo aver aumentato di 1,5 milioni gli effettivi delle sue Forze armate, non pensa di ritirare gli uomini del Gruppo Wagner da Cirenaica, Sahel e Repubblica Centrafricana per spostarli in Donbas? Come mai, prima di aprire una tensione interna col suo popoCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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HUB GASIERO ALGERINO
MAROCCO
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Paesi che benefciano della rete del gas algerino
Sk ikd a
SPAGNA
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ITALIA
Tan Ta POR TOG Fès geri rifa ALL O Alg Cord eci ob a ra Alm s erí a Bé ni Sa f
Gasdotti esistenti e in progetto della rete di gas algerino
P Bo orto tte ie t Pio Dra Olb mb ou ia ino ch Ma e zar ad el V Ge all la o
Giacimenti di gas
TUNISIA Hassi R’Mel
Wa fā’
ALGERIA LIBIA
Gasdotti strategici algerini Maghreb-Europe (Esistente - porta gas algerino al Marocco, alla Spagna e al Portogallo)
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NIGER
Medgaz (Esistente - gasdotto sottomarino)
Galsi
(Progetto di gasdotto verso l’Italia che è stato rimosso dai progetti di comune interesse europeo)
Transmed (Esistente - gasdotto Enrico Mattei)
NIGERIA
Greenstream Trans-Sahara (Progetto per esportare gas dalla Nigeria in Europa)
Wa rri
(Esistente)
Altri gasdotti
lo, Putin non ritira le truppe da altri contesti? Perché la Russia continua a pensare all’Africa come a un quadrante strategico fondamentale. Perché Putin ritiene che l’Europa possa essere stretta in una morsa che è la stessa morsa dell’Africa. LIMES E poi c’è il disegno imperiale turco. MINNITI Che è parallelo a quello russo. E questo rappresenta un unicum nella storia, perché prima russi e turchi si ammazzavano. Ora no. Ora russi e turchi competono e cooperano. Soprattutto in Nord Africa. La dimensione imperiale turca è importante per capire come essere leader a livello internazionale permetta di esse-
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re leader in casa propria. Il presidente Recep Tayyip Erdoãan si sta giocando tutto sulla dimensione globale di Ankara. Nonostante un’infazione che oscilla tra il 60 e l’85%, la Turchia non è mai stata messa fnanziariamente alle corde. Perché il suo ruolo nel mondo è troppo importante. Questa dev’essere una lezione per tutti: il ruolo geopolitico produce consenso interno. Nel mondo interconnesso l’interesse nazionale si gioca fuori dai confni nazionali e dentro il contesto internazionale. Il 24 febbraio 2022 la Russia invade l’Ucraina. La Turchia sostiene Kiev vendendole armi. Ma, unico membro della Nato, non impone sanzioni a Mosca. Poi però non riconosce l’esito del referendum di annessione del Donbas. E svolge un ruolo straordinario nel mondo perché è l’unica potenza in grado di dare risonanza alle Nazioni Unite che, altrimenti, non avrebbero avuto alcuna voce in capitolo. Così Ankara fa frmare alle parti in guerra l’accordo per il grano. Un capolavoro diplomatico. LIMES All’appello manchiamo noi europei. MINNITI L’Europa non capisce che nel Mediterraneo allargato si gioca il proprio ruolo nel mondo. Perché Africa ed Europa sono due entità speculari. Non è pensabile la prosperità dell’Africa senza l’Europa. Non è pensabile un assetto stabile dell’Europa senza l’Africa. Entrambe vivono tre crisi tra loro collegate e tra loro risolvibili. Quella energetica, quella alimentare, ma soprattutto quella demografca. In senso opposto: l’Europa non fa fgli, l’Africa ne fa tanti. Ed è nella crisi demografca che si gioca il futuro della cooperazione tra i due continenti. Perché la crescita della popolazione è un fattore di potenza. Guardiamo alla Cina: i dati più recenti mostrano il primo declino demografco dal 1963. Pechino si sente più debole, vede il calo come un collasso, tutti i media internazionali ne parlano. Ma nessuno parla con analoga enfasi della crisi demografca che da anni attanaglia diversi paesi dell’Europa, dall’Italia alla Germania e non ultima la Francia. Caso opposto è l’India, che invece sarà sempre più protagonista grazie all’incremento della popolazione. Di nuovo, il problema della retorica irrealistica e dell’incapacità di connettere i problemi. Non dobbiamo parlare di fussi migratori. Si chiama crisi demografca e si tratta di squilibri demografci. Un problema che l’Europa può risolvere proprio con l’Africa. Nel mondo interconnesso il fattore umano conta sempre di più. L’Europa ha bisogno di materiale umano ma è in crisi di natalità perché il fenomeno demografco è drammatico e mal governato. Non capiamo che lasciare la gestione degli spostamenti di esseri umani ai traffcanti signifca consegnare loro le chiavi delle nostre democrazie. Anche gli Stati Uniti, che hanno scelto il Pacifco come teatro strategico principale, hanno bisogno di un’Europa autonoma in grado di occuparsi del Mediterraneo. Ma l’Europa si sta geopoliticamente suicidando. Anche in Ucraina. Certo, siamo rimasti uniti di fronte alla guerra. Però, nella mia visione, pensavo che dovessimo diventare un grande attore internazionale capace di farsi promotore di pace, ad esempio con un accordo sul grano. L’Europa non è stata capace di farlo perché non ha colto la centralità del Mediterraneo allargato. Perché tutti gli europei hanno una tattica, ma nessuno ha una visione. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LIMES Quindi, che fare? MINNITI Inizierei da cosa non fare. Il progetto europeo non dev’essere un patto per
le migrazioni perché altrimenti non ce la facciamo, non conquistiamo i cuori e le menti degli africani. In Africa la possibilità di emigrare è considerata un’aspettativa vitale, un sogno che neanche l’autocrazia più feroce è in grado di vietare. Se fno a oggi le cause della migrazione erano economiche e belliche, domani si aggiungeranno ragioni legate ai cambiamenti climatici e alla sensazione di essere cittadini del mondo, pertanto abilitati a spostarsi da un paese all’altro. I movimenti non sono sopprimibili. Poi, non dobbiamo regalare soldi a pioggia. I piani da cento miliardi non funzionano. Come testimonia il piano migratorio diviso in due tranche da tre miliardi stabilito dall’Europa con Turchia e Siria: ha funzionato perfettamente, a differenza di altri. Né dobbiamo pensare di farcela da soli. La parabola francese nel Sahel è esemplare. Che fare, dunque. Innanzitutto, bisogna muoversi immediatamente. In Europa si parla di una strategia per la migrazione da battezzare nel 2024: siamo fuori dal tempo. Bisogna promuovere subito un piano da qualche miliardo di euro, pochi ma ben distribuiti, per una stabilizzazione politica e sociale immediata, per la crescita economica e per la prosperità dei popoli. Dobbiamo esigere che il futuro di questi paesi sia una priorità. È nel nostro interesse. Ciò signifca intervenire in Tunisia non come sta facendo il Fondo monetario internazionale, cioè con un prestito, ma con un investimento. Perché il meccanismo del prestito internazionale non sta funzionando, l’infazione cresce e le trattative si fanno complesse. Dobbiamo puntare a stabilizzare socialmente la situazione e a mettere i presupposti per una crescita economica. Prosperità signifca crescita: l’obiettivo non è tenere questi paesi in condizione di minorità, ma farli sentire degli interlocutori. Un percorso simile ci consentirà di affrontare il tema delle classi dirigenti africane. Non col modello interventista usato in Libia, che è fallimentare e anzi ha alimentato una fragilità endemica delle istituzioni non risolta e non risolvibile. Noi dobbiamo trasmettere questo messaggio: l’Africa non è povera, ma è impoverita da classi dirigenti non degne di questo nome. L’Europa non deve muoversi come una democrazia interventista, deve avere una diplomazia esigente. Prendiamo il rapporto tra Italia ed Egitto. Anche Il Cairo sta affrontando un’instabilità economica e sociale con un’infazione alta e uno squilibrio nel rapporto tra sterlina egiziana e dollaro statunitense. L’Italia può avere molte opportunità di investimento in Egitto, ma non deve mai dimenticarsi del caso Regeni. Ecco cosa fa una diplomazia esigente: riconosce un ruolo all’Egitto senza dimenticarsi mai di Regeni. Per questo motivo devono essere le istituzioni democratiche del nostro paese a parlare con i paesi africani. Non altri attori, pubblici o privati che siano. LIMES Mettere d’accordo 27 paesi europei è impresa assai diffcile, specie se in Africa hanno interessi diversi. MINNITI Sì, in Europa nessuno si muove se si parla di redistribuzione di migranti. Il recente caso della Ocean Viking è esemplare: Macron ha accolto i rifugiati, è stato contestato dall’esterno e dall’interno, da destra e da sinistra, senza distinzioni. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Insisto nuovamente sul signifcato delle parole. Dobbiamo parlare di altro: di un piano per l’Africa da qualche miliardo capace di avere ampio respiro, profondità strategica e in grado di difendere i confni, così da fornire una prospettiva economica ai paesi africani e a quelli europei affacciati sul Mediterraneo. Facciamo un esempio concreto. Italia e Tunisia si mettono d’accordo. Roma stabilisce trentamila ingressi legali in un anno dalla Tunisia. Saranno gestiti attraverso le ambasciate. Nell’attesa, si mandano insegnanti di sostegno in Tunisia a insegnare la lingua italiana e altre materie. Ipotizziamo di avere un problema con la mancanza di operai siderurgici perché c’è un’alta domanda delle imprese ma l’offerta educativa è scarsa. Bene, l’educazione dei tunisini comprenderà anche materie legate a questo settore. Però, Tunisi deve accettare che Roma possa rimpatriare tutte quelle persone che arrivano illegalmente in Italia. Ecco che l’integrazione diventa più facile. Integrazione e sicurezza sono due temi di strettissima attualità, basti pensare alle campagne elettorali giocate sul tema della sicurezza, ma sono anche due termini intimamente connessi. Integrare meglio signifca essere più sicuri. L’integrazione sbagliata genera terrorismo. Noi non possiamo avere una visione difensiva dell’Europa. Il tema demografco dev’essere messo al centro della nostra agenda. Anche perché, se non si affronta questo tema, l’Italia è fnita. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
MARONTA Inutile a fini preventivi, l’embargo occidentale erode la base economico-industriale della Russia. L’import parallelo e altri trucchi russi (ma anche europei) per aggirare i divieti. L’impatto sull’Italia. Che succede se il Cremlino finisce i soldi. di Fabrizio
L
1. E SANZIONI ALLA RUSSIA FUNZIONANO? Sì. E no. Dipende da come le si guarda, per dirla con il compianto Pau Donés. E da cosa si chiede loro. Se all’embargo si chiede(va) di impedire la guerra, o anche solo di limitarne la durata, la risposta è un rotondo no. Chi riponeva in ciò le proprie speranze è rimasto amaramente deluso. A questa categoria appartengono, tra gli altri, gli «alti esponenti» dell’amministrazione Biden che lo scorso settembre confdavano alla Cnn 1 il loro disappunto. L’auspicio iniziale, raccontano, era che le sanzioni inceppassero presto la macchina da guerra russa, impedendo al Cremlino di sostenere lo sforzo bellico e magari – nel migliore dei mondi possibili – suscitando un sordo malcontento pubblico, quando la penuria avesse pesantemente compromesso il tenore di vita dei russi. Non è andata così. Lo iato tra desideri e realtà scaturisce dal fatto che molti, a Washington e in altre cancellerie occidentali, sembrano aver gravemente sottostimato due elementi: l’entità degli introiti di Mosca e la disponibilità di alcuni grandi paesi ad acquistarne gli idrocarburi, principale fonte dei suddetti introiti. Il riferimento è ovviamente a Cina e India, ma anche a soggetti meno ovvi. Su tutti l’Arabia Saudita, che pur essendo un esportatore netto di petrolio in questi mesi di guerra ha acquistato greggio russo usandolo nelle sue centrali elettriche e liberando così volumi di produzione nazionale per l’esportazione, lucrando sulla differenza tra il prezzo d’acquisto (a sconto) del petrolio russo e quello di vendita (a prezzo pieno, lievitato inizialmente per lo shock bellico) del proprio. «Le sanzioni hanno colpito l’economia russa, ma non nella misura sperata e di certo non tanto da costringere la Russia a negoziare», lamentano gli alti esponenti alla Cnn. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. N. BERTRAND, K.B. LILLIS, «Russian sanctions slow to bite as US offcials admit frustrations over pace of pain in Moscow», Cnn, 16/9/2022.
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LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
Ma cosa, esattamente, è andato storto? La lista è lunga. Primo: complice l’iniziale impennata dei prezzi, nei primi sei mesi di guerra (marzo-agosto 2022) la Russia ha incamerato quasi 160 miliardi di euro dalla vendita di gas, petrolio e (in misura assai minore) carbone 2. Molto più di quanto la Casa Bianca si aspettasse. Anche i fertilizzanti di produzione russa – non sanzionati – hanno reso bene: quasi 17 miliardi di dollari tra febbraio e dicembre (+70% rispetto allo stesso periodo del 2021), smentendo le diffuse previsioni sul crollo dell’export causa impraticabilità del Mar Nero 3. Secondo: sotto l’abile direzione di El’vira Nabiullina, la Banca centrale russa è stata più abile del previsto nel gestire l’impatto delle sanzioni. Questo impatto è stato inizialmente forte: il sequestro delle riserve (oro e valuta estera) fsicamente detenute da terzi, punta di diamante dell’apparato sanzionatorio, ha decurtato del 40% circa il tesoro dell’erario russo. Ma la riconosciuta competenza di Nabiullina e colleghi, insieme all’entità delle riserve ancora nella disponibilità di Mosca (perché ubicate in patria o presso paesi non compartecipi delle sanzioni), hanno lasciato al Cremlino una somma suffciente ad assorbire il colpo. Terzo, e cruciale: le sanzioni puntavano a inceppare l’economia reale russa, impedendole di funzionare. Inizialmente sembrava fosse così: stante la relativa arretratezza di un’economia poco sofsticata, basata com’è sull’export di materie prime, in volumi assoluti la Russia fa meno affdamento sulle importazioni rispetto ad altri paesi di paragonabile taglia economica. Tuttavia, essa dipende dall’estero per tecnologie cruciali di cui si è vista privata nelle prime settimane di guerra. Presto, però, gli importatori russi – sostenuti dal Cremlino – si sono dimostrati abili nell’aggirare gli embarghi settoriali, mentre gli esportatori facevano altrettanto. Risultato: tra gennaio e settembre 2022 la bilancia commerciale russa registrava un attivo di quasi 200 miliardi di dollari, circa 120 miliardi in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Le stime per il 2023 indicano un possibile surplus di 100 miliardi 4: molto meno, ma non male per un’economia soggetta a sanzioni di ogni tipo. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. L’aggiramento dell’embargo merita un’analisi a sé, perché è il cuore della questione. La pratica ha oggi nella Russia l’esempio più attuale e lampante, ma si estende oltre il caso russo. Quest’ultimo appare per certi versi l’effetto collaterale del massiccio e crescente ricorso, da parte statunitense, alle sanzioni come strumento coercitivo nella pratica geopolitica degli ultimi decenni 5. Una pratica resa possibile dalla dimensione dell’economia statunitense, dunque dall’effcacia dissuasiva delle sanzioni secondarie. Ma anche dalla centralità del dollaro e dalla posizione baricentrica di Washington nei circuiti fnanziari globali: strumenti di
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2. AA.VV., «Financing Putin’s war: Fossil fuel exports from Russia in the frst six months of the invasion of Ukraine», Crea, 6/8/2022. 3. E. TERAZONO, «Russian fertiliser export revenue surged 70% in 2022 as prices jumped», Financial Times, 15/1/2023. 4. AA.VV., «How have sanctions impacted Russia?», Bruegel, 26/10/2022. 5. F. MARONTA, «La madre di tutte le sanzioni è un’arma spuntata», Limes, «La Russia cambia il mondo», n. 2/2022, pp. 87-99.
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pagamento elettronico, sistemi di credito interbancario (Swift), agenzie di rating, dimensione delle Borse valori, peso nelle istituzioni fnanziarie internazionali (Fondo monetario, Banca mondiale). L’uso pervasivo dello strumento sanzionatorio da parte statunitense ha indotto nel tempo una sorta di adattamento morfologico delle economie sanzionate e dei soggetti con esse solidali (spesso le due condizioni coincidono) 6. A facilitarlo ha concorso, paradossalmente, la globalizzazione di stampo americano. L’adozione del paradigma capitalistico e l’integrazione nelle fliere produttive transazionali ha sì esposto molte economie all’interdipendenza con l’estero, ma ha anche moltiplicato i canali di approvvigionamento e sbocco commerciale. Ciò ha creato sinergie utili ad attenuare l’impatto degli embarghi, ma soprattutto ha incentivato attori terzi (Stati, aziende) a solidarizzare con il sanzionato, sfruttandone opportunisticamente la condizione per acquisirne a sconto le risorse e vendergli a premio il necessario. Come da manuale del perfetto capitalista. Tra gli strumenti usati per aggirare le sanzioni fgurano gli swap valutari, miranti a prescindere dal dollaro. Tali accordi mettono in relazione diretta le Banche centrali dei paesi contraenti, evitando loro di usare valute terze (il dollaro) per regolare le rispettive pendenze. Tra gli Stati che hanno abbracciato lo strumento c’è non a caso la Cina, che negli ultimi anni ha stipulato intese valutarie con oltre sessanta paesi per un interscambio totale di oltre 500 miliardi di dollari. A rilevare non è l’ovvia presenza di Stati invisi all’America (come la Russia) o ambigui (come Argentina, Pakistan, Turchia e Sudafrica), bensì quella di alleati come la Corea del Sud, gli Emirati Arabi Uniti o l’India, che nel 2019 ha pagato con un mix di rubli e rupie il conto (5 miliardi di dollari) dei missili S-400 acquistati da Mosca, resuscitando all’uopo un accordo valutario del 1953. Nel 2020 la Cina ha per la prima volta regolato oltre metà del suo commercio con la Russia in renminbi e rubli, sottraendolo ai meccanismi sanzionatori. Un altro trucco consiste nello sviluppo di circuiti interbancari alternativi allo Swift, «domiciliato» in Svizzera ed egemonizzato dagli Stati Uniti. Come osservato all’inizio del confitto 7, il sistema cinese (Cross-Border Interbank Payment System, Cips) è lungi dal fare vera concorrenza allo Swift: nel 2021 ha gestito transazioni per appena 12 mila miliardi di dollari, quanto lo Swift elabora in circa tre giorni 8. Inoltre, il Cips gestisce quasi esclusivamente pagamenti in renminbi, moneta in cui è espresso meno del 10% delle transazioni internazionali. La mera esistenza del Davide cinese è tuttavia una vittoria rispetto al Golia occidentale, dato che l’obiettivo di Pechino (e di Mosca) non è fare concorrenza allo Swift, ma disporre di una valida alternativa. Con circa 1.300 banche di oltre 100 paesi affliate al Cips, l’alternativa esiste e, con tutti i suoi limiti, funziona. Il terzo, grande arnese nello strumentario antisanzioni sono le valute digitali, cioè la versione digitale delle monete sovrane, da non confondere con le criptovaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. Sul tema, cfr. A. DEMARAIS, «The End of the Age of Sanctions?», Foreign Affairs, 27/12/2022. 7. F. MARONTA, op. cit. 8. «Factbox: What is China’s onshore yuan clearing and settlement system CIPS?», Reuters, 28/2/2022.
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158 PAESI BASSI BELGIO LUSSEMBURGO
1 - ESTONIA 2 - LETTONIA 3 - LITUANIA 4 - POLONIA 5 - GERMANIA 6 - REP. CECA
7 - ROMANIA 8 - BULGARIA 9 - ALBANIA 10 - GRECIA 11 - MALTA 12 - CIPRO
SLOVACCHIA UNGHERIA CROAZIA SLOVENIA
FINLANDIA SVEZIA ISLANDA
Alaska (STATI UNITI)
NORVEGIA F EDE RA Z ION E RU SSA
DANIMARCA REGNO UNITO IRLANDA
CANADA
STATI UNITI
FRANCIA SVIZZERA AUSTRIA SPAGNA PORTOGALLO
UCRAINA ITALIA 12
GIAPPONE COREA DEL SUD TAIWAN
(prima dell’invasione)
GUIANA FR.
6%
VOLUME DEGLI SCAMBI (dopo l’invasione) India +310 % Turchia +198 % Brasile +106 % Belgio + 81 % Cina + 64 % Paesi Bassi + 32 % Giappone + 13 % Germania - 3 % Corea del Sud - 17 % Stati Uniti - 35 % Svezia - 76 % Dati paragonati Regno Unito - 79 % alla media mensile del periodo 2017-2021
Fonte: Peterson Institute for International Economics; Eiu
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Russia sanzionata Paesi che hanno imposto sanzioni contro la Russia PAESI PIÙ ESPOSTI AL COMMERCIO CON LA RUSSIA
AUSTRALIA
NUOVA ZELANDA
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
SI FA PRESTO A DIRE SANZIONI
LA GUERRA CONTINUA
lute. Anche in questo campo, la Cina è capofla: circa 300 milioni di cinesi (grossomodo la classe media del paese) usano oggi il renminbi digitale in oltre 20 città 9 tra cui ovviamente Pechino, Shanghai e Shenzhen, che da sole fanno 60 milioni di abitanti. Alle Olimpiadi invernali di Pechino del 2022 i pagamenti potevano essere effettuati con Visa o moneta (cinese) elettronica. L’anno prima, il governo cinese aveva stretto accordi con Emirati e Thailandia per regolare le pendenze commerciali con tale strumento. Emesso dalla Banca centrale cinese, il conio digitale è detenuto in portafogli elettronici archiviati nelle memorie degli smartphone di chi li usa, dunque gli Stati Uniti non hanno modo di inibirne l’uso. Fatte salve, forse, vaste operazioni di hackeraggio in stile nordcoreano, che tuttavia presentano serie controindicazioni d’immagine, legali e diplomatiche (essendo veri e propri atti d’aggressione). Oltre a depotenziare le sanzioni, questi e altri metodi creano enormi coni d’ombra in cui veicolare fussi fnanziari illeciti – evasione, riciclaggio, traffci illegali, terrorismo – sottraendoli allo sguardo delle autorità statunitensi e degli altri paesi intenti a contrastarli. 3. Nel caso specifco della Russia e della guerra in corso, l’aggiramento delle sanzioni avviene soprattutto mediante alcuni stratagemmi 10. Il petrolio è esportato occultandone l’origine. Come? Mescolandolo – in mare aperto o presso porti di paesi compiacenti – con greggio di altra provenienza, da cui un mix noto come miscela lituana o turkmena. Se il petrolio russo presente nel mix è inferiore al 50%, normativamente la miscela non è più di origine russa ed è così sdoganata. L’esclusione dai principali circuiti di pagamento elettronico (Visa, Mastercard, American Express) è invece attenuata attraverso il cosiddetto turismo delle carte di credito. Soggetti russi e bielorussi – persone fsiche e giuridiche – sanzionati aprono conti presso banche di paesi non sanzionati (12 mila al marzo 2022 nel solo Kazakistan) 11: non possono usarne le carte su sistemi e in negozi russi, ma possono pagarci servizi stranieri e abbonamenti online. Lo schema forse più effcace, tuttavia, è l’import parallelo 12: l’importazione di beni leciti – nel senso di ammessi al consumo e non contraffatti – senza il consenso del produttore. Consenso sovente impossibile da ottenere, essendo a oggi oltre mille le aziende – di ogni comparto e dimensione – uffcialmente ritiratesi dal mercato russo 13. La scappatoia è squisitamente giuridica e ineliminabile, perché connaturata all’estrema ramifcazione dei commerci internazionali. Si chiama «decadenza del diritto d’autore» (copyright exhaustion) e prevede che il diritto del fabbricanCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
9. A. HULD, «China Launches Digital Yuan App – All You Need to Know», China Briefng, 22/9/2022. 10. «Top Ten Most Common Russian Sanction Evasion Schemes», Integrity Risk International, 10/8/2022. 11. «Citizens of Russia, Belarus open about 12,000 banks accounts in Kazakhstan since Feb 24», Interfax, 8/4/2022. 12. A. PANDEY, «How Russia is dodging Western sanctions», DW, 18/8/2022. 13. «Over 1,000 Companies Have Curtailed Operations in Russia – But Some Remain», Yale School of Management, 9/1/2023.
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160 PAESI CHE NON APPLICANO LE SANZIONI ALLA FED. RUSSA Principali paesi che aiutano la Fed. Russa ad aggirare i canali d’import ufciali Paesi attraverso cui avvengono altre operazioni di aggiramento
STRUMENTI FINANZIARI ANTI-SANZIONI Relazione diretta tra banche centrali dei paesi che hanno rapporti con la Federazione Russa
STRUMENTI COMMERCIALI ANTI-SANZIONI Export di idrocarburi Mescolanza di petrolio russo con altri greggi provenienti da paesi consenzienti nei porti o in mare aperto (miscela lituana o turkmena)
Sviluppo di circuiti interbancari alternativi (Cips, Cross-Border Interbank Payment in sostituzione dello Swift)
Import parallelo Beni leciti ammessi al consumo nella Fed. Russa, che non hanno più bisogno del consenso del produttore, importati con una triangolazione attraverso Turchia, Bielorussia, Armenia o Kazakistan
Valute digitali (versione digitale delle monete sovrane)
SVIZZERA
BIELORUSSIA UNGHERIA BOSNIA ERZ. SERBIA MOLD.
Mosca
F E D E R A Z I O N E
Settori industriali russi in grave crisi per le sanzioni: - Automobilistico - Estrazione minerali ferrosi - Estrazione del carbone Oblast’ di Kemerovo (cuore del settore carbonifero russo)
R U S S A SAKHALIN II e III Power of Siberia (Progetto)
KRASNOJARSK JAKUTIA
C I N A (maggior benefciario delle importazioni di idrocarburi russi)
TURCHIA
EGITTO
KAZAKISTAN
KIRG.
IRAQ TAG.
IRAN Guerra in Ucraina
PAK. INDIA
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GEORGIA ARMENIA AZERB. SIRIA
Blagoveščensk
IRKUTSK
Centri di produzione di gas orientati verso il mercato asiatico Krasnojarsk Irkutsk Jakutia Sakhalin Giacimenti siberiani di gas
COREA DEL NORD Paese alleato della Fed. Russa SVIZZERA Centrale per il sistema di pagamento internazionale Swift, ma anche connessione economico-fnanziaria per la Fed. Russa
LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
SANZIONI AGGIRATE
LA GUERRA CONTINUA
te al controllo del proprio prodotto decada con la prima vendita dello stesso. Ogni ulteriore cessione a titolo oneroso affranca il rivenditore dal rispettare le volontà del fabbricante sulla destinazione fnale del bene. La ratio è consentire di dirottare merci dove e quando serve nei complessi mercati internazionali; in pratica, questo consente alla Russia – o a ad altri sanzionati – di importare ciò che non potrebbe. Per questo già a maggio 2022 Mosca ha pubblicato una prima lista (poi ampliata) di beni importabili attraverso schemi paralleli che includeva prodotti strategici come mezzi da guerra, ricambi per auto e treni o componentistica elettronica, ma anche elettrodomestici, vestiario, calzature, cosmetici. Tra i marchi loro malgrado (?) coinvolti fgurano molte aziende occidentali arcinote. Con la pubblicazione della lista, il Cremlino autorizzava gli operatori nazionali ad aggirare i canali d’importazione uffciali, spesso mediante triangolazioni con paesi dello spazio ex sovietico (in particolare Kazakistan, Armenia e Bielorussia) e con la Turchia. L’ente statistico russo (Rosstat) calcola che nel 2022 le importazioni parallele abbiano toccato i 16 miliardi di dollari, contro un crollo delle importazioni uffciali che altre stime collocano tra il 50% e il 70% 14. Infne, le società russe sanzionate possono operare ristrutturazioni aziendali volte a occultare i benefciari ultimi dei beni sanzionati. Caso tipico è quello degli oligarchi che liquidano i loro asset trasferendoli ad amministratori fduciari. Dal Chelsea di Abramovi0 in giù (o in su), gli esempi abbondano. Questo stato di cose concorre a spiegare l’impatto sin qui relativamente contenuto delle sanzioni sulla Russia e sulle controparti fortemente esposte come l’Italia 15. Sulla carta l’embargo pregiudica oltre il 44% dell’interscambio italo-russo, per un valore di circa 10 miliardi di euro (rispetto al 2019). Il controvalore dell’export italiano sanzionato è di circa 4 miliardi di euro, a valere soprattutto su meccanica, legno-arredo, tessile-abbigliamento, alimentare e beni di consumo. L’impatto reale nel 2022 non ha però superato il miliardo di euro, mentre per il 2023 dovrebbe attestarsi sotto i 2 miliardi. Al netto degli aggiramenti, infatti, non tutti i 4 miliardi di export sanzionato (dalla Ue o dall’America per via secondaria) sono effettivamente bloccati, in ragione dei criteri di deroga. Situazione simile per l’import sanzionato, pari a circa 6 miliardi di euro (sempre rispetto ai volumi del 2019). L’embargo su greggio e prodotti petroliferi (5 miliardi di euro) ha prodotto effetti marginali (circa 400 milioni) nel 2022, essendo scattato solo il 5 dicembre. Nel 2023 l’ammanco è potenzialmente ben maggiore, ma l’impatto effettivo sull’economia italiana andrà calcolato solo e nella misura in cui i medesimi beni importati da mercati alternativi costeranno di più. Per quanto riguarda greggio e derivati, la voce più importante, price cap europeo e recessione asiatica potrebbero continuare a calmierare i prezzi (il Brent, riferimento europeo, Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
14. Z. DARVAS, C. MARTINS, «Russia’s huge trade surplus is not a sign of economic strength», Bruegel, 8/9/2022. 15. I seguenti dati sono tratti da un rapporto di Awos (A World Of Sanctions) pubblicato in GeoTrade, n. 4, agosto 2022, «La bomba delle sanzioni», una cui sintesi si trova in «Sanzioni alla Russia: sotto restrizione il 44% dell’interscambio con l’Italia», Notizie geopolitiche, 20/12/2022.
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LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
LA LISTA DEI DESIDERI Elenco ufciale russo dei beni ammessi all’import parallelo (e relativi produttori) BENI
PRODUTTORI
Alberi ad alto fusto, piante, bulbi e fori recisi
Indipendentemente da marchio e produttore.
Minerali
Panasonic, Rio Tinto, Iluka, Scania, Volkswagen, Volvo, Land Rover, Renault, Porsche, Ferrari, Toyota, Daf, Bugatti (tra gli altri).
Sostanze inorganiche, composti chimici organici, prodotti farmaceutici
Henkel, EnviroFALK, Edgewell Personal Care, Johnson & Johnson (tra gli altri).
Coloranti, pigmenti, tinture, oli essenziali, profumeria, cosmetici, saponi, detersivi, cere, sostanze proteiche, enzimi, esplosivi, agenti pirotecnici, altri prodotti chimici
L’Oréal, Cacharel, Diesel, Oral-B, Gillette, Old Spice, Fiberfrax, Rema, Mato, Gcp Italiana, Bentonorit, Bonderite (tra gli altri).
Plastiche, gomme e derivati
Fhf, Siemens, Henkel, Thunderfex, Emer, Rema, Michelin, Goodyear, Bridgestone, Bosch, Vickers, Scania, Chevrolet, BMW, Maserati, Wabco, Volvo, Daf (tra gli altri).
Pellame e pellicce
Indipendentemente da marchio e produttore.
Carta
Indipendentemente da marchio e produttore.
Seta, lana, cotone e tessuti derivanti da altre piante, flati artifciali
Dessau, Siemens, Mühlen Sohn, Gore, ZAB Zementanlagenbau, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Vestiario
Indipendentemente da marchio e produttore
Calzature, copricapi, ombrelli
Indipendentemente da marchio e produttore.
Prodotti in pietra, ceramiche, vetro
Eltra, Leko, FLSmidth, Refratechnik Cement, Hermes, Yamaha, Bando, ContiTech, Land Rover, Hummer, Bentley, Maybach, Smart, Man, Peterbilt, Kenworth (tra gli altri).
Metalli scuri, rame, alluminio, piombo, zinco, latta e derivati
Aeroni, Dms, Griggs Steel, Wabtec, Bosch, Siemens, Scania, Mercedes-Benz, Volkswagen, Daf, Mitsubishi, Chevrolet, Lamborghini, Wabco, Aleastur, Asturiana de Aleaciones, Reading Alloys, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Utensili
Wikus, Pryor, Hilti, Knipex, Atlas Copco, Kyocera, Berg, Eltool, Faro, Seco, Cadillac, Gmc, Lincoln, Subaru, Honda, Volkswagen, Bugatti, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Altri beni fatti di metalli non pregiati
Scania, Bosch, Mitsubishi, Land Rover, Hummer, Dodge, Audi, Porsche, Ferrari, Peterbilt, Volvo, Kenworth, Freightliner (tra gli altri).
Reattori nucleari, caldaie, unità meccaniche e attrezzature
Trellix, Mtu, Omvl, Valtek, Cummins, Volvo, Scania, Volkswagen, Ecomotive Solutions, Detroit Diesel, Wilo, Lowara, HiRef, Electrolux, Metabo, Siemens, Tenova, Delonghi, Midrex, Rotofx, Abb, Dessau, Daikin, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Macchinari elettrici, registratori audio/video, videogiochi e loro parti
Abb, Siemens, General Electric, Philips, Nippon, Panasonic, Epcos, Traco Electronic, Euroquartz, Rockwell, Schneider Electric, Renata, Gauss Magneti, Energizer, GoPro, Electrolux, De’ Longhi, Apple, Siemens, Scania, Nokia, Logitech, Bose, Kyocera, Intel, Hp, Daimler, Volkswagen, Lamborghini, BMW, Maybach, Man, Aston Martin, Scania, Volvo, Xbox, PlayStation (Sony), Nintendo (tra gli altri).
Motori ferroviari, materiale rotabile, attrezzature ferroviarie
Dellner, Alfred Heyd, ZF Friedrichshafen, Bontatrans Group, Faiveley Transport Bochum, WelserProfle, Itt Holdings (tra gli altri).
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LA GUERRA CONTINUA
BENI
PRODUTTORI
Veicoli terrestri e loro parti
Hummer, Mercedes-Benz, Crysler, Bentley, Gm, Cadillac, Maserati, Volkswagen, Seat, Skoda, Bugatti, Subaru, Audi, Bosch, Vickers, Knorr-Bremse, Volvo, RollsRoyce, Porsche, Honda, Nissan, Scania, Man, Daf, Infniti, Jaguar (tra gli altri).
Natanti
Indipendentemente da marchio e produttore.
Strumenti ottici, fotografci, di misurazione, medici e chirurgici
Conteg, Hp, Ninebot, Apc, Tripp Lite, Siemens, Schneider Electric, Aic, Powercom, Vertiv, Mercedes-Benz, Jeep, Kenworth, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Orologi e loro parti
Apple, Acer, Samsung, Motorola, Sony, Siemens.
Strumenti musicali
Pirastro, Besson, Bulgheroni, Graph Tech, Höfner, Savarez (tra gli altri).
Armi e sistemi d’arma
Indipendentemente da marchio e produttore.
Mobili, illuminazione, materiali edili
Land Rover, Jeep, Jaguar, Mercedes-Benz, Freightliner, Mack Trucks, Peterbilt (tra gli altri).
Prodotti fniti vari
O.B., Carefree, Lovular, Merries, Moony, Synergetic, più altri indipendentemente da marchio e produttore.
Fonte: ministero dello Sviluppo economico russo
è passato dai 120 dollari di marzo agli 80 attuali). Molti più danni, insomma, ha fatto la via crucis dell’economia cinese infitta dalla politica «zero Covid» di Xi Jinping, al cui svelto disconoscimento molti – in Italia e altrove – guardano per discernere l’immediato futuro dell’economia globale. Il gas rimane fuori dal discorso, in quanto il suo ammanco si deve alla scelta russa di ridurre drasticamente le forniture via tubo. Ciò nulla toglie all’impatto infattivo della mossa, anche se fnora clima mite, stoccaggi pieni e approvvigionamenti alternativi (Nord Africa, Stati Uniti, Qatar) hanno tamponato l’emergenza. Ma il primo è aleatorio, i secondi diffcilmente ripristinabili in egual misura alle soglie dell’inverno 2023-24 stante l’indisponibilità del gas russo, i terzi – specie il gnl d’Oltreoceano – strutturalmente più cari. Resta che le sanzioni non sono la cappa impenetrabile che gli estensori speravano. Assomigliano piuttosto a uno scolapasta, dai fori più o meno grandi (a seconda dei settori considerati) ma comunque impossibili da tappare tutti. Per questo il 2 dicembre scorso la Commissione europea ha sentito l’urgenza di proporre l’armonizzazione delle normative nazionali sulla violazione dei pacchetti sanzionatori, da rendere penalmente rilevanti ed egualmente sanzionabili in tutti gli Stati dell’Unione. Ciò in quanto «è essenziale che le misure restrittive siano pienamente rispettate e che la loro violazione non paghi» 16. Accompagna la proposta una lunga «lista dei reati connessi alla violazione delle sanzioni», catalogo di Arsenio Lupin che bene illustra la sottile arte del contrabbando. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
16. «Ukraine: Commission proposes to criminalise the violation of EU sanctions», Commissione europea, 2/12/2022.
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LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
4. La guerra ucraina stupisce molti: giunta affatto imprevista, si sta protraendo oltre i tardivi e affannati pronostici. Di fronte allo stallo, Mosca sembra attrezzarsi a un confitto lungo: guerra d’attrito, in cui nessun contendente riesce a conseguire una vittoria netta e indisputabile. Al netto di clamorosi collassi del fronte occidentale, torna allora utile interrogarsi sugli effetti a più lungo termine delle sanzioni. Il cui scopo, da preventivo, diviene punitivo: compromettere strutturalmente l’economia della Russia, minandone la potenza ma anche la stabilità e la pace sociale. Volte da monito a castigo, le sanzioni funzionano? Una risposta ragionevole implica andare oltre le evidenze immediate. Gli indicatori uffciali non raccontano davvero la guerra: nel 2022 il pil russo si è contratto del 2%, il bilancio federale è in corposo attivo, alla Borsa di Mosca il rublo si è rafforzato. Ma ammessa la veridicità di questi dati, essi risultano drogati dall’impennata (+33% rispetto al bilancio originario 2022) della spesa militare 17. I 200 miliardi di surplus commerciale dei primi mesi di guerra molto devono al crollo delle importazioni e ai forti rincari di gas e greggio, che da allora sono largamente rientrati e sul cui eventuale ritorno di famma grava la medesima incertezza che attanaglia i paesi europei (i quali, rispetto a Mosca, nutrono ovviamente auspici opposti). Ciò vale anche per una voce importante come i fertilizzanti, la cui produzione fa largo uso di gas e i cui ricavi record rispetto al 2021 (+70%, malgrado un export quantitativamente inferiore del 10%) sono diffcili da replicare con un gas più economico. Depurati del settore oil & gas, i restanti introiti del Cremlino – composti per oltre il 70% dall’Iva e dall’imposta federale sui proftti aziendali – sono calati di circa il 5% nel 2022 (rispetto al 2021), mentre il commercio al dettaglio si è contratto di circa il 10% e i trasporti di oltre il 7% (sempre su base annua). Se il rublo non ha fatto la fne del marco di Weimar, Putin deve ringraziare una Nabiullina impossibilitata a dimettersi che ha adottato misure draconiane. Queste hanno sì evitato il collasso della valuta russa, ma ne hanno distrutto la convertibilità mettendola in uno stato di «coma indotto», come brutalmente sintetizzato dal Wall Street Journal 18. Malgrado l’import parallelo, dati Rosstat alla mano ad accusare il colpo maggiore sono comparti strategici che dipendono da componentistica e tecnologie occidentali. Si tratta delle fliere più grandi, complesse e transnazionali, che rispetto alle altre benefciano meno dell’effetto sostitutivo sull’import (il made in Russia che soppianta i prodotti importati) e fanno più uso di manodopera altamente specializzata. Questi comparti hanno subìto fessioni che sforano l’80% per l’industria automobilistica, il 30% per la produzione di locomotive e vagoni merci, il 60% per le lavatrici, il 50% per autobus e televisioni, il 40% per i telai di veicoli a motore e i frigoriferi, il 35% per i veicoli merci e i motori a combustione interna, il 25% per Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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17. V. MILOV, «Beyond the Headlines: The Real Impact of Western Sanctions on Russia», Wilfried Martens Centre for European Studies, novembre 2022. 18. C. OSTROFF, «How Russia’s Central Bank Engineered the Ruble’s Rebound», The Wall Street Journal, 28/3/2022.
LA GUERRA CONTINUA
PRINCIPALI SANZIONI E RESTRIZIONI CONTRO LA RUSSIA AUSTRALIA
CANADA
UE
GIAPPONE
SVIZZERA
REGNO UNITO
USA
Import di petrolio
Import di gas
Import di carbone Import di oro
Import di metalli (es. ferro, acciaio)
Export di metalli
Export di beni di lusso
Import di beni di lusso
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Export di tecnologia
Export di servizi avanzati (es. consulenze, contabilità)
Restrizioni accesso a fondi Wb e Fmi
Oscuramento media ufciali russi
Revoca clausola nazione più favorita
Acquisti di debito
Sanzioni a banche private e rispettivi correntisti Accesso allo Swift
Annunciato o attuato Fonte: Castellum AI
Non annunciato
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LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
le pompe idrauliche e i trasformatori, il 20% per i cavi in fbra ottica e le macchine escavatrici, il 10% per le batterie al piombo 19. Molte di queste produzioni fanno largo uso di acciaio, pertanto il comparto siderurgico soffre: malgrado l’incremento della produzione bellica, nel 2022 la domanda di acciaio russo è calata del 6% circa (rispetto al 2021) e nel 2023 le stime variano da +4% a -7% 20 (sempre rispetto ai volumi prebellici), stanti le incertezze legate alla concorrenza asiatica – dove il rallentamento dell’edilizia cinese contribuisce a saturare il mercato – e alla sopravvalutazione del rublo. Per quanto controintuitivo, il colpo maggiore l’ha però accusato l’industria estrattiva. Specie quella, vitale, degli idrocarburi. Le esportazioni di gas sono diminuite di oltre il 45% su base annua 21 e la compromissione del gasdotto Nord Stream rende impossibile ripristinare a breve i fussi verso l’Europa (ammesso che la Russia lo voglia e l’Europa, ma soprattutto l’America, lo accettino). Vero è che la domanda asiatica – specie cinese – potrebbe assorbire il mancato import europeo. Ma l’infrastruttura dalla Siberia occidentale – sede di gran parte dei giacimenti – in direzione sud-est, alias Power of Siberia, è appena abbozzata e richiede anni (oltre a miliardi di dollari) per essere completata. Quanto ai prezzi, se il peloso soccorso indiano e cinese degli ultimi mesi in veste di acquisti energetici sottocosto dalla Russia è indicativo, diffcilmente Mosca spunterà dai compratori asiatici gli stessi ricavi garantiti dai ricchi acquirenti europei. Situazione simile per il petrolio, ora sanzionato da Usa e Ue, mentre il carbone russo (sanzionato dall’agosto 2022) ha meno corso sui mercati del Far East, saturi di coke. Risultato: meno 7% di esportazioni 22. Nelle moderne economie industriali la divisione tra manifatturiero e agricoltura non è netta, perché le attività agricole sono altamente meccanizzate e sempre più automatizzate. Il settore agricolo russo se la passa meglio dell’industria in senso stretto, grazie alla sostituzione delle importazioni – resa possibile anche dalla vendita illegale delle derrate ucraine sottratte a Kiev, che libera volumi di produzione russa prima destinati all’export rendendoli disponibili per il consumo interno – e da un abbondante raccolto di frumento. Ma gli agricoltori russi dipendono in media per il 35% dalle sementi geneticamente modifcate occidentali, dipendenza che sale al 20% per l’orzo, al 45% per la soia, al 70% circa per patate e girasoli e al 97% per la barbabietola da zucchero 23. Il loro venir meno minaccia la resa dei terreni, al pari della penuria di ricambi che rischia di pregiudicare l’effcienza del Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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19. V. MILOV, op. cit.; «Impact of sanctions on the Russian economy», Consiglio europeo, 19/12/2022; S. ONGENA, A. PESTOVA, M. MAMONOV, «The price of war: Macroeconomic effects of the 2022 sanctions on Russia», Centre for Economic Policy Research (Cepr), 15/4/2022; H. SIMOLA, «War and sanctions: Effects on the Russian economy», Centre for Economic Policy Research (Cepr), 15/12/2022. 20. «Estimated steel production in Russia from January 2021 to November 2022», Statista, 9/1/2023; «Russian steel output expected to grow 4% in 2023 after falling 5.5% in 2022 - strategy of the steel industry», Interfax, 9/1/2023. 21. «Cumulative gas exports by Gazprom to the far abroad from January to December 2022», Statista, 3/1/2023. 22. G. HOWARD, «Russian coal exports down, tonne-miles up», Seatrade Maritime News, 20/10/2022. 23. M. PLOEGMAKERS, «Russia moves to end import dependence on seeds», All About Feed, 15/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA
parco macchine agricole, settore dominato dai grandi produttori americani, giapponesi ed europei. 5. A tutto questo fa riscontro la crescita, per sostituzione delle importazioni, della produzione di farmaci (+12%), vestiario (+6), bibite e tabacco (+4%), cibo e carta (+2%) 24. Magra consolazione, anche e soprattutto dal punto di vista occupazionale. Si è parlato molto, e giustamente, dell’impatto sociale della mobilitazione «parziale» ordinata da Vladimir Putin lo scorso ottobre. Diverso, ma non trascurabile, l’impatto della disoccupazione creata dal regime sanzionatorio, di cui si parla assai meno anche perché, almeno sinora, è stato in gran parte mascherato. I settori più colpiti dalle sanzioni sono formidabili serbatoi di lavoro. L’industria automobilistica russa e il suo indotto generano 3,5 milioni di impieghi, quella dei minerali ferrosi circa 2,4 milioni (sempre indotto incluso), quella del carbone 100 mila nella sola oblast’ di Kemerovo (cuore del settore), gli altri comparti sopra elencati centinaia di migliaia (200 mila la sola produzione di veicoli per il trasporto merci). A dicembre la disoccupazione uffciale russa era al 3,9%, ma a fne giugno (ultimi dati disponibili) circa il 13% degli impiegati nelle piccole e medie imprese – oltre 4 milioni di persone – era soggetto a part time, riduzioni di orario o aspettativa non retribuita (quest’ultima riguardava quasi 3 milioni di individui) 25: tre forme di occultamento della disoccupazione. Il settore più colpito era quello manifatturiero, che da solo assorbiva un quarto della disoccupazione occulta. Obiezione: la leva obbligatoria su vasta scala aumenta perversamente l’occupazione, perché porta in fabbrica e nei campi nuove braccia in sostituzione di quelle al fronte. Contro-obiezione: sì, ma solo se alle braccia in questione si richiede scarso coordinamento con il cervello. Nel XXI secolo industria e servizi avanzati richiedono fgure altamente specializzate, non facili da formare e sostituire in corsa. Specie se, come nel caso russo, molte di queste fgure sono espatriate per sfuggire alla leva (la minaccia di privarli della cittadinanza non suona invito a rientrare) o sono state reclutate. Perché proprio loro? Perché l’esercito russo, disabituato alla mobilitazione di massa e dunque privo delle relative strutture, si è appoggiato alle grandi aziende, i cui uffci del personale hanno funto da centri di reclutamento. L’effetto è certifcato dal ministero dell’Economia russo, secondo cui la mobilitazione ha fatto diminuire la forza lavoro nazionale di 600 mila unità 26, tra coscritti e fuggiti. Restando ai cervelli, in molti comparti quelli elettronici sono ormai non meno importanti di quelli umani. Molti beni prodotti dall’industria russa, dalle auto agli elettrodomestici passando per le armi, incorporano elettronica d’importazione. Si tratta quasi sempre di processori non di punta, che tuttavia la Russia è quasi del Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
24. V. MILOV, op. cit. 25. L. GOSS, «Four million Russians to lose their jobs due to Western sanctions», City A.M., 11/8/2022; K. SOKOLOVA, «As Western companies disappear from Russia, so do jobs», DW, 5/5/2022; «Russian workers face new reality as Ukraine war sanctions sap job prospects», Reuters, 14/4/2022; V. MILOV, op. cit.; «Four worrying signs for the Russian economy», The Bell, 20/12/2022. 26. «The “partial mobilisation” of Russian SMEs», Riddle, 11/10/2022.
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LE SANZIONI TRA MASCHERA E VOLTO
tutto incapace di produrre da sé. Quel poco di produzione nazionale è stata verosimilmente compromessa 27 visto che componentistica, materie prime (di cui la Russia dispone, ma che vanno raffnate) e macchinari sono di provenienza statunitense, europea e asiatica. Mosca non ha risparmiato gli sforzi per tenere in piedi canali d’importazione parallela della microelettronica. Tra marzo e ottobre il paese ha importato computer e relativa componentistica per 2,6 miliardi di dollari, quasi 800 milioni dei quali di produttori occidentali 28: soprattutto le americane Intel, Amd (Advanced Micro Devices), Texas Instruments e Analog, oltre alla tedesca Infneon, i cui componenti sono sistematicamente rinvenuti nei resti delle armi più sofsticate usate dai russi in Ucraina. A garantire questo fusso è una galassia di importatori oscuri operante da Cina (Hong Kong), Turchia e altri paesi non sanzionanti. Ma in alcuni casi anche dalla Ue, come appurato in relazione a un intermediario che agiva da Tallinn (Estonia). Eppure, malgrado gli sforzi la Russia accusa scarsità di schede video, memorie, processori e componentistica cruciale per le telecomunicazioni, tanto che nel 2022 il mercato dei computer usati è esploso 29. A risultare penalizzate non sono solo l’industria bellica, quella dell’auto e la miriade di altre fliere civili che incorporano microelettronica, ma anche le infrastrutture nazionali: dalle reti di telecomunicazioni (la cui manutenzione diviene più diffcile e onerosa) al settore bancario, che banalmente fatica a manutenere e aggiornare i bancomat. La penuria non riguarda infatti solo l’hardware, ma anche i software proprietari di norma associati ai sistemi informatici complessi. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. Mosca ha smesso di fornire dati dettagliati sul suo commercio internazionale, ma le dogane russe stimano che l’importazione uffciale di beni non rimpiazzabili – spesso ad alto contenuto tecnologico – sia scemata di oltre il 10%: abbastanza per compromettere interi comparti manifatturieri e dei servizi. Di questo ammanco, si stima che le importazioni parallele riescano a compensare non più del 10-20% 30. Il resto è coperto con surrogati di minor qualità, soprattutto cinesi, o è mancante. In un caso e nell’altro, qualità e quantità della produzione – in una parola: la produttività – ne risentono. L’import parallelo, peraltro, non è pienamente assimilabile a quello uffciale. Procurarsi prodotti «di marca» per vie traverse è complesso, aleatorio e normalmente più costoso, il che alimenta l’infazione. Questa nel 2022 si è attestata uffcialmente appena sotto un non trascurabile 12% 31, ma di norma Rosstat tende a sotto-
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27. S. BRYEN, «Russia’s long-time chips failure coming home to roost», Asia Times, 25/8/2022. 28. S. STECKLOW, D. GAUTHIER-VILLARS, M. TAMMAN, «The supply chain that keeps tech fowing to Russia», Reuters, 13/12/2022. 29. I. KOSHELEVA, «The secondary market of electronics is waiting for a boom in Russia», Andro News, 11/4/2022; A. NARDELLI, B. BASCHUK. M. CHAMPION, «Putin Stirs Worry That Russia Is Stripping Home-Appliance Imports for Arms», Time, 29/10/2022; «Prices and demand for used electronics have risen in Russia», GizChina, 18/3/2022. 30. V. MILOV, op. cit. 31. «Russian infation at 0.24% in frst nine days of 2023», Reuters, 11/1/2022.
