Limes 12/2023. Rivista italiana di geopolitica. Svizzera, la potenza nascosta


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Limes 12/2023. Rivista italiana di geopolitica. Svizzera, la potenza nascosta

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CARTOGRAFIA E COPERTINA Laura CANALI

COORDINATORE TURCHIA E MONDO TURCO Daniele SANTORO

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Rivista mensile n. 12/2023 (dicembre) ISSN 2465-1494 Direttore responsabile

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I manoscritti inviati non saranno resi e la redazione non assume responsabilità per la loro perdita. Limes rimane a disposizione dei titolari dei copyright che non fosse riuscito a raggiungere. Registrazione al Tribunale di Roma n. 178 del 27/4/1993 Stampa e legatura Puntoweb s.r.l., stabilimento di Ariccia (Roma), dicembre 2023

PARTE III

LA SVIZZERA E NOI

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Paolo PELUFFO - Cavour il ginevrino

181

Toni RICCIARDI - Odi et amo: la Svizzera e i suoi italiani

191

Monica DELL’ANNA - La Svizzera vista con i nostri occhi

199

Michele ROSSI - Se il Ticino ha paura dell’idraulico italiano

205

Remigio RATTI - Berna teme l’aggiramento ferroviario

215

Guglielmo GALLONE - Defensores libertatis ecclesiae le guardie svizzere tra passato e presente

AUTORI 221 LA STORIA IN CARTE 223

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a cura di Edoardo BORIA

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Parte I le SVIZZERE nella SVIZZERA

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

FIGLIA DELL’EUROPA

HOLENSTEIN La Svizzera s’illude di bastare a sé stessa: eccezione felice e retta in un continente flagellato dalla storia. Uno sguardo critico alla genesi confederale mostra invece il ruolo essenziale delle potenze europee nel ‘miracolo svizzero’. Le profonde similitudini con l’Ue. di André

L

1. A SVIZZERA È IL PAESE PIÙ EUROPEO DEL continente. L’affermazione non intende essere una provocazione, bensì la constatazione di un dato di fatto storico. Nessun altro paese in Europa ha intrecciato da secoli le proprie vicende a quelle del continente in maniera così determinante. Esso deve a tali circostanze persino la propria indipendenza. Eppure non vi è alcun altro paese che – paradossalmente, parrebbe – si ribella in modo altrettanto netto all’idea di appartenere all’Europa, che fonda la propria autocoscienza sulla diversità e che ritiene di poter mantenere la propria indipendenza e il proprio status di Sonderfall, caso speciale, mediante l’isolamento dal resto del continente. Perché esista la Svizzera e come essa sia diventata ciò che è lo si comprende solo prendendo in considerazione tutto lo spettro di sfumature che occorrono tra una situazione di ftte relazioni e quella di una netta separazione. In ottica storiografca, è nella tensione tra questi due poli che ha origine la condition d’être della Svizzera1. Quali argomenti può addurre lo storico a favore dell’assunto che la Svizzera sia il paese più europeo del continente? Anzitutto, è necessario premettere alcune considerazioni sulla narrazione ricorrente nella storiografa nazionale. Chi intenda cogliere il carattere europeo della storia svizzera, infatti, non può fare a meno di evitare i percorsi da essa tradizionalmente calcati. La pecca più grave dell’approccio storiografco convenzionale sta nel raccontare il costituirsi dello Stato nazionale svizzero da una prospettiva esclusivamente interna, che attribuisce unicamente a meriti intrinseci il successo dell’operazione politica e nazionale della Confederazio1. Per approfondimenti, cfr. A. HOLENSTEIN, Mitten in Europa. Verfechtung und Abgrenzung in der Schweizer Geschichte, Baden 2014 (2a ed. 2015), Verlag Hier und Jetzt (di prossima uscita in italiano con il titolo Storia europea della Svizzera, Bellinzona, Casagrande Editore); A. ID., «Nach Napoleon. Die Grossmächte retten die Schweiz», in T. KÄSTLI (a cura di), Nach Napoleon. Die Restauration, der Wiener Kongress und die Zukunft der Schweiz 1813-1815, Baden 2016, Verlag Hier und Jetzt, pp. 11-44.

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FIGLIA DELL’EUROPA

ne. Secondo questa lettura, a creare la Svizzera sono stati di volta in volta il bellicoso coraggio dei confederati, la loro superiore intuizione, la saggia morigeratezza, l’astinenza dai confitti, la scelta della neutralità, il desiderio di unità nazionale o la loro virtù dell’equilibrio. Contro questa visione unilaterale, autocompiaciuta e per molti versi errata delle cose è d’obbligo il ricorso a una prospettiva transnazionale, che prenda coerentemente in esame le costellazioni di potere d’oltreconfne che hanno fatto la storia di questo paese. Chi abbandoni il vicolo cieco della narrazione maestra si troverà presto a constatare che la storia svizzera è quella di uno spazio formatosi e delimitatosi territorialmente in conseguenza di secolari confronti con il contesto geopolitico circostante. Il piccolo Stato nazionale svizzero sorse al centro del continente lungo i principali assi di comunicazione nord-sud ed est-ovest. Esso si costituì nella zona di contatto fra tre vaste aree linguistico-culturali e di tensione tra grandi potenze continentali, dunque anche in stretta prossimità con i campi di battaglia più importanti della storia europea. L’esistenza della Svizzera si fonda su una specifca posizione in Europa; è il prodotto di forze e costellazioni di potere europee. Tre sono le argomentazioni a sostegno di tale impostazione storiografca. La prima consiste nel richiamare alla mente le molteplici relazioni che collegano da sempre la Svizzera al suo contesto geopolitico. Quindi è interessante esaminare le tendenze spirituali e mentali alla chiusura verso l’Europa, l’esterno, tutto ciò che è straniero: emerge chiaramente come le attuali correnti isolazionistiche affondino le proprie radici in una lunga tradizione. Infne, nel ribadire il carattere europeo della storia svizzera è importante fare riferimento a quel lungo processo d’integrazione da cui essa è nata, il quale per molti aspetti ha anticipato esperienze, sfde e diffcoltà che a partire dal secondo dopoguerra segnano anche l’architettura unitaria europea.

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2. La storia delle relazioni intessute dai territori elvetici tocca molteplici ambiti. Qui, per amore di sintesi, saranno prese in esame le dimensioni economiche e sociali, nonché gli aspetti politici della questione. La Vecchia Confederazione e la Svizzera moderna non avrebbero mai potuto sopravvivere in maniera autosuffciente. Oltre a legname, pietre, acqua e forza lavoro, il paese non possiede alcuna materia prima. A partire dalla prima età moderna l’agricoltura non fu più in grado di coprire il fabbisogno di cereali di tutta la popolazione. Già in epoca altomedievale i contadini delle aree prealpine erano passati all’allevamento e alla produzione di formaggio, abbandonando la coltivazione di cereali. A partire dal XVII secolo diverse zone attorno a Ginevra, nell’Argovia bernese, nelle campagne di Basilea e Zurigo, come pure nella Svizzera orientale, si specializzarono nella produzione e nel commercio di manufatti artigianali, passando anch’esse, di conseguenza, a dipendere dall’importazione di cereali dai paesi vicini. Tali sviluppi protocapitalistici aumentarono la dipendenza dall’estero anche sotto un altro aspetto: allevamento e produzione casearia necessitavano di enormi quantità di sale, che il paese non possedeva e che pertanto doveva impor-

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

tare. Gli artigiani realizzavano panni in seta e in cotone con materie prime di origine estera, gli orologiai ginevrini utilizzavano metalli e pietre preziose provenienti dall’India e dal Sudafrica. L’industria tessile e orologiaia già all’inizio dell’età moderna produceva per l’esportazione, dato che il mercato interno svizzero era troppo piccolo per assorbirne la produzione. Nel XIX secolo, in parallelo con l’industrializzazione e la rivoluzione dei trasporti, l’intreccio di relazioni tra la Svizzera e l’economia mondiale aumentò. Alla vigilia della prima guerra mondiale il forente commercio estero di generi alimentari, tessuti, macchinari e prodotti dell’industria chimica faceva della Svizzera – in proporzione al numero di abitanti – la prima nazione al mondo per export. Direttamente o indirettamente, già all’epoca un terzo della popolazione svizzera dipendeva dalle esportazioni. Dopo la guerra il paese divenne una delle principali piazze fnanziarie mondiali. Il piccolo Stato nazionale si trasformò dal punto di vista economico in grande potenza. Da secoli la Svizzera è strettamente legata all’Europa anche in ragione dei fussi migratori di forza lavoro. Gli spostamenti a scopo lavorativo dei suoi abitanti segnano un fenomeno di lunga durata. Tra il XV e la metà del XIX secolo centinaia di migliaia di mercenari svizzeri vissero a servizio di Francia, Spagna, Paesi Bassi, Prussia, Regno di Napoli, nonché dei Savoia, dell’impero, del papa. Meno note sono le molteplici forme di emigrazione civile dettate da motivi economici. Dopo la loro espulsione da Venezia, pasticceri originari dei Grigioni fondarono tra il XVIII e il XIX secolo caffè e pasticcerie in tutta l’Europa. Sino a fne Ottocento buona parte della popolazione maschile delle valli ticinesi e dei Grigioni lasciava ogni anno per molti mesi il proprio villaggio per recarsi nelle grandi città italiane e austriache a offrire manodopera – carrettieri, muratori, venditori di caldarroste, spazzacamini – e guadagnare così altrove quel pane che non avrebbero potuto procurarsi in patria. Dalle stesse valli provenivano anche quei numerosi architetti, ingegneri, pittori, stuccatori e muratori che tra il XVI e il XIX secolo contribuirono a conferire a città e residenze principesche in Italia, Germania, Austria, Polonia, Scandinavia e Russia uno specifco tratto barocco e neoclassico. Infne, occorre ricordare i celebri studiosi, come Albrecht von Haller o i matematici della famiglia Bernoulli di Basilea, come pure i moltissimi precettori privati svizzeri che si trasferirono all’estero, presso università e accademie straniere, oppure al servizio di principi e nobili in qualità di scienziati o pedagoghi. Il carattere e i motivi di questi spostamenti erano molteplici. I lavoratori cercavano all’esterno un tornaconto economico che non avrebbero potuto ottenere in patria o con cui avrebbero potuto garantire la sicurezza economica delle famiglie rimaste al paese. Per altri, presso le corti straniere si prospettavano carriere altrimenti precluse in patria. La migrazione della popolazione civile della prima età moderna fu di regola uno spostamento individuale di fgure specializzate, in genere a tempo determinato. Solo nel XIX secolo, quando i nuovi mezzi di trasporto e l’organizzazione offerta da agenzie specializzate lo consentirono, il trapianto defnitivo all’estero divenne per molti un’opzione praticabile. Tra la metà dell’Ottocento e gli anni Venti

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Ginevra

Fra (all nc a ia)

Losanna

VAUD (Berna)

DIOCESI DI BASILEA a Berna SOLOTHURN

VALLESE

BERNA

Berna

Soletta

TICINO

GLARONA

RHÄZÜNS ai Grigioni

LOMBARDO-VENETO (AUSTRIA)

Valtellina (al Lombardo-Veneto)

Chiavenna

TARASP ai Grigioni

-UZNACH (Svitto) -GASTER -WERDENBERG (Glarona)

Bormio

APPENZELLO ESTERNO RHEINTAL (Appenzello) APPENZELLO INTERNO

Coira

GRIGIONI

SARGANS (Glarona)

SAN GALLO

TURGOVIA

LEVENTINA (Uri)

URI

SVITTO

ZUGO

NIDVALDO OBVALDO

Lucerna

LUCERNA

Zurigo

ZURIGO

SCIAFFUSA

FREIAMT (Lucerna, Zugo)

ARGOVIA (Berna)

FRICKTAL 1802-14 (all’Argovia)

BASILEA

Basilea

a Basilea

MULHOUSE (alla Francia)

REGNO DI SARDEGNA

FRIBURGO

Friburgo

PRINCIPATO DI NEUCHÂTEL

Alta Savoia (al Regno di Sardegna)

Territori rivendicati dalla Svizzera al Congresso di Vienna e a essa negati

Territori assegnati alla Svizzera dal Congresso di Vienna

Cantoni annessi nel 1814-15

Rivendicazioni di antiche località nei confronti dei Cantoni della mediazione (tra parentesi la località che rivendica)

Cantoni della mediazione creati da Napoleone

I tredici vecchi Cantoni nei confni del 1803

LA SVIZZERA DOPO IL CONGRESSO DI VIENNA (1814-15)

FIGLIA DELL’EUROPA

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

del Novecento decine di migliaia di persone lasciarono la Svizzera per sempre. Attorno al 1880 furono oltre 90 mila coloro che si fecero attrarre dalla prospettiva di una vita migliore in territori d’Oltremare. Oltre il Nord e il Sud America, anche la Russia divenne una meta ambita. Fino all’Ottocento inoltrato, invece, la Svizzera rappresentò una destinazione importante solo per quei piccoli gruppi (come gli ugonotti) che abbandonavano i paesi d’origine per ragioni politiche o religiose. Un massiccio affusso di stranieri in Svizzera si cominciò a registrare solo a fne Ottocento: dal 1888 il saldo tra partenze e arrivi fece della Svizzera un paese d’immigrazione. Per primi giunsero gli italiani, di cui vi era urgente bisogno nel settore dell’edilizia urbana e per la realizzazione della rete ferroviaria. Nel 1910 la percentuale di stranieri in rapporto alla popolazione era già del 14,7%. Dopo la seconda guerra mondiale arrivarono spagnoli e portoghesi, in seguito i cittadini dell’ex Jugoslavia. Nel corso degli anni Settanta del Novecento aumentò anche il numero di immigrati provenienti da culture e da paesi extra-europei. Tra il 1950 e il 2012 la percentuale di stranieri rispetto alla popolazione totale è salita dal 6,1% al 23,3%; dato che a più riprese ha generato reazioni di rifuto politico e culturale. 3. Dalle guerre borgognone del decennio 1470 la Confederazione divenne un fattore politico nei giochi di potere continentali. Con la clamorosa vittoria dell’alleanza antiborgognona contro Carlo il Temerario, i potentati europei fecero a gara per accattivarsi l’amicizia dei confederati e l’accesso al mercato dei mercenari. In ragione della propria posizione strategica, a ridosso dei passi più importanti delle Alpi centrali e in mezzo a potenze rivali come la francese e l’asburgica, la Confederazione divenne uno spazio d’importanza nevralgica, oltre che un fattore di rischio militare. A partire dal XVI secolo il reticolo dei territori confederati, confnanti a ovest con la Franca Contea e a sud con il ducato di Milano, entrò nella sfera di interessi ispano-asburgici, assumendo dunque un ruolo strategico anche per il principale rivale, la Francia. Le due potenze cercarono di legare a sé i Cantoni nel modo più stretto ed esclusivo possibile, onde assicurarsi vantaggi territoriali o quantomeno neutralizzarne la potenziale minaccia. Fu all’interno di queste costellazioni europee che i piccoli Stati confederati andarono defnendo la propria politica estera, fatta di patti d’alleanza con i potenti rivali confnanti. La pace perpetua siglata con gli Asburgo d’Austria nel 1477 e nel 1511 e i trattati di pace perpetua e alleanza sottoscritti con la Francia nel 1516 e nel 1521 sancirono il raggiungimento di un accordo con i vicini più importanti. Nel 1587 si aggiunse l’alleanza dei Cantoni cattolici (a eccezione di Solothurn) con la Milano spagnola. Tali alleanze portarono sicurezza ai territori, altrimenti situati in un contesto confittuale. Al contempo, li obbligarono però a una politica di «sedentarietà», cioè di passività. Agli occhi delle potenze europee, se la Confederazione rimaneva strategicamente passiva e non interferiva nelle altrui guerre offriva infatti garanzia di protezione lungo i fanchi. Altrettanto importanti erano l’accesso al mercato dei mercenari svizzeri e la possibilità di spostare truppe attraverso la Con-

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FIGLIA DELL’EUROPA

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federazione. Non meno attraente era l’eventualità di ottenere prestiti dalle comunità confederate e dalle loro élite politico-economiche; debiti spesso non ripagati. Infne, in caso di guerra si poteva dar vita, nei Cantoni, al commercio di materiale bellico, dal quale traevano proftto anche mercanti e contadini locali. L’esistenza di una Confederazione politicamente debole ma utile in ambito militare, commerciale e di sicurezza andava dunque incontro agli interessi delle potenze continentali, mentre per gli staterelli confederati le alleanze erano garanzia di sopravvivenza. Tali alleanze ebbero conseguenze decisive anche nello sviluppo delle relazioni interne alla Confederazione. Tramite i propri emissari, residenti a Solothurn o a Lucerna, le grandi potenze esercitarono una profonda infuenza nella politica elvetica, seppure pagando a caro prezzo l’amicizia dei confederati. In ogni Cantone le classi dirigenti si dividevano tra una fazione flo-francese e una flo-asburgica. I leader politici di entrambe le parti esigevano nutrite ricompense dai rispettivi alleati stranieri per il servizio alla causa, fossero esse prebende o un impiego militare, consegne di sale sottoprezzo, vantaggi doganali o condizioni commerciali di favore. In tal modo, le risorse provenienti dall’estero cementarono l’egemonia del patriziato elvetico. Le potenze europee, ovvero i loro contribuenti, sostenevano anche le spese per l’approntamento e il mantenimento dei reggimenti mercenari svizzeri – sorta di eserciti permanenti stazionati all’estero – fnanziando così la modernizzazione dell’apparato militare elvetico. Grazie all’outsourcing delle proprie spese militari le autorità elvetiche poterono godere di ricchi crediti «di pace». Risparmiando molto denaro, furono in grado di ripianare i propri bilanci e accumulare un capitale da reinvestire in lucrosi titoli di Stato stranieri. Già nel XVIII secolo i Cantoni più ricchi approfttarono così del progressivo indebitamento delle potenze europee. Tale situazione presentava l’indiscusso vantaggio di permettere al potere locale di non tassare i propri sudditi, consolidando la propria egemonia. Le alleanze con le potenze straniere furono, da questo punto di vista, un fattore decisivo per lo sviluppo delle istituzioni statali cantonali. Dopo le turbolenze dell’epoca rivoluzionaria e del dominio napoleonico, l’esperienza dei vantaggi derivanti dalla neutralità elvetica per gli equilibri geopolitici europei, nonché dell’utilità di una Svizzera tenuta alla briglia in questioni internazionali per il bene della pace sul continente, portò gli attori del Congresso di Vienna a imporle il vincolo di una perpetua neutralità armata. L’obbligo di difendere la propria neutralità anche con l’uso della forza, per non rischiare di farsi terreno di manovre d’aggiramento contro Francia o Austria, costrinse il paese a dotarsi per la prima volta di un esercito nazionale. In tal modo, nel 1815 le grandi potenze riuscirono a ottenere quello che i Cantoni fno ad allora non avevano mai realizzato: la prima centralizzazione, su base federale, di un’importante funzione statale. Inoltre, tra il 1814 e il 1815, dopo estenuanti trattative con i Cantoni in lizza tra loro, le potenze europee imposero il futuro assetto istituzionale della Confederazione. Fu solo in conseguenza della pressione straniera, infatti, che i Cantoni reazionar-conservatori rinunciarono alla restaurazione dell’ancien régime e votarono per l’ingresso dei nuovi Cantoni sovrani di Neuchâtel, Vallese e Ginevra nella Con-

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

federazione. Il ginevrino Charles Pictet de Rochemont, che prese parte alle conferenze di pace del 1814-1815, riassunse in parole effcaci il principio cui la Svizzera all’epoca dovette la propria sopravvivenza politica: «La Suisse dans l’Intérêt de l’Europe». In altre parole la Svizzera, mosaico instabile di 22 staterelli ancora arretrati nello sviluppo di istituzioni politiche statali, sopravvisse alla gigantesca operazione di riassetto territoriale dell’età napoleonica solo in quanto la sua esistenza andava incontro agli interessi delle principali potenze continentali. Sparirono invece dalla carta geografca tutte le altre antiche repubbliche europee quali Venezia, Genova e Lucca, che vennero accorpate a vicini più potenti oppure, come nel caso dei Paesi Bassi, trasformate in monarchie. 4. Sarebbe una lettura unilaterale quella che, nel valutare in prospettiva storica il rapporto della Svizzera con il resto d’Europa, prendesse in considerazione soltanto la rete di rapporti con l’esterno senza indagare anche i diffusi discorsi isolazionistici che da secoli accompagnano il paese nella propria ricerca identitaria. Contro l’inserimento della Svizzera in contesti internazionali e lo sviluppo di processi d’integrazione più vasti, da sempre si sono levate voci che vedono la salvezza dello Stato elvetico in un percorso di isolamento nazionale. Secondo tale linea di pensiero, l’indipendenza della Svizzera trae linfa da una radicale opposizione a ogni elemento estero e straniero. Dunque, l’essenza dell’identità svizzera consisterebbe nel conservare e mantenere tale posizione. Questa idea caratterizzava già il mito di fondazione elvetico sviluppatosi attorno al 1470, il quale raffgurava il giuramento del Grütli e la nascita della prima Confederazione come un atto di legittima difesa da parte dei tre Cantoni forestali contro la tirannia di una nobiltà straniera. Da allora, pensieri e discorsi dei confederati relativi a sé stessi e al rapporto con gli altri appaiono improntati a un modello puntuale. Al centro dell’autodefnizione sta quella che si potrebbe defnire la sindrome di Davide contro Golia: il piccolo contro il grande, come pure il proprio contro l’estraneo sono le due opposizioni caratteristiche del sistema di coordinate mentali e culturali dei confederati. Essi s’immaginano nel ruolo del piccolo pastorello che con l’aiuto di Dio uccide il gigante flisteo, salvando il popolo eletto d’Israele. Ogni qualvolta si è presentata come piccola, ma agguerritamente antieuropa, la Svizzera si è compiaciuta di attribuirsi il ruolo di Davide. La parte del perfdo Golia straniero è andata nel tempo ad attori diversi: i malvagi balivi di cui parla il mito di fondazione elvetico, gli Asburgo, il duca borgognone Carlo il Temerario, il Sacro romano impero, le grandi potenze belligeranti della prima età moderna, la Francia rivoluzionaria e napoleonica, le monarchie nazionali del XIX secolo, la Germania hitleriana, l’Unione Sovietica. Di recente, l’idea di Svizzera come anti-Europa identifca il nuovo nemico nell’Unione Europea, nei tecnocrati di Bruxelles. Senza Golia, Davide sembra non sapere chi sia davvero. Le Alpi, il multilinguismo e la tradizione democratica hanno contribuito a creare l’immagine spaziale della Svizzera come anti-Europa, accentuandone le peculiarità naturali, culturali e politiche.

15

R

A

(1291): anno di entrata nella Confederazione

(1815)

Ginevra (Genève, Genf)

Ginevra

F

C

I

Friburgo

(1481)

Friburgo (Fribourg, Freiburg)

Lago di Neuchâtel

(1815)

Neuchâtel (Neuenburg)

A

di Ginevra Lago

(1803)

Vaud (Waadt)

N

(1815/1979)

Giura (Jura)

(1815)

Vallese (Valais, Wallis)

(1353)

Berna (Berne)

Berna

(1481)

Soletta (Solothurn)

(1501)

S

Basilea Città (1501) Basilea Campagna

V

I

I

Z

(1291)

Obvaldo (Obwalden)

(1332) Lucerna

Lucerna (Luzern)

(1803)

Argovia (Aargau)

T

(Schwyz)

Uri

R

(1291)

A

L

G

I

(1352)

Glarona (Glarus)

A

Lago di Como

(1803)

Grigioni (Graubünden, Grischun)

Lago di Walenstadt

(1803)

A U S

A

T R

R M A N I

Lago di Costanza

E

Appenzello Esterno (1513) Appenzello Interno San Gallo (1513) (Sankt Gallen)

(1803)

Turgovia (Thurgau)

Bellinzona

(1803)

Ticino (Tessin)

A

(1291)

Lago Maggiore

Z E

(1291)

Nidvaldo (Nidwalden)

(1352) Svitto

Zugo (Zug)

Zugo

Lago di Zurigo

Zurigo

(1351)

Zurigo (Zürich)

(1501)

Sciafusa (Schafhausen)

LIECHT.

16

LA SVIZZERA OGGI

I

A

FIGLIA DELL’EUROPA

Finanziaria Metallurgica Chimica Orologiera Elettronica

Aree industriali a prevalenza:

POLI IMPRENDITORIALI

S

V

I

Z

Z

E

R

A

Zone a prevalenza montuosa (Alpi)

Polo fnanziario Polo metallurgico Polo chimico Polo orologiero Polo elettronico

LOSANNA

Fonte: analytics.dkv.global/AI, Medium.com/syncedreview

Ai farmaceutica (Università di Basilea)

21,2%

NEUCHÂTEL

Politecnici di Zurigo e Losanna (Tra le migliori università al mondo in ambito tecnologico)

GINEVRA (Cern)

Zurigo: principale hub per l’intelligenza artifciale (sede di più del 28% dei centri, delle installazioni R&d e delle no proft)

Maggior concentrazione di università, laboratori e centri ricerca tecnologica

Oriente e Grigioni (Zugo)

Bernese, Oberland e Valais (Berna)

Centro e Ticino (Lugano)

Occidente (Ginevra, Vaud)

Nord (Zurigo)

I TA LI A

MARTIGNY (Idiap)

S

I

Z

(41,6%)

16,6%

V

BASILEA

BERNA

DELÉMONT

FRANCIA

Nord America (22,16%)

E

R

A

5,6%

Provenienza degli investimenti nell’Ai

LUGANO (Sede Idsia ricerca per l’Ai)

Medio Oriente e Asia (5,95%)

Z

19,2%

ZURIGO

37,4%

L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE NEL CUORE DELLA SVIZZERA

Distribuzione delle aziende Ai per regioni svizzere

Impatto delle citazioni ponderate sul campo delle pubblicazioni Ai sottoposte a peer review

AU S T RI A

Singapore

Matrice di confronto dei paesi

Stato della tecnologia Ai in Svizzera

LICHT.

0 5 10 20 50 100 200 500 1.000 2.000 Numero di pubblicazioni sull'intelligenza artifciale sottoposte a peer review a livello accademico-aziendale

Hong Kong Usa Svizzera Iran Regno Unito Canada 2 Corea del Sud Malaysia Italia Ue Germania Spagna Turchia Francia Cina Fed. Russa Taiwan Giappone 1 Indonesia Brasile India

3

G ERMAN I A

Australia (0,54%)

Europa (24,32%)

32%

21%

Fonte: Ufcio federale di statistica 2022

33%

14%

0

Friburgo

Appartenenza religiosa

Ginevra

i Ginevra Lago d

Vaud

Neuchâtel

Giura Zugo Svitto Nidvaldo Obvaldo Uri

Lucerna

Zurigo

Vallese

Ticino

S V I Z Z E R A

Berna

Solothurn

Argovia

Sciafusa

Glarona

1

2

3

4

5

6

5,7% Comunità musulmane 5,6% Altre comunità cristiane

Grigioni

Appenzello Interno

Appenzello Esterno

Lago di Costanza

San Gallo

Turgovia

0,5% Comunità induiste 0,5% Comunità buddhiste 0,2% Comunità ebraiche 0,2% Altre religioni 0,9% Appartenenza religiosa sconosciuta

Basilea Città Basilea Campagna

LA SVIZZERA DELLE RELIGIONI

113.398 180.526 28.665 39.272 147.213 194.414 127.938 70.133 59.398 22.336 170.498 191.497 21.139 23.337 48.810 308.672 14.632 67.887 173.426 8.941 12.176 75.194 10.893 22.307 182.108 67.462

(Numero di persone)

Ginevra (Genève, Genf) 183.220 Vaud (Waadt) 261.142 Neuchâtel (Neuenburg) 75.949 Giura (Jura) 12.039 Friburgo (Freiburg) 66.360 Vallese (Wallis) 59.983 Berna (Berne) 229.703 Soletta (Solothurn) 88.364 Basilea Campagna 87.231 Basilea Città 92.223 Argovia (Aargau) 200.576 Lucerna (Luzern) 85.172 Obvaldo (Obwalden) 6.433 Nidvaldo (Nidwalden) 8.687 Zugo (Zug) 32.620 Zurigo (Zürich) 467.780 Sciafusa (Schafhausen) 20.933 Turgovia (Thurgau) 66.565 San Gallo 108.573 Appenzello Interno (1.713) Appenzello Esterno 12.786 Svitto (Schwyz) 34.795 Glarona (Glarus) 9.271 Uri 5.452 Ticino (Tessin) 79.334 Grigioni (Graubünden, Grischun) 41.790

CANTONI

28.419 131.990 24.988 4.894 28.497 15.619 403.808 40.288 67.252 22.110 121.218 32.645 2.426 3.222 13.330 315.727 22.780 69.030 79.738 1.763 15.708 14.539 9.677 (908) 10.523 50.007

Nessuna appartenenza religiosa Cattolici romani Protestanti

PREVALENZA DI:

Ginevra

Neuchâtel

Losanna

Lago di Ginevra

Vaud (Waadt)

Friburgo (Fribourg, Freiburg)

Friburgo

Neuchâtel (Neuenburg)

Sion

F. Saane/ Sarine

Vallese (Valais, Wallis)

Berna

Aarau

Nidvaldo (Nidwalden)

Obvaldo (Obwalden)

Lucerna

Glarona (Glarus)

Glarus

Lugano

Locarno Bellinzona

Ticino (Tessin)

Uri

Zugo

di Co sta nza

Appenzello

San Gallo

La go

Coira

ITALIA

Poschiavo

St. Moritz

AUSTRIA

Appenzello Esterno Appenzello Interno

GERMANIA

Grigioni (Graubünden, Grischun)

San Gallo (Sankt Gallen)

Turgovia (Thurgau)

Frauenfeld

Svitto (Schwyz)

Zurigo

Zurigo (Zürich)

Zug (Zugo)

S V I Z Z E R A

Berna (Berne)

Solothurn

Argovia (Aargau)

Lucerna (Luzern)

Basilea Campagna Soletta Delémont (Solothurn)

re

Ginevra (Genève, Genf)

FRANCIA

Fonte: www.plurilingua.ch (2020)

Giura (Jura)

Basilea

Basilea Città

Sciafusa (Schafhausen)

LIECHT.

LA SVIZZERA LINGUISTICA

Principale lingua parlata a casa dalla popolazione residente (in percentuale) 2020 Svizzero tedesco 56,7% 23,3% Francese 11,1% Alto tedesco Italiano 8,3 % Inglese 6,1 % 3,7 % Portoghese 3,2 % Albanese Spagnolo 2,8 % 2,4 % Serbo-croato Ticinese 1,4 % 0,5 % Lingua romancia 8,1 % Altre lingue

a F. A

Romanci

Italiani

Francesi

Tedeschi

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Tale immagine fa da sfondo ai numerosi discorsi isolazionistici che vedono negli infussi esterni una minaccia all’essenza della nazione. Nei momenti di massimo rischio, è stata questa immagine a mobilitare la resistenza e a giustifcare la chiusura a riccio e il ripiegamento su sé stessa della Svizzera. Al contempo, le tendenze isolazioniste sono sempre state forme di giustifcazione e legittimazione dell’alterità elvetica. Dopo il 1815, in particolare, quando la piccola repubblica neutrale si trovò incastonata come un prezioso solitario tra i grandi Stati continentali, queste tendenze si rafforzarono e il paese cominciò a percepirsi Sonderfall, caso speciale. A parte la Francia della Seconda e della Terza Repubblica, la Svizzera rimase fno al 1918 l’unica repubblica democratica in un’Europa di monarchie. Nel 1848 fu l’unico paese in cui ebbe successo la rivoluzione liberale e il liberalismo politico s’impose a livello nazionale. Durante l’Ottocento, quando in Germania e in Italia i movimenti di unifcazione portarono alla costituzione di grandi Stati nazionali fortemente centralizzati, che si autodefnivano in base al principio di uniformità linguistico-culturale, l’alterità del caso svizzero andò ulteriormente accentuandosi. In alternativa la Svizzera sviluppò un concetto di nazione multilingue, multiculturale e federale su basi volontaristiche, mettendo in evidenza il principio politico di unità nella molteplicità e di coesistenza pacifca tra membri di tre aree culturali europee quale punto di forza della propria, peculiare idea di nazione. Tra la fne del XIX e l’inizio del XX secolo la differenza rispetto al contesto europeo si acuì in ragione di fenomeni quali colonialismo, imperialismo e totalitarismo. Dal punto di vista politico, la Svizzera non ebbe alcun ruolo nell’espansione extra-europea e nella costituzione dei grandi imperi coloniali. Si mantenne fuori dalla concorrenza tra potenze coloniali e quando negli anni Venti e Trenta del Novecento – non solo in paesi confnanti come Germania, Austria e Italia, ma anche in Europa centro-orientale – il potere passò a regimi totalitari, la nazione elvetica spiccò per differenza, dato che qui le tendenze totalitarie non furono mai maggioritarie. La convinzione di essere eletti dal destino, dalla storia o da Dio si cementò defnitivamente sotto l’onda delle catastrof belliche del XX secolo. Il fatto di essere stati risparmiati da due guerre mondiali e dalle loro terribili conseguenze e di avere superato, isola di pace, anni di accerchiamento da parte dell’Asse confermò al paese la falsa idea di poter contare soltanto su sé stesso. La convinzione di aver superato ogni vicenda storica in quanto Sonderfall incentivò uno sguardo pessimista, se non di completo rifuto dell’Europa e favorì la percezione distorta di un continente e di un mondo che non avrebbero dato alcun contributo al successo del Sonderfall. La flosofa del caso speciale esclude dal proprio campo visivo il fatto che furono il sistema di equilibri tra potenze e l’interesse dei grandi vicini all’esistenza di un cuscinetto neutrale collocato nelle Alpi centrali a consentirne la sopravvivenza nell’èra delle grandi trasformazioni napoleoniche e post-napoleoniche. Inoltre, non tiene conto del contributo dato dagli Alleati nella seconda guerra mondiale alla liberazione della Svizzera dalla minaccia hitleriana e dimentica come in seguito anche la piccola nazione neutrale abbia goduto della deterrenza statuni-

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FIGLIA DELL’EUROPA

tense. Non da ultimo, trascura che anch’essa deve essere grata alla Nato e alle istituzioni europee per aver traghettato il continente in maniera sostanzialmente pacifca attraverso la fase di destabilizzazione post-1989.

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5. La storia della Svizzera è il racconto di un lungo e faticoso processo di integrazione costellato da momenti di crisi. Le analogie tra l’unifcazione dei confederati e la nascita dell’Ue sono impressionanti. Lo Stato federale svizzero rappresenta il tentativo, riuscito, di inglobare comunità molto diverse e spesso in contrasto tra loro in uno stabile e condiviso ordinamento politico. Il successo di tale integrazione non era affatto garantito, dato che le alleanze tra comunità dell’antica Confederazione non erano di carattere statale. Con l’unione federale i piccoli territori rivali puntavano a garantirsi maggiore sicurezza e infuenza, nonché una più ampia possibilità d’azione e di trattativa, senza rinunciare alla propria autonomia ovvero sovranità in nome di una centralizzazione forzata. La svolta decisiva verso la costituzione di un’entità statale e di una nazione svizzera fu compiuta dai Cantoni nella fase storica di grandi trasformazioni compresa tra il 1798 e il 1815. Non in virtù delle proprie forze, ma grazie a un massiccio apporto straniero: la giovane Repubblica francese rese possibile, durante la Rivoluzione elvetica del 1798, l’abolizione dei rapporti di sudditanza e l’equiparazione politico-giuridica dei cittadini elvetici. Con l’Atto di mediazione del 1803 Napoleone non solo ristabilì la piena sovranità cantonale, ma fece di Argovia, San Gallo, Grigioni, Ticino, Turgovia e Vaud nuovi Cantoni sovrani e nuovi membri della Confederazione. Russia, Austria e Gran Bretagna, infne, grazie al proprio intervento diplomatico alla Lunga dieta del 1814 e al Congresso di Vienna, riuscirono a far sì che questo primo ampliamento territoriale dell’assetto del 1513 e il rafforzamento dei vincoli confederali assumessero carattere vincolante, in contrasto con quanto richiesto soprattutto dalla Repubblica di Berna e dai Cantoni cattolici nella crisi di Stato del 1814. Con l’assetto federale del 1848 nacque infne una comunità di Stati più o meno piccoli che, similmente al processo d’integrazione europeo, rese possibile un certo grado di unità nella molteplicità culturale, creò uno spazio economico comune dotato di una valuta unica e sulla base di una reciproca fducia si dotò di istituzioni comunitarie. In questo nuovo quadro politico i singoli membri guadagnarono sicurezza collettiva, condivisero il ripudio della guerra quale strumento per l’imposizione di interessi particolari e delegarono la soluzione dei confitti alle istituzioni comunitarie. Per far sì che il funzionamento di questo ordine nell’interesse dei membri più grandi e più piccoli non dipendesse da un atto di cooperazione volontaria, tutte le parti accettarono di sottomettersi a un’istanza superiore che, in caso d’infrazione degli interessi comuni, potesse obbligare alla ragione un singolo membro attraverso misure giuridiche e diplomatiche. Negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo per molti politici svizzeri il progetto di una crescente integrazione dei 22 Cantoni allora presenti nel sistema federativo era anatema. Se all’epoca si fossero imposte tali tendenze, quella Svizzera che oggi i circoli nazional-patriottici vogliono preservare da ulteriori legami con l’Europa non sarebbe mai nata.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

La storia svizzera è dunque caratterizzata da una dialettica di relazione e isolamento. I rapporti intrattenuti con il continente oscillano da secoli tra questi due poli. Il legame con il contesto geopolitico è sempre stato la condizione primaria della sua sopravvivenza economica e politica. Dopo il crollo della supremazia napoleonica, tra il 1813 e il 1815, furono le potenze europee a salvare l’indipendenza della Svizzera. L’esistenza nel cuore dell’Europa di un cuscinetto di garantita neutralità, ma capace di difesa armata, offriva garanzie di sicurezza ai rinnovati equilibri politici europei e contribuiva alla pace sul continente. D’altra parte, le prese di distanza spirituali, mentali e politiche dal contesto europeo rappresentano l’espressione di una ricerca identitaria ovvero una forma di giustifcazione della propria esistenza come Stato nazionale. Ciò che sfocia in atteggiamenti di drastica chiusura verso l’esterno, dato che il conglomerato assai eterogeneo di Cantoni non è mai stato tenuto assieme da alcun collante linguistico-culturale, etnico o dinastico, essendo anzi cronicamente permeato da forti confitti d’interesse e da contrasti. Questo sguardo può servire a contestualizzare le ipostasi storiografche nazional-conservatrici e ad affnare la coscienza di quanto mutevoli siano le costellazioni geopolitiche. Inoltre, aiuta a cogliere meglio gli ordini di grandezza, i rapporti di forza e il peso specifco dei vari attori. Giudizi realistici sulla propria situazione nell’ambito di scenari geopolitici più vasti appaiono vieppiù necessari alla piccola nazione svizzera, che dovrebbe sempre tenere a mente premesse e limiti della sua indipendenza. L’analisi storica del cammino svizzero in Europa può servire a evitare di sopravvalutarsi, peccare di presunzione o cadere in un delirio di onnipotenza. Allenando lo sguardo a più corretti inquadramenti, riportando alla memoria il ruolo dell’Europa nella realizzazione del felice «caso svizzero», non si rischia di peccare di superbia. Soprattutto, può servire a non cadere nelle trappole di un pensiero mitizzante che s’illude di poter ricorrere a eterne verità storiche (a priori inesistenti) e alle sole proprie forze per superare le sfde del cambiamento. (traduzione di Monica Lumachi)

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

‘Vi racconto la mia Svizzera tra mito e realtà’ Conversazione con Marco SOLARI, già direttore dell’Ente Ticinese per il Turismo e presidente del Locarno Film Festival a cura di Lucio CARACCIOLO e Fabrizio MARONTA

LIMES Che cos’è la Svizzera? SOLARI Sono alla soglia degli

ottant’anni, sono nato e vissuto in Svizzera. Ma più vado avanti, più mi rendo conto che per molti versi questo paese è una forza misteriosa. In quanto tale, affascinante. Per spiegarla bisogna seguire le due grandi direttrici che hanno fatto della Confederazione Elvetica quel che è oggi. Due impulsi riassunti nel vecchio detto che vuole la Svizzera nata providentia deorum et industria hominum. Da un lato, gli ideali: che sono dentro ognuno di noi e ci fanno agire in modo politico, dando veste collettiva e organizzata alle istanze personali di libertà, progresso, giustizia. Dall’altro lato, il pragmatismo quotidiano di singoli e gruppi. Sono due facce della stessa medaglia, due aspetti non privi di reciproche contraddizioni ma fortemente complementari. Senza il primo, la Svizzera non sarebbe stata quel crogiolo di libertà e anticonformismo che storicamente ha rappresentato; verrebbe meno la sua dimensione ideale, a tratti mitica. Senza il secondo, il mito non si sarebbe inverato e sarebbe rimasto in una dimensione onirica, irrealizzata. È un equilibrio instabile, dinamico. L’equilibrio è l’essenza, la cifra prima della Svizzera: equilibrio tra anelito e prassi, ma anche nel senso della miriade di compromessi interni necessari a tenere insieme un paese così vario, fatto di individui e territori gelosi della loro indipendenza. LIMES È sempre stato così? SOLARI Sì. Già nel 1182 è questo spirito di autonomia, quest’intolleranza per l’arbitrio dei signorotti che spinge le due valli di Blenio e Leventina, con la benedizione dei canonici di Milano, a stipulare l’accordo di reciproca assistenza passato poi alla storia come Patto di Torre, al quale qualcuno ama far risalire il protonucleo della futura realtà svizzera. Intorno al 1220, i pragmatici abitanti del Canton Uri trovano il modo di «vincere» l’impervia Gola della Schöllenen. Poiché la dura roccia, che scende quasi verticalmente verso il fume Reuss, rendeva impossibile

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‘VI RACCONTO LA MIA SVIZZERA, TRA MITO E REALTÀ’

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scolpire un sentiero, dei fabbri di Göschenen o di Andermatt avrebbero avuto l’idea di fssare alla parete delle catene sporgenti. Queste sostenevano travi sulle quali erano poste delle assi, a formare passerelle: gli antenati dei successivi ponti. Grazie a ciò viene aperto il Passo del San Gottardo, che diventa la strada più rapida tra nord e sud delle Alpi. LIMES Una rivoluzione commerciale. SOLARI Non solo! Allora prende infatti avvio una dinamica fondativa. Da sud – si badi bene: non da nord – insieme alle merci cominciano a fuire le idee. Idee di autonomia, di solidarietà. Idee di cooperazione: l’elemento cruciale che avrebbe «fatto» la Svizzera e che continua a informarne il sistema politico, istituzionale e sociale. Gli storici affermano non esservi continuità storica tra il Patto di Torre e i successivi patti confederativi. Dal punto di vista strettamente formale, giuridico, è probabilmente così. Sono però convinto che questo fusso di idee e di aspirazioni, che attraverso il San Gottardo penetra nelle valli elvetiche, ne plasmi gradualmente cultura e società, dando respiro e prospettive diverse alle istanze presenti nell’accordo del 1182. Ma è con il famoso Patto del 1291, atto di nascita della prima Confederazione Elvetica, che prende vita lo Stato svizzero di cui nel 1991 abbiamo festeggiato il 700° anniversario. LIMES Anniversario la cui organizzazione fu affdata a lei. SOLARI In qualità di delegato del Consiglio federale per le celebrazioni, ricordo bene le interminabili discussioni con gli storici sulla veridicità del patto, che la datazione al carbonio ha appurato essere stato stilato tra il 1280 e il 1315. Circostanza conforme alla vicenda storica: il primo patto confederativo di cui si abbia notizia risale infatti al 1269, mentre i confni della Confederazione prendono forma nel tempo con una serie di accordi successivi. Fatto sta che quel patto, redatto in latino, presenta un aspetto interessantissimo: gli esperti vi ravvisano forti infuenze linguistiche meridionali. Tanto che in un passaggio, verso la fne, compare addirittura la parola «guerra»: «Si vero guerra vel discordia inter aliquos de conspiratis suborta fuerit…» («Se tra alcuni dei confederati è sorta una guerra o una discordia…»). Ora, gli svizzeri tedeschi hanno alimentato per secoli la narrazione del patto come fglio esclusivo delle tre comunità – Uri, Svitto e Untervaldo – che lo stipularono in origine. Narrazione trasposta in mito con la fgura di Guglielmo Tell, che cristallizza l’idea di una Svizzera scaturita dal suo ventre germanico e che lì conserva il suo nucleo. Ma l’idioma in cui è vergato il patto ci racconta una storia in parte diversa: lo spirito confederativo si nutre probabilmente anche del vento da sud che spira oltralpe grazie alle infuenze – alle contaminazioni, diremmo oggi – politico-culturali giunte delle valli subalpine, magari addirittura da Milano, insieme ai commerci. Il mito non è mai completamente falso, perché affonda nel sentire collettivo e nella vicenda storica: lo spirito di sostegno reciproco che informa il Patto del 1291 esiste e da allora è il carburante della Confederazione. Ma la storia non è mai completamente vera, perché a posteriori tende a essere addomesticata e semplifcata a fni pedagogici, strategici, economici. A fni politici. LIMES In questo patto a dominare è l’idealismo o il pragmatismo?

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Entrambi. Pragmatiche sono le ragioni che portano a stipularlo in prima istanza, poi ad allargarlo ad altre valli e alle città, in ragione della «malizia dei tempi» e della conseguente necessità di dare pratica attuazione al motto «l’unione fa la forza». In preambolo, si ricorda però come sia «opera onorevole», oltre che «utile, confermare nelle debite forme i patti della sicurezza e della pace». L’unione come forma di autodifesa, dunque, ma anche come strumento per promuovere dei valori. In chiusura si rammenta invece che «tutte le decisioni sopra esposte sono state prese nell’interesse e a vantaggio comune»: dichiarazione al contempo pratica ed etica, laddove nel richiamo al bene comune – da esercitare collettivamente – fa la sua comparsa il principio democratico. Come dicevo, Guglielmo Tell – fgura storicamente mai esistita – è forse la trasposizione più famosa e compiuta di questo «mito concreto» a fondamento della Svizzera. Tell non è invenzione di Schiller, come soprattutto gli ambienti d’opposizione afferenti alla sinistra radicale volevano far credere. Intorno al 1480 un certo Hans Schreiber di Hochwald, nel Weißbuch (Libro bianco) di Sarnen parla di Guglielmo Tell. È la prima fonte a citarlo: due secoli dopo la sigla del patto, è già forse un’interpretazione mirante ad assodare una verità storica a uso di una Confederazione ormai compiuta. Tutto è così ammantato dal mito: anche il tiranno, il leggendario balivo asburgico Albrecht Gessler, il cui brutale dominio sugli indomiti montanari elvetici porterà alla rivolta di Tell e al primo nucleo confederale. Da cui la defnizione di Guglielmo Tell quale «primo terrorista» coniata, con fccante acume storico, da Max Frisch. La leggenda sarà ripresa nel 1550 da Aegidius Tschudi nel Chronicon Helveticum e poi da altri, fno alla magistrale versione di Schiller, entrando così a far parte del canone svizzero. Di tutta la Svizzera, tanto che in Schiller spicca l’elemento cristiano: nel momento del giuramento, le tre dita aperte – pollice, indice e medio – stanno a simboleggiare la Trinità, mentre le due chiuse – anulare e mignolo – la sottomissione di corpo e anima a Dio. Alla continuità del mito fa riscontro la sorprendente costanza dello spirito che il mito simboleggia. Spirito che anela a una grande autonomia e che pertanto rigetta i giudici stranieri: «Ognuno deve obbedire al suo giudice e, se necessario, indicare quale sia nella valle il giudice sotto la cui giurisdizione egli si trova», si legge nel Patto del 1291. Storia? Sì, ma anche attualità: il rifuto di assoggettarsi alla Corte di giustizia europea è tra le ragioni che tengono la Svizzera fuori dall’Ue, sebbene le sentenze dell’Aia condizionino ormai più o meno direttamente il paese in svariati ambiti. LIMES Sta dicendo che la forza del mito e dell’ideale condanna la Svizzera a forme di anacronismo, la irrigidisce impedendole di adattarsi ai tempi? SOLARI Tutt’altro. È il connubio tra idealismo e pragmatismo a salvare il paese da questo rischio, come attestano da sempre le vicende intra-elvetiche. Da subito la Confederazione è un condominio molto litigioso: si discute su tutto, ma quando s’affaccia un pericolo esterno si serrano i ranghi. Questo è particolarmente vero per la difesa del Passo del San Gottardo, il cui pieno controllo emerge fn dall’inizio come interesse nazionale strategico. I Visconti e gli Sforza avevano tutto l’interesse a conquistare il passo, che per Milano rivestiva altrettanta importanza economiSOLARI

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‘VI RACCONTO LA MIA SVIZZERA, TRA MITO E REALTÀ’

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co-strategica. Un valico si controlla appieno dominandone entrambi i versanti, dunque gli svizzeri – su questo sempre uniti – si sono costantemente preoccupati di controllare le valli a sud del Gottardo. Per questo a partire dal 1515 i confederati creano gradualmente i cosiddetti ennetbirgische Vogteyen, o baliaggi ultramontani: quattro territori colonizzati di proprietà comune dei dodici Cantoni – Appenzello non partecipa. Questo assetto, i cui confni linguistici sono quelli che si osservano ancora oggi, durerà fno al 1798: quell’anno Napoleone conquista la Svizzera e libera il Ticino, peraltro dopo averlo battezzato tale in quanto prima la denominazione non vigeva. Fino ad allora, nel Ticino ante litteram i confederati attuano una politica coloniale: non vengono sviluppate strade, non c’è istruzione. Il mandato di balivo dura due anni ed è acquistabile per circa 150-250 mila franchi odierni: in 24 mesi, chi lo detiene – persone normalmente ignare di economia – deve rientrare dell’investimento e si dà così alla spoliazione del territorio, perpetuando il circolo vizioso della povertà. C’è però, specie nel XVII secolo quando a Milano imperversavano i lanzichenecchi e la peste manzoniana, un certo rispetto dell’autonomia: sotto questo proflo, infatti, a nord e a sud delle Alpi la forma mentis è analoga. Un secolo dopo però, quando il Milanese sperimenta l’illuminismo asburgico, la Confederazione si involve, si ripiega su sé stessa. La differenza qui la fa soprattutto il balivo: ce n’è di più e meno capaci, di più e meno illuminati. Così, sorprendentemente, in questo periodo accanto a Basilea l’altro grande centro tipografco svizzero è Lugano. Qui stampa Casanova, qui nel 1759 «sotto l’altra protezione elvetica» è fondato Nuove di diverse corti e paesi, anche detto Gazzetta di Lugano: giornale in italiano che riporta le medesime notizie da corti europee diverse, affnché il lettore possa farsi una propria, libera opinione. Torna il connubio tra pragmatismo e idealismo, questa volta in un ambito – l’editoria – fondamentale per le fortune economiche e culturali dell’Europa. Non a caso è un balivo di Basilea, Peter Ochs, avvocato e fautore delle idee rivoluzionarie francesi, che incita il Ticino a divenire Cantone indipendente. Questa tradizione tipografca sarà preziosa per il Risorgimento italiano: le tipografe ticinesi – la Landi di Mendrisio, la Vanelli-Ruggia di Lugano, l’Elvetica di Capolago, la Tipografa della Svizzera Italiana di Lugano dei fratelli Ciani e le altre – stampano pamphlet, libri e locandine che sono poi trasportati in barca da Capolago o da Lugano verso Porto Ceresio e da lì distribuiti. I governatori asburgici minacciano ripetutamente la Svizzera per questo, arrivando a proporre uno scambio territoriale tra il Mendrisiotto – dove ha sede il grosso delle tipografe – e parte del Vorarlberg oggi austriaco. Ma la Confederazione dice no, pur vedendo il Ticino con sospetto e con una certa insofferenza: un feudo, in fn dei conti, ma anarchico e insubordinato al punto da far rischiare ai confederati lo scontro con gli Asburgo. LIMES Era Milano che aveva contagiato il Ticino con il suo illuminismo o viceversa? SOLARI Credo che l’infusso sia venuto in massima parte da sud: il Ticino era un territorio troppo piccolo e complessivamente arretrato per incubare un «proprio» illuminismo. Non va però dimenticato che, essendo un importante centro di stampa, il Ticino ha visto le idee illuministe prendere forma, contribuendo a diffonder-

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

le. La presenza di tipografe non attesta necessariamente una cultura diffusa, che infatti al tempo in Ticino non c’è, ma è pur sempre un presidio culturale animato da persone che lì, in Ticino, trovano i mezzi e la libertà per stampare ciò che vogliono. Quindi no: il Ticino non «produce» illuminismo, ma ha tutti i presupposti per contribuire a diffonderlo e per esserne infuenzato, divenendone a suo modo parte. Alessandro Manzoni studia in Ticino fnché il padre non lo richiama. Più tardi il Cantone accoglierà i grandi fuoriusciti: Carlo Cattaneo, Giuseppe Mazzini, Cristina Trivulzio di Belgioioso tra gli altri. LIMES Cosa ha cambiato dal punto di vista svizzero, ticinese in particolare, l’Unità d’Italia nel 1861? SOLARI Ha cambiato molto. Nell’Ottocento il Ticino soffre. La povertà è indescrivibile, specie nel Sopraceneri dove a fne secolo c’è ancora gente che vive in riva ai fumi al riparo di palizzate erette tra grandi massi, come cavernicoli. La nonna di Piero Bianconi, un intellettuale nato a Minusio nel 1899, raccontava che a febbraio doveva scavare sotto la neve in cerca di erba con cui sfamare i fgli. La stagione peggiore è l’inverno: per cinque-sei mesi l’anno il Cantone resta isolato dal resto della Svizzera per la neve che blocca il Passo del San Gottardo. Milano è una valvola di sfogo fondamentale: sono oltre seimila gli uomini ticinesi che ci lavorano, potendo così sfamare sé stessi e le loro famiglie. Dato l’appoggio al Risorgimento, nel 1853 il governatore austriaco Josef Radetzky espelle infatti i ticinesi, molti dei quali sono obbligati a emigrare, principalmente verso le Americhe. Un Ticino che paga dunque con la sua condizione lo scotto agli ideali di libertà e indipendenza si aspetta dal nuovo Stato italiano una forma di gratitudine, ma Cavour lo delude: chiude le frontiere del regno in ossequio all’autarchia economica, rovesciando sul Cantone un disastro. Si palesa allora la vera, fondamentale differenza tra Ticino e Italia: la cultura politica. Codecisione e autogoverno dal basso connotano il primo; verticismo e attesa del salvatore hanno sempre caratterizzato la Penisola. Succede così che i primi oppositori alla monarchia sabauda, gli anarchici, riparano in Ticino, a Lugano e altrove. Alcuni si raccolgono intorno a Mikhail Bakunin, altri fanno circolo a sé. Allarmatissimi, gli svizzeri tedeschi premono sui ticinesi che però inizialmente rifutano di espellerli, fnché anch’essi cedono: «Addio Lugano bella, o dolce terra mia, cacciati senza colpa gli anarchici van via». Fino ad allora, però, gli anarchici operano in Ticino e lo infuenzano. Poi, 5 settembre 1898: i moti di Milano sono repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris. Dove si rifugiano i socialisti? A Lugano, dove scrivono sul locale giornale socialista Libera stampa e insegnano, dando lustro nazionale al liceo cittadino. Ancora: 1922, i grandi oppositori socialisti, liberali, conservatori al fascismo riparano a Lugano, oltre che a Friburgo, a Ginevra e altrove nella Confederazione. Scrivono intensamente sulla Gazzetta Ticinese, sul Dovere, sul Corriere del Ticino e sui giornali conservatori, contribuendo ad accrescere una certa diffdenza, presente in parte ancora oggi, del Ticino verso l’Italia uffciale. LIMES Se fosse prevalsa l’idea federale di Cattaneo, il Ticino sarebbe entrato in una federazione italiana?

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No, perché il Ticino teneva e tiene fortissimamente alla propria indipendenza, che l’assetto confederale svizzero gli garantisce. Ciò malgrado le divisioni interne al Cantone: dove la parte settentrionale guarda soprattutto a nord, alle Alpi, mentre Lugano e più in generale il Ticino meridionale si rivolgono, con prudenza ma con propensione, a sud. LIMES Lei ha descritto un Ticino e una Lugano molto specifci, peculiari. Cosa li univa e li unisce al resto della Svizzera? SOLARI La forma mentis, la cultura politica, gli ideali affermati in nuce già nel Patto di Torre: spirito di autonomia, una certa forma di libertà, cooperazione. Ideali che, ribadisco, percorrono tutta la storia svizzera. Nel 1815, al Congresso di Vienna è uno svizzero francese, Charles Pictet de Rochemont, a convincere le grandi potenze della necessità di una Svizzera compattamente neutra. Ed è un altro svizzero francese, Frédéric-César de La Harpe, precettore dello zar Alessandro I, a convincere sempre in quella sede il sovrano russo della necessità di rendere indipendente il Canton Vaud. Uno per tutti, tutti per uno: questo il principio che regge la Confederazione e il Ticino non fa eccezione. Napoleone stesso aveva capito e affermato che la Svizzera era federalista: poteva cioè esistere come Stato solo in virtù del compromesso confederale che, attraverso meccanismi cooperativi, protegge l’anelito all’indipendenza e alla libertà dei suoi cittadini. Consentendo alla Svizzera di farsene portatrice anche all’esterno: con il ruolo nel Risorgimento italiano, con l’azione umanitaria attraverso la fondazione della Croce Rossa, con lo spirito di apertura verso la sofferenza altrui. Sono però innegabili momenti di incomprensibile e colpevole chiusura, per esempio nei confronti degli ebrei perseguitati durante la guerra. LIMES La ricchezza, anche e soprattutto fnanziaria, ha corrotto questi ideali? Il denaro è ancora un mezzo o è diventato un fne? SOLARI È l’uno e l’altro. Fare affari non è di per sé abominevole. Non lo è produrre, creare ricchezza. E la Svizzera ha una lunga tradizione protestante. Sono tra quelli secondo cui, per riprendere Max Weber, il protestantesimo ha effettivamente concorso alla nascita e all’ascesa del capitalismo. Le grandi banche svizzere nascono anche da lì, dal forte connubio tra opere terrene e dottrina della predestinazione che l’etica protestante, specie nella sua declinazione calvinista, stabilisce fornendo così un potente incentivo alla creazione di ricchezza. Ciò detto è innegabile che nel settore fnanziario svizzero si siano annidati anche dei furfanti e che costoro abbiano fatto danni, sotto il proflo materiale ed etico. Per questo vanno combattuti, anche se purtroppo questo tipo di comportamenti è parte dell’umana specie. Ciò non toglie però che le banche abbiano contribuito a far grande la Svizzera, al pari delle molte realtà manifatturiere più o meno grandi e altamente innovative, di cui il paese resta ricchissimo. Tutte manifestazioni di quella industria hominum di cui parlavamo all’inizio. Nondimeno vedo oggi uno stallo: il paese appare insicuro, quasi smarrito, deve recuperare i suoi grandi ideali storici affnché la pragmatica, quotidiana salvaguardia del benessere acquisito non cancelli quell’idealismo – la providentia deorum – che fa parte integrante e irrinunciabile del suo dna. SOLARI

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LIMES A cosa si deve questo smarrimento? SOLARI È un tratto dei tempi che non risparmia

la Svizzera: paese a suo modo eccezionale, ma che abita pur sempre questo mondo. Ma in un mondo di insicurezza totale dove la democrazia appare in preoccupante ritirata, la Svizzera potrebbe e dovrebbe ergersi a «torre salda, che non ondeggia mai la sua cima per quanto i venti soffno», per dirla con Dante. Potrebbe essere un faro: di diritti, di libertà, di democrazia. La metafora dantesca è usata anche da Jorge Luis Borges, che era stato a Ginevra e che nel bellissimo I congiurati idealizza la Svizzera. In mezzo all’Europa si erge una torre di ragione, dice; parlano lingue diverse, hanno religioni diverse ma hanno deciso di unire le loro forze e di essere ragionevoli. Speriamo, conclude il grande poeta, che il mondo possa essere come questi ventidue Cantoni e che queste mie parole siano profezia. Una profezia che Borges vede inverata nella Svizzera. Grazie anche all’esito della guerra del Sonderbund del novembre 1847, aggiungerei: unica rivoluzione di successo, tra quelle che da lì al 1848 infammeranno l’Europa. Allora, come già trent’anni prima a Vienna, la Svizzera francese esprime l’uomo giusto al momento giusto: quel generale Guillaume Henri Dufour che guida l’esercito confederato dei Cantoni conservatori (prevalentemente cattolici) alla rapida vittoria contro il campo radicale (in prevalenza protestante), tutelando l’unità del paese e favorendo il compromesso. Le ferite di quella guerra però restano: essa partorisce la Confederazione Elvetica moderna, la cui costituzione di matrice protestante ha compiuto quest’anno 175 anni. Ma i «miti della montagna», quelli sono e restano di origine cattolica e nel 700° anniversario ho avvertito questo iato. LIMES La Svizzera è quindi una nazione irrisolta? SOLARI Irrisolta no, densa di contraddizioni sì. Nel novembre 1990, tre settimane prima di morire, il grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt pronuncia un famoso discorso in cui, riferendosi alla prigionia di Václav Havel sotto il regime comunista, commenta: «Lo svizzero gode del vantaggio dialettico di essere al contempo prigioniero e secondino. (…) La Svizzera, una prigione: il carcere non ha bisogno di mura, poiché i suoi carcerati sono guardie che sorvegliano sé stessi. I secondini sono persone libere e perciò fanno affari tra di loro e con il resto del mondo, e quanti! Essendo tuttavia prigionieri non possono aderire alle Nazioni Unite e l’Unione Europea procura loro un forte mal di testa». Quelle parole colgono con raro acume introspettivo l’essenza di un paese che storicamente ha innalzato la libertà sopra ogni altro valore, orientando al suo concreto perseguimento scelte e strumenti. Un paese che però risente storicamente di una geografa costrittiva e del continuo, logorante compromesso necessario a tenerlo unito. LIMES A proposito di logorio del compromesso: il 700° anniversario di cui soprintese le celebrazioni fu accompagnato dalla polemica del «siebenhundert Jahre sind genug» («settecento anni sono abbastanza»). Da dove nasceva quel malessere? SOLARI Su questo ho una mia teoria, per certi aspetti controversa. In sintesi: il 1945 porta alla fne traumatica del pensiero fascista, che in Germania, in Austria e in Italia sopravvive in forme carsiche, ma che ha nella vittoria alleata una drastica

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cesura. In Svizzera, che non ha fatto la guerra, certe forme di pensiero autoritario e larvatamente fascista sono rimaste. Il 700° è caduto alle fne di un periodo, la guerra fredda, in cui lo Stato aveva messo in piedi un sistema di schedatura di massa dei suoi cittadini. I militari avevano dato vita ai «festeggiamenti diamante», che celebravano la presunta centralità dell’esercito nella tutela della neutralità svizzera, quando invece è noto che la Svizzera si salvò dalla guerra e dalle sue più nefaste conseguenze grazie a molti compromessi e che il deterrente delle Forze armate ci fu, ma non fu determinante. C’è stata insomma una parte della Svizzera che si è rifutata di celebrare il mito. Tra questi anche la sinistra e gli ambienti dell’opposizione intellettuale, il cui Kulturboykott ha dato voce al senso di disagio e frustrazione per questi elementi irrisolti del passato. Ma io dissi allora e ripeto oggi: ben venga il Kulturboykott! Non solo perché la cultura è contestazione e opposizione, è dialettica permanente. Ma anche perché il senso del 700° come lo avevamo impostato era la discussione, il confronto su ciò che siamo e dove vogliamo andare. Un interrogativo che oggi, in tempi d’incertezza, si ripropone più forte che mai anche nelle vitali relazioni con l’Europa. Non dubito che una volta di più, con realismo e con pragmatismo, il mio paese troverà la sua strada senza rinunciare – o peggio, tradire – i valori della sua lunga storia.

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RAFI Valligiano ma urbano, campanilista ma cooperativo, polemico ma dialogante, conservatore ma innovatore. Il tipo svizzero, se esiste, è un concentrato di ossimori che riflette la natura composita e contraddittoria del paese. ‘Nella vita ci si vede sempre due volte’. di Reza

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1. ON DIMENTICHERÒ MAI QUELLA FRASE. Una volta una nota imprenditrice svizzera mi disse: «Con il tuo nome non farai mai carriera». Se la profezia si sia avverata o meno è questione di punti di vista. In ogni caso, potrò almeno dire di aver scritto un articolo per Limes. La donna in questione – siamo ancora in buoni rapporti – non voleva né sminuirmi né ferirmi con il suo commento. È stata semplicemente onesta con me – cosa molto poco svizzera – mostrandomi inconsapevolmente i limiti dell’integrazione nel mio paese. Sono nato a Zurigo e ho sempre avuto un passaporto svizzero, il «passaporto rosso», come viene chiamato con riverenza dalla popolazione. Ma con un nome persiano e un’ascendenza iraniana da parte paterna, non è facile fare il giornalista pubblicamente esposto in un paese come la Svizzera. Il mondo anglosassone è molto più avanti: negli Stati Uniti uno dei più famosi analisti politici si chiama Fareed Zakaria, ha origini indo-musulmane e ha il suo talk show sulla Cnn. Christiane Amanpour, reporter britannico-iraniana, è l’intervistatrice più famosa al mondo e lavora per la stessa rete. La caporedattrice del Financial Times è di origine libanese e si chiama Roula Khalaf. Who cares? Che cos’è quindi la Svizzera? Un inferno per l’integrazione, un luogo cupo e privo di morale? Addirittura «il cuore di tenebra dell’Europa», come l’ha defnita l’Economist nel 2017? In realtà, quella della Svizzera è storia d’integrazione in cui anche la mia vicenda familiare si inserisce perfettamente. Mio padre lasciò Teheran negli anni Sessanta per studiare ingegneria al Politecnico Federale di Zurigo (ETH), istituto fondato con l’aiuto di stranieri. A Zurigo conobbe mia madre, donna svizzera di origini italiane. I suoi antenati da parte materna si trasferirono da Bergamo durante la grande ondata migratoria italiana alla ricerca di una vita migliore. Il mio albero genealogico è quindi svizzero in tutto e per tutto. Questo fa di me un homo

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helviticus? Esiste davvero questo homo helveticus e cosa lo caratterizza? Che aspetto ha un’identità comune in un paese privo di unità linguistica e religiosa? Rispetto ai suoi vicini europei, la Svizzera ha una caratteristica distintiva: è piccola. Non ha eroi del calibro storico di Giuseppe Garibaldi o di Napoleone Bonaparte. All’interno dei suoi confni non ha metropoli come Roma, Parigi o Londra. Per le sue modeste dimensioni, la Confederazione Elvetica è sempre dipesa dall’integrazione. Non può fare altrimenti. Ma al suo interno un’unica grande integrazione, una svolta che spicchi nei libri di storia, non è mai avvenuta. Esempi del genere esistono altrove: gli Stati Uniti hanno superato la segregazione razziale, la Germania è uscita dal nazionalsocialismo. In Svizzera, invece, l’integrazione dei singoli gruppi è un elemento costante del nation building. Eppure, nei primi secoli dopo la fondazione della Confederazione (1291) si verifcò il fenomeno opposto. Gli uomini svizzeri s’integrarono in massa al di fuori della loro patria, come guerrieri al servizio di altre potenze europee. I mercenari furono uno dei fattori economici più importanti del tardo Medioevo e della prima età moderna. Gli storici stimano che nel XVII secolo un terzo degli svizzeri adulti lavorasse come mercenari all’estero. I papi non hanno mai rinunciato a questo servizio. La Guardia svizzera in Vaticano è la testimonianza ancora visibile dell’epoca. Un’integrazione basata sull’immigrazione si ebbe solo con l’ondata di rifugiati ugonotti, i protestanti in fuga dai pogrom delle autorità francesi che raggiunsero il loro sanguinoso culmine nella notte di San Bartolomeo nel 1572. Naturalmente, la maggior parte di loro si stabilì nella Svizzera occidentale e francofona, ma cognomi ugonotti come Sarasin, Magnin e Clément sono comuni anche nella Svizzera tedesca. Il momento decisivo per la genesi dell’attuale Svizzera venne più tardi. L’aiuto più importante alla nascita dell’homo helveticus si registrò nel 1848 con la fondazione dello Stato federale. La prima costituzione federale, la separazione dei poteri, l’istituzione del parlamento e del sistema politico che prevale ancora oggi non furono che parti di un monumentale progetto d’integrazione. Il nuovo Stato moderno riuniva le diverse sfere della vita a vari livelli. In primo luogo, vennero integrate le quattro regioni linguistiche. L’unione della parte italofona a sud delle Alpi, della parte repubblicano-burgunda della Svizzera francese, della Svizzera tedesca e delle valli romance dei Grigioni sotto l’ombrello comune di un’unica nazione è esempio per molte regioni multietniche nel mondo. L’homo helveticus è cittadino o campagnolo? Un altro aspetto da considerare è l’integrazione delle città. Agli esperti piace parlare della frattura tra regioni linguistiche. Ma tra aree urbane e rurali ne esiste una altrettanto ampia, di cui si scrive molto meno e che ancora oggi è politicamente evidente. Un episodio del tardo Medioevo poco conosciuto illustra perfettamente questo confitto. Nel XV secolo la città tedesca di Costanza voleva entrare a far parte della vecchia Confederazione Elvetica, ma la maggioranza dei Cantoni respinse la richiesta della metropoli. Una decisione altamente irrazionale in termini economici e politici, dovuta al timore delle zone rurali di essere sopraffatte dalla popolazione urbana.