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stimare gli aumenti dei prodotti di base e a sottorappresentare il cibo nel suo paniere statistico, pertanto è probabile che il dato reale sia ben maggiore. Riprova ne è che malgrado il miracoloso deprezzamento del dollaro sul rublo alla Borsa di Mosca, i prezzi al consumo – anche dei beni importati – non sono calati in misura proporzionale. Segno che il valore reale della divisa russa è sostanzialmente minore. Dove invece il rublo artifcialmente forte fa la differenza, in negativo, è nel commercio estero: nel 2022 le esportazioni di prodotti non energetici sono calate di circa il 17% in volume 32, sebbene i principali acquirenti – Cina, Bielorussia, Kazakistan, Turchia – non applichino sanzioni. Resta la domanda delle domande: quanti soldi ha il governo russo? Risposta: pochi per compensare il deterioramento strutturale della sua posizione economico-fnanziaria; abbastanza per continuare la guerra in una logica (lucidamente folle) del tutto per tutto. La spia è l’ammontare del Fondo sovrano russo, i cui danari – frutto pressoché esclusivo dei proventi di gas e petrolio accumulati in passato – sono conservati sui conti del ministero delle Finanze presso la Banca centrale. A inizio ottobre 2022 il fondo totalizzava quasi 11 mila miliardi di rubli, pari a 166 miliardi di dollari al cambio reale, che è di circa 15 centesimi di dollaro per rublo 33. Di questi, tuttavia, «solo» 113 miliardi (di dollari) sono effettiva liquidità, il resto essendo investito in azioni, obbligazioni e altri asset fnanziari di grandi aziende russe, diffcilmente disinvestibili senza perdite secche sul valore nominale e senza aggravare la posizione degli emettitori. Al ritmo attuale di spesa – per esigenze belliche e per compensare i danni delle sanzioni – è plausibile che la liquidità del fondo si esaurisca in 18-24 mesi, ma se il confitto si intensifca (specie con il ritorno della bella stagione) e le condizioni socioeconomiche interne si aggravano, il depauperamento può accelerare. Al che Mosca può scegliere: disinvestire la porzione azionario-obbligazionaria, emettere debito, stampare moneta. O un mix delle tre opzioni. In ogni caso, con notevoli controindicazioni. Rispettivamente: aggravamento della crisi industriale; drastico aumento del debito (il premio di rischio sui titoli russi sarebbe elevato, ammesso e non concesso che la Cina, unico paese in grado di acquistarne grandi quantità, si presti all’esercizio), avvitamento dell’infazione. Vista dall’Ovest, ce n’è abbastanza per considerare probabile se non imminente il collasso del fronte interno russo: rivolte di piazza e cambio di regime, che visti i precedenti storici (1917, 1991) implicherebbe forse il collasso dello Stato russo. Tuttavia, se la Russia è Occidente – i russi stessi si arrovellano sul tema – lo è a modo suo. In totale assenza di opposizione, di spazi di dissenso per una cittadinanza critica e organizzata, di élite dirigenti estranee al sistema putiniano, e stante la popolarità di un confitto ritenuto giusto dai più perché venduto e accettato come guerra difensiva contro un «Occidente collettivo» sprezzante e minaccioso, non stupirebbe se il Cremlino proseguisse imperterrito per la sua strada. Una strada Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
32. «Russia’s non-energy exports in 10 months down 1.5% in value terms – Manturov», Interfax, 26/12/2022. 33. Quotazione al 15/1/2022 tratta da bloomberg.com
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che, se percorsa fno in fondo, promette di sacrifcare per decenni l’economia russa sull’altare della guerra. A Washington non sono in molti, da un lato all’altro dello spettro politico, a strapparsi le vesti per questo. Nella misura in cui quella in corso è ormai una conclamata guerra tra Nato e Russia, l’America appare proiettata verso un redde rationem che contempla come fne strategico il ridimensionamento strutturale della potenza russa. Costi quel che costi. Nell’intervista alla Cnn citata in apertura, un’altra voce dell’amministrazione offriva una visione diversa, più realista e meno naïve, delle sanzioni: «Volevamo degradare le capacità economiche e industriali russe. Pertanto, fn dall’inizio abbiamo concepito questo esercizio come uno sforzo a lungo termine»34. Parafrasando Keynes, nel lungo periodo tuttavia potremmo essere tutti morti.
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34. N. BERTRAND, K.B. LILLIS, op. cit.
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DIETER L’invasione russa ha rotto il tabù del pacifismo tedesco. Media, politica e pubblico sostengono a spada tratta Kiev, emblema della nobile causa. La parabola dei Verdi. I dolori di Scholz. Le eccezioni Linke e AfD. Il monito di Schmidt sui rischi dell’idealismo giace inascoltato. di Heribert
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1. A GUERRA D’UCRAINA HA PRODOTTO sconvolgimenti in molti paesi europei. Svezia e Finlandia hanno chiesto di entrare nella Nato, scelta a lungo ritenuta non idonea agli interessi di sicurezza dei due paesi. Ma forse il cambiamento più signifcativo lo stiamo osservando in Germania, la cui politica estera è stata plasmata dal rifuto della violenza e della forza militare sin dal 1945 e ancor più dal crollo dell’Unione Sovietica. L’invasione russa dell’Ucraina ha provocato una svolta repentina: tutt’a un tratto, i pacifsti del giorno prima si sono ritrovati a discutere nel dettaglio le caratteristiche di questa o quell’arma e la relativa utilità agli ucraini. In questi mesi di guerra la Germania è stata pervasa da un’euforia guglielmina per il militarismo che ricorda il clima del 1914. Vi sono ovviamente numerose ragioni per condannare l’aggressione russa. Ma è sbagliato concludere, come fatto dal ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, che il 24 febbraio 2022 «ci siamo svegliati in un mondo diverso» 1. I confitti armati sono stati a lungo assenti dal teatro europeo, ma agli abitanti del Medio Oriente, ad esempio, il mondo non è mai parso pacifco. La retorica della nuova èra serve a giustifcare la rimilitarizzazione della politica estera tedesca. Lo shock del 24 febbraio si deve in gran parte alla ferma convinzione di molti tedeschi che il mondo fosse diventato post-nazionale e cosmopolita. L’approccio normativo era pericolosamente visto come specchio fedele delle relazioni internazionali, non come il mero assunto programmatico che in realtà era. Da un giorno all’altro, il dibattito pubblico tedesco è stato monopolizzato dai fautori delle soluzioni militari. Ironicamente, le posizioni si sono invertite. Molti verdi, che non hanno mai indossato una divisa, hanno iniziato a sostenere con entusiasmo l’invio di armi all’Ucraina, mentre gli ex generali consigliano un approccio Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. J. SÜSSMANN, «Wir alle sind heute Morgen fassungslos, aber wir sind nicht hilfos», Die Zeit, 24/2/2022.
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più cauto e sottolineano i rischi dell’escalation. Erich Vad, a lungo consigliere militare di Angela Merkel, è rapidamente assurto a campione di un approccio prudente. Nel gennaio 2023 ha ammonito: i carri armati consentono a Kiev di attaccare la Russia, che resta la maggiore potenza nucleare del pianeta 2. Ma cos’è ad aver causato questo rapido mutamento del clima politico e mediatico tedesco? La società tedesca è cambiata radicalmente nell’ultimo secolo? L’attuale politica estera di Berlino rifette una lettura romantica, irrealistica del mondo che enfatizza gli obiettivi morali al punto da trascurare tutti gli altri? Molti tedeschi considerano inopportuno, se non inaccettabile, fnanche sollevare il quesito. Per molti la Germania di oggi è affatto diversa da quella del passato: società multiculturale dove i diritti di qualsiasi minoranza – per quanto piccola – sono tutelati, paese che sostiene con passione l’integrazione europea e magnifca i benefci del post-nazionalismo. Eppure, questo stesso paese non si fa scrupolo di distinguere i richiedenti asilo in base all’origine etnica, mentre sul fronte della politica energetica non ritiene utile consultare i partner europei, fguriamoci altri. Nella società tedesca tali questioni non sono granché discusse. 2. Fin dall’inizio della guerra in Germania c’è stato notevole sostegno ai rifugiati ucraini, che sono stati trattati in modo diverso dagli altri: hanno il medesimo accesso dei tedeschi allo Stato sociale, possono lavorare o benefciare di generosi sussidi. I richiedenti asilo di altri paesi, come la Siria, hanno molti meno diritti. Diffcile trovare una formula che renda presentabile questa politica: semplicemente, ucraini e siriani sono di etnie diverse e i primi sono trattati meglio dei secondi, che vengono discriminati perché non appartengono a un paese europeo. La società tedesca preferisce gli ucraini agli arabi: molti tedeschi rigetterebbero con decisione tale assunto, ma dal febbraio 2022 è il proflo etnico a guidare la politica tedesca dell’accoglienza. Ciò è importante in quanto altrove i politici tedeschi insistono che non debbano sussistere discriminazioni di sorta. L’eccezionale sostegno agli ucraini ha diverse ragioni. Molti tedeschi li ritengono ovviamente le vittime innocenti dell’aggressione di Mosca, altri nutrono una profonda antipatia per i russi e il loro presidente, ma l’elemento etnico ha un suo non indifferente peso. La Germania ha poi accantonato il suo multilateralismo al momento di perseguire politiche economiche senza particolare riguardo per le conseguenze su altri paesi. In particolare, il ministro dell’Economia Robert Habeck (Verdi) non ha preso in minima considerazione le ricadute delle sue politiche sui paesi europei e non. Nell’estate 2022 la Germania ha messo le mani su tutto il gas naturale liquefatto (gnl) che poteva e Stati estremamente poveri come il Bangladesh – che non ha nulla a che spartire con questa guerra e che dipende dal gnl per la propria generazione elettrica – si sono dovuti arrendere al superiore potere di spesa tedesco. Dacca ha dovuto fronteggiare un’acuta crisi energetica che ha obbligato la sua forente industria tessile a un blocco temporaneo. Tanti saluti al sacrosanto dovere, Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. E. VAD, «Was sind die Kriegsziele?», Emma, 12/1/2023.
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più volte ribadito da Berlino in passato, di considerare gli effetti delle politiche nazionali sui paesi terzi, specie se vulnerabili. Il dibattito tedesco sull’Ucraina non esclude posizioni contrarie all’uso massiccio della forza militare, ma queste trovano poco spazio sui media principali (stampa, tv, internet) dove predomina il militarismo. Vad, il generale che propugna la de-escalation, sostiene che i media non stiano facendo un buon lavoro perché esibiscono un’eccessiva uniformità di opinioni. Il governo non dice certo ai giornalisti cosa pubblicare o dire, ma il livello di autocensura è elevato 3: molti giornalisti hanno scelto di schierarsi e le voci fuori dal coro sono rare. Situazione simile si riscontra nel mondo universitario, dove si assiste a strani paragoni come la frequente analogia tra l’invasione dell’Ucraina a opera di Putin e l’attacco alla Russia voluto da Hitler. Alcuni, come l’ex leader dei Verdi Ralf Fücks, bollano quella ucraina come «guerra di annientamento» 4. Il richiamo al nazismo serve a schierare l’opinione pubblica con l’Ucraina, facendo leva sulla responsabilità storica dei tedeschi e sul loro conseguente dovere di evitare un altro confitto prolungato in Europa. Ma è un paragone sensato? Secondo lo storico Ulrich Herbert, assolutamente no. Nella seconda guerra mondiale le forze naziste uccisero milioni di ebrei e slavi in Europa orientale; in Ucraina vi sono state fnora migliaia di vittime, ma la situazione è diversa. Herbert afferma senza mezzi termini che il paragone serve a far sentire i tedeschi moralmente responsabili per le sorti dell’Ucraina. I fautori dell’analogia storica affermano inoltre che, rifutando di impegnarsi a fondo, i politici tedeschi rischiano di causare la caduta di Kiev e di mettere a repentaglio l’intera Europa. Di nuovo Herbert rifuta la tesi, vedendovi una grossolana esagerazione delle capacità politico-militari della Germania 5. Il sociologo Hartmut Rosa ha criticato gli appelli «da salotto» all’escalation, denunciando la sorprendente assenza nel dibattito tedesco delle vittime di questo confitto. Ha anche evidenziato che le ultime guerre combattute in nome della giustizia e di un mondo migliore (Afghanistan, Iraq, Libia) sono state dei completi fallimenti 6. Studiosi e militari hanno criticato la mancanza di una strategia tedesca, evidenziando che crescenti forniture di armi in assenza di obiettivi defniti sono puro militarismo 7. Per lo studioso Wolfgang Merkel, quanti in Germania sostengono che i negoziati debbano iniziare solo quando tutti i territori occupati dalla Russia siano stati riconquistati da Kiev dovrebbero specifcare quante vite sacrifcare allo scopo 8. Si discute molto poco del fatto che la Germania attaccò la Russia zarista nella prima guerra mondiale e l’Urss nella seconda e che pertanto dovrebbe ponderare bene ciò che fa oggi contro Mosca. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Ibidem. 4. R. FÜCKS, «Krieg in der Ukraine: Das Ungeheuerliche nicht hinnehmen», Ukraineverstehen, 5/1/2023. 5. S. REINECKE, «Mit Hitler hat das nichts zu tun», Die Tageszeitung, 1/7/2022. 6. H. ROSA, «Ukrainekrieg: Haltet ein!», Der Spiegel, 23/7/2022. 7. E. VAD, op. cit. 8. W. MERKEL, «Ohne Bemühungen um eine Verhandlungslösung wird der Ukrainekrieg weiter eskalie-ren», Der Tagesspiegel, 6/7/2022.
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3. Il panorama politico tedesco è cambiato molto dallo scoppio della guerra. Una maggioranza al parlamento federale vede con favore un più ampio coinvolgimento del paese nel confitto: la coalizione di governo formata da socialdemocratici (SPD), Verdi e Liberal-democratici va incrementando il ruolo di Berlino in questa guerra. L’eccezione è costituita dal cancelliere Olaf Scholz, che insieme ad alcuni esponenti della SPD è riluttante ad accrescere il già considerevole impegno tedesco. La Germania, infatti, fornisce da tempo armi e aiuti fnanziari, oltre a ospitare numerosi rifugiati ucraini. L’approvazione, nel gennaio 2023, dell’invio di carri armati Leopard II è un ulteriore, notevole salto: si tratta come noto di veicoli pesanti equipaggiati con armi di grosso calibro a notevole gittata. Poco dopo il via libera della coalizione alla fornitura, l’esponente dei Verdi Katrin Göring-Eckart ha twittato #Leopard’s freed (il leopardo è libero), aggiungendo gaia: «Ora speriamo di poter aiutare rapidamente l’Ucraina nella sua lotta contro l’attacco russo, per la libertà sua e dell’Europa» 9. Il Partito democratico-cristiano (CDU), principale forza d’opposizione, sostiene appieno il crescente ruolo della Germania e ha più volte chiesto che il paese faccia di più. In parlamento siedono invece due partiti contrari a sostenere maggiormente Kiev: la Sinistra (Linke) e Alternativa per la Germania (AfD). Sahra Wagenknecht, esponente del primo, è tra le voci più critiche e ha come bersaglio prediletto i Verdi. Nell’ottobre 2022 li ha defniti «il partito più pericoloso al parlamento tedesco» in quanto ipocriti, avulsi dalla realtà, disonesti e incompetenti 10. Parole dure, ma è pur vero che i Verdi hanno abbandonato un estremo per abbracciarne un altro: da acritici oppositori di qualsiasi impegno militare della Germania a campioni della spesa militare e del ricorso allo strumento bellico, in barba a qualsiasi considerazione democratica e agli orientamenti dell’opinione pubblica. Nel settembre 2022 il ministro degli Esteri Baerbock ha affermato che il governo tedesco continuerà a sostenere l’Ucraina «a prescindere da ciò che dicano i miei elettori» 11. Non stupisce: Baerbock è l’incarnazione di un cosmopolitismo astratto che prescinde in parte o in tutto dagli orientamenti delle singole società. Il contrasto tra i Verdi delle origini e quelli attuali è sorprendente. Sorti come forza «ecologista, sociale, non violenta ed espressione della democrazia diretta», ebbero il primo ripensamento nel 1999 quando l’allora ministro degli Esteri Joseph Fischer sostenne la partecipazione della Germania alla missione Nato in Kosovo. Il 13 maggio di quell’anno, un infuocato congresso di partito ratifcò (con 444 voti favorevoli contro 318) la decisione. Oggi polemiche e crisi di coscienza sono acqua passata: secondo un recente sondaggio, quattro elettori dei Verdi su cinque sostengono la consegna all’Ucraina dei carri armati di fabbricazione tedesca. Le percentuali relative agli elettorati di SPD, Liberal-democratici e CDU sono minori, Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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9. Tweet del 24/1/2023. 10. «Wagenknecht nennt Grüne “gefährlichste Partei” – Scharfe Kritik von Parteikollegen», Die Welt, 22/10/2022. 11. «Baerbock nach Ukraine-Versprechen heftig in der Kritik – Ministerium sieht Video “sinnentstellend geschnitten”», Merkur, 3/9/2022.
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ma comunque superiori al 60%. L’unica eccezione è AfD, dove i favorevoli alle forniture di armi pesanti a Kiev non superano il 20% 12. Nel bacino elettorale dei Verdi c’è persino una maggioranza relativa (46%) favorevole all’utilizzo di tanks tedeschi per riconquistare la Crimea (soluzione rigettata dal 40%). Perché degli ex pacifsti sono così inclini a (far) combattere (gli altri)? Una possibile spiegazione sta nell’entusiasmo con cui storicamente i Verdi perseguono i loro obiettivi politici: si tratti di immigrazione, lotta al cambiamento climatico o tutela delle minoranze, le posizioni del partito sono sempre state massimaliste. «Ultima generazione», gruppo radicale che chiede il rapido cambiamento delle politiche energetiche anche a costo di una signifcativa deindustrializzazione della Germania, prende ispirazione dai politici verdi e dai loro scenari apocalittici. Il confitto in Ucraina ha scioccato molta parte della società tedesca. A oltre trent’anni dalla fne della guerra fredda, i tedeschi credevano sinceramente che il mondo fosse entrato in una fase di non violenza e cooperazione armoniosa. Se la si guarda da questa prospettiva, l’aggressione russa è stata un fulmine a ciel sereno. Per la maggioranza di non occidentali che popola questo mondo, la realtà è diversa: in molti paesi africani, asiatici e latinoamericani l’insistenza dell’Occidente sull’adesione a un «ordine internazionale basato sul diritto» suona ingenua o falsa, comunque autoreferenziale. Nella loro ottica l’aggressione da parte dell’Occidente è la norma, non l’eccezione. In India, ad esempio, il governo di Delhi continua a diffdare degli appelli ad applicare norme e standard occidentali. Questa incomprensione tra i paesi dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) e molte economie in via di sviluppo è in parte alimentata proprio dal tipo di politiche che i governanti tedeschi amano promuovere. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. Baerbock e i Verdi seguono ciò che defniscono un approccio alla politica estera basato sui valori. Rispetto all’approccio basato sugli interessi, quello valoriale mira a migliorare la condizione degli altri popoli in base a due capisaldi: esiste un insieme di valori che è – o dovrebbe essere – condiviso dall’intera umanità; la politica estera e quella economica sono strumenti utili alla diffusione dei suddetti valori. Il fne ultimo è la creazione di una società globale con valori uguali e condivisi, la cui pace è salvaguardata da un elaborato sistema legale 13. I sostenitori di tale approccio si sentono investiti di una missione, una crociata volta ad avverarne la visione. I margini di dissenso sono esigui: dal momento che i valori sono universali, il loro rigetto – anche parziale – è intollerabile. Per i realisti il quadro è diverso. Essi non enfatizzano la posizione normativa, bensì l’incessante lotta per il potere e l’infuenza a livello internazionale. In tale ottica c’è poco spazio per il messianismo: Henry Kissinger, teorico e pratico della scuola realista, ha sempre criticato le battaglie ideologiche dell’Occidente contro 12. «Die Stimmung kippt: Mehrheit für Genehmigung von Panzerlieferungen – besonders in einer Partei», Der Stern, 20/1/2023. 13. R. CZADA, «Realismus im Aufwind? Außen- und Sicherheitspolitik in der “Zeitenwende”», Leviathan, vol. 50, n. 2, pp. 216-238.
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la Russia e ha sostenuto che per Mosca l’Ucraina non sarà mai un paese come gli altri 14. Il realismo distingue tra l’esportazione della democrazia liberale e la sua difesa in patria: giudica dannosa la prima e necessaria la seconda 15. In Germania i realisti si contano ormai sulle dita di una mano. La politica estera è guidata da considerazioni normative: il mondo non è valutato con sobrietà per ciò che è, ma enfaticamente per come dovrebbe essere. Nella guerra in corso la posizione di Baerbock è normativa, pertanto gli appelli a una pace negoziata sono regolarmente ignorati. La diplomazia non ha grande corso nell’odierna politica estera tedesca. Il giurista Reinhard Merkel ha suscitato polemiche quando a fne dicembre 2022 ha criticato il rifuto dei negoziati, affermando che se anche l’Ucraina vincesse la guerra (non impossibile, visto l’ingente aiuto occidentale), l’enorme distruzione infittale ne renderebbe vana la vittoria 16. Nessun politico tedesco di spicco, tuttavia, condivide tale posizione. Il presidente Frank-Walter Steinmeier e i ministri, compreso il nuovo titolare della Difesa Boris Pistorius, preferiscono ispezionare i campi di battaglia ucraini e non avanzano alcuna proposta di pace. A lungo i tedeschi hanno rifutato il coinvolgimento della Germania in un confitto militare, ma l’invasione russa dell’Ucraina ha rotto questo tabù. Oggi la Germania sta tornando a posizioni militaristiche, forgiando nuovamente i suoi vomeri in spade 17. Fatte salve l’estrema sinistra e l’estrema destra, l’intero spettro politico – inclusa tutta la coalizione di governo e il maggior partito d’opposizione – sta contribuendo alla guerra con armi, denaro e sostegno morale. Il paese ha inoltre abbandonato l’approccio post-nazionale in favore di una postura «Germany frst», come evidenzia la politica energetica. Queste circostanze spingono a chiedersi quanto drastica e strutturale, in prospettiva, sia la svolta tedesca. Si dice che l’ex cancelliere Helmut Schmidt abbia sempre considerato al Germania una «nazione a rischio» 18. Il pericolo cui Schmidt alludeva è la tendenza del paese a concepire la politica in una dimensione prettamente morale. Ma l’assenza dell’elemento realista, inclusa un’analisi dei rischi connessi al coinvolgimento in cause apparentemente giustifcate, è rischioso. Troppo spesso Berlino ha combattuto «guerre giuste». Un’importante lezione della storia è che anche le guerre più giustifcate portano spesso benefci molto inferiori ai costi. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
(traduzione di Fabrizio Maronta)
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H. KISSINGER, «The right outcome for Ukraine», The Washington Post, 6/3/2014. R. CZADA, op. cit. R. MERKEL, «Verhandeln heißt nicht kapitulieren», Frankfurter Allgemeine Zeitung, 28/12/2022. «A risk-averse Germany enters an age of confrontation», The Economist, 19/3/2022. E. VAD, op. cit.
LA GUERRA CONTINUA
LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO
ARDISSINO La guerra d’Ucraina palesa l’irrealtà di uno storico obiettivo di Londra: essere il tutore dell’America. Il caotico dopo-Brexit consuma la classe dirigente, costretta a schiacciarsi sugli Usa e a cercare una tregua con l’Ue. L’asse con la Polonia è monco. di Elettra
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A GUERRA IN UCRAINA È SCOPPIATA
nel bel mezzo di una profonda crisi di identità britannica. Dal 2016, Londra ha tentato ripetutamente di riorientare la propria politica estera e di darsi un nuovo ruolo globale nel dopo-Brexit. Ma, consumata da varie crisi interne, non ci è mai riuscita. Ora, a quasi un anno dall’inizio del confitto, il Regno Unito ha innestato una sorta di «pilota automatico strategico». L’apparato statale è guidato a grandi linee dagli interessi statunitensi: supporto fnanziario e militare all’Ucraina e diffdenza crescente verso la Cina. Così, Londra si sta trovando incapace di defnire (e quindi di perseguire) interessi propri in Europa. E anche nei confronti di Pechino la posizione britannica rimane incerta. Di conseguenza, il paese sta perdendo rapidamente il suo storico posto tra i protagonisti della geopolitica mondiale, ritirandosi sempre più nel ruolo di comparsa, rischiando alla lunga l’irrilevanza. È vero che i britannici sono tuttora i principali soci di minoranza dell’impero americano, alleati di fducia degli Stati Uniti. È anche vero che il Regno Unito non è stato l’unico paese europeo ad aver dovuto circoscrivere i propri margini di manovra per allinearsi alle direttive di Washington dopo lo scoppio della guerra – si pensi alla Germania. Tuttavia, lo smarrimento strategico in cui si trova Londra è per certi versi più profondo. Facciamo tre constatazioni. Primo, quest’anno i britannici paiono più lontani che mai dal ruolo che sognano da decenni, ossia quello di tutori degli americani. Secondo, i tre primi ministri succedutisi a Downing Street nel 2022 hanno tre concezioni del ruolo del paese nel mondo molto diverse tra loro. Terzo, il Regno Unito non è stato in grado di sviluppare un progetto di cooperazione con la Polonia, malgrado gli interessi di entrambi – soprattutto per quanto riguarda Russia, Europa e Germania – sembrino combaciare quasi perfettamente. La paralisi strategica britannica non si risolverà nel 2023. La classe dirigente è consumata da una miriade di crisi domestiche, tra economia in tracollo e separaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA PARALISI STRATEGICA DEL REGNO UNITO
tismi che bollono a fuoco lento in Scozia e in Irlanda del Nord. L’attenzione del primo ministro Rishi Sunak è volta rigorosamente all’interno. La situazione si prolungherà probabilmente ben oltre le prossime elezioni parlamentari, in programma per il 2024.
Più studente che tutore Uno degli indizi principali che ci permette di cogliere il senso di smarrimento strategico britannico è il fatto che, dal 24 febbraio, il Regno Unito è stato incapace di svolgere il ruolo storico in cui si immagina almeno dalla seconda guerra mondiale: quello di consigliere supremo, di tutore della superpotenza americana. Londra è invece fnita a interpretare il ruolo di studente – o, più banalmente, di seguace – di Washington. Il Regno Unito non si è certo tirato indietro nel supporto materiale all’Ucraina. Nelle settimane precedenti la guerra, i suoi servizi di intelligence sono stati gli unici a spalleggiare quelli americani, che già da fne 2021 avevano previsto che Putin avrebbe invaso 1. Mentre fno agli ultimissimi giorni prima dell’aggressione i servizi segreti dei maggiori Stati membri dell’Unione Europea contraddicevano sistematicamente gli avvertimenti statunitensi. Poi, tra febbraio e novembre 2022, Londra ha inviato aiuti umanitari, fnanziari e militari a Kiev per oltre 7 miliardi di dollari, più di qualsiasi membro dell’Ue 2. Inoltre, le frequenti visite al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj da parte dell’ex primo ministro Boris Johnson hanno avuto la funzione di segnalare agli Stati Uniti l’impegno britannico sul fronte orientale europeo, fra l’altro ben prima rispetto a Francia, Germania e Italia, i cui leader si sono recati a Kiev soltanto due mesi dopo Johnson. Infne, il Regno Unito ha inviato militari in Ucraina per addestrare l’esercito locale, tra cui anche membri delle forze speciali 3. Non solo: gli apparati di intelligence britannici sarebbero stati tra i primi a capire che la volontà della popolazione ucraina di combattere per il proprio paese era molto superiore a quanto stimava Washington appena prima dell’inizio dei combattimenti, e che quindi un prolungamento della guerra era più sostenibile di quanto si aspettassero gli statunitensi. Non è soltanto un segnale di superiori capacità rispetto a quelle degli altri paesi europei. È anche indice di un legame di fducia con gli americani molto più stretto di quello tra gli stessi americani e il resto del continente europeo. Tuttavia, al di là del supporto materiale e delle visite a Zelens’kyj, sono mancati momenti di chiara leadership britannica. Per esempio, il Regno Unito non è riuscito a plasmare gli obiettivi degli statunitensi in Ucraina, tuttora diffcilmente Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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1. G. FALCONBRIDGE, «Britain’s spy chief claims intelligence scoop on Putin’s invasion of Ukraine», Reuters, 25/2/2022. 2. A. ANTEZZA ET AL., «The Ukraine Support Tracker», Kiel Working Papers, n. 2218, Kiel Institute for the World Economy, giugno 2022. 3. T. ROGAN, «Guided by British special forces, Ukraine is escalating the “deep battlespace” fght against Russia», Washington Examiner, 19/8/2022.
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discernibili. Non è chiaro se l’amministrazione Biden intenda concludere la fase attiva della guerra entro la fne del 2023 o se voglia invece costruire la campagna elettorale delle prossime presidenziali attorno a un messaggio anti-autocratico e dunque portare avanti il confitto a oltranza. In ogni caso, gli Stati Uniti non hanno cercato e non stanno cercando i consigli del Regno Unito per defnire il proprio approccio all’Ucraina. Inoltre, i britannici hanno compiuto passi falsi tattici anche gravi. Per esempio, a invasione appena cominciata l’allora ministro degli Esteri Liz Truss ha dichiarato alla Bbc che avrebbe appoggiato la partenza di cittadini britannici per combattere in Ucraina come volontari 4, posizione che avrebbe probabilmente portato il paese molto vicino al rischio di un confitto diretto contro la Russia. Johnson è stato obbligato a rettifcare quelle dichiarazioni, di cui il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov aveva approfttato per giustifcare il cambio di postura nucleare di Mosca, annunciato da Putin qualche ora dopo l’intervista di Truss 5.
Primi ministri allo sbaraglio Il secondo indizio che palesa l’assenza di una bussola geostrategica britannica è il fatto che i tre primi ministri in carica nel 2022 hanno avuto vedute molto diverse sull’orientamento del Regno Unito. Questo indica che né il Partito conservatore, storico interprete dell’interesse nazionale inglese prima e britannico poi, né gli apparati non eletti come il ministero della Difesa, il Foreign Offce e l’Mi6 siano stati in grado di formulare una visione coesa e univoca. Il fatto che i tories si siano fatti interpreti di tre approcci diversi in un lasso di tempo così breve non sorprende. Dal 2016, il partito è dilaniato in sottogruppi nemici, le cui rivalità nascono dal Brexit ma toccano ogni aspetto della politica estera e non solo. Sotto lo stesso ombrello convivono ultraoltranzisti anti-europeisti ed ex Remainer; falchi e colombe sulla Cina; fanatici del mercato libero e socialdemocratici. Diffcile dunque aspettarsi una linea comune dai dirigenti politici. Se gli apparati non eletti avessero avuto le idee chiare, però, molto probabilmente sarebbero stati capaci di imporsi su una classe politica così allo sbaraglio, dirigendo le scelte compiute dal partito nel corso del 2022. Così evidentemente non è stato. Vediamo dunque quali sono state, e come sono differite, le posizioni di Johnson, Truss e Sunak. Il primo ha cercato di farsi campione naturale della storica fazione del suo partito che da sempre immagina il Regno Unito tutore e braccio destro degli Stati Uniti e psicologicamente lontano dall’Europa continentale. Possessore di passaporto statunitense fno a qualche anno fa, Johnson è sempre stato profondamente atlantista. Per quanto riguarda l’Ue, avendo costruito la sua fortuna politica sul Brexit, ha voluto posizionare il Regno Unito in stato di tensione permanente nei confronCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. «Liz Truss backs people from UK who want to fght», Bbc, 27/2/2022. 5. M. O’CONNOR, D. FAULKNER, «Russia blames Liz Truss and others for nuclear alert», Bbc, 28/2/2022.
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180 5 British Army Germany GERMANIA 6 GIBILTERRA 7 Raf Troödos - CIPRO 8 Raf Akrotiri - CIPRO 9 Raf Jssu Ayios Nikolaos - CIPRO
Mar Glaciale Artico
Regno Unito 1 1 British Army Training Unit Sufeld - CANADA 2 British Army Training and Support Unit BELIZE 3 Raf ISOLA DI ASCENSIONE 4 Raf Mount Pleasant ISOLE FALKLAND
5
Portsmouth
7 8 9
Oceano Pacifico
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2
14
11 12
Oceano Atlantico
13
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Andamento spese militari britanniche Spesa di base Anno fscale (milioni di £) 2015/16 2016/17 2017/18 2018/19 2019/20 2020/21 2021/22
15
3
Oceano Pacifico
34.734 34.681 35.804 37.331 39.374 41.019 45.900
Fonte: https://www.statista.com/statistics/298490/defense-spending-united-kingdom-uk/
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Mar Mediterraneo Asse atlantico Asse indo-pacifco
Oceano Indiano
7 CIPRO 8
9
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10 British Army Training Unit KENYA 11 HMS Jufair BAHREIN 12 Raf Al Udeid - QATAR 13 Uk Joint Logistics Support Base OMAN 14 British Gurkhas Nepal NEPAL 15 Struttura di supporto navale DIEGO GARCIA 16 British Defence Singapore Support Unit SINGAPORE 17 British Army Jungle Warfare Training School BRUNEI
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INSTALLAZIONI MILITARI BRITANNICHE NEL MONDO
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ti di Bruxelles. In Ucraina, tentando in parte di raccogliere l’eredità del suo idolo d’infanzia Winston Churchill, ha perseguito una linea massimalista volta a ottenere la vittoria totale di Kiev e la restituzione da parte della Russia di tutti i territori occupati dal 24 febbraio e possibilmente anche da prima. Parte dell’oltranzismo di Johnson era sicuramente dimostrativo e destinato al pubblico britannico più che dettato da una vera strategia. Ciononostante, è indubbio il tentativo di giocare la carta dell’eroe di guerra, dell’interprete della special relationship che trascina la superpotenza nel grande confitto dalla parte del Bene, in vero stile churchilliano. Non dimentichiamo però anche importanti punti di rottura tra gli interessi americani e quelli britannici così come intesi da Johnson, in primis sulla Cina. Nonostante il chiaro deterioramento dei rapporti tra Washington e Pechino dal 2018 in poi, Johnson è stato fno agli ultimi giorni del suo governo uno dei politici britannici più morbidi verso la Repubblica Popolare. Laureato in lettere classiche a Oxford, si dice che nutra profondo rispetto per i grandi imperi del passato, tra cui quello cinese. Nel 2021 si è autodefnito sinoflo 6. I conservatori non gli hanno certo permesso di prendere in mano le redini del rapporto con Pechino. In barba al premier, il Regno Unito è stato uno dei primi paesi europei a escludere l’azienda di telecomunicazioni cinese Huawei dagli appalti per la rete nazionale 5G 7. Resta comunque il fatto che Johnson ha mantenuto un margine di idiosincrasia nella sua concezione dell’orientamento strategico britannico, non piegandosi totalmente alla visione del mondo a stelle e a strisce come ha fatto invece il suo successore. Se Johnson voleva essere Churchill, Truss è stata una Thatcher mancata. Nel suo brevissimo interregnum a Downing Street, l’ex ministro degli Esteri si è prefssata di allineare totalmente Londra a Washington. Per quanto riguarda la Cina, ha promesso di denominare uffcialmente Pechino una «minaccia» per la prima volta nella storia del Regno Unito 8. Truss ha reso inoltre evidente il suo flo-atlantismo oltranzista in ambito economico. Appena diventata premier ha tentato di attuare un programma di riforme fscali di matrice ultraliberista, che però le si è ritorto contro, scatenando un forte ribasso della sterlina e degli altri asset britannici sui mercati internazionali. È stata la pietra tombale del suo governo. Remainer convertita all’ala dura del Brexit dopo il referendum del 2016, Truss aveva ottenuto la fducia dei conservatori anti-europeisti e aveva ventilato posizioni estremamente provocatorie nei confronti di Bruxelles. Per esempio, ancora nelle vesti di ministro degli Esteri del governo Johnson aveva proposto un meccanismo legislativo che avrebbe dato all’esecutivo il potere di revocare alcuni aspetti dell’accordo commerciale tra Ue e Regno Unito sui controlli frontalieri ai beni destinati all’Irlanda del Nord 9. Se impiegato, questo strumento avrebbe sicuramenCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. P. WINTOUR, «Boris Johnson declares he is “fervently Sinophile” as UK woos China», The Guardian, 21/2/2021. 7. L. BAKER, J. CHALMERS, «As Britain bans Huawei, U.S. pressure mounts on Europe to follow suit», Reuters, 14/7/2020. 8. T. DIVER, D. NICHOLLS, «Liz Truss to declare China a ‘threat’ to the UK», 11/10/2022. 9. L. TRUSS, «Liz Truss: we have a duty to fx the problems of the Northern Ireland protocol», Financial Times, 26/6/2022.
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te scatenato una protesta violentissima a Bruxelles. È tuttavia improbabile che Truss fosse effettivamente disposta ad attuarlo. Una mossa del genere avrebbe infatti indisposto l’amministrazione Biden, da sempre attenta alla questione nordirlandese. Piuttosto, la sua intenzione era forse quella di aumentare i margini di manovra in caso di una futura amministrazione statunitense più isolazionista e meno pronta a occuparsi di affari europei, come per esempio una presieduta da Trump o da un suo erede. Può darsi che Truss sperasse di poter essere ancora in carica quando questo momento sarebbe arrivato. Non è andata così. In ultima analisi, a Truss per essere una Thatcher è mancato, fra le altre cose, un Reagan, un capo di Stato statunitense allineato alla sua visone politica che la spalleggiasse. Non è da escludere che l’assenza di un’amministrazione amichevole a Washington abbia accelerato considerevolmente i tempi della sua caduta. Sunak, il terzo primo ministro britannico del 2022, è un tecnico paracadutato a capo del governo per pilotare il paese fuori dalla crisi politica, economica e sociale causata dall’inaffdabilità di Johnson e peggiorata dall’inettitudine di Truss. Come Mario Monti in Italia nel 2012, Sunak ha dovuto mettere in gioco tutta la sua credibilità istituzionale per tamponare la crisi di fducia dei mercati nei confronti dei conti pubblici britannici, che se lasciata correre avrebbe anche potuto portare a una rottura sistemica all’interno delle istituzioni fnanziarie del Regno Unito. Nel contempo, ha ereditato un fronte interno in sfacelo. Dato questo grave contesto – e data anche la stoffa professionale di Sunak, ex banchiere e investitore nella City, senza alcuna formazione militare o diplomatica – la questione della direzione geostrategica del Regno Unito ha preso un posto secondario nell’attuale governo. Certo, il supporto britannico all’Ucraina non è venuto a mancare. Tuttavia, il taglio che il premier ha voluto dare ai rapporti con Cina e Ue è decisamente più economicista rispetto a quello dei suoi predecessori. Ha ammorbidito notevolmente i toni riservati a Pechino, descrivendo per esempio l’approccio britannico alla Repubblica Popolare come «pragmatismo saldo» (robust pragmatism) 10. E per quanto riguarda il tanto sofferto vicinato europeo, ha espresso chiaro interesse per il progetto di Comunità politica europea lanciato da Emmanuel Macron 11 e sta cercando una soluzione durevole alla questione nordirlandese, intraprendendo la strada del compromesso con Bruxelles con più decisione rispetto ai suoi predecessori. D’altra parte, un orientamento prevalentemente economicista ha senso per un paese come il Regno Unito, che si trova sull’orlo di una recessione probabilmente molto più lunga e diffcile rispetto a quella che affronteranno i paesi dell’Ue o gli Stati Uniti. Sunak dovrà prima di tutto ristabilire l’ordine sul fronte interno, poi gradualmente ricostruire le risorse economiche necessarie per ricreare consenso pubblico e coesione sociale. E solo successivamente muoversi verso una Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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10. S. BLEWETT, «Sunak pledges “robust pragmatism” not “grand rhetoric” with foreign policy», The Independent, 27/11/2022. 11. R. SUNAK, «PM speech to the Lord Mayor’s Banquet», discorso del 28/11/2022.
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ridefnizione delle priorità britanniche nel mondo che vadano oltre le relazioni commerciali. In questo contesto, risulta diffcile immaginarsi che i due anni che rimangono a Sunak prima delle elezioni basteranno agli apparati non eletti e ai conservatori per ridefnire una strategia nazionale che resti nei parametri dell’Alleanza Atlantica ma che stabilisca e persegua anche interessi nazionali non strettamente economici. D’altra parte il Labour, primo partito d’opposizione e probabile vincitore delle prossime elezioni, non è mai stato particolarmente ferrato in ambito strategico. Dalla fne della seconda guerra mondiale, forse l’unica decisione di vero peso geopolitico presa da un governo «rosso» è stata la partecipazione britannica alla guerra americana in Iraq sancita da Tony Blair. Ci possiamo quindi aspettare abbastanza poco da un governo capitanato da Keir Starmer, l’attuale leader laburista. Secondo Starmer, il partito ha un’anima molto più europeista rispetto ai conservatori e sarà pertanto ben posizionato per trovare alleati nell’amministrazione pubblica, anch’essa tendenzialmente Remainer. Tuttavia, la classe dirigente laburista ha poco spessore strategico ed è improbabile che prenderà decisioni signifcative o di rottura in questo ambito. Ci vorrà dunque molto tempo, probabilmente almeno una legislatura completa, prima che i tories possano tornare al governo pronti a reinterpretare l’identità britannica nel mondo e ridefnire l’orientamento strategico del Regno Unito in tutti i suoi aspetti. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
L’asse polacco-britannico Un altro ambito in cui si è osserva una preoccupante assenza di iniziativa riguarda i rapporti con la Polonia. I tentativi dei governi Johnson e Truss di formalizzare un asse strategico tra Varsavia e Londra, costruito non solo sull’oltranzismo antirusso ma anche sull’anti-europeismo, sono stati abbandonati da Sunak, che sta cercando di ristabilire un rapporto costruttivo con l’Ue fondato sugli scambi commerciali. Regno Unito e Polonia sono entrambi oltranzisti nei confronti della Russia in Ucraina, anche se la matrice di questa posizione è leggermente diversa. Mentre Varsavia è nemica atavica di Mosca, Londra cerca di fortifcare la sua posizione come alleato principale degli Stati Uniti. In altre parole, dal punto di vista polacco la Russia andrebbe resa permanentemente incapace di vessare i suoi vicini, mentre il Regno Unito non ha una chiara idea di chi sia il principale nemico, suo o dell’ordine internazionale che difende. Una falla importante, conseguenza naturale dell’assenza di una bussola strategica. In ogni caso, i due governi si sono palesemente dati corda a vicenda per quanto riguarda il raggiungimento di obiettivi massimalisti in Ucraina. Per esempio, ai primi di gennaio 2023 hanno fatto circolare la notizia di essere pronti a fornire carri armati a Kiev 12. Un assenso implicito di Washington è necessario, come dimostra il fatto che nel marzo 2022 la Polonia 12. S. PFEIFER, B. HALL, J.P. RATHBONE, H. FOY, «UK weighs supplying Ukraine with Challenger tanks», Financial Times, 9/1/2023.
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ha dovuto accantonare l’idea di trasferire MiG all’Ucraina di fronte alla ferma opposizione americana. In ogni modo, l’oltranzismo romantico-ideologico di Johnson e Truss – che evidentemente ha sostenitori negli apparati anche dopo la loro dipartita – ben si è sposato con l’oltranzismo strategico dei polacchi. Ad accomunare Londra a Varsavia non è solo il massimalismo verso Mosca. A guidarle sono governi di destra anti-europeista, che hanno reso il confronto con Bruxelles un cavallo di battaglia elettorale. Dunque, il senso di un asse polacco-britannico dal punto di vista di Londra sarebbe anche stato quello di disporre un cavallo di Troia all’interno del Consiglio europeo che avrebbe potuto fungere da alleato in futuri scontri con l’Ue su questioni relative al Brexit, in primis quella sui controlli frontalieri nordirlandesi. E qui nascono i problemi. Perché dopo il passaggio di testimone da Truss a Sunak le priorità a Downing Street sono cambiate in senso più economicistico, privilegiando i rapporti commerciali. Il nuovo primo ministro non vuole irritare più di tanto Bruxelles e la Germania. Ma anche le condizioni esterne sono cambiate. Il passaggio al Congresso statunitense dell’Infation Reduction Act, un’enorme misura fscale che garantisce sussidi al settore delle energie rinnovabili, ha riaperto la possibilità che Ue e Stati Uniti si ritrovino a lungo termine con politiche industriali concorrenti 13. Il Regno Unito rischierebbe di essere tagliato fuori dall’uno e dall’altro mercato. Meglio quindi non dare troppo fastidio ai burocrati della Commissione europea. In quest’ottica, un’intesa Londra-Varsavia basata anche sul confronto con Bruxelles non è l’idea migliore. D’altra parte anche i polacchi si augurano che prima o poi il Regno Unito ritorni nell’Ue, dato che la Francia non sta riuscendo a controbilanciare la Germania come lo facevano i britannici. Le manovre per trovare un’intesa probabilmente continueranno, anche grazie agli obiettivi comuni in Ucraina, ma al rallentatore. Durante il governo Sunak probabilmente non vedrà ancora la luce un vero e proprio asse. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Le crisi interne La ragione principale per cui sia il Partito conservatore sia gli apparati non eletti si trovano impossibilitati ad accordarsi su una nuova e coesa direzione è il fatto che, a partire dal 2016, le crisi interne hanno consumato praticamente tutta l’attenzione della classe dirigente: prima il Brexit, poi l’emergenza Covid, ora il caro energia aggravato dalla guerra in Ucraina. Nei prossimi 12-24 mesi è molto probabile che questa situazione non cambierà granché. La prima crisi interna è quella economica. Secondo le ultime previsioni della Bank of England 14, il pil calerà nel 2023 e avrà solo una lievissima ripresa nel 2024. Il programma fscale del governo Sunak prevede importanti aumenti di tasse e tagli alla spesa pubblica, con effetti profondamente negativi su occupazione e consumi
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13. «Why EU leaders are upset over Biden’s Infation Reduction Act», France 24, 16/12/2022. 14. C. GILES, «BoE outlines two bleak scenarios for taming infation», Financial Times, 3/11/2022.
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delle famiglie britanniche. E dunque verosimilmente sui tassi di gradimento elettorale dei tories. In altre parole, il tentativo di Sunak di calmare i mercati dopo la crisi di ottobre si ripercuoterà sulle probabilità che i conservatori restino al governo dopo il voto del 2024. La seconda crisi è quella del consenso sociale. La valanga di scioperi che ha travolto vari settori pubblici (persino gli operatori delle ambulanze) a partire da dicembre, e che continua tuttora, ha paralleli storici inquietanti. Nell’inverno 197879 un’ondata di scioperi provocò ad esempio il crollo del governo laburista in carica. Finora, i disordini sono rimasti a livelli piuttosto inferiori a quelli registrati oltre cinquant’anni fa. Tuttavia, segnalano che il malessere dei lavoratori britannici ha toccato picchi ancora non raggiunti in Europa continentale. La terza crisi è quella dei separatismi in Irlanda del Nord e Scozia, anche se delle tre sembra in questo momento essere la meno urgente. Il Partito nazionale scozzese rivendica il diritto di organizzare un secondo referendum per l’indipendenza dal Regno Unito, negato dal parlamento di Westminster, che detiene il potere legale in questo ambito. In realtà, però, la battaglia tra secessionisti e conservatori è un gioco di ombre. La stessa Nicola Sturgeon, leader dei nazionalisti scozzesi, sa che non sarebbe nel suo interesse organizzare un referendum almeno per i prossimi tre-quattro anni. Secondo gli ultimi sondaggi, il voto a favore dell’indipendenza è in vantaggio con un margine abbastanza esiguo, tra gli 0 e i 5 punti percentuali 15. Troppo poco per garantire la vittoria. Se gli indipendentisti perdessero una seconda volta sarebbe inconcepibile chiedere un terzo quesito almeno per qualche decennio. Molto meglio per Sturgeon non insistere troppo. La questione del separatismo serpeggia pure in Irlanda del Nord, ma anche questo problema verrà a maturazione nel lungo periodo. Nel 2022, l’agenzia statistica locale ha confermato che la popolazione cattolica (tendenzialmente separatista, nel senso che punterebbe all’unifcazione con la Repubblica d’Irlanda) è ora uffcialmente maggioranza 16. I protestanti fedeli al Regno Unito sono dunque in minoranza. In teoria, questo potrebbe portare a un referendum sull’indipendenza perché secondo l’accordo di pace del Venerdì Santo tra repubblicani cattolici e unionisti protestanti siglato nel 1998 il Regno Unito sarebbe obbligato a concedere una consultazione in merito «nel caso fosse chiaro che la maggioranza della popolazione lo desiderasse» 17. Sembra però abbastanza improbabile che la questione si smuova nei prossimi anni. In primo luogo, è molto diffcile che un governo statunitense sia favorevole all’unifcazione dell’Irlanda del Nord con la Repubblica d’Irlanda. Certo, l’amministrazione Biden ha sempre giocato a favore degli interessi di Dublino sul Brexit, ma sarebbe esagerato pensare che Washington possa spingersi a stravolgere il delicatissimo equilibrio che prevale nell’Ulster dalla fne della trentennale guerra civile. Per non parlare del fatto che se gli Stati Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
15. «Scotland – Potential second independence referendum», Politico, 11/1/2023. 16. R. CARROLL, «Catholics outnumber Protestants in Northern Ireland for frst time», The Guardian, 22/9/2022. 17. A. PAUN, J. SARGENT, «Irish Reunifcation», Institute for Government, 22/5/2018.
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Uniti si sbilanciassero a favore dell’unifcazione farebbero infuriare il Partito conservatore, storico alleato (anche se inaffdabile) degli unionisti a Belfast. Infne, non è nemmeno chiaro se sia negli interessi di Dublino riprendersi una regione povera e agitata come l’Irlanda del Nord. In secondo luogo, è probabile che nemmeno i nordirlandesi cattolici abbiano interesse a spingersi tanto in là, anche se la posta in palio è centrare l’obiettivo storico dei loro antenati. La maggior parte della popolazione ulsteriana è restia a cambiare gli equilibri della pace raggiunta con grande diffcoltà nel 1998 e ancora percepita come estremamente precaria. Lo si desume dal fatto che i partiti intercomunitari come Alliance hanno registrato un’impennata di consenso alle elezioni per il parlamento locale nel maggio 2022 18. Segno che non vi è grande entusiasmo per rivoluzionare lo status quo, che d’altra parte porterebbe con ogni probabilità alla riapertura di antiche e dolorosissime ferite. Un passato a cui i giovani nordirlandesi, sia cattolici sia protestanti, non vogliono tornare.
Conclusione Da oltre sei anni, il Regno Unito si trova a un crocevia ma ancora non ha scelto quale strada prendere. Il Brexit ha incrinato il rapporto con i paesi dell’Europa continentale e a lungo termine renderà più diffcile per i britannici giocare un ruolo di punta nelle questioni geopolitiche europee. Anche se l’impegno dimostrato in Ucraina ha fornito un’occasione di redenzione, almeno agli occhi degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, la superpotenza guarda sempre più all’Indo-Pacifco, geografcamente distante dal Regno Unito e fuori dal suo raggio di proiezione militare. Politici e apparati britannici sono confusi e stanchi, chiamati a rispondere a crisi interne sempre più pressanti. Il probabile vincitore della prossima tornata sarà il Labour, un partito storicamente debole in politica estera. È facile che si produca un governo non dotato di grande profondità diplomatica e geopolitica. Bisognerà quindi probabilmente aspettare fno al 2029, se non oltre, per assistere a un vero rinnovamento dell’orientamento britannico e al ritorno del Regno Unito come attore dotato di qualche margine di indipendenza sul palcoscenico globale. Forse appena in tempo per una grande crisi a Taiwan. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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18. «NI election results 2022: Who are the Alliance Party and what do they stand for?», Bbc, 8/5/2022.
LA GUERRA CONTINUA
LA GUERRA PUÒ DECLASSARE LA FRANCIA
di Olivier
KEMPF
Macron sostiene l’Ucraina con armi e sanzioni. Al contempo, parla con Putin. È la tradizionale ricerca di una terza via tra Mosca e Washington. Parigi continua a professarsi alleata, non allineata agli Stati Uniti. Ma non importa più a nessuno.
P
ER MOLTI LA GUERRA D’UCRAINA È
scoppiata il 24 febbraio 2022. Tuttavia, l’osservatore attento sa che è iniziata nel 2014, con il ratto della Crimea da parte dei russi, seguito dalla ribellione del Donbas e dagli scontri del 2015 che hanno disegnato una durevole linea del fronte. Per otto anni, il confitto è stato apparentemente congelato. Ma ciò non signifca che non ci fosse, soltanto che i combattimenti si svolgevano al di sotto della soglia d’attenzione degli stranieri. È in questa prospettiva di lungo periodo che occorre analizzare la posizione francese nella guerra d’Ucraina. Non si possono comprendere le dichiarazioni del presidente Emmanuel Macron se non si tiene a mente questo retroterra cronologico. Altrettanto importante ci sembra l’aspirazione di Parigi a una strategia mondiale autonoma e distinta che supera di molto la sua gestione del confitto ucraino. Tenendo conto di queste considerazioni, cercheremo di rispondere a una domanda: la guerra d’Ucraina ha contribuito a declassare la Francia o le ha invece permesso di mantenere la sua posizione internazionale? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Un’eccezione strategica persistente Malgrado un’evidente perdita d’infuenza, la Francia continua a benefciare di un proflo strategico eccezionale, nel senso originario dell’aggettivo. Ciò non vuol dire che sia una superpotenza – sarebbe assurdo sostenerlo. Resta però una grande potenza sotto molti aspetti: la sua economia si mantiene nelle alte gerarchie globali; dispone ancora di territori in tutti i continenti; la sua cultura e la sua lingua conservano una grande diffusione pur senza il lustro d’un tempo; la sua rete diplomatica è fra le prime tre al mondo; controlla la seconda Zona economica esclusiva del
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pianeta. Sul piano militare, è una potenza nucleare riconosciuta dal trattato di non proliferazione e le sue armate sono viste come le migliori d’Europa, dotate di un’esperienza operativa continuativa (e autorizzata dal sistema istituzionale) e sapientemente modernizzate, in modo da disporre di una forza completa di uno o più campioni per ogni capacità. Questo insieme di caratteristiche basterebbe da solo a distinguere la Francia. Eppure, conviene precisare la sua situazione: a differenza degli altri paesi europei, la dissuasione nucleare le garantisce una completa «indipendenza» strategica. Persino l’arsenale atomico del Regno Unito dipende in parte dagli Stati Uniti. E notiamo di passaggio che gli accordi di Lancaster House del 2010 contengono disposizioni di cooperazione in materia di nucleare militare che permettono ai britannici di accedere ad alcune installazioni francesi per i test, garantendo loro in tal modo una certa autonomia in questo settore. Ora, questa indipendenza strategica genera automaticamente una postura molto diversa da quella degli altri paesi europei: a differenza di questi ultimi, la Francia non ha bisogno dell’ombrello nucleare americano garantito dall’Alleanza Atlantica. Essa conserva margine di scelta là dove i suoi partner continentali non ne hanno. Può militare per un’«autonomia europea» là dove gli altri la ritengono un piccolo accessorio, visto che l’essenziale della loro sicurezza è garantito dalla Nato e dal rapporto con gli Stati Uniti. In ambito strategico, esiste dunque una vera e propria eccezione francese. Ciò spiega in gran parte il sentimento di Parigi, spesso dato per scontato, di essere differente. Constatiamo però che dal 24 febbraio anche la Germania ha dato più volte questa impressione, sia pure in modi assai diversi. Questa eccezione della Francia ben spiega alcune sue posizioni. Lo storico può riconoscervi la lontana eredità della ricerca da parte di de Gaulle di una terza via fra i due blocchi. È in questa chiave che possiamo comprendere la nozione di «potenza degli equilibri» (notare il plurale) articolata da Macron nella sua allocuzione agli ambasciatori il 1° settembre 2022: «Indipendenza non è equidistanza. Ho letto ciò che si sarebbe potuto dire quando parlavo di Francia potenza degli equilibri. Noi siamo indipendenti, vale a dire che abbiamo gli Stati Uniti come alleati, una grande democrazia con la quale condividiamo valori e interessi comuni, ma da cui non vogliamo dipendere. Abbiamo la Cina, un rivale sistemico, con la quale non condividiamo i nostri valori democratici, ma con la quale dobbiamo continuare ad agire per trovare risposte a sfde comuni – clima, biodiversità – e con la quale vogliamo continuare a parlare per cercare di contribuire a regolare alcune crisi regionali e alcuni elementi di destabilizzazione. La Francia e l’Europa devono dunque costruire questa indipendenza anche geopolitica rispetto al duopolio che va costituendosi» 1. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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1. «Discours du Président Emmanuel Macron à l’occasion de la conférence des ambassadrices et des ambassadeurs», 1/9/2022.
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La Francia e il conflitto ucraino Questa ambizione generale si manifesta da tempo nel confitto tra la Russia e l’Ucraina. Al vertice di Bucarest del 2007 la Francia, insieme alla Germania, si oppone all’idea promossa da George W. Bush che la Nato risponda favorevolmente alla domanda di adesione di Kiev. All’epoca, le nazioni alleate si accordano sul principio che la repubblica ex sovietica non può aderire nell’immediato, ma soltanto in un non meglio specifcato futuro. Nella rivolta di Jevromajdan del 2013-14, quando si contano i primi morti tra i manifestanti di piazza, i ministri degli Esteri di Polonia, Germania e Francia avviano sul posto negoziati col presidente Viktor Janukovi0 e i rappresentanti dell’opposizione. Il 21 febbraio 2014 viene siglata un’intesa. La sera stessa il capo di Stato fugge all’estero. Nel frattempo inizia l’occupazione russa della Crimea. In aprile si autoproclamano indipendenti le repubbliche secessioniste di Luhans’k e Donec’k, che a maggio inaugurano un confitto armato con il governo di Kiev. A settembre viene frmato un primo accordo a Minsk tra Russia e Ucraina. I combattimenti riprendono nel gennaio 2015 e a febbraio viene siglato un secondo accordo nella capitale bielorussa, negoziato da Angela Merkel e François Hollande – da quel momento i colloqui a quattro saranno noti come «formato Normandia». Questa seconda intesa prevede lo stop agli scontri e un programma di uscita dal confitto in tredici punti. Malgrado i tentativi, la diplomazia non produce svolte e i combattimenti proseguono sporadici per anni, evolvendo in una sorta di guerra congelata a bassa intensità. Per sette anni, la Francia, con la Germania, patrocina i negoziati tra russi e ucraini sotto il titolo degli «accordi di Minsk II». Le due parti giocano sulle ambiguità del testo per non avanzare. Più tardi, i responsabili dichiareranno che quegli accordi avevano come obiettivo quello di «dare tempo a Kiev»: così si esprimeranno l’ex presidente ucraino Petro Porošenko nel giugno 2022 (Deutsche Welle), Merkel il 7 dicembre (die Zeit) e l’ex capo di Stato francese Hollande il 28 dicembre (The Kyiv Independent) 2. Questo retropensiero strategico delle due potenze europee non deve nascondere che entrambe cercano di conservare il dialogo con la Russia. Nel febbraio 2022, Macron tenta di impedire lo scoppio del confitto recandosi personalmente a Mosca. Lo fa mettendosi in una posizione che la Francia cerca spesso di assumere: quella della potenza alleata (dell’Ucraina ma anche del blocco occidentale) che riesce comunque a mantenere una certa distanza e dunque a fare da intermediario. Dopo l’inizio della guerra, Parigi esprime continuamente il proprio sostegno a Kiev. Tuttavia, molti osservatori le rimproverano due cose: un appoggio diretto debole e d’apparenza e parole sensibili nei confronti di Mosca, che scatenano reazioni oltraggiate. Un esempio è quando, il 9 maggio 2022, Macron dichiara davanti al Parlamento europeo (nell’anniversario della resa tedesca nella seconda guerra mondiale) che non bisogna «umiliare la Russia». Espressione ripetuta in giugno in Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. T. PROUVOST, «Hollande: “There will only be a way out of the confict when Russia fails on the ground”», The Kyiv Independent, 28/12/2022.
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un’intervista con alcuni quotidiani regionali: «Non bisogna umiliare la Russia perché il giorno in cui i combattimenti cesseranno, potremo costruire un cammino di uscita attraverso vie diplomatiche. Io sono convinto che è questo il ruolo della Francia, essere una potenza mediatrice. (…) Penso, e gliel’ho detto, che Vladimir Putin abbia commesso un errore storico e fondamentale, per la sua gente, per lui stesso e per la Storia. Nondimeno, la Russia resta un grande popolo» 3. Tali affermazioni suscitano ondate di proteste, fra cui quelle del ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba: «Gli appelli a non umiliare la Russia non possono che umiliare la Francia». Osserviamo che il discorso di Macron riprende in parte la propaganda moscovita, tanto più che il presidente francese non ha esitato a evocare la nozione dei «popoli fratelli» russo e ucraino, cosa che ha profondamente irritato Kiev 4.
Una via equilibrata è possibile? Come spiegare la durevolezza della posizione francese? Semplicemente con la perpetuazione dell’approccio tipicamente parigino della terza via e con la ripetizione del discorso «alleati ma non allineati». Macron pensa all’architettura di sicurezza europea che dovrà essere costruita dopo la guerra. Il processo passerà per dei negoziati e comporterà dunque una transazione: dovendo transigere, occorrerà concedere politicamente qualcosa a Mosca. Perciò il presidente ha continuato a inviare segnali alla Russia per incitarla ad aprire le trattative. Ciò spiega la sua tenacia nel parlare regolarmente con Putin, il tutto uffcialmente in accordo con Kiev. Inoltre, la posizione francese discende dalla promozione di un’autonomia strategica europea che Macron ha messo al centro del proprio disegno di politica estera sin dalla sua ascesa alla presidenza nel 2017. Essa, ancora una volta, discende dall’idea dell’indipendenza che abbiamo esposto. E urta in modo più frontale che mai i rifessi condizionati dei vicini della Francia – in sostanza, quando Macron pensa alla «sicurezza europea», i suoi partner continentali pensano alla «sicurezza occidentale». Quest’ultima passa automaticamente attraverso la Nato che, com’è evidente, a sua volta rafforza la crisi stessa. Ricordiamoci che non molto tempo fa si dibatteva dell’utilità dell’Alleanza, in seguito alla questione trumpiana, al gioco sporco dei turchi e alle rifessioni di Macron sulla morte cerebrale dell’organizzazione. La Nato ha chiaramente ritrovato un ruolo con la guerra d’Ucraina e tutti gli alleati si sono raccolti in buon ordine dietro agli americani. Per esempio acquistando armamenti a pioggia da Washington, come ha fatto la Germania di Scholz, che ha speso una buona parte dei cento miliardi di euro extra per la difesa per comprare F-35. Ancora, nel vertice del giugno 2022 gli alleati hanno adottato un nuovo documento strategico e aperto la procedura di adesione di due nuovi membri, Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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3. «Exclusif. Emmanuel Macron à La Dépêche du Midi: “La réforme des retraites entrera en vigueur dès l’été 2023”», La Dépêche du Midi, 3/6/2022. 4. Vedi per esempio O. SCHMITT, «“Il ne faut pas humilier la Russie”. La formule et ses implications politico-stratégiques», Le Rubicon, 16/6/2022.
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Svezia e Finlandia, tradizionalmente neutrali ma che la minaccia moscovita ha spinto nel girone atlantico. Inciso: la Turchia non ha ancora permesso l’entrata dei due paesi nordici – nuovi problemi covano 5. Questo riallineamento europeo agli Stati Uniti costituisce a tutti gli effetti una cattiva notizia per le ambizioni dell’Eliseo e spiega la sua ostinazione nel cercare una terza via d’equilibrio. In effetti, la Francia ha sempre guardato all’Ucraina attraverso il prisma della propria politica verso la Russia. In ogni caso, Parigi ha voluto dimostrare di essere un alleato esemplare. Non ha mai ceduto sulle sanzioni nonostante le riluttanze di alcuni partner europei. E ha partecipato al rafforzamento del fanco orientale della Nato in Estonia e in Romania, dove ha schierato un battaglione blindato e meccanizzato che dovrebbe restare in loco per diversi anni. Ma queste decisioni sono sempre state viste come dovute, insuffcienti a riequilibrare le dichiarazioni di apparente sostegno ad alcune posizioni russe. Infne, chi riteneva che Parigi non avesse fornito abbastanza armi a Kiev si è dovuto ricredere davanti all’evidenza dei numeri: 18 cannoni Caesar sui 78 in dotazione all’Esercito francese, veicoli Vab, missili anticarro Milan, obici Trf1, radar Crotale e, di recente, i blindati Amx-10Rc. Senza parlare dell’aiuto, poco visibile, in termini di informazioni, guerra cibernetica e formazione.
Un’inversione in corso? La politica dell’equilibrio passa per il sostegno al negoziato, dunque dalla presunzione che quest’ultimo fosse possibile. In molti l’hanno creduto, almeno fno all’autunno. Gli ucraini, certo, hanno conseguito importanti successi (presa di Izjum, ritirata russa da Kherson), ma nello stesso tempo Putin ha indurito la sua posizione con l’annessione delle quattro oblast’, la mobilitazione parziale di 300 mila uomini e l’uso da gennaio in poi della parola «guerra» al posto di «operazione militare speciale». Soprattutto, all’arrivo dell’inverno i russi hanno stabilizzato il fronte e hanno dato l’impressione di poter logorare le posizioni ucraine, come a metà gennaio 2023 ha confermato la caduta di Soledar. Inoltre, nessuno dei belligeranti ha perso o ha guadagnato tanto da avere incentivi ad aprire un negoziato. Più probabile, quali che siano le variazioni marginali del fronte, che la guerra si perpetui in un tempo molto lungo. L’ora della discussione sembra passata. In questo quadro, osserviamo una recente evoluzione da parte di Parigi. È passata per l’organizzazione nella capitale francese della conferenza di sostegno all’Ucraina del 13 dicembre, che ha messo a disposizione fondi per affrontare l’emergenza umanitaria ma anche per la ricostruzione del paese, e per l’annuncio, a inizio gennaio 2023, dell’invio dei «carri leggeri» (parole dell’Eliseo) Amx-10Rc citati in precedenza. Questa comunicazione è intervenuta mentre Parigi e Berlino discutevano da diverse settimane di una risposta comune da dare all’Ucraina. L’annuncio in solitaria della Francia è stato anche un modo per forzare le reticenze Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. O. KEMPF, «L’Otan, renaissance ou simple répit?», La Vigie, n. 196, 6/7/2022.
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tedesche. Vero, l’indomani Scholz ha comunicato l’invio di veicoli corazzati Marder, ma pochi giorni dopo i polacchi hanno diramato l’intenzione di mandare a Kiev carri Leopard 2, operazione per la quale serve l’autorizzazione del governo di Berlino. «Una compagnia di carri d’assalto Leopard sarà trasmessa nel quadro di una coalizione in via di formazione», ha spiegato il presidente polacco Duda (gira voce che la Finlandia abbia lo stesso intento). Pure Londra ha comunicato di voler inviare dodici carri Challenger. La pressione è tale che la Germania dovrebbe cedere. È evidente che Parigi ha innescato un movimento europeo non insignifcante che conforta il suo approccio.
Conclusione Tenuto conto di questi elementi, possiamo affermare che la guerra d’Ucraina ha declassato la Francia? Diciamo anzitutto che la crisi non è fnita e che, come da proverbio francese, è alla fne della fera che si conta lo sterco. A oggi il bilancio è negativo per la Russia e positivo per gli Stati Uniti. Per l’Unione Europea le cose si fanno più ambigue. Ha mantenuto la propria unità senza grandi diffcoltà, malgrado le classiche divisioni interne. Ha rapidamente approvato delle sanzioni e le ha man mano rafforzate 6. Subisce però evidenti contraccolpi economici in ambito energetico e per via dell’infazione. La sua posizione strategica si è piuttosto indebolita: la bussola pubblicata in primavera, sotto la presidenza francese, è insipida. Perché l’insieme degli europei è allineato all’Alleanza Atlantica. Il resto del mondo non si fa molti problemi e rifuta di immischiarsi nella guerra d’Ucraina, vista come «affare occidentale». Non è certo che l’Europa ne tragga vantaggi. Parigi ha perseguito i propri obiettivi al rischio di apparire contraddittoria. Non è una novità: basti ricordare le critiche degli alleati al generale de Gaulle in occasione del ritiro francese dalle strutture di comando della Nato oppure la posizione di Chirac nella guerra in Iraq nel 2003. Ma tale apparente continuità è ingannevole: in questi precedenti, la Francia trovava in cambio un certo numero di appoggi oppure convinceva alcune capitali della propria indipendenza. Ecco la differenza con la situazione odierna: le critiche sono rimaste, ma nessuno crede davvero all’equilibrio francese. Alleata e non allineata? Benissimo. Ma alla fne cambia qualcosa? La maggior parte dei partner della Francia risponde: no. In questo sta il declassamento relativo: la Francia pesa ancora in Europa – chi lo dubita? – ma la sua aura è impallidita, come quella degli altri occidentali. Mentre nel XX secolo le guerre civili europee erano divenute questioni mondiali, questa nuova guerra civile europea non trascina più con sé l’ordine globale. È una questione che va ben al di là del rango della Francia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
(traduzione di Federico Petroni)
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6. O. KEMPF, «L’UE et l’Ukraine», Hermès, novembre 2022.
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DOTTORI La guerra ha compresso i margini di manovra dell’Italia, costretta a schierarsi senza ambiguità. L’attacco russo all’Ucraina ha cancellato l’illusione che Roma potesse mediare tra Oriente e Occidente. Draghi e Meloni si sono uniformati alla linea euroatlantica. di Germano
L’
1. ITALIA RITIENE DI AVERE, PER propria cultura politico-strategica, una vocazione al dialogo e alla mediazione. Non sono state poche né brevi le fasi della sua recente storia nel corso delle quali i suoi governanti di turno hanno accarezzato il sogno di fare del nostro paese un ponte tra Oriente e Occidente. È successo, ad esempio, durante la guerra fredda, quando Roma sviluppò una propria Ostpolitik nei confronti dei regimi d’Oltrecortina che, se non poteva competere con quella di Bonn, fece comunque arricciare il naso alle amministrazioni americane del tempo. I diari segreti di Giulio Andreotti attestano in più punti quanto fosse diffcile svolgere un’azione internazionale di questo tipo senza suscitare sospetti. Vi si dà conto delle frequenti interlocuzioni con l’ambasciata americana di via Veneto, nell’ambito delle quali il defunto statista democristiano si preoccupava di rassicurare il maggiore alleato circa l’effettiva portata delle nostre iniziative 1. A questa tradizione si sarebbe fatto appello anche dopo il crollo del Muro di Berlino e non solo nei confronti di Mosca, ma altresì in scacchieri molto più lontani. A un certo punto, Lamberto Dini immaginò per il nostro paese addirittura un ruolo da battistrada per conto di Washington nei confronti dei regimi con i quali risultava più diffcile o inopportuno per gli Stati Uniti avviare dei rapporti diretti, come la Corea del Nord, la Libia o l’Iran: allo scopo di acquisire benemerenze, provavamo a proporci come facilitatori di intese successive 2. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. G. ANDREOTTI, I diari segreti 1979-1989, Milano 2020, Solferino. La lettura rivela l’ampiezza e l’importanza dei contatti intrattenuti dallo scomparso statista democristiano, che incontrava pressoché regolarmente tanto l’ambasciatore sovietico quanto quello statunitense. Di quest’ultimo registrava puntualmente l’inquietudine per quanto accadeva in Italia. Ma Andreotti non si limitava a rassicurare: a volte, specialmente a Gardner, spiegava con pazienza ciò che apprendeva grazie alla propria rete di amicizie internazionali e all’assidua frequentazione dei vertici della Chiesa cattolica. Cercò tra l’altro di contribuire alla soluzione della crisi degli ostaggi americani a Teheran. 2. Cfr. M. ANSALDO, «Dini ai nordcoreani: Fate come la Cina», la Repubblica, 30/3/2000.
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Più in generale, cercavamo di volgere a favore dell’Italia la nostra ritrosia a individuare avversari e nemici sul palcoscenico della politica internazionale, fngendoci amici di tutti, per ritagliarci una funzione nobile che fosse in grado di elevare il prestigio del nostro paese e della sua diplomazia. In alcune circostanze funzionò, in altre invece no, risolvendosi anzi in un danno d’immagine ogni qual volta le nostre ambiguità seminassero dubbi circa l’affdabilità dell’Italia. La differenza degli esiti non dipendeva tanto dalla caratura di coloro che momento per momento declinavano questa politica, quanto dal contesto in cui tentavano di farlo. In pratica, uno Stato incardinato nel sistema di sicurezza occidentale poteva operare alla stregua di un paese neutrale soltanto quando il clima fosse complessivamente disteso e in qualche modo fuido: una situazione nella quale la polarizzazione si attenuava e sfumava la contrapposizione schmittiana amico-nemico. Credendo che la storia fosse davvero fnita, negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica ipotizzammo di poter fungere da avvocati della Russia in Occidente e successivamente, quando le cose avrebbero iniziato a mettersi male, di difendere l’Occidente presso i russi. Investimmo sulla riconciliazione tra Mosca e Washington, ospitando nel 2002 a Pratica di Mare il vertice che avrebbe sancito il punto di massimo avvicinamento tra l’Alleanza Atlantica e la Federazione Russa, nel convincimento che potesse essere il punto di partenza per una progressiva integrazione del Cremlino nel nostro mondo. Non capimmo, quella volta, di essere stati soltanto comprimari in un processo che aveva avuto la sua origine non nelle nostre trame diplomatiche, ma nella necessità americana di ottenere la collaborazione di Mosca nella campagna militare contro il terrorismo internazionale e in quella, simmetrica, della Russia, di farsi perdonare gli eccessi delle sue guerre cecene. Di qui l’evidente sbigottimento che l’aggressione russa all’Ucraina, il 24 febbraio 2022, avrebbe determinato a tutti i livelli nel nostro paese, ponendo in luce i limiti di un certo modo di intendere la presenza dell’Italia sulla scena internazionale. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. Allo sbigottimento si sommava il disappunto. Anche questa volta, infatti, avevamo provato a interporre i nostri buoni uffci ricorrendo ad audaci escamotage diplomatici che avrebbero dovuto indurre il presidente russo a sospendere o procrastinare a tempo indeterminato la propria decisione di invadere l’Ucraina. Cosa ritenevamo dovesse esser fatto lo aveva affermato con decisione l’allora presidente del Consiglio Mario Draghi nella sua conferenza stampa di fne anno, il 22 dicembre 2021: «Dobbiamo mantenere il presidente Putin in stato di ingaggio» – ovvero ancorato a un tavolo negoziale. Tra l’altro ottenendo da quest’ultimo un immediato riscontro a stretto giro di posta 3. Facendo leva sul ministro degli Esteri Sergej Lavrov, probabilmente contrario all’avventura militare alla quale si stava risolvendo l’uomo forte del Cremlino, eravamo persino riusciti a organizzare una missione in extremis per il nostro premier, che avrebbe dovuto aver luogo proprio il giorno in cui sarebbe stato scatenato l’attacco. Avevamo fatto sapere a tutti, anche con inter-
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3. Cfr. «Ue-Russia: Draghi, dobbiamo mantenere stato “ingaggio” con Putin», Agenzia Nova, 22/12/2021.
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venti parlamentari dell’allora titolare della Farnesina Luigi Di Maio, che mentre l’Italia ribadiva la sua adesione alla politica della «porta aperta», riconoscendo il diritto sovrano di chiunque a chiedere l’adesione alla Nato, Roma avrebbe comunque tenuto conto dell’articolo 10 del Patto Atlantico, che subordina l’accettazione di ogni richiesta alla valutazione dell’effettivo contributo alla difesa collettiva da parte dello Stato richiedente. Per preparare la visita di Draghi, il 17 febbraio 2022 Di Maio si era anche recato a Mosca: un fatto che aveva generato sensazione a Washington, come prova la circostanza che a una conferenza stampa svoltasi il giorno dopo presso la Casa Bianca un giornalista avesse chiesto al viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Daleep Singh se il premier italiano fosse o meno sul punto di rompere il fronte antirusso a causa della diffcoltà di Roma a sostenere le sanzioni che avrebbero potuto colpire il gas 4. L’Italia sembrava dunque addirittura in bilico: altro elemento che contribuisce a rendere razionalmente incomprensibile la scelta di Putin di ricorrere alla forza, insensata anche qualora fosse stata coronata da successo, per via delle conseguenze negative che la Russia avrebbe inevitabilmente dovuto sopportare in termini di sanzioni e isolamento internazionale. Di contro, alla vigilia del riconoscimento unilaterale dell’indipendenza delle due repubbliche separatiste sorte nel Donbas, il Cremlino aveva a portata di mano la «vittoria di Sunzi», ovvero quella raggiunta senza sparare un colpo che dovrebbe essere perseguita da ogni stratega saggio. Giova oggi ricordare a questo proposito come, proprio mentre l’intelligence americana e quella britannica paventavano come imminente l’attacco russo, Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada avessero abbandonato Zelens’kyj al suo destino ritirando da Kiev tutti i propri consiglieri militari e dimostrando al presidente ucraino i limiti dell’opzione euroatlantica che il suo paese aveva deciso di percorrere. Mosca pareva altresì sul punto di concedere a Draghi, il banchiere e politico europeo occidentale forse più vicino agli ambienti democratici della East Coast americana, il privilegio di portare a casa un accordo che avrebbe scongiurato la guerra, dividendo al loro interno la Nato e l’Unione Europea. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Proprio dallo sbilanciamento verso Mosca, legato al tentativo di evitare il confitto e ricavare prestigio al paese e al suo presidente del Consiglio pro tempore, l’Italia sarebbe stata inesorabilmente costretta, già all’indomani della controversa decisione russa di riconoscere come entità indipendenti le sedicenti repubbliche di Luhans’k e Donec’k, ad attuare una spettacolare inversione a U. Sostanzialmente, un anno fa sarebbe accaduta una cosa molto simile a quella che si era verifcata nel novembre 2011 quando, con lo spread a 500 punti base, a Silvio Berlusconi era succeduto a Palazzo Chigi Mario Monti, che aveva scelto quale ministro degli Esteri 4. Cfr. «Press Briefng by Press Secretary Jen Psaki, Deputy National Security Advisor for Cyber and Emerging Technology Anne Neuberger, and Deputy National Security Advisor for International Economics and Deputy NEC Director Daleep Singh», White House, 18/2/2022. Singh dette peraltro una risposta assai elusiva.
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l’ambasciatore d’Italia a Washington, Giulio Terzi di Sant’Agata, e chiamato alla testa del dicastero della Difesa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, che presiedeva allora il Comitato militare della Nato. Senza modifcare questa volta la compagine di governo, essendone impraticabile l’avvicendamento nelle more della crisi epidemica, sarebbe stato lo stesso Draghi a pilotare la svolta, uniformandosi immediatamente alla scelta di interrompere tutti i contatti di alto livello con la Federazione Russa fatta il 22 febbraio 2022 dal segretario di Stato americano Antony Blinken 5. Intervenendo infatti alla Camera e al Senato per rendere un’informativa sui più recenti sviluppi, il ministro Di Maio enunciava il giorno dopo la stessa linea adottata dagli Stati Uniti, proprio mentre a Mosca si defniva come un dossier ancora aperto quello concernente la visita di Draghi al Cremlino. Seguivano quindi lo stizzito comunicato del ministero degli Esteri russo sulla diplomazia dei cocktail italiana e, in un crescendo rossiniano, la dichiarazione televisiva con la quale Di Maio aveva sottolineato come tra Putin e qualsiasi animale esistesse un abisso e quello atroce fosse proprio il leader russo. In parlamento, il premier riconobbe a sua volta come fosse stato fatto qualche sbaglio in passato. E tracciò la rotta che avrebbe portato l’Italia a schierarsi con l’Ucraina e contro gli aggressori. Roma avrebbe altresì aderito all’imposizione e all’applicazione delle sanzioni decretate contro Mosca dall’Unione Europea. Inoltre, il 28 febbraio 2022 il Consiglio dei ministri varava il decreto legge che avrebbe autorizzato il governo a fornire all’Ucraina fno al 31 dicembre scorso anche gli aiuti militari necessari alla sua difesa. È sulla base di questo provvedimento che sarebbero stati emanati successivamente cinque decreti interministeriali aventi a oggetto proprio l’invio di materiali d’armamento a Kiev. Un sesto atto amministrativo di questo tipo era in corso di defnizione al momento in cui il nuovo ministro della Difesa, Guido Crosetto – subentrato a Lorenzo Guerini, nel frattempo tornato alla presidenza del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir) – si presentava il 13 dicembre scorso alle assemblee di Camera e Senato per comunicare la volontà del governo Meloni di prorogare di un anno la politica di sostegno militare alla resistenza ucraina, chiedendo altresì su questa scelta un pronunciamento favorevole delle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, che sarebbe giunto con numeri più alti di quelli assicurati dall’attuale maggioranza di centro-destra. I dibattiti svoltisi nei due rami del parlamento sono stati sostanzialmente identici, sfociando nell’esame di ben cinque atti d’indirizzo di tenore analogo tanto alla Camera quanto al Senato. Per facilitare la massima convergenza tra i gruppi, si sarebbe fatto ricorso ancora una volta alla tecnica del voto per parti separate delle singole proposte di risoluzione: un meccanismo attraverso il quale si permette a ogni deputato o senatore di non votare una o più parti sgradite dei singoli dispositivi, permettendone però l’approvazione complessiva. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. H. PAMUK, S. LEWIS, «U.S. Blinken cancels meeting with Lavrov, says Russian moves are “rejection of diplomacy”», Reuters, 23/2/2022.
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Alla conta, avrebbero superato il vaglio di Montecitorio e Palazzo Madama sia il testo presentato dai gruppi dell’attuale maggioranza di centro-destra che quelli depositati dal Partito democratico e dai parlamentari appartenenti ad Azione/Italia Viva, l’aggregazione guidata da Carlo Calenda e Matteo Renzi: tutti accomunati dal sostegno al governo nella propria azione di appoggio all’Ucraina, anche con la fornitura di aiuti militari fno alla fne di questo 2023. Sono stati invece bocciati i documenti sottoposti alle assemblee parlamentari rispettivamente dall’Alleanza Verdi e Sinistra, che chiedeva un drastico cambio di approccio, e dal Movimento Cinque Stelle, che invece esigeva il passaggio a un’autorizzazione circostanziata delle Camere per ogni futuro decreto concernente l’invio di armi o munizioni. Nel corso del dibattito, i pentastellati avevano anche sollevato la questione relativa alla secretazione della composizione dei pacchetti di aiuti, evidenziando come almeno la Germania si fosse dissociata da questa prassi. Nel corso della sua replica ai singoli interventi, Crosetto avrebbe comunque confermato tanto l’opzione in favore della segretezza sulla composizione delle consegne quanto l’impegno del governo ad aggiornare i partiti sui dettagli sensibili delle forniture attraverso la sede «protetta» del Copasir. Stando peraltro a indiscrezioni raccolte dalla stampa, confermate informalmente dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, a prendere prossimamente la via di Kiev sarà almeno una delle cinque batterie di Samp/T in dotazione al nostro Esercito. Informazioni vengono anche dai russi, che non perdono occasione di farci sapere quando e quali materiali di fabbricazione od origine italiana cadono nelle loro mani sul campo di battaglia 6. È certo inoltre da altre fonti aperte che gli ucraini abbiano ricevuto dal nostro paese dei semoventi PhZ2000, dei lanciatori multipli di razzi Mlrs e pezzi d’artiglieria. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. L’Italia continuerà quindi ad applicare le sanzioni imposte contro Mosca e a sostenere Kiev nei modi e nelle forme che saranno decisi dall’Alleanza Atlantica e dall’Unione Europea, malgrado questa linea crei malumori in qualche settore del sistema politico che pure la sostiene e non sia gradita da buona parte della nostra opinione pubblica, più sensibile di altre ai richiami del pacifsmo o al pregiudizio ideologico anti-americano 7. 6. Il 25 aprile 2022, ad esempio, tal Maria Dubovikova, nota anche sotto il nome di Maria Al Makahleh, una frma russa di Al Arabiya che si autodefnisce «analista ed esperta indipendente di media», ha pubblicato su Twitter la fotografa di una cassa di munizioni da mortaio che sarebbe stata rinvenuta nel garage degli uffci dell’Osce a Mariupol’, con i dettagli leggibili relativi al deposito italiano di provenienza (Villabona), alla data d’imballaggio e all’aeroporto italiano di partenza (Pratica di Mare). Più recentemente, il 19 gennaio scorso, in un tweet l’ambasciata russa in Italia ha dato notizia di missili Milan fabbricati in Italia sottratti agli ucraini e riassegnati ai miliziani della Repubblica Popolare di Donec’k. Il giorno dopo lo stesso account pubblicava inoltre in un altro tweet le immagini di un Iveco Lmv 4x4 italiano, più noto come Lince, utilizzato dall’esercito ucraino e «distrutto durante l’operazione militare speciale», aggiungendo il seguente commento: «La sorte dei mezzi militari trasferiti al regime di Kiev è prevedibile e poco invidiabile». 7. I sondaggi, pur nella loro diversità, convergono sul fatto che le forniture militari al governo di Kiev non piacciono agli italiani: secondo una rilevazione di Lab21.01 risalente agli inizi dello scorso novembre, i contrari all’invio di altre armi all’Ucraina erano ormai il 53,2%, contro il 46,8% di favorevoli. Secondo un altro sondaggio, condotto da Iai e Laps in ottobre, gli italiani contrari sarebbero addirittura il 57%.
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ITALIANI, ALLINEATI E COPERTI
Alla prosecuzione del confitto, che secondo i critici del governo sarebbe permessa anche dalle forniture di armi garantite all’Ucraina, molti tra l’altro riconducono anche la recente lievitazione dei costi dell’energia, che invece dipende in misura non trascurabile dalle conseguenze della massiccia iniezione di liquidità decretata dalla Fed e dalla Bce nel biennio 2020-21 per contrastare gli effetti economici dell’epidemia. Altri lamentano invece la perdita delle occasioni di guadagno causata dall’interruzione degli scambi con la Russia. Periodicamente, qualcuno pubblica anche delle stime sull’entità degli ammanchi di fatturato che sarebbero imputabili alla posizione assunta dall’Italia nella guerra, peraltro senza mai interrogarsi sul costo che il nostro paese avrebbe potuto e potrebbe pagare adottando un atteggiamento diverso. Sarebbe invece importante farlo, per comprendere meglio la vera natura del «vincolo esterno» che comprime la sovranità del nostro paese quando siano in questione delle scelte di campo di particolare importanza. Gli interessi e la loro magnitudine in effetti non ammettono deroga: soltanto in questo 2023 l’Italia dovrà infatti rinnovare titoli del suo debito pubblico in scadenza per oltre 410 miliardi di euro e a questa cifra si aggiungeranno altri 105 miliardi ulteriori di nuovo indebitamento 8. Visto che ci troviamo in un’area monetaria governata da una Banca centrale indipendente cui è vietato di coprire i defcit degli Stati con l’emissione di carta moneta, questi soldi dovranno essere interamente reperiti sul mercato, rivolgendoci ai risparmiatori piccoli e grandi di tutto il mondo che acquistano i nostri titoli, direttamente o per il tramite di investitori più grandi, a un tasso d’interesse che dipende dal merito di credito della Repubblica. Per convincerli a comprare senza corrispondere una remunerazione esorbitante, è essenziale proteggere la reputazione del paese e la politica estera è uno dei criteri che concorrono a determinarla. Basta poco per perdere la fducia delle Borse: è suffciente un attacco coordinato condotto da poche ma infuenti testate aventi risonanza globale – come New York Times, Washington Post, Financial Times ed Economist (si ricorderà certamente l’«unft», «inadatto», riservato a Berlusconi da una sua celebre copertina) – a far scappare i potenziali compratori, spingendo lo spread alle stelle e avvicinando il Tesoro italiano allo spettro del default che porterebbe al collasso del paese, comportando il blocco di ogni servizio pubblico, dagli ospedali alle scuole, dai tribunali ai presidi di polizia. È per questa stringente ragione, e non per servilismo, che specialmente in tempo di crisi l’interesse nazionale italiano non può essere defnito in modo divergente rispetto a quelli delle più forti potenze fnanziarie e mediatiche del pianeta di cui siamo alleati senza che sia pagato un prezzo insostenibile. Tale circostanza spiega perché, mentre infuria una guerra che coinvolge la Russia nella posizione di Stato aggressore, i margini d’azione e iniziativa dell’Italia siano scomparsi. Noi non siamo l’Ungheria, che ha un debito sovrano al 75% del pil e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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8. Le cifre si rinvengono nello stato di previsione del bilancio dello Stato per il 2023 approvato dal parlamento lo scorso 28 dicembre. Il ricorso al mercato è autorizzato per ben 516,82 miliardi di euro, cifra che corrisponde a oltre un quarto del prodotto interno lordo. La spesa pubblica complessiva sarà pari a oltre 1.183 miliardi, ovvero quasi il 60% del pil italiano.
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vanta la possibilità di praticare una politica monetaria indipendente, e se del caso disinvolta, di cui è manifestazione un’infazione che tende ormai al 20% annuo. Con un debito ormai al 150% del suo pil servito interamente dal risparmio privato mondiale, l’Italia non può permettersi giri di valzer à la Orbán. Il precedente del 2011 è stato metabolizzato da tutti coloro che furono protagonisti di quella stagione e si trovano oggi di nuovo nella stanza dei bottoni. E infatti, dopo le comunicazioni rese da Guido Crosetto in parlamento, il decreto legge emanato per protrarre il sostegno militare all’Ucraina fno alla fne del 2023 è stato approvato da Senato e Camera senza alcun problema. Anche se sono stati chiamati in causa alti princìpi morali, peraltro non di rado ignorati in altri contesti, a decidere in questa direzione è stata la ragion di Stato, che imporrà la prosecuzione di questa politica fnché non tornerà la pace.
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IL SECOLO DELLA TURCHIA?
di Daniele SANTORO
La guerra in Ucraina offre a Erdoãan l’occasione di emanciparsi dalla morsa euroamericana. L’Anatolia come connettore commerciale ed energetico fra Asia, Europa e Africa. L’intesa tattica con Mosca. Ma la partita esistenziale è con la Grecia.
I
1. L 28 OTTOBRE 2022, ALLA VIGILIA DEL novantanovesimo anniversario della fondazione della repubblica, Recep Tayyip Erdoãan ha proclamato uffcialmente l’avvento del «secolo della Turchia», declinando contestualmente «spirito, flosofa ed essenza» di una «visione» che si annuncia compiutamente imperiale. Perché si vuole volta innanzitutto a lenire le piaghe dei perseguitati, a proteggere gli oppressi, a governare equanimemente le molteplici anime dell’impero in gestazione. «Il musulmano che viene emarginato a causa della sua fede, il curdo che viene discriminato per la sua lingua, l’alevita che viene oppresso in ragione della sua identità, i fgli cristiani ed ebrei di queste terre che sono esposti all’ingiustizia» 1. Con l’obiettivo di ricomporre le innumerevoli faglie anatoliche, compattare l’elemento umano del nucleo territoriale dell’impero, mitigare le vulnerabilità antropologiche della Turchia. Per poi esportare nelle periferie imperiali tale modello di giustizia, che il presidente turco immagina intrinsecamente attraente per le masse arabe e balcaniche orfane di uno Stato che sappia tutelarne le necessità primarie e incoraggiarne le aspirazioni. Nemesi ottomana in piena regola. La visione del «secolo della Turchia» è l’ultima manifestazione ideale delle inestirpabili ambizioni imperiali dei turchi repubblicani, che grazie alle dinamiche innescate dalla guerra russo-americana in Ucraina hanno infne assunto una tangibile dimensione geopolitica. Dalla prospettiva di Ankara il confitto ucraino è stato testimonianza epifanica dell’ineluttabile destino imperiale, l’atteso evento trasformativo che ha permesso alla repubblica fondata da Mustafa Kemal di liberarsi dalle redini con le quali europei e americani ne imbrigliarono le aspirazioni dopo le due guerre mondiali. La Turchia attendeva con angoscia tale opportunità quanCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. «Erdoãan declares “Century of Turkey vision”, signaling new constitution», Duvar, 28/10/2022.
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tomeno dagli anni Ottanta, come dimostra ad esempio l’incosciente spregiudicatezza con la quale si è gettata nella mischia delle «primavere arabe». E soprattutto la disinibita determinazione con cui Erdoãan è risorto dalle potenzialmente esiziali sconftte subite in Egitto e in Siria. Testimoniata dalla stretta di mano a Doha con il rivale egiziano al-Sîsî e dall’annunciato proposito di legittimare il siriano al-Asad. A differenza della fne della guerra fredda e delle «primavere arabe», il confitto ucraino ha fnalmente permesso alla Turchia di valorizzare i fondamentali geopolitici sviluppati con costanza negli scorsi decenni. In primo luogo la potenza militare, reifcata negli ormai leggendari droni da combattimento Bayraktar Tb2. Status symbol prima ancora che strumenti bellici. Ma i velivoli a pilotaggio remoto agognati dalle Forze armate di mezzo mondo – tanto che il presidente turco lamenta di non poterne produrre a suffcienza per soddisfare la crescente richiesta – sono solo la punta dell’iceberg anatolico, la cui massa è composta dai sistemi d’arma di produzione autoctona (missili, radar, artiglieria «intelligente», veicoli corazzati, sistemi di difesa aerea) che hanno permesso alla Turchia di imporsi sui campi di battaglia afro-eurasiatici, dal Nord Africa al Caucaso passando per il Levante. E di alimentare la tumultuosa crescita delle esportazioni di armamenti, tanto che tra il 2012 e il 2021 Ankara ha fatto registrare il maggior tasso di crescita relativa dell’export di armi. Riducendo in modo altrettanto pronunciato le importazioni, quindi la dipendenza dai rivali 2. Tendenza destinata ad assumere carattere strutturale in virtù della sempre più impetuosa dinamicità dell’industria bellica anatolica, ormai in grado di produrre fregate, missili a lungo raggio, aerei da guerra senza pilota. E nel prossimo futuro anche carri armati (Altay) e aerei da guerra di quinta generazione (Tf-x). La dinamicità dell’industria bellica è conseguenza diretta degli impressionanti progressi in campo scientifco-tecnologico, che hanno per esempio consentito l’applicazione ad ampio raggio dei sistemi a pilotaggio remoto – vedi l’entrata in servizio delle navi da superfcie senza pilota (Ulaq) – e lo sviluppo del prototipo di automobile volante (Cezeri), i cui primi esemplari per scopi ricreativi dovrebbero essere commercializzati nel prossimo biennio. Così come della costante crescita del potenziale industriale, commerciale e infrastrutturale, al netto della contingente crisi monetaria. Lo scorso anno l’export turco ha fatto segnare un nuovo record assoluto, aumentando del 13% rispetto al 2021 3. Nel giorno del novantanovesimo anniversario della fondazione della repubblica Erdoãan ha inaugurato la fabbrica nella quale verrà prodotta la prima automobile made in Türkiye (Togg) 4. Inoltre, le scoperte di ingenti giacimenti di gas nel Mar Nero 5 e di petrolio nel Sud-Est anatolico 6 – alle quali va aggiunto il rinvenimento della seconda maggior riserva di Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. D. SOYALTIN-COLLELA, T. DEMIRYOL, «Unusual middle power activism and regime survival: Turkey’s drone warfare and its regime-boosting effects», Third World Quarterly, 10/1/2023. 3. «Turkey’s exports hit record $254 bln in 2022 -Erdogan», Reuters, 2/1/2023. 4. B. ÜNVEREN, «Turkey launches TOGG car, Erdogan’s prestige project», dw.com, 30/10/2022. 5. «Turkey’s natural gas fnd in Black Sea now comes to 710 bcm -Erdogan», Reuters, 26/12/2022. 6. S. NADIG, «Turkish Petroleum discovers oil worth $12bn in Mount Gabar», Offshore Technology, 15/12/2022.
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terre rare nella provincia di Eskiúehir 7 – permetteranno ad Ankara di ridurre già nel breve periodo la dipendenza energetica dall’estero, con inevitabili effetti sul saldo della bilancia commerciale. Anche in considerazione del ruolo sempre più centrale che la Turchia è destinata ad assumere nel mercato del gas in conseguenza della potenziale realizzazione nella Tracia orientale dello hub energetico proposto dal presidente russo Vladimir Putin. Le cospicue risorse – non solo e non tanto economiche – convogliate nello sviluppo di infrastrutture strategiche (ferrovia Baku-Tblisi-Kars, alta velocità nell’occidente anatolico, Marmaray) hanno poi permesso ad Ankara di divenire snodo logistico quasi imprescindibile tra Cina ed Europa e di aumentare proporzionalmente il suo potere di interdizione geopolitico. Che Erdoãan intende accrescere ulteriormente mediante la realizzazione di Canale Istanbul, esplicitamente citato nel discorso sul «secolo della Turchia». I progressi materiali sono stati alimentati e hanno a loro volta alimentato la pervasività del soft power anatolico, il cui potere di fascinazione ha permesso ad Ankara di generare un marchio originale e perfettamente distinguibile. Dotato di recente di un logo che intende manifestare l’autonomia strategica raggiunta dalla Turchia. O meglio Türkiye, toponimo che Erdoãan ha imposto alle Nazioni Unite in sostituzione di Turkey 8. Uffcialmente per ragioni di ambigua omonimia ornitologica 9, concretamente come esibizione di nazionalismo imperiale. Il cui successo è testimoniato dalla decisione del dipartimento di Stato – dietro formale richiesta dell’ambasciata turca a Washington – di accogliere la variazione toponomastica 10. Viziata a monte da una (solo apparente) contraddizione strutturale. Türkiye è infatti tarda turchizzazione del toponimo Turchia, con il quale i mercanti italiani battezzarono l’Anatolia nel XII secolo e che nelle sue varianti divenne di uso comune in Europa. Talmente estraneo alla tradizione turca che ancora vent’anni dopo la fondazione della Repubblica di Turchia (Türkiye Cumhuriyeti) era largamente diffusa la pronuncia «Türkiya», tanto che nel 1950 la Grande Assemblea Nazionale dovette approvare un’apposita legge sulla pronuncia del nome dello Stato. «In verità – scrive ølber Ortaylı, massimo storico turco vivente – battezzare così il nostro paese è stato piuttosto bizzarro, perché a chiamarlo con questo nome non furono i nostri antenati ma gli italiani, che lo conoscevano benissimo. I nostri antenati lo chiamavano terra di Roma (øklim-i Rum), il loro obiettivo era conquistare l’impero romano». In altri termini, «quella che gli italiani chiamavano Turchia per i nostri antenati era Roma» 11. Il logo della potenza anatolica – che si immagina imperiale – origina dunque dalla vittoria del colonialismo toponomastico occidentale, che simboleggia la transizione dall’impero (Roma) allo Stato nazionale (Turchia). Sconftta che nella coscienza anatolica è tuttavia al contempo passaggio vitale che ha permesso ai turchi di preservare la loro indipendenza, dal momento che la fne dell’imCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
7. «Turkey touts discovery of world’s 2nd-largest rare element reserve», Daily Sabah, 12/7/2022. 8. «Turkey wants to be called Türkiye in rebranding move», bbc.com, 2/6/2022. 9. «Why Turkey is now ‘Turkiye”, and why that matters», Trt Word, 13/12/2021. 10. C. CHUNG, «For the State Department, Now It’s Türkiye, Not Turkey», The New York Times, 5/1/2023. 11. ø. ORTAYLI, Türklerin Tarihi (Storia dei turchi), østanbul 2016, Timas Yayınları, pp. 19-21.
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Area di forti scontri EUNAVFORMED IRINI Grecia e Italia si alternano ogni sei mesi al comando in mare della missione Ue incaricata di applicare l’embargo sulle armi alla Libia, che sconta però l’ostilità turca e una componente navale sottodimensionata.
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IL SECOLO DELLA TURCHIA?
L’ACCORDO MARITTIMO TRA TURCHIA E LIBIA
LA GUERRA CONTINUA
pero non implicava automaticamente la nascita di uno Stato in grado di preservare la propria sovranità. Türkiye esprime dunque un concetto estraneo alla tradizione turca, che per necessario interesse i turchi hanno fatto proprio fno a renderlo il tratto distintivo della propria identità geopolitica. Esempio da manuale di turchizzazione, processo culturale alla base dei successi imperiali conseguiti negli ultimi due millenni dagli eredi degli unni. Il marchio turco non guadagna peraltro popolarità solo nel dår al-Islåm o nelle Afriche profonde. Una delle conseguenze più notevoli della guerra in Ucraina è che le dinamiche da essa innescate hanno costretto le opinioni pubbliche e i governi dei paesi europei a riconoscere il superiore rango geopolitico della Turchia, arbitro attivo ed esibizionista in un confitto nel quale i satelliti americani del Vecchio Continente non hanno mai toccato palla. I successi – e i fallimenti – della Turchia non possono essere ascritti unicamente a Erdoãan, interprete ma non artefce delle dinamiche che hanno provocato l’ascesa geopolitica dei discendenti degli ottomani. Queste ultime precedono l’avvento del presidente turco e sopravvivranno alla sua morte (politica). Ma in quanto incarnazione dello spirito turco, del destino manifesto simboleggiato dall’allegoria mitologica di Kızıl Elma, la fgura del Reis è oggi il più effcace strumento di soft power forgiato nella fucina geopolitica anatolica. La retorica e le apparizioni di Erdoãan scatenano un turbinio di variegati e contrapposti sentimenti nel resto dell’umanità. Timore negli europei, preoccupazione negli americani, invidia nei russi, curiosità nei cinesi, rispetto nei musulmani, ammirazione negli africani. Impulsi il cui comune denominatore è la consapevolezza che i voleri del «dittatore», del «sultano» o della «guida del mondo islamico» non possono essere (più) ignorati. Perché la fgura di Erdoãan – feticcio geopolitico che può suscitare disprezzo o venerazione, ma non indifferenza – riverbera gli istinti e le ambizioni di una collettività che in nome del patriottismo imperiale e dell’innata consapevolezza di non poter sfgurare nel quotidiano confronto con i propri antenati ha non solo affrontato e superato prove potenzialmente letali, ma usato la sofferenza (in)direttamente provocata dalle proprie grandiose aspirazioni per irrobustire le difese immunitarie e generare la resistenza necessaria ad alzare ulteriormente il livello della sfda al resto del mondo. Ed è proprio questo prezioso elemento umano la base della piramide che culmina nelle vittorie militari ottenute grazie ai sofsticati droni da combattimento e nella centralità geopolitica suggellata dalla guerra in Ucraina. L’origine del decennale processo che ha permesso alla Turchia di affermarsi infne come potenza globale a tutto tondo. Ankara è ancora incapace di competere alla pari con le grandi potenze, ma è in grado di proiettare infuenza e interessi nell’intero pianeta. Dall’Antartide alla Siberia, dalla Scandinavia alle Afriche profonde. Divenendo contestualmente il punto di riferimento informale delle medie potenze revisioniste, come dimostrano ad esempio i rapporti sempre più intimi sviluppati con il Regno Unito sotto il proflo commerciale, industriale e militare. E riuscendo a volgere a proprio vantaggio la sua crescente indispensabilità per le grandi potenze, propoCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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nendosi a seconda delle circostanze come camera di compensazione, piattaforma, sentinella, avamposto. Con il proposito di usare le necessità tattiche altrui per alimentare i propri disegni strategici. 2. Il Caucaso meridionale è il contesto nel quale si sono manifestate in modo più nitido la capacità di pianifcazione strategica della Turchia e l’abilità con la quale Ankara, a differenza del passato, riesce a destreggiarsi con successo nella competizione tra grandi potenze. È stata la combinazione di queste due attitudini a permettere ai turchi di imporre la strategia del Corridoio centrale, rotta ferroviaria che collega la Cina all’Europa lungo il percorso più breve, attraverso la steppa kazaka, il Caspio, il Caucaso, l’Anatolia e il Bosforo. L’affermazione di tale direttrice infrastrutturale è una delle conseguenze più strategiche della guerra ucraina, che ha reso parzialmente inservibile il Nuovo ponte terrestre eurasiatico. Costringendo la Repubblica Popolare e i paesi europei a esplorare rotte commerciali che aggirino lo spazio russo-bielorusso. La capacità del Corridoio centrale è per il momento pari a una frazione di quella della rotta settentrionale, ma le dinamiche innescate dall’invasione russa dell’Ucraina e la determinazione con la quale Turchia, Azerbaigian e Kazakistan intendono potenziare la direttrice panturca ha aumentato enormemente l’appetibilità di quest’ultima per entrambi i poli dell’Eurasia. Tanto che Pechino è stata indotta a integrare di fatto il Corridoio centrale nelle nuove vie della seta, sostituendo con tale rotta il passaggio mediano imperniato sulla piattaforma iraniana. Dinamica che ha consentito ad Ankara di posizionarsi al centro del grande gioco logistico eurasiatico 12. La Turchia ha iniziato a immaginarsi in tale condizione geopolitica in tempi non sospetti. Già nel 1997 a Istanbul si tenne una conferenza dal titolo «Vie della seta 2000» nella quale – alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Süleyman Demirel – vennero delineati alcuni dei grandiosi progetti infrastrutturali poi realizzati da Erdoãan 13. Contestualmente, Ankara si pose il problema di come sostanziare le proprie ambizioni eurasiatiche, individuando due obiettivi prioritari: raggiungere una posizione egemonica nel Caucaso legando a sé l’Azerbaigian e attirare l’attenzione della Cina. In entrambi i casi la Turchia ha giocato partite di lungo periodo non prive di rischi, iniziate quasi in contemporanea. Il 10 ottobre 2009 i presidenti turco e armeno Abdullah Gül e Serž Sargsyan frmarono a Zurigo dei protocolli sulla normalizzazione delle relazioni bilaterali che non facevano menzione della questione del Nagorno Karabakh. Quattro giorni dopo i due capi di Stato assistettero insieme alla partita di calcio tra Turchia e Armenia, valida per le qualifcazioni ai Mondiali sudafricani, che si disputava a Bursa. Prima dell’inizio del match la polizia vietò agli ultras turchi di inCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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12. T. ELDEM, «Russia’s War on Ukraine and the Rise of the Middle Corridor as Third Vector of Eurasian Connectivity», Swp Comment n. 64, ottobre 2022. 13. U. ERGUNSÜ , «øpek Yolu’nun Yeniden Canlandırılması ve Türkiye - Çin Halk Cumhuriyeti øúbirliãine Etkileri» («La rivitalizzazione della via della seta e i suoi effetti sulla cooperazione tra Turchia e Repubblica Popolare Cinese»), Türkiye Yazarlar Birliãi, 31/10/2017.