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Un’ulteriore questione riguarda la confessione dell’homo helveticus. La religione fu la terza sfera su cui lo Stato federale del 1848 compì il suo storico atto d’integrazione. La maggioranza dei Cantoni svizzeri aderì alla Riforma e voltò le spalle a Roma. Zurigo con Huldrych Zwingli (1484-1531), Ginevra con Giovanni Calvino (1509-1564) e anche Basilea divennero centri del protestantesimo. A questi si contrapponevano i Cantoni cattolici della Svizzera centrale, Friburgo e Vallese. Tensioni simili a quelle di una guerra civile si ripresentarono più volte e la guerra dei Trent’anni ebbe le sue propaggini nella Confederazione. L’ultima battaglia sul suolo svizzero ebbe luogo nel 1847 e fu lo scontro decisivo tra Cantoni conservatori e liberali, con il Ticino cattolico che si unì al campo liberale. Rispetto ad altri contesti storici, l’esito fu di grande civiltà: cadde a malapena un centinaio di soldati, non ci furono pogrom, pulizie etniche, notti di San Bartolomeo. Furono invece gettate le basi per la costituzione federale adottata l’anno successivo: la minoranza cattolica del paese fu integrata nel sistema politico dopo decenni di confitto confessionale, il cosiddetto Kulturkampf. In seguito, il Partito popolare democratico (Christlichdemokratische Volkspartei, CVP) entrò a far parte del governo del paese, il Consiglio federale, che permane tuttora. 2. Come ho già accennato, grazie a mia madre scorre sangue italiano nelle mie vene, il che in Svizzera è ormai quasi la norma. Questo ci porta a un altro ambito dell’integrazione, forse il più signifcativo per la realtà sociale: l’immigrazione. Gli immigrati hanno sempre contribuito a far girare il motore dell’economia svizzera. I tedeschi hanno portato a Zurigo la stampa nel XVI secolo e l’illuminismo nel XVIII secolo, mentre nel XIX secolo i liberali tedeschi in fuga dalle autorità aristocratiche hanno aiutato la città, un tempo irrilevante stazione su una rotta commerciale, a vivere un’ascesa economica e intellettuale. Il Politecnico Federale di Zurigo fu fondato nel 1854 e acquisì in seguito fama mondiale. Durante quest’epoca la rete ferroviaria svizzera fu continuamente ampliata, raggiungendo un punto di massima notorietà internazionale nel 1880 quando terminò la costruzione della galleria ferroviaria del San Gottardo, lunga 15 chilometri. Fu un’opera di valore simile a una Muraglia cinese per la Svizzera: un asse di trasporto, un’arteria vitale che collegava il Nord e il Sud europei. Iniziata dal brillante imprenditore zurighese Alfred Escher (1819-1882), fu possibile soltanto grazie all’immigrazione. Più precisamente grazie agli immigrati italiani, che vi lavorarono in migliaia e vi morirono in 199. La galleria, una delle costruzioni del secolo, è opera italiana. Il tunnel è un granitico monumento all’immigrazione italiana, fondamentale per la ripresa economica della Svizzera. Grazie alla rivoluzione industriale e a imprenditori visionari, la Confederazione diventò improvvisamente un paese d’immigrazione. Vennero costruite forenti fabbriche tessili. L’industria chimica e il settore edile registrarono un boom. La Svizzera, un tempo povera, sviluppò una prosperità che non sarebbe stata possibile senza l’immigrazione. L’esigenza di produttività si spinse a tal punto che Berna e Roma strinsero nel 1868 un accordo a garanzia della libera circolazione di manodopera, ben cent’anni

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prima della libera circolazione delle persone dentro l’Unione Europea! I lavoratori italiani portarono con sé mogli, fgli, lingua, cibo. All’inizio del XX secolo la pasta era ancora un piatto esotico. Oggi appartiene, in tutte le sue varianti, alla quotidianità della cucina svizzera. I cognomi italiani – Romano, Bianchi, Esposito, Bindella, Greco – sono tanto normali nella Svizzera tedesca quanto quelli di origine alemanno-tedesca, ticinese o della Svizzera occidentale. Gli immigrati dal Sud portarono con sé anche idee politiche. La nascita del movimento operaio svizzero, dei sindacati e dei partiti socialisti sarebbe stata impensabile senza l’impulso italiano. Oggi la Langstrasse di Zurigo è il quartiere a luci rosse e della movida cittadina. In passato era il centro del movimento operaio italiano in Svizzera. La nuova cultura causò contraccolpi. L’industriale conservatore James Schwarzenbach (1911-1994) raccolse attorno a sé gli scontenti e li mobilitò contro la minoranza. Con la sua Azione nazionale lanciò nel 1968 l’iniziativa popolare sull’«inforestierimento» (Überfremdung), passata alla storia come Iniziativa Schwarzenbach. Sorta di pioniere del populismo di destra, intendeva far rispettare la quota massima di stranieri del 10%, che avrebbe comportato l’allontanamento dal paese di 300-400 mila persone. Secondo i promotori dell’iniziativa, sconftti nel referendum del 1970, gli stranieri erano ben accetti solo se svolgevano lavori snobbati dai locali. Come parte integrante della società, tuttavia, erano meno graditi. L’homo helveticus è xenofobo? No, ma questo gioco di equilibri che diede vita all’ambiente dei sostenitori di Schwarzenbach esiste ancora oggi. Alcuni politici conservatori di destra sono consapevoli del valore della manodopera straniera a basso costo e utilizzano la politica di bassa tassazione per attirare aziende nel paese. Ma ciò provoca ulteriore immigrazione: persone altamente qualifcate, come specialisti informatici o medici, ma anche lavoratori a basso costo nei settori della ristorazione o dell’agricoltura. Allo stesso tempo il più grande partito conservatore svizzero, l’Unione democratica di centro (Udc), ha lanciato la campagna «dieci milioni di svizzeri» (Zehn-Millionen-Schweiz) alle elezioni del 2023, ottenendo un grande successo. Ai tempi di Schwarzenbach, lo scrittore Max Frisch (1911-1991) colse questa contraddizione in una famosa frase che non ha perso attualità: «Abbiamo chiamato braccia, sono arrivati uomini». Venne e viene ancora molta gente. Nel 2022 il 26% dei residenti stabili era straniero, un tasso superato in Europa solo dal Lussemburgo. Una persona su quattro non ha passaporto svizzero e ha quindi un retroterra culturale diverso. A ciò si aggiungono i naturalizzati, le persone (immigrati o loro fgli) che hanno acquisito un passaporto svizzero. Questo fa della piccola repubblica alpina uno Stato multietnico, ma tuttora privo del mito dell’integrazione che esiste nel Nuovo Mondo, secondo il quale tutti possono farcela e le persone sono uguali nelle loro opportunità, come nei rischi di fronte al Dio del capitalismo. Non esiste un Swiss Dream analogo all’American Dream statunitense. «Con il tuo nome non farai mai carriera». La Svizzera è un’entità federale, ragion per cui fno a poco tempo fa i singoli Comuni potevano decidere da soli a che livello fssare gli ostacoli per la cittadinanza. Questa libertà dissennata ha portato

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talvolta a eccessi grotteschi, divenuti oggetto della produzione culturale svizzera. La commedia del 1978 I fabbricasvizzeri del regista Rolf Lyssy, che prende in giro la follia del sistema di naturalizzazione, è diventata un cult e resta uno dei flm più popolari del paese. 3. L’homo helveticus è multiculturale? Come può una piccola nazione di nove milioni di abitanti affrontare una tale pressione migratoria? Esiste un’identità svizzera incentrata sull’individuo? Anzi, esiste veramente un’identità svizzera o è solo un’entità artifciale? La tanto invocata Willensnation, la nazione fondata sulla volontà, può essere ridotta unicamente a miti come quello di Guglielmo Tell, della fortezza alpina o del segreto bancario? Nel 1992 l’artista Ben Vautier ha riassunto tale complessità nella frase che ornava il padiglione svizzero all’Esposizione universale di Siviglia: La Suisse n’existe pas. La Svizzera non esiste. Naturalmente, si trattava di un’esagerazione artistica. Più la Confederazione diventava internazionale e connessa al mondo esterno, più si sviluppava un contromito, un idolo dal signifcato collettivo. Un industriale ha giocato un ruolo chiave in questo contesto, plasmando negli anni Ottanta e Novanta un partito contadino relativamente piccolo, che oggi rappresenta la principale forza politica del paese. Christoph Blocher ha trasformato l’Udc in un movimento dedito alla lotta contro l’Unione Europea, l’eccesso di statalismo e di immigrazione. Oggi ottantatreenne, è stato per un certo periodo membro del Consiglio federale, cioè del governo nazionale, e resta fonte di idee e fnanziatore del partito. Sotto la sua egida è emersa un’identità svizzera molto particolare che comprende folklore e tradizione – la musica del corno alpino e la lotta svizzera (Schwingen), le feste in Tracht e la ferma adesione a una Svizzera neutrale, sulla difensiva. Secondo l’Udc l’homo helveticus è legato alle tradizioni rurali, lavora nei servizi fnanziari globalizzati e nutre una sana diffdenza verso lo Stato. Si tratta di una contraddizione che nemmeno l’Udc riesce a sciogliere. Ancora oggi la manodopera straniera è essenziale al buon funzionamento dell’economia. Il sistema sanitario o il turismo crollerebbero senza la manodopera economica proveniente dall’Ue e da altre aree. L’Udc è a disagio di fronte alla crescita demografca, alle strade congestionate, al traffco, all’esplosione del mercato immobiliare e allo snaturamento dei centri cittadini. Forse è questo disagio che accomuna l’homo helveticus in tutte le regioni linguistiche. Ginevra e Losanna, Zurigo e San Gallo, Lugano e Bellinzona sono più legate da questi problemi comuni che dalle loro soluzioni. Al secondo posto tra le caratteristiche comuni – e qui vogliamo essere giusti con gli svizzeri – troviamo la sorprendente capacità d’integrazione dei vari gruppi di popolazione: le religioni, gli spazi di vita, le lingue. Ma anche i sessi. L’homo helveticus è un macho? Se si ride degli svizzeri perché hanno introdotto il suffragio femminile solo nel 1971, dobbiamo anche sottolineare che la Svizzera è l’unico paese al mondo in cui gli uomini hanno concesso alle donne il diritto di voto raggiungendo la maggioranza alle urne. La parità di genere è esempio di una peculiarità svizzera: le riforme sono lente, richiedono tempo e passano attraverso il lungo processo di democrazia diretta

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in cui ogni gruppo d’interesse ha voce in capitolo. Ma il progresso ha fondamenta stabili e a volte la nazione assume il ruolo di pioniere. Negli anni Ottanta e Novanta, Zurigo soffriva di un’enorme epidemia di droga e le immagini della miseria dei tossicodipendenti a Platzspitz-Park fecero il giro del mondo. La popolazione votò a favore della distribuzione legale di eroina ai tossicodipendenti più gravi. Il modello suscitò grande incomprensione all’estero, ma si rivelò un ottimo mezzo per alleviare la miseria. E fu sostenuto dalla maggioranza della popolazione! Questo è possibile solo in Svizzera. Allo spirito conservatore delle valli montane si affanca una buona dose di innovazione progressista.

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4. Questo modo di porsi, a volte provocatorio e a volte accattivante, collima con il fatto che la Svizzera è l’unico paese dell’Europa occidentale a non far parte dell’Unione Europea. Ciò riporta ai conservatori di destra raccolti attorno a Christoph Blocher, i quali coltivano l’immagine di un villaggio gallico in Europa, per dirla con Asterix. È merito storico di Blocher se oggi l’adesione all’Ue non trova il favore della maggioranza della popolazione. All’inizio del millennio, invece, l’Europa avrebbe avuto una reale chance politica nella Svizzera francese. Oggi, da Ginevra alla città farmaceutica (Pharma-Stadt) di Basilea, dal centro fnanziario di Zurigo alla crypto valley della Svizzera centrale intorno a Zugo, tutti concordano sul fatto che le relazioni economiche con America, Singapore, Cina e Arabia Saudita avranno un futuro migliore di quelle con l’Ue. Il Politecnico Federale di Zurigo e quello di Losanna sono tra i migliori al mondo e preferiscono confrontarsi con Cambridge, Oxford e le università statunitensi d’élite. Esiste una narrazione opposta, rintracciabile a sinistra. Ma la grande discordia, la grande polarizzazione che si registra in Francia o negli Stati Uniti rimane assente. Dal 1959 tutte le forze principali sono state integrate nel governo nazionale, una costellazione a cui comunemente ci si riferisce con la locuzione «formula magica». Questa pratica ha il piacevole effetto collaterale di evitare che i partiti gareggino in campagna elettorale promettendo l’impossibile. Anche i toni tra partiti e associazioni sono meno polemici, perché su ogni dossier politico si devono forgiare nuove alleanze. «Nella vita ci si vede sempre due volte», recita il noto detto tedesco che si adatta perfettamente alle modeste condizioni territoriali, alle brevi distanze e alle dimensioni gestibili della Svizzera. L’homo helveticus è pacifsta? In quanto piccolo Stato circondato da grandi potenze, la Svizzera ha acquisito un’altra caratteristica molto importante, considerata generalmente parte del patrimonio genetico dell’homo helveticus: la neutralità. La battaglia di Marignano, in cui le truppe svizzere furono disastrosamente sconftte dagli eserciti francese e milanese nel 1515, pose per sempre fne alle avventure militari elvetiche oltreconfne. L’interpretazione della neutralità svizzera è ripetutamente oggetto di dibattito politico. In sostanza signifca non schierarsi nelle guerre. De iure funzionò abbastanza bene durante la guerra fredda, anche se de facto era già allora controversa. Ma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, la nazione è piombata in una crisi politica di neutralità. L’adozione da parte del Consiglio fede-

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rale delle sanzioni europee alla Russia è stata criticata dalla destra conservatrice e da alcune fazioni della sinistra. Da allora il parlamento discute sull’esportazione di armi a sostegno di Kiev. L’invasione russa dell’Ucraina ha scosso un importante pilastro dell’identità svizzera. Le dimensioni ridotte della Svizzera rendono le cose leggermente più innocue, lievemente più concilianti. Anche questa è caratteristica distintiva dell’homo helveticus: un campanilista con legami internazionali e la tendenza a rimanere neutrale in momenti di crisi, diffdente di fronte a grandi entità come l’Unione Europea. Forse questo è il quadro caratteriale più appropriato. La base esistenziale dell’homo helveticus è un sistema integrativo che coinvolge tutte le principali forze politiche e sociali. Questo vale per ogni ambito della vita quotidiana: scuola, cultura, sport, economia. Viviamo in un contesto talmente ristretto che non possiamo permetterci di non parlare gli uni con gli altri. Ecco perché l’ultima guerra in terra elvetica si è conclusa in modo così contenuto. La vicinanza, che a volte sembra incestuosa, è un elemento indispensabile, una conditio sine qua non dell’identità comune e quindi dell’esistenza dell’homo helveticus. Anch’io sono così. Continuo a imbattermi nell’amica di cui ho parlato all’inizio. La Svizzera è troppo piccola per arrabbiarsi con lei a causa di quella frase. (traduzione di Stefano Corrent)

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MODERNO PERCHÉ PREMODERNO LA FORZA DEL FEDERALISMO SVIZZERO La crisi del centralismo d’impronta ottocentesca, travolto da una post-modernità destrutturante, rivaluta il modello elvetico imperniato su compromesso e decentramento. Le accidentate tappe storiche. Il gioco di pesi e contrappesi. Napoleone aveva capito tutto. di Moreno

BERNASCONI

A

1. NESSUNO SFUGGE IN QUESTO CONFLITTUALE, terribile inizio di XXI secolo l’inadeguatezza del contratto sociale moderno. Quel contratto, iscritto dopo la Rivoluzione francese nelle costituzioni liberali degli Stati nazionali ottocenteschi, ha permesso di sancire l’emancipazione dall’ancien régime, l’eguaglianza davanti alla legge e poi il suffragio universale. Ma le modalità con cui la volontà generale e i rapporti fra Stato e cittadino hanno trovato attuazione nella maggioranza degli Stati occidentali, specie in quelli di stampo giacobino e centralistico, incontrano crescenti diffcoltà a garantire una stabilità politica e un’ampia legittimazione democratica, condizioni che propiziano lo sviluppo economico e la produzione di un benessere diffuso. Se l’elezione dei rappresentanti secondo il principio «un uomo, un voto» e l’esercizio della volontà maggioritaria sono l’essenza delle moderne democrazie nazionali (in particolare di quelle occidentali), nell’èra della globalizzazione e dei diritti individuali l’applicazione della nozione di cittadinanza diventa complessa e alcuni dei meccanismi politici dello Stato moderno appaiono inadeguati ai tempi. Inoltre, con la fne dei grandi partiti popolari che garantivano maggioranze e alternanze solide, nell’èra della proliferazione di piccoli ed effmeri partiti-movimenti o di partiti monotematici il sistema di elezione maggioritaria sta producendo ingovernabilità e instabilità, nonché opposizioni di piazza, spesso violente. La legittimazione politica è debole, anche perché le maggioranze elettorali sono sempre più spesso risicate e attribuite a un partito che con il 25% dei voti acquisisce il diritto di governare da solo o grazie alla stampella di alleanze raccogliticce ed effmere: esercizio proibitivo. In un’epoca in cui storici referenti dei governi, come i sindacati, sono sempre meno rappresentativi di larghi strati popolari e si moltiplicano le rivendicazioni di minoranze estremiste, i premi di maggioranza assegnati ai vincitori delle elezioni

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favoriscono solo in apparenza la governabilità. Una confittualità sociale perdurante ad alto potenziale sovversivo rischia di diventare la norma. Soprattutto per gli Stati centralisti, fondati su un ruolo totalizzante dello Stato rispetto ad una inibita società civile, come quelli di impronta giacobina. Il limite principale di questo modello è che interpreta la rinuncia del cittadino a una parte della propria libertà a favore della volontà generale (come propugnato da Rousseau) come delega quasi totale agli eletti e allo Stato della sovranità, che nelle intenzioni del flosofo ginevrino avrebbe invece dovuto rimanere alla comunità, al popolo. Il cittadino abdica de facto a un ruolo attivo e diretto nella gestione della cosa pubblica. Alle debolezze di questo modello, fatto proprio dall’Unione Europea a dispetto di un millantato ma disatteso principio di sussidiarietà, si aggiunge l’urto destabilizzante della rivoluzione tecnologica. La tecnologia digitale mette a dura prova il contratto sociale nazionale, creando nuovi poteri su scala sovranazionale, nuove disuguaglianze ed esclusioni dei cittadini. Urgono nuove forme partecipative dei cittadini e andrebbe riconosciuto che, come accade per la scienza, la politica deve poter contare su meccanismi in grado di gestire sistemi complessi nei quali la società civile svolga un ruolo da protagonista, anziché essere considerata quantité negligeable. Il cambiamento di equilibri in atto fra i livelli politici non confgura solo un indebolimento di quello nazionale a favore di quello sovranazionale; anche il livello comunale sta acquistando importanza. Il potere tecnologico ed economico-fnanziario è sovranazionale, ma le locomotive trainanti – anche all’interno delle nazioni leader su scala internazionale – sono poche entità metropolitane che contribuiscono in modo determinante allo sviluppo del loro paese. Le città (in particolare in Europa) sono storicamente comunità politiche chiamate a risolvere in modo pragmatico problemi commerciali, sociali e ambientali. L’accresciuta importanza delle città non può non essere sancita anche istituzionalmente. In questo contesto il particolare e complesso sistema di pesi e contrappesi politico-istituzionali su cui poggia la Confederazione Elvetica, nonché la cultura politica che è andata sviluppandosi in questo paese pluriculturale e plurilingue in molti secoli, rappresentano elementi di forza che permettono alla Svizzera – paese alpino di dimensioni ridotte e storicamente povero di materie prime – di fgurare ai vertici dell’innovazione, della scienza e della ricerca, del pil pro capite e della stabilità politica. Un «segreto» che merita di essere spiegato.

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2. Nella storia degli Stati nazionali il sistema politico elvetico rappresenta un ibrido particolare. È infatti il frutto di un riuscito innesto moderno su un ceppo premoderno. La prima costituzione della Svizzera moderna è del 1848 e, come gran parte di quelle adottate in Europa all’epoca, ha un’impronta liberal-radicale. Ma il percorso seguito per adottarla e l’iter che la riformerà sostanzialmente nei decenni successivi, fno ai primi del Novecento, spiegano la natura particolare della nuova Confederazione. La Svizzera entra nella modernità con un atto di forza di Napoleone che, nel 1798, impone all’antica Confederazione una Repubblica elvetica sul modello dello Stato centralistico francese. Caso più unico che raro, sarà

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tuttavia lo stesso Bonaparte, solo cinque anni dopo, a decretare la fne dell’esperimento e a varare una nuova costituzione di stampo federalista, poiché – egli scrisse ai deputati della Consulta elvetica nel dicembre del 1802 – «la Svizzera non assomiglia ad alcun altro Stato sia per gli eventi che vi si sono succeduti nei secoli, sia per la situazione geografca e topografca, sia per le lingue differenti e le diverse confessioni religiose e l’estrema differenza di costumi che esiste fra le sue diverse parti. La natura ha fatto del vostro paese uno Stato federale: volerla vincere non è da uomo saggio». Dopo la caduta di Napoleone e il conferimento da parte delle potenze europee dello statuto di neutralità alla Svizzera (a Vienna nel 1815), le circostanze storiche che portarono alla costituzione dello Stato federale nel 1848 furono anch’esse contrassegnate dallo sforzo di trovare un patto che rispettasse le grandi differenze fra i Cantoni svizzeri, fra città e campagne, protestanti e cattolici, liberali-radicali con una visione centralista dello Stato e conservatori che propugnavano una Confederazione di Stati autonomi. Per osteggiare la volontà dei radicali anticlericali di costruire uno Stato centralista, una minoranza di otto Cantoni cattolici e conservatori aveva costituito una Lega separata. Dopo una spirale di confitti puntuali, nel 1847 la Svizzera visse la sua guerra civile. Fu probabilmente la più breve della storia: durò meno di un mese e fece meno di 90 morti. Già durante il confitto le parti si sforzarono di essere rispettose dei contendenti. Signifcativo che a comandare le truppe radicali fu chiamato il conservatore moderato Guillaume Henri Dufour e che fu il protestante Johann Ulrich von Salis a capeggiare l’esercito dei separatisti conservatori e confederali. Valga su tutto l’affermazione che il comandante delle truppe radicali Dufour ebbe a fare riguardo al fronte avverso in quei momenti travagliati di confitto: «Sono fratelli e non nemici». Con questo spirito di conciliazione agì la Dieta federale dopo aver vinto la guerra. Non impose semplicemente la legge dei vincitori ai vinti ma chiese a tutti i Cantoni, compresi quelli cattolici e conservatori sconftti, di inviare i loro esperti alla Commissione incaricata di redigere la nuova costituzione federale. Il progetto fu poi sottoposto al voto in tutti i Cantoni secondo procedure cantonali diverse e quindi adottato dalla Dieta in modo defnitivo. Nel patto sociale precedente al moderno Stato elvetico, era presente un consolidato elemento consensuale che ha favorito la nascita di una costituzione moderna ma basata sul compromesso, non sulla pura legge della forza. La preoccupazione di ricomporre l’intesa confederale farà da fl rouge anche e soprattutto nelle successive riforme costituzionali. La revisione totale del 1874 aggiunse alla democrazia liberale e rappresentativa sancita nel 1848 elementi di democrazia assembleare che si rifacevano ai Comuni territoriali (Landsgemeinden) medievali e sancì il diritto di referendum popolare legislativo. Nel 1891 fu adottato anche il diritto d’iniziativa costituzionale popolare che ampliava notevolmente la democrazia diretta (come richiesto dai cattolici conservatori). A ruota, essi furono cooptati nell’esecutivo federale e dopo la prima guerra mondiale venne introdotto il sistema proporzionale nell’elezione del Consiglio nazionale (che pose fne alla maggioranza assoluta radicale nel paese). Aperte

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le porte a un governo di concordanza rappresentativo delle diverse componenti politiche, vennero poi integrati nell’esecutivo federale il Partito socialista e il Partito agrario (ora Unione democratica di centro). Dopo il varo della costituzione l’impronta radicale e centralista delle prime istituzioni federali moderne è stata quindi progressivamente temperata volgendo la Svizzera in una democrazia semidiretta d’impronta fortemente federalista e basata sulla concordanza, che assegna poteri molto estesi ai Cantoni, ai comuni e al popolo sovrano. Il governo direttoriale elvetico, ispirato a quello introdotto in Francia dopo la rivoluzione per evitare l’eccessiva concentrazione del potere, è diventato un organo collegiale (7 membri) rappresentativo di tutte le principali forze politiche e delle diverse regioni elvetiche, prende decisioni in modo consensuale senza interferenze dei partiti e il suo presidente (eletto a turno ogni anno) non ha funzioni particolari rispetto agli altri membri. Come diceva ironicamente lo storico e politico svizzero Georges André Chevallaz, «il potere del presidente della Confederazione Elvetica consiste nel varcare per primo la porta dove si svolge un consesso». 3. Per molti secoli, dal primo patto di mutuo soccorso fra tre comunità territoriali della Svizzera centrale a fne Quattrocento, la Confederazione Elvetica ha avuto una natura puramente contrattuale. Era fondata su un patto – foedus, da cui «federalismo» – quindi sul principio del consenso fra le parti. Con l’entrata in vigore della prima costituzione federale, il 12 settembre 1848, il patto federale decade. Da quel momento in poi, il principio legale («la maggioranza impone la propria volontà alla minoranza») subentra anche in Svizzera a quello contrattuale. Ciononostante, il principio contrattuale premoderno – in ciò consiste l’ibrido del modello elvetico – impregna ancora i meccanismi di funzionamento della moderna Confederazione Elvetica. Ne elenco alcuni. Nel bicameralismo svizzero, ispirato al modello statunitense, Cantoni grandi e piccoli hanno un identico numero di rappresentanti (due) nella Camera dei Cantoni, che ha gli stessi poteri della Camera del popolo. La democrazia semidiretta (attraverso il diritto di referendum popolare facoltativo e quello d’iniziativa popolare per la modifca della costituzione) garantisce alla società civile e ai cittadini un potere politico di controllo e d’opposizione verso parlamento e governo. La doppia maggioranza di popolo e Cantoni, richiesta per l’approvazione delle iniziative popolari, dà al voto dei cittadini dei piccoli Cantoni un peso politico molto maggiore di quello dei Cantoni grandi (una discriminazione positiva a favore delle minoranze). Il modello di governo federale e cantonale è consociativo e collegiale: tutti i maggiori partiti politici sono generalmente rappresentati negli esecutivi federale e cantonale e i membri decidono in modo consensuale. A livello federale, il parlamento elegge liberamente i membri del governo secondo convenzioni tacite che dipendono dall’evoluzione della forza dei partiti. La cosiddetta «pace del lavoro» sancisce dal 1937 la concertazione permanente fra sindacati e associazioni padronali come regola tacita nell’elaborazione dei contratti collettivi di lavoro e

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dei salari minimi; ciò permette all’economia (e non allo Stato) di trovare intese win-win con i rappresentanti dei lavoratori che tengano conto delle diversità territoriali e settoriali. Ancora: la formazione professionale viene promossa congiuntamente dall’ente pubblico e dalle aziende secondo un modello «duale». Questo patto socioeconomico fra Stato e privati garantisce un rapporto immediato fra teoria e pratica, prezioso per formare professionisti al passo con la rivoluzione tecnologica e mantenere un’elevata produttività del lavoro, rendendo le aziende più concorrenziali. Per non varare leggi che verrebbero bocciate sul nascere dai referendum popolari, le proposte governative di riforma sono sottoposte sistematicamente a capillari procedure di consultazione (non semplici sondaggi) presso le associazioni di categoria e gli enti interessati, i governi dei Cantoni e i partiti. Nell’elaborazione dei disegni di legge federali, svolgono un ruolo essenziale le Conferenze dei direttori cantonali (membri dell’esecutivo) responsabili dei diversi settori politici: dall’energia ai trasporti, alla sanità alla scuola, affnché le norme adottate rispondano agli interessi dell’insieme delle regioni elvetiche. Il primo cittadino di un Comune non è il sindaco ma il presidente dell’Assemblea comunale, così come il primo cittadino svizzero non è il presidente del governo bensì il presidente dell’Assemblea federale. Lo storico Jean Francois Bergier ha parlato, al riguardo, di «federalismo sociale»: non solo verticale, ma anche orizzontale. Il federalismo elvetico comporta in linea generale meccanismi volti a difendere le minoranze dalla «dittatura della maggioranza» e a garantire l’espressione della volontà politica alle diverse componenti territoriali e sociali del paese. Un esempio: alla Svizzera di lingua italiana va il 22% degli introiti del canone radiotelevisivo, anche se l’importo esatto nel suo territorio non supera il 4%. Questa ripartizione permette alla Radiotelevisione svizzera di lingua italiana di contribuire in modo decisivo alla salvaguardia della lingua e della cultura italiane in Svizzera. Simili meccanismi sono un’applicazione diffusa del principio di sussidiarietà che dà ai soggetti presenti nella società i mezzi per esercitare una corresponsabilità in ordine al bene comune. Non per nulla, parlando della Svizzera Ralf Dahrendorf diceva: «Più che uno Stato, è una società civile molto organizzata».

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4. «I Cantoni sono sovrani (…) ed esercitano tutti i diritti non delegati alla Confederazione», recita l’art. 3 della costituzione federale svizzera. Le vaste competenze legislative e giurisdizionali di cui gode ciascun Cantone non emanano da leggi federali: gli appartengono in proprio. Sono le competenze federali che devono avere una base particolare in costituzione. I 26 Cantoni svizzeri si organizzano quindi in modo autonomo e diverso. Ciascuno si dà una costituzione propria, crea ed elegge liberamente le proprie autorità (governo, parlamento, magistratura) e distribuisce fra esse il potere. «Nell’assegnazione e nell’adempimento dei compiti statali va osservato il principio della sussidiarietà. Ognuno assume le proprie responsabilità e contribuisce secondo le proprie forze alla realizzazione dei compiti dello Stato e della società» al livello che gli è proprio, recita ancora la costituzione.

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Il sistema funziona secondo il principio bottom up: se un livello statale o civile è in grado di esercitare un compito al meglio, il livello superiore si astiene dal farlo. I Cantoni dispongono di risorse fnanziarie proprie: fanno leggi fscali e riscuotono, di conseguenza, imposte proprie. L’autonomia comunale è garantita nei limiti fssati dal diritto cantonale. Le costituzioni cantonali sanciscono il diritto dei comuni di percepire imposte: essi godono quindi di abbondanti risorse proprie che permettono di rispondere ai bisogni del territorio locale in modo diretto e adeguato. Il cittadino paga le imposte (ne fssa anche l’ammontare, poiché ha il diritto di referendum e d’iniziativa) che vengono utilizzate direttamente per rispondere ai bisogni là dove vive. Non sfugge che questo tipo di autonomie comunali siano di origine pre-nazionale. Riecheggiano le assemblee di villaggio e cittadine che decidevano tutto quanto riguardava la comunità locale, a cominciare dall’essenziale: la ripartizione nella comunità delle tasse reali e dei canoni che alimentavano il bilancio comunale. Questo quadro politico-istituzionale esprime una cultura politica particolare, i cui valori essenziali sono una concezione del potere limitato e diffuso, una visione personalista della politica e una spiccata vocazione alla ricerca di soluzioni pragmatiche e liberoscambiste nel campo commerciale ed economico. In origine c’è la forte convinzione che il potere non solo non vada centralizzato, ma occorra limitarlo fortemente e renderlo sistematicamente diffuso – come ha sottolineato Jean Starobinski a Bellinzona nel 1991, in occasione del 700° anniversario della Confederazione Elvetica. Il grande intellettuale ginevrino, fglio di profughi polacchi, sottolineava come il Patto di mutua assistenza del 1291 fra i primitivi Cantoni svizzeri non ignorasse che gli esseri umani sono esseri imperfetti, fallibili. Occorre pertanto costringerli all’umiltà con i vincoli della cosa giurata. «Non accontentarsi unicamente del proprio giudizio personale, accettare di enumerare ad altri oppure a un Altro le proprie colpe, ecco senza dubbio la migliore defnizione del senso di responsabilità». Nei tempi antichi, gli svizzeri erano tutt’altro che umili. Erano bellicosi e ci misero secoli prima di por fne ai loro sogni espansionistici. Solo a cavallo fra il XV e il XVI secolo si fece largo la consapevolezza che un’alleanza fra Stati tanto blanda come l’antica Confederazione non fosse suffciente ad avere una politica estera comune o a condurre campagne di conquista. L’alternativa era rafforzare lo Stato centrale e stabilire una politica estera comune, limitare fortemente quest’ultima salvaguardando le strutture confederali, a cominciare dalle autonomie cantonali e comunali che incarnavano sin dall’inizio l’idea di libertà e d’indipendenza su cui poggiava il patto dei fondatori. «Mentre altri popoli», annota Edgar Bonjour, «investivano le loro energie in guerre di conquista o solcavano i mari per scoprire nuovi sbocchi, i confederati svizzeri preferirono fare un passo verso la neutralità intesa come massima di Stato. Fra la libertà e la concezione svizzera della neutralità esiste come un’affnità segreta». Questa libertà è garantita da un patto sociale che rinuncia a una centralizzazione eccessiva del potere, distribuendolo – in virtù del principio di sussidiarietà – ai

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diversi livelli delle istituzioni e della società. Di fronte al rischio che l’alleanza fra città e comunità contadine aventi caratteristiche diverse saltasse a causa di confitti e interessi contrapposti, nonché delle forti pressioni esterne, la convenzione di Stans del 1481 ribadì il primato dell’alleanza interna fra i confederati, al di là di ogni alleanza esterna di questo o quel Cantone.

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5. In un numero speciale che la rivista Esprit dedicò alla Svizzera nell’ottobre 1937, uno degli alferi del federalismo europeo, Denis de Rougemont, individuava nella cultura politica svizzera un altro elemento che a suo dire chiamava questo paese a svolgere una specifca «missione» politica: il personalismo. Alla vigilia del secondo confitto mondiale, de Rougemont esortava la Svizzera a non confondere la neutralità con l’abdicazione alle proprie responsabilità verso i paesi europei. «Diciamocelo francamente: il trattato di Vienna è male interpretato sia dai suoi garanti europei che dai suoi cosiddetti benefciari. All’estero si pensa spesso: neutralità equivale a prudenza, egoismo, ambizioni meschine. (…) Il famoso equilibrio strategico dell’Europa che spesso evochiamo per giustifcare la specie di extraterritorialità di cui gode la Confederazione Elvetica nel continente, si sta trasformando. Tutto ci spinge infatti ad allargare la nostra coscienza alle nuove dimensioni (…) che reggono l’Europa. Le nostre opportunità e i nostri rischi stanno proprio in questo». «La missione essenziale della Svizzera», scrive de Rougemont, «è anzitutto una missione personalista: salvaguardare una Weltanschauung in cui i diritti del particolare e i doveri verso il generale si fecondino reciprocamente. I diritti dei Comuni e quelli del Cantone, i diritti del Cantone e quelli della Confederazione, i diritti della Svizzera e quelli dell’Europa: immagini e conseguenze dell’equilibrio fondamentale che intercorre fra i diritti della persona e quelli della comunità». In una conferenza tenuta nel 1939 all’Università di Neuchâtel, de Rougemont precisa che questo equilibrio è la posizione centrale di cui l’individualismo e il collettivismo dittatoriale costituiscono le deviazioni perverse. Di conseguenza, «la missione europea della Svizzera consiste nell’essere guardiana di questo principio centrale e federativo». Il contesto geografco ha anch’esso giocato un ruolo rilevante nella formazione della cultura politica elvetica e lo gioca tutt’ora. La frammentazione delle regioni montuose, ricorda ancora de Rougemont, propizia forme politiche repubblicane opposte a quelle che regnano spesso nelle lande prussiane oppure nelle steppe asiatiche. Nella sua opera fondamentale sul Mediterraneo, lo storico Fernand Braudel afferma che nelle pianure dello spazio mediterraneo gli imperi hanno potuto realizzare facili e speditive conquiste piegando la resistenza delle popolazioni, mentre i governi hanno assunto talvolta i tratti del dispotismo. Invece, «in queste alte terre alpine la libertà repubblicana ha resistito agli imperi». Senza la centralità del passo del San Gottardo e la sua posizione strategica per i collegamenti fra Nord e Sud, non si spiegherebbe la disponibilità dell’impero a scendere a patti con i primitivi Cantoni svizzeri, accordando loro ampi margini

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d’indipendenza. Nella conquista di uno statuto di libertà riconosciuto dalle grandi potenze europee, la situazione geografca della Svizzera ha insomma giocato un ruolo decisivo. Agli svizzeri è assegnato il compito di guardiani delle Alpi, uno statuto che tutto sommato conviene a tutti: ai paesi europei e agli svizzeri. «Siamo chiamati a essere guardiani delle Alpi, non già per chiudere i passi col pretesto di proteggerci dall’esterno, bensì per assicurare la libertà del transito», scriveva de Rougemont a Charles Ferdinand Ramuz nel summenzionato numero di Esprit. La condizione riconosciuta di guardiani delle Alpi giova molto alla nascita della Svizzera libera e indipendente. Lo spirito dei comuni italiani medievali dette impulso decisivo agli autori del primo patto confederale. Il repubblicanesimo alpino è fortemente comunale prima ancora di essere nazionale: traduce in sistema politico l’attenzione ai problemi concreti e minuti di una comunità locale e valorizza il ruolo centrale della mediazione e dell’arbitrato su cui poggia tutta la storia svizzera. Quanto all’economia elvetica, fn dai primordi – e in particolare dall’apertura del San Gottardo ai commerci – ha la possibilità di apprezzare i vantaggi del libero scambio. Ne nasce una cultura politica pragmatica, refrattaria alle grandi visioni volontaristiche calate dall’alto, una cultura del negoziato paziente ma tenace che la Svizzera ha saputo sviluppare fno ai giorni nostri. Non è un caso che la Svizzera, già pilastro dell’Associazione europea di libero scambio, abbia preferito la via degli accordi bilaterali con l’Unione Europea al diventarne membro. C’è chi considera superata la cultura politica che in questo spazio alpino è andata formandosi nei secoli. Forse è vero il contrario. La Svizzera, che ha investito le sue migliori energie nel miglioramento delle vie di comunicazione, ha visto crescere al suo interno una cultura della mediazione e del libero scambio più che mai attuali. L’arbitrato e il patto sociale fra soggetti e interessi diversi sviluppatisi nel crocevia elvetico rispondono ad alcuni dei problemi complessi posti dall’odierna società. Nella soluzione delle crisi sociopolitiche legate alla globalizzazione, sono evidenti il defcit democratico e la necessità di rafforzare la legittimazione delle scelte politiche grazie a un paziente lavoro di mediazione e di concertazione. Quanto ai modelli politici nazionali di stampo centralistico, è sotto gli occhi di tutti la loro diffcoltà. Il federalismo sembra portare maggiori benefci rispetto al centralismo statale. L’incontrovertibile confgurazione multiculturale delle nostre società complesse necessita, se si vogliono scongiurare crisi esplosive, di meccanismi di consultazione, d’integrazione e di ampia partecipazione democratica che defniscano le regole di una pacifca coesistenza fra minoranze e maggioranze. Forse l’impronta ancora fortemente premoderna della Svizzera la rende un laboratorio interessante per superare le diffcoltà di un modello statale inadeguato e per trovare soluzioni ai problemi complessi della nostra epoca.

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‘La Willensnation chiede l’impegno di tutti’ Conversazione con Irène KÄLIN, deputata dei Verdi svizzeri e Roger KÖPPEL, deputato dell’Unione democratica di centro (Udc)

Cosa caratterizza il modello svizzero? Da molto tempo noi svizzeri profttiamo della nostra particolare posizione geopolitica. In un’Europa pacifcata i paesi vicini hanno riconosciuto la nostra im­ portanza, stimandoci rilevanti partner commerciali e politici. Abbiamo incarnato un «miracolo economico». Tutto il mondo sa cosa sia il marchio di qualità svizzera. Inoltre abbiamo un sistema politico estremamente particolare, che funziona con il coinvolgimento di tutte le opinioni e le forze politiche. La stabilità di questo siste­ ma non trova paragoni altrove. Tuttavia si pone la domanda se, per coinvolgere il maggior numero possibile di posizioni e opinioni, esso non appaia talvolta rallen­ tato e se sia dunque capace di reagire alle sfde più impellenti con la prontezza e l’effcienza necessarie. Da oltre 175 anni siamo consapevoli di vivere in uno Stato federale moderno, in un paese di minoranze. Una Willensnation, una nazione volontaristica. KÖPPEL La Svizzera è il più antico e più effcace gruppo di autoaiuto del mondo. È un miracolo che questo paese esista e che sia sopravvissuto così a lungo. Siamo l’unica nazione al mondo dove i cittadini possono partecipare a ogni tipo di deci­ sione che li riguardi. Abbiamo rifutato potentati e monarchi. Gli svizzeri hanno sempre deciso da soli il proprio destino e questo ormai da secoli. Abbiamo sempre avuto fducia in noi stessi e nella nostra capacità di autodeterminazione. Da questa idea abbiamo sviluppato lo Stato svizzero moderno. I suoi princìpi fondanti sono le origini antichissime della sua democrazia diretta, il federalismo – o meglio l’an­ ticentralismo, la neutralità perpetua. In altre parole: non allargate troppo i vostri recinti, datevi un limite e non consentite ai vostri politici di trascinare il paese in chissà quali confitti. LIMES Come si caratterizza la Confederazione Elvetica? LIMES KÄLIN

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‘LA WILLENSNATION CHIEDE L’IMPEGNO DI TUTTI’

È un sistema politico unico, che ha determinato buona parte del nostro ca­ rattere. Al centro stanno sempre i cittadini, che possono esprimere la loro opinione su temi di grande rilevanza strategica e su questioni minori. Abbiamo coscienza di essere una Willensnation, siamo minoranze che trovano una dimensione comune oltre le lingue nazionali. Riprendo il concetto di Köppel del gruppo di autoaiuto per dire che siamo stati anche e soprattutto un’organizzazione di soccorso, una piatta­ forma per il dialogo, dotati per questo della necessaria apertura e capacità di me­ diazione. Sappiamo, in quanto piccola nazione, di dover ascoltare anche i grandi affnché questi ci tengano in opportuna considerazione. Dobbiamo fare anche rife­ rimento al diritto internazionale: questa è una piccola sfumatura, ma determinante. LIMES Anche i ticinesi si considerano parte di un «paese di minoranze»? KÄLIN Negli ultimi vent’anni si è diffusa in Ticino l’impressione che l’egemonia della componente svizzero­tedesca stesse aumentando. Ma il Ticino non è mai stato dimenticato. Importante è tenere presente che un abitante dell’Argovia non è uno zurighese, cioè che gli svizzeri tedeschi non rappresentano un’entità unica. Un paese di minoranze, appunto, in cui tutto è sottoposto a discussione e dove si cercano compromessi. In ultima analisi, siamo una comunità di destino. LIMES Spieghiamo meglio il concetto di gruppo di autoaiuto. KÖPPEL La Confederazione è un paese diffcile da spiegare a uno straniero. Ogni nazione è speciale, ma la Svizzera lo è in modo… speciale. Parto dal concetto proposto da Irene Kälin: Willensation, nazione volontaristica. La volontà esiste, non soltanto quella dei ceti abbienti. Con l’estensione del diritto civile anche la nazione come atto volontaristico si andò gradualmente ingrandendo. L’introduzio­ ne del suffragio femminile è cosa recente, cerchie sempre più vaste di persone possono prendere in mano il proprio destino, sentire di poterlo fare. Questo non è accaduto solo per merito nostro, il successo è dipeso anche da motivi geografci. Altrove esperimenti simili hanno fallito. In Svizzera ogni decisione politica dev’es­ sere accettata dai cittadini in modo tacito o esplicito. Da politico so che gli svizze­ ri sono pienamente consapevoli che tutto quanto viene discusso nel Bundeshaus soggiace all’esame di un referendum popolare. Mi devo pertanto chiedere sempre: riesco a fare accettare questa cosa ai cittadini? L’interrogativo ha un effetto discipli­ nante sull’azione dei politici. La Svizzera è una società etnicamente costituita da minoranze – da molteplicità – in uno spazio ristretto: lingue, mentalità, esperienze diverse. Piccole «comunità di destino» che continuano a discutere, ma che alla fne devono trovare soluzioni comuni. In questo, la cosa più importante non è sempre ciò che viene deciso a Berna, ma anche le opinioni espresse altrove. KÄLIN Sono d’accordo, ma non dobbiamo cullarci sugli allori. Ci si può esprimere laddove ci è dato di poter partecipare, ma esiste una vasta maggioranza silenziosa fatta di stranieri che non può prendere parte ai processi decisionali. Oppure colo­ ro che non hanno ancora 18 anni. Sarebbe importante che dopo un certo periodo di soggiorno le persone potessero avere voce in capitolo e divenire parte di questo riuscito modello democratico, anziché avere una maggioranza risicata che decide da sola per tutta la Svizzera. KÄLIN

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La presenza di oltre due milioni di immigrati su circa nove milioni di resi­ denti confgura una minaccia per il modello elvetico? KÖPPEL Sono cresciuto in una famiglia con retroterra migratorio e ho imparato il senso della misura. Lo svizzero non è un estremista, desidera equilibrio. L’immi­ grazione è un tema in tutta Europa, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. È ciò su cui si interrogano le persone, ma è reso tabù da buona parte dei media e dell’e­ stablishment politico. Se uno si esprime al riguardo viene subito tacciato di razzi­ smo. L’iniziativa per l’immigrazione di massa non è andata in porto, ma per trop­ po tempo non si è dato più ascolto alla sovranità popolare. Il vantaggio di un parlamentarismo aperto e di una democrazia diretta è che i timori della popola­ zione vengano recepiti più in fretta e affrontati dalla politica. In paesi con una casta politica forte le preoccupazioni dei cittadini fniscono facilmente sotto il tappeto. Da questo punto di vista la Svizzera è all’avanguardia. Le migrazioni rap­ presentano una realtà storica, ma vanno mantenute entro una certa misura. Se si continua con un’immigrazione incontrollata si distrugge la Svizzera. Questo è il motivo per cui sempre più persone di diverso orientamento politico si mostrano preoccupate. Tali opinioni non hanno a che fare con la demagogia, bensì con una questione che interessa profondamente i cittadini e che dunque va presa sul serio. Il nostro sistema politico è in grado di affrontare questo problema e di intercetta­ re tali richieste. KÄLIN La presenza immigrata è un’arma a doppio taglio. La Confederazione Elveti­ ca ha avuto e ha tuttora bisogno di immigrazione. Abbiamo carenza di forza lavo­ ro specializzata come il resto d’Europa, Italia compresa. L’abbiamo reclutata anche dai paesi confnanti. Però non abbiamo capito che siamo tutti sulla stessa barca. Da decenni ci procuriamo medici formatisi altrove che poi vengono a mancare nei paesi di provenienza, anziché affrontare le nostre responsabilità di paese ricco e innovativo e formare da noi il personale medico necessario. D’altro canto, negli ultimi decenni i fussi di esuli sono in forte aumento. Tutta Europa fronteggia sfde enormi. Occorre una distribuzione solidale, condivisa, accettata e rispettata dei migranti con quote. Inoltre vanno offerte prospettive di sviluppo ai paesi di origi­ ne. Esiste un consenso diffuso sull’accoglienza di persone costrette alla fuga da confitti armati. Ma c’è anche la miseria, la mancanza di prospettive economiche: è il caso di ciò che noi chiamiamo immigrazione illegale. L’Italia è circondata dal mare e sa bene di cosa parlo. Dunque questa sfda non interessa solo la Svizzera. Paventando una Überfremdung, un’eccessiva presenza di elementi stranieri e il relativo collasso delle infrastrutture socioeconomiche, non si fa che alimentare la paura. Invece è possibile regolare le migrazioni. Con la paura non si risolvono i problemi dei migranti né le diffcoltà di chi li riceve. KÖPPEL Questa è ormai una formula di rito. Si può dire lo stesso per la catastrofe climatica evocata dalle sinistre. Il bello della Svizzera è che noi ne discutiamo, poi però c’è una votazione in cui gli elettori esprimono la loro volontà. I risultati elet­ torali vanno presi sul serio. Nel 2019 si voleva più ecologia e si sono fatti passi in questa direzione. Adesso abbiamo una correzione di rotta: i partiti hanno posto al LIMES

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centro dei loro programmi il tema dei migranti e le false partenze compiute in al­ cuni aspetti di politica energetica, in parte anche in politica estera. Il rimprovero di alimentare la paura rappresenta una mancanza di rispetto per l’elettorato. Nessuno direbbe di sé stesso che la paura gli sia stata inoculata. Anche gli elettori possono sbagliarsi, come i politici. Sta di fatto che esiste un disagio in relazione alle cifre dell’immigrazione e al modo in cui questa viene gestita dalla politica, nonché su chi arriva in Svizzera. Sono quelli sbagliati e sono troppi. Cosa signifca poi, paure «alimentate»? Sono preoccupazioni degli elettori, che in democrazia vanno prese sul serio quanto le opinioni di politici e giornalisti. LIMES Tra le «false partenze» c’è la gestione dei rapporti con l’Unione Europea e della neutralità? KÄLIN Sì, Köppel e io lo sosteniamo entrambi, ma intendiamo cose diverse. Sia­ mo partiti in ritardo nell’impostare relazioni più strette con i nostri vicini europei e con l’Ue. Avremmo dovuto procedere con maggiore rapidità nella costruzione di un consenso interno e portare a conclusione le trattative sull’accordo quadro con l’Ue. KÖPPEL È interessante come, pur avendo vinto le elezioni, all’Udc non sia consen­ tito farsene un merito dato che il suo tema centrale era la questione degli immi­ grati. I media hanno descritto me e il mio partito come simpatizzanti di Putin e guerrafondai. In questo modo hanno provato a screditarci, eppure abbiamo vinto ugualmente. Noi difendiamo la classica neutralità svizzera: non è un credo religio­ so e non è chiaro se rappresenti o meno un aspetto identitario, ma certamente è uno strumento che è servito a non farsi trascinare in guerra e a non partecipare ad alcuna alleanza. Dobbiamo alla neutralità il fatto che la Svizzera esista ancora, altrimenti sarebbe stata distrutta nel tritacarne delle guerre europee. L’Udc si è opposta con fermezza alle sanzioni e questo per rispetto del principio di neutra­ lità, non perché favorevole all’invasione russa. La politica verso l’Europa è un’altra questione di enorme rilievo. La mia opinione è che la Svizzera non debba entrare nell’Ue, poiché altrimenti non sarebbe più la Svizzera, non potrebbe più prendere decisioni autonome e le leggi verrebbero fatte altrove. La ricetta del nostro successo è che i nostri cittadini decidono qui, trovando soluzioni su misura. Noi siamo vulnerabili, siamo una pianticella delicata che ha bisogno di cure maggiori rispetto a grandi paesi ricchi di risorse naturali. Per dirla con il Candido di Voltaire: «Il faut cultiver notre jardin», è la cosa più importante nella vita. All’interno dell’Ue fniremmo sotto le ruote. KÄLIN L’ingresso nell’Ue è l’ultima delle possibilità. Ma noi siamo al centro dell’Eu­ ropa. È vero, siamo una pianticella delicata, ma se tutti i paesi vicini ci tolgono la terra sotto i piedi moriamo comunque. Non si capisce perché mettiamo a rischio con tanta leggerezza le relazioni che ci rendono forti e la nostra principale qualità – l’affdabilità e il ruolo di mediazione che può offrire la nostra solida democrazia – per le esitazioni del Consiglio federale e del mondo politico. Siamo forti dentro un contesto europeo amico, condividiamo gli stessi valori dei nostri vicini e in tutta onestà anche la nostra economia guadagna principalmente in Europa. Dipen­

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GLI SVIZZERI TRA LE MURA DI CASA

(in %)

LE LINGUE ABITUALMENTE PARLATE A CASA DALLA POPOLAZIONE SVIZZERA

Svizzero tedesco

56,2

Francese

23,2

Alto tedesco

11,1

Italiano

8,3

Inglese

6,3

Portoghese

3,6

Albanese

3,3

Spagnolo

2,8

Serbo

2,3

Dialetto ticinese

1,3

Lingua romancia

0,5

Altre lingue

8,2 0

10

20

30

40

50

60

Fonte: Bfs - Strukturerhebung (Se 2020)

diamo dalle relazioni bilaterali: se queste sono possibili soltanto con un accordo quadro istituzionale, allora tale accordo diventa necessario per avere un rapporto regolarizzato con l’Ue. LIMES Come regolare allora i rapporti con Bruxelles? KÖPPEL La Svizzera ha sempre avuto un rapporto pieno di tensioni con gli altri paesi europei. Nel 1848 la Francia minacciò d’invaderla se avesse insistito nel dar­ si un assetto liberale. Se pensiamo alle due guerre mondiali, non occorre dramma­ tizzare gli attuali contrasti con l’Ue. La Svizzera deve ricordare con forza a Bruxel­ les che in tema economico è un paese aperto: gli svizzeri hanno conquistato il mondo con la loro capacità, i loro prodotti e i loro servizi, non con il colonialismo. Abbiamo costruito una nostra cultura politica, non un’identità nazionalistica o et­ nica, non un «popolo» sulla base di una lingua comune bensì sulla scorta delle idee di libertà, autodeterminazione e Stato di diritto. Questo vogliamo nel nostro paese: decidere noi. Siamo pronti a frmare qualsiasi accordo con l’Ue, ma nessuno che consenta a un’istanza straniera di promulgare in automatico leggi aventi valore in Svizzera. Un pacchetto di soluzioni non può essere la soluzione. La Svizzera non si lascia impacchettare. Non starò con le mani in mano se il Consiglio federale sarà incapace di affermarlo con chiarezza di fronte all’Ue. KÄLIN Da anni riprendiamo norme e leggi altrui, anche dall’Ue in quanto nostro maggiore partner commerciale. Ciò che conta è la cornice in cui si agisce: la Sviz­

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zera deve o vuole riprenderle? Per poter mantenere una certa sovranità dobbiamo stabilire relazioni regolate. Ad esempio: dipendiamo molto dai frontalieri in settori come la sanità, l’edilizia, l’assistenza agli anziani e costoro possono lavorare da noi solo se si semplifcano le procedure. Idem per la collaborazione scientifca e la ricerca: non serve a niente avere le migliori università e un’economia innovativa se non possiamo collaborare con l’estero. KÖPPEL Mio padre aveva un’impresa edile con molti lavoratori stranieri, alcuni di loro alloggiavano a casa nostra. Negli anni Sessanta ci fu una massiccia immigra­ zione in Svizzera: il socialista Hans­Peter Tschudi, all’epoca presidente della Con­ federazione, scrisse in una relazione che avevamo un tasso di immigrazione trop­ po alto. Venne poi l’iniziativa Schwarzenbach, a cui mio padre fu assolutamente contrario. Oggi si ripresenta la sensazione di un fusso incontrollato in ingresso. Di per sé è la spia di un successo, un encomio della Svizzera. Si tratta però di control­ lare tale fusso. Il problema che deriverebbe da un legame istituzionale con l’Ue è che ci ritroveremmo con le mani legate. Inoltre si potrebbero avere casi di ritorsio­ ne, come la citata esclusione delle università svizzere dai programmi di ricerca europei. Anche con gli accordi di Schengen e di Dublino perdiamo in parte il controllo sul sistema di asilo. Pure il premier olandese Mark Rutte è dell’opinione che Schengen e Dublino siano falliti, mentre la Germania chiude la frontiera con la Svizzera. Non è che forse è rimasta solo la Confederazione a rispettare i trattati europei? Non possiamo reggere l’arrivo di tanti migranti quanti ne assorbe la Ger­ mania. Abbiamo meccanismi delicati e dobbiamo mantenere la nostra sovranità, altrimenti siamo in pericolo. KÄLIN Vedo la cosa in modo simile, ma in un’altra cornice: dobbiamo mantenere le nostre libertà in un mondo interconnesso. Chiaro che l’espulsione dai program­ mi di ricerca rappresenta una forma di pressione, ma capisco in parte la prospet­ tiva europea. È come un tiro alla fune. Occorre essere consapevoli del fatto che dobbiamo tirare la corda, ma che siamo interconnessi e dipendenti dai nostri vici­ ni, dunque dobbiamo concedere loro qualcosa. Con la guerra in Ucraina l’Europa si è ritrovata più unita. La Confederazione ha dichiarato a testa alta: sì, anche noi ne facciamo parte, sono anche i nostri valori a essere attaccati. Per questo è giusto e importante aderire alle sanzioni. Nel dossier Europa questo concetto non è an­ cora palpabile. La palla è adesso in mano al Consiglio federale. LIMES Se sull’Ucraina l’Ue si è ricompattata, di fronte al confitto in Medio Oriente non ha saputo trovare un’intesa. KÖPPEL Il più importante compito della politica è evitare la guerra. Ho un’impres­ sione diversa: trovo drammatico che sull’Ucraina l’Ue non esista, o meglio che ri­ calchi pedissequamente le posizioni statunitensi. Nel 2014 era stato diverso: all’e­ poca c’era stata un’iniziativa autonoma, Merkel aveva fatto un lavoro importantis­ simo. Non voglio dire che fosse tutto giusto, ma se oggi avessimo politici come Merkel forse nel 2022 non si sarebbe giunti alla guerra. In Medio Oriente c’è una situazione molto diffcile. L’Ue è ancora lontana dal parlare con una voce sola. Ursula von der Leyen non è grado di mettersi d’accordo con Charles Michel su

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quale debba essere la posizione di Bruxelles, perché ciascuno pone accenti diver­ si. L’Ue deve stare attenta a non sviluppare ambizioni eccessive. Mi piacerebbe che l’Europa, compresa la Svizzera, si pensasse come il continente in cui giace il cimi­ tero delle grandi potenze: Spagna, Austria, Germania, Francia. Il continente dei perdenti. Anziché ponderare opzioni belliche, dovrebbe considerare di più i dirit­ ti umani, limitare i confitti armati e sedarli. Non servono dichiarazioni roboanti e testosteroniche. Si dovrebbe sposare un atteggiamento più discreto, improntato alla disponibilità. Dovrebbe essere l’Europa a elvetizzarsi. Siamo già passati una volta per l’inferno, oggi siamo un continente di pace che dovrebbe distinguersi non per retorica bellicista, ma per apertura al dialogo. KÄLIN Ci sono state reazioni molto diverse alla guerra in Ucraina e alle nuove osti­ lità in Medio Oriente. Noi siamo spettatori ai bordi del campo, sono colpita e toccata dalla misura della violenza. La differenza di reazioni forse ha a che vedere con la complessità del confitto me­ diorientale, che dura da molto tempo e sul quale i paesi dell’Ue sono andati svilup­ pando prospettive diverse anche in base a interessi geopolitici differenti, nonché alla propria storia. Ciò rende molto più diffcile procedere insieme, come all’inizio della guerra in Ucraina, su cui si è più uniti anche in ragione della vicinanza geo­ grafca. Inoltre tutti noi sappiamo quale sia la posta in gioco, nel momento in cui un aggressore attacca una nazione sovrana. Questo ci riguarda tutti. KÖPPEL In Germania tornano i graffti con la stella di Davide. Il corrispondente dal Medio Oriente del settimanale svizzero Weltwoche mi dice che laggiù ci si domanda cosa stia accadendo in Europa. Anche questo è conseguenza di un’irresponsabile politica migratoria: il confitto mediorientale è stato importato nel Vecchio Continen­ te. Õamås è un’organizzazione assassina che si è data l’obiettivo di cancellare Israe­ le dalla carta geografca e uccidere gli ebrei: si arroga il diritto di distruggere. Per questo capisco benissimo che Israele si difenda da questa minaccia. Õamås usa in maniera terribile la popolazione civile come scudo. Il problema è che Israele è uno Stato di diritto e deve rispettare princìpi a cui Õamås non si attiene. Le immagini da Gaza suscitano sdegno. Con tutta la comprensione per Israele e con tutto il rispetto per le vittime dirette, anche tra la popolazione palestinese, è imperativo lavorare perché il mondo non vada in famme. Dovremmo tornare a parlare di pace: la Sviz­ zera, quale Stato neutrale, gioca un ruolo importante in questo senso. Viceversa, altri paesi legati ad alleanze varie si confrontano di più con opzioni militari. LIMES Il modello svizzero è in crisi? KÄLIN Ci sono opinioni divergenti, ma puntiamo sempre a trovare una maggioran­ za più larga possibile, un minimo comun denominatore. In queste elezioni ha vinto l’Udc, rispetto al 2019 il pendolo è oscillato. Ma il principio del minimo co­ mun denominatore fa della Svizzera un modello per il futuro, anche se intorno a noi i fattori di crisi si moltiplicano. La questione è: trovare questo denominatore comune, poiché trovarlo si deve. KÖPPEL Forse proprio perché non fa parte dell’Ue la Svizzera è il più europeo dei paesi d’Europa. Non dobbiamo pensare di poter ereditare la Svizzera come se

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fossimo nipoti di nonni ricchi, che a questo punto smettono di lavorare. Occorre la volontà di essere una nazione, altrimenti il nostro paese va in rovina. Cito al ri­ guardo Gottfried Keller, anno 1842: «Uno svizzero non è necessariamente uno nato in Svizzera, ma colui che s’identifca nelle nostre leggi e nella nostra demo­ crazia». Il tratto grandioso della Svizzera è, come gli ideali della Rivoluzione fran­ cese, la sua apertura: tutti possono diventare svizzeri. Tuttavia, dobbiamo prender­ ci cura dei nostri valori e di ciò che la Svizzera rappresenta. LIMES Come sarà la Svizzera tra dieci anni? KÄLIN Sarà più integrata nel contesto europeo e avrà relazioni formalmente rego­ lamentate con l’Ue. Rendere l’Europa più pacifca è un grande compito cui anche noi dovremmo contribuire. Abbiamo compiuto passi troppo deboli e incerti in tale direzione. Possediamo risorse enormi per svolgere una migliore politica di pace che superi le nostre frontiere nazionali e si diffonda altrove. KÖPPEL Non lo so, dipende da noi far sì che la Svizzera rimanga Svizzera. Non è un’ovvietà: se vogliamo che ci sia una Svizzera anche in futuro, dobbiamo tenere sempre a mente il nostro sistema politico, unico nel suo genere. Se lo tuteleremo, sapremo affrontare insieme ogni sfda futura. (traduzione di Monica Lumachi)

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EPPUR SI MUOVE LA POLITICA ELVETICA CAMBIA PER RESTARE SÉ STESSA Con istituzioni quasi invariate da un secolo e mezzo, la Svizzera è prototipo di stabilità. Ma i mutamenti interni e l’integrazione europea spingono a adattarsi. La forza del sistema collegiale. Il pilastro referendario e la tenacia dei partiti. Più è noioso, più funziona. di Oscar

MAZZOLENI e Andrea PILOTTI

U

1. NA DIFFUSA OPINIONE RIMARCA L’ECCEZIONALE stabilità del sistema politico svizzero. Negli anni Cinquanta del Novecento, quando alcuni studiosi americani iniziarono a interessarsi della politica elvetica, ciò che colpì fu come la Svizzera, così composita dal punto di vista linguistico e religioso, fosse in grado di limitare i confitti e sviluppare una forte stabilità governativa e del sistema partitico. In anni più recenti, tuttavia, non pochi hanno rilevato come le profonde trasformazioni seguite al crollo del Muro di Berlino abbiano incrinato questa tradizionale immagine. Come leggere l’attuale congiuntura storico-politica? La Confederazione Elvetica è ancora un modello di stabilità istituzionale e dei partiti? La risposta è composita. Il sistema politico elvetico presenta tuttora elementi importanti di stabilità politico-istituzionale, a confronto con il suo passato ma anche e soprattutto con i paesi europei che lo circondano. Tuttavia, non sono pochi i cambiamenti intervenuti negli scorsi decenni, soprattutto in risposta al processo di integrazione europea che ha coinvolto in modo profondo anche la Svizzera, sebbene ne resti fuori. Il processo si è espresso tramite 24 accordi settoriali con l’Unione Europea, in quello sulla libera circolazione delle persone, sullo spazio Schengen e sulla convenzione di Dublino 1. La stabilità del sistema politico svizzero deriva anzitutto dalla longevità delle sue istituzioni rappresentative: modello che mescola aspetti del sistema parlamentare e di quello presidenziale. Il parlamento federale è fondato su un bicameralismo paritario ed è ispirato al Congresso americano. La sua struttura risale al 1848, anno della prima costituzione federale: la Camera bassa (del popolo) è costituita 1. Sui rapporti fra Svizzera e Unione Europea, cfr. O. MAZZOLENI, P. DARDANELLI (a cura di), Svizzera-Ue. Un rapporto irrisolto, Locarno 2019, Armando Dadò Editore.

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dal Consiglio nazionale, mentre la Camera alta (dei Cantoni) è costituita dal Consiglio degli Stati. Il parlamento non ha fnora vissuto alcuna riforma signifcativa dalla sua nascita, salvo l’introduzione del proporzionale per l’elezione del Consiglio nazionale nel 1918 e del suffragio femminile nel 1971. La stabilità si esprime anche e soprattutto nel sistema di elezione e nel funzionamento del Consiglio federale, il governo elvetico ispirato al modello del Direttorio francese. I membri dell’esecutivo sono sette: diversamente dal resto delle democrazie contemporanee, tale numero è scritto in costituzione e non può quindi variare. Ogni membro del governo è eletto singolarmente dalle due Camere riunite del parlamento, con un sistema maggioritario a più turni. Ciò impedisce a un singolo partito di eleggersi da solo un proprio rappresentante in governo, obbligandolo a cercare maggioranze più ampie. Ogni membro del Consiglio federale dispone delle stesse prerogative e dirige un dipartimento (l’equivalente di un ministero); non esiste quindi un primo ministro o un presidente della Repubblica. La funzione di presidente del governo federale poggia sul principio del primus inter pares ed è attribuita a rotazione per un anno a ciascuno dei sette membri. Una volta eletti, i membri del governo – singolarmente e collettivamente – non possono essere sfduciati dal legislativo e devono sottostare al principio di collegialità: sono tenuti a difendere pubblicamente le posizioni dell’esecutivo anche se non condivise a titolo personale. Dal 1848 a oggi il Consiglio federale, eletto ogni 4 anni, non ha mai visto un rinnovo completo. L’eccezionale continuità è anche dovuta a regole non scritte, fra cui fgura la logica della concordanza che deriva da un insieme di vincoli legati al sistema collegiale di governo, agli effetti del suo sistema elettorale, al consolidamento di un sistema multipartitico favorito dal proporzionale adottato per l’elezione della Camera bassa. La logica di concordanza si rifette fn dagli anni Cinquanta nella ripartizione dei sette seggi dell’esecutivo nazionale tra i maggiori partiti. In Svizzera tale ripartizione è sovente defnita «formula magica»: due seggi vanno all’Unione democratica di centro (Udc, destra liberal-conservatrice erede di un partito agrario), due al Partito liberale radicale (Plr) e al Partito socialista (Ps), uno va al Partito del centro (di ispirazione cristiano-democratica). Visti i vincoli istituzionali e le pressioni della democrazia diretta, prevale una logica d’integrazione delle principali forze politiche nell’esecutivo federale e quindi di compromesso rispetto al confronto maggioranza-opposizione. Ciò non toglie che negli ultimi trent’anni il sistema politico elvetico si sia dovuto adattare alle profonde trasformazioni sociali e culturali interne, nonché ai mutamenti determinati dall’integrazione europea. Si è rafforzato il ruolo del parlamento federale, a partire dagli anni Novanta e ancor più dai Duemila, in larga parte per l’accresciuto carico di lavoro necessario a adeguare la legislazione svizzera a quella europea. Si è quindi introdotto un nuovo sistema di commissioni permanenti, si sono aumentate le retribuzioni e le indennità parlamentari aprendo la via a forme inedite di professionismo politico, sebbene il parlamento elvetico

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rimanga fra i meno costosi 2. Con l’adozione di una nuova legge si è voluto riconoscere al parlamento un ruolo maggiore nelle funzioni di legislatore, di controllo dell’esecutivo e dell’amministrazione federale. Sul fronte governativo, alcuni tentativi di riforma sono stati fatti per un’elezione popolare diretta del Consiglio federale e per un aumento del numero di membri, un rafforzamento del ruolo della presidenza, la creazione di un doppio livello di governo (collegio di cinque-sette membri per gli aspetti strategici e un gruppo di ministri per gli aspetti operativi). Quasi tutti i tentativi non hanno però avuto buon esito, salvo l’istituzione di un gruppo di segretari di Stato, alti funzionari con deleghe specifche. Inoltre, il sistema politico svizzero ha conosciuto negli ultimi decenni un processo di accentramento delle competenze del governo federale che contribuisce ad apportare cambiamenti al federalismo elvetico. 2. Insieme allo specifco sistema parlamentare e di governo, il federalismo costituisce un pilastro dell’architettura istituzionale svizzera 3. Sin dalla nascita dello Stato federale, viene riconosciuta ai Cantoni un’importante autonomia organizzativa delle rispettive autorità politiche, amministrative e giudiziarie. I Cantoni sono chiamati ad attuare le leggi federali, venendo coinvolti nella loro elaborazione tramite una procedura di consultazione. Come nel caso degli Stati Uniti e del Canada, e a differenza di Germania e Belgio, il federalismo elvetico nasce dal basso: Comuni e Cantoni esistevano ben prima dello Stato federale. Il federalismo elvetico non è dunque il risultato di un decentramento amministrativo. A distinguere la Svizzera da tutti gli altri Stati federali, oltre alle competenze limitate del Tribunale federale (la massima autorità giudiziaria del paese) nella risoluzione delle controversie tra governo federale e Cantoni, vi è una singolare combinazione di due logiche federaliste. Un federalismo solidale rappresentato dalla perequazione fnanziaria intercantonale, per cui i Cantoni più ricchi e il governo federale aiutano i Cantoni economicamente più deboli. E un federalismo concorrenziale, il cui esempio più signifcativo è la concorrenza fscale tra i Cantoni e i Comuni 4. Infatti, ogni Cantone dispone di una costituzione e di una propria legge fscale, tassando in maniera diversa reddito da lavoro, da capitale o immobiliare, come pure le successioni. Inoltre, recepisce la maggioranza del gettito fscale prima di girarne una parte allo Stato federale. I tre livelli dell’impianto federalista fondato nell’Ottocento – comunale, cantonale e federale – non hanno subìto mutamenti di rilievo. Negli anni Novanta del XX secolo, in risposta alle sfde dell’integrazione europea che spinge verso una maggiore centralizzazione, i Cantoni svizzeri hanno istituito un quarto livello, la Conferenza dei governi can2. A. PILOTTI, P. SCIARINI, F. VARONE, F. CAPPELLETTI, «L’Assemblea federale: un parlamento di milizia in fase di professionalizzazione», in A. PILOTTI e O. MAZZOLENI (a cura di), Milizia e professionismo nella politica svizzera, Locarno 2018, Armando Dadò Editore, pp. 45-73. 3. S. MÜLLER, A. GIUDICI (a cura di), Il federalismo svizzero. Attori, strutture e processi, Locarno 2017, Armando Dadò Editore. 4. P. SCIARINI, Politique suisse. Institutions, acteurs, processus, Losanna 2023, EPFL Press, pp. 19 ss.

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tonali: un coordinamento per far pesare gli interessi dei Cantoni verso governo e parlamento federali. Il sistema di governo e l’impianto federalista caratterizzano un’architettura istituzionale dove la democrazia referendaria ha un ruolo signifcativo. Fra le democrazie contemporanee, la Svizzera dispone delle istituzioni referendarie più antiche, diversifcate e frequentemente usate. L’accessibilità della democrazia referendaria ai partiti e alle componenti della società civile che non si ritengono abbastanza rappresentati controbilancia la relativa inaccessibilità del sistema di governo alle forze politiche emergenti, o che non sanno integrarsi nella democrazia di concordanza. Mentre il governo federale è concepito per assorbire il cambiamento, gli strumenti referendari, accettati e usati dall’insieme dei partiti, sono assai sensibili alle nuove domande sociopolitiche e fungono da «palestra» del dibattito pubblico. Due sono le caratteristiche distintive del sistema referendario che ne sottolineano l’importanza e permettono di defnire il sistema svizzero una democrazia semi-diretta. Primo, non esiste un quorum di validità e il risultato referendario ha forza di legge, non già un ruolo meramente consultivo. Secondo, chiunque (comitati, associazioni o partiti) può lanciare referendum comunali, cantonali e nazionali; un numero minimo di sottoscrizioni può obbligare a indire un referendum abrogativo di leggi approvate dal parlamento; governo e parlamento, sul piano nazionale, cantonale e comunale, sono tenuti a chiamare i cittadini alle urne per modifche costituzionali e spesso legislative, per esempio quando è in gioco un importante investimento fnanziario. Anche se le leggi contestate da referendum sono relativamente poche, ogni anno i cittadini sono chiamati alle urne tre-quattro volte su temi federali, cantonali e comunali. Inoltre, il sistema referendario prevede (sul piano federale e cantonale) l’iniziativa popolare costituzionale, che previa raccolta di centomila frme di aventi diritto al voto, permette – con il sostegno della maggioranza dei votanti e dei Cantoni – un cambiamento parziale della costituzione. Non sono mancate modifche puntuali della costituzione. Negli ultimi vent’anni il numero di votazioni federali è stato assai variabile, fra 5 e 15 l’anno. Gli argomenti legislativi e costituzionali sono disparati: dai più tecnici e diffcili ai più ideologici, facilmente riassumibili nell’opposizione sinistra-destra o che mettono in gioco la posizione della Svizzera nel contesto internazionale. Non stupisce che i referendum più polarizzanti registrino la maggior partecipazione al voto. Dagli anni Settanta l’affuenza al voto referendario federale non si discosta molto da quella nelle elezioni nazionali: 40-45%. La Svizzera si conferma quindi, nel confronto internazionale, una delle democrazie dove le elezioni nazionali attirano meno votanti, sebbene siano più frequenti le occasioni di voto rispetto alle democrazie rappresentative. Tuttavia, le variazioni sono notevoli e i picchi signifcativi. Negli ultimi cinquant’anni i tassi di partecipazione più elevati si sono osservati nell’ottobre 1974 – 70,3%, in occasione di un’iniziativa che reclamava la riduzione della presenza di immigrati – e nel dicembre 1992 – 78,7%, quando i votanti svizzeri vennero chiamati a esprimersi sull’adesione allo Spazio economico europeo.

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Fu una fase storica cruciale. Il crollo del Muro di Berlino e l’accelerazione del processo di integrazione europea avevano spinto il governo a sottoporre a referendum una proposta che metteva in discussione la tradizione politica estera della Svizzera. Contro la proposta governativa si mobilitò un ampio schieramento di partiti e movimenti della destra elvetica che denunciavano il rischio di perdere l’indipendenza e la sovranità nazionali. In prima fla il leader dell’ala nazionalista e populista zurighese dell’Unione democratica di centro, Christoph Blocher, che in quell’occasione assurse a protagonista della politica svizzera diventando di lì a poco il leader nazionale del suo partito. 3. Negli ultimi trent’anni non sono poche le trasformazioni avvenute nel sistema svizzero dei partiti, soprattutto se si tiene conto della grande stabilità che lo ha caratterizzato nei decenni precedenti. I rapporti di forza sono cambiati: l’Unione democratica di centro (in tedesco Partito svizzero del popolo, saldamente collocato a destra) è diventato il partito più votato, mentre i partiti ecologisti (Verdi e Verdi liberali) hanno conquistato spazi signifcativi, pur rimanendo minori. Questi cambiamenti avvengono in un sistema partitico che vede in crescente diffcoltà le formazioni politiche del centro-destra, liberali e democristiani (questi ultimi diventati Partito del centro). Nonostante i temi che dividono i partiti svizzeri siano molteplici e spesso trasversali, le forze politiche di maggior successo negli ultimi due decenni si collocano agli antipodi sulla questione dell’integrazione europea: l’Udc è euroscettico, i due partiti ecologisti propugnano (pur se in modo diverso) un rafforzamento dei rapporti Svizzera-Ue. Queste evoluzioni sono però lontane dalle svolte repentine osservate in Italia o in Francia, dove i partiti dominanti nel dopoguerra sono scomparsi o divenuti marginali. La cifra dominante dei partiti svizzeri resta la gradualità, un cambiamento che si accompagna a elementi di continuità. I tre principali partiti che hanno caratterizzato la storia politica nel XX secolo conservano infatti un ruolo di primo piano: i liberali, il centro e il Partito socialista, principale formazione della sinistra e seconda per votanti. Questi tre soggetti detengono insieme cinque dei sette seggi del governo federale e sono i meglio rappresentati nei governi cantonali. L’evoluzione dei due principali partiti di centro-destra attesta la gradualità del mutamento: sono i più longevi del governo federale e il loro declino nella Camera bassa del parlamento federale contrasta con quanto avvenuto nella Camera alta, dove restano preminenti e dunque centrali nel processo legislativo. Inoltre, tutti i partiti rappresentati nel governo federale e quasi tutti quelli in parlamento sono anche presenti nelle regioni della Svizzera; sono in genere le stesse forze politiche che governano a livello locale e cantonale. Non è una tendenza nuova e concorre a spiegare la bassa intensità delle spinte centrifughe, che con l’eccezione del caso giurassiano sono rimaste limitate a fronte dell’eterogeneità svizzera. I partiti politici continuano insomma a svolgere un ruolo importante come canali di aggregazione fra realtà culturali diverse e come cinghie di trasmissione fra le domande locali e le istituzioni nazionali.

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EPPUR SI MUOVE. LA POLITICA ELVETICA CAMBIA PER RESTARE SÉ STESSA

Sebbene la disaffezione verso la politica che si osserva nelle democrazie occidentali tocchi anche la Svizzera, qui non ha intaccato la legittimità dei partiti. Nel XX secolo il loro ridotto margine nell’elezione dei membri del governo federale, la loro scarsa dotazione fnanziaria e il ritrovarsi spesso a rimorchio delle campagne referendarie erano letti come segnali di fragilità. Oggi tale debolezza li rende bersagli meno facili della contestazione, sicché i movimenti di protesta tendono a riprendere la forma partito e la presenza di un’organizzazione capillare sul territorio può aiutare il successo, come nel caso dell’Udc di Christoph Blocher. L’eccezione parziale è rappresentata dal Canton Ticino, dove i partiti politici hanno avuto un ruolo di rilievo nella storia del Novecento e l’emergere di un movimento di protesta all’inizio degli anni Novanta, la Lega dei ticinesi, è stato accompagnato da un discorso anti-partitocratico.

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4. Alcuni decenni orsono la stabilità politica riceveva ampi elogi, oggi è ritenuta da molti un segno dell’incapacità di stare al passo con i rapidi cambiamenti della società. In un’epoca che vede la politica parte integrante della spettacolarizzazione pubblica, un sistema che non fa notizia suscita poco interesse. Tuttavia, secondo altri – come lo scrittore italo-svizzero Giuliano Da Empoli – spettacolo ed effcacia hanno un rapporto inverso: «Più è noioso, meglio funziona». Così sarebbe il sistema politico svizzero, uscito indenne oltre un secolo e mezzo di storia. Diversamente dalle altre democrazie liberali del continente, la Svizzera non ha subìto cesure istituzionali di rilievo o svolte costituzionali nel Novecento e ciò spiega molto della stabilità politica odierna. Un sistema politico nato diverse generazioni orsono, con una peculiare forma di governo, uno spiccato federalismo e un’estesa democrazia referendaria, continua a giocare un ruolo fondamentale nel defnire la traiettoria di questo piccolo paese al centro dell’Europa occidentale. Stabilità non signifca però immutabilità. Negli ultimi decenni anche le istituzioni elvetiche hanno dovuto fare i conti con le trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche che coinvolgono l’insieme delle democrazie. Ai mutamenti in corso contribuisce molto il processo di integrazione europea: un’integrazione parziale, composita, che ha coinvolto società e politica e che è tutt’ora in corso. La Svizzera non ha aderito all’Ue ma ha sviluppato una stretta relazione con un insieme articolato di accordi che coinvolgono il mercato del lavoro, la fscalità, i trasporti, gli spostamenti delle persone. A fronte di queste sfde, il sistema politico svizzero non è stato esente da adattamenti e riforme. La miscela di aperture e chiusure ha favorito un processo di adattamento senza grandi strappi, grazie alla capacità di imporre un fltro potente alle forze politiche che ambiscono al governo del paese. Dal 1848, quasi mai i membri del governo federale sono stati costretti a lasciare il seggio contro la loro volontà. Ma il sistema offre ampie possibilità di dar voce alle nuove istanze, attribuendo facoltà decisionali alle articolazioni della società civile e ai partiti politici attraverso gli strumenti della democrazia semi-diretta. Così l’approvazione degli accordi di libera circolazione e di Schengen-Dublino è passata da un insieme di referendum.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Sebbene puntuali e circoscritte, alcune componenti del sistema elvetico hanno subìto riforme in risposta alle sfde dell’integrazione europea. Tali riforme hanno coinvolto il funzionamento del parlamento e il sistema federale, con l’istituzione di un quarto livello, accanto a Comuni, Cantoni e Confederazione, nella forma della Conferenza dei governi cantonali. Il sistema dei partiti ha rappresentato forse la componente più sensibile ai cambiamenti, rifettendo l’emergere di nuove fratture politico-ideologiche come quella legata alla tensione fra indipendenza nazionale e integrazione europea. L’attuale sistema dei partiti svizzero affonda in larga parte nelle famiglie politiche dell’Ottocento: liberali, socialisti, cristiano-democratici, agrari. Tuttavia, negli ultimi trent’anni i rapporti di forza sono cambiati in modo signifcativo. Nonostante la pregnanza del sistema collegiale di governo, che limita la visibilità (anche all’estero) di singoli esponenti politici, la politica svizzera non è risparmiata dalla personalizzazione e dal rincaro delle campagne elettorali, nonché da un peso crescente dei media nella formazione dell’agenda politica e dell’opinione pubblica.

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

DEMOCRATICO E CONSOCIATIVO IL REBUS DEL SISTEMA SVIZZERO La Svizzera compensa le forze centripete del multiculturalismo e dell’autonomia spinta con i referendum e con un esecutivo d’altri tempi. I limiti del modello. Il confronto con le altre realtà federali. I germanofoni esercitano l’autocontegno. di Nenad STOJANOVI©

F

1. EDERALISMO E DEMOCRAZIA DIRETTA SONO le più importanti istituzioni elvetiche e distinguono la Svizzera da tutte le altre democrazie in Europa, forse nel mondo. A queste si aggiunge il consociativismo. Pochi altri paesi europei hanno un sistema federale e questo è stato imposto dall’alto (Austria, Bosnia, Germania) oppure si sta sviluppando faticosamente, partendo dall’esperienza di uno Stato unitario e centralizzato (Belgio, Spagna). Solo in Svizzera possiamo parlare di un federalismo sviluppatosi dal basso. Per quanto riguarda la democrazia diretta, l’eccezione svizzera è senza pari. Dal 1700 a oggi, quasi una votazione popolare su quattro si è tenuta in territorio elvetico, senza tenere conto delle ancora più numerose votazioni a livello cantonale e comunale. Un altro aspetto, non istituzionale ma sociale, contraddistingue la Svizzera: il plurilinguismo. Costruire e mantenere la democrazia in un paese composto da gruppi culturali diversi, soprattutto se si tratta di gruppi linguistici distinti, è più diffcile che in un paese culturalmente omogeneo 1. Lo dimostrano gli esempi del Belgio, del Canada e della Spagna dove esistono forti movimenti indipendentisti. Come spiegare allora che la Svizzera sia considerata la più stabile democrazia plurilingue al mondo, senza le spinte secessioniste che osserviamo in altri paesi? 2. Per spiegare il successo del modello elvetico, la maggior parte dei commentatori ha messo in evidenza il federalismo. I 26 Cantoni svizzeri godono infatti di 1. J.S. MILL, Considerazioni sul governo rappresentativo, Milano 1946, Bompiani (ed. originale 1861); P. VAN PARIJS, Linguistic Justice for Europe and for the World, Oxford 2011, Oxford University Press. 2. W. LINDER, Swiss Democracy. Possible Solutions to Confict in Multicultural Societies, Basingstoke 2010, Palgrave Macmillan; N. STOJANOVI0, Multilingual Democracy: Switzerland and Beyond, London-New York 2021, Rowman & Littlefeld/Ecpr Press.

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Losanna

Berna

(Capitale)

Basilea

Losanna città 140.619 Agglomerato urbano: 433.676

Berna città 134.290 Agglomerato urbano: 423.531

555.526 205.000 100.000

173.064

Fonte: Agglomeration defnition 2012 (UST), Ufcio federale di statistica (UST) 2022, Swissinfo.ch

Ginevra città 203.401 Agglomerato urbano: Area svizzera 606.401

Ginevra

FRANCIA

Ginevra Il 45% della popolazione è di origine straniera con circa 180 nazionalità. Ginevra ospita circa 180 ong, 150 missioni e 22 organizzazioni internazionali tra cui la sede europea dell’Onu. La città ospita anche il Cern (European Organization for Nuclear Research)

Centro città

Agglomerato urbano

Basilea città Agglomerato urbano: Area svizzera Area tedesca Area francese

AGGLOMERATI URBANI

S

V

I

Z

E

R

A

Lugano

LIECHT.

A US TRIA

G ERMAN IA

(Censimento 2022)

Popolazione totale: 8.815.385

Classifca delle città per numero di abitanti

IT A LIA

San Gallo città 76.328 Agglomerato urbano: 167.968

San Gallo

Lugano città 62.123 Agglomerato urbano: 150.105

Z

Lucerna città 82.922 Agglomerato urbano: 235.224

Lucerna

Zurigo città 423.193 Agglomerato urbano: 1.414.345

Zurigo

Winterthur

Winterthur città 115.129 Agglomerato urbano: 146.221

DEMOCRATICO E CONSOCIATIVO, IL REBUS DEL SISTEMA SVIZZERO

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

ampia autonomia 3. In particolare, sono sovrani per quanto riguarda la fscalità: la tassazione di Cantoni e Comuni è decisa dai parlamenti cantonali, a volte coinvolgendo il popolo tramite referendum. Solo l’imposta federale viene determinata dal parlamento nazionale. Inoltre, ogni Cantone ha due seggi nel Consiglio degli Stati, seconda Camera del parlamento federale (Basilea-Città e Basilea-Campagna, Appenzello Interno e Appenzello Esterno, Obvaldo e Nidvaldo ne hanno uno ciascuno). Si tratta di un potere importante riservato ai Cantoni, perché il Consiglio degli Stati è la più potente seconda Camera al mondo. Nel Consiglio nazionale, la prima Camera del parlamento federale, ogni Cantone ha invece un numero di seggi (in ogni caso, almeno uno) proporzionale alla popolazione. Il Canton Uri, con i suoi 37 mila abitanti, ha lo stesso numero di rappresentanti del Cantone più popoloso, Zurigo, che ha 1 milione e 554 mila abitanti. Al Consiglio nazionale, tuttavia, il Canton Uri ha solo un seggio mentre Zurigo ne ha 36. Questa violazione del principio democratico «una testa, un voto» è il prezzo del federalismo: i padri della costituzione svizzera del 1848 copiarono esplicitamente il modello americano. Grazie al federalismo le minoranze linguistiche (soprattutto francofoni e italofoni) e religiose (i cattolici, ancora nel 1848 e fno alla prima metà del Novecento) hanno potuto rimanere parzialmente sovrane nei loro territori storici e gestire autonomamente i propri affari. Il sistema federale ha permesso alle minoranze di essere integrate nel sistema politico, creando e rafforzando il loro senso di appartenenza al paese e quindi la legittimità del regime democratico 4. 2. Tutto questo è senz’altro vero. Tuttavia, l’accento sul federalismo trascura la seconda istituzione fondamentale del sistema politico svizzero: la democrazia diretta. Questa svolge un ruolo fondamentale per la coesione nazionale e l’integrazione delle minoranze linguistiche, pari a quello del federalismo 5. Preso singolarmente, infatti, il federalismo è forza centrifuga, tendente a rafforzare le entità federate a scapito del potere centrale. A lungo termine esso tende a rendere instabile l’assetto istituzionale. Un paese federale necessita anche di forze centripete. In diverse federazioni del mondo (Brasile, Messico, Nigeria, Russia, Stati Uniti) questo ruolo viene ricoperto dal presidente, un’istituzione eletta direttamente dal popolo che rappresenta la nazione e che quindi controbilancia il potere delle entità federate. I paesi federali (Belgio, Canada) o semifederali (Spagna, Regno Unito) dove il capo dello Stato non è eletto dal popolo ma è un monarca costituzionale, sono assai meno stabili. 3. H. KRIESI, A.H. TRECHSEL, The Politics of Switzerland: Continuity and Change in a Consensus Democracy, New York 2008, Cambridge University Press; S. MUELLER, «Shared rule in federal political systems: Conceptual lessons from subnational Switzerland», Publius: The Journal of Federalism, vol. 44, n. 1, 2014, pp. 82-108. 4. Y. PAPADOPOULOS, «Connecting minorities to the Swiss federal system: A frozen conception of representation and the problem of “requisite variety”», Publius: The Journal of Federalism, vol. 32, n. 32, 2002, pp. 47-65. 5. N. STOJANOVI0, op. cit.

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La Svizzera non ha un presidente eletto dal popolo, bensì un Consiglio federale di sette membri eletto dall’Assemblea federale, la sessione comune del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati. Ma ha qualcosa che possiamo chiamare un equivalente funzionale: la democrazia diretta. È questa la principale forza centripeta, potentissima, nel sistema politico elvetico  6. La democrazia diretta viene impiegata come se la Svizzera fosse un paese centralizzato. Non c’è (quasi) traccia di federalismo: nelle votazioni popolari il voto di ogni cittadino svizzero ha egual peso e ognuno vota nello stesso momento, in un’unica grande circoscrizione comprendente l’intero paese. Il risultato corrisponde alla preferenza della maggioranza dei votanti, senza che sia necessaria (come in Italia) una partecipazione minima del 50%. A molti sembrerà paradossale che un paese con tante minoranze applichi un sistema dove a vincere è la maggioranza. Ma così è. L’unica traccia di federalismo presente in alcune votazioni popolari è la necessità di raccogliere la maggioranza dei votanti e quella dei Cantoni. Si tratta però di un aspetto secondario, applicato solo in alcune votazioni che riguardano le modifche della costituzione o l’adesione alle organizzazioni internazionali e che serve a verifcare se la maggioranza del popolo corrisponde a quella dei Cantoni. Quasi sempre è così. Del tutto infondate sono le tesi che vedono in questa regola della «doppia maggioranza» un meccanismo di protezione delle minoranze 7. Al contrario, le minoranze linguistiche rischiano di essere doppiamente penalizzate sotto questo sistema: oltre a essere minoritarie in seno al popolo svizzero (almeno il 70% dei cittadini svizzeri è di lingua tedesca), lo sono anche nell’insieme dei Cantoni: solo 7 su 26 sono prevalentemente di lingua francese o italiana. Paradossalmente, quindi, la democrazia diretta non solo non svantaggia le minoranze, ma ha reso l’intero sistema più stabile. In che modo? Permettendo a ogni cittadino di votare più volte all’anno su questioni che lo riguardano da vicino. Questo rafforza la legittimità dello Stato. Nei sondaggi la stragrande maggioranza degli svizzeri di ogni lingua si dice attaccatissima alla democrazia diretta, sebbene non di rado i media mettano in evidenza come in questa o quella votazione i francofoni o gli italofoni siano battuti dalla maggioranza germanofona. Questo è vero nei singoli casi, ma in ogni votazione vi è sempre una forte minoranza francofona e/o italofona che vota come la maggioranza di lingua tedesca. Chi oggi è in minoranza potrà essere in maggioranza domani. 3. Il consociativismo si esprime soprattutto nella composizione dell’esecutivo: il Consiglio federale 8. Questo è composto da 7 membri, numero iscritto nella costituzione sin dal 1848 e da allora immutato. I 7 consiglieri sono eletti ogni 4 anni,

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6. Ivi, cap. 4. 7. A. VATTER, «Vom Extremtyp zum Normalfall? Die schweizerische Konsensusdemokratie im Wandel: Eine Re-Analyse von Lijpharts Studie für die Schweiz von 1997 bis 2007», Rivista Svizzera di Scienza Politica, vol. 14, n. 1, 2008, pp. 1-47. 8. Ibidem.

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a inizio legislatura, nella sessione congiunta dell’Assemblea federale. Ogni consigliere è eletto singolarmente, a scrutinio segreto e con sistema elettorale maggioritario 9. Se un membro dell’esecutivo rassegna le dimissioni o muore nel corso della legislatura, l’Assemblea federale procede alla sua sostituzione. La costituzione non prevede alcun meccanismo di sostituzione dei consiglieri federali in carica, come il voto di sfducia o l’impeachment. Per prassi i consiglieri federali in carica che si ripresentano all’inizio della nuova legislatura sono quasi sempre riconfermati: solo in quattro occasioni (1854, 1872, 2003 e 2007) un membro uscente è stato «bocciato» dal parlamento. Il Consiglio federale non ha tuttavia il potere di sciogliere le Camere prima della scadenza elettorale. Si è creato così un sistema unico al mondo, dove legislativo ed esecutivo sono assai forti e autonomi. Un governo di soli 7 membri è, al giorno d’oggi, forse anacronistico e poco effciente. Le opposizioni a una modifca del sistema hanno tuttavia sempre avuto la meglio 10. In particolare, negli scorsi anni la proposta di ampliare il numero dei consiglieri federali da 7 a 9 fu avanzata dal Canton Ticino con due risoluzioni del suo parlamento indirizzate all’Assemblea federale. Ma il parlamento federale le bocciò entrambe nel settembre 2012. Un’iniziativa analoga, formulata dalla Commissione delle istituzioni politiche del Consiglio nazionale, è stata respinta dal Consiglio nazionale nel settembre 2016. Ciò che contraddistingue l’esecutivo svizzero è che i principali partiti politici – tutti plurilingui, a differenza del Belgio – vi sono sempre rappresentati. Ecco perché si parla di modello consociativo. Dal 1959 vige una regola informale – la «formula magica» – secondo cui i 3 principali partiti occupano 2 seggi ciascuno mentre il quarto ottiene un seggio nel Consiglio federale. Quindi fno al 2003 l’esecutivo era composto da 2 liberal-radicali (destra), 2 cattolico-conservatori (centro-destra), 2 socialisti e 1 rappresentante dell’Unione democratica di centro (in tedesco Schweizerische Volkspartei, Partito popolare svizzero). Quest’ultimo era di centro-destra ma dal 1992 si è spostato sulla destra nazionalista e populista, diventando il primo partito in termini percentuali. Dal 2003 al 2007 e di nuovo dal 2015 in poi, l’esecutivo è stato quindi composto da 2 Udc, 2 socialisti, 2 liberal-radicali e 1 ex cattolico conservatore, oggi Centro. Non si tratta di un governo di coalizione come quelli di Germania o Italia, perché non vi è un contratto di coalizione. La prassi consociativista funziona meno bene se guardiamo alle lingue presenti nell’esecutivo federale. Per circa metà del tempo fra il 1848 e oggi la Svizzera italiana non ha avuto un suo rappresentante al Consiglio federale 11. Ciononostante, questo non è stato mai composto da 7 persone di lingua tedesca. In generale, il 9. N. STOJANOVI0, op. cit., cap. 8. 10. Y. PAPADOPOULOS, op. cit. 11. A. GIUDICI, N. STOJANOVI0, «Die Zusammensetzung des Schweizerischen Bundesrates nach Partei, Region, Sprache und Religion, 1848-2015», Rivista Svizzera di Scienza Politica, vol. 22, n. 2, 2016, pp. 288-307; N. STOJANOVI0, «Rappresentanza delle minoranze e democrazia consociativa: l’assenza della minoranza di lingua italiana nel governo federale svizzero», Quaderni di Scienza Politica, vol. 22, n. 1, 2015, pp. 61-87.

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numero di germanofoni si situa fra 4 e 5. Dal gennaio 2022 al dicembre 2023 i germanofoni erano persino in minoranza, con soli 3 seggi. Ciò non è irrilevante posto che circa il 70% dei membri dell’Assemblea federale, che elegge i consiglieri federali, è di lingua tedesca. Avrebbero perciò sempre i numeri per eleggere un esecutivo interamente germanofono, ma non lo fanno perché hanno riguardo verso le minoranze linguistiche e perché l’identità linguistica dei candidati al Consiglio è solo uno dei fattori presi in considerazione 12. La democrazia diretta svizzera è lungi dall’essere un sistema ideale. Può diventare anche uno strumento per opprimere le minoranze. In Svizzera ne hanno sofferto non tanto le minoranze linguistiche, quanto quelle religiose. La prima iniziativa popolare, accolta nel 1893, proibì la macellazione rituale: il bersaglio era la minoranza ebraica. Il divieto di costruire minareti, imposto nel 2009, è un altro esempio. La democrazia diretta non va quindi idealizzata ed è importante – persino urgente – chiarire quali debbano essere i suoi limiti, specie per quanto riguarda il rispetto delle convenzioni sui diritti umani e sulla libertà religiosa. Ma i suoi vantaggi, ameno per ora, prevalgono.

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12. N. STOJANOVI0, Dialogo sulle quote. Rappresentanza, eguaglianza e discriminazioni nelle democrazie multiculturali, Bologna 2014, il Mulino.

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Zurigo, la mia città di Alice

BRITSCHGI

S

ONO SEDUTA SU UNA PANCHINA DEL CIMITERO SIHLFELD.

La ghiaia scricchiola sotto le scarpe dei passanti. I corvi gracchiano sopra la mia testa. I morti tacciono sotto i loro fori. Il sole combatte contro il mio cappotto. «Che ci fai qui?», mi chiede un larice. La conifera sta di fronte a me e mi guarda. «Sto pensando». Il larice è alto e asciutto, ha un aspetto cagionevole. «A cosa?». Il cimitero Sihlfeld è a cinque minuti a piedi dal mio appartamento nel quartiere di Wiedikon. Un tempo era un quartiere operaio, ma oggi ci vivono molti giovani che indossano le sneaker e fanno lievitare gli afftti, come me. Wiedikon è il Prenzlauer Berg di Zurigo. A Roma sarebbe Prati. Forse la cosa migliore di questo posto alla moda è il cimitero. Quando ho bisogno di pensare, vengo a camminare sulla ghiaia. Da nessun’altra parte mi sento così viva come qui. Nel cimitero non dimorano solo i morti, ma anche circa duemila alberi: il parco è il più grande della città. La maggior parte degli alberi ha un aspetto possente. Alcuni di loro hanno il fogliame quasi nero, altri in primavera sfoggiano una ricca foritura. Altri ancora fancheggiano i viali, in riga da decenni, e di tanto in tanto ridono degli abitanti del quartiere per il loro disinvolto lifestyle. Ma non il larice. Ha solo pochi aghi, e molti già ingialliti. Il larice è una delle rare conifere che d’inverno si spoglia. Non ha alcun fnto orgoglio, ed è più indulgente con le persone del quartiere.

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ZURIGO, LA MIA CITTÀ

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Per questo mi confdo con lui. «Sto rifettendo su Zurigo. Forse puoi aiutarmi. Che città è quella in cui viviamo?». «Dillo tu a me», risponde il larice. «Sono 58 anni che sto su questo quadratino di terra. Non ho visto altro che queste tombe, questo sentiero di ghiaia e i corvi sopra la mia chioma. Posso dirti quale modello di bara si trova in ogni tomba. Posso dirti chi piangeva per i defunti che ospitano. Conosco i morti e le persone tristi di questa città. E conosco persone come te che vengono qui per rifettere o rimandare incombenze. Ma non so in che tipo di città viviamo». Lo sguardo del larice scorre sulle fle delle tombe; dalle più vecchie a quelle appena scavate, fno alle tombe dei bambini. «Non sono sicura di saperne più di te», dico. «La tua città è come la tua persona: un blind spot. Come faccio a sapere se quello che penso della mia città natale è vero?». Il larice rivolge il lato inferiore dei suoi rami verso l’alto, li solleva appena per poi lasciarli ricadere di colpo. «Ti stai complicando la vita inutilmente», dice. «A essere sincero, non mi sorprende. Ti ho vista spesso camminare lungo i vialetti di ghiaia, o seduta su una panchina a pensare, ed ero sempre dell’idea che ti stessi complicando la vita inutilmente». «Forse questo è tipico di Zurigo». «Probabile. Per favore, non ti arrabbiare, ma mi piace guardarti pensare. Quale faccenda o incombenza stai rimandando questa volta? Presumo che non te ne stia qui seduta per pensare davvero a Zurigo». L’aggressività del larice mi sorprende. «Non sei così debole come sembri», dico. «E mi hai colto in castagna. Sto rimandando la scrittura di un articolo su Zurigo. Dovrei presentare la città ai lettori italiani». È un paradosso: ogni persona conosce sé stessa meglio degli altri, ma allo stesso tempo non è in grado di descrivere nessuno peggio di sé stessa. Sei bella? Sei amata? Sei stressante? Fai delle ipotesi. Ipotesi spiacevoli. Ma non ne sei sicura. Ciò che una persona racconta di sé di rado corrisponde alla verità. Chiunque abbia mai fatto dating online lo sa. Lo stesso vale per la tua città. Se qualcuno ti dice che vive in una città normalissima, assolutamente normale, allora devi andarci per forza, perché probabilmente si tratta della città più affascinante del pianeta. Ma se qualcuno è entusiasta della sua città natale, allora ti consiglierei di non visitarla. Non puoi fdarti delle persone che adorano sé stesse o la propria città. Con le città straniere è diverso. Se uno zurighese è stato a Roma e ti dice che Roma è la città più bella che esista – soprattutto perché rifuti e santi convivono in armonia gli uni di fronte agli altri – allora è la verità. Non c’è bisogno di metterlo in dubbio.

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Chiariamoci subito: sono io quella persona. Descrivere Roma per me non sarebbe un problema. Ma per Zurigo, la mia città, mi mancano le parole. «Scusa se mi intrometto in modo inopportuno, ma posso dire qualcosa al riguardo?». La voce proviene dalla zona delle tombe. Da una lapide. La conosco di vista. È la lapide del padre dell’ex fdanzato di mia sorella. Proprio come le persone che si complicano la vita inutilmente, anche questo è tipico di Zurigo: qui tutti si conoscono. Puoi imbatterti per caso anche nei defunti, o quantomeno nelle loro lapidi. Ecco un aneddoto a questo proposito: non molto tempo fa ho scoperto su una croce il nome di un tossicodipendente abbastanza noto in città. Era un uomo alto e possente, quasi quanto la maggior parte degli alberi qui al cimitero. Aveva il corpo costellato di tatuaggi. Sapevo che era morto. Era da molto tempo che non lo vedevo ciondolare alle solite fermate del tram. Ma poi, all’improvviso, le nostre strade si sono incrociate al cimitero; un punto casuale del mio cammino – a metà strada tra il passare l’aspirapolvere e una crisi esistenziale – ha incrociato il punto fnale del suo cammino. Da allora passo a trovarlo regolarmente. Mi rivolgo alla lapide parlante. Davanti vi cresce un cespuglio di rose, accanto è accovacciato un angelo di pietra. «Certo, parla pure». «Quello che mi dà particolarmente fastidio di Zurigo è che non ci siano spazi a suffcienza per i giovani». «Pensavo che volessi fare un commento su come mi stia inutilmente complicando la vita». «No», dice la lapide. La sua voce è amichevole, quasi dolce. Completamente diversa da quella che ti aspetteresti da una lapide. «Voglio aiutarti a rispondere alla tua domanda: in che tipo di città viviamo». Avrei voglia di posare le mani sulla lapide, sulla sua pietra riscaldata dal sole. Ma mi trattengo. Non ci conosciamo ancora così bene. «Perché ti preoccupa la mancanza di spazi per i giovani?», chiedo invece. «Perché la loro assenza signifca che i ragazzi la sera vengono qui, portano via i ceri dalle tombe e buttano in terra gli angeli». Una volta, qualche anno fa, mentre passeggiavo per il cimitero con la mia coinquilina, un signore anziano ci rivolse la parola. Disse che fori e candele erano stati ripetutamente rubati dalla tomba di sua moglie. Incredibile, pensammo, chi metterebbe fori da cimitero nel proprio appartamento? Io e la mia coinquilina decidemmo di rendere felice il vedovo. Poco prima di Natale comprammo otto candele funerarie e le sistemammo sulla tomba assieme a una lettera. Quello è stato uno dei momenti della mia vita in cui sono stata chi volevo essere.

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Non so se siano proprio i giovani a rubare gli addobbi funerari dai cimiteri. Ma la lapide ha ragione: a Zurigo ci sono pochi spazi per i giovani. Quasi tutte le case sono state rimesse a nuovo, ogni piazza è circondata da abitazioni in cui si lavora di giorno e si dorme di notte. Dove dovrebbero andare a fare baccano gli adolescenti? Nella migliore delle ipotesi, probabilmente proprio qui, al cimitero Sihlfeld. «Grazie per questo input», dico alla lapide. «Qual è il tuo nome?». «Non ho un nome. Certo, ne porto uno scritto sopra, ma personalmente non ne ho bisogno. Nessuno ha necessità di chiamarmi, in fn dei conti sono sempre qui». Questo mi ricorda che io, invece, non dovrei essere sempre qui. Mi alzo e sbottono il cappotto: il sole ha vinto. «Devo andare». «Mezzo secolo, e non sono mai dovuto andare da nessuna parte», mormora il larice. «Sii felice. Mezzo secolo, e non hai mai dovuto scrivere un testo. Ma prima di andarmene, voglio chiederti un’altra cosa». «Prego, fai pure, sono in debito con te. Prima sono stato un po’ brusco». «No, in fondo avevi ragione. Allora, la domanda è questa: hai detto di conoscere ogni modello di bara che è sepolta qui. Sai di che legno sono fatte, le bare?» «Certo. Lo “Züri Sarg”, la “bara di Zurigo”, è realizzata in legno chiaro di pioppo ed è gratuita per ogni defunto della città. Molto apprezzate sono anche le bare in legno di abete. Gli zurighesi più abbienti riposano in bare di tiglio o di noce». «E il legno di larice?». «Viene pure utilizzato per le bare, ma solo di rado». «Piangi i larici che sono sepolti qui come noi piangiamo i nostri parenti?». «Sei la prima che me lo chiede». Il larice lascia dondolare al vento i rami morbidi, quindi aggiunge: «Non ho mai conosciuto nessuno dei larici che sono sepolti qui, tuttavia la loro vista mi deprime sempre. Come quando ti capita per caso di assistere a delle esequie». «Certo, è sempre triste». Ritorno sul sentiero di ghiaia. «Se riesco a capire in che tipo di città viviamo, tornerò e ve lo dirò». «We’ll be here», dice il larice. «Come sempre», fa la lapide. Mentre cammino verso l’uscita, sento il larice dire alla lapide: «Ma se sei qui solo da un anno». È davvero normale che le cose ti parlino quando ti sottrai a un compito? È forse addirittura tipico di Zurigo?

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Cerco di concentrarmi su questioni più importanti. Ad esempio: chi può dirmi che razza di città è Zurigo? Ho bisogno di uno sguardo dall’esterno. Forse una guida baedeker può aiutarmi. Sono sempre scritte da persone che non hanno idea delle cose descritte. Lentamente sto iniziando a capire il perché. Il percorso per arrivare alla libreria passa per la Bertastrasse. Questa strada attraversa il mio quartiere ed è fancheggiata da ciliegi. La osservo furtivamente mentre passo. Nessuno di loro mi parla. La Bertastrasse è l’arteria principale per noi gente alla moda di queste parti; lungo i suoi fanchi si susseguono fle di boutique che vendono bicchieri di vetro fragilissimo e bar dove puoi prendere il cappuccino solo con latte d’avena. Una delle mie sorelle viveva qui: la casa appartiene alla famiglia della sua migliore amica. Io e le mie sorelle siamo cresciute nello Zürichberg, dall’altra parte della città. Il quartiere si estende dalla riva del lago di Zurigo fno alla cima dello Zürichberg, la collina dove si trova il famoso hotel a cinque stelle The Dolder Grand. Una notte nella suite più esclusiva costa circa 6 mila franchi. L’afftto mensile per un appartamento familiare nella stessa zona è più o meno lo stesso. Potete quindi capire come mai i ricchi abitino, appunto, nello Zürichberg. Crescere lì ha dei vantaggi. E con questo non intendo solo il fatto che se vivi a Zürichberg fai anche tu parte dei ricchi, ma soprattutto che conosci i ricchi. Perché i ricchi hanno case. E a Zurigo gli spazi abitativi scarseggiano. Perciò io e le mie sorelle ci siamo trasferite da casa nostra direttamente a casa di amici. Qui a Zurigo funziona così. Ma torniamo alla Bertastrasse: in primavera, quando i ciliegi ostentano i propri fori rosa e bianchi, è la via più bella di tutta la città. Penso che i miei lettori italiani questo debbano saperlo. E poi mi mancano gli aranci di Roma. Sai, preferisco le arance marce sul marciapiede di via Catania ai cordoli ricoperti di fori della Bertastrasse. Per te potrebbe essere il contrario. Magari Roma è il tuo blind spot. Magari ne hai piene le scatole degli agrumi sul ciglio della strada. Se è così, vieni qui e ammira i fori nella Bertastrasse in primavera. Forse Zurigo può essere per te quello che Roma è per me: un’illusione, una bella, piacevole, vitale illusione. Raggiungo la fermata del tram Lochergut. Secondo l’orario il mio tram numero due dovrebbe arrivare tra un minuto – e a Zurigo ciò signifca che arriverà tra un minuto. Chissà, forse la cosa può affascinarti, ma ti dirò: in realtà è seccante, soprattutto se, come me, sei sempre in ritardo. Quando sono stata per un breve periodo a Roma per imparare l’italiano, ho apprezzato il fatto di non poter fare affdamento sui trasporti pubblici. Ho preferito addirittura gli autobus alla metropolitana, perché sono meno affdabili. Ogni mattina arrivavo in ritardo alla lezione, come tutti, d’altronde. Nessuno si è mai arrabbiato per questo. Il mio cuore non ha mai battuto così lentamente come quando ero a Roma.

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Passa un minuto, ed ecco il tram. Entro, mi siedo e appoggio la testa al fnestrino. «Fai pure», dice il tram. «Domani ci sono le pulizie settimanali e lavano le fnestre». Come parli con qualcuno in cui ti trovi seduto? Mi guardo intorno, cerco occhi e non ne trovo, tranne quelli degli altri passanti. «Guarda fuori dal fnestrino. I miei occhi sono davanti, concentrati sulla strada. Ma possiamo lo stesso continuare a parlare. Dove stai andando?». Fuori scorre Zurigo: gente vestita con colori tenui. «In centro». «Perché?». «Voglio comprare una guida turistica in una grande libreria». Il tram numero due porta fuori dal mio quartiere, passa la Sihl – uno dei due fumi di Zurigo – e poi si snoda verso il quartiere delle banche. Lì, in quella che possiamo defnire la via del Corso di Zurigo, ovvero la Bahnhofstrasse, c’è la libreria. «Vai in vacanza?». «Magari! In realtà devo scrivere un testo su Zurigo. Devo scoprire in che tipo di città viviamo e voglio sapere cosa dice al riguardo la guida turistica». «Non è necessario andare in libreria», fa il tram. «Posso dirti io cosa c’è scritto. Di recente ho acquistato anch’io una guida». Parla, fa acquisti e sa leggere? «Perché?», chiedo. «Sai», dice il tram, «io vado ogni giorno dalla periferia di Zurigo, passando per Wiedikon, fno al lago. Posso citarti ogni singolo kebabbaro lungo la Badenerstrasse; so che le rane fanno molto rumore sulle rive della Sihl durante la stagione degli amori; posso dirti che i bancari quasi ogni sera tornano a casa tardi, dalle loro famiglie, e so anche quanti studi medici ci sono a Seefeld. Ma non avevo idea di come fosse il resto della città». «E adesso ne sai di più?». «So che l’Hauptbahnhof Zürich, la stazione centrale di Zurigo, è l’attrazione numero uno della città». «Stai scherzando?». Nel frattempo attraversiamo la Sihl, oltrepassiamo il casinò e la grande piscina coperta. «No», risponde il tram, «è la verità. Il primo luogo d’interesse che elenca la mia guida è la stazione centrale. E annota: da vedere assolutamente». Ti dirò una cosa: l’Hauptbahnhof Zürich è una banalissima stazione ferroviaria. Almeno negli ultimi tempi. Perché quello che forse ha contraddistinto l’HB – come la chiamiamo noi – fno a poco fa è di essere stata nascosta per vent’anni circa dalle impalcature. È solo dallo scorso ottobre che è riapparsa alla vista. Sì, è ricca di decorazioni e sì, è vecchia – è stata costruita nel

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1871 – ma le case del centro storico sono molto più antiche e anche molto più ricche di ornamenti. L’HB sarebbe l’attrazione numero uno? Ascolta quel che ti dico: le persone che scrivono guide di viaggio non hanno la minima idea. Oppure sì? Una cosa è vera: Zurigo non è mai più bella di quando stai partendo o stai tornando. Il momento in cui amo di più la mia città è quando me ne sono appena andata o me ne andrò presto. Tuttavia, anche gli ingressi autostradali di Zurigo dovrebbero occupare il primo posto nella guida turistica. Perché la sensazione di avere attraversato il traffco cittadino fno a immettersi in autostrada e avere davanti a sé dieci ore di viaggio fno a Berlino, Narbona o Roma è una delle più belle che Zurigo possa offrire. Seguita a breve distanza dalla sensazione di entrare di notte in città provenendo dall’autostrada. Ci sono davvero poche cose più interessanti a Zurigo. Se siete fortunati e venite da nord-ovest, sarete accolti dall’insegna al neon più bella della città sopra l’Engrosmarkt – il mercato all’ingrosso dove i ristoranti di Zurigo acquistano le verdure – e vedrete scintillare i grattacieli di Zürich-West. «Che altro dice la guida turistica?», chiedo al tram. «Il Lindenhof dovrebbe essere davvero carino. Se ricordo bene, Zurigo ha le sue origini in questo spiazzo, fn dal Neolitico». «Non lo sapevo». «Si dice che anche Johann Wolfgang Goethe apprezzasse la vista sulla città che si ha da questo piazzale. Cosa non darei per vedere quel panorama con i miei occhi; però il Lindenhof non si trova sulla mia linea». «Conosco bene quel panorama. Vuoi che te lo descriva?». «Volentieri». Adesso stiamo attraversando il quartiere delle banche. La fermata a cui sarei voluta scendere è ormai passata. «Il Lindenhof si trova su una piccola altura della Altstadt, il centro storico. Verso est scende ripidamente. In basso scorre la Limmat. In alto, delle mura costeggiano la parete più ripida. Sulle mura ci si può fare un picnic: sono abbastanza larghe. Da lì si può contemplare tutto il quartiere di Niederdorf. Vedi il Grossmünster, con le sue due torri gemelle, vedi l’università, l’ETH (Eidgenössische Technische Hochschule), ovvero il Politecnico, e l’hotel Dolder Grand sullo Zürichberg. E se sei fortunato e soffa il föhn, puoi ammirare anche il panorama alpino all’orizzonte. Una volta questo mi disturbava. Per me era troppo Svizzera, e non abbastanza metropoli». «Sei pazza». Attraversiamo la Quaibrücke. Anche da questo ponte si possono vedere le Alpi quando il tempo è bello. «Forse sono pazza, ma non ho ancora fnito. Perché questo è solo uno degli scorci che offre il Lindenhof. Se vuoi vedere davvero Zurigo, devi spostarti dall’altra parte del piazzale. Perché a ovest ti vieni a trovare all’incirca al livello dei piani superiori delle case del centro storico. Quando fa buio, dalle

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fnestre di queste case si può gettare uno sguardo sulla vita dei loro abitanti». «Allora è giusto che il Lindenhof sia nella guida turistica». «Sì, e non ti ho ancora detto il meglio». «I 52 tigli?» «No». «Le tre grandi scacchiere sul selciato?». «No». «Cosa, allora?» «I piccioni», rispondo. «I piccioni sono quanto di meglio può offrire il Lindenhof. Di solito sono una trentina seduti sulla colombaia, una torre medievale con il tetto a punta alta circa quattro metri che domina anche il centro storico. Più o meno ogni cinque minuti l’intero stormo di uccelli si alza in volo come se rispondesse a un comando; i piccioni volano in cielo, fanno un giro sulla Limmat e poi ritornano sulla torre. Una volta ho parlato con uno di loro. “Cosa stai facendo?”, gli ho chiesto». «E lui cosa ha risposto?» «“Non sono affari tuoi”, ha detto». «Strano». «Vero». La risposta del piccione era strana perché in realtà gli zurighesi sono estremamente educati. Alla cassa ci si augura una bella serata, e quando ordini una birra in un bar dici: «Potrei avere per favore un’altra birra?». A Zurigo le persone sono educate. Non carine, ma educate. Ciò non signifca essere più buoni o generosi che altrove, anzi; forse è il contrario. Ma ci si esprime diversamente. In tedesco si direbbe: Wir sagen es durch die Blumen, ossia «lo diciamo attraverso i fori». Cioè in modo indiretto. Tanto per fare un esempio: non ti senti mai dire che il tuo lavoro è pessimo. Ma se qualcuno osserva che il tuo lavoro «non è male», vuol dire che è pessimo. «A oggi non ho capito a quale segnale rispondono i piccioni e quale possa essere il motivo di questa gita di gruppo». «Forse proprio per questo è bella», fa il tram. «Se lo capissi, probabilmente non ne saresti più affascinata». «Vero». Nel frattempo il tram si è svuotato. Siamo quasi arrivati al capolinea. Alla nostra destra c’è il lago di Zurigo, a sinistra si erge lo Zürichberg. Il tram tentenna un po’ e poi dice: «Sai cosa mi viene in mente adesso?». «No. È già abbastanza folle il fatto che possa sentirti parlare». Il tram ignora la mia battuta. E continua con tono compassato: «Forse per Zurigo in quanto città vale la stessa cosa dei piccioni: forse non dovresti affatto scoprire in che città viviamo. Perché se lo scoprissi, magari la città non sarebbe più interessante». Rifetto un momento.

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«Non avrei mai pensato che potessi fare rifessioni del genere». «Perché no?». «Mi sembri troppo moderno per questo, troppo tecnico. Ma potresti avere ragione». «Senti, tutto il giorno non faccio che girare in tondo. Oltre ad andare, pensare è l’unica cosa che sono in grado di fare». «Allora dimmi ancora una cosa, se sei così intelligente: cosa scrivo nel testo? Salve, care italiane e cari italiani, in realtà non vi occorre sapere che tipo di città è Zurigo, perché altrimenti non sarebbe più interessante». «Certo che no», risponde il tram, e si ferma al capolinea. «Racconta qual è la tua Zurigo. Di’ loro dei piccioni, e delle fnestre illuminate del Lindenhof. Probabilmente hai ancora una o due storie del genere da raccontare». Una o due… altroché! Potrei parlare per ore. Dov’è il problema? È stato il larice a spingermi a questi metapensieri flosofci. Scriverò semplicemente qualcosa: la mia Zurigo. «Hai ragione, grazie, grazie, davvero grazie. Senza di te avrei trascorso le prossime due settimane a leggere guide di viaggio. Puoi riportarmi a Lochergut? Prima di iniziare a scrivere devo passare un attimo al cimitero Sihlfeld». «Certo», dice il tram. «Tra 25 minuti saremo a destinazione». Appoggio di nuovo la testa al fnestrino: 25 minuti per pensare un po’ a quello che dirò ai lettori italiani. La mia Zurigo è la Prime Tower. È alta 126 metri ed è situata nel quartiere industriale di Zürich-West. È stato il mio primo grande amore. Quando la vedo – e lo faccio spesso, dato che svetta su ogni edifcio della città – mi viene sempre in mente una canzone dei Beatles: «How could I dance with another, when I saw her standing there?». I Beatles cantano la canzone per una donna, ma io la canto per la Prime Tower. Non ballerei con nessun altro edifcio in questa città; non con il complesso residenziale di Lochergut, l’emblema a gradoni di Wiedikon; non con una delle quattro torri rosso-marroni di Hardau; non con il Getreidesilo, l’enorme granaio sulla Limmat. No; ballerei solo con la Prime Tower. La città intera si rifette nella sua facciata, la sua verità è nascosta negli angoli e negli spigoli. Alla luce serale si illumina di un verde smeraldo, quando ci sono nuvole in cielo è grigia, e quando il cielo è sgombro è blu. A volte penso che potrebbe trattarsi di un frammento di un ufo che si è confccato nel terreno a Zurigo: liscio, lucido, rastremato verso il basso. E quando di notte le sue fnestre ogni tanto si illuminano, mi ricordano dei geroglifci su una parete di pietra, una lettera d’amore d’altri tempi. Dirò ai lettori italiani: camminate di notte sulla Hardbrücke, il ponte tra il distretto 4 al distretto 5, attraversate la distesa di rotaie e contemplate il mio primo grande amore. E scriverò: se mi fosse data una seconda vita, vorrei trascorrerla come un pesce nella Limmat. Anche se ho paura di trovarmi di fronte a cadaveri di annegati, accetterei questa paura solo per nuotare nella Limmat per il resto

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della mia vita. D’estate ci faccio il bagno quasi tutti i giorni. Si dice sempre che Zurigo sia cara, ma qui le cose più belle non costano nulla. Una giornata allo stabilimento fuviale Oberer Letten, ad esempio: ti sdrai sull’asfalto riscaldato in mezzo agli hipster della città, guardi i loro tatuaggi come libri illustrati e quando hai troppo caldo ti tuff nel fume. Punto positivo: lo stabilimento confna con il quartiere della Langstrasse, il mio preferito – a Roma sarebbe San Lorenzo o Pigneto. La Limmat non è ottima solo per le belle giornate, ma anche per quelle brutte. Non sono credente, ma se lo fossi crederei nella Limmat. Ha poteri taumaturgici. Il papa non è nulla al confronto. Immergiti una volta e ti sentirai subito meglio. Le sue acque sono così limpide che ogni tua preoccupazione ti sembrerà, a paragone, solo un trip assurdo. Ecco quanto dirò ai lettori italiani. E dirò anche che qui il caffè è caro, ma davvero buono se sai dove andare. E io lo so. Ma non lo dirò ai lettori italiani: potrei solo perdere. Però così sapranno che a Zurigo c’è un buon caffè e se verranno qui, ogni volta che prenderanno un caffè penseranno: era quello che intendeva lei? E scriverò altre due o tre cose. Ad esempio, che le mie amiche hanno un cappotto nuovo ad ogni inverno. O che i rifuti non restano mai per strada più di un giorno prima di essere portati via. Oppure che per attraversare Zurigo a piedi bastano due ore. Scriverò tutto questo; ma prima devo tornare al cimitero Sihlfeld. «Siamo arrivati», dice il tram. «Grazie, sono in debito con te. Fai pure i tuoi giri, elabora i tuoi pensieri e raccontameli la prossima volta, per favore». «Vedremo». Scendo e mi incammino lungo la Bertastrasse, davanti ai fragilissimi bicchieri e sotto ai ciliegi muti. Entro nel cimitero. La ghiaia scricchiola. I corvi gracchiano. I morti tacciono. Il larice mi scorge da lontano. Guarda ora me ora la lapide, incredulo, con gli occhi spalancati. «Sei tornata?». «Solo per un momento». «Lo pensi sempre». «No, davvero. Volevo solo informarvi che sono arrivata a una conclusione». «Ah sì?». «Sì. Con la tua domanda mi hai fatto rimuginare inutilmente, ma in realtà la cosa è piuttosto semplice: non abbiamo bisogno di sapere in che tipo di città viviamo. Nessuno conosce Zurigo, tanto meno noi. Ognuno conosce solo la sua piccola parte, come te, come la lapide, come il tram e come me. Nessuno sa cosa sia davvero Zurigo. Se vuoi sapere tutto, puoi leggere una guida di viaggio – e alla fne, comunque, non saprai nulla. Questa è la nostra fortuna. Se solo venissimo a saperlo non ci importerebbe più». «Bene», dice la lapide.

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«Può essere», aggiunge il larice. «Ma adesso devi andare, il testo non si scriverà da solo». «Lo so, sto già andando via, volevo solo farvelo sapere, nel caso in cui smetteste di parlarmi appena avrò fnito il pezzo. Volevo che voi lo sapeste». Il larice sorride. La lapide tace. «Ciao», dico. Li guardo ancora da vicino e poi mi incammino. Nessuno mi crederà mai, penso. Quando sono quasi all’uscita del cimitero, sento il larice chiamare: «Cosa scriverai nel tuo testo adesso?». «La verità», rispondo. «Che Zurigo è una città normalissima, assolutamente normale». (traduzione di Monica Lumachi)

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DOV’È LA SVIZZERA?

di Fabio

PUSTERLA

L

A DOMANDA CHE INTRODUCE QUESTA POESIA

nasce dalla poesia stessa: dov’è la Svizzera nelle cose che scrivo? In passato mi deve essere capitato di provare a comporre un testo poetico, o più spesso un discorso in prosa, sull’argomento «Svizzera», magari sollecitato da un’intervista. Ma adesso, di fronte alla richiesta di un inedito in tema, mi accorgo di non avere nulla di specifco, né di poterlo scrivere ad hoc. Tuttavia la voce che parla in questa poesia è quella di una donna molto anziana, che vive in Svizzera e che ne è cittadina. Parla dai suoi 95 anni, dalla sua condizione di oggettiva diffcoltà, nella coscienza di un approssimarsi della morte. La donna è mia madre e se anche questo dato può non interessare molto il lettore, consente a me di conoscere parecchie cose della sua vita. Mia madre è svizzera, ma ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Italia per complesse vicende familiari, fnendo poi per incontrare e sposare mio padre, morto ormai da molti anni, che aveva invece una storia uguale e contraria alla sua, visto che era italiano ma viveva in Svizzera. Per entrambi il momento determinante è stata la seconda guerra mondiale. Per lei, che negli ultimi anni di guerra era riparata a Lugano insieme alla madre. Per lui, che a vent’anni si era arruolato come la maggior parte dei suoi coetanei italiani nella Svizzera italiana, fnendo poi in Russia, tornando malconcio a casa, distrutto dalla guerra, e scappando poi in Svizzera attraverso le montagne. Allora la domanda iniziale si allarga: dov’è, cos’è la Svizzera in questo groviglio di vite che stanno costantemente a cavallo delle frontiere politiche e degli avvenimenti storici? Nella poesia non si nomina la Svizzera, si nomina invece l’Europa «dei diritti e dei rovesci», un’Europa in sfacelo che è l’Europa a noi contemporanea. Ma proprio rispetto all’Europa (quella reale e quella della poesia) la domanda assume un altro signifcato: dov’è la Svizzera rispetto all’Europa? Siamo di fronte a un paradosso non facile da sciogliere: la Svizzera, spesso indicata (per esempio da Carlo Cattaneo nel secondo Ottocento) come possibile modello per un’Europa ancora da costruire eppure già vagheggiata (federalismo, pacifca convivenza tra lingue e culture mol-

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to diverse, democrazia), oggi ha nei confronti dell’Europa, o meglio dell’Unione Europea, un atteggiamento spesso diffdente. Una parte consistente delle forze politiche svizzere fa anzi leva sui sentimenti anti-europei per rafforzare le proprie fortune elettorali. Ho scritto sentimenti, ma avrei potuto scrivere paure, perché l’adesione all’Ue spaventa non poco molti svizzeri, timorosi – non del tutto a torto – che porterebbe con sé la rinuncia a parecchie cose, buone e meno buone, tra cui il principio di autodeterminazione (o quel che ne resta) e il benessere economico (eroso, ma ancora consistente). Nella poesia si nominano anche molti fumi europei e le parole in corsivo che accendono le immagini fuviali sono tratte dal poderoso romanzo di Vasilij Grossman, Stalingrado. Pensando ai fumi, ecco un’altra cosa notevole: tutte le acque svizzere fniscono in Europa. Così fa il Ticino, che si getta nel Po; così il Rodano e il Reno; così un piccolo fume che scorre verso est, l’Inn, poi affuente del Danubio. Dov’è allora la Svizzera: nel paese incantato delle sorgenti o nel più vasto territorio dei fumi? Ma la domanda, su un piano apparentemente più banale, potrebbe anche alludere alla non piccola ignoranza europea, nel nostro caso italiana, verso la Svizzera. Forse nessun italiano se la porrebbe esattamente in questi termini geografci, ma non è infrequente per uno svizzero che viaggi in Italia sentirsi domandare «se parla lo svizzero». Gli articoli che ogni tanto appaiono sui maggiori quotidiani italiani dedicati a questo o a quel caso elvetico trasudano sovente scarsa conoscenza e malcelati pregiudizi nei confronti di questo piccolo paese. Facile ironizzare sui suoi difetti reali o presunti. Meno facile sarebbe considerarne alcuni pregi oggettivi, come la sopravvivenza di un senso dello Stato e del bene comune che altrove paiono scomparsi da decenni. Dunque, dov’è realmente la Svizzera nella coscienza dei suoi vicini europei? Gli ultimi versi della poesia si capiscono bene in bocca a una fgura umana sofferente e molto in là con gli anni. Ma potrebbero valere anche in termini più ampi e collettivi: fno a che punto la Svizzera, e gli altri Stati nazionali, sono ancora in grado di decidere le loro sorti? Le «marionette sopra i troni» hanno ancora un potere effettivo o recitano solo la loro parte nella tragicommedia del potere, mentre la stanza dei bottoni è diventata imperscrutabile, sovranazionale, priva di reale controllo?

FIUMI, NEFRITE, VORTICE Molte cose iniziarono in me molte fniscono, fumi tanti che scendono sotto le rocce si essiccano

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diventando mistero o nulla si nascondono nel cuore nero di strati profondi verso il magma nel grande oblio nelle tenebre.

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Europa di corsi d’acqua e fumi macabri io adesso vedo soltanto una vipera verde una colonna armata che si avvicina nefrite nefrite il mio rene è l’Ucraina il mio corpo è l’Europa avvelenata un crollo inarrestabile nefrite Eurasia mente ora inagibile quale sarà l’ultimo quale sarà l’ultimo fume nefrite grigioverde di fango e bitume nefrite piscio e merda nefrite che nuove leggi infauste promulghi. Elba Donau Neva Vistola Volga Jenitzei d’ampio respiro grande storia e il vasto Reno e il Rodano dorato tutti verdi grigioverdi devastati tutti ultimi fumi cosparsi di cenere e muffa e fanghiglie nell’Europa dei diritti e dei rovesci le frattaglie del mio corpo dolente che declina e rinsecca nella mia mente infetta sfatta sftta che centrifuga spazi tempi memorie in vortici disattenzioni incurie atomi impazziti scorie punti di fusione mediocri marionette sopra i troni io non più io io già senza di me d’altri padroni…

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UNA NAZIONE DI FRATELLI E SORELLE

di Monika SCHMUTZ

KIRGÖZ La Svizzera, che si (auto)rappresenta avanzata e democratica, è giunta tardi al suffragio femminile e serba forti resistenze alla parità di genere. Dalle tre K dell’ordine divino a oggi si è fatta molta strada, ma altra ne resta da fare. Il maschilismo è un venticello.

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1. EL 1968 L’UOMO NON ERA ANCORA STATO sulla Luna e la Svizzera restava governata da quello che mezzo secolo dopo sarebbe stato il soggetto del brillante flm di Petra Volpe: l’ordine divino. Le donne non avevano diritti politici, non potevano lavorare senza il consenso del marito e dovevano attenersi alle famose tre K: Kinder, Küche, Kirche (bambini, cucina, chiesa). Sono nata nel bel mezzo di questo idillio, negli anni economicamente forti del dopoguerra. Una ragazza, che peccato. Ma per il resto, nascere in quegli anni era un colpo di fortuna. Come avrebbe detto più tardi lo scrittore ebreo svizzero Charles Lewinsky: chiunque sia nato in Svizzera dopo la seconda guerra mondiale ha vinto al lotto. Ma torniamo all’ordine divino e al flm, che oltre a spiegare molte cose parla al cuore di intere generazioni di donne svizzere, compresa la mia. La mia generazione ha avuto pochi modelli femminili, quasi nessuna eroina. A volte le lezioni di storia erano noiose perché tutte le guerre, gli eroi e gli statisti avevano poco a che fare con noi. È un vero peccato perché dietro alla storia tradizionale degli eventi si celano domande interessanti sul passato. Senza dubbio conosciamo gli eventi «storici». Ma hanno avuto lo stesso signifcato per tutti noi? Per esempio: siamo sicuri che nel 1848 in Svizzera sia stato fondato uno Stato o addirittura una democrazia per noi donne? E dove possiamo trovare nei nostri libri di storia le faccende quotidiane delle nonne e delle bisnonne, che raramente possedevano proprietà, dovevano consegnare i loro guadagni ai mariti, non potevano recarsi alle urne e di rado avevano accesso all’istruzione superiore? Tutte queste donne – come sappiamo meglio oggi rispetto a quando andavo a scuola – erano attive, creative e strategiche prima di scivolare inosservate nell’ombra della storia. Nel suo flm Volpe realizza un monumento a tutte loro, ripercorrendo con tono tragicomico il diffcile cammino verso i diritti politici delle donne svizzere.

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Ci ha restituito attraverso le immagini un frammento del passato della Svizzera. La storia del movimento per il suffragio femminile è la nostra storia e continua a plasmarci ancora oggi. È la storia di tutti noi, donne e uomini. Il fatto che il flm sia diventato una comédie humaine che accanto al dramma conserva il lato comico è un segno della forza e della maturità del nostro movimento femminista. Ma come dice il proverbio: comedy is tragedy plus time. Ora ridiamo degli aspetti assurdi della lotta di genere, ma questo non deve farci dimenticare che la strada è stata dura, lunga e dolorosa. Se oggi le donne possono partecipare alla vita pubblica del nostro paese è merito del coraggio, dell’altruismo e della perseveranza di centinaia di migliaia di esse che hanno lottato contro l’ordine «divino» e hanno dovuto fare grandi – spesso troppo grandi – sacrifci.

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2. Il 7 febbraio 1971, il 65,7% degli uomini svizzeri votava a favore della concessione dei pieni diritti civili alle donne. A livello cantonale, i pionieri furono il Canton Basilea Città (1957) e i Cantoni della Svizzera francese. Nel 1959 Vaud e Neuchâtel e nel 1960 il Cantone di Ginevra hanno concesso alle donne i diritti politici. Nel 1990, il Canton Appenzello Interno è stato l’ultimo, su ordine del Tribunale federale, a concedere il diritto di voto alla metà femminile della popolazione. Le donne svizzere però non sono mai state inattive. Il primo movimento femminista sorse già nel XIX secolo. In vista della revisione della costituzione federale del 1874, fu richiesta l’uguaglianza civile e politica. Una causa persa. All’inizio del XX secolo si formarono altre organizzazioni femministe. Alcune a favore, altre contro l’introduzione del suffragio universale. La prima guerra mondiale frenò numerose richieste, ma catapultò il lavoro non retribuito di molte donne nella coscienza collettiva. All’epoca non esisteva un sistema di previdenza sociale e le organizzazioni femminili erano responsabili di tutta l’assistenza. Nello sciopero nazionale del 1918, il suffragio femminile era la seconda delle nove richieste presentate dai manifestanti. Rimase senza risposta. La Grande depressione e la seconda guerra mondiale fecero passare in secondo piano le richieste di eguaglianza. Nel 1948 fu celebrato il centenario della costituzione federale con il motto «una nazione di fratelli» (ein Volk von Brüdern). Le organizzazioni femminili risposero con lo slogan «una nazione di fratelli senza sorelle» e presentarono all’esecutivo una mappa dell’Europa con una piccola macchia nera al centro: la Svizzera, unico paese democratico del continente (insieme al Liechtenstein) a non aver ancora introdotto il suffragio femminile. Vélez, in Colombia, è stata la prima provincia al mondo a introdurre il suffragio femminile nel 1853. Le donne della Nuova Zelanda ottennero il diritto di voto nel 1893, seguite dalla Finlandia nel 1906, dalla Norvegia nel 1913, dalla Danimarca e dall’Islanda nel 1915, dalla Russia nel 1917 e dalla Germania nel 1918. Negli Stati Uniti il suffragio femminile fu introdotto nel 1920, nella Repubblica di Turchia (per onorare il mio secondo cognome) nel 1930, in Francia nel 1944 e in Italia nel 1946. In Svizzera, il «vuoto» sulla mappa europea (i paralleli con le circostanze attuali sono puramente casuali), il dopoguerra fu improntato al conservatorismo nono-

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stante la ripresa economica. L’introduzione del suffragio femminile fu sottoposta a votazione a livello federale per la prima volta nel 1959. Con un’affuenza del 66,7%, gli uomini svizzeri respinsero la proposta con il 67% dei voti. Appena un uomo su tre si espresse a favore. La proposta fu accolta solo nei tre Cantoni francofoni di Vaud, Ginevra e Neuchâtel. L’ordine sarà rovesciato solo il 7 febbraio 1971. In termini di uguaglianza, la Svizzera ha raggiunto negli ultimi 52 anni più risultati di molti paesi che hanno introdotto prima il suffragio femminile. Forse è una specialità svizzera: prendiamo tempo, ma quando introduciamo un cambiamento democraticamente legittimato andiamo a rotta di collo. Con l’Onu è accaduto lo stesso. Il mio paese vi è entrato solo nel 2002, 190º Stato membro. Attualmente è rappresentato nel Consiglio di Sicurezza come membro non permanente – per di più, la nostra ambasciatrice a New York è una donna – e sta svolgendo un ruolo attivo in questi tempi diffcili. Nel 1984 per la prima volta una donna fu eletta al Consiglio federale, organo esecutivo con sette componenti. Solo 26 anni dopo il Consiglio ha avuto per la prima volta una maggioranza femminile, con 4 donne. La situazione è simile in parlamento: nella prima legislatura dopo l’introduzione del suffragio femminile solo il 4% dei parlamentari era composto da donne, mentre dal 2019 siamo intorno al 40%. Nel 2002 la Svizzera ha nominato il suo primo ministro degli Esteri donna, Micheline Calmy-Rey, che si è impegnata a fondo per garantire a un maggior numero di donne di accedere alla carriera diplomatica. Ciò non era possibile fno al 1956 e solo nel 1972 è stato concesso alle donne del corpo diplomatico svizzero di sposarsi. Sotto il ministro degli Esteri Ignazio Cassis è stato persino elaborato un piano che incoraggia la rappresentanza femminile nei più alti ranghi del dipartimento federale degli Esteri. Oggi il 26% dei capi missione e quattro dei cinque segretari di Stato svizzeri sono donne. Una grande sala conferenze al dipartimento degli Esteri è dedicata alla prima ambasciatrice donna, Francesca Pometta, nominata nel 1977. La sala mostra quali delle oltre cento ambasciate svizzere nel mondo sono già state guidate da una donna. 3. La Svizzera non ha una politica estera femminista come il Canada o la Germania sotto il ministro degli Esteri Annalena Baerbock, ma ha stabilito chiare priorità. Tre ambiti mostrano cosa si sta facendo per raggiungere una maggiore uguaglianza, traguardo enunciato anche in costituzione. Primo: nel 2015 le Nazioni Unite hanno presentato i cosiddetti Sustainable Development Goals, agenda per il 2030 il cui motto «Non lasciare nessuno indietro» intende rispondere ai movimenti populisti. Con altri paesi la Svizzera si è battuta per l’inserimento di una prospettiva di genere nel documento, mentre il segretario generale dell’Onu António Guterres vuole portare al 50% la quota di donne che ricopre posizioni di vertice nell’organizzazione. Ogni paese deve fare il proprio dovere. In Svizzera il 21 ottobre è la giornata della parità salariale, la data a partire dalla quale in media le donne lavorano gratuitamente fno alla fne dell’anno. Una plastica rappresentazione del divario salariale ancora esistente nel nostro paese.