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trodurre nello stadio bandiere azerbaigiane. Baku reagì in modo manifestamente nervoso ai due eventi. Il presidente ølham Aliyev minacciò di tagliare i fussi di gas verso l’Anatolia e ordinò la rimozione della bandiere turche dal sacrario dei soldati ottomani morti durante la guerra d’indipendenza del 1918. L’Azerbaigian percepiva nitidamente il rischio di essere abbandonato dalla Turchia e di dover combattere in solitudine la vitale battaglia contro il nemico armeno. Sentimento che creava il contesto ideale per l’ingresso in scena di Erdoãan, il quale in occasione della visita a Washington del dicembre 2009 fece saltare la normalizzazione turco-armena e rilanciò la cooperazione con Baku. Con un caveat implicito rispetto al passato: in assenza di un progressivo ma costante allineamento delle rispettive strategie nazionali, Ankara si riservava di giocare la carta armena contro la repubblica sorella. È sulla base di questo presupposto che nell’ultimo decennio l’Azerbaigian ha iniziato a gravitare con sempre maggiore intensità nell’orbita anatolica. Dinamica suggellata dalla profonda cooperazione militare a sua volta culminata nella seconda guerra del Nagorno Karabakh, in conseguenza della quale l’Azerbaigian ha (ri)conquistato il territorio irredento e la Turchia ha conquistato l’Azerbaigian. Pochi mesi prima della frma dei protocolli di Zurigo, nel luglio 2009, Erdoãan apriva la partita con la Cina defnendo in termini di «genocidio» la repressione da parte di Pechino delle proteste uigure scoppiate a Ürümqi qualche giorno prima. Iperbole geopolitica che permise all’allora primo ministro turco – che stavolta vestì i panni del poliziotto cattivo, lasciando indossare quelli del poliziotto buono al ministro degli Esteri Ahmet Davutoãlu – di attirare l’attenzione dei cinesi, di renderli consapevoli della potenziale capacità di Ankara di introdursi nelle dinamiche interne al Xinjiang/Turkestan orientale, ventre molle della Repubblica Popolare. Intenzione ribadita negli anni successivi mediante il trasferimento di qualche migliaio di uiguri dalla «culla della civiltà turca» all’Anatolia, e da qui in Siria. Migrazione che mandò su tutte le furie Pechino, preoccupata dalla prospettiva che la Turchia, al momento opportuno, avrebbe potuto invertire il fusso e spedire i combattenti uiguri induriti dal jihåd siriano in Afghanistan, da dove avrebbero potuto destabilizzare il Xinjiang. Come i protocolli di Zurigo, anche l’intrusione nel Turkestan orientale era una mossa tattica volta al perseguimento di un fne strategico di natura diametralmente opposta rispetto alle implicazioni immediate dell’iniziativa. Attirata l’attenzione di Pechino, Erdoãan smussò ben presto la retorica anticinese per poi abbandonare gli uiguri al proprio destino. Veicolando il messaggio che l’obiettivo della Turchia era sviluppare profcue relazioni di collaborazione con la Cina, ma che in assenza di reciprocità la Repubblica Popolare avrebbe pagato un conto particolarmente salato. Sulla base di queste premesse, a partire quantomeno dal fallito golpe del 15 luglio 2016 la cooperazione sino-turca ha guadagnato un impeto senza precedenti. Tanto che nel giugno 2021, alla vigilia del primo faccia a faccia tra Erdoãan e Biden, Xi Jinping arrivò a inflare nelle tasche del presidente turco quasi quattro miliardi di dollari per rafforzarne la posizione negoziale nei confronti dell’omoCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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GAMBIA ET IOPIA Origine del corridoio afro-oceanico della Turchia Sbocchi oceanici dell’Anatolia Snodi imprescindibili del corridoio afro-oceanico della Turchia Paesi di rilevanza strategica per il corridoio afro-oceanico della Turchia Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee turca Arco d’interdizione mediterraneo della Turchia - Zee libica
SOMA LIA Oceano Indiano
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Infrastrutture costruite o controllate dalla Turchia 1 Porto di Aliağa 2 Porto di Taranto 3 Porto di Malta 4 Aeroporto internazionale di Mitiga (Tripoli) 5 Aeroporto militare e base navale di Misurata 6 Base aerea di al-Watiyya 7 Aeroporto internazionale Blaise Diagne di Dakar 8 Aeroporto internazionale e porto commerciale di Mogadiscio 9 Progetto di base militare turca sul Mar Rosso Centri di addestramento delle Forze armate libiche
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LA MARCIA TURCA
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logo americano 14. In quella fase, la marcia turco-azerbaigiana veniva già scandita dallo slogan «un solo esercito» 15. E da alcuni mesi i treni merci avevano preso a fare la spola tra Çerkezköy (Tekirdaã) e Xi’an 16. Al momento dell’invasione russa dell’Ucraina la Turchia aveva dunque già creato i presupposti strategici di un’iniziativa che per compiersi pienamente aveva tuttavia bisogno di uno scossone geopolitico in grado di smuovere defnitivamente gli attori coinvolti. In primo luogo la Cina, forzata dagli eventi ad avvalersi del Corridoio centrale, dunque a riconoscere ad Ankara un ruolo sempre più cardinale nel proprio progetto imperiale. Ma a garantire il successo dell’iniziativa è stata soprattutto la capacità della Turchia di inserirsi con successo nelle contese tra grandi potenze, di interpretare correttamente la natura dell’impatto della guerra su queste ultime. Ankara ha innanzitutto colto il desiderio degli Stati Uniti di aprire un secondo fronte con la Russia, offrendosi come avanguardia americana nel Caucaso meridionale e consentendo alla superpotenza di estromettere i russi dal proprio cortile di casa. Contestualmente, Erdoãan ha approfttato delle frizioni tra Mosca e Pechino generate dall’impatto delle sanzioni sui commerci eurasiatici, proponendosi alla Cina come alternativa per ridurre la dipendenza infrastrutturale dalla piattaforma russa. E solleticando la brama cinese di incunearsi nell’impero americano offrendo a Pechino l’opportunità di sviluppare rapporti sempre più strategici con un paese membro della Nato. Consapevole che gli Stati Uniti lasciano fare perché convinti che l’aumento dell’infuenza turca in Asia centrale porterà inevitabilmente Ankara e Pechino alla rotta di collisione nel medio periodo, tanto che gli strateghi washingtoniani spingono strumentalmente i turchi a proiettarsi verso la «Cina occidentale» fn dagli anni Novanta 17. A differenza di quanto avvenuto tra il 2011 e il 2016 in Siria – dove è rimasta schiacciata nello scontro tra Usa e Russia – nel Caucaso meridionale la Turchia è riuscita a manipolare a proprio vantaggio le grandi potenze e i loro interessi, rendendosi indispensabile a cinesi e americani e premurandosi di compensare i russi su un altro fronte. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Da almeno quindici anni la Siria è il laboratorio nel quale Ankara testa i propri approcci regionali. È stata la riconciliazione con al-Asad a far germogliare la politica degli «zero problemi con i vicini». È stato lungo il medio corso dell’Eufrate che si sono palesati i limiti dell’alleanza mediorientale con gli Stati Uniti, infrantasi a causa della riluttanza americana a rovesciare il regime di Damasco come promesso a Erdoãan da Obama e del successivo ricorso della superpotenza al Pkk quale agente di prossimità nell’oriente siriano. Ed è stato sempre in Siria che ha preso forma la cooperazione competitiva tra Ankara e Mosca, tuttora uno dei fattori fondamentali della geopolitica eurasiatica. 14. «Erdogan says Turkey has raised FX swap deal with China to $6 bln», Reuters, 13/6/2021. 15. «“øki Devlet, Tek Ordu”ya Doãru: Kardeú Tugay» («La brigata fraterna: verso i “due Stati, un solo esercito”»), savunmasanayi.org, 5/9/2021. 16. «1st China-bound freight train departs on 12-day journey from Istanbul», Daily Sabah, 4/12/2020. 17. G. FULLER, I.O. LESSER, P. HENZE, J.F. BROWN, Turkey’s New Geopolitics: From The Balkans To Western China, Boulder 1993, Westview Press.
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Le manovre levantine sono dunque il prisma attraverso il quale scrutare la traiettoria strategica della Turchia. È in quest’ottica che si può apprezzare l’importanza della tentata riconciliazione con il regime di al-Asad, dinamica che indipendentemente dal suo esito avrà ripercussioni che prescinderanno dallo specifco contesto siriano. Il processo è stato avviato lo scorso settembre con l’incontro a Damasco tra il capo dei servizi segreti turchi Hakan Fidan e la sua controparte siriana ‘Alî Mamlûk e consolidato a dicembre dal primo faccia a faccia dal 2011 tra i ministri della Difesa dei due paesi, avvenuto a Mosca e mediato da Sergej Šojgu. A gennaio il ministro degli Esteri turco Mevlüt Çavuúoãlu ha inoltre annunciato che a febbraio incontrerà il suo omologo siriano 18, alimentando una tendenza che nelle intenzioni di Ankara è apparentemente destinata a culminare in una «storica» stretta di mano tra al-Asad ed Erdoãan, il quale in più occasioni si è detto disponibile a chiudere la faida con il capo del regime damasceno. Mentre la marcia russa su Kiev si risolveva in un’ingloriosa disfatta era convinzione comune che la Turchia avrebbe approfttato delle diffcoltà ucraine di Mosca soprattutto nel campo di battaglia siriano, costringendo il Cremlino ad approvare l’ennesima incursione a cavallo dell’Eufrate. O addirittura sfdando la Russia, forzandola a esporre la propria debolezza. A maggio dello scorso anno Erdoãan alimentò tale impressione annunciando un’imminente operazione di terra a Manbiã e ancora a novembre – mentre i droni e gli F-16 turchi bombardavano le postazioni del Pkk nell’alta Siria – l’ingresso dei Mehmetçik nella sacca che separa i possedimenti neo-ottomani a ovest e a est dell’Eufrate sembrava solo questione di tempo. Il presidente turco ha invece tirato il freno a mano, scegliendo strumentalmente di tenere in debito riguardo gli interessi e le preoccupazioni di Mosca. Investimento che nel medio periodo può produrre dividendi molto più cospicui dell’annessione di un ulteriore pezzetto di territorio siriano. La mossa conservativa di Ankara è fglia di una lettura propriamente strategica delle dinamiche in corso al proprio confne meridionale. I turchi sono perfettamente consapevoli che la presenza militare russa e americana in Siria ha natura contingente e che tanto Mosca quanto Washington nutrono seri dubbi sull’affdabilità dei regimi di prossimità ai quali intendono affdarsi per mantenere la presa sulle rispettive sfere d’infuenza una volta ritirati i contingenti militari. L’amministrazione curda del Nord-Est fa acqua da tutte le parti ed è destinata a collassare non appena gli americani smetteranno di difenderla fsicamente, anche e soprattutto a causa delle faide interne. Sorte analoga a quella di cui i russi temono possa essere vittima il regime di al-Asad, che ha vinto la guerra ma che a causa del dissesto economico e sociale provocato dalla stessa sembra strutturalmente incapace di vincere la pace. La riconciliazione con il presidente siriano è dunque un astuto tentativo di approfttare della debolezza della Russia senza indisporre ulteriormente Putin, anzi delineando una prospettiva di cooperazione in grado di soddisfare i rispettivi interessi. La ripresa delle relazioni economiche turco-siriane e del fusso di investimenti Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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18. «Turkish foreign minister says he could meet Syrian counterpart in early February», Reuters, 12/1/2023.
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turchi verso la Siria – di cui Ankara nel 2011 era primo partner commerciale – sarebbe in grado di aumentare esponenzialmente le possibilità di sopravvivenza del regime. Permettendo alla Russia di continuare a disporre di un governo amico nel Levante e degli avamposti militari di ¡ar¿ûs e Õumaymøm con il minimo dispendio di energie. E consentendo alla Turchia di tornare a proiettare in Siria un’infuenza egemonica, di rifare di al-Asad il governatore arabo di un vilayet di fatto turco. A condizioni molto più stringenti rispetto a dodici anni fa. Tale prospettiva preoccupa non poco gli americani, consapevoli che la propria intransigenza siriana nei confronti della Turchia riposa sulla rivalità tra Ankara e Damasco e sulla conseguente inconciliabilità delle posture turca e russa di medio periodo. La rappacifcazione tra Erdoãan e al-Asad indebolirebbe dunque la posizione di Washington, soprattutto perché la normalizzazione turco-siriana non potrebbe prescindere da un accordo volto a combattere più o meno congiuntamente gli agenti di prossimità della superpotenza a est dell’Eufrate. In un contesto nel quale gli Stati Uniti hanno opzioni molto limitate, non potendo bilanciare l’intesa turco-russa arruolando l’altro escluso, l’Iran. A sua volta consapevole di non poter oscillare tra Washington e Mosca come Ankara, travolto dalle convulsioni interne e dunque costretto a fare buon viso a cattivo gioco, a elemosinare le briciole dal tavolo di Erdoãan e Putin. Stimolare la reazione della superpotenza è d’altra parte uno degli obiettivi insiti nell’accennata riconciliazione con al-Asad, mediante la quale la Turchia punta a indurre gli americani a rivedere la propria politica siriana. Per scongiurare l’allineamento turco-russo nel Levante. E soprattutto per evitare che tale allineamento evolva in un’intesa più strutturale, come lascia ad esempio intendere la proposta di Putin di creare nella Tracia orientale uno hub energetico che permetterebbe ai turchi di (ri)vendere agli europei il gas russo che transitava attraverso Nord Stream. Naturalmente la Turchia non intende mettere tutte le uova anatoliche nel paniere di al-Asad. Anche in caso di scenografca stretta di mano a Mosca tra Erdoãan e il presidente siriano, è alquanto improbabile che Ankara e Damasco raggiungano un accordo reciprocamente soddisfacente sulle questioni più spinose: rimpatrio dei profughi, sorte dei territori conquistati dalle Forze armate turche, azioni congiunte contro il Pkk, modalità della ricostruzione. Nel caso in cui il processo di riconciliazione si arenasse, l’intesa turco-russa sulla cogestione della Siria salterebbe e verrebbe meno anche la minaccia all’infuenza americana nell’Oriente siriano. Ma la Turchia resterebbe comunque in vantaggio. Nella sua dimensione minimalista la tentata riconciliazione con al-Asad è infatti un espediente tattico per mettere i russi con le spalle al muro. Putin riconosce ormai da anni la legittimità delle preoccupazioni turche e la necessità di Ankara di allontanare la minaccia terroristica dal proprio confne, ma continua a chiedere strumentalmente a Erdoãan di affdare al regime damasceno il compito di «ripulire» il territorio siriano dal Pkk. Nell’illusione che il presidente turco non si sarebbe potuto spingere a normalizzare i rapporti con il suo rivale regionale per eccellenza. Bevendo l’amaro calice assadiano, Erdoãan intende dunque prendere i russi in contropiede. ConsapeCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Bosnia Kosovo Macedonia del Nord
Mar C as pi o
M ar N er o
İstanbul
GEORGIA Batumi
(capitale della confederazione)
Albania
Ankara
ARM AZERBAIGIAN ENI AZERBAIGIAN A
T U R C H I A
M ar M e di ter r an eo
Nahçivan (Regione autonoma dell’Azerbaigian) Corridoio di Zangezur
CIPRO NORD SIRIA Punto di contatto delle Zee turca e libica
L
IRAQ
Golfo Persico
I B I A (Riunifcata) Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Stati Uniti di Turchia Territori del Patto nazionale Mar Rosso
Accordo marittimo Turchia-Tripoli
Stati “confederati” Stati satellite Estensione della sovranità marittima nella “Patria blu”
2053 - STATI UNITI DI TURCHIA
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vole che in caso di fallimento del processo di riconciliazione Putin non avrebbe più pretesti per impedire ad Ankara di completare la zona di sicurezza al confne turco-siriano, che in ragione dell’evoluzione dei rapporti di forza tra Turchia e Russia innescata dalla guerra in Ucraina potrebbe assumere dimensioni ben più ampie di quelle fnora pubblicizzate dal Reis. In caso contrario i russi dovrebbero assumersi la responsabilità di rompere l’intesa tattica con i turchi. In una fase in cui non possono permetterselo, stante la crescente dipendenza dalla Turchia. Piattaforma vitale per aggirare le sanzioni occidentali, sentinella delle vie d’acqua che per Mosca rappresentano l’unica via d’uscita dal contenimento americano, snodo sempre più fondamentale dei fussi di gas provenienti dalla Federazione. Indipendentemente dall’esito della tentata riconciliazione con al-Asad, Ankara riuscirà dunque ad avanzare i propri interessi in Siria senza compromettere l’intesa tattica con la Russia. Volgendo ulteriormente a proprio favore i rapporti di forza con Mosca e riservandosi di poter continuare a oscillare tra americani e russi (e cinesi) nei quadranti di prevalente interesse strategico. A eccezione dell’unico in cui la posta in gioco è realmente vitale. 4. «Non pensate che se militarizzate le isole ce ne staremo seduti con le mani in mano. Stai attento Mitsotakis, se fai qualcosa di sbagliato quei pazzi dei turchi (ùu çılgın Türkler) reagiranno» 19. L’ennesima provocazione lanciata da Erdoãan alla Grecia lo scorso 20 gennaio rivela la determinazione con la quale Ankara intende conferire concretezza geopolitica alla dottrina della Patria blu, la crescente disponibilità turca a ricorrere allo strumento militare per costringere i greci ad accettare una sistemazione più equa nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Annunciata in termini inequivoci dal presidente turco a dicembre. «Se dici Tayfun (missile balistico di produzione anatolica con gittata pari a 561 km, n.d.a), ai greci si accappona la pelle. Dicono che colpirà Atene. Eee… certo che la colpirà» 20. L’escalation retorica tra Turchia e Grecia prosegue ininterrottamente dallo scorso luglio, quando a seguito della visita a Washington del premier greco Mitsotakis – che entrò a gamba tesa nell’accennata riconciliazione turco-greca chiedendo agli americani di non cedere gli F-16 ad Ankara – Erdoãan ha preso a minacciare quotidianamente il rivale egeo. Ricordando ai dirimpettai che i turchi arriveranno «di notte, all’improvviso». L’esuberante retorica del presidente turco è però anche indice di frustrazione, sintomo della consapevolezza che nella vitale contesa con la Grecia la Turchia non può ricorrere agli stessi espedienti tattici che le hanno permesso di estendere con successo il proprio raggio d’azione imperiale nel Caucaso e in Nord Africa, nei Balcani e in Medio Oriente, nelle Afriche profonde e in Asia centrale. Nella decisiva partita che si gioca nei mari di prossimità Ankara non può avvalersi della capacità di destreggiarsi nella competizione tra grandi potenze, di manipolare le loro Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
19. «Cumhurbaúkanı Erdoãan’ın “Çılgın Türkler yürür” sözleri Yunan medyasına damga vurdu» («Le parole di Erdoãan sui “pazzi turchi” sono state marchiate sui media greci»), Yeni ùafak, 21/1/2023. 20. «Erdoãan: Atina rahat durmazsa vururuz» («Se Atene non sta calma, colpiremo»), Sözcü, 11/12/2022.
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relative debolezze. La controversia egeo-mediterranea è questione interna all’impero americano, chiama direttamente in causa le dissestate relazioni bilaterali tra Turchia e Stati Uniti, che hanno tracciato nelle acque della Patria blu il limite all’espansionismo dell’ex alleato. Laddove in termini sostanziali a preoccupare gli americani non sono la conquista degli spazi marittimi contesi con la Grecia o l’annessione di qualche isola da parte della Turchia in quanto tali. Il problema sono le implicazioni strategiche di tali dinamiche, che assesterebbero un colpo potenzialmente esiziale alla Nato. E verrebbero interpretate dentro e fuori dall’impero americano come avvisaglia di guerre di successione. Oggi sono le mire di Ankara nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale – più che le intime relazioni turco-russe – a motivare gli ormai ciclici bracci di ferro tra turchi e americani, che nella fase attuale hanno come posta in gioco la consegna degli F-16 chiesti da Erdoãan nell’ottobre 2021. Compensazione per l’esclusione della Turchia dal programma degli F-35 che malgrado l’apparente buona fede dell’amministrazione Biden ha innescato una crisi quasi peggiore di quella che avrebbe dovuto contribuire a risolvere, stante la perdurante opposizione del Congresso a concedere ai turchi gli agognati – e nel breve periodo indispensabili – aerei da guerra. È del tutto improbabile che la controversia si appiani prima delle elezioni turche del 14 maggio. I media imperiali – dall’Economist al Washington Post – sono già entrati in campagna elettorale ed è palesemente inverosimile che gli americani sovvenzionino la marcia presidenziale di Erdoãan consentendogli di esibire i velivoli nei comizi anatolici. In ogni caso, gli F-16 verranno consegnati all’Aeronautica turca contestualmente alla cessione degli F-35 alla Grecia. Vanifcando l’iniziativa di Ankara. Che di rimando continua a mettersi di traverso all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato per segnalare alla superpotenza la capacità di imporre il proprio volere anche all’interno dell’impero americano. Facilitata nel compito dall’incomprensibile stoltezza del governo svedese, il quale anziché smussare i toni della contesa come Helsinki – che a fne gennaio ha approvato la prima licenza di esportazione di armamenti alla Turchia dal 2019 21 – benedice improbabili olocausti coranici e dissacrazioni della fgura di Erdoãan. Infne, probabilmente entro l’estate, l’Aeronautica turca riceverà gli F-16 e Svezia e Finlandia entreranno nella Nato. Ma le relazioni turco-americane continueranno a essere soggette a scossoni di magnitudo imprevedibile. Perché Washington è consapevole che i turchi non stanno scherzando, che il proposito di rimodulare i confni terracquei con la Grecia – presupposto indispensabile per volgersi in potenza marittima, idealmente oceanica – non nasconde un bluff. E perché Ankara è specularmente cosciente che in questo caso deve andare a vedere le carte della superpotenza, dare una prova di forza che sveli l’effettiva (in)disponibilità degli Stati Uniti a sostanziare – anche militarmente – il contenimento del proprio espansionismo imperiale sui mari. Operazione che richiede un’abbondante dose di luciCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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21. «Finland OKs 1st military exports to Türkiye since 2019 amid NATO row», Daily Sabah, 25/1/2023.
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da follia, non a caso richiamata da Erdoãan nella stilettata retorica riflata ai greci il 20 gennaio. E il momento propizio si avvicina. Il 29 ottobre 2023 ricorre il centenario della repubblica, evento di cui il presidente turco ha gonfato a dismisura l’importanza geopolitica. Creando aspettative che non si può permettere di disattendere, facendolo paradossalmente coincidere con l’attesa resurrezione dell’impero. La quale a sua volta si traduce inevitabilmente nell’abiura del trattato di Losanna del 1923. Da anni sconfessato pubblicamente dai vertici dello Stato turco, che rinnegano ormai apertamente la costituzione geopolitica della repubblica di cui sono rappresentanti. Nella consapevolezza che il battesimo del «secolo della Turchia» non potrà che essere celebrato al funerale di Losanna.
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POLITI Sullo sfondo della guerra in Ucraina, il riaccendersi delle tensioni tra Belgrado e Prishtina pone l’urgenza di una crisi irrisolta. Nonostante i progressi restano ostacoli e un degrado sociopolitico da affrontare. La Russia non può interferire più di tanto. di Alessandro
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1. « A DIFFERENZA TRA PATRIOTTISMO E nazionalismo è semplice. Il primo ama la madrepatria, capisce le altre, a volte combatte per la libertà di altre. Il secondo no: disprezza, odia e opprime». Il discorso tenuto dal presidente serbo Aleksandr Vu0i© sul piano franco-tedesco per far avanzare la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Prishtina del 23 gennaio scorso può essere interpretato come l’ennesima abile giravolta di un nazionalista 4.0, ma in realtà segna un altro passo in avanti nella liberazione della Serbia dalle potenti seduzioni del suo nazionalismo passato. È chiaro che sottolinea la protezione dei cittadini serbi e della Serbia, che parla del Kosovo come di «Kosovo e Metohija» (la locuzione standard per sottolineare l’appartenenza del Kosovo alla Serbia), che vuole aprire al dibattito parlamentare e possibilmente a un referendum lo svolgimento successivo delle trattative in modo da avere un buon pretesto per bloccarle. Ma c’è anche una frase rivelatrice di quanta acqua sia passata sotto i ponti dal 1999: «Abbiamo un periodo diffcile davanti e avremo bisogno di più sforzo e lavoro per superarlo nel miglior modo possibile. È molto importante mostrare che vogliamo pace, che vogliamo farla in futuro. Vi ricordo che Miloševi© pensò sino all’ultimo che nessuna bomba sarebbe caduta: gli ci vollero molti giorni per comprendere che davvero le bombe cadevano su tutta la Serbia» 1. È un punto del discorso che fa capire in modo chiaro la necessità di essere concreti e pragmatici di fronte a richieste pressanti dei maggiori partner politici ed economici della Serbia, evitando di chiudersi in realtà parallele sconnesse dalla situazione internazionale. Il nome dell’allora presidente Slobodan Miloševi© (morto durante il processo all’Aia per crimini di guerra nel 2006) riporta a qualunque ascoltatore serbo il suo discorso incendiario dalla torre del Gazimestan (il monuCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. A. VU0I©, «Il piano per il Kosovo e Metohija è stato accettato da tutti i membri Ue», Rts, 23/1/2023.
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mento eretto sul luogo della battaglia di Kosovo Polje del 1389) nel seicentenario della sanguinosa disfatta medievale. Il discorso che rivendicava il Kosovo come culla imprescindibile della nazione e dell’identità serbe, contribuendo al fatale cammino verso la guerra nel 1998-1999. Il fascino forte della disfatta gloriosa che semina e segna per sempre il destino ineluttabile di una nazione, costruendone l’identità, non è certo patrimonio di quel paese soltanto. I francesi hanno la débâcle di Alesia (52 a.C.), migliorando poi il mito nazionalista con la vittoria di Orleans (8 maggio 1429). I tedeschi hanno usato la vittoria nell’imboscata di Teutoburgo (9 d.C.) come mattone per la costruzione del loro nazionalismo e anche il fascismo si è ben guardato dal fare del massacro di Canne (216 a.C.) il suo culto nazionalista, preferendo la vittoria contro il «barbaro infdo» Annibale a Zama (202 a.C.). Bisogna continuare a constatare asciuttamente che nel XIX secolo sono state gettate le basi di quei nazionalismi che hanno insanguinato per almeno un quarto di millennio il mondo, costruendo miti identitari proiettati in un passato eroico e praticamente avulso dalla storia concreta. Una coalizione disparata di galli non fa un’orda di protofrancesi, le quadrate legioni non sono i soldati con le stellette, così come una variopinta schiera di signori del tardo medioevo provenienti da Albania, Bosnia, Epiro, Bulgaria, Grecia, Ungheria e anche Serbia non crea un esercito di sempiterni serbi. Del resto è interessante notare che – passata la febbre nazionalista fomentata da Miloševi© il giorno della celebrazione della battaglia, con un milione stimato di presenti – dal 2017 si riuniscono poche centinaia di persone in un’atmosfera da scampagnata sempre meno carica di simboli guerreschi, attorno a un monumento assai poco curato per il resto dell’anno. È certo che il preambolo della costituzione serba del 2006 contiene esplicita menzione della provincia autonoma di Kosovo e Metohjia come parte integrante della Serbia, sia pure dotata di sostanziale autonomia in linea di principio. Un emendamento costituzionale, specie sulle materie più importanti (preambolo incluso), deve essere approvato dai due terzi dell’Assemblea nazionale e può richiedere un referendum popolare. Non è una strada agevole, ma nemmeno impossibile. Ovviamente il mito di Kosovo Polje implica l’inalienabilità della culla della nazione, circostanza fortemente e comprensibilmente emotiva che la storia si è incaricata più volte di smentire: l’Italia non è meno italiana senza Nizza e Savoia, la Germania resta tedesca anche senza l’Alsazia, la Lorena, la Slesia e la Prussia Orientale e la Russia, più volte nella sua storia, si è dimostrata capacissima d’ignorare le sue radici secolari nel principato di Kiev. Nonostante le proprie ricorrenti crisi, l’Unione Europea, nella quale tanto Belgrado quanto Prishtina vogliono entrare, è riuscita a sgretolare in molti paesi le croste nazionaliste, rendendo le frontiere molto meno rilevanti rispetto al passato e permettendo a decisori politici e popolazioni, grazie alla libertà di circolazione, di sganciarsi da pezzi di terra intrisi di sangue per secoli, a favore di un’identità più mutevole e molto più resiliente di quanto immaginassero le precedenti generazioni. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. Al di là delle propagande, la questione del Kosovo è un affare di una transizione di sovranità da un’entità politica a un’altra, duramente contestata. Nonostante i paralleli del governo russo nelle sue schermaglie propagandistiche per sostenere le sue varie entità de facto, il Kosovo non è ancora pienamente riconosciuto. Il suo pieno riconoscimento ha tre ostacoli importanti: il primo è l’unanimità dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Cina e Russia sono contro o per motivi territoriali interni o per scelta politica), il secondo è la maggioranza di 9 membri su 15 del Consiglio (tra permanenti e non) e il terzo il consenso di 128 Stati sui 192 rappresentati nell’Assemblea Generale. Tra i paesi membri dell’Unione europea ce ne sono 5 che, per motivi di politica interna, non vogliono/ possono riconoscere Prishtina (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna) e quattro di questi sono anche membri della Nato. Tra le repubbliche succedute all’ex Jugoslavia, la Bosnia-Erzegovina (a causa della Repubblica Srpska) e la Serbia stessa non possono o non vogliono riconoscere il Kosovo. Dulcis in fundo, Belgrado svolge un’attiva campagna, appoggiata dalla diplomazia russa, per indurre alcuni Stati a ritirare il riconoscimento a Prishtina e naturalmente contesta appena può i dati sui riconoscimenti accordati alla controparte. In parole povere, senza il pieno riconoscimento il Kosovo resta un paese sospeso dove ancora contano una risoluzione del Consiglio di Sicurezza (la 1244, datata 1999) e un coevo accordo tecnico-militare tra Kfor (Kosovo Force) e governo serbo. La prima era una risoluzione che governava la transizione del nuovo paese dalla guerra a un’amministrazione internazionale verso il pieno autogoverno. Il secondo è un accordo che gestiva il ritiro delle forze serbe dal territorio del Kosovo sotto la supervisione della Kfor e che resta ancora valido per i rapporti tra quest’ultima e le Forze armate serbe lungo una linea di demarcazione che non può ancora essere un confne internazionale riconosciuto. A partire dal 2013 è stato lanciato da Bruxelles, sino a ieri con discreto successo, un dialogo di normalizzazione tra Belgrado e Prishtina che però ha conosciuto progressi parziali, ostacoli concreti e una battuta d’arresto l’anno scorso. Come in tutti i dialoghi, si comincia dalla parte più facile per poi arrivare a quella più diffcile da far digerire alle proprie opinioni pubbliche. I progressi parziali sono tutt’altro che trascurabili: • libertà di movimento di persone e automezzi lungo la linea di demarcazione; • scambio di documenti catastali e certifcati anagrafci tra le due amministrazioni; • riconoscimento reciproco dei diplomi universitari; • fne degli embarghi commerciali e accettazione di bolli delle istituzioni in Kosovo per gli affari doganali; • gestione integrata dei valichi tra i territori delle due entità politiche; • uffci di collegamento dei due governi presso le missioni Ue; • rappresentanza delle istituzioni in Kosovo nelle organizzazioni regionali; • accordi per la trasmissione di energia elettrica; • accordi per la creazione di un prefsso del Kosovo nella rete telefonica internazionale; Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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FRIULI Aviano V. G. SLOVENIA Zagabria Istrana Rivolto Vicenza
Ghedi VENETO Villafranca Piacenza di Verona EMILIA-ROMAGNA FRANCIA
Le 19 basi utilizzate per gli attacchi contro la Serbia nel 1999 (alcune solo per la logistica, per le informazioni meteorologiche e per la copertura radar)
SARDEGNA Decimomannu
CROAZIA
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Confni marittimi
L’ITALIA NELLA GUERRA CONTRO MILOŠEVIĆ
Sombor Novi Sad
Batajnica Pančevo Smederevo Belgrado Cervia SERBIA Požarevac BOSNIA-ERZ. Valjevo Rimini Sarajevo Čačak Kragujevac Kraljevo Ancona Uzice Mostar ITALIA Kuršumlija Niš MARCHE Novi Pazar Grdelička Mare Adriatico MONTENEGRO KOSOVO Priština LAZIO Prizren Koriša Portaerei Amendola MACEDONIA Garibaldi Pratica di Mare DEL NORD Grazzanise Gaeta Gioia del Colle PUGLIA ALBANIA CAMPANIA Brindisi Mar Tirreno GRECIA Mar Ionio Banja Luka
Trapani - Birgi Repubblica Serba
UNGHERIA
SICILIA Sigonella
ROMANIA
Alcuni efetti dei bombardamenti della Nato in Serbia e in Kosovo avvenuti tra aprile e giugno 1999 Sombor Distruzione di un ponte sul Danubio di collegamento tra Vojvodina e Croazia e di un deposito di carburante Belgrado Colpiti edifci governativi, la sede del Partito comunista, la tv Pink, la tv di Stato, l’amb. cinese, un ospedale e la torre della televisione Novi Sad Colpite rafnerie, la torre della televisione e tre ponti sul Danubio Kragujevac Distruzione della fabbrica automobilistica Zastava (Fiat) Niš Colpita la sede della 3ª armata serba Priština Distrutta la torre della televisione, un quartiere residenziale e una prigione Koriša Colpita colonna di profughi kosovari
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SVIZZERA
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• integrazione del personale poliziesco, giudiziario e della pubblica istruzione del Nord del Kosovo nelle istituzioni di Prishtina; • smantellamento in linea di principio delle strutture parallele serbe nel Kosovo settentrionale (alcune amministrative, altre di sicurezza a livello semiclandestino). Ciononostante, tutti questi passi servono per arrivare a una piena normalizzazione politica con reciproco riconoscimento, conditio sine qua non per l’ingresso di entrambi nell’Ue. La Serbia ha già cominciato il cammino di avvicinamento con il negoziato sui vari capitoli dell’acquis europeo, ma segna il passo sulle questioni più politiche. Il Kosovo invece è al palo anche per la presenza di Stati europei che non lo riconoscono, anche se recentemente la presidenza ceca ha avanzato la proposta concreta di liberalizzare i visti Schengen per i cittadini di Prishtina a partire dal 1° gennaio 2024, adeguandoli a tutti gli altri paesi dei Balcani. L’ultima crisi ha costituito un serio scacco perché i kosovari serbofoni si sono ritirati da tutte le strutture delle istituzioni in Kosovo, sospendendo un importante risultato raggiunto. 3. Gli ostacoli concreti hanno purtroppo anche un combinato disposto che rinvia al problema dell’uovo e della gallina: sono i paesi dei Balcani occidentali a non fare abbastanza riforme per entrare nell’Unione Europea oppure sono l’Unione Europea e i suoi governi a non avere tutta questa fretta di ammetterli? Allargare non è una passeggiata, non porta necessariamente subito vantaggi ai membri preesistenti e non è garanzia di rafforzamento generale (il che vale anche per la Nato, ci piaccia o no). L’allargamento rapido agli ex paesi del Patto di Varsavia ha lasciato strascichi perduranti visibili a tutti e l’amaro in bocca sul potere democratizzante ed etico-normativo dell’Unione in diversi casi; è inutile fare la lista delle reciproche recriminazioni perché ben nota, ma non basta un’interfaccia grafca democratica per superare un sistema operativo sovietico-nazionalista nelle teste di esponenti politici formati in altri tempi. Quando l’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker lasciava intendere con riferimento ai Balcani che «non vogliamo importare i loro problemi» è ragionevole che pensasse a quanto già successo. È però altrettanto vero, prove empiriche alla mano, che un purgatorio ventennale non avrebbe facilitato la riforma di classi dirigenti e società e, soprattutto, che non avrebbe favorito ipso facto l’approfondimento delle strutture europee, come le bocciature francese e olandese del trattato per una costituzione europea mostrano in modo abbastanza chiaro (2005). Le riforme necessarie, qualunque sia il governo, sono particolarmente diffcili da introdurre e soprattutto da applicare quando parti non trascurabili delle élite post-jugoslave hanno spesso fatto del nazionalismo e della cattura dell’apparato governativo i loro cavalli di battaglia. Il caso delle ricorrenti crisi tra Kosovo e Serbia rifette un interessante scambio di ruoli e tensioni, gestiti in modo confittualmente cooperativo verso il mantenimento di uno status quo, scomodo ma ben conosciuto. A questo proscenio visibile del teatro bisogna aggiungere le quinte Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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mafose, che troppo spesso godono di una contiguità assai compenetrante con i governi. La Kfor a guida italiana e i carabinieri della Msu (Mononational Specialized Unit) non hanno troppe diffcoltà a vedere la fligrana: anche in città divise come Mitrovicë/Kosovska Mitrovica, la collaborazione e divisione di zone e attività criminali interetniche tra padrini funziona molto bene, come documentato per tutta la regione da ampia letteratura investigativa e scientifca. Del resto chi analizzava la guerra di dissoluzione della Jugoslavia senza una griglia mafosa, non capiva metà del confitto e il problema persiste anche nella comprensione di guerre più oscure o più eroiche a seconda dei capricci politico-mediatici. L’ultima crisi sulle targhe sembra pretestuosa e pare essere stata condotta in modo forse troppo deciso dai due contendenti. In realtà ha fondamento in due esigenze: affermare la sovranità delle istituzioni per Prishtina e proteggere la minoranza serba per Belgrado. Le targhe automobilistiche sono un segno chiaro di controllo del territorio ed è abbastanza ovvio che a Prishtina si vogliano targhe con una sigla kosovara, anziché con sigla serba per i residenti serbofoni kosovari nel nord del paese. Altrettanto evidente è che Belgrado non voglia targhe kosovare che implichino una sovranità non riconosciuta; meno evidente è che, per ragioni geografche, i valichi del Kosovo settentrionale siano assai utili per traffci illeciti interetnici e che l’ambiguità delle targhe male non faccia agli «affari». D’altro canto, la Serbia osserva che l’istituzione di una associazione/comunità delle municipalità serbe (10 in tutto il paese) con ampia autonomia locale è stata rinviata tenacemente da Prishtina per nove lunghi anni; in effetti sarebbe assai produttivo se si cominciasse a creare una situazione di tipo altoatesino nei quattro comuni in cui i serbi sono maggioranza. Le obiezioni a Prishtina sono che Belgrado esercita un ferreo controllo sulle enclave serbe; le strutture parallele di sicurezza sono state messe in quiescenza, ma non smantellate (come le ultime tensioni dimostrano, con blocchi stradali tutt’altro che improvvisati – i locali ne hanno mappe come per gli autovelox); simili associazioni in passato sono state strumento d’ingerenza anche sovversiva in Bosnia. L’attuale premier Albin Kurti sembra sottovalutare la presenza della Kfor, che fa una differenza capitale rispetto alla Bosnia-Erzegovina prebellica. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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4. È abbastanza prevedibile che, durante questa sventurata guerra in Ucraina, la psicosi del nemico sia diffusa e faccia letteralmente vedere doppio. Da una parte c’è una consistente parte della popolazione anziana nello spazio euroatlantico che ha vissuto la terza guerra mondiale (ipocritamente detta guerra fredda) con le sue ossessive cacce al comunista e la paura delle quinte colonne di Mosca, dall’altra ci sono élite in alcuni paesi che hanno compiuto nelle loro teste il passaggio senza discontinuità dall’oppressore sovietico all’eterno nemico russo, ancor più facile se sono rimaste «paranoidi alla sovietica» dentro. Il problema non sono le comprensibili cicatrici dei passati decenni, ma i miraggi che offuscano un retto
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intendimento del mondo di oggi; quindi anche nei Balcani ci deve essere la zampa del feroce Orso russo. Perciò si parla del tentato colpo di Stato in Montenegro, dell’infuenza russa sulle Chiese ortodosse locali, delle forniture di Gazprom a prezzo di favore, delle mene del soft power moscovita nelle società, media e classi politico-affaristiche locali, delle vendite di armi alla Serbia, della possibile presenza di basi d’intelligence russe, del supporto al leader serbo-bosniaco Milorad Dodik nei suoi tentativi di spaccare la Bosnia-Erzegovina e della discordia seminata occultamente tra Atene e Skopje nella controversia sul nome della Macedonia del Nord. Quasi tutte cose che realmente sono accadute (con qualche dubbio ragionevole sul tentato golpe montenegrino), incluse alcune interessanti campagne nel settore cibernetico. Al quadro si può aggiungere, per esempio, il sostegno tenace al governo illiberale ed etnicista di Nikola Gruevski in Macedonia del Nord, fno alla sua caduta spettacolare in parlamento, che ha fruttato un dividendo politico non meno importante delle sponde apertamente neutraliste di Belgrado o decisamente florusse della Repubblica Srpska. Inoltre, la presenza di mafosi e oligarchi russi flogovernativi con radici e interessi nel riciclaggio di denaro ha continuato a non essere trascurabile e probabilmente si è rafforzata durante il confitto ucraino per aggirare le sanzioni. Tirando le somme, si vede però un quadro strategico differente dalle paranoie. La Russia era presente sul terreno dentro la Kfor (il cui stemma per metà è in cirillico) sino al 2003, ma da allora, compreso che non c’erano grandi ritorni, il governo russo ha usato i Balcani per dare il massimo fastidio col minimo costo, senza speciali rischieramenti o investimenti. Ancora oggi chi è sul terreno riferisce puntualmente che i russi possono combinare piuttosto poco, a dispetto dell’immagine tenebrosa dei loro servizi d’intelligence. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. I Balcani occidentali sono stati la comoda fnzione per isolare i paesi dell’area da due realtà cui appartengono pienamente: l’Europa, che si è occupata di questa zona dai tempi della Questione orientale (1804), e i Balcani in senso geopolitico, che includono ovviamente Grecia, Turchia, Bulgaria e Romania. Infatti, la Nato Defense College Foundation considera i Balcani e il Mar Nero come una singola regione geopolitica, e non semplicemente per la guerra russo-ucraina. L’area dei Balcani ancora non pienamente integrata, per le ragioni già esposte, è stata tenuta in sospeso ed è certamente molto e sempre più stabile nel complesso rispetto alla fne delle campagne di dissoluzione della Jugoslavia: basti pensare che la Nato è arrivata in Kosovo con 55 mila soldati e adesso ne conta 3.700 circa con il compito di rinforzare, se necessario, la missione Eufor in Bosnia-Erzegovina, forte di 1.100 unità. La recente crisi delle targhe automobilistiche (dicembre 2022) è l’ultima di una serie ricorrente, ma non sarebbe saggio trattare questi fenomeni come accessi di febbre ciclici e passeggeri perché, insieme alla fragilità di sicurezza, progre-
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disce il degrado sociopolitico, sinora scarsamente affrontato. È il momento di completare l’opera perché l’Europa non può permettersi di ghettizzare un focolaio persistente ai suoi confni tanto a sud-est quanto a sud (Libia e Sahel, solo per essere prudenti), quando è purtroppo ancora in corso la guerra in Ucraina e mentre i rischi per la pace vanno energicamente prevenuti nell’Indo-Pacifco. La sicurezza dell’Europa, come quella della Nato, non può accettare un discorso tra fgli presunti eletti in corsia preferenziale e fgliastri di fatto, perché la sua forza non è solo nelle armi (da rinsaldare) ma nella sua ampia connettività soft che ha permesso di cicatrizzare in 78 anni i disastri di almeno mezzo millennio di guerre sul nostro suolo.
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L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA La neutralità disarma Chi șinău di fronte al vicino conflitto. Il separatismo transnistriano e la crisi socioeconomica interna ne fanno uno Stato fallito. La possibilità di unione con la Romania e l’ingresso nell’Ue non sono una scelta, ma il male minore. di Dan
DUNGACIU e Leonardo DINU
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1. RIMA CHE L’UCRAINA VENISSE INVASA, i principali problemi di sicurezza nella regione del Mar Nero derivavano dai confitti congelati nelle repubbliche ex sovietiche: Azerbaigian (Nagorno Karabakh), Georgia (Abkhazia e Ossezia del Sud), Moldova (Transnistria) e dal 2014 Ucraina (Donec’k e Luhans’k). Quando attriti simili si sono prodotti in aree di giurisdizione russa, non sono rimasti affatto «congelati»: bollati come attività terroristica, sono stati violentemente repressi dalle autorità federali come nel caso delle due guerre cecene 1. Al di fuori dei suoi confni, è però nell’interesse di Mosca generare e mantenere latenti simili focolai di tensione allo scopo di esercitare un’infuenza su Stati sovrani (o su spazi strategici) attraverso il controllo di una loro parte (la zona di confitto). Il «congelamento» di tali crisi ha così accresciuto la capacità russa di ingerenza diretta o indiretta nelle dinamiche dei paesi ex sovietici, volta principalmente a tenerli lontani dallo spazio euroatlantico. Nel 2014 la stessa tattica è stata replicata con le regioni separatiste del Donbas, facendo leva proprio sui contenziosi irrisolti nell’area 2. Nei calcoli di Mosca, questo uso strategico dei confitti congelati doveva servire a creare una zona cuscinetto tra sé e l’Occidente (Nato), dunque a conquistare profondità difensiva in quell’area enorme e priva di barriere naturali che già francesi e tedeschi attraversarono per invadere lo spazio russo. Tale era la posta in gioco anche nel caso ucraino. Con gli accordi di Minsk, il Cremlino puntava a una federalizzazione dell’Ucraina, de facto o de iure: sfruttando le regioni separatiste come leva geopolitica, la Russia avrebbe così potuto manovrare le politiche di sicurezza e la politica estera di Kiev. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. D. DUNGACIU, J. GODZIMISKI, «Russia and Frozen Conficts in the Black Sea Region», New Strategy Center, Norwegian Institute for International Affairs, 19/10/2020. 2. D. DUNGACIU, The Geopolitical Black Sea Encyclopaedia, Newcastle upon Tyne 2020, Cambridge Scholars Publishing.
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Per Chișinău era previsto uno scenario analogo. Con la differenza che, di per sé, la Repubblica Moldova non è un tassello strategico per Mosca: troppo lontana, troppo diffcile da controllare e troppo piccola. In ottica russa, il caso moldavo doveva piuttosto servire da esempio riuscito di pacifcazione attraverso la federalizzazione forzata, a dimostrare che lo stesso processo poteva essere replicato in Ucraina. La guerra iniziata il 24 febbraio scorso è anche conseguenza di questo calcolo errato del Cremlino, che sta cercando ora di risolvere per vie militari ciò che non è riuscito a ottenere al tavolo dei negoziati. Indipendentemente dall’esito del confitto in corso, la Moldova è tuttavia destinata a restare uno Stato fallito dal punto di vista socioeconomico e un problema irrisolto da quello geopolitico. Uffcialmente la Moldova è uno Stato neutrale, ma nei fatti non c’è nessuno che garantisca tale neutralità, né ci sarà mai. Nel testo costituzionale è affermata la «neutralità permanente» del paese, che ripudia «il dispiegamento di truppe militari di altri Stati sul suo territorio». Modifche relative alla disposizione di neutralità potranno essere valutate «solo in seguito alla loro approvazione attraverso referendum, con il voto della maggioranza dei cittadini iscritti alle liste elettorali». Nel 1994, momento in cui la costituzione entrava in vigore senza alcuna consultazione popolare, le truppe russe – mai menzionate nel testo – si trovavano già illegalmente sul territorio moldavo. In pratica, la costituzione è stata violata dal primo istante della sua adozione. Fino a oggi, visto che la Russia mantiene circa 1.500 soldati in Transnistria, divisi tra le truppe deputate al «mantenimento della pace» e quelle inquadrate nel cosiddetto Gruppo operativo delle forze russe, a difesa dei depositi di munizioni di Cobasna/Kolbasna. L’articolo costituzionale che rifuta la presenza di contingenti stranieri è servito solo a tenere la Nato il più lontano possibile dai confni moldavi e a impedire la cooperazione con le forze dell’Alleanza, mentre gli effetti su un eventuale ritiro delle truppe russe sono stati nulli. Lo status di neutralità sancito dalla Costituzione, benché non garantito da nessuno, ha comunque indotto Chișinău a disinvestire nelle politiche di difesa. I problemi della Moldova sono radicati molto più a fondo della congiuntura che attraversa ora. Questa piccola repubblica è di fatto in crisi dal primo momento in cui è apparsa sulla mappa. Dal giorno della sua indipendenza (27 agosto 1991), Chișinău ha sempre dovuto fare affdamento su aiuti esterni per sopravvivere (rimesse, prestiti, sovvenzioni). Ciò cui assistiamo oggi in seguito all’invasione russa dell’Ucraina è solo l’esacerbarsi di una crisi che non è mai veramente scomparsa. Prima di affrontare la questione della sicurezza militare della Moldova, occorre discutere la situazione socioeconomica di un paese che ha tutte le caratteristiche di uno Stato fallito. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. Dal punto di vista demografco, la Moldova registra il tasso più alto di spopolamento in Europa, pur non essendo più stata in guerra dal 1992. Villaggi e piccole città si sono svuotati. Se nel 1991 la popolazione era di 4 milioni e 364 mila abitanti (inclusi quelli della Transnistria, circa 731 mila), ora il paese ne conta
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AUTOIDENTIFICAZIONE DEGLI ABITANTI DELLA REGIONE SEPARATISTA DELLA TRANSNISTRIA
QUALE IDENTITÀ DESCRIVE MEGLIO L’INTERA POPOLAZIONE DELLA TRANSNISTRIA?
A QUALE ETNIA RITIENI DI APPARTENERE?
37,3
Transnistriana
35,7
Russa 14
Moldava 7,4
Ucraina
(in %)
42,3
Russa
35,7
Transnistriana 12
Moldava Ucraina
Bulgara
2,4
Mix di un certo num. di etnie
Altre
1,4
Altre
Non sa/non risponde
1,8
Non sa/non risponde
3,8 2 0,4 3,8
Fonte: Cojocari, Dungaciu, Cupcea 2019
2 milioni e 900 mila 3. In 30 anni i cittadini moldavi sono diminuiti di un milione e mezzo, toccando una quota simile a quella del 1955. Un tale tasso di spopolamento è unico nella storia della Bessarabia (la regione storica da cui è originata la Moldova). Tra le cause vanno annoverate povertà ed emigrazione economica (permanente e temporanea) ma anche un tasso di crescita naturale negativo. La situazione dell’economia è ancora più drammatica. Come afferma l’analista economico di Bucarest Petrișor Peiu, oggi Chișinău sta affrontando la sua terza recessione in soli 7 anni 4. Il pil moldavo stimato per il secondo trimestre del 2022 (64,3 miliardi di lei moldavi 5) è diminuito, in termini reali, dell’1,3% e nel primo semestre dello stesso anno è stata registrata una contrazione del 6,3%. L’estrema vulnerabilità dell’economia moldava è dovuta all’elevato grado di dipendenza dall’esterno, in termini sia commerciali sia di assistenza fnanziaria. Tale vulnerabilità aumenta con l’aggravarsi del disavanzo commerciale, che ha quasi raggiunto i 2,5 miliardi di euro nei primi sette mesi dell’anno, registrando importazioni per 5,1 miliardi ed esportazioni per 2,6 miliardi. In altre parole, per ogni euro esportato si fanno importazioni del valore di due euro. Il dramma di queste cifre è evidente se si guarda allo stesso periodo (gennaio-luglio) di cinque anni fa, in cui il defcit commerciale era di soli 1,35 miliardi di euro: circa la metà di quanto totalizzato quest’anno. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. V. IONIță, «În ultimii 5 ani Moldova a cunoscut cel mai mare exod al populației din istoria sa» («Negli ultimi cinque anni la Moldova ha conosciuto il più grande esodo di popolazione della sua storia»), 13/7/2021. 4. P. PEIU, «În Basarabia abandonată de București, nu va mai exista niciun colac de salvare pentru mult timp de acum înainte» («Nella Bessarabia abbandonata da Bucarest, non ci sarà un’ancora di salvezza per molto tempo a venire»), Gândul, 26/9/2022. 5. Un euro vale circa 20 lei moldavi.
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Avanzata dell’Esercito da Kherson verso Mykolajiv
Fuoco missilistico dalle navi da guerra russe
Presa della città con l’ausilio dell’aviazione navale
Accerchiamento e presa di Odessa
Sbarco navale e attacco aereo
Probabile avanzamento russo verso Romania e delta del Danubio
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Nord del fume Nistru testa di ponte per la presa di Odessa
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L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA
IPOTESI SCENARIO DELLA CADUTA DI ODESSA
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Arriviamo così all’indicatore più importante: il tasso di infazione, misura del degrado senza precedenti del potere d’acquisto e del tenore di vita in Moldova. Negli ultimi 12 mesi il tasso di infazione annualizzato è aumentato del 30,2%, con conseguente aumento dei prezzi medi di consumo: il costo dei prodotti alimentari è cresciuto di quasi un terzo, quello dei beni non alimentari del 20% e quello dei servizi forniti alla popolazione del 44%. La rapidità e la drasticità con cui si sono aggravati i parametri infativi sono motivo di preoccupazione quotidiana tra i moldavi. Inoltre, l’elettricità è diventata più costosa di circa 2,7 volte e il gas naturale di quasi l’80% 6. Persino l’Ucraina, paese devastato dalla guerra, ha un tasso di infazione annualizzata pari al 26,6% 7, dunque inferiore a quello della Moldova, mentre in Russia si attesta all’11,9% 8. Neanche gli Stati baltici, scossi indirettamente dal confitto e pure soggetti ad alti livelli di infazione (tra il 17,5 e il 22% 9), arrivano alle cifre registrate da Chișinău. Chișinău, infne, è priva di una vera politica di sicurezza. L’unica garanzia di cui dispone è la resistenza dell’Ucraina. Si pensi a quando nella primavera 2022 si temeva che i russi raggiungessero Odessa. In quel caso le forze di Mosca si sarebbero trovate di fronte una popolazione non ostile, su cui anzi l’idea di Mondo Russo (Russkij Mir) esercita una certa presa. Ciò può esser detto anche delle regioni di Bugeac/Budjak (Ucraina), della Transnistria e persino nella stessa Moldova, dove circa la metà della popolazione nutre simpatie florusse. Se le truppe della Federazione fossero davvero arrivate a Odessa il fronte sarebbe crollato facilmente: la Transnistria sarebbe stata spinta a schierarsi apertamente con Mosca e la Moldova non sarebbe stata in grado di frenare l’eventuale avanzata dei russi, che avrebbero raggiunto senza problemi il fume Prut. In quel periodo, Chișinău ha adottato un atteggiamento molto cauto nei confronti della guerra, suscitando irritazione nelle autorità di Kiev. In seguito il registro è cambiato: ora le autorità moldave professano totale solidarietà all’Ucraina e hanno perfno sollevato la necessità di un potenziamento delle forze militari. Obiettivo per cui comunque il governo non dispone di suffcienti fondi e che potrebbe essere conseguito solo ricorrendo a un supporto esterno, ciò che però contravverrebbe al principio di neutralità. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. La terza città più grande dell’Ucraina, Odessa, è anche l’unico porto in acque profonde del paese. Prima dell’invasione militare russa, da qui passava circa il 65% del commercio marittimo dell’Ucraina nonché il 70% del volume totale delle sue importazioni ed esportazioni 10. Attualmente è l’unico porto che esporta cereali sul mercato internazionale, in attuazione dell’accordo umanitario marittimo tra Russia e 6. B. NIGAI, «Rata infației în decembrie 2022 a constituit 30%» («Il tasso di infazione nel dicembre 2022 è stato pari al 30%»), radiomoldova.md, 11/1/2023. 7. O. HARMASH, «Ukraine’s 2022 infation hits 26.6%, but lower than forecast», Reuters, 10/1/2023. 8. «Russian monthly infation was 0.78% in December – Rosstat», Reuters, 13/1/2023. 9. B. OJA, H. WRIGHT, «Estonia’s infation fell to 17.5 percent in December», ERR News, 6/1/2023; «Latvia Infation Rate», tradingeconomics.com; «Lithuania Infation Rate», tradingeconomics.com 10. C.A. COSTEA, «The strategic importance of the port of Odessa, Romanian Centre for Russian Studies», Romanian Centre for Russian Studies, 25/3/2022.
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L’UNICA GARANZIA DI SICUREZZA DELLA MOLDOVA È LA RESISTENZA DELL’UCRAINA
Ucraina mediato dalle Nazioni Unite e dalla Turchia (Black Sea Grain Initiative 11). Da un punto di vista strategico, Odessa è anche un nodo di comunicazioni stradali e ferroviarie verso altre regioni del paese, verso la capitale Kiev e verso la Moldova. Considerati gli obiettivi iniziali dell’invasione militare russa e quelli energetici degli ultimi mesi, non si può escludere che in caso di ripresa di un’offensiva militare su larga scala Mosca scelga di colpire le infrastrutture economiche e i canali di esportazione marittima di merci, bersagliando il porto cittadino di Odessa e le coste regionali adiacenti (Mykolajiv/Nikolaev e Bugeac/Budjak). In questo caso, la Russia non solo otterrebbe il pieno controllo della costa ucraina dal Mar d’Azov alle foci del Danubio, ma si assicurerebbe anche un corridoio strategico verso la regione separatista della Transnistria e verso Kiev. La riconquista dell’Isola dei Serpenti nei primi giorni dell’invasione è indicativa in tal senso. Le truppe russe potrebbero prendere Odessa con una vasta azione armata combinata coinvolgendo le forze di terra di Kherson, che dovrebbero prima impadronirsi della città di Mykolajiv con operazioni di sbarco navale e aereo tra gli estuari di Tylihul e Kuyalnik, per poi stabilire teste di ponte a nord della riva orientale del fume Nistru/Dnestr e infne accerchiare Odessa. Queste manovre andrebbero coadiuvate da artiglieria e aviazione navale e richiederebbero il supporto diretto del fuoco missilistico delle navi da guerra russe. A seconda del successo dell’operazione di accerchiamento, i russi potrebbero poi valutare di dirigersi verso la regione di Bugeac/Budjak al fne di raggiungere le foci del Danubio. D’altra parte, il porto cittadino di Odessa è molto diffcile da conquistare. Non solo per la confgurazione della costa e per le caratteristiche fsiche del terreno nelle vicinanze della città, ma anche in ragione delle misure adottate dall’Ucraina per difendere la linea costiera: difesa tattica anti-aerea, opere permanenti di ingegneria e fortifcazioni interrate. Nonostante il rinfoltimento del 22° Corpo d’Armata russo in Crimea (subordinato alla Flotta del Mar Nero), il riarmo dell’Aeronautica e il potenziamento delle difese aeree qui dispiegate, le perdite umane e materiali sarebbero elevatissime per la Federazione e avrebbero un impatto psicologico e mediatico estremamente negativo sia sulle le forze russe sia sull’opinione pubblica e sullo stesso Putin. È quindi improbabile che Mosca si lanci in una vasta operazione aeronavale e terrestre per l’occupazione di Odessa e delle regioni adiacenti. Piuttosto, continuerà a mantenere il suo blocco navale e a controllare le rotte marittime commerciali dell’Ucraina, che passano per quel porto. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. La Transnistria è rimasta per ora neutrale nella guerra d’Ucraina. Il governo moldavo avrebbe potuto approfttare del contesto bellico e del sostegno di Kiev per premere su Tiraspol’ affnché smilitarizzasse l’area dai soldati russi. Invece i toni si sono distesi: Chișinău è arrivata a sostenere che nella regione separatista esistano un campo della pace e uno della guerra e che con il primo si possa perfno discutere. Distinzioni semplicemente inesistenti prima che scoppiasse la guerra, quando le
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11. «Infographic – Ukraine grain exports explained», Consiglio dell’Unione Europea, 4/1/2023.
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LA ROMANIA A STELLE E STRISCE
Progetto Nato di condotta militare per combustibili Progetti di autostrada Via Carpathia e ferrovia Rail2Sea da Costanza a Danzica “Porta di Focşani”, storica linea difensiva tra i fumi Siret e Danubio nei pressi della città di Focşani Transnistria
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Isola dei Serpenti
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Mar Nero 1 Base militare Emanoil Ionescu,
ospita caccia e droni americani KOSOVO 2 Base militare di Deveselu, sede dello scudo missilistico Nato 3 Base aerea Mihail Kogălniceanu CentraleMnucleare A C E D diO Cernavodă NIA Isola strategica D E L ucraina. N O R DLe forze russe l’hanno catturata nel febbraio 2022, per poi ritirarsi nel giugno successivo Basi Nato bulgare ALBANIA Porto militare Direttrici d’infuenza romene verso Balcani, Grecia e Ucraina
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Salonicco Mar Egeo
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autorità d’Oltre Nistru erano considerate agenti al soldo di Mosca. Chișinău continua peraltro a sovvenzionare le élite economiche di Tiraspol’: tutto il gas venduto dalla Federazione Russa alla Moldova viene infatti inviato in Transnistria, dove l’impianto di Cuciurgan lo trasforma in energia elettrica e lo vende… alla Moldova. In pratica, nonostante la guerra e il separatismo promosso dalle autorità transnistriane, il rapporto tra Chișinău e Tiraspol prosegue senza ostacoli, anzi forse meglio di prima. Il formato 5+ 2 per la regolamentazione del confitto transnistriano, di cui fanno parte Moldova, Transnistria, Ucraina, Russia e Osce (e anche, con status di ospiti, Stati Uniti e Unione Europea) non è di fatto mai stato ripudiato dai moldavi. Ciò signifca che a guerra fnita questa cornice negoziale potrà essere riattivata e che Mosca potrà sfruttare una eventuale partecipazione ai lavori del format per riguadagnare dignità sul piano internazionale. In caso gli ucraini vincessero, è tuttavia improbabile che accetterebbero di sedere al fanco dei russi. Anche nel caso ideale in cui i soldati russi si ritirassero e nel territorio separatista si instaurasse un regime di autonomia, la Transnistria rimarrebbe comunque un problema per la Moldova. Per almeno tre ragioni di carattere politico, prima ancora che economiche o di sicurezza. Anzitutto, la regione ha sviluppato negli ultimi 30 anni una forte identità locale. In un sondaggio del 2019 12, il 38% degli abitanti si defnisce «transnistriano» e il 36% «russo», mentre solo il 14% si identifca come «moldavo». In secondo luogo, la popolazione della regione non è flo-europea, nonostante le illusioni di alcuni politici di Chișinău: nelle ultime elezioni presidenziali ha votato per Maia Sandu il 14% degli elettori transnistriani (4.413 cittadini). Ciò vuol dire che l’ingresso della popolazione della Transnistria nel campo elettorale moldavo farebbe pendere la bilancia elettorale verso il polo flo-orientale almeno per il prossimo decennio, mettendo così a repentaglio il percorso di integrazione europea di Chișinău. In tal modo, Mosca acquisirebbe per altro un’importante leva di infuenza nel processo. Questo senza contare il debito di quasi 8 miliardi di dollari contratto dalla Moldova per aver fornito gas alla Transnistria 13 negli ultimi trent’anni né i problemi di corruzione e criminalità organizzata che l’integrazione di questo territorio separatista porterebbe al paese. Infne, nella prospettiva di negoziati fnali per il confitto ucraino, il dossier transnistriano potrebbe essere evocato per risolvere il problema dello status ambiguo di alcuni territori dell’Ucraina: c’è quindi la possibilità che la soluzione delle autonomie territoriali, rifutata da Kiev nell’ambito degli accordi di Minsk, venga ripresa facendo leva sul precedente della Moldova. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
5. Abbiamo insistito sulla situazione di crisi permanente della Moldova perché è essenziale in qualsiasi discussione relativa a una potenziale unione (Unirea) con la
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12. T. COJOCARI, D. DUNGACIU, R. CUPCEA, «Perceptions, attitudes and values of the population from the left bank of Dniester river», Black Sea University Foundation (Funm) e Cbs-Axa Sociological Investigation and Marketing Centre, 2019. 13. P. REMLER, «Transdniestria, Moldova, and Russia’s War in Ukraine», Carnegie Endowment for International Peace, 2/8/2022.
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Romania, questione che si pone soprattutto in tempi di crisi. La nostra tesi è che la prospettiva di un’unione sia per i cittadini moldavi al massimo una soluzione in negativo: la situazione è peggiorata a tal punto che il ricongiungimento con la Romania sul modello tedesco e il conseguente ingresso nell’Ue e nella Nato sono visti come male minore. Una popolazione che per il 70% vede il futuro dei propri fgli al di fuori della Moldova 14 è una popolazione che non crede più in questo Stato. In Romania, circa il 75% degli abitanti si esprime a favore dell’unione con la Moldova. Si tratta tuttavia di una sorta di posizione politica di rito, che la popolazione romena abbraccia senza avere una vera consapevolezza dell’effettiva situazione geopolitica di Chișinău e delle conseguenze economiche di tale progetto 15. I sondaggi condotti in Moldova rivelano invece che i suoi abitanti sarebbero favorevoli alla prospettiva unionista per il 35-40%: è l’unico tasso in costante crescita dagli anni Novanta, anche se di fatto non è supportato da dichiarazioni unioniste da parte di Chișinău o di Bucarest. Questo orientamento è motivato da diversi fattori. Un ruolo importante è giocato dal cambio generazionale: rispetto ai primi giorni di indipendenza della repubblica, oggi si sta affermando una generazione che non nutre più le fobie sovietiche della precedente. Inoltre – e questo è l’elemento più importante – l’aumento delle simpatie unioniste è sintomo del fallimento della Repubblica Moldova come progetto politico. Negli ultimi 30 anni Chișinău ha sperimentato i regimi più disparati: governi di sinistra, florussi, flo-europei, coalizioni Est-Ovest con rappresentanti di entrambe le correnti. Nessuno di questi ha funzionato, nessuno è riuscito a proporre un programma nazionale di successo. Neanche l’esenzione dai visti per i cittadini moldavi può essere considerata una vera vittoria, perché gran parte di loro (oltre un milione 16) possedeva già un passaporto romeno – dunque europeo – con cui poter circolare e stabilirsi nel Vecchio Continente. La reintegrazione della regione transnistriana non c’è stata, le truppe russe non hanno lasciato il paese, la prosperità non è arrivata. La Moldova è rimasta un paese diviso tra Oriente e Occidente. Lo stesso riconoscimento dello status di paese candidato all’ingresso nell’Ue è percepito positivamente solo dalla metà dei cittadini. È per altro diffusa la sensazione che il merito principale non sia da attribuire a Chișinău ma alla guerra in Ucraina. Uno studio del 2019 sulla sociologia dell’unionismo moldavo 17 evidenzia come la prospettiva di un ricongiungimento con la Romania sia in realtà percepita con diverse sfumature dalla popolazione locale. Una parte di essa propende ad esempio per un «unionismo potenziale»: non voterebbe per l’unione ma la ritiene Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
14. V. IONIță, op. cit. 15. D. DUNGACIU, P. PEIU, Reunirea, București-Chișinău 2018, Libris. 16. M. NECșUțU, «Peste 100.000 de cetățeni ai Republicii Moldova așteaptă cetățenia română. Statistici ofciale despre deținătorii cetățeniei statului vecin» («Circa 100 mila cittadini della Repubblica Moldova stanno aspettando la cittadinanza romena. Statistiche uffciali sui titolari della cittadinanza nello Stato vicino»), anticorupție.md, 8/6/2022. 17. D. DUNGACIU, «Sociological Evaluations: Potential Unionism, Passive Unionism, Unionism of the Heart and Unionism of the Mind», in D. DUNGACIU, V. MANOLACHE (a cura di), 100 Years since the Great Union of Romania, Newcastle upon Tyne 2019, Cambridge Scholars Publishing.
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plausibile in un orizzonte di 10-20 anni. C’è poi un «unionismo passivo», quello di un 35% che sicuramente non voterebbe per l’unione ma neanche protesterebbe violentemente se dovesse concretizzarsi (solo il 4% dichiara che scenderebbe in strada e sarebbe pronto alla violenza). Per circa un 40% si può poi parlare di «unionismo del cuore», che sintetizza le posizioni di coloro che si unirebbero convintamente a Bucarest; una fetta considerevole degli intervistati si esprime infne per una sorta di «unionismo della mente», dichiarandosi a favore dell’unione «se gli stipendi, le pensioni, o le indennità aumentassero di tre-quattro volte». 6. Il quadro ricostruito non è dei migliori. Le sorti di Chișinău dipendono esclusivamente dall’Ucraina. La Moldova non dispone di alcun progetto di sicurezza autonomo e rischia di sparire dalla mappa europea, sia che la Russia raggiunga Odessa e continui verso i fumi Nistru e Prut sia che la guerra fnisca prima che le truppe di Mosca vengano ritirate dall’Ucraina. Inoltre, data la sua fondamentale ambiguità strategica dovuta alla questione della Transnistria, nel caso di vittoria russa in Ucraina Chișinău potrebbe diventare una pericolosa vulnerabilità. Il rischio è che per risolvere i confitti congelati le autorità moldave accettino – se non ora, dopo le elezioni – soluzioni favorevoli alla Russia (autonomia territoriale, federalizzazione) poi replicabili in Ucraina. Il ricongiungimento con la Romania dipende anzitutto dagli sviluppi della guerra in corso e dagli equilibri interni moldavi. Se Kiev non ottiene una vittoria totale (il ritiro delle truppe russe da tutta l’Ucraina), ogni possibilità di integrazione europea per Kiev e Chișinău andrà in frantumi e la regione rimarrà un’area cuscinetto in gran parte controllata da Mosca. In questo caso, l’opinione pubblica internazionale sarà ancora più diffdente rispetto al futuro di questa repubblica. Gli sconvolgimenti innescati dalla guerra e il venir meno della prospettiva di integrazione europea rischiano di portare a un ulteriore deterioramento della situazione politica e socioeconomica interna. Questo insieme di fattori manterrà la questione unionista all’ordine del giorno, non necessariamente come progetto positivo ma in quanto soluzione negativa: la Romania è ciò che resta alla Moldova quando tutto il resto le viene portato via. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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ROMANIA FRONTE DEL PORTO
COLIBășANU e George SCUTARU Scali commerciali e basi militari sul Mar Nero sono un tassello fondamentale della guerra. Bucarest invoca la Nato contro un ritorno russo sull’Isola dei Serpenti. Il ruolo della Turchia. Il grano ucraino è ostaggio delle mine. di Antonia
I
1. L MAR NERO HA SVOLTO UN RUOLO strategico per i russi negli ultimi 250 anni. L’espansione verso sud, iniziata all’epoca di Caterina la Grande, portò la Russia fno al Mar Nero e la spinse a consolidare la propria posizione nella regione, a controllare il delta del Danubio, a guadagnare un accesso ai mari caldi, a cercare di conquistare gli Stretti e ad aumentare la propria infuenza nei Balcani. Nel XVIII secolo il principe Grigorij Potëmkin fu il primo governatore delle terre nel Sud dell’Ucraina, chiamate Nuova Russia (Novorossija): nome che tuttora fgura nei piani espansionistici di Mosca. Potëmkin fu anche fautore del ruolo della Russia nei Balcani, nel Caucaso e verso il Mediterraneo 1. Il mito della Terza Roma e la santa missione di proteggere l’ortodossia furono il fondamento della politica d’espansione russa nell’Europa sud-orientale fno all’abdicazione di Nicola II, nel 1917. Dall’epoca di Caterina la Grande a oggi, la Crimea è stata la base principale della fotta russa del Mar Nero e l’avamposto destinato a proiettare gli interessi strategici dell’impero zarista oltre gli Stretti. La Russia ha sempre mirato a limitare l’infuenza di altri paesi nel bacino eusino, trovando nella Turchia un partner malgrado le molte rivalità. Con il trattato di Hünkâr øskelesi del 1833 – la cui clausola segreta consentiva alla Russia di ostacolare l’ingresso agli Stretti delle navi di altre potenze – e con la convenzione di Montreux del 1936, tuttora in vigore, gli zar di San Pietroburgo, i leader sovietici e poi russi hanno inteso fare del Mar Nero un condominio russo-turco, se non un lago russo. Oggi l’obiettivo di Mosca resta limitarvi la presenza della Nato, approfttando della ritrosia di Ankara a coinvolgere maggiormente gli Stati Uniti nella regione e delle scarse capacità navali di Romania e Bulgaria. Il regime speciale d’accesso Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. N. GVOSDEV, «Russia’s strategy in the Black Sea Basin», War on the Rocks, 2/8/2018.
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delle navi militari di Stati non rivieraschi al Mar Nero è disciplinato dalla convenzione di Montreux, che prevede limiti di stazza e riduce la permanenza a un massimo di 21 giorni. Per questo la presenza di navi Nato nel Mar Nero è limitata e a rotazione, quindi dispendiosa e laboriosa. In tempi di guerra – come ora – la Turchia ha chiuso gli Stretti alle navi militari, perciò l’accesso al Mar Nero di navi Nato provenienti da Stati non rivieraschi è impossibile 2. Peculiarità della regione del Mar Nero è la presenza di confitti congelati: la Transnistria nella Repubblica di Moldova; il Donbas in Ucraina: Abkhazia e Ossezia del Sud in Georgia; il Nagorno Karabakh al confne tra Armenia e Azerbaigian. Contese destabilizzanti che possono causare in qualsiasi momento confitti armati, come accaduto nel 2020 in Nagorno Karabakh e oggi in Ucraina. Iniziati o diretti dalla Russia, questi confitti e sono stati mantenuti dormienti da Mosca per fungere da strumenti di pressione sugli Stati interessati. Tali paesi sono rimasti nella sfera d’infuenza russa, come l’Armenia; o hanno sperimentato sviluppi democratici lenti e tortuosi infuenzati dalla Russia, come la Repubblica di Moldova; o ancora sono stati vittime di aggressione diretta quando Mosca non è più stata in grado di infuenzarli, come la Georgia nel 2008 o l’Ucraina nel 2014 e nel 2022. Altra specifcità è la scarsa coesione tra gli stati Nato che si affacciano sul Mar Nero. La Romania ha una postura flo-americana e vuole una maggiore presenza dell’Alleanza Atlantica nella regione, consapevole della propria inferiorità militare rispetto alla Russia. La Turchia ha un atteggiamento ambivalente verso la Russia, avendo interessi complementari o antagonisti nel Caucaso, in Asia centrale, in Medio Oriente e in Nordafrica. Il neo-ottomanismo del presidente Erdoãan ha fatto sì che Ankara abbia adottato una politica di equilibrio piuttosto che di confronto, con atteggiamenti benevoli verso Mosca o Putin, anche a costo di infastidire Washington. La Bulgaria ha legami tradizionali con la Russia di natura storica, culturale, linguistica e religiosa. Popolo slavo-ortodosso resosi indipendente dai turchi nel XIX secolo grazie al sostegno e al coinvolgimento militare russo, i bulgari conservano forti sentimenti positivi verso Mosca anche oggi, dopo l’invasione dell’Ucraina 3. Un sondaggio condotto nell’ottobre 2022 mostra che il 48% dei bulgari non sostiene né Ucraina né Russia in questo confitto, il 23% parteggia per Kiev e il 21% circa per Mosca. Se nel Baltico la Polonia agisce all’unisono con le omonime repubbliche, nel Mar Nero i tre Stati Nato raramente sono disposti a una vera cooperazione, soprattutto se antirussa. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. L’Isola dei Serpenti è un afforamento roccioso di appena 17 ettari situato di fronte al delta del Danubio, a soli 37 km dal porto romeno di Sulina, a 143 da Odessa e a 270 da Sebastopoli. I greci la chiamavano Leuke, i romani Isola Bianca perché da lontano si potevano vedere le candide rovine del tempio di Achille, che leggen-
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2. S. CELAC, D. DUNGACIU, G. SCUTARU, E. SIMION, «Russian Policy in the Black Sea Region», New Strategy Center, Norwegian Institute of International Affairs (Nupi)¸ 24/11/2022. 3. M. YORDANOV, «Close to Half of Bulgarians Back Neither Russia nor Ukraine in War – Poll», Bulgarian News Agency, 10/11/2022.
LA GUERRA CONTINUA
Mare rivendicato dalla Russia Mare rivendicato dall’Ucraina Nuova rivendicazione della Russia
M UCRAINA
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Limite d’equidistanza virtuale
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Limite delle Zee frutto di un accordo bilaterale
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TURCHIA Aree di libera navigazione disturbate dalla Federazione Russa
IL PICCOLO GRANDE MAR NERO Accordo tra Bulgaria e Turchia (4/12/1997)
Decisione della Corte int. di giustizia tra Romania e Ucraina (3/2/2009)
Accordo tra Turchia e Urss (23/6/1978)
Scambio di note tra Turchia e Urss (tra il 23/12/1986 e il 6/2/1987)
Accordo tra Turchia e Georgia (14/7/1997)
Fonte: Black Sea News e Confits
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de greche volevano sepolto qui dopo aver perso la vita nell’assedio di Troia. L’isola fu governata da romani, bizantini, genovesi, turchi, russi (per un breve periodo) e di nuovo dai turchi, poi dalla Romania tra il 1878 e il 1947, quando fu presa dall’Urss. Nel 1991 divenne parte dell’Ucraina. La Romania ne ha riconosciuto implicitamente l’assetto territoriale con il trattato bilaterale romeno-ucraino del 1997. I negoziati tra i due paesi per la delimitazione della piattaforma continentale e delle Zone economiche esclusive (Zee) nel Mar Nero sono proseguiti anche dopo, ma senza esito. Romania e Ucraina hanno quindi portato la questione alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia. Tra il 2004 e il 2009 Kiev e Bucarest hanno presentato varie proposte di condivisione dell’area contesa (11 mila kmq), tutte incentrate sullo statuto dell’Isola dei Serpenti: abitata con risorse proprie secondo gli ucraini, roccia per i romeni. Lo statuto dell’isola era importante per l’assegnazione della contesa piattaforma continentale. Nel 2009 la Corte internazionale si è pronunciata a favore della Romania, che ha ricevuto 9.700 kmq a fronte dei 2.300 assegnati all’Ucraina. Il modo civile con cui i due paesi hanno risolto la spinosa controversia rappresenta un punto di riferimento a livello internazionale 4. A sud dell’isola la Romania ha scoperto importanti riserve di gas naturale, stimate in 200 bcm (miliardi di m3). Il giacimento maggiore, Neptun Deep, situato 150 4. A. COLIBășANU, L. DINU, J. GODZIMIRSKI, G. SCUTARU, «How the Snake Island Matters in the context of the 2022 War in Ukraine?», New Strategy Center, Norwegian Institute of International Affairs (Nupi)¸ 24/11/2022; «11 years since romania’s trial to the hague, which brought Romania 9,700 km2 of continental shelf and exclusive economic zone», Romanian Ministry of Foreign Affairs, 3/2/2020.
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km al largo e vicino alle Zee di Bulgaria e Turchia, ha riserve stimate di 100 bcm. Bucarest è sul punto di iniziare la costruzione dell’infrastruttura necessaria a sfruttare il gas di Neptun Deep, la cui estrazione dovrebbe iniziare nel 2027. Dall’agosto 2022 ha inoltre iniziato a estrarre gas naturale dal giacimento offshore Ana, a sud dell’isola, e nei prossimi 8-10 anni preleverà 1 bcm/anno 5. La Romania consuma ogni anno 12 bcm 6, la Repubblica di Moldova 1,1 (escludendo la Transnistria) 7, la Bulgaria 3,2 8. L’erario romeno incamererebbe circa 26 miliardi di dollari 9 solo dallo sfruttamento di Neptun Deep: cifra pari al bilancio della difesa di 5 anni. Dopo la chiusura del giacimento olandese di Groningen nel 2022, la Romania è diventata il maggiore produttore di gas naturale dell’Unione Europea 10, il che le conferisce un vantaggio strategico e aiuta l’Ue a ridurre il potere di ricatto della Russia. Il fatto che queste risorse energetiche romene si trovino a sud dell’Isola dei Serpenti, alcune nell’area assegnata alla Romania dalla Corte internazionale di giustizia, porta Bucarest a temere che se la Russia rioccupasse l’isola potrebbe disconoscere l’arbitrato del 2009. Mosca usa spesso false argomentazioni legali o interpretazioni capziose per giustifcare i suoi abusi, come i referendum con cui ha annesso la Crimea nel 2014 e le regioni dell’Ucraina meridionale nel 2022. Questo comportamento rientra nell’arsenale della guerra ibrida che la Russia sta portando avanti contro l’Occidente. Esempio eloquente ne è il blocco di porzioni del Mar Nero con il pretesto di condurre esercitazioni navali, alcune reali e altre fttizie, onde impedire la libera navigazione. Si tratta di una pratica legale, ma se utilizzata ripetutamente determina effetti negativi sul commercio marittimo. A partire dal 2017 e fno all’invasione dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Russia vi ha fatto spesso ricorso. Nell’estate del 2009, ad esempio, bloccò circa un terzo della superfcie totale del Mar Nero. La guerra scatenata da Mosca ha esposto le compagnie di navigazione operanti nel Mar Nero a nuovi rischi, che hanno fatto lievitare i costi di assicurazione, trasporto, movimentazione e produzione dei beni movimentati. Qualsiasi nuovo progetto in grado di ridurre la dipendenza energetica dell’Ue dalla Russia, come quello della Romania nell’area in questione, sarà dunque più costoso e nel caso specifco richiederà a Bucarest di investire più risorse per scoraggiare possibili aggressioni di Mosca nella propria Zee. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. A. FILIP, «Investiția record din Marea Neagră a fost inaugurată. “Ana” și “Doina” vor asigura României 90% din consumul de gaze» («L’investimento record nel Mar Nero è stato inaugurato. “Ana” e “Doina” assicureranno alla Romania il 90% dei consumi di gas»), Observator, 28/6/2022 6. S. OZON, «Cum a ratat România șansa de a deveni cel mai mare producător de gaze naturale din UE. Istoria scandaloasă a Legii Offshore» («Come la Romania ha perso l’occasione di diventare il più grande produttore di gas naturale nell’Ue. La storia scandalosa della legge Offshore»), ziare.com, 19/3/2022. 7. P. PODOLEANU, «Tabloul gazelor în Republica Moldova: Consumatorii casnici și-au crescut simțitor cantitățile utilizate în ultimii ani» («Tabella del gas nella Repubblica Moldava: negli ultimi anni i consumatori domestici hanno aumentato signifcativamente le quantità utilizzate»), Agora, 1/11/2021. 8. «Bulgaria Energy Information», Enerdata. 9. S. OZON, op. cit. 10. «România ar putea deveni cel mai mare producător de gaze naturale din UE. 5 miliarde de lei/an în plus la buget, doar din Marea Neagră» («La Romania potrebbe diventare il più grande produttore di gas naturale dell’Ue. 5 miliardi di lei all’anno in più per l’erario solo dal Mar Nero»), Wall-Street.ro, 19/5/2022.
LA GUERRA CONTINUA
Giacimenti ofshore Concessioni ofshore Petrolio Gas
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Canale artifciale Danubio-Mar Nero BULGARIA Confne marittimo attuale (Zee) Confne reclamato dalla Romania Confne reclamato dall’Ucraina Limite delle acque territoriali (12mn) Porti principali Rotte strategiche per l’export di grano ucraino Centrale nucleare romena UCRAINA MOLD. TURCHIA Istanbul
ROMANIA Crimea BULGARIA
Mar Nero Abkhazia
FEDERAZIONE RUSSA Ossezia del Sud GEORGIA
TURCHIA Fonte: Hague Justice Portal, Petroleum Economist
ARM.
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La Russia conosce l’importanza strategica dell’Isola dei Serpenti sotto il proflo militare ed economico, non a caso l’ha conquistata il primo giorno dell’invasione e l’ha tenuta fno al 30 giugno, scacciata dagli intensi bombardamenti e dagli attacchi con droni condotti dagli ucraini. L’isola è stata un importante avamposto nella costituzione del blocco navale con cui Mosca ha cercato di soffocare l’economia ucraina, che ha così perso 170 milioni di dollari al giorno. La fornitura di missili Harpoon da parte degli alleati occidentali, l’affondamento dell’incrociatore Moskva il 14 aprile 2022, il ritiro dei russi dall’Isola dei Serpenti il 30 giugno 2022 hanno per ora scongiurato uno sbarco russo sul delta del Danubio o a Odessa 11. I negoziati tra Turchia, Russia, Ucraina e Onu hanno permesso a Kiev di riprendere le esportazioni di cereali attraverso il corridoio marittimo Odessa-Istanbul. La seconda rotta delle esportazioni ucraine – l’unica durante il blocco – è stata quella che si avvaleva dei porti ucraini di Reni e Izmajil e di quelli romeni di Galati e Brăila sul Danubio e di Sulina e Costanza sul Mar Nero. Sfruttando tutti i mezzi di trasporto – stradali, ferroviari, fuviali – i porti romeni sul Mar Nero continuano a reindirizzare l’export ucraino: 14 milioni di tonnellate di cereali via Romania al 15 gennaio 2023, rispetto alle 16 milioni di tonnellate del corridoio Odessa-Istanbul 12. Il maggior pericolo per la libertà di navigazione è rappresentato in questo momento dalle mine. L’area antistante i porti di Sulina e Costanza ne è piena e un incidente è sempre possibile, anche perché le tempeste hanno danneggiato gli sbarramenti di mine che proteggono la costa ucraina e gli ordigni galleggiano alla deriva, come constatato dalle Marine romena, bulgara e turca. Un incidente si è verifcato l’8 settembre, quando un dragamine romeno ha colpito una mina durante le manovre notturne per neutralizzarla. L’esplosione ha causato lievi danni alla nave, che ha raggiunto la riva con l’equipaggio incolume 13. La Marina romena ha in servizio attivo 3 dragamine 14 in missione permanente per mettere in sicurezza i trasporti tra il delta del Danubio e i porti romeni, ma anche il tratto del corridoio Odessa-Istanbul che passa per la Zee romena. Il Mar Nero ha infatti due porte d’ingresso: il Bosforo e il delta del Danubio. Se la Russia rioccupasse l’Isola dei Serpenti, controllerebbe uno dei due accessi e potrebbe ostacolare tutto il traffco navale in uscita o in entrata da esso attraverso il braccio di Sulina 15. L’isola è a 167 km dalla base aerea di Mihail Kogălniceanu, dove si trova il grosso delle truppe americane dispiegate in Romania. L’equipaggiamento Sigint (Signal Intelligence) collocabile dai russi sull’isola potrebbe monitorare la base aerea di Borcea – da cui gli aerei Nato svolgono missioni di polizia aerea Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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11. A. COLIBășANU, G.A. CROWTHER, J. HICKMAN, G. SCUTARU, «The Strategic Importance of Snake Island», New Strategy Center, 27/9/2022. 12. Dialogo degli autori con rappresentanti del ministero dei Trasporti della Romania. 13. C. GAVRILAS, «Dragorul maritim avariat de explozia unei mine, de 33 de ani în serviciul Armatei» («Il dragamine danneggiato dall’esplosione di una mina, da 33 anni al servizio delle Forze armate»), Adevărul, 10/9/2022. 14. «Divizionul Nave» («Divisione Navi»), Forze navali della Romania. 15. A. COLIBășANU, G.A. CROWTHER, J. HICKMAN, G. SCUTARU, op. cit.
LA GUERRA CONTINUA
– e il traffco navale presso i porti romeni di Sulina e Costanza. Inoltre, i russi potrebbero utilizzare l’isola per attività di disturbo e alterazione dei segnali Gnss (Global Navigation Satellite System) 16, causando incidenti nei giacimenti offshore collocati nella Zee romena. Il controllo ucraino dell’isola è dunque fondamentale, mentre per Mosca l’atollo rappresenta un avamposto da cui strozzare l’economia di Kiev, faccandone così la resistenza militare. Visto che al momento oltre il 30% del territorio ucraino è minato 17 e che tra le maggiori insidie all’attività marittima fgurano le mine, l’attività economica è già diminuita. Questo pone seri dilemmi all’Ue, la cui industria è stata danneggiata dalla crisi dell’economia ucraina e dal rincaro di energia e materie prime, ma anche dalla crisi in cui versa la produzione di fertilizzanti, di cui prima della guerra Kiev era grande esportatrice. A ciò si aggiungono il rischio di nuove ondate di rifugiati e la crisi alimentare che incombe sui paesi (molti africani) importatori di cibo ucraino, essenziale per la loro stabilità e – di rifesso – per quella europea. 3. Riteniamo pertanto molto probabile che alla vigilia di un armistizio o di una soluzione diplomatica della guerra la Russia tenti ancora di occupare l’Isola dei Serpenti, da cui Mosca potrebbe compiere azioni di disturbo e monitoraggio anche in tempo di pace: ispezioni abusive di navi mercantili, interdizione di aree con il pretesto di esercitazioni militari, interferenza nello sfruttamento del gas offshore a danno della Romania e della Ue. Il Mar Nero sarà presto attraversato per 1.100 km da un cavo sottomarino da 1.000 GW che porterà elettricità dall’Azerbaigian all’Europa attraverso la Georgia 18; parallelamente a esso dovrebbe correre un cavo in fbra ottica per aumentare la connettività tra il Caspio e lo spazio Ue 19. Il progetto servirà non solo gli Stati Ue, ma anche i Balcani e la Repubblica di Moldova, riducendone la dipendenza dalla Russia. L’infrastruttura raggiungerebbe la costa romena a Costanza, 175 chilometri a sud dell’Isola dei Serpenti. La consegna di ulteriori sistemi antinave e anti-aerei occidentali all’Ucraina servirà anche a impedire uno nuovo sbarco russo sull’Isola dei Serpenti, ma la Nato e gli Stati Uniti devono anche sostenere la Romania schierandovi sistemi antinave fno al 2026, quando l’americana Raytheon consegnerà a Bucarest quattro nuovi sistemi di difesa costiera. L’Unione Europea deve poi fornire a Romania e Bulgaria dragamine e cacciamine per aumentare la sicurezza delle navi che trasportano cereali ucraini nel Mar Nero occidentale. Queste navi non sono mezzi offensivi. Ankara può essere perCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
16. A. COLIBășANU, L. DINU, J. GODZIMIRSKI, G. SCUTARU, op. cit. 17. Secondo le informazioni uffciali del servizio ucraino per le situazioni di emergenza, «In Ukraine, 30% of territory mined – State Emergency Service», Ukrinform, 18/11/2022. 18. «Acord strategic la București pentru un cablu submarin / Iohannis: Un document crucial și ambițios / Von der Leyen: Un proiect plin de posibilități» («Accordo strategico a Bucarest per un cavo sottomarino / Iohannis: un documento cruciale e ambizioso / Von der Leyen: un progetto ricco di possibilità»), Hotnews, 17/12/2022. 19. O. DESPA, «Cablul electric dintre România și Georgia care ar putea rezolva o parte din problemele energetice ale UE» («Il cavo elettrico tra Romania e Georgia che potrebbe risolvere parte dei problemi energetici dell’Ue»), Europa Liberă, 11/10/2022.
241
ROMANIA, FRONTE DEL PORTO
suasa a sostenere un simile approccio, tenendo presente che ha interesse al buon funzionamento del corridoio Odessa-Istanbul. Nel 2022 l’Italia si è detta disponibile ad aiutare la Romania e a inviare due cacciamine, Turchia permettendo, ma ciò era prima dell’apertura del corridoio Odessa-Istanbul. Una missione umanitaria europea per sminare il Mar Nero e tutelarne la navigazione commerciale dimostrerebbe la volontà politica di sostenere la sicurezza alimentare a livello mondiale, di aiutare l’Ucraina e di garantire la sicurezza di Romania e Bulgaria. Fornirebbe anche una importante base di cooperazione con la Turchia. L’articolo 18, lettera d, della convenzione di Montreux prevede che, con il consenso ddi Ankara, navi militari di Stati non affacciati sul Mar Nero, in missione umanitaria e di stazza massima non superiore a 8 mila tonnellate, attraversino gli Stretti 20. La disposizione aspetta solo di essere applicata.
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20. «1936 Convention Regarding the Regime of the Straits», 20/7/1936.
LA GUERRA CONTINUA
Parte III VIRATE in CORSO nell’ INDO-PACIFICO Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
LA GUERRA CONTINUA
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA di Giorgio CUSCITO Sedate le lotte di potere nel Partito comunista e abolita la tattica zero Covid, la Cina rilancia la Bri per non subire i contraccolpi della guerra ucraina. Il traballante soft power sinico, la trappola del debito e la crisi di Taiwan fiaccano il piano di Xi.
L
1. A REPUBBLICA POPOLARE CINESE STA riconfgurando i propri piani di politica domestica ed estera nel tentativo di volgere a proprio favore il triangolo con Stati Uniti e Federazione Russa. Eppure le crescenti fragilità interne del fu Impero del Centro, quelle di diversi partner della Belt and Road Initiative (Bri o nuove vie della seta), l’effcace contenimento imposto da Washington nell’Indo-Pacifco e il facco soft power di Pechino in Europa riducono le possibilità di successo. Non è certamente lo scenario desiderato dal presidente Xi Jinping, che proprio nei prossimi mesi vorrebbe celebrare il decimo anniversario della Bri 1, lanciata nel 2013 per forgiare un ordine internazionale alternativo a quello guidato dagli Stati Uniti. La tattica di Xi per il 2023 è complessa. La priorità è rimettere in moto l’economia cinese potenziando commercio e investimenti. Così da stimolare i connazionali e le aziende private a riacquisire fducia in sé stessi e nel Partito comunista dopo la recente abolizione della politica zero Covid. I lockdown serrati e il monitoraggio costante della popolazione imposti fno a due mesi fa per contenere l’epidemia hanno avuto gravi ripercussioni sulla Repubblica Popolare. Nel 2022 il pil è cresciuto solo del 3%, cioè due punti e mezzo in meno rispetto a quanto preventivato da Pechino. Il tasso di disoccupazione giovanile si è attestato attorno al 20%. Quello di fertilità e il numero di matrimoni sono diminuiti. Inoltre, i casi di depressione sono diventati più frequenti, al punto da destare la preoccupazione del Partito. Infne, la Repubblica Popolare ha registrato il suo primo declino demografco in sessant’anni. Che l’umore della popolazione non fosse dei migliori lo si è compreso già a novembre, quando in diverse città del paese (Pechino, Shanghai, Chongqing e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. «2023 gong jian “yidai yilu”: Shi nian zhengcheng zai chufa» («La costruzione congiunta di “Una cintura, una via”: il viaggio ricomincia dieci anni dopo»), Guanming ribao, 28/1/2023.
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LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA
Wuhan) sono scoppiate manifestazioni di protesta contro la rigida e spesso confusionaria gestione dell’epidemia. Il caso specifco che ha innescato i disordini è stata la morte di una decina di persone a causa di un incendio scoppiato in un palazzo sotto quarantena a Ürümqi, nel turbolento Xinjiang. A Shanghai, alcune persone hanno persino chiesto esplicitamente le dimissioni di Xi, che era stato confermato per la terza volta leader del paese durante il XX Congresso del Partito comunista svoltosi a ottobre. Pechino sostiene che i contagi gravi da Covid-19 abbiano già raggiunto il picco e che a breve il paese uscirà dall’emergenza. Tuttavia non si può escludere che gli imponenti fussi migratori interni alla Repubblica Popolare tipici del capodanno lunare accrescano ulteriormente il numero di decessi. E che quindi gravino sul lacunoso sistema sanitario cinese, alimentando le tensioni tra governo e popolazione nell’anno del coniglio. La combinazione di tali fattori è una potenziale sciagura per il Partito, visto che una popolazione giovane, in salute e fduciosa è cruciale per affrontare le sfde future. A cominciare dal duello con l’America, che potrebbe sfociare nella guerra per Taiwan. Il secondo proposito della Cina per il nuovo anno è rafforzare la propria immagine all’estero. La lista di fattori che l’hanno danneggiata è lunga: l’epidemia di Covid-19, il cui primo focolaio è scoppiato a Wuhan nel 2019; la non brillante competizione militare e tecnologica con Washington; le tensioni con Taipei, più che mai contraria all’unifcazione; la cosiddetta «amicizia senza limiti» instaurata con la Russia poche settimane prima che questa invadesse l’Ucraina; la «trappola del debito» generata dalla Bri; i persistenti episodi di protesta e di violenza verifcatisi in alcuni paesi ospitanti attività economiche cinesi. Ricucire cosmeticamente le relazioni con gli Stati Uniti avrebbe effetti positivi sulla gestione di buona parte di questi dossier. In particolare, Pechino ha bisogno di porre un freno alle effcaci sanzioni americane volte all’esclusione della Repubblica Popolare dalla fliera dei semiconduttori e di continuare a esportare merci in Europa. Il Vecchio Continente resterà la principale meta della Bri. Non solo come fonte di opportunità economiche, ma in quanto porzione decisiva della sfera d’infuenza americana e teatro in cui albergano alcune delle principali potenze al mondo. Il governo cinese tenterà di rilanciare la sintonia con i paesi veterocontinentali, che però sono sempre più guardinghi verso la presenza della Repubblica Popolare in settori cruciali (semiconduttori, 5G, porti) per il rispettivo interesse nazionale e non vedono di buon occhio l’«amicizia» sino-russa. Pechino non è soddisfatta dei rapporti con Mosca. L’attuale fragilità delle rotte terrestri passanti per i territori coinvolti dalla guerra in Ucraina sta spingendo il governo cinese a valorizzare nuovi percorsi. In particolare, quelli che riguardano l’Asia centrale e il Medio Oriente. Cionondimeno, Xi non volterà apertamente le spalle al presidente russo Vladimir Putin, giacché necessita del suo supporto in funzione anti-americana. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
2. Sul piano statistico i risultati della Bri non paiono così negativi. Il progetto coinvolge 150 paesi e 32 organizzazioni internazionali. Nel 2022 il commercio tra questi e la Repubblica Popolare è cresciuto del 20,4% 2 e lungo le rotte ferroviarie dirette verso l’Europa sono stati trasportati 1,6 milioni di teu (unità equivalente a venti piedi, misura standard dei container), circa il 10% in più rispetto al 2021. Eppure non tutti i percorsi hanno avuto la stessa rilevanza. Circa 750 mila teu sono passati per il corridoio Cina-Asia centrale-Asia occidentale. Si tratta di un incremento annuo del 18,5%. Potrebbe essere un indizio del fatto che Pechino stia ridimensionando il ruolo delle altre due rotte terrestri della Bri (il corridoio economico Cina-Mongolia-Russia e il Nuovo ponte terrestre Asia-Europa) reputate geopoliticamente instabili a causa dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. Neanche il corridoio Cina-Pakistan pare affdabile. Lo scorso dicembre nuove proteste anticinesi si sono verifcate presso il porto pakistano di Gwadar, che dovrebbe consentire alla Repubblica Popolare di accedere all’Oceano Indiano evitando lo Stretto di Malacca, collo di bottiglia presidiato dagli Stati Uniti. Negli ultimi due anni, il Pakistan è stato teatro di diversi attentati terroristici contro lavoratori cinesi. Il più emblematico è quello sferrato nell’aprile 2022 all’Istituto Confucio di Karachi. Pechino aveva da poco scelto di puntare sulla città portuale per schivare gli attentati jihadisti in Balucistan 3. Neanche l’idea di allacciare l’Afghanistan al corridoio sino-pakistano sta dando i frutti sperati. Dopo il ritiro dei soldati americani e della Nato dalla «tomba degli imperi» nel 2021, Pechino ha promesso ai taliban investimenti e sostegno sul piano internazionale. In cambio, ha chiesto loro di impedire il ritorno di estremisti di etnia uigura, minoranza musulmana e turcofona che abita nel Xinjiang. Come risultato, a gennaio la Xinjiang Central Asia Petroleum and Gas Company ha ottenuto il permesso di estrarre petrolio nel bacino dell’Amu Darya. Eppure lo scorso dicembre Pechino ha invitato tutti i suoi connazionali ad abbandonare il paese dopo che alcuni militanti dello Stato Islamico hanno condotto un attentato contro l’hotel Longan di Kabul, di proprietà cinese. Segno che non sarà così semplice operare in Afghanistan. La Repubblica Popolare ha intensifcato le attività in Asia centrale a inizio 2022, quando Xi ha presieduto un incontro in teleconferenza con i leader di Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan e Turkmenistan (i cosiddetti C5) per festeggiare i trent’anni di relazioni diplomatiche tra Pechino e le repubbliche centrasiatiche. In quell’occasione il leader cinese ha annunciato di voler accrescere lo scambio commerciale con i C5 da 50 a 70 miliardi di dollari entro il 2030 e fornire loro aiuti del valore di 500 milioni per l’attuazione di programmi di sostentamento. Poi lo scorso settembre Xi si è recato a Samarcanda. Erano due anni e mezzo che non lasciava la Cina, complice l’epidemia di Covid e le lotte di potere nel Partito. Nella capitale uzbeka il suo scopo non era solo mostrare a Putin il disappunto Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. Y. ZHANG, «BRI, other China-led visions high on 2023 agenda», China Daily, 26/12/2023. 3. Cfr. G. CUSCITO, «Soft power e nuove vie della seta: i bersagli cinesi dell’attentato in Pakistan», limesonline.com, 29/4/2022.