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Secondo: già nel 2000 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha adottato la risoluzione 1325, secondo cui i diritti delle donne sono prerequisito e garanzia fondamentale di pace e sicurezza. La Svizzera ha elaborato tempestivamente un piano d’azione nazionale per garantire un maggior coinvolgimento delle donne nei processi di pace. Come dimostrato da recenti studi, questo aumenta le possibilità di una pace duratura. Terzo: la Svizzera è impegnata in molti programmi per migliorare le prospettive economiche delle donne nei paesi in via di sviluppo. Un buon esempio sono i microcrediti e l’accesso ai servizi fnanziari, come conti bancari o polizze assicurative, che consentono alle donne di ottenere un reddito. È ormai appurato che questi investimenti generano vantaggi per l’economia nel suo insieme. Ciò dà la possibilità a molte famiglie di rimanere nel proprio paese, evitando l’emigrazione. Dal 1981 la Svizzera ha incluso l’eguaglianza di genere nella costituzione federale. Da allora il diritto matrimoniale (1988), la legge sui reati sessuali (1992), la legge sul divorzio (2000) e il diritto al cognome (2013) sono stati rivisti e modernizzati. Fin qui tutto bene. Ma come si è adattato il paese, socialmente conservatore, al nuovo quadro giuridico? Secondo una critica ricorrente, abbiamo ottenuto molto ma abbiamo cambiato poco. Vorrei confutare l’assunto. Come dicevo, sono nata nel 1968 in un idillio assoluto: Suburbia con un tocco di Desperate Housewives. Mia madre, con un retroterra migratorio, era l’unica tra le mamme dei miei compagni a lavorare part-time. La scuola era divertente, andavo bene ed ero stimolata. Le lezioni di educazione fsica erano separate per sesso e mentre i ragazzi andavano a lezione di artigianato, le ragazze imparavano a lavorare a maglia e all’uncinetto. Quel che trovavo più diffcile da accettare alle elementari era il corso di economia domestica, obbligatorio per le bambine. Una preparazione «scientifca» alle famose tre K. La Bibbia che ci consegnarono all’epoca – Cuocere, arrostire, infornare – giace inutilizzata nella mia cucina ed è sopravvissuta a sette traslochi in tutto il mondo. Un pezzo di storia delle donne svizzere. Forse è stato anche perché potevo guardare i ragazzi giocare a calcio dalla fnestra della cucina scolastica. Ho sempre praticato sport e potuto fare quello che volevo, che mi sentivo di fare. Ma c’è stata resistenza. Mi sono sentita dire centinaia di volte: «Questo non è per le ragazze», poi «non è per le donne». La Svizzera moderna resta tuttavia uno dei pochi paesi in cui una carriera da lavapiatti a milionario è ancora possibile. A prescindere dal genere, dall’orientamento sessuale e dal colore della pelle. È consigliato armarsi di umorismo per superare le resistenze e gli ostacoli, prevalentemente verbali. Ma state tranquilli: possono essere superati! Non è per minimizzare: ci sono pregiudizi diffcili da sradicare e le donne devono costantemente giustifcarsi. Sono stata più volte criticata implicitamente per aver fatto carriera malgrado avessi dei fgli. C’è chi ha insinuato che fossi dov’ero solo grazie alle quote rosa, che peraltro la Svizzera non ha. Altre volte ero semplicemente etichettata come bionda o fortunata. Sminuire il successo femminile o giustifcarlo con fortunate coincidenze è ancora molto diffuso.

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4. Oggi, però, in Svizzera e nel mio ambito non esiste quasi discriminazione tangibile e diretta. L’Università di Losanna ha recentemente condotto un ampio studio in merito presso le donne del settore pubblico. Mi sono addentrata nel questionario, convinta che sarei riuscita a raccontare da qualche parte quanto tutto sia stato diffcile e accompagnato da costante discriminazione. Non è stato possibile. Ma dopo il corso di uncinetto e la cucina della scuola, nulla è stato impossibile. Ho potuto studiare in una delle migliori università e in una Svizzera in continua evoluzione. Sono stata selezionata per un corso post-laurea al Politecnico Federale di Zurigo come la più giovane laureata, con una percentuale di donne ancora piuttosto bassa all’epoca. Sono stati soprattutto gli uomini a sostenermi e a credere in me. La mia generazione aveva pochi modelli femminili e ha dovuto per prima cosa assimilare le capacità di networking che gli uomini svizzeri conoscevano così bene, in parte grazie al servizio militare. Sono grata a ciascuno di loro e considero molti dei pionieri. Nei primi anni della mia carriera ero spesso l’unica donna. I gruppi misti, che apprezzo molto e che sono convinta producano una resa migliore (come peraltro dimostrato da diversi studi), si sono affermati in tutta la Svizzera solo negli ultimi anni. Negli ultimi tempi nel nostro paese sono cambiate molte altre cose, con estrema velocità. Le più giovani femministe – parola che nel mio paese fa ancora rabbrividire molti uomini, mentre il premier canadese proclama da anni che è inimmaginabile non essere femministe nel XXI secolo – hanno umoristicamente identifcato il nemico nel «vecchio uomo bianco», com’è stato anche defnito da Sophie Passmann nel suo bestseller in riferimento ai movimenti internazionali. Questo approccio scherzoso rivela la maturità del dibattito, ma non deve ingannare. Per molti uomini i cambiamenti sono giunti troppo in fretta e non è sempre facile rinunciare o condividere il potere. In Svizzera gli uomini non sono più da soli. Le donne sono qui, ne stanno arrivando altre, si fanno richieste, si pretende la parità anche a livello numerico. Le resistenze si manifestano verbalmente attraverso slogan quasi insopportabili. La sintesi è: in Svizzera gli uomini eterosessuali non hanno più futuro. Oltre a confondere le rivendicazioni delle coppie omosessuali con le istanze per i diritti delle donne, questo vittimismo non ci aiuterà a fare passi avanti nella battaglia per una società inclusiva ed eterogenea capace di rifettere la realtà della Svizzera. Come ha detto recentemente una femminista italiana: solo quando avremo donne mediocri ovunque avremo raggiunto la vera uguaglianza. (traduzione di Stefano Corrent)

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MAISSEN Il ‘miracolo’ svizzero è figlio del contesto storico-geopolitico tanto quanto della tenacia e delle virtù elvetiche. La genesi europea della Confederazione. Il trauma della Grande guerra e il pericoloso mito neutralista. Il gran rifiuto verso la Ue è pura ipocrisia. di Thomas

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1. IMPONENTE MUSEO DI ARTE ISLAMICA del Cairo, recentemente restaurato, raccoglie opere che arrivano al 632 d.C., anno della morte di Maometto. Grandi cartografe illustrano l’espansione degli imperi musulmani e della loro cultura nella regione mediterranea durante il medioevo. Sollevando un po’ lo sguardo si scopre un pezzo mancante del puzzle al centro dell’Europa, che si distingue dal continente con un colore simile a quello del mare. Non è un’isola, ma un enorme lago interno che tratteggia la sagoma dell’attuale Svizzera. Il grafco ha evidentemente scelto una mappa moderna dell’Unione Europea come modello per i suoi pannelli, rendendo la Confederazione Elvetica un corpo estraneo all’Europa già nell’alto medioevo. Le radici della Confederazione risalgono però al Sacro Romano Impero del XIV secolo, quando in alcuni luoghi vennero strette alleanze per mantenere il Landfrieden. Tra queste spiccavano i trattati tra i territori di Uri, Svitto e Untervaldo da un lato e le città imperiali di Zurigo (1351) e Berna (1353) dall’altro. Tali alleanze erano ancora formulazioni lasche, fortemente caratterizzate dai confitti in corso e per nulla esclusive. Eppure, interessi economici e politici condivisi come la sicurezza delle rotte commerciali fecero sì che i confederati collaborassero regolarmente e per la prima volta, con la conquista dell’Argovia nel 1415, acquisissero territori comuni. Ma proprio a causa dei diversi interessi la Confederazione rimase suscettibile alle crisi, come dimostrato dalla guerra di Zurigo del 1440-50. Dopo che Svitto e Berna impedirono a Zurigo di perseguire l’opzione di una stretta alleanza con gli Asburgo, la Confederazione si dotò di una sovrastruttura istituzionale e ideologica. Seguendo la Dieta federale (Tagsatzung), i 13 Cantoni sovrani e i Cantoni alleati si riunivano regolarmente per discutere di problemi comuni e, soprattutto, dell’amministrazione delle signorie. Intorno al 1474, con il Libro Bianco di Sarnen fu concepita la leggenda fondativa della Confederazione:

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Guglielmo Tell e il giuramento del Grütli. Gli studiosi umanisti rivendicarono il nome di Helvetia per la regione che si estendeva dal Lago di Costanza al Lago di Ginevra grazie alla conquista bernese del Vaud nel 1536. I confederati rivendicavano così la tradizione storica e la continuità di un popolo, gli helvetii, risalente all’antichità e documentato dall’ammirato Cesare, mentre una lasca confederazione di città e paesi diventava un territorio coerente con confni comuni.

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2. La nuova concezione territoriale dell’Elvezia è riscontrabile grafcamente intorno al 1548 nelle mappe dello zurighese Johannes Stumpf. Sulla sua carta d’Europa, Helvetia appare come parola latina scritta in antiqua (esattamente come Provincia, la Provenza), accanto a nomi tedeschi – come Schwaben – in caratteri gotici. Nella sua viIl monumento a Guglielmo Tell sione cinquecentesca, gli elvezi costituiscono ad Altorf, in Svizzera, realizzato una nuova «tribù» tedesca insieme a bavaresi, dallo scultore Richard Kissling borgognoni e turingi. Al contrario, le nazioni tra il 1882 e il 1895. Italia, Germania e Gallia, indicate in latino, rappresentano una dimensione più ampia, segnalata anche dal carattere grande. Agli occhi di Stumpf, gli elvezi o confederati appartenevano quindi alla «nazione tedesca», cioè alla Germania, condividendone «i costumi, i modi e la lingua». Fino a ben oltre il XVIII secolo il Sacro romano impero della nazione germanica rimase il quadro europeo (anzi universale) in cui molti confederati si collocavano politicamente. Non rappresentava però una struttura statale, un’organizzazione governativa. Veniva concepito in termini di storia della salvezza quale ultimo impero fondato da Augusto prima del Giudizio universale. Alla sua testa si trovava l’imperatore come sovrano universale, fonte di ogni giurisdizione e quindi di ogni governo e libertà. Compresa quella dei confederati (fgura 1). È particolarmente importante sottolineare questo aspetto. La guerra sveva del 1499 è infatti ancora oggi considerata nei libri di testo scolastici come la data in cui la Svizzera ha abbandonato il Sacro romano impero della nazione germanica. Ma questa lettura anacronistica interpreta come differenza nazionale ciò che era semplice differenza di classe. Era infatti la nobiltà della Germania meridionale a dominare la Lega sveva che nel 1499 si opponeva alla Confederazione. Quest’ultima, considerata unione di comunità urbane e rurali, rivendicava gli stessi diritti di governo che tradizionalmente si riteneva fossero riservati alla sola nobiltà.

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Secondo questo punto di vista, i confederati erano un gruppo presuntuoso, ottuso e anarchico di mascalzoni che non rispettava l’ordine principesco e viveva con meno devozione dei turchi. I confederati si vantavano delle loro sensazionali vittorie in battaglia contro l’esercito borgognone dei cavalieri di Carlo il Temerario, che interpretavano come verdetto divino. Pertanto, coltivavano la loro immagine di «pii e nobili contadini» (die frumen edlen puren), esemplifcazione del buon ordine in accordo con l’idea imperiale. Si dipingevano inoltre come leali sostenitori dell’imperatore, al quale dovevano i loro privilegi e da cui ottenevano i diritti a governare. Grazie ai loro fanti dotati di lunghe lance, i confederati ottennero successi militari e guadagnarono 1. Johannes Stumpf, Landtafeln, 1548. una posizione temporanea come attori politici indipendenti in Europa. Durante le guerre d’Italia, che a partire dal 1494 attirarono le potenze europee nella penisola, molti (tra cui Machiavelli) si stupirono degli «svizzeri armatissimi e liberissimi». Ma tale splendore durò solo fno a quando le armi da fuoco e soprattutto l’artiglieria rivoluzionarono la guerra. I grandi re potevano permettersi cannoni costosi, i Cantoni svizzeri no. La sconftta di Marignano del 1515 trasformò la fazione in guerra in un corpo di mercenari, poiché la Francia vittoriosa offrì ai vinti temprati dalla battaglia un trattato di alleanza in cambio di vantaggi commerciali. Questa «pace perpetua» e la dipendenza da Parigi costituirono il fondamento della posizione svizzera in Europa fno al 1798. Il re francese assunse spesso il ruolo di mediatore nei confitti, pregiudicando le capacità militari della Confederazione, limitandone la politica estera e la possibilità di conquistare nuovi territori. Lo scisma religioso, a partire dalla Riforma di Ulrich Zwingli a Zurigo, paralizzò ulteriormente la Dieta federale. Il XVI secolo vide un numero crescente di alleanze tra singoli Cantoni e potenze straniere di fede affne. E ben tre guerre civili, a Kappel e Villmergen (l’ultima nel 1712). Ciononostante, i Cantoni fecero fronte ai confitti internazionali nel proprio e comune interesse, soprattutto durante la sanguinosa guerra dei Trent’anni. Questa si concluse con la pace di Vestfalia del 1648, ai cui negoziati di pace parteciparono anche i confederati, sebbene non fossero parte in causa e mostrassero scarso inte-

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resse. I diplomatici francesi diedero al sindaco di Basilea, Johann Rudolf Wettstein, opportuni insegnamenti su come avrebbe dovuto comportarsi per ottenere il maggior numero possibile di diritti d’indipendenza per la sua città e per la Confederazione tutta. Il principio era non appellarsi ai vecchi privilegi, cioè ai titoli legali che l’imperatore aveva concesso ai confederati. Per imporsi come Stato indipendente la Confederazione avrebbe dovuto invocare la sovranità – ottenuta con la propria spada e con la volontà di Dio – che aveva mantenuto a lungo senza restrizioni. Dal punto di vista concettuale, si trattava di un passaggio dal diritto imperiale universalista al moderno diritto statale e internazionale particolarista nella tradizione di Jean Bodin, che per primo aveva defnito teoricamente il concetto di sovranità nei suoi Six livres de la république del 1576. Tuttavia, l’imperatore capì perfettamente il piano francese e a Münster non riconobbe la sovranità della Confederazione, concedendole però l’esenzione completa dal Tribunale della camera imperiale. Ciò signifcava che le sentenze dei singoli Cantoni sarebbero state defnitive. In senso stretto si trattava ancora di un privilegio tradizionale, una concessione dell’imperatore ai suoi sudditi diretti. La formulazione comune secondo cui l’esenzione di Münster coincise con l’indipendenza de iure della Svizzera è una semplifcazione da manuale scolastico. Ai confederati sarebbe servito ancora circa un secolo per abbandonare i numerosi riferimenti tradizionali all’impero: a metà del XVIII secolo, l’aquila imperiale era ancora utilizzata nei piccoli Cantoni rurali per decorare municipi (come quelli di Stans e Sarnen) e alcune monete.

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3. In Francia e tra gli alleati stranieri, la reinterpretazione dell’esenzione imperiale in termini di sovranità e del diritto internazionale ebbe luogo più rapidamente che in Svizzera. I grandi cardinali Richelieu e Mazzarino – e Luigi XIV dopo di loro – concepirono e applicarono militarmente l’alternativa all’ordine imperiale medioevale, screditandolo come monarchia universalis asburgica. I francesi propagarono così un ordinamento basato sull’uguaglianza formale tra Stati, inserito nel moderno diritto internazionale fondato da Ugo Grozio. Non era più l’imperatore ma il re Sole la potenza egemone che prometteva all’Europa ordine e pace, sebbene spesso in realtà portasse guerra. La Francia trasse il massimo vantaggio anche dal fatto che nel 1674 la Dieta federale proclamò per la prima volta di voler mantenere posizioni neutrali. Ciò signifcava che i mercenari svizzeri potevano continuare a combattere nell’esercito francese, svolgendo funzioni difensive. Eppure, i soldati svizzeri andarono più volte contro i loro obblighi contrattuali di natura difensiva, per esempio attaccando i propri correligionari nella guerra d’Olanda. La neutralità rimase controversa perché sembrava illegittima nel confitto confessionale tra vera fede ed eresia. In ogni caso, dalla fne del XVII secolo gli svizzeri la rivendicarono sempre più spesso come principio storicamente fondato, anche in rappresentazioni artistiche (fgura 2). Luigi XIV, benefciario di questa nuova concezione della neutralità, fece regolarmente includere la Confederazione nei trattati di pace delle potenze belligeranti. Ciò rappresentò una riconferma verso la sua sovranità e verso il suo territorio,

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che ospitò alcuni congressi di pace (Baden 1714, Basilea 1795). Queste garanzie esterne costituirono al tempo l’unica attestazione di sovranità della Confederazione. Infatti, al suo interno la sovranità non perteneva alla Dieta federale, ma ai singoli Cantoni. In un’epoca di crescente commercio internazionale e di concentrazione del potere statale, questa frammentazione era considerata da molti anacronistica. Nella seconda metà del XVIII secolo i Cantoni divennero sempre più appannaggio di principi potenti, come Giuseppe II d’Asburgo e Luigi XVI. La Svizzera non subì il destino della Polonia – spartita tra i suoi vicini – o delle città imperiali tedesche – assorbite da monarchie sovrane come il Baden o il Württemberg nel 1803-1806. Ma la Rivoluzione francese e la riorganizzazione napoleonica dell’Europa non risparmiarono la Confederazione Elvetica, come d’altronde l’Italia o i Paesi Bassi, dove nacquero repubbliche centraliste sorel2. David Pfau, Ofenkachel für das Zürcher Rathaus, 1698. le. Grazie a Rousseau e ad altri pensatori illuministi l’idea svizzera di libertà era stata esaltata in tutta Europa, anche se di fatto rimaneva concezione corporativa di un dominio collettivo (sui sudditi nei singoli Cantoni o nelle signorie comuni). Questo aspetto fu progressivamente messo in discussione e sostituito dall’idea francese di libertà civica individuale. Dal 1792 il berretto frigio venne rinominato in Francia bonnet de Guillaume Tell e assurse a simbolo antimonarchico, mentre le Guardie svizzere furono uccise nel giardino delle Tuileries quando cercarono di difendere Luigi XVI dai sanculotti. Gli eserciti rivoluzionari prima e Napoleone poi esportarono a modo loro il berretto di Guglielmo Tell (Tellenhut) nella sua stessa patria. Nel gennaio 1798 le truppe francesi marciarono sul Canton Vaud, dove furono accolte come liberatrici dal dominio bernese. La vecchia Confederazione, incapace di difendere il paese a causa della sua politica campanilistica, crollò dopo poca resistenza. Ad aprile fu proclamata la Repubblica Elvetica, una e indivisibile, il primo Stato svizzero con un governo, un parlamento e una costituzione nazionali, mentre i Cantoni costituivano mere unità amministrative. Nello stesso anno, l’artista Laurent Louis Midart, originario di Metz e naturalizzato in un Comune di Solothurn, dedicò al Direttorio elvetico un’acquaforte altamente simbolica. In essa, la personifcazione della libertà aleggia col tricolore francese avvolto intorno ai fanchi, consegnando agli svizzeri, illuminati e risvegliati dopo lungo sonno, un cappello col tricolore svizzero.

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VAUD

Losanna

Basso Vallese

FRIBURGO

Friburgo

Berna

VALLESE

BERNA

Solothurn

OBVALDO

URI Abb. di Engelberg

SVITTO Gersau

ZUGO

Zurigo

Sciafusa

NIDVALDO

Lucerna

ARGOVIA

n

Echallens

Principato di Neuchâtel

Bienne

SOLOTHURN

de

Confni svizzeri attuali

Diocesi di Basilea

Basilea

Mulhouse

Ba

Alleati

Cantoni sovrani

(XV-XVIII SECOLO)

I CANTONI SVIZZERI E I LORO ALLEATI

GLARONA

Coira GRIGIONI

Sargans

APP. EST. APP. INT. nb ur go

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To g

Abb. di S. Gallo

TURGOVIA

Valtellina

Baliaggi comuni

Baliaggi degli alleati

Baliaggi di un cantone

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Sullo sfondo, un gallo brilla nel sole nascente (fgura 3). 4. La Svizzera fu teatro delle guerre della coalizione antifrancese, l’impoverita Repubblica ristagnò a lungo tra colpi di Stato e guerre civili. Per questo l’«èra francese» è ancora oggi ricordata per lo più negativamente dagli svizzeri. Lo stesso vale per Napoleone che, insieme ad altri alleati, costrinse novemila confederati a partecipare alla campagna di Russia, dove gran parte di essi morì. Eppure, fu Napoleone a dotare la Svizzera di una costituzione federalista con l’Atto di mediazione del 1803, che riuscì a offrire un compromesso tra l’autonomia dei Cantoni e la necessità di istituzioni nazionali. 3. Laurent Louis Midart Napoleone creò anche la struttura Le réveil du suisse, 1798. territoriale della Svizzera moderna grazie ai nuovi Cantoni di San Gallo, Grigioni, Argovia, Turgovia, Ticino e Vaud. Le élite reazionarie dell’antico regime, tornate al potere in Svizzera dopo la caduta di Napoleone, respinsero tale riorganizzazione. Col patto federale del 1815 venne ristabilita la quasi illimitata autonomia dei Cantoni, sorta di alleanza di piccoli Stati sovrani pienamente integrata nel sistema di Metternich. Vennero ripristinati i vecchi rapporti di sudditanza per i quali Berna e i Cantoni della Svizzera centrale quasi scatenarono una guerra civile, minacciando i nuovi Cantoni di stampo napoleonico. Alla luce di queste discordie interne, nei congressi di Parigi e di Vienna le grandi potenze accarezzarono l’ipotesi di reincorporare la Confederazione nella Germania. Pensarono altresì di trasformare la Svizzera da repubblica in monarchia sul modello olandese, per evitare che ogni «piccolo despota testardo» continuasse a portare avanti una politica campanilistica dal proprio «buco di provincia». Gli stessi confederati rimasero disuniti e i loro emissari non ebbero alcuna infuenza. Solo la gelosia dei governanti europei e l’attiva benevolenza dello zar Alessandro permisero alla Svizzera di essere l’unica repubblica a sopravvivere all’epoca rivoluzionaria in questa forma costituzionale. Strutturalmente incapace di fare politica estera, le grandi potenze le garantirono una nicchia nel nuovo diritto internazionale in quanto «la neutralità, l’inviolabilità e l’indipendenza della Svizzera da qualsiasi infuenza straniera sono nel vero

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interesse della politica europea nel suo complesso». Non si trattava quindi di una ricompensa per la coerente politica estera o la presunta neutralità del paese, ma di una via di uscita da una situazione insoddisfacente e priva di prospettive per tutte le parti. Charles Pictet de Rochemont, negoziatore per la Repubblica di Ginevra (città che aveva appena aderito alla Confederazione), seppe interpretare la situazione al meglio e con la sua dichiarazione di neutralità assicurò l’indipendenza alla Svizzera. I decenni successivi sono noti in Svizzera come «restaurazione» conservatrice e, dopo la rivoluzione parigina del luglio 1830, come «rigenerazione». Nei Cantoni più importanti vennero applicate costituzioni liberali con parità di diritti, libertà di stampa, di riunione, di parola e di commercio, nonché estese opportunità di partecipazione politica soprattutto per gli abitanti delle aree rurali, un tempo sottomessi. Nel complesso, però, la riforma federale fallì per via delle località conservatrici che sostennero il primato dell’identità cantonale e confessionale sul nazionalismo razionalista. Nel 1836 Alexis de Tocqueville giunse alla seguente conclusione: «Tutto sommato, il Regno d’Inghilterra sembra molto più repubblicano della Repubblica Elvetica». Agli svizzeri mancava il profondo rispetto per la legge e la legalità, oltre all’avversione per l’uso della forza che caratterizzava gli inglesi.

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5. Quello che seguì fu effettivamente un decennio di feroci confitti interni ai Cantoni e tra gli stessi. Nel 1839, con il colpo di Stato dei riformatori conservatori a Zurigo (Züriputsch), Putsch divenne forse l’unica parola svizzero-tedesca a entrare nel linguaggio politico internazionale. La politica clericale trovò particolare sostegno nella democrazia diretta delle Landsgemeinden, le piccole città della Svizzera centrale. Come Tocqueville, molti liberali elitari la consideravano una reliquia medievale, un tentativo di difendere la vera fede con la nomina di gesuiti e formando un’alleanza protettiva di sette Cantoni cattolico-conservatori. Ciò portò alla guerra del Sonderbund del 1847, vinta dalla maggioranza dei Cantoni liberali. Tocqueville la interpretò come parte di un confitto esemplare in Europa tra le forze del vecchio e del nuovo ordine. «Quello che sta accadendo in Svizzera non è un evento isolato. È un movimento particolare in mezzo al movimento generale che sta portando alla rovina l’intero edifcio delle istituzioni europee. Se il teatro è piccolo, lo spettacolo è grande». La vittoria del 1847 permise ai liberali di elaborare e adottare una costituzione federale, il cui nucleo (sistema bicamerale, Consiglio federale di sette membri con sede a Berna) resta ad oggi invariato. Inizialmente la Dieta federale temette l’intervento delle monarchie vicine a favore dei conservatori, ma la rivoluzione del 1848 in Francia concesse ai confederati libertà inaspettate (fgura 4). La guerra del Sonderbund e la formazione dello Stato federale segnarono l’unico momento della storia in cui gli svizzeri assunsero un ruolo politico pionieristico in Europa. Ciò fu sottolineato nei discorsi dei liberali europei: molti si congratularono con la Dieta federale per la vittoria e salutarono la Svizzera come «rifugio della libertà in Europa». In una lettera di congratulazioni cofrmata da un certo Karl Marx, l’Asso-

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ciation démocratique di Bruxelles soprannominò gli svizzeri Gardiens de la liberté europea da seicento anni. Altrettanto signifcativa fu la reazione del re conservatore Federico Guglielmo IV di Prussia, formalmente principe del Cantone di Neuchâtel: «In Svizzera, per noi, per le grandi potenze, non si tratta affatto di una questione di giustizia o di ingiustizia nel4. Ferdinand Schröder la Confederazione, non Europa am Ende der Revolution, 1849. si tratta affatto di gesuiti e di protestanti, ma solo del fatto se la piaga del radicalismo (…) riesca o meno a imporsi attraverso omicidi, sangue e lacrime, mettendo a repentaglio l’intera Europa». Dopo il fallimento del Quarantotto europeo, la Svizzera fu abbandonata a sé stessa nella sua commistione tra vecchio repubblicanesimo europeo e federalismo da un lato, liberalismo moderno e Stato costituzionale di diritto dall’altro. Per i monarchi e i restauratori europei servì soprattutto da pattumiera in cui gettare i rifugiati dell’opposizione liberale. Le simpatie dei radicali per i rifugiati, soprattutto provenienti dalla Germania meridionale e dall’Italia, provocarono continue crisi internazionali e posero una questione di coscienza: la Svizzera doveva sostenere i simpatizzanti minacciati, specie in Italia? Il Consiglio federale, dominato per un secolo dai liberali democratici, optò sempre per una politica estera pragmatica, ovvero neutrale. Nelle poche crisi del XIX secolo non mancarono parole pungenti da parte di singoli politici e consiglieri federali, ma le guerre furono sempre evitate. Così durante la crisi di Neuchâtel del 1857, quando il re di Prussia rinunciò defnitivamente a tutti i diritti di sovranità nel Cantone. Così nell’affare della Savoia del 1860, quando la Svizzera non riuscì ad annettere l’Alta Savoia che Vittorio Emanuele II cedette alla Francia di Napoleone III. Questa crisi fu preceduta dalla battaglia di Solferino, alla quale il mercante ginevrino Henri Dunant assistette per caso. Le sue esperienze portarono alla fondazione del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra nel 1863, che diede alla Svizzera l’opportunità di svolgere un ruolo di mediazione nel mondo europeo in conformità alla sua neutralità permanente. Fungendo da crocevia delle quattro grandi potenze europee continentali, il paese ebbe altrettanto successo nella creazione di organizzazioni per promuovere il commercio e la comunicazione internazionali. Berna ospitava l’Unione telegrafca internazionale (1865), l’Unione postale universale (1874), l’Organizzazione mondia-

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le per la proprietà intellettuale (1893) e l’Uffcio centrale dei trasporti ferroviari internazionali (1893), istituito al termine della costruzione della galleria del San Gottardo (1882) che diede un contributo decisivo all’integrazione dei paesi europei.

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5. L’isola Svizzera, Cartolina, 1917.

6. Molti svizzeri si consideravano parte di un’Europa borghese che sì dominava il mondo, ma che permetteva ai suoi cittadini di svolgere affari economici senza troppe restrizioni. La prima guerra mondiale e lo sciovinismo che ne preparò il terreno infransero questa visione. Come mostra una cartolina del 1917 (fgura 5), la Svizzera si vedeva come un’isola felice nel mare in tempesta. Questo almeno fno alla fne della guerra, traumatica anche per gli elvetici. Essi sperimentarono le tensioni delle rivendicazioni egemoniche, politiche e culturali dei popoli vicini imparentati e aspramente contrapposti, e nel loro stesso paese diviso lungo i confni linguistici tra sostenitori dell’Intesa e fautori degli imperi centrali. Per la prima volta, il Fossato di Rösti (Röstigraben) divenne una minaccia per l’unità del paese. Questa sensazione di declino paneuropeo fu rafforzata dallo sciopero nazionale del novembre 1918, che sembrò preannunciare uno sviluppo rivoluzionario simile a quelli avvenuti in Russia o Germania. La decisa adesione del Consiglio federale alla Società delle Nazioni fu soprattutto una reazione al disaccordo interno. I rapporti positivi e a lungo termine tra Svizzera e mondo esterno avrebbero dovuto sostituire le attuali relazioni negative. Anche per il consigliere federale Felix Calonder il «rafforzamento dell’idea di diritto e di pace internazionale» era l’obiettivo fnale della politica estera svizzera, e l’adesione alla Società delle Nazioni rappresentò un passo decisivo in questa direzione. Nella sua dichiarazione a favore, il Consiglio federale rimarcò l’impegno per un ordine internazionale: «Ci è stata offerta un’opportunità unica: andare oltre la nostra esiguità geografca, che purtroppo signifca spesso anche ristrettezza spirituale». In questo spirito quasi idealistico, la Svizzera fu inizialmente coinvolta nella Società delle Nazioni come pochi altri paesi. Ospitò la sua sede centrale (Ginevra), ma anche importanti conferenze (Losanna 1923, Locarno 1925) e procedure di arbitrato, conciliazione e risoluzione di controversie politiche (Alta Slesia, plebiscito della Saar, Danzica). Tuttavia, i sostenitori della Società videro presto infranger-

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si le loro speranze di rinnovata stabilità e prosperità mondiali. Gli sviluppi catastrofci della Grande depressione mostrarono che essi erano ottimisti velleitari e ciechi di fronte ai pericoli posti dal fascismo e dal comunismo, all’interno e all’esterno della Svizzera. Da un misto di politica interna e culturale e di spirito di resistenza della società civile, nacque la Difesa spirituale (o Difesa del paese) all’insegna di un «pessimismo lucido» (hochgemuter Pessimismus). Il medievista zurighese Karl Meyer coniò questa formula di grande successo nel 1938, dopo che a Monaco le potenze occidentali avevano consegnato la Cecoslovacchia a Hitler. «Pessimismo lucido» signifcava aspettarsi solo il peggio dalle potenze straniere, ma affrontare queste sfde con fducia e confdando nelle proprie forze. Rifes6. Nebelspalter, giugno 1933. sione su sé stessi e solidarietà nella lotta contro il pericolo esterno: queste le basi della Difesa spirituale che gli svizzeri trassero dal crollo della Società delle Nazioni (fgura 6). 7. Helvetia come Madonna protettrice secolarizzata che difende i suoi fgli dalla plebaglia (Pöbel): questa l’immagine della Svizzera nel contesto ostile degli anni Trenta. La minaccia non fu ricondotta unicamente alla Russia di Stalin, alla Germania di Hitler o all’Italia di Mussolini. Anche l’esperimento del Fronte popolare in Francia fu percepito come estraneo e il clericofascismo corporativo austriaco contraddiceva la concezione laica dello Stato prevalente in Svizzera. Il mondo anglo-americano era geografcamente distante e poco familiare, soprattutto l’isolazionismo statunitense. I paesi stranieri sembravano insomma offrire pochi modelli di riferimento. Ciò fu tanto più vero a partire dall’estate del 1940. La Svizzera era quasi completamente circondata dalle potenze dell’Asse e regimi autoritari o totalitari dominavano pressoché ovunque nel continente. La «nuova Europa» non aveva nulla di attraente: era solo uno slogan propagandistico nazista utilizzato in chiave antisovietica. Nessuno in Svizzera, élite o popolazione, riponeva la minima fducia nel nuovo ordine egemonico del continente. In un’Europa dominata da regimi fascisti, l’idea elvetica di Stato che univa tre nazioni culturalmente eterogenee non aveva futuro di fronte alle manie razziali dei paesi limitrof. Questo accentuò ulteriormente la necessità di una demarcazione

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Ginevra

Lago Neuchâtel

di Ginevra Lago

FRANCIA

Cantoni che hanno votato sì Cantoni che hanno votato no

Friburgo

Berna

Basilea

S

V

Z

ITALIA

I

Lucerna

Z

R

Lago Maggiore

E

Lago di Zurigo

Zurigo

Bellinzona

A

Lago di Como

L.di Walenstadt

Lago di Costanza

14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26

GERMANIA

LIECHT.

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RISULTATI DEL VOTO DEL 6 DICEMBRE 1992 SULLO SPAZIO ECONOMICO EUROPEO CANTONI

AUSTRIA

Ginevra (Genève, Genf ) Vaud (Waadt) Neuchâtel (Neuenburg) Giura (Jura) Friburgo (Freiburg) Vallese (Wallis) Berna (Berne) Soletta (Solothurn) Basilea Campagna Basilea Città Argovia (Aargau) Lucerna (Luzern) Obvaldo (Obwalden)

Nidvaldo (Nidwalden) Zugo (Zug) Zurigo (Zürich) Sciafusa (Schafhausen) Turgovia (Thurgau) San Gallo (Sankt Gallen) Appenzello Esterno Appenzello Interno Svitto (Schwyz) Glarona (Glarus) Uri Ticino (Tessin) Grigioni (Graubünden, Grischun)

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intellettuale e di una nuova rifessione sull’identità svizzera, con fermo impegno verso la propria tradizione democratica rimasta negli anni della guerra nonostante il regime plenipotenziario del Consiglio federale. Crebbe anche la consapevolezza degli elementi autoritari, egoistici o semplicemente meschini. Da allora, la politica dei rifugiati è rimasta una ferita aperta nell’immagine della Svizzera come paese umanitario: oltre 20 mila ebrei furono respinti alla frontiera, 10 mila domande di visto furono rifutate con la controversa motivazione che la piccola scialuppa di salvataggio fosse piena. Anche i rapporti economici con il Terzo Reich furono problematici: pur rappresentando una minaccia esistenziale per la Svizzera, esso poté contare su forniture di armamenti e servizi di transito nella sua guerra contro gli Alleati. Inoltre, la Banca nazionale svizzera acquistò una notevole quantità di oro che Berlino aveva saccheggiato da altre Banche centrali e, in misura minore, da vittime private. Già alla fne della guerra, la discutibile interpretazione svizzera della neutralità fu aspramente criticata dagli Alleati e dagli Stati Uniti. Nel 1996 scoppiò un nuovo dibattito sui «patrimoni non rivendicati» (nachrichtenlosen Vermögen) delle vittime ebree dell’Olocausto ancora detenuti dalle banche svizzere che portò a una crisi durata due anni. In termini di politica interna e sul piano dell’integrazione, la seconda guerra mondiale fu invece una manna dal cielo. Un trauma fatto di violenza e crudeltà, debolezze e sconftte, tradimento, collaborazione e genocidio in ogni altro luogo, divenne a posteriori una prova superata con successo, la fne dello sciopero nazionale e l’inizio della «formula magica» democratico-consensuale svizzera. L’atto simbolico di questa conclusione positiva fu l’accordo collettivo nell’industria metallurgica del 1937 e l’inclusione dei socialdemocratici nel Consiglio federale. Le barriere linguistiche, confessionali, di classe e di interessi furono abbattute in nome della difesa nazionale. Si iniziò così a guardare con compiacimento agli anni della guerra, che sembrarono inserirsi nei lunghi secoli di integrità nazionale, interrotti solo dalle truppe rivoluzionarie e da Napoleone. Le presunte virtù svizzere avevano superato la prova del tempo e sottratto il paese a un’Europa dissanguata: neutralità, militanza, volontà di combattere, diligenza, modestia, solidarietà. Questi i valori predicati dagli svizzeri. 8. Questa lettura si riaffermò nel 1989, quando le celebrazioni «diamante» commemorarono il cinquantenario della mobilitazione generale: anniversario che nessun altro paese europeo avrebbe mai voluto celebrare. Il ricordo quasi interamente positivo della seconda guerra mondiale si distingue da quello della prima, percepita come trauma nazionale in un contesto di divisione interna e caos internazionale che aveva portato la Svizzera nella Società delle Nazioni. Dopo il 1945 gli svizzeri, disillusi dagli sforzi di pace internazionali del periodo interbellico, non erano più interessati a tali esperimenti. L’Onu non era considerata un’opzione fattibile, soprattutto perché dominata da potenze vincitrici percepite come extraeuropee. La Nato offriva protezione dal Patto di Varsavia, ma la Svizzera non poté aderirvi in quanto incompatibile con la sua neutralità armata. La Confede-

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razione integrò allora un veemente anticomunismo con una politica estera agile e solitaria, capace di muoversi tra i blocchi. Ricordando la guerra mondiale e contando sulle proprie forze, si convinse che i processi politici sovranazionali non potessero garantire stabilità a fronte di una perdita della sovranità. Anche la percezione del progetto europeo fu ambivalente fn dall’inizio: la gioia per un’Europa fnalmente pacifcata e per l’espansione dei mercati si mescolava alla crescente preoccupazione per la concentrazione del potere e la chiara fnalità politica dell’integrazione europea dopo Maastricht (1992). Nel tempo, la Comunità economica europea (Cee) si è evoluta nell’Unione Europea e comprende oggi 27 membri, ma non la Svizzera. La Cee aveva rifutato la dimensione politica dell’integrazione e si era concentrata esclusivamente sul piano economico. L’Associazione europea di libero scambio (Efta), fondata nel 1960, aveva offerto la giusta cornice. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la creazione dello Spazio economico europeo (See) allargò l’area di libero scambio. La Svizzera fu l’unica a bocciare l’iniziativa e respinse l’adesione con una stretta maggioranza nel referendum del dicembre 1992. Tra i motivi principali vi fu che molti videro nel See un precursore della piena adesione all’Ue. Così fu per Austria, Finlandia e Svezia, ma non per Islanda, Norvegia e Liechtenstein. La Svizzera regolò le sue relazioni con l’Ue nel 1999 e nel 2004, con due accordi bilaterali. Oggi Bruxelles spinge per un accordo istituzionale al fne di integrare le relazioni, principalmente dal punto di vista economico e giuridico. Ma la Svizzera si nega. Con notevole irritazione dell’Ue, il Consiglio federale ha interrotto unilateralmente i negoziati nel 2021, senza consultare il parlamento e nemmeno il suo decantato popolo sovrano. Si era comunque già formata un’empia alleanza tra sindacati e conservatori che con tutta probabilità avrebbe affossato un eventuale referendum. Le tre questioni in sospeso con l’Ue erano la tutela dei salari, la direttiva sui diritti dei cittadini e gli aiuti di Stato. Questioni così tecniche che quasi nessuno, a parte gli esperti, poteva spiegare. L’attenzione si è così concentrata sui principî fondamentali: difesa della sovranità nazionale (per i conservatori) e prosperità (anche in termini di potere d’acquisto dei lavoratori). L’ostinata adesione a una logica bilaterale non è solo strategia negoziale, ma errata e talvolta inconsapevole percezione che la piccola Svizzera stia affrontando un gigantesco Golia. L’immagine offusca la realtà: Bruxelles è un’enorme ma eterogenea macchina di compromessi con cui 300 milioni di persone in 27 Stati sovrani regolano il loro mercato interno. Le soluzioni che emergono possono produrre perdenti e malumori e l’Unione non vuole certo rinegoziare con la Svizzera caso per caso, per accontentarla. Così come i 26 Cantoni svizzeri non vogliono rinegoziare con il Liechtenstein le leggi doganali modifcate dal parlamento nazionale. Resta dunque un pio desiderio quello che il Consiglio federale ha defnito «parità di condizioni» con l’Ue, poiché signifcherebbe riconoscere alla Svizzera un rango superiore rispetto agli Stati membri dell’Unione, Francia e Germania comprese. Per tutti i membri a pieno titolo è chiaro che la Svizzera non possa porsi allo stesso livello di Bruxelles, almeno fnché non accetti di assumersi gli obblighi co-

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muni. La Svizzera non è il cliente di un mercato in cui può scegliere a propria discrezione quanto le conviene, ma un potenziale partner che può decidere di accettare o meno un ricco pacchetto complessivo. Se non vorrà, rinuncerà ai vantaggi del mercato unico. La Svizzera rifuta a tal punto questa logica da pensare che siano gli europei a doversi adattare completamente ai suoi canoni, prima che l’Ue possa un giorno essere gentilmente accettata nella Confederazione Elvetica. Tale atteggiamento ignora i numerosi ambiti in cui legislazione e giurisprudenza europee garantiscono alla Svizzera e ai suoi prodotti l’idoneità al mercato unico. Gli svizzeri rinunciano a un possibile coinvolgimento seguendo il principio di «rimanere idonei all’adesione per non dover mai aderire». Come se un’uscita non fosse possibile di fronte a (presunti) interessi nazionali esistenziali. L’esempio del Brexit dimostra la fallacia di tale ragionamento. 9. A differenza di molti altri piccoli Stati, come il Lussemburgo, la Svizzera non è disposta ad accettare queste sfde. Il rifuto sopravvivrà fnché il paese non dovrà affrontare gravi diffcoltà nella sua politica estera o economica. Ciò è tanto più vero in un momento in cui lo Stato nazionale è percepito come miglior difesa contro le crisi che scuotono il continente e il resto del mondo: da quella fnanziaria del 2008 a quelle dei migranti, dal Covid-19 alla guerra ucraina. La Svizzera subisce le ripercussioni di questi eventi, ma fnora se l’è cavata – per così dire – alla leggera. Gran parte della popolazione e dei politici svizzeri continua a sopravvalutare la propria sovranità, come se il benessere del paese dipendesse esclusivamente dalle loro decisioni. È invece vero il contrario e lo dimostra il caso di Ubs, il cui crollo avrebbe causato danni sistemici, soprattutto in Svizzera. Il fatto che sia sopravvissuta alla crisi fnanziaria del 2008 è stato presentato dai media come un’operazione di salvataggio da parte del Consiglio federale e della Banca nazionale. In realtà, ciò non sarebbe stato possibile senza l’intervento della Federal Reserve, che ha fornito enorme liquidità. Il fatto che la Banca centrale europea (Bce) si sia attivata con ritardo, come l’Ue è in ritardo rispetto a Stati Uniti e Regno Unito sul fronte ucraino, non aiuta la Svizzera a riconoscere il suo debito verso Bruxelles. Molti svizzeri restano prigionieri dei loro stereotipi: se l’Ue è ineffciente in un settore, ciò viene visto come prova della sua debolezza e della sua imminente fne. Se al contrario è effciente, conferma il sospetto che si tratti di un progetto elitario e antidemocratico in cui i più forti s’impongono sugli altri. Le strutture stabili, pacifche, democratiche e costituzionali che hanno prevalso per decenni quasi ovunque nel continente sono in realtà il prodotto, storicamente senza precedenti, dell’integrazione europea. La Svizzera ne benefcia in tal misura che le discussioni interne sui contributi alla coesione sembrano non solo meschine, ma irrealistiche. Gran parte dell’attuale discorso sull’identità svizzera consiste nella combinazione di posizioni giuridiche ed economiche di nicchia con l’isolazionismo politico. Ciò porta a interpretare passato e presente come un’eterna lotta contro gli stranieri maligni: i balivi asburgici, la Berlino nazista, la Mosca comunista, gli eurocrati. La

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storia del paese, poco conosciuta nei suoi dettagli ma forse per questo glorifcata, rimane centrale per l’identità nazionale. Ciò è dovuto anche all’eterogeneità della Svizzera, che presenta poche somiglianze linguistiche o culturali tra i suoi cittadini. Non si può escludere che nel XXI secolo, in un’Europa unita, pacifca e democratica, la Svizzera possa perdere alcune delle sue peculiarità se verrà meno la minaccia posta dai paesi confnanti. Questo potrebbe rendere superfua la tradizionale demarcazione collettiva, ma si tratterebbe di una prospettiva favorevole: gli svizzeri convivrebbero con gli europei nel loro paese con la stessa facilità con cui viaggiano o vivono all’estero. Ciò renderebbe più facile enfatizzare i punti in comune invece di postulare incompatibilità. Renderebbe più semplice defnire e integrare positivamente le peculiarità svizzere, dall’autonomia comunale al federalismo, fno alla democrazia diretta. La neutralità è più problematica. La sua importanza identitaria è fondamentale per gli svizzeri, ma sproporzionata rispetto alla rilevanza internazionale del paese. La sua problematicità è apparsa chiara a parte dell’opinione pubblica con l’invasione russa dell’Ucraina e l’adesione alla Nato di Finlandia e Svezia, mentre in altri casi questi sviluppi hanno rafforzato la concezione radicale della neutralità. La sinistra pacifsta, contraria all’esportazione di strumenti di guerra, ritiene che le armi svizzere non abbiano alcuna infuenza nel confitto e non debbano averne. Alcuni nazional-conservatori simpatizzano con Mosca e continuerebbero il business as usual. Per evitare di partecipare a future sanzioni vorrebbero persino inserire la «neutralità perpetua e armata» in costituzione. Tale concezione può essere riassunta dalla posizione dell’ex ministro della Giustizia Christoph Blocher: la Svizzera deve sempre rimanere neutrale – anche nel confitto tra Occidente e terrorismo islamico, perché il terrorismo è «una forma di guerra nel confitto tra grandi potenze». Tra gli estremi di destra e di sinistra i politici moderati sostengono che, in caso di guerra d’aggressione in Europa vietata dalla Carta dell’Onu, il diritto internazionale consente ai paesi neutrali più fessibilità. Questi possono assistere lo Stato attaccato con armamenti prodotti da aziende private straniere sul proprio territorio. La neutralità dipende infatti da condizioni che la Svizzera non può garantire da sola. A differenza di quanto accadeva durante le guerre mondiali, i vicini più prossimi e più lontani della Confederazione non rappresentano una minaccia, anzi forniscono (grazie alla Nato) una protezione militare. Alleanza Atlantica e Unione Europea assicurano la stabilità politica del continente. Forse gli svizzeri desiderano essere percepiti come scrocconi da coloro con cui condividono i valori dello Stato di diritto, le costituzioni democratiche e i princìpi dell’economia di mercato? Dovranno rifettere attentamente, chiedendosi se gli Stati che proteggono la Svizzera possano considerare la sua neutralità come un contributo adeguato al mantenimento dell’ordine. Di certo non saranno persuasi dal fatto che gli svizzeri traggono proftto da relazioni economiche senza restrizioni con attori che violano il diritto internazionale e i diritti umani.

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(traduzione di Stefano Corrent)

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‘Il mondo cambia, dovremo cambiare anche noi’ Conversazione con l’ambasciatore Alexis LAUTENBERG a cura di Lucio CARACCIOLO

LIMES Qual LAUTENBERG

è la caratteristica principale della Svizzera? Nella traiettoria storica del mio paese conviene distinguere fra il modo in cui noi svizzeri ci percepiamo e le percezioni altrui. Alla fne queste traiettorie convergono nell’idea di un civismo proprio e della stabilità come carattere tipico dell’entità elvetica, non senza una forte propensione a concentrarsi su sé stessa. Quando parlo di Svizzera mi riferisco naturalmente a quella moderna, le cui radici affondano nella costituzione del 1848. La sua quintessenza rimane valida anche oggi. Si tratta di una costituzione sempre aggiornata in quanto la si adatta costantemente attraverso il meccanismo del voto costituzionale. Certo, esiste anche una identità emotiva, leggendaria, che risale a Guglielmo Tell e alla formazione di una piccola comunità a partire dalla fne del Duecento. Ma quello è il mito, cui a metà Ottocento si integra e si sovrappone la Confederazione odierna. La Svizzera si è sviluppata quale prodotto della volontà dei cittadini come del contesto esterno, per defnizione instabile. C’è una fgura storica non svizzera il cui contributo alla creazione dei presupposti della Confederazione moderna non è forse abbastanza rimarcato. Mi riferisco a Napoleone. L’uscita del recente flm di Ridley Scott ha suscitato reazioni molto varie nei media svizzeri. Per un aspetto, si è posto l’accento sugli orrori delle guerre scatenate dall’imperatore. Nel contempo è notevolissimo il rispetto per la capacità di Napoleone di percepire la complessità elvetica. In fondo, con il suo Atto di mediazione ha permesso di formulare i princìpi essenziali della prima costituzione liberale. L’architettura istituzionale del 1848 reca l’impronta indiretta ma visibile della sensibilità napoleonica per la Svizzera. LIMES Ma durante il Novecento la Confederazione ha rischiato di spaccarsi lungo le linee di faglia disegnate dalle sue principali comunità linguistiche, la germanica e la francese. LAUTENBERG Abbiamo corso questo pericolo una sola volta, con la prima guerra mondiale. La maggioranza svizzero-tedesca simpatizzava per le potenze centrali,

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‘IL MONDO CAMBIA, DOVREMO CAMBIARE ANCHE NOI’

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anzitutto il Reich germanico, assai meno per l’Austria-Ungheria. La Romandia tifava invece per la Francia e il suo alleato inglese – impero che diverse volte nella storia aveva mostrato di comprendere e difendere il nostro modo di rapportarci al mondo. Nel 1914 vivemmo una forte polarizzazione, con rischio di sfaldamento della Confederazione causa il contrasto fra gli svizzeri di lingua tedesca e i francofoni. Ci volle il famoso discorso pronunciato a Zurigo il 14 dicembre 1914 dallo scrittore svizzero-tedesco Carl Spitteler – premio Nobel per la letteratura nel 1919 – per ricordare a tutti l’importanza di riunirsi attorno alla nostra bandiera rossocrociata e di non farsi strumento di interessi altrui. In quel frangente il mantenimento della neutralità svizzera, sancita nel 1815, giocò un ruolo centrale. Nella seconda guerra mondiale, invece, non corremmo assolutamente il rischio che la faglia fra germanofoni e francofoni ci dividesse. Pur accerchiati dall’Asse – non dimentichiamo l’Italia fascista, al Sud – la reazione degli svizzeri fu di determinata coesione. Incarnata dal generale Henri Guisan, comandante in capo delle nostre Forze armate dal 1939 al 1945, soldato di grande personalità che fece appello all’unità nazionale e teorizzò la tattica del «ridotto», ovvero della resistenza nell’arco alpino in caso di invasione, effcace deterrente contro le mire straniere. Unico neo, la lettera dei «duecento» – personalità segnatamente industriali – al Consiglio federale affnché fosse disposto a cedere alle richieste naziste. Ma il vero segreto della nostra coesione nel tempo è stato il concetto di neutralità permanente, defnitivamente fssato nel 1815 dalle potenze vincitrici di Napoleone. Garanzia dell’inviolabilità del nostro territorio e della coesione nazionale. Credo di poter dire che la neutralità attiva sia stata la quintessenza della nostra strategia geopolitica per tutto l’Otto-Novecento. Alla fne dell’ultima guerra la Svizzera era relativamente intatta, non avendo subìto particolari danni, anzi. Iniziava una nuova fase, trasformativa, rifesso di quel che accadeva attorno a noi. Si affermava la ricostruzione economica inquadrata nell’Europa divisa dalla guerra fredda. LIMES Anche nel nuovo contesto la priorità andava all’economia. LAUTENBERG La nostra politica estera ha sempre avuto un tono economico-commerciale, carattere che ci distingue in Europa e nel mondo. La nostra geopolitica post-seconda guerra mondiale era fglia della motivazione primaria, il libero commercio nell’ambito del nuovo sistema multilaterale. In questo contesto un passo veramente di rilievo fu il coinvolgimento della Svizzera nella Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), a partire dall’inizio degli anni Settanta, in cui avemmo un ruolo motore. Assieme alla Finlandia e agli altri neutrali formammo una constituency attiva in quell’esercizio, che si rivelerà decisiva per superare il regime dei blocchi europei. Io ne ho un ricordo vivissimo perché da giovane apprendista partecipai ai negoziati come segretario della prima commissione, sotto la guida del maestro Edouard Brunner, diplomatico di altissimo proflo. Con gli altri neutrali fummo oltremodo attivi nel negoziare l’Atto fnale, adottato nel 1975. In un certo senso, fu il surrogato di un trattato di pace che sanciva concetti fondamentali. In particolare il riconoscimento delle frontiere esistenti, caro ai so-

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vietici, doveva essere scambiato con l’affermazione dei diritti umani, voluto dagli occidentali. Senza dimenticare la collaborazione economica tra due sistemi completamente diversi. LIMES E adesso? LAUTENBERG Con la caduta del Muro di Berlino, prima, e le due aggressioni russe all’Ucraina, poi, la Svizzera si è ritrovata doppiamente fuori asse. In primo luogo perché la funzione della neutralità è stata largamente marginalizzata. Poi, tutt’a un tratto abbiamo avuto il dinamico allargamento dell’Ue: modifca oggettiva e soggettiva della nostra posizione in Europa. In seguito, con la guerra scatenata dalla Russia ci siamo trovati brutalmente di fronte alla questione di quale sia oggi il senso della neutralità, soprattutto nel caso dell’esportazione di materiale bellico e della gestione delle sanzioni. Certo, siamo sempre stati e rimaniamo occidentali a tutti gli effetti, per quanto fuori dell’Alleanza Atlantica. Ma ciò non esclude cooperazioni complementari per evitare che il nostro paese divenga una falla nel sistema. Questo ci obbliga a barcamenarci di fronte alle misure economiche adottate dai vari soggetti attivi contro la Russia (Ue, G7, altre piattaforme). Ciò tende a impattare l’interpretazione della nostra sovranità e della stessa neutralità. LIMES Cominciamo dalla caduta del Muro, dalla riunifcazione tedesca e dallo smantellamento prima del Patto di Varsavia poi dell’Unione Sovietica, nel magico biennio 1989-91. LAUTENBERG La riunifcazione della Germania ha cambiato l’architettura del nostro posizionamento geopolitico. Anziché due Germanie divise, ciascuna nel suo campo di alleanze, ce n’è una sola, potenza centrale in Europa. Ancora una volta, come costante nella nostra storia, il mutamento dello scenario esterno genera delicati rifessi sull’assetto interno. LIMES Per esempio? LAUTENBERG L’area germanofona svizzera ha percepito la riunifcazione tedesca come un cambiamento di equilibrio, tale da provocare l’effetto conscio o inconscio di smarcarsi dai «cugini» tedeschi per riaffermare la propria identità linguistica, di cui gli svizzero-tedeschi sono gelosi. Fatto sta che l’area germanofona usa molto più di prima la propria lingua, lo svizzero-tedesco – Schwyzerdütsch – che pur essendo nelle sue variazioni dialettali un idioma alemannico solo parlato, non una vera e propria lingua scritta, è una specie di bandiera. Un elemento di distinzione dallo Hochdeutsch, il tedesco alto standard, marchio della Germania, che ovviamente resta lingua uffciale della Confederazione come anche in 21 dei nostri Cantoni. Oggi i media audiovisivi svizzero-tedeschi di regola trasmettono in Schwyzerdütsch, salvo i telegiornali. Naturalmente le politiche linguistiche e pedagogiche cambiano di Cantone in Cantone. È interessante che soprattutto dall’Ottantanove nei Cantoni germanofoni si sia gradualmente affermata la scelta di insegnare come seconda lingua, dopo lo Hochdeutsch, l’inglese invece del francese. Tale tendenza non è rimasta senza reazione, segnatamente nella Svizzera romanda: «Ma come! Noi siamo sempre stati disposti a

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‘IL MONDO CAMBIA, DOVREMO CAMBIARE ANCHE NOI’

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imparare il (buon) tedesco, non il dialetto». Come sovente in casi di divergenze confederali, nell’assenza di compromesso il divario aumenta. Ma ovviamente ogni comunità linguistica reagisce in modo diverso, secondo la sua specifca collocazione socio-culturale. LIMES La scelta linguistica minaccia l’unità nazionale? LAUTENBERG È piuttosto il collante della comunità federale che si attenua. In ognuna delle Svizzere linguistiche – italiana, tedesca, francese, romancia – il collante pare sempre meno intenso. Ma parliamo di tendenze a medio termine. Ci sono per fortuna segni di reazione, anche se su scala ridotta, talvolta individuale. Ad esempio, la scelta di Blick, giornale di informazione del gruppo Ringier, a grande tiratura, di lanciare nel 2021 un suo sito Web in francese. Fra l’altro grazie all’iniziativa di un giornalista di spicco della Svizzera romanda. LIMES C’è un tratto comune, distintivo, che illumina il rapporto fra gli svizzeri di lingua tedesca con la Germania, di lingua francese con la Francia, di lingua italiana con l’Italia? LAUTENBERG Direi di sì. In breve, lo svizzero di un determinato ceppo linguistico tende a combinare una forte sensibilità al peso come pure alla profondità socio-culturale e mediatica del rispettivo grande vicino con la consapevolezza del «sistema svizzero», di cui è fero. Comunque, gli svizzeri si sentono tali soprattutto quando sono all’estero. È quando siamo fuori di casa che cogliamo la nostra peculiarissima diversità. Aggiungerei che la Svizzera si distingue per la notevole capacità di assorbire e assimilare chi viene a vivere nel nostro paese. Altrimenti non si spiegherebbe come possa funzionare una comunità i cui abitanti sono per un quarto stranieri. I quali vengono da tutto il mondo e in genere da noi si trovano bene. Siamo un attractive tool, uno strumento attraente. Tra i fattori che giocano un ruolo nell’assimilazione, menzionerei la demografa ben bilanciata, favorita dalla nostra geografa, e l’assenza di vere metropoli. Vi è inoltre un mercato del lavoro competitivo. I rapporti sociali sono attraenti per gli europei ma anche per i non europei. Tuttavia emerge sempre più la sensazione che la densità demografca crescente metta a dura prova le nostre infrastrutture sociali. LIMES Vediamo ora il secondo trauma cui accennava, quello dell’invasione russa dell’Ucraina. LAUTENBERG Le aggressioni di Putin, nel 2014 e nel 2022, ci hanno colto con la testa ancora nel mondo «perfetto» del post-guerra fredda, quando la Svizzera, come la maggioranza dei paesi europei, aveva smantellato parte del suo dispositivo di difesa pensando di poter approfttare dei cosiddetti «dividendi della pace». Dopo l’attacco russo alla Crimea nel 2014 e la relativa annessione, l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022 è stato un brutale risveglio. Bisogna correre ai ripari. Ciò necessita la ridefnizione del nostro dispositivo difensivo alla luce delle minacce apparse nel nuovo assetto continentale. Ma va rivisitata anche la funzione della neutralità. Non vi è dubbio che gli sviluppi recenti a livello geostrategico incidono anche sul rapporto Svizzera-Ue. Alle diffcoltà di concludere un accordo che permetta di ag-

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giornare ed estendere ulteriormente l’approccio bilaterale viene ad aggiungersi l’evoluzione dell’Ue, che si sta adattando agli sconvolgimenti continentali. Tale proflo è la risposta delle nuove minacce a livello sia securitario sia economico. Il nuovo concetto europeo di autonomia strategica comporta dei cambiamenti assai fondamentali dello strumentario comunitario in generale e del mercato interno in particolare; penso segnatamente agli aiuti di Stato, alle politiche industriali, con effetti diretti sulla politica commerciale. Riguardo a quest’ultima, rilevo che tale riorientamento avviene in una fase in cui i dispositivi multilaterali (Omc, G20) sono vieppiù marginalizzati, il che riduce l’area di manovra dei paesi terzi, come la Svizzera. A ciò s’aggiunge ovviamente la prospettiva di nuovi allargamenti e una crescente complessità nella gestione dei rapporti con il vicinato, senza menzionare l’agenda propria dell’Ue (elezioni del Parlamento europeo, nuovi vertici delle istituzioni eccetera). Alla luce di questo futuro da incubo non escluderei che Bruxelles voglia trovare un compromesso con la Svizzera che – magari testarda – è comunque un alleato non solo affdabile ma che ne condivide i valori e quindi largamente gli interessi. LIMES Che cos’è l’Italia per la Svizzera? LAUTENBERG È uno dei tre grandi vicini e un partner di particolare prossimità. Non vi è settore che non sia di comune interesse e/o sinergico. Che sia il mercato del lavoro e la libera circolazione, l’infrastruttura e il traffco pesante, l’energia, l’ambiente, il commercio e i servizi fnanziari come pure la questione dei rifugiati, la cooperazione giudiziaria, oltre, non ultime, a lingua e cultura. Dai dati in nostro possesso osserviamo che un gran numero di residenti in Svizzera coltiva legami con la cultura e con la lingua italiana. Ci si potrebbe quindi chiedere se e come un tale bacino potenziale meriti la creazione di una piattaforma mediatica propria.

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IL SENSO DELLA SVIZZERA PER LA NATO

di Pälvi

PULLI

La guerra d’Ucraina obbliga Berna a stringere i legami con l’Alleanza Atlantica. La diminuita pazienza per l’eccezione elvetica. Fare la propria parte o niente aiuti in caso di attacco. La scommessa dell’interoperabilità: gli F-35 creano opportunità con l’Italia.

L

1. A SITUAZIONE MONDIALE HA RIMESSO la politica di sicurezza al centro delle preoccupazioni politiche e popolari. In Svizzera come in tutta Europa. È per questo che Berna ha deciso, nel rispetto della neutralità, di orientare la sua politica di sicurezza e difesa ancor più sistematicamente verso la cooperazione internazionale. La Svizzera è cosciente di dover essere un partner in grado di apportare il proprio contributo. Perciò intende accelerare la modernizzazione dei propri mezzi di difesa. E si allinea alle tendenze europee per rispondere, come fa anche l’Italia, alle minacce alla nostra sicurezza. Il 24 febbraio 2022 la Russia ha attaccato militarmente l’Ucraina. Anche solo un decennio fa, una simile aggressione sembrava inimmaginabile, almeno in Europa. Ha scosso nel profondo i nostri valori e i nostri princìpi fondamentali. Ha già innescato effetti di lungo termine – non solo nel nostro continente – che non si limitano alle politiche militari, ma toccano la politica estera, economica, fnanziaria, energetica e ambientale. Avrà conseguenze durevoli sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa, sulle relazioni tra i paesi occidentali e la Russia. Dunque sulla Svizzera. Come i suoi vicini europei, la Confederazione Elvetica tiene a valori come lo Stato di diritto, la democrazia, il diritto internazionale, la sovranità e l’integrità degli Stati. Ha condannato l’invasione russa e ripreso le sanzioni dell’Unione Europea. Al di là della reazione, deve ora verifcare se la propria politica di sicurezza sia adatta ad affrontare questo sconvolgimento, oggi e domani. Un’analisi sull’impatto della guerra che, in una forma o nell’altra, viene condotta in ogni capitale del continente. La sicurezza in Europa si era già deteriorata prima dell’attacco all’Ucraina e la Svizzera ne tiene conto da anni. Berna si orienta ormai a difendersi dalle diverse sfaccettature della guerra ibrida, dal confitto armato ai ciberattacchi, dalle attività d’infuenza alla disinformazione. Ha accelerato il rafforzamento delle proprie capacità militari e della cooperazione con la Nato.

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I recenti shock, specie gli atti terroristici di Õamås contro Israele, le relative conseguenze e il rischio di allargamento del confitto, non fanno che confermare l’importanza di operare per la sicurezza comune.

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2. In Svizzera, la politica di sicurezza ha defnizione larga. Le minacce e i pericoli sono diventati tanto variegati quanto i mezzi da utilizzare per respingerli o gestirli. L’aggressione russa potrebbe indurci a ridurre l’approccio a compiti essenzialmente militari. È un errore da evitare: il confitto in Ucraina, così come la situazione in Medio Oriente, mette al centro il largo ventaglio delle capacità da impiegare nella guerra ibrida, dagli attacchi cibernetici al sabotaggio, dal terrorismo alle operazioni convenzionali. Inoltre, i pericoli non si fermano alle frontiere e a volte sono conseguenza di fenomeni climatici mondiali. Le Forze armate, apparato difensivo chiave in caso di guerra, oltre a strumenti come i servizi d’intelligence e la protezione della popolazione, sono chiamate a fornire prestazioni in rete. A maggior ragione in un sistema confederale, in cui le risorse vengono fornite dai Cantoni, a volte anche dai Comuni. In seguito alla guerra d’Ucraina, il dipartimento federale della Difesa ha rivalutato le fondamenta della politica di sviluppo delle Forze armate a medio-lungo termine. Il 24 novembre 2021, il Consiglio federale aveva licenziato un rapporto sulla politica di sicurezza, defnendo le linee direttrici dell’orientamento futuro dei militari. Il 7 settembre 2022, ne è stata pubblicata una versione complementare che afferma la necessità di accelerare la modernizzazione dei mezzi e delle capacità, integrando in modo permanente le prime lezioni tratte dal confitto. Inoltre, il documento ha stabilito che la politica di sicurezza e difesa della Svizzera si deve orientare in maniera più consistente verso la cooperazione internazionale. La guerra ha confermato linee già precedentemente avviate. Ha evidenziato che è divenuto urgente agire e adattarsi al deterioramento della situazione securitaria europea. E ha manifestato l’importanza di sviluppare capacità difensive permanenti. In Svizzera, la difesa ha sempre costituito la missione principale dei militari, che non sono stati fortemente orientati, contrariamente ad altri paesi europei, verso le operazioni all’estero. Tuttavia, oggi difesa e aggressione hanno defnizioni più ampie che in passato. Un attacco armato non richiede necessariamente mezzi militari classici. Ciò che impone una maggiore ampiezza dei mezzi e una nuova fessibilità delle formazioni militari. Queste ultime devono essere in grado di svolgere prestazioni diverse, in parallelo e negli stessi spazi. In particolare: aiutare, proteggere e combattere. Devono adattarsi a potenziali e progressivi peggioramenti degli scenari in cui sono chiamate a intervenire. Devono essere capaci di passare, senza quasi soluzione di continuità, da un tipo di impiego a un altro: dalle attività al di sotto della soglia della guerra a quelle sussidiarie, fno a un ingaggio di difesa. Spetta alla politica stabilire se le Forze armate saranno coinvolte a titolo ausiliario a sostegno delle autorità civili in un confitto ibrido oppure nella loro funzione originale: la difesa. Determinante è l’ampiezza del pericolo: se l’intensità e l’esten-

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sione di quest’ultimo sono tali da minacciare l’integrità territoriale, la popolazione o l’esercizio dell’autorità statale e se tale pericolo non può essere respinto che con mezzi militari, allora le Forze armate potranno essere impiegate attivamente. Il rapporto del 24 agosto 2016 del Consiglio federale sulla politica di sicurezza prendeva atto di questa realtà, notando che il ricorso (o la minaccia del ricorso) alla forza per imporre interessi politici ed economici è un fatto ovunque nel mondo, anche in Europa. Il documento ricordava che la decisione di impiegare le Forze armate per scopi difensivi o a titolo ausiliario incombe sul Consiglio federale e sul parlamento. Dunque, ciò che oggi costituisce un attacco è oggetto di una valutazione e di una decisione politica. Se la Svizzera dovesse essere attaccata, una cosa sarebbe certa: gli obblighi giuridici derivanti dal diritto della neutralità decadrebbero. Berna sarebbe allora libera di organizzare la propria difensa con i vicini o di cooperare con un’alleanza come la Nato. Ma una tale collaborazione non è possibile se le Forze armate non si possono dotare di capacità tecniche interoperabili. Allo stesso modo, nessuno si impegnerà in una cooperazione con la Svizzera se il fardello sarà tutto a proprio carico. Per Berna si tratta dunque di continuare a sviluppare i propri strumenti per essere in grado di fornire le prestazioni richieste. 3. Se le Forze armate devono poter affrontare una moltitudine di potenziali minacce, devono disporre di capacità lungo tutto lo spettro bellico. È solo con mezzi ampi ed equilibrati che esse possono completare gli altri strumenti della politica di sicurezza. Devono rispondere a bisogni nazionali, ma anche offrire un proflo attrattivo nel caso in cui gli eventi impongano cooperazioni più approfondite. Le Forze armate richiedono capacità terrestri, aeree, cibernetiche, elettromagnetiche, spaziali e d’intelligence. I requisiti evolvono nel tempo e tenendo conto delle evoluzioni tecnologiche, che viaggiano a velocità formidabili. Le truppe di terra devono essere equipaggiate con sistemi più leggeri, mobili e polivalenti. L’acquisizione di 36 F-35A e di cinque batterie missilistiche Patriot non solo rimpiazzano i sistemi esistenti, ma estendono la capacità della difesa aerea. Le operazioni cibernetiche fanno parte dello scenario di qualunque confitto. Si tratta di essere in grado di tenere il passo, attraverso sia l’acquisizione degli strumenti appropriati sia la disponibilità di specialisti competenti. Sono state prese molte misure, come lo sviluppo di un comando cibernetico o lo sviluppo di formazioni apposite in seno a battaglioni cibernetici. È uno sforzo di lungo periodo e implicherà investimenti costanti nei prossimi anni. Dall’aggressione dell’Ucraina, la capacità difensiva delle Forze armate ha innescato un dibattito più ampio. Dopo anni diffcili per i bilanci, in particolare per le spese militari, è stato deciso di aumentare gli stanziamenti per le Forze armate e di investire nella politica di sicurezza. A inizio anno, il Consiglio federale ha chiesto al parlamento di incrementare il bilancio militare da 21,1 a 21,7 miliardi di franchi (somma quasi equivalente in euro) per il periodo 2021-24. Ha inoltre proposto crediti fno a 1,9 miliardi. Questi fondi supplementari permetteranno di acquistare

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granatieri corazzati e munizioni per le truppe di terra, così come di allargare le capacità del nuovo sistema Patriot. Anche la ciberdifesa sarà rafforzata. In questo modo, aumenterà la durevolezza delle Forze armate.

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4. La Svizzera resta un paese neutrale, ma la sua neutralità non è mai stata un fne in sé, bensì uno strumento per difendere interessi fondamentali come la sua indipendenza e la sua sicurezza, in conformità con i suoi valori. Il cuore della neutralità consiste nel non sostenere militarmente una parte coinvolta in un confitto armato. Ciò comporta anche non mettere il territorio elvetico a disposizione di terzi in caso di guerra, non aderire ad alleanze militari con obbligo di mutua assistenza e non creare dipendenze che comportino di fatto obblighi equivalenti. La Svizzera ha l’ambizione e l’intenzione di organizzare, nei limiti del possibile, la propria difesa in maniera autonoma. Non si può determinare in anticipo se sarà sempre possibile. Per poter organizzare la propria difesa assieme ad altri partner, la precondizione è che le Forze armate siano interoperabili. Già oggi Berna coopera con eserciti stranieri, in particolare con quelli dei paesi vicini e di organizzazioni internazionali come la Nato e l’Ue, per sostenere le proprie capacità e per condividere la propria esperienza. Questa attività si sviluppa attorno ai seguenti assi: formazione e sviluppo delle Forze armate, armamento, promozione militare della pace, aiuto in caso di catastrof. In questi anni si è aggiunta anche la cooperazione in campo cibernetico. La Svizzera partecipa al Partenariato per la pace (Ppp) dal 1996. È un programma di cooperazione bilaterale tra la Nato e paesi euro-atlantici. Permette a questi ultimi di sviluppare una relazione individuale con l’Alleanza, fssando le rispettive priorità. I bisogni e gli interessi reciproci sono coordinati nel quadro di processi stabiliti. La Svizzera considera il Ppp come uno strumento che permette di collaborare puntualmente con gli Stati che formano il suo intorno geografco e in funzione di interessi specifci, ma anche di contribuire alla stabilità e alla sicurezza dello stesso ambiente, come dimostra la partecipazione elvetica alla Kfor in Kosovo. La Svizzera vuole rafforzare la cooperazione là dov’è utile per la propria sicurezza e dove può fornire un apporto concreto. È compatibile con la neutralità ogni attività che non comporti automatismi di difesa comune, in virtù di accordi giuridici o di obblighi materiali. L’interoperabilità delle norme, delle procedure, dei concetti e dei sistemi comuni permette di lavorare con altri eserciti, ma non è un prerequisito. Le restrizioni legate al sistema nazionale di milizia limitano però alcune forme di cooperazione. Nel concreto, fnora solo le unità professionali – le forze aeree, le truppe speciali o la polizia militare – ne hanno profttato, per esempio partecipando a esercitazioni. Si tratta ora di rendere tali vantaggi accessibili all’insieme dell’esercito di milizia. Alcune capacità essenziali possono essere sviluppate e trattenute soltanto nel quadro di scambi internazionali. Sono in corso rifessioni su come permettere tutto ciò, non scontato in un sistema di milizia il quale prevede che la formazione all’estero avvenga su base volontaria.

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Altri strumenti della politica di sicurezza dovranno ugualmente godere di maggiori occasioni di cooperazione. La protezione della popolazione può partecipare al meccanismo civile dell’Ue che coordina la risposta alle catastrof naturali o di origine umana. Esiste un potenziale anche nel rinforzo delle capacità di resistenza, nei sistemi d’allerta e di comunicazione, nella formazione, nelle esercitazioni, nell’intervento e nella rigenerazione. Lo sviluppo di alcune capacità potrebbe facilitare la cooperazione. L’acquisizione degli F-35 è illustrativa in tal senso: sistemi identici o interoperabili semplifcano la formazione e, al bisogno, operazioni in comune. 5. Nessun paese è in grado di rispondere da solo a tutte le minacce. La proliferazione di missili balistici rappresenta una minaccia crescente per la popolazione e il territorio svizzeri, come per tutta la Nato. Molti Stati ai confni dell’Alleanza possiedono già queste capacità o le stanno per acquisire. La Svizzera, in funzione della propria posizione geografca, benefcia della difesa antimissile della Nato, della sua deterrenza (anche nucleare), della sua capacità di difendersi e di proiettarsi lontano dal cuore dell’Europa. In certe situazioni, Berna ha bisogno dei mezzi e del sostegno di un partner forte, come in caso di evacuazione di cittadini da zone di crisi. Dal punto di vista della cooperazione, la Nato è semplicemente inaggirabile. Il quadro fornito dal Ppp risponde ai bisogni della Svizzera. Oggi non è necessario che Berna istituzionalizzi la cooperazione con l’Alleanza. Lo sviluppo di questa attività risponde a obiettivi solo più ambiziosi che in passato, anche se gli ambiti restano gli stessi (interoperabilità, formazione, esercitazioni, operazioni). Svizzera e Nato hanno fssato questi obiettivi per gli anni 2023 e 2024 in un documento giuridicamente non vincolante, chiamato Individually Tailored Partnership Programme (Itpp). La sua conclusione contribuisce a concretizzare l’intento del Consiglio federale di rafforzare la cooperazione internazionale nella politica di sicurezza. La Svizzera ha facoltà di aumentare le proprie partecipazioni, secondo bisogni individuati a livello nazionale. Bisogna dotarsi dei mezzi per farlo. Sarà inoltre possibile sviluppare ulteriormente la partecipazione a esercitazioni, anche nell’ambito della difesa, se ci sarà la volontà politica di farlo. La guerra d’Ucraina mostra d’altronde la pertinenza di norme e procedure armonizzate con la Nato. È ciò che permette un solido sostegno da parte dell’Alleanza. La cooperazione con la Nato è dunque ben fondata, tanto a livello istituzionale quanto a livello operativo. È inoltre oggetto di costanti adattamenti. Il quadro attuale permette però un ulteriore sviluppo quantitativo e qualitativo, nell’ambito del Ppp. Gli attuali limiti la Svizzera se li è di fatto autoimposti e li sta riesaminando. Al tempo stesso Berna approfondisce la cooperazione con l’Ue secondo la medesima logica. 6. La Svizzera intrattiene forti legami con i paesi vicini, per attività di formazione e operative. Questa cooperazione poggia su svariate intese, come gli accordi quadro sull’istruzione, il servizio transfrontaliero di polizia aerea o gli ac-

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cordi per la protezione delle informazioni. Berna ne ha strette con Italia, Francia, Germania e Austria. La Svizzera e l’Italia intrattengono una collaborazione di lunga data e molto variegata in materia di politica di sicurezza. Nell’ambito della formazione, cooperano a livello di forze speciali e servizi di montagna. Le rispettive forze aeree organizzano sempre più esercitazioni comuni nel quadro del servizio di polizia aerea e del combattimento nei cieli. Inoltre, un addestramento di grande portata si è svolto per la seconda volta nel 2022 nella regione del Ticino e del Nord Italia e ha riguardato l’aiuto transfrontaliero in caso di catastrofe. La cooperazione d’ingaggio si concretizza invece nel quadro della sorveglianza dello spazio aereo, ma anche in caso di disastri o grandi incidenti a cavallo del confne. Mentre avviene in misura minore nel campo della promozione della pace, essenzialmente in ambito Kfor. L’acquisizione svizzera degli F-35 apre altri spazi di lavoro con l’Italia. È possibile che nei prossimi anni le cooperazioni già istituite si intensifchino in maniera sostanziale. Dinamiche simili sono in corso anche con gli altri vicini. La Svizzera s’impegna da tempo, al fanco dei suoi partner, nella promozione civile e militare della pace. Sostiene la stabilità delle regioni toccate dalla guerra e dalle crisi. Mostra così di volere e di potere dare il proprio contributo. È impegnata in maniera sostanziale da diversi anni nei Balcani occidentali, in particolare in Bosnia-Erzegovina e in Kosovo. Ritiene la stabilità di questa regione fondamentale per garantire la sicurezza dell’Europa intera. Le missioni Kfor ed Eufor Althea continuano a svolgere un ruolo chiave di fronte alle accresciute tensioni locali. Nessuno può permettersi un confitto armato nel continente, né di lasciare che la Russia estenda la propria infuenza nei Balcani per destabilizzarli. Su raccomandazione del governo, il parlamento ha prolungato il mandato del proprio contingente di Kfor fno al 2026. E ha anche ordinato all’esecutivo di aumentare le truppe per rispondere ai bisogni della missione, probabilmente crescenti. L’obiettivo è di alleviare il fardello di alcuni partner, occupati in altri confitti.

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7. La Svizzera coopera in materia di politica di sicurezza a livello internazionale da tempo. Ma desidera accelerare signifcativamente quest’agenda da quando la Russia ha invaso l’Ucraina. Sempre nel rispetto della propria neutralità. Opta dunque in maniera decisa per una cooperazione più sistematica e più estesa, in particolare con la Nato e con i vicini, fra cui l’Italia. Il tutto seguendo una medesima logica. Una simile cooperazione presuppone fducia e volontà fra tutte le parti. La posizione della Svizzera nel contesto dell’aggressione russa e il suo sostegno all’Ucraina sono essenziali. Il suo operato è attentamente registrato all’estero e infuenza la volontà di alcuni Stati di cooperare. È forza constatare che la comprensione verso il «caso particolare» svizzero è diminuita agli occhi dei nostri partner chiave. Da Berna ci si attende che si renda conto del cambio di epoca in corso e delle sue conseguenze. I soci della Svizzera sono soddisfatti dei suoi contributi umanitari o nello sminamento, ma si aspettano una solidarietà sostanziale e durevole verso Kiev, vittima di una guerra d’aggressione.

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Malgrado tutte le sue peculiarità, la Svizzera è un paese profondamente europeo in termini di valori, legato ai suoi partner dal suo attaccamento alla democrazia, alla libertà, allo Stato di diritto, ai diritti dell’uomo e al diritto internazionale. Questi valori sono in gioco nel sostegno all’Ucraina. Se Berna viene percepita come egoista e opportunista, rischia di non poter contare sull’aiuto dei suoi soci, qualora si rivelasse necessario. Si tratta dunque di essere coscienti che nulla va dato per scontato e di restare attenti ai cambiamenti che si succedono a ritmi senza precedenti. La guerra in Ucraina ha comportato discussioni intense fra la popolazione e in parlamento. Riguardano essenzialmente il posizionamento della Svizzera nel confitto, in guerre future e fn dove può arrivare la solidarietà verso Kiev di fronte alla defnizione odierna della neutralità. Le posizioni evolvono. Anche su questioni come la riesportazione di materiale bellico di cui si è appropriato il parlamento. (traduzione di Federico Petroni)

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NEUTRALI PER VOCAZIONE E PER SCELTA

REGAZZONI La neutralità è un mezzo, non un fine. A un tempo politica e tratto identitario, si nutre di princìpi e convenienze. Il dibattito suscitato dalla guerra ucraina e dall’espansione della Nato. I rischi del neutralismo integrale. Prima viene la sicurezza. di Bernardino

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1. INO A UN PAIO DI ANNI FA LA QUESTIONE della neutralità svizzera poteva sembrare, soprattutto all’occhio distratto dell’osservatore esterno, una curiosità. Sul fronte domestico è stata invece sempre ben presente soprattutto come elemento identitario, malgrado le molte accezioni che lo svizzero medio può attribuirle, spesso in base alla propria sensibilità politica. La guerra ucraina ha ridato attualità al dibattito, tutt’altro che consensuale, intorno alla neutralità. Sul piano interno, diverse voci si sono interrogate sul suo senso di fronte all’aggressione russa. Sul piano esterno, paesi tradizionalmente amici – non si può dire alleati, trattandosi di uno Stato neutrale – hanno espresso crescente fastidio per le conseguenze che l’interpretazione rigida della neutralità da parte svizzera ha sulla loro libertà di riesportare materiale bellico di produzione elvetica verso l’Ucraina. Interrogando un campione ideale di cittadini svizzeri, nove su dieci si direbbero favorevoli alla neutralità. Interrogandoli sul contenuto della nozione, molto probabilmente si otterrebbero dieci risposte diverse. Da qui l’utilità di analizzare il signifcato del concetto. Nel discorso del governo svizzero la neutralità è al contempo nozione di diritto internazionale e politica che la mette in pratica. Tale politica può molto variare ed è molto variata in base alle circostanze storiche. Essa – ed è forse l’elemento più importante – costituisce un forte tratto identitario, un mito fondante (non l’unico), in quanto tale sottratto alla temporalità. Un nodo intricato, mettendo le mani al quale c’è poco da guadagnare, soprattutto sul piano del consenso politico. Destra e sinistra, per isolazionismo l’una o per pacifsmo l’altra, fanno della neutralità una bandiera. Il movimento Azione per una Svizzera neutrale e indipendente, nato nel 1986 per opporsi all’adesione alle Nazioni Unite (avvenuta nel 2002) e per anni punta di diamante della destra populista, defnisce la neutralità

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come «libera rinuncia a una politica estera di potere» 1. Il Partito socialista si richiama a una «neutralità attiva» nella promozione della pace 2. I partiti di centro fanno anch’essi riferimento alla neutralità nei loro programmi, né potrebbe essere altrimenti vista la valenza identitaria del concetto. La costituzione federale non fa riferimento alla neutralità come fne, ma come mezzo. La sua salvaguardia compare due volte nel testo, tra i compiti del parlamento (art. 173) e del governo (art. 185). Volutamente non fgura tra gli obiettivi della Confederazione o tra i princìpi di politica estera; essa rappresenta uno strumento al servizio della sicurezza. Il comitato d’iniziativa Pro Svizzera, legato alla destra nazionalista, ha lanciato nel 2022 una raccolta di frme per pervenire a un voto popolare che modifchi la costituzione rendendo la neutralità un fne in sé, assoluto e a-temporale 3. Il dibattito si annuncia molto vivace. Anche senza arrivare a tali estremi, che azzererebbero il margine di manovra del governo in caso (ad esempio) di sanzioni internazionali, la discussione è assai intricata. Il livello giuridico, quello politico e quello identitario vi si intrecciano in permanenza. Conviene provare a districarli, iniziando da categorie giuridiche. 2. Sconosciute ai più, anche in Svizzera, le convenzioni concernenti i diritti e i doveri delle potenze neutrali in caso di guerra terrestre o marittima, concluse nel 1907 all’Aia, costituiscono la base giuridica della neutralità svizzera. Dal punto di vista storico, il Congresso di Vienna (1815) ha sancito la neutralità permanente della Svizzera, Stato cuscinetto tra le potenze della Restaurazione. La genealogia che la fa risalire alla battaglia di Marignano (1515) non regge all’esame della storia: è una delle numerose costruzioni a posteriori che hanno caratterizzato in frangenti diversi la storiografa della Svizzera, proiettando sul passato concezioni o miti che rispondevano ai bisogni politici del momento 4. La Pace perpetua (1516) costituì infatti un’alleanza militare tra Svizzera e Francia, durata quasi tre secoli 5. Le convenzioni dell’Aia sono un testo dal linguaggio che suona datato. Diritti e doveri dello Stato neutrale vi sono defniti in modo sommario. Il diritto all’inviolabilità del territorio (art. 1), riconosciuto dalla trentina di Stati frmatari, fa da contraltare all’obbligo di astenersi dal partecipare alla guerra o dal mettere il proprio territorio a disposizione dei belligeranti. L’esportazione di materiale bellico è consentita, a condizione dell’uguaglianza di trattamento dei belligeranti (artt. 7 e 9). Tutto qua. Dal punto di vista giuridico, osservatori accorti hanno fatto notare un certo anacronismo nel richiamare un testo risalente a un’epoca – antecedente la

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1. Il movimento si è fuso nel 2022 con altri movimenti contrari all’Unione Europea, creando la piattaforma EU-No. 2. «Une politique de paix et de sécurité fondée sur la neutralité active», Partito socialista svizzero, 6/9/2022. 3. «Iniziativa popolare federale “Salvaguardia della neutralità svizzera (Iniziativa sulla neutralità)”», Cancelleria federale. 4. D. MASMEJAN, «La neutralité née après Marignan? “Un anachronisme”», Le Temps, 11/9/2015. 5. A. DAFFLON, L. DORTHE, C. GANTET (a cura di), «Après Marignan, La paix perpétuelle entre la France et la Suisse – Actes des colloques de Paris 27/6/2016 et Fribourg 30/11/2016», Fribourg 2018, Société d’histoire de la Suisse romande.

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prima guerra mondiale – in cui l’enorme sviluppo del diritto internazionale a partire dalla Carta dell’Onu era ancora di là da venire 6. L’obbligo di astenersi dall’uso della forza (art. 2 della Carta) e il diritto all’autodifesa e alla difesa collettiva (art. 51) costituirebbero il superamento del diritto alla neutralità proprio degli imperi europei d’inizio Novecento, rifesso nelle convenzioni dell’Aia. Non è però la posizione del governo svizzero, che fortunatamente distingue tra diritto della neutralità e politica della neutralità. Quest’ultima riguarda l’attuazione della neutralità, esplicitamente fatta dipendere dall’analisi della contingenza internazionale 7. Nel corso del XX secolo la Svizzera ha così applicato la neutralità in modo assai differenziato. In materia di sanzioni, a partire dall’inizio degli anni Cinquanta (su pressione americana) adottò le sanzioni della Nato verso il blocco comunista 8. Alla fne della guerra fredda e anche prima della sua adesione all’Onu, Berna adottò quelle contro l’Iraq, la ex Jugoslavia e la Libia. Dall’adesione, essa è ovviamente tenuta ad applicare le sanzioni decretate dal Consiglio di Sicurezza. Ha anche adottato diversi regimi sanzionatori dell’Unione Europea, in primo luogo quelli contro la Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. Anche sotto il proflo del diritto della neutralità, non tutto è stato sempre cristallino. Durante la seconda guerra mondiale il commercio di materiale bellico con le potenze dell’Asse fu dieci volte superiore rispetto a quello con gli Alleati, anche se quantitativamente modesto 9. La Svizzera include volentieri i «buoni uffci» (promozione della pace) e l’azione umanitaria tra le politiche volte a dare credibilità alla propria neutralità. In senso stretto i buoni uffci non costituiscono tuttavia una prerogativa dei paesi neutrali, né questi ottengono necessariamente migliori risultati in attività di promozione della pace rispetto a paesi membri di alleanze. La scelta di Ginevra quale sede delle Nazioni Unite nel 1945 (e prima, nel 1920, della Società delle Nazioni) è messa sul conto della neutralità svizzera. Pure a essa è attribuito il fatto che gli Stati Uniti abbiano incaricato dal 1980 la Svizzera di rappresentarne gli interessi verso l’Iran. Il caso della Norvegia, membro fondatore della Nato, è l’esempio a contrario di un paese non neutrale che conduce con successo da decenni una politica di promozione della pace. Quanto all’azione umanitaria, lo specifco riguarda innanzitutto il ruolo svolto nella creazione del Comitato internazionale della Croce Rossa, a opera dello svizzero Henri Dunant, con sede a Ginevra. A partire da ciò, un’enfasi particolare è posta dalla Svizzera sulla difesa e sullo sviluppo del diritto internazionale umanitario (le convenzioni di Ginevra, di cui è Stato depositario). La neutralità svizzera non è però da confondere con l’equidistanza. Durante la seconda guerra mondiale 6. T. COTTIER, «Die Würde des Menschen steht im Mittelpunkt», Neue Zürcher Zeitung, 23/6/2023; M. JORIO, «Der Bundesrat hält stur an einer exzessiven Neutralität fest», Tages Anzeiger, 25/3/2023. 7. «Neutralità», Dipartimento federale degli Affari esteri. 8. N. BOTTANI, «Svizzera e sanzioni? La neutralità non è uno scudo magico, non siamo un’isola», Corriere del Ticino, 30/4/2022. 9. T. MAISSEN, La Svizzera, storia di una federazione, Trieste 2015, Beit, p. 306. Il doloroso capitolo della storia svizzera durante la seconda guerra mondiale è stato indagato in maniera approfondita dalla Commissione indipendente d’esperti creata dal parlamento svizzero nel 1996, che ha pubblicato i suoi rapporti tra il 1997 e il 2002.

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la volontà di opporsi a un’eventuale invasione da parte dell’Asse fu molto radicata, mentre durante la guerra fredda la comunanza di valori poneva la Svizzera decisamente nel campo occidentale. Forze armate effcienti sono il necessario corollario della neutralità. 3. In seguito all’aggressione russa dell’Ucraina, la Svizzera ha adottato le sanzioni dell’Ue verso Mosca. L’attacco russo ha anche dato luogo a un acceso dibattito interno sulla neutralità. Ci si domanda se nell’odierna realtà europea e globale essa sia ancora lo strumento più adatto a garantire la sicurezza del paese. Insistenti sono poi le richieste internazionali affnché la Svizzera partecipi direttamente o indirettamente allo sforzo di armamento dell’Ucraina. Non solo i vicini (a eccezione dell’Austria), ma dopo l’adesione di Finlandia e Svezia quasi tutto il continente europeo è parte della Nato. Ciò contribuisce in maniera ormai decisiva alla sicurezza del paese; la natura della minaccia alla quale è esposto appare largamente simile a quella degli altri paesi europei. La domanda di poter riesportare verso l’Ucraina materiale bellico di fabbricazione svizzera è stata insistente soprattutto da parte di Germania, Spagna e Danimarca. Il Consiglio federale, nonostante riconosca il nuovo contesto di sicurezza creato dall’attacco russo 10, ha rifutato di modifcare la legge sull’esportazione di materiale bellico, preferendo mantenere un’interpretazione rigida della neutralità 11. Al prezzo di creare incomprensione presso i partner europei, direttamente o indirettamente garanti della sua sicurezza. Una situazione riconosciuta dallo stesso Consiglio federale 12. L’adozione svizzera delle sanzioni europee alla Russia ha comunque spinto quest’ultima a inserire la Confederazione Elvetica tra i paesi ostili (unfriendly) 13, mostrando di tenere in poco conto la neutralità. Cambiamenti profondi nel contesto geopolitico, incomprensione crescente per la neutralità da parte dei paesi amici: tutto ciò prelude a una Svizzera non più neutrale? Nulla di meno certo. Tale conclusione ignorerebbe infatti l’attaccamento identitario degli Svizzeri alla neutralità. Essere passati indenni attraverso due confitti mondiali, quale ne sia stato il prezzo, è un’esperienza collettiva che infuenza ancora fortemente la politica estera del popolo svizzero 14. Il governo elvetico riconosce a giusto titolo che la guerra in Ucraina «evidenzia la necessità di intensifcare la cooperazione con le organizzazioni internazionali di sicurezza, in particolare

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10. «Zusatzbericht des Bundesrates zum Sicherheitspolitischen Bericht 2021 über die Folgen des Krieges in der Ukraine», Consiglio federale, 7/9/2022. 11. L’iniziativa parlamentare del presidente del Partito liberale radicale Thierry Burkart, volta ad abolire il divieto di riesportare materiale bellico verso paesi con gli stessi valori, è stata respinta da governo e parlamento. 12. «Certains partenaires de la Suisse ne perçoivent plus sa neutralité comme une contribution à la stabilité sur le continent», Stratégie de politique extérieure 2024-2027, 29/9/2023, pp. 4 e 40. Uno dei grandi perdenti di questa decisione è l’industria svizzera degli armamenti, i cui clienti europei saranno in futuro scoraggiati dalle limitazioni alla riesportazione. 13. «Russian government approves list of unfriendly countries and territories», Tass, 7/3/2022. 14. S. ZALA, «La neutralità ha assunto un signifcato quasi religioso, poiché pretende di spiegare lo “scudo magico” in due guerre mondiali», Blick, 30/7/2023.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

con la Nato» 15. A tale proposito evoca la possibilità di rafforzare l’interoperabilità o la partecipazione a esercitazioni, escludendo però l’adesione e la rinuncia alla neutralità  16. Il governo ha pure aderito recentemente alla European Sky Shield Initiative, che mira a coordinare i sistemi di difesa aerea tra 19 paesi europei. A tali posizioni si oppone la destra nazionalista, che ha la maggioranza relativa in uno dei due rami del parlamento federale. La questione della neutralità va comunque ben oltre l’ambito della sicurezza. Una fetta dell’opinione pubblica coltiva un’immagine della neutralità come «proflo basso» in politica estera (salvo contro l’Ue), la quale dovrebbe concentrarsi sulla cura esclusiva degli interessi economici. Concezioni che nulla hanno a che fare con la dottrina e con la politica della neutralità, ma che esercitano un peso considerevole. I buoni uffci e l’umanitario svolgono presso tali strati una funzione largamente indipendente rispetto alle attività di politica estera esercitate dalla Svizzera. Una sorta di asso pigliatutto per dimostrare la necessità di astenersi da nette prese di posizione. Secondo tale sensibilità politica, la Svizzera avrebbe vocazione a mediare pressoché in tutti i confitti, compreso quello tra Russia e Ucraina. A sinistra invece, la vena pacifsta porta spesso ad associare neutralità e promozione civile della pace, a scapito della hard security e delle spese militari (abbondantemente inferiori all’1% del pil). La neutralità svizzera, si tratti della pratica governativa o di tutto ciò che ognuno associa all’etichetta, sembra avere ancora un bel futuro davanti a sé. L’iniziativa popolare volta a introdurre la neutralità integrale  17 rischierebbe tuttavia di scompaginare il tendenziale pragmatismo con cui il governo ha fnora applicato la dottrina della neutralità, cancellando ogni margine di manovra. C’è da augurarsi che il dibattito referendario serva a dare risposta alla domanda se la neutralità sia ancora uno strumento atto a garantire la sicurezza del paese. O almeno a districare e a razionalizzare gli elementi spesso disparati che nel senso comune vanno sotto l’etichetta generica di «neutralità». Soprattutto, c’è da augurarsi cha tali auspici non siano troppo ambiziosi.

15. «Zusatzbericht des Bundesrates zum Sicherheitspolitischen Bericht 2021 über die Folgen des Krieges in der Ukraine», Consiglio federale, 7/9/2022, p. 18. 16. Ivi, p. 21. 17. La raccolta frme termina nel maggio 2024. Un sondaggio pone il No in leggero vantaggio, ma non presso i giovani. Cfr. «Die Schweiz und der Ukraine Krieg: Ein Jahr Krieg. So denkt die Schweiz», Sotomo, p. 22.

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Il dilemma delle sanzioni a cura di Pietro

MEINERI

Mentre il cancelliere tedesco Olaf Scholz annunciava la Zeitenwende, la svolta (riarmo, rescissione dei rapporti energetici con la Russia) in seguito all’invasione dell’Ucraina, un’altra svolta andava maturando in Svizzera: una radicale riconfgurazione dell’approccio elvetico alle sanzioni internazionali. La svolta è avvenuta nel volgere di pochi giorni. Il 21 febbraio la Russia riconosce l’indipendenza delle Repubbliche di Donec’k e Luhans’k. Il 24 febbraio l’esercito russo inizia l’invasione su larga scala del territorio ucraino. Stati Uniti e Unione Europea adottano a stretto giro sanzioni senza precedenti, a complemento di quelle già comminate dal 2014 dopo l’annessione della Crimea e l’inizio degli scontri nel Donbas. La Svizzera partiva da presupposti radicalmente diversi. Nel periodo successivo al 2014 non aveva adottato sanzioni equivalenti a quelle di altri attori occidentali, limitandosi a introdurre una normativa per fronteggiare condotte elusive delle sanzioni europee. Il principio di neutralità e i tentativi di accreditarsi mediatore si ponevano come ostacolo. Proprio a Ginevra, nel giugno 2021, Joe Biden e Vladimir Putin si erano incontrati di persona, unica volta da quando Biden è presidente. L’atteggiamento svizzero rifetteva profonde interconnessioni economiche, in primis il tradizionale ruolo della piazza fnanziaria elvetica quale custode di fondi stranieri. All’inizio del 2022 si stimava che i fondi russi in Svizzera fossero tra 150 e 200 miliardi di franchi (circa 214 miliardi di dollari) 1. Meno noto ma altrettanto cruciale il ruolo svizzero nel mercato delle materie prime: secondo un rapporto del 2021, circa l’80% delle materie prime russe veniva commercializzato tramite società di trading con sede in Svizzera 2. Il 24 febbraio 2022 il presidente della Confederazione, Ignazio Cassis, anticipa misure che appaiono troppo timide, quali il divieto d’ingresso per gli individui sanzionati dall’Ue e il divieto di accettare nuovi fondi a essi riconducibili. In quella fase la Svizzera non intende nemmeno considerare un blocco di fondi già depositati in Svizzera 3. L’atteggiamento di Berna solleva un coro di critiche: il portavoce dell’Ue per gli Affari esteri Peter Stano invita la Svizzera a fare molto di più e voci dissenzienti emergono anche nel panorama politico elvetico. I vertici svizzeri sembrano tenere la linea: il 25 febbraio Cassis ribadisce che un’adozione automatica

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1. «Russian clients have up to CHF200 billion in Swiss banks», Swiss Info, 15/3/2022; S. GERBER, «Russen-Vermögen: Eine Zahl mit Sprengkraft», Finews, 2/5/2022. Leggermente minori altre stime: H. SCHÖCHLI, «Swiss banks likely hold as much as $160 billion in Russian assets», Neue Zürcher Zeitung, 2/3/2022. 2. H. SCHÖCHLI, op. cit.; «Switzerland keeps profting from Russian oil and gas», DW, 21/3/2022. 3. B. RIGENDINGER, S. BONDOLFI, «Switzerland faces pressure to toughen sanctions on Russia», Swiss Info, 26/2/2022.

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delle sanzioni europee minerebbe la credibilità della Svizzera nell’esercizio del suo ruolo di mediazione. La svolta si palesa il 28 febbraio. Il Consiglio federale in seduta straordinaria decide di «riprendere» le sanzioni dell’Unione Europea. La neutralità non è dimenticata: Cassis la richiama espressamente, dichiarando che fare il gioco dell’aggressore è incompatibile con essa. La necessaria base giuridica è già presente nella legislazione svizzera: la norma sugli embarghi del 2002 consente alla Confederazione di applicare le sanzioni dell’Onu, dell’Osce e dei principali partner commerciali, tra cui i paesi dell’Ue. Il 4 marzo viene pubblicata l’ordinanza contenente «provvedimenti in relazione alla situazione in Ucraina»: frequentemente aggiornata per adattarsi ai successivi pacchetti sanzionatori europei, costituisce la base delle sanzioni svizzere. Nella normativa svizzera si distinguono sanzioni fnanziarie e sanzioni commerciali-settoriali. Tra le prime fgurano il congelamento di averi e risorse economiche riconducibili a individui ed enti espressamente sanzionati, con contestuale obbligo per le banche di segnalare tempestivamente alla segreteria di Stato dell’economia (Seco). La lista dei destinatari è cresciuta sino a includere circa 2.400 nominativi. Le misure fnanziarie non hanno colpito solo gli «oligarchi» o altri soggetti espressamente sanzionati: includono anche un divieto generale per le banche di accettare depositi oltre i 100 mila franchi da parte di cittadini russi (con deroghe per casi di doppia cittadinanza/residenza in Svizzera o in altri paesi dell’Ue). Tra le sanzioni commerciali troviamo i divieti di importazione e/o esportazione (e attività correlate) che concernono un novero crescente di beni: a uso duale civile-militare, classifcati come importanti per l’economia della Russia (per colpirne le esportazioni e privarla delle relative entrate), di lusso (per escludere dal mercato russo i beni occidentali). La Svizzera ha inoltre aderito al price cap sul petrolio: scelta non banale, considerata quanta parte del greggio russo passava dalle società di trading svizzere. Dato il tradizionale ruolo della Svizzera come fornitore di servizi professionali e fnanziari, assume particolare rilievo anche il corpo di sanzioni che vieta l’offerta di un’ampia gamma di servizi a imprese russe, tra cui le gestioni fduciarie (trust), la revisione contabile e la consulenza legale. Le sanzioni dell’Ue specifcano espressamente il loro ambito di applicazione, estendendolo a ogni attività compiuta da soggetti di diritto dell’Unione Europea anche fuori dal suo territorio. Al contrario, le sanzioni svizzere sono soggette al tradizionale principio di territorialità e disciplinano solo le attività compiute in Svizzera. Ne consegue, per esempio, che un cittadino elvetico residente a Dubai e ivi attivo professionalmente non è vincolato al rispetto delle sanzioni svizzere, a differenza di un italiano nelle medesime condizioni. Questa differenza, in apparenza sottile, è accusata di favorire condotte elusive come quelle dei traders sospettati di rilocazioni opportunistiche in Medio Oriente 4. Si tratta però di un terreno scivoloso: il criterio di territorialità è un principio cardine nei rapporti tra ordinamenti 4. A. DUPARC, R. BACHMANN, M. ABEBE, «Russian oil trade in Switzerland: a fake farewell?», Public Eye, 20/3/2023.

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giuridici. Inoltre, in passato i regolatori europei hanno lamentato le pretese di extraterritorialità di altri regimi sanzionatori, come le sanzioni secondarie americane, talvolta contrastandole con apposite contro-legislazioni. Ancor più controverso è il tema dell’attuazione. I dati disponibili sono pochi e si prestano a letture contrastanti. In un comunicato del 1° dicembre 2022 la segreteria di Stato dell’economia annunciava fondi bloccati per un valore di 7,5 miliardi di franchi 5. A distanza di un anno tale ammontare era salito leggermente, a 7,7 miliardi di franchi  6. A questi vanno aggiunti 7,4 miliardi di franchi della Banca centrale russa, anch’essi bloccati  7. Molti rimarcano tuttavia che i numeri diffusi, sebbene rilevanti, rappresentino una frazione dei fondi russi in Svizzera. Nel maggio 2022 un rapporto della Commission on Security and Cooperation in Europe, agenzia governativa statunitense, censurava il ruolo di professionisti svizzeri nel facilitare pratiche elusive delle sanzioni 8. Le critiche suscitarono le proteste di Cassis al segretario di Stato Blinken 9. Tra le prese di posizioni più eclatanti si segnala quella dell’ambasciatore americano a Berna, Scott Miller. Nell’intervista pubblicata dal quotidiano Neue Zürcher Zeitung il 16 marzo 2023, il diplomatico dichiarava che la Svizzera stava attraversando «la crisi più seria dai tempi della seconda guerra mondiale», confrontandosi con il signifcato di neutralità. E proseguiva: «La Svizzera non può dichiararsi neutrale e consentire a una o a entrambe le parti di sfruttare la legislazione svizzera a proprio vantaggio» 10. Pur rallegrandosi dei fondi congelati, Miller si diceva persuaso che la Confederazione potesse fare di più, bloccando valori aggiuntivi per almeno «50-100 miliardi» di dollari (dalle 7 alle 14 volte più di quanto dichiarato)  11. L’intervista giungeva nel pieno della vicenda di Credit Suisse: il 15 marzo Saudi National Bank dichiarava di non poter sottoscrivere nuovo capitale, portando all’ennesimo e fatale crollo del corso azionario. Nel fne settimana successivo, sotto gli auspici del governo elvetico, si compiva il salvataggio dell’istituto con l’acquisto emergenziale da parte di Ubs. Una vicenda esemplifcativa dell’interconnessione tra piazza fnanziaria svizzera e attori stranieri. Davanti alle accuse il sistema politico e fnanziario svizzero ha teso a compattarsi, sottolineando di aver bloccato più fondi russi rispetto a molti altri paesi e rimarcando che l’attuazione delle sanzioni è stata ostacolata da carenze di esperienza e di organico, specie nella fase iniziale. Nella prospettiva delle banche svizzere, peraltro, le sanzioni non sono una novità: il rispetto di quelle comminate da altre giurisdizioni, soprattutto da Usa e Ue, era una necessità per gli istituti svizzeri con

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5. «Ukraine: Reported deposits and frozen assets in Switzerland», segreteria di Stato per gli Affari economici (Seco), 1/12/2022. 6. J. REVILL, «Swiss have frozen $8.8 billion of Russian assets», Reuters, 1/12/2023. 7. «CHF 7.4 billion of Russian central bank assets held in Switzerland», Seco, 10/5/2023. 8. M. ALLEN, «US commission accuses Switzerland of hiding Russian assets», Swiss Info, 5/5/2022. 9. R. RUF, «Amerikanische Kommission erhebt harte Vorwürfe: “Die Schweiz ist eine führende Helferin des russischen Herrschers Putin”», Luzerner Zeitung, 4/5/2022. 10. G. HÄSLER, T. GAFAFER, «US-Botschafter: “Die Schweiz ist in der schwersten Krise seit dem Zweiten Weltkrieg”», Neue Zürcher Zeitung, 16/3/2023. 11. Ibidem.

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operatività internazionale già in precedenza. Questa circostanza è stata addotta per spiegare perché le banche svizzere abbiano identifcato fondi sanzionati in misura minore alle attese, essendo alcuni asset già coperti da altre misure. Non manca chi vede malafede ed egoismo nelle critiche. Roman Studer, amministratore delegato della Swiss Bankers Association, si è detto convinto che alcune accuse perseguano l’obiettivo di favorire piazze fnanziarie rivali a scapito di quella elvetica 12. Il 14 dicembre il Consiglio europeo ha annunciato un dodicesimo pacchetto di sanzioni: verosimilmente la Svizzera ne valuterà il recepimento nelle prossime settimane. Le misure annunciate, così come gli aggiustamenti di questi ultimi mesi, appaiono tutto sommato minori se confrontate con il complessivo apparato sanzionatorio stratifcatosi nel tempo. Diffcile prevedere se e come i regimi sanzionatori europeo e svizzero possano svilupparsi ulteriormente, soprattutto quando nel mondo occidentale cresce il timore che la situazione politico-militare possa volgere a favore della Russia. Allo stato attuale, è diffcile che emerga un giudizio condiviso sulla politica sanzionatoria della Svizzera. I temi sollevati dai critici, soprattutto stranieri, non sembrano risolti né facilmente risolvibili nel futuro prossimo. Gli sviluppi successivi saranno probabilmente oggetto di negoziati più ampi, estesi anche ad altre partite: dalla tassazione internazionale alla regolamentazione fnanziaria. I dilemmi in materia di sanzioni rifettono questioni centrali per l’identità svizzera, quali i rapporti con l’Unione Europea e con un mondo sempre meno deferente davanti alla sua neutralità.

12. L. HONEGGER, C. EISENRING, «Kritik an Schweiz wegen Oligarchengeldern: “Auf Druckversuche von allen Seiten müssen wir uns leider einstellen”», Neue Zürcher Zeitung, 13/9/2023; «Swiss Bankers Association chief rejects US criticism», Swiss Info, 13/9/2023.

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SVIZZERA E GERMANIA VICINI LONTANI

di Paul R. SEGER

La cooperazione regionale è forte, i rapporti economici solidi, eppure crescono le tensioni. L’impatto di Covid-19 e guerra ucraina. Il nodo dei migranti e le scintille sulla Ue. Il moralismo della siderale Berlino cozza con il pragmatismo elvetico. Puntare su energia e binari.

A

1. VETE FRATELLI? SE SÌ, FORSE CONOSCETE LA situazione in cui il fratello maggiore ama il minore più di quanto il secondo ami il primo. Ecco detto tutto, in sostanza, sul rapporto Germania-Svizzera. Ma se volete saperne di più, vi invito a continuare la lettura. Le relazioni Svizzera-Germania sono molto strette e assai complesse. Esiste un legame intimo, ma in qualche modo ci si sente anche estranei. Spesso i cliché cozzano contro i fatti. Durante il mio incarico di ambasciatore svizzero a Berlino ho fatto esperienza di come l’immagine della Svizzera presso i miei interlocutori tedeschi fosse generalmente positiva, tuttavia stereotipata. Svizzera vuol dire formaggio, mucche, orologi, coltellini tascabili, cioccolata e banche. Si guadagna bene, ma la vita è cara. Il quotidiano funziona alla perfezione, i treni sono puntuali, la carta da riciclare rigorosamente impilata ai bordi delle strade per la raccolta differenziata. Un tedesco non si stupirebbe affatto se da un momento all’altro spuntassero da dietro l’angolo Heidi e Peter: da qualche parte dovranno pur essere. I tedeschi un po’ ci invidiano, noi svizzeri, per questo idillio; al contempo, in alcuni circoli intellettuali e politici, in particolare di sinistra, siamo considerati egoisti e individualisti. Per quanto riguarda l’Europa, rappresentiamo qualcosa di simile al famoso villaggio dei Galli di Asterix che si difende con fermezza contro il dominio romano. In molta pubblicistica, inoltre, la Svizzera è ancora considerata un paradiso fscale e una riserva di conti bancari anonimi, sebbene queste realtà appartengano ormai al passato e la Svizzera pratichi ormai dal 2017 lo scambio automatizzato di informazioni fscali con tutti gli Stati europei. Ma simili cliché sono ormai appiccicati come gomma da masticare alle scarpe e vengono coltivati con cura, quantomeno da alcuni media. Però la Svizzera non intrattiene relazioni così ampie e profonde con nessun altro paese, soprattutto con nessun altro vicino, specie in ambito economico. Con

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un volume di circa cento miliardi di euro all’anno, il commercio con la Germania supera quello con gli altri tre paesi confnanti (Francia, Italia e Austria) messi assieme. Altrettanto impressionanti sono le cifre relative ai servizi e agli investimenti. Ma i rapporti non si limitano all’economia, estendendosi a tutti gli ambiti dell’esistenza: società, cultura, scienza e ricerca, trasporti. Nel 2022 in Germania vivevano quasi 100 mila cittadini svizzeri, mentre in Svizzera si contavano quasi 320 mila tedeschi. Nel 2023 i tedeschi sono subentrati agli italiani quale comunità straniera più numerosa in Svizzera. Oltre ai cittadini tedeschi residenti nella Confederazione, ogni giorno circa 67 mila frontalieri si recano in Svizzera dalle regioni limitrofe tedesche. La Svizzera è allettante per i suoi salari elevati e attrae molta forza lavoro qualifcata dalla Germania, in particolare nella sanità: medici, personale infermieristico. Poiché in Germania vi è carenza di queste fgure, lo stillicidio non è visto bene. Questo però è un aspetto che accomuna i due paesi: anche in Svizzera, infatti, l’affuenza di lavoratori qualifcati tedeschi è recepita in modo critico. Sebbene la prosperità e la crescita economica del paese dipendano dalla manodopera straniera, il costante affusso di stranieri genera reazioni di difesa. Ma i timori svizzeri per le presenze tedesche hanno poco a che fare con le cifre – relativamente alte – dell’immigrazione. Nelle città della Svizzera tedesca, soprattutto a Zurigo, crescono piuttosto le proteste sulla diffcoltà di trovare casa a prezzi accessibili, mentre sul mercato del lavoro si teme la concorrenza dei più economici lavoratori tedeschi. Questi timori, molto reali, spiegano però solo in parte il fenomeno. La reazione di difesa dipende infatti anche da un latente complesso d’inferiorità che molti svizzeri tedeschi nutrono rispetto al più grande vicino. Il complesso inizia dalla lingua. Sebbene il tedesco sia considerato idioma uffciale nazionale assieme al francese, all’italiano e al romancio, gli svizzeri di lingua tedesca parlano tra loro dialetti che i tedeschi per lo più non capiscono. Solo a scuola imparano il tedesco standard parlato in Germania, che diventa, per così dire, la prima «lingua straniera». La superiorità retorica dei tedeschi ha un effetto pesante, per non dire intimidatorio, sugli svizzeri di lingua tedesca, che con la loro loquela a paragone alquanto goffa si sentono irrimediabilmente persi in una discussione o in un dibattito. Inoltre, il comportamento dei vicini del Nord, spesso percepito ai limiti dell’arroganza per gli standard svizzeri, complica a volte i rapporti interpersonali. Mentre in Svizzera si tende a evitare lo scontro e ad essere concilianti, in Germania ci si esprime in modo molto più diretto. Se tra gli svizzeri tedeschi e i tedeschi la vicinanza è molto grande, ciò vale anche per le superfci di attrito. La Svizzera romanda ha un atteggiamento più rilassato, semmai si irrita di più con i vicini francesi. I ticinesi percepiscono i tedeschi come viaggiatori di passaggio diretti in Italia, o come turisti ospiti di alberghi e pensioni; in ogni caso i contatti sono relativamente scarsi. Nella migliore delle ipotesi, la gente è infastidita dalle colonie di tedeschi di Ascona che, pur residenti ormai da decenni, non hanno ancora imparato a parlare decentemente l’italiano. Ma questo vale anche per gli svizzeri tedeschi.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

“BUONGIORNO”

Mar Baltico MOIN

Mare del Nord

MOIN

GRÜEZI Varianti del tedesco per dire “buongiorno”

Amburgo Brema Berlino

Hannover GUTEN TAG G E R M A N I A Bonn Francoforte Norimberga

Stoccarda GRÜß GOTT Monaco GRÜEZI Berna SVIZZERA GRÜEßECH

Innsbruck

Vienna

A U S T R I A

Fonte: DTV Atlas-Deutsche Sprache

2. I rapporti nel tempo sono cambiati e non necessariamente in meglio. A livello politico Germania e Svizzera sono ancora legate da relazioni di buon vicinato, ma presso gli ambienti governativi tedeschi vanno calando l’interesse e la disponibilità verso la Svizzera. Che oggi vi sia una maggiore distanza non è cosa nuova, ma essa tende ad aumentare. Quali le cause? A mio avviso, ve ne sono tre in particolare: il trasferimento della capitale tedesca da Bonn a Berlino, un minor numero di politici del Baden-Württemberg presenti a livello governativo e i toni sempre più moraleggianti che pervadono la politica tedesca. Quando Berlino tornò capitale dopo la riunifcazione, il cuore politico della Repubblica Federale si spostò a nord-est. Tale spostamento ha avuto ripercussioni sulle relazioni con la Svizzera, a cominciare dal fatto che in Germania la conoscenza

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di cose svizzere diminuisce in modo esponenziale man mano che ci si allontana dal confne. Berlino è decisamente più lontana rispetto a Bonn. Inoltre, con il trasferimento a Berlino si è spostato anche il baricentro della politica estera tedesca. Oltre ai due punti fssi di Bruxelles e Parigi, lo sguardo tedesco si rivolge molto più verso est: Russia e Polonia sono slittate al centro dell’attenzione politica, tanto più dopo il 24 febbraio 2022. Di conseguenza, l’interesse per il sud è diminuito. La Svizzera appare solo marginalmente e sporadicamente sul radar del ministero degli Esteri o della cancelleria. A differenza della Svizzera tedesca, dove la politica della Bundesrepublik è seguita da vicino e i media ne parlano ogni giorno, l’interesse da parte opposta è decisamente scarso. Ci vuole un evento speciale o uno scandalo fnanziario perché la Svizzera faccia notizia nel panorama mediatico tedesco. Inoltre, nell’esecutivo tedesco ci sono oggi meno esperti e amici flo-elvetici rispetto al passato. A Berna si ricordano con una certa malinconia buoni amici degli svizzeri come l’ex ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble o l’ex ministro degli Esteri Klaus Kinkel. Entrambi originari del Baden-Württemberg, che confna direttamente con la Svizzera. Le mentalità dei tedeschi del Sud e degli svizzeri tedeschi sono relativamente simili. Essi condividono una lingua – l’alemanno – e una cultura comune, si capiscono senza troppe parole. Il fatto che il Baden-Württemberg non abbia più il peso di un tempo nella politica tedesca e che a Berlino non siano quasi più presenti politici di spicco provenienti da questo Land ha pertanto un impatto negativo sulla tutela degli interessi svizzeri nella politica tedesca. Mancano sostenitori e portavoce di un certo peso. Il terzo e forse più importante fattore che ha portato a un certo estraniamento della politica tedesca dalla Svizzera è la cronaca recente. Gli ultimi tre anni sono stati contrassegnati da tre momenti altamente critici che hanno avuto un forte impatto sulle relazioni tra i due paesi: il Covid-19, la crisi con l’Ue e la guerra ucraina. La chiusura delle frontiere per contenere l’epidemia nel marzo 2020 ha causato uno shock su entrambi i lati del confne. La determinazione con cui la polizia tedesca ha applicato le misure di isolamento, ad esempio con la decisione unilaterale di chiudere le stazioni ferroviarie svizzere sulla tratta comune dell’Alto Reno tra Basilea e Sciaffusa, non ha migliorato la situazione. Ulteriori tensioni sono sorte durante la seconda ondata virale nell’autunno-inverno 2020, quando la cancelliera Merkel ha ordinato la chiusura di tutti i comprensori sciistici per evitare lo sviluppo di un altro focolaio come quello di Ischgl. Sebbene questa disposizione fosse stata emanata solo per la Germania, all’epoca suonò come un ordine rivolto all’intera regione alpina. Berlino e i media tedeschi reagirono con stizza al rifuto delle stazioni montane svizzere di seguire il diktat teutonico. In generale, le restrizioni relativamente moderate della Svizzera erano in netto contrasto con il rigore imposto dalla Germania. Con l’aumento dei casi di Covid-19 in Svizzera, nei media tedeschi si consolidò l’impressione che le autorità elvetiche non combattessero il virus con la dovuta serietà e anteponessero gli interessi economici alla tutela incondizionata della salute. Il modo in cui in Germania e in Svizzera è stata affrontata l’epidemia ha messo in evidenza quanto sia diverso

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il rapporto tra lo Stato e i cittadini nei due paesi. Il forte peso delle istituzioni statali in Germania è andato a collidere con la concezione elvetica della responsabilità personale. Esagerando un poco, possiamo affermare che in Svizzera è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato; in Germania è esattamente il contrario. Quando la crisi del Covid-19 sembrava superata, è sopraggiunta la crisi con l’Ue. Sebbene abbia riguardato soprattutto Berna e Bruxelles, essa ha prodotto notevoli effetti negativi sui rapporti con la Germania. Dopo anni di negoziati per giungere a un accordo istituzionale con l’Unione Europea, il 21 maggio 2021 il Consiglio federale svizzero ha deciso di porre fne alle trattative per divergenze inconciliabili. Avendo percepito che il sostegno interno all’accordo stava drasticamente calando, il governo svizzero ha premuto il pulsante di arresto per evitare una débâcle in parlamento o nell’inevitabile referendum che sarebbe seguito. Ma Berlino, espressasi a Bruxelles per una soluzione che tenesse conto delle preoccupazioni elvetiche, ha percepito la decisione del Consiglio federale come un affronto. La mancata comprensione da parte tedesca delle ragioni che hanno portato alla decisione svizzera ha molto a che fare con l’atteggiamento profondamente diverso dei due paesi verso l’Ue. L’approccio della Svizzera è fondamentalmente utilitaristico: con sobrietà e pragmatismo si valutano pro e contro di un accordo, la decisione scaturisce dalla ponderazione degli interessi in gioco. Per la politica tedesca, invece, l’Ue è un assioma. La scelta di campo a favore dell’«Europa», come viene semplicisticamente chiamata l’Ue in Germania, fa parte del canone politico tedesco e ha quasi le caratteristiche di una religione civile. È senz’altro possibile riuscire a far capire a un politico tedesco come mai la Svizzera non voglia entrare nell’Unione Europea. Ma quasi nessuno arriva a comprendere perché la nazione respinga negoziati intesi a sancire un rapporto regolamentato con quest’ultima. Quando, poco dopo la rottura delle trattative, il Consiglio federale svizzero ha approvato l’acquisto di nuovi aerei da combattimento preferendo gli F-35 americani ai Rafale francesi e agli Eurofghter, Berlino vi ha visto un altro segnale politico contro l’«Europa». Gli animi si sono calmati dopo che il Consiglio federale svizzero ha annunciato, nel febbraio 2022, il via libera alla ripresa dei negoziati con l’Ue. Ma il governo tedesco ha ora un approccio molto più cauto, sebbene la Germania abbia notevole interesse economico allo sviluppo di relazioni stabilmente regolate tra Svizzera e Ue. In sostanza, il messaggio della cancelleria e del ministero degli Esteri tedesco è che la qualità delle relazioni bilaterali tra i due paesi si misurerà innanzitutto sulla solidarietà europea della Svizzera e sul suo rapporto con la Ue. Il fatto che Berlino vada orientando la propria bussola più verso Bruxelles che verso Berna non è ancora del tutto chiaro alla coscienza politica svizzera. È ancora diffusa la convinzione che, se e quando necessario, a Bruxelles sarà la Germania a togliere le castagne dal fuoco alla Svizzera. 3. La terza e forse più grave crisi per l’immagine della Svizzera in Germania è stata la guerra in Ucraina. Alla luce della giustifcata indignazione di fronte allo spudorato attacco russo, la Germania si aspettava dalla Svizzera solidarietà incon-

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dizionata verso la vittima. La Confederazione ha condannato l’attacco con la stessa fermezza di tutti gli altri Stati con interessi affni, e ha accolto i rifugiati dall’Ucraina allo stesso modo della Germania. Tuttavia, i segnali inizialmente poco chiari provenienti da Berna sulla partecipazione a eventuali sanzioni economiche e fnanziarie dell’Ue contro la Russia hanno suscitato le ire di Berlino. In seguito il Consiglio federale ha aderito con relativa rapidità alle sanzioni fssate dalla Ue, ma poco dopo è arrivata la crisi successiva. Superando molte esitazioni, la Germania ha deciso di fornire armi all’Ucraina, compresi semoventi anti-aerei Gepard. Si è scoperto però che mancavano le munizioni. A questo punto si sono rivelati utili i circa 12 mila proiettili di origine svizzera che da decenni si trovano nei depositi tedeschi. Le autorità tedesche hanno quindi inviato richiesta formale al Consiglio federale svizzero per consentirne il trasferimento all’Ucraina. Ma il Consiglio, a causa dei severi vincoli di legge sui materiali bellici, aveva le mani legate. La legge infatti proibisce di riesportare attrezzature militari verso Stati in guerra. Le reazioni negli ambienti politici tedeschi e nei media, soprattutto sui social, sono state veementi. Aspre critiche sono arrivate da fgure politiche di spicco. La disapprovazione è stata particolarmente forte nei Verdi, che avevano appena compiuto un salto mortale politico gettando a mare il tradizionale pacifsmo e reclamando con insistenza la fornitura di armi a Kiev. Le decisioni della Svizzera sui carri armati Leopard non hanno facilitato le cose. A giugno, con il sostegno del parlamento, il governo svizzero ha approvato la cessione di 25 carri Leopard 2 alla Germania per sostituire quelli tedeschi in Ucraina. Successivamente, tuttavia, il Consiglio federale si è rifutato di vendere ai Paesi Bassi 96 carri Leopard 1 (che si trovano in Italia) della società di Stato svizzera RUAG, destinati a essere ammodernati e poi utilizzati in Ucraina. Questa politica, percepita come incoerente, ha danneggiato la reputazione della Svizzera in Germania. Berlino ora dubita dell’affdabilità elvetica in questioni che concernono le politiche di sicurezza e di difesa. Ne consegue che, in ragione del principio di neutralità, la Svizzera rischia di perdere sul mercato degli armamenti il cliente tedesco. Di fronte all’eventuale necessità tedesca di doversi difendere, la Svizzera non potrebbe dare garanzia di fornire armi al proprio vicino, ovvero alla Nato. Oltre che di scarso impegno in materia di sicurezza, i politici tedeschi accusano la Svizzera di passività nell’attuare le sanzioni contro la Russia e di speculare nel commercio di oro e materie prime. I fatti non giustifcano questa critica, dato che la Svizzera applica alla lettera le sanzioni. Poiché tuttavia, a seguito dell’attacco all’Ucraina, nella politica estera tedesca è prevalso un approccio moralistico, Berlino si aspetta da Berna gesti di solidarietà che vadano oltre quanto espressamente legiferato. Ciò vorrebbe dire una gestione più pragmatica della neutralità, limitata ai suoi princìpi generali; un’attuazione più sollecita delle sanzioni; un impegno proporzionato alla potenza economico-fnanziaria svizzera per la ricostruzione del paese. La Svizzera ha incrementato il sostegno all’Ucraina: oltre alle misure esistenti, come l’accoglienza dei rifugiati, Berna contribuisce allo sminamento con tecno-

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I DIALETTI TEDESCHI Mare del Nord

Mar Baltico

SCHLESWIGHOLSTEIN Incidenza dei dialetti nella comunicazione quotidiana

MECLEMBURGOAmburgo POMERANIA ANTERIORE AMBURGO

Dal 71 al 90%

Brema BREMA

dal 70 al 51%

BASSA SASSONIA Hannover

dal 50 al 31% dal 30 all 0%

AN

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Berlino BERLINO

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RENANIA SETTENTRIONALE VESTFALIA

G E R M A N I A Bonn

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RENANIA PALATINATO

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Stoccarda BAVIERA

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Norimberga

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A U S T R I A S V I Z Z E R A Berna

Innsbruck

Fonte: DTV Atlas-Deutsche Sprache

logie e strumenti innovativi. Inoltre è in preparazione un ulteriore pacchetto di fnanziamenti da un miliardo di dollari per la ricostruzione. 4. La Germania potrebbe trovarsi presto di fronte a un altro problema: la crescente pressione migratoria. Oltre ai circa 1,1 milioni di rifugiati ucraini che ha accolto dal febbraio 2022, i fussi migratori irregolari provenienti da paesi extraeuropei – soprattutto da Siria, Afghanistan e Turchia – stanno creando una situazione diffcile. Nel 2022 l’immigrazione netta in Germania è stata di quasi 1,5 milioni di persone, la più alta dal 1949 e superiore all’ondata del 2015-16. L’accoglienza pone problemi a Comuni e Länder. Una parte signifcativa di questa migrazione irrego-

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lare arriva in Germania attraverso la Svizzera. I politici tedeschi, soprattutto quelli delle aree meridionali, accusano la Svizzera di far transitare scientemente richiedenti asilo minorenni e non accompagnati verso la Germania. Nella primavera 2023 gli ingressi irregolari dalla Svizzera alla Germania sono più che triplicati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Un piano d’azione sviluppato su iniziativa svizzera per intensifcare la cooperazione tra polizia di frontiera e politica migratoria dei due paesi ha migliorato la situazione, ma non è riuscito a rallentare l’affusso. Poiché in Svizzera entrano soprattutto giovani maschi provenienti da Italia e Austria, secondo i termini della convenzione di Dublino spetterebbe a questi due paesi l’obbligo di riaccoglierli entro i propri confni. Tuttavia, il meccanismo funziona male e inoltre la meta tedesca risulta molto più allettante per i migranti rispetto alla Svizzera, per via delle procedure più snelle di richiesta d’asilo. Una soluzione a questo problema può essere raggiunta solo riformando il sistema di Schengen, con una standardizzazione di regole e procedure. Malgrado tutto, si registrano progressi nel settore del trasporto ferroviario e dell’energia. Con la realizzazione, nel 2016, della galleria di base del San Gottardo quale fulcro del progetto AlpTransit, la Svizzera ha creato una ferrovia di pianura attraverso le Alpi e ha gettato così le basi per spostare su rotaia il traffco merci tra il Mare del Nord e il Mediterraneo. Con il trattato di Lugano del 1996 la Germania si era impegnata ad ampliare a quattro binari la linea di accesso Karlsruhe-Basilea, per garantire una capienza suffciente. A causa di pesanti ritardi, il progetto non sarà completato prima del 2042, cosa che ha suscitato parecchia irritazione da parte svizzera in ragione dei notevoli anticipi fnanziari erogati all’iniziativa. Tuttavia, con l’accordo di Lipsia del 2019 sul potenziamento delle tratte di accesso e la nuova convenzione di Lugano del 2021 si sono potute gettare nuove basi per la cooperazione. In quanto paese di transito del gas, con un gasdotto che può essere utilizzato da nord a sud e viceversa, la Svizzera fornisce un contributo sostanziale alla sicurezza energetica in Europa centrale. Su questioni come l’elettricità e, in futuro, l’idrogeno e il gas naturale, Svizzera e Germania meridionale affrontano sfde infrastrutturali simili: si tratta di garantire il collegamento con i luoghi dove, in futuro, si registreranno surplus di rinnovabili, in particolare l’Europa settentrionale, quella meridionale e il Nord Africa. A livello statale e regionale vi è grande apertura alla cooperazione con la Svizzera sul dossier energetico: come nell’attuazione dell’accordo di solidarietà sul gas tra Germania e Italia, o nei gruppi di lavoro che puntano a espandere il corridoio meridionale del gas. Anche la cooperazione transfrontaliera tra Svizzera e Germania nel complesso funziona bene, sebbene permangano alcune questioni aperte: il dibattito sull’inquinamento acustico dell’aeroporto di Zurigo, lo stoccaggio di scorie nucleari svizzere nei pressi del confne tedesco. La regione transfrontaliera compresa tra il Lago di Costanza e il ginocchio del Reno presso Basilea costituisce uno spazio economico e abitativo comune per circa cinque milioni di persone, e occupa una posizione di

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punta in Europa in termini di networking, potere economico, innovazione e dinamismo. La «piccola politica estera», come viene anche chiamata la cooperazione transfrontaliera, coinvolge governi e autorità a livello regionale e locale. Le relazioni personali e i canali burocratici più brevi facilitano soluzioni pragmatiche a livello locale, nonché approcci innovativi in tema di trasporti, salute, sicurezza. Un ulteriore approfondimento delle relazioni bilaterali tra Svizzera e Germania, tuttavia, passa necessariamente da Bruxelles. Berlino desidera avere la Svizzera come partner, se non da membro dell’Ue, almeno legata a essa da stretti rapporti. Se dopo l’accordo quadro dovesse fallire con l’Ue anche il nuovo pacchetto di soluzioni, sarà un gran peccato. La vita andrà avanti, ma le conseguenze di un fallimento si sentirebbero sulle relazioni di vicinato. A compensare la mancanza di un rapporto strutturato con l’Unione Europea, non potremo contare su nessuna concessione da parte dei nostri vicini tedeschi. (traduzione di Monica Lumachi)

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ROMANDO DI FORMAZIONE

di Géraldine SAVARY

La Svizzera francofona ha identità gregaria. Sin dai banchi di scuola, è plasmata dall’eredità culturale del grande vicino. E pare ignara delle proprie vette artistico-letterarie. La separazione con gli svizzeri alemanni. Il declino dell’Esagono la sprona a elevarsi.

L

1. O SCORSO 22 OTTOBRE, IL POPOLO SVIZZERO ha rinnovato il parlamento federale. Alla fne, lo scrutinio ha confermato a livello nazionale la forza dell’Unione democratica di centro (Udc), progredita di oltre il 2%, quella dei socialisti, secondo partito del paese, e l’importanza di un terzo polo al centro. Se si osservano i risultati in dettaglio, in particolare le diverse sensibilità fra le regioni linguistiche, si nota che la Svizzera romanda ha votato più robustamente per i socialisti, forza politica più importante in diversi Cantoni. L’Udc, predominante in alcuni Cantoni tedeschi, non raggiunge gli stessi risultati in Romandia. Una delle spiegazioni più frequenti vuole che la parte francofona della Svizzera subisca l’infuenza della Francia. I romandi sarebbero attaccati allo Stato e alla condivisione di diritti e doveri; mentre per gli alemanni la Germania svolgerebbe un ruolo di grande fratello politico e ideologico. Riassumiamo così la tesi: alla Svizzera romanda lo spirito dei Lumi; alla Svizzera alemanna lo spirito dell’individuo. Agli uni l’esercizio della collettività, agli altri quello della comunità. Altro sondaggio molto interessante: il giornale Blick ha interrogato le sue lettrici e i suoi lettori sul confitto in corso fra Israele e Õamås. Gli intervistati nella Svizzera tedesca sono più sensibili alla difesa dello Stato ebraico e ai rischi di antisemitismo, mentre i romandi manifestano una simpatia più marcata per la questione palestinese. Sullo sfondo si stagliano le tragiche lezioni della seconda guerra mondiale: i crimini della Germania nazista pesano di più sulla popolazione dei Cantoni tedeschi, mentre nella Svizzera romanda sopravvive il mito della Francia della resistenza. Citiamo infne i dibattiti sulla laicità. A Ginevra, Cantone di frontiera con la Francia, l’ostentazione dei simboli religiosi è condannata o vietata come in molte altre località romande, mentre a Zurigo o Basilea il burkini in piscina o il velo nelle istituzioni sono tollerati. L’iniziativa popolare sul burqa, accettata nelle consultazioni, traduceva non tanto un attaccamento alla laicità quanto una paura dell’islam.

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Quindi, sì. Se guardiamo all’attualità, potremmo concludere, senza esitare, che la Francia, la sua cultura, le sue linee di frattura, la sua politica infuenzano la Svizzera romanda. Sin dalla nascita della Svizzera moderna. Questa infuenza esiste a nostra insaputa. Perché fa bon ton deridere i francesi, il loro sciovinismo, gli scioperi, i prezzi esorbitanti di Parigi, la sporcizia della capitale e la sua squadra di pallone.

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2. Sono nata in Gruyère, nel Cantone di Friburgo. Mia madre è originaria dell’Auvergne e ha scelto il mestiere di istitutrice. Giovane insegnante, un’estate accompagnò una colonia in vacanza in un villaggio presso Bulle. Mio padre faceva parte di un corpo di danza folcloristica, venuto a esibirsi davanti ai piccoli francesi. I miei genitori s’innamorarono e mia madre lasciò il paese d’origine per installarsi in Svizzera e creare una famiglia. Ho dunque sempre vissuto con una parte della mia identità francese. Guardiamo i telegiornali francesi, seguiamo i dibattiti politici, andiamo ogni anno a trovare il ramo francese della famiglia, in riva al mare, ascoltiamo le loro canzoni. I miei compagni di scuola non erano così impregnati di Francia come me. Andavano in vacanza in campeggio nello Chablais, guardavano le gare di sci, andavano a camminare in montagna la domenica con la famiglia. Inoltre mia madre ha sempre lavorato, come una grande proporzione delle donne francesi, mentre nel Cantone di Friburgo, come ovunque in Svizzera, le signore restavano presso il focolare a occuparsi dei fgli. Non c’erano all’epoca congedi di maternità, asili, assistenza all’infanzia o strutture pubbliche che permettessero di conciliare la vita professionale e quella familiare. A dire il vero, quando sono nata, non c’era nemmeno il diritto di voto per le donne, che non erano autorizzate ad aprire un conto in banca. La Svizzera romanda non urbana non è che avesse molto dello spirito dei Lumi. Per una ragione molto semplice: la gente era povera, i Cantoni poco industrializzati, le università rare e destinate ai più privilegiati, l’economia poco diversifcata, centrata essenzialmente sull’agricoltura. E malgrado il fatto che la maggior parte delle famiglie romande vivesse in modo semplice e modesto, senza quasi uscire dalle proprie frontiere, la cultura francese era la sola che fosse insegnata a scuola. Ancora oggi, il grosso del programma di francese e di letteratura è costruito attorno agli autori francesi. Esattamente come la storia e la flosofa ruotano principalmente attorno all’Esagono. Impariamo a leggere con Pagnol, costruiamo versi alessandrini con Ronsard, dissertiamo con Camus, apprendiamo dell’amore con Choderlos de Laclos. Praticamente nessun autore o autrice della Svizzera romanda è letto o studiato a scuola. Figurarsi nella Svizzera alemanna. Si potrebbe anche immaginare che, essendo il 25% della popolazione romanda originario di altre parti del mondo (Italia, Spagna, Portogallo eccetera), si getti un occhio su questi altri patrimoni culturali. Ma no. Oggi gli insegnanti cercano di aprirsi un po’, il corpo docente tenta di adattarsi alle nuove attenzioni dei giovani, ma la scoperta dei grandi classici, passaggio obbligato per l’accesso alla conoscenza, si nutre del grande vicino francese. Cresciamo con Balzac, invece che con Ramuz.