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248 Aree delle esercitazioni condotte dalla Cina 1995-1996 2022
Limite della piattaforma continentale rivendicato dalla Cina Confni marittimi tra la Cina e gli arcipelaghi taiwanesi
Mar Cinese Orientale
S
E
I
Isole Senkaku (GIAPPONE, rivend. da Cina e Taiwan)
C I N A F U J I A N
St
re
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GUANGDONG
Isole Pescadores (TAIWAN)
Infrastrutture a Taiwan Basi aeree/aeroporti Basi navali/porti Fonte: chinapower.csis.org
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Yonaguni (GIAPPONE)
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g i a p p o n e s e
O C E A N O P A C I F I C O
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Taiwan e suoi arcipelaghi Rivendicazioni di Taiwan Acque territoriali Confni marittimi
T A I WA N
di
Ta
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N E
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Mar Cinese Meridionale
Canale di Bashi Z e e
Isole Batan (FILIPPINE)
f i l i p p i n a
Lancio di missili balistici da parte dell’Esercito popolare di liberazione il 4 agosto 2022 I punti di lancio, i percorsi di volo e i punti di atterraggio sono approssimativi
LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA
LA QUARTA CRISI DELLO STRETTO
1 - LA MARINA CINESE NELL’INDO-PACIFICO Anti-Access/Area Denial (A2/AD) Strategia cinese di interdizione dello spazio Prima catena di isole (comprende i bacini contesi dell’Asia orientale, funzionali per Pechino a difendere la Cina continentale e bloccare la proiezione di potenza aeronavale Usa)
Isole Paracel Contese tra Cina, Taiwan e Vietnam
GIAPPONE COREA DEL NORD COREA DEL SUD
MONGOLIA
Seconda catena di isole (racchiude gli spazi marittimi dell’Oceano Pacifco ove la Cina punta a estendere la propria infuenza con la creazione di una Marina d’alto mare)
Pechino
Tōkyō
Possibili basi militari cinesi Basi navali principali
Flotta del Teatro settentrionale Qingdao
Gittata massima dei missili cinesi anti-nave basati a terra
Flotta del Teatro orientale
Shanghai Ningbo
C I N A
Limite aree di competenza delle fotte cinesi
Isole Spratly Contese tra Cina, Filippine, Brunei, Malaysia, Taiwan e Vietnam
Stretto di Miyako
PAKISTAN TAIWAN NEPAL
Guangzhou
BHUTAN
OCEANO PACIFICO
Zhanjiang Hong Kong
BANGLADESH MYANMAR
INDIA
Stretto di Luzon
Guam (Usa)
LAOS
Yulin Nuova base Flotta per sottomarini del Teatro nucleari meridionale THAILANDIA VIETNAM CAMBOGIA
FILIPPINE
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
PAPUA NUOVA GUINEA
ia igl
SRI LANKA
m 00
1.3
OCEANO INDIANO MALDIVE
MALAYSIA SINGAPORE
I N
D O
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AUSTRALIA
2 - DI CHI È TAIWAN? Z H E J I A N G Nanchang
Amami Tokuno
Mar Cinese Orientale
I
Wenzhou
F U J I A N
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155 km
108 km
S A
Yaeyame
Yonaguni (GIAPPONE)
re
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Taichung
Kaohsiung
Hong Kong m 6k 15
Limite della piattaforma continentale rivendicato dalla Cina Confni marittimi
E
FIL
IP
PI
N
Isole Batan (FILIPPINE)
Canale di Balintang Babuyan Calayan Dalupiri Fuga Camiguin
Laoag Acque contese tra Giappone e Cina
I A
P
P
O Taipei City
TAIWAN
Lienchiang
Isola di Luzon Tuguegarao FILIPPINE
Keelung City
Taoyuan
Hsinchu New Taipei City Yilan Miaoli Taichung City Changhua
Nantou
Yunlin
Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Mar Cinese Meridionale
L
Penghu
Canale di Bashi
Isole Pratas (TAIWAN, rivendicate dalla Cina)
G
O
Quemoy
Kowloon
Arcipelago della Repubblica di Cina (TAIWAN) TAIWAN ISOLE MATSU QUEMOY PESCADORES LANYU
I
S
E
REP. DI CINA (TAIWAN)
Tainan
St
Macao
N Miyako
iw
Xiamen G U A N G D O N G Chaozhou Guangzhou
143 km Hsinchu Taipei
O C E A N O P A C I F I C O
E
Fuzhou
N
Isole Senkaku (GIAPPONE, rivend. da Cina e Taiwan)
N
C I N A
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Okinawa
J I A N G X I
Chiayi City
1
Hualien
Chiayi Tainan City Kaohsiung City Taitung Pingtung Taitung
LE CONTEE DELLA REP. DI CINA (TAIWAN)
Le montagne di Taiwan 3.997 2.500 1.800 1.200 500 0 metri Fonte: Archivio statistico della Repubblica di Cina (2022) e Military Balance (2022)
3 - NUCLEI GEOPOLITICI A FORMOSA Composizione etnica di Taiwan Fonte: www.taiwan.gov.tw 2,5% Aborigeni 1% Cinesi continentali austronesiani Macao, Hong Kong e stranieri
Isole Ryūkyū (Giappone)
Han (inclusi hoklo, hakka e altri cinesi provenienti dalla terraferma)
TA I WA N Taipei
M a r C i n e s e O r i e n t a l e
Taoyuan Hsinchu
S Matsu (Taiwan)
Wenzhou
Yu Shan 3.997 m Sede di Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc)
t
r
Pia
e
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Isole Batan (Filippine)
Kaohsiung Maggior porto per trafco container
T
a
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Fuzhou Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
Nanping
di Ch Tainan ianan
i
Z H E J I A N G
F U J I A N
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C I N A
Lanyu (Taiwan)
Canale di Bashi
96,5%
Popolazione totale del paese: 23.264.640 (2022) Personale militare: 1.826.000 (di cui 169.000 soldati in attività e 1.657.000 in riserva)
a n Isole Pescadores (Taiwan)
M a r C i n e s e M e r i d i o n a l e
Quemoy (Taiwan)
Confni marittimi Nuclei geopolitici di Taiwan
Xiamen Nuova Taipei
Potenziali punti di sbarco di un eventuale attacco della Rep. Pop. Cinese
4 - USA CONTRO CINA PRESENZA MILITARE USA NEL PACIFICO Prima catena di isole Hawaii (Spazio dove la Cina intende bloccare la proiezione di potenza statunitense Giappone acquisendo adeguate capacità militari) Corea del Sud Seconda catena di isole Guam (Strategia cinese, molto ambiziosa, Singapore di creare una Blue Water Navy per estendere la propria infuenza Thailandia nell’Oceano Pacifco) Australia Gittata massima dei missili cinesi antinave basati a terra
Filippine Hong Kong Malaysia Indonesia India Taiwan NEPA L
PAKISTAN
PERSONALE MILITARE 41.008 55.666 25.726 6.290 203 106 792 + 2.200 marines a rotazione nella base di Darwin 187 + truppe a rotazione 13 18 31 47 30
Fonte: dipartimento della Difesa Usa (marzo 2022)
Anti-Access/Area Denial (A2/Ad) Strategia cinese di interdizione dello spazio
Pechino Kunsan Jinae-gu Shanghai C I N A
Principali basi dell’Esercito Usa
Isole Senkaku Giappone Okinawa (rivendicate da Cina e Taiwan) Isole Ryūkyū Giappone
TAIWAN Guangzhou
Basa Fort Magsaysay Subic
LAOS
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CAMBOGIA U-Tapao
FILIPPINE Mactan Benito Ebuen Lumbia
Isole Spratly Cina, Filippine, Malaysia, Taiwan, Vietnam
THAILANDIA
VIETNAM
Isole contese
Guam (Usa)
Base con libero accesso per gli Usa
Isole Paracelso Cina (rivendicate da Taiwan e Vietnam)
1.3 00 m iglia
MYANMAR
Principali basi aeree Usa Principali basi navali Usa
Sasebo
Hong Kong INDIA
Misawa GIAPPONE Yakota Tōkyō Yokosuka sede della 7° fotta Usa Iwakuni
COREA DEL NORD COREA DEL SUD Osan
A. Bautista
BRUNEI
Paese ambiguo
MALAYSIA Singapore
Paesi pro-Cina
Darwin
Paesi parte del contenimento anticinese Paesi equidistanti
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Fonte: Defense Manpower Data Center, U.S. Department of Defense
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AUSTRALIA
LA GUERRA CONTINUA
per il protrarsi della guerra alle porte dell’Europa. La trasferta serviva anche a gettare le basi per nuovi accordi con i C5. Peraltro, proprio durante quel viaggio il leader cinese ha espresso esplicito sostegno alla sovranità e all’indipendenza del Kazakistan, evidentemente in funzione antirussa. Poi a gennaio la Repubblica Popolare e il Turkmenistan hanno elevato i loro rapporti al livello di «partnership strategica complessiva», frmato accordi di cooperazione nell’ambito delle nuove vie della seta e parlato espressamente del progetto ferroviario che dovrebbe riguardare i due paesi, il Kirghizistan e il Turkmenistan. L’aumento della presenza cinese nei C5 può avere delle controindicazioni. Innanzitutto rappresenta un elemento di frizione con Mosca, per nulla interessata a rinunciare alla propria infuenza in Asia centrale. Inoltre, può spingere la Cina ad accrescere la collaborazione con la Turchia, le cui ambizioni panturaniche riguardano anche questa parte di mondo. Pechino e Ankara fanno affari da tempo ma non hanno rapporti idilliaci. Il governo guidato dal presidente Recep Tayyip Erdoãan si oppone a fasi alterne alla repressione degli uiguri (musulmani e turcofoni) nel Xinjiang. Mentre quello cinese non gradisce l’intraprendenza turca e russa in Libia, dove le aziende della Repubblica Popolare stentano a tornare dopo l’evacuazione del 2011. 3. A ogni modo, per Pechino le rotte marittime contano sempre di più di quelle terrestri. Non potrebbe essere altrimenti, visto che oltre l’80% del commercio mondiale avviene su acqua. Soprattutto, la Repubblica Popolare sa che per competere sul piano geostrategico con gli Usa ha bisogno di allontanare la linea di difesa dalla costa, di trasformare il Mar Cinese Meridionale nel proprio cortile di casa e di accedere al Pacifco libera dal costante pattugliamento americano. L’anello di congiunzione tra questi tre elementi è Taiwan, considerata il punto di accesso geografcamente e storicamente migliore all’oceano lungo la prima catena di isole che si staglia dal Giappone all’Indonesia. Taipei non intende accettare l’unifcazione pacifca con la Repubblica Popolare. Anzi, con il supporto americano si sta attrezzando per respingere un’eventuale offensiva dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Il quale nel frattempo continua a condurre esercitazioni sempre più vicino alle coste taiwanesi sulla falsariga di quelle attuate lo scorso agosto, dopo la visita a Formosa della speaker della Camera statunitense Nancy Pelosi. Qualcosa bolle in pentola sul fronte propagandistico cinese. Secondo il quotidiano nipponico Nikkei, Wang Huning, ideologo del Partito comunista, potrebbe essere incaricato di sviluppare un nuovo tipo di rapporto tra Pechino e Taipei. Il piano sarebbe logico, visto che i taiwanesi hanno rifutato l’unifcazione a cavallo dello Stretto tramite la formula «un paese, due sistemi», che ormai garantisce solo formalmente autonomia a Hong Kong e Macao 4. Se confermato, il ruolo di Wang Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
4. K. NAKAZAWA, «Analysis: Xi puts top brain in charge of Taiwan unifcation strategy», nikkei.com, 26/1/2023.
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LA GUERRA GRANDE COLPISCE LE NUOVE VIE DELLA SETA
potrebbe diventare cruciale con l’avvicinarsi della sfda tra Partito progressista democratico (Ppd, contrario all’unifcazione) e Kuomintang (Kmt, più flo-Pechino) alle presidenziali del 2024. Tuttavia, la vittoria del Kmt alle elezioni locali di novembre non è automatico preludio al trionfo su scala nazionale. Diversamente da quanto accaduto recentemente alle urne, la posta in gioco non sarà la gestione politica del territorio ma l’indipendenza de facto di Taiwan, argomento capace di catalizzare la coesione di tutta la popolazione. Pechino continuerà a esibire i muscoli per mostrare che è pronta a tutto per ottenere l’unifcazione. In più, fnanzierà progetti infrastrutturali (civili e militari) in paesi bagnati dal Mar Cinese Meridionale e dal Pacifco. Basti pensare alla ristrutturazione in corso della base militare di Ream in Cambogia, la quale un tempo ospitava soldati americani e presto potrebbe fare lo stesso con quelli dell’Epl. Oppure all’accordo di sicurezza siglato con le Isole Salomone, che pure potrebbero diventare sede di un avamposto militare della Repubblica Popolare. Il proposito di Pechino è guadagnare partner nelle acque rivierasche, accerchiare Taiwan e controbilanciare la presenza di Washington in Oceania. Al momento questa parte di mondo resta nella quasi totale disponibilità statunitense. Lo scorso maggio nove paesi insulari del Pacifco (Papua Nuova Guinea, Figi, Micronesia, Vanuatu, Niue, Samoa, Kiribati, Tonga e le stesse Isole Salomone) hanno rifutato di stipulare un’intesa economica e militare multilaterale con Pechino. Segno che pur incassando il denaro cinese non vogliono rinunciare all’ombrello securitario dell’America, dell’Australia e agli investimenti del Giappone. Intendono infatti preservare i rapporti con i tre attori che insieme all’India costituiscono il dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), il cui scopo è arginare la Repubblica Popolare nell’Indo-Pacifco in sinergia con la Nato. È in tale ambito che la scorsa estate Washington e T§ky§ hanno organizzato con i paesi della regione rispettivamente l’incontro dei Partner del Pacifco blu (Partners in the Blue Pacifc, Pbp) e il Simposio dei leader anfbi del Pacifco. Il fatto che al secondo evento Taiwan partecipasse in qualità di osservatore è diretta conseguenza dell’importanza geostrategica attribuita all’isola da parte del paese del Sol Levante. Per inciso, il riarmo nipponico prosegue lento ma incessante. Lo scorso dicembre T§ky§ ha aggiornato la sua strategia di sicurezza nazionale per dotarsi della capacità di «contrattacco» e potenziare le operazioni spaziali e cibernetiche. Il Giappone non è ancora sul punto di riformare la costituzione pacifsta ma, complice lo scoppio della guerra in Ucraina, ha compreso che non può più puntare solo sul sostegno degli Stati Uniti per gestire l’ascesa militare cinese, la minaccia missilistica della Corea del Nord e le insolute tensioni con la Russia attorno alle isole Curili. Tale dinamica induce la Repubblica Popolare a rivitalizzare il rapporto con le Filippine, il cui arcipelago si sviluppa a sud di Taiwan. A gennaio Pechino e Manila hanno frmato un accordo per allentare le tensioni legate alle dispute marittime e accrescere la cooperazione economica. In ballo ci sono investimenti cinesi pari a 23 miliardi di dollari. Ciò non stravolge lo stato delle relazioni bilaterali. Le attività militari dell’Epl attorno agli atolli contesi con le Filippine nell’arcipelago delle Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Spratly e quelli nello Stretto di Luzon rappresentano una minaccia alla sicurezza di Manila. Il governo guidato dal neopresidente Ferdinand Romualdez Marcos jr. non si fda di Pechino e non rinuncerà alla protezione degli Stati Uniti ora che questi promettono nuove strutture militari e investimenti nella rete 5G locale. La presenza cinese resta consistente pure in Indonesia ed è fnalizzata all’individuazione di rotte marittime alternative a quella pakistana. In base a un accordo bilaterale siglato a dicembre, China Harbour Engineering Company amplierà il porto di Dumai. Lo scalo marittimo è ubicato sull’isola di Sumatra, si affaccia sullo Stretto di Malacca e ospita la Marina indonesiana. Giacarta considera gli investimenti cinesi utili a migliorare i collegamenti infrastrutturali tra le 17 mila isole sotto la sua sovranità e quindi ad assicurare l’unità del paese. Cionondimeno, gli indonesiani non accolgono sempre positivamente la presenza della Repubblica Popolare. Basti pensare alle furiose proteste di cui sono stati protagonisti alcuni operai impegnati in attività estrattive sull’isola di Sulawesi per conto di Jiangsu Delong Nickel Industry. Queste vicende, al pari degli attentati, possono dissuadere gli stessi cinesi dall’operare in contesti pericolosi. 4. A ovest di Malacca i piani della Cina sono altrettanto complessi. La crisi economica e politica scoppiata nel 2022 nello Sri Lanka ha posto l’accento sugli effetti negativi che le nuove vie della seta possono avere sui paesi meno abbienti. Sia chiaro, le diffcoltà singalesi non sono state determinate solo dall’accumulo di debito verso la Repubblica Popolare, visto che tra i creditori coinvolti vi sono anche Giappone e India. Sul declino dello Sri Lanka hanno pesato anche le scelte economiche errate del governo di Colombo, guidato fno a pochi mesi fa dalla famiglia Rajapaksa. Pechino ha proposto al nuovo esecutivo singalese una moratoria di due anni per la restituzione del debito e promesso che lo appoggerà affnché ottenga un prestito di 2,9 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale. Lo Sri Lanka è posta in gioco nel duello in corso tra Cina e India per mare e per terra, come provano anche gli ennesimi scontri tra rispettive Forze armate sulla catena himalayana avvenuti a metà dicembre. La vicenda singalese ha avuto ripercussioni sulle nuove vie della seta in Africa, dove si registra con maggiore frequenza la perplessità dei governi locali ad accettare investimenti particolarmente onerosi o poco trasparenti da parte di Pechino. È il caso dell’Uganda, che ha recentemente cancellato un accordo da oltre due miliardi di dollari per la costruzione del tratto ferroviario tra la capitale Kampala e la città keniana di Maleba. Gibuti, pur essendo particolarmente indebitata, si conferma perno del piano cinese in Africa. Non è più «solo» sede dell’unica base navale uffciale dell’Epl all’estero e fulcro dei percorsi infrastrutturali (ferrovie, strade, cavi in fbra ottica) transcontinentali, diretti verso l’Europa via Mediterraneo. A gennaio il piccolo paese collocato sul Corno d’Africa ha persino siglato un’intesa per la costruzione di uno spazioporto da parte di Hong Kong Aerospace Technology (Hkatg). Il progetto Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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(del valore di un miliardo di dollari) include la costruzione di sette rampe di lancio per satelliti e tre per test missilistici. Se, come previsto, l’accordo verrà formalizzato a marzo, Hktag otterrà la gestione della struttura per 35 anni 5. La vicenda collima con i piani della Repubblica Popolare per diventare contemporaneamente potenza marittima e spaziale. L’espansione di questo genere di operazioni da parte della Cina in Africa non è di facile riuscita. Soprattutto ora che diversi paesi (vedi Etiopia e Nigeria) sono meno propensi ad accogliere investimenti della Repubblica Popolare in settori ad alto contenuto tecnologico. Senza contare che nel 2021 gli Stati Uniti sono intervenuti direttamente per sconsigliare la Guinea Equatoriale dall’accogliere una base militare cinese. L’opposizione americana dipende dalla necessità di prevenire il moltiplicarsi di strutture dell’Epl sulla sponda africana rivolta sull’Atlantico, in prossimità dell’Europa. La presenza della Repubblica Popolare nel Vecchio Continente è sempre più ingombrante. Al netto dell’immutata sintonia con l’Ungheria, la piattaforma di cooperazione tra Pechino e i 17 paesi dell’Europa centrale e orientale (ribattezzata 17+1) ha perso sostanza. In particolare dopo che Lituania, Estonia e Lettonia hanno abbandonato l’iniziativa. I tre paesi baltici ritengono gli investimenti cinesi meno attraenti del passato e temono la penetrazione della Repubblica Popolare via Artico di concerto con la Russia. Vilnius ha persino accolto un uffcio di rappresentanza taiwanese sul suolo nazionale e stretto i rapporti con Taiwan Semiconductor Company (Tsmc) per potenziare le attività lituane nel campo dei microprocessori. Il dossier tecnologia è dirimente pure in altri paesi. Washington sta pressando l’Olanda affnché restringa l’accesso della Repubblica Popolare ai prodotti del colosso Asml. La Germania ha bloccato due tentativi di acquisizione di aziende tedesche di semiconduttori da parte cinese e si vocifera che possa ospitare un impianto di Tsmc. Ciò non signifca che Berlino smetterà di fare affari con Pechino. Il recente incontro tra Xi e il cancelliere Olaf Scholz ha confermato la sintonia sino-tedesca sul piano commerciale, in primis nel settore automobilistico. Infne, il rapporto tra Italia e Repubblica Popolare si è decisamente raffreddato. L’adesione di Roma alle nuove vie della seta nel 2019 non ha prodotto consistenti risultati economici. Semmai ha accresciuto la tensione con Washington, risentita per l’appoggio di un alleato al progetto geopolitico del governo rivale. Nel giro di tre anni l’Italia ha corretto la rotta usando a piene mani il golden power contro investimenti cinesi in ambiti quali microchip, 5G, droni, robotica e agroalimentare. Ora Roma è al lavoro per mettere a frutto i quattro miliardi di euro stanziati per il potenziamento dell’industria nazionale dei semiconduttori in collaborazione con attori stranieri, come l’americana Intel. In questo contesto, i fari puntati sulle cosiddette «stazioni cinesi d’Oltremare» dislocate nel nostro e in altri cinquanta paesi non giovano certamente al soft power pechinese. Di fatto gli apparati di sicurezza di Pechino usano queste strutture (undiCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. «Space in Africa: Djiboutian Government signs MoU with HKATG to Build a USD 1 billion Spaceport in Djibouti», hkatag.com, 10/1/2023.
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ci in Italia) per monitorare e in caso rimpatriare membri della diaspora cinese. Attività che sottintendono una raccolta informativa su vasta scala nei paesi ospitanti. 5. Nei prossimi mesi la Cina intensifcherà gli sforzi all’estero per convincere i governi stranieri che non è sua intenzione giungere allo scontro con gli Stati Uniti e che le nuove vie della seta possono produrre ancora effetti benefci. I tentativi di dialogo con Washington e le potenze europee non determineranno la fne della collaborazione sino-russa. Semmai Pechino continuerà a stringere i rapporti energetici e militari con Mosca per imporsi come partner di maggioranza. Allo stesso tempo potrebbe incoraggiare il Cremlino a giungere quantomeno a un cessate-il-fuoco con l’Ucraina, attore su cui la Repubblica Popolare in passato puntava come fonte di armi e beni agricoli. Inoltre, Xi ha promesso di voler dare sostanza a due progetti per ora fumosi: l’Iniziativa di sicurezza globale e quella di sviluppo globale. La prima pare di particolare rilevanza. Alla sua base vi è il concetto di sicurezza «indivisibile» (usato anche dalla Russia), secondo cui nessun paese può rafforzare la propria a danno di quella altrui. Apparentemente la Repubblica Popolare vuole creare insieme a Mosca un nuovo consesso fnalizzato alla legittimazione dei propri obiettivi geopolitici. A cominciare dall’unifcazione con Taiwan. Il successo dei piani di Pechino non è scontato, anche perché nel 2023 potrebbero assumere forme più defnite la Partnership for Global Infrastructure and Investment (Pgii) e la Global Gateway. Cioè i piani infrastrutturali abbozzati rispettivamente da Stati Uniti e Unione Europea per strappare partner alle nuove vie della seta e ridimensionare l’affato globale di Pechino. Il loro successo dipenderà dalla quantità di denaro messa effettivamente sul piatto e dai requisiti economici e politici richiesti ai potenziali partecipanti. Per l’ennesima volta, lo stato dell’arte assegna all’Italia un ruolo di rilievo. Il memorandum di adesione dell’Italia alla Bri sarà effcace fno al 2024. Dopo di ciò si rinnoverà automaticamente, salvo un esplicito cambio di posizione da parte di Roma. Il tessuto imprenditoriale nostrano preserva ancora un forte interesse per il mercato della Repubblica Popolare e il monitoraggio delle attività cinesi nelle infrastrutture critiche della penisola ha ridotto signifcativamente i rischi per il nostro interesse nazionale - e americano. Tuttavia, la fne della partecipazione italiana alle nuove vie della seta non è impossibile. Lo scorso settembre (poco prima di essere eletta) proprio l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva detto che avrebbe voluto abbandonare il progetto cinese 6. Se così fosse, l’Italia arrecherebbe un signifcativo danno al soft power di Pechino in uno dei momenti più delicati della presidenza di Xi. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. «Meloni says would pull out of China’s Belt & Road scheme», ansa.it, 23/9/2023.
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‘Ombre cinesi’ Conversazione con Bernardino REGAZZONI, già ambasciatore di Svizzera presso la Repubblica Popolare Cinese, a cura di Lucio CARACCIOLO e Giorgio CUSCITO
Come è stata la sua esperienza da ambasciatore nella Repubblica Popolare Cinese? REGAZZONI Quando sono arrivato all’inizio del 2019 il momento era febbrile. La Cina era considerata una sorta di Eldorado, un paese delle meraviglie dove tutto sembrava perfetto. Effettivamente per certi versi la Repubblica Popolare lascia senza fato, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale. Basti pensare ai grattacieli di Shanghai o ai treni ad alta velocità. Lo sviluppo avvenuto dai tempi di Deng Xiaoping fno all’epidemia di Covid-19 è evidente a tutti. In quanto diplomatico accoglievo una delegazione dopo l’altra. Lo scenario è cambiato con lo scoppio dell’epidemia. Il numero di vittime è stato contenuto attraverso durissimi lockdown, ma la variante omicron ha fatto saltare il banco. Pechino ha adottato la politica «zero Covid», in vigore fno a pochi mesi fa. Ritengo che tale approccio sia stato mantenuto così a lungo innanzitutto per motivi politici e ideologici. Sono stato esposto quotidianamente a una propaganda martellante, che sottolineava la superiorità del sistema cinese (comunista) su quello occidentale. Pechino affermava di potersi prendere cura di tutti e accusava gli occidentali di lasciar morire le persone per strada. Quando nel 2021 sono tornato in Europa dopo diciannove mesi di isolamento in Cina, temevo veramente di trovare una situazione del genere! Sono ironico fno a un certo punto. La propaganda era così intensa che per il cittadino medio cinese era facile crederci. Ciononostante, soprattutto nel 2020, ho svolto diversi viaggi all’interno della Repubblica Popolare. Ho visitato in totale ventuno province su trentuno, Tibet incluso. Poi la diffusione di omicron ha complicato tutto. È diventato diffcile spostarsi. La vita era scandita dai codici Qr, i quali registravano gli esiti dei tamponi (fatti ogni quarantotto ore), tenevano traccia dei contatti positivi e dovevano essere scannerizzati per entrare in ogni edifcio pubblico. Inoltre, l’economia procedeva a rilento. Questi LIMES
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problemi hanno raggiunto il culmine nella primavera 2022. Non ho vissuto in prima persona il lockdown di Shanghai – era impossibile andarci – ma so che il console generale svizzero assegnato alla città ha vissuto momenti davvero diffcili. LIMES Perché le misure non sono state allentate prima? REGAZZONI Pechino voleva mostrare la superiorità del proprio sistema. Da questo punto di vista, l’apertura attuale è sconcertante, anche perché è avvenuta improvvisamente. Il 16 ottobre, durante il XX Congresso nazionale del Partito comunista cinese (Pcc) – il presidente Xi Jinping rivendicava la superiorità della politica «zero Covid». L’improvviso cambio di atteggiamento è diffcile da spiegare e da giustifcare. Certo ci sono state delle proteste estese, ma non credo siano state decisive. Il fattore economico ha pesato maggiormente. Nel 2021 il tasso di crescita del pil cinese è stato dell’8%. L’anno dopo è stato pari solo al 3%, due punti e mezzo in meno rispetto a quanto previsto da Pechino. Non si può escludere un terzo possibile motivo dietro al cambio di rotta: il governo potrebbe essersi reso conto che il suo sistema non è poi così perfetto. LIMES Che percezione ha avuto del cinese medio? REGAZZONI Come dice il mio amico Marco Müller (produttore e critico cinematografco, n.d.r.), i cinesi sono i «mediterranei dell’Asia»: sono molto simpatici, fanno rumore, amano contrattare e – nonostante la barriera linguistica – è facile instaurare una comunicazione con loro. Sono persone pratiche, quindi non fatico a credere che il progresso garantito dal Pcc negli ultimi quarant’anni gli sia parso in fn dei conti un buon affare. Stanno molto meglio di prima, e quindi sopportano. Però ci sono due problemi fondamentali. Il primo è il rallentamento della crescita economica, che rende diffcile investire in occupazione giovanile. Nel marzo 2022 il Partito ha ammesso che è prioritario superare questa diffcoltà. Del resto, secondo dati uffciali la disoccupazione tra le nuove generazioni ha raggiunto il 20%. Una forte pressione grava sui «fgli unici», su cui si concentrano l’attenzione e le speranze delle famiglie. Questo fattore rischia di far scricchiolare il sistema su cui la Cina si regge da quarant’anni. Il secondo problema è che l’ideologia di Xi pervade la quotidianità del paese. Il patto sociale su cui si fonda la stabilità non si impernia solo sul benessere registrato da Deng in poi, ma anche sulla garanzia di una relativa libertà, economica e ideologica, concessa a chi non si occupa di politica. Con Xi, questo principio sta venendo meno. Vale un esempio apparentemente banale: nelle sale da concerto, la musica classica è ormai defnita semplicemente «occidentale» e le esibizioni sono spesso seguite dall’esecuzione di melodie cinesi. Insomma, il Partito entra dappertutto. E non sempre viene accolto positivamente. LIMES Quanto hanno infuito le lotte interne al Pcc sullo stravolgimento della gestione del virus? Il fatto che Xi si sia assicurato il terzo mandato ha permesso di andare oltre la tattica «zero Covid»? REGAZZONI Col senno di poi è facile dirlo, perché effettivamente i due eventi sono avvenuti a distanza di poche settimane. Personalmente, non conosco alcun sinologo che abbia una fonte di prima mano sulle lotte interne al Pcc. Alcuni giornalisti Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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che in passato si occupavano di Unione Sovietica mi hanno detto che bene o male nel Partito comunista dell’Urss si riusciva a trovare qualche fonte che aiutasse a ricostruire le discussioni in seno al Comitato centrale. In Cina, fno a una decina di anni fa, si sapeva che certi giornali erano più vicini a specifche correnti del Pcc. Oggi invece i quotidiani ripetono tutti esattamente le stesse cose. Non sono giornali in senso stretto, ma organi di propaganda. Inoltre, è impossibile avere contatti diretti con qualcuno ai vertici: si può al massimo inferire, cercare di collegare gli elementi. L’uscita di scena dell’ex presidente Hu Jintao durante il XX Congresso del Partito è stata simbolica. Ne sapremo le reali ragioni tra qualche anno o decennio, oggi possiamo solo fare ipotesi. Insieme a Hu sono stati fatti fuori gli ultimi rimasugli della Lega della gioventù comunista (Lgc), ma probabilmente quest’ultima era fnita già prima del XX Congresso. È indubbio che all’interno del Partito ci sia un’ala mercantilistica e meno ideologica, però è ridotta ai minimi termini. Per capirlo basta leggere le biografe dei politici che siedono con Xi nel nuovo comitato permanente del Politburo: tutti hanno fatto carriera con lui nel Fujian o nello Zhejiang. Sono suoi fedelissimi. Insomma, ai vertici del Pcc non c’è più alcun tipo di dibattito, c’è omogeneità totale. Almeno così pare. Alcuni sostengono che l’allentamento delle misure anti-Covid fosse già nel cassetto da un po’ di tempo e che sarebbe stato implementato a partire da marzo. Forse l’esito del Congresso ha spinto Xi ad anticipare queste misure, ma non ritengo ci sia stato un dibattito interno. Nei tre anni e mezzo che ho passato in Cina non ho visto nulla che potesse assomigliare a qualcosa del genere. Al contrario, ho assistito a un controllo sempre più forte da parte della leadership. Avere a che fare con il linguaggio dei funzionari del ministero degli Esteri cinese è stata una delle esperienze più frustranti della mia carriera: sapevo in anticipo le parole che mi avrebbero detto. LIMES Quindi è fnito il periodo in cui, in alcune occasioni come le cene, i funzionari potevano aprirsi di più? REGAZZONI Penso che quella fase sia fnita. Bisogna poi considerare che, in qualità di ambasciatore, incontravo al massimo i viceministri. Poi, lavorando sodo, un paio di volte l’anno si poteva interloquire con funzionari di livello superiore, con i quali il dialogo può talvolta essere più aperto. I funzionari che si incontrano abitualmente pensano in primo luogo a non compromettersi. Nessuno è mai stato nemmeno ironico. Tuttavia un dialogo fnisce per instaurarsi, per quanto formale. LIMES In quanto svizzero, lei come era visto? REGAZZONI È diffcile dirlo. Le relazioni sono buone. Per il resto, la cultura cinese è indiretta, raramente si dicono le cose schiettamente. Anche in Sri Lanka all’inizio pregavo i miei collaboratori locali di dirmi apertamente di no, senza girarci troppo attorno. La loro risposta era: «Yes, sir». Fa parte della cultura asiatica, lo comprendo. Però ho rilevato che le persone esposte all’Occidente si aprono di più, sono più dirette. È anche capitato che qualcuno mi dicesse: «Non ce la facciamo più». Non in maniera drammatica, sempre con il sorriso. Spesso poi si scopre che queste persone hanno anche il passaporto di un altro paese. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LIMES Le è REGAZZONI
mai capitato di imbattersi in qualche manifestazione di dissenso? Non personalmente. Bisogna sottolineare che quando si verifcano esse sono legate a questioni strettamente pratiche. Anche a Shanghai lo scorso aprile la gente non protestava contro la privazione della libertà, ma perché il lockdown era organizzato male. La parola più utilizzata è stata «incompetenza». Questo genere di manifestazioni non mette in discussione il sistema nella sua totalità. LIMES Le periferie cinesi sono molto diverse da Pechino? REGAZZONI Dal punto di vista economico, gli enti territoriali sono piuttosto autonomi. Ad esempio, gestiscono interamente il mercato immobiliare e affttano ai privati ampie porzioni di terra a fni edilizi. Questa è la loro fonte primaria di introiti e l’immobiliare costituisce il 28% del pil cinese. Esistono zone economiche speciali a regime economico agevolato. Tuttavia, nel complesso il segretario locale del Partito non può prendere decisioni importanti indipendentemente dal governo centrale. La leadership ha imposto alle periferie uniformità di comportamento. Forse fno al lockdown la municipalità di Shanghai aveva dei margini di autonomia in virtù della sua peculiare mentalità mercantilistica. La differenza tra l’atmosfera pratica ed economicista di questa megalopoli e quella più governativa di Pechino è tangibile. Tuttavia, ora anche Shanghai sembra esser stata «normalizzata». LIMES Che differenze ci sono tra gli abitanti delle grandi metropoli e quelli delle campagne? REGAZZONI In primo luogo, vi è un aspetto materiale. Salta subito all’occhio che ci sono dei livelli di sviluppo molto diversi nell’entroterra cinese. Nelle campagne la popolazione è molto «rurale». Non si può defnirli «poveri» dato che secondo il Pcc la povertà assoluta è stata uffcialmente eliminata. All’ambasciata abbiamo prodotto un interessante studio su tale argomento 1. A ogni modo, ho sempre viaggiato con una guida e non mi è mai capitato di assistere a situazioni di povertà estrema. LIMES Il Partito è riuscito a infondere un senso d’appartenenza anche nelle periferie? REGAZZONI Il Pcc è onnipresente. In qualsiasi organizzazione o posto di lavoro (credo anche nelle ambasciate) c’è obbligatoriamente un suo nucleo. Ciò permette al Partito di esercitare un controllo capillare sulla società. I suoi membri sono circa 97 milioni su 1,4 miliardi di abitanti. È senza dubbio un’élite, nella quale si entra per cooptazione. Esiste una zona grigia in virtù della quale chi non si occupa di politica può bene o male perseguire i suoi interessi, ma non si riscontra uno scollamento tra popolo e Partito. Anche perché – e questo vale persino per gli ambasciatori – se si vuole sollecitare una decisione di qualsiasi genere ci si deve rivolgere (soprattutto nelle province) al segretario locale del Partito o al sindaco, che spesso è il suo vice. Quindi è nell’interesse di tutti, diplomatici compresi, mantenere un buon rapporto con tali fgure. Funziona così anche nei ministeri. Non a caso, il viceministro più importante è quello che si occupa degli affari del Pcc. All’epoca di Deng, il Partito era sempre il decisore di ultima istanza ma interveniva solo nelCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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1. Lo studio, disponibile sul sito dell’ambasciata svizzera in Cina, a cui fa riferimento l’ambasciatore è B. BIKALES, Refections on Poverty Reduction in China, ambasciata di Svizzera, Pechino 2021.
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le questioni più importanti. Oggi invece il Pcc si è sdoppiato: i suoi funzionari si occupano anche di questioni amministrative. LIMES Che percezione hanno i cinesi degli occidentali e in particolare degli americani? REGAZZONI Senza dubbio provano una qualche forma di ammirazione verso l’Occidente, in particolare per il suo sistema educativo. La fglia di Xi ha studiato a Harvard e pare sia ancora lì. Ciò però vale soprattutto per i cinesi che sono stati esposti alla nostra cultura. Invece è innegabile che la propaganda e il nazionalismo abbiano fatto presa su coloro che sono di estrazione sociale più umile e che hanno subìto meno il soft power dell’Occidente. A ogni modo non si riscontra più quell’ammirazione verso l’America che poteva esserci fno a qualche tempo fa. Anzi, sta crescendo il sentimento nazionalistico. Da ultimo, in particolare le classi dirigenti si considerano ormai superiori all’Occidente. Questa convinzione viene continuamente esposta e rimarcata anche ideologicamente, come nel caso della gestione del Covid-19. Il sistema della Repubblica Popolare è intrinsecamente convinto della propria preminenza. LIMES Ha avvertito un cambio di atteggiamento nei confronti dell’America? REGAZZONI Sono stato tre anni e mezzo in Cina. È un tempo troppo breve per cogliere un cambio di comportamento di lungo periodo. Senza dubbio ho percepito chiaramente il duello sino-statunitense. L’orgoglio nazionalistico, anche grazie alla propaganda, è entrato nei rifessi incondizionati di buona parte della popolazione. Non in maniera aggressiva, perché ciò non fa parte dell’attitudine cinese. Però ho notato degli atteggiamenti particolari nei confronti degli occidentali. Durante la prima ondata dell’epidemia di Covid, i cinesi erano convinti che il virus venisse dall’Ovest e spesso notavo che quando li incrociavo per strada cambiavano marciapiede, convinti che potessi contagiarli. Magari non pensavano nemmeno all’origine del virus, ma – in quanto europeo – speculavano che fossi «indisciplinato» e che quindi li avrei potuti esporre al contagio. Insomma, il clima di competizione con l’Occidente è fortemente presente. Tale atmosfera si respira quotidianamente. Nella mente dei cinesi è chiara l’idea per cui il «grande gioco» è quello tra Washington e Pechino, con Russia e Unione Europea nel ruolo di attori minori. Sino a poco tempo fa l’Occidente ha osservato in maniera abbastanza ingenua la Repubblica Popolare. Prima dell’epidemia, alle nostre latitudini ci si limitava a defnirla «pragmatica» e a sottolineare la funzionalità del suo sistema. Effettivamente il paese aveva già quei problemi che poi sono stati resi più evidenti dalla diffusione del Covid a fne 2019. L’Occidente li ha ignorati, forse per pigrizia intellettuale. LIMES Taiwan è presente nel dibattito pubblico? REGAZZONI Ho letto uno studio fatto a Singapore secondo cui la retorica cinese su Taiwan dai tempi di Jiang Zemin a oggi non è cambiata più di tanto. In generale, questo dossier è sempre stato ben presente nelle menti dei decisori cinesi. Oggi Pechino afferma addirittura che non rinuncerà mai all’uso della forza nei confronti dell’isola. Ancora una volta, siamo stati noi occidentali a collocare tale problema in Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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un futuro indefnito. Nel discorso tenuto in occasione del centenario del Partito (1921-2021), Xi ha fatto riferimento al «grande risorgimento della nazione» per ben ventiquattro volte in un’ora. Quella espressione si riferisce al defnitivo superamento del «secolo dell’umiliazione» iniziato con le guerre dell’oppio (1839-1860) e conclusosi con la fondazione della Repubblica Popolare (1949). Tale obiettivo implica il «recupero» di Taiwan. Quando sento la propaganda intestardirsi molto su un tema, tendo a non sottovalutarlo. Ovviamente, tutto ciò non implica che vi sia – a livello di opinione pubblica – un vero dibattito al riguardo. Il cinese medio ne parla piuttosto poco, ma sa quale è il piano del governo. LIMES Come ha percepito i rapporti tra Cina e Russia? REGAZZONI Ero a Pechino il 4 febbraio 2022, quando i due paesi si sono giurati «amicizia senza limiti». Invito tutti a rileggersi la dichiarazione congiunta che stabilisce i termini del partenariato sino-russo. Esso prevede un ridimensionamento del multilateralismo per come lo conosciamo. In particolare, insiste sul fatto che ciascuno Stato deve essere lasciato libero di seguire la propria strada verso la sicurezza e lo sviluppo, indipendentemente dal rispetto del multilateralismo classico. I valori sottesi alla Carta delle Nazioni Unite vengono completamente relativizzati. Sotto questo aspetto, rimane un’oggettiva convergenza d’interessi tra Russia e Cina. Ci sono però due elementi che vanno sottolineati. Primo, entrambi i paesi si considerano azionisti di maggioranza del loro rapporto: Mosca per ragioni storiche, dovute anche all’infuenza avuta dall’Urss sulla Repubblica Popolare durante la guerra fredda; Pechino per ragioni innanzitutto materiali. Secondo, il confitto in Ucraina incide su tale relazione. A mio parere, il 4 febbraio Putin ha raccontato a Xi una mezza verità sull’invasione. Probabilmente il presidente russo ha detto al suo omologo cinese che l’operazione militare sarebbe stata breve – una settimana o poco più – e facilmente realizzabile. Magari Putin pensava davvero che sarebbe andata così. L’Ue ha chiesto alla Cina di condannare l’invasione russa. A nome della Svizzera, ho invitato Pechino a far ragionare il Cremlino, a esercitare su di esso un’infuenza in virtù della loro amicizia. A quel punto, per la prima volta ho sentito ciò che poi è stato ripetuto ad infnitum: che non erano loro i responsabili dell’invasione e che, se proprio avessimo voluto trovarli, avremmo dovuto cercarli in Ucraina e in America. Sicuramente l’invasione ha messo in imbarazzo i cinesi, ma non credo che questa faccenda avrà ripercussioni profonde sul rapporto tra Mosca e Pechino. Anche al vertice di Samarcanda avvenuto lo scorso settembre non è stato Xi a esprimere turbamenti. Semmai è stato Putin ad affermare che la Russia avrebbe risposto alle preoccupazioni cinesi. Le sue parole hanno generato un certo clamore mediatico, ma è cambiato veramente poco o addirittura nulla nelle relazioni sino-russe. Ho capito fn dai primissimi giorni che non ci sarebbe stato alcun tentativo cinese di infuenzare la Russia in questa guerra. Figuriamoci di svolgere il ruolo di mediatore. Pechino sarà anche rimasta sorpresa dalla mossa di Putin, ma non si metterà mai contro Mosca. Alla fne, ai cinesi fa anche comodo vedere i russi imbarcarsi in imprese che danno fastidio agli americani. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LIMES Che REGAZZONI
impatto hanno sulla Svizzera le sanzioni imposte alla Russia? Dal primo giorno di guerra, gli americani hanno verifcato minuziosamente che tutti applicassero le sanzioni. Joe Biden ha addirittura affermato che «anche la Svizzera» le aveva adottate. Quell’«anche» non ci ha fatto piacere, ma senza dubbio ci siamo comportati come dovevamo. Abbiamo preservato la nostra neutralità e sottolineato allo stesso tempo l’importanza per la Svizzera di una cooperazione internazionale rafforzata in materia di sicurezza anche in termini di interoperabilità con la Nato. Volevo aggiungere una cosa: mi hanno colpito le parole molto dure verso la Germania di un recente editoriale di Limes, in cui si sottolineava la strutturale tendenza tedesca a interagire con la Russia, quasi Berlino fosse il ventre molle dell’Europa. L’aiuto tedesco all’Ucraina resta pur sempre il secondo più importante in Europa, dopo quello del Regno Unito. LIMES Come può crollare un regime come quello cinese? REGAZZONI Ormai nella Repubblica Popolare vi è una totale sovrapposizione tra Stato e Partito, ancora più radicale che in Unione Sovietica. Come dicevo, il regime basa la sua legittimità sulla crescita economica. Negli ultimi quarant’anni, questa ha permesso a molti cinesi di uscire dalla povertà e ad alcuni persino di arricchirsi. Non bisogna sottovalutare nemmeno il clamoroso sviluppo infrastrutturale degli ultimi decenni. Dati i miglioramenti della loro condizione materiale, gli abitanti della Repubblica Popolare hanno sostenuto sinceramente il regime. Se si dovesse rompere questo equilibrio, la legittimità del Partito, dunque dello Stato, potrebbe venire meno. LIMES Il crollo del Pcc potrebbe generare la nascita di molte Cine? Oppure potrebbe emergere un altro regime con ambizioni imperiali? REGAZZONI Fatico a immaginare una Cina senza Pcc, ma in sua assenza potrebbe subentrare un altro partito, comunista o no, con caratteristiche diverse in grado di tenere insieme il paese. A ogni modo, stiamo facendo troppe speculazioni. Pechino deve evitare che il rallentamento della crescita metta in discussione il patto sociale, ma non vedo una grande domanda di democrazia. Certamente Taiwan può essere un fattore destabilizzante e iniziare una guerra può essere un azzardo. La problematicità di questo argomento sta nel fatto che, se Pechino dovesse recuperare l’isola, il dominio americano nel Pacifco verrebbe ridimensionato drasticamente. Pur non mirando a vaste guerre di conquista, l’espansione attuale della Repubblica Popolare nel Mar Cinese Meridionale è un fattore destabilizzante. Certo, l’azzardo fa parte della storia. Non bisogna dimenticare che il potere pechinese ha una forte connotazione imperiale. Spesso in Occidente si traduce Zhongguo (il nome della Cina) con l’espressione «Impero di Mezzo», ma per loro signifca «Impero al Centro» del mondo. Mondo che peraltro li interessa relativamente poco. Si sentono ancora in qualche modo circondati dai barbari. LIMES Quanto è esportabile tale sistema? La Cina può avere un soft power paragonabile a quello americano? Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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No, la Cina non dispone di soft power. Nemmeno in luoghi dove i suoi investimenti sono consistenti, come l’Africa. Inoltre, non vuole esportare il proprio sistema. A Pechino sono contenti se qualcuno decide di adottarlo, ma niente di più. In ogni caso, non signifca che la Repubblica Popolare non voglia crearsi basi di approvvigionamento economico ovunque nel mondo. Anzi, questo è un suo obiettivo. Ha bisogno di radicarsi all’estero visto che non è autosuffciente e dipende particolarmente dal commercio con l’America. Fino a qualche anno fa pensavamo che ciò avrebbe reso impossibile qualsiasi forma di confitto. Oggi dobbiamo certamente essere più cauti, ma tale vincolo rimane ancora molto forte: anche gli Usa hanno bisogno della Cina sul piano economico. Sia chiaro, tali dinamiche sono sempre condizionate dalla politica. Valse anche per il lancio della politica di riforma e apertura promossa da Deng. In un regime come quello cinese la politica assume molteplici forme. Spazia dalla dimensione economica a quella di Machtpolitik (politica di potenza, n.d.r.) passando – ed è fondamentale ricordarlo – per quella ideologica. Nella Repubblica Popolare questi tre elementi sono sempre stati interconnessi. Con la diffusione dell’epidemia di Covid sono diventati più visibili, come del resto i problemi che da tempo affiggono il sistema cinese. REGAZZONI
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di SATAKE Tomohiko
L’assertività della Cina e l’invasione russa dell’Ucraina spingono il Giappone a rientrare nella storia. La nuova Strategia di sicurezza nazionale prevede la risposta alle offensive nemiche, ma per ora il paese del Sol Levante non vuole riformare la costituzione pacifista.