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3. È un problema? Ovvio che no. Come affrontare il mondo senza aver mai letto Baudelaire? Come comprendere l’opacità delle relazioni umane senza essere mai stati in un libro di Stendhal? Come sondare i misteri della nostra esistenza senza immergersi nell’opera di Camus? Noi siamo, talvolta involontariamente, dei prodotti della cultura francese. Esistiamo perché pronunciamo le nostre prime parole sulla Terra in francese. La nostra identità individuale e collettiva si costruisce con questa lingua, su questo suolo, quello dei secoli dei Lumi, della Rivoluzione francese, di uno Stato forte e protettore. Non mi sono mai detta che tutto ciò non mi appartenesse o che fossi prigioniera di un’identità colonizzatrice. Al contrario, ciò che io sono è stato modellato dagli autori che ho letto, che ho amato e che mi hanno guidato verso l’età adulta. Ho letto letteratura francese come un’affamata, essa mi ha reso cosciente di ciò che ero, di ciò che potevo divenire e del posto a cui aspiravo nel mondo. Parlo di letteratura, ma dovrei aggiungere le abitudini culinarie, la musica, l’analisi storica, una certa aspirazione a distinguermi, all’eleganza, anche una forma di condiscendenza verso ciò che non è prodotto dalla cultura francese. Mi permetto di insistere su questo punto perché per me, come per la maggior parte dei romandi, è stato uno shock confrontarmi con la parte germanica della Svizzera. Eletta al Consiglio nazionale per rappresentare il Cantone di Vaud nel 2004, ero disperata di dover vivere dodici settimane l’anno a Berna, di dover comunicare con colleghi alemanni di cui non capivo la cultura. Come concepire che la maggioranza dei miei concittadini parli un dialetto che non esiste nemmeno su carta? Mentre io sfoggiavo di saper maneggiare a meraviglia il congiuntivo imperfetto? Trovavo le loro lamentele discutibili, la loro cucina abominevole, la loro abitudine a mangiare alle diciotto un’eresia. Non conoscevo niente di ciò che leggevano, di ciò che ascoltavano, dei luoghi in cui vivevano o erano cresciuti. Il loro modo di costruire un’argomentazione era completamente diverso, come quello di provare a convincerci o di costruire un compromesso. L’infuenza francese che accompagna la maggioranza dei romandi non è solubile nella Svizzera per come essa esiste, con le sue diversità linguistiche, il suo rispetto per le minoranze, il suo amore per le lingue orali. Noi espatriati romandi a Berna ci rifugiavamo nella «libreria francese», oggi scomparsa, al lato della Piazza federale. Lì si poteva parlare in francese e acquistare libri provenienti dall’Esagono. Ci si ritrovava fnalmente tra di noi. Ma non dovevamo già esserci? Ciò detto, l’infuenza della cultura francese sulla Svizzera romanda non ha soltanto vantaggi. Contribuisce anche al fatto che ciò che defnisce l’identità romanda è al meglio ignorato, al peggio negato. Torniamo alla letteratura. Benché sia importante comprendere come funziona l’essere umano e qual è il suo rapporto con il mondo attraverso Rousseau, Sartre o Barthes, perché non lasciar vivere nei nostri spiriti curiosi di scoperta le grandi intelligenze romande? Perché non avere accesso a Ramuz, ad Alice Rivaz, a Corinna Bille? Perché le celebrazioni per Davel nel Cantone del Vaud, per la nascita della repubblica e nel Cantone di Neuchâtel o per i 175 anni della costituzione federale sono così timide, così discrete? Perché

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non conosciamo i nostri poeti, i nostri artisti? Perché il libro che riunisce tutti i testi di Michel Bühler, il grande canzoniere romando recentemente scomparso, è disponibile in Francia ma non nelle librerie della Svizzera francofona? Non c’è un museo Giacometti nel nostro paese, ma ce n’è uno a Parigi, non una grande esposizione Vallotton mentre la si celebra in Francia. E Gleyre, grande pittore conosciuto nel mondo intero, non è quasi conosciuto tra i romandi. Questa parte di Svizzera come entità culturale esiste solo perché parla francese, perché condivide l’eredità del suo grande vicino e perché ci stipiamo sui treni per mancanza di investimenti federali. Per il resto? Peggio, noi siamo incapaci di festeggiare e di onorare le penne di fama internazionale. Philippe Jaccottet, poeta nato nel Vaud e morto due anni fa a Grignan, è celebrato in Francia come uno dei più grandi del suo tempo mentre nella Svizzera romanda non ha diritto che a qualche articolo svogliato. Blaise Cendrars è considerato come scrittore francese, ma è nato e vissuto nella Svizzera romanda, dove non c’è una statua, una strada a suo nome. E Le Corbusier? Solo Stefan Eicher e Roger Federer portano i colori della Svizzera, ma perché sono svizzeri alemanni. Mi ricordo un amico parigino che diceva, a me adolescente intimidita: «Dai, mostrami come parli svizzero». Ci decidiamo allora non a liberarci dalla tutela culturale francese, ma a completarla con i nostri talenti, a far sentire la particolarità delle nostre voci, a mettere in comune i nostri accenti, le nostre espressioni letterarie e artistiche? Questi tentativi sono esistiti in passato. Continuano ancora oggi. Ma su quale cammino? È interessante constatare che gli autori svizzeri romandi riconosciuti dalla loro «comunità» lo sono perché sono stati pubblicati in Francia. Jacques Chessex, Noëlle Revaz, Sarah Jollien Fardel, Joël Dicker, Elisa Shua Dusapin. Il riconoscimento della Svizzera romanda arriva quando i suoi artisti sono stati celebrati dal mondo culturale francese. Tutt’a un tratto, scopriamo la ricchezza del loro stile, ci riconosciamo in loro, ci chiediamo come hanno fatto a sfondare, come ci sono arrivati! E tuttavia, si sono dovuti battere affnché la lingua romanda sia rispettata e affnché le espressioni identitarie resistano al dominio del francese accademico. Le autrici e gli autori che ho appena citato hanno spesso ingaggiato un braccio di ferro con le rispettive case editrici francesi per non modifcare il loro testo, basato sulla lingua orale romanda.

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4. Il dominio francese sugli spiriti romandi sta diminuendo. La globalizzazione della cultura allarga il campo dei riferimenti. Le reti sociali hanno un’infuenza determinante, come pure la cultura anglosassone. Lo spirito dei Lumi e l’immagine della patria dei diritti dell’uomo vacillano. Le questioni legate alla colonizzazione, al ruolo della Francia nel mondo minano la fducia che riponevamo in essa, quasi per diritto di nascita. Aspiriamo, non solo nella Svizzera romanda, ad altri orizzonti. Vogliamo una cultura più diversifcata, nella quale l’universalismo del messaggio non uccida gli itinerari individuali. Più semplicemente, le infuenze culturali francesi sono state per troppo tempo maschili, bianche, parigine, elitarie. Altre ispirazioni si fanno

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sentire, altre culture emergono, contestano e appassionano, vanno dal flm Barbie allo scrittore giapponese Murakami – la Svizzera romanda è la patria mondiale dello yoga dopo San Francisco. La Francia dei grandi classici prende polvere. Nella cultura come nella viticoltura, fnisci per amare te stesso. Tra un bordò troppo caro e non biologico e un gentile vino naturale del Lavaux, non c’è gara. Ci diciamo che nella Svizzera romanda non rischiamo di restare schiacciati tra la Francia e la Svizzera alemanna, che il mondo intero abita qui e che tutte queste identità mescolate e diverse sono rispettate e più o meno pacifcate. Giovani artisti locali si impongono, trovano il loro pubblico, esplodono umoristi, qui come in Francia, che sanno essere popolari attraverso le generazioni – citiamo Yann Marguet, Marina Rollmann, Thomas Wiesel. ll teatro di Vidy a Losanna è considerato un’istituzione nel mondo dello spettacolo e le sue prime attirano i direttori di tutto il pianeta. La recente visita del presidente Emmanuel Macron lo attesta. La Svizzera romanda è fera di accoglierlo, ma non più così complessata. Si dice che in Svizzera la gente si ascolti perché non si capisce. Non è del tutto falso. La Svizzera romanda deve battersi affnché la sua identità, la sua lingua, le sue culture, le sue sensibilità nutrite dall’infuenza francese siano rispettate. È un esercizio permanente. Vivo e appassionante. (traduzione di Federico Petroni)

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ANCORA CASSAFORTE DEL MONDO

di Lino

TERLIZZI

La fusione d’emergenza Ubs-Credit Suisse cambia la piazza finanziaria elvetica, che ha resistito alla fine del segreto bancario e alle altre, recenti tempeste. La geografia del settore. Il rapporto con l’economia nazionale e con la concorrenza estera.

L’

1. ACQUISIZIONE DI CREDIT SUISSE DA PARTE di Ubs ha caratterizzato il 2023: non solo per la piazza fnanziaria svizzera, ma anche per il settore bancario internazionale. Le dimensioni delle due banche coinvolte – Ubs è il primo istituto elvetico per taglia, Credit Suisse il secondo – sono tali da giustifcare la marcata attenzione di analisti e operatori della piazza svizzera e di molte piazze fuori dalla Confederazione. L’acquisizione, annunciata a marzo, è giunta peraltro sull’onda di una chiara divergenza nell’andamento dei due istituti: da una parte la crisi di Credit Suisse, dall’altra il buon passo di Ubs. Ciò rende ancor più comprensibili le domande sulla situazione e sulle prospettive del comparto bancario svizzero. Le diffcoltà poste dalla caduta di Credit Suisse, giunta dopo una serie di investimenti sbagliati, non sembrano poter causare una crisi complessiva del settore nella Confederazione. L’integrazione della banca nel gruppo Ubs è operazione complessa, che però si sta dimostrando concretamente possibile: tra giugno (defnizione legale del passaggio) e novembre 2023, è infatti avanzata di buona lena. Inoltre, senza nulla togliere al ruolo di primo piano del gruppo Ubs, il settore bancario svizzero alberga molte e diverse realtà – altri gruppi di taglia ragguardevole, numerose banche medie e piccole – non intaccate dalla crisi di Credit Suisse, tanto che si stanno adoperando per conquistare nuove quote di mercato. Per meglio capire le prospettive del nuovo gruppo Ubs e del settore bancario svizzero è utile allargare lo sguardo alle cifre della piazza fnanziaria elvetica. Una piazza in cui le banche hanno certamente un peso rilevante, ma in cui sono ben presenti anche altri rami importanti: quello dei fduciari e dei gestori di patrimoni indipendenti, quello dei servizi informatici dedicati alla fnanza, quello – ampio – delle assicurazioni. Sono rami che spesso interagiscono, pertanto è opportuno cogliere il quadro nel suo insieme prima di tornare alla specifca realtà bancaria.

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2. La piazza fnanziaria svizzera ha dovuto affrontare nell’ultimo decennio (dati in miliardi di franchi) molti ostacoli. La fne del segreto ban2012 2017 2022 cario per i non residenti, l’aumento Servizi fnanziari 36,5 34,8 40,1 della concorrenza da parte di altre Attività assicurative 29,5 30,7 28,8 piazze internazionali, le normative più Totale piazza fnanziaria 66 65,5 68,9 In % del pil 10,2 9,6 8,9 stringenti a livello mondiale e nazionaPil svizzero 643,6 684,6 771,2 le, l’aumento dei costi, l’incremento degli investimenti necessari per adeFonte: Sf, Seco guare le strutture alle nuove esigenze e alle nuove tecnologie. Questi sono alcuni dei nodi principali che la piazza elvetica ha dovuto gestire, all’interno di un percorso decennale di cambiamento. La fnanza svizzera poteva uscire nettamente ridimensionata da questa corsa a ostacoli e ciò era d’altronde quello che molti si aspettavano, soprattutto fuori dalla Svizzera ma talvolta anche in patria. Tuttavia non è andata così: c’è stata una marcata tenacia, come mostrano i dati e i fatti. Per la piazza fnanziaria elvetica sul lato dei fattori positivi c’erano e ci sono la professionalità e l’esperienza, un’economia che ha tenuto meglio di molte altre, la forza e l’attrattività di una valuta rifugio come il franco, il funzionamento e l’affdabilità del paese. La situazione creatasi è stata così non solo di ombre (vecchie e nuove), ma anche di luci. Questo spiega la tenuta complessiva della piazza svizzera, nonostante tutto. I dati uffciali, in particolare quelli della Segreteria di Stato per le questioni fnanziarie internazionali (Sf) e della Segreteria di Stato dell’economia (Seco), danno una fotografa del percorso della fnanza elvetica tra il 2012 e il 2022. Il valore aggiunto creato dalla piazza fnanziaria svizzera era di 66 miliardi di franchi nel 2012, 65,5 miliardi nel 2017 e 68,9 miliardi nel 2022. Dividendo le attività in due grandi parti, si osserva come i servizi fnanziari siano leggermente scesi nel primo quinquennio considerato – da 36,5 miliardi a 34,8 miliardi – per poi risalire nettamente nel secondo quinquennio, a 40,1 miliardi. Le attività assicurative sono invece cresciute nel primo quinquennio – da 29,5 miliardi a 30,7 miliardi – per poi scendere nel secondo a 28,8 miliardi. Come risultato complessivo, la piazza elvetica era nel 2022 a un livello più alto sia rispetto a cinque anni prima sia rispetto a dieci anni prima. Quanti affermano che negli ultimi anni la piazza fnanziaria svizzera non è cresciuta dicono quindi un’inesattezza. È vero il contrario: fnanza ed economia svizzere sono cresciute, la seconda maggiormente. Il prodotto interno lordo valeva 643,6 miliardi di franchi nel 2012, 684,6 miliardi nel 2017 e 771,2 miliardi nel 2022. Ciò ha fatto sì che la piazza fnanziaria rappresentasse il 10,2% del pil nel 2012, il 9,6% nel 2017 e l’8,9% nel 2022. La piazza è quindi cresciuta in termini assoluti, ma non in percentuale sul pil. Altri rami dell’economia svizzera, legati all’industria e ai commerci, hanno guadagnato maggior terreno nel decennio considerato. Quell’8,9% sul pil registrato nel 2022 dalla piazza elvetica resta comunque una percentuale di rilievo. Lo si verifca guardando alcuni paesi di dimensioni maggioIL VALORE AGGIUNTO

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ri, le cui piazze fnanziarie nel 2022 non contavano più di quella svizzera rispetto al pil. Sempre secondo la Sf, per il Regno Unito il rapporto è 8,6%, per gli Stati Uniti è 8,3% (2021), per la Germania è 3,6%. Vero è che per il Lussemburgo la percentuale è 26,1% (2021) e per Singapore è 12,8%, ma si tratta di paesi più piccoli e con economie meno diversifcate, in cui quindi un singolo ramo può facilmente assumere un ampio rilievo in rapporto al pil. Tra le ombre della piazza elvetica c’è la riduzione del numero di banche in Svizzera. Acquisizioni e fusioni, riorganizzazioni interne ai gruppi, cambiamenti di strategia sono tra i fattori che hanno contribuito in tal senso. Le banche erano 312 nel 2012, 261 nel 2017 e 239 nel 2022. Per quel che riguarda gli organici, nel decennio sono scesi sia nei servizi fnanziari che nelle attività assicurative, ma c’è stata una crescita nelle attività ausiliarie a supporto di entrambi i rami. La redistribuzione ha permesso di risalire la china dopo la caduta nel primo quinquennio. Il totale degli addetti era 215.816 nel 2012, 205.853 nel 2017 e 217.890 nel 2022. In rapporto all’occupazione complessiva, gli addetti della fnanza sono in discesa contenuta: 5,2% nel 2022, contro il 5,3% del 2017 e il 5,8% del 2012. Pur essendoci stata una diminuzione del numero di banche presenti nella Confederazione, il peso degli addetti nel complesso è dunque salito in termini assoluti ed è sceso di poco in termini percentuali rispetto all’occupazione nazionale. 3. Il business principale del settore bancario svizzero è la gestione di patrimoni, privati (private banking o wealth management) e istituzionali (asset management). Le due grandi banche elvetiche – che ora stanno diventando una, con il passaggio di Credit Suisse a Ubs – su questo terreno hanno posizioni di forza, a livello globale e nazionale. I due istituti hanno una presenza anche nell’investment banking, che hanno però iniziato a ridurre anni fa e che ancora stanno limando per diminuire il grado di rischio e concentrarsi ancor più sulla gestione di patrimoni. Ubs ha avviato un riorientamento delle sue attività verso il private banking e l’asset management dopo la crisi fnanziaria del 2008, in cui era rimasta coinvolta. Credit Suisse non ha ridotto il suo investment banking in modo altrettanto marcato e ciò secondo diversi analisti ha contribuito alla sua crisi. Nel nuovo gruppo la strategia è comunque quella di Ubs, dunque ci sarà probabilmente un’altra limatura di queste attività. In Svizzera ci sono anche molte banche medie o piccole attive nella gestione di patrimoni. Quanto al retail banking, cioè al credito tradizionale a imprese e famiglie, oltre a Ubs e a Credit Suisse (che in materia operano solo dentro la Confederazione) ci sono altri soggetti di rilievo sul mercato domestico, tra cui il gruppo Raiffeisen, le banche cantonali, PostFinance e Banca Migros. Vedendo i molti ostacoli che fnanza e banche elvetiche hanno dovuto affrontare nell’ultimo decennio, ci si può chiedere se gli istituti bancari svizzeri siano riusciti a mantenere la leadership internazionale nel loro business centrale, la gestione patrimoniale. I dati disponibili, che arrivano a maggio 2023, mostrano una nuova risalita delle masse amministrate e forniscono quindi una risposta positiva. Anche molti defussi di

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STATI DELL’UNIONE EUROPEA APPARTENENTI ALL’EUROZONA (EURO) STATI NON APPARTENENTI ALL’UNIONE EUROPEA CHE UTILIZZANO L’EURO

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IRLANDA

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Oceano Atlantico

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STATI DELL’UNIONE EUROPEA NON IN ZONA EURO DANIMARCA corona danese SVEZIA corona svedese REP. CECA corona ceca UNGHERIA forino POLONIA złoty BULGARIA lev ROMANIA leu romeno

ARM.

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Mar Caspio

STATI EUROPEI NON APPARTENENTI ALL’UNIONE EUROPEA E ALL’EUROZONA ALBANIA lek MOLDOVA leu moldavo BIELORUSSIA rublo bielorusso NORVEGIA corona norvegese BOSNIA-ERZEGOVINA marco bosniaco REGNO UNITO sterlina GEORGIA lari RUSSIA rublo russo ISLANDA corona islandese SERBIA dinaro serbo LIECHTENSTEIN franco svizzero SVIZZERA franco svizzero MACEDONIA DEL NORD dinaro macedone UCRAINA grivnia UCRAINA OCCUPATA rublo russo

BIELORUSSIA

BOSNIA -ERZ. SERBIA BULGARIA € € MONT. M.D.N. KOS. ALB.

UNGHERIA SLOV. CROAZIA

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Mare del Nord

L’EUROPA DELLE MONETE

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

capitali da Credit Suisse, consistenti tra fne 2022 e inizio 2023, si sono probabilmente trasformati in affussi verso altre banche svizzere. Il Barometro bancario 2023 dell’Associazione svizzera dei banchieri (Swiss Banking) indica che a fne maggio 2023 i patrimoni gestiti dagli istituti elvetici erano pari a 8.281 miliardi di franchi, il 5,5% in più rispetto a dicembre 2022. La risalita dei mercati fnanziari ha certo favorito l’incremento, ma senza una tenuta della capacità di gestione e dell’affdabilità della piazza svizzera diffcilmente questo livello sarebbe stato raggiunto. Ciò è stato vero anche negli anni passati. Nel 2011 i patrimoni gestiti dalle banche svizzere erano scesi a 5.245 miliardi per la crisi fnanziaria, le frenate dei mercati e gli attacchi internazionali alla piazza elvetica. Ma dal 2012 è iniziata una risalita che ha portato ai 7.286 miliardi del 2017. Poi la discesa a 6.908 miliardi del 2018 e la nuova risalita sino al picco degli 8.830 miliardi del 2021. Quindi la fessione a 7.846 miliardi nel 2022, ancora in coincidenza con turbolenze sui mercati, e il buon recupero nei primi cinque mesi del 2023. A fne 2022 i patrimoni dei clienti stranieri erano il 46,4% del gestito totale, con il 53,6% in capo alla clientela svizzera. Nel 2012 la percentuale della clientela straniera era 52,3%: c’è stata dunque una discesa nel decennio. Ciò non signifca che la massa gestita dei clienti stranieri sia diminuita in valori assoluti, semplicemente quella con targa elvetica è cresciuta di più. Il motivo principale è l’effetto valutario, cioè il rafforzamento del franco, che ha limato gli attivi in euro e in dollari Usa, i quali sono ovviamente più rilevanti per i clienti stranieri. Bisogna inoltre considerare che scudi fscali, amnistie contributive e simili hanno portato a rimpatri di attivi. Nonostante tutto questo, non si è comunque lontani dal tradizionale 50/50 nella ripartizione tra patrimoni svizzeri e stranieri. Inoltre nel wealth management transfrontaliero, riguardante la gestione di patrimoni privati stranieri di ampie dimensioni, la piazza svizzera rimane prima al mondo, nonostante l’erosione della sua quota di mercato. È interessante osservare in dettaglio il peso delle singole valute nella gestione patrimoniale delle banche elvetiche. A fne 2022 il franco svizzero contava nei portafogli in deposito per più della metà (53,2%), in aumento rispetto al 51,1% del 2018. Il dollaro Usa contava per il 26,5%, in leggera fessione rispetto al 26,8% di quattro anni prima. L’euro contava per il 13,1%, in diminuzione rispetto al 14,8% del 2018. Altre valute contavano nel complesso per il 7,1%: percentuale lievemente inferiore al 7,3% di quattro anni prima. 4. La pubblicazione a fne ottobre dei risultati nel terzo trimestre 2023 del nuovo gruppo Ubs è stata un’occasione per fare il punto sulle cifre, ma anche sull’andamento dell’integrazione di Credit Suisse. Sono emerse le due facce della medaglia: il gruppo ha accusato un rosso trimestrale per i costi di integrazione (ma sui primi nove mesi 2023 è rimasto in utile), però ha benefciato della buona tenuta sul piano operativo e su quello dell’affusso di fondi. La Borsa ha premiato il titolo Ubs, guardando soprattutto a questa seconda faccia. La perdita netta nel terzo trimestre 2023 è stata di 785 milioni di dollari (Ubs ha il bilancio in valuta statunitense), rispetto all’utile netto di 1,7 miliardi di dollari

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dello stesso periodo del 2022. Se il secondo trimestre 2023 si era caratterizzato per un maxi utile contabile legato allo scarto tra il prezzo pagato per l’acquisto di Credit Suisse e il valore intrinseco di quest’ultimo, il terzo trimestre è stato segnato invece dagli oneri per l’integrazione della banca acquisita. Parte degli analisti si attendeva una perdita più contenuta nel terzo trimestre, il primo intero a vedere Credit Suisse dentro i conti di Ubs, ma molti operatori hanno guardato anche alla redditività operativa. È stato valutato positivamente il fatto che, escludendo gli effetti legati all’integrazione, l’utile operativo sottostante ante imposte sia stato di 844 milioni di dollari, grazie al buon andamento dell’ampio ramo Global Wealth Management, seguito da Personal and Corporate Banking e da Asset Management. Non è andato bene invece a livello di redditività il ramo Investment Bank. Molti operatori hanno anche sottolineato l’entrata di capitali nel terzo trimestre 2023. L’affusso netto di fondi è stato di 22 miliardi di dollari nel Global Wealth Management, mentre quello dei nuovi depositi netti è stato di 33 miliardi nel Global Wealth Management e nel Personal and Corporate, 22 dei quali provenienti dalle strutture di Credit Suisse. L’amministratore delegato di Ubs, Sergio Ermotti, ha sottolineato la velocità con cui procede l’integrazione di un Credit Suisse strutturalmente in perdita che ha portato in Ubs disavanzi maggiori del previsto. L’integrazione è operazione ampia e impegnativa, ma il manager ticinese ha ostentato ottimismo. Occorrerà comunque proseguire nel piano di risparmi, anche nei dolorosi tagli a strutture e addetti. L’organico mondiale del nuovo gruppo era a fne settembre 2023 di 115 mila addetti, circa 4 mila in meno rispetto a fne giugno. A fne 2022 l’organico complessivo era di circa 120 mila dipendenti, di cui 72 mila di Ubs. Con l’acquisizione di Credit Suisse da parte di Ubs, che ha il suo quartier generale a Zurigo, i gruppi bancari svizzeri di rilevanza sistemica sono passati da cinque a quattro: Ubs, Raiffeisen, Banca Cantonale di Zurigo (ZKB), PostFinance. Per le attività di credito sul mercato elvetico, dunque, la nuova Ubs si confronta anzitutto con banche d’impronta nazionale, ma anche con non poche banche regionali. Nella gestione di patrimoni il gruppo ha una posizione leader che deve difendere anche rispetto a grandi banche estere: le statunitensi Morgan Stanley, JP Morgan Chase, Goldman Sachs e Bank of America; le francesi Crédit Agricole e Bnp; la tedesca Deutsche Bank; la britannica Hsbc, tra le altre. Quanto alla concorrenza di altre banche elvetiche, tra le maggiori ci sono Julius Bär, Vontobel ed EFG (che ha assorbito la ticinese Bsi), tutte con sede centrale a Zurigo; le ginevrine Pictet, Lombard Odier e Ubp; J. Safra Sarasin, con sede a Basilea; Lgt, del Liechtenstein ma da sempre molto attiva in Svizzera. Se nella gestione internazionale di patrimoni il passaggio di Credit Suisse a Ubs non ha suscitato timori per la riduzione del grado di concorrenza, per le attività di credito sul mercato elvetico i pareri divergono. Alcuni esperti sostengono che la riduzione ci sia, altri danno ragione al vertice di Ubs secondo cui la concorrenza sul mercato svizzero resta forte. Secondo un’analisi del gruppo fnanziario americano Jefferies sulle attività legate al mercato svizzero, Raiffeisen nel 2022 aveva 208 miliardi di franchi di depositi, Ubs 167 miliardi, Credit Suisse 166 miliardi, Banca

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Cantonale di Zurigo 97 miliardi. La somma di Ubs e Credit Suisse superava quindi nettamente le cifre dei principali concorrenti, che però restavano ben piazzati. Sul versante dei prestiti Raiffeisen era a 211 miliardi, Credit Suisse a 164 miliardi, Ubs a 143 miliardi, Banca Cantonale di Zurigo a 94 miliardi: una situazione simile a quella dei depositi. Nell’ampio segmento dei prestiti ipotecari, invece, secondo la Banca nazionale svizzera a fne 2022 la quota di mercato delle banche cantonali era del 38%, quella delle grandi banche del 26,7%, quella del gruppo Raiffeisen del 17,8%, quella delle banche regionali del 7,8%, mentre altre banche avevano nell’insieme il 9,6%. Dunque Ubs e Credit Suisse nemmeno sommati avevano il primo posto. I dati ipotecari supportano insomma quanti sostengono che la concorrenza sul mercato bancario svizzero resti buona, malgrado il passaggio di Credit Suisse a Ubs. I dati complessivi su depositi e prestiti lasciano invece più aperto il dibattito. Il discorso del grado di concorrenza è stato comunque posto in secondo piano al momento di defnire la maxi operazione condotta da Ubs: nel marzo 2023 è stato detto che la crisi di Credit Suisse imponeva misure d’urgenza. Il Consiglio federale, la Banca nazionale svizzera e la Finma (Autorità federale di vigilanza sui mercati fnanziari) non hanno ritenuto di dover porre la questione della concorrenza, indicando come prioritaria la soluzione della crisi. Sempre in nome dell’urgenza, Confederazione e Bns hanno fornito ampie garanzie fnanziarie all’aggregato Ubs-Credit Suisse, poi rientrate quando l’acquisizione ha assunto un passo più sicuro. Se le polemiche sulle garanzie pubbliche sono quindi cessate, restano invece quelle sull’azzeramento di 17 miliardi di dollari di obbligazioni AT1 di Credit Suisse, concesso dalla Finma per alleggerire le perdite portate nel nuovo gruppo. Una mossa possibile per le norme elvetiche ma non per quelle di molti paesi e comunque penalizzante per i possessori di AT1 rispetto agli azionisti di Credit Suisse, che hanno subìto il forte calo del titolo in Borsa nei mesi precedenti ma hanno almeno potuto contare sul prezzo di acquisto pagato da Ubs (circa 3 miliardi di franchi, da molti azionisti giudicato troppo basso). Le cause seguite con maggior interesse, in Svizzera e altrove, saranno con ogni probabilità quelle aperte da gruppi di possessori di AT1, anche se i tempi si preannunciano lunghi. Oggi i rifettori sono puntati soprattutto sul cammino del nuovo gruppo bancario in termini di affari e di redditività. Tra giugno e novembre 2023 il percorso si è meglio precisato e le possibilità di successo, secondo molti analisti e operatori, sono cresciute. Per la prima volta nella sua lunga storia fnanziaria, la Svizzera ha una sola grande banca internazionale. Ne ha avute tre sino agli anni Novanta (quando ci fu la fusione Ubs-Sbs) e due sino al marzo 2023. Ci sono molte altre banche nella Confederazione, ma il cambiamento al vertice del settore c’è ed è rilevante.

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

DALLE ALPI ALLO SPAZIO

di Marcello SPAGNULO

Dal Moonwatch di Buzz Aldrin agli orologi atomici, dalle vele solari alle ogive per satelliti. C’è un po’ di Svizzera nella storia delle imprese spaziali. L’importanza dei politecnici. Il ruolo di Berna nell’Esa. Con la Cina non è andata come doveva.

Q

1. UANDO SI PENSA ALL’ESPLORAZIONE DELLO Spazio e ai paesi che lanciano satelliti in orbita terrestre o sonde verso pianeti del sistema solare, la Svizzera non è la prima nazione che viene alla mente. Situata nel cuore dell’Europa e senza sbocco al mare, il paese è associato a splendidi paesaggi alpini, cioccolato e orologi di precisione. Tuttavia, il suo contributo nel campo della scienza e della tecnologia spaziale è più signifcativo di quanto potrebbero suggerire le sue modeste dimensioni geografche. Peraltro, la sua tecnologia degli orologi di precisione è stata in passato un simbolo dell’astronautica mondiale e più recentemente è diventata un caso internazionale tra Unione Europea, Cina e Stati Uniti. Il viaggio della Svizzera nello Spazio inizia negli anni Sessanta, quando fu fondato l’Uffcio spaziale svizzero che nel 2009 diviene Swiss Space Center (Ssc). In piena guerra fredda, questa piccola nazione riuscì a inflarsi nella corsa alla Luna grazie a una sua icona mondiale: gli orologi Omega. Dal 1965, infatti, tutti gli astronauti delle missioni Apollo furono equipaggiati con cronograf Omega Speedmaster, il gioiello della storica fabbrica di orologi fondata nel 1848 a La Chaux-deFonds, nel Canton Giura. Gli orologi Omega, grazie alla loro struttura meccanica con carica manuale, superarono tutti i test della Nasa battendo la concorrenza e resistendo a futtuazioni di pressione, temperature estreme, campi magnetici, alte velocità e vibrazioni intense. Dalla Svizzera alla Luna il passo fu breve. Nel corso della missione Apollo 11, prima di scendere dalla scaletta del Lem e pronunciare la sua storica frase sul piccolo-grande passo, Neil Armstrong si sflò il suo Speedmaster dal polso e lo lasciò a bordo del modulo di atterraggio perché il cronografo elettrico di bordo si era guastato. La foto di Buzz Aldrin che passeggia sulla superfce lunare con l’orologio Omega diede all’azienda svizzera e al suo paese una visibilità mediatica che per-

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DALLE ALPI ALLO SPAZIO

dura. Ancora oggi il Moonwatch continua a essere prodotto nello stesso modello del 1969. Sull’Apollo 11 la tecnologia svizzera non era solo al polso degli astronauti per cronometrare il preziosissimo tempo che scandiva l’esaurirsi delle riserve d’aria disponibili. Grazie a un accordo governativo bilaterale con la Nasa stipulato negli anni Sessanta, l’Università di Berna sviluppò la prima vela eolica solare. Imbarcata su Apollo 11, fu tra i pochissimi esperimenti scientifci autorizzati dall’ente aerospaziale statunitense durante la missione del primo allunaggio. L’équipe universitaria svizzera progettò una vela in alluminio capace di catturare le particelle trasportate dal vento solare. A prima vista potrebbe sembrare un manufatto semplice, in pratica fu una sfda tecnologica molto impegnativa per quegli anni e fu realizzata con pieno successo. Con giustifcato orgoglio la piccola nazione alpina afferma che, dopo la bandiera statunitense, la prima a «sventolare» – eufemismo: sulla Luna non c’è aria – sulla superfce lunare fu quella svizzera, grazie alla vela solare piantata da Aldrin. Dopo la Luna l’attivismo elvetico nel panorama spaziale trovò ambiti d’azione anche in Europa. Nei primi anni Settanta gli europei fronteggiavano le alterne vicende delle due organizzazioni create nel decennio precedente per lo sviluppo della ricerca spaziale: Eldo (European Launcher Development Organisation), incaricata di realizzare il razzo vettore Europa; ed Esro (European Satellite Research Organisation), che doveva costruire satelliti da lanciare con il veicolo della Eldo. Poiché quest’ultima fallì tutti i suoi test, gli Stati europei avviarono complesse negoziazioni per istituire una nuova organizzazione più concentrata sugli obiettivi di autonomia tecnologica e strategica. Nel 1975 diedero così vita all’Agenzia spaziale europea (Esa). Durante le lunghe e complesse fasi negoziali fu la delegazione svizzera a risolvere alcuni spinosi temi, essenziali per il funzionamento della nascente agenzia.

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2. Pur non avendo costruito razzi o satelliti, la Svizzera ha quindi dato un contributo sostanziale alla comunità spaziale europea. In maniera oculata, sin dai suoi primi anni di vita la piccola (per dimensione, non per qualità) industria spaziale svizzera si concentrò su pochi, specifci settori: strutture, elettronica e apparecchiature di supporto alle stazioni di terra. Su questi ha costruito delle eccellenze. I risultati del successo sono stati il frutto di un’intelligente politica che è riuscita a integrare un solido sistema accademico con una nascente industria, altamente specializzata. Le università svizzere, come l’ETH (il Politecnico di Zurigo) e l’Epf (l’analogo di Losanna), hanno svolto e svolgono tuttora un ruolo determinante nella formazione di scienziati e ingegneri, contribuendo alla crescita di aziende come Contraves, Thales Alenia Space Swiss e Ruag Space. Quest’ultima è divenuta l’unico produttore europeo di carenature in materiali compositi, le ogive che proteggono i satelliti a bordo dei razzi spaziali durante il decollo. Finora questo prodotto svizzero si è dimostrato estremamente affdabile in oltre 300 lanci dei lanciatori europei Ariane e Vega, ma è venduto anche all’estero per uso su razzi statunitensi. La Svizzera ha saputo bilanciare molto bene la sua partecipazione all’Esa: pur restando distante, in termini di impegno fnanziario, dai principali contributori

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(Francia, Germania, Italia e Regno Unito), il paese è sempre stato il quinto contributore. Il più grande tra i piccoli. Ruolo che in un’agenzia alla perenne ricerca di compromessi si è spesso rivelato decisivo nello spostare delicati equilibri. Ne è riprova il fatto che già nel 1978 la Svizzera vantò il suo primo astronauta selezionato dall’Esa, Claude Nicollier, il quale volò a bordo dello shuttle Atlantis nel 1992 insieme al nostro Franco Malerba, primo astronauta italiano. Nicollier effettuò altri tre voli nello Spazio, comprese due missioni per la manutenzione del telescopio spaziale Hubble, che comportarono per lo Space Shuttle una traiettoria orbitale a oltre 600 chilometri di altezza. Non usuale per la navetta, che normalmente viaggiava a circa 300 chilometri dalla Terra. Nel 2009 gli studenti del Politecnico Federale di Losanna realizzarono e lanciarono lo SwissCube, primo satellite della Svizzera. Sebbene di dimensioni molto ridotte e progettato soprattutto per scopi didattici, il piccolo cubesat riuscì a effettuare esperimenti sull’atmosfera terrestre e sui detriti spaziali. Ma è sempre con gli orologi, gioiello della tecnologia svizzera, che il paese tornò alla ribalta spaziale. Questa volta con risvolti globali. Tutto nasce con il controverso progetto satellitare Galileo, alternativa europea al Gps americano. Avviato a inizio anni Duemila, il progetto fortemente voluto dalla Commissione europea stentava a decollare. Avversato dagli americani, che cercavano sponde in alcuni paesi europei per contrastarlo, Galileo faticava a raccogliere gli ingenti fondi necessari dagli Stati dell’Ue, al punto da costringere Bruxelles a dirottarvi, tra molte polemiche, due miliardi di euro dei fondi destinati all’agricoltura. Entrò inaspettatamente in gioco la Cina, che pur essendo parte dell’Organizzazione mondiale del commercio dal 2001 vedeva la sua azione nel settore spaziale bloccata dalla legislazione Itar, voluta da Bill Clinton. La normativa vietava l’export di tecnologia satellitare verso Pechino, che si rivolse così all’Europa impegnandosi nel 2003 a contribuire con 200 milioni di euro al programma Galileo. Dato il ritardo accumulato, Bruxelles accolse con entusiasmo l’offerta cinese e le industrie europee del settore videro in questa cooperazione un’opportunità per espandere l’accesso al grande mercato asiatico, da cui le controparti statunitensi erano state escluse. Nel 2004 la Commissione e China Galileo Industries, società speciale creata per coordinare la ricerca e lo sviluppo del progetto, frmarono dodici contratti in base ai quali la Cina avrebbe fornito tecnologie chiave per lo sviluppo iniziale di Galileo. 3. Tra le forme di cooperazione industriale era compresa la fornitura di orologi atomici al rubidio, prodotti dalla svizzera SpectraTime di Neuchâtel. Gli orologi atomici sono fondamentali per il funzionamento di un sistema di navigazione satellitare: senza la loro precisione, la sincronizzazione dei segnali non sarebbe effcace e il geoposizionamento sulla Terra ne risulterebbe gravemente infciato. L’Ue non vide o non volle vedere i rischi della collaborazione. I funzionari europei ritennero che, sebbene China Galileo Industries fosse partecipata da alcune delle principali entità aerospaziali militari cinesi (China Aerospace Science and Industry Corporation, China Academy of Space Technology), l’intesa mirasse ad applicazio-

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DALLE ALPI ALLO SPAZIO

ni civili. In quel momento storico l’Esercito popolare di liberazione non era considerato una minaccia per la sicurezza europea. Anzi, il sostegno cinese a Galileo fu considerato un gradito contrasto all’opposizione di Washington verso il rivale europeo del Gps. La cooperazione però non funzionò in modo bilaterale. Quasi tutti i fondi stanziati da Pechino furono spesi in Cina e gli appaltatori cinesi mantennero la piena disponibilità dell’hardware e delle connesse proprietà intellettuali. La tensione politica montò presto. Bruxelles sapeva che la Cina intendeva costruire una rete di navigazione militare, Beidou, e presto divenne chiaro che quest’ultima sarebbe entrata in competizione con Galileo al punto da utilizzare segnali elettromagnetici sovrapponibili. Gli europei si resero conto (o riconobbero) che Pechino era determinata a carpire quanta più tecnologia duale possibile per i suoi satelliti Beidou. La situazione peggiorò quando la stampa pubblicò i dettagli delle pressioni americane su vari governi europei per interrompere la collaborazione con la Cina. Ma anche le rivelazioni sulle attività di alcuni funzionari di Pechino i quali, dopo aver provato ad acquistare orologi maser all’idrogeno dalla ditta franco-tedesca Eads (oggi Airbus Defence & Space), si procurarono venti orologi atomici al rubidio dalla svizzera SpectraTime. Secondo molti osservatori, questi cronograf sarebbero stati montati a bordo dei primi 16 satelliti Beidou messi in orbita tra il 2015 e il 2016. Nel 2012 il sito di SpectraTime riportava che in parallelo al contratto siglato con Esa per la fornitura di 14 maser all’idrogeno destinati ai satelliti Galileo, la sua tecnologia di oscillatori al rubidio era adottata dai satelliti indiani e cinesi. Nel 2019 China Aerospace Science and Industry Corporation dichiarò di aver raggiunto la capacità di produrre su scala industriale un sottilissimo orologio atomico al rubidio, spesso appena 17 millimetri. Dal 2020 il sistema Beidou opera in orbita con oltre trenta satelliti a copertura globale, costituendo un pilastro della crescente baldanza strategica, militare ed economica di Pechino. Morale della storia: cioccolato e orologi non hanno frontiere. Sulla Terra, così come nello Spazio.

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

La fucina dei lavoratori a cura di Daniel

DUTTWEILER e Tamara ODERMATT

La formazione professionale è uno dei cardini dell’economia e della società svizzere. Basata sul sistema duale, che prevede una stretta interazione fra teoria e pratica, è un modello vincente scelto ogni anno da due giovani su tre 1. Il suo successo risiede nel legame diretto con il mondo del lavoro. Nella formazione di base, collocata al livello secondario, tre soggetti – le aziende di tirocinio, le scuole professionali e i corsi interaziendali – lavorano in sinergia per fornire un percorso professionale e scolastico di alta qualità capace di coniugare l’apprendimento di conoscenze e lo sviluppo di competenze. Nelle aziende i giovani acquisiscono le abilità pratiche fondamentali della loro professione e sono direttamente coinvolti nei processi di produzione. Nelle banche, ad esempio, gli apprendisti forniscono consulenza ai clienti, mentre nelle industrie supportano il personale e lavorano in maniera autonoma. Anche nelle scuole professionali il programma prevede l’insegnamento di discipline professionali, accompagnate da materie di cultura generale. I corsi interaziendali, invece, mirano a sviluppare le competenze pratiche fondamentali per una determinata professione e garantiscono una trasmissione unitaria e qualitativamente elevata delle capacità professionali di base e delle conoscenze teoriche 2. Ecco la dualità del sistema: teoria e pratica si integrano, completandosi reciprocamente. La Confederazione, i Cantoni e le organizzazioni del mondo del lavoro collaborano per mantenere la formazione professionale ad alti livelli e per offrire un numero suffciente di tirocini e di cicli formativi. Ogni partner concorre all’obiettivo: la Confederazione è responsabile della gestione strategica e dello sviluppo del sistema nella sua interezza, i Cantoni attuano la legge sulla formazione professionale e vigilano sui contratti di tirocinio e sulle scuole, le organizzazioni del lavoro defniscono i contenuti delle formazioni e offrono i tirocini. È grazie a questa cooperazione che l’offerta di mestieri è vasta e orientata alle esigenze dell’economia. La formazione professionale si aggiorna continuamente: oggi il lavorante in una passamaneria non ci dice nulla, ma che dire dello sviluppatore business digitale o del professionista delle schermature solari? Sono i mestieri del futuro. I re1. Istituito negli anni Ottanta del XIX secolo, il sistema duale si basa su un compromesso tra i fautori dell’istruzione unicamente teorica e i sostenitori di una formazione orientata solo all’esercizio di una professione. L. CRIBLEZ, «Il sistema educativo svizzero. Evoluzione storica nel XIX e XX secolo», Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche, n. 23, 2016, p. 128. 2. I corsi interaziendali, spesso organizzati dai centri di formazione di settore, sono parte integrante della pratica professionale e della formazione scolastica. La loro frequenza è obbligatoria e assicura l’acquisizione dei saperi fondamentali per una determinata professione, indipendentemente dal focus dell’azienda.

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DALLE ALPI ALLO SPAZIO

quisiti dei titoli della formazione professionale di base e superiore sono stabiliti dagli ambienti economici in funzione delle esigenze. L’offerta formativa si basa su qualifche professionali per le quali esiste un’effettiva domanda e sui posti di lavoro messi a disposizione dalle imprese. Così i giovani hanno la certezza che la loro formazione sia richiesta dal mercato del lavoro. L’ampia offerta di professioni (quasi duecentocinquanta nella formazione di base), abbinata all’elevata permeabilità del sistema di formazione professionale, offre innumerevoli possibilità di sviluppo. Dopo la formazione professionale di base, i giovani hanno accesso a tante possibilità per qualifcarsi a livello terziario. Ottenuto l’attestato federale di capacità, oltre a inserirsi nel mondo del lavoro da qualifcati possono decidere di approfondire le conoscenze pregresse, abilitandosi all’esercizio di un’attività di maggiore responsabilità: si tratta della formazione professionale superiore. Come le scuole universitarie, tale formazione fa parte del sistema terziario. Per esempio un installatore o un pianifcatore elettricista con un’esperienza di due anni maturata nell’esecuzione o nella pianifcazione di impianti elettrici, sostenendo un esame di professione può diventare un elettricista capo progetto in installazione e sicurezza, ovvero un professionista con alta specializzazione. Ma l’attestato federale di capacità è anche la chiave per conseguire la maturità professionale federale, che permette di accedere al livello terziario: l’ammissione alle scuole universitarie professionali è diretta nel rispettivo ambito professionale, mentre per le università o i politecnici è previsto il superamento di un esame complementare, chiamato «passerella». Le imprese sono fondamentali per la formazione professionale, perché offrendo – su base volontaria – i posti di tirocinio contribuiscono al coinvolgimento dei giovani nel mondo aziendale. Inoltre, dato che associazioni di categoria e organizzazioni settoriali defniscono i contenuti formativi, organizzano i corsi interaziendali e sviluppano nuove formazioni. La maggioranza delle aziende è pienamente soddisfatta della formazione di apprendistato 3: mettendo a disposizione un tirocinio le imprese garantiscono il ricambio generazionale, si rinnovano e restano al passo con i tempi. Si tratta pertanto di un mutuo vantaggio, per i giovani e per le aziende. La formazione professionale di base è fnanziata a livello pubblico e privato. Cantoni e Confederazione, insieme alle aziende e alle associazioni professionali, cooperano in tal senso. La formazione professionale superiore e quella continua, invece, vengono sostenute soprattutto dalle imprese. Per le aziende formare apprendisti ha un effetto positivo su molti piani, anche su quello fnanziario: le prestazioni produttive dei giovani in formazione superano i costi effettivi, generando un utile netto. Nell’anno di formazione 2016-17, per tutte le professioni si è ottenuto in media un benefcio netto di oltre 3 mila franchi per ogni anno e contratto di apprendistato 4. Oltre il 60% delle aziende ha registrato un utile grazie alla forma-

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3. A. GEHRET, M. AEPLI, A. KUHN, J. SCHWERI, «Formazione in apprendistato: quali benefci per le aziende?», Lugano 2019, Istituto universitario federale per la formazione professionale (Iuffp), p. 5. 4. Ibidem.

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zione professionale. Le altre aziende traggono vantaggio dalla formazione degli apprendisti, perché a formazione ultimata non devono sostenere i costi di assunzione e di inserimento nel contesto lavorativo. La crescente carenza di manodopera qualifcata rende ancor più evidente l’importanza essenziale della formazione professionale. L’economia svizzera dipende dalla capacità di attrarre un numero suffciente di giovani nei programmi di formazione, assicurando una nuova generazione professionalmente preparata. Altrettanto importante è l’apprendimento permanente: in Svizzera il 68% della popolazione fra 25 e 65 anni segue una formazione continua 5. La Confederazione e i Cantoni sostengono gli adulti che entrano e rientrano nel mercato del lavoro con delle consulenze e attraverso strutture fessibili. La qualifcazione professionale degli adulti trova grande riscontro: ogni anno sono oltre 10 mila le persone con oltre 25 anni che ottengono un attestato di formazione professionale 6. La segreteria di Stato per la Formazione, la ricerca e l’innovazione incentiva la formazione continua e l’apprendimento permanente con misure volte a promuovere le competenze di base per meglio affrontare le sfde che si presentano sul posto di lavoro. Uno degli obiettivi è infatti quello di migliorare le competenze lavorative delle persone poco qualifcate.

5. Uffcio federale di statistica, 2016. 6. «Qualifcazione professionale degli adulti», segreteria di Stato per la Formazione, la Ricerca e l’innovazione (Sefri).

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COME SWATCH SALVÒ LA POTENZA DELL’OROLOGIO SVIZZERO

BARTU La storia dell’azienda e dell’uomo che sfidarono l’Estremo Oriente. Dalla crisi del quarzo alla fusione di Ssih e ASUAG. Modelli stravaganti, campagne di marketing e attori di spicco: così Nicolas Hayek riuscì a guarire il ‘gigante addormentato’. di Friedemann

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1. IOCCOLATO, FORMAGGIO, OROLOGI. PER MOLTI anni questo terzetto ha costituito uno stereotipo della Svizzera particolarmente diffuso all’estero. Proprio come l’orologio a cucù, che in realtà è originario della Germania meridionale. O come il sinistro segreto bancario, a cui gli istituti fnanziari svizzeri hanno però dovuto rinunciare uffcialmente nella primavera 2014, su pressione della maggior parte dei paesi occidentali, Stati Uniti in testa. Ben quarant’anni prima, l’industria orologiera era stata colpita da una pressione completamente diversa, ma non per questo meno consistente. Un’ondata di orologi da polso provenienti dall’Oriente, in particolare dal Giappone e da Hong Kong, iniziò a fare il giro del mondo. Erano gli orologi elettrici al quarzo che Seiko, Citizen e Casio (solo per citarne alcuni) lanciarono sul mercato con enormi proftti. Ironia della sorte, i primi orologi al quarzo erano già stati sviluppati in Svizzera alla fne degli anni Sessanta. Il Centre électronique horloger (Ceh) di Neuchâtel aveva prodotto il famoso Beta 21, ovvero il primo orologio da polso analogico azionato al quarzo, con display a lancetta. Fu un salto di qualità tecnico, ma non venne preso in considerazione dall’industria orologiera nazionale. D’altronde nessun uomo è profeta in patria. Si trattò di un grave errore: gli scaltri giapponesi si appropriarono ben volentieri della tecnologia e cominciarono ad attaccare il potente comparto orologiero elvetico. I dirigenti svizzeri – accecati da una tendenza al rialzo che perdurava da decenni – si accontentarono dei loro fori all’occhiello e per troppo tempo non presero sul serio l’offensiva asiatica. Affevoliti dal loro stesso successo, continuarono a puntare sul prestigio e sugli esclusivi marchi di lusso, come Rolex, Omega, Longines, Patek Philippe, Audemars Piguet e Iwc. Ripetevano che «i nostri clienti non vogliono orologi elettrici dall’Estremo Oriente, ma orologi meccanici made in Switzerland». La realtà si rivelò completamente diversa. Ben presto gli apparecchi

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analogici e digitali al quarzo provenienti dall’Asia, con prezzi vantaggiosi e qualità assolutamente rispettabile, divennero un bestseller mondiale. 2. Gli svizzeri non avevano nulla per contrastare questa situazione, con la parziale eccezione del conveniente marchio Roskopf, i cui prodotti meccanici apparivano però troppo obsoleti rispetto ai trendy orologi digitali al quarzo con numeri luminosi. In questo modo, l’industria locale dovette assistere a malincuore all’improvvisa invasione della concorrenza estremo-orientale. Basti ricordare che tra il 1970 e il 1990 l’azienda Nippon rilevò numerose industrie. Si poteva mettere in conto che i comparti caduti nelle mani dei giapponesi fossero quasi certamente persi per sempre per la concorrenza. Si trattava di un pericolo concreto anche per i produttori di orologi svizzeri dell’epoca, che continuavano a essere leader nelle fasce alte di prezzo, ma non erano in alcun modo presenti nel segmento più basso, comprendente i prodotti sotto i 100 franchi svizzeri, nonostante questi modelli costituissero la principale quota delle vendite. Per esempio: nel 1982 vennero prodotti quasi un miliardo di orologi in tutto il mondo, circa 950 milioni dei quali rientravano nelle categorie di prezzo medio e basso. La Svizzera contribuì con appena 30 mila orologi, una cifra irrisoria, pari allo 0,003% della totalità del mercato. Inoltre il franco svizzero, all’epoca particolarmente forte, rendeva i prodotti elvetici più costosi all’estero e meno competitivi. A ciò si aggiunse il fatto che gli orologi al quarzo misuravano il tempo con maggiore precisione rispetto a quelli meccanici. I giapponesi riuscirono così a distruggere il mito dell’orologio svizzero, il vanto di essere «i più precisi al mondo». Fu un trionfo dell’Estremo Oriente. E i consumatori si precipitarono ad acquistare questi nuovi modelli. I dirigenti dell’industria orologiera svizzera, che erano stati colti di sorpresa dalla nuova ondata asiatica e avevano reagito alla tragedia in modo piuttosto pigro, permisero che le loro aziende scivolassero in una crisi grave e potenzialmente letale. Quando l’industria cadde defnitivamente in ginocchio, molti di loro si fecero prendere dalla disperazione e pensarono solo alla liquidazione. Si pensò di vendere ai giapponesi anche il prestigioso marchio Omega. E sembra che, durante un incontro a New York, un alto rappresentante americano di Nippon abbia detto ai massimi dirigenti della concorrenza svizzera in diffcoltà: «Non potete più produrre orologi. La Svizzera può produrre cioccolato e formaggio, non orologi». Questa negatività fu rispecchiata nei titoli delle testate nazionali e internazionali, specialmente quando la situazione deteriorò ulteriormente all’inizio degli anni Ottanta, a causa della crisi del quarzo. Licenziamenti, esuberi e chiusure di stabilimenti erano all’ordine del giorno. Il numero di dipendenti scese da 90 mila a 30 mila. In diverse manifestazioni in Svizzera l’industria orologiera nazionale, ambito tradizionalmente importante, veniva già data per spacciata. La situazione era molto deprimente ed era diffuso un notevole senso di impotenza.

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3. All’epoca anche le due principali banche elvetiche, l’Unione di banche svizzere e la Società di banca svizzera, che si sarebbero successivamente fuse nel 1998,

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furono colpite dalla crisi. Avevano con il settore degli orologi ingenti prestiti in sospeso, che rischiavano di perdere. Pensarono quindi di ristrutturare l’intero comparto. Ma chi poteva o doveva assumersi questo compito erculeo? Chi era disposto a reggere il timone della nave mentre affondava? Risposta: Nicolas G. Hayek. Il matematico, nato a Beirut negli anni Venti e immigrato per amore in Svizzera nel 1949, si era fatto un nome come consulente aziendale ben oltre i confni nazionali grazie alla sua società, la Hayek Engineering di Zurigo. Come prevedibile, con il suo temperamento levantino e le sue brillanti capacità intellettuali, inizialmente incontrò alcune diffcoltà nella nuova patria. Gli svizzeri del tempo – molto più di oggi – ricercavano l’omogeneità e l’armonia, prediligevano la mediocrità. Eppure, grazie alla sua capacità di supportare con successo la ricostruzione dell’industria (pesante) tedesca nel dopoguerra e al conseguente guadagno reputazionale, Hayek ricevette anche in Svizzera importanti incarichi di consulenza, dalla televisione alle ferrovie, fno all’acquisto di carri armati per l’esercito. Hayek aveva poco in comune con gli altri dirigenti dell’epoca. Il suo aspetto era anticonvenzionale, fresco e colorato. I suoi sforzi per evitare di ristrutturare le aziende a scapito dei lavoratori, quando possibile, e le sue analisi implacabili lo resero una star nell’altrimenti grigio universo imprenditoriale svizzero. Nonostante amasse recitare il ruolo dell’outsider, il matematico prese sempre più le distanze dalla sua terra d’origine, che fn da adolescente aveva percepito come superfciale. In Libano era venerato, ma non vi tornò quasi mai. Si sentiva invece a casa tra gli svizzeri, persone alla mano, che non solo lo accettarono come uno di loro, ma arrivarono a celebrarlo quasi come un eroe nazionale. Da questo punto di vista la moglie Marianne, di origine svizzera, si rivelò sempre un importante sostegno. Hayek l’aveva conosciuta proprio a Beirut, dopo la seconda guerra mondiale, dove lavorava come ragazza alla pari e stava imparando il francese. Al tempo il Libano era ancora considerato la «Svizzera del Medio Oriente» e la sua capitale la «Parigi d’Oriente». Tempi passati. All’inizio degli anni Ottanta, Hayek accettò di rivestire il ruolo di consulente al comitato direttivo istituito dalle banche creditrici per salvare l’industria orologiera della Svizzera. Per lui si trattava di un settore inesplorato: la delicata arte degli orologi era l’antitesi dell’industria pesante o delle ferrovie statali. Ma sapeva di poter contare su persone molto capaci nella sua società di consulenza, che lo avrebbero sostenuto in questo diffcile compito. E le decisioni non tardarono ad arrivare. Notevole fu l’audace ma inevitabile fusione dei due maggiori colossi in perdita, la Ssih (Société suisse pour l’industrie horlogère, produttrice anche di Omega e Tissot) e l’ASUAG (Allgemeine Gesellschaft der Schweizerischen Uhrenindustrie). A posteriori, Hayek spiegò che i gruppi non versavano soltanto in condizioni catastrofche, ma erano anche profondamente ostili l’un l’altro. «Se pronunciavi una parola in francese all’interno di ASUAG, ti spedivano in cantina. Se parlavi tedesco nei corridoi della Ssih, ti facevano sapere che di orologi non capivi nulla. Qui tutti i capi erano francofoni, là erano svizzero-tedeschi. Le due aziende si odiavano come la peste. E sono praticamente fallite».

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Una delle prime iniziative della Hayek Engineering fu molto peculiare. «Ci siamo procurati tre orologi economici completamente identici. Abbiamo stampato made in Switzerland sul primo, made in Japan sul secondo e made in Hong Kong sul terzo. Al tempo queste erano le tre roccaforti dell’industria orologiera. (…) Quindi, abbiamo assegnato all’orologio svizzero un prezzo al pubblico di 107 dollari, a quello giapponese 100 dollari e a quello di Hong Kong 93 dollari. Abbiamo distribuito i tre apparecchi in vari negozi di orologi in tutto il mondo per vedere cosa si sarebbe venduto. Il risultato è stato sorprendente. Oltre il 60% degli acquirenti ha optato per l’orologio svizzero. In Italia la percentuale è stata addirittura superiore al 99%. E in Europa si è raggiunto un impressionante 85% in media. Solo in Giappone siamo stati relativamente deboli, con appena il 14%». Bastò questa prova per capire che l’immagine dell’orologio svizzero non aveva sofferto la crisi. Hayek riuscì a convincere le banche che l’industria orologiera non era al capolinea. Era piuttosto un «gigante addormentato». Di conseguenza, gli istituti fnanziari iniettarono nel settore in crisi un ulteriore miliardo di franchi, destinati a coprire le perdite esistenti e a fornire nuovi capitali di rischio. Fu una coraggiosa operazione di salvataggio, che in fn dei conti riuscì solo perché una rete di banchieri e manager responsabili accettò di lavorare con raro senso di coesione e a benefcio dell’economia svizzera. Due anni più tardi, su insistenza delle banche, Hayek abbandonò il suo ruolo di consulente e, assieme a un gruppo di investitori, divenne azionista di maggioranza del nuovo grande gruppo Smh (Société de mircroélectronique et d’horlogerie), che nel frattempo si era fuso con ASUAG e Ssih. Così realizzò il suo sogno di diventare un imprenditore e non soltanto un consulente. Investì nella nuova e ancora rischiosa avventura una porzione considerevole del suo patrimonio privato – più di 50 milioni di franchi svizzeri. Gesto che fu molto apprezzato in tutto il paese. Hayek divenne rapidamente l’uomo di punta dell’industria orologiera della Svizzera. Ma l’iniezione di capitale da parte delle banche portò solo un sollievo temporaneo. Serviva un nuovo prodotto di successo. Per questo nacque Swatch.

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4. Lo sviluppo di questo prodotto inusuale non fu rapido. Lo precedevano diversi anni di competizione tra Giappone e Svizzera per produrre l’orologio più sottile. I giapponesi avevano elaborato un orologio spesso 4,1 millimetri e poco dopo uno di 2,5 millimetri, sbaragliando la concorrenza. Ma ciò innescò la reazione degli orologiai svizzeri, che decisero di produrre un modello spesso soltanto 1,9 millimetri. Il suo nome avrebbe dovuto essere Très mince, che in francese signifca «molto sottile». Ma alla fne si optò per Delirium tremens, un gioco di parole, poiché la questione doveva restare top secret. Gli sviluppatori svizzeri riuscirono nell’impresa. E il 12 gennaio 1979 presentarono il prototipo di un orologio al quarzo sottile 1,9 millimetri. Ingegneri e orologiai avevano inventato un metodo innovativo: fresando e montando il meccanismo nella cassa, erano riusciti ridurre la quantità di componenti necessari da più di 150 a soli 52. Due anni più tardi, per la prima volta i tecnici di ASUAG riuscirono ad

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applicare questa innovazione a un modello in plastica. Non particolarmente bello o sottile, ma comunque in plastica. Tale invenzione permetteva di risparmiare sui costi. Gli svizzeri avevano tra le mani qualcosa per tenere testa agli asiatici. Lo scopo era chiaro: produrre un orologio economico ma di qualità ineccepibile. L’esordio fu estremamente complicato. Il nuovo modello era promettente, ma diffcile da posizionare sul mercato. L’orologio venne ridicolizzato all’interno del settore e non solo. In molti si rivolsero a Hayek chiedendo: «Questo pezzo di plastica dovrebbe salvare la malandata industria orologiera della Svizzera?». Era una situazione spiacevole, soprattutto perché gli inventori erano privi di una lucida visione di marketing e dei fondi necessari per una campagna pubblicitaria su ampia scala. In questo momento diffcile, Hayek mostrò nuovamente la propria capacità di ispirare e convincere le persone. Non aveva partecipato allo sviluppo dello Swatch, ma nel momento decisivo fu lui a convincere le banche a investire altro denaro nella commercializzazione del prodotto. Furono lui e il suo team a riorientare completamente il nuovo orologio sul mercato. Per la prima volta veniva dipinto come qualcosa di più di un normale segnatempo: era un accessorio di moda simpatico, eccentrico e sfacciato. Si poteva (leggi: doveva) possederne più di uno. Esattamente come nel mondo della moda, ogni anno venivano lanciate nuove collezioni a ritmo serrato. I modelli e i colori erano sempre differenti. Per questo nelle gioiellerie lo Swatch era spesso presentato come «la moda che lascia il segno». Così ebbe inizio una delle campagne pubblicitarie di maggior successo del secolo scorso. Sfruttando le sue relazioni commerciali di prim’ordine con la Germania, Hayek riuscì a inventare una trovata di marketing particolare. Convinse la Commerzbank a installare sulla facciata di uno dei più imponenti grattacieli di Francoforte – di cui era proprietaria – un orologio Swatch di plastica giallo-brillante, lungo oltre 140 metri, pesante 13 tonnellate e perfettamente funzionante, con la scritta: «Swatch-Swiss-60 Dm». Il messaggio provocatorio fu subito recepito. Nel giro di poche settimane quasi tutti in Germania sapevano cos’era Swatch e cosa rappresentava: un prodotto di culto e accessibile che esprimeva stile e classe. Successivamente questo piano fu adottato anche a T§ky§, nel cuore della competizione, nella tana del leone. Si trattò di una svolta decisiva che favorì l’ulteriore ascesa del marchio, nonostante molti orologiai e manager svizzeri tradizionali liquidarono a lungo la campagna di marketing come non svizzera e opera di un parvenu straniero. Si sbagliavano di grosso. Nel giro di pochissimo tempo, Swatch iniziò una marcia trionfale senza precedenti in tutto il mondo. Un fenomeno che oggi potrebbe essere paragonato al culto dell’iPhone. Attori di spicco come Jack Nicholson o la leggenda del tennis Ivan Lendl pubblicizzarono il nuovo prodotto, indossandolo al polso e recitando lo slogan «Switch to Swatch» («Passa a Swatch»). Negli spot, per incoraggiare i giovani all’acquisto, comparivano skateboarder, rapper, surfsti e ballerini di break dance. Inoltre, vennero realizzate edizioni limitate da artisti come Kiki Picasso, Keith Haring e Vivienne Westwood. Suscitò clamore anche la trilogia di Swatch vegetali dell’artista pop

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svizzero-austriaco Alfred Hofkunst: raffgurava un cetriolo, un peperone e un uovo fritto su pancetta. Non c’erano limiti all’immaginazione. E spesso i fan facevano ore di coda per mettere le mani su uno di questi modelli stravaganti. Il fatto che a volte anche la moglie Marianne si trovasse in mezzo alla coda – aspetto che Hayek probabilmente aveva orchestrato con cura – era visto con simpatia. Il messaggio era che il marito non le avrebbe riservato alcun trattamento speciale. Lo Swatch divenne presto non solo un oggetto da collezione, ma anche un investimento. Nel 1986, la celebre casa d’aste Sotheby’s tenne a Ginevra il primo evento dedicato agli Swatch. Non sarebbe stato l’ultimo. Dodici mesi dopo il primo lancio, erano già stati prodotti oltre un milione di Swatch. Nel 1985 uscì dalla linea di produzione l’esemplare numero dieci milioni. Nel 1992, l’arrivo a cento milioni fu festeggiato in grande stile anche da Hayek, «Mister Swatch», ormai all’apice della sua carriera nell’industria orologiera. Lo Swatch era un’icona mondiale, al punto che Hayek fece ribattezzare la società Smh come Swatch Group. Le università di Neuchâtel, in Svizzera, e di Bologna, in Italia, onorarono l’impressionante curriculum dell’imprenditore conferendogli dottorati ad honorem.

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5. In retrospettiva si tende ad approvare persino l’approccio più ostinato di Hayek, che all’epoca consisteva nel battere i giapponesi al loro stesso gioco, ossia nel segmento low-cost. All’epoca egli sviluppò la «strategia della torta a più piani» come fondamento teorico del suo piano di difesa. La base era costituita dallo Swatch, nonostante all’epoca non si sapesse ancora se sarebbe diventato davvero il vero bestseller. Il marchio Tissot si trovava nel livello subito superiore. Seguivano Rado e Longines. In cima alla torta c’era Omega. Tale immagine era la perfetta illustrazione della convinzione di Hayek: senza una base solida (una presenza svizzera signifcativa nel segmento inferiore del mercato degli orologi) la torta non avrebbe potuto sopravvivere a lungo e sarebbe crollata. In parte era già accaduto durante la crisi del quarzo. A quel tempo, i detrattori di Hayek avrebbero preferito un metodo differente: dare priorità ai redditizi segmenti superiori. Ma proprio l’approccio opposto si rivelò la chiave del successo, come dimostrato dalla vendita di oltre 300 milioni di orologi Swatch in tutto il mondo. Questo trionfo non poteva continuare per sempre. Prima della sua morte nel giugno 2010, Hayek aveva accarezzato l’idea di superare in futuro il traguardo del miliardo di Swatch venduti. Ma negli ultimi anni la crescita delle vendite ha rallentato. E il marchio è stato superato da un concorrente completamente nuovo, l’Apple Watch, il quale più che un orologio costituisce un microcomputer da braccio. Nonostante ciò, il gigante tecnologico americano è diventato il più grande produttore di orologi al mondo. Superando così lo Swatch Group, gestito attualmente dal fglio di Hayek, Nick, e presieduto dalla fglia, Nayla. Ancora una volta, sembra che gli svizzeri non abbiano letto in tempo le nuove tendenze, malgrado il gruppo abbia per diversi anni rifettuto sulla possibilità di rendersi l’alternativa svizzera all’Apple Watch.

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Nick Hayek ha recentemente fatto ricorso a un vecchio trucco di marketing. Ha prodotto modelli nuovi e accattivanti, vendendoli però solo in piccole dosi. Mi riferisco in particolare al MoonSwatch, lanciato nella primavera 2022. A prima vista può sembrare un mix piuttosto discutibile tra il lussuoso Omega e il conveniente Swatch. Tuttavia il suo successo è stato sbalorditivo, con oltre tre milioni di esemplari già venduti in tutto il mondo. Una risposta che ha spinto il gruppo a lanciare una seconda collaborazione, da cui è nato l’orologio subacqueo Blancpain X Swatch. Non si tratta solo di cooperazione tra marchi, ma anche di cooperazione intrafamiliare: a capo del marchio di lusso Blancpain c’è Marc Hayek, appassionato di immersioni, fglio di Nayla Hayek e nipote di Nick Hayek, nonché unico nipote di Nicolas Hayek. Dopo la Luna è quindi il turno degli oceani. Dal punto di vista di Swatch Group, tali collaborazioni non sono interessanti solamente per ragioni puramente economiche. Offrono anche l’opportunità di diffondere, con un approccio ludico, la conoscenza degli orologi e dell’industria orologiera svizzera. Un esempio? Solo con il lancio del MoonSwatch molti hanno appreso che l’Omega Speedmaster è stato il primo orologio a partecipare allo sbarco sulla Luna. Senza dubbio, la speranza è anche che chi indossa un MoonSwatch oggi diventi in futuro un acquirente dell’Omega originale. Sia MoonSwatch sia Blancpain X Swatch utilizzano ceramica organica, hanno rispettivamente un costo di 250 e 375 franchi svizzeri e, con una dosata quantità di esemplari in vendita, hanno contribuito a creare lunghe code di potenziali clienti in paziente attesa. È un’attesa che riporta alla memoria gli albori dello Swatch, che nel 2023 festeggia il suo 40° compleanno. Buon compleanno, Swatch! (traduzione di Giacomo Mariotto)

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Parte III la SVIZZERA e NOI

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CAVOUR IL GINEVRINO

PELUFFO Il francofono Camillo ha con Ginevra un vincolo biografico che ne informa la vicenda di uomo e di statista. L’incubazione politica tra bonapartismo, giacobinismo e carboneria. L’influenza di Sismondi. Il credito svizzero e genovese come motore del ‘capitalismo cavouriano’. di Paolo

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1. CORRENDO LE 2.646 PAGINE DI CAVOUR E IL suo tempo, il capolavoro in tre volumi di Rosario Romeo pubblicato da Laterza tra il 1969 e il 1984 1, si tocca con mano un fatto ben noto: il conte Camillo dei marchesi di Cavour-Santena parlava, scriveva, pensava in francese. Non si rifette mai, tuttavia, sul fatto che nella Torino post-napoleonica non si parlasse affatto in francese. Si parlava un dialetto italiano, o un italiano con spiccati accenti patois, nonostante gli oltre dieci anni di annessione alla Francia napoleonica. Il conte Camillo parlava francese perché era nato in una famiglia immersa nella corte bonapartista di Paolina Bonaparte e del principe Borghese. E perché era per metà «svizzero», meglio ginevrino, a causa della madre Adèle de Sellon: seconda di tre sorelle dei signori di Allaman, ricca erede di famiglia ugonotta esule dalla Francia dopo la revoca dell’editto di Nantes. Banchieri arricchitisi a Ginevra sul credito al commercio di seta, nobilitati dall’imperatore Giuseppe II poco prima della Rivoluzione francese. Il fatto che il fondatore dello Stato nazionale italiano non fosse del tutto italiano è un paradosso solo apparente, perché il legame tra Torino e Ginevra è tra i fattori che spiegano dinamiche e impronta ideologica del movimento nazionale italiano. Ginevra è la chiave. Essa intreccia l’eredità politica bonapartista, l’ambiente culturale originariamente protestante e anticattolico, l’essere rifugio di oppositori politici e religiosi. Ginevra era la piccola capitale della «terza via» tra giacobini e bonapartisti, quel flone rivoluzionario moderato incubato dal circolo dei Necker al castello di Coppet. Prima da Madame de Staël e dal suo compagno Benjamin Constant, poi da intellettuali romantici come Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi 2, che Cavour conosce dalla giovinezza. 1. R. ROMEO, Cavour e il suo tempo, vol. 1, 1810-1842, Laterza Roma Bari 1969-1971, Biblioteca Storica Laterza 2012; ID., vol. 2, 1842-1854, 1977-2012; vol. 3, 1854-1861, 1984-2012. 2. J.-CH.-L. SIMONDE DE SISMONDI (1773-1842), di origini pisane, la sua famiglia era espatriata per la conversione al protestantesimo.

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Non sfugge la contemporanea presenza a Ginevra di un giurista di fama europea come Pellegrino Rossi – che aveva militato al fanco di Gioacchino Murat durante la cavalcata indipendentista del 1815 – e del grande vecchio della rivoluzione, vero erede di Robespierre: Filippo Buonarroti, che a Ginevra viveva impartendo lezioni di pianoforte. Buonarroti era approdato a Ginevra dopo quasi vent’anni di prigione: arresti domiciliari sull’isola di Oléron e poi a Sospello, sotto l’occhio diffdente ma rispettoso di Bonaparte. È a Ginevra che nasce l’idea di costituzione moderata, di monarchia rappresentativa e «repubblicana» sulle tracce di Constant. È sempre a Ginevra che Sismondi crea un modello del tutto nuovo di storia italiana, federalista, una storia che parte dal medioevo e non da Roma antica. Nella sua Histoire des républiques italiennes du moyen âge, pubblicata in 16 volumi dal 1807, Sismondi propone una lettura pluralistica delle «repubbliche italiane» come esempi di libertà e autogoverno nella notte della barbarie feudale d’origine germanica. Questo repubblicanesimo fondato sull’autogoverno delle città e non sul geometrico centralismo termidoriano era qualcosa di davvero originale. Cavour era affascinato dalle tesi di Sismondi – lo aveva incontrato nell’agosto 1833 e poi nel 1835. Tuttavia non ne era del tutto convinto, come non lo convinceva la simpatia del grande storico e borghese verso Giuseppe Mazzini, di cui ammirava l’idealismo romantico. In ogni caso, a Ginevra fliere politiche che si svilupperanno in aspra contraddizione tra loro si scorgono nel loro germogliare: stranamente vicine, prossime anche fsicamente, segretamente dialoganti. Come pensare qualcosa di più lontano tra l’atto costituzionale che Constant costringe Napoleone a concedere nei Cento giorni e il progetto di repubblica dei Consigli – pura democrazia diretta – di Buonarroti? Eppure queste idee si propagavano da poche centinaia di metri di distanza. Ginevra appare una capitale settaria in una fase storica di risveglio religioso, di trasformazione del radicalismo calvinista in correnti dialetticamente opposte: da una parte un flone sociniano, dall’altra un flone ultraortodosso nel fermento di un pensiero europeo in continuo rinnovamento.

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2. Se si getta uno sguardo dentro il Congresso di Vienna dobbiamo chiederci come sia stato possibile che sovrani deboli e sconftti quali i fratelli Savoia siano stati gratifcati con una delle casseforti europee: Genova. La risposta non va cercata nella dinastia – già destinata a cambiare di mano con l’avvento dei Carignano – ma nelle reti di relazioni nate durante il periodo francese. In quel decennio, Torino e Ginevra furono all’interno di uno stesso sistema statale, città periferiche ma non troppo. Per questo svilupparono quel «terzo partito» che aveva sostenuto Napoleone all’inizio, nel 18 brumaio, ma che si era ritirato all’opposizione subito dopo per tornare alla carica nella fase fnale della sua parabola politica. Quel partito sarà la matrice del liberalismo; sarà anche all’origine della moda romantica. Aveva a che fare con l’organizzazione adelfca gui-

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data da Charles Nodier e dunque con il progetto eretico della carboneria, che non a caso si caratterizzava per l’ostentata propaganda di un cristianesimo delle origini ugualitario, di stampo ginevrino 3. Quando un non ben calibrato progetto di rivoluzione mondiale scattò nel 1820, sfruttando i reduci degli eserciti napoleonici, a Torino non era attiva la carboneria, ma una serie di ben più elitarie componenti settarie collegate a Ginevra. Pellegrino Rossi era stato un propagatore della carboneria durante la scorribanda dell’esercito napoletano verso il Po nel 1815, da posizioni moderate. La filosofia politica dei carbonari era federalista, sul filone girondino e sulle tracce di Sismondi. E il capo della carboneria mondiale era Buonarroti. Il leader dei radicali ginevrini James Fazy, aborrito da Cavour ma soprattutto dai suoi amici e parenti ginevrini, era stato introdotto alla carboneria dal vecchio generale La Fayette, membro della società segreta Aide-toi e amico di Luigi Bonaparte. Sarà un caso che la marchesa Anna Giustiniani, amante genovese del conte Camillo – e suicida dopo il crudele abbandono da parte di questi – fosse la nipote di Luigi Emanuele Corvetto, carbo-naro, grande banchiere, socio di Jacques Laffitte, amico di Pellegrino Rossi e per anni ministro di Luigi XVIII nella Francia della Restaurazione? Tanti fili convergono in un solo punto: Ginevra. Esempio vivente di questa complessità è lo zio di Cavour, Jean-Jacques de Sellon, che dedicò la sua vita a una predicazione disinteressata per l’abolizione della pena di morte e della schiavitù 4. Jean-Jacques aveva ospitato nel suo palazzo di Ginevra – 2 rue des Granges – famigliari di Bonaparte, arciduchi d’Austria, grandi nomi della cultura mondiale a partire da Franz Liszt, George Sand e Johannis Capodistria. Il conte Camillo aveva con lo zio uno scambio epistolare intensissimo, anche se commentava spesso con malcelata ironia il suo idealismo. Jean-Jacques si opporrà strenuamente alla svolta reazionaria nella repubblica ginevrina imposta dal sindaco Joseph Des Arts con la costituzione dell’agosto 1814. Parenti e amici di Cavour si troveranno sul fronte opposto nel 1846, quando il movimento radicale di Fazy prenderà il potere. L’amico, editore e cugino di Cavour, il fsico Auguste de La Rive, seguace dello studioso dell’elettricità André-Marie Ampère, passerà dal fronte moderato a quello ultraconservatore ostile ai liberali. I liberali ginevrini, pur calvinisti, accetteranno in nome della sovranità cantonale la riammissione dei gesuiti nei cantoni cattolico-reazionari del Sonderbund. Su questo terreno Cavour non li seguirà, prendendo le parti della Dieta federale che, violando l’atto fnale del Congresso di Vienna, deciderà a maggioranza per una costituzione 3. È curioso osservare con occhi contemporanei l’esibizionismo di Charles Nodier che nel 1815 sente il bisogno di pubblicare una Histoire des societés secrétes de l’Armée: et des conspirations militaires qui ont eu pour objet la déstruction du gouvernement de Bonaparte, in cui rivendica alla Società degli Adelf e Filadelf gli attentati contro Napoleone e soprattutto il tentativo di colpo di Stato del generale Malet del 29 ottobre 1812. Su Nodier resta fondamentale la voce a lui dedicata nell’edizione originaria dal dizionario di Pierre Larousse che veniva da origini repubblicane settarie e che attinge a fonti non più accessibili. 4. J.-J. DE SELLON nacque a Ginevra nel 1782, fglio di Jean (1736-1810), signore di Allaman e conte palatino e di Anne Montz. Morì nel 1839.

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federale nella guerra civile del 1847. Questo ci fa capire l’importanza del fatto che Cavour non deroghi mai alle sue convinzioni liberali: egli resta fno alla fne un rivoluzionario, erede della tradizione bonapartista. La complicata peripezia costituzionale svizzera ha un rilievo europeo ben superiore a quanto si pensi. È infatti l’unica vicenda istituzionale in cui Napoleone prenda atto personalmente di avere sbagliato. Chiude lui stesso – e sappiamo quanto gli costò tale ammissione – la storia della Repubblica elvetica unitaria, centralistica, in cui i Cantoni non erano che dipartimenti diretti da un prefetto, per sostituirla con l’autogoverno di 19 Cantoni. L’Atto di mediazione del 1803 riserva al governo centrale la politica estera e poco altro. Resta l’unico esempio, in epoca bonapartista, in cui il modello top down di governo centrale e prefettizio è derogato per lasciare spazio all’elezione diretta di organi rappresentativi delle singole comunità. Sarà quella l’origine del federalismo democratico dei carbonari. Con il Congresso di Vienna si torna a un sistema di sovranità cantonale, con una Dieta federale molto debole che deve decidere all’unanimità. L’equilibrio si rompe negli anni successivi con alcune crisi locali che culminano nei confitti armati degli anni Quaranta. Qui sono i radicali (liberali) che pretendono, in eversione del Congresso, di decidere a maggioranza l’espulsione dei gesuiti dai Cantoni cattolico-reazionari di Lucerna e Argovia. L’azione era illegale, come illegali erano le violenze di corpi franchi protestanti culminate nell’assassinio, nella notte tra il 19 e il 20 luglio 1845, del sindaco di Lucerna Joseph Leu, con un colpo di fucile al cuore nel suo letto. Questo assassinio provocherà la sollevazione secessionista del Sonderbund, attivamente sostenuta e fnanziata da Carlo Alberto. La soluzione federale, in realtà quasi unitaria, fu imposta dalla Dieta solo perché lo scoppio della rivoluzione europea del 1848 impedì alle potenze di Vienna d’intervenire, come l’attacco delle truppe separatiste cattoliche contro il Ticino liberale aveva prefgurato. In pochi decenni, in Svizzera il modello di Stato amministrativo aveva dovuto confrontarsi con diverse soluzioni di autogoverno che Cavour aveva seguito con attenzione e interesse, per concludere che il modello monarchico rappresentativo fosse di gran lunga il migliore. Dopo aver fnanziato la rivolta della duchessa di Berry 5 contro Luigi Filippo, i carlisti in Spagna e i michelisti in Portogallo, Carlo Alberto fomenterà i cattolici del Sonderbund. In posizione diametralmente opposta, Cavour preferirà sempre sostenere le tesi della Dieta federale svizzera, anche contro le posizioni dei suoi amici conservatori ginevrini. La vicenda svizzera dimostrava che, nonostante l’abbandono del modello amministrativo bonapartista, una strada per l’unità nazionale era possibile e praticabile, su un modello moderatamente federalista. 3. Ginevra per Cavour aveva rappresentato qualcosa di molto più concreto e importante prima della sua straordinaria avventura politica che inizia soltanto nel

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5. Va ricordato che l’assassinio del duca di Berry, fglio del conte di Artois, futuro re Carlo X ed erede presuntivo al trono di Francia, nel febbraio del 1820 segnò l’inizio delle rivoluzioni del 1820. La moglie, Carolina di Borbone Napoli era la fglia di Francesco duca di Calabria, principe ereditario di Napoli.

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1848, paralizzata fno ad allora dall’acuta ostilità personale di Carlo Alberto. La fnanza ginevrina è lo strumento che Cavour impiega in modo intenso, quasi sfrenato per le personali speculazioni immobiliari, industriali e bancarie, ma anche per generare un meccanismo di sviluppo endogeno dell’economia piemontese e genovese. L’asse geografco sul quale si muove per le sue iniziative è sempre quello Genova-Torino-Ginevra-Parigi. Già per il padre di Camillo, il marchese Michele, i contatti ginevrini avevano rappresentato la possibilità di accedere a importanti prestiti per l’acquisto dell’enorme proprietà terriera di Lucedio e di Leri. La vicenda trae origine da una permuta tra le opere d’arte che il principe Borghese vende al Louvre e questa immensa tenuta di oltre 4 mila ettari in provincia di Vercelli, che da un’origine ecclesiastica era passata al duca d’Aosta per fnire in epoca rivoluzionaria al demanio. Michele di Cavour aveva patrocinato il principe Borghese in giudizio contro il re di Sardegna Vittorio Emanuele I, che ne pretendeva la restituzione. Ma l’intervento delle potenze vincitrici in virtù dell’atto fnale del Congresso di Vienna e un giudizio arbitrale diedero ragione al principe Borghese, poi convinto dal suo procuratore insieme ad altri due soci a vendergli la proprietà, per la fantastica cifra di 3,5 milioni di lire oro. Nemmeno la cospicua dote di Adèle de Sellon sarebbe bastata a garantire le ipoteche se non fosse intervenuta sua sorella, Vittoria di Clermont-Tonnerre, titolare di una delle maggiori fortune di Francia. I 1.200 ettari che resteranno nelle mani dei Cavour, pur gravati da ingenti debiti, saranno la leva sulla quale il conte, per oltre un decennio, avvierà una serie incredibile di iniziative commerciali e industriali. Dai concimi chimici al guano, dal commercio di grano e riso alle produzioni di mulini meccanici per la brillatura del riso, dalla produzione di macchine agricole alla costruzione di opere pubbliche in concessione. In tutte le iniziative fnanziarie non mancherà mai la presenza di soci o fnanziatori ginevrini, tra cui la famiglia de La Rüe (presente anche a Genova), i Neville, i de La Rive. Cavour persegue l’idea di costruire una leva fnanziaria per rilanciare l’economia, con la fondazione di banche d’emissione a Genova e poi a Torino, sempre in società con i de La Rüe, ma anche con i ben più cospicui capitali di Luigi Raffaele De Ferrari duca di Galliera. Rosario Romeo attesta con precisione queste iniziative che scivolano gradualmente verso le concessioni ferroviarie, la costruzione di canali, la navigazione fuviale. Si tratta di operazioni non incoerenti, connesse alla necessità di trasporto dei grani e dei risi prodotti dalle aziende di Cavour per creare sbocchi verso mercati più ricchi. Esse puntano alla interconnessione della rete di trasporto piemontese e del porto di Genova con i laghi svizzeri, il Reno e il Nord Europa. Quello che impressiona è l’assoluta indifferenza di Cavour agli insuccessi, alle sconftte, alle liquidazioni, allo scioglimento di una società dopo l’altra. Cavour mostra un’incredibile capacità di riversare i residui fnanziari di un’iniziativa in un’altra, immediatamente successiva. La catena parte, ben prima di lui, dal gregge di oltre 2 mila pecore merinos comprate dai Cavour a partire dal 1802 per la Mandria di Chivasso e poi vendute dal conte in piccoli greggi al pascià d’Egitto. Prose-

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gue con la costruzione di caseifci e stabilimenti per la trasformazione della lana, giungendo decenni dopo alla fondazione della società Rossi e Schiapparelli per i concimi chimici. S’intravvede il proflo di un’idea di economia moderna basata sul debito e sull’innovazione tecnologica, che non ferma Cavour davanti a nulla. L’alleanza tra banchieri genovesi e ginevrini era per lui solo un primo passo per l’autonomia fnanziaria degli Stati italiani.

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RICCIARDI L’immigrazione dall’Italia è storia antica, ma fino a ieri suscitava inquietudine e rigetto. Gli albori del fenomeno. Le crociate contro l’inforestieramento. Le svolte del 1970 e del 1982. Il punto sull’oggi, tra espatriati ‘per scelta’ e transfrontalieri. La lezione di Max Frisch. di Toni

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1. A SUISSE N’EXISTE PAS FU L’OPERA CHE Ben Vautier espose nel padiglione svizzero durante l’Expo di Siviglia del 1992. L’insolita scritta provocò scalpore; gran parte dell’opinione pubblica iniziò a interrogarsi su cosa fosse realmente l’identità svizzera e su quali basi si fondasse l’immagine del paese. Il dibattito aveva però origini remote. La Svizzera si è rivista, in quanto nazione, nel proprio spazio alpino. Il processo, sviluppatosi tra la fne del XVIII secolo – con la visione romantica del paesaggio – e il 1870, ha portato alla «nazionalizzazione della natura» 1. Avendo largamente benefciato della rivoluzione industriale, dal 1914 la Svizzera fu annoverata tra le grandi nazioni industrializzate. Il crescente sviluppo economico e la modernizzazione ne stavano progressivamente dissolvendo l’identità. Turbati dal nazionalismo affermatosi negli Stati vicini, perplessi di fronte all’alto numero di stranieri, disorientati dai mutamenti sociali in cui vedevano i sintomi di una degenerazione, numerosi intellettuali svizzeri all’inizio del XX secolo si interrogarono su un’identità nazionale diffcile da defnire. Il censimento del 1910, registrando l’aumento sensibile dell’immigrazione, pose la questione stranieri al centro del dibattito pubblico. L’Überfremdung (inforestieramento) rischiava di alterare l’identità nazionale attraverso l’introduzione di valori «non svizzeri» 2. Il concetto svizzero di identità nazionale può fornire alcune chiavi interpretative del rapporto tra un paese ospitante e l’altro: la Svizzera scopre la sua diffdenza verso l’altro nella transizione da paese di emigrazione a paese d’immigrazione. Tra il 1850 e il 1914 oltre 400 mila svizzeri lasciarono il paese, ma nello stesso 1. O. ZIMMER, «In Search of Natural Identity. Alpine Landscape and the Reconstruction of the Swiss Nation», Comparative Studies in Society and History, vol. XI, n. 1, 1998, p. 643. 2. G. ARLETTAZ, «Démographie et identité nationale (1850-1914). La Suisse et la question des étrangers», Etudes et Sources, n. 11, 1985, pp. 115; 125.

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periodo arrivarono oltre 2 milioni di stranieri. Il 98% proveniva dai paesi confnanti e si collocò prevalentemente nei Cantoni con lo stesso idioma. L’Überfremdung nacque nella Svizzera tedesca contro l’immigrazione tedesca, nettamente prevalente a cavallo tra fne del XIX e inizi del XX secolo 3. Anche se l’emigrazione di massa dall’Italia iniziò nella stagione dei grandi trafori europei (Gottardo e Sempione soprattutto 4), il periodo tra le due guerre, l’avvento del nazismo in Germania e prima ancora del fascismo (che portarono molto esuli a rifugiarsi in Svizzera) condussero a una progressiva sostituzione del «nemico altro», che divenne l’italiano. L’Expo di Siviglia è solo uno dei tanti momenti nei quali la società svizzera si è interrogata sul proprio essere e divenire. Non esiste paese europeo dove per storia, costruzione istituzionale, quadro demografco e mélange culturale il rapporto con lo straniero abbia (avuto) un ruolo così determinante. 2. Pur essendo un minuscolo Stato di 41 mila chilometri quadrati nel mezzo dell’Europa, durante il Novecento la Svizzera ha conosciuto il tasso d’immigrazione più alto del continente europeo – superiore addirittura a quello degli Stati Uniti 5 – assorbendo quasi metà dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. Negli anni Novanta un quinto dei suoi cittadini era straniero. Negli ultimi settant’anni ha raddoppiato la sua popolazione, passando da poco più di quattro milioni di persone ai quasi nove odierni. L’immigrazione è al centro dell’agenda politica e del dibattito pubblico da sempre. Anche nelle recenti elezioni federali, determinandone l’esito. Paese multilingue, federale e incentrato su una democrazia consociativa, la Svizzera si è dotata per prima (insieme agli Stati Uniti) di strumenti legislativi complessi in materia di stranieri. Nel 1917 nacque la polizia degli stranieri, alla quale erano demandati controllo e gestione degli immigrati. Nel 1931 furono gettate le basi normative contemporanee, sperimentate fn dal principio sulla manodopera italiana. Finita la guerra, nel 1948, per la prima volta nella sua storia la Svizzera frmò un accordo di reclutamento «moderno» di manodopera straniera, che divenne un modello per i successivi e cambiò per sempre la sua storia e quella del suo principale «fornitore» di donne e di uomini, l’Italia. Paese dal quale, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento e fno al 1985, sono giunti oltre cinque milioni di persone, la metà solo nel secondo dopoguerra. Convenzioni, protocolli, trattati e accordi di emigrazione erano già prassi consolidata dei governi italiani dall’Unità in poi. A partire dalla prima convenzione con la Confederazione Elvetica del 1868 e fno al 1956, l’Italia siglò ben 183 intese con diversi paesi europei. Dieci riguardavano la Svizzera 6, cui ne seguiranno altrettante fno ai giorni nostri.

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3. T. RICCIARDI, Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità, Roma 2018, Donzelli, p. 32. 4. ID., Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana, Roma 2015, Donzelli. 5. H. MAHNIG, «Introduction», in H. MAHNIG ET AL., Histoire de la politique de migration, d’asile et d’intégration en Suisse depuis 1948, Zürich 2005, Seismo, p. 15. 6. T. RICCIARDI, «Una Repubblica fondata sull’emigrazione», in Storia dell’emigrazione italiana in Europa I. Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1798-1956), a cura di T. RICCIARDI, Roma 2002, Donzelli, pp. 159-212.

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Sugli oltre 3,5 milioni di italiani presenti in Europa, più di un quinto risiede in Svizzera, facendo di questa comunità la terza al mondo dopo quelle di Argentina e Germania. Oltre 660 mila le presenze registrate – metà avente doppio passaporto, cui vanno aggiunti almeno 100 mila frontalieri e decine di migliaia di non iscritti all’Aire – così suddivise nelle cinque circoscrizioni consolari: 111.896 a Basilea, 70.148 a Berna, 129.175 a Ginevra, 126.971 a Lugano e 217.701 a Zurigo. La comunità italiana in Svizzera resta la prima tra quelle straniere. Nell’ultimo decennio la Confederazione, insieme a Germania, Regno Unito e Francia, è divenuta una delle principali mete della nuova mobilità italiana con una media di arrivi annuali che supera le 10 mila unità 7. Queste persone arrivano in un paese dove convivono dieci comunità religiose e quasi duecento nazionalità diverse e dove uno svizzero su otto è nato all’estero. L’indagine annuale sulla «convivenza in Svizzera» registra i tassi di razzismo e di insofferenza. Dai risultati del 2022 emerge che il 34% della popolazione si sente disturbato dalla presenza di persone percepite come diverse per nazionalità, religione o colore della pelle. Questa sensazione di fastidio avvertita nella quotidianità ha subìto un incremento notevole nell’ultimo quinquennio, passando dal 19% del 2018 8 al 31% nel 2022. Resta invece pressoché invariata l’idiosincrasia verso i vicini (18% nel 2018, 17% nel 2022) e i colleghi di lavoro (25% nel 2018, 22% nel 2022) 9. La maggior parte degli svizzeri è favorevole a concedere maggiori diritti agli stranieri, specie il diritto al ricongiungimento familiare, mentre il 60% vede nel razzismo un problema sociale rilevante (era il 67% nel 2016) e il 59% (55% nel 2018) ritiene che l’integrazione dei migranti funzioni bene. Questo complesso di percezioni va completato con il quadro demografco. Nel 1945 la Svizzera contava poco più di 4 milioni di abitanti, nel 1981 si sfora quota 6,5 milioni e a fne 2022 si superano gli 8,8 milioni, 2,3 dei quali (26%) sono stranieri provvisti di cittadinanza unica, cui vanno aggiunti i doppi passaporti (nel caso italiano, oltre il 50%). In termini di invecchiamento, la Svizzera è in linea con gran parte dei paesi europei: gli over-64 sono il 22,4% del totale, rispetto al 23% (di over-65) dell’Italia e al 22% della Germania. Il 16,4% di costoro ha nazionalità svizzera dalla nascita, mentre il restante 6% è di nazionalità straniera 10. Signifcativa la bassa propensione a restare in Svizzera da parte di chi, pur avendoci vissuto per decenni, tende (soprattutto nel caso italiano e portoghese) a rientrare nel paese d’origine. Questo fenomeno ha ragioni economiche: innalzamento del costo della vita, sistema sanitario governato dalle casse private. Dal 1931 al 2002 la Svizzera aveva costruito la propria intelaiatura normativa, economica e sociale sullo statuto dei lavoratori stagionali: statuto al centro del dibattito politico per cinquant’anni in un paese che ha sempre faticato ad 7. D. LICATA (a cura di), «Rapporto Italiani nel mondo», Fondazione Migrantes, 2023, Tau editrice. 8. «Indagine sulla convivenza in Svizzera. Risultati 2018», Dipartimento federale dell’Interno, Uffcio federale di statistica, Neuchâtel 2019. 9. Ibidem. 10. Ibidem.

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accelerare i processi sociali e il più delle volte pare averli subiti, come nel caso dell’immigrazione. 3. «Nel XIX secolo eravamo una nazione rivoluzionaria, oggi siamo una delle più conservatrici al mondo» 11. Questo passaggio racchiude il senso dell’Helvetisches Malaise (malessere elvetico) di Max Imboden, che determinò l’inizio del processo di revisione costituzionale in Svizzera. Oltre a denunciare l’involuzione nel mezzo del boom economico, Malessere svizzero fu un modo per stimolare una rifessione più profonda su quanto stava accadendo a Losanna, dove nel 1964 si tenne l’Expo. La Svizzera voleva raccontarsi al mondo come paese proiettato verso il futuro, avvertendo la necessità di mostrarsi cambiata e pienamente dentro la moderna società dei consumi e dei trasporti individuali. Furono quasi 12 milioni i visitatori che, per la prima volta, assistettero alla timida messa in discussione del passato: l’immagine del piccolo villaggio, la cartolina delle Alpi, la rappresentazione attraverso le narrazioni dei grandi viaggiatori del XVIII e del XIX secolo. Come nel resto dell’Occidente, si era ormai diffusa la società dei consumi. La Svizzera stava cambiando e mentre assisteva a questo processo epocale iniziò una lunga rifessione su chi, materialmente, vi stesse contribuendo. «Per anni abbiamo considerato solo il punto di vista economico. È il momento di accordare maggiore attenzione all’aspetto umano. (…) Dobbiamo renderci fnalmente conto che i lavoratori stranieri non sono venuti in Svizzera unicamente a causa di una tensione congiunturale momentanea, ma che sono ormai diventati un fattore indispensabile della nostra vita economica. La nostra futura politica d’ammissione non potrà limitarsi a frenare l’entrata di nuovi lavoratori, (…) dovrà tendere piuttosto a mantenere e ad assimilare la manodopera che si è affermata. La norma derivata dai negoziati con l’Italia si muove in questo senso» 12. Fu la prima volta, nella lunga tradizione di importatrice di manodopera, che Berna mise in discussione l’idea di temporaneità della migrazione. La posizione del governo suscitò forti reazioni nelle parti sociali. Il mondo dell’impresa, contrario ad aperture che avrebbero favorito oltremodo la manodopera italiana, chiedeva di attingere a quella economica dei paesi in via di sviluppo. Il sindacato, già qualche mese prima della ratifca del nuovo trattato con l’Italia (entrato in vigore nel 1965, rinnovava quello del 1948), invitava a fssare un tetto massimo di 500 mila unità 13: ciò avrebbe signifcato il taglio di quasi un terzo degli stranieri, che nel 1965 erano 840 mila e rappresentavano il 14,2% della popolazione. Tutto avvenne nel momento in cui si riaffacciava prepotentemente la paura dell’«infltrazione straniera»: del 1965 è la prima iniziativa contro gli stranieri, rei di mettere a repentaglio l’identità del piccolo Stato nel cuore dell’Europa attraverso l’Überfremdung.

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11. M. IMBODEN, Helvetisches Malaise, Zürich 1964, Evangelische Zeitbuchreihe, p. 19. 12. «Message du Conseil fédéral à l’Assemblée fédérale concernant l’approbation de l’accord entre la Suisse et l’Italie relatif à l’émigration des travailleurs italiens en Suisse du 4 novembre 1964», Edizioni del Foglio federale 1965, II, p. 1038. 13. E. PIGUET, L’immigrazione in Svizzera. Sessant’anni con la porta semiaperta, Bellinzona 2009, Casagrande, p. 22.

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Il termine nacque nella Svizzera tedesca quando la Confederazione era ancora paese d’emigrazione, che stava progressivamente divenendo un attrattore di forza lavoro. Fino a metà anni Sessanta oltre l’80% degli stranieri proveniva dai paesi confnanti: Germania, Austria, Francia e (dopo il 1945) Italia. L’Überfremdung ricomparve nel dibattito pubblico a metà anni Sessanta con i medesimi connotati di preoccupazione e diffdenza, questa volta rivolte però verso gli italiani. Così lo scrittore Max Frisch il 1° settembre 1966 a Lucerna, durante la Conferenza annuale dei capi della polizia degli stranieri: «Che signifca infltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lavi le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. (…) Si futa un pericolo per la nazione. (…) Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. (…) Alcuni si preoccupano per il fatto che gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, siano cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti» 14. Per Frisch, il differente credo religioso e l’anticomunismo non erano suffcienti a spiegare l’avversione nei confronti degli italiani. Essa nasceva dalla paura che potessero essere più bravi e più abili: «In ogni modo il loro ingegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici». Tale percezione, nonostante gli svizzeri vivessero una condizione sociale privilegiata, sfociava in atti di disprezzo e generava facili stereotipi, specie nei confronti dei meridionali. «Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. (…) Si ha un bel defnirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione» 15. L’autocritica e il confronto con l’altro, diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, inducono a ripensare la storia della Svizzera, la reputazione del paese e la sua immagine internazionale. Questi passaggi sono utili per comprendere quale fosse il clima che generò la stagione delle iniziative referendarie xenofobe più signifcative del secondo dopoguerra europeo. 14. F. VENTURINI, Nudi col passaporto. La verità sull’emigrazione italiana in Svizzera, Milano 1969, Pan, pp. 7-9. 15. Ivi, pp. 10-11.

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4. Anche la Svizzera ebbe la sua catastrofe del fordismo. Come a Monongah nel 1907, a Dawson nel 1913 e nel 1923, a Izourt nel 1939 o a Marcinelle nel 1956 – dove la rincorsa a produrre energia aveva causato drammi – il prezzo più alto fu pagato dall’Italia, con 56 morti. Il 30 agosto 1965, 2 milioni di metri cubi staccatisi dal ghiacciaio dell’Allalin in meno di trenta secondi seppellirono sotto 50 metri di ghiaccio e detriti le baracche, la mensa e le offcine degli operai della diga di Mattmark. Le vittime furono 88: 86 uomini e 2 donne, 23 di nazionalità elvetica, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci e un apolide, il resto italiani. La catastrofe suscitò scalpore in tutta Europa e rappresenta, a oggi, la più grave disgrazia nella storia svizzera dell’edilizia e l’ultima dell’emigrazione italiana. L’opinione pubblica elvetica ne fu molto scossa: per la prima volta immigrati e svizzeri morivano l’uno a fanco all’altro. Eppure, la tragedia è rimasta nell’oblio per quasi cinquant’anni, fno al 2015 16. Mattmark rappresentò l’avvio di una profonda rifessione sulla presenza italiana. Anche per la collettività italiana in Svizzera fu un’occasione per interrogarsi sul senso della propria permanenza in un paese dove, benché parte attiva e persino determinante del benessere, si sentiva rifutata e senza voce in capitolo, anzi oggetto di discriminazione e ostilità. Questi furono gli anni della svolta e del cambio di prospettiva. Il 1965 rappresentò un anno chiave per l’emigrazione italiana in Svizzera anche perché entrò in vigore il secondo accordo Svizzera-Italia, che migliorava le condizioni di chi arrivava. Inoltre, per la prima volta gli stanziali superarono numericamente gli stagionali e fu presentata un’iniziativa referendaria anti-italiani, poi ritirata nel 1968 probabilmente sull’onda della reazione emotiva che Mattmark suscitò. Il 20 maggio 1969, con 70 mila frme, iniziò la stagione referendaria antistranieri in Svizzera. James Schwarzenbach, padre del populismo elvetico, il primo nell’Europa del secondo dopoguerra ad abbracciare le narrazioni anti-immigrati 17, con la sua iniziativa voleva ridurre al 10% gli stranieri su base cantonale (eccezion fatta per Ginevra, 25%). L’iniziativa puntava a tagliare 200 mila stranieri in possesso di regolare permesso di soggiorno, in barba agli accordi bilaterali sull’impresa e alla convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo sul ricongiungimento familiare. Il clima generale, rispetto alla prima iniziativa, era mutato: non erano trascorsi nemmeno quattro anni dalla tragedia di Mattmark, ma ora larga parte dell’opinione pubblica si mostrava disposta a sostenere il referendum. A tre mesi dal voto, il 16 marzo 1970, ai Cantoni e alle imprese fu concesso di limitare la mobilità della manodopera nei primi tre anni, garantendo comunque – anche se l’iniziativa fosse stata respinta – di continuare a perseguire la Stabilisierungspolitik. Cosa mai accaduta prima, si mobilitò gran parte del mondo sociale svizzero. Con esso la Chiesa svizzera (cattolica e protestante) e le missioni cattoliche italiane e spagnole, che esortarono i cittadini a bocciare l’iniziativa. Sull’altro versante, le Colonie libere e l’Atees (Asociaciòn de trabajadores emigrantes españoles en Suiza) si rivolsero al mondo operaio svizzero.

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16. T. RICCIARDI, Morire a Mattmark, cit. 17. C. VECCHIO, Cacciateli! Quando i migranti eravamo noi, Milano 2019, Feltrinelli.

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Alla consultazione del 7 giugno 1970, con un’affuenza del 74% (una delle più alte mai registrate), l’iniziativa venne respinta dal 54% dei votanti. A livello cantonale, fu approvata nei Cantoni con il minor numero di stranieri e con le performance economiche meno brillanti. Con l’iniziativa Schwarzenbach la Svizzera sforò una crisi politica dalle conseguenze catastrofche. La questione stranieri aveva palesato tutti i limiti del federalismo elvetico 18 e chiuso defnitivamente la politica del laissez-faire, dominante negli anni Cinquanta e Sessanta, a favore della ricerca di un equilibrio tra popolazione residente e stranieri presenti. Schwarzenbach fu solo l’inizio. Tutto il decennio fu caratterizzato da quesiti referendari volti alla riduzione della presenza di stranieri. Ossia di italiani, che ancora nel 1970 ne rappresentavano oltre il 70%. Il vero successo nell’insuccesso di Schwarzenbach fu la progressiva istituzionalizzazione dei movimenti xenofobi, che raggiungeranno il successo politico a partire dagli anni Duemila 19. Complessivamente, dal 1970 al febbraio 2016 il popolo svizzero è stato chiamato alle urne ben 16 volte sul tema dell’immigrazione 20. Tutte le iniziative sono state respinte, eccetto quella del 9 febbraio 2014 passata per circa 18 mila voti (50,3% Sì contro 49,7% No). Quella del 2014 fu una sorta di Brexit prima del Brexit e ha incrinato fortemente i rapporti con l’Unione Europea. A distanza di nove anni non si è ancora riusciti a defnire nuovi accordi bilaterali, fatto che sta compromettendo il mondo della ricerca e delle università svizzere, innovative ma ora escluse dai fnanziamenti europei. Le diffcili relazioni Ue-Svizzera sono attestate dall’ennesima iniziativa, del 27 settembre 2020, volta ad abolire la libera circolazione, respinta con il 61,7% di No. La Svizzera, però, fu anche tra i pochi paesi a vivere una stagione solidale verso i propri stranieri. Nel 1977 venne presentata la prima iniziativa pro stranieri, che prese il nome dal comitato promotore «Essere solidali in favore di una nuova politica verso gli stranieri». L’iniziativa, conosciuta come Mitenand (termine svizzero-tedesco che tradotto alla lettera signifca «insieme», in italiano e in francese reso come «Essere solidali/Être solidaires»), puntò a «combattere gli stereotipi esistenti e promuovere a livello federale, cantonale e comunale una legislazione fondata sui diritti dell’uomo, sulla giustizia sociale e sulla parità di trattamento. [E a perseguire] in tal modo l’integrazione reciproca fra svizzeri e stranieri, nel rispetto delle caratteristiche specifche di ognuno». L’intento era abolire lo statuto degli stagionali. I promotori dell’iniziativa – partiti politici (a eccezione di estrema destra e sinistra), sindacati, Chiese evangeliche, protestanti e cattoliche, Caritas, centri di contatto svizzeri-italiani, movimenti e associazioni per l’integrazione degli stranieri e associazioni dei migranti: in tutto 67 soggetti al 15 settembre 1980 – ritenevano fosse giunto il momento di intervenire sulla volontà di stabilizzazione: diritto alla 18. W. LINDER, Politische Entscheidung und Gesetzesvollzug in der Schweiz, Bern 1987, Paul Haupt, p. 18. 19. D. SKENDEROVIC, The radical right in Switzerland: continuity and change, 1945-2000, New York 2009, Berghahn Books; D. SKENDEROVIC, G. D’AMATO, Mit dem Fremden politisieren: rechtspopulistische Parteien und Migrationspolitik in der Schweiz seit den 1960er Jahren, Zürich 2008, Chronos. 20. In ordine cronologico: 1970, 1974, 1977, 1984, 1987, due volte nel 1988, due volte nel 1996, 1997, 2000, 2009, 2010, due volte nel 2014, 2016.

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libertà personale e al rispetto dell’uomo, diritto alla parità e, soprattutto, diritto alla solidarietà. L’obiettivo era abolire lo status di stagionale, che vietava il ricongiungimento familiare e che sul fnire degli anni Settanta aveva prodotto 50 mila bambini clandestini, negando tra il 1949 e il 1975 a circa mezzo milione di piccoli italiani il diritto all’infanzia 21. Il 5 aprile del 1981 arrivò il responso delle urne. Il corpo elettorale del paese, che nel 1948 aveva costituzionalmente sancito il divieto di politicizzare gli stranieri, bocciò inequivocabilmente l’iniziativa in tutti i Cantoni, con l’84% di voti contrari e una partecipazione alle urne inferiore al 40%. 5. Quello che non era riuscito ai movimenti xenofobi anti-italiani riuscì all’economia, la stessa che aveva impedito il successo dei populisti. Quando le crisi petrolifere segnarono la fne dei Trenta gloriosi, in Svizzera andarono persi quasi 300 mila posti di lavoro, in gran parte a scapito degli italiani. La Svizzera aveva costruito il suo successo economico a costo zero importando disoccupazione dall’Italia; trent’anni dopo, fu l’unico paese europeo a ristrutturare il suo sistema produttivo a costo zero, esportando disoccupazione. Dopo oltre un secolo d’immigrazione di massa dall’Italia e dopo aver assorbito non senza problemi la meridionalizzazione dell’emigrazione a partire dagli anni Sessanta, la crisi e la ripartenza del sistema economico negli anni Ottanta gettarono le basi per la completa accettazione degli italiani. Se in Belgio lo spartiacque fu rappresentato da Marcinelle e dal processo di unifcazione europea, per la Svizzera (che nel 1992 decise di non entrare nell’Ue) l’evento fu la vittoria italiana della Coppa del mondo di calcio del 1982. Complice la «Milano da bere» con cui l’Italia consacrò nel mondo il suo stile, l’esser italiano, il vivere, mangiare e vestire all’italiana divenne un obiettivo da emulare. Anche dal punto di vista linguistico, soprattutto nella Svizzera tedesca l’italofonia si diffuse nella quotidianità grazie al processo migratorio 22. Quanto fosse cambiata la percezione degli italiani fu palese a partire dagli anni Novanta. Nel 1995 venne replicata dopo 25 anni – utilizzando gli stessi metodi di campionatura e la stessa modalità esplicativa – un’indagine sulla percezione degli stranieri del 1969 23. Il campione era composto da mille uomini svizzeri residenti a Zurigo, diversi per età ed estrazione sociale. Le donne non furono interpellate, perché nel 1969 non avevano ancora il diritto di voto. Dovranno attendere l’autunno del 1971 e in alcuni Cantoni addirittura gli anni Ottanta. I risultati fecero emergere chiaramente come, a distanza di un quarto di secolo, fosse cambiata in positivo la percezione degli stranieri, sebbene questi fossero passati dal 17% al 28%

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21. T. RICCIARDI, «Infanzia e genitorialità negata nella Svizzera del miracolo economico», in S. MIGNANO, T. RICCIARDI (a cura di), Più svizzeri, sempre italiani. Messo secolo dopo l’iniziativa Schwarzenbach, Roma 2022, Carocci, pp. 61-78. 22. S. CATTACIN, I. PELLEGRINI, T. RICCIARDI, Dalla valigia di cartone al web. La rete sociale degli italiani in Svizzera, Roma 2022, Donzelli. 23. J. STOLZ, «Einstellung zu Ausländern und Ausländerinnen 1969 und 1995: eine Replikationsstudie», in H.-J. HOFFMANN-NOVOTNY (cura di), Das Fremde in der Schweiz, Zürich 2001, Seismo, pp. 33-80.

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della popolazione – mentre gli italiani erano scesi dal 45,5% a poco più del 20%. Le risposte variavano in ragione del livello culturale e alla condizione socioeconomica degli interpellati. Se nel 1969 quasi il 60% riteneva che la Svizzera fosse invasa dagli stranieri, un quarto di secolo dopo la percentuale era scesa al 38%, mentre la distanza sociale tra svizzeri e italiani risultò pressoché annullata (anche se nei contesti rurali e più piccoli la situazione si modifcò più lentamente). Tra le diverse domande poste, ve ne furono alcune molto indicative. Se nel 1969 il 25,5% riteneva inopportuno avere come vicino di casa uno stagionale, nel 1995 ne era convinto meno del 2%. Il disagio di lavorare insieme a uno stagionale passò dal 10,5% all’1,2%. Alla domanda: «Come la prenderebbe se sua fglia sposasse uno stagionale italiano?», nel 1969 quasi il 60% rigettava l’ipotesi, 25 anni dopo la percentuale era scesa al 7,6%. Nel 1969 alla domanda se gli italiani potessero essere un arricchimento per la cultura svizzera, poco più di un quarto rispose positivamente, mentre nel 1995 la percentuale salì all’88,3%. E al quesito: «Per gli svizzeri sarebbe un danno acquisire qualche elemento legato alla mentalità italiana»?, nel 1969 rispondeva No il 52,8%, un quarto di secolo dopo il 91,7% 24. La storia degli italiani in Svizzera può sembrare a lieto fne, ma non è così. Nel febbraio 2014 per la prima volta è passata (seppur di misura) l’iniziativa «contro l’immigrazione di massa» grazie ai voti del Ticino, insofferente verso i frontalieri italiani. Nel 2016 il Cantone italofono ha approvato l’iniziativa «prima i nostri», che attende ancora di essere applicata. Questo ci ricorda la necessità di affrontare la questione della convivenza con tutti gli strumenti possibili: economici, culturali e sociali, affnché resti viva la memoria. Occorre avere il coraggio e la tenacia di ricordare che nulla è avvenuto per caso e che la convivenza e la comprensione vanno alimentate quotidianamente, con l’esempio e con la storia. Gli italiani non vivono più una situazione di marginalizzazione ma di rispetto; sono molte le persone di origine italiana che ricoprono posizioni importanti nei diversi settori economici e sociali. Chi decide di vivere in Svizzera trova oggi un clima sociale aperto, l’italianità non è più un ostacolo, si è trasformata in opportunità e risorsa. Si tratta di una migrazione ben diversa da quella del secondo dopoguerra. Eppure, alle professioni specializzate si sono uniti negli ultimi vent’anni i nuovi frontalieri e i tanti che arrivano in cerca di un lavoro qualsiasi. Le nuove mobilità, in molti casi, assomigliano a quelle del passato. La formazione è indubbiamente superiore, vi sono molti più diplomati e laureati. Alle motivazioni classiche della migrazione si aggiungono ora la ricerca di una migliore qualità della vita, il desiderio di studiare all’estero, la voglia di lasciare un paese incapace di coltivare le nuove generazioni. Tuttavia, si tratta di mobilità in molti casi temporanee, che progressivamente si trasformano in permanenti in luoghi multipli. Il ridursi dei tempi e dei costi di viaggio consente di mantenere rapporti più solidi con le aree di provenienza, con la conseguenza di essere «diversamente presenti» 25. Una caratteristica che negli 24. Ivi, pp. 37-51. 25. D. LICATA, L’Italia e i fgli del vento. Mobilità interna e nuove migrazioni, Roma 2022, Donzelli.

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ultimi anni ha avvicinato la nuova mobilità alla vecchia ed è legata a una sorta di irregolarità momentanea: specie nell’ultimo decennio, molti partono alla volta dei paesi dell’Ue e della Svizzera facilitati dalla libera circolazione. In alcuni casi, soprattutto per le professioni generiche e a bassa specializzazione, trovano un lavoro in nero che poi (nella Confederazione) si trasforma in regolare. Questa plurisecolare vicenda fa comunque della migrazione italiana in Svizzera un vero e proprio unicum.

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DELL’ANNA Il paese scrutato da un’italiana che ne ha fatto la sua casa. I prodigi burocratici e materiali. Il rapporto con la natura. Il sistema scolastico e il federalismo vissuto. Ma anche rigidità istituzionali, squilibri di genere e tensioni migratorie. Felice sì, ma non un’isola. di Monica

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1. INO AL 1996: LA SVIZZERA È PER ME QUEL paese al Nord, confnante con l’Italia, dove molti dei miei conterranei, lasciato il Salento, avevano cercato una vita migliore. È il paese le cui banche tengono i soldi nascosti al sicuro, dove si mangia cioccolata e formaggio e i bambini, piccoli Heidi e Peter, corrono felici nei prati tra caprette e agnellini, sorvegliati da mucche con grandi campanacci e da montagne dalle cime di zucchero. Guglielmo Tell? Eh sì, svizzero, così come le guardie del papa. Non ci ho mai messo piede e non conosco un singolo svizzero. Dal 1996 al 2001: la Svizzera è quel paese nel quale si parlano quattro lingue, ma in realtà una, il tedesco, è solo uffciale poiché lo svizzero tedesco (Schwyzerdütsch) è la vera lingua. È un paese dove camminando per strada non si sentono clacson e persino la dinamica città di Zurigo sembra andare a passo d’uomo (si consideri che io vivo a Londra). Il formaggio diventa Raclette e Fondue, la cioccolata occupa sugli scaffali del supermercato lo spazio che in Italia è destinato alla pasta. I miei tanti connazionali parlano un misto, per me incomprensibile, di italiano e Schwyzerdütsch. Le banche sono molte, non richiedono metal detector per entrare. Le montagne sono dappertutto, con cime di zucchero. I bambini hanno le guance rosse e allo skilift mi guardano attoniti: nonostante sia vent’anni più vecchia, non riesco neanche a stare in piedi sul loro tappeto magico. Mi irrita il fatto che la parità di genere sia ancora lontana: le donne hanno acquisito il diritto di voto a livello federale nel 1971, mentre a livello cantonale l’Appenzell Innerrhoden lo ha introdotto da ultimo solo nel 1990, forzato da una sentenza della Corte federale che aveva dichiarato anticostituzionale il referendum dello stesso anno nel quale gli uomini avevano deciso che non erano ancora pronti per il suffragio universale. Imparo a sciare. Ora posso dire di essere stata in Svizzera; conosco persino un paio di svizzeri. Parlano Schwyzerdütsch, s’intende. Io no, neanche il tedesco.

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Dal 2001 la Svizzera diviene il mio paese di residenza e quel fltro percettivo che separa lo straniero dalla realtà del paese alpino e che ha iniziato a trasformarsi in quei primi incontri, gradualmente si assottiglia senza però mai sparire del tutto. Perché io, sebbene ne abbia acquisito la cittadinanza, continuo a guardare alla Svizzera da italiana. La maggior parte degli italiani conosce la Svizzera come la conoscevo io prima del 1996. Quello che fltra da Oltralpe è nei racconti dei tantissimi connazionali che vi sono emigrati nel secolo scorso o si evince dall’esperienza delle regioni di confne che soprattutto con il Canton Ticino, anche grazie alla lingua comune, intrattengono da sempre relazioni molto intense. La Svizzera è un paese dalle mille sfaccettature, affascinante, accattivante persino. Un mondo che credevo non potesse essere. Eppure esiste. Ed esiste, secondo una delle tante teorie, non perché unione di etnia, lingua o religione, ma per volontà dei suoi abitanti che della pluralità hanno fatto un’arte e un punto di forza, rendendo il paese una potenza. Questa potenza si declina in campo economico in modo molto evidente: vanta uno dei prodotti interni lordi pro capite più alti al mondo e si posiziona ai primi posti nelle classifche sulla competitività e sull’innovazione 1. La struttura dell’economia è molto simile a quella degli altri paesi sviluppati, con una prevalenza del settore terziario (74% circa), un’industria ben sviluppata (25 circa%) e un settore primario che si aggira intorno all’ 0,7%, solo grazie alle massicce sovvenzioni statali 2. 2. È vero che l’industria dell’orologeria si posiziona al primo posto al mondo con i suoi 25 miliardi di euro e il 50% del mercato in termini di valore, che diventano il 95% per gli orologi al di sopra dei mille euro 3. Il suo peso sul pil è però ben al di sotto del 5%. Anche il settore fnanziario, seppur molto importante per l’export, contribuisce per meno del 10% al pil. Veniamo alla produzione di cioccolata e formaggio. Sebbene si tratti di due prodotti emblematici della Confederazione Elvetica, costituiscono una parte marginale dell’export. Il caffè, con i suoi soli 2,5 miliardi 4, supera di quasi quattro volte il volume di cioccolata e ancor più quello del formaggio. Perché il caffè? La Svizzera, poverissima di materie prime, si posiziona ai primissimi posti mondiali nel commercio di queste risorse con il 4% del pil 5 e oltre il 20% dell’export. In primo piano c’è l’oro, importato grezzo per essere raffnato localmente e riesportato dalle quattro delle sei aziende globali del settore che hanno sede in Svizzera. Il 70% del volume mondiale passa per la Svizzera. Tema piuttosto controverso, quello delle materie prime. Al primo posto dell’export di beni ci sono i prodotti chimici e farmaceutici, che contribuiscono per più del 50% al totale. Anche la meccanica, soprattutto quella di precisione, è di grande rilevanza.

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1. La Svizzera occupa il terzo posto nell’edizione 2023 del «World Competitiveness Ranking» e il quinto nel «World Sigital Competitiveness Ranking» di Imd, prestigiosa business school di Losanna. 2. Uffcio federale di statistica, «Conto di produzione 2022». 3. Dati: Federation of the Swiss Watch Industry FH e Swissinfo. 4. Dipartimento federale degli Affari esteri, «Economia: fatti e cifre». 5. Dipartimento federale degli Affari esteri, «Commercio di materie prime».

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Il 99% delle imprese ha meno di 250 dipendenti. Molte sono microimprese, ma sono presenti anche numerose multinazionali: 14 delle 500 più grandi aziende al mondo si trovano su territorio elvetico. Queste aziende non solo contribuiscono direttamente al pil, ma generano un notevole indotto per le piccole e medie imprese e assicurano un continuo affusso di know-how di altissimo livello. Le aziende svizzere spesso operano in nicchie nelle quali detengono il primato mondiale. Quando gli svizzeri fanno qualcosa, la fanno bene. Da numeri uno. Per poter formulare delle ipotesi sulle ragioni della potenza economica svizzera, occorre vagliare una serie di elementi fondamentali nella costituzione dello hard power. Dopo aver presentato dati piuttosto oggettivi, ci inoltriamo dunque in un campo dove il fltro diventa determinante. L’interpretazione del modello svizzero è imprescindibilmente legata alla mia identità di italiana, con la naturale tendenza a mettere in evidenza le differenze: quello che vorrei per l’Italia e ciò di cui sento la mancanza in Svizzera. Cominciamo dalle istituzioni. Quelle svizzere sono caratterizzate da una grande stabilità e prevedibilità, grazie al sistema politico e alla cultura elvetica. La normativa è chiara e comprensibile, chiunque riesce a leggere e capire il codice delle obbligazioni. Che invidia. La Svizzera è una Confederazione di Stati (Cantoni) basata sul principio di sussidiarietà: tutto ciò che può essere deciso a livello locale non si delega al livello più alto. In questo modo si rispettano le differenze e si genera una certa competizione, ad esempio a livello fscale, tra i diversi Cantoni o Comuni. Si può dire che la sussidiarietà si estenda sino al livello dell’individuo: la democrazia diretta prevede il coinvolgimento del cittadino in molte questioni, che diventano quindi tangibili e per le quali esso si sente direttamente responsabile, reclamandone la competenza decisionale. L’elettore-tipo prende questa responsabilità molto seriamente, informandosi in modo approfondito: la Svizzera è il quinto paese al mondo per diffusione pro capite di quotidiani 6 (si spende più tempo leggendo giornali che guardando la tv o ascoltando la radio). Questo coinvolgimento diretto genera un senso civico che porta il cittadino a sentirsi parte della comunità e non vittima di essa. L’indebitamento pubblico è molto basso, anche grazie allo strumento del «freno al debito» introdotto nel 2003, che prevede uno stretto controllo delle spese in base all’andamento dei conti pubblici. Il sistema fscale è noto e molto discusso, soprattutto all’estero. Abbiamo da poco votato per il rinnovo del parlamento e devo ammettere che un numero maggiore di discussioni animate, di colpi di scena e «lotte» avrebbero reso questo importante evento meno noioso e forse il suo esito meno scontato. Ma siamo in Svizzera, qui tutto deve flare liscio come l’olio. O forse la politica qui non è noiosa, è solo che io sono abituata a spettacoli di altro tipo? L’infrastruttura svizzera è un capitolo a sé, a cominciare dal trasporto pubblico. A parte le leggendarie puntualità e pulizia, colpiscono la capillarità del servizio e l’ovvietà con la quale gli viene data priorità rispetto all’auto. Tanti sviluppi non 6. Dati: Nationmaster.

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sarebbero stati possibili senza il trasporto ferroviario, come la spedita industrializzazione, e molto sarebbe impossibile oggi. Dagli Intercity che collegano le «grandi» città ogni trenta minuti, facilitando i viaggi di lavoro, ai percorsi più belli del mondo come il Bernina express o il Glacier express: cosa sarebbe la vita in questa nazione senza i suoi treni? Poi le telecomunicazioni: larghezze di banda incredibili sino a 3 mila metri di altitudine e sempre all’apice dell’innovazione. Parlando di grandi infrastrutture non posso, da italiana e di questi tempi, tralasciare l’energia. La produzione di energia idroelettrica in Svizzera copre quasi il 60% del fabbisogno nazionale. La Svizzera non ha materie prime, ma molta acqua. Provenendo da una regione con scarsità idrica cronica, non sono state le banche o gli orologi a farmi invidia la prima volta in Svizzera, ma i fumi e i laghi: tanti, trasparenti e utili. L’acqua è da sempre fonte di grande ricchezza per il paese, così come la natura, meravigliosa, rispettata e tutelata. La natura è un elemento fondamentale per defnire la qualità di vita tanto apprezzata dai numerosi espatriati che ne fanno motivo di scelta della propria residenza. La natura è fonte di benessere anche grazie allo sviluppatissimo settore turistico. Il turismo della neve è stato inventato dagli inglesi sulle Alpi svizzere. Il clima, con le sue ben distinte stagioni (sempre meno distinte, bisogna ammetterlo) non mi fa mancare il sole del Sud. Il mare però non c’è e i grandi laghi, sebbene suscitino qualche sensazione di vastità, non potranno mai inondare l’aria dello stesso profumo ed emettere lo stesso sciabordio del mio Mediterraneo. La Svizzera non ha il mare, ma è un’isola. Si trova nel cuore dell’Europa ma non fa parte delle sue istituzioni, per reiterata volontà dei suoi cittadini. È un paese che ha fatto della neutralità un mezzo d’attrazione per tutte quelle attività, anche economiche, che richiedono una posizione non schierata e per tutte quelle istituzioni che, per evitare di prediligere geografcamente un partner a scapito di un altro, vi hanno fssato la propria sede. Ecco perché Ginevra ospita 23 organizzazioni internazionali e 250 ong; ecco perché in Svizzera 165 Stati, inclusa l’Italia, sono presenti con una missione permanente. È un paese liberale la Svizzera, con un mercato del lavoro estremamente fessibile. Promuove l’imprenditorialità e l’iniziativa privata in genere ed è molto aperto a una pluralità dei modelli sociali.

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3. Il sistema di istruzione e formazione svizzero non è semplice da capire per chi proviene, come me, da un paese incentrato sull’istruzione universitaria. Esso prevede, accanto alla linea accademica, la possibilità di acquisire competenze specialistiche con un approccio pratico in tutti i settori delle attività economiche. Dopo la scuola dell’obbligo, i giovani possono continuare con un liceo e quindi approdare all’università ovvero optare per l’apprendistato, dove verranno formati a scuola e nelle aziende. Vi sono circa 240 mestieri per i quali si può conseguire un «attestato federale di capacità». Dalla più piccola impresa alla grande multinazionale, tutti gli attori economici si sentono in dovere di accogliere apprendisti: non per sfruttare forza lavoro a basso costo, ma per contribuire alla formazione delle nuove generazioni. Per le imprese si tratta a breve termine di un costo, non di un rispar-

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mio. È una scelta strategica, volta a garantire personale specializzato in grado di entrare immediatamente nel mondo del lavoro. Il sistema funziona. La formazione continua non è, come lo è per altri, una scoperta recente, ma una realtà oramai consolidata. Anche il sistema universitario prevede due livelli: uno accademico e uno più applicato. I due politecnici di Zurigo (Eth) e di Losanna (Epf) sono tra le scuole più prestigiose al mondo e sono all’apice del sistema di promozione della ricerca e dell’innovazione che vede nella collaborazione tra aziende e istituti di formazione di tutti i livelli un volano imprescindibile per lo sviluppo del paese. E gli svizzeri? Non sono tantissimi. In Svizzera vivono oggi 9 milioni di persone e il 25% circa dei residenti è straniero. Il 19% della popolazione ha doppia cittadinanza, il che signifca che meno del 60% della popolazione è di sola cittadinanza svizzera. L’immigrazione è uno dei fenomeni che più ha defnito il paese negli ultimi cento anni. Moltissimi stranieri sono entrati e continuano a entrare in un mercato del lavoro che oggi, con un tasso di disoccupazione intorno al 2%, registra una carenza cronica di personale specializzato ma che già nel secolo scorso era avidissimo di manodopera. Gli immigrati non hanno solo contribuito allo sviluppo della Svizzera, hanno anche notevolmente infuenzato la cultura del paese. Primi tra tutti, noi italiani. «Abbiamo chiamato braccia, sono arrivati esseri umani», scriveva il grande scrittore Max Frisch 7 riferendosi alle problematiche sociali legate all’emigrazione di massa nel Novecento. Oggi mi piace leggere la famosa frase in questo modo: insieme alle braccia per le fabbriche e i cantieri sono giunte persone con la loro cultura, il loro calore e i loro valori. Persone che hanno per sempre cambiato il volto di questo paese, lo hanno reso migliore. Ne sono fermamente convinta, se quell’iniziale diffdenza e disprezzo xenofobo, che raggiunse il suo apice nel 1970 con l’iniziativa Schwarzenbach 8, si sono trasformati in un grande amore per il Belpaese, la sua lingua e i suoi abitanti. È un privilegio oggi vivere in Svizzera da italiana, grazie alle centinaia di migliaia di miei connazionali che negli anni hanno contributo, con immensa fatica, alla costruzione del marchio Italia. La Svizzera si fonda sulla concordanza, con rapporti istituzionali e sociali caratterizzati dalla continua ricerca del compromesso. Lo scontro non è ben visto: sono diplomatici gli svizzeri, non amano la provocazione, sanno di dover assicurare una coesistenza pacifca a una popolazione così diversifcata per religione, lingua, etnia. Gli svizzeri preferiscono l’armonia, evitano il confitto, sono avversi alla limitazione delle libertà. Tuttavia, amano le regole e le seguono diligentemente. Forse sono io che prediligo il dibattito acceso, che amo le discussioni animate in piazza. Qui, però, il concetto di piazza non esiste. Il gruppetto di uomini di mezza 7. A.J. SEILER, Siamo italiani: Die Italiener. Gespräche mit italienischen Arbeitern in der Schweiz, Zürich 1965, EVZ-Verlag. 8. Con un’altissima affuenza alle urne, 50 anni fa gli uomini svizzeri respinsero l’iniziativa popolare «contro l’inforestierimento» che voleva limitare il numero di stranieri al 10% della popolazione, costringendo così dai 300 mila ai 400 mila residenti senza passaporto svizzero a lasciare il paese. Si trattava in particolare di cittadine e cittadini italiani.

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età che discute animatamente nella stazione di Berna è riconoscibile: cerca di ricreare la piazza del paese natìo, dove tutto si discute, tutto si apprende, nessuno si autoesclude. Le istituzioni stabili con la loro chiarezza normativa, l’infrastruttura capillare e affdabile, la formazione e l’innovazione con la loro molteplicità di approcci, la neutralità e il liberalismo come princìpi irrinunciabili, la popolazione altamente specializzata con la sua multiculturalità in continua evoluzione costituiscono il fondamento della potenza economica svizzera. Questi elementi interagiscono magicamente con la precisione dell’ingranaggio di un orologio svizzero. È questo il segreto delle realtà imprenditoriali, economiche, scientifche che fanno del paese una potenza economico-industriale più che proporzionale alla sua taglia geografca e demografca.  4. Ci sono elementi che rinforzano questo ingranaggio e lo mantengono ben lubrifcato. Primo tra tutti la fducia, che permea ogni aspetto delle relazioni d’affari e private. Il contratto verbale e la parola data hanno un valore signifcativo. C’è una convinzione innata che il prossimo non abbia come scopo nella vita surclassarti (fregarti), il che agevola tutte le attività umane. L’individuo ne trae un enorme benefcio nella vita privata e come consumatore, lavoratore. Esempio banale: al museo mio fglio ha dimenticato la tessera da studente e quindi non chiediamo il biglietto ridotto, ma la signora allo sportello chiede se lui non sia studente e applica la tariffa ridotta, sebbene facciamo presente che non abbiamo il documento. Altri elementi sono il pragmatismo e l’insofferenza per l’ipocrisia o l’imprecisione. A differenza di tanti altri paesi, gli svizzeri preferiscono – con le dovute eccezioni – affrontare i lati oscuri del sistema in modo pragmatico, tecnico si potrebbe dire, evitando il falso idealismo. Amano essere precisi, anche quando si tratta di valutare i propri errori. Questi aspetti del carattere elvetico rendono possibili rapporti costruttivi ed effcaci tra economia e Stato, tra economia e parti sociali. Anche se negli ultimi tempi si lamenta un deterioramento di tali rapporti, il livello di cooperazione tra i diversi attori rimane molto alto. Rifettendo sulle ragioni dello hard power svizzero, non si può evitare di menzionare il soft power, che deriva da tanti degli elementi summenzionati e si traduce nel potente marchio made in Switzerland. La Svizzera è, secondo uno studio, l’ottavo paese al mondo per soft power 9 e primo nella graduatoria di Wpp 10 Bav sulla percezione che si ha di un paese all’estero. Anche la Svizzera affronta però le grandi sfde dei tempi: crisi climatica e sviluppo sostenibile, confitti armati, migrazioni di massa, carenza di personale qualifcato, digitalizzazione. Queste gettano non poca sabbia negli ingranaggi dell’orologio, trasformando alcuni suoi punti di forza in debolezze. Basta guardare la velocità di scioglimento dei ghiacciai alpini per capire quanto il tema della crisi climatica sia tangibile e necessiti di una risposta rapida. Sebbe-

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9. «Global Soft Power Index 2023», Brand Finance 10. «Best countries 2022», Wpp Bav. La graduatoria pubblicata dagli specialisti del branding misura come 85 paesi siano percepiti dai consumatori a livello globale e perché.

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ne la Svizzera sia molto impegnata nel defnire e attuare strategie di risposta, come la ristrutturazione del sistema di produzione e approvvigionamento dell’energia, la lentezza dei processi decisionali, condizionati dal principio della concordanza, costituisce un grande fattore di rischio nell’affrontare questa sfda. È richiesta maggiore fessibilità e creatività nella risoluzione di problemi nuovi e imprevedibili. L’instabilità geopolitica in genere e in particolare i confitti armati in Ucraina e in Israele hanno un impatto sull’economia di un paese così dipendente dall’export. Soprattutto l’invasione dell’Ucraina da parte russa ha messo fortemente sotto pressione il principio di neutralità della Svizzera. Tale principio, pilastro della politica estera elvetica per due secoli, necessita di un approfondimento e di una chiara strategia per evitare che indebolisca quel soft power così vantaggioso per l’economia. È altrettanto urgente risolvere la questione dei rapporti con l’Unione Europea dopo il fallimento delle trattative sull’accordo quadro. La Svizzera è nel cuore dell’Europa, la sua posizione geografca ha sicuramente contribuito al suo successo, ma non può ritenersi un’isola e non può illudersi che i partner europei si lascino facilmente intimidire dal suo hard power. La migrazione, legata alla grande instabilità nel Mediterraneo, è uno dei temi più discussi ed è stato tra i punti decisivi nelle scelte fatte dagli svizzeri alle urne in ottobre. Un paese con un’elevatissima presenza straniera e una marcata multiculturalità deve trovare un punto d’equilibrio tra i timori di un sovrappopolamento (la popolazione svizzera cresce di circa l’1% all’anno, quasi interamente per l’immigrazione) e le esigenze di un mercato del lavoro che soffre la carenza di manodopera specializzata. Il paese rischia di diventare vittima del proprio successo se non riesce a trovare una soluzione a questi confitti. La carenza di personale è tra le sfde principali dell’economia svizzera. Una soluzione potrebbe essere l’aumento della incomprensibilmente bassa partecipazione femminile al mondo del lavoro. Se è vero che circa il 62% delle donne ha un lavoro fuori casa contro il 57% della media europea 11, quasi il 60% lavora a tempo parziale e con orari di lavoro molto ridotti. Questo dato rifette la situazione della parità di genere, che pone la Svizzera in fondo alle graduatorie globali sul tema. La Svizzera liberale, progressista e altamente sviluppata che ha visto a fne Ottocento una donna laurearsi in ingegneria presso il Politecnico Federale di Zurigo (straniera, s’intende!), si rivela molto conservatrice per quel che riguarda la divisione dei ruoli di genere. Il contributo delle donne è fondamentale in un mondo che richiede sempre più talenti e competenze, la diversità rappresenta un fattore di sviluppo essenziale. È doveroso, in questo contesto, accennare al fatto che nonostante questa posizione conservatrice, la Svizzera non è affitta dal dramma dei femminicidi che si verifca in maniera tragica altrove. La digitalizzazione: sebbene la Svizzera sia giustamente considerata un paese ad alto grado di sviluppo tecnologico, molti settori devono ancora fare progressi signifcativi, come nel caso dell’e-government. Mentre in Italia la maggior parte dei 11. Dati: Uffcio federale di statistica.

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servizi pubblici sono stati digitalizzati (come la carta d’identità elettronica che abilita anche la frma digitale), in Svizzera si discute da decenni di questi temi e si continua a frmare su carta e a spedire dati uffciali per posta o addirittura per fax, come nel caso dei numeri relativi al Covid-19 inviati al ministero della Salute. Il federalismo e il decentramento, punti di forza del sistema elvetico, si rivelano spesso un ostacolo per quei temi che richiedono una soluzione unitaria e replicabile. La sabbia gettata nell’ingranaggio di un orologio quasi perfetto rischia di compromettere il modello di sviluppo che ha fatto della Svizzera un paese davvero felice. Flessibilità, velocità, creatività, ambizione, passione: sono ingredienti essenziali in un mondo volatile, imprevedibile, complesso e ambiguo. L’infuenza delle centinaia di migliaia di persone arrivate da Oltralpe non può che essere di benefcio per il futuro di questo paese, che rischia di perdere la sua brillantezza in un atteggiamento di autocompiacimento. Con la Camera di commercio italiana per la Svizzera ci siamo dati la missione di intensifcare il dialogo e lo scambio tra due paesi che hanno molto da imparare gli uni dagli altri. P.S. Mentre rifetto su questo hard power e sulla straordinaria vita che mi è concesso di vivere in Svizzera, questo paese quasi perfetto, provo un profondo senso di disagio e quasi di vergogna nel pensare alle immense sofferenze di tutte quelle persone che, non lontano da noi, sono deprivate di tutto, persino brutalmente della loro stessa vita. E mi scopro a pensare che forse il mondo sarebbe diverso se avessero più potere le donne. Sarebbe il power meno hard?

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SE IL TICINO HA PAURA DELL’IDRAULICO ITALIANO

di Michele

ROSSI

L’accordo con l’Ue sulla libera circolazione, l’aumento dei frontalieri e i travagli finanziari alimentano nel Cantone la fobia del lavoratore straniero. Ma i dati smentiscono le paure, mentre la demografia reclama immigrati. Quando erano i ticinesi a partire.

P

1. ER DESCRIVERE LE PRINCIPALI DINAMICHE NELLE relazioni tra Ticino e Lombardia occorre partire dai fatti e dai dati statistici, accantonando i luoghi comuni che tendono a imporsi nel dibattito politico e pubblico. Le dinamiche, come risulta da una prospettiva storica, mutano nel tempo. Le decisioni di oggi infuenzeranno gli anni a venire, nel bene e nel male. Il tema di maggior risonanza è probabilmente quello migratorio, con particolare attenzione al fenomeno dei frontalieri. Soprattutto in un momento in cui la denatalità e il pensionamento dei baby boomers mettono in evidenza il problema della scarsità di manodopera, necessaria a entrambe le economie. Reperire e trattenere personale qualifcato per le aziende dei rispettivi territori è una partita transfrontaliera in corso che determinerà le reciproche relazioni nel breve e nel medio termine. Questa partita si gioca in un contesto geografco, demografco ed economico che ne infuenza lo svolgimento. Parlando di relazioni tra Ticino e Lombardia, non si può evitare di partire da alcuni dati statistici che ne descrivono, in termini oggettivi, le dimensioni. Iniziando dal territorio si nota immediatamente un’asimmetria a favore della Lombardia, con una superfcie di circa 23.900 chilometri quadrati a fronte dei 2.812 del Ticino. Due entità territoriali di cui una è circa dieci volte più grande dell’altra. Passando alla popolazione lo squilibrio cresce ulteriormente. Nel 2021 in Lombardia vivevano circa 10 milioni di persone, mentre la popolazione residente in Ticino nel 2019 era di 351.491 individui 1. Anche a livello di occupati le differenze sono enormi: nel 2022 in Ticino erano 241.210, in Lombardia 4,2 milioni 2. Non va poi dimenticata la differenza salariale tra i due lati della frontiera: nel 2020 la retribuzione oraria in Ticino 1. Istat, Uffcio federale di statistica. 2. «Panorama statistico del mercato del lavoro ticinese 2023», Istat, Uffcio federale di statistica.

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era di 30,02 franchi, mentre il dato per la Lombardia era di 12,6 euro 3 – meno della metà. Si tratta oggettivamente di una relazione impari tra due entità che diffcilmente, per dimensioni e differenze, possono trovarsi in situazione di equilibrio. Le relazioni economiche sono molto strette, lo dimostrano gli scambi commerciali. Purtroppo non è possibile disporre dei dati relativi al Ticino separatamente dal resto della Svizzera. Le statistiche mostrano comunque che nel 2022 le esportazioni svizzere verso l’Italia, per un totale di 20,84 miliardi di euro, erano concentrate in Lombardia, che assorbe oltre il 25% dell’importo. Segue, con largo distacco, il Piemonte (5%). Anche a livello di importazioni italiane in Svizzera, la Lombardia prevale con il 50% dell’importo totale, mentre il Piemonte è secondo con una quota del 10% 4. La Svizzera è invece la terza destinazione delle esportazioni lombarde dopo Germania e Francia, davanti a Cina e Stati Uniti. Quanto alle importazioni della Lombardia, la Svizzera è al settimo posto dietro Germania, Francia, Cina, Olanda, Stati Uniti e Spagna. Un ulteriore elemento che mette in evidenza gli stretti legami di natura economica sono i lavoratori frontalieri in Ticino. Attualmente sono oltre 79 mila 5. Negli ultimi anni si è notato un importante aumento, soprattutto nel terziario. Nel 2002 i frontalieri erano quasi di 32.700, dunque in circa vent’anni sono più che raddoppiati. Guardando nel dettaglio ai settori toccati dalla crescita si nota come nel comparto industriale il numero sia rimasto sostanzialmente stabile, mentre nel settore dei servizi si è passati da 14.592 nel 2002 a 53.278 nel 2023. Il terziario è molto variegato e comprende commercio, alloggio, ristorazione, sanità, trasporto, magazzinaggio, attività domestiche, fnanza e assicurazioni, tra gli altri. Il tema dei frontalieri è essenziale per comprendere le attuali relazioni Ticino-Lombardia. 2. Una volta erano i ticinesi a partire. Nell’Ottocento il Ticino era segnato da una forte emigrazione, indirizzata soprattutto verso la vicina Italia. Tra le attività svolte all’estero vi erano quelle di spazzacamino, bracciante agricolo, domestico. Vi era una specializzazione nei mestieri praticati sulla base delle origini regionali: i cioccolatai e marronai dalla Valle di Blenio, i vetrai dalla Leventina e dalla Riviera, i cuochi e gli albergatori da Brissago 6. Queste migrazioni spesso avevano carattere stagionale. Le persone rientravano quindi periodicamente in Ticino, dove riportavano i guadagni ottenuti contribuendo a sfamare la famiglia rimasta in patria. Nella prima metà del secolo tale emigrazione temporanea riguardava circa un terzo della popolazione maschile ticinese atta al lavoro, per arrivare al 50% nei distretti più meridionali di Lugano e di Mendrisio 7. Nel 1853 furono espulsi dalla Lombardia tutti i ticinesi: circa 6 mila persone rientrarono in Ticino ritrovandosi improvvisamente senza lavoro e senza mezzi di sostentamento.

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3. Uffcio federale di statistica, Istat. 4. Uffcio federale delle dogane e della sicurezza dei confni. 5. «Panorama statistico del mercato del lavoro ticinese», Uffcio cantonale di statistica, ottobre 2023. 6. R. CESCHI, «Strade, boschi e migrazioni», in AA.VV., Storia del Canton Ticino, vol. 1, Bellinzona 1998, ed. Stato del Canton Ticino. 7. Ibidem.

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In seguito le migrazioni ebbero mete anche più lontane, soprattutto per le diffcoltà alimentari dovute alla perdita dei raccolti di patate e agli enormi danni prodotti dai fenomeni alluvionali che devastarono il Ticino  8. I ticinesi iniziarono a partire per la California, l’Argentina e l’Australia. La febbre dell’oro, che prefgurava miracolosi e facili guadagni, contribuì a stimolare il fenomeno. Stando ai dati dell’amministrazione pubblica ticinese, tra il 1850 e la seconda guerra mondiale si verifcarono circa 50 mila partenze su una popolazione a metà del XIX secolo di 117 mila unità. Circa un ticinese su tre fu quindi toccato dal fenomeno migratorio. Il capitolo relativo all’emigrazione racconta di un Ticino povero e arretrato, che ha imposto per secoli la partenza verso altri lidi ai suoi cittadini impossibilitati a trovare adeguate forme di sostentamento in patria. Solo nel secondo dopoguerra il saldo migratorio si è invertito, trasformando il Ticino in terra d’immigrazione. Ciò è avvenuto a causa dell’importante sviluppo dell’economia. In particolare, l’accelerazione economica a partire degli anni Cinquanta ha trasformato il Ticino nella terza piazza fnanziaria della Svizzera. Se all’inizio del decennio il settore bancario occupava poco più di 500 persone, nel 1974 tale numero si era decuplicato per arrivare a quasi 9 mila unità nel 1990 9. Anche il comparto industriale ha vissuto negli stessi anni un importante sviluppo. La crescita del polo fnanziario ha prodotto e distribuito benessere in modo più o meno generalizzato, anche all’ente pubblico sotto forma di introiti fscali. Questa evoluzione di recente ha però subìto una fessione, dovuta principalmente a una radicale modifca delle condizioni quadro a livello internazionale. Ci si riferisce soprattutto all’introduzione dello scambio automatico di informazioni tra Stati a fni fscali che infuenza il fusso di capitale straniero. Osservando i dati, si nota come il numero di banche sia passato da 78 nel 2005 a 37 nel 2021. La diminuzione più forte riguarda gli istituti esteri presenti in Ticino. Anche esaminando il numero di addetti del settore si constata una chiara fessione: da 8.086 nel 2011 a 6.192 nel 2021 10. Il settore fnanziario ticinese è dunque in una fase di transizione e di profonda trasformazione, che genera incertezze e timori. A ciò si aggiunge l’impennata dei costi di sanità, energia e di altri beni e servizi che erode il potere d’acquisto e causa diffcoltà. Questi timori, reali e giustifcati, vengono però in parte dirottati verso cause non pertinenti, che catalizzano il malessere di parte della popolazione. Ciò concorre a spiegare la chiusura verso l’immigrazione in generale e verso i frontalieri in particolare, visti da taluni come la causa di tutti i mali. Alla base di questa dinamica vi è la recente apertura del mercato del lavoro ticinese dopo la stipula, nel 1999, dei primi accordi bilaterali tra Svizzera e Unione Europea per la libera circolazione delle persone. Fino ad allora i cittadini comunitari in Svizzera erano soggetti a un regime di autorizzazioni più severo (ancora applicato ai cittadini di Stati terzi), che prevedeva contingentamenti all’immigrazione e l’applica8. ID., «L’età delle emigrazioni transoceaniche e delle ferrovie», in AA.VV., Storia del Canton Ticino, vol. 1, ed. Stato del Canton Ticino, 1998. 9. S. TOPPI, «La crescita economica (1945-1975): la ricerca di aperture e l’avvento del terziario», in AA.VV., Storia del Canton Ticino, vol. 1, ed. Stato del Canton Ticino, 1998. 10. Uffcio cantonale di statistica.

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zione della preferenza per i lavoratori «indigeni», ossia già integrati nel mercato del lavoro nazionale. Inoltre, per i lavoratori frontalieri – non contingentati – erano previste zone di frontiera sui due lati del confne che delimitavano fasce di circa 20 chilometri entro le quali erano tenuti a limitare il loro pendolarismo. Con l’introduzione della libera circolazione in Svizzera cadono per i cittadini Ue i vecchi fltri all’entrata. Ciò ha generato in Ticino una risposta politica concretizzatasi in diversi atti normativi di «difesa», sebbene i dati occupazionali non paiano preoccupanti. Nel 2015 il Ticino ha adottato una legge sull’innovazione economica per sostenere con interventi mirati la competitività e la capacità d’innovazione di aziende private orientate all’esportazione, con grande potenzialità di crescita e che generano rilevanti ricadute economiche. Sono poi stati defniti i criteri di occupazione residente che permettono formalmente di presentare domanda di sostegno. È stato stabilito che l’autorità cantonale entri nel merito di richieste di sostegno se l’azienda richiedente dimostra che almeno il 60% dei propri dipendenti risiede in Svizzera. Per le aziende manifatturiere la percentuale minima di lavoratori residenti deve essere del 30%. Il 14 giugno 2015 in votazione popolare è stata approvata l’iniziativa «Salviamo il lavoro in Ticino!», che chiedeva l’introduzione di un salario minimo cantonale obbligatorio per tutti i settori non coperti da un contratto collettivo di lavoro. A detta dei fautori, la grande disponibilità di personale frontaliero combinata con la libera circolazione delle persone avrebbe causato in Ticino una forte pressione al ribasso sui salari 11. Il salario minimo permetterebbe di vanifcare il vantaggio economico per le aziende dell’eventuale assunzione di personale d’oltreconfne. L’11 dicembre 2019 è stata quindi approvata la legge cantonale sul salario minimo, che introduce soglie invalicabili. Scopo dichiarato: evitare la possibile assunzione di personale (frontaliero) sotto un certo livello salariale. La legge è entrata in vigore il 1° dicembre 2021. Nel 2016 è stata approvata in votazione l’iniziativa costituzionale «Prima i nostri!». È stato introdotto nella costituzione ticinese l’obbligo per il Cantone di far sì che, a parità di qualifche professionali, sia privilegiato chi vive in territorio ticinese rispetto a chi proviene dall’estero (attuazione del principio di preferenza agli svizzeri). Ciò sebbene questa regola sia in palese contrasto con la libera circolazione delle persone e il Cantone non abbia competenze su mercato del lavoro e immigrazione, entrambe appannaggio federale. Solo in un secondo tempo, quando il parlamento cantonale ha adottato le proposte di attuazione concreta del principio, le criticità giuridiche hanno convinto la maggioranza dei parlamentari a rifutare l’introduzione di una preferenza indigena generalizzata sul mercato del lavoro, limitandola alle strutture parapubbliche (sanità, università, turismo). In quanto approvato dal popolo, il principio resta tuttavia iscritto nella costituzione cantonale. 3. Il 23 dicembre 2020, dopo anni di negoziati, Svizzera e Italia hanno concluso un nuovo accordo relativo all’imposizione fscale dei lavoratori frontalieri. Tale accordo è entrato in vigore il 17 luglio 2023 ma verrà applicato a partire dal 1° genna-

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11. Messaggio del Consiglio di Stato 7452 dell’8 novembre 2017.

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io 2024. Sostituisce il precedente accordo del 1974 prevedendo importanti novità. L’aspetto qui rilevante è il maggior carico fscale sui lavoratori frontalieri. Il Canton Ticino ha esplicitamente ricercato un nuovo accordo «affnché il carico fscale dei lavoratori frontalieri aumentasse rispetto a quello attuale (piena imposizione in Italia)» 12. La ragione principale non è quindi di natura tecnico-fscale, bensì fondata sulla volontà di diminuire il saldo netto retributivo dei lavoratori frontalieri per il tramite di un’imposizione fscale aumentata. Le nuove norme rappresentano dunque una risposta politica all’apertura del mercato del lavoro e concretizzano la volontà di ostacolare l’assunzione in Ticino di lavoratori frontalieri. Alcuni episodi verifcatisi sul versante italiano hanno contribuito a consolidare l’atteggiamento di chiusura da parte ticinese. Nel 2015, al fne di defnire i temi da affrontare e regolare bilateralmente, Svizzera e Italia hanno frmato un documento programmatico denominato Roadmap on the Way Forward in Fiscal and Financial Issues between Italy and Switzerland. I temi indicati nel documento, di natura fscale e fnanziaria, sono poi sfociati in altrettante intese bilaterali. Eccetto in un caso, il più importante per la Svizzera e soprattutto per la piazza ticinese, che avrebbe permesso agli istituti fnanziari di seguire attivamente la clientela italiana anche in Italia. In coda alla Roadmap le parti hanno frmato un’intesa politica relativa ai servizi fnanziari transfrontalieri, onde migliorare le reciproche relazioni nel settore. Dal 2015 non sono però stati realizzati passi in avanti. Anzi, dopo la frma del documento l’Italia ha introdotto per chi intenda svolgere attività bancarie o parabancarie l’obbligo di una succursale sul suo territorio, vanifcando così l’attività fnanziaria a partire dalla Svizzera. In questo modo viene favorito lo sviluppo della piazza di Milano a detrimento di quella ticinese, nonostante le volontà espresse nella Roadmap. Negli ultimi anni il fsco italiano ha poi, improvvisamente e sorprendentemente, tassato alcune banche svizzere per asserite attività transfrontaliere, generando una doppia imposizione (tali istituti sono tassati anche in Svizzera). A seguito di questi sviluppi in Ticino sono state ripetutamente adottate norme atte a ostacolare l’arrivo e l’assunzione di lavoratori frontalieri, a tutela dei residenti. Ma nonostante la libera circolazione e l’aumento dei frontalieri, si riscontrano tendenze preoccupanti in relazione alla disoccupazione o al livello salariale? I dati uffciali mostrano che negli ultimi dieci anni la disoccupazione è chiaramente diminuita in Ticino, passando dal 4,5% nell’ottobre 2013 al 2,3% nell’ottobre 2023: un dimezzamento 13. Stessa tendenza si nota assumendo i dati dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro), che indicano una fessione dal 7,9% nel 2013 al 6,2% nel secondo trimestre del 2023. Nemmeno l’esame dei livelli salariali mostra peggioramenti. Anzi, i salari in Ticino sono aumentati – in modo meno marcato che nella Svizzera tedesca, ma questa è una differenza costante nel tempo 14. Si aggiunga che la legislazione svizzera permette, a determinate condizioni, di introdurre in specifci settori salari minimi obbligatori a tutela del livello salariale praticato in loco, per il tramite 12. Messaggio relativo all’accordo Svizzera e Italia sull’imposizione dei frontalieri, p.4 13. «Panorama statistico del mercato del lavoro ticinese», Uffcio cantonale di statistica, settembre 2023. 14. Ivi, p. 14.

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dei cosiddetti contratti normali di lavoro. Infne, stando al monitoraggio congiunturale dell’Uffcio cantonale di statistica, nel secondo trimestre 2023 l’occupazione in Ticino è cresciuta su base annua del 4,6% per i residenti e del 3,5% per i frontalieri. Sulla base di questi dati, la levata di scudi contro i frontalieri non sembra rispondere a un’effettiva situazione di minaccia generalizzata e oggettivamente riscontrabile al mercato del lavoro. 4. Quali conclusioni trarre? Primo, i movimenti delle persone sono ciclici e mutevoli e anche il Ticino in un recente passato è stato terra di forte emigrazione. Solo l’importante sviluppo economico avvenuto nella seconda metà del XX secolo ha permesso di invertire questa tendenza, trasformandolo in una piazza capace di attrarre consistenti fussi di manodopera dall’esterno. I fussi migratori e la loro direzione, anche in Ticino, sono quindi dipesi, dipendono e dipenderanno in larga misura dalla situazione economica. Secondo, l’apertura del mercato del lavoro innescata dall’accordo con l’Ue sulla libera circolazione delle persone ha favorito l’arrivo in Ticino di nuovi lavoratori frontalieri, soprattutto nel terziario, traducendosi in una reazione di chiusura. Questa situazione di allarme, parzialmente fondata sui timori generati dalla transizione della piazza fnanziaria, ha condotto all’adozione di nuove norme il cui scopo dichiarato è la limitazione di lavoratori frontalieri sul territorio ticinese, sebbene i dati uffciali non permettano di concludere che la situazione sul mercato del lavoro sia in generale problematica. A questo punto occorre introdurre un ulteriore elemento di rifessione. Anche in Ticino la popolazione sta invecchiando. A partire dal 2012 il numero di decessi ha superato quello delle nascite. In Ticino si riscontra inoltre la quota percentuale di anziani più alta di tutta la Svizzera e si prevede un calo della popolazione attiva di oltre 30 mila unità nei prossimi trent’anni 15. Le conseguenze di questa tendenza sulla forza economica del Cantone e sulle fnanze pubbliche sono preoccupanti. L’unica variabile che può colmare tale lacuna in tempi utili è l’immigrazione. L’economia cantonale lo ha da tempo riconosciuto e considera pertanto l’immigrazione, se ben gestita, una preziosa risorsa. La partita in corso nella zona di frontiera per poter disporre della manodopera necessaria e trattenerla a proprio vantaggio necessiterà di un allineamento tra politica ed economia, allineamento che in Italia è già avvenuto come dimostra la discussione in corso sull’introduzione di aiuti statali (premi di frontiera) alle aziende del territorio per disincentivare i lavoratori locali a trasferirsi oltreconfne. Si pensi alla nuova tassa a carico dei «vecchi frontalieri» prevista nella manovra fnanziaria italiana 2024, il cui ricavo servirebbe a fnanziare bonus a favore del personale sanitario italiano. Una misura concepita per tentare di frenare l’esodo verso la Svizzera. Prima o poi questo allineamento tra politica e mondo economico dovrà avvenire anche in Ticino, considerate la conclamata carenza di personale qualifcato e le tendenze demografche.

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15. I. DANDREA, E. SLERCA, L’incertezza demografca. Il Canton Ticino fra denatalità e invecchiamento, Locarno 2022, Armando Dadò Editore.

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BERNA TEME L’AGGIRAMENTO FERROVIARIO

RATTI Completate le gallerie di base del San Gottardo e del Ceneri, Berna rischia di essere bypassata dagli assi Torino-Lione e FrancoforteMilano. Gli scenari a medio termine. Il ruolo dei porti liguri. La Croce federale della mobilità per non restare ai margini. di Remigio

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1. IECI AGOSTO 2023: UN TRENO MERCI CON circa trenta vagoni deraglia nella più sfortunata delle modalità dentro la galleria di base del San Gottardo, la più lunga del mondo con i suoi 57 chilometri e a due canne. Orgoglio delle Ferrovie elvetiche e di tutta la Svizzera, era stata inaugurata il 1° giugno 2016 alla presenza delle più alte autorità dei paesi vicini: la cancelliera tedesca Angela Merkel, il presidente francese François Hollande, il premier italiano Matteo Renzi. Di quest’ultimo si ricorda una gaffe giornalistica che nello slancio l’aveva portato a presentare come italiana la grande infrastruttura, tanto è centrale questo storico asse ferroviario tra Reno, Alpi svizzere, Milano e Liguria. Berna non l’aveva presa male, sperando nel forte impatto di un evento che potesse fare da traino per ulteriori investimenti. L’incidente di agosto non ha fatto vittime, ma la sua gravità è illustrata dai nove chilometri di binari e dalle ventimila traversine di cemento da sostituire. Conseguenze: se dopo una decina di giorni si è potuto ripristinare il traffco merci nella galleria Est, rimasta intatta, quello viaggiatori è rimasto sospeso. Non il massimo per un San Gottardo storicamente «via delle genti». È venuto in soccorso il vecchio itinerario di montagna dell’Ottocento, con la galleria di valico (15 km) del 1882. Le cattive notizie non vengono mai sole. Mentre anche le linee del Sempione e del Brennero subivano interruzioni programmate in territorio italiano, il maltempo del 27 agosto nella valle della Maurienne metteva fuori uso dal lato francese gli itinerari del Fréjus. Quello ferroviario tra la stazione di Chambéry e la stazione di confne franco-italiana di Modane, forse addirittura per un anno. Tutto questo alla vigilia della prima chiusura autunnale (poi rinviata) per radicali lavori di rinnovo del traforo stradale del Monte Bianco. Solo una stagione infausta? Oppure gli incidenti, le frane, le sempre più frequenti interruzioni sono la cartina di tornasole di latenti ritardi, insuffcienze e fragilità? Sembra proprio di sì.

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BERNA TEME L’AGGIRAMENTO FERROVIARIO

Occorre inquadrare il ruolo delle comunicazioni transalpine nella sfda più globale della sostenibilità. Qui la Svizzera ha saputo anticipare: quasi una costante storica 1. Tuttavia, il quadro odierno e futuro presenta forti criticità, per il traffco merci e viaggiatori italo-svizzero e per quello dell’intero arco alpino. Per quel che riguarda le merci, la rappresentazione del traffco attraverso le Alpi dal 1980 al 2019 mostra un’evoluzione diversa nella crescita e nella ripartizione tra strada e ferrovia (grafco). Ancora negli anni Ottanta i volumi delle merci scambiate con l’Italia erano sostanzialmente uguali (20 milioni di tonnellate) tra i valichi italo-francesi, quelli svizzeri e quelli italo-austriaci. Negli ultimi quarant’anni i volumi tra Italia e Francia sono rimasti quasi invariati, ma la ferrovia del Fréjus risulta in forte perdita (la relativa quota è dell’11,9%) rispetto ai valichi e alle gallerie stradali del Fréjus e soprattutto del Monte Bianco, con forte benefcio delle società concessionarie. I valichi austriaci del Brennero sono diventati il principale corridoio transalpino, crescendo esponenzialmente fno alla crisi del 2008 e con una quota della ferrovia rispetto alla strada, seppur triplicata, di poco superiore al 25%. Il contrario della Svizzera, con volumi di crescita inferiori ma con una quota della ferrovia che ha raggiunto nel 2022 il 75%. Se il sorpasso dei valichi italo-austriaci su quelli attraverso la Svizzera è da ascrivere soprattutto allo sviluppo delle relazioni commerciali dopo l’allargamento a est dell’Unione Europea, la tenuta della quota ferroviaria in Svizzera è da attribuire alla politica elvetica di trasferimento dalla gomma al ferro. In particolare tramite i 23 miliardi di franchi di investimenti nelle gallerie ferroviarie di base entrate in funzione negli ultimi quindici anni e denominate Alptransit. Quella del Lötschberg – 34 km, in funzione dal 2007 e in parte a binario semplice – sull’asse del Sempione, dove tuttavia da Iselle a Domodossola rimangono le vecchie rampe di montagna. Ma soprattutto quelle sull’itinerario ferroviario renano-padano, l’asse Zurigo-Lucerna-Milano: la galleria del San Gottardo (57 km, a due canne), seguita nel 2020 da quella del Monte Ceneri (15 km, pure a due canne) tra Bellinzona e Lugano (Milano). Questo orientamento è nato soprattutto dal basso, grazie all’approvazione dell’iniziativa popolare «delle Alpi», inizialmente osteggiata dal governo, il cui articolo costituzionale 84 è accettato con un sorprendente 51,9% (19 Cantoni a favore su 23) il 20 febbraio 1994. Esso recita: «La Confederazione protegge la regione alpina dalle ripercussioni negative del traffco di transito. Limita il carico inquinante del traffco di transito a una misura inoffensiva per l’uomo, la fauna, la fora e i loro spazi vitali; il traffco transalpino per il trasporto di merci attraverso la Svizzera avviene tramite ferrovia. (…), Eccezioni devono essere precisate nella legge». Quest’ultima, entrata in vigore nel 2001, prevedeva di stabilizzare il traffco pesante attraverso i valichi stradali delle Alpi svizzere ai valori del 2000 e il suo progressivo dimezzamento, introducendo un limite quantitativo annuo di 650 mila transiti pesanti. La condizione era equiparare la competitività del transito ferroviario attraver-

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1. Per approfondimenti, cfr. R. RATTI, L’asse ferroviario del San Gottardo: economia e geopolitica dei transiti alpini, Locarno 2016, Armando Dadò Editore.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

VOLUME DI MERCI TRASPORTATE ATTRAVERSO LE ALPI

(in milioni di tonnellate nette)

Sezione alpina Moncenisio/Fréjus al Brennero

FRANCIA 60 50 40 30 20 10 0 1980

1986

1992

1998

2004

2010

2016

2022

2004

2010

2016

2022

2004

2010

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SVIZZERA1 60 50 40 30 20 10 0 1980

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AUSTRIA 60 50 40 30 20 10 0 1980

1986

1992

1998

1 Interruzione metodologica nel trasporto merci su strada: dal 2010 vengono utilizzati i dati rilevati dalle stazioni di controllo della tassa sul trafco pesante commisurata alle prestazioni (fno al 2009: dati del Censimento svizzero automatico della circolazione stradale).

Fonte: Uft, Ustra – Trasporto merci transalpino

rotaia

strada

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BERNA TEME L’AGGIRAMENTO FERROVIARIO

so le Alpi a quella di una ferrovia di pianura, tramite lunghe gallerie ferroviarie con i portali alla base delle montagne. Investimenti da valutare in un contesto che va oltre quello nazionale, considerando i clienti fnali e i benefci ambientali per tutte le regioni di origine e destinazione delle merci, dal Benelux alla Toscana.

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2. Con un bell’anticipo il popolo svizzero ha così offerto uno stimolo al cambiamento di paradigma verso una mobilità sostenibile. Eppure, come scriveva la Neue Zürcher Zeitung nel maggio 2016, «fatto il cuore occorre pensare alle arterie» a nord e a sud dei portali, verso i confni e alla loro integrazione nella rete europea. L’evoluzione in atto sembra confermare la valutazione. Pur con l’ulteriore investimento per adeguare a 4 metri di altezza i profli di sagoma dei vagoni intermodali – 980 milioni di franchi, di cui 220 quale apporto per gli accessi italiani via Luino e altri 50 per il Sempione – l’obiettivo di limitare a 650 mila i transiti stradali non è stato ancora raggiunto. Il bicchiere è mezzo pieno, poiché si è a 900 mila veicoli pesanti rispetto agli 1,4 milioni del 2000 e ai probabili 2 milioni in assenza di provvedimenti. Il bicchiere è mezzo vuoto, poiché restano i contributi a fondo perduto (150-200 milioni di franchi l’anno) il cui azzeramento era inizialmente previsto per il 2012 e poi era slittato all’apertura del tunnel di base del San Gottardo. Con malumore del parlamento si va ormai verso il 2030. Si aggiungano i contributi (400 milioni di franchi) per le piattaforme intermodali di Busto Arsizio (I e II), Piacenza (2024), Milano Smistamento e Brescia (entro il 2026). Finora questi sforzi sono stati sostenuti dalla volontà popolare e giustifcati dalla capacità imprenditoriale delle società specializzate in questo segmento di mercato. Come la svizzera Hupac, diventata il maggiore operatore europeo del traffco intermodale Nord-Sud ed Est-Ovest, con diramazioni (ora sospese) fno alla Cina. Per vari motivi, contingenti e strutturali, l’Italia e soprattutto la Germania hanno invece accumulato forti ritardi nel predisporre le vie d’accesso alle gallerie ferroviarie di base approntate dalla Svizzera. L’obiettivo dichiarato di rendere competitivo il corridoio merci ferroviario europeo Reno-Alpi – da Rotterdam/Anversa ai porti liguri – non è assicurato, specie per le inadempienze nel quadruplicamento dei binari da Basilea verso Karlsruhe. L’obiettivo è in forse anche in Italia, dove sulla Milano-Como-Chiasso si prevede entro il 2035, dopo uno scontato adeguamento tecnologico, un intervento minore con un terzo binario di otto chilometri (tra Camnago-Carimate e Cantù) e due bypass per un totale di 350 milioni di euro. Il sistema infrastrutturale transalpino, ancora condizionato dagli interessi degli Stati coinvolti, non sta andando di pari passo con gli scenari dello sviluppo territoriale e ambientale. Gli operatori pubblici e della logistica, approfttando delle innovazioni introdotte dalla Svizzera, sembrano aver adottato un approccio pragmatico di breve-medio termine e di attesa. Si deve alla volontà di Bruxelles lo sblocco della situazione, almeno fnanziaria, al valico del Fréjus e al Brennero, ormai in dirittura d’arrivo per il 2030. Due gallerie ferroviarie di lunghezza analoga a quella del San Gottardo, ma con bacini di mercato, merci e viaggiatori specifci.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Dal punto di vista strategico l’Italia, pur uffcialmente impegnata a adeguare le sue infrastrutture allo sviluppo delle capacità di transito predisposte dalla Svizzera, sembra avere gli occhi altrove. Il corridoio del Brennero ha il vantaggio di essere tutto su territorio comunitario e benefcia dell’intesa tra ferrovie tedesche, austriache e italiane. Queste ultime hanno interesse a privilegiare un asse che permetterebbe, grazie al Pnrr (Piano di ripresa e resilienza italiano nell’ambito del Recovery Plan europeo), di gestire razionalmente su lunghe tratte un promettente volume di traffco in recupero dalla gomma al ferro. Ma anche viaggiatori, con i treni ad alta velocità annunciati per il 2026 sulla Milano-Monaco (Berlino-Stoccarda) dopo l’incoraggiante successo sulla Milano-Parigi e, domani, sugli itinerari per la Penisola iberica. Il contrario di quello che fnora si è avuto sulla linea del San Gottardo, pur potenziata dalle gallerie di base del Gottardo e del Ceneri. La cinquantina di chilometri che separano Milano dal confne svizzero non permetterebbero, con gli attuali criteri di sovranità territoriale, di realizzare interessanti ricavi economici, specie per i viaggiatori di lunga percorrenza. Le tratte Milano-Zurigo-Stoccarda o Milano-Basilea-Francoforte sembra restino fuori dalla rete europea dei treni ad alta velocità. Per le merci l’interesse resta forte, ma sempre più dipendente dal criterio ambientale, mentre non lo è sotto il criterio della copertura dei costi infrastrutturali, ridotta all’osso nell’ambito della liberalizzazione europea dell’accesso alla rete. Questo può spiegare – ma non giustifcare – la politica di Rf (Rete ferroviaria italiana), per la quale la linea a binario semplice via Luino è interessante solo per gli operatori del traffco intermodale (e per questo la Svizzera ha concesso un fnanziamento di 140 milioni di euro). Mentre per la Milano-Como-Chiasso si applicano alla lettera gli obiettivi Rf consistenti in interventi infrastrutturali leggeri, prevalentemente di natura tecnologica, salvo quel che concerne delimitati colli di bottiglia dove le capacità sono pressoché esaurite. 3. Siamo di fronte allo scontro tra due diverse flosofe di politica dei trasporti. Quella svizzera, da tempo impostata sul tentativo di mettere strada e ferrovia in condizioni di concorrenza meno distorte, specie introducendo il principio della verità dei costi. Quella europea, che fa leva sulla liberalizzazione dell’accesso al mercato e quindi, principalmente, sulla competizione tra mezzi di trasporto. Il risultato si sta traducendo in un controproducente e antistorico ripiegamento della posizione geopolitica della Svizzera e di mercato della ferrovia. Per la Confederazione, infatti, lo scenario (almeno per il traffco viaggiatori) è quello di essere aggirata a ovest e a est, con il Brennero capace domani di essere addirittura competitivo (un’ora in meno) rispetto alla verticale diretta Francoforte-Milano. Il rapporto del governo federale «Prospettiva Ferrovia 2050» sembra confermarlo: «In futuro la rotaia dovrà essere ulteriormente rafforzata, anzitutto sulle brevi e medie distanze. Ciò consentirà di fornire il contributo più effcace al raggiungimento dell’obiettivo climatico». Un obiettivo condivisibile, ma parziale. A sud di Lugano, dopo i 200 e più chilometri orari delle gallerie di base, la velocità media non supera i 50 chilometri. Idem a nord verso Zurigo, anche se entro il 2040 si prolungherà la galleria del

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Verso Lione

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BERNA

FRANCIA

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Verso Torino

LÖTSCHBERG

SVIZZERA

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Verso Parigi

e Francoforte

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Verso Milano

1 pt

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San Gallo ZIMMERBERG

Verso Monaco

AUSTRIA

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GERMANIA

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LIECHT.

Bolzano

Brennero

Innsbruck

Monaco

Fréjus

Alessandria

Ge Sa Prà nov a Va von do a L.

Firenze

Bologna

ITALIA Trento Luino Chiasso M. Bianco Lione Verona Chambéry Novara Milano Torino Modane Domodossola

BERNA

SVIZZERA

Friburgo

Verso Stoccarda

Karlsruhe

Ferrovia da adeguare per connetterla con il progetto svizzero Alptransit BASILEA-KARLSRUHE Carenze nell’adeguamento della tratta dei binari

CROAZIA BOSNIA ERZ. Mare Adriatico

SLOV.

AUSTRIA

UNGH.

Corridoio Ten-T mediterraneo-scandinavo

Progetti di collegamenti per la rete alta velocità R. CECA interna all’Ue

BERLINO

Würzburg Norimberga

GERMANIA

Mannheim

ALPTRANSIT Verso Parigi

FRANCIA PARIGI

R eenn R

Hannover

Brema

Verso la Scandinavia

Amburgo

Emmerich Oberhausen Düsseldorf Anversa Colonia Gent Aquisgrana Montzen BELGIO Wiesbaden

Rotterdam Vlissingen Zeebrugge

Ra r n Amsterdam

PAESI BASSI

F.. F

Ofenburg

La Manica

LONDRA

REGNO UNITO

nge

oo

* Galleria chiusa per gravi danni a causa del deragliamento di un treno merci il 10 agosto 2023

Gallerie Alptransit LÖTSCHBERG 34,6 km SAN GOTTARDO* 57,1 km CENERI 15,4 km

Paesi dell’Unione Europea

IRLANDA

Mare del Nord

e

th No r

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LA SVIZZERA COME SNODO FERROVIARIO

BERNA TEME L’AGGIRAMENTO FERROVIARIO

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Zimmerberg sulla tratta Thalwil-Zugo con un secondo tunnel di 10 chilometri. Prospettiva 2050 tralascia il potenziale dei treni viaggiatori a lunga percorrenza e/o in transito internazionale. Un approccio piuttosto svizzerocentrico, per di più contrario agli obiettivi climatici e di recupero della ferrovia sull’aereo (vedi il divieto francese di offrire voli in presenza di alternative terrestri nelle tre ore). Sul fronte europeo e italiano, il decennio in corso è invece quello del recupero, grazie al Next Generation Eu di cui l’Italia è grande benefciaria. Oltre alla Genova-Milano, si completeranno parti essenziali dell’asse del Brennero che dalla Scandinavia scende collegando ad alta velocità Berlino a Monaco, poi Innsbruck, Verona, Bologna e giù lungo la penisola. Nel 2030 si andrà più velocemente (un’ora circa) da Francoforte a Milano, via Monaco-Brennero-Verona, che non via l’asse diretto attraverso la Svizzera. Si muove anche lo scenario d’aggiramento a est, sul lato franco-italiano. La Parigi-Lione-Torino, pur contestata, si sta realizzando con la galleria ferroviaria di base del Moncenisio (57,4 km, come quella del Gottardo e del Brennero), godendo del pieno appoggio europeo per il tunnel con un sussidio che dovrebbe passare dal 40 al 55%. Pur rimanendo diffcoltà analoghe a quelle svizzere per le tratte d’avvicinamento da Lione alla galleria di base nel collegamento all’alta velocità Parigi-Marsiglia, fra una quindicina d’anni Parigi e Milano saranno a quattro ore di treno. Il rilancio dei porti liguri (Genova, Prà, Savona e Vado) pone interessanti interrogativi. Ricordiamo l’importanza storica di Genova per la Confederazione Elvetica che, nel 1799, vi apriva il primo consolato. Durante la seconda guerra mondiale Genova e il suo porto hanno permesso alla Svizzera di sopravvivere, quando il blocco navale inglese non consentiva più approvvigionamenti da nord. Poi una lunga fase d’inibizione, per ineffcienze infrastrutturali e funzionali. Oggi in Liguria la musica sembra cambiata: i porti liguri fanno capo a un’autorità portuale comune e si prevede un raddoppio delle capacità. Recentemente Nestlé ha preso a importare caffè dal porto di Vado, mentre le principali catene di distribuzione svizzere sono disponibili a sviluppare in comune l’alternativa di approvvigionamento da sud. Il clima mette infatti sovente in crisi, per carenza idrica, la navigazione fuviale lungo il Reno e fno a Basilea. Il Mediterraneo vanta la sua centralità e potenzialità nelle comunicazioni marittime tra Sud-Est asiatico, Europa e Nord America, senza dimenticare il continente africano. L’obiettivo strategico dei porti liguri è riscattare signifcative quote di mercato – il Nord Italia in primis, ma anche Svizzera, Alto Reno, Germania meridionale – sinora accaparrate dai giganteschi porti del Northern Range: Anversa, Rotterdam e Amburgo. Far capo ai porti liguri signifca risparmiare 5-8 giorni di navigazione e guadagni per l’erario italiano nell’ordine di 6 mila euro per ogni container sdoganato in entrata nella Ue (da moltiplicare per i 2-3 milioni di unità supplementari). In che misura questo può mutare le convergenze o le divergenze d’interesse tra gli attori coinvolti? I risultati di una prima analisi dei fussi di traffco mostrano un interessante scenario. L’ampliamento verso nord (Svizzera, Alto Reno e Germa-

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BERNA TEME L’AGGIRAMENTO FERROVIARIO

nia meridionale) dei bacini di mercato dei porti liguri aumenterebbe del 17% i trasporti ferroviari Sud-Nord rispetto al 2019. Vi sarebbe una speculare diminuzione del traffco Nord-Sud dell’11%, dovuto alle minori importazioni italiane dai porti di Anversa, Rotterdam e Amburgo. Lo studio considera tuttavia un pareggio dei fussi, data la probabile capacità di questi tre porti e della logistica intermodale di mantenere parte del mercato.

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4. Il problema è semmai un altro. Se le trasversali ferroviari alpine di «pianura» possono dare assicurazioni per il trasferimento su ferro dei traffci generati dai porti liguri, occorre verifcare le altre premesse legate alle specifcità della logistica portuale ligure. In primo luogo l’eterogeneità del mercato e la composizione merceologica assai differenziata (materie prime, prodotti petroliferi, carichi speciali, container): un vantaggio per il business portuale, ma un problema per il trasferimento su ferrovia, tanto che l’obiettivo dell’autorità portuale non va oltre il 30%. Questo a condizione che vengano risolti i problemi dell’ultimo miglio, dei retroporti e delle piattaforme intermodali. Molto si muove in questo senso, anche grazie ai grandi operatori marittimi (come Msc, Maersk e Cosco) che hanno dato fducia ai porti liguri. Nella gestione delle loro gigantesche navi da 10-20 mila container e oltre, hanno bisogno di liberare le banchine d’arrivo e di prevedere un governo della logistica terrestre in collaborazione con i loro maggiori clienti. A tal fne si conta sulla strategia del ferro decisa a livello italiano ed europeo, con un aumento del 50% entro il 2030 e un raddoppio entro il 2040 del traffco merci. Esito non scontato visto lo stallo nell’approntare le arterie delle gallerie di base – salvo il completamento a due canne della galleria del Lötschberg. Il Pnrr parla di investimenti fno al confne, che non risultano però nei fatti: al rafforzamento della Genova-Milano (Terzo valico) non corrisponde un adeguato prolungamento strategico verso Zurigo-Basilea. L’asse del Sempione rimane un tratto alpino, con le sue gallerie elicoidali dell’Ottocento. Senza contestare l’approccio incrementale di breve-medio termine di vari paesi, occorre fare un salto di qualità nella pianifcazione tenendo conto di visioni più strategiche. Constatato il parziale e antistorico aggiramento della Svizzera nel traffco viaggiatori di lunga percorrenza, appare di comune interesse ricucire il buco che si sta creando tra la rete europea Ten-T ad alta velocità/capacità e quella svizzera nel cuore delle Alpi. Lo vuole la salvaguardia dell’arco alpino, ricordando il motto di Piero Bassetti «le Alpi per l’Europa». Svizzera e Italia, unitamente a Germania, Francia e Austria, sono chiamate a trovare risolvere la problematica dei transiti alpini. Da tener presente – l’ha fatto il parlamento svizzero accogliendo nel giugno scorso una mozione – la proposta dell’associazione SwissRailvolution di realizzare nuovi collegamenti ad alta velocità/capacità Nord-Sud e Ovest-Est, da frontiera a frontiera e in connessione con la rete Ten-T, denominata Croce federale della mobilità. Le nuove infrastrutture destinate al traffco intercity e di lunga percorrenza libererebbero tracce sulle vecchie linee per una gestione regionale-locale sempre più metropolitana, mentre si dimostra come una nuova infrastruttura sia

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

globalmente più vantaggiosa che non una serie di investimenti puntuali su questo o quel collo di bottiglia. La situazione creatasi non favorisce una strategia coerente per le sfde della mobilità sull’arco alpino e in Europa. La Svizzera ha fatto molto, ma non per questo Italia, Germania e Ue possono ritenere per acquisito il suo storico ruolo al servizio delle comunicazioni transalpine. Occorre uscire dallo stallo: rinegoziando se del caso gli accordi bilaterali Svizzera-Ue sul transito e prevedendo un cofnanziamento delle future infrastrutture. La defnizione del nuovo ruolo elvetico nel contesto transalpino è legata alla manifestazione di una visione storico-civile all’altezza delle sfde. Qui ritroviamo il pensiero del milanese Carlo Cattaneo, che nell’Ottocento da esule a Lugano convinse Milano a puntare sull’itinerario del San Gottardo rispetto a quello dello Spluga. Incoraggiante è il recente Piano d’azione transnazionale per una mobilità rispettosa del clima nelle Alpi, o Alleanza del Sempione, sottoscritto nell’ottobre 2022 dai ministri dell’Ambiente e dei Trasporti dei sette paesi alpini. Si dovrebbe parlare di trasferimento strada-ferrovia non solo delle merci ma anche delle persone sulle medie-lunghe percorrenze, a livello nazionale e continentale. Occorre recuperare rispetto all’aereo su tratte medio-brevi, ma anche – nella prospettiva di veicoli sempre meno inquinanti – pensare al traffco stradale che resterà e al suo impatto sul vivere quotidiano, sull’ambiente. Il recupero di quote di mercato alla ferrovia è inserito negli obiettivi climatici a tutti i livelli, quindi anche i grandi investimenti infrastrutturali vanno pensati «alla Carlo Cattaneo». Con spirito interdisciplinare, dialettico e in funzione degli utenti fnali.

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SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

DEFENSORES LIBERTATIS ECCLESIAE LE GUARDIE SVIZZERE TRA PASSATO E PRESENTE di Guglielmo GALLONE Chi sono, quanti sono e cosa fanno i soldati del pontefice. Le origini del corpo. Il battesimo ufficiale nel 1506 con Giulio II. Il trauma del sacco di Roma nel 1527 e la dolorosa resa a Cadorna. Le ‘vocazioni’ tengono, ma il reclutamento è una sfida.

B

1. LU, ROSSO E GIALLO. L’ALABARDA IN MANO, il morione sulla testa e l’uniforme di gala. Vigilanza, sicurezza e protezione. Una volta guardia, guardia per sempre. Il giorno del giuramento al «pontefce regnante e ai suoi legittimi successori» è forse il più importante nella vita di una guardia svizzera pontifcia. La data in cui si celebra l’ingresso uffciale delle reclute nel corpo armato al servizio del papa è il 6 maggio. Scelta non casuale. Il 6 maggio 1527 le truppe mercenarie assoldate dal Sacro Romano Impero, chiamate lanzichenecchi (dal tedesco Landsknecht), saccheggiano Roma. La città viene scelta per due motivi. Dopo la frma del trattato di Madrid in base al quale Carlo V d’Asburgo, imperatore e re di Spagna, ottiene il controllo dell’Italia settentrionale a scapito del sovrano francese Francesco I, nel 1526 papa Clemente VII istituisce la Lega di Cognac. Obiettivo dell’alleanza tra Chiesa, Francia, Milano, Venezia, Genova e Firenze: affrontare le aspirazioni imperiali degli Asburgo sulla penisola italiana perché Carlo V, oltre all’area nordica, controlla il Meridione in quanto eredità spagnola. Il secondo motivo è religioso: nel 1517 Lutero diffonde la discussione sul potere delle indulgenze – le 95 tesi – e così non solo avvia la riforma protestante, ma instilla nella mente e nei cuori di tanti abitanti dell’impero un odio verso il papa, la Chiesa, Roma. Carlo V è però imperatore cattolico, sa bene quanto conti il potere del papato; inoltre, ha troppi fronti aperti. Dopo aver vinto i francesi a Pavia si ritrova alle prese con la rivolta luterana – il monaco era stato bandito con l’editto di Worms del 1521 – e con l’impero ottomano, intenzionato a conquistare l’Ungheria. Il sovrano asburgico approftta allora della rivalità tra la famiglia Medici – cui appartiene papa Clemente VII – e i Colonna per sobillare una rivolta nello Stato pontifcio 1, così da 1. P.P. PIERGENTILI, G. VENDITTI, Scorribande, lanzichenecchi e soldati ai tempi del sacco di Roma, Roma 2009, Gangemi Editore.

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DEFENSORES LIBERTATIS ECCLESIAE, LE GUARDIE SVIZZERE TRA PASSATO E PRESENTE

costringere il pontefce a chiedere soccorso agli Asburgo. Guidati dal cardinale Pompeo Colonna, 8 mila uomini arrivano alle porte di San Pietro: costringono Clemente VII a rifugiarsi a Castel Sant’Angelo e a promettere di rompere l’alleanza con i francesi. La promessa del pontefce si rivela presto falsa. Nello stesso anno in cui i Medici sono cacciati da Firenze e Niccolò Machiavelli muore, Carlo V prepara dunque l’attacco allo Stato pontifcio in base a un ragionamento strategico: se perdo un territorio, perdo potenziali alleati e concedo spazio al nemico. Il sacco di Roma del 1527 dura dieci mesi, è l’ultimo ma anche il più efferato: violenze e malattie uccidono circa 20 mila romani. Oltre che dall’odio nutrito verso la Chiesa cattolica, i lanzichenecchi sono mossi dalla scarsa retribuzione perché il pagamento, che doveva essere effettuato ogni cinque giorni, non sempre arriva. In questi casi, il comandante autorizza il saccheggio. Sotto gli occhi del papa viene messa in scena la parodia di una processione religiosa in cui i soldati urlano: «Vivat Lutherus pontifex!». Sul dipinto La disputa del sacramento di Raffaello, posto nella Stanza della segnatura (una delle quattro stanze vaticane), viene inciso il nome di Lutero con la punta di una spada. «Mali fuere germani, pejores itali, hispani vero pessimi» 2 è il commento di Kilian Leib, priore dei canonici di sant’Agostino. La mattina del 6 maggio 1527 a difendere Roma, a morire davanti a Porta Cavalleggeri e ai piedi dell’obelisco vicino al camposanto teutonico, ci sono le guardie svizzere del papa. Solo 42 delle 189 guardie pontifcie sopravvivono, eppure riescono a trasferire Clemente VII a Castel Sant’Angelo attraverso un corridoio segreto, il «passetto» di origini romane che collega il Vaticano alla fortezza e che esiste a tutt’oggi 3. Il pontefce è salvo, ma il destino delle guardie svizzere è compromesso. La resa di Clemente VII data 5 giugno 1527 ed esige condizioni pesantissime 4: il pontefce si arrende a Carlo V d’Asburgo, cede le fortezze di Ostia, Civitavecchia, Modena, Parma e Piacenza, deve restituire ai Colonna tutti i loro diritti e restare a Castel Sant’Angelo fnché non abbia pagato per intero 400 mila ducati. Gli svizzeri vengono estromessi dal corpo armato papale e sostituiti da tedeschi e spagnoli, in qualità di carcerieri del papa. Gli Asburgo acconsentono alla reintroduzione degli svizzeri nel corpo papale, ma solo 12 sopravvissuti accettano di lavorare con gli odiati lanzichenecchi. Questa situazione durerà fno al 1548, anno in cui papa Paolo III ricostituisce il corpo armato con 225 mercenari svizzeri, mentre nel 1561 Pio IV frma con gli svizzeri i Capitala capitanorum castodiae helveticoarum. Sette anni più tardi viene aperta la prima nunziatura apostolica in Svizzera, a Lucerna. 2. La fondazione delle guardie svizzere risale al 22 gennaio 1506 e al pontifcato di Giulio II. A quel tempo un esercito dello Stato della Chiesa esiste già: creato nel 1049 da papa Leone IX, è formato da mercenari di diversa nazionalità. I primi rapporti con gli elvetici, che diventeranno parte dell’esercito pontifcio, ven-

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2. «I germani erano cattivi, gli italiani ancora di più, gli spagnoli erano i peggiori». 3. Ricostruzioni tratte dalla sezione «Guardia Svizzera Pontifcia» del portale uffciale vatican.va. 4. M. SANUDO, Diarii, tomo XLV.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

gono avviati nel 1476 quando papa Sisto IV invia un legato pontifcio a Basilea. Nel 1479 è stipulato un trattato secondo cui i mercenari svizzeri possono essere reclutati da Roma. I primi soldati elvetici che giungono a Roma sono però schierati con il re di Francia Carlo VIII e la sua discesa in Italia, progetto cui papa Alessandro VI si oppone. Nel 1494 Carlo VIII occupa Roma e poi, costretto il pontefce alla resa, si dirige a Napoli. Oltre alle migliaia di mercenari svizzeri che si trovano a Roma, a sostenere l’iniziativa francese c’è il cardinale Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II che avrebbe istituzionalizzato le guardie svizzere. Sotto l’apparente contraddizione si cela la macchinosa trama pontifcia di quegli anni. Nonostante il prestigio di cui gode nel collegio cardinalizio svoltosi nel 1492, dopo la morte di Innocenzo VIII, della Rovere deve rinunciare al soglio pontifcio per lasciare spazio a Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, che in conclave si allea con Ascanio Sforza e strappa la maggioranza dei voti 5. Dopo la sconftta, il cardinale parte alla volta di Parigi per paura di essere ucciso. Arrivato alla Corte di Carlo VIII, lo incita a scendere in Italia per conquistare il regno di Napoli e deporre Alessandro VI. La rivalsa personale incrocia la strategia del giovane re francese, ma entrambe sono destinate a fallire: a Fornovo la lega italica caccia Carlo VIII dalla penisola e il pontifcato di Rodrigo Borgia fnirà nel 1503, con la morte (naturale) del pontefce. Dopo il brevissimo pontifcato di Pio III e grazie a un’alleanza con la fazione di Cesare Borgia, Giuliano della Rovere viene eletto papa all’unanimità con il nome di Giulio II 6. Principe italiano, pontefce romano con vocazione universale e sovrano europeo, Giulio II incarna il Rinascimento. Una volta eletto, fa passare il corteo attraverso sette archi trionfali costruiti appositamente per l’incoronazione. Da mecenate accoglie nella corte vaticana Bramante, Michelangelo e Raffaello. Stretto nelle logiche provinciali della penisola italiana, punta a fare dello Stato pontifcio una potenza europea. A tal fne deve evitare congiure di palazzo e mantenere il controllo interno. Ecco perché il «papa guerriero» istituisce le guardie svizzere e affda loro la propria sicurezza. Grazie all’esperienza militare maturata al fanco di Carlo VIII, papa Giulio II è consapevole e testimone della forza d’animo e della fedeltà degli helvetii. Al tempo i Cantoni svizzeri contano circa 500 mila abitanti: un numero elevato in proporzione al territorio. Gli svizzeri vivono in condizioni economiche precarie, sono propensi a emigrare e sovente fanno i mercenari al servizio dei grandi Stati europei. Al tramonto del 22 gennaio 1506, 150 mercenari svizzeri entrano a Roma da Porta del Popolo. Sono arruolati da Peter von Hertenstein, cubiculario pontifcio e decano del capitolo lucernese. Sflano sotto la guida del capitano Gaspare de Silenen, patrizio di Lucerna 7. Il reclutamento è gestito dalla Confederazione, che concede le autorizzazioni e ottiene in cambio cibo o vantaggi commerciali. Come racconta 5. L. PINGIOTTI, La leggenda nera di papa Borgia, Verona 2008, Fede & Cultura. 6. M. ROSPOCHER, Il papa guerriero, Giulio II nello spazio pubblico europeo, Bologna 2015, Il Mulino. 7. G. BURCARDO, Alla corte di cinque papi. Diario 1483-1506, a cura di L. BIANCHI, Milano 2023, La Vita Felice.

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DEFENSORES LIBERTATIS ECCLESIAE, LE GUARDIE SVIZZERE TRA PASSATO E PRESENTE

Giovanni Burcardo, maestro di cerimonie di Giulio II, i 490 ducati larghi e i 970 ducati comuni per pagare i primi svizzeri vengono anticipati dai fratelli Fugger, la più importante famiglia tedesca di imprenditori e mecenati del tempo. La devozione di Giulio II agli affari bellici viene rafforzata anni più tardi, quando egli stesso guida l’esercito pontifcio nell’assedio invernale di Mirandola. Machiavelli vi vedrà un perfetto esempio di principe, mentre Erasmo da Rotterdam, nel dialogo Iulius exclusus e coelis, lo condanna immaginando il rifuto di san Pietro ad accoglierlo in paradiso. Nel 1512, un anno prima di morire e malgrado la sconftta della Lega santa contro i francesi a Ravenna, Giulio II affda agli svizzeri lo stocco e l’elmo, onori riservati solo ai principi, nominandoli defensores libertatis ecclesiae. 3. La situazione delle guardie svizzere a Roma resta immutata fno al 1870, anno in cui lo Stato pontifcio si dissolve e le truppe italiane annettono Roma al Regno d’Italia. Rassegnato al destino della città, isolato sul piano internazionale e desideroso di evitare inutili spargimenti di sangue, papa Pio IX – spinto soprattutto dall’allora segretario di Stato, cardinale Giacomo Antonelli – ordina al comandante dell’esercito pontifcio, il generale tedesco Hermann Kanzler, di non opporre resistenza alle truppe guidate da Luigi Cadorna 8. È Kanzler a frmare la capitolazione con cui lo Stato pontifcio riconosce che «la città di Roma, tranne la parte limitata a sud dai bastioni di Santo Spirito e comprendente il Vaticano, Castel Sant’Angelo e gli edifci costituenti la Città leonina, il suo armamento completo, bandiere, armi, magazzini di polvere, saranno consegnati alle truppe di sua maestà il re d’Italia». Il generale Cadorna impone a papa Pio IX lo scioglimento dell’esercito pontifcio 9. Gli unici corpi autorizzati a restare attivi sono la guardia palatina, la guardia nobile e la guardia svizzera. Il compito della guarnigione vaticana è circoscritto alla protezione del pontefce, alla sicurezza del palazzo apostolico e della residenza estiva di Castel Gandolfo. Neanche la diffusione del Kulturkampf (l’anticlericalismo sorto dopo la nascita dell’impero tedesco nel 1871) e la rottura delle relazioni diplomatiche tra la Chiesa e la Svizzera incrinano la fedeltà del corpo armato papale. Lo testimonia il giubileo indetto da Leone XIII nel 1903, in cui dopo 32 anni la guardia svizzera torna a indossare armature, corazze, bracciali ed elmi 10. La sedia gestatoria su cui siede il pontefce è scortata da sei sottouffciali per lato che rappresentano i Cantoni svizzeri ed è preceduta dal capitano delle guardie. L’11 febbraio 1929 vengono frmati i Patti lateranensi. Con il ripristino dei rapporti tra Italia e Santa Sede e l’istituzione della Città del Vaticano quale Stato indipendente e sovrano (il più piccolo del mondo), il pontefce necessita di uomini per controllarne il perimetro. Ancor più dopo la ripresa dei rapporti bilaterali con

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8. C. FIORENTINO, Dalle stanze del Vaticano: il venti settembre e la protesta della Santa Sede 1870-1871, Archivum Historiae Pontifciae, vol. 28, 1990, pp. 285-333. 9. A. VIGEVANO, La fne dell’esercito pontifcio, Roma 1920, Stabilimento poligrafco per l’amministrazione della guerra. 10. A. ZANETTA, «La Guardia svizzera», Storia militare – Informazioni della Difesa, giugno 2006.

SVIZZERA, LA POTENZA NASCOSTA

Berna nel 1920, il Consiglio federale (governo) svizzero non si oppone a mandare uomini in Vaticano perché «è diffcile considerare la guardia svizzera papale come un corpo armato straniero», anzi essa è «assimilabile a un corpo di polizia» 11. Nel 1914 Pio X ne fssa il numero a 106 unità, ma durante la seconda guerra mondiale Pio XII la porta a 300 uomini 12. Con le riforme introdotte dal Concilio Vaticano II, papa Paolo VI scioglie la guardia nobile e la guardia palatina d’onore. 4. Oggi gli svizzeri sono gli unici a occuparsi della sicurezza del papa e del Vaticano. Per entrare in questo corpo armato occorre rispettare diversi requisiti: essere cittadini svizzeri di sesso maschile, di fede cattolica, celibi, d’età compresa tra 19 e 30 anni e d’altezza non inferiore ai 174 centimetri. Bisogna inoltre aver concluso la scuola reclute nell’esercito svizzero, aver conseguito la maturità o una formazione di base triennale o quadriennale, essere disposti a prestare servizio per almeno 26 mesi. Il Vaticano presta molta attenzione alla guardia. Nel 2018 papa Francesco l’ha aumentata da 110 a 135 unità 13. I gradi più importanti sono quelli di colonnello (oberst), tenente colonnello (oberstleutnant), cappellano militare (kaplan), maggiore (major) e capitano (hauptmann, ve ne sono due). Nello stesso anno Francesco ha celebrato il matrimonio di una guardia svizzera 14 – per potersi sposare, una guardia deve avere almeno 25 anni, aver prestato servizio per almeno cinque anni e impegnarsi a servire per almeno altri tre anni. Il 2 ottobre 2020 è stato presentato a Bergoglio il progetto 15 di una nuova caserma, che dovrebbe essere inaugurata il 6 maggio 2027: cinquecento anni dopo il sacco di Roma. L’evento è stato attentamente studiato e anticipato: le guardie svizzere sono a loro agio con i moderni mezzi di comunicazione, basta dare un’occhiata alla loro pagina Instagram. La formazione di base è divisa in due parti e dura due mesi. Il primo mese si svolge a Isone (Ticino) e prevede corsi di psicologia, diritto, autodifesa, tattica e sport. Il secondo mese si svolge a Roma e mira all’acquisizione di conoscenze su luoghi e persone, all’apprendimento dell’italiano e di tecniche militari specifche, alla pratica dei compiti di protezione. Gli ordini militari vengono dati in tedesco. Il responsabile della gerarchia è il segretario di Stato vaticano – attualmente il cardinale Pietro Parolin. Due terzi delle truppe sono impegnati a montare la guardia agli ingressi del palazzo apostolico (compreso l’appartamento privato del papa), agli ingressi esterni e a prestare servizio d’onore, di controllo e ordine tutte le volte in cui il papa è presente 16. Le guardie percepiscono uno stipendio che si aggira intorno ai 1.500 euro mensili, cui vanno aggiunti vitto e alloggio. 11. Verbale della seduta del Consiglio federale svizzero del 15 febbraio 1929. 12. «Giuramento guardie svizzere, dieci cose da sapere sull’esercito del papa», Famiglia Cristiana, 6/5/2022. 13. «Vaticano: Guardie svizzere in aumento, da gennaio saranno 135», Ansa, 6/12/2020. 14. S. CERNUZIO, «Francesco celebra a sorpresa le nozze di una guardia svizzera», La Stampa, 16/7/2018. 15. «La Guardia Svizzera Pontifcia, tra storia e nuovi progetti», dipartimento federale degli Affari esteri, 11/12/2020. 16. Le informazioni provengono dal sito uffciale della Guardia svizzera pontifcia.

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Il reclutamento è sostanzialmente stabile: il 6 maggio 2022 hanno giurato 36 nuove reclute 17, l’anno prima 34 18. I problemi però non mancano: il vicecaporale Eliah Cinotti, responsabile media delle guardie svizzere, riconosce che «una delle maggiori diffcoltà è garantire un numero suffciente di guardie per il servizio operativo. Per garantire la sicurezza del papa e del Vaticano dobbiamo promuovere la nostra attività in Svizzera e incoraggiare l’arruolamento». Comunque, le guardie si ritengono investite di «una competenza unica: la protezione del Santo Padre. Ci consideriamo degni rappresentanti di una missione secolare, che ci ispira un senso di onore e lealtà» 19. Un altro problema è legato alla legge federale del 12 giugno 1959, secondo cui ogni cittadino svizzero che diventi guardia pontifcia deve pagare una tassa d’esenzione dall’obbligo militare perché svolge circa 145 giorni sui 260 di leva obbligatori. Il rimborso avviene solo quando, tornato in Svizzera, il cittadino termina il servizio militare. Sull’esenzione si confronta spesso la politica svizzera20, come dimostra l’iniziativa parlamentare depositata dal consigliere nazionale Jean-Luc Addor il 22 marzo 2019. L’esistenza di un corpo armato impiegato in uno Stato estero potrebbe cozzare con il principio che governa la politica estera svizzera: la neutralità. Dal 1815 Berna non ha mai partecipato a un confitto armato. Eppure, guardando alle guardie svizzere si comprende cosa intenda la Svizzera per neutralità: astenersi dal combattere ma non sottrarsi al mondo, dialogare con tutti, rendersi attivamente utili, tutelare gli affari interni (la leva obbligatoria non è un accidente), dotarsi di forme alternative di proiezione. Difendere il papa rientra pienamente in questa logica.

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17. «Guardie svizzere, il 6 maggio giurano 36 nuove reclute», Vatican News, 28/4/2022. 18. «Giurano 34 nuove Guardie svizzere. Centrali fducia in Dio e testimonianza», Vatican News, 6/5/2021. 19. Intervista dell’autore. 20. «Iniziativa parlamentare: Esenzione dalla tassa militare per le guardie svizzere», rapporto della Commissione della politica di sicurezza del Consiglio nazionale, 22/2/2021.

FRIEDEMANN BARTU - Ha lavorato per Neue Zürcher Zeitung, il principale quotidiano svizzero e come corrispondente estero ed economico in varie parti del mondo. MORENO BERNASCONI - Giornalista e scrittore, già caporedattore del Corriere del Ticino. Presiede la Fondazione Federica Spitzer. EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopolitica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scientifco di Limes. ALICE BRITSCHGI - Scrittrice. Ha studiato fotografa, letteratura e linguistica tra Lucerna, Zurigo, Berlino e Helsinki. Scrive regolarmente per Tages-Anzeiger. MONICA DELL’ANNA - Consigliere d’amministrazione, imprenditrice e presidente della Camera di commercio italiana per la Svizzera. DANIEL DUTTWEILER - Segreteria di Stato per la Formazione, la ricerca e l’innovazione. GUGLIELMO GALLONE - Laureando magistrale in Relazioni internazionali all’Università La Sapienza di Roma. Studia in Francia a Paris 1 – Panthéon Sorbonne. Collabora con Limes e con L’Osservatore Romano. ANDRÉ HOLENSTEIN - È stato professore ordinario di Storia svizzera all’Università di Berna. IRÈNE KÄLIN - Deputata dei Verdi svizzeri. ROGER KÖPPEL - Deputato dell’Unione democratica di centro (Udc). ALEXIS LAUTENBERG - Ambasciatore svizzero. THOMAS MAISSEN - Storico, insegna Storia moderna alla Ruprecht-Karls-Universität di Heidelberg. FABRIZIO MARONTA - Redattore, consigliere scientifco e responsabile relazioni internazionali di Limes. OSCAR MAZZOLENI - Docente di Scienza politica all’Università di Losanna. PIETRO MEINERI - Avvocato in arbitrato e diritto internazionale, studio legale Homburger AG (Zurigo). Alumnus Harvard Law School, Scuola Superiore Sant’Anna e Università di Pisa. TAMARA ODERMATT - Segreteria di Stato per la Formazione, la ricerca e l’innovazione. PAOLO PELUFFO - Consigliere della Corte dei Conti e già portavoce del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. ANDREA PILOTTI - Docente di Scienza politica all’Università di Losanna. PÄLVI PULLI - Capo della Politica di sicurezza al dipartimento federale della Difesa, della Protezione della popolazione e dello Sport.

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FABIO PUSTERLA - Poeta, traduttore e saggista, è professore titolare di Letteratura italiana all’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana. REZA RAFI - Giornalista, ha studiato scienze politiche, economia e scienze dei media all’Università di Zurigo. È caporedattore del settimanale svizzero SonntagsBlick. REMIGIO RATTI - Esperto di economia dei trasporti. Già professore titolare all’Università di Friburgo e docente all’Università della Svizzera italiana e al Politecnico Federale di Losanna. BERNARDINO REGAZZONI - Già ambasciatore di Svizzera in Sri Lanka, Indonesia, Italia, Francia e Cina. TONI RICCIARDI - Storico delle migrazioni e delle catastrof all’Università di Ginevra e al Cnr. MICHELE ROSSI - Avvocato, delegato alle Relazioni esterne della Camera di commercio del Canton Ticino. Già membro del Servizio diplomatico svizzero. GÉRALDINE SAVARY - Caporedattrice del quotidiano Femina, già membro del Consiglio degli Stati svizzero. MONIKA SCHMUTZ KIRGÖZ - Ambasciatrice di Svizzera in Germania. PAUL R. SEGER - Già ambasciatore di Svizzera a Berlino. MARCO SOLARI - Già direttore dell’Ente ticinese per il turismo e delegato del Consiglio federale per le celebrazioni dei 700 anni della Confederazione Svizzera. Dal 2000 al settembre 2023 è stato presidente del Locarno Film Festival. MARCELLO SPAGNULO - Consigliere scientifco di Limes, ingegnere aeronautico e presidente del Mars Center. NENAD STOJANOVI© - Professore di Scienze politiche all’Università di Ginevra, condirettore della Rivista svizzera di scienza politica. LINO TERLIZZI - Giornalista economico, editorialista del Corriere del Ticino, collabora con Il Sole-24 Ore. È Media Leader del World Economic Forum di Davos.

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La storia in carte a cura di Edoardo BORIA 1-2. I due termini dell’espressione «Confederazione Elvetica» usati nella carta 1 sono due indizi signifcativi per penetrare la storia svizzera. Il primo: che una confederazione è una cosa diversa da una federazione. Una confederazione prevede la piena libertà dei membri nel decidere e continuamente riconfermare la parziale autolimitazione di sovranità attraverso la delega di determinate funzioni a un organismo unitario. In pratica, le entità che la compongono in forza di una volontaria riduzione delle proprie prerogative rimangono sempre e sostanzialmente autonome. Sorta nel XIII secolo come confederazione secondo i canoni appena detti, la Svizzera ha progressivamente perduto questo carattere, fnché nel 1848 si è defnitivamente data una costituzione di tipo federale in cui l’elemento centrale risulta rafforzato. Sopravvive, tuttavia, lo storico appellativo. Quanto al secondo attributo dell’espressione, fa riferimento agli elvezi, antica popolazione celtica costretta alla migrazione dai germani nel I secolo d.C. Il loro incontro/scontro rappresenta un interessante caso di sostituzione culturale perché la cultura degli invasori si impose su quella locale ma arricchendosi a sua volta di elementi autoctoni, ad esempio nei toponimi e nella lingua. Quando i germani penetrarono da nord sul territorio abitato dagli elvezi, la cultura locale venne di fatto sostituita ma non con un procedimento meccanico, perché anche gli invasori installatisi sul nuovo territorio acquisirono forme culturali preesistenti. Il valore geopolitico che si può trarre dalla vicenda dell’incontro tra germani ed elvezi rimanda a un concetto fondamentale per gli studi geopolitici: quello di «entità geopolitica instabile», che non si applica affatto alla Svizzera ma che la interessa indirettamente perché affigge il suo ingombrante vicino tedesco. Non a caso l’inusuale carta 2 a rilievo accomuna proprio Germania, Svizzera, Belgio e Olanda evocandone le interdipendenze. Sul concetto propongo la seguente defnizione: dicesi «entità geopolitica instabile» quel soggetto politico che nel corso della storia ha più volte cambiato la propria estensione territoriale e ha conosciuto baricentri interni e orientamenti esterni altrettanto diversi. Per osmosi, un tale soggetto tende a rendere instabili anche le terre ai suoi confni e costringe i vicini a risentire dei suoi spasmi decretandone l’arretramento nelle fasi della sua espansione, l’allargamento nel caso opposto o addirittura la sparizione via inghiottimento da parte di quell’ingombrante organismo attiguo. Come stava per toccare agli elvezi. Pochi paesi rispondono alla defnizione di «entità geopolitica instabile» tanto bene quanto la Germania. A ovest ha trovato un soggetto geopolitico organizzato e coriaceo come la Francia che le ha dato flo da torcere mentre a est ha periodicamente sfogato le sue pulsioni vitalistiche con più successo. Nel medioevo lo ha fatto riversandovi la propria gente attraverso ripetute ondate

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migratorie (Ostsiedlung) che penetravano aree popolate da slavi senza mai mischiarvisi. In età contemporanea, dopo che si è data un assetto istituzionale unitario, con guerre di conquista che hanno squassato l’intero continente. Fonte carta 1: Johann Georg Heck, «Carte de la Confederation Helvetique», da Atlas geographique, astronomique et historique, servant a l’intelligence de l’histoire ancienne, du moyen age et moderne et a la lecture des voyages les plus recents, Paris1834, Engelmann, tav. 39. Fonte carta 2: August Ravenstein, Deutschland nebst den Königreichen Holland, Belgien und der Republik Schweiz, Frankfurt am Main 1864, Dondorf (David Rumsey collection). 3. Il Cantone è l’unità amministrativa di base della Svizzera. La confgurazione geografca dei Cantoni ha subìto molte revisioni, e la carta 3 menziona quella occorsa in epoca napoleonica quando erano diciotto come da elenco in alto a sinistra. Ma vi sono state variazioni alla geografa cantonale anche in epoche recenti. Ad esempio, il Cantone di Giura è divenuto tale nel 1978 staccandosi da quello di Berna. Alcuni Cantoni, poi, si presentano uffcialmente divisi in due sottounità: Appenzell (composto da Appenzell Ausserrhoden e Appenzell Innerhoden), Basilea (città e campagna) e Unterwalden (Nidwalden e Obwalden), che ha una particolare rilevanza storica in quanto è uno dei tre fondatori nel 1291 assieme a quello di Uri e di Schwyz. Quest’ultimo Cantone possiede un esonimo nella nostra lingua del tutto inusuale per un italiano ma tuttora usato dai ticinesi: Svitto. Come è facile immaginare, da qui deriva il nome del paese. Fonte carta 3: Henri Mallet e Louis Emery, Carte De Suisse Suivant Sa Nouvelle Division En XVIII Cantons Formant la Republique Helvetique, Genève 1798, F. Monty.

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4-5. Nonostante la morfologia derisa da Hemingway («La Svizzera è un piccolo paese accidentato dove si procede quasi sempre in salita o in discesa», Toronto Star Weekly, 1922), la rete delle comunicazioni è storicamente all’avanguardia. Sia relativamente ai collegamenti internazionali (carta 4) che a quelli interni (carta 5). Ha agito a tutti gli effetti da fattore centripeto dello Stato, come anche la lunga storia comune e il diffuso senso delle istituzioni. Si tratta di fattori che hanno favorito la compattezza interna e tenuto alto il senso di appartenenza nazionale prevalendo alla lunga sulle enormi differenze culturali esemplifcate nelle tre storiche religioni (cattolica, luterana e calvinista) e nelle quattro lingue diverse (tedesco, francese, italiano e romancio, alcune compresenti addirittura nella stessa città come nel caso di Friburgo). Questa realtà di un’entità politica coesa in cui milioni di cittadini si riconoscono è la dimostrazione che una composizione culturale eterogenea non costituisce necessariamente un fattore di instabilità interna per un soggetto politico. Fonte carta 4: Pierre Gauchat, Map Showing the International Railway Connections of Switzerland, Zürich 1933, Orell Fussli. Fonte carta 5: Charles Biermann, Chemins de fer et mouvement de la Population dans le Canton de Vaud, Berna 1913, Institut Géographique Kümmerly & Frey.

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