I
1. L RIACCENDERSI DELLA COMPETIZIONE tra Stati Uniti, Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese pone la sicurezza del Giappone seriamente a rischio. In precedenza, le maggiori preoccupazioni strategiche derivavano soprattutto dai missili della Corea del Nord e dalle «zone grigie», ovvero da quelle crisi non assurte allo status di guerra. Le crescenti tensioni nello Stretto di Taiwan e l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca spingono T§ky§ a non escludere la possibilità di confitti convenzionali su larga scala o addirittura nucleari. Sempre più spesso gli analisti giapponesi osservano che «i problemi di Taiwan sono problemi del Giappone» e che «l’Ucraina di oggi potrebbe essere l’Asia di domani». A ciò si aggiunga che il contesto securitario in cui il paese del Sol Levante opera è diventato più complesso a causa dello sviluppo di tecnologie avanzate e della rilevanza delle dimensioni cibernetica, spaziale ed elettromagnetica. Inoltre, alcuni paesi non esitano a utilizzare mezzi economici per imporre i loro interessi. Anche gli attacchi alle infrastrutture critiche, la guerra dell’informazione attraverso i social media, la carenza di energia e i cambiamenti climatici sono diventati importanti minacce. È in questa cornice che nel dicembre 2022 il governo giapponese ha rilasciato i «tre documenti»: la Strategia di sicurezza nazionale, la Strategia di difesa nazionale e il Programma di rafforzamento della difesa. Questi testi contengono normative rivoluzionarie, che superano storici tabù. Infatti prevedono l’aumento delle spese militari fno al 2% del pil, lo sviluppo della «capacità di contrattacco» e l’introduzione della «difesa cibernetica attiva». Sebbene l’articolo 9 della costituzione del Giappone e il trattato securitario tra quest’ultimo e gli Stati Uniti restino i due pilastri della politica di sicurezza nipponica, i cambiamenti portati dai documenti sopracitati sono decisivi. Di fatto, determinano l’affrancamento dalla cosiddetta dottrina Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Yoshida, cioè la politica adottata dall’eponimo primo ministro dopo la fne della seconda guerra mondiale. 2. La dottrina Yoshida si basava sul pieno rispetto dell’articolo 9 della costituzione nipponica, che include l’«atto di rinuncia alla guerra». T§ky§ decise così di affdarsi all’ombrello di sicurezza americano previsto dal trattato siglato con Washington. Inoltre, Yoshida Shigeru pose le basi dell’atteggiamento economicista del Giappone. Cioè concentrò gli sforzi sull’accrescimento del benessere piuttosto che sulle attività importanti per la difesa e la sicurezza nazionale. La dottrina non fu dettata solo dalla necessità di ricostruire il sistema economico dopo la guerra, ma anche dal forte sentimento antimilitarista della popolazione. A causa della terribile sconftta subita, la maggioranza dei giapponesi non voleva più impegnarsi in attività belliche. Ciò li ha portati a venerare l’articolo 9 e a sviluppare forte avversione nei confronti della violenza, dell’esercito e delle armi nucleari. Perciò Yoshida e i suoi successori non misero mai in discussione quel passo della costituzione. Inoltre, respinsero ogni pressione americana a favore del pieno riarmo del Giappone anche dopo che la guerra di Corea intensifcò il duello tra America e Unione Sovietica in Asia. Nel 1954 nacquero le Forze di autodifesa giapponesi (Fad). All’estero esse erano considerate Forze armate a tutti gli effetti, eppure non avevano una capacità offensiva e potevano intervenire solo per difendersi. Infatti non furono dispiegate lontano dai confni nazionali. Tuttavia, pur mantenendo un basso proflo, il Giappone iniziò a rafforzare silenziosamente le Fad. Grazie alla crescita economica degli anni Sessanta, il budget per la Difesa raddoppiava ogni anno. Alla fne di quel decennio, il primo ministro Sat§ Eisaku – che paradossalmente vinse il premio Nobel per la pace grazie all’adesione del paese al trattato di non proliferazione nucleare – disse agli Stati Uniti che il Giappone doveva possedere armi nucleari. Sato era inoltre un fervente sostenitore della restituzione di Okinawa da parte americana e sottolineava la necessità di forgiare una «difesa autonoma» (jisyu boei). L’occasione per implementarla realmente si presentò tra la fne degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando il presidente statunitense Richard Nixon annunciò la dottrina Guam. Questa prevedeva che gli alleati si assumessero maggiori responsabilità in materia di sicurezza, senza mettere in dubbio l’ombrello americano. In una tale congiuntura, il nazionalista e futuro primo ministro Nakasone Yasuhiro propose un massiccio Piano per la ricostruzione della difesa nazionale e invocò anche la revisione della dottrina Yoshida, affermando che la difesa autonoma dovesse essere prioritaria rispetto al trattato nippo-americano. Tuttavia, il piano di Nakasone fallì a causa dell’infazione e del rallentamento della crescita economica del Giappone causati dalla crisi petrolifera del 1973. Inoltre, alcuni politici del Partito liberaldemocratico e dell’opposizione erano contrari alla strategia del primo ministro perché preoccupati dalle possibili reazioni – nazionali e internazionali – che l’implementazione della difesa autonoma avrebbe potuCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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to generare. L’occasione per rafforzare le capacità autonome giapponesi venne meno del tutto dopo il riavvicinamento sino-statunitense del 1972 e il complessivo clima di distensione. Nel 1976, T§ky§ rilasciò le prime Linee guida per un programma di difesa nazionale. Esse si basavano ancora sul concetto di «capacità difensiva di base». In sostanza, il Giappone sarebbe stato in grado di resistere solo a un’invasione su scala ridotta, mentre in caso di situazioni più complesse si sarebbe dovuto affdare all’aiuto degli Usa. Allo stesso tempo, vennero annunciate diverse restrizioni alle capacità di difesa. Non si poteva dedicare più dell’1% del pil alle spese militari. Inoltre, fu bloccata la vendita di armi a paesi comunisti, sotto embargo o impegnati in confitti. Sostanzialmente, il piano di Nakasone fu assorbito dalla dottrina Yoshida. Ovviamente qualcuno continuava a sostenere che il Giappone, ormai superpotenza economica, dovesse perseguire anche una politica di sicurezza più autonoma. Un esempio in tal senso fu la Strategia olistica di sicurezza nazionale elaborata alla fne degli anni Settanta da un gruppo di esperti guidati da †hira Masayoshi. Il documento, pubblicato nel 1980, intendeva spingere il paese a perseguire i suoi obiettivi strategici non solo militarmente, ma anche attraverso mezzi economici, energetici e alimentari così da farsi trovare pronto qualora il sistema americano fosse collassato. Secondo quel testo, il Giappone doveva rafforzare le sue capacità belliche per diventare più autonomo e assumersi la responsabilità di tutelare attivamente l’ordine internazionale. A tal fne, era necessario aumentare del 20% le spese militari. Inoltre, alcuni esperti ritenevano che il Giappone dovesse avere capacità difensive maggiori rispetto a quelle rese possibili dalle Linee guida per un programma di difesa nazionale, perché l’invasione sovietica dell’Afghanistan aveva posto fne al periodo di distensione. Tuttavia, queste posizioni non furono ascoltate e non si concretizzarono fno alla fne della guerra fredda. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
3. Il crollo dell’Unione Sovietica non ha avuto un signifcato univoco per il Giappone. Quell’evento e il conseguente ridimensionamento dell’impegno americano in Estremo Oriente hanno obbligato il paese del Sol Levante ad assumere un ruolo più importante nella regione, a contibuire più attivamente al mantenimento dell’ordine internazionale – con mezzi militari e non – e a gestire in questi nuovi termini l’alleanza con gli Stati Uniti. La prima guerra del Golfo, la crisi dei missili nucleari in Corea del Nord e quella dello Stretto di Taiwan spinsero il Giappone a una postura più decisa per salvaguardare la sua sicurezza domestica e garantire la stabilità globale. Nel 1992, le Fad parteciparono per la prima volta a operazioni internazionali di mantenimento della pace. Nel 1995, offrirono supporto logistico agli Usa, sebbene il Giappone non fosse sotto attacco. Nel 1996, T§ky§ e Washington dichiararono congiuntamente che la loro alleanza non aveva più come unico scopo la sicurezza nipponica, piuttosto mirava a garantire l’ordine nel Pacifco. Tuttavia, il collasso dell’Unione Sovietica e l’avvio della «fase unipolare» a guida americana crearono un ambiente estremamente favorevole anche al manteni-
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mento della dottrina Yoshida. Nei primi anni Duemila, le missioni e le capacità delle Fad aumentarono. In particolare, nel 2001 navi giapponesi si spinsero nell’Oceano Indiano per svolgere operazioni di supporto alla Marina americana e a quelle degli alleati impegnati nella guerra al terrorismo. Quattro anni dopo, le Forze di autodifesa svolsero operazioni umanitarie e di salvataggio nell’ambito della ricostruzione post-bellica in Iraq. Queste attività erano ancora inquadrabili all’interno della dottrina Yoshida. Le Fad non erano impegnate in combattimento e dunque non «usavano la forza» all’estero. All’epoca l’obiettivo era mantenere e consolidare l’alleanza nippo-americana. Operando in Afghanistan o in Iraq, T§ky§ intendeva assicurarsi l’impegno Usa a difesa del paese del Sol Levante e mostrare come quest’ultimo fosse pronto a dare il suo contributo alla sicurezza globale. Così il Giappone affrontò la Repubblica Popolare Cinese e la Corea del Nord attraverso il trattato di sicurezza nippo-americano e contestualmente contenne le spese per la Difesa in una fase economica stagnante. Fatta eccezione per i costi di mantenimento delle basi americane tra il 2002 e il 2012 T§ky§ ha ridotto ogni anno le spese per la Difesa nonostante l’ascesa di Pechino e l’aggressività di P’y$ngyang. Il paese del Sol Levante credeva di poter rispondere adeguatamente alla pressione di questi attori ospitando strutture statunitensi e rinnovando il suo attivismo internazionale, senza dover ampliare le proprie capacità militari. Di fatto, contava ancora sulla solida alleanza con la superpotenza americana. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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4. Questa strategia, che consisteva sostanzialmente nello sviluppo della dottrina Yoshida, ha cominciato a cambiare verso la fne del primo decennio degli anni Duemila, quando la Cina ha iniziato seriamente a mettere in questione il predominio a stelle e strisce. Le Linee guida per un programma di difesa nazionale del 2010 parlavano apertamente e per la prima volta di «cambiamento nella bilancia mondiale del potere». Fermo restando che gli Usa avrebbero continuato «a essere una forza decisiva per la stabilità e la pace mondiale», il documento affermava chiaramente che il Giappone doveva rafforzarsi per rispondere a una congiuntura internazionale sempre meno favorevole. Le Linee guida del 2010 hanno determinato l’abbandono della «capacità difensiva di base» risalente al 1976 e l’introduzione di quella «dinamica». Con questa espressione si intendeva la necessità di aumentare le attività delle Fad in alcuni ambiti, con particolare riferimento alle operazioni di sorveglianza e di intelligence in tempo di pace. Tali attività dovevano essere svolte soprattutto nelle «zone grigie», ovvero in teatri non pacifcati e sicuri e in quelli non apertamente confittuali. Insediatosi nel 2012, il governo di Abe Shinz§ ha implementato una serie di riforme, tra cui il parziale riconoscimento del diritto all’autodifesa e l’istituzione dei nuovi Tre princìpi di esportazione di equipaggiamento difensivo. L’amministrazione Abe ha interrotto la riduzione delle spese militari iniziata nel 2002 e rilanciato il Quad, il dialogo quadrilaterale di sicurezza tra Giappone, Stati Uniti, Australia e
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India. Scopo: costruire un sistema di alleanze pluristratifcato in grado di opporsi all’ascesa della Repubblica Popolare. Intanto, l’espansionismo e l’attivismo militare di Pechino sono cresciuti oltre le aspettative. Il budget militare cinese, che nel 2010 era meno del doppio di quello giapponese, è quadruplicato. Da quando nel 2012 T§ky§ ha nazionalizzato le isole Senkaku, il numero di navi della Repubblica Popolare entrate nelle loro acque territoriali è aumentato ogni anno e le attività militari in quell’area sono diventate costanti. Nonostante i ripetuti avvertimenti da parte dell’Occidente, Pechino ha militarizzato il Mar Cinese Meridionale ed esteso la sua infuenza politica, economica e militare nel Sud-Est asiatico, in Asia centrale, in Medio Oriente, in Europa e in Africa attraverso le nuove vie della seta. Parallelamente all’attivismo cinese, la Russia ha invaso la Crimea, è intervenuta nella guerra civile in Siria e ora si oppone chiaramente al sistema trainato dall’Occidente. Come reazione a questi sviluppi, la Strategia di sicurezza nazionale americana del 2018 ha evidenziato il «ritorno della competizione tra grandi potenze». Washington ha rinunciato all’integrazione di Cina e Russia nell’ordine internazionale liberale e ha affermato di esser pronta a rispondere qualora avessero provato a modifcare lo status quo. Ovviamente, i decisori giapponesi che criticavano l’approccio «leggero» dell’ex presidente Barack Obama nei confronti della Cina hanno accolto con favore il cambio di passo statunitense. Contestualmente, T§ky§ ha cercato di non entrare direttamente nella competizione tra Usa, Repubblica Popolare e Russia: nel summit sino-giapponese del 2018, Abe e il presidente cinese Xi Jinping hanno concordato di passare «dalla competizione alla cooperazione», collaborando con paesi terzi e in alcune iniziative legate alle nuove vie della seta. Inoltre, il primo ministro nipponico ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin ben ventisette volte per discutere dello stato dei Territori del Nord (le isole Curili meridionali, n.d.r.) e di cooperazione economica. Dietro agli incontri con Mosca e Pechino non c’era solo il fatto che Abe volesse lasciare un’eredità politica. C’entrava anche il bisogno strategico di mantenere buone relazioni con il Cremlino per evitare una guerra con Russia e Cina allo stesso tempo. Nonostante le intenzioni nipponiche, le due potenze eurasiatiche hanno continuato a rafforzare la loro collaborazione per sfdare l’ordine vigente. Anche a causa della vicinanza al Giappone, Mosca e Pechino hanno intensifcato i legami militari svolgendo esercitazioni congiunte su base annua. Sotto questo aspetto, l’invasione russa dell’Ucraina ha «risvegliato» T§ky§. Riconoscendo che quanto accade oggi in quel paese potrebbe accadere domani in Asia, il governo guidato da Kishida Fumio si è unito all’Occidente nel supporto a Kiev e ha partecipato alle sanzioni contro Mosca. Kishida ha anche chiesto un «radicale rinforzo delle capacità di difesa», inaugurando così un potenziamento della politica di sicurezza che non si vedeva dai tempi di Abe. Il Giappone non può più considerare la competizione tra grandi potenze come qualcosa che non la riguarda. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. La nuova Strategia di sicurezza nazionale riconosce che dalla fne della seconda guerra mondiale la congiuntura geopolitica non è mai stata così complessa e pericolosa. Prendendo atto che la globalizzazione e l’interdipendenza non garantiscono pace e sviluppo, T§ky§ vuole rafforzarsi in ogni ambito: dalla diplomazia alla difesa, passando per la tecnologia e l’intelligence. Viene anche sottolineata l’importanza della «autonomia strategica» nipponica e la sua «indispensabilità» per quanto riguarda la sicurezza economica globale. Il governo giapponese articola in sette aree le capacità di difesa: la resistenza a un attacco; l’integrazione tra difesa aerea e contraerea; l’automatizzazione; lo svolgimento di operazioni ibride; le funzioni di comando, controllo e intelligence; il dispiegamento mobile e protezione della nazione; sostenibilità e resilienza. Il piano prevede l’identifcazione di attività per migliorare le Fad nell’arco di cinque o dieci anni, anche in termini di approvvigionamento di armi ed equipaggiamento. Il cambiamento più radicale previsto dai «tre documenti» è senza dubbio la «possibilità di contrattacco». Con questa espressione si intende che, in caso di lancio missilistico verso il Giappone da parte di un nemico, T§ky§ può rispondere per prevenire ulteriori aggressioni mentre si protegge dai vettori in arrivo attraverso la sua rete di difesa. In passato l’attacco a basi rivali non era propriamente incostituzionale, ma la scelta politica del governo è sempre stata quella di non possedere i mezzi per condurlo. Tuttavia, la crescente minaccia missilistica proveniente dalla Corea del Nord, quelle derivanti dall’uso di droni e missili da crociera e lo svantaggio nei confronti della Cina nel campo dei vettori terra-aria di medio raggio hanno fatto comprendere al Giappone che bisogna possedere una capacità di contrattacco per complicare i calcoli degli avversari e ritardarne quanto più possibile un’offensiva. Inoltre, la guerra in Ucraina ha palesato a T§ky§ la necessità di rafforzare le sue infrastrutture, in particolare le basi militari maggiormente vulnerabili. Secondo una teoria, le riserve di munizioni dell’esercito giapponese potrebbero esaurirsi dopo soli due mesi di guerra effettiva. Per questo la strategia di difesa nazionale prevede di dotare prima possibile il paese di un numero suffciente di rifornimenti, aumentando la capacità di produrli autonomamente e rendendo sicuri i depositi. Inoltre, il Giappone sta sviluppando un sistema in virtù del quale tutto l’equipaggiamento sarà sempre disponibile per le operazioni, fatta eccezione per il carburante, la progettazione e la manutenzione. Dato che l’attuale congiuntura storica non è fatta di «zone grigie» ma di un effettivo ritorno dell’uso della forza, è sempre più necessario che le Fad siano «pronte a combattere» indipendentemente dalla protezione americana. La Strategia di sicurezza nazionale sottolinea anche che per il Giappone è vitale collaborare con alleati e partner per «raggiungere un nuovo ordine internazionale». Ciò è in linea con il proposito nipponico di garantire un «Indo-Pacifco libero e aperto». Il documento propone alcune linee guida per coinvolgere il resto del pianeta in tale progetto: la creazione di una zona di commercio libero ed equo; il miglioramento dei legami tra gli attori regionali; il potenziamento delle capacità a Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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livello di governi nazionali e organizzazioni internazionali; maggiori sforzi per assicurare la sicurezza marittima. Inoltre, il testo afferma che il rapporto economico e diplomatico con i paesi in via di sviluppo nel «Sud del mondo» debba essere ulteriormente rinsaldato. Insomma, i «tre documenti» costituiscono il punto più alto di una politica di sicurezza che il Giappone stava cercando di portare avanti già a partire dal 2010. Ovviamente, tali innovazioni sono state rese più urgenti dal clima di crescente insicurezza internazionale. In questo senso, il piano assume un signifcato epocale nella storia giapponese del dopoguerra. L’aumento delle spese militari, il rafforzamento della capacità di difendersi autonomamente e la ricerca di sicurezza per mezzo dell’economia suggeriscono che il Giappone abbia defnitivamente superato la dottrina Yoshida, basata sull’alleanza con gli Usa e sulla priorità del pil rispetto alla sicurezza. Sotto altri punti di vista, questo progetto sembra però rimanere ancora nel solco della strategia nipponica classica. Per esempio, gli attacchi preventivi non sono permessi e sembra evidente che il contrattacco non avverrà mai lontano dal Giappone. Del resto è diffcile per le Fad colpire basi nemiche senza l’aiuto americano. Almeno per quanto riguarda le attività di rilevamento e puntamento del bersaglio. In questo senso, la nuova Strategia di sicurezza mira a promuovere l’autonomia di T§ky§ ma sempre nel quadro dell’alleanza con gli Stati Uniti. Lo scopo è consolidare la capacità di deterrenza di tale relazione anziché romperla. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. In breve, il Giappone mantiene la postura fondamentale che vige sin dalla seconda guerra mondiale, ma intende perseguire attivamente i suoi interessi strategici e securitari. La sfda futura sarà l’implementazione concreta dei «tre documenti». A tal fne, il governo sta rafforzando l’approccio «Tutto il Giappone», che richiede l’appoggio e la cooperazione non solo dei ministeri degli Esteri e della Difesa, ma anche di dicasteri e agenzie che hanno in qualche modo a che fare con il potere nazionale. Pure il settore privato sembra seguire la linea del governo. Gli ostacoli da superare sono molti. Bisogna ancora stabilire le risorse economiche necessarie per rilanciare la Difesa. A ogni modo, anche se il Giappone dovesse portare le spese militari al 2% del pil, non è detto che riesca a mantenere questo livello in futuro. Inoltre, ci vorrà del tempo per costruire un sistema e un consenso tali da rafforzare e utilizzare il potere della nazione. Da ultimo, il governo deve rivedere e, se necessario, eliminare regolamentazioni o restrizioni che impediscono al Giappone di mettere a frutto le sue capacità. Se riuscirà a risolvere tali problemi, il paese del Levante si libererà davvero dell’eredità della seconda guerra mondiale. (traduzione di Giuseppe De Ruvo) (traduzione di Giuseppe De Ruvo)
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PECHINO CONTRO DELHI L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
DI MURO Sulle vette dell’Himalaya s’intensificano le scaramucce fra indiani e cinesi, divisi da inconciliabili idee sull’assetto dell’Asia. La tensione sul prossimo Dalai Lama. L’avvicinamento dell’India agli Stati Uniti prosegue, ma non significa allinearsi. Nervi scoperti sul Kashmir. di Lorenzo
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1. ENTRE IN EUROPA ORIENTALE imperversa la guerra per procura tra America e Russia, Cina e India continuano a fronteggiarsi lungo il confne conteso più esteso al mondo. Sulle cime dell’Himalaya, i due colossi asiatici sono impegnati in una partita di risiko in territori impervi quanto strategici. Sfda tendenzialmente quiescente per oltre quattro decenni che si è riaccesa gradualmente negli ultimi quindici anni, sino allo scontro che a metà 2020 nel Ladakh – a colpi di mazze e altri strumenti medievali – ha mietuto vittime per la prima volta dal 1975. Da allora, Pechino e Delhi hanno ammassato truppe e assetti militari alla frontiera di fatto (Lac, nell’acronimo inglese) e hanno continuato a pungolarsi. L’ultimo episodio ha avuto luogo nel dicembre 2022 all’altra estremità della frontiera (Arunachal Pradesh), preceduto da incontri ravvicinati di cui i due contendenti si rimpallano la responsabilità. Siamo nel quadrante principale della Guerra Grande, l’Indo-Pacifco, arena primaria dello scontro fra la superpotenza a stelle e strisce e lo sfdante cinese. Qui l’America intende arginare l’estroversione del rivale facendo perno anche sull’India. Senza rischiare l’apertura di un secondo fronte oltre a quello orientale, nel quale sconta la pressione di Washington e alleati, Pechino intende invece mostrare a Delhi quale sia il suo posto nell’erigendo ordine sinocentrico dell’Asia. Rafforzando al contempo la presa su aree strategiche come il Tibet, la cui stabilità passerà per la successione al 14º Dalai Lama ormai ottantasettenne e per la postura dell’India, dove la massima carica religiosa (e politica) buddhista è in esilio dal 1959. Sono almeno due fattori a pesare nei calcoli della Cina. Primo, lo iato crescente tra le proprie disponibilità economico-tecnologico-militari e quelle indiane. Finché, come negli anni Novanta, pil e livello di ammodernamento erano simili, Pechino ha tenuto un proflo basso. Non è un caso che l’assertività della Repubblica Popolare sia aumentata nell’ultimo quindicennio, a partire dal terremoto fnanziaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
rio del 2008 che scuote l’Occidente e soprattutto con l’ascesa del nuovo timoniere Xi Jinping. Tanto nel Mar Cinese Meridionale quanto lungo i confni. Secondo, la percezione dell’India quale paese che rifugge una guerra aperta ma che ha il potenziale per minare, come già sta facendo, i piani cinesi nella regione e non solo. Sotto la guida (dal 2014) di Narendra Modi, fgura carismatica che ormai ha assunto tratti mistici, l’India sta infatti attraversando nevralgiche trasformazioni con l’obiettivo di diventare entro il 2047 un attore geopolitico di statura mondiale. Tibet e America sono variabili costanti nei rapporti sino-indiani. Ma ciò che realmente conta non sono i confni in sé quanto le configgenti traiettorie geopolitiche di due Stati civiltà. La Repubblica Popolare intende primeggiare in Asia, obiettivo che passa per il controllo dei Mari Cinesi ma pure per la stabilità dei suoi confni sud-orientali. L’India si sente accerchiata dalla Cina. Malgrado l’asimmetria economico-militare e malgrado i due paesi abbiano collaborato e continuino a farlo specie sul piano commerciale, è in atto una competizione aperta che coinvolge il Sud-Est asiatico, l’Asia meridionale, l’Africa orientale e l’Oceano Indiano. Delhi valuta le mosse di Pechino in Pakistan, Sri Lanka, Maldive, Bangladesh e lungo la Lac come funzionali a tenerla in scacco nel suo intorno strategico. In tal senso, l’Indo-Pacifco comincia sull’Himalaya. Quanto accade sul Tetto del mondo rileva soprattutto in quanto termometro di equilibri più articolati. È strumento con cui Pechino vuole ricordare al vicino meridionale chi abbia il coltello dalla parte del manico. I fatti del Ladakh hanno portato alla Cina il vantaggio pratico di aver reso terra di nessuno aree a sovranità contestata ma fno a tre anni fa pattugliate dagli indiani. Eppure i cinesi potrebbero aver vinto la battaglia ma perso la guerra, posto che quanto avvenuto nel bel mezzo della prima ondata di Covid ha pressoché azzerato qualsiasi possibilità – ammesso esistesse – che gli indiani accettassero, o quantomeno non avversassero attivamente, le ambizioni della Cina. Nei circoli strategici cinesi l’India resta minaccia di secondo piano rispetto agli Usa e alla loro strategia per un Indo-Pacifco «libero e aperto». Cionondimeno l’India costituisce una sfda per i piani cinesi, anche in ragione della sinergia tra Delhi e Washington. Il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar ha ribadito più volte che i rapporti con Pechino «dipendono dallo stato delle frontiere». Concetto che va legato a un altro punto che rimarca spesso il capo della diplomazia indiana, giudicato dai cinesi tra i più flo-americani nell’establishment dell’India. Ovvero che la creazione dell’ordine globale multipolare anelato da Delhi è a sua volta funzione di un ordine asiatico multipolare. In cui non sia la Cina a dettare legge e l’India abbia il suo posto al sole. La posta in gioco alle frontiere non è dunque meramente territoriale. Afferisce alla «autonomia strategica» dell’India a fronte del «risorgimento della nazione cinese» marchio di Xi Jinping. In altri termini, agli assetti geopolitici dell’Asia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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2. L’ultimo tentativo di demarcare i territori contesi risale a oltre vent’anni fa. E manca un’intesa persino sull’estensione della disputa, giacché secondo la Cina riguarda duemila chilometri mentre per l’India oltre tremila.
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Nonostante gli accordi del 1993, 1996 e 2005 – centrati sull’astensione dall’uso della forza, sul rispetto della Lac e sulla creazione di meccanismi per la risoluzione delle controversie – negli ultimi dieci anni in particolare le frizioni si sono inasprite. Come testimoniano gli incidenti del 2013, 2014, 2015 e 2020 nel Ladakh, del 2017 e del 2021 nell’Arunachal Pradesh, nel Sikkim eccetera. Ma sono stati i sanguinosi scontri di tre anni fa a convincere Delhi a liberarsi della sua tradizionale prudenza nei riguardi di Pechino. Crisi che si è tradotta nell’accelerazione dei progetti infrastrutturali su entrambi i versanti della frontiera e in nuove tensioni come quelle dell’agosto 2021 a Barahoti (Uttarakhand) e del mese successivo nell’area di Tawang (Arunachal Pradesh), preludio di quanto avvenuto a dicembre. L’India ha inviato alla Cina segnali inequivocabili. Ha consolidato la cooperazione con gli Usa, gli altri membri del Quad (Giappone e Australia) e i paesi sud-estasiatici. Ha richiamato alla stabilità nei Mari Cinesi e lanciato strali contro le nuove vie della seta. Ha operato una stretta contro la penetrazione delle aziende cinesi nei comparti sensibili della sua economia. Ha approvato nuove regole di ingaggio che cancellano il divieto di usare armi da fuoco entro due chilometri dalla Lac, lungo la quale peraltro ha piazzato altri 50 mila uomini, che oggi ammonterebbero a circa 200 mila. Il più numeroso dispositivo mai schierato ai confni settentrionali, secondo Jaishankar. A fne novembre il capo dell’Esercito indiano, generale Manoj Pande, aveva confermato che non c’è stata alcuna smobilitazione da parte cinese, descrivendo la situazione come «stabile ma imprevedibile». In questa cornice, che si riaccendesse la disputa sull’Arunachal Pradesh – «Tibet meridionale» per la Cina, che ne rivendica la sovranità – e dunque su Tawang, vista la sua rilevanza strategica e simbolica, era solo questione di tempo. Partiamo dalla geografa, che ha giocato un ruolo cruciale nel plasmare l’evoluzione della geopolitica del subcontinente indiano e le sue interazioni con la Cina. Il subcontinente è separato dal resto dell’Asia da ostacoli naturali ben defniti, molto più di quelli che dividono Asia ed Europa. A nord, lungo le due direttrici sud-ovest e nord-est si estende la più imponente catena montuosa del mondo, l’Himalaya, che poi si congiunge al Karakorum e che continua fno ad aprirsi nell’Hindukush. Dietro il Karakorum e l’Himalaya si staglia il più vasto altopiano al mondo, il Tibet. L’orografa ha plasmato storicamente le comunicazioni tra India e Cina, rendendole complicate in ambito civile e quasi impossibili in quello militare, se si escludono la spedizione anglo-indiana in Tibet nel 1904 e la breve guerra sino-indiana del 1962. Nonostante le scaramucce e i tentativi di guadagnare posizioni a detrimento dell’avversario, le caratteristiche del teatro himalayano scoraggiano – se non impediscono – un’invasione su larga scala. Un cambio di paradigma vi sarebbe soltanto nel caso in cui l’India controllasse il Tibet, poiché potrebbe minacciare direttamente il nucleo geopolitico della Repubblica Popolare. Oppure se i cinesi mettessero le mani sul Nepal o sull’Arunachal Pradesh. Nell’ottica di Pechino, Tibet e Xinjiang sono regioni che assolvono alla fondamentale funzione di scudo a protezione del nucleo geopolitico cinese e di ponte Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Bimstec Iniziativa per la cooperazione tecnica ed economica multisettoriale del Golfo del Bengala
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Aeroporti internaz.li Altri aeroporti Progetti di aeroporti CINA Tinsukia MYANMAR
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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
IL PROGETTO KALADAN Lhasa
ANCHE L’INDIA HA IL DILEMMA DI MALACCA
LA GUERRA CONTINUA
verso l’Asia meridionale e centrale. Ma se capovolgiamo la prospettiva, anche per Delhi la contesa alle frontiere è affare strategico. Perché l’Himalaya scherma anche il suo nucleo geopolitico, ossia la pianura indo-gangetica. Qui nel corso dei millenni sono prosperate le principali civiltà del subcontinente indiano e qui si sono insediate le potenze esterne che lo hanno invaso. Insomma, per avere qualsiasi pretesa di dominio sul subcontinente è imprescindibile dominare tale fertilissima regione, ancora oggi quella con la più alta densità abitativa dell’India. Henry Kissinger sostiene che nel 1971, con l’indipendenza del Bangladesh, Pechino temeva che come Delhi aveva smembrato il Pakistan avrebbe potuto separare il Tibet dalla Repubblica Popolare. Oggi la situazione sul campo è molto diversa, ma per il Partito comunista cinese (Pcc) resta imperativo preservarne il controllo. Perciò teme che il Dalai Lama si reincarni nella comunità tibetana in India, magari proprio a Tawang. Area di primaria importanza strategica e culturale-identitaria. Tawang ospita il secondo monastero più importante del buddhismo (religione nata nell’India nord-orientale), costruito per volontà del 5º Dalai Lama nel XVII secolo; ha dato i natali al 6º Dalai Lama; ha offerto rifugio all’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso dopo la repressione della rivolta tibetana da parte delle forze della Cina maoista nel 1959. Ed è proprio dal distretto di Kameng – via Passo di Bum La – che l’esercito cinese è penetrato in territorio indiano durante il confitto del 1962, occupando Tawang e spingendosi fn quasi alle pianure dell’Assam. La tensione nella zona è destinata a esacerbarsi anche alla luce della successione del Dalai Lama. I cinesi hanno messo in chiaro che la prossima guida tibetana dovrà essere approvata dal Pcc, motivo per cui Tenzin Gyatso nel 2014 ha vagheggiato la possibilità che non vi sia alcuna reincarnazione dopo aver formalmente ceduto le sue prerogative terrene al capo del governo tibetano in esilio nel 2011, sicché quand’anche il nuovo Dalai Lama fosse nominato da Pechino qualsiasi suo atto sarebbe nullo. Intanto, parallelamente agli attriti con i cinesi, gli indiani hanno ricominciato a usare la carta tibetana come strumento di pressione. Ma l’incidente alle frontiere dello scorso dicembre, avvenuto pochi giorni dopo il primo saluto pubblico post-2020 fra Modi e Xi a Bali, mette a nudo i limiti dell’India. Che ha tentato di circoscrivere la penetrazione cinese nei settori strategici della sua economia, di ridurre (invano) lo squilibrio commerciale, di consolidare i rapporti con gli Occidenti a guida americana. Ad esempio, ha effettuato le esercitazioni annuali congiunte con gli americani Yudh Abhyas per la prima volta a meno di 100 km dalla Lac (Auli, Uttarakhand) lo scorso novembre e ha svolto il primo addestramento congiunto con l’Aeronautica nipponica sul suolo giapponese a dicembre. Sulla scia dell’incidente di Tawang, ha poi anticipato il test di un missile balistico a raggio intermedio nel Golfo del Bengala che la stampa indiana ha ribattezzato «China killer». Delhi tuttavia sa che, in caso di confitto, dovrà fare affdamento unicamente su sé stessa. Anche se potrà probabilmente contare sul supporto americano in termini di intelligence e di specifche forniture militari, come nel 2020. Altrettanto cruciale è l’area del Doklam, protagonista di uno stallo armato di oltre un mese nel 2017. Ubicato tra la frontiera con il Sikkim e con il Bhutan, il Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
Doklam è in prossimità del corridoio di Siliguri, strettoia fra Nepal e Bangladesh che collega il Nord-Est indiano al resto del paese e che a est si apre nell’Arunachal Pradesh. Quanto al Kashmir, ripartito e conteso fra India, Cina e Pakistan, è un ponte che collega l’Asia meridionale a quella centrale. Ecco perché è al centro delle preoccupazioni degli strateghi cinesi e indiani sin dagli anni Cinquanta. Tra i motivi scatenanti la guerra del 1962 c’era difatti la costruzione da parte cinese di un’autostrada (G219) nell’Aksai Chin – dopo il confitto controllato da Pechino – per connettere il Xinjiang al Tibet. Ovvero la creazione di un’infrastruttura che avrebbe alterato gli equilibri in questo quadrante. Analogamente, la crisi del 2020 si sviluppa neanche sei mesi dopo la decisione indiana di scindere quello che fno ad allora era lo Stato di Jammu e Kashmir in due Territori dell’Unione (Ladakh, Jammu e Kashmir), così dotandoli di un’autonomia ridimensionata. Aree a maggioranza musulmana in cui Delhi sta cercando di incentivare l’emigrazione da altre parti dell’India per alterarne la demografa, specularmente a quanto approntato dalla Cina in Tibet e Xinjiang. Interventi rispettivamente propedeutici a mitigare le faglie interne all’Unione e ad assimilare al canone han le minoranze della Repubblica Popolare. Per il Kashmir pakistano passa inoltre il Corridoio economico Cina-Pakistan. Direttrice delle nuove vie della seta (Belt and Road Initiative, Bri) utile a connettere il Xinjiang all’Oceano Indiano occidentale aggirando Malacca, collo di bottiglia su cui vigilano americani, indiani e altri paesi parte del contenimento anticinese. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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3. La Repubblica Popolare vorrebbe la botte piena e la moglie ubriaca. Vorrebbe scoraggiare l’India dal rafforzare i rapporti con gli Usa. Vorrebbe che Delhi accettasse un ruolo subordinato nel nuovo ordine regionale sinocentrico, compreso lo sviluppo della Bri nell’Indo-Pacifco, con il suo corredo geopolitico-economico-militare. Così da potersi concentrare sul fronte Est e su Taiwan, dove sconta la pressione degli americani e dei loro alleati. Senza concedere in cambio granché. Inutile specifcare quanto ciò sia inaccettabile per Delhi. Ecco perché la Cina sta normalizzando le scaramucce di confne. Mettendo pressione al vicino ma senza tagliare i ponti, anzi mostrandosi pronta a riprendere la cooperazione in altri ambiti. Per raggiungere un equilibrio in cui l’India percepita come minaccia sia tenuta in scacco senza innescare una guerra aperta che, quand’anche convenzionale, comprometterebbe il risorgimento nazionale facendo gli interessi degli Stati Uniti. Ciò al netto di un dibattito interno che vede attualmente minoritaria la posizione di quanti ritengono che questo approccio potrebbe essere controproducente. Alimentando l’avvicinamento di Delhi a Washington, in campo sia militare sia economico. Complicando ulteriormente l’implementazione delle nuove vie della seta in Asia meridionale e sud-orientale. Incrementando la possibilità che, anche incidentalmente, le frizioni tracimino in una guerra che concretizzerebbe l’incubo strategico di dover gestire più fronti al contempo. Quindi complicando nettamente i piani di «riunifcazione» con Taiwan. Senza contare che, sebbene militarmente l’ammodernamento bellico metta la Cina 15 anni avanti all’India, la guerra d’Ucraina è
LA GUERRA CONTINUA
solo l’ultima conferma che lo squilibrio di forze non è sinonimo di prevedibilità delle operazioni sul campo. L’obiettivo della Cina, speculare a quello indiano, è rinsaldare la presa sulle sue periferie. Il vantaggio strategico di Pechino è palese: Delhi dista 400 km dalla Lac, Pechino 4 mila. Un cambiamento dello status geopolitico del Tibet altererebbe sostanzialmente questo equilibrio. Perciò da quando ha rimesso le mani sulla regione tibetana, e in particolare dopo gli anni Ottanta, Pechino ha cercato di legittimare e sostanziare le sue rivendicazioni in campo economico, storico e culturale. Ad esempio derubricando i legami tra tibetani e popolazioni della pianura indo-gangetica, accusando l’India di volersi intestare i privilegi coloniali britannici e di sobillare la causa indipendentista tibetana. L’India aveva riconosciuto la sovranità cinese nel 1954 con la speranza che sarebbe stata salvaguardata l’autonomia del Tibet e dunque che questo continuasse a svolgere il ruolo di cuscinetto che gli avevano assegnato i britannici. La tattica della Cina, come sperimentato dai paesi rivieraschi del Mar Cinese Orientale e Meridionale, si basa sulla graduale militarizzazione dell’area. Operazioni in «zona grigia» che lentamente ma costantemente alterano lo status quo senza valicare linee che equivarrebbero a una dichiarazione di guerra. Sicché i cinesi negli ultimi vent’anni e a ritmi ancor più sostenuti dopo il 2020 hanno messo in campo massicci progetti infrastrutturali con la realizzazione di strade, ferrovie, ponti, avamposti militari, insediamenti civili (quelli previsti dalla Regione autonoma del Tibet nel 2017 sono 628). Anche in territori rivendicati da India, Nepal, Bhutan. Nel 2021 hanno poi approvato una legge sui confni che tra le altre cose prevede l’edifcazione di «infrastrutture di frontiera». Mosse che, nel Xinjiang come in Tibet, si accompagnano alla sinizzazione coatta di uiguri, tibetani e altre minoranze. Per capire la portata degli investimenti cinesi, stando ai dati uffciali il sistema stradale tibetano è cresciuto del 50% tra 2015 e 2020. Nel Xinjiang occidentale sono in costruzione almeno otto strade che collegheranno la famigerata autostrada G219 al confne con il Ladakh indiano. Mentre all’altra estremità della frontiera nel 2021 è stato completato un sistema di tunnel e strade che connette il Tibet orientale – dove ha sede l’aeroporto a uso duale di Nyingchi – alla contea frontaliera di Medog ed è stata inaugurata la prima linea ferroviaria ad alta velocità tra la stessa Nyingchi e Lhasa, capitale del Tibet. Contestualmente la Repubblica Popolare ha iniziato ad alzare la voce sul piano diplomatico. Nel 2006, pochi giorni prima della visita di Hu Jintao, l’ambasciatore cinese in India dichiarava che l’Arunachal Pradesh è «territorio cinese sin dall’antichità». Da lì in poi Pechino si è rifutata di concedere visti a funzionari locali, ha criticato puntualmente le visite di leader indiani e stranieri in loco, ha «standardizzato» (leggi: rinominato) in caratteri cinesi tra 2017 e 2021 16 località nello Stato indiano – centri residenziali, corsi d’acqua, passi di montagna. Primo presidente a visitare il Tibet dal 1990, Xi Jinping ha lanciato nel 2017 il progetto per «fortifcare» la regione, invitando gli abitanti a gettare radici nelle aree di frontiera per diventaCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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re «guardiani del territorio cinese» e promettendo che la Repubblica Popolare «schiaccerà» i separatismi. Intento di cui è emblematica la nomina di Wang Junzheng, responsabile per le politiche di inculturazione forzata degli uiguri nel Xinjiang, a segretario di partito in Tibet nel 2021. Soprattutto, gli strateghi cinesi hanno iniziato a considerare la possibilità che gli indiani traggano vantaggio da un’operazione contro Taiwan. Timore che oggi assume rinnovata rilevanza in virtù dell’offensiva anticinese di Washington e della convergenza tra quest’ultima e Delhi. Lo ha ribadito l’estate scorsa il capo delle operazioni navali degli Stati Uniti, ammiraglio Mike Gilday, defnendo gli scontri alle frontiere sino-indiane «strategicamente importanti» perché obbligano i cinesi a concentrarsi non solo a est ma a «guardarsi le spalle a sud». Probabilmente anche per questo Pechino si è fatta più aggressiva, per mostrare che nonostante l’impegno nello Stretto non concederà alcunché su altri fronti strategici. Altro proposito della Cina è costringere gli indiani a fssarsi sulla terra, distogliendoli dai tentativi di dotarsi di un dispositivo navale capace di tenere testa alla proiezione indo-pacifca cinese. La Marina indiana sconta tradizionalmente la quota minore di fnanziamenti nell’ambito delle spese militari, anche perché salari e pensioni dell’Esercito (il più numeroso al mondo) gravano enormemente sul bilancio. Da qui la riforma del sistema di reclutamento militare (Agnipath), le diffcoltà nel piano relativo all’ammodernamento del comparto sottomarino, il posponimento della costruzione di una seconda portaerei Made in India dopo l’Ins Vikrant del 2022, la revisione dell’obiettivo di arrivare a 200 (ora 175) navi da guerra entro il 2027. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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4. L’instabilità ai confni rende per l’India sempre più complicato scegliere tra burro e cannoni. Dal suo insediamento Modi ha infatti cercato di trovare un accomodamento con l’ingombrante vicino. Per questo ha incontrato Xi 18 volte prima dei fatti del 2020 e per questo in occasione della prima visita del presidente cinese nel 2014 ha voluto accoglierlo nel suo Stato natale (Gujarat). Del pari, inizialmente ha fatto esercizio di prudenza verso la questione tibetana, ha negato la partecipazione dell’Australia alle esercitazioni Malabar (con Usa e Giappone) e l’istituzionalizzazione del Quad, organismo che gli indiani si sono più volte premurati di defnire «non diretto contro un paese in particolare». Così come ha tentato di ricucire anche a seguito della crisi del Doklam nel 2017 con i vertici bilaterali di Wuhan (2018) e di Chennai (2019) e invitando i propri funzionari di partito a non presenziare alle commemorazioni per il 60º anniversario dell’esilio del Dalai Lama. Ma il nazionalismo indù, insieme allo sviluppo socioeconomico, asse fondamentale del governo Modi, è arma a doppio taglio. Ciò che i cinesi comprendono e sfruttano. Tanto che sulla scia delle critiche piovute dalle opposizioni il premier indiano è stato costretto a sbandierare che «non si è verifcata alcuna perdita di territorio» a opera dei cinesi nel Ladakh. Posto che nel 2019 il ministro dell’Interno aveva affermato in parlamento che il Kashmir è parte integrante dell’India, comprese le zone sotto il controllo di Pechino e Islamabad.
LA GUERRA CONTINUA
La geopolitica impone all’India di estendere il proprio dominio fno alle barriere naturali che separano fsicamente il subcontinente dal resto dell’Asia. Solo allora potrà concentrarsi pienamente sui mari, creando una Marina che permetta di proiettare infuenza oltre i settemila chilometri di coste e mettere in sicurezza le rotte che attraversano l’Oceano Indiano, per le quali passa il 95% del suo interscambio con l’estero. Precondizioni: forgiare un’identità panindiana che mitighi la disomogeneità interna ed evitare l’emergere di un egemone regionale, pericolo oggi rappresentato dalla Cina. Quest’ultimo caposaldo è alla base della convergenza con gli americani. Anche perché Delhi è consapevole che l’eventuale presa di Taiwan muterebbe gli equilibri di potenza indo-pacifci spianando la strada alla Cina per proiettarsi pienamente verso sud, via mare (intorno di Malacca) e via terra (Nepal, Bhutan e Lac, ma anche Myanmar e Pakistan). Le amministrazioni Trump e Biden hanno infatti descritto la relazione con l’India come la più importante per gli Usa nel XXI secolo, ma non è tutto rose e fori. Gli indiani diffdano dell’America, stando a un sondaggio di Morning Consult di inizio 2023 percepita seconda (22%) minaccia militare dopo la Cina (43%) – peraltro, una quota complessivamente maggioritaria ritiene Nato (18%) e Usa (26%) primi responsabili di quanto accade in Ucraina. Per metterla nei termini dell’ex ambasciatore in Cina Vijay Gokhale, l’India «è troppo grande, ha troppa storia e identità quale grande civiltà per essere agganciata a qualcun altro». Eppure, la minaccia cinese e i vantaggi economico-tecnologici della cooperazione con l’Occidente stanno spingendo gli indiani a intendersi con gli americani. Questione himalayana compresa. Guarda caso, parallelamente alla crescente assertività cinese, nel 2008-09 l’India inizia ad acquistare dall’America velivoli militari da trasporto C-17 e C-130J, da ricognizione P-8I e nel 2015 elicotteri Ch-47 e obici M-777. Analogamente, la riesumazione del Quad a trazione americana coincide nel 2017 con la crisi del Doklam, con la visita del Dalai Lama a distanza di anni a Tawang e al palazzo presidenziale a Delhi. Mentre nel 2018 viene formalizzato il dialogo strategico bilaterale nel formato 2+2 (ministri degli Esteri e della Difesa) e nel 2019 viene frmato l’accordo militare Comcasa. Dopo lo scontro nel Ladakh del 2020 nuovo cambio di passo: si tiene il primo vertice Quad a T§ky§ (cui seguirà l’anno successivo la prima riunione a livello di leader), l’Australia è riammessa alle esercitazioni Malabar e viene siglato un altro fondamentale accordo militare (Beca) con gli Usa. Come riassume il documento declassifcato dall’amministrazione Trump a fne 2021, Washington intende accelerare l’ascesa dell’India affnché questa funga da «fornitore di sicurezza regionale e major defense partner», assicurandole sostegno militare, diplomatico e informativo «per affrontare sfde continentali come la disputa di confne con la Cina». Così nel 2019 l’ambasciatore americano in India viene invitato al Tawang Festival, visita che Alice Wells, assistente segretario di Stato per l’Asia meridionale, descrive quale evidenza del «supporto risoluto degli Usa alla sovranità indiana». Nel 2020 viene poi sanzionato il Tibetan Policy and Support Act, il quale stabilisce che l’autorità ultima in materia di successione del Dalai Lama è la leadership spirituale tibetana. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
IL CONFINE SINO-INDIANO
LA GUERRA CONTINUA
Sotto Biden la musica non cambia. Nel 2022 la speaker della Camera Nancy Pelosi ha ricevuto a Washington il capo del governo tibetano in esilio Penpa Tsering e dopo gli scontri del dicembre 2022 Donald Lu, successore di Wells, ha criticato apertamente le mosse della Cina alle frontiere, affermando che «non abbiamo visto la Repubblica Popolare fare passi in buona fede per risolvere il confitto. Piuttosto il contrario, abbiamo visto mosse aggressive, da ultimo negli Stati dell’India nord-orientale». L’India sta cercando di recuperare il terreno perduto nei confronti della Repubblica Popolare. Di questo lavorio è emblematico l’Arunachal Pradesh, che compare nelle mappe ferroviarie solo nel 2014, ben 67 anni dopo l’indipendenza. Qui sono state costruite e sono in costruzione linee ferroviarie e stradali (oltre tremila chilometri nello scorso quinquennio), aeroporti ed eliporti. Particolarmente rilevante la Transarunachal Highway, ad oggi completata al 60%, che parte dall’ultimo avamposto settentrionale indiano (Dhola) nell’area di Tawang per giungere a Kanubari. Come pure la Arunachal Frontier Highway, che correrà lungo la linea McMahon. Trasformando l’Arunachal Pradesh tradizionalmente negletto, per motivi economici e perché i governi indiani temevano che lo sviluppo infrastrutturale del Nord-Est indiano avrebbe agevolato i cinesi nel caso di un’aggressione. Tale politica ha subìto una revisione nell’ultimo ventennio ma è soltanto da metà anni Dieci che i progetti hanno vissuto un abbrivio. Nel novembre 2022, a Itanagar (capitale dell’Arunachal Pradesh) Modi ha dichiarato che il governo «considera i villaggi delle aree di frontiera come i primi villaggi del paese» e che il Nord-Est dell’India è all’alba di un’èra di speranza e opportunità. Messaggio diretto alla popolazione locale quanto ai cinesi. Sempre nell’Arunachal Pradesh, lo scorso 3 gennaio il ministro della Difesa Singh ha inaugurato il ponte sul fume Siyom, affuente del Brahmaputra, insieme ad altre 27 infrastrutture strategiche dislocate tra Ladakh, Jammu e Kashmir, Arunachal Pradesh, Sikkim, Punjab, Uttarakhand e Rajasthan. Tutti Stati e Territori dell’Unione che confnano con Cina e Pakistan. Come hanno reso noto fonti del dicastero della Difesa indiano dopo gli scontri di Tawang, «Pechino dovrà imparare ad accettare strade e ferrovie indiane vicino alla Lac». Anche il Ladakh è al centro di progetti che, per esempio, hanno portato in dote nell’ultimo biennio infrastrutture per ospitare 20 mila uomini e 450 mezzi di terra a ridosso della frontiera. Espulsi da mille chilometri quadrati nel Ladakh tre anni fa – pressoché sulla linea rivendicata nel 1959 da Pechino, mai riconosciuta da Delhi – gli indiani si sentono sempre più sotto pressione anche nei quadranti centrale e orientale della frontiera. Quanto impone di spingere sull’acceleratore dell’ammodernamento militare. L’India è attualmente il terzo paese per spese belliche, stando al Sipri raddoppiate tra 2011 e 2021. Spese che tuttavia sono mal ripartite e lontane da quelle cinesi (circa un terzo). Il problema, accentuato dalle operazioni di Mosca in Ucraina, è anzitutto la dipendenza dalle forniture russe. Perciò l’India punta sia a diversifcare le importazioni, sfruttando soprattutto i rapporti con Usa, Francia e Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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PECHINO CONTRO DELHI: L’ETERNA SFIDA SUL TETTO DEL MONDO
Israele, sia a strutturare l’industria della difesa domestica. Due obiettivi che rischiano di rallentare la rincorsa al nemico cinese. Problema che fa il paio con la retorica governativa, che per salvaguardare l’aura di uomo forte di Modi ha portato quasi il 70% degli indiani (sondaggio Stimson del 2022) alla convinzione di sconfggere la Repubblica Popolare in caso di guerra. Gli indiani sanno bene che slogan come quello recitato dal ministro degli Esteri cinese durante la sua prima visita in India dopo due anni, per cui la Cina rispetta il «tradizionale ruolo regionale dell’India», sono destinati a restare lettera morta. E infatti già nel 2014 l’allora capo della diplomazia indiana Sushma Swaraj asseriva senza mezzi termini che «perché l’India acconsenta alla politica “una sola Cina”, la Cina deve riaffermare la sua politica “una sola India”». L’inverno dei rapporti sino-indiani è comprovato dal fatto che sono ormai quindici anni che tale formula diplomatica non compare nei comunicati uffciali indiani. Come anche dal trattamento riservato da Delhi al Dalai Lama, cui ad esempio la scorsa estate è stato concesso l’utilizzo di un velivolo dell’Aeronautica pochi giorni dopo la visita di Pelosi a Taiwan che ha scatenato la quarta crisi dello Stretto. Il sentire anticinese è ormai trasversale allo spettro politico indiano, tanto che Modi ha subìto critiche riguardo al suo approccio alla Cina sia per bocca del leader del Partito del congresso Rahul Gandhi sia delle frange hindutva più estremiste. Ed è diffuso anche tra la popolazione, come dimostra un recente sondaggio che rileva come il 58% degli indiani abbia ridotto l’acquisto di prodotti Made in China e il 59% dismesso applicazioni cinesi, di cui centinaia messe al bando dal governo dopo il 2020. Da ultimo, il servizio di intelligence interno ha creato un dipartimento (China Coordination Centre) incaricato di collaborare con gli altri apparati per investigare sulle aziende cinesi che operano in India al fne di plasmare l’opinione pubblica, penetrare il tessuto economico, acquisire e trafugare dati privati e industriali. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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5. La crisi himalayana è diffcilmente sanabile non solo perché l’area ha per India e Cina rilevanza strategica ma soprattutto perché è funzione degli equilibri geopolitici in feri nell’Indo-Pacifco. A eccezione del breve confitto del 1962, storicamente tra i due giganti asiatici non si sono verifcati scontri signifcativi. E benché oggi i due eserciti si provochino sulle vette dell’Himalaya, Pechino e Delhi hanno evitato un’escalation di cui l’unica vincitrice sarebbe l’America. Tuttavia i ramoscelli d’ulivo retorici non hanno prodotto risultati sostanziali. Proprio perché la rivalità è fglia delle rispettive traiettorie nazionali e della sfda tra la superpotenza a stelle e strisce e il suo principale sfdante. E infatti, mentre i cinesi invitano gli indiani a non cadere nella «trappola geopolitica» tesa dagli americani e a normalizzare i rapporti bilaterali al netto della questione dei confni, Delhi pone come precondizione la restaurazione dello status quo ante alle frontiere. Tema verso cui fnora la Cina non ha dato segno di nutrire alcun interesse. Anzi, la questione viene usata per ricordare all’India chi sia attualmente in posizione di forza, per indurla a più miti consigli.
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Gli indiani non intendono piegarsi ad alcuno. Ma a differenza della Repubblica Popolare l’America offre loro un ruolo rilevante nell’ordine indo-pacifco. Semplicemente, nell’ultimo quindicennio Pechino si è rifutata di trattare il vicino su un piano di parità. L’India ha dunque rinsaldato la convergenza con gli Usa e i suoi soci indo-pacifci, su tutti il Giappone, ma anche europei, a partire dalla Francia. Per formare un deterrente contro la Cina ma soprattutto per alimentare il suo sviluppo, sia in termini civili sia militari. Dandosi tempo e modo di acquisire le capacità necessarie a competere con Pechino (e non solo). Anche ai confni, riducendo il gap infrastrutturale e bellico accumulato nell’ultimo ventennio. La sfducia reciproca, nel quadro della fuidità geopolitica globale, sarà la cifra del nuovo modus vivendi tra Cina e India.
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‘ROCKET MAN’ SI TIENE STRETTI MISSILI E BOMBE
di Riccardo
BANZATO
Che P’y$ngyang rinunci al programma nucleare in cambio di aiuti economici è irrealistico. Atomiche e vettori sono la polizza sulla vita dei Kim. I precedenti storici. Le ombre cinesi e giapponesi. L’audace iniziativa di Yoon resterà sulla carta.
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1. L 27 APRILE 2018 MOON JAE-IN, presidente della Repubblica di Corea (Corea del Sud) cammina mano nella mano con Kim Jong-un, leader supremo della Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord) attraverso la Linea di demarcazione militare stabilita in seguito all’armistizio del 27 luglio 1953, confne di fatto che divide le due Coree da allora. L’incontro riporta alla memoria di precedenti che tanto fecero sperare in un riavvicinamento tra le due realtà politiche sorte a cavallo del 38° parallelo. Il primo rimanda al giugno 2000 quando, durante il summit tenutosi dal 13 al 15 giugno, il presidente sudcoreano Kim Dae-jung incontra l’allora leader nordcoreano Kim Jong-il, padre dell’attuale. Inedito faccia a faccia tra rispettivi leader dalla divisione della penisola tenutosi a P’y$ngyang. Il secondo riecheggia quello storico incontro, di cui è fglio. Roh Moo-hyun, successore alla Casa Blu (sede del governo sudcoreano) di Kim Dae-jung, incontra Kim Jong-il di nuovo nella capitale nordcoreana nell’ottobre 2007. Una visibile differenza tra il vertice del 2018 e i due precedenti è il luogo: per la prima volta viene scelto il lato sudcoreano di Panmunj$m, villaggio al confne delle due Coree dove venne frmato l’armistizio e che da allora, per metonimia, è identifcato come Area di sicurezza congiunta. La scelta segue un commento fatto nel giugno 2000 dal sudcoreano Kim Dae-jung, allora 17 anni più vecchio dell’omologo nordcoreano, il quale fece notare come spettassero al più giovane l’onere e la responsabilità di visitare il più vecchio. Nell’etica confuciana, fondamento della cultura coreana classica e – a mio parere – moderna, pietà fliale e rispetto per gli anziani sono tra i pilastri che reggono prassi, riti e comportamenti sociali. Sarebbe stato dunque appropriato per il leader nordcoreano contraccambiare la visita. Nell’aprile 2018 Kim Jong-un diventa così il primo leader del Nord a visitare il Sud dai tempi della guerra di Corea. Moon fa il primo passo e stringe la mano a Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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Kim Jong-un, chiedendo quando avrà la possibilità di visitare la Corea del Nord. «Perché non ora?», risponde sornione Kim che lo prende per mano e lo porta ad attraversare la linea di demarcazione dove insieme i due leader ripetono più volte un rito di passaggio nel territorio altrui. Secondo molti osservatori, è un momento di profonda rilevanza storica e pregno di simbologia, signifcato e aspettative per un futuro di riconciliazione tra due paesi in guerra da oltre sessant’anni. Molti videro nella visita di Kim Jong-un la prova che il giovane leader fosse diverso da padre e nonno, che avesse la seria intenzione di aprire il Nord a una genuina cooperazione con il Sud. La giovane età, l’aver frequentato scuole svizzere, la partecipazione della delegazione olimpica nordcoreana alle Olimpiadi invernali di P’y$ngchang sotto lo sguardo di Kim Yo-jong – potente e fdata sorella del leader, presente alla cerimonia di apertura – sembravano delineare una nuova èra nelle relazioni intercoreane. Gli atleti del Nord e del Sud marciarono insieme all’apertura dei Giochi e una squadra mista di hockey femminile prese parte alla competizione. Artisti nordcoreani, tra cui l’orchestra Samjiy$n, poterono esibirsi e la nave Man Gyong Bong 92 che li trasportò fu la prima imbarcazione nordcoreana ad approdare nella Repubblica di Corea dal 2002. Il primo aprile gruppi di k-pop sudcoreano portarono a P’y$ngyang una rappresentazione dal titolo La primavera sta arrivando, a indicare la speranza di una nuova stagione tra le due Coree dopo un lungo inverno di astio e provocazioni. Il concerto si svolse sotto gli occhi entusiasti di Kim Jong-un e moglie; le performance che seguirono, a cui parteciparono oltre 150 artisti sudcoreani, furono le prime ospitate in Corea del Nord dal 2005. La consueta propaganda reciprocamente denigratoria, da ambo i lati, fu sospesa e il «telefono rosso» tra Seoul e P’y$ngyang, muto da quasi due anni, fu ripristinato per facilitare le comunicazioni fra i governi. Tutto questo aiutò a spianare il terreno per il vertice del 2018. La dichiarazione conclusiva suonava forse troppo ottimistica nei toni e negli intenti per essere realistica, soprattutto a fronte della situazione geopolitica in Asia orientale. I due paesi si impegnavano infatti a cessare le ostilità e a frmare un trattato di pace che sostituisse l’armistizio del 1953. La guerra di Corea sarebbe terminata uffcialmente di lì a un anno. Ancor più audace la promessa di collaborare per raggiungere in tempi brevi la riunifcazione della penisola e la sua denuclearizzazione, cominciando dalla cessazione di tutte le attività militari lungo la fascia di confne. Al summit seguirono varie riunioni ad alto livello e un ulteriore incontro (26 maggio) tra i due leader, per preparare quello tra Kim Jong-un e il presidente americano Donald Trump. Tale incontro ebbe luogo il 18 giugno a Singapore e sebbene già emergesse l’inconciliabilità delle posizioni di Nord e Sud, che determinerà il fallimento dei negoziati al summit di Hanoi del febbraio 2019, il vertice Kim-Trump fu celebrato dal governo (sudcoreano) di Moon come un grande successo. Cinque giorni dopo Seoul sospendeva le esercitazioni militari con Washington previste a settembre, da sempre motivo di nervosismo e rappresaglie da parte di P’y$ngyang. In agosto viene organizzato un incontro sul monte Kumgang, in Corea del Nord, tra le famiglie divise dall’armistizio del 1953, mentre a settembre Kim ospita Moon a P’y$ngyang e promette di Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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INFRASTRUTTURE STRATEGICHE IN COREA DEL SUD Linea del cessate-il-fuoco
Sokcho
Diga della Pace KYONGGI Pa’ju Jnch’on
Ch’unch’ŏn
Seoul Suwŏn Yongin
P’yŏngt’aek Ch’ŏnan Asan CH’UNGCH’ŎNG MERIDIONALE
Kangnŭng KANGWON Wŏnju P’yŏngch’ang
Diga Ch’ungch’ŏng CH’UNGCH’ONG SETT. Andong Ch’ŏngju Sejong Taejŏn
Hanul (Uljin)
M a r e d el l’ E st
KYONGSANG SETTENTR. P’ohang
COREA DEL SUD M a r Gi a l l o Chŏnju
CHŎLLA SETT. KYŎNGSANG MERID.
Hanbit (Yŏnggwang)
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Ch’angwŏn Kwangju Chinju CHŎLLA MER. Mokp’o
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Impianti nucleari Aeroporti Dighe Ferrovie ad alta velocità
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Cheju City CHEJU
Città a statuto autonomo
GI A PP ON E
prendere in considerazione lo smantellamento del suo arsenale nucleare. Ma come sempre i segnali di apertura nordcoreani vengono fraintesi, con una visione eccessivamente ottimistica che non tiene conto della situazione geopolitica regionale. 2. L’arsenale atomico di P’y$ngyang è l’unico sicuro deterrente che ha Kim per scoraggiare attacchi da parte di potenze ostili nell’area e oltreoceano. L’idea che il leader nordcoreano vi rinunci è irrealistica e non coglie i processi logico-razionali che muovono le scelte strategiche di qualsiasi leader al comando del paese. Con grande scorno del governo Moon, nell’estate 2019 P’y$ngyang conduce una nuova serie di test missilistici e l’anno successivo taglia di nuovo tutte le linee di comunicazione con Seoul. Il 13 giugno le fervide speranze di ripristinare un fruttuoso dialogo intercoreano vengono seppellite dalle macerie dell’Uffcio per le relazioni tra i due paesi, ubicato a Kaes$ng, fatto brillare dal regime nordcoreano. L’avvento del Covid-19, nell’inverno dell’anno successivo, rilega il dialogo con il Nord in fondo all’agenda politica di Moon. Nel maggio 2022 termina il mandato quinquen-
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nale del presidente sudcoreano e le successive elezioni portano alla Casa Blu il conservatore Yoon Suk-yeol. Nell’agosto 2022, a tre mesi dall’insediamento, Yoon Suk-yeol mostra il suo approccio alla questione nordcoreana con l’«audace iniziativa», strategia mirante alla graduale denuclearizzazione della penisola. Sulle orme di molti suoi predecessori d’orientamento conservatore, Yoon propone a P’y$ngyang aiuti economici in cambio della progressiva rinuncia all’arsenale nucleare. L’approccio denuncia una volta di più la profonda incomprensione delle priorità di P’y$ngyang. Per quanto disperato sia il bisogno di aiuti, vista la disastrosa situazione economica con cui il Nord versa da anni, la dinastia Kim non intende mettere a repentaglio in alcun modo la sopravvivenza propria e del regime. Lo sviluppo economico è di grande rilevanza, ma è subordinato alla preservazione del regime e della nazione e in tal senso l’unica vera garanzia per P’y$ngyang è la deterrenza nucleare. Da qui la secca risposta della ieratica Kim Yo-jong alle profferte del Sud: «Non tutto può essere scambiato o negoziato. Pensare di barattare la cooperazione economica con il nostro onore, l’arma nucleare, è il grande sogno, la speranza, il piano di Yoon. Un piano semplicistico e infantile. Nessuno è disposto a scambiare il proprio destino per un pezzo di torta di mais». Kim Yo-jong affda queste parole a un comunicato stampa del 18 agosto 2022 intitolato «Non avere sogni assurdi», replica al discorso commemorativo pronunciato da Yoon tre giorni prima per il giorno della Liberazione (dalle truppe del Nord). Il 2022 ha visto un record di lanci missilistici da parte del regime nordcoreano: ne sono stati contati 65. Yoon ha ribadito di voler rafforzare l’alleanza militare con gli Stati Uniti e ha condannato i test missilistici di Kim, rifutando qualsiasi compromesso in merito. Dalla fne degli anni Novanta i governi di Seoul, conservatori e liberali, hanno tentato invano di indurre P’y$ngyang ad abbandonare il programma di sviluppo dell’arma nucleare. Storicamente i governi di stampo liberale, come quelli di Kim Dae-jung (1998-2003), Roh Moo-hyun (2003-2008) e Moon Jae-in (2017-2022), hanno scelto di offrire aiuti economici ed umanitari incondizionati, come segno distensivo e viatico di dialogo. Gli esecutivi conservatori di Lee Myungbak (2008-2013) e Park Geun-hye (2013-2017) hanno invece vincolato gli aiuti alla verifcabile limitazione o sospensione del programma missilistico e nucleare nordcoreano. Considerando che dal 2006 P’y$ngyang ha condotto sei test nucleari (2006, 2009, 2013, gennaio e settembre 2016, 2017), pare evidente lo scarso interesse dei Kim per qualsivoglia compromesso in materia. Il possesso di un arsenale atomico era, è e resterà il pilastro della politica di sicurezza nordcoreana. L’«audace iniziativa» non porta dunque nulla di nuovo. Essa ricalca la politica di Lee Myung-bak fnalizzata a riequilibrare lo sviluppo economico delle due Coree tramite cospicui aiuti di Seoul in cambio della rinuncia all’arsenale atomico di Pyongyang. Nell’approccio politico di Yoon emerge lo iato con il precedente governo Moon, che ha sempre favorito posizioni più morbide e di compromesso cercando anzitutto di instaurare e mantenere il dialogo con il leader nordcoreano. Esempio della politica di Yoon è la ripresa delle esercitazioni militari con gli Stati Uniti nelle zone di confne, tra i fattori scatenanti le rappresaglie nordcoreane sotto forma di Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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INFRASTRUTTURE STRATEGICHE IN COREA DEL NORD Aeroporti Dighe Ferrovie
F E D. RU S SA
Hoeryŏng HAMGYŎNG SETT.
CINA
Sŏnbong Rajin
Cheongjin Diga Yunfang
Hyesan
Man’po Kanggye Ch’osan
Shinŭiju
RYANGGANG
Kimch’aek
CHAGANG
Diga Supung Diga Taipingwan
HAMGYŎNG MERID. COREA Hamhŭng D E L N O R D P’YŎNGAN
Tanch’ŏn
SETT.
Anju Mar Giallo
P’YŎNGAN MERID. P’yŏngyang
Namp’o HWANGHAE MER.
HWANGHAE SETT.
Sariwŏn
Mare dell’Est Wŏnsan
Goseong
KANGWŎN Diga Imnam
Linea del cessate-il-fuoco
Diga Hwanggang
Haeju Kaesŏng
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Seoul
38° parallelo
COREA DEL SUD
test missilistici. Yoon non manca di sottolineare come questi test rappresentino una minaccia non solo per Seoul, ma anche per T§ky§ e Washington, a conferma che nella sua visione strategica il contenimento di P’y$ngyang passa per l’allineamento con lo storico alleato statunitense, ma anche con il Giappone. Il fatto che il Nord abbia testato anche missili a lungo raggio in grado di colpire le basi americane nel Pacifco e che diversi vettori abbiano sorvolato lo spazio aereo giapponese rafforza nei due alleati di Seoul la convinzione che Moon abbia ragione. Nel dicembre 2022 cinque droni nordcoreani hanno violato – primo caso dal 2017 – lo spazio aereo sudcoreano per almeno cinque ore, fno a raggiungere (sembra) la zona Nord di Seoul dove si trova la dimora presidenziale. L’incapacità delle Forze armate sudcoreane di abbatterli e di rispondere prontamente all’intrusione ha evidenziato la vulnerabilità del Sud ad attacchi non convenzionali e ha dimostrato che P’y$ngyang, malgrado le disastrose condizioni economiche, resta militarmente temibile e capace di colpire inaspettatamente con i mezzi più disparati. Yoon ha pertanto ordinato di creare una nuova unità militare operante con droni e di rafforzare le difese contro questo genere di armi, affnché la nazione «si prepari a una guerra con superiorità schiacciante» con l’obiettivo di pacifcare la penisola e l’area limitrofa.
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3. Oggi le prospettive di un disgelo tra le due Coree paiono quantomeno aleatorie. La situazione è di nuovo estremamente tesa, le provocazioni in campo propagandistico ma soprattutto militare sono continue. Il fallimento di Seoul nell’indurre P’y$ngyang ad abbandonare il nucleare vanno ricercati, come visto, in fattori strutturali e come tali diffcilmente modifcabili. Le testate nucleari non servono ai Kim solo come deterrente contro possibili tentativi di rimozione del loro regime da parte (in particolare) di Washington o Seoul, ma anche a scoraggiare possibili colpi di mano da parte cinese. Nelle analisi statunitensi ed europee la percezione reciproca di Cina e Corea del Nord è spesso fraintesa. Sebbene in passato i due paesi abbiano condiviso il canone comunista e il comune nemico capitalista, la convivenza non è mai stata facile e P’y$ngyang ha tentato costantemente di escludere, o quantomeno di attenuare, l’ingerenza cinese oltre il fume Yalu che segna il confne tra i due paesi. I libri di storia ci ricordano come in tempi antichi le dinastie imperiali cinesi abbiano cercato di incorporare, o almeno di controllare, i sovrani coreani. Da quando Mao fonda la Repubblica Popolare nell’ottobre 1949, Pechino ha tentato a più riprese di limitare autonomia e indipendenza nordcoreane, promovendo una relazione di dipendenza. Nell’etica confuciana comune ai due paesi il fratello minore ha il dovere di ascoltare e rispettare il maggiore, ma il Grande timoniere e i suoi gli eredi hanno sempre cercato in P’y$ngyang un fratellino mite e disciplinato. Viste le mire di Xi Jinping nel Mar Cinese Meridionale e verso Taiwan, Kim punta invece i propri missili non solo verso est e sud ma anche verso ovest e nord. La Corea del Nord si vede dunque circondata da paesi ostili o potenzialmente tali. Nel 2023 il Giappone aumenterà la spesa militare del 26% e cerca da anni di rivedere la propria costituzione per svincolarsi dal pacifsmo impostogli dall’America nel 1945. Anche in questo caso, i manuali di storia ricordano ai nordcoreani i tempi non troppo lontani (1910-1945) in cui l’impero del Sol Levante occupò l’intera penisola coreana, facendone una colonia. Più di recente altri eventi – segnatamente il rovesciamento dell’iracheno Saddam Hussein nel 2003 a opera degli Stati Uniti e del libico Gheddaf nel 2011 da parte di una zelante coalizione euro-statunitense – hanno evidenziato a P’y$ngyang come sia poco prudente rinunciare al programma nucleare. Fidarsi è bene, non fdarsi è molto meglio. Da ultimo l’invasione dell’Ucraina (priva di arsenale nucleare) da parte della Russia, che di atomiche ne ha in abbondanza, ha rafforzato in Kim e nei suoi generali la convinzione che solo il deterrente nucleare può assicurare la sopravvivenza e la sicurezza del regime. Fatto salvo un rivolgimento della situazione geopolitica in Asia orientale, nessun aiuto economico – per quanto cospicuo – farà cambiare idea al leader nordcoreano. P’y$ngyang continuerà a perseguire il programma nucleare, rafforzandolo ed ampliandolo, anche a costo di sacrifcare un’economia già a pezzi e una popolazione malnutrita che da anni vive di stenti e ogni giorno deve far fronte all’incubo di una persistente, eterna inedia. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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LA GUERRA CONTINUA
LEUROPA PARLA INGLESE PER FAR FINTA DI ESISTERE
CIRILLO Il multilinguismo europeo è un dato di fatto, ma gli slogan di Bruxelles sono sempre in inglese. La lingua di Shakespeare come maschera per interessi di parte. O come surrogato di esistenza e neutralità dell’Unione. La passività italiana. di Elio
C
1. ON L’ESPRESSIONE «MULTILINGUISMO europeo» ci si riferisce alla pluralità di lingue che vengono parlate nel Vecchio Continente. Da questo dato di fatto può essere derivata quella che chiameremo «politica del multilinguismo», in virtù della quale la pluralità di lingue non è semplicemente constatata come «fatto», ma proposta come «valore» da promuovere normativamente. In generale, l’obiettivo del multilinguismo è tenere vivo il proliferare di una ricca molteplicità di codici di comunicazione, cercando di tenere allenata la capacità degli individui di servirsi di lingue diverse per comunicare e comprendersi. In tutti i report europei sul tema del multilinguismo si insiste infatti sull’importanza di una società quanto più possibile ricca di competenze linguistiche differenziate. Ma c’è anche una terza accezione del termine. Il multilinguismo europeo può anche designare una «pratica istituzionale» oggettiva, per cui è d’obbligo che tutti i trattati e i documenti legislativi – nonché la Gazzetta Uffciale – siano tradotti nelle lingue uffciali degli Stati membri. Inoltre, la traduzione simultanea in tutte le lingue uffciali dell’Unione durante i dibattiti in parlamento deve sempre essere garantita 1. Il multilinguismo è quindi un «fatto oggettivamente osservabile», uno «scopo da perseguire» e una «pratica istituzionale» consolidata. I vantaggi, i problemi e le conseguenze del multilinguismo nel Vecchio Continente sono discussi da decenni. Il dibattito, di gran complessità giuridico-flosofca, si è fatto particolarmente caldo a partire dal 2002, quando la questione linguistica fu affrontata dal Consiglio europeo di Barcellona. In quell’occasione si iniziarono a delineare politiche linguistiche comuni, attraverso la creazione di un quadro europeo di riferimento per le lingue e l’introduzione dell’insegnamento «di almeno Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
1. Art. 167 del regolamento del Parlamento europeo.
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due lingue straniere sin dall’infanzia» 2. Rapidamente, il tema divenne oggetto di dibattito, fno a quando – in occasione dell’Anno europeo del dialogo interculturale (2008) – la Commissione istituì un Gruppo di intellettuali per il dialogo interculturale 3, incaricato di defnire il contributo del multilinguismo. La Commissione avvertiva infatti un predominio sregolato della lingua inglese, accresciutosi enormemente sul fnire degli anni Novanta. È proprio per rispondere a questo predominio che venne avviata una profonda ridiscussione delle politiche linguistiche comunitarie. Lo sforzo, teso a valorizzare le lingue uffciali di ciascuno Stato membro, ha sollevato negli anni gli scetticismi di diverse voci dell’opinione pubblica, anche perché ha un costo burocratico non indifferente: si stima che l’Ue spenda ogni anno 1,1 miliardi di euro per servizi di traduzione e interpretariato. A oggi, essendosi defnitivamente consumato il Brexit, molti intellettuali consigliano all’Ue di usare l’inglese come lingua di comunicazione preferenziale. Alcuni propongono addirittura di renderla lingua uffciale dell’Unione. I sostenitori del multilinguismo – come fatto, scopo e pratica istituzionale – si scontrano dunque con i fautori della lingua franca, specifcamente inglese. Ma, oltre alle questioni legali ed economiche, la questione ha anche un risvolto geopolitico: è possibile leggere lo stato attuale dell’Unione Europea e i rapporti di forza interni all’Ue attraverso il prisma del «multilinguismo». Alcune osservazioni potranno anche permetterci di comprendere la percezione che l’Italia ha di sé stessa quale membro dell’Unione. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. La diversità linguistica e culturale è un elemento costitutivo, difeso come valore e rispecchiato nella pratica istituzionale, che caratterizza la Cee sin dalla sua nascita. L’importanza attribuita alla questione linguistica si evince dalla formulazione dell’articolo 217 del trattato di Roma del 1957 4: «Il regime linguistico delle istituzioni della Comunità è fssato (…) dal Consiglio, che delibera all’unanimità». I negoziati del Consiglio hanno dato origine al regolamento 1/1958 nel quale, all’articolo 1, si legge che le lingue «uffciali» e le lingue «di lavoro» delle istituzioni dell’Unione devono essere l’olandese, il francese, il tedesco e l’italiano, ovvero le lingue uffciali dei sei Stati fondatori. Con l’allargamento dell’Unione, le lingue di tutti i nuovi membri sono state progressivamente aggiunte. A oggi, le lingue europee uffcialmente riconosciute, per cui è dunque prevista traduzione simultanea nelle sedute del parlamento, sono 24 5. Il multilinguismo inteso come pratica istituzionale prevede inoltre che tutti i trattati e i documenti
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2. Cfr. «Conclusioni della presidenza, Consiglio europeo di Barcellona (15 e 16 marzo 2002)», p. 19, § 44 punto 2. 3. G. TAVONI, «Il Multilinguismo: ostacolo o vantaggio?», Giornale di informazione sociale, 22/5/2014. 4. Corrispondente all’attuale articolo 342 del Tfue. 5. Bulgaro, ceco, croato, danese, estone, fnlandese, francese, greco, inglese, irlandese, italiano, lettone, lituano, maltese, olandese, polacco, portoghese, rumeno, slovacco, sloveno, spagnolo, svedese, tedesco e ungherese.
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legislativi siano tradotti nelle 24 lingue. L’impresa è notevole, nonché unica. Organizzazioni sovranazionali come l’Onu o la Nato, ad esempio, hanno selezionato un numero limitato di idiomi da usare all’interno dei propri apparati: la prima ha selezionato sei lingue 6, a fronte di 193 Stati facenti parte, la seconda soltanto due 7. Tale scelta è stata fatta nonostante la Nato sia linguisticamente «più estesa» dell’Ue, includendo sotto la sua egida un paese come la Turchia. Ma torniamo al regolamento 1/1958. Fondamentale è l’articolo 2, in cui si afferma che i cittadini dell’Ue hanno il diritto di comunicare con qualsiasi istituzione usando una lingua uffciale di loro scelta e hanno il diritto di ricevere risposta nella medesima lingua. Sullo stesso punto insiste anche il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue) all’articolo 20 (paragrafo 2 punto d), in cui viene sancito che i cittadini dell’Unione hanno «il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo, di ricorrere al Mediatore europeo, di rivolgersi alle istituzioni e agli organi consultivi dell’Unione in una delle lingue dei trattati e di ricevere una risposta nella stessa lingua». È evidente che i diritti sanciti in queste righe abbiano lo scopo di difendere e incoraggiare l’attiva partecipazione dei cittadini al progetto europeo, evitando che si interpongano discriminazioni di tipo linguistico. Il regolamento 1/1958 prescrive inoltre che i regolamenti e gli altri documenti di carattere generale debbano essere pubblicati in ciascuna delle lingue uffciali (articolo 4) e che lo stesso provvedimento debba applicarsi alla Gazzetta Uffciale dell’Unione Europea (articolo 5). È chiaro dall’articolo 5 come l’intenzione dei legislatori dell’Ue fosse quella di permettere a tutti i cittadini di essere a conoscenza delle attività delle istituzioni. Tuttavia, se si vogliono capire le ragioni profonde del multilinguismo come pratica istituzionale, bisogna leggere le due righe più rilevanti in materia, poste paradossalmente a chiosa del regolamento stesso: «Il presente Regolamento è obbligatorio in tutti i suoi elementi e “direttamente applicabile” in ciascuno degli Stati membri». Questa conclusione contiene la ragione implicita della difesa del multilinguismo come «pratica istituzionale». I regolamenti e alcune norme comunitarie sono infatti «direttamente applicabili» all’interno degli ordinamenti degli Stati membri: essi non vincolano semplicemente i governi di quegli Stati – come succede per gli ordinamenti Onu o di altre organizzazioni internazionali – ma anche i singoli cittadini e tutti i residenti sul territorio dell’Ue. Sovrapponendosi alle leggi interne dei singoli Stati 8 e scalzandole in caso di confitto. Ora, se tutti gli atti dell’Ue non venissero redatti nelle 24 lingue uffciali indicate dall’articolo 55, n. 1 Tue, ci si troverebbe nella situazione in cui un cittadino, assoggettato a una legislazione direttamente applicabile a lui, sarebbe titolare di diritti e doveri espressi in una lingua che potrebbe risultargli incomprensibile. Si potrebbe pensare di redigere tutti i documenti in inglese, lingua globale per eccelCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
6. Francese, inglese, spagnolo, cinese, russo, arabo. 7. Inglese e francese. 8. Cfr. U. DRAETTA, Elementi di diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale, ordinamento e struttura dell’Unione Europea, Milano 2009, Giuffrè, pp. 282-283.
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lenza. Ma questa soluzione – visto che, ad esempio, l’86,6% degli over-65 italiani non conosce l’inglese 9 – appare totalmente insoddisfacente. Tradurre è dunque una condizione necessaria affnché tutti siano messi nella condizione di capire, per poter rispettare e benefciare della legislazione europea. Una seconda ragione per sostenere il multilinguismo come pratica istituzionale riguarda il principio di trasparenza del processo decisionale. All’articolo 1, comma 2 del Trattato sull’Unione Europea è richiesto che le decisioni nell’ambito dell’Ue vengano prese «nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini». Perché ciò sia garantito, i diversi organi comunitari devono impegnarsi a minimizzare l’impatto negativo dovuto a eventuali ostacoli linguistici. Questi pregiudicherebbero infatti la comprensione del materiale cui si ha diritto di accesso per vigilare sul lavoro delle istituzioni 10. La terza ragione riguarda il concetto di «democraticità». I cittadini, infatti, non solo possono votare, ma possono anche candidarsi alle elezioni europee. Se l’inglese diventasse la lingua uffciale dell’Ue e non fosse conseguentemente più garantita la traduzione simultanea durante le sedute del parlamento, una fetta enorme della popolazione europea diverrebbe ineleggibile de facto – per insuffcienti competenze linguistiche – mentre i cittadini di un paese anglofono (come l’Irlanda) sarebbero avvantaggiati. Perché la democraticità delle istituzioni rimanga intatta, dunque, coloro che vengono eletti devono essere in grado di svolgere i compiti cui sono stati demandati indipendentemente dalla conoscenza delle lingue straniere. In questo contesto, il multilinguismo funge da garante dei valori democratici dell’Ue e, in particolare, del Parlamento europeo. Fra i più rilevanti documenti in cui si sottolinea l’importanza attribuita alla questione del multilinguismo, si devono inoltre ricordare la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea 11 e il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (Tfue). Nella Carta, è l’articolo 21, comma 1 a vietare «qualsiasi forma di discriminazione», fra cui si annoverano esplicitamente quelle fondate sulla lingua; su questa linea battono anche l’articolo 207 § 4 e l’articolo 165 § 2 Tfue, in cui si legge che «l’azione dell’Unione è intesa (…) a sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, segnatamente con l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri». L’obiettivo è chiaro: favorire un maggior scambio e una migliore comprensione reciproca fra cittadini appartenenti a diverse comunità nazionali. L’apprendimento di una lingua personale adottiva 12 va visto in questa luce. Inoltre, le competenze linguistiche aumentano le possibilità di lavorare, studiare e viaggiare in tutta Europa. Vi sono anche vantaggi commerciali ed economici: «Se la società prospera è una società multilingue, un’economia competitiva è un’economia poliglotta» 13, nella quale le imprese europee sono in grado di muoversi con successo Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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9. «L’uso della lingua italiana, dei dialetti e delle lingue straniere», Istat. Report e Ricerche, 2015. 10. Cfr. art. 15, n. 2 e n. 3 (co. 3), Tfue. 11. Art. 22: «L’Unione rispetta la diversità culturale, religiosa e linguistica». 12. Su questo, cfr. Language rich Europe, British Council, Cambridge 2012, Cambridge University Press. 13. Cfr. M. C. LUISE, «Plurilinguismo e multilinguismo in Europa: per una Educazione plurilingue e interculturale», LEA - Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, n. 2/2013, p. 531.
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anche nel mercato mondiale «grazie alle competenze interculturali e plurilingui dei loro addetti» 14. Le competenze linguistiche stimolano la creatività e l’innovazione, promuovendo fessibilità e know-how 15. Senza il multilinguismo come pratica istituzionale, l’idea stessa di «forum europeo» crollerebbe. Esso rappresenta perciò un carattere «sostanziale» dell’Unione. Nonostante ciò, esiste anche un’altra linea di pensiero. In molti, infatti, ritengono che l’uso dell’inglese come lingua uffciale dell’Unione potrebbe ridurre i problemi e garantire una maggiore integrazione. 3. Sono stati gli anni del Brexit a far rinascere il dibattito circa la possibilità di utilizzare l’inglese come lingua uffciale dell’Ue. Tale posizione è stata espressa da diverse personalità di spicco. Per quanto le argomentazioni siano variegate, è possibile suddividerle in due tipologie, a seconda che l’uso dell’inglese venga ritenuto garanzia di maggiore competitività commerciale e di semplifcazione della macchina istituzionale o catalizzatore del processo di formazione dell’identità comune europea. Fra le argomentazioni del primo tipo va inserita quella di Mario Monti 16, che nel 2017 ha affermato che l’adozione dell’inglese come lingua uffciale dell’Ue «aiuterebbe noi europei a diventare più competitivi utilizzando meno lingue». La proposta, sorda al valore sentimentale e identitario che ogni parlante attribuisce alla propria lingua madre, ha anche indispettito un membro dell’ambasciata francese presente all’evento. Del resto, la francofonia è considerata da Parigi utile strumento geopolitico. In generale, la proposta di Monti tradisce un certo economicismo, nella misura in cui subordina di fattori identitari, comunque presenti nell’Unione, a esigenze mercantilistiche. Fra le argomentazioni del secondo tipo si annoverano quelle di Joachim Gauck, Jürgen Habermas e Philippe Van Parijs. Il primo – nel 2013, quando era presidente della Repubblica Federale Germania – ha sostenuto in un discorso sul futuro del progetto europeo che all’Ue manca una lingua franca 17. Introdurla permetterebbe la creazione di un’«agorà europea» in cui le persone riuscirebbero a dialogare alla pari, confrontandosi sui problemi comuni, uscendo dalla propria ottica nazionale. Gauck sembra considerare l’inglese la lingua franca naturale. Nello stesso discorso, appellandosi ai cittadini inglesi, l’ex presidente tedesco afferma che «più Europa non può signifcare un’Europa senza di voi» 18. Sembra qui affacciarsi un’idea romantica, lasciata implicita e semplicemente allusa, secondo cui l’inglese dovrebbe diventare lingua uffciale dell’Unione in virtù del fatto che è culturalmente la più adatta a esprimere i valori universali alla base del progetto europeo. Si affaccia l’idea che la paternità flosofca, culturale, valoriale e politica dell’odierna strutCopia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. P. DALLISON, «Mario Monti: EU should adopt English post Brexit», Politico, 21/11/2017. 17. J. GAUCK «Rede von Bundespräsident zu Perspektiven der europäischen Idee», derbundespräsident. de, 22/2/2013. 18. Ibidem.
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tura dell’Unione Europea sia in gran parte riconducibile all’insostituibile contributo della cultura democratica degli inglesi, incarnatasi nella loro lingua. Sulla questione dell’identità linguistica è intervenuto anche Habermas 19, sostenendo la necessità di individuare una lingua comune europea. La posizione di Habermas è flosofcamente strutturata, perché si basa sull’idea che l’identità culturale non sia presupposta alla discussione pubblica, ma che si formi attraverso quest’ultima. L’adozione di una lingua comune semplifcherebbe la creazione di un’opinione pubblica comunitaria e renderebbe più agevole la formazione di un’identità culturale europea. Quella habermasiana è una posizione impeccabile in abstracto, ma non si cura di proporre una soluzione concreta al quadro in esame. Habermas si esprime infatti a favore dell’inglese come lingua comune tralasciando i problemi pratici che tale scelta comporterebbe. Philippe Van Parijs – flosofo belga che ha molto lavorato sul tema delle giustizia linguistica – sostiene invece che l’inglese sia destinato a trionfare come lingua franca poiché permette di ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. L’inglese è parlato da moltissime persone in tutto il mondo ed è la lingua con cui si produce gran parte della cultura di massa. Se un francese e un italiano si trovassero a comunicare fra loro, per il principio del massimo risultato con il minimo sforzo sceglierebbero di comunicare con la lingua che entrambi conoscono meglio: ovvero l’inglese. Essi continuerebbero dunque ad allenare quella lingua, che si confermerebbe come scelta migliore anche in futuro. Siamo davanti a un meccanismo che si autoalimenta. Van Parijs sostiene, inoltre, che l’Ue dovrebbe profttare di questa dinamica spontanea, soprattutto dopo il Brexit: «L’inglese, infatti, potrà ora rivendicare una nuova neutralità, poiché la sua scelta non sarà più vista come un vantaggio importante per uno dei grandi Stati membri dell’Unione» 20. Ma la proposta di Van Parijs è ben più di un timido invito. Gli europei, a suo dire, dovrebbero «reimpossessarsi» dell’inglese. «Smettiamola di associare l’inglese alla bandiera britannica» 21: l’inglese non è altro che una lingua continentale 22. Scrive Van Parijs con sarcasmo: «Il Brexit è visto da una parte degli inglesi come il modo per concretizzare lo slogan «Give us back our country!». Per noi è una bella occasione per risponder loro, senza privarli di nulla che sia loro: «Give us back our language!» 23. Questa operazione, secondo Van Parijs, consentirebbe dunque di creare la famosa «agorà europea», generando così una più solida identità comune, e permetterebbe di privare l’Inghilterra del suo miglior prodotto, la lingua globale: l’inglese dovrebbe essere utilizzato per perseguire gli obiettivi identitari e di proiezione geopolitica dell’Unione. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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19. J. HABERMAS, «Remarks on Dieter Grimm’s “Does Europe Need a Constitution?”», European Law Journal, n. 3/1995, pp. 303-307. 20. P. VAN PARIJS, Belgium. Une utopie pour notre temps, Bruxelles 2018, Académie royale de Belgique, p. 68. 21. Ibidem. 22. Lingua «imposta con due invasioni consecutive provenienti dal continente europeo, dirette contro la popolazione della più grande delle isole che costeggiano le sue coste», cfr. ibidem. Il riferimento è ovviamente all’invasione sassone del V secolo e alla dominazione normanna dell’isola durante l’XI secolo. 23. Ivi, p. 69.
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Per quanto suggestive, queste proposte sono prive di sostanza e di reale applicabilità. Infatti, non solo il continente europeo è fondato sulla diversità culturale e linguistica (multilinguismo come «fatto»), ma la struttura democratica dell’Unione necessita del multilinguismo (come «pratica istituzionale»). È per questo che il multilinguismo deve essere considerato come un valore da promuovere («scopo»). Inoltre, un approccio multilingue può generare un vantaggio competitivo in termini di fessibilità, know-how e possibilità di aprirsi verso nuovi mercati. Esso potrebbe infatti donare all’Unione proiezione geopolitica in scenari remoti, che tuttora parlano lingue europee diverse dall’inglese. 4. Dal piano normativo, tuttavia, siamo ora chiamati a scendere al piano fattuale. Sebbene enunciato come principio, il multilinguismo è infatti costantemente disatteso nella pratica: solo istituzioni come il Parlamento europeo e poche altre se ne avvalgono realmente, mentre il Consiglio o il Tribunale optano per il monolinguismo o per il bilinguismo francese e inglese 24. In un articolo precedente abbiamo ricostruito la lunga genesi dello slogan Green Deal, mostrando come l’inglese si presti a un uso sloganistico che permette ad alcuni paesi europei di nascondere i loro interessi geopolitici dietro alla maschera dell’Ue 25. Nell’approcciarsi all’opinione pubblica, dunque, ecco che il principio del co-drafting e della equipollenza delle diverse lingue sembra vacillare. C’è solo l’inglese: lingua di comunicazione preferenziale del vertice che solo dopo viene tradotta per rendere comprensibili all’opinione pubblica europea le intenzioni dei decisori. Parrebbe dunque di essere davanti a un’ambiguità nell’atteggiamento europeo. Se viene promosso il multilinguismo, perché discorsi uffciali, slogan e comunicati vengono spesso proposti solo in inglese? Che senso ha parlare di «atteggiamento europeo» se il vertice parla in una lingua che non appartiene a nessuno degli Stati membri? Su un punto Van Parijs ha ragione. Ora che la Gran Bretagna è uscita dall’Ue sarà più facile per qualsiasi paese «impossessarsi» dell’inglese, anche per obiettivi di proiezione geopolitica. Cosa che sta già accadendo. Ma è sul peculiare caso italiano che dobbiamo concentrarci in conclusione. Se è vero che la lingua preferenziale del vertice Ue è l’inglese, è anche vero che paesi come Francia e Germania spesso traducono gli slogan europei nelle proprie lingue nazionali. È il caso, ad esempio, del piano di salvataggio implementato dall’Ue per fronteggiare la crisi economica causata dal Covid-19. Sebbene sia stato scelto un nome inglese – Next Generation Eu – è anche vero che la maggior parte degli Stati membri ha declinato nella propria lingua la versione nazionale del piano: si veda la Francia, col France Relance, e la Germania, dove si è parlato di Aufbauplan e di Wiederaufbaufonds. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
24. Sul tema, si veda D. COSMAI, The language of Europe: multilingualism and translation in the EU institutions: practice, problems and perspectives, Bruxelles 2014, Éditions de l’Université de Bruxelles, pp. 39 ss. 25. Cfr. E. CIRILLO, «Quando l’inglese si fa maschera: il Green “New Deal”», Limes, «Il triangolo sì», n. 4/2021, pp. 269-276.
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Di che cosa si è parlato, in Italia, prima di affdarci alla sigla Pnrr? Di Recovery Fund. Slogan che non è uscito da Bruxelles, ma che è stato foggiato direttamente in inglese da noi stessi 26. Diffcile ricostruirne la genesi: l’invenzione di un giornalista? L’ha detto un ministro? Non siamo riusciti a determinare chi sia stato il primo a usare questa espressione. Certo è che moltissimo si è dibattuto e scritto intorno al «nostro» Recovery Fund. O «Found», come si ostinano a pronunciare alcuni. Per l’Italia il problema ha due facce: chi fa comunicazione, infatti, compie l’errore di presentare l’Ue come un’entità dotata di capacità decisionale sovrana e autonoma. Affermare, con pronunciato anglismo, che «l’Europa ha fatto il Recovery Fund» signifca dotare Bruxelles di una sovranità che semplicemente non possiede. Ciò, ovviamente, porta chi di questa retorica è destinatario a percepire l’Ue come un’autorità esterna e indipendente e non come un forum di paesi di cui facciamo effettivamente parte. La scelta di non tradurre certe espressioni idiomatiche (austerity, Green Deal) o addirittura di foggiare nuovi anglismi per denominare progetti comunque già battezzati in inglese (Recovery Fund per dire Next Generation Eu) sono segnali palesi della nostra postura passiva. Diventare più consapevoli di quale sia la nostra posizione in Europa, di quali siano i vincoli esterni e quali i nostri interessi è per noi compito ineludibile e fondamentale. L’inglese si fa maschera. Qualsiasi progetto europeo che giunge alle orecchie dei cittadini italiani viene immediatamente vestito di dignitoso nome british, e così santifcato. Eccola la compatta, coesa e globale volontà dell’Unione. Raggiunta, fnalmente, grazie alla lingua di Shakespeare. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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26. Sul sito inglese della Commissione europea, alla pagina dedicata, leggiamo: «NextGenerationEU breakdown. Recovery and Resilience Facility (RRF): €723.8 billion, of which: loans €385.8 billion, of which: grants €338.0 billion». Sulla corrispondente pagina italiana, leggiamo: «Ripartizione di NextGenerationEU. Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza: 723,8 miliardi di euro, di cui: prestiti 385,8 miliardi di euro, di cui: sovvenzioni 338,0 miliardi di euro». Non solo l’espressione «Recovery Fund» non ricorre in tutta la pagina, ma la parola «fund» (fondo) è scorretta per designare questo tipo di facility, che si compone di sovvenzioni e prestiti.
ELETTRA ARDISSINO - Analista per Greenmantle, si occupa di politica e macroeconomia europea. Alumna della Scuola di Limes (classe 2022). OLEKSIJ ARESTOVY0 - Già consigliere del capo dell’Uffcio del presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. DOUG BANDOW - Senior Fellow al Cato Institute. Già Special Assistant del presidente Ronald Reagan, autore di Foreign Follies: America’s New Global Empire. RICCARDO BANZATO - Dottorando in Relazioni internazionali all’Hankuk University of Foreign Studies di Seoul. Si occupa di relazioni tra Cina, Giappone, Corea del Nord e Corea del Sud. EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche all’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scientifco di Limes. ELIO CIRILLO - Studente di flosofa. ANTONIA COLIBășANU - Chief Operating Offcer di Geopolitical Futures. NICOLA CRISTADORO - Analista militare. GRETA CRISTINI - Analista geopolitica e reporter dall’Ucraina, cultrice di Geopolitica vaticana alla Link Campus University. GIORGIO CUSCITO - Consigliere redazionale di Limes. Analista, studioso di geopolitica cinese. Cura per limesonline.com il «Bollettino imperiale» sulla Cina. Coordinatore relazioni esterne e Club alumni della Scuola di Limes. MAURO DE BONIS - Giornalista, redattore di Limes. Esperto di Russia e paesi ex sovietici. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filosofa all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Tirocinante di Limes. HERIBERT DIETER - Senior Fellow al German Institute for International and Security Affairs di Berlino. Associate Professor al National Institute of Advanced Studies di Bangalore, India. LORENZO DI MURO - Consigliere redazionale di Limes. Si occupa di Cina-Usa, Indo-Pacifco e America Latina. Scrive per Aspenia, The Asia Dialogue, Formiche. LEONARDO DINU - Già vicecapo della Direzione operativa dell’intelligence militare della Romania. È membro del Consiglio scientifco del New Strategy Center. Ha partecipato a numerose missioni nei Balcani occidentali e in Afghanistan. GERMANO DOTTORI - Consigliere scientifco di Limes. DAN DUNGACIU - Professore di Sociologia all’Università di Bucarest. Membro del Consiglio scientifco del New Strategy Center e rettore dell’Istituto di Scienze politiche e Relazioni internazionali dell’Accademia Romena. Presidente della Fondazione universitaria del Mar Nero. MATTEO FRIGOLI - Membro di Mondo Internazionale.
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GUGLIELMO GALLONE - Laureato in Scienze politiche e Relazioni internazionali. Collabora con L’Osservatore Romano. Alumno della Scuola di Limes (classe 2022). VIRGILIO ILARI - Storico e presidente della Società italiana di storia militare (Sism). Consigliere redazionale di Limes. OLIVIER KEMPF - Direttore del gabinetto di sintesi strategica La Vigie, ricercatore associato alla Fondation pour la Recherche Stratégique. Autore di Guerre d’Ukraine, Parigi 2022, Economica. FËDOR LUK’JANOV - Direttore di Russia in Global Affairs. JEFFREY MANKOFF - Ricercatore al Center for Strategic Research della National Defense University. FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni internazionali di Limes. MAURIZIO MARTELLINI - Segretario generale della fondazione Alessandro Volta (Como). MARCO MINNITI - Presidente della Fondazione Medor. ORIETTA MOSCATELLI - Caporedattore politica internazionale dell’agenzia askanews. Responsabile esercitazioni della Scuola di Limes. Si occupa di Russia ed Europa dell’Est. Autrice di P. Putin e putinismo in guerra, Salerno Editrice (2022). MIRKO MUSSETTI - Analista di geopolitica e geostrategia. Scrive per Limes e InsideOver. Ha pubblicato La rosa geopolitica, Paesi edizioni (2021). IGOR PELLICCIARI - È corrispondente di Limes dalla Russia. Ordinario di Storia delle Istituzioni e Relazioni internazionali all’Università Carlo Bo di Urbino, dal 2019 è ambasciatore della Repubblica di San Marino nel Regno Hashemita di Giordania. FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della Scuola di Limes. ALESSANDRO POLITI - Direttore della Nato Defense College Foundation. BERNARDINO REGAZZONI - Già ambasciatore di Svizzera presso la Repubblica Popolare Cinese. AGNESE ROSSI - Analista geopolitica e collaboratrice di Limes. Studiosa di flosofa. DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes. SATAKE TOMOHIKO - Senior Fellow al National Institute for Defense Studies, ministero della Difesa del Giappone. FULVIO SCAGLIONE - Già vicedirettore di Famiglia Cristiana. Autore di Siria - I cristiani nella guerra - Da Assad al futuro, Edizioni Paoline (2019). Collaboratore di Avvenire e altre testate. GEORGE SCUTARU - Direttore del New Strategy Center, già consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente della Romania. TAMILA TASHEVA - Rappresentante permanente della presidenza ucraina per la Crimea. YOU JI - Professore di Relazioni internazionali e capo del dipartimento di Governo e Pubblica amministrazione dell’Università di Macao. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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La storia in carte a cura di Edoardo BORIA 1. Il concetto di immaginario geopolitico è causticamente sintetizzato in questa freddura che riporta un dialogo tra due russi: «È vero che gli Stati Uniti sono inferiori a noi tecnicamente, economicamente e militarmente?». «In teoria, sì. Ma vallo un po’ a far capire agli americani!» (In teoria. Le risposte di Radio Erivan (200 storielle sovietiche), Bompiani, 1970). Risale all’epoca della guerra fredda ma non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno in Russia la pensasse ancora così. In ogni caso, con «immaginario geopolitico» si intende una visione collettiva dominante in dotazione a ogni comunità umana tramite la quale essa interpreta la propria e altrui consistenza nel panorama internazionale. Spesso ha valore offensivo, accompagnando progetti espansionistici. A volte, invece, riveste carattere difensivo. Nel comportamento russo di questi ultimi tempi sembrano presenti entrambi. L’immaginario nazionale ha infatti prodotto un’autorappresentazione in cui la Russia è stata costretta a invadere l’Ucraina a causa dell’insopportabile prossimità con un nuovo confnante decisamente ingombrante, cioè gli Stati Uniti, giunti ai limiti della steppa via Nato. In casi come questo la collettività nazionale elabora un proprio spazio politico enfatizzando le minacce esterne e la circostanza che la consistenza effettiva possa risultare molto lontana dal reale livello di pericolosità non toglie loro importanza. La reazione non risponderà infatti alla realtà ma alla sua percezione. A livello di percezione pubblica, dunque, Russia e Stati Uniti sono realmente vicine. Come lo sono, d’altra parte, anche rimanendo allo stretto dato geografco. Oggi divise solo da un mare (lo Stretto di Bering), un tempo condividevano addirittura il medesimo continente. Accadeva quando la Russia era in possesso dell’Alaska, come ricorda la fgura 1, signifcativamente intitolata America Russa. Nel 1867 gli Stati Uniti investirono 7,2 milioni di dollari (circa 120 milioni di oggi) per comprarsela. Agli occhi di un’opinione pubblica come quella americana che giudica tutto in base al ritorno economico, la spesa sembrò un cattivo affare. Poi venne rivalutata, prima grazie all’oro e poi al rinvenimento del più grande giacimento di petrolio e gas naturale dell’intero Nord America. Per non dire dei vantaggi strategici che tale mossa ha portato. Ma quelli in genere non vengono mai capiti dalle opinioni pubbliche, non solo da quella americana. Fonte: C. Magrini, «America Russa (America Nord Ovest)», da Francesco Costantino Marmocchi, Il Globo. Atlante di Carte geografche compilate da F.C. Marmocchi per servire di corredo al suo corso di Geografa Commerciale, Paolo Rivara fu Giacomo editore, Genova 1858. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
2. Un comandamento della guerra psicologica impone di adottare la prospettiva culturale dell’avversario nell’allestire i prodotti della propaganda. I fallimenti americani in Iraq, Afghanistan e in generale nella guerra al terrorismo sono stati anche dovuti all’incapacità di produrre campagne mediatiche persuasive nei confronti delle masse
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islamiche. Senza pretendere di conquistarne cuori e menti, sembrava almeno alla portata riuscire a strappare loro qualche simpatia. E invece niente. Eppure gli americani avevano dimostrato di essere maestri nel genere già durante la seconda guerra mondiale. Nell’opuscolo lanciato sul Giappone (fgura 2), il cui testo chiude con l’incontrovertibile asserzione che «due passeri non possono scacciare venti aquile americane», si ricorre palesemente allo stile narrativo della cultura nipponica, dove è molto frequente l’uso di metafore zoologiche. Si vedono dei bombardieri americani B-29 attaccare il Giappone su cui svolazzano degli uccelli impauriti, alcuni già a terra colpiti. Fonte: volantino, Offce of War Information, 1945 circa (collezione Cornell University). 3. Nella storia della cartografa, la collocazione della produzione topografca nell’ambito degli uffci militari ha condizionato il suo apparato di segni privilegiando quelli di utilità per le esigenze di movimento dei soldati. La fgura 3 è riepilogativa dei segni uffcialmente in uso presso il principale ente cartografco dello Stato italiano. Si noti la quantità di quelli funzionali all’attraversamento di corsi d’acqua. Fonte: Tavole dei segni convenzionali in uso presso l’Istituto Topografco Militare per le carte topografche alla scala 1:50000 e di 1:25000, Firenze 1880, tav. IV. 4-5. «Il territorio non è la causa della guerra. (…) Ciò che il territorio assicura è un’alta percentuale di probabilità che se l’intrusione avviene seguirà la guerra» (Robert Ardrey, L’imperativo territoriale, Giuffrè, 1984, p. 290). Questo accade perché il potere esiste solo quando si manifesta e si esprime su un territorio. Non vale solo per gli Stati. Allo stesso modo, anche la mafa e le gang di strada occupano un territorio, si impegnano a difenderlo e puntano a ingrandirlo. Non a caso, la succitata affermazione dell’etologo ricalca quella del reporter di mafa: «Il territorio è sacro per i mafosi. Uno sgarbo fuori dalla propria giurisdizione può scatenare faide, rappresaglie e scontri armati» (Giovanni Tizian, Atlante illustrato di Cosa nostra, Rizzoli, 2019, p. 26). La fgura 4-5 suddivide il territorio della Provincia di Trapani nei quattro mandamenti in cui la mafa se l’è spartito. Il più meridionale è quello di Castelvetrano, dove era rifugiato Matteo Messina Denaro, che Forbes aveva inserito nella lista dei dieci latitanti più ricercati al mondo. Curiosamente, la mafa ha suddiviso il territorio riprendendo non solo il modello rigido dello Stato (autorità completa ed esclusiva su un territorio delimitato da confni lineari) ma le sue stesse partizioni amministrative: ogni comune a una famiglia, ogni provincia a una commissione (o cupola). Forse quest’organizzazione speculare del territorio si deve a un’insospettabile carenza di fantasia, o più plausibilmente al fatto che due poteri irriducibilmente concorrenti che si fronteggiano sullo stesso territorio tendono ad adottare la medesima visione del campo di battaglia. In ogni caso ogni potere, di qualsiasi forma e caratura morale, condivide l’esigenza di suddividere il territorio per controllarlo. Fonte: Giovanni Tizian, «Provincia di Trapani», da Atlante illustrato di Cosa nostra, Rizzoli, 2019, pp. 126-127. Copia di 1d0bf4fb2f0392a81d1f07dfe1e6a795
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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA
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RIVISTA MENSILE - 11/2/2023 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA