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Italian Pages [224] Year 2021
Liberisti o socialisti? Tertium non datur Fondamenti di un’economia della responsabilità individuale
Enrico Colombatto
Liberisti o socialisti? Tertium non datur Fondamenti di un’economia della responsabilità individuale
G. Giappichelli Editore
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INDICE
Indice delle figure
IX
Introduzione
XI
Parte I I Principi 1.
I fondamenti (I) 1. Il liberismo: due presunzioni e un diritto fondamentale [3] 2. La pari dignità [5] 3. Pari dignità, sfruttamento e pari opportunità [6] 4. Libertà e proprietà privata [8] 5. Stato monopolista, stato minimo e stato concorrenziale [11] 6. Le alternative: socialismo, socialdemocrazia e collettivismo [13] 7. L’etica liberista: consapevolezza, responsabilità, virtù e istituzioni [15] Riferimenti bibliografici [18]
3
2.
I fondamenti (II) 1. Paternalismo, maggioranze, razzismo e contratto sociale [21] 2. Libertà di scegliere e discriminare [25] 3. Libertà da coercizione e politica economica [27] 4. Diritti di proprietà e beni intangibili [28] 5. Diritti di proprietà, sfruttamento e concorrenza [30] 6. Responsabilità individuale e solidarietà obbligatoria [33] 7. Il liberismo non è capitalismo corporativo, assenza di regole, apologia dell’egoismo [37] Riferimenti bibliografici [40]
21
VI
INDICE
Parte II Imprese e Sistemi Fiscali 3.
Imprese: imposte, sussidi e barriere all’entrata 1. Il mondo delle imprese [43] 2. L’imposizione fiscale e l’impresa [46] 3. Gli effetti indiretti [47] 4. I sussidi alle imprese non sostengono l’occupazione [49] 5. Solidarietà a imprese promettenti e investitori sfortunati? [51] 6. Imposte e sussidi: di quanto si tratta? [54] 7. Potere di mercato e barriere all’entrata: che cosa sono? [55] 8. Brevetti, ordini professionali e titoli di studio [57] 9. Potere di mercato e barriere all’entrata: possiamo farne a meno? [59] 10. Un caso a parte, ma non troppo: i monopoli naturali [60] Riferimenti bibliografici [63]
43
4.
Imposte: quanto, come e su che cosa 1. Imposizione fiscale, disuguaglianze e carità obbligatoria [65] 2. Gettito fiscale e povertà [65] 3. Imposte, redistribuzione e conflitti sociali [70] 4. Gettito fiscale e accesso ai beni di merito [70] 5. Principi impositivi [73] 6. La base imponibile ideale [77] 7. Un’alternativa [80] Riferimenti bibliografici [82]
65
Parte III Lo Stato Paternalista 5.
I beni di merito: l’istruzione 1. I beni di merito: solidarietà, paternalismo, interesse collettivo e arbitrio [85] 2. L’istruzione che non serve [87] 3. Istruzione ed esternalità positive [89] 4. Le esternalità negative di un’istruzione in parte inutile [91] 5. Conclusioni preliminari [93]
85
INDICE
VII
Quanta istruzione, come e per chi: il caso del monopolio statale [93] Valore legale del titolo di studio, concorrenza e ordini professionali [95] 8. Voucher o sussidio? [97] 9. Quanto vale il merito? [101] Riferimenti bibliografici [102] 6. 7.
6.
I beni di merito: la sanità 1. Il diritto alla salute? [103] 2. Irrazionalità e opportunismo [105] 3. Spesa assistenziale e modalità di erogazione [108] 4. Produttori pubblici e privati [111] 5. Il ricorso alla fiscalità generale [114] 6. Quantità della spesa, qualità dei risultati e prospettive [115] Riferimenti bibliografici [117]
103
7.
Previdenza sociale: la questione pensionistica 1. I limiti del sistema attuale [119] 2. Ripartizione e debito implicito: una questione di giustizia [121] 3. La diffidenza nei confronti delle prospettive di riforma [123] 4. Le proposte di riforma [124] 5. Prospettive di riforma (I): IVA sociale, casse autonome e secondo pilastro [126] 6. Prospettive di riforma (II): azzeramento graduale del debito implicito [129] 7. Prospettive di riforma (III): il sistema a punti [137] 8. Una brutta fine [140] Riferimenti bibliografici [141]
119
Parte IV Spesa e finanza pubblica 8.
Tutti pianificatori: domanda aggregata e debito pubblico 1. Una premessa di metodo [145] 2. Legge di Say, domanda pubblica e domanda privata [147] 3. Spesa pubblica e debito finanziato dai residenti: il breve periodo [152]
145
VIII
INDICE
Spesa pubblica e debito finanziato dai residenti: il lungo periodo [154] 5. Spesa pubblica e debito finanziato dai non residenti [156] 6. Spesa pubblica e debito monetizzato [158] 7. Sostenibilità e ripudio del debito [161] 8. Collasso locale e rischio sistemico [162] 9. Le opzioni: ripudio, ristrutturazione, mutualizzazione [166] Riferimenti bibliografici [171] 4.
9.
Scostamenti, cicli economici ed eventi inattesi 1. Crisi e spesa pubblica [173] 2. Scostamenti congiunturali e intervento pubblico: segnali e incentivi distorti [174] 3. Due diversi episodi: USA (2002-2010) e Italia (2013-2019) [178] 4. Una nota sul ciclo austriaco [182] 5. I liberisti e l’imprevisto [184] 6. In conclusione [188] Riferimenti bibliografici [190]
173
Conclusioni 10. Stato sociale, debito e moneta 1. Liberismo, stato sociale e stato produttore [193] 2. I falsi sostenitori del libero mercato [195] 3. Assistenza volontaria e trasparente: tre opzioni [196] 4. Paternalismo e stato produttore [198] 5. Indebitamento, fallimento e monetizzazione [201] 6. Una digressione sulla moneta [203] Riferimenti bibliografici [205]
193
INDICE DELLE FIGURE pag. 7.1. 7.2. 7.3. 7.4.
Andamento del debito in assenza di riforma Andamento del debito con azzeramento del debito implicito Andamento del debito in assenza di riforma ed erogaz. maggiorate Andamento del debito con azzeramento del debito implicito ed erogaz. maggiorate
[131] [133] [136] [137]
X
INDICE DELLE FIGURE
INTRODUZIONE
Questo libro si propone un duplice scopo. In primo luogo, intende chiarire il significato di “liberista” e sottolineare come i liberisti si distinguano da coloro che usano il termine “liberale” per snobismo o, più frequentemente, per acquisire consenso ed evitare connotazioni ritenute eccessivamente marcate o vaghe, a seconda dei casi. Per esempio, i liberisti diffidano sia dei liberalsocialisti che si ispirano a Piero Gobetti e Carlo Rosselli; sia dei liberaldemocratici che si riconoscono, sempre per esempio, in John Stuart Mill e Alexis de Tocqueville. In questa prospettiva, la prima parte del volume si sofferma, dunque, sui principi del liberismo, sulle radici della proprietà privata, sulla contrapposizione fra responsabilità individuale e solidarietà obbligatoria, sul mito dell’interesse collettivo. Inoltre, le pagine che seguono chiariscono come un liberista osserva contesti economici che liberisti non sono. In particolare, la seconda parte del volume pone l’accento sul ruolo della regolamentazione e della fiscalità, la terza parte sulla produzione dei cosiddetti beni e servizi di merito (istruzione, sanità, previdenza), e la quarta parte sulla spesa e alla finanza pubblica. Sono ovviamente temi complessi che si prestano a infinite sfumature e a cui menti autorevoli hanno dedicato vite di studi. Nondimeno, in queste pagine si è ritenuto di offrire una chiave concettuale relativamente semplice, che aiuta a distinguere l’impostazione liberista da quella cosiddetta consequenzialista. La prima riconosce che l’azione individuale segue “il desiderio di migliorare la propria condizione [che] è innato e ci accompagna fino alla tomba”, come scrisse Adam Smith nella Ricchezza delle Nazioni; considera legittima ogni azione compatibile con i diritti fondamentali dell’individuo (il diritto di non essere costretto con la forza o con l’inganno ad agire contro la propria volontà); ammette interventi coercitivi qualora si ravvisino violazioni di tali diritti. È questo il cosiddetto sistema di libertà naturali, “quello che impone il minor numero di modificazioni a quanto di fatto si può verificare, ovverosia riduce le situazioni di incompatibilità tra comportamenti possibili e comportamenti dovuti” (Valerio Tavormina).
XII
INTRODUZIONE
Secondo l’impostazione consequenzialista, invece, si esaminano le conseguenze di un’azione, e la si ammette o si impedisce a seconda della desiderabilità degli effetti che essa produce. In questa seconda prospettiva, pertanto, una collettività si dota degli strumenti che ritiene opportuni per analizzare e confrontare i risultati delle azioni individuali, la loro desiderabilità e le misure correttive eventualmente necessarie. In questa impostazione si riconoscono utilitaristi, collettivisti, conservatori, nazionalisti, progressisti, riformatori, ecc. Essa giustifica e dà contenuti al ruolo dell’autorità di politica economica, la quale nelle società moderne ha il potere di prendere iniziative proprie e sostituirsi all’azione o alla mancata azione dei singoli. Per chiarezza e coerenza, nelle pagine che seguono si sostituiranno le espressioni “sistema di libertà naturali” e “consequenzialismo” con i termini, rispettivamente, “liberismo” e “socialismo”. Non ci sono vie di mezzo, poiché si tratta di distinguere fra una visione in cui la società nasce per volere dell’individuo, e una in cui la società ha fini propri che prevalgono su quelli individuali. Dunque, per i liberisti i diritti individuali non possono essere mai violati, se non per legittima difesa o per compensare i danni subiti a seguito di un’aggressione. Per i socialisti, invece, il bene comune prevale sulle preferenze individuali. Naturalmente, l’idea di bene comune non si riduce a un mero calcolo aritmetico dei vantaggi e degli svantaggi che un’azione comporta per i membri di una comunità, calcolo del resto impossibile. In effetti, si risolve – o meglio, si evita – il dilemma del calcolo impossibile conferendo a un’autorità il potere di decidere che cosa sia il bene comune, e in quale misura tale bene giustifichi la violazione delle preferenze individuali. Tale presunta soluzione, tuttavia, rende la definizione dell’interesse collettivo di fatto irrilevante. In un contesto socialista, infatti, il vero oggetto del contendere è individuare e legittimare chi ha il potere di decidere che cosa è il bene comune, come scrisse Vilfredo Pareto nel Trattato di Sociologia Generale e ha recentemente ricordato, fra gli altri, Thomas Sowell. Senza dubbio, oggi viviamo in un mondo socialista. Ciò è evidente se si pensa ai regimi dittatoriali, ove il bene comune è definito dal dittatore in carica; o ai regimi populisti (che sono diversi da quelli demagogici), ove l’aspirazione a fondere le preferenze del singolo con la volontà dello stato giustifica il cosiddetto stato etico. L’impronta socialista caratterizza anche le moderne democrazie occidentali. Per esempio, non è certo liberista un contesto ove l’autorità in media sottrae agli individui quasi il 42% del prodotto interno lordo (questo era il prelievo fiscale in Italia nel 2018, valore che sale al 49% se dal PIL si sottrae il valore aggiunto stimato della pubblica amministrazione); ove la regolamentazione è pervasiva e crescente; e ove le banche centrali non si fanno scrupolo di manipolare il settore bancario e, in generale, i mercati finanziari.
INTRODUZIONE
XIII
In altri termini, e con buona pace di coloro che si scagliano contro il presunto neoliberismo imperante – termine infelice e ambiguo, e pertanto abusato – le società moderne condividono senza riserve e con crescente entusiasmo il credo socialista, che può assumere diverse gradazioni e condurre a risultati più o meno soddisfacenti. Con ben poche eccezioni, si è convinti che spetti allo stato decidere quale sia il grado di regolamentazione e imposizione fiscale desiderabile, eventualmente dietro il velo di una tecnocrazia compiacente; si ritiene che sia opportuno aumentare le competenze dello stato quando una collettività versa in situazioni critiche; si ha fiducia nella possibilità che lo stato, quando inefficiente, riformi e rinnovi sé stesso, magari scoprendosi imprenditore. Come si è detto, non sono molti coloro che si oppongono alla prospettiva socialista. È dunque illusorio aspirare a un mondo liberista? Ha senso immaginare uno stato liberista? Sia chiaro: un mondo liberista è un mondo senza stato, ovverosia senza un’organizzazione che esercita il monopolio della forza in un determinato territorio e che impiega tale privilegio per violare la proprietà privata e condizionare il comportamento degli individui (Franz Oppenheimer e Murray Rothbard). Insomma, lo stato liberista non esiste. Naturalmente, ciò non esclude che un gruppo di persone, nominate o elette, dia origine a iniziative coerenti con l’idea di interesse collettivo in cui essi o coloro da essi rappresentati credono. Né si può escludere che questi rappresentanti creino organizzazioni efficienti che producono beni e servizi apprezzati dai membri di una comunità e non solo. Come si vedrà nel primo capitolo, si è definita questa organizzazione “stato concorrenziale”. In altri termini, il liberista non ha nulla da obbiettare a chi nutre fiducia nelle virtù di una burocrazia autoproclamatasi imprenditrice e guidata da persone a cui i membri di una comunità hanno delegato il potere di decidere in loro vece e volontariamente conferito risorse. Tuttavia, il liberista si oppone a che lo stato obblighi anche coloro che non hanno delegato nulla ad acquistare i beni e servizi prodotti e a seguire le norme emanate. È certamente possibile che chi non ha delegato nulla si comporti in modo opportunistico e approfitti, almeno in parte, di quanto creato grazie alle risorse che donatori e acquirenti consenzienti hanno affidato ai delegati e all’apparato burocratico. Tuttavia, per quanto sia a volte sgradevole, l’opportunismo non è un crimine, e la presunzione di opportunismo (il cosiddetto free riding) non giustifica né l’acquisto forzoso ai prezzi imposti dallo stato venditore, né l’obbligo di seguire norme che vincolano solo i deleganti e che si applicano solo all’uso di risorse di legittima proprietà dello stato. I liberisti non sono numerosi. Sono relativamente numerosi, invece, coloro che condividono quanto esposto nel paragrafo precedente e che, pur professandosi liberisti, pragmaticamente accettano e promuovono soluzioni di
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compromesso, disposti a riconoscere la legittimità dello stato poiché “necessario” o ineluttabile, o perché in fondo persuasi che il problema non sia lo stato in quanto tale, bensì la sua inefficienza. Sono coloro che, per usare un’espressione di Sven Larson, si sono rassegnati e hanno alzato bandiera bianca. Sotto questo profilo, le pagine qui proposte sono un invito a non abbassare le armi. Convivere con lo stato e con un cartello globale di stati è inevitabile. Sarebbe insensato ignorare il fatto che una collettività prima o poi genera uno o più insiemi di individui che si costituiscono in gruppo d’interesse e finiscono per disporre della forza necessaria per imporsi. Né sorprende che, con l’emergere di questi gruppi d’interesse, intellettuali e opinionisti scoprano principi ed elaborino teorie volti a legittimarli. Si pensi alle tesi sull’investitura divina dei regnanti, prevalenti nei primi quindici secoli della nostra era; alle ipotesi di contratto sociale, tipiche della età moderna; al mito della giustizia sociale definita da maggioranze più o meno consapevoli, così diffuso nell’ultimo secolo. Né vanno dimenticate le argomentazioni volte a legittimare l’uso della violenza oltre gli ambiti territoriali riconosciuti, argomentazioni che hanno giustificato le evangelizzazioni forzate, le rivendicazioni territoriali fondate su parentele e diritti di sangue (rigorosamente blu), il cosiddetto magnificent destiny dei coloni americani, le varie missioni volte a esportare civiltà o democrazia o a garantirsi spazi vitali e posti al sole. Ebbene, queste pagine non negano l’evidenza: i gruppi d’interesse esistono, si affermano sul resto di una popolazione, e raramente i gruppi vincenti si astengono dall’opprimere i perdenti. Nondimeno, l’orizzonte di chi è liberista non è fatto di rassegnata tolleranza e bandiere bianche. Al contrario, il liberista deve essere animato dalla consapevolezza del proprio stato di vittima e forte degli strumenti concettuali necessari per pretendere limiti più stringenti all’azione statale. Sotto questo punto di vista, queste pagine sono un invito a non cedere, né di fronte a chi ritiene che la presenza di un criminale efficiente, sostenuto dall’opinione pubblica, attenui la natura del crimine; né di fronte alla retorica della pace sociale a tutti i costi, secondo cui un crimine non è più tale se perpetrato per evitare guai peggiori.
INTRODUZIONE
XV
Devo un ringraziamento sincero a Leonardo Baggiani, Giandomenica Becchio, Luigi Curini, Riccardo De Caria, Melchior Gromis di Trana, Luigi Lamastra, Samuele Murtinu ed Edoardo Riccio, che hanno avuto la cortesia e la pazienza di leggere questi capitoli e farmi avere i loro commenti. Non tutte queste persone sono liberiste “dure e pure”, ma a tutte sono debitore per i numerosi spunti che mi hanno fornito, gli errori e le lacune su cui hanno attirato la mia attenzione e l’amicizia di cui continuano a onorarmi nonostante, in alcuni casi, abbia ignorato le loro raccomandazioni.
XVI
INTRODUZIONE
PARTE I
I PRINCIPI
I FONDAMENTI (I)
3
CAPITOLO 1
I FONDAMENTI (I) 1. Il liberismo: due presunzioni e un diritto fondamentale I termini liberale/liberista/libertario sono di frequente utilizzati in modo ambiguo, se non addirittura casuale. Considerazioni analoghe valgono per sostantivi quali liberalismo classico, neoliberismo, liberalsocialismo, e aggettivi come ordoliberale, anarco-liberista, turbo-liberista: sono tutte espressioni applicate tanto alla sfera politica, quanto a quella economica. Per comodità e semplicità, in questo volume si tralasciano le distinzioni, benché talora significative, fra le diverse categorie dei sostenitori della libertà. In particolare, ci si limita all’uso del termine “liberismo”, inteso come una visione dell’azione individuale e delle relazioni fra individui fondata su due principi e un diritto fondamentale, esposti e discussi fra breve, che rendono di fatto inutile la distinzione fra liberalismo politico (libertà di associazione e di espressione) e liberismo economico (libertà di scegliere e agire in un contesto di scarsità). Il primo principio è la presunzione di pari dignità degli individui e delle loro preferenze: l’individuo A non ha il diritto di obbligare B a uniformarsi ai propri desideri, neppure quando A ritiene che i propri fini e mezzi siano preferibili a quelli di B. Dunque, nell’affermare la presunzione di pari dignità il liberista nega il principio di autorità: indipendentemente dalla saggezza e dal ruolo di A, o che A ritiene di avere, questi non può usare la forza o l’inganno per costringere B ad agire in contrasto con le proprie preferenze. Al tempo stesso, pari dignità significa rispetto per le azioni del prossimo, azioni che riguardano ciò che si dice e si scrive, chi si frequenta, come s’impiega il proprio tempo e come si utilizza il proprio potere d’acquisto. All’interno di una visione liberista, pertanto, alcuni pongono l’accento sul rispetto della libertà di espressione e di associazione senza finalità di aggressione. In questo caso si avrà “libertà politica” (a volte si usa il termine liberalismo), che è sinonimo di tolleranza. Altri sottolineano la libertà d’impresa e di scambio, nel qual caso
IL LIBERISMO: DUE PRINCIPI, UN DIRITTO
LA PRESUNZIONE DI PARI DIGNITÀ E IL RIFIUTO DEL PRINCIPIO DI AUTORITÀ
4 IL LIBERO MERCATO
LA PRESUNZIONE DI LIBERTÀ
IL DIRITTO A NON ESSERE AGGREDITI
I PRINCIPI
si tratterà di libertà economica o “libero mercato”, ove per mercato s’intende un insieme di scambi volontari di beni e servizi. È comunque evidente che, indipendentemente dall’enfasi, il principio fondante della libertà politica e della libertà economica è identico, e che la dicotomia fra le due libertà emerge solo quando la pari dignità delle preferenze individuali è limitata alla libertà d’espressione ed esclude gli scambi e l’attività imprenditoriale, o viceversa. Quando viene messa in discussione e ridotta la sola libertà economica (e dunque la proprietà privata) al liberismo si sostituisce il socialismo, tipico delle moderne economie occidentali; quando viene ridotta la sola libertà politica ci si avvicina allo stato autoritario illuminato (per esempio, Singapore). Quando vengono meno entrambe si configura un regime comunista. Il secondo principio è la cosiddetta presunzione di libertà: ognuno può agire come crede se tali azioni non sono aggressive o ingannevoli. Come si vedrà nella sezione 4, da questa presunzione discende l’inviolabilità della proprietà privata. Infine, il diritto fondamentale, corollario dei principi appena menzionati, è il diritto a non essere aggrediti e a non essere indotti o costretti con l’inganno e la violenza ad agire contro la propria volontà. È questa la libertà da coercizione. In sostanza, riconoscere le presunzioni di pari dignità e di libertà come elementi fondanti di una società liberista equivale a concepire una visione del mondo in cui nessun individuo può forzare il prossimo ad agire contro il proprio volere e in cui nessuna violenza è accettabile, a meno che non sia volta a difendersi dall’aggressione da parte di altri o dalla minaccia credibile e imminente di aggressione. Essere liberi significa, pertanto, poter agire senza costrizioni imposte da altri e senza dover chiedere il permesso ad alcuno. Insomma, in un mondo liberista non spetta a Giorgio accertarsi che il proprio comportamento sia coerente con le preferenze di Carla, preferenze di cui Giorgio può naturalmente tenere conto, ma la pacifica violazione delle quali non è un reato. Sarà compito di Carla denunciare l’ipotetica aggressione da parte di Giorgio e/o dimostrare che la propria eventuale reazione di difesa è stata motivata dalla necessità di proteggere la propria persona e i propri averi. Per esempio, se Giorgio si rifiutasse di giocare a tennis con altre tre persone, i tre potrebbero sicuramente rammaricarsene e cercare di convincere Giorgio a cambiare idea, magari offrendogli una cena; potrebbero anche criticarne l’atteggiamento scostante o minacciare ritorsioni informali, per esempio rifiutando di frequentarlo. Tuttavia, non possono obbligarlo a giocare contro la sua volontà. Ancora per esempio, se il produttore Giorgio
I FONDAMENTI (I)
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sottrae quote di mercato a Carla, sua concorrente, spetterà a Carla dimostrare che Giorgio ha usato la forza o la minaccia nei suoi confronti e giustificare quindi eventuali azioni di difesa o richieste di indennizzo nei confronti di Giorgio. Adottare il criterio opposto – e presumere che qualunque azione di Giorgio sia un atto di aggressione che spetta a Giorgio giustificare – e punire Giorgio e i clienti di Giorgio per il solo fatto che Carla si trova in difficoltà, equivale a sostenere che Carla è proprietaria dei propri clienti, i quali sono in tal caso vittime dell’aggressione (illegittima) di Carla. Questo capitolo è articolato in due parti. Nella prima (sezioni 2-4) si esaminano le presunzioni di pari dignità e di libertà fornendo alcune illustrazioni preliminari. Nella seconda si ricorre ai fondamenti discussi in precedenza per chiarire il concetto di stato (sezioni 5 e 6) e i contenuti dell’etica liberista (sezione 7).
2. La pari dignità Naturalmente, è desiderabile che l’individuo possegga qualità che solitamente sono definite virtuose. Per esempio, è auspicabile che ogni persona sia prudente, caritatevole e altruista. Il liberista non fa eccezione: anch’egli considera alcuni comportamenti lodevoli, soprattutto quando favoriscono la cooperazione, e altri riprovevoli, soprattutto quando conducono a tensioni e violenze. Tuttavia, proprio perché si tratta di considerazioni che riguardano valutazioni dei comportamenti individuali, tali auspici non legittimano il ricorso alla coercizione. Per esempio, non si può obbligare a fare la carità, né ad essere saggi e prudenti. Gli atteggiamenti poco virtuosi o che violano codici di comportamento consolidati e largamente condivisi (le istituzioni informali) sono solitamente oggetto di critica e disapprovazione, ed eventualmente di reazioni ostili e sanzioni non violente – si pensi all’ostracismo. Nondimeno, benché una collettività possa auspicare che i suoi componenti abbiano comportamenti virtuosi, secondo la visione liberista il diritto alla libertà da coercizione impedisce che la collettività di appartenenza imponga ai suoi membri, con la forza, proprie preferenze o insiemi di comportamenti desiderabili. La presunzione di libertà consente agli individui di rinunciare, almeno in parte, alla propria libertà di scegliere e agire. È ciò che avviene quando si delega ad altri la facoltà di operare in propria vece. Queste rinunce devono però essere esplicite e definiscono quando una comunità di individui che cooperano o comunque interagiscono si trasforma in una comunità politica. In particolare, una comunità politica nasce quando due o più individui
IL RUOLO DELLA VIRTÙ E DELLE ISTITUZIONI INFORMALI
LA LIBERTÀ DI DELEGARE: COMUNITÀ POLITICA E REGOLE FORMALI
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TRE ECCEZIONI: • SCELTE NON CONSAPEVOLI • USO DELLA FORZA • PRESENZA DI VINCOLI CONTRATTUALI ESPLICITI
I PRINCIPI
delegano ad altri il potere di scegliere in loro vece e di far rispettare tali scelte. La violazione delle regole formali giustifica così le sanzioni coercitive (pene pecuniarie e restrizioni della libertà individuale). Anzi, si può certamente affermare che la presenza di sanzioni coercitive distingue le regole formali da quelle informali. Naturalmente, in questa prospettiva, la comunità politica comprende solo coloro che hanno espresso la propria rinuncia, ed è legittimata a emanare norme – le regole formali – solo nell’ambito definito dalla rinuncia. Quando questo limite non è rispettato l’autorità è delegittimata e commette un abuso. Per contro, un individuo che non appartiene a una collettività politica, perché non vi ha mai aderito o perché ne è uscito, ha il diritto di non essere aggredito. Come si è detto, secondo il principio di pari dignità nessuno può usare violenza nei confronti del prossimo. Sono però ammesse tre eccezioni. La presunzione viene meno quando si tratta di relazioni con individui incapaci di formulare scelte consapevoli. Per esempio, non si applica nei confronti dei bambini e di coloro affetti da infermità mentali che sono incapaci di decidere coscientemente. In secondo luogo, la presunzione di pari dignità viene meno quando un individuo (Giorgio) pone in essere azioni conto un altro (Carla) in violazione di quel principio. In altri termini, se Giorgio minaccia o usa violenza nei confronti di Carla, Carla ha il diritto di impedire a Giorgio d’imporsi e, se necessario, può usare a sua volta violenza nei confronti di Giorgio. Infine, la presunzione di pari dignità decade in presenza di violazioni di vincoli contrattuali. Se Carla e Giorgio si sono reciprocamente impegnati in una transazione che implica un trasferimento di proprietà, Carla può legittimamente obbligare Giorgio a onorare il proprio impegno o a versare un indennizzo, qualora a Giorgio non sia più possibile mantenere l’impegno assunto. Per esempio, se Giorgio s’impegna a cedere a Carla un bene a fronte di un corrispettivo, Giorgio di fatto trasferisce la proprietà del bene a Carla nel momento in cui l’accordo è sottoscritto. Se Carla non mantenesse l’impegno assunto, il suo comportamento illecito sarebbe in realtà una truffa (il furto della somma non corrisposta) ai danni di Giorgio; mentre se Giorgio si rifiutasse di consegnare la merce secondo quanto stipulato si renderebbe colpevole di truffa ai danni di Carla.
3. Pari dignità, sfruttamento e pari opportunità Queste riflessioni preliminari offrono lo spunto per sottolineare tre questioni terminologiche importanti. Due sono oggetto di questa sezio-
I FONDAMENTI (I)
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ne: i diritti dell’individuo e le pari opportunità. Rinviamo alla sezione successiva l’approfondimento circa l’inviolabilità della proprietà privata. Come si è illustrato, per un liberista un individuo è legittimato a compiere qualunque azione, a condizione che l’attore non aggredisca fisicamente il suo prossimo o violi le sue proprietà. Per esempio, l’individuo ha il diritto di esercitare un’attività imprenditoriale come meglio crede, ma non ha diritto all’istruzione finanziata da altri – per esempio, i contribuenti; né ha il diritto di imporre o vietare che due persone si accordino per stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato. Dal punto di vista liberista, imporre ad altri di sostenere i costi dei propri desideri non è l’affermazione di un diritto, bensì un esempio di sfruttamento del prossimo (aggressione della sua persona o della sua proprietà), un tema al quale si tornerà nel prossimo capitolo. Nei due casi appena menzionati le vittime sarebbero i contribuenti, i lavoratori, i datori di lavoro e i consumatori. Naturalmente, se Carla ritiene opportuno finanziare l’istruzione di Giorgio, Carla procederà di conseguenza. Tuttavia, in questo caso Carla non soddisferebbe un diritto di Giorgio, bensì un proprio desiderio; e sarebbe forse anche conforme con le istituzioni informali che caratterizzano la collettività di appartenenza, se tale gesto altruistico fosse considerato desiderabile e rispettoso di una tradizione consolidata. Tuttavia, non apparterrebbe alla sfera delle istituzioni formali (ciò che è doveroso), a meno che Carla non si sia esplicitamente impegnata in tal senso aderendo alla comunità politica. Analogamente, nulla vieta che Carla e Giorgio si accordino per la compravendita di servizi lavorativi a tempo indeterminato; l’importante è che tale accordo non sia obbligatorio per nessuna delle parti le quali, se lo desiderano, possono accordarsi diversamente o rinunciare ad accordarsi. La seconda questione terminologica, legata alla prima, riguarda la differenza fra il rispetto delle preferenze e l’offerta di uguali opportunità. Secondo quanto argomentato in precedenza, un individuo ha il diritto di adoperarsi come meglio crede per realizzare le proprie ambizioni. Nondimeno, questo diritto non prevede che a ognuno siano garantite le stesse condizioni e gli stessi risultati. Il cosiddetto “diritto alla felicità” non significa che ognuno ha il diritto di essere felice; bensì che a nessuno può essere impedita con la violenza la ricerca della felicità. Ogni individuo è diverso dagli altri per talento, motivazione e inclinazione, condizioni patrimoniali e professionali di partenza. Il livellamento delle opportunità richiederebbe necessariamente la violazione della libertà individuale e della proprietà privata, contravvenendo così alle presunzioni fondamentali della visione liberista. Per esempio, per un liberista, Giorgio non può opporsi a che Carla approfitti di una situazione favorevole, situazione di
DIRITTI E SFRUTTAMENTO
UGUALI OPPORTUNITÀ
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I PRINCIPI
cui Giorgio non si era accorto e/o che non era stato in grado di cogliere con altrettanta prontezza (si pensi a un acquisto a prezzi vantaggiosi di merci disponibili in quantità limitate); né Giorgio può imporre a Carla di condividere con lui i risultati di un evento a lei favorevole (una vincita alla lotteria). Analogamente, non è ammissibile il pareggiamento delle condizioni di partenza – economiche e no. Se riferito ai giovani, per esempio, tale pareggiamento comporterebbe l’imposizione di vincoli alle scelte dei genitori in tema di eredità o di educazione dei figli. Certamente, alcuni giovani sono più fortunati di altri. Tuttavia, il fatto che in alcune famiglie si preferisca dedicare tempo, risorse e conoscenze per favorire la formazione, l’istruzione e le condizioni di vita di determinate persone (di solito i propri figli) non significa che quelle famiglie e quei giovani abbiano sottratto ricchezza ad altri. Insomma, se non vi sono vittime non vi sono atti illegittimi e quindi non vi è spazio per interventi sanzionatori, anche se nulla vieta che i più fortunati donino quanto necessario affinché anche i meno abbienti possano ricevere un’istruzione adeguata e godere di un tenore di vita dignitoso; e che essi donino attraverso un intermediario, che può essere anche lo stato concorrenziale, di cui si tratterà nella sezione 5 di questo capitolo. In altri termini, il fatto che i beneficiari di condizioni di partenza favorevoli non abbiano fatto nulla che li renda particolarmente meritevoli dei doni ricevuti non inficia il loro titolo di proprietà e non giustifica un’aggressione nei loro confronti: essere fortunati non significa essere ladri. Lo ripetiamo, i fortunati beneficiari non sottraggono nulla a nessuno, a meno che quanto trasferito sia il frutto evidente di precedenti aggressioni a danno di vittime identificate. Parimenti, essere sfortunati non significa essere stati vittima di un’aggressione. Più in generale, per il liberista la redistribuzione obbligatoria in nome delle pari opportunità è una violazione del principio di pari dignità delle preferenze dei benefattori (per esempio, i genitori altruisti) o un furto ai danni di alcune categorie di individui (per esempio, i contribuenti), con ripercussioni su coloro che sarebbero stati i fortunati beneficiari (per esempio, i figli di genitori colti, benestanti e generosi).
4. Libertà e proprietà privata Come accennato in precedenza, il secondo pilastro che definisce – e su cui si appoggia – la visione liberista è la presunzione di libertà, la quale costituisce la base della proprietà privata. L’idea di fondo, inizialmente formulata da Anthony De Jasay (2005), è relativamente semplice e svi-
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luppa un concetto che ebbe origine con Ugo Grozio (1625), Samuel Pufendorf (1672) e John Locke (1689) 1 e fu successivamente studiato all’inizio del Settecento 2. Secondo la presunzione di libertà ognuno è libero di agire come meglio crede, a meno che non inganni o aggredisca fisicamente altri individui, o violi le loro proprietà. In particolare, chiunque è libero di appropriarsi di ciò che non è già stato appropriato da altri. È questo il principio su cui si fonda il nascere della proprietà privata e che rende di fatto vuote le accuse di furto originario. In una situazione di prima appropriazione, infatti, non vi è alcuna imposizione o aggressione: per definizione, nessuno può vantare un diritto di proprietà precedente. Al tempo stesso, la presunzione di libertà esige che ogni individuo rispetti i contratti volontariamente sottoscritti: essi attestano l’avvenuta cessione ad altri della proprietà di beni o servizi, indipendentemente da quando avviene il trasferimento dei beni o l’erogazione dei servizi. In questo senso, la violazione di un contratto è in realtà una violazione della proprietà altrui, e dunque della presunzione di libertà. Ancora una volta, si dà per scontato che ogni individuo sia libero di agire come meglio crede, a meno che le sue azioni non costituiscano un atto di aggressione nei confronti di altri. Dunque, quando l’individuo si appropria di beni che prima non erano mai stati appropriati da altri egli non viola la libertà di alcuno: non vi sono vittime e quindi nessuno ha il diritto di opporvisi. L’azione di prima appropriazione è pertanto legittima. Il disappunto provato da Giorgio nel constatare che Carla si è appropriata di un bene o di una risorsa che a Giorgio sarebbe piaciuto possedere può generare invidia, ma non giustifica reazione da parte dell’ordinamento, perché non costituisce un’aggressione. Purtroppo per Giorgio, in un contesto liberista l’invidia non è fonte di diritti o pretese tutelate dall’ordinamento. Per completezza, si osservi che un individuo può appropriarsi di un bene o di un servizio attraverso due ulteriori modalità: lo scambio volontario e le donazioni. Anche in questi casi la legittimità della proprietà nasce dalla presunzione di libertà: il fatto stesso che il trasferimento di beni sia volontario dimostra come nessuna delle parti interessate possa essere considerata vittima di un’aggressione fisica o di un inganno. In altre parole, la presunzione di libertà non richiede che Giorgio giustifichi un atto di appropriazione (si pensi a un individuo che respira
1 Si veda la sintesi proposta da Salter (2001). 2 Si veda, per esempio, Hume (1739: 3.2.3).
LA PRESUNZIONE DI LIBERTÀ, LA PROPRIETÀ PRIVATA E IL RISPETTO DEGLI OBBLIGHI CONTRATTUALI
L’ONERE DELLA PROVA
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CONTRO IL CONSEQUENZIALISMO E IL MERITO
LA PROPRIETÀ COLLETTIVA
LA PROPRIETÀ STATALE
I PRINCIPI
e quindi si appropria di aria dal momento in cui viene al mondo). Spetta alla eventuale vittima Carla dimostrare che Giorgio si è appropriato di un bene che apparteneva legittimamente a lei, giustificando così l’opposizione all’aggressione di Giorgio e la richiesta d’indennizzo per i danni subiti. Tale impostazione – la non illegittimità dell’atto di prima appropriazione e delle successive attività di scambio – aiuta a capire perché la proprietà privata è strettamente legata al concetto di libertà. Contrariamente a quanto affermato di frequente, il fondamento della proprietà privata non è la sua efficienza, l’ipotetica superiorità in termini di impiego delle risorse. Sebbene sia innegabile che ognuno di noi presta maggiore attenzione all’impiego e gestione delle risorse proprie che non all’impiego di quelle altrui, e che quindi il rispetto della proprietà privata conduca a esiti economicamente efficienti, la ragion d’essere della tutela della proprietà privata va ravvisata nel fatto che essa è il risultato di un’azione legittima (o meglio, non illegittima), a prescindere da come i beni oggetto di proprietà privata sono utilizzati. Analogamente, la legittimità della proprietà privata non viene meno perché il bene è stato acquisito senza merito – si pensi a un’eredità, a un fortunato investimento azionario effettuato alla cieca, o al ritrovamento casuale di un cofano di diamanti in giardino, verosimilmente sepolto da ignoti secoli prima. Quanto precede chiarisce, inoltre, la differenza fra proprietà collettiva e proprietà statale. La prima si riferisce a situazioni in cui la proprietà fa capo a diverse persone – per esempio, un immobile cointestato a due individui, o un flusso di reddito prodotto da un’impresa (si pensi a una società per azioni). In altri termini, la proprietà collettiva è fondata su atti di individui i quali, a seconda dei casi e delle condizioni stabilite dalle parti coinvolte, decidono volontariamente se condividere con altri la proprietà di un bene o acquistare il diritto a essere comproprietari del bene e riconoscere le modalità di gestione in vigore al momento dell’acquisto. In questa prospettiva, la proprietà collettiva può dunque essere considerata una forma di proprietà privata, assimilabile alla proprietà privata individuale. La proprietà statale, invece, identifica situazioni in cui persone selezionate attraverso specifiche procedure (elezioni e nomine) ritengono di avere il potere di stabilire su quali beni si estende il loro dominio. Le azioni che seguono, quando coinvolgono individui che non approvano quelle procedure e quelle nomine, o che fino a quel momento erano stati i legittimi proprietari e diventano quindi vittime di un esproprio, rendono la proprietà statale un atto di violenza, un abuso. Come sarà ulterior-
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mente chiarito nella sezione che segue, in questi casi il termine “stato” designa dunque un gruppo di persone che non rispettano la presunzione di pari dignità e il diritto altrui alla libertà da coercizione. Di certo, nulla vieta che Giorgio ceda volontariamente a un insieme di politici o burocrati (lo stato) la proprietà di beni di cui egli, Giorgio, è legittimo proprietario; né che lo stato disponga come meglio crede dei beni ricevuti da Giorgio. Nondimeno, per un liberista, ciò non significa che quell’insieme di persone, nonostante si chiamino “stato”, possa obbligare Giorgio a cedere i propri beni – nemmeno quando essi hanno caratteristiche particolari o quando lo stato prevede di utilizzare quei beni per scopi ritenuti meritori. Si pensi, per esempio, ai vincoli sulla disponibilità delle opere artistiche, o all’esproprio in nome di un ipotetico patrimonio culturale nazionale o per la realizzazione di opere infrastrutturali in nome dello sviluppo economico nazionale. Si noti, infine, che l’espressione “proprietà pubblica”, per quanto frequentemente evocata per designare un bene utilizzabile da chiunque, è quasi un ossimoro. In particolare, non significa né proprietà collettiva, né proprietà statale. I beni di proprietà collettiva, infatti, non sono certo utilizzabili da chiunque, ma solo da coloro che hanno acquistato il diritto a condividere la disponibilità di un bene alle condizioni pattuite. Si pensi agli esempi in precedenza menzionati: una proprietà condominiale o i diritti di credito propri dell’azionista. Nonostante alcuni ordinamenti (fra cui la costituzione italiana) considerino proprietà pubblica sinonimo di ciò che qui viene definita proprietà statale, è opportuno sottolineare che in quest’ultimo caso l’uso del bene è disciplinato da coloro che ne hanno l’effettiva disponibilità, cioè dai politici e burocrati che si è soliti definire “stato” o “pubblica amministrazione”. Non è certo il caso della proprietà pubblica propria dell’economista e poc’anzi richiamata. In altri termini, l’idea di bene pubblico così come questa viene solitamente evocata è ambigua, se non fuorviante. Al più, designa l’auspicio che l’autorità renda un bene di proprietà statale accessibile a tutti. Tuttavia, un auspicio di utilizzo illimitato può essere attraente per un potenziale elettore alla ricerca del proverbiale pasto gratis, ma non costituisce un diritto di proprietà.
LA PROPRIETÀ PUBBLICA
5. Stato monopolista, stato minimo e stato concorrenziale Da quanto precede è evidente che il rispetto delle presunzioni di pari dignità e di libertà non ammette un’organizzazione che, per perseguire i propri fini, ricorre al furto (le imposte) e all’imposizione di comportamen-
IL CONCETTO DI STATO
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LO STATO MINIMO
LO STATO CONCORRENZIALE
I PRINCIPI
ti obbligatori (la regolamentazione). In effetti, il liberista non solo ritiene illegittima un’organizzazione che non nasce da un esplicito accordo di cooperazione con diritto di recesso e che si avvale di metodi basati sulla minaccia di violenza, ma ritiene altresì illegittimo che un ente rivendichi il diritto di monopolio sull’uso della violenza e sull’attività normativa nell’ambito di un’area geografica che l’ente stesso definisce, eventualmente in accordo con altri stati. Questo spiega perché lo stato tradizionale è in contrasto con i principi del liberismo. Quest’affermazione riguarda anche il cosiddetto stato minimo 3, benché in questo caso l’autorità svolga funzioni che il liberista apprezzerebbe: garanzia della libertà da coercizione e quindi della libertà di contratto. In termini pratici, lo stato minimo provvederebbe alla difesa nazionale, ai servizi di polizia e al mantenimento di un sistema giudiziario. Nulla più. Sono funzioni che peraltro comporterebbero un onere ridotto per i contribuenti: nei Paesi dell’Unione Europea questi capitoli di spesa ammontano a circa il 3,5% del prodotto interno lordo. Per un liberista, in effetti, l’opposizione nei confronti dell’accezione tradizionale dello stato non riguarda gli scopi che lo stato si prefigge di conseguire, né l’efficienza con cui opera o le sue dimensioni, bensì il ricorso alla coercizione e alla condizione di monopolio. Sotto questi due profili lo stato minimo non fa eccezione: anche se il suo essere leggero lo rende più tollerabile di altre tipologie statali, rimane comunque un abuso. Ben diverse, invece, sono le caratteristiche di quello che si potrebbe definire come lo “stato concorrenziale”, un’organizzazione che offre una gamma più o meno ampia di prestazioni, alle condizioni che l’organizzazione stessa ritiene di proporre e che ogni individuo è libero di acquistare o rifiutare. Sebbene non sia compatibile con i finanziamenti forzosi (per esempio, le imposte) e gli acquisti obbligatori (per esempio, la previdenza sociale), nulla vieta che un gruppo di persone elette o nominate offra polizze pensionistiche o sanitarie a coloro che ritengono di sottoscriverle, eroghi servizi di difesa e sicurezza (polizia), o si proponga come sede giudiziaria per dirimere controversie e assicurare il rispetto delle sentenze. In tale contesto, lo stato concorrenziale può darsi le regole operative che ritiene opportune ed è legittimato a porre in essere azioni coercitive nei confronti di coloro che, consapevoli dei termini contrattuali, intendono avvalersi dei suoi servizi e delegargli, anche in esclusiva, il ricorso alla violenza. Ovviamente, la natura stessa della concorrenza
3 Si vedano al riguardo Humboldt (1792) e, in tempi più recenti, Nozick (1974).
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prevede che all’interno di un territorio possano operare più stati in concorrenza fra loro e che un individuo possa avvalersi dei servizi di più stati.
6. Le alternative: socialismo, socialdemocrazia e collettivismo Quanto precede spiega perché il liberismo non è compatibile con altre visioni della società e perché, di conseguenza, un sistema di libero mercato non è conciliabile con contesti economici diversi da quelli liberisti. Non esistono vie di mezzo, terze vie o compromessi. In generale, tutti gli altri contesti possono essere definiti come socialisti, ove tale aggettivo designa situazioni in cui il benessere dell’individuo è in qualche misura subordinato a quello della collettività, l’azione del singolo deve essere coerente con gli obbiettivi collettivi, e l’azione economica è volta al raggiungimento di risultati definiti da un insieme di decisori con il potere di utilizzare i mezzi che riterranno opportuni e con limiti che essi stessi possono interpretare e modificare. In particolare, in un regime socialista si dà per scontato che i diritti individuali non sono sovrani, e che possono essere esercitati solo se compatibili con gli obbiettivi definiti dal decisore/legislatore. Obbiettivi tipici perseguiti da una società socialista sono la redistribuzione del reddito, il conferimento di privilegi a gruppi d’interesse selezionati e la crescita economica. All’elenco si è recentemente aggiunta la progressiva riduzione del potere d’acquisto della moneta, che corrisponde all’obiettivo del 2% annuo d’inflazione attualmente perseguito dalle banche centrali occidentali. Questi obbiettivi sono noti come “interesse collettivo”, in nome del quale si giustifica l’imposizione fiscale, la regolamentazione e varie forme di pianificazione centralizzata. La visione socialista è nota in due accezioni, una socialdemocratica e una collettivista, che si caratterizzano per il diverso significato attribuito alle locuzioni “giustizia sociale” e “interesse collettivo” 4. In un contesto socialdemocratico, i contenuti di tali espressioni sono direttamente o indirettamente definiti da una maggioranza di votanti, e quindi variano al variare di questa. In un contesto socialdemocratico, pertanto, sono considerate legittime le decisioni votate a maggioranza attraverso referendum propositivi o proposte da una élite (è il caso delle assemblee costituenti), o quelle deliberate da un gruppo più o meno ampio di rappre
4 Si veda Bouillon (2020, cap. 2) per una più ampia discussione.
LA VISIONE SOCIALISTA
IL CONTESTO SOCIALDEMOCRATICO
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IL CONTESTO COLLETTIVISTA
I PRINCIPI
sentanti (è il caso della legislazione ordinaria, dei regolamenti e delle circolari ministeriali). Per esempio, nei referendum si riconosce alla maggioranza dei votanti il potere di imporre la propria volontà sul resto della popolazione. Nel caso di elezioni, invece, si riconosce agli eletti l’autorità e il potere di sostituire le proprie preferenze a quelle dei cittadini/elettori. In quest’ultimo caso, dunque, si assiste all’assoggettamento di una collettività a un sottoinsieme di individui (i governanti), che si suppone operino nell’interesse collettivo e che comunque, nella maggior parte dei casi, decidono in autonomia. Si hanno quindi persone di rango superiore, che danno sostanza alle idee di giustizia sociale e di interesse collettivo; e persone di rango inferiore, soggette alle pronunce dei primi. Naturalmente, è opportuno sottolinearlo, questa concezione dello stato dà per scontato che quanto deliberato a maggioranza da un organo eletto sia effettivamente nell’interesse della collettività. Ovviamente, liberismo e socialdemocrazia sono incompatibili. Quest’ultima, infatti, è in contrasto con i principi di pari dignità e di non-aggressione. Il liberista, lo ricordiamo, rifiuta la visione utilitarista, secondo cui l’interesse del singolo, comunque lo si misuri, può essere sacrificato quando si ritiene che il sacrificio consenta di aumentare il benessere di una maggioranza. Il liberista non è contrario alla giustizia sociale. Tuttavia, egli fa riferimento alla nozione originaria di tale espressione, che risale a Luigi Taparelli d’Azeglio 5 e che indica il rispetto dei diritti individuali e del principio di non aggressione all’interno di una collettività. Insomma, mentre nell’accezione liberista la giustizia sociale è garanzia della libertà individuale, nella visione socialdemocratica il suo significato è stravolto e utilizzato per giustificare discrezionalità e ingegneria sociale, soprattutto in chiave egualitaria. In un contesto collettivista, invece, l’intera collettività è posta al servizio dello stato. Per conseguire tale obbiettivo l’élite dominante – politici e tecno-burocrati – persegue l’inibizione parziale o totale della proprietà privata e della disponibilità dei mezzi di produzione, e considera altresì indispensabile garantire processi decisionali accentrati. Naturalmente, vietare o limitare notevolmente la proprietà privata di macchinari, impianti e stabilimenti richiede la violazione delle preferenze di coloro che intendono avvalersi di beni strumentali per produrre. Inoltre, significa interferire con la libera scelta di ciò che si vuole produrre e di come si vuole produrre. Infine, poiché i produttori sono ob
5 Taparelli d’Azeglio (1840-43: parte II, capo III).
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bligati a utilizzare i beni strumentali di “proprietà” dell’élite al potere, essi sono necessariamente costretti ad adattarsi alle tecniche produttive compatibili con quei macchinari e ad accettare le condizioni e i sistemi di incentivi creati da quell’élite. Ragionamenti analoghi valgono per i venditori di servizi. È questo il senso della pianificazione centralizzata. In sintesi, i produttori e i lavoratori diventano di fatto dipendenti dello stato, mentre i consumatori consumano ciò che lo stato deciderà che è bene che consumino e che i produttori potranno e vorranno offrire loro.
7. L’etica liberista: consapevolezza, responsabilità, virtù e istituzioni L’impostazione liberista poggia dunque su un impianto etico molto semplice, che conferisce o nega legittimità all’azione dell’individuo a seconda di come questi, consapevole e responsabile del proprio comportamento, si pone in relazione con gli altri. La consapevolezza conferisce all’individuo la pari dignità, ovverosia l’individuo merita rispetto perché si presume che sia consapevole delle proprie scelte e usi la ragione per temperare i propri istinti. L’individuo, infatti, non è tale perché agisce in modo prudente o razionale, bensì perché è conscio che le proprie azioni hanno conseguenze e perché è responsabile dei danni eventualmente provocati ad altri o alla proprietà di altri. Si tratta di ciò che alcuni chiamano il “senso morale”, che distingue l’uomo dal robot. Ai fini della legittimità di una scelta e dell’azione che segue, dunque, non è importante stabilire se un comportamento è prudente o avventato, efficiente o inefficiente; ma se l’attore è consapevole delle conseguenze del proprio operato. In altri termini, l’essere consapevoli delle proprie azioni significa che si è capaci di scegliere a seconda delle proprie preferenze, e il rispetto delle preferenze individuali pone tutti gli individui sullo stesso piano e dà significato al principio di pari dignità. Di conseguenza, si considera etica – cioè giusta, o per meglio dire, non ingiusta – ogni azione che rispetta la pari dignità degli altri, e che quindi non viola la libertà da coercizione e la proprietà privata. Come si è accennato, la nozione di consapevolezza implica l’accettazione di responsabilità per le proprie azioni, e dunque delle conseguenze che queste comportano, anche quando involontarie. Per esempio, se Giorgio effettua dei lavori sul proprio terreno, e così facendo danneggia le fondamenta della casa di Carla, Giorgio sta di fatto violando la pro-
CONSAPEVOLEZZA E RESPONSABILITÀ
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I PRINCIPI
prietà di Carla, in contrasto con la presunzione di libertà e indipendentemente dal fatto che Giorgio avesse previsto o no tale possibilità. Consapevolezza, infatti, non significa essere capaci di prevedere il futuro, bensì riconoscere che le proprie azioni hanno conseguenze; mentre responsabilità significa accettare di farsi carico di tali conseguenze. Pertanto, secondo la visione liberista, Carla ha il diritto di reagire nei confronti di Giorgio, imponendogli di fermare i lavori e chiedendo un indennizzo adeguato a fronte del danno subito. Essere responsabili, quindi, significa riconoscere a Carla quanto necessario per ripristinare le fondamenta della sua casa o, qualora queste siano state irrimediabilmente danneggiate, corrisponderle un compenso adeguato per aver ridotto il valore del suo edificio. A questo proposito, è opportuno sottolineare che per il liberista i danni rilevanti sono quelli arrecati all’integrità fisica della persona e alla sua proprietà. Affinché Carla possa dichiararsi vittima, dunque, non è sufficiente che il comportamento di Giorgio provochi una diminuzione del benessere di Carla o riduca il valore delle sue proprietà. È necessario che vi sia anche una forma di aggressione. Si ipotizzi che Giorgio sia un produttore di mobili e che decida di non rivolgersi più ai suoi consueti fornitori, fra cui Carla. Perdere un cliente può essere un problema per Carla e per coloro alle sue dipendenze. Tuttavia, a meno che Giorgio non abbia violato un contratto in essere, né Carla né i suoi dipendenti possono accusare Giorgio di qualsivoglia mancanza e pretendere un risarcimento. In particolare, Carla non ha diritti di proprietà nei confronti dei propri clienti (Giorgio, in questo caso), né può sostenere che Giorgio abbia trasgredito il principio di libertà da coercizione. Tale principio trova applicazione anche qualora Giorgio sia vittima di proprie scelte rivelatesi sbagliate, si rifiuti di accettarne le conseguenze, e pretenda di imporre ad altri l’onere del risarcimento, parziale o totale, dei costi sopravvenuti. Per esempio, si supponga che Giorgio abbia investito i propri risparmi in attività fallimentari o abbia depositato denaro presso istituti bancari rivelatisi insolventi. E si supponga che Giorgio chieda a terzi di ripianare almeno in parte le perdite subite e/o di contribuire economicamente al proprio sostentamento. È possibile che la collettività assecondi la richiesta di Giorgio e che sentimenti di carità e altruismo inducano coloro a cui Giorgio si è rivolto ad accogliere il suo appello. Nondimeno, e in ossequio al principio di libertà e di inviolabilità della proprietà, Giorgio non ha il diritto di obbligare nessuno ad aiutarlo e nessuno ha il dovere di aiutarlo. Un gesto generoso potrebbe essere auspicabile, ma non è doveroso. Se Giorgio ricorresse alla violenza e
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rivendicasse un ipotetico diritto al sussidio, le vittime dell’aggressione sarebbero legittimate a reagire e difendersi. L’adesione di un individuo a ciò che i membri di una collettività considerano auspicabile – la morale collettiva – è una questione sia di convenienza (è più facile interagire con gli altri quando si segue un codice di comportamento condiviso), sia di autostima (compiacere la propria coscienza, come sottolineavano gli Illuministi scozzesi). Ognuno di noi cerca di comportarsi rispettando ciò in cui crede e, quando possibile, i principi morali della comunità a cui appartiene. L’individuo si sente in colpa quando è consapevole di aver violato i propri principi; e prova vergogna quando si rende conto di aver commesso qualcosa di riprovevole agli occhi degli altri. In altri termini, l’azione umana segue tre piani morali: uno riguarda la coscienza individuale (la virtù); uno fa riferimento alla morale collettiva (ciò che è considerato desiderabile dai membri della comunità di appartenenza); e uno fa riferimento ai principi fondamentali dell’azione individuale, da cui discendono i diritti e doveri che caratterizzano l’interazione con gli altri esseri umani (per i liberisti è il rispetto della pari dignità). Non è escluso che le istituzioni liberiste siano in conflitto con la virtù individuale e forse anche con la morale collettiva. Per esempio, supponiamo che Giorgio stia morendo di sete, che Roberto abbia finito le proprie scorte di acqua, che non vi siano corsi d’acqua nelle vicinanze e che l’unico modo per salvare la vita di Giorgio consista nell’obbligare Carla, che ha acqua in abbondanza, a darne una parte a Giorgio. Che fare se Carla detesta Giorgio e quindi si rifiuta di aiutarlo? Il principio di pari dignità vieterebbe a Roberto di costringere Carla ad aiutare Giorgio. La coscienza di Roberto (il suo senso di colpa, la sua virtù), tuttavia, gli impone d’intervenire e di sottrarre/rubare comunque un po’ d’acqua a Carla per salvare Giorgio. Se così accadrà, Roberto sarà in pace con la propria coscienza e forse godrà anche dell’approvazione della collettività (si sentirà virtuoso e sarà lodato per la sua condotta). Carla, tuttavia, avrà diritto di chiedere a Roberto un risarcimento (il rispetto dell’etica liberista). Pur ignorando ciò che avverrà realmente fra Giorgio, Roberto e Carla, il semplice esempio proposto permette un chiarimento importante, di cui si è peraltro già fatto cenno in precedenza. La visione liberista non si propone di definire la virtù individuale, né di dare giudizi di merito sulle istituzioni informali (ciò che i membri della collettività si attendono l’uno dall’altro). Serve, invece per definire le istituzioni formali, ossia le regole – diritti e doveri, non gli auspici – all’interno delle quali gli individui interagiscono. Di conseguenza, come si è illustrato poc’anzi, non è
VIRTÙ, COLPA E VERGOGNA
MORALE E ISTITUZIONI
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SANZIONI INFORMALI E FORMALI
INVIDIA
I PRINCIPI
escluso che il codice etico di un individuo (la sua idea di virtù) o il suo comportamento effettivo sia in contrasto con il sistema morale che caratterizza le relazioni all’interno di una collettività. Quando ciò accade, è possibile che la collettività sanzioni le violazioni. La sanzione sarà così il prezzo che l’individuo pagherà per gli scostamenti del proprio comportamento da quel codice. In particolare, la sanzione sarà informale (ostracismo, diffamazione, diffidenza, rifiuto di cooperare e scambiare) in presenza di violazioni del codice morale collettivo; sarà anche formale (nell’esempio in questione, si tratta del risarcimento della vittima Carla) in presenza di violazioni delle presunzioni liberiste. In questa luce, l’imposizione di sanzioni formali in assenza di aggressioni è certamente una violazione delle presunzioni liberiste, di frequente frutto di invidia, ancorché mascherata dal desiderio di perseguire un principio di giustizia egualitaria. Si tratta del resto di un fenomeno ben noto, come analizzato da Helmut Schoeck (1966) e di recente confermato dagli studiosi di psicologia evoluzionistica, fra cui Daniel Sznycer et al. (2017): nella storia dell’uomo i trasferimenti di reddito dai ricchi ai poveri hanno origine da interesse (costituirsi un credito da riscuotere in futuro), pietà (carità e altruismo) e invidia, non da ideali di equità. Per concludere, la virtù di una persona sarà più o meno apprezzata da chi le sta intorno e interagisce con lei. Nondimeno, sotto il profilo liberista, tale apprezzamento è irrilevante ai fini della definizione delle istituzioni formali che caratterizzano quella collettività. Questo spiega perché, nel caso sopra menzionato, se a Roberto sta a cuore la vita di Giorgio e la propria virtù, Roberto farà bene a obbligare Carla a cedere la propria acqua. Tuttavia, Roberto dovrà poi compensare Carla per aver violato le sue preferenze, mentre Carla potrà essere sanzionata informalmente dalla collettività per la sua grettezza. Per contro, se a Roberto non importa molto della vita di Giorgio, né Roberto, né Carla saranno punibili per aver lasciato morire Giorgio, anche se saranno probabilmente oggetto di esecrazione da parte della loro comunità e (forse) si sentiranno colpevoli per il proprio comportamento.
Riferimenti bibliografici Bouillon, Hardy (2020), Gerechtes Glück, Flörsheim: Buchausgabe.de. De Jasay, Anthony (2005), “Freedom from a mainly logical perspective”, Philosophy, 80 (314), ottobre, pp. 565-584.
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Grozio, Ugo (1625), De Jure Bello ac Pacis, Parigi: Nicola Buon (traduzione italiana a cura di F. Arici e F. Todescan: Padova, Cedam 2010). Humboldt, Wilhelm von (1792), Ideen zu einem Versuch die Grenzen der Wirksamkeit des Staats zu bestimmen, pubblicato postumo (1851) a Breslavia: Eduard Trewendt (traduzione italiana: Sesto San Giovanni, Mimesis 2020). Hume, David (1739), A Treatise on Human Nature, Londra: John Noon (traduzione italiana: Bari, Laterza 2008). Locke, John (1689), Two Treatises on Government, Londra: Awnsham Churchill (traduzione italiana: Segrate, BUR 2009). Nozik, Robert (1974), Anarchy, State and Utopia, New York: Basic Books (traduzione italiana: Firenze, Le Monnier 1981). Pufendorf, Samuel (1672), De Jure Naturae et Gentium, Lund: V. Haberegger (traduzione italiana: Venezia, Pietro Valvasense 1757-59). Salter, John (2001), “Hugo Grotius: property and consent”, Political Theory, 29 (4), agosto, pp. 537-555. Schoeck, Helmut (1966), Envy: a Theory of Social Behaviour, New York: Irvington Publisher (traduzione italiana: Macerata, Liberilibri 2008). Sznycer, Daniel et al. (2017), “Support for redistribution is shaped by compassion, envy and self-interest, but not a taste for fairness”, Proceedings of the National Academy of Sciences, https://www.pnas.org/content/pnas/ early/2017/07/12/1703801114.full.pdf. Taparelli d’Azeglio, Luigi (1840-43), Saggio Teoretico di Dritto Naturale Appoggiato sul Fatto, Palermo: Antonio Muratori.
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I PRINCIPI
CAPITOLO 2
I FONDAMENTI (II) 1. Paternalismo, maggioranze, razzismo e contratto sociale Nel capitolo precedente si è illustrato come riconoscere pari dignità alle preferenze individuali significhi negare a chiunque l’autorità per imporre ad altri le proprie idee o le proprie scelte. Le opinioni e i desideri di ogni individuo, infatti, meritano tutti uguale rispetto. È possibile che Giorgio abbia orientamenti diversi da Carla, e non c’è nulla di male se Giorgio esprime le proprie opinioni e cerca di convincere Carla a cambiare idea, o se Carla fa altrettanto nei confronti di Giorgio. La libertà di espressione è ammessa in tutte le sue forme. Tuttavia, per un liberista gli sforzi di persuasione non giustificano l’imposizione di vincoli di nessun tipo. In campo economico-finanziario, per esempio, Giorgio può certamente disapprovare l’acquisto o la vendita, da parte di Carla, di azioni emesse da una determinata società o di beni prodotti con certe caratteristiche. Nondimeno, come si è ricordato in precedenza, il rispetto della presunzione di pari dignità impedisce a Giorgio di opporsi con la forza a che Carla proceda comunque all’operazione, o di obbligare Carla a pagare una sanzione per poter soddisfare i propri desideri. In altri termini, Giorgio può non condividere il pensiero o le scelte di Carla, ma questa diversità non giustifica l’introduzione di regolamentazione o penalizzazioni, nemmeno quando Giorgio ritiene che le scelte di Carla siano palesemente svantaggiose, imprudenti, male accolte da terzi, o lontane da quanto auspicato dall’opinione pubblica. Di nuovo per esempio, se si segue questo ragionamento le direttive europee volte a classificare gli investitori sui mercati finanziari e a vincolarne il comportamento sono un abuso: si pensi alle cosiddette direttive MiFID e ai regolamenti a esse collegati. Naturalmente, non si tratterebbe di abuso se una o più agenzie proponessero agli operatori finanziari di certificare la chiarezza e trasparenza dei loro prospetti informativi e se il sistema giudiziario perseguisse
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PATERNALISMO
PRINCIPIO DI MAGGIORANZA
I PRINCIPI
efficacemente i comportamenti fraudolenti. Commenti analoghi valgono per gli abusi propri delle barriere alle importazioni, di qualunque tipo e a qualunque titolo; o per il cosiddetto “nudging” (la spinta gentile), quando questo si traduce, per esempio, in vincoli per l’attività d’impresa. Più in generale, il principio di pari dignità delle preferenze individuali ha implicazioni importanti ai fini della vita di tutti i giorni, implicazioni di cui non sempre si è pienamente consapevoli. Per esempio, chi crede nella pari dignità dovrebbe respingere gli atteggiamenti paternalistici. Giorgio non ha il diritto di imporre le proprie decisioni a Carla solo perché reputa di essere più saggio, colto, intelligente o lungimirante di Carla; o perché ritiene che i propri obbiettivi siano più nobili di quelli di Carla. Il gioco d’azzardo comporta perdite sistematiche per i giocatori sia quando si tratta di una bisca privata sia quando si tratta di una lotteria statale. Ebbene, anche se Giorgio ritiene che Carla non debba esporsi al rischio di perdere i suoi averi giocando a briscola o acquistando i biglietti di una lotteria, e che l’errore sia ancora più riprovevole se Carla ha un reddito modesto e una numerosa famiglia a carico, Giorgio non ha il diritto di vietare a Carla di giocare, né di costringerla a utilizzare le proprie risorse per scopi più nobili o produttivi, quali il miglioramento dell’istruzione sua e/o dei suoi figli o l’ampliamento della sua attività produttiva (se Carla è un’imprenditrice). Al tempo stesso, Giorgio non ha il dovere di rimborsare a Carla le perdite subite o di obbligare altri a operare in tal senso. Analogamente, se Giorgio è un rappresentante dello stato, egli non ha il diritto di sottrarre risorse a Carla solo perché egli ritiene che le modalità di spesa dei politici e dei burocrati siano più favorevoli alla crescita economica di un paese rispetto alle scelte operate da Carla. In particolare, per un liberista la spesa statale giustificata dal cosiddetto “effetto moltiplicatore” è inaccettabile 1. Per un verso, è dubbio che un euro speso dallo stato promuova la crescita, e che quello stesso euro speso da Carla non abbia effetti (si tornerà sul tema nella quarta parte del libro). Per altro verso, e soprattutto, l’imposizione fiscale ai danni di Carla, necessaria per il finanziamento della spesa pubblica, è una violazione delle sue preferenze. È dunque un’appropriazione ingiustificata, una sottrazione di risorse ai danni del legittimo proprietario (Carla). Insomma, è un furto. Inoltre, è questa una seconda riflessione, le preferenze di Carla non possono essere ignorate o calpestate appellandosi a un principio di maggioranza. Se Carla predilige le scarpe di colore nero, Giorgio e i suoi
1 Il concetto fu elaborato dal venticinquenne Kahn (1931), studente di Keynes.
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amici, ancorché numerosi e convinti che il nero non si addica a Carla, non hanno il diritto di obbligarla ad acquistare scarpe di colore rosso. A maggior ragione, Giorgio e i suoi amici non possono imporre a Carla di trasferire i propri averi a Giorgio, affinché questi (o qualche suo amico) acquisti le scarpe che piacciono a lui e ai suoi eventuali amici. Naturalmente, questo vale anche se Giorgio è stato eletto o delegato da una maggioranza di votanti. Per esempio, si pensi all’introduzione di un’imposta sulla proprietà immobiliare di Carla, i cui proventi siano destinati a finanziare la costruzione di un ponte, il potenziamento della sanità statale e/o un piano di assunzioni nel settore pubblico. Sebbene tali iniziative siano state deliberate da una maggioranza di politici, a loro volta eletti da una maggioranza di votanti, il principio di pari dignità afferma che Carla non è tenuta ad adeguarsi alle preferenze dei politici, quale che sia l’impiego del gettito fiscale. Si sconfinerebbe nel paternalismo della maggioranza. Nulla cambia se la decisione di obbligare Carla a contribuire alla spesa statale, nobile e importante, è stata presa da una maggioranza di cittadini in occasione di un referendum. Il fatto che la normativa fiscale sia stata emanata a seguito di un voto non cambia la sostanza: Carla non può mai essere costretta a pagare l’imposta sotto la minaccia di una multa, di una confisca, o addirittura di reclusione. In altri termini, secondo la visione liberista la presenza di una minaccia è inaccettabile, anche quando la minaccia è legale, cioè deliberata a maggioranza da un’assemblea popolare o un ente statale quale un governo o un parlamento. Parafrasando quanto scrisse Edmund Burke (1790), la tirannia della maggioranza è pur sempre una tirannia, anche quando si tratta di una maggioranza parlamentare o governativa. Così come la visione liberista non ammette che le preferenze e i desideri di Carla siano violati con la forza o l’inganno da Giorgio solo perché Giorgio ritiene di essere più saggio o intelligente di Carla, o spalleggiato da un maggior numero di sostenitori, il principio di pari dignità nega a Giorgio il diritto d’imporsi a Carla appellandosi ad altri criteri quali la razza, la religione, il sesso, l’etnia o la nazionalità di appartenenza, la fede politica. Il fatto che nel corso della storia questi comportamenti discriminatori siano stati tollerati o addirittura incoraggiati o imposti da un sovrano o da norme votate a maggioranza non li rende meno esecrabili. Si pensi ai milioni di persone ridotte in schiavitù, agli stermini subiti dai Catari, dagli Ebrei, dai Valdesi e da coloro rei di essersi opposti a rivoluzioni: vittime perché considerati esseri inferiori e comunque non degni di essere trattati come esseri umani. Questi esempi si riferiscono a situazioni estreme, che oggi molti non esitano a condannare. Esistono
RAZZISMO E INTOLLERANZA RELIGIOSA
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CONTRATTO SOCIALE
I PRINCIPI
tuttavia anche situazioni meno clamorose e cruente, vicine alla nostra quotidianità, in cui il ruolo della fede religiosa, del nazionalismo o del razzismo è diffuso e rilevante. Si pensi alle politiche di redistribuzione del reddito attuate nella maggior parte delle economie cosiddette avanzate. Sono iniziative in apparenza giustificate da un principio di carità obbligatoria nei confronti degli individui o delle famiglie più povere. Eppure, nella realtà la redistribuzione del reddito non è a favore dei poveri in generale bensì, nei migliori dei casi, a favore dei poveri del paese a cui appartiene chi redistribuisce (il governo o il legislatore). In altri termini, a conti fatti, per il legislatore di un paese il povero “nazionale” vale più del povero residente in altre parti del mondo, come se lo stato di bisogno e l’obbligo alla carità dipendessero dal colore del passaporto del beneficiario. Insomma, chi obbliga qualcuno a donare dà per scontato che carità e altruismo siano dovuti e che il singolo donatore non sia in grado di scegliere il beneficiario. La violazione delle presunzioni liberiste di pari dignità e libertà è dunque palese. Chi giustifica la redistribuzione del reddito all’interno di una comunità politica adducendo finalità puramente umanitarie (aiuto ai poveri) in realtà persegue, almeno in parte, altri fini. In questo senso, a nulla valgono le argomentazioni fondate sull’esistenza di un ipotetico contratto sociale, ovverosia di un accordo implicito che vincolerebbe tutti i residenti di un’area geografica, per il solo fatto di essere nati o di risiedere in quell’area, a delegare autorità e poteri allo stato. La nascita di un individuo è un evento naturale, non un atto contrattuale. Parimenti, quando Giorgio compra o affitta un’abitazione in una certa area, egli è parte di un contratto di compravendita o di locazione stipulato con Carla, non con un insieme di burocrati o politici che Carla forse non ha nemmeno votato. Quando un individuo respira non sta firmando un accordo, quando si alimenta egli utilizza risorse acquisite attraverso lo scambio con altri individui o a seguito di un dono e non accetta esplicitamente o implicitamente generici vincoli nei confronti di una controparte altrettanto mal definita – la società o lo stato. Né accetta di delegare a tale controparte alcun potere. In effetti, un contratto è tale se nasce dalla volontà delle parti di sottoporsi alle condizioni che il contratto comporta. Nel caso del cosiddetto contratto sociale, così come questo viene comunemente inteso, non solo manca l’elemento di volontarietà, ma è altresì negata la possibilità di rifiutare un accordo che, peraltro, non si è mai sottoscritto. In sintesi, come ha ricordato Lorenzo Infantino (2008, cap. 3), l’individuo è un essere sociale che si realizza attraverso un sistema di relazioni con altri individui. In questo senso, le
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istituzioni sono l’insieme di regole che caratterizza queste interazioni. Tuttavia, essere sociali non significa essere parte di un contratto sociale: come sintetizzato con efficacia da Michael Huemer (2013), il contratto sociale non esiste perché non esiste alcun accordo volontario con riferimento al quale si possa affermare che l’individuo ha rinunciato al – o limitato il – proprio diritto alla pari dignità e alla libertà.
2. Libertà di scegliere e discriminare Il principio secondo cui Giorgio non può imporre le proprie preferenze a Carla, né limitarne la libertà d’azione (con l’eccezione dei casi di autodifesa, di cui si è già fatto cenno e su cui si tornerà al termine di questa sezione), significa anche che Giorgio non può porre limiti alla libertà di contratto altrui. In altre parole, Giorgio non può impedire che Carla e Roberto s’impegnino a scambiare e cooperare nei termini che ritengono opportuni e mutuamente vantaggiosi. Naturalmente, si tratta di cooperazione volontaria, l’unica forma di cooperazione possibile, altrimenti si tratterebbe di un obbligo. È questa l’essenza della libertà di contratto: ancora una volta, il fatto che Giorgio trovi indesiderabile, inutile o potenzialmente controproducente l’accordo stipulato fra Carla e Roberto può essere un buon motivo affinché Giorgio cerchi di convincere Carla e Roberto del fatto che forse stanno per commettere un errore. Tuttavia, le opinioni di Giorgio non gli danno il diritto di vietare a Carla e Roberto di cooperare secondo i termini dell’accordo da loro concluso, se pure l’opinione contraria di Giorgio fosse condivisa da molti altri. Lo ripetiamo: per un liberista la presenza di una maggioranza di per sé non giustifica né la creazione di un obbligo a carico della minoranza, né l’uso della forza; a meno che gli individui coinvolti non si siano associati per il perseguimento di determinati fini e, all’unanimità, abbiano accettato il criterio di maggioranza per le proprie decisioni. Questa chiave di lettura del principio di pari dignità ha conseguenze importanti sulle quali si tornerà in seguito. Per esempio, la libertà di contratto esclude l’introduzione di barriere normative al commercio quali dazi, contingentamenti, certificazioni di qualità obbligatorie e, in generale, qualsiasi pratica protezionistica. Tali barriere, infatti, impediscono a due contraenti, Giorgio e John, di scambiare beni e servizi al prezzo e alle condizioni che entrambi ritengono soddisfacenti. Naturalmente, il fatto che John risieda in un altro paese è del tutto ininfluente. Un commento analogo vale per la regolamentazione, la quale pone anch’essa li-
LIBERTÀ DI CONTRATTO
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PREFERENZE SGRADITE, DOVERI DI RESISTENZA, DISCRIMINAZIONE
I PRINCIPI
miti alla libera contrattazione. Come si è detto, il rispetto della libertà di contratto vieta che Giorgio e i suoi amici pongano restrizioni agli accordi fra Roberto e Carla, e il fatto che le restrizioni possano essere istituite nell’interesse dei contraenti stessi o di terzi è del tutto irrilevante, se i contraenti sono di diverso avviso e se l’oggetto del contratto non comporta minacce evidenti per l’integrità fisica di terzi e non dà luogo a una violazione delle loro proprietà. Inoltre, libertà di contratto significa libertà di rifiutare di stipulare accordi anche quando tali accordi sono considerati desiderabili dalle controparti potenziali e da/per individui terzi. Si pensi a quando la società Coca-Cola si rifiuta di fornire le proprie bevande agli esercizi che vendono anche bibite di produttori concorrenti; o a quando Microsoft si rifiuta di rivelare i dettagli del proprio sistema operativo Windows. Secondo la visione liberista, infatti, i consumatori di bevande gassate non hanno il diritto di trovare in ogni bar tutte le loro bevande preferite, così come i concorrenti di Microsoft non hanno il diritto di sviluppare applicativi basati sui risultati della capacità innovativa di Microsoft. Concludiamo ricordando l’eccezione già presentata nel capitolo precedente e poc’anzi richiamata: le preferenze individuali possono essere contrastate solo quando le azioni che ne seguono implicano aggressione fisica nei confronti di altri, in violazione della libertà da coercizione. In particolare, si noti che l’opposizione alla violenza non ha per obbiettivo le preferenze, poiché la libertà di pensiero è assoluta. Si tratta, piuttosto, di impedire le azioni violente dettate dalle preferenze. Supponiamo che Giorgio, liberista, non condivida il razzismo, il nazionalismo o l’intolleranza religiosa di Carla; o che trovi disdicevole che Carla scelga i propri amici e collaboratori in base al sesso o al colore degli occhi. Per quanto deprecabili agli occhi di Giorgio, le idee e i pregiudizi di Carla non danno a Giorgio il diritto di violare la libertà di pensiero, di espressione e di azione di Carla, a meno che le parole e le azioni di Carla non costituiscano una minaccia effettiva – credibile e concreta – per Giorgio stesso. Certamente, se virtuoso, Giorgio si sentirà in dovere (morale) di opporsi e di resistere alle aggressioni di Carla nei confronti di terzi. Per contro, l’indifferenza di Giorgio in presenza dell’aggressione di Carla a danno di terzi sarà una violazione delle istituzioni informali (e dunque deprecabile), ma non necessariamente delle istituzionali formali. Pertanto, se Carla tenta di ridurre Paola in schiavitù, Giorgio ha il dovere nei confronti della propria coscienza di intervenire per opporsi a Carla. Analogamente, se Carla chiede a Giorgio informazioni sul conto di Paola, informazioni che sarebbero in seguito utilizzate da Carla per
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usare violenza nei confronti di Paola, Giorgio ha il diritto – e in talune circostanze anche il dovere morale – di tacere o mentire, per evitare di essere complice in un atto di violenza. È del tutto irrilevante che una legge dello stato autorizzi Carla a chiedere informazioni e imponga a Giorgio di fornirle. Legalità è sinonimo di conformità con la normativa statale e non è necessariamente coerente con i parametri liberisti enunciati all’inizio del primo capitolo e più volte richiamati, parametri che danno contenuto al concetto di legittimità: pari dignità delle preferenze, presunzione di libertà e libertà da coercizione. Analogamente, Giorgio ha il dovere di non intervenire se Carla, sulla base dei propri pregiudizi e opinioni, preferisce assumere nella propria impresa una persona in base al colore della pelle o della religione professata. Il principio di pari dignità delle preferenze, infatti, vale per chiunque, anche per chi ha preferenze che non condividiamo. In quest’ultimo esempio, Carla applica sì un criterio di discriminazione razziale o religiosa nelle sue scelte imprenditoriali, ma non esercita violenza nei confronti di nessuno. La sua scelta è discutibile, se non deprecabile e socialmente sanzionabile (istituzioni informali), come si è detto più volte. Giorgio potrà lamentare il comportamento di Carla, anche pubblicamente: fa parte della libertà di espressione. Tuttavia, nulla è formalmente opponibile alla decisione di Carla, e pertanto non sono accettabili sanzioni formali (legali), sebbene probabilmente seguiranno sanzioni sociali (informali) nei suoi confronti.
3. Libertà da coercizione e politica economica Il liberismo è libertà da coercizione. In effetti, il principio di non aggressione può sembrare scontato, se non addirittura banale: ben pochi si dichiarano a favore di un atto violento (se non per legittima difesa) o di atteggiamenti ingannevoli. Eppure, va rilevato che la coercizione è di fatto alla base di molti provvedimenti di politica economica. Si pensi alle imposte e alla regolamentazione, insiemi di interventi posti in essere dal soggetto pubblico e fatti rispettare attraverso sanzioni, espropri, carcerazione (tutte attività coercitive). Del resto, se le imposte non fossero fondate su un atto di coercizione sarebbero donazioni, e se la regolamentazione non fosse statuita da un’autorità che può ricorrere alle forze di polizia per farla rispettare si tratterebbe di comportamenti volontari. Naturalmente, l’assenza di reazioni di difesa a fronte di azioni coercitive non significa accettazione da parte delle vittime. Nella maggior parte dei casi la resistenza sarebbe vana e al liberista non si chiedono atti di
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I PRINCIPI
eroismo per difendere ciò che gli appartiene. Nondimeno, ci si attende che il liberista sia consapevole di essere vittima di abusi.
4. Diritti di proprietà e beni intangibili
PROPRIETÀ DEI BENI INTANGIBILI
Lo stato non si limita a violare la libertà da coercizione interferendo con la proprietà privata e la libertà di contratto. A volte crea dei diritti di proprietà inesistenti, e altre volte confonde i danni subiti a seguito di aggressioni con le perdite di benessere dovute ad altre cause. In questa sezione e in quella successiva presentiamo tre esempi: la proprietà dei beni intangibili, le situazioni di sfruttamento e la cosiddetta concorrenza sleale. Come illustrato nel capitolo precedente, secondo la visione liberista si acquisisce la proprietà di un bene tangibile – il diritto a disporre di un terreno o di un manufatto come meglio si crede e ad appropriarsi dei frutti che esso produce – attraverso la prima appropriazione e lo scambio volontario. Dunque, ogni atto di appropriazione è lecito a meno che non comporti violenza nei confronti di altri, ovverosia a meno che l’oggetto in questione non sia stato già appropriato da altri. È questa una conseguenza della presunzione di libertà. Questa impostazione vale anche nell’ambito dei beni intangibili: un’idea innovativa e, in generale, i prodotti dell’ingegno. Il concetto fondamentale rimane sempre la presenza o meno di atti violenti. Pertanto, se un’idea innovativa non è stata acquisita con l’inganno, il furto o la violenza/tortura, l’utilizzo di un’idea già concepita da altri (l’innovazione indipendente e l’imitazione) non viola né il principio di pari dignità, né la presunzione di libertà. Come discusso ampiamente in tempi recenti da Tom Palmer (1990) e Stephen Kinsella (2001), l’imitazione è dunque un’azione legittima, poiché l’uso da parte di Giorgio della conoscenza creata da Carla non impedisce a Carla il pieno uso della conoscenza da lei generata. Certamente, se Giorgio e Carla sono due produttori attivi nello stesso settore è probabile che la concorrenza di Giorgio influisca sui profitti che Carla può trarre dallo sfruttamento della sua idea originale. Per questo motivo Carla potrebbe cercare di ostacolare il diffondersi della nuova conoscenza ed evitare che diventi accessibile a Giorgio e ad altri (è quanto hanno fatto, per esempio, Microsoft e Coca-Cola). Naturalmente, i tentativi di Carla in tal senso sono leciti, a condizione che Carla non ricorra alla violenza per impedire a Giorgio di utilizzare la conoscenza che non appartiene più a nessuno dal momento in cui ella stessa, Carla, l’ha resa disponibile, o in cui il concorrente, Giorgio, l’ha ac-
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quisita autonomamente (innovazione indipendente). Per la stessa ragione, Carla non può chiedere a terzi (lo stato) di imporre a Giorgio di rimanere ignorante o di astenersi dall’usare la conoscenza di cui egli dispone. In effetti, gli ordinamenti moderni non proteggono il diritto d’inventare. Impediscono tuttavia la riproduzione o l’imitazione non autorizzata sia dei manufatti realizzati grazie a un’idea innovativa, sia di metodi e tecniche con finalità tecnico-produttive (si pensi a molti di tipi di software). È questo il ruolo dei brevetti. Ebbene, secondo la presunzione di libertà, un brevetto costituisce un impedimento alla libertà di agire imitando e riproducendo quanto hanno realizzato altri, nonché di sviluppare e sfruttare idee a seguito dell’acquisizione di nuove informazioni e di conoscenze. Sono queste attività che non costituiscono una minaccia per l’incolumità fisica di nessuno. In sostanza, nell’ambito dei beni tangibili il processo di prima appropriazione si ripete solo se il primo proprietario abbandona il bene, rendendo quel bene nuovamente proprietà di nessuno 2. Nel caso dei beni intangibili (la conoscenza), invece, la prima appropriazione di ciò che è già stato creato è sempre ripetibile, che si tratti di un appunto, di una descrizione dettagliata di un nuovo prodotto o di una nuova tecnica. Certamente, Carla potrà porre sul mercato un prodotto di sua creazione e vincolare contrattualmente l’acquirente Giorgio a non riprodurre/imitare quel bene. È quanto avviene, per esempio, quando un testo è protetto dal diritto d’autore (un vincolo contrattuale applicabile anche a beni diversi dai libri). In questo caso, se Giorgio riproducesse il bene egli violerebbe un accordo contrattuale e sarebbe formalmente sanzionabile, mentre Carla, in quanto proprietaria del diritto d’autore e parte lesa, avrebbe diritto a un risarcimento. Va tuttavia sottolineato che anche in questo caso l’onere della prova è in capo alla vittima (Carla), la quale nulla potrà contro Roberto se questi, dando un’occhiata alla trama riassunta da Giorgio, deciderà di avviare la produzione e la vendita di un testo con la stessa trama e con frasi simili o addirittura identiche, ignorando i vincoli contrattuali fra Carla e Giorgio. Quanto fin qui argomentato in merito ai diritti di Carla nei confronti di Giorgio è d’aiuto per valutare il merito dell’intervento normativo da parte dello stato nell’ambito dei beni intangibili (proprietà intellettuale). Indipendentemente da come l’osservatore giudichi la proprietà di beni
2 Era questa l’intuizione di Grozio, citato nel capitolo precedente.
BREVETTI E PRIMA APPROPRIAZIONE RIPETIBILE
I DIRITTI D’AUTORE
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I PRINCIPI
intangibili, infatti, il politico/burocrate non ha alcuna autorità per vincolare l’attività di coloro che non riconoscono allo stato il potere di limitare l’attività intellettuale delle persone. In altri termini, i residenti in A che abbiano riconosciuto al legislatore A il potere di restringere l’uso dei beni intangibili creati in A sono ovviamente tenuti a rispettare la normativa brevettuale vigente in A. Tuttavia, tale obbligo non si applica né ai residenti di B, né ai residenti in A che non hanno accordato delega esplicita allo stato A. Per un liberista questi attori sono legittimati a comportarsi come meglio credono, astenendosi comunque dal ricorso alla violenza fisica, alla violazione della proprietà privata o di un vincolo contrattuale, come accade per il diritto d’autore. Fatte salve queste eccezioni, l’imitazione è dunque lecita, così come l’assunzione, da parte di imprenditori in B, di personale qualificato attivo in imprese localizzate in A. Certamente, il cosiddetto spionaggio industriale è illecito, ma solo perché a tale attività si è soliti associare violazioni di una proprietà – per esempio l’edificio in cui sono conservati relazioni, disegni e calcoli. Altrimenti si tratta di semplice imitazione.
5. Diritti di proprietà, sfruttamento e concorrenza
SFRUTTAMENTO E INVIDIA
Nella sezione precedente si è trattato di diritti di proprietà inesistenti. In questa sezione si propongono, invece, due falsi diritti di proprietà, diritti rivendicati più o meno esplicitamente in presenza di fenomeni di sfruttamento e attività concorrenziali cosiddette sleali. Il primo caso è noto nella storia come il diritto al giusto prezzo e riguarda lo sfruttamento, termine che designa una situazione in cui una delle parti coinvolte in una transazione si appropria di quasi tutti benefici prodotti dalla transazione. Si supponga, per esempio, che Giorgio intenda acquistare un’auto posta in vendita da Carla, e che sia disposto a pagarla al massimo 10.000 euro, mentre Carla è disposta a vendere tale auto a un prezzo non inferiore a 5.000 euro. Molti sarebbero pronti a sostenere che, in presenza di scambio volontario, Giorgio sfrutta Carla se riesce a strappare un prezzo prossimo a 5.000 euro (magari approfittando dello stato di bisogno di Carla), e che Carla sfrutta Giorgio se il prezzo di vendita è prossimo a 10.000 euro. Eppure, qualunque sia l’esito della transazione, lo scambio migliora necessariamente la condizione di coloro direttamente coinvolti (Giorgio e Carla). Se così non fosse, lo scambio non avrebbe luogo. Si può dunque concludere che la presenza di ciò che solitamente si definisce “sfruttamento” – il benessere di uno o più attori direttamente coin-
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volti in una transazione aumenta significativamente, mentre quello di altri cresce di poco – non esclude che lo scambio benefici tutti i partecipanti. Del resto, se così non fosse, non ci sarebbe scambio e non ci sarebbe neppure il preteso sfruttamento. Nella realtà, solitamente si dichiara vittima di sfruttamento un individuo che, pur migliorando la propria condizione grazie allo scambio, beneficia meno di quanto avrebbe voluto beneficiare, forse perché ha aspettative diverse o forse perché prova invidia osservando che la controparte ha tratto un vantaggio maggiore del suo. Tuttavia, delusione e invidia non giustificano diritti di proprietà su una quota predeterminata della ricchezza creata attraverso lo scambio. Di nuovo per esempio, chi vende servizi produttivi (un lavoratore) non ha un diritto precostituito a una percentuale del prezzo di vendita del prodotto posto sul mercato dal datore di lavoro. Il lavoratore può certamente avanzare proposte contrattuali in tal senso alla controparte, ma una proposta del lavoratore non costituisce, di per sé, un obbligo di accettazione per il datore di lavoro. Ciò vale per gli scambi che hanno per oggetto servizi (un contratto di lavoro), così come per la compravendita di auto, come esemplificato all’inizio di questa sezione. Insomma, non ha senso denunciare una situazione di sfruttamento e rivendicare un diritto di proprietà sulla ricchezza altrui solo perché la distribuzione dei benefici dello scambio volontario è squilibrata o sgradita. Ben diversa, invece, è una situazione in cui si rivendicano diritti sulle proprietà altrui perché quelle proprietà sono frutto di violenze passate. In questa prospettiva, è certamente più coerente la prospettiva di Marx, il quale attribuiva la ricchezza dei capitalisti e dei proprietari terrieri a violenze passate e considerava i lavoratori sfruttati in quanto vittime indirette di quelle ingiustizie. La ricerca delle motivazioni che sostengono l’esistenza di un prezzo giusto – ossia del prezzo che ripartisce il benessere generato dall’attività di scambio secondo un criterio di giustizia – e dei criteri atti a quantificarlo si è protratta per secoli e ha prodotto risultati modesti. Come documentato da De Roover (1958), già gli autori di tradizione scolastica avevano concluso che per giusto prezzo si debba intendere il prezzo di mercato concorrenziale, eccezion fatta per situazioni in cui il compratore versi in condizioni di emergenza e sia in gioco la sua sopravvivenza. Eppure, la retorica del giusto prezzo è stato l’espediente attraverso il quale l’autorità ha esteso i propri poteri e motivato una serie di interventi, fissando i prezzi in modo di fatto arbitrario; oppure riducendo il sistema dei prezzi a uno strumento puramente contabile e procedendo alla pianificazione centralizzata della produzione e dei consumi. Si tratta,
SFRUTTAMENTO E “GIUSTO PREZZO”
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LA CONCORRENZA SLEALE
I PRINCIPI
rispettivamente, delle visioni socialdemocratica e collettivista, entrambe parte del contesto socialista. In effetti, l’impostazione liberista respinge la definizione egualitaria di giustizia, e non considera il sistema dei prezzi né uno strumento di giustizia, né un modo per normare la virtù individuale; bensì un sistema che nasce dalla libera contrattazione, segnala le scarsità e premia chi si adopera per ridurle. Naturalmente, sono escluse le intromissioni di chi non è direttamente coinvolto nelle attività di scambio, fra cui l’autorità politica, a meno che le parti non abbiano esplicitamente rinunciato alla propria sovranità a favore dello stato. Coerentemente con le presunzioni enunciate nel capitolo precedente, quindi, per il liberista il termine “sfruttamento” ha rilevanza solo se riferito alla violazione della libertà di contratto, ossia a situazioni in cui un individuo è obbligato a comprare o vendere beni e servizi a condizioni che in un regime di libero scambio non avrebbe accettato. In questa luce, dunque, è sfruttato colui a cui si negano le presunzioni fondamentali di dignità e libertà, e non colui che rivendica diritti di proprietà sulla ricchezza altrui o che non riconosce alla controparte la libertà di contratto. Insomma, se Giorgio acquista l’auto da Carla per 10.000 euro si ha certamente una ineguale distribuzione della rendita prodotta dalla transazione, ma tale disuguaglianza non ha alcuna implicazione normativa. Al contrario, se Giorgio acquista un’auto da John per 10.000 euro, di cui 1.000 sono costituiti da dazi all’importazione, allora Giorgio è sfruttato, e la sua condizione ha certamente implicazioni normative, poiché egli è vittima di un’imposizione. In questo caso, pertanto, anche il contribuente è vittima di sfruttamento. In altri termini, e ricordiamo quanto accennato nella sezione introduttiva di questo capitolo, dazi e imposte sono un furto. Come sottolineato nei paragrafi precedenti, lo scambio beneficia sempre tutti coloro direttamente coinvolti (venditori e acquirenti). Tuttavia, ciò non esclude che si verifichino perdite di benessere per terze persone. Se Carla è un’imprenditrice particolarmente capace e/o che utilizza fattori produttivi a costi particolarmente bassi, è probabile che Carla riesca a sottrarre clienti/consumatori ai suoi concorrenti. I clienti saranno lieti di acquistare i prodotti di Carla, migliori e/o a prezzi inferiori, mentre i concorrenti di Carla vedranno scendere i propri margini, forse subiranno delle perdite ed eventualmente saranno costretti a cessare/cedere la propria attività. Qualcuno forse punterà il dito contro Carla, potenziale colpevole di aver messo in difficoltà i suoi concorrenti. Dal punto di vista liberista, invece, l’insoddisfazione dei concorrenti danneggiati dall’iniziativa di Carla è irrilevante, poiché i concorrenti non sono proprietari dei consu-
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matori (non possono usare la violenza per influenzarne le scelte). Sebbene tale affermazione oggi appaia scontata, non è superfluo osservare come non sia stato sempre così. All’inizio del Novecento l’economista e sociologo tedesco Werner Sombart (1902) sottolineava come le corporazioni medioevali si adoperassero, con l’approvazione delle autorità secolari del tempo, per impedire la concorrenza e di fatto assegnare gruppi di consumatori a insiemi di produttori e commercianti privilegiati e protetti, con frequenti tentativi di introdurre prezzi controllati per moderare le invidie, attenuare i conflitti e ostacolare la mobilità sociale. Non a caso la nascita del capitalismo moderno coincise con lo scardinamento dell’ordine economico medievale, la mobilità dei consumatori, la concorrenza fra produttori e mercanti insofferenti delle regole corporative e per questo motivo tacciati di concorrenza sleale. Eppure, come si vedrà in capitoli successivi, l’idea secondo cui gli acquirenti sono almeno in parte proprietà dei produttori non è ancora del tutto tramontata. L’idea di libera concorrenza, cara ai liberisti ed emotivamente accettata dall’opinione pubblica, è dunque lungi dall’essersi radicata nella moderna cultura economica, che tende a privilegiare l’idea di concorrenza leale (un eufemismo dietro il quale si nasconde il controllo di un’autorità statale a cui spetterebbe decidere che cosa è leale e che cosa non lo è) e a diffidare della concorrenza libera, senza limiti e rispettosa della libertà di contratto.
6. Responsabilità individuale e solidarietà obbligatoria La disamina che precede completa la descrizione dei capisaldi di un sistema economico liberista e del ruolo del singolo all’interno di tale sistema. In buona sostanza, si tratta di accettare la responsabilità individuale, rifiutare il ricorso alla violenza e all’inganno, ed essere consapevoli che il potere d’acquisto di ogni individuo dipende dalla sua capacità di soddisfare le esigenze altrui. Ognuna di queste caratteristiche merita attenzione. Benché ognuna di esse poggi su principi in apparenza largamente condivisi (pari dignità delle preferenze e libertà da coercizione), l’opinione pubblica non sempre considera desiderabili, e quindi accettabili, le conseguenze che ne discendono. Qualche ulteriore esempio può contribuire a meglio delineare le tensioni fra i principi morali caratteristici del liberismo da una parte e, dall’altra, l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti di situazioni reali. In particolare, questa sezione pone l’accento sui concetti di responsabilità individuale e di solidarietà obbligatoria.
34 LA RESPONSABILITÀ INDIVIDUALE
LA SOLIDARIETÀ
I PRINCIPI
Responsabilità individuale significa che Giorgio non può obbligare Carla a venirgli in aiuto in caso difficoltà, a meno che Carla non sia vincolata in tal senso da un accordo specifico – per esempio da un contratto di assicurazione che obbliga Carla (l’assicuratrice) a erogare una somma a favore di Giorgio qualora questi s’infortuni o si ammali. Parimenti, se Giorgio ha investito tutti i suoi risparmi in un’impresa che successivamente è fallita o che comunque non riesce a far fronte agli obblighi nei confronti dei propri creditori (fornitori, azionisti o titolari di obbligazioni), Giorgio non può pretendere che Carla lo soccorra, provvedendo ai suoi bisogni in nome di un ipotetico obbligo di solidarietà; né può pretendere che Carla partecipi a un programma di aiuto/soccorso che coinvolge decine o anche migliaia di persone. In altre parole, responsabilità individuale non significa solo che ognuno è responsabile delle conseguenze generate dal proprio comportamento (Giorgio ha rotto un vaso di Carla e deve risarcirla per il danno inflittole). Significa anche, e soprattutto, che Giorgio non può obbligare Carla ad agire in suo (di Giorgio) favore, anche quando Giorgio non ha colpe per le disgrazie capitategli: un raggiro, una malattia, il venir meno di una fonte di reddito, una catastrofe naturale. Può solo sperare nella generosità di Carla e di altre persone come Carla, soprattutto se gli eventi catastrofici colpiscono edifici costruiti a regola d’arte e/o realizzati in aree considerate non soggette a disastri naturali, con conseguenze che Giorgio non avrebbe potuto ragionevolmente prevedere; o se le vittime non hanno avuto le risorse necessarie per tutelarsi sottoscrivendo polizze assicurative adeguate. La generosità (o la solidarietà) è un lodevole sentimento che induce un individuo ad aiutare il prossimo in difficoltà. Naturalmente, poiché si tratta di un sentimento, è necessariamente individuale. I concetti di solidarietà collettiva e di solidarietà obbligatoria non hanno alcun senso. Ciò non significa che l’impostazione liberista è in contrasto con sentimenti di solidarietà condivisi da una comunità. Tuttavia, analogamente a quanto osservato alla fine della sezione 3 del capitolo precedente, il liberista osserva che se i membri di una comunità davvero ritenessero loro dovere morale intervenire in aiuto di tutti coloro che versano in difficoltà, basterebbe costituire uno o più fondi per i bisognosi e gli sfortunati, fondi alimentati spontaneamente da tutti i membri della comunità in base a quanto la loro coscienza suggerisce e gestiti secondo criteri annunciati nel momento costitutivo e in seguito eventualmente modificati. È del resto quanto succedeva prima dell’avvento del moderno “stato sociale”. Purtroppo, soprattutto in tempi recenti, iniziative di questo tipo non hanno molto successo. La verità è che molti individui sono meno carita-
I FONDAMENTI (II)
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tevoli e altruisti di quanto essi sostengono, e che in realtà molti si proclamano sì altruisti, ma con i soldi degli altri: un’interpretazione quanto meno singolare del concetto di solidarietà. La cautela nei confronti di iniziative giustificate da principi di solidarietà collettiva è pertanto d’obbligo. In sostanza, l’impostazione liberista non si oppone alla solidarietà, che peraltro favorisce la cooperazione volontaria. Si oppone però alla solidarietà obbligatoria, secondo cui Paola ritiene di avere il diritto di obbligare Carla ad aiutare Giorgio anche quando Carla non è stata causa delle disgrazie di Giorgio, né è legata a Giorgio da vincoli contrattuali, come un’assicurazione. Il fatto che Paola si senta in dovere di aiutare Giorgio non le conferisce il diritto di imporre a Carla di comportarsi come se Carla nutrisse verso Giorgio gli stessi sentimenti di Paola. Certo, si può osservare che forse la visione liberista è eccessivamente ottimista circa i sentimenti di solidarietà spontanea di ogni individuo, e che può essere doloroso constatare che alcuni individui sono poco o punto sensibili nei confronti delle disgrazie altrui. Questa osservazione, condivisibile, suggerisce tuttavia alcune riflessioni. In primo luogo, la scarsa sensibilità delle persone non è un elemento distintivo del liberismo, bensì un tratto degli individui e come tale va valutata. L’origine della carità e dell’altruismo non è il liberismo, ma l’individuo; e la rieducazione forzosa dell’individuo da parte di un ente statale non è la soluzione del problema. Anzi, come affermavano Wilhelm von Humboldt (1792, cap. III) e Wilhelm Röpke (1957, cap. II), il sentimento di solidarietà è più forte dove si afferma la responsabilità individuale, non dove prevale la visione socialista (e il carico fiscale che questa implica). Inoltre, non sempre la riluttanza di Carla ad affidarsi a Paola per aiutare Giorgio in difficoltà è dovuta a mancanza di sensibilità. Talora può accadere che Carla non abbia fiducia nelle capacità o nella buona fede di Paola, e che quindi sia restia ad affidare risorse (i propri risparmi) a Paola affinché questa aiuti Giorgio. Si pensi a quanto molti governi destinano per gli aiuti allo sviluppo o per il sostegno alle vittime di disastri naturali, risorse che sono spesso sprecate e che non di rado danno luogo ad abusi, favoritismi e corruzione. Infine, a chi ritiene che la solidarietà spontanea sia insufficiente e che debba essere integrata o sostituita da forme di solidarietà obbligatoria alimentate dalla fiscalità generale spetta quanto meno l’obbligo di definire i contorni di tali interventi e chiarirne i contenuti. Vanno precisate le situazioni suscettibili di solidarietà obbligatoria. E vanno precisati i criteri con cui si definiscono le somme erogate, i beneficiari e le modalità di finanziamento (chi e quanto debba contribuire). Tali aspetti saranno
LA SOLIDARIETÀ CON I SOLDI DEGLI ALTRI
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AMBIGUITÀ I: CHE COSA MERITA SOLIDARIETÀ?
AMBIGUITÀ II: SOLIDARIETÀ OBBLIGATORIA E DISCRIMINAZIONE
I PRINCIPI
analizzati con maggiore attenzione nei capitoli che seguono. In questa sede ci limitiamo a proporre due esempi che mostrano come la nozione di solidarietà desiderabile a volte presenti notevoli difficoltà sotto il profilo operativo e appaia meno virtuosa di quanto si sia indotti a pensare. S’immagini che una catastrofe naturale colpisca migliaia di persone. L’evento suscita certamente commozione e, presumiamo, scarsa opposizione nei confronti di proposte di interventi straordinari in termini di spesa pubblica. Possiamo dire altrettanto di un inatteso crollo borsistico che distrugge la ricchezza di migliaia di famiglie e che magari è stato innescato da titoli azionari che erano stati garantiti dai presunti controlli delle autorità statali e addirittura consigliati da politici di primo piano? In altri termini, quali sono le variabili che giustificano interventi in nome della solidarietà obbligatoria: la presenza d’incertezza? Il numero di persone coinvolte in un evento? L’ammontare del danno subito? La negligenza di un’autorità pubblica che si proclama garante con i denari altrui (il gettito fiscale)? E ancora. Si supponga che si sia stabilito che esistono gli estremi per imporre provvedimenti di solidarietà obbligatoria a favore di individui sfortunati e che l’opinione pubblica rifiuti di catalogare il bisogno a seconda dell’appartenenza a razze, religioni o nazionalità privilegiate. Si deve quindi concludere che chiunque colpito da una disgrazia abbia il diritto di appellarsi alla popolazione mondiale e reclamare i fondi di solidarietà obbligatoria? Non è difficile immaginare l’emergere di abusi e resistenze, queste ultime presumibilmente crescenti con le distanze geografiche e culturali fra le popolazioni colpite e gli eventuali contribuenti forzatamente solidali. Queste situazioni avrebbero solo una possibile soluzione, che consisterebbe nell’affidare la gestione della solidarietà obbligatoria a una sorta di agenzia mondiale, nella speranza che questa operi senza discriminare in base alla nazionalità, alla razza, alla religione, agli schieramenti politici; che sia efficace e tempestiva nei suoi interventi; e che sia immune da comportamenti criminali (corruzione e storno di fondi). Purtroppo, l’esperienza dimostra che le grandi organizzazioni internazionali raramente soddisfano questi requisiti. Tuttavia, se le grandi organizzazioni internazionali falliscono, è lecito attendersi che le organizzazioni nazionali siano migliori? Ed è accettabile che, una volta nazionalizzata la solidarietà obbligatoria, l’aiuto fornito dipenda dalla capacità contributiva dei residenti nello stato di appartenenza delle vittime e che i singoli stati spendano le imposte di solidarietà privilegiando i propri poveri, il che equivale ad affermare che il diritto a ricevere la carità è commisurato alla ricchezza dei vicini di casa?
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7. Il liberismo non è capitalismo corporativo, assenza di regole, apologia dell’egoismo Gli ultimi paragrafi di questo capitolo richiamano l’attenzione su ulteriori temi che hanno alimentato caratterizzazioni erronee o parzialmente erronee della visione liberista, e che quindi meritano qualche precisazione. Si tratta di temi che saranno trattati in maggior dettaglio nei capitoli successivi di questo volume, ma che si ritiene comunque utile menzionare in questa sede, che offre una prospettiva più generale. Il liberismo è stato di frequente associato con il capitalismo, un’espressione la cui attuale accezione denigratoria risale al XIX secolo, quando indicava un sistema economico in cui i grandi investitori – si pensi ai banchieri e industriali dell’Ottocento, prima nel Regno Unito e poi negli Stati Uniti – usavano l’apparato statale per limitare la concorrenza e acquisire privilegi. In realtà, il capitalismo non è altro che un contesto in cui i produttori svolgono la propria attività avvalendosi anche di macchinari, il cosiddetto “capitale fisso”. Naturalmente, la percezione attuale non riguarda il capitalismo, poiché la decisione di impiegare dei macchinari è priva di contenuti morali. Riguarda, invece, il cosiddetto capitalismo corporativo o di relazione, ove i requisiti per avere successo non sono la competitività e la capacità di soddisfare i consumatori, bensì la qualità delle relazioni con il potere statale e gruppi d’interesse selezionati. Scopo di tali relazioni è influenzare l’attività normativa, in modo tale che questa generi situazioni di privilegio – le cosiddette rendite normative – a favore dei produttori esistenti (capitalisti), a danno dei consumatori e dei potenziali concorrenti (altri capitalisti). Per quanto si è detto in questo capitolo e in quello precedente, il liberista non può che seguire i passi dell’economista francese Frédéric Bastiat (1850), che non esitò a deprecare i capitalisti del suo tempo non perché capitalisti, ma perché esponenti del capitalismo corporativo e interessati a conseguire e mantenere privilegi alimentando e manipolando il potere statale. Il liberismo, infatti, non ammette che lo stato intervenga sulle scelte degli individui, ostacolando le scelte sia dei potenziali concorrenti con barriere all’entrata e varie forme di regolamentazione, sia dei consumatori con imposte e protezionismo commerciale. In secondo luogo, liberismo non significa assenza di regole, bensì assenza di regole statali o, come precisò Murray Rothbard (1982), assenza di regole emanate da un ente in regime di monopolio normativo che ricorre alla forza per imporre la propria volontà. La visione liberista non
LIBERISMO, CAPITALISMO E CAPITALISMO CORPORATIVO
LIBERISMO E ANARCHIA
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LIBERISMO E RIGORE DI BILANCIO
I PRINCIPI
esclude che l’individuo possa delegare ad altri il potere di regolamentare determinate attività e le interazioni fra individui, facilitando la cooperazione. Per esempio, un insieme di professionisti può delegare a terzi il potere di certificare i requisiti e le competenze dei singoli. Si creerebbero così, per esempio, uno o più ordini professionali, i quali conferirebbero ai singoli iscritti/aderenti una sorta di marchio di qualità, la cui credibilità dipenderebbe dalla serietà dell’ente certificatore. Spetterà ai clienti, in questo caso, decidere se affidarsi ai membri dei vari ordini e risparmiarsi l’onere di raccogliere le informazioni; o procedere a caso; o raccogliere autonomamente opinioni sui singoli professionisti. Il punto essenziale, infatti, non è la presenza o l’assenza di regole, bensì il pericolo che il potere di regolamentazione sia un abuso da parte di un monopolista che usa la forza. L’alternativa liberista, naturalmente, è il conferimento di tale facoltà a un ente – per esempio, lo stato concorrenziale – senza che l’ente vincoli in alcun modo chi non ha conferito nulla e non intende sottoporsi alla procedura prevista dal regolamentatore. I liberisti sono anche stati accusati di essere fautori di politiche restrittive di bilancio pubblico – la cosiddetta austerity. Come si può evincere da quanto esposto nelle pagine che precedono, poiché il liberista si oppone a qualunque forma d’imposta, egli nega la possibilità stessa di spesa statale e quindi l’esistenza stessa di un bilancio pubblico (cioè statale). Sotto questa luce, pertanto, il problema dell’austerity non si pone nemmeno. Ciò premesso, se si dà per scontato che esiste un bilancio statale, e quindi una spesa alimentata da imposte, la visione liberista impone il pareggio di bilancio, e non un avanzo (l’austerity), a meno che tale avanzo non sia necessario per il rimborso di debiti contratti in precedenza. Il liberista è contrario al disavanzo di bilancio poiché viola il principio di responsabilità individuale. Se il disavanzo è finanziato con indebitamento, infatti, il debito equivale a una promessa d’imposte sui contribuenti futuri che, nella maggior parte dei casi, non hanno la possibilità di opporsi. Al più, possono rifiutarsi di onorare il debito quando questo giunge a scadenza, perfezionando così il trasferimento di risorse dai creditori non soddisfatti a “debitori” in parte defunti. Se il disavanzo è finanziato attraverso l’emissione di moneta cartacea, invece, l’imposta va cercata nel minore potere d’acquisto dell’unità monetaria, un tema sul quale si tornerà nella quarta parte di questo volume. Insomma, più che la cosiddetta austerity, il liberista difende i principi di responsabilità e trasparenza. In particolare, se una collettività è a favore di un bilancio pubblico in disavanzo, la monetizzazione è preferibile al debito: mentre il
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costo della prima ricade in massima parte sui fautori del disavanzo, il secondo ricade su chi non ha avuto voce in capitolo. In definitiva, è lecito affermare che i liberisti sono apologeti dell’egoismo? Ognuno di noi – liberista o no – è libero di elaborare opinioni ed esprimere giudizi di merito sui sentimenti e comportamenti altrui. Giorgio, per esempio, può ammirare l’altruismo di Carla, deprecare l’egocentricità di Roberto e la sregolatezza di Giovanni. Non c’è nulla di liberista o anti-liberista in queste valutazioni, che sono del tutto soggettive. Ognuno ha le inclinazioni che gli sono proprie, per quanto deprecabili esse siano. La mancanza di altruismo rientra fra queste. Tuttavia, il liberista ritiene che esse debbano essere tollerate a meno che non si trasformino o stiano per trasformarsi in atti di concreta e immediata aggressione. In altri termini, il liberista rispetta le scelte e le preferenze altrui, anche quando non le condivide. Se per egoismo s’intende mancanza di empatia e generosità, il liberista, a differenza del socialista, non si considera autorizzato a obbligare l’egoista a comportarsi come se fosse altruista e di spirito nobile; ma questo non significa necessariamente approvazione o condivisione. Infine, si ritiene opportuno chiarire che il liberismo non ha affatto una visione materialistica della natura umana e delle relazioni fra individui. L’economista si interessa alle azioni umane che presentano un costo-opportunità, ove tale termine indica il sacrificio a cui si va incontro quando, per esempio, si sceglie A rinunciando a B. Si ipotizza così che l’individuo segua le proprie preferenze, stimi e confronti i costi e benefici del proprio comportamento e agisca al fine di migliorare la propria condizione. Nondimeno, così come il liberista rifiuta un’interpretazione meccanicistica della storia (il futuro è incertezza), egli nega che gli individui siano macchine impegnate a calcolare i flussi di costi e benefici esclusivamente materiali. Si pensi ai comportamenti dettati da amicizia, carità e altruismo, o da principi morali (per esempio, lavorare al meglio delle proprie possibilità pur sapendo che non si è sorvegliati). Benché l’azione economica faccia riferimento all’insieme di atti che hanno per oggetto lo scambio di beni o servizi, le nostre decisioni di scambio sono sì guidate da preferenze materiali, ma anche da sentimenti e da codici morali. Certamente, se “materiale” significa “soggetto a un vincolo di scarsità” (Ludwig von Mises (1949) e Lionel Robbins (1932)) oppure “desiderio di migliorare la propria condizione” (Max Weber, 1920), è innegabile che ogni scelta economica è sempre materiale e sempre riflette la natura umana, in tutte le epoche e in tutti i paesi. Ciò spiega il contenuto “materialista” dell’impostazione liberista; in questo senso, allora, siamo tutti materialisti da quando siamo usciti dal giardino dell’Eden, e forse anche prima.
APOLOGIA DELL’EGOISMO?
MATERIALISMO
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I PRINCIPI
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PARTE II
IMPRESE E SISTEMI FISCALI
IMPRESE: IMPOSTE, SUSSIDI E BARRIERE ALL’ENTRATA
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CAPITOLO 3
IMPRESE: IMPOSTE, SUSSIDI E BARRIERE ALL’ENTRATA 1. Il mondo delle imprese I fondamenti presentati e illustrati nei capitoli precedenti trovano ampia applicazione nel mondo delle imprese, ove i principi liberisti sono frequentemente violati dall’intervento statale con imposte, sussidi e regolamentazione. Come spiegato da Armen Alchian e Harold Demsetz (1972), e più recentemente da Richard Langlois (2019), l’impresa è qualificabile come un complesso di contratti volontari che fanno a capo a un “meccanismo intelligente” sul quale i proprietari esercitano un insieme di diritti. Più precisamente, aggiungiamo noi, un’impresa è un’organizzazione finalizzata alla produzione di beni e servizi, uno strumento produttivo: essa è definita da un insieme di contratti e agisce in base a quanto deciso dai – e per conto dei – titolari delle quote di proprietà, titolari che per semplicità nelle pagine seguenti saranno definiti come azionisti o proprietari. Il meccanismo è in origine ideato dai fondatori e si evolve, sempre seguendo logiche imprenditoriali. Coinvolge più individui e presenta caratteristiche diverse, a seconda del contesto in cui opera, dell’attività che svolge, delle risorse che i proprietari conferiscono e della loro disponibilità a partecipare al cosiddetto “rischio d’impresa”. Come si è detto, obiettivo prevalente dell’imprenditore è dare vita a un’organizzazione finalizzata alla produzione di ricchezza (il cosiddetto valore aggiunto), parte della quale genera maggior benessere per chi acquista i prodotti dell’impresa, e parte remunera coloro impegnati nell’attività: l’imprenditore stesso e i proprietari dei fattori produttivi e del meccanismo/organizzazione, fra cui i dipendenti/lavoratori. Gli azionisti, a loro volta, possono decidere di utilizzare i proventi per espandere l’attività in essere, avviare altre attività, accantonare riserve in previsione di eventuali future difficoltà, o consumare e accrescere così il proprio benessere immediato. Naturalmente, si ha distruzione di ricchezza (per-
IL CONCETTO D’IMPRESA
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L’ESSENZA DEL MERCATO
IMPOSTE
IMPRESE E SISTEMI FISCALI
dite) se quanto gli acquirenti sono disposti a pagare è inferiore al costo delle risorse impiegate nel processo produttivo. Comprensibilmente, l’imprenditore si attiva solo se, dopo aver constatato un’opportunità di mercato, ritiene di essere in grado di soddisfare eventuali acquirenti proponendo loro nuovi prodotti o beni e servizi noti, ma a prezzi inferiori a quelli concorrenti. Gli acquirenti non possono che beneficiare dalla presenza di una vivace attività imprenditoriale, grazie alla quale potranno accedere a una più ampia gamma di prodotti fra cui scegliere, spesso con diverse combinazioni qualità/prezzo. Se i nuovi prodotti e i prezzi proposti sono di loro gradimento, il benessere degli acquirenti aumenterà. Se i prodotti sono deludenti, i consumatori si asterranno dall’acquisto e il loro benessere rimarrà inalterato. Dunque, il successo di un’impresa dipende dal gradimento espresso dall’insieme degli acquirenti, dall’abilità con cui i produttori reperiscono (a costi ragionevoli) e organizzano le risorse necessarie, nonché dalla capacità di far fronte a costi impropri quali imposte, tasse e regolamentazione, non contemplati da contratti volontariamente sottoscritti. Il ruolo dei costi impropri è naturalmente importante. Se eccessivi, possono provocare il fallimento anche di imprese tecnologicamente avanzate che offrono prodotti eccellenti. Per un liberista la struttura dei costi e dei benefici dell’attività d’impresa non può che essere il risultato dell’interazione volontaria fra gli imprenditori, i proprietari dei fattori produttivi e gli acquirenti; e solo fra questi. Dalle loro scelte e dai loro errori emergono prezzi e costi, profitti e perdite. È questa l’essenza del mercato, definito come un insieme di scambi volontari. I costi impropri sono un abuso, o meglio, un sopruso. Come si è detto nei capitoli precedenti, il principio di pari dignità afferma che a nessuno è permesso sostituire con la forza le proprie preferenze e le proprie scelte alle preferenze e alle scelte altrui. L’autorità statale può intervenire con suggerimenti, come se fosse un consulente specializzato nella produzione di informazioni, ma non è legittimata a costringere i protagonisti del mercato a comprare beni e servizi che spontaneamente non acquisterebbero, né a trasferire risorse contro la loro volontà. Ciò detto, le imposte e la regolamentazione sono un dato di fatto. Anche se Kip Viscusi e i suoi coautori (2018) documentano come la letteratura accademica sia cauta nel sostenere il ricorso a tali misure con argomentazioni di efficienza, uno stato moderno non rinuncia a rivolgersi alle imprese per far fronte alle proprie esigenze finanziare. Si tratta di somme non trascurabili. Per esempio, se negli anni recenti la pressione fiscale complessiva nei paesi industrializzati si è aggirata intorno al
IMPRESE: IMPOSTE, SUSSIDI E BARRIERE ALL’ENTRATA
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34% del prodotto interno lordo, nel 2018 la pressione fiscale e contributiva sui redditi delle imprese era del 39% in Europa e del 59% in Italia. I paragrafi che seguono, tuttavia, non intendono ricordare perché l’imposizione fiscale in generale sia un abuso, bensì illustrare perché l’imposizione fiscale sull’attività d’impresa non abbia ragione di essere e contribuire a chiarire perché il regime fiscale debba essere configurato diversamente. Analogamente a quanto osservato per le imposte, è altresì improbabile che le autorità rinuncino spontaneamente alle attività di regolamentazione, uno degli strumenti preferiti per assicurare posizioni di privilegio a produttori selezionati e raccogliere consenso presso coloro che ritengono che scarsità o incertezza possano essere affrontate e risolte con provvedimenti paternalistici. Si pensi, per esempio, al costo che un’impresa deve sostenere per essere quotata e raccogliere capitale di rischio: bilancio IAS, bilanci trimestrali, presenza di comitati con amministratori indipendenti, comunicazioni varie e altro ancora. Anche la regolamentazione è un abuso e spesso una fonte di danni. Quando essa è concepita per aumentare i costi d’ingresso per nuove imprese in concorrenza con quelle esistenti, il costo dei provvedimenti è pagato dai proprietari dei fattori produttivi, i quali non potranno vendere le proprie risorse e servizi a imprenditori che altrimenti sarebbero stati disposti ad acquistarli, presumibilmente a condizioni più vantaggiose; nonché dai consumatori, che vedranno ridotte le possibilità di accedere a prodotti nuovi, o migliori, o a prezzi inferiori. Quando la regolamentazione ha risvolti paternalistici (a scapito della libertà di scelta), il costo sarà pagato dalle imprese maggiormente innovatrici, che avranno più difficoltà a percorrere nuove strade, dai proprietari dei fattori produttivi che sarebbero disposti ad affrontare rischi maggiori se avessero la possibilità di ottenere remunerazioni adeguate, e dai consumatori, che soffriranno per la crescita rallentata e la ridotta possibilità di scelta. In sintesi, questo capitolo si prefigge di approfondire l’esame delle distorsioni legate all’intervento pubblico nelle attività produttive. In particolare, nelle due sezioni che seguono si sottolineano le contraddizioni legate all’imposizione fiscale sulle imprese e si illustra come tali aggravi debbano e possano essere aboliti. Nelle sezioni 4-6 si spiega perché gli interventi a sussidio delle imprese sono in realtà controproducenti: non favoriscono l’occupazione e non incoraggiano l’imprenditorialità produttiva. Nell’ultima parte, infine, si pone l’accento sulle barriere all’entrata (sezioni 7-9) e sulle ambiguità del dibattito che ha per oggetto i monopoli naturali (sezione 10).
REGOLAMENTAZIONE: BARRIERE ALL’ENTRATA E PATERNALISMO
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IMPRESE E SISTEMI FISCALI
2. L’imposizione fiscale e l’impresa
L’IMPRESA COME SOSTITUTO D’IMPOSTA
Come si è accennato, per un liberista l’imposizione fiscale non ha fondamento. Questo vale a maggior ragione per le imposte sull’attività d’impresa. Per un liberista un’azione economica non può che fare capo agli individui. È palese che un’impresa, un’organizzazione definita da un insieme di contratti, in quanto tale non percepisce reddito, né detiene ricchezza. I percettori/detentori sono gli individui, non l’architettura organizzativa, gli insiemi di contratti e i macchinari (fra i quali i robot) che costituiscono l’impresa. Contrariamente a quanto stabilito dalle norme in vigore, pertanto, gli effettivi soggetti d’imposta sono i consumatori, che beneficiano dei prodotti acquistati; i proprietari dei fattori produttivi, che beneficiano di una rendita (un surplus) ogniqualvolta vendono risorse a un prezzo superiore al valore che essi attribuiscono a quelle risorse; i proprietari dell’impresa, a cui spetta il residuo (i profitti, quando positivi). In altre parole, anche se l’impresa può avere la cosiddetta personalità giuridica, ovverosia essere considerata dal diritto un soggetto autonomo titolare di diritti e obblighi, questa rimane pur sempre una finzione, per cui non ha senso affermare che essa può essere soggetto d’imposta per il solo fatto che esiste giuridicamente, che è uno strumento attraverso il quale gruppi di individui interagiscono con altri gruppi di individui. L’impresa, infatti, non può essere un soggetto d’imposta poiché solo gli individui possono essere soggetto d’imposta, e l’impresa non è un individuo. A tale affermazione si potrebbe obbiettare che in realtà l’impresa oggi opera come un sostituto d’imposta e riscuote per conto dello stato l’imposta che in realtà grava sugli individui. Posto in questi termini, allora, il quesito di fondo è se sia opportuno che un sistema fiscale coerente riscuota l’imposta attraverso l’impresa; o se non sia invece preferibile che si rivolga direttamente al contribuente – individuo o nucleo famigliare. Come sempre, è bene richiamarsi ai principi fondamentali. Al liberista che prende atto dell’impossibilità di azzerare la pressione fiscale preme che sia comunque rispettato il principio di responsabilità individuale. In questo caso si tratta dell’obbligo di rendicontazione pubblica a cui l’autorità statale è tenuta, e dell’imposizione di sanzioni credibili a carico di coloro che hanno violato gli impegni assunti nei confronti del contribuente. In sostanza, ogni contribuente dovrebbe sapere con sufficiente precisione quante risorse cede all’autorità statale e in cambio di che cosa. Quando non esiste controprestazione da parte dello stato si tratta di un
IMPRESE: IMPOSTE, SUSSIDI E BARRIERE ALL’ENTRATA
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trasferimento di risorse, e il contribuente dovrebbe essere informato sulle somme interessate e sul beneficiario o sull’insieme dei beneficiari di tale trasferimento. Sotto questo punto di vista, e come nella maggior parte dei casi, è evidente che la riscossione di un tributo attraverso l’impresa si configura di fatto come un trasferimento: è una donazione forzosa all’autorità statale, senza controprestazione chiaramente individuabile. Non consente di stabilire quali siano gli individui e le famiglie interessate al prelievo, né di quantificare quanto il singolo individuo o il singolo nucleo famigliare stia effettivamente comprando (obbligatoriamente), che cosa riceva in cambio, che cosa e perché stia “donando”, e come tale “dono” sia impiegato.
3. Gli effetti indiretti Considerare l’impresa sostituto d’imposta ha conseguenze sull’impresa stessa. L’imposizione fiscale sull’attività d’impresa solitamente considera base imponibile l’utile che essa produce. Ciò vale anche quando la base apparente è il valore aggiunto: a parità di remunerazione dei fattori produttivi, infatti, un’imposta sul valore aggiunto incide necessariamente sulla grandezza residuale, che è appunto l’utile. In particolare, quando la base imponibile è il valore aggiunto, possono verificarsi due situazioni. Nella prima, l’imprenditore non modifica i prezzi di vendita e si limita a trasferire all’erario quanto dovuto. Gli utili si riducono per lo stesso ammontare e in questo caso i contribuenti effettivi – i soggetti d’imposta – sono gli azionisti/proprietari, i quali pagano in proporzione al numero di azioni possedute. Si noti che in questo caso saranno maggiormente penalizzati gli azionisti delle imprese a bassa redditività, le quali presentano un rapporto fra utili e valore aggiunto relativamente contenuto. In altri termini, quando l’impresa è passiva (non reagisce), l’aliquota è fissa e l’ammontare degli utili conseguiti è all’incirca proporzionale alla ricchezza finanziaria posseduta dagli individui, tassare l’impresa significa seguire un criterio di imposizione vagamente proporzionale alla ricchezza finanziaria. Si noti che se la base imponibile fossero gli utili, e non il valore aggiunto, si penalizzerebbero gli azionisti delle imprese più redditizie. Pertanto, a seconda della base imponibile selezionata – utili o valore aggiunto – si penalizzano le attività più rischiose (che si presume offrano margini di profitto più elevati) e quelle più integrate (che ricorrono meno a fornitori esterni e hanno quindi un valore aggiunto relativa-
IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (I)
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IMPOSTA SUL VALORE AGGIUNTO (II)
IMPRESE E SISTEMI FISCALI
mente elevato). Naturalmente, ciò non esclude che alla fine siano colpite le une e le altre. Nel contesto appena delineato, quindi, ricorrere all’impresa come sostituto d’imposta con il pretesto della personalità giuridica ha conseguenze ingiustificate sulle caratteristiche delle imprese stesse, anche quando queste non modificano le proprie strategie di prezzo. L’artificio del sostituto d’imposta non solo consente allo stato di sottrarsi alla rendicontazione. Esso in realtà è un velo dietro il quale si nasconde la tassazione degli azionisti/proprietari e, a seconda dei casi, scoraggia l’investimento nelle attività imprenditoriali più innovative (e dunque rischiose) e penalizza l’impresa integrata. Insomma, si hanno conseguenze certamente indesiderabili (la prima), e altre quanto meno discutibili. Per un liberista, infatti, non esiste motivo per incoraggiare o frenare la propensione dell’individuo al rischio, e non è possibile definire a priori le caratteristiche ideali dell’impresa, fra cui il grado di integrazione. Il quadro si complica ulteriormente quando gli azionisti delle imprese reagiscono a fronte dell’imposta e si adoperano per sottrarsi, almeno in parte, alla pressione fiscale esercitata attraverso il velo del sostituto d’imposta. Come accennato nel paragrafo precedente, è probabile che una prima serie di risposte/reazioni riguardi i progetti più redditizi, che sono anche i più rischiosi. Questi saranno ridimensionati a parità di concentrazione della proprietà, oppure daranno luogo a una frammentazione della proprietà al fine di ridurre il rischio per il singolo investitore. È anche possibile che si esternalizzino alcune funzioni produttive per ridurre il valore aggiunto a parità di utile. Se l’imprenditore gode di un qualche potere di mercato, egli potrà aumentare il prezzo di vendita del bene prodotto e/o ridurre i prezzi corrisposti ai fornitori. Non è questa la sede per esaminare la tassonomia dei risultati possibili, i quali riguardano, naturalmente, anche le cosiddette “catene del valore internazionali” (Foss et al. 2019). Il punto essenziale è che in questi casi la distribuzione della pressione fiscale dipende dalle caratteristiche dei mercati dei beni e servizi e dei fattori produttivi, e dai processi produttivi che caratterizzano le relazioni funzionali fra i proprietari dell’impresa, i proprietari dei fattori produttivi utilizzati, i fornitori e gli acquirenti del prodotto finale. È così pressoché impossibile stimare chi sia il contribuente effettivo e accertare quali principi e criteri impositivi emergano. Si tratta di imposizione sui proprietari dei fattori produttivi? Sul reddito dei fornitori? O sul reddito degli azionisti? Si tratta di un’imposta progressiva? regressiva? proporzionale? Infine, è sicuramente inimmaginabile che tutti gli attori coinvolti abbiano una chiara percezione dell’ammonta-
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re corrisposto. Insomma, violato il requisito di trasparenza e accentuato l’elemento di trasferimento, risulta necessariamente privo di significato l’onere di rendicontazione (la cosiddetta accountability).
4. I sussidi alle imprese non sostengono l’occupazione Nei paragrafi precedenti si è trattato d’imposte, sottolineando come le imprese non possano essere soggetto d’imposta e come il loro ruolo di sostituto d’imposta sia indesiderabile. Meccanismi di ragionamento analoghi spiegano perché non ha fondamento considerare l’impresa in quanto tale come beneficiario di sussidi (i contratti non sono percettori di benefici) e perché, comunque, un liberista ritiene ingiustificata l’erogazione di sussidi a favore degli attori coinvolti nella vita di un’impresa. Forse nei secoli scorsi era plausibile sostenere che alcuni settori svolgevano un ruolo chiave sotto il profilo militare – si pensi all’importanza del settore agricolo o di quello energetico e minerario – e che quindi fosse necessario incoraggiare gli sforzi degli imprenditori in tali comparti e remunerare generosamente i proprietari dei fattori produttivi utilizzati. Tuttavia, oggi la visione politico-militare appare un motivo meno rilevante rispetto al passato, ed è limitata all’opportunità di perseguire politiche parzialmente autarchiche in alcuni settori qualora si diventi oggetto di sanzioni da parte di tutta la comunità internazionale o si decida di non commerciare con paesi dai quali si dipende: si pensi all’energia o all’approvvigionamento di materie prime specifiche. Per un verso non sembra questo il caso per la maggioranza dei paesi, e in particolare per quelli dove i principi di libertà politica sono rispettati e dove non si nutrono sentimenti ostili verso il resto del mondo. Per altro verso una politica autarchica non necessita di sussidi alla produzione, poiché a seguito di un blocco delle importazioni i prezzi dei beni e servizi in oggetto salirebbero comunque sul mercato interno, e le imprese e gli importatori si muoverebbero ben prima che il blocco entri in vigore. Esistono altre giustificazioni per costringere il contribuente a effettuare trasferimenti a favore delle imprese – o meglio, di coloro coinvolti a vario titolo nel processo produttivo di un’impresa? Poiché non si tratta di donazioni a favore di individui bisognosi – lo ripetiamo, le imprese sono organizzazioni programmate a cui fanno riferimento insiemi di contratti – non si possono certo invocare temi legati alla solidarietà sociale. In effetti, si è soliti proporre tre altri insiemi di giustificazioni per l’erogazione di sussidi: aumentare l’occupazione, premiare la competitività e attenuare le conseguenze di eventi negativi imprevisti (la sfortuna). In
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LA GIUSTIFICAZIONE OCCUPAZIONALE (I)
LA GIUSTIFICAZIONE OCCUPAZIONALE (II)
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questa sezione e in quella successiva si vedrà perché queste giustificazioni sono poco convincenti. Gli argomenti a favore di sussidi per sostenere attività produttive a fini occupazionali sono deboli per due motivi. In primo luogo, perché la disponibilità di un datore di lavoro ad acquistare servizi lavorativi dipende dalle caratteristiche e dalle preferenze degli individui-lavoratori e dagli ostacoli al normale funzionamento del mercato del lavoro. In particolare, se nessuno è disposto ad acquistare i servizi lavorativi offerti da Roberto al salario “corrente”, ciò significa che Roberto pretende il salario corrente sbagliato, ovverosia il salario corrente di lavoratori che un eventuale datore di lavoro reputa più utili/produttivi di Roberto. Per contro, se nessuno è disposto a riconoscere a Roberto un salario che corrisponde effettivamente al valore della sua produttività, allora si deve concludere che il funzionamento del mercato del lavoro è in qualche modo ostruito – per esempio da norme che impediscono al salario di Roberto di essere pari al valore dei servizi lavorativi che egli offre. In altri termini, Roberto è disoccupato perché egli pretende una remunerazione superiore al valore di ciò che egli produce (disoccupazione volontaria), o perché a un potenziale imprenditore non è consentito comprare i servizi di Roberto corrispondendogli un salario che questi sarebbe pronto ad accettare (disoccupazione involontaria). In quest’ultimo caso, dunque, siamo in un contesto dove Roberto e il datore di lavoro troverebbero un accordo, ma a un salario che l’autorità politica reputa insoddisfacente e che quindi impedisce. Ovviamente, il problema non è né Roberto, né l’impresa. In effetti, un liberista non accetta che l’autorità politica s’intrometta e vieti un accordo che sarebbe volontariamente sottoscritto da due individui consapevoli di quanto stanno facendo. Naturalmente, se si reputa che il salario corrente di Roberto sia eccessivamente basso, si tratta di una questione di povertà, e quindi di sussidi all’individuo; certamente non di sussidi alle imprese e di politica industriale. Inoltre, se i membri della comunità davvero ritengono che Roberto sia meritevole d’aiuto, essi non mancheranno di aiutare Roberto con donazioni (proprie e volontarie). Insomma, la soluzione più semplice e ragionevole è un eventuale sussidio al povero, non al potenziale datore di lavoro, datore di lavoro che peraltro continuerebbe a non assumere Roberto se non al suo salario corrente, anche dopo l’erogazione del sussidio. In secondo luogo, le risorse trasferite da alcuni individui (i contribuenti) ad altri individui (fra cui i soci delle imprese sussidiate) hanno effetti indiretti. Se i contribuenti non reagiscono alla maggiore pressione fiscale necessaria per finanziare i sussidi aumentando lo sforzo lavorativo
IMPRESE: IMPOSTE, SUSSIDI E BARRIERE ALL’ENTRATA
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e/o la produttività, il minor potere d’acquisto a loro disposizione si rifletterà sulle quantità di beni e servizi domandati, sulla produzione e dunque sui livelli occupazionali, compensando l’effetto legato al maggior potere d’acquisto conseguito dai beneficiari dei sussidi. In altri termini, a parità di altre condizioni, il potere d’acquisto trasferito da una categoria di individui (i contribuenti) ad altre categorie di individui (gli azionisti delle imprese) non garantisce un effetto netto positivo in termini produttivi e occupazionali, nemmeno in termini di disponibilità di specifici beni magari consumati dai meno abbienti. Certamente, se i contribuenti reagissero aumentando il proprio sforzo lavorativo per mantenere inalterato il proprio potere d’acquisto, gli effetti sull’attività produttiva – e forse anche sulla domanda di lavoro e sui livelli salariali – sarebbero positivi, ancorché a danno dei lavoratori indotti a impegnarsi più di quanto non sarebbero stati disposti a fare altrimenti. Tuttavia, non è certo che tali effetti interessino anche i disoccupati volontari, i quali potrebbero continuare a offrire prestazioni poco apprezzate dalle controparti, mentre è certo che la scelta di dedicare più tempo e risorse ad attività lavorative comporta comunque un costo. Anche se dimenticassimo per un istante che le utilità degli individui non sono né confrontabili né aggregabili, non è affatto scontato che il beneficio di cui godrebbero gli azionisti e il dubbio beneficio di cui godrebbero i disoccupati involontari sovracompensino il costo imposto ai contribuenti: minor potere d’acquisto o maggior impegno lavorativo a scapito dei consumi non materiali.
5. Solidarietà a imprese promettenti e investitori sfortunati? Un secondo insieme di argomentazioni riguarda i sussidi alle imprese (forse) vincenti e agli investitori (forse) sfortunati. Nel primo caso si tratta di sovvenzioni a imprese che presentano progetti di sviluppo promettenti, che l’autorità reputa meritevoli di un concreto e obbligatorio incoraggiamento da parte del contribuente. Nel secondo caso si tratta di trasferimenti – o promesse di trasferimenti – a favore di coloro che hanno subito perdite dovute alla cattiva gestione di talune imprese. Su questi temi proponiamo diversi ordini di brevi riflessioni. In primo luogo, non è chiaro perché un progetto di sviluppo imprenditoriale realmente promettente abbia necessità di aiuti statali per affermarsi. Se l’impresa che si suppone meritevole di sostegno da parte del contribuente stenta a raccogliere presso potenziali investitori le risorse finanziarie necessarie – prestiti e capitale di rischio – allora è lecito supporre che il pro-
SI DEPRIME L’IMPRENDITORIALITÀ PRODUTTIVA
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SEGNALI CREDIBILI COME ALTERNATIVA AL SUSSIDIO
SUSSIDI E PATTI INTERGENERAZIONALI
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getto sia meno convincente di quanto non appaia al burocrate/politico che approva il trasferimento. È quanto meno sospetto che un produttore riesca a convincere un’autorità che investe i soldi di altri e non deve rendere conto a nessuno (lo stato), e stenti a trovare credito fra coloro che rischiano risorse proprie. Poco importa se il progetto è altamente innovativo o ad alto contenuto tecnologico: se un’impresa non è competitiva nei settori cosiddetti “avanzati”, le risorse impiegate in quelle imprese e in quei progetti sono comunque risorse sprecate. Anzi, con il crescere dei trasferimenti a favore di progetti innovativi, a elevato contenuto tecnologico o a preteso alto valore sociale si corre il rischio di alimentare una corsa all’aiuto di stato. Se così fosse, si finirebbe per premiare la capacità di confezionare e presentare un’idea o di coltivare relazioni privilegiate con i decisori statali, e di penalizzare gli imprenditori realmente più produttivi. Insomma, se per un verso si sprecano risorse in iniziative di dubbio valore, per altro verso si corre il rischio di finanziare progetti che sarebbero realizzati comunque, anche se in questo caso con piena soddisfazione dell’autorità pubblica che potrà vantarsi di aver sostenuto progetti vincenti. Il costo sarebbe però elevato: quando si trasferiscono risorse alle imprese sussidiate, e i contribuenti reagiscono riducendo i risparmi, meno risorse rimangono disponibili per le imprese non sussidiate. Si penalizzano così progetti che i contribuenti ritengono più validi di quelli sussidiati. In altri termini, una politica di sussidio alle imprese rischia di essere controproducente, oltre che costosa per i contribuenti. Del resto, è questa una seconda riflessione, non è accettabile che il rischio imprenditoriale gravi sulla massa dei contribuenti, i quali non hanno possibilità di influenzare le decisioni dell’impresa e non sono retribuiti, se non in forma indiretta e incerta, per l’investimento forzoso effettuato. Ancora una volta, se la qualità del progetto fosse evidente, basterebbe pubblicizzare l’iniziativa. In un simile contesto, ulteriori investitori non esiterebbero ad aderire spontaneamente, analogamente a quanto succede quando consulenti internazionali si esprimono sul valore di aziende e progetti promettenti. Se tale attività di informazione da parte dell’autorità avesse poco successo, allora sarebbe lecito nutrire dubbi sulla credibilità dell’autorità, il che getterebbe nuove ombre sulla capacità di questa di selezionare e premiare gli ipotetici vincenti. Infine, non sembra accettabile appellarsi a un patto intergenerazionale, in virtù del quale ogni generazione si gioverebbe dei benefici generati da investimenti di lungo periodo avviati dalle generazioni precedenti e si impegnerebbe a finanziare a sua volta progetti di lungo periodo a favore delle generazioni successive. In primo luogo, un patto non è tale se non è
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volontariamente sottoscritto dai contraenti interessati. Inoltre, se si trattasse davvero di un patto intergenerazionale, esso non dovrebbe coinvolgere chi non ha figli, e resterebbe da spiegare perché sarebbe compito dello stato scegliere in quale forma e con quali somme un genitore debba favorire il futuro dei propri figli. Più semplicemente, e in analogia con quanto osservato nella sezione precedente, se un’impresa fatica a raccogliere risorse finanziarie perché ha difficoltà ad accedere al mercato dei capitali, allora la soluzione consiste nel liberalizzare il mercato dei capitali, non nel gravare il contribuente. Concludiamo con un commento sulla terza giustificazione per l’erogazione di sussidi, ovverosia il caso dei cosiddetti “risparmiatori truffati” o semplicemente sfortunati. Come si evince dai primi due capitoli di questo volume, per un liberista il contribuente non ha il dovere di effettuare donazioni alle vittime di truffe o sfortuna, così come le vittime di truffe o sfortuna non hanno il diritto di rivalersi sulle proprietà dell’insieme dei contribuenti o dei contribuenti più abbienti. Vale, infatti, il principio della responsabilità individuale, in virtù del quale l’onere di risarcire la vittima ricade esclusivamente sull’aggressore, se l’aggressore esiste e nella speranza che questi sia in condizione di pagare. Naturalmente, ciò non impedisce che ogni individuo doni spontaneamente alle vittime, soprattutto quando queste si trovano in stato di povertà, quando la sfortuna è realmente tale e il danno non è emerso in seguito a errori o scelte consapevoli successivamente rivelatasi avventate. Non è certo questo il caso, è opportuno sottolinearlo, di chi effettua investimenti sbagliati in azioni, obbligazioni o conti di deposito presso aziende che si rivelano meno prospere di quanto previsto; o di chi acquista obbligazioni notoriamente rischiose o immobili in aree note per essere soggette a slavine ed esondazioni. In particolare, il principio di responsabilità individuale non significa che gli individui sprovveduti debbano essere necessariamente abbandonati a loro stessi. Le vittime di raggiri si rivolgeranno al sistema giudiziario. Tuttavia, in assenza di aggressione/coercizione esse non potranno che appellarsi alla generosità altrui. Se il singolo non ritiene sia suo dovere morale donare allo sfortunato, allora non sussiste nemmeno un dovere collettivo, poiché la collettività è composta da individui, i quali precedono il formarsi di una collettività. Si può certamente osservare che in molte società moderne si registra un ampio accordo sull’opportunità di donare risorse a un fondo gestito da un’autorità centrale, alla quale si attribuisce il compito di alleviare le situazioni di estrema povertà. Si tratta tuttavia di un contesto ben diverso da quello oggetto di queste pagine, che
RISPARMIATORI SFORTUNATI E PRINCIPIO DI RESPONSABILITÀ
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non riguardano la povertà, bensì coloro coinvolti nella gestione scadente o nella sorte infausta che ha caratterizzato un’impresa. Parimenti, quanto sin qui affermato non esclude che un terzo – un ente statale o un privato – intervenga fornendo al pubblico consigli e documentazione idonei a migliorare l’informazione, non solo in ambito finanziario. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di introdurre imposte o erogare sussidi.
6. Imposte e sussidi: di quanto si tratta? Supponiamo che un ipotetico legislatore di orientamento liberista abbia successo nei suoi tentativi volti ad azzerare le imposte sulle imprese e i sussidi erogati a loro favore. Quali sarebbero gli effetti sul bilancio dello stato? Se nel caso italiano ci si limita all’IRES e all’IRAP, si osserva che nel 2019 esse fornivano un gettito pari 33,6 e 25,2 miliardi di euro (il 6,3% e il 4,7% del gettito tributario totale); se si estende il campo all’IVA, questa nel 2019 ammontava a 136,9 miliardi (pari al 25,8% del gettito tributario totale). L’abolizione di queste imposte avrebbe pertanto comportato minori entrate – sempre con riferimento all’esempio dell’Italia nel 2019 – per 58,8 o 195,7 miliardi di euro, senza/con la soppressione dell’IVA. Sempre proseguendo con l’esempio italiano, se si volesse mantenere costante il gettito complessivo, e se si scegliesse di finanziare il minor gettito attraverso una maggior pressione fiscale sul reddito delle persone fisiche, i circa 40 milioni di contribuenti che ogni anno presentano una dichiarazione IRPEF dovrebbero versare in media 1.470 euro in più, che diventerebbero circa 4.900 qualora fosse abolita anche l’IVA. Si tratta di somme rilevanti, così come sono rilevanti gli ordini di grandezza che riguardano i sussidi. Per esempio, nel 2019 in Italia i trasferimenti in conto capitale e in conto corrente alle imprese ammontavano ad almeno 40 miliardi di euro (in media circa 1.350 euro per ognuno dei 30 milioni di contribuenti che versano almeno un euro di imposte dirette sul proprio reddito), somma a cui si aggiungono i trasferimenti dall’Unione Europea e gli aiuti ai cosiddetti “risparmiatori truffati”. L’eliminazione dei sussidi al settore agricolo – che peraltro impegnano quasi il 40% del bilancio dell’Unione Europea – sottrarrebbe all’agricoltore medio dei paesi avanzati (l’area OCSE) circa il 30% dei suoi introiti complessivi (il rimanente 70% è generato dalle vendite dei propri prodotti). Per il contribuente europeo si tratterebbe di un ammontare ragguardevole – in media circa mezzo punto di prodotto interno lordo. In breve, gli agricoltori sarebbero fortemente pe-
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nalizzati, molti di loro cesserebbero l’attività ed è probabile che la produzione agricola di più paesi europei si ridurrebbe. Ne beneficerebbero i produttori di altri paesi, più competitivi. Così come ne beneficerebbero i consumatori, soprattutto se il commercio internazionale nel settore agricolo fosse liberalizzato; e i contribuenti che, non dovendo più farsi carico dei sussidi, vedrebbero scendere l’aggravio sulle imposte dirette. Di nuovo nel caso italiano (2019), l’azzeramento dei sussidi alle imprese (compresi quelli agli agricoltori) sarebbe più che sufficiente a finanziare l’abolizione di IRES e IRAP e richiederebbe una maggiore pressione media sul reddito di circa 2.500 euro per finanziare anche l’abolizione dell’IVA. A differenza della maggior parte dei commentatori e della visione che caratterizza l’attuale sistema normativo, i nostri conteggi (approssimativi) non considerano sussidi le agevolazioni fiscali a favore delle imprese. Come accennato in precedenza, infatti, dal punto di vista liberista un’agevolazione fiscale è un mancato trasferimento forzoso all’erario da parte di coloro coinvolti nell’attività d’impresa. Il non essere obbligati a effettuare una donazione non è un privilegio (sussidio), anche se l’insieme dei contribuenti potrebbe provare invidia e risentirsi per la disparità di trattamento. Da un punto di vista più ampio va infine osservato che la transizione verso un regime fiscale che non interferisce sulla libertà di contratto e d’impresa stimola l’attività d’investimento da parte di residenti interni ed esteri e la concorrenzialità. Dunque, se per un verso ridurre il carico fiscale sulle imprese può apparire, a parità di gettito, come un onere aggiuntivo sul reddito disponibile dei contribuenti, per altro verso va sottolineato che un clima imprenditoriale e concorrenziale più intenso non può che essere di stimolo ad aumentare le dotazioni di capitale fisso e migliorare la qualificazione professionale, a vantaggio del progresso tecnologico. Poiché il potere d’acquisto dei residenti dipende dal valore di quanto producono, è lecito affermare che un aumento della capacità produttiva e della produttività, a parità di gettito fiscale, non può che ridurre il peso dell’imposta.
7. Potere di mercato e barriere all’entrata: che cosa sono? Coerenza con la visione liberista richiederebbe l’eliminazione di qualunque forma di regolamentazione volta a limitare la libertà di contratto. Questo principio generale riguarda anche gli accordi fra imprese. Se que-
LE ESENZIONI FISCALI NON SONO PRIVILEGI
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MONOPOLI, CARTELLI E COLLUSIONE
ANTITRUST
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sti non sono finalizzati all’esercizio della violenza, la quale comprende anche la violazione della proprietà privata altrui, è irrilevante il fatto che tali accordi abbiano effetti indesiderati per un terzo. Per un liberista, il terzo non può imporre le proprie preferenze ad altri, nemmeno ai proprietari delle imprese. Nella realtà, invece, l’autorità pubblica vigila sia sugli accordi fra le imprese, sia sulle loro strategie di prezzo, e si prefigge di impedire che esse sfruttino il proprio potere di mercato. In particolare, le cosiddette agenzie antitrust (o a tutela della concorrenza) tendono a ostacolare le fusioni fra grandi imprese quando queste potrebbero dare luogo a monopoli, oligopoli ristretti o cartelli, e a intervenire quando imprese di successo sono in possesso esclusivo di tecnologie grazie alle quali acquisiscono una quota significativa – definita “posizione dominante” – nel mercato di riferimento. Alle agenzie antitrust se ne aggiungono altre – sempre governative o di nomina governativa – incaricate di regolamentare le situazioni di monopolio naturale. Si tratta di situazioni ove la presenza di economie di scala e di scopo giustifica la presenza di un solo operatore il quale, secondo alcune teorie, in un regime di libero mercato potrebbe limitare la produzione e imporre prezzi relativamente elevati, riducendo così il benessere degli acquirenti. Si esaminano i due insiemi di interventi, separatamente, nella parte rimanente di questo capitolo. Per quanto riguarda le autorità antitrust, si propongono diversi ordini di considerazioni. In primo luogo, è ben difficile che in un mondo di oltre 7,5 miliardi di persone due o più imprese che si fondono riescano a imporre prezzi relativamente elevati a lungo, senza che altri scorgano la possibilità di lucrare profitti offrendo prodotti analoghi a prezzi inferiori. Come ben documentato da Thomas Sowell (2014), le imprese attive in un libero mercato possono contrastare monopoli e cartelli ben più efficacemente di un’agenzia pubblica. È probabile che i primi sfidanti provochino ribassi di prezzo relativamente contenuti. In tal caso il colosso esistente si limiterà a ridurre i prezzi quanto necessario per mantenere una quota di mercato comunque redditizia. Tuttavia, con l’entrata o la minaccia di entrata da parte di un numero sempre maggiore di concorrenti, i prezzi si avvicineranno ai costi medi, mentre la qualità del prodotto aumenterà grazie all’innovazione veicolata e stimolata dai nuovi entrati. In altri termini, non c’è dubbio che un monopolista potrebbe sfruttare la propria posizione per appropriarsi della rendita creata dal prodotto/servizio che offre. Eppure, la mega-impresa frutto di fusioni difficilmente ne approfitterà, per non incoraggiare eventuali concorrenti; e
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se ne approfittasse, i vantaggi verrebbero rapidamente erosi dalla concorrenza. Questa considerazione assume ancora più forza se si pensa che difficilmente un colosso sarebbe l’unico produttore esistente e raramente produrrebbe beni per i quali non vi sono alternative. Un aumento nei prezzi sarebbe pertanto facilmente contrastato dai concorrenti già esistenti sul mercato, pronti a soddisfare la domanda creata dal monopolista, eventualmente imitandone i prodotti. In effetti, i processi di concentrazione non avvengono per conseguire e sfruttare posizioni di monopolio, bensì per aumentare l’efficienza e ridurre i costi. A parità di altre condizioni, e indipendentemente dalle opinioni delle autorità per la tutela della concorrenza, una riduzione dei costi genera profitti più elevati e prezzi più bassi: produttori e consumatori ne beneficiano entrambi. In conclusione, e pur ignorando le questioni di principio ricordate all’inizio di questa sezione, resta il fatto che le autorità a tutela della concorrenza non sono in grado di stabilire quale sia il grado di concentrazione settoriale che minimizza i costi di produzione e massimizza il benessere della collettività. Non solo. È anche sconsigliabile e ingiusto che ci provino: il miglior modo per ridurre i costi consiste nel lasciar decidere alle imprese stesse come essere più efficienti. Al contrario, sarebbe preferibile che le autorità antitrust rivolgessero i propri sforzi alla denuncia e alla eliminazione delle barriere normative esistenti, anche con riferimento agli scambi con l’estero, e desistessero dal tentativo di replicare risultati concorrenziali: la libera concorrenza, infatti, protegge gli acquirenti/consumatori più efficacemente di un’autorità governativa o para-governativa.
8. Brevetti, ordini professionali e titoli di studio Considerazioni analoghe valgono per la creazione e gestione dei brevetti e degli ordini professionali, o per il cosiddetto valore legale del titolo di studio, istituzioni che costituiscono barriere all’entrata, e dunque un ostacolo alla concorrenza. Come già accennato nel capitolo precedente (sezione 4), un liberista non esiterebbe a eliminarle. I brevetti impediscono di imitare ciò che altri hanno pensato o realizzato, o di utilizzare la conoscenza tecnica prodotta da altri per produrre nuova conoscenza. L’imitazione e lo sviluppo dei processi produttivi non costituiscono un’aggressione della persona fisica dell’inventore originario, né una violazione della presunzione di libertà. Il fatto che l’attività di un
BREVETTI
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ORDINI PROFESSIONALI
VALORE LEGALE DEI TITOLI DI STUDIO
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imitatore o di uno sviluppatore riduca i redditi dell’inventore è certamente sgradevole per l’inventore, ma non impedisce che questi disponga come meglio crede della sua invenzione. Nessun diritto è quindi leso, a meno che non ricada nello spionaggio industriale, se questa attività implica violazioni delle proprietà dell’inventore (un cassetto o una cassaforte, per esempio). Anche l’istituzione di un ordine professionale è una barriera all’entrata, qualora l’iscrizione a tale ordine sia condizione necessaria per poter svolgere un’attività produttiva. Nulla vieta che gli ordini professionali esistano come libere associazioni, e che essi rilascino diplomi e certificati atti a segnalare la qualità dei propri iscritti. È anzi auspicabile che emergano più ordini/associazioni in concorrenza fra loro, ognuno dei quali sarà ovviamente indotto a documentare con cura le caratteristiche dei propri membri al fine di essere credibile. Altra cosa, invece, è vietare ai non iscritti – residenti e no – di intraprendere un’attività produttiva in concorrenza con gli iscritti e altri non iscritti. Il fatto che tale divieto sia imposto da un’autorità statale è irrilevante: rimane comunque una violazione della presunzione di libertà e della libertà da coercizione. Un ragionamento diverso vale per il valore legale dei titoli di studio, un’espressione infelice, poiché di “legale” c’è ben poco. Certamente, non c’è nulla di male se un ente dichiara con apposito certificato che un individuo è in possesso di determinate conoscenze. Ognuno poi valuterà come meglio crede quella dichiarazione e, qualora emergessero frodi, il sistema giudiziario si occuperà di coloro che dichiarano di essere in possesso di attestati mai conseguiti. In realtà, vi è solo una situazione in cui il possesso di un attestato – “il titolo di studio” – diventa un obbligo e non una possibilità. Questa si verifica quando il titolo di studio rilasciato dallo stato è condizione necessaria per assolvere gli obblighi di scolarità minima. Nondimeno, in questo caso il problema non è il titolo di studio, bensì l’obbligo scolare. Un liberista non avrebbe obiezioni, invece, se uno specifico titolo fosse richiesto per essere iscritto a un ordine professionale o per essere assunti. Né avrebbe obiezioni se il medesimo requisito fosse richiesto per essere ammessi ai concorsi indetti dalla pubblica amministrazione. Certo, il problema sorge se il titolo di studio “legale” (cioè, statale) è un alibi per chi non è in grado di selezionare personale adeguato. Naturalmente, anche in queste circostanze, il problema non è il titolo di studio, ma la procedura di assunzione, specialmente per le posizioni soggette alla sola valutazione dei titoli.
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9. Potere di mercato e barriere all’entrata: possiamo farne a meno? Nelle sezioni precedenti sono stati esaminati diversi insiemi di impianti normativi: quelli volti a ridurre il potere di mercato a favore di un ipotetico “giusto prezzo”, o a creare rendite di posizione per gli inventori e gli appartenenti ad alcune categorie professionali. È realistico pensare alla loro eliminazione, e con quali risultati? Non presenterebbe particolari difficoltà la soppressione delle attività antitrust nazionali, né la loro trasformazione in una sorta di ufficio tecnico, in concorrenza con altri analoghi fornitori di servizi. Tale ufficio potrebbe assistere la magistratura, per esempio, per calcolare i danni in presenza di pubblicità ingannevole, di pratiche commerciali fraudolente, di violazioni di accordi contrattuali. Del resto, già oggi le autorità nazionali di regolamentazione e tutela della concorrenza si occupano raramente di concentrazione, potere di mercato e pratiche collusive. Ciò è comprensibile: il concetto di mercato comprende un’area geografica che va ben oltre i confini nazionali. Più difficile sarebbe la soppressione delle autorità antitrust sovranazionali, le quali sono spesso considerate una barriera necessaria a fronte di ipotetici abusi da parte di grandi imprese multinazionali. A favore di queste autorità si schiererebbero sia i gruppi di pressione dei produttori meno efficienti e meno propensi a muoversi in un contesto concorrenziale, sia le burocrazie sovranazionali, comprensibilmente gelose del proprio potere di regolamentazione. Analoghe difficoltà presenterebbe il tentativo di riformare radicalmente la legislazione sui brevetti e sugli ordini professionali. In genere i brevetti creano una rendita di venti anni, anche se in alcuni paesi (fra cui l’Italia) si distingue fra brevetti che riguardano invenzioni minori (per esempio, la forma di un manufatto), le quali sono protette per dieci anni, e brevetti su invenzioni radicali, che hanno durata ventennale. Proposte di soppressione del regime brevettuale indurrebbero gli attuali detentori di brevetti a mobilitare ingenti risorse a difesa della normativa attualmente in vigore e a sostegno del “giusto incentivo alla capacità innovativa”. È probabile che i loro sforzi abbiano facile presa sui legislatori e l’opinione pubblica. Più facile sarebbe ridurre la durata della protezione conferita, per esempio a cinque anni. Non sarebbe facile quantificare gli effetti di una tale variazione, effetti che sono di fatto legati alla rapidità e ai costi con cui un concorrente può imitare l’innovatore iniziale, migliorando il clima concorrenziale e agevolando ulteriori innovazioni. Tuttavia, anche se è ragionevole pensare che le conseguenze non sarebbero trascurabili, la giustificazione liberista
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per la riduzione o meglio l’azzeramento della durata della protezione brevettuale non è una questione di efficienza, che pure esiste, come di recente ancora ricordato da Robert Merges (2007); è, invece, una questione di giustizia. Anche il tentativo di abolire il valore legale del titolo di studio sarebbe un’operazione complessa, poiché una riforma in tal senso significa porre fine al monopolio statale nell’ambito dell’istruzione. Sarebbe inutile, infatti, abolire il valore legale del titolo di studio e al tempo stesso impedire la libera concorrenza fra i fornitori di servizi scolastico-universitari. A sua volta, l’abolizione del monopolio solleverebbe due ordini di problemi. In primo luogo, non sarebbe più ammissibile un sistema in cui gli insegnanti sono dipendenti statali. Se tutti gli insegnanti fossero statali, infatti, difficilmente il contribuente accetterebbe il principio secondo cui chiunque proclamatosi “insegnante” avrebbe diritto a uno stipendio finanziato da imposte. Questo spiega perché l’abolizione del monopolio statale dell’istruzione, è questo il secondo problema, implica la privatizzazione del settore, tema a cui è dedicato il quinto capitolo di questo volume.
10. Un caso a parte, ma non troppo: i monopoli naturali
IL MONOPOLISTA NON È PROPRIETÀ DEGLI ACQUIRENTI, NEMMENO SE È UN MONOPOLISTA NATURALE
La visione liberista non propone ricette per definire l’equo profitto, stabilire la giusta quantità prodotta, determinare la dimensione ottima di un’impresa o il numero ideale d’imprese presenti in un settore. In particolare, le situazioni di monopolio non destano preoccupazione, a condizione che siano monopoli aggredibili da eventuali concorrenti, e non monopoli statali o garantiti dallo stato, come accade nel caso dei brevetti o di attività protette da barriere normative. Che dire dei monopoli naturali, ovverosia di quei settori ove una singola impresa è in grado di produrre uno o più beni a un costo medio inferiore a quello che sosterrebbero due o più imprese? A questo proposito proponiamo tre ordini di considerazioni: il primo richiama le nozioni liberiste, il secondo chiarisce alcune ambiguità e il terzo ricorda i due criteri che un sistema pur distorto come quello attuale deve e può soddisfare. Per quanto riguarda il primo aspetto (i principi), è bene ricordare che in un contesto in cui i diritti di proprietà sono rispettati qualunque attività produttiva di successo aumenta necessariamente il benessere degli acquirenti e quindi della collettività. Se così non fosse, il produttore/imprenditore accuserebbe perdite e cesserebbe di produrre. Questo vale anche quando un produttore si afferma grazie a una tecnologia innovativa che gli consente di soddisfare – per esempio – la domanda mon-
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diale di acciaio con costi medi sempre decrescenti al crescere della quantità prodotta. Prima che quel produttore entrasse nel mercato, infatti, la domanda era comunque soddisfatta, sebbene a costi superiori. È possibile che l’efficienza e i costi ridotti del monopolista provochino l’abbandono del mercato da parte dei produttori meno efficienti. Tuttavia, per un liberista, i produttori inefficienti non hanno legittimità per forzare le scelte dei consumatori/acquirenti, né per impedire a questi ultimi di rivolgersi a un unico fornitore. Veniamo ora alle ambiguità. Naturalmente, non è escluso che un innovatore particolarmente capace, acquisita una posizione di monopolio, decida di sfruttare la propria posizione, riduca l’offerta e approfitti dell’aumento di prezzo che ne consegue. Tale strategia sarebbe del tutto legittima (non vi è aggressione nei confronti di nessuno), anche se gli acquirenti del bene o servizio in oggetto ne soffrirebbero. La dinamica concorrenziale è un processo di interazione fra individui, che genera ricchezza e definisce la distribuzione della rendita (il surplus) fra gli attori coinvolti. L’emergere di un monopolista naturale crea ricchezza perché consente di produrre a costi inferiori, liberando risorse per altri impieghi, mentre il processo concorrenziale, che significa presenza e possibilità di entrata dei concorrenti, ridefinisce la distribuzione del surplus. In questo caso la distribuzione è dagli acquirenti ai proprietari dell’impresa monopolista e ai produttori e consumatori attivi in altri comparti. Insomma, non esistono motivi per affermare che il benessere del consumatore/acquirente presente nel settore X sia più importante del benessere dell’azionista/proprietario in X o del benessere di coloro che operano in Y o in Z. Né per affermare che il surplus debba essere distribuito in porzioni determinate da qualche autorità. In particolare, sarebbe erroneo affermare che il valore della produzione di un settore necessariamente diminuisce a causa dell’affermarsi del monopolista naturale. Per un verso, più fenomeni contribuiscono ad attenuare la diminuzione della produzione che solitamente si associa al monopolista naturale. Per esempio, maggiore è la possibilità di proporre prezzi diversi ad acquirenti diversi, maggiore è l’incentivo a espandere la produzione, soprattutto a vantaggio di segmenti di mercato eventualmente trascurati e, più in generale, di coloro con una domanda più debole e che quindi non accetterebbero un prezzo unico di monopolio. È questa la cosiddetta “discriminazione di prezzo”, attuata quotidianamente sia in mercati caratterizzati da numerosi produttori in concorrenza fra loro – si pensi, per esempio, alle politiche di prezzo delle compagnie aeree o degli alberghi, i quali cercano di applicare prezzi diversi a utenti diversi, per
IL MONOPOLISTA NATURALE
DISCRIMINAZIONE DI PREZZO
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SOSTENIBILITÀ E COSTI FISSI NON RECUPERABILI
ECONOMIE DI SCOPO
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esigenze e flessibilità – sia in mercati caratterizzati da monopoli o oligopoli – si pensi a quello dell’energia. Inoltre, va rilevato che non tutti i monopoli naturali sono “sostenibili”, cioè duraturi. Si ha sostenibilità solo quando si ha discriminazione di prezzo o quando si hanno rilevanti costi fissi non recuperabili. Nel primo caso la presenza del monopolista non implica riduzioni nelle quantità prodotte, ma solo una diversa distribuzione della rendita/surplus. Il progresso tecnologico, invece, ha significativamente ridotto la rilevanza del secondo caso in molti settori. A mano a mano che tali costi fissi si riducono, diminuiscono i costi di uscita dal settore, e dunque i rischi incorsi dai potenziali concorrenti/imitatori, che aggrediranno il monopolista naturale ogniqualvolta questi applichi un prezzo significativamente superiore al costo medio di produzione. In altri termini, i potenziali concorrenti non sarebbero scoraggiati dall’eventualità di una guerra di prezzo scatenata dal monopolista naturale esistente, poiché potrebbero abbandonare il mercato in qualunque momento con perdite contenute. Al contrario, se un produttore si illudesse di mantenere profitti da monopolista, in breve tempo la sua condizione diventerebbe insostenibile. Infine, non vanno dimenticate le cosiddette economie di scopo, tipiche di situazioni in cui la produzione di più beni da parte della stessa impresa è preferibile alla produzione degli stessi beni da parte di imprese differenti. Questo può verificarsi, per esempio, quando più linee di produzione possono avvalersi degli stessi impianti, degli stessi laboratori di ricerca, degli stessi uffici di amministrazione o della stessa rete commerciale. Non a caso la presenza di economie di scopo è forse la ragione prevalente per le fusioni e le acquisizioni fra imprese. In questi casi – presenza di economie di scopo – le conseguenze negative dei monopoli naturali (produzione ridotta dei singoli beni) sono mitigate dall’abbattimento dei costi di produzione di cui beneficiano le diverse produzioni del monopolista naturale. Gli effetti legati alle minori produzioni sarebbero così almeno in parte compensati dai ridotti costi di produzione. Tutto ciò premesso, è ragionevole attendersi che l’opinione pubblica sia ostile nei confronti dei monopoli, naturali e no, soprattutto se si teme che i monopolisti impongano prezzi superiori a quelli che imporrebbe un’agenzia statale, la quale non sarebbe restia a coprire le perdite di gestione ricorrendo alla fiscalità generale. In altri termini, pur riconoscendo che l’intervento statale – prezzi amministrati o nazionalizzazione – implica sprechi, inefficienze e a volte corruzione, l’opinione pubblica stenta a percepirne la portata e si illude che tali inefficienze siano preferibili ai risultati generati dal libero mercato.
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La risposta liberista non può dunque che essere pragmatica e prendere atto del fatto che la maggior parte dei componenti della collettività è propensa a conferire a gruppi di individui – i politici e coloro da questi nominati – il compito di condizionare, realizzare e gestire attività produttive in settori caratterizzati da forti economie di scala. Si pensi alle cosiddette “infrastrutture”. Si ritiene qui preferibile, anziché insistere sulla necessità di escludere lo stato dai cosiddetti investimenti infrastrutturali, attrarre l’attenzione su due aspetti: la libertà di entrata e l’obbligo di trasparenza. Garantire la libertà d’entrata significa riconoscere che le barriere normative sono illegittime anche quando un settore si caratterizza per la presenza di un’impresa monopolista naturale regolamentata o gestita dallo stato. Lo ripetiamo, concorrenza non significa che molti produttori siano attivi in un settore. Si ha concorrenza anche quando in un settore opera un solo produttore, a condizione che altri possano entrare senza impedimenti normativi. In altri termini, chiunque voglia competere con il monopolista naturale deve poterlo fare, senza incontrare ostacoli burocratici e senza che un concorrente – lo stato – possa produrre in perdita grazie al sostegno del contribuente. In breve, il finanziamento delle infrastrutture deve essere a carico degli utenti effettivi, non dei contribuenti. Trasparenza significa che devono essere noti gli utili e le perdite delle imprese statali. L’obbligo di trasparenza è importante: permette una forma di monitoraggio allargato e rende più difficile che le eventuali perdite di esercizio siano coperte ricorrendo alla fiscalità generale. Così, se un’impresa statale o municipale che gestisce un acquedotto accusa perdite, dovrà necessariamente aumentare i prezzi di erogazione del servizio e/o ridurre i costi. Non è ammissibile che chi non consuma acqua (o ne consuma relativamente poca) paghi per chi ne consuma di più, magari perché sussidiato; o che i contribuenti più facoltosi si facciano carico delle inefficienze del produttore o dei consumi eccessivi a causa di prezzi amministrati inferiori al costo di produzione. Ancora una volta, non si attua l’aiuto ai bisognosi con la manipolazione dei prezzi, ma con il trasferimento di risorse secondo criteri chiari e il più possibile condivisi.
Riferimenti bibliografici Alchian, Armen, e Harold Demsetz (1972), “Production, information costs and economic organization”, American Economic Review, 62 (5), dicembre, pp. 777-795.
CHE FARE? LIBERTÀ D’ENTRATA E TRASPARENZA
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CAPITOLO 4
IMPOSTE: QUANTO, COME E SU CHE COSA 1. Imposizione fiscale, disuguaglianze e carità obbligatoria Come scriveva con energica chiarezza Lysander Spooner (1870), per i liberisti qualunque forma di imposta che non nasca da un impegno esplicito e volontariamente sottoscritto fra l’individuo-contribuente e l’erario è illegittima. Eppure, i prelievi forzosi sono un dato di fatto, accettato dalla larghissima maggioranza dei membri di una comunità moderna. Le varie opinioni in materia non riguardano il merito – eccezion fatta per i liberisti, nessuno dubita che l’imposta sia comunque necessaria e che essa giustifichi la violazione della proprietà privata – bensì l’entità (quanto si deve pagare), i principi impositivi (la distribuzione del carico) e la base imponibile (su che cosa l’imposta debba essere calcolata). Le pagine che seguono non intendono ripetere le ragioni liberiste sulla illegittimità della tassazione, peraltro ampiamente esposte nei primi due capitoli. Piuttosto, si ritiene più utile supporre che i membri di una comunità abbiano concordato di delegare allo stato un insieme di funzioni che richiedono un finanziamento a carico del contribuente, e sottolineare quali sono i suggerimenti liberisti per pervenire a un regime fiscale coerente con criteri di giustizia e trasparenza. Tali funzioni comprendono i sussidi agli indigenti e il mantenimento della cosiddetta “pace sociale” (sezioni 2 e 3) e il consumo sussidiato di beni di merito (sezione 4). La seconda parte del presente capitolo, invece, è dedicata all’analisi dei criteri impositivi (sezione 5) e alla definizione della base imponibile (sezioni 6 e7).
2. Gettito fiscale e povertà Nonostante sussistano importanti distinzioni e ambiguità, l’opinione pubblica considera accettabile un carico fiscale quando questo soddisfa tre requisiti: riduce la disuguaglianza fra le capacità di spesa delle
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famiglie e, in generale, la povertà all’interno della comunità di appartenenza; attenua i cosiddetti conflitti sociali; finanzia l’erogazione di servizi che si ritiene debbano essere accessibili a ogni componente della collettività stessa – i cosiddetti beni di merito, sanità e istruzione, di cui si tratterà nei capp. 5 e 6. Si esamini il primo punto. Naturalmente, non esiste un livello di disuguaglianza ideale, e ancor meno una pressione fiscale ideale e, dal punto di vista liberista, non sono ammissibili programmi di ingegneria sociale volti a manipolare la distribuzione del reddito o a redistribuire reddito e ricchezza: nessun individuo e nessuna famiglia hanno il diritto di godere di un tenore di vita obbligando altri a farsi carico della differenza fra spesa desiderata e reddito (o patrimonio) disponibile. Per esempio, ogni coppia ha il diritto di decidere quanti figli mettere al mondo, ma anche la responsabilità di farsene carico, senza imporre ad altri il costo che crescere una prole comporta. Se si esclude il frutto di attività criminali (furti, truffe e aggressioni fisiche), reddito e patrimonio dipendono dal valore della produttività del proprio lavoro, dallo sforzo lavorativo, dal talento individuale, dai risparmi accumulati in passato dal soggetto stesso o da benefattori, nonché dalla fortuna. È inevitabile che questi elementi diano luogo a capacità di spesa anche notevolmente diverse da individuo a individuo. Tali differenze possono ampliarsi ulteriormente a mano a mano che le tecnologie, le opportunità imprenditoriali e le dimensioni del mercato globale creano nuove occasioni per incrementare i propri redditi e che, al tempo stesso, insuccessi a fronte di concorrenti più efficienti, innovativi o comunque più graditi dagli acquirenti, generano perdite ed erodono patrimoni. I successi e gli insuccessi non sono ingiustizie a cui porre rimedio, e quindi non legittimano trasferimenti forzosi di risorse. Considerazioni analoghe valgono quando questi fenomeni conducono a una maggiore dispersione (disuguaglianza) nei redditi e nei patrimoni. È possibile che a un aumento della disuguaglianza si accompagni una crescita nel numero di persone in stato di povertà. Tuttavia, è bene non trarre conclusioni affrettate. In primo luogo, così come non è scontato che a maggiori disuguaglianze corrisponda maggiore povertà, va sottolineato che la redistribuzione della ricchezza non è il modo migliore per alleviare la povertà. La storia dimostra che il tenore di vita delle fasce a basso reddito/ricchezza dipende dalla ricchezza di una collettività nel suo insieme. In altri termini, come sintetizzato da David Weil (2005), la crescita di un’economia è stato ed è il miglior rimedio contro la povertà. Due secoli fa il 95% della popolazione mondiale versava in condizioni di
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estrema povertà (circa 750 dollari di reddito annuo pro-capite ai prezzi attuali). Oggi, nonostante la dispersione nella distribuzione del reddito fra i vari paesi del mondo sia aumentata notevolmente, gli estremamente poveri si sono ridotti al 9,5% della popolazione mondiale. Negli ultimi trent’anni, in presenza di un incremento demografico di circa il 45%, il numero degli estremamente poveri nel mondo è sceso da 195 a 70 milioni. L’origine di questo successo è stata la crescita economica (il valore medio della produzione pro-capite nel mondo è aumentato di circa 27 volte negli ultimi 200 anni), non i cosiddetti aiuti allo sviluppo, la pianificazione economica o la redistribuzione forzosa del reddito fra paesi o all’interno dei paesi (Commissione Europea, 2015). In altri termini, i dati mostrano chiaramente che nel medio-lungo periodo la crescita economica provoca maggiore benessere per tutti, e che anche i poveri ne beneficiano in misura considerevole (Dollar e Kraay 2002). Certo, i benefici saranno maggiori per alcuni (che non sono sempre gli stessi) e minori per altri. Non dobbiamo pertanto sorprenderci quando la disuguaglianza nella distribuzione dei benefici generati dalla crescita provoca una maggiore disuguaglianza nella distribuzione del reddito, soprattutto in periodi caratterizzati da crescita elevata, e quindi da grandi opportunità che non tutti sfruttano nello stesso modo e con uguale esito. Nondimeno, il fatto che alcuni godano di minori benefici o non sfruttino le opportunità che si presentano loro non significa che diventino poveri. Eppure, come si è accennato, si tende a considerare la presenza di forti disuguaglianze frutto di ingiustizie. Alcuni potrebbero attribuire questa tendenza a meccanismi evoluzionistici: la nostra psiche è ancora modellata secondo impronte lasciate da epoche in cui l’uomo era cacciatore e raccoglitore, e l’altruismo e la solidarietà erano forme di assicurazione sulla vita. Poiché i gruppi di famiglie avevano capacità produttive e tenori di vita simili, era probabile che eventuali forti differenze di reddito fossero il risultato di appropriazioni indebite e, di conseguenza, considerate con sospetto. Altre spiegazioni fanno riferimento alla retorica demagogica che incoraggia i candidati politici a promettere, in caso di vittoria, di sottrarre potere d’acquisto ai “ricchi” e trasferirlo agli “altri”. Tali promesse sono volte a compensare presunte ingiustizie le quali, soprattutto in contesti notoriamente poco meritocratici, riflettono sentimenti di invidia e risentimento nei “poveri” e talora sensi di colpa più o meno sinceri nei “ricchi”. Non si può che prenderne atto; così come non si può non ricordare Jean-Jacques Rousseau (1755), il quale osservava che i meno abbienti paiono degni di carità obbligatoria solo se residenti nel territo-
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LA SOLUZIONE IDEALE
UNA SOLUZIONE REALISTICA E UN SEMPLICE CALCOLO
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rio controllato dall’autorità statale, mentre il povero residente altrove sembra avere un’importanza decisamente minore. Insomma, si tratta di quello che potremmo definire il “premio nazionalista”, già menzionato nella prima sezione del cap. 2, secondo cui l’individuo pare degno di attenzione e aiuto solo se appartiene alla propria collettività politica. Ora, se si trascurano le perplessità liberiste e si accetta il principio secondo cui l’intervento governativo a carico dei contribuenti è giustificato quando conferisce potere d’acquisto agl’indigenti, l’entità del prelievo fiscale dipende necessariamente dalla capacità minima di spesa che si vuole conferire loro. Benché studiosi come Amartya Sen (2009) siano di diverso avviso, il liberista nega che la condizione di povertà dipenda dal tenore di vita degli altri membri della comunità. Se si procede a un intervento di solidarietà obbligatoria per quanto possibile vicina alla visione liberista, dunque, si esclude la visione marxiana secondo cui i percettori di redditi elevati sono per definizione malfattori meritevoli di essere sanzionati, e ci si limita ad affermare che i percettori di redditi modesti possono essere individui che è auspicabile aiutare. Sotto questo punto di vista, quindi, l’entità del prelievo a carico dell’insieme dei contribuenti deve essere commisurata a quanto si ritiene sia il tenore di vita minimo per un adulto (o per un nucleo famigliare), eventualmente corretta per tener conto del fatto che l’individuo sia o no in età lavorativa, e l’erogazione deve essere contenuta entro un livello che limiti i comportamenti opportunistici. Sarebbe questo il caso se un individuo, confidando di percepire comunque un sussidio, riducesse il proprio impegno lavorativo o non risparmiasse quanto necessario per costituirsi una rendita pensionistica adeguata. In sintesi, in un mondo statalista ideale aiutare i poveri richiede che si stabilisca la soglia di povertà che giustifica la solidarietà obbligatoria indipendentemente dal colore del passaporto, si raccolgano le risorse necessarie su scala globale, si accentri la gestione della povertà conferendo a un’apposita agenzia mondiale la definizione della soglia e gli strumenti per intervenire. Come ampiamente documentato in altri contesti, la creazione di tale agenzia è tuttavia politicamente impossibile e il suo operare sarebbe inefficace. Si pensi alle esperienze in tema di “aiuti allo sviluppo”. Un obiettivo più realistico è limitarsi a cercare di stimare quanto una comunità ritiene ragionevole versare per aiutare i meno abbienti. Come per ogni calcolo fatto a tavolino, il risultato è del tutto arbitrario. Può tuttavia essere utile fissare gli ordini di grandezza e osservare che nel 2016 i paesi più generosi – Svezia, Norvegia, Qatar e EAU – trasfe-
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rivano ai paesi in via di sviluppo fra l’1% e l’1,4% del proprio prodotto interno lordo come aiuto alla povertà. Il dato medio per l’Unione Europea era pari allo 0,47% (circa 127 euro per ogni cittadino EU). Pochi ritengono questi versamenti scandalosamente bassi o si battono per aumentarli. Supponiamo dunque che questi dati riflettano l’ordine di grandezza di quanto gli Europei ritengono desiderabile dare per alleviare la condizione di indigenza altrui – definiamolo “coefficiente di generosità”. Ora, se tale coefficiente fosse applicato a trasferimenti a favore dei poveri residenti nelle economie avanzate, occorrerebbe tenere conto di due componenti. Uno è il premio nazionalista, discutibile, ma certamente presente: per lo stato A i poveri residenti in A sono più importanti dei poveri residenti in B. L’altro è il fatto che, ai tassi di cambio correnti, una corona svedese, un euro o un dollaro americano ha un potere d’acquisto più alto nei paesi sottosviluppati (i beneficiari) che non nel paese avanzato di provenienza della donazione. Per esempio, nel 2011 un dollaro americano speso in Guatemala, Cambogia o Kenya acquistava beni e servizi che negli USA avrebbero richiesto una spesa compresa fra i due e i tre dollari. Se si ipotizza un coefficiente di generosità elevato (per esempio, l’1% del PIL, pari a oltre il doppio della media UE) e un fattore di correzione del tasso di cambio pari a 2,5, si conclude che la redistribuzione a favore dei meno abbienti raggiungerebbe al massimo il 2,5% del PIL del Paese donatore. Pur quadruplicando questo dato per tener conto del premio nazionalista si conclude che, sulla base dei comportamenti condivisi attuali, una collettività ricca e generosa considera che il 10% del PIL sia l’ammontare medio che i contribuenti di un paese sviluppato dovrebbero versare per sostenere il tenore di vita dei più poveri del proprio paese. Come termine di confronto, si pensi che nel 2013 gli Americani donavano dal 3% al 5% del proprio reddito ad attività assistenziali 1; che nel 2019 la spesa per il reddito di cittadinanza in Italia era intorno allo 0,4% del PIL; e che se si fosse distribuito il 10% del PIL italiano 2018 ai 5 milioni di poveri assoluti registrati in quell’anno, ognuno di essi avrebbe ricevuto circa 35.000 euro (97.000 euro per ogni famiglia in stato di povertà).
1 National Centre for Charitable Statistics: 2013 Facts and Figures. L’attuale presidente J. Biden donò l’1,44% del proprio stipendio di vice-presidente.
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3. Imposte, redistribuzione e conflitti sociali Come si è accennato nella sezione introduttiva di questo capitolo, parte dell’opinione pubblica giustifica l’imposizione fiscale sostenendo che essa è necessaria per contrastare atti violenti. In particolare, si ritiene che la redistribuzione del reddito sia anche una sorta di prezzo da pagare per evitare disordini, i quali avrebbero presumibilmente un costo più elevato della redistribuzione. In realtà, negli ordinamenti attuali la violenza è sempre considerata un reato, a meno che non sia esercitata o autorizzata dall’autorità statale. Pertanto, coerenza vorrebbe che il contribuente fosse obbligato a fornire le risorse necessarie perché lo stato contrasti efficacemente gli atti violenti, non perché lo stato paghi i violenti affinché si astengano dall’aggredire gli altri membri della comunità. In altri termini, comunque lo si voglia considerare, l’obbligo di contribuire per attenuare i conflitti sociali è inaccettabile. Certo, non si può escludere che membri di una comunità preferiscano cedere al ricatto dei violenti e pagare i ricattatori autotassandosi (donazioni volontarie) o ricorrendo a intermediari locali o con un raggio d’azione più esteso (lo stato). Tuttavia, l’esito non è scontato e non giustifica il prelievo obbligatorio presso coloro che preferiscono altre soluzioni. Per esempio, negli ultimi anni lo stato italiano ha speso per l’ordine pubblico poco più del 2% del prodotto interno lordo. Non si può escludere che la maggioranza dei contribuenti sia disposta a versare somme maggiori per contrastare e sanzionare più efficacemente le aggressioni alle persone e alle proprietà. Né si può escludere che un pur sensibile aumento delle imposte finalizzate ad assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico – per esempio al 4% del PIL – sia inferiore a quanto necessario per acquistare la benevolenza dei violenti, cioè alla differenza fra il prelievo fiscale attuale e il prelievo giustificato dalla cosiddetta solidarietà sociale. La trasparenza nei conti pubblici – che dovrebbero indicare quanto dell’imposizione fiscale è impiegato per l’acquisto della cosiddetta pace sociale – sarebbe un primo passo per consentire agli individui di valutare se sia preferibile difendersi o piegarsi al ricatto ed esprimersi di conseguenza, anche quando compilano la dichiarazione dei redditi.
4. Gettito fiscale e accesso ai beni di merito La visione attualmente prevalente attribuisce allo stato il compito di erogare in regime di monopolio normativo un insieme di servizi ritenuti
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essenziali, quali la difesa da aggressioni esterne e il mantenimento dell’ordine pubblico, nonché fornire gli strumenti necessari per garantire l’attuazione e il rispetto delle norme. In breve, si tratta di forze armate, polizia e sistema giudiziario. Inoltre, secondo questa visione lo stato è legittimato a rendere disponibili e accessibili a tutti beni di merito (istruzione e sanità sono gli esempi più importanti, ma non gli unici). Un liberista obietterebbe che, ammesso e non concesso che un decisore pubblico sia legittimato a decidere come e a quali condizioni gli individui possono spendere i propri averi, disporre di beni/servizi essenziali e accedere a beni/servizi di merito non significa che tali beni e servizi debbano essere necessariamente prodotti dallo stato, né che lo stato debba ricorrere alla fiscalità generale per coprire i costi di produzione. L’enfasi paternalistica a cui si riconduce in questo caso l’intervento statale, infatti, riguarda la disponibilità e l’accesso agevolato a favore dei residenti, non l’identità del produttore. Naturalmente, poiché il noto pasto gratis non esiste né per i consumi essenziali, né per quelli di merito, invocare l’accesso agevolato significa che, contrariamente a quanto avverrebbe in un contesto di libero mercato, alcuni consumatori pagherebbero un prezzo inferiore al costo di produzione, mentre altri residenti si farebbero carico della differenza. L’accesso agevolato sarebbe reso possibile da prezzi amministrati, vuoi perché la riscossione di un prezzo di mercato sarebbe difficoltosa, vuoi per motivi ideologici. Il primo caso è tipico della giustizia: in molti casi è impossibile coprire i costi di un sistema giudiziario attribuendone l’onere alle vittime, che poi dovrebbero rivalersi sugli aggressori. Il ricorso alla fiscalità generale permette di ignorare il problema e, anziché lasciare che il costo della giustizia ricada sulle vittime, ripartisce tale costo fra tutti i membri della collettività. L’erogazione di servizi scolastici e sanitari segue invece criteri ideologici quando presume che tali servizi debbano essere solo prodotti dallo stato. In questi casi si ritiene che lo stato sia l’attore che meglio di altri è in grado di definire i contenuti della formazione di un giovane e come curarsi in modo efficace. Il sussidio è così lo strumento attraverso il quale si guidano gli individui, considerati di fatto incapaci di acquistare istruzione e sanità di qualità adeguata e nelle quantità desiderabili. Se così non fosse, basterebbe integrare il reddito dei meno abbienti e lasciarli liberi di impiegare come meglio credono le risorse loro trasferite. Nondimeno, e nonostante la pretesa paternalistica, è opportuno osservare come lo stato non abbia alcuno strumento per stabilire le quantità da consumarsi e prodursi, problema che cresce con il crescere del sussidio,
ACCESSO AGEVOLATO E FISCALITÀ: COSTO DI RISCOSSIONE E IDEOLOGIA
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ovverosia della differenza fra l’ipotetico prezzo di mercato e il prezzo amministrato del bene stesso. Nella realtà, si giunge a decisioni del tutto arbitrarie, un fatto peraltro riconosciuto da un illustre e precoce fautore dell’intervento pubblico come John Stuart Mill (1848: Libro V, cap. I, § 2). Come si è già sottolineato, in queste pagine non si pone in discussione la fondatezza e la ragionevolezza di opinioni oggi largamente condivise, anche se diverse da quelle liberiste. Nostro scopo, invece, consiste nel proporre misure che permettono di perseguire obiettivi generati da quelle opinioni ricorrendo a strumenti concettuali mutuati dalla visione liberista. In questo senso, è opportuno segnalare che, pur in presenza di motivazioni paternalistiche, il ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’erogazione statale di servizi e beni di merito non può che essere limitato. In particolare, tale ricorso non è ammissibile se diventa strumento per sussidiare un produttore – lo stato – a fronte di potenziali concorrenti privati. È però quanto accade quando i residenti ignorano il costo dei beni di merito (i beni socialmente desiderabili), e quando si nega loro la possibilità di rifiutarne l’acquisto o di rivolgersi a produttori privati. È certamente possibile che un ospedale statale sia preferito a un ospedale privato; o che un sistema giudiziario statale presenti costi di produzione vantaggiosi e una qualità superiore a quella di concorrenti privati. Tuttavia, l’ideologia statalista non è sufficiente per impedire all’individuo di scegliere e, di conseguenza, costringerlo a corrispondere al produttore il prezzo di un servizio che non intende acquistare. Per concludere, il liberista non impedisce allo stato di produrre servizi che la maggior parte dei membri di una comunità ritiene di competenza statale. Il liberista può però pretendere che queste competenze non siano esercitate in esclusiva, e che coloro che preferiscono rivolgersi a produttori concorrenti non siano obbligati a pagare due volte: una volta per il servizio erogato dal concorrente (che può essere un privato o un ente statale straniero), e una seconda volta per il servizio dello stato di residenza, servizio di cui non intende avvalersi, ma che è comunque obbligato a pagare. Pur ignorando le obiezioni nei confronti dell’idea stessa di “bene di merito”, si ritiene che l’accesso agevolato al loro consumo debba costituire parte della politica della spesa per la solidarietà sociale e non implichi la nazionalizzazione della produzione. Per esempio, come già proposto da Milton Friedman negli anni Settanta e attuato in più realtà, si può ricorrere a tessere o buoni-spesa (i cosiddetti “voucher”) per accedere ai servizi scolastici, tessere che possono essere sì finanziate con la fiscalità generale, ma che devono poter essere spese presso qualunque fornitore di servizi scolastici, quale che sia il paese di residenza del fornitore.
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5. Principi impositivi Nelle sezioni precedenti si sono illustrate le ragioni dell’imposizione fiscale in una società i cui membri ritengono che lo stato abbia il dovere di redistribuire il reddito, realizzando così l’ideale di solidarietà obbligatoria, attenuando le invidie e neutralizzando le tensioni sociali generate dalle disuguaglianze nelle capacità di spesa. Pur in presenza di correttivi ispirati alla visione liberista, in una moderna economia avanzata la necessità di ricorrere alla fiscalità generale per finanziare il contrasto alla povertà e all’invidia non è trascurabile. In questo capitolo si è ipotizzata una somma compresa fra il 10% e il 15% del reddito, che comprende il sostegno agli indigenti e quanto necessario per reprimere la violenza. Benché i fautori odierni del ricorso all’imposta come strumento redistributivo vantino celebri precursori, fra i quali Jeremy Bentham (1830, cap. VI) e Arthur Pigou (1920, p. 81), il liberista fa propria la visione dell’Illuminismo scozzese (fra cui Adam Smith 1776), secondo cui la fiscalità non ha il compito di realizzare obiettivi di equità sociale. In altri termini, trasparenza richiede che si separino le questioni relative alla spesa pubblica da quelle proprie dell’imposizione fiscale. Per un liberista (e per la visione classica), le prime appartengono al consequenzialismo: la dimensione della spesa pubblica è dettata dagli obiettivi che questa si prefigge. Le seconde, invece, riguardano i criteri di riscossione. In questa luce, l’imposta potrebbe allora essere considerata una sorta di quota d’iscrizione alla comunità politica, come già sosteneva Adam Smith, in cambio della quale l’individuo ottiene un insieme di servizi che definiscono e cementano una collettività. Ci si dovrà quindi astenere dal ricorrere alla fiscalità generale quando è possibile esigere un prezzo per fruire di prestazioni (per esempio, per l’istruzione e la sanità) o per iscriversi a un’associazione che, in concorrenza con altre, favorisce e tutela gli scambi e la cooperazione (si pensi al sistema giudiziario e all’ordine pubblico). Se così fosse, e come sostenevano economisti francesi nel Settecento, il servizio di tutela dei contratti e protezione contro gli attacchi alla persona e alla proprietà sarebbe un beneficio di cui il contribuente gode in quanto individuo, eventualmente in proporzione ai suoi averi o alla sua capacità di spesa. Si considerino ora quali principi devono ispirare la fiscalità generale. In situazioni in cui la raccomandazione liberista è ignorata, l’imposta non è il prezzo corrisposto a fronte di una prestazione, bensì ciò che un individuo versa in base alle proprie disponibilità (la base imponibile). In
LA CONCLUSIONE LIBERISTA
RIFLESSIONI LIBERISTE IN UN REGIME ILLIBERALE
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L’IMPOSTA PROPORZIONALE
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questa prospettiva, la pressione fiscale può seguire tre criteri: proporzionale, progressivo e regressivo. Questa sezione è dedicata all’esame di tali criteri, mentre quella successiva analizza la base imponibile. I fautori dell’imposta proporzionale presumono che sia equo trattare ogni unità della base imponibile allo stesso modo, come sosteneva Alexander Hamilton (1788), e pretendere da ogni contribuente il versamento di una somma commisurata alle risorse di cui egli dispone. Come raccomandava Adam Smith, si fa dunque riferimento alla capacità contributiva. Questa può essere misurata rispetto al reddito, alla ricchezza o al tenore di vita. Si noti che, qualora si adotti un’imposta proporzionale fondata sul criterio della capacità contributiva, il regime fiscale non solo prevede un rapporto costante fra imposta dovuta e base imponibile, ma non distingue fra le possibili diverse origini delle risorse (redditi da lavoro dipendente, da prestazioni professionali, da capitale, ecc.). Fortuna, talento, grado e tipo d’istruzione, ambito famigliare di provenienza, impegno e sforzo lavorativo, caratteristiche ideologiche o psicologiche del contribuente non hanno alcun ruolo. L’attenzione verte unicamente sulla capacità contributiva oggettivamente riscontrata: un euro vale un euro indipendentemente dalla provenienza. Già verso la metà dell’Ottocento John Stuart Mill si opponeva al criterio proporzionale con considerazioni sul sacrificio generato dall’imposta per individui con redditi diversi. Per esempio, sebbene per un liberista i confronti fra individui siano arbitrari e pertanto inammissibili, gli oppositori dell’imposta proporzionale sostengono che un’imposta di 3.000 euro su un reddito di 15.000 comporti un sacrificio maggiore rispetto a un’imposta di 30.000 euro su un reddito di 150.000. Questa è del resto l’intuizione che giustificherebbe il criterio progressivo di cui tratteremo fra breve. Benché tale argomentazione sia meno solida di quanto non appaia a prima vista, essa è utile per sottolineare un aspetto importante del criterio proporzionale. La proporzionalità poggia sul criterio della capacità contributiva, non del sacrificio del contribuente: un dollaro vale sempre un dollaro, indipendentemente da chi è il proprietario. Per il liberista (e parte della scuola classica) l’imposta non è finalizzata a punire il ricco o a ridurre il suo benessere. Se si ritiene che categorie di contribuenti meritino di essere sussidiate perché caratterizzate da un reddito disponibile relativamente modesto, i sussidi saranno oggetto di decisioni di spesa, non di sanzioni nei confronti di chi indigente non è. Insomma, se inevitabile, la redistribuzione del reddito va fatta dal lato della spesa, non della tassazione. Il criterio della “equa punizione” sarebbe dunque fuori luogo.
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Diversamente da quello proporzionale, il criterio progressivo prevede che il rapporto fra imposta dovuta e base imponibile aumenti al crescere di quest’ultima. Questa impostazione risale all’utilitarismo di J. Bentham e J.S. Mill, ma anche alle tesi di Rousseau e della Convenzione giacobina, decenni più tardi riprese nel Manifesto di Karl Marx e Frederick Engels (1848, cap. II). Essa afferma che il contribuente gode di una sorta di rendita/surplus, pari alla differenza fra le risorse di cui l’individuo dispone e quanto è necessario per fruire di un tenore di vita soddisfacente, e che equità richiede che l’imposta sia una porzione non decrescente di questa rendita. Di conseguenza, al crescere della base imponibile (le risorse a disposizione) aumenta la rendita e aumenta la pressione fiscale equa. Quest’ultima sarà tanto più pesante, quanto più severo sarà il trattamento della rendita. In altri termini, l’imposta progressiva è regolata da due parametri: il tenore di vita che l’autorità ritiene soddisfacente e la visione ideologica nei confronti della rendita. A parità di risorse disponibili, pertanto, la pressione fiscale crescerà con il decrescere del tenore di vita di riferimento, con l’indebolirsi dei diritti di proprietà sulla rendita (l’invidia sociale), e con il prevalere dell’interesse collettivo sul benessere individuale (l’ideologia socialista). Naturalmente, poiché si tratta di parametri arbitrari che variano a seconda del momento storico e politico di ogni paese, non stupisce che la progressività dei regimi fiscali differisca da paese a paese e cambi in continuazione. L’adozione di un criterio impositivo regressivo, invece, pone l’accento sul ruolo dell’impegno individuale e sul costo che questo comporta ai fini della produzione di reddito. In particolare, si riconosce che il reddito di un individuo dipende (1) dagli investimenti in capitale umano, i quali hanno rendimenti decrescenti, (2) dallo sforzo lavorativo, che presenta costi-opportunità crescenti (il valore del tempo sottratto ad attività più gradevoli), (3) dalla propensione ad affrontare rischi, che diminuisce al crescere dell’elemento di rischio. Di conseguenza, poiché l’investimento in capitale umano è un costo, e poiché i rendimenti marginali diminuiscono al crescere dell’investimento, se si ritiene equo mantenere costante il carico fiscale su ogni unità di rendimento al netto dei costi subiti, l’aliquota impositiva deve essere necessariamente decrescente al crescere del reddito. Ragionamento analogo può essere applicato allo sforzo lavorativo: se si ipotizza che l’attività produttiva implichi fatica e/o assorba tempo che l’individuo dedicherebbe più volentieri ad altro, e che il tempo libero sia tanto più prezioso quanto più è scarso, segue che il beneficio al netto dei sacrifici su-
L’IMPOSTA PROGRESSIVA
L’IMPOSTA REGRESSIVA
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SINTESI
IMPRESE E SISTEMI FISCALI
biti diminuisce al crescere del reddito (lordo); e che quindi il criterio di pari trattamento del sacrificio richiede che l’aliquota scenda al crescere del reddito (o della base imponibile). Di altro ordine, invece, è l’argomentazione in merito al rischio. In questo caso si parte dal presupposto che, a parità di valore atteso di un progetto produttivo, progetto che può riguardare un’iniziativa imprenditoriale come una prospettiva di carriera, le opportunità più redditizie siano anche quelle più rischiose (maggiore varianza dei risultati) e che, se gli individui sono avversi al rischio, la pressione fiscale marginale decrescente può essere uno strumento efficace per correggere le inefficienze proprie dell’avversione al rischio. Naturalmente, tutto quanto precede vale in un contesto ove reddito e ricchezza non siano frutto di privilegi normativi e collusione con il potere politico. Posto di fronte all’ineluttabilità dell’imposta, il liberista è convinto assertore dell’imposta proporzionale, per coerenza con la visione soggettivista, per rispetto delle scelte individuali e in ossequio al principio di trasparenza (separazione fra criteri impositivi e scelte di spesa). Inoltre, questa imposta, per definizione, colpisce l’intera popolazione che percepisce redditi o ha patrimoni. È dunque un elemento di protezione contro una pressione eccessiva, la quale susciterebbe diffuso malcontento. Il criterio progressivo, invece, presuppone che l’autorità politica definisca un tenore di vita appropriato, il che ignora che il termine “appropriato” riguarda la percezione individuale e non può essere definito dall’esterno. Un politico o un burocrate non è in grado di stabilire quanta soddisfazione corrisponda a un insieme di consumi, di stimare a quanto ammonti il valore degli investimenti in capitale umano sostenuti per ottenere un certo reddito e, più in generale, di calcolare la ipotetica rendita a cui si è accennato poc’anzi. Il criterio regressivo è anch’esso criticabile, poiché l’andamento dei rendimenti degli investimenti in tempo, sforzi e capitale umano non è necessariamente decrescente: non sono rari i casi in cui individui producono redditi elevati con sforzi e investimenti umani modesti. In sintesi, la coerenza con la visione soggettivista propria del liberismo non permette di delegare all’autorità la definizione dell’impegno individuale. Pur con errori e approssimazioni, il criterio proporzionale è l’unico che consente una misurazione oggettiva della capacità contributiva: non richiede né l’applicazione di aliquote diverse alle ore sottratte al tempo libero, né la misurazione della capacità contributiva potenziale e/o del rendimento presunto delle risorse investite. Come si è detto, l’applicazione di un criterio impositivo proporzionale non impedisce la
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redistribuzione del reddito. Questa però avrà luogo per mezzo della spesa, nel rispetto del principio di trasparenza. Per un liberista è lodevole che gli individui di una comunità siano propensi a dare a chi è stato meno fortunato, ma è riprovevole che si puniscano coloro più fortunati, laboriosi o talentosi.
6. La base imponibile ideale Continuiamo con il nostro esperimento mentale, supponendo che si convenga sull’opportunità di ricorrere a imposte per finanziare il fondo di solidarietà a favore degli individui indigenti, l’accesso agevolato ai beni di merito e il servizio di protezione della persona e della proprietà, e che il contribuente debba versare una somma in base alle proprie disponibilità. Se per “disponibilità” si intende “capacità di contribuire”, questa è sinonimo di ricchezza. La ricchezza di un individuo o di un nucleo famigliare sarebbe quindi la base imponibile ideale. Se l’arco temporale è un anno, e se per ricchezza si intende il potere d’acquisto dell’individuo nell’anno di riferimento, la sua ricchezza sono le consistenze patrimoniali registrate in un determinato momento (per esempio all’inizio dell’anno), più i redditi da lavoro e da capitale percepiti nei dodici mesi successivi. Certo, l’applicazione di tale principio non manca di sollevare perplessità. La ricchezza di un individuo comprende sia il suo patrimonio materiale (attività finanziarie, immobiliari, pietre e metalli preziosi, opere d’arte), sia il suo capitale umano (istruzione, talento, intelligenza). Mentre la misurazione del patrimonio materiale è relativamente agevole, quella del capitale umano lascia spazio all’arbitrio. Inoltre, la tassazione del patrimonio discrimina fra le cicale e le formiche. Sono avvantaggiati coloro che consumano e che, a parità di altre condizioni, hanno patrimoni relativamente ridotti. Sono, invece, sfavoriti coloro che risparmiano, magari per evitare di pesare sugli altri in caso di necessità, e presentano pertanto attività finanziarie e immobiliari più significative. Si pensi al risparmio con finalità pensionistico-previdenziali: i patrimoni materiali sono la fonte di sostentamento prevalente per coloro che non sono più in età lavorativa. Quindi un’imposta sul patrimonio discriminerebbe fra i contribuenti a seconda della loro età, delle loro scelte di vita e dei loro profili di risparmio. Sono queste difficoltà insormontabili? In merito al primo punto, va sottolineato che la capacità contributiva di un individuo corrisponde alle sue effettive disponibilità, non a quanto
CAPACITÀ CONTRIBUTIVA E RICCHEZZA. TRE INTERROGATIVI
TRE POSSIBILI RISPOSTE
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ANCORA QUALCHE NUMERO
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potrebbe contribuire se sfruttasse tutte le risorse – incluso il tempo – a sua disposizione. È innegabile che considerare come base imponibile la ricchezza materiale privilegia coloro che decidono di usare i propri talenti per attività contemplative piuttosto che per produrre beni e servizi. Si tratta del resto di una discriminazione caratterizzante ogni appropriazione indebita, quale l’imposta è agli occhi di un liberista: l’autorità non può che rivolgere l’attenzione verso ciò che esiste, non verso ciò che sarebbe potuto essere. Veniamo al secondo aspetto. Un’imposta che considera la capacità di spesa sinonimo di capacità contributiva sarà sempre e necessariamente a sfavore del risparmio, poiché quanto non viene immediatamente consumato per definizione costituirà parte del potere d’acquisto di un individuo in periodi successivi. Più precisamente, le ragioni che suggeriscono di tassare la ricchezza non escludono che la base imponibile sia tassata più volte bensì, e contrariamente a quanto avviene attualmente ovunque, che non sia tassata più volte nello stesso periodo (l’anno, nel nostro esempio). In altri termini, poiché l’accento è posto sulla capacità contributiva, questa va considerata periodo per periodo (anno per anno), indipendentemente dal fatto che abbia già costituito base imponibile nei periodi precedenti. Lo stesso ragionamento può essere esteso al terzo punto. Il fatto di non percepire redditi da lavoro non sempre indica assenza di capacità contributiva. È ben vero che, per gli individui a basso reddito da lavoro, soprattutto se dotati di patrimoni che non generano flussi di reddito in forma liquida (si pensi alle opere d’arte, ai preziosi o a immobili non dati in affitto), l’imposta può richiedere disinvestimenti, riducendo così la capacità di contribuire in esercizi successivi. È questa la conseguenza di scelte individuali sulla liquidità e frazionabilità delle diverse forme di investimento, ma che influisce solo marginalmente sui profili di consumo/risparmio, e quindi sulla consistenza dei patrimoni. Concludiamo questa sezione con qualche riferimento agli ordini di grandezza tipici di un sistema fiscale caratterizzato da un’unica imposta sulla ricchezza, ove l’aggettivo “unica” indica che tale base impositiva si sostituirebbe a tutte le altre (per esempio, redditi da lavoro e da capitale, consumi, valore aggiunto). Di quanto si tratta e a quali aliquote impositive si dovrebbe pensare? Se si prende come riferimento l’Italia, nel 2018 la ricchezza netta degli Italiani ammontava a circa 9.800 miliardi di euro, pari a circa 5,6 volte il prodotto interno lordo. Da tale somma sono esclusi i conteggi relativi alle opere d’arte e ai preziosi. I redditi da lavoro e le rendite finanziarie, invece, ammontavano a circa il 66% del
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PIL, ovverosia a circa 1.150 (1.100+50) miliardi l’anno. Questo significa che se l’intero gettito fiscale fosse pari al 43% del PIL, e fosse generato da un’imposta unica sulla ricchezza, in quell’anno sarebbe stata necessaria un’aliquota di poco inferiore all’8% annuo. Benché il gettito da patrimoniale sia stato calcolato in modo da uguagliare quello generato dal sistema impositivo attuale, e sebbene sia coerente con il principio della capacità contributiva, si tratta di un’aliquota che probabilmente incontrerebbe una forte opposizione. Una patrimoniale di questo tipo colpirebbe anche il valore del patrimonio immobiliare (poco meno del 60% della ricchezza complessiva degli Italiani), interesserebbe l’abitazione principale, provocherebbe un’immediata flessione dei prezzi degli immobili e drenerebbe una quantità considerevole di liquidità dai bilanci famigliari. Lasciamo agli antropologi e agli psicologi fornire altre motivazioni sul perché, probabilmente, il contribuente medio preferisce versare oltre il 40% del proprio reddito all’erario (il regime attuale), anziché usare la stessa somma per ricostituire la propria ricchezza al livello precedente il prelievo patrimoniale. Invece, richiamiamo l’attenzione sul fatto che, secondo la prospettiva liberista presentata in questo capitolo, e in particolare all’inizio della sezione 4, la spesa pubblica da finanziarsi ricorrendo alla contribuzione generale sarebbe non oltre il 15% del PIL, un dato molto inferiore alla spesa pubblica totale attuale. Sempre nel caso italiano, finanziare tale spesa attraverso un’imposta patrimoniale unica richiederebbe un’aliquota intorno al 2,7%, un tasso probabilmente tollerabile e che in tempi normali corrisponde al tasso di rendimento di un patrimonio gestito con prudenza. I vantaggi di un regime di questo tipo sono palesi. Ogni soggetto d’imposta contribuirebbe in base alle proprie disponibilità a ciò che i più definiscono come il bene comune. Avrebbe inoltre la piena libertà di acquistare beni di merito – per esempio, sanità e istruzione – rivolgendosi ai fornitori che predilige (compreso lo stato) in un contesto concorrenziale e utilizzando il maggior potere d’acquisto che l’assenza di altre forme di tassazione comporterebbe. Infine, la semplicità di un’imposta proporzionale pura – ovverosia senza soglie di esenzioni, deduzioni o detrazioni – permetterebbe di procedere alla redistribuzione del reddito unicamente attraverso la spesa, a vantaggio della trasparenza e di eventuali interventi di decentramento amministrativo e decisionale.
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7. Un’alternativa Come si è accennato a più riprese in precedenza, un’imposta patrimoniale unica e proporzionale meglio di altre soddisfa i criteri di capacità contributiva e trasparenza. Eppure, è probabile che essa sia osteggiata sia dalle élite politiche, sia dall’opinione pubblica. La maggior parte degli individui ritiene che il proprio patrimonio sia una riserva di potere d’acquisto in caso di necessità impreviste, e una fonte di reddito a integrazione della pensione statale. Essi ritengono che questi accantonamenti/risparmi non debbano essere aggredibili e che, quindi, la consistenza del patrimonio possa variare solo in funzione dell’andamento dei mercati finanziari e dei piani di accumulo/decumulo decisi dall’individuo stesso. Del resto, oggi la fiscalità generale non è percepita come una quota d’iscrizione a una comunità, né si rinuncia all’idea che esistano distribuzioni del reddito e della ricchezza eque, con riferimento alle quali disegnare criteri impositivi diversi da quello proporzionale. Questo non significa che attualmente l’erario lasci intatte le consistenze patrimoniali dei residenti, né che la progressività dell’imposta non stia cedendo il passo alla proporzionalità. Anzi. Tuttavia, è palese che quando si tratta di ricchezza il fisco tende a intervenire con una certa cautela e ricorre a forme di tassazione relativamente poco visibili, non di rado attribuendo a diversi livelli amministrativi la responsabilità della riscossione. In breve, è plausibile supporre che un sistema fiscale realistico continui a considerare i flussi, e non i patrimoni, come le basi imponibili che sollevano meno resistenze, e quindi politicamente preferibili. In particolare, la maggior parte dei sistemi fiscali dei paesi avanzati ha come obiettivi principali tre categorie di flussi, che per semplicità definiamo con riferimento al momento della riscossione: le imposte dirette (sui redditi), le imposte indirette (sui consumi) e i contributi sociali (sui redditi). È possibile immaginare una prospettiva liberista imperniata sui flussi? Come detto in precedenza, il requisito di trasparenza richiede che si individui un metodo chiaro, condivisibile e possibilmente coerente per definire la base imponibile; e di attenervisi senza eccezioni. Non si nega l’esistenza di situazioni di indigenza. Tuttavia, lo ricordiamo, queste sono oggetto delle valutazioni sulla spesa, non sulla pressione fiscale. In altri termini, il principio di proporzionalità che costituisce il fondamento liberista della capacità contributiva non dipende dal fatto che i contribuenti presentino tenori di vita e necessità diversi.
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Se esigenze di opportunità politica impongono di non individuare la base imponibile nella ricchezza, mantenere la prospettiva liberista significa ricorrere a flussi che comunque rispecchiano la capacità contributiva e astenersi dal proseguire finalità redistributive. In questa prospettiva, la base imponibile non può che essere l’attività di consumo finale, che meglio dei redditi o del valore aggiunto riflette il potere d’acquisto degli individui e che, in questo caso, comprenderà anche l’acquisto di immobili per uso proprio (residenziale), ma non di quelli dati in locazione. In breve, come già suggerì Pascal Salin (1985) con motivazioni diverse e modalità di calcolo e riscossione leggermente differenti da quelle qui esposte, il reddito sarà oggetto d’imposta non nel momento in cui è percepito, bensì nel momento in cui è materialmente speso. Coerentemente con l’impostazione qui proposta, dunque, risparmi e investimenti non costituiscono base imponibile. Essi sono flussi di spesa finalizzati alla creazione di beni di consumo futuro, i quali saranno base imponibile futura. Gli investimenti più redditizi daranno luogo a maggior potere d’acquisto e consumo per coloro che li hanno effettuati. Quelli sbagliati si tradurranno in perdite e ridurranno la capacità di consumo e le imposte dovute. Analogamente, le donazioni e i lasciti ereditari saranno anch’essi esclusi dalla base imponibile e saranno fiscalmente colpiti solo nel momento in cui saranno spesi dai beneficiari per l’acquisto di beni di consumo finali. L’aliquota relativa a un’imposta unica sul consumo – doppiamente unica, perché il consumo sarebbe l’unica base imponibile e perché vi sarebbe un’unica aliquota – sarebbe certamente elevata. Con riferimento al contesto italiano, si consideri che negli ultimi anni la propensione al consumo delle famiglie è stata superiore al 90% del reddito disponibile. Ciò significa che, se la propensione al consumo è calcolata con riferimento al prodotto interno lordo, in prima approssimazione la base imponibile nel 2018 sarebbe stata pari a circa 1.580 miliardi di euro. Se a tale somma si aggiunge il valore delle compravendite d’immobili a uso residenziale (stimato pari a circa 90 miliardi di euro), si ottiene una base imponibile complessiva pari a 1.670 miliardi di euro. Per ottenere lo stesso gettito tributario registrato nel 2018 (522 miliardi di euro) si sarebbe quindi dovuto applicare un’aliquota del 31%. L’aliquota salirebbe al 45% se si trattasse di conseguire lo stesso gettito fiscale (753 miliardi di euro), gettito comprensivo tanto delle entrate tributarie quanto di quelle contributive. Sarebbe un’aliquota elevata e dolorosa, che forse chiarirebbe a molti quanto è il peso effettivo dello stato nella vita di ognuno. Naturalmente, tale aliquota si ridurrebbe significativamente se il ricorso alla fiscalità generale fosse limitato a quanto necessario per finanziare la solidarietà obbligatoria, la giusti-
LA SPESA PER BENI DI CONSUMO FINALE
INVESTIMENTI E DONAZIONI
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zia e l’ordine pubblico. In questo caso il gettito fiscale richiesto sarebbe di circa 260 miliardi (dati 2018), e l’imposizione sui consumi (compresi gli acquisti di immobili residenziali) necessaria sarebbe intorno al 16%.
Riferimenti bibliografici Bentham, Jeremy (1830), “Principles of the Civil Code”, in The Works of Jeremy Bentham, vol. 1, a cura di John Browning (1838-43), Edinburgo: William Tait. Commissione Europea (2015), “Economic growth and poverty reduction in a rapidly changing world”, Economic Brief, 019, ottobre. Dollar, David e Aart Kraay (2002), “Growth is good for the poor”, Journal of Economic Growth, 7 (3), settembre, pp. 195-225. Hamilton, Alexander (1788), “Concerning taxation”, in Federalist Papers, 36, Indianapolis: Liberty Fund 2001 (traduzione italiana: Pisa, Nistri Lischi 2007). Marx, Karl e Frederick Engels (1849), Manifest der Kommunistischen Partei, Londra: Bildungsgesellschaft für Arbeiter (traduzione italiana: Segrate, BUR 2001). Mill, John Stuart (1848), Principles of Political Economy, Londra: John W. Parker (traduzione italiana: Torino, Utet 2013). Pigou, Arthur C. (1920), The Economics of Welfare, Quarta edizione, Londra: MacMillan, 1932 (traduzione italiana: Torino, Utet 1948). Rousseau, Jean-Jacques (1755), “Discours sur l’Économie Politique”, Tome V de l’Encyclopédie, Parigi: Briasson et le Bréton (traduzione italiana: Bari, Laterza 1968). Salin, Pascal (1985), L’Arbitraire Fiscal, Parigi: Éditions Robert Laffont (traduzione italiana: Macerata, Liberilibri 1996). Sen, Amartya (2009), The Idea of Justice, Boston (Ma): Allen Lane e Harvard University Press (traduzione italiana: Segrate, Mondadori 2014). Smith Adam, (1776), An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, edizione a cura di E. Cannan, Londra: Methuen 1904 (traduzione italiana: Torino, Utet 2017). Spooner, Lysander (1870), No Treason. The Constitution of No Authority, Pantianos Classics edition, 2017. Weil, David (2005), Economic Growth, Londra: Routledge (traduzione italiana: Milano, Hoepli 2007).
PARTE III
LO STATO PATERNALISTA
I BENI DI MERITO: L’ISTRUZIONE
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CAPITOLO 5
I BENI DI MERITO: L’ISTRUZIONE 1. I beni di merito: solidarietà, paternalismo, interesse collettivo e arbitrio Nel capitolo introduttivo si è sottolineato come i beni di merito, un concetto introdotto e sviluppato da Richard Musgrave (1957), in realtà non presentino alcuna caratteristica intrinseca specifica, se non quella di essere comunemente considerati di particolare valore per la vita di una persona e quindi socialmente desiderabili. Per esempio, si è soliti ritenere che l’istruzione sia importante poiché consente all’individuo di essere produttivo, percepire un reddito dignitoso e non gravare sulla collettività che altrimenti dovrebbe farsene carico in nome della solidarietà e dell’interesse collettivi. Inoltre, sempre per quanto riguarda l’istruzione, si ritiene che essa sia fonte di esternalità positive per la società (si pensi al ruolo dell’istruzione nella rivoluzione industriale) e, in generale, di benefici che il singolo non apprezza a sufficienza e per il conseguimento dei quali non è disposto a pagare il prezzo di mercato. La sanità, invece, è considerata una sorta di risposta ad avversità naturali di diversa gravità (malattie e menomazioni), per far fronte alle quali possono essere necessarie risorse di cui l’individuo non dispone. In questo caso il merito è riferito all’importanza che una collettività attribuisce al benessere fisico di ogni individuo e l’intervento del governo è giustificato in quanto espressione di questo sentimento, nonché garanzia della solidarietà collettiva che ne deriva. Sempre per quanto riguarda la sanità, raramente si menzionano motivazioni paternalistiche, mentre i riferimenti alle esternalità positive sono limitati alle cure per la prevenzione delle malattie contagiose. Il punto di vista liberista sui cosiddetti beni di merito propone quattro ordini di riflessioni. In primo luogo, si osserva che le difficoltà economiche di un individuo o di un nucleo famigliare, difficoltà che impediscono di finanziare l’istruzione propria o dei figli o di sostenere cure mediche necessarie, non creano obblighi per gli altri membri della colletti-
1) SCELTE INDIVIDUALI E OBBLIGHI COLLETTIVI
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2) IL CONTRATTO SOCIALE
LO STATO PATERNALISTA
vità. Questi ultimi possono certamente avvertire un impegno morale nei confronti del prossimo e intervenire in aiuto dei meno abbienti, come del resto è accaduto di frequente in passato in numerose comunità. Tuttavia, si ripete quanto già chiarito nei capitoli della prima parte, la generosità è una questione individuale e non giustifica norme formali, che per loro natura vincolano l’intera collettività. Pertanto, benché la mancanza di sentimenti altruistici sia deprecabile, essa potrà essere sanzionata solo con provvedimenti e atteggiamenti che escludono la violenza e l’aggressione della proprietà privata. Analogamente, le avversità naturali e il comportamento di genitori privi dei mezzi necessari per nutrire, istruire e curare adeguatamente i propri figli possono suscitare compassione e dar luogo a slanci generosi e certamente condivisibili, ma non creano obblighi formali a carico di terzi. Si è soliti replicare – è questo un secondo insieme di commenti – che l’accesso privilegiato ai beni di merito è in realtà giustificato da una sorta di contratto sociale. A seguito dell’adesione a tale contratto l’individuo avrebbe diritti e doveri. Fra i diritti vi sarebbe quello di consumare a condizioni agevolate determinate quantità di servizi ritenuti fondamentali. Questa argomentazione ha fondamento solo se si afferma che, laddove la legittimazione della classe politica prevede libere elezioni, il voto è l’atto con cui l’individuo sottoscrive il contratto, che il contenuto del contratto è chiaro e definito, e che con il voto si conferisce una delega al rappresentante eletto. Inoltre, si deve ammettere che la delega è valida anche se il rappresentante eletto non è colui indicato dall’elettore singolo, ma da una maggioranza di altri individui; e si riconosce che il voto non esprime una delega limitata a un insieme di provvedimenti annunciati dal candidato eletto prima del voto, bensì una sorta di mandato aperto, che permette all’eletto di promuovere o contrastare politiche e provvedimenti secondo le proprie preferenze (e convenienze), anche quando queste sono in contraddizione con quanto eventualmente dichiarato in precedenza all’elettorato. Dunque, il contratto sociale è in realtà una figura retorica volta ad affermare che la delega aperta conferita attraverso il voto è legittima; e che il consumo dei cosiddetti beni di merito è in parte il risultato di un accordo collettivo e in parte, se non soprattutto, il risultato delle scelte dei candidati eletti. In questa prospettiva, il liberista ritiene che le procedure elettorali non implicano una sorta di delega aperta conferita al vincitore, che il contratto sociale è un’espressione priva di contenuti e che pertanto esso non conferisce legittimi poteri coercitivi ad alcuno. Naturalmente, tale ragionamento si applica con forza ancora maggiore nei confronti
I BENI DI MERITO: L’ISTRUZIONE
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di coloro che non hanno votato, i quali di fatto dichiarano di non voler essere rappresentati, di non voler essere coinvolti nella definizione dei beni di merito e, più in generale, di non accettare interventi fiscali e normativi di alcun tipo. Un terzo ordine di perplessità ha per oggetto le quantità consumate. Pur ipotizzando che gli individui sottovalutino i benefici che il consumo di istruzione e sanità comporta, e che di conseguenza tali consumi meritino di essere sussidiati per evitare che i singoli agiscano contro il proprio interesse, ciò non significa necessariamente che ogni individuo abbia diritto a un consumo illimitato, o che sia ragionevole sostenere qualunque costo di produzione per soddisfare una domanda potenzialmente infinita. In altri termini, si pone il problema di calcolare il consumo auspicabile – qualcuno direbbe “ottimo”. Si tratterebbe di un esercizio di ingegneria sociale che il liberista rifiuta per le ragioni esposte nella prima parte di questo volume e che darebbe luogo a scelte arbitrarie e quasi sempre a errori per eccesso, poiché il politico si industrierà per accrescere il proprio ruolo (potere, prestigio, consenso) e dunque proporsi come gestore di risorse sempre maggiori. La crescita del rapporto fra spesa pubblica e PIL ne è conferma. Infine, si richiama l’attenzione su un aspetto relativo alla produzione. Quale che sia l’opinione del lettore sui consumi desiderabili dei beni di merito, l’opportunità di sussidiarne l’accesso non implica necessariamente che la loro produzione sia di competenza esclusiva di un ente statale. Di conseguenza, non solo si tratta di spiegare se e perché la produzione da parte di un’impresa statale è più efficiente rispetto a quella di un’impresa privata, ma anche perché, qualora sia effettivamente così, la prima debba comunque godere di privilegi rispetto alla seconda. In questo capitolo si tratterà di quantità e privilegi nel caso dell’istruzione, mentre il capitolo successivo è dedicato alla sanità.
2. L’istruzione che non serve Si è accennato nella sezione precedente come, se si trascurano gli aspetti redistributivi che solitamente caratterizzano il dibattito fra liberisti e fautori dell’intervento pubblico, l’opinione pubblica solitamente ritenga che l’intervento statale nell’ambito dell’istruzione sia giustificato da motivazioni paternalistiche (l’individuo è irrazionale e quindi spende meno di quanto il suo stesso interesse suggerirebbe), nonché dalla presenza di esternalità positive (se Roberto studia e impara, ne benefi-
3) IL PROBLEMA DELLA QUANTITÀ SOCIALMENTE DESIDERABILE
4) MONOPOLIO STATALE DELLA PRODUZIONE DEI BENI DI MERITO
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ISTRUZIONE E PATERNALISMO
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cia anche Paola) e negative (frustrazione). In realtà, tali affermazioni sono discutibili. Questa sezione è dedicata alla prospettiva paternalistica, mentre le due che seguono esaminano le esternalità positive e negative. È verosimile immaginare che, se l’istruzione non fosse sussidiata, le famiglie acquisterebbero una quantità di frequenza scolastica inferiore a quella attuale. Si tratta quindi di stabilire se una scelta volontaria a favore di una minore scolarità, intesa come anni passati sui banchi di scuola, sia effettivamente una scelta irrazionale. Bryan Caplan (2018) ha esteso una letteratura che risale all’inizio degli anni Settanta e che annovera, fra gli altri, contributi di Kenneth Arrow (1973) e Michael Spence (2004). In sostanza, Caplan afferma che gli anni della cosiddetta scuola elementare e media inferiore accrescono il capitale umano degli alunni e contribuiscono all’alfabetizzazione basilare: comprensione di un semplice testo, capacità di esprimersi compiutamente e padronanza dell’aritmetica elementare. Purtroppo, molte indagini empiriche documentano come otto anni di frequenza scolastica siano talora insufficienti a completare l’alfabetizzazione di base, un problema a cui il prolungamento della scolarità non rimedia in misura soddisfacente. Dopo il primo ciclo, infatti, gli attuali sistemi scolastico-universitari contribuiscono in misura limitata ad accrescere le competenze richieste dai futuri datori di lavoro. Secondo Caplan e gli autori che l’hanno preceduto, l’istruzione secondaria e quella superiore forniscono soprattutto segnali – i diplomi – che consentono ai datori di lavoro di selezionare i candidati con riferimento non tanto alle loro conoscenze, quanto alle loro capacità di inserirsi in un’organizzazione produttiva, accettandone le regole e le consuetudini. Naturalmente, non mancano eccezioni importanti. In particolare, l’istruzione secondaria e superiore comporta un arricchimento significativo del capitale umano per chi frequenta scuole professionali di qualità e per una frazione dei laureati in ingegneria, chimica, scienze mediche e diritto, quella frazione che effettivamente lavorerà mettendo a frutto le conoscenze acquisite. Per la maggior parte delle altre discipline, invece, completare un percorso di formazione avanzata segnala che si è più motivati o disciplinati di coloro che non hanno conseguito un diploma. In altri termini, i ben noti “pezzi di carta” in qualche modo certificano le caratteristiche intrinseche degli individui: tenacia, capacità di adattamento, tolleranza, intelligenza. Essi sono importanti per accumulare segnali e competere sul mercato del lavoro e superare coloro con certificati/diplomi meno importanti; ma raramente indicano il possesso di una maggiore capacità professionale e quindi produttiva.
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Questo ragionamento conduce a tre ordini di conclusioni, peraltro ampiamente documentate da Caplan e confermate dagli studi empirici da lui citati. In primo luogo, l’aumento generalizzato della permanenza negli istituti scolastici ha peggiorato la qualità del segnale iniziale (“il diploma serve quando non lo si ha”) e spinto i giovani a dotarsi di nuovi segnali. Chi prima sperava di differenziarsi attraverso il completamento del secondo ciclo, ora cerca di raggiungere il medesimo obbiettivo prolungando la propria permanenza sui banchi degli istituti di grado superiore (l’università). E con l’affollarsi delle aule universitarie, il moltiplicarsi delle lauree e l’inflazione dei punteggi, si cercano nuovi segnali nei master, nelle scuole di perfezionamento e nei dottorati. Il risultato è che una permanenza prolungata nel sistema scolastico crea sì una nuova struttura di segnali, ma non migliora le caratteristiche professionali degli studenti, né accresce la loro cultura generale (la cosiddetta capacità di apprendere): è questo il secondo ordine di conclusioni. Sussidiare tale permanenza è quindi uno spreco, ancora più deprecabile se si pensa che si tratta di denari del contribuente. In particolare, a una maggiore permanenza sui banchi di scuola corrispondono una vita lavorativa (e contributiva) più breve, minori possibilità di apprendere attraverso l’esperienza diretta, minori capacità di adattamento. Con il fiorire delle ambizioni e delle aspettative dei giovani aumentano le loro frustrazioni. Infine, si favorisce la crescita di una categoria di occupati – gli insegnanti – molti dei quali sono in realtà superflui e che a loro volta alimentano il proliferare di corsi di studi superiori a loro rivolti.
3. Istruzione ed esternalità positive Come accennato nell’introduzione, i fautori dell’importanza sociale dell’istruzione sostengono che un individuo istruito beneficia la comunità sotto tre diversi profili. Per un verso, maggiore è la dotazione di capitale umano di un individuo, maggiore è la sua produttività e quindi maggiore è il contributo che egli può offrire alla crescita economica della collettività nel suo insieme. In altri termini, il benessere di ogni membro di una comunità cresce al crescere dell’istruzione degli altri membri. Questo significa che, poiché la spesa in istruzione effettuata da ogni individuo è commisurata al beneficio che il singolo ne può trarre, e non tiene conto dei benefici che essa procura agli altri individui, l’investimento individuale risulterebbe inferiore a quanto socialmente desiderabile. In altri termini, come sottolineò Theodore Schultz (1961), la spesa in istru-
ISTRUZIONE ED ESTERNALITÀ POSITIVE: 1. CRESCITA ECONOMICA 2. COMPORTAMENTI VIRTUOSI 3. COESIONE SOCIALE
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zione non è una forma di consumo, bensì una forma di investimento che permette di raggiungere gli obbiettivi perseguiti dal governo: crescita della produzione e riduzione delle disuguaglianze. Inoltre, si afferma che al crescere del livello d’istruzione dell’individuo cresce il costo-opportunità dei suoi comportamenti criminali e, in genere, opportunistici. In sostanza, al crescere del grado di istruzione, aumentano il reddito e il tenore morale dell’individuo, e diminuisce così la propensione a intraprendere attività criminali o violare regole informali. Di conseguenza, per un verso la collettività può ridurre la spesa per la sicurezza e la giustizia e, per altro verso, sono facilitati i rapporti di cooperazione spontanea e ridotti i cosiddetti costi di transazione. Infine, è questa la terza categoria di esternalità positive, si reputa che un curriculum di studi che vada oltre l’alfabetizzazione di base e sia ideologicamente omogeneo costituisca un importante fattore di coesione sociale: contribuisce al radicamento del senso di appartenenza alla comunità, della solidarietà sociale, dell’accettazione di un ipotetico contratto sociale, della legittimazione dell’autorità statale. Questa è del resto la motivazione principale che giustificherebbe i privilegi accordati alla produzione governativa di servizi scolastico-universitari. In generale non vi è dubbio che, se per istruzione si intende l’arricchimento delle qualità professionali dell’individuo, essa produce esternalità positive. Quale produttore, a parità di altre condizioni, non desidera disporre di capitale umano qualificato o sovra-qualificato, cioè con conoscenze pari o superiori a quelle necessarie? Quale imprenditore non aspira a operare in un ambiente ricco di idee e fermenti creativi al fine di sviluppare ulteriormente la propria attività e le proprie innovazioni? E chi non ama interagire e confrontarsi con persone preparate, colte e pronte a cooperare? La realtà è tuttavia diversa. Come si è detto, e con poche eccezioni (fra cui la Germania), nell’area OCSE i percorsi scolastici di secondo ciclo e superiori contribuiscono in misura modesta a formare le capacità professionali di un giovane. Anche i benefici in termini di cultura generale sono limitati. Se la propensione alla lettura è un buon indicatore degli interessi culturali di un individuo, i dati sono sconfortanti. Per esempio, quanto riguarda l’Italia, l’ISTAT segnala che nel 2017 il 59% dei residenti di sei anni o più non aveva letto nemmeno un libro, se non per motivi professionali; il fenomeno si accentua fra coloro nella fascia d’età fra i 14 e i 55 anni e nelle regioni meridionali, dove la percentuale sfiora il 72%. Secondo il rapporto ISTAT su “La produzione e la lettura dei libri in Ita-
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lia”, l’interesse per i libri nasce nel contesto famigliare, non in ambito scolastico. Sembra dunque illusorio sperare che la scuola apra la mente dei giovani, sviluppi l’amore per il sapere e insegni loro come apprendere. Del resto, la ricorrente difficoltà degli studenti a formulare risposte articolate ed elaborare saggi sintetici dimostra quanto sia diffusa l’incapacità di comprendere e rielaborare in modo autonomo le nozioni presentate dall’insegnante e (per breve tempo) memorizzate. Certo, i dati italiani sono impressionanti, ma non molto lontani da quanto si osserva, sempre per esempio, negli Stati Uniti, ove la spesa media per l’istruzione per ogni studente è quasi due volte quella italiana. In altri termini, è ragionevole dubitare che la mancanza di capitale umano e di cultura generale possa essere colmata aumentando l’obbligo di frequenza scolastica o la remunerazione degli insegnanti, fermo restando tutto il resto. Difficilmente un insegnante meglio pagato o con classi ancora più piccole di quelle attuali cambia i contenuti di ciò che trasmette o può sostituirsi a un contesto famigliare poco stimolante. Per concludere, se è vero che le qualità intrinseche dell’individuo sono più il frutto di quanto appreso ed ereditato nell’ambito famigliare che non di nozioni apprese nel ciclo secondario e in quello superiore, non è escluso che percorsi formativi adeguati possano arricchire la qualità morale (senso del dovere, etica del lavoro, rettitudine) e la curiosità intellettuale dei giovani. Tuttavia, tali percorsi sono rari nei sistemi scolasticouniversitari dell’area OCSE, e non è un caso che essi tendano a essere preferiti proprio da coloro che provengono da ambiti famigliari più favorevoli allo sviluppo di tali qualità e curiosità. Insomma, la cultura ha un ruolo importante, ma raramente si superano i limiti culturali prolungando la permanenza sui banchi di scuola.
4. Le esternalità negative di un’istruzione in parte inutile Che cosa resta, allora, delle esternalità legate all’istruzione? La risposta è scoraggiante. Come si è accennato, gli studi indicano che la maggior parte degli individui che hanno trascorso la propria adolescenza e gioventù sui banchi di scuola non sono più preparati di coloro che hanno scelto di anticipare l’entrata nel mondo del lavoro. Di conseguenza, difficilmente i giovani più scolarizzati sono in grado di contribuire alla crescita economica del resto della comunità; ed essi possono addirittura essere un aggravio (esternalità negative) se una permanenza eccessivamente prolungata nel sistema scolastico genera frustrazione,
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L’ISTRUZIONE COME FONTE DI DISUGUAGLIANZE CRESCENTI
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vittimismo e propensione a considerare il posto di lavoro un’occasione per comportamenti parassitari. Naturalmente, l’aggravio è più avvilente se si considera che una larga parte della spesa per istruzione è a carico della collettività. Non è tutto. Le esternalità negative possono essere ancora più intense se, pur in presenza di una crescita limitata della produttività della forza lavoro nel suo insieme, e dunque delle remunerazioni complessive, l’aumento di scolarità secondaria e superiore genera una maggior distanza fra i più scolarizzati e i meno scolarizzati; distanza che non trova riscontro nei meriti e nelle professionalità degli interessati, ma che conduce a una crescente diseguaglianza fra i “ricchi” (che hanno accesso ai segnali relativamente migliori) e i “poveri” (con segnali relativamente più deboli). In altri termini, una politica di sussidi motivata da esternalità positive in realtà inesistenti produce un meccanismo che, aumentando la scolarità, conduce a disoccupazione strutturale per coloro con scarse capacità professionali, disoccupazione che in assenza di crescita economica si estende anche a coloro più qualificati e favorisce una crescente e in parte ingiustificata concentrazione del reddito. Certo, il liberista non considera la disuguaglianza nella distribuzione del reddito necessariamente un “male”. Come sosteneva Anthony de Jasay (2015), non esiste nessun motivo a priori per ritenere che una distribuzione uniforme sia migliore o peggiore di una distribuzione irregolare. Diverso però è il giudizio se la diseguaglianza è provocata da un sistema di segnali artificioso alimentato dalla fiscalità generale. A ciò si aggiunga che ritardare l’entrata di un giovane nel mercato del lavoro non riduce la propensione ad intraprendere attività criminali, anzi. L’eccessiva permanenza sui banchi di scuola aumenta il senso di delusione di coloro che hanno dedicato anni per ottenere diplomi/segnali solo parzialmente soddisfacenti e i cui redditi si allontanano per difetto dalla remunerazione media del lavoro delle società a cui appartengono. Criminalità e tensioni sociali nascono anche dalle speranze frustrate, dalle delusioni patite sul mercato del lavoro, una situazione peraltro diffusa in tutto il vecchio continente. Secondo Eurostat, nel 2018 il 37% dei giovani italiani non aveva un’occupazione a distanza di tre anni dalla laurea (il dato UE era il 15%) e la loro condizione di disagio economico è significativa: sempre per l’Italia, nel 2019 oltre il 30% dei giovani fra i 15 e i 24 non studiava e non lavorava (il dato UE era il 15%).
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5. Conclusioni preliminari In sintesi, benché i benefici legati all’istruzione secondaria e superiore sussidiata e obbligatoria siano difficili da quantificare, è probabile che essi siano modesti: a segnali più frequenti e confusi (le fabbriche di diplomi) non sempre corrispondono produttività più elevate. Anzi, sono numerosi coloro che pensano che, per esempio, gli studenti che hanno terminato le superiori negli ultimi anni siano meno istruiti dei 18/19enni di 60 anni prima. Sono dunque limitati i benefici di cui il contribuente finanziatore gode (le esternalità positive), mentre sono sensibili le esternalità negative. Queste ultime comprendono i sacrifici imposti al contribuente, che si trova a sostenere il peso di un regalo obbligatorio – l’istruzione sussidiata – spesso inutile e controproducente (l’entrata ritardata nel mondo del lavoro); gli effetti sulle coorti di giovani frustrati e demotivati che finiscono per gravare in misura crescente sullo stato sociale; e i mancati benefici in termini di crescita economica che si sarebbe verificata se il contribuente, anziché finanziare l’istruzione altrui, avesse impiegato almeno parte di quelle risorse in attività d’investimento, creando ricchezza futura e benessere con risultati superiori a quelli legati a una scolarità elevata. Dunque, il liberista non ritiene che la presenza di ipotetiche esternalità positive sia motivazione sufficiente per imporre una contribuzione obbligatoria a favore di un pubblico indiscriminato di beneficiari; e dubita che un sistema scolastico che in fondo sembra progettato per privilegiare gli insegnanti e gli insegnanti degli insegnanti sia in grado di produrre apprezzabili benefici netti, pari alla differenza fra il valore del nuovo capitale umano creato e il costo della sua produzione. Naturalmente, il liberista non si oppone a che il singolo si faccia carico dell’istruzione dei bisognosi meritevoli, direttamente o indirettamente, per esempio attraverso fondazioni o organizzazioni caritatevoli. Si oppone però a che il carico sia obbligatorio, ritenendo che l’istruzione dei giovani non sia un dovere sociale, ma soprattutto responsabilità dei genitori.
6. Quanta istruzione, come e per chi: il caso del monopolio statale Quanto precede riguarda essenzialmente le perplessità legate all’opportunità di ricorrere al contribuente per agevolare l’acquisto di scolarità, porre rimedio all’irrazionalità degli individui e godere di due catego-
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rie di esternalità positive (ridotta criminalità e crescita). Nella sezione introduttiva si era altresì ricordata una terza categoria di esternalità: l’omogeneità culturale, la quale giustificherebbe il conferimento di privilegi al settore pubblico nell’ambito dell’erogazione di servizi educativi. Per un liberista, la creazione di una sorta di pensiero unico non è affatto auspicabile, né è auspicabile che le scelte educative di un funzionario pubblico prevalgano su quelle di un giovane e della sua famiglia e che la categoria degli insegnanti sia sottratta alle pressioni concorrenziali tipiche di un contesto di mercato. L’istruzione pubblica sussidiata non è stata una storia di successo. Nel 2012, circa il 17% della popolazione OCSE risultava funzionalmente analfabeta, ovverosia incapace di comprendere il contenuto di un semplice, breve articolo o di leggere una tabella elementare (il dato per l’Italia era pari al 30% circa). Nulla lascia credere che un contesto più competitivo condurrebbe a risultati peggiori. In ogni caso, se si esclude una visione populista-totalitaria, non c’è nulla che giustifichi l’attribuzione di un ruolo di privilegio all’istruzione statale. Il funzionario statale può certamente fornire consigli ed eventualmente competere con i privati per attrarre i giovani presso le proprie strutture. E nulla impedisce che uno stato concorrenziale, come gli altri produttori di servizi scolastici, svolga attività commerciali finalizzate in tal senso, per esempio segnalando al pubblico la bontà/qualità del proprio servizio. Tuttavia, non vi è motivo per vietare ad altri produttori – gli imprenditori privati – di fare altrettanto, lasciando alle famiglie il compito di scegliere l’istituto più adatto per i propri figli. Come si è accennato, e se si escludono finalità populiste, la tradizionale ambizione a conseguire l’omogeneità culturale non è una giustificazione fondata. Non è evidente che un insieme di funzionari, per quanto qualificati, sia in grado di individuare e abbia la legittimità per imporre metodologie e percorsi di apprendimento unici e sempre preferibili a quanto auspicato da un giovane e dalla sua famiglia. Anzi, il ricorrente e profondo divario fra le competenze richieste sul mercato del lavoro e le caratteristiche dei giovani che si affacciano su tale mercato dimostra come il modello governativo sia quanto meno discutibile e, in generale, incapace di adeguarsi alle mutevoli esigenze del mondo produttivo. Non solo. Nonostante la rigidità dei programmi ministeriali, i contenuti trasmessi dal sistema scolastico dipendono dagli insegnanti, non dalle autorità di un ministero. Ciò comporta due ordini di conseguenze. Un’offerta didattica variegata e concorrenziale può realizzarsi solo se gli insegnanti sono formati in un contesto altrettanto variegato e concorrenziale. Inoltre, e qui interviene l’elemento liberista, è difficile che una classe
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d’insegnanti, dipendenti dello stato e quindi in situazione privilegiata poiché protetti da stimoli concorrenziali e in molti casi beneficiari di forme di assistenzialismo indiretto, possa trasmettere adeguatamente i valori della responsabilità individuale, della pari dignità delle preferenze e, più in generale, una visione della morale e della cooperazione volontaria ispirata alla libertà da coercizione e alla presunzione di libertà. Certo, non mancano lodevoli eccezioni; ma sono, appunto, eccezioni. A sua volta, la transizione verso l’erogazione di servizi scolastici secondo principi concorrenziali pone tre questioni, a cui sono dedicate le sezioni che seguono: il ruolo del valore legale del titolo di studio, le modalità di erogazione di eventuali inevitabili sussidi e l’ammontare dei sussidi stessi.
7. Valore legale del titolo di studio, concorrenza e ordini professionali Come già accennato nel terzo capitolo, per valore legale del titolo di studio si fa riferimento al riconoscimento di un titolo di studio da parte dello stato. In particolare, l’aggettivo “legale” non indica le caratteristiche del titolo, bensì l’ente certificatore. Naturalmente, non vi sarebbe nessun problema se tale riconoscimento fosse attribuito da un privato: ognuno può avere le opinioni che crede sul contenuto degli studi completati da un individuo e sulla sua preparazione, ed è libero di metterlo per iscritto: è questa l’essenza di un diploma, di un certificato e di un albo che raccoglie queste certificazioni. Ognuno potrà poi dare a tali diplomi e certificati l’importanza che vuole. Ora, se si considerasse la pubblica amministrazione come un’azienda che produce beni e servizi non vi sarebbe nulla da obbiettare se questa azienda assumesse i propri addetti in base ai criteri che ritiene preferibili. E fra questi vi può certamente essere il conseguimento di diplomi certificati da sé stessa. Insomma, dal punto di vista liberista un ente statale potrebbe certamente assumere coloro certificati da un altro ente statale, così come un’azienda privata può assumere coloro in possesso dei requisiti e dei certificati che essa stessa individua – per esempio test attitudinali e professionali. È certamente sgradevole che un datore di lavoro di tale importanza – il settore pubblico nell’area OCSE assorbe in media oltre un quinto degli occupati totali – privilegi i candidati che hanno frequentato le scuole che il datore di lavoro stesso gestisce, autorizza e certifica – tutto con i soldi degli altri. Tuttavia, una volta accettata la pre-
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IL FALSO PROBLEMA
GLI ORDINI PROFESSIONALI
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senza e la legittimità dello stato, non si può impedire allo stato di darsi le regole che preferisce, e tali regole possono certamente includere la discrezionalità nel valutare i titoli di studio. In realtà, il valore legale del titolo di studio è un falso problema, dovuto soprattutto all’equivoco generato dall’aggettivo “legale”. Il punto centrale, invece, è il fatto che all’interno dello stato i responsabili delle assunzioni raramente devono dare conto della selezione effettuata, e che l’immunità è totale quando il criterio di assunzione prevede selezioni e concorsi del cui esito nessuno risponde e che non sempre sono immuni da manipolazioni. Il fatto che possano candidarsi solo i possessori di un titolo di studio rilasciato/certificato da un ente statale non fa che peggiorare la situazione, ed esclude candidati che sarebbero potenzialmente validi. Ben diverso sarebbe un contesto in cui i responsabili degli uffici avessero piena libertà di scegliere i requisiti/certificati, potessero selezionare direttamente i candidati e redigere i contratti di assunzione; e se fossero sanzionabili qualora i loro uffici fossero inefficienti. Certamente, la presenza di inefficienze sarebbe più evidente se la produzione statale avvenisse in un contesto concorrenziale, una configurazione certamente possibile anche per la produzione dei beni di merito oggetto di questo capitolo (e non solo). Insomma, e coerentemente con la visione liberista, il problema del valore legale del titolo di studio è soprattutto una questione di concorrenza. Il dibattito sul valore (legale) del titolo di studio investe anche un secondo insieme di questioni, a cui si è già accennato nel cap. 3: gli ordini professionali e, più in generale, l’accesso alle professioni. Come si è detto, nulla vieta che un club – lo si chiami ordine professionale – imponga requisiti d’ingresso a coloro che ne vogliono fare parte e regole ai propri iscritti; così come nulla vieta che i soci che non gradiscono quelle regole abbandonino un club ed eventualmente si iscrivano a un altro. Il punto rilevante non sono le regole del club, ma l’eventuale potere di un club di limitare la libertà dell’azione dell’individuo che non ne fa parte. In altri termini, e analogamente a quanto riscontrato in più passaggi di questi capitoli, il problema si presenta quando un vincolo associativo diventa una barriera normativa che limita l’azione della persona e dunque viola la presunzione di libertà. In un contesto ove tali barriere sono assenti, dunque, il problema del valore legale del titolo di studio non si pone. Tutti gli ordini professionali si configurerebbero come meri enti di certificazione della qualità dei propri iscritti e, naturalmente, ognuno di questi ordini/enti valuterà come meglio crede il percorso scolastico-universitario di coloro candidati a farne parte.
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In conclusione, il dibattito sul valore legale titolo di studio è quanto meno mal posto, poiché a ognuno dovrebbe essere garantita la possibilità di valutare come preferisce gli studi altrui, anche quando i criteri adottati non coincidono con i nostri. La pubblica amministrazione e gli ordini professionali non sono un’eccezione, anche se è deplorevole che il trattamento preferenziale da loro accordato ad alcuni percorsi di studio in realtà crei una domanda distorta a favore del produttore statale di servizi scolastico-universitari. Il nodo da sciogliere, piuttosto, è l’attuale divieto di esercitare un’attività se non si ha l’approvazione di un’autorità statale, direttamente o indirettamente: si pensi all’obbligo di ottenere una licenza per aprire un’attività commerciale o manufatturiera, oppure all’obbligo di iscrizione a un club/ordine professionale autorizzato e protetto dallo stato per svolgere un’attività professionale. Insomma, non si tratta tanto di una questione di valore legale, quanto di restrizione della concorrenza.
8. Voucher o sussidio? Il produttore pubblico di servizi scolastico-universitari gode di tre privilegi: l’autorità statale ha il potere di controllare indirettamente l’accesso ad alcune attività professionali; di imporre l’istruzione obbligatoria e al tempo stesso scoraggiare e talora impedire l’accesso agli istituti non graditi; e di ricorrere al contribuente per finanziare i costi di produzione. Le soluzioni di questi nodi, probabilmente in larga misura condivise dall’opinione pubblica, sono relativamente semplici. L’accesso alle attività professionali andrebbe liberalizzato, senza peraltro negare a chiunque – enti pubblici compresi – la possibilità di certificare la qualità dei professionisti, ai quali tuttavia non sarebbe imposto alcun obbligo di certificazione. Naturalmente, il liberista accoglierebbe con favore la pubblicità comparativa, e sarebbe interesse degli enti certificatori e dei professionisti certificati pubblicizzare i certificati conseguiti e rendere pubblici i nominativi di coloro che esercitano un’attività pur essendone sprovvisti. L’obbligo di scolarizzazione andrebbe riformulato in termini di opportunità. Attualmente l’obbligo di scolarizzazione è in realtà un obbligo di frequenza, che ha trasformato il diploma in un attestato di presenza scolastica. Come si è accennato a più riprese, i risultati sono deludenti. Nonostante in Italia il 98% degli studenti consegua il diploma di scuola secondaria di 1° grado (le cosiddette “scuole medie”) e oltre l’80% il di-
I PRIVILEGI DELL’AUTORITÀ
ATTIVITÀ PROFESSIONALI
SCOLARIZZAZIONE OBBLIGATORIA?
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IL SUSSIDIO
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ploma di scuola secondaria di 2° grado (le cosiddette “superiori”), non molti anni addietro il noto linguista Tullio de Mauro affermava che l’80% degli Italiani era caratterizzato da analfabetismo funzionale. Più in generale, le indagini del Program for International Student Assessment condotte dall’OCSE indicano che la qualità dell’istruzione nei paesi occidentali è non solo relativamente modesta, ma anche in diminuzione. Sarebbe ovviamente auspicabile restituire al diploma il contenuto che aveva in origine, assicurandosi che sia un certificato di alfabetizzazione effettiva e non di frequenza. A questo scopo, il liberista si appella alla concorrenza fra certificatori: a ogni istituto dovrebbe essere consentito di rilasciare un attestato di alfabetizzazione, mentre spetterebbe alle famiglie il compito di selezionare gli istituti in base ai contenuti formativi dei corsi offerti e valutare se incoraggiare i ragazzi a proseguire gli studi, anno dopo anno. Ogni istituto si riserverebbe il potere di rifiutare candidati inadatti per i corsi proposti e ai datori di lavoro spetterà il compito di assumere i ragazzi in base ai segnali percepiti. Naturalmente, il liberista seguirebbe Murray Rothbard (1973) e non andrebbe oltre: la sua visione, infatti, non contempla che un individuo sia costretto a finanziare il consumo altrui di beni di merito. Se si ipotizza, invece, che la collettività debba comunque offrire un accesso agevolato all’istruzione, coerenza con quanto sopra argomentato induce a obbligare il contribuente a finanziare un numero fisso di annualità scolastiche, non già le annualità necessarie per conseguire un diploma. Lo studente e la sua famiglia avranno così la possibilità – alcuni direbbero l’obbligo – di utilizzare quelle annualità presso gli istituti di proprio gradimento, per poi eventualmente continuare gli studi a proprie spese, indipendentemente dal conseguimento di un diploma. I giovani che rifiutassero tale opportunità, tuttavia, non beneficerebbero di un sussidio di disoccupazione, di un reddito minimo garantito o di altre forme di assistenza. Due sono le modalità di finanziamento dello schema sopra tratteggiato. La prima consiste nell’erogazione di un sussidio alle famiglie o ai ragazzi in età scolare, lasciando i beneficiari liberi di utilizzare tale sussidio come meglio credono, auspicabilmente – ma non necessariamente – per l’acquisto di servizi scolastici. È questa la soluzione preferita da chi ritiene che il sussidio sia tollerabile solo come aiuto alla povertà e che le preferenze dell’individuo siano sovrane e indipendenti dal valore che un politico o una maggioranza di persone attribuisce a una determinata categoria di consumi. A questo proposito sarebbe miope ignorare che non sono pochi coloro che credono che non valga la pena di studiare oltre il primo ciclo:
I BENI DI MERITO: L’ISTRUZIONE
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secondo i dati Eurostat, nel 2017 si trattava del 10,6% nell’Unione Europea e del 14% in Italia. Se invece si ritiene che il sussidio sia giustificato solo se il beneficiario lo utilizza per accedere a beni specifici, la soluzione è necessariamente il buono scuola, il cosiddetto “voucher” proposto da Milton Friedman (1955): a ogni nucleo famigliare in stato di bisogno è assegnato un titolo di credito nei confronti dello stato, valido solo per acquistare servizi educativi presso un istituto o singole persone. A loro volta, i venditori dei servizi educativi presenteranno il titolo all’incasso e riscuoteranno moneta presso l’autorità statale. Per un verso, i possessori del buono scuola à la Friedman potranno acquistare il servizio educativo che preferiscono, che non è necessariamente quello qualitativamente migliore. Per altro verso, gli educatori si sforzeranno di attrarre il maggior numero di acquirenti, dando vita a un’offerta scolastica differenziata per qualità e tipologia di contenuti. In particolare, gli insegnanti godranno di remunerazioni di mercato, commisurate al proprio costo-opportunità, al proprio impegno e all’apprezzamento degli acquirenti/studenti. Come è noto, in Italia e altrove proposte volte a realizzare un regime di questo tipo hanno sempre incontrato forti resistenze. Gli insegnanti meno preparati o motivati preferiscono avere un datore di lavoro – la pubblica amministrazione – che presenta un vincolo di bilancio più debole rispetto a quello imposto dalle pressioni concorrenziali proprie del libero mercato e offre garanzie che in altri contesti non avrebbero (si pensi alle possibilità di licenziamento e di trasferimento o alle interruzioni di attività), mentre molti insegnanti motivati e di qualità temono che la loro remunerazione in un sistema privatizzato non sarebbe significativamente superiore a quella in un sistema prevalentemente pubblico. Insomma, sebbene con sfumature diverse, la privatizzazione è avversata da coloro che temono la concorrenza: molte sedi scolastiche dovrebbero chiudere e ben pochi si rendono conto che sorgerebbero nuovi istituti e che molti istituti esistenti amplierebbero l’attività. In sintesi, la concorrenza è avversata da coloro che aspirano a posizioni privilegiate, mentre coloro che ne sarebbero avvantaggiati faticano a valutare l’entità del vantaggio, una situazione che del resto caratterizza tutti i tentativi di riforma in cui gli svantaggi sono certi e i vantaggi incerti. Una seconda fonte di resistenza è collegabile al timore che, mentre il finanziamento dell’istruzione pubblica è difficilmente comprimibile a causa del vincolo costituito dagli stipendi degli insegnanti e dal bacino
IL VOUCHER
L’OPPOSIZIONE ALLE PROPOSTE DI PRIVATIZZAZIONE
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LO STATO PATERNALISTA
di voti che essi costituiscono (la spesa pubblica media per studente in Italia e nei paesi EU appartenenti all’OCSE era 8.767 e 8.291 dollari nel 2008, 10.473 e 11.515 dollari nel 2017) 1, la spesa per i buoniscuola sia più facilmente aggredibile. I trasferimenti alle famiglie, infatti, sono comunque privi di vincoli contrattuali e si potrebbe a ragione sostenere che al crescere del reddito e al diminuire della popolazione scolastica diminuiscono le necessità di interventi assistenziali a favore dei giovani in età scolare. Anche in questo caso, la realtà indica che si preferiscono servizi educativi insoddisfacenti e sprechi di varia natura, ma con sussidio sicuro, a servizi educativi migliori con sussidi di ammontare incerto. Un terzo elemento ha per fulcro il concetto di responsabilità individuale: un sistema scolastico-universitario privatizzato e spogliato dei privilegi legati al valore legale del titolo di studio impone alle famiglie la responsabilità di scegliere fra le diverse opzioni disponibili, nonché di valutare se sostenere costi aggiuntivi per consentire ai propri figli di iscriversi presso gli istituti che meglio di altri soddisfano le proprie ambizioni e preferenze. Non si tratta tanto del costo della raccolta di informazioni – già oggi molte famiglie si informano sulle caratteristiche delle varie scuole e delle varie sezioni all’interno di singoli istituti. Si tratta piuttosto di accettare che l’educazione dei propri figli non è compito di un ministero, ma delle famiglie; di prendere atto che gli insuccessi non sono solo colpa di altri, ma delle condizioni di apprendimento maturate in casa; e che avere un giovane intellettualmente dotato e amante degli studi non corrisponde automaticamente a un obbligo aggiuntivo per la collettività (il suo mantenimento agli studi). Eppure, sebbene le resistenze siano tuttora significative, non è da escludersi che in un prossimo futuro esse si indeboliscano, a mano a mano che cresce la percezione che i percorsi scolastico-universitari attuali corrispondono solo in parte alle necessità del mondo del lavoro, che risorse ingenti devono comunque essere spese per integrare le carenze, che la qualità degli insegnanti è non di rado inadeguata, e che nella maggior parte dei paesi interessati difficilmente lo stato potrà permettersi di rispondere alle critiche dilatando ulteriormente la spesa.
1 Si veda OECD (2021: https://stats.oecd.org/Index.aspx?datasetcode=EAG_FIN_ RATIO). I valori in dollari sono corretti per la parità del potere d’acquisto.
I BENI DI MERITO: L’ISTRUZIONE
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9. Quanto vale il merito? Tema essenziale per una proposta di riforma è l’ammontare annuale del sussidio e il numero di annualità scolastiche per le quali si prevede l’erogazione. Naturalmente, il liberista considera il sussidio e il buonoscuola forme di assistenza, non la conseguenza di un eventuale dovere del contribuente di trasferire risorse a favore di famiglie con giovani in età scolare. Si tratta di un punto importante sotto due profili. L’idea di assistenza impone che il sussidio, di qualunque natura esso sia, vada erogato solo ai nuclei famigliari bisognosi e non indiscriminatamente. Inoltre, le agevolazioni per l’istruzione fanno parte delle risorse dedicate a quella che all’inizio del quarto capitolo si era definita “carità obbligatoria” verso i poveri. Di conseguenza, secondo questo punto di vista, l’istruzione rientra nelle prestazioni proprie dello “stato sociale” e, contrariamente alle spese per la giustizia, la difesa o l’ordine pubblico, non costituisce una voce di bilancio a sé stante. Nel capitolo precedente si era ipotizzato che una comunità accantonasse una somma pari al 10% del PIL per attività assistenziali. Nel caso italiano si tratterebbe di circa 175 miliardi di euro all’anno, dato che si riferisce al 2018 e che può essere utile confrontare con la dimensione dello stato sociale assistenziale: circa 95 miliardi di euro nel 2018, escluse le pensioni di vecchiaia e reversibilità, a cui si è soliti aggiungere la spesa sanitaria di circa 115 miliardi. Sempre nel 2018 la spesa per l’istruzione ammontava, invece, a circa 66 miliardi di euro. Dunque, secondo la visione liberista qui proposta, e a parità di altre condizioni, la realizzazione di un fondo pari al 10% del PIL (175 miliardi) sarebbe ampiamente sufficiente per finanziare la spesa assistenziale attuale (95 miliardi), ma coprirebbe solo il 70% della spesa sanitaria attuale e lascerebbe senza risorse un eventuale programma di sussidi all’istruzione. Tuttavia, si osservi che, sempre secondo quanto qui argomentato, l’interesse nei confronti dell’istruzione come bene intrinsecamente meritevole in realtà riguarda solo il primo ciclo (scuola primaria e secondaria di primo grado, per un totale di otto anni) e in misura parziale il secondo (scuola secondaria di secondo grado, per cinque anni). Gran parte dell’istruzione superiore (l’università) svolge un ruolo limitato nella formazione di professionalità. Nel caso italiano, gli studenti interessati sono circa 4,1, 2,6 e 1,0 milioni, rispettivamente, nel primo ciclo, nel secondo ciclo e nelle università. Questi dati escludono circa 900.000 giovani che frequentano le scuole private, paritarie e no, e circa 700.000 studenti universitari fuori corso. Insomma, se si tiene conto che la spesa per studente
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in Italia è di circa 8.200 euro, la spesa complessiva per il primo ciclo nel 2018 ammontava a non più di 30 miliardi (la spesa per studente cresce con il grado d’istruzione). In Italia, nel 2018, la presenza di condizioni di povertà assoluta riguardava il 12,6% dei minori. Se si ipotizza che tale percentuale valga anche per il sottoinsieme dei giovani compresi fra i 5 e i 14 anni (circa 5,65 milioni di individui), si può immaginare che siano meritevoli di un sussidio pieno (8.200 euro) circa 710.000 giovani, per un importo complessivo di circa 5,8 miliardi di euro. Sarebbe un ammontare del tutto sostenibile, soprattutto se si accettasse un ridimensionamento della spesa sanitaria pubblica.
Riferimenti bibliografici Arrow, Kenneth (1973), “Higher education as a filter”, Journal of Public Economics, 2 (3), pp. 193-216. Caplan, Bryan (2018), The Case Against Education, Princeton: Princeton University Press. De Jasay, Anthony (2015), Social Justice and the Indian Rope Trick, (a cura di H. Kliemt), Indianapolis: Liberty Fund. Friedman, Milton (1955), “The role of government in education”, in R.A. Solo (ed), Economics and the Public Interest, New Brunswick: Rutgers University Press. Musgrave, Richard (1957), “A multiple theory of budget determination”, FinanzArchiv, 17 (3), pp. 333-343. OECD (2021), “Education GPS”, http://gpseducation.oecd.org. Rothbard, Murray (1973), For a New Liberty, Auburn: Ludwig von Mises Institute (traduzione italiana: Macerata, Liberilibri 2008). Schultz, Theodore (1961), “Investment in human capital”, American Economic Review, 51 (1), marzo, pp. 1-17. Spence, Michael (2004), Market Signaling: Informational Transfer in Hiring and Related Screening Processes, Cambridge (Ma): Harvard University Press.
CAPITOLO 6
I BENI DI MERITO: LA SANITÀ 1. Il diritto alla salute? La sanità è solitamente percepita in modo analogo all’istruzione: poiché si ritiene auspicabile che ogni individuo si curi, migliorando la propria condizione fisica e dunque il proprio benessere, si ritiene che sia compito dell’attore pubblico – lo stato – provvedere in merito. Tale ragionamento in realtà comprende diverse e più articolate proposizioni: (i) poiché le infermità non sono responsabilità dell’individuo e lo stato di salute ha un ruolo fondamentale per il benessere del singolo, spetta alla collettività farsi carico di situazioni eccezionali; (ii) come hanno scritto James Tobin (1970) e Amartya Sen (2002), uno stato di salute soddisfacente è condizione necessaria affinché ogni individuo realizzi sé stesso, creando e sfruttando le opportunità che la vita presenta. In questa prospettiva, la sanità è dunque il bene di merito per eccellenza e, in particolare, a ogni componente della collettività deve essere garantita l’assistenza medica necessaria affinché egli sviluppi le proprie potenzialità di essere umano; (iii) gli individui sono irrazionali e non spendono o non risparmiano somme adeguate per provvedere alle esigenze sanitarie proprie e della propria famiglia. A queste tre proposizioni, largamente condivise dall’opinione pubblica, se ne aggiungono due che contraddistinguono molti regimi sanitari attualmente in vigore: (iv) l’erogazione di servizi sanitari da parte dello stato è più efficiente di quella offerta da un produttore privato e (v) è opportuno provvedere al finanziamento della produzione statale attraverso la fiscalità generale. I primi tre punti sono approfonditi nelle sezioni 1 e 2 di questo capitolo. La sezione 3 esamina alcuni aspetti relativi alla quantità desiderabile di servizi sanitari assistenziali, mentre le sezioni 4 e 5 affrontano i temi relativi all’efficienza e al finanziamento della sanità pubblica. La sezione 6 conclude con una sintesi e alcune riflessioni in prospettiva. Come osservato in pagine precedenti, è auspicabile che ogni individuo sia altruista e generoso e aiuti coloro in stato di necessità. Fra questi,
CINQUE PROPOSIZIONI DISTINTE
SANITÀ PER TUTTI?
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INCIDENTI NATURALI, RISCHI CONSAPEVOLI E OPPORTUNITÀ
LA REALIZZAZIONE DI SÉ
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certamente, vi è anche chi non ha i mezzi per curarsi. Nondimeno, poiché l’altruismo è una virtù del singolo, non già un dovere formale verso il prossimo, il liberista si oppone a che i trasferimenti di reddito a favore dei meno abbienti, anche quando giustificati da propositi largamente condivisi, siano obbligatori. La nobiltà d’animo stimola a donare e consentire ai meno fortunati di migliorare la propria condizione, ma un auspicio largamente condiviso non è sufficiente per imporre a terzi di sostenerne il costo. Del resto, nulla vieta che coloro che nutrono tali lodevoli propositi contribuiscano spontaneamente a uno o più fondi costituiti per finanziare le cure mediche a favore dei bisognosi. Il fatto stesso che si tema che questi fondi raccolgano ammontari modesti suggerisce che i singoli potrebbero essere meno altruisti di quanto essi stessi dichiarano. Se così fosse, è dubbio che un’autorità politica abbia la legittimità per costringere una comunità a dimostrarsi più altruista di quanto essa in realtà sia. Sarebbe un arbitrio. Si tratterebbe altresì di un atteggiamento discriminatorio, poiché i beneficiari dell’altruismo coatto non sono i bisognosi in generale, bensì i membri della collettività politica a cui appartengono i decisori e i contribuenti, membri che non sono necessariamente i più bisognosi in assoluto. Le necessità della persona media residente in Italia o in Germania, per esempio, sono certamente inferiori a quelle dell’individuo medio dell’Africa sub-sahariana e di alcuni paesi asiatici e latino-americani. Inoltre, anche qualora si accettasse il principio della solidarietà obbligatoria, affermare che l’altruismo di una comunità debba soddisfare le necessità sanitarie dei bisognosi richiederebbe che si definisca un criterio per stabilire l’ammontare del sussidio sanitario desiderabile e le condizioni di accesso ai benefici. Per esempio, se vale il principio secondo cui la collettività deve farsi carico di eventi di cui l’individuo non può essere ritenuto responsabile, vanno escluse le cure per infortuni occorsi a molti – o forse a tutti gli – sportivi, e anche a tutte le vittime di incidenti stradali che essi stessi hanno provocato. Più delicata, invece, è la valutazione di situazioni che l’individuo avrebbe potuto evitare se fosse stato più prudente o se avesse usato maggiori precauzioni. Si pensi non solo a coloro affetti da patologie provocate da tossicodipendenza, tabagismo o alcolismo, ma anche a coloro con problemi circolatori provocati o aggravati da cattiva alimentazione, o a coloro colti da una semplice influenza che si sarebbe potuta evitare se non si fosse preso freddo. Il quadro diventa ulteriormente confuso se si seguono le argomentazioni di Sen, secondo cui il diritto alla salute prevale sul diritto di proprietà privata dei contribuenti in quanto a ogni individuo va garantito il
I BENI DI MERITO: LA SANITÀ
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diritto di cogliere le opportunità della vita, le quali sono negate a chi versa in cattive condizioni di salute. Come distinguere, allora, fra chi si adopera per creare le occasioni e si industria per essere in condizione di approfittarne e chi, invece, è totalmente disinteressato a sviluppare le proprie potenzialità? E come distinguere coloro con ambizioni e spirito di sacrificio da coloro privi di motivazioni e di visioni di lungo periodo? Saremmo disposti ad accettare che il cosiddetto diritto alla salute s’indebolisca quando un individuo raggiunge la maturità, e si annulli o quasi al finire della propria vita attiva e dello sviluppo di sé? E tutto ciò nonostante i consumi sanitari siano più elevati proprio nell’ultima fase della nostra vita? Nel caso degli Stati Uniti, per esempio, benché nel 2016 gli ultra-65enni fossero solo il 16% della popolazione, a essi era riconducibile il 36% della spesa sanitaria; mentre a coloro di età inferiore ai 35 anni – il 46% della popolazione – era riconducibile il 25% della spesa. E saremmo pronti a contemplare situazioni in cui i beneficiari oramai realizzatisi restituiscono al contribuente le somme erogate a loro favore negli anni precedenti il loro sviluppo come esseri umani, come se si trattasse di prestiti? I principi di Tobin e Sen, del resto, suggeriscono che il contribuente offra a ogni giovane individuo la possibilità di realizzarsi, non che la regali.
2. Irrazionalità e opportunismo Si affronti ora il terzo punto: l’ipotetica irrazionalità dell’individuo. Non vi è dubbio che, raggiunta la tarda età, la maggior parte degli individui vorrebbe aver accumulato più risparmi e disporre di più risorse, incluse quelle da dedicare alla propria salute. In molti casi, tuttavia, tale desiderio non è tanto la conseguenza di decisioni irrazionali passate, quanto l’aspirazione a consumare di più in ogni periodo della propria vita. Del resto, il ricordo dei benefici legati ai consumi passati è tenue e contribuisce in misura limitata al benessere del presente; mentre è ben viva la percezione di ciò a cui si deve rinunciare nel presente a causa dei consumi passati. In breve, non è indice di irrazionalità essere impazienti e decidere di consumare nell’immediato e rinunciare a consumare di più in futuro. Dunque, il rimpianto per scelte passate non significa che si siano commessi errori (la presunta irrazionalità). Inoltre, anche se fossero stati commessi errori, il liberista nega che l’irrazionalità dell’individuo giustifichi interventi coercitivi esterni: il contribuente non ha colpe per le scelte e gli errori altrui.
L’IRRAZIONALITÀ
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TRE SITUAZIONI DISTINTE: • I “RICCHI” CHE SBAGLIANO • I PRODIGHI • I POVERI
UN PATERNALISMO ATTENUATO: IL PIANO DI RISPARMIO VINCOLATO NON OBBLIGATORIO
LO STATO PATERNALISTA
Chiarita la posizione del liberista, quale contributo questi può offrire in un contesto socio-culturale ove si ritiene che la coercizione sia comunque ammessa quando si tratta di finanziare la salute altrui? Può essere utile distinguere tre situazioni. La prima riguarda gli individui che dispongono di redditi o patrimoni importanti e che, nonostante gli errori commessi, gli imprevisti verificatisi e la mancata sottoscrizione di polizze assicurative, hanno comunque le risorse per far fronte alle proprie necessità, eventualmente riducendo altri capitoli di spesa o attingendo al patrimonio che avrebbero voluto trasmettere agli eredi. Di solito questi individui non sono considerati meritevoli di solidarietà pubblica e quindi, nonostante in molti sistemi la sanità sia gratuita o semi-gratuita anche per loro, per essi il problema della sicurezza sociale non si pone. Una seconda categoria di persone è costituita da coloro che avrebbero avuto le risorse necessarie per far fonte alle esigenze sanitarie proprie e delle proprie famiglie se, nel corso della propria vita, avessero pianificato consumi e liberalità con maggiore prudenza, eventualmente accontentandosi di un tenore di vita più modesto. A questi si aggiungono coloro che si trovano in stato di necessità a causa di comportamenti apparentemente irrazionali, ma in realtà frutto di opportunismo nella consapevolezza di poter ricorrere alla sicurezza sociale. Il comportamento di questo secondo gruppo di individui, analogamente a quanto si osserverà nel contesto previdenziale/pensionistico oggetto del prossimo capitolo, spiega interventi paternalistici che impongono forme di risparmio obbligatorio vincolato per tutelare il contribuente a fronte di possibili comportamenti opportunistici. Va considerato in questa luce, per esempio, l’obbligo di acquistare una polizza assicurativa sanitaria privata o pubblica, o di quote di fondi d’investimento liquidi e a basso rischio, con limitate possibilità di disinvestimento. In altri termini, l’istituzione di un programma di sicurezza sociale a favore dei bisognosi sarebbe accompagnata da una componente paternalistica che tuteli il contribuente a fronte di beneficiari intenzionalmente imprudenti. In questo senso, lo sottolineiamo, un liberista posto di fronte alla sanità obbligatoria interpreta l’obbligo come una tutela per il contribuente, non per il consumatore di servizi sanitari. In sintesi, per queste due categorie di individui la sicurezza sociale (sanità e previdenza) non avrebbe un ruolo rilevante in condizioni normali, poiché tali individui possono far fronte alle proprie esigenze ricorrendo a risorse proprie accantonate e/o alla copertura assicurativa. La sicurezza sociale sarebbe importante solo in presenza di eventi del tutto accidentali (imprevedibili) che impediscono al singolo di alimentare il
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proprio piano di risparmio vincolato. Sotto questo profilo, per queste due categorie di individui, l’aver già sottoscritto un piano di risparmio vincolato sarebbe allora il requisito necessario e sufficiente per accedere alla sicurezza sociale qualora le risorse reddituali e patrimoniali si esaurissero. Questo vale per la sanità, oggetto di questo capitolo, e per la previdenza (le pensioni), oggetto del prossimo capitolo. Naturalmente, la visione liberista richiede che si permetta di non aderire al piano di risparmio vincolato, o di recedere dopo aver dato la propria adesione. A chi deciderà in tal senso sarà consentito di aderire successivamente e fruire così dell’assistenza sanitaria in caso di bisogno, eventualmente versando una sorta di quota d’iscrizione calcolata in funzione dell’età, dei profili reddituali e patrimoniali, del quadro clinico in essere. È del resto ciò che contemplerebbe qualsiasi polizza assicurativa acquistata nel settore privato. Coloro che non hanno seguito il programma di risparmio vincolato dall’inizio della propria carriera lavorativa, e che non hanno i mezzi per aderirvi in tempi successivi, dovranno farsi carico delle proprie scelte (il principio di responsabilità individuale) e, se in stato di bisogno, affidarsi alla carità del prossimo. Si osservi inoltre che in questo contesto, contrariamente a quanto di solito affermato, l’adesione obbligatoria – o semi-obbligatoria, se si accoglie la possibilità di recedere ed eventualmente aderire nuovamente a titolo oneroso – non va intesa come soluzione di un problema di asimmetrie informative e selezione avversa, ovverosia di una situazione in cui gli individui più fragili non riuscirebbero a trovare una controparte disponibile ad assicurarli a prezzi ragionevoli (il costo atteso delle infermità). In altri termini, l’assicurazione sanitaria obbligatoria non è un programma attraverso cui gli individui che godono di salute migliore finanziano i più cagionevoli poiché gli assicuratori non sono in grado di differenziare il prezzo delle polizze a seconda delle caratteristiche degli assicurati. In realtà, l’assicuratore può discriminare fra individui attraverso esami diagnostici opportuni e limitare il rischio a cui si espone attraverso franchigie, l’obbligo di rivolgersi a strutture medico-sanitarie convenzionate e contratti assicurativi a tempo determinato, rinnovabili e rinegoziabili alla luce degli aggiornamenti delle cartelle cliniche. La franchigia, in particolare, equivale ad attribuire all’assicurato il costo atteso associato ai rischi minori, per assicurare i quali l’assicuratore chiederebbe un premio che il potenziale assicurato non è disposto a versare. Del resto, se per un verso è vero che la discriminazione non è mai perfetta, la presenza di un’ampia offerta di polizze sanitarie suggerisce che il problema della selezione avversa non è un ostacolo insormontabile. Inoltre, ed è que-
LA SELEZIONE AVVERSA E LA PRESUNTA INEFFICIENZA
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ASSISTENZA AI BISOGNOSI
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sta una considerazione di ordine generale, è innegabile che a volte è impossibile trasformare l’incertezza in rischio, ovverosia attribuire una distribuzione di probabilità a un evento futuro: si pensi ai terremoti o alle eruzioni vulcaniche. Tuttavia, ciò non esclude che l’esperienza (per esempio, il ricorso alla cartella clinica) possa contribuire a ridurre il problema. Né va dimenticato che la diffidenza dell’assicuratore in presenza di scarsa informazione o cattiva reputazione della controparte è un incentivo a fornire informazioni credibili. Certamente, è talora molto costoso o impossibile evitare che alcuni pongano in essere comportamenti opportunistici o addirittura fraudolenti. Tali comportamenti, per quanto deprecabili, non giustificano però trasferimenti di reddito (sussidi) a loro favore. La terza categoria di persone, infine, comprende i destinatari ideali dell’intervento di sicurezza sociale: gli individui – o meglio, i nuclei famigliari – in condizioni di povertà i quali, come scrisse Hayek (1976), non sono in grado di svolgere attività produttive da cui trarre un reddito adeguato. Ciò riguarda sia coloro che avevano aderito al piano di risparmio volontario e che non sono più in grado di alimentarlo; sia coloro le cui infelici condizioni reddituali e patrimoniali hanno sempre giustificato il sostegno della sicurezza sociale. Purtroppo è impossibile sviluppare misure oggettive della capacità produttiva. Ed è altresì difficile separare le scelte irresponsabili o inconsapevoli dall’opportunismo: si pensi a chi abbia sottoscritto un piano di risparmio vincolato e che successivamente dichiari di non essere in grado di alimentarlo. Il poter contare sul sostegno della sicurezza sociale, infatti, può ridurre l’impegno lavorativo. Né possono escludersi comportamenti elusivi: per esempio, un individuo può dichiararsi povero nonostante sia mantenuto dalla propria famiglia, famiglia della quale “dimostra” di non fare più parte. La mancanza di misure oggettive lascia spazio alla discrezionalità dell’autorità. È pertanto opportuno ricorrere a riferimenti quantitativi più o meno condivisi, generalizzabili e che riducono le possibilità di abusi. La sezione che segue offre un esempio in tal senso, definendo gli ordini di grandezza che un tale programma richiederebbe e le modalità di erogazione delle somme.
3. Spesa assistenziale e modalità di erogazione Purtroppo, la spesa sanitaria pro capite nei paesi avanzati alla metà del decennio passato fornisce indicazioni molto vaghe sulla spesa sanitaria desiderabile. Secondo i dati raccolti dall’economista Peter Murphy (2019, capp. 9 e 10), nel 2015 la spesa media annua pro capite nell’area
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OCSE variava da poco più di 2.000 dollari in Slovacchia, a circa 3.000 dollari in Italia, 5.000 dollari in Austria e 9.500 dollari negli USA. Nonostante queste differenze, la spesa sanitaria totale (pubblica e privata) risulta essere quasi ovunque una quota costante (poco meno del 10%) del PIL. Eccezioni significative sono Singapore e gli Stati Uniti, ove tale valore nel 2015 era, rispettivamente, pari a circa il 5% e 17%. In altri termini, e con le cautele e le eccezioni del caso, i dati indicano che nel corso dei decenni scorsi il peso della spesa sanitaria sul PIL è cresciuto ovunque al crescere del PIL, e che di recente si è stabilizzato intorno al 10%. Per quanto riguarda il futuro, è tuttavia prevedibile che, in assenza di crescita sostenuta, il peso della spesa sanitaria aumenti ulteriormente. La domanda di servizi sanitari è destinata a crescere a seguito dell’invecchiamento della popolazione e della variazione della struttura dei consumi individuali, che sembra privilegiare la spesa per comunicazioni, sanità e svago, mentre si riduce la porzione di spesa dedicata all’alimentazione, ai trasporti e all’abitazione. Dal punto di vista dell’offerta, macchinari più sofisticati e medicinali più efficaci hanno esteso il periodo durante il quale l’individuo fa largo uso di servizi sanitari, il cui prezzo unitario è destinato a salire. In altri termini, il progresso tecnologico conduce all’erogazione di servizi sanitari più costosi per periodi più lunghi. Naturalmente, a un dato ammontare di spesa sanitaria non corrisponde necessariamente un livello costante di qualità del servizio. Come si è detto, negli USA la spesa sanitaria annua pro capite è circa doppia rispetto a quella di Austria e Danimarca, e quasi tre e quattro volte superiore a quella, rispettivamente, di Italia e Israele. Eppure, gli indicatori USA relativi alla salute e alla efficienza sanitaria sono di frequente inferiori alla media OCSE. L’opposto vale per gli altri quattro paesi menzionati. Particolarmente significativo è il caso di Singapore, che presenta una spesa relativamente modesta e qualità dei servizi superiori alla media OCSE. L’esperienza storica e i confronti internazionali suggeriscono tuttavia una conclusione preliminare importante: in un paese con un grado di sviluppo medio-alto o alto è possibile accedere a un livello sanitario potenzialmente soddisfacente se ogni individuo, nel corso della propria vita attiva, impegna circa 200.000 euro (a prezzi del 2015) per finanziare le proprie necessità sanitarie. Come termine di confronto, si pensi che in Italia una polizza sanitaria per una giovane famiglia di quattro persone si aggira intorno ai 4.000 euro annui. Ciò non significa che una spesa di 200.000 euro pro capite dia luogo a prestazioni sanitarie adeguate sem-
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LE MODALITÀ DI EROGAZIONE: IL BUONO SANITARIO
QUANTO SERVE PER FINANZIARE UN PROGRAMMA DI BUONI SANITARI?
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pre e ovunque, bensì che tale somma, se impegnata presso fornitori efficienti, consente prestazioni che l’opinione pubblica considera adeguate, o comunque non palesemente insufficienti. Si farà riferimento a tale somma per i calcoli che saranno fra breve proposti. Per quanto riguarda l’accesso al programma di sicurezza sociale, la soluzione più trasparente, e dunque più vicina all’ideale liberista, consiste nell’erogazione di buoni sanitari (voucher) finalizzati all’acquisto di polizze sanitarie. Non è un caso che sia la soluzione già ricordata nel capitolo precedente con riferimento al bene di merito “istruzione”. L’importo varia a seconda delle condizioni del beneficiario: sarà massimo per gli individui o i nuclei famigliari senza reddito e consistenze patrimoniali e, coerentemente con quanto argomentato in precedenza, nullo per coloro con un tenore di vita medio o relativamente elevato. Inoltre, data la natura del servizio, il buono terrà conto sia della presenza di patologie particolari, sia del fatto che le necessità sanitarie non sono uniformemente distribuite nel corso della vita. Al fine di valutare il peso fiscale di un sistema sanitario assistenziale si considerino tre categorie di individui: i poveri assoluti (con un tenore di vita inferiore a quello ritenuto dignitoso/accettabile), i poveri relativi (con una spesa in beni di consumo significativamente inferiore alla spesa media della popolazione) e il resto della popolazione. Nel caso dell’Italia alla fine del decennio scorso erano poveri assoluti 5 milioni di individui, mentre i poveri relativi erano 9 milioni. Coloro con redditi superiori alla soglia di povertà relativa erano 46,5 milioni. Si supponga ora che gli appartenenti al primo gruppo beneficino totalmente dell’assistenza sanitaria prevista, che coloro che appartengono al secondo gruppo ne beneficino solo per due terzi e che coloro che appartengono al terzo gruppo non abbiano accesso ad alcuna forma di sicurezza sociale. Infine, si ipotizzi che la composizione per età dei tre gruppi di reddito sia uguale. Il risultato è che il costo dell’assistenza sanitaria ai 14 milioni di individui in povertà assoluta e relativa si aggirerebbe intorno ai 28 miliardi di euro annui. Lo ripetiamo, questi ammontari non si riferiscono alla spesa sanitaria di un cittadino italiano medio o alla spesa sanitaria desiderabile, bensì all’ordine di grandezza della spesa sanitaria assistenziale, ovverosia a quanto necessario per consentire di consumare servizi sanitari accettabili a coloro che non hanno i mezzi per sottoscrivere una polizza sanitaria attingendo ai propri redditi o ai propri patrimoni. Al tempo stesso, gli ordini di grandezza sopra riportati sottolineano come larga parte della spesa sanitaria pubblica attuale, in Italia come in altri paesi avanzati quali il Regno Unito e i Paesi scandinavi, non soddisfi
I BENI DI MERITO: LA SANITÀ
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solo un’esigenza assistenziale. Per esempio, nel 2018 la spesa sanitaria pubblica in Italia ammontava a circa 115 miliardi di euro. Se si accetta che l’assistenza sanitaria a coloro in povertà ammonta a circa 28 miliardi di euro annui, come suggerito nel paragrafo precedente, si può concludere che circa 87 miliardi erano in realtà un trasferimento di reddito e non il finanziamento di un bene/servizio di merito. Insomma, il sistema sanitario attuale nasconde un considerevole programma di sussidi, finanziariamente insostenibile e che certamente non incoraggia comportamenti responsabili da parte dell’individuo.
4. Produttori pubblici e privati Si prosegua oltre nell’analisi dei cinque punti enunciati all’inizio di questo capitolo e ci si soffermi sulle argomentazioni a favore della produzione statale (il punto iv), che si articolano su tre temi: efficienza, prezzi socialmente desiderabili, necessità di un operatore di riferimento. In sintesi si afferma (1) che è necessaria un’assicurazione universale obbligatoria, con eventuali franchigie modulate a seconda del reddito dell’assicurato (i cosiddetti “ticket”), superando così la presenza di asimmetrie informative e selezione avversa e costringendo coloro che godono di migliori condizioni di salute a sussidiare i cagionevoli, meccanismo senza il quale non vi sarebbe un mercato delle polizze sanitarie; (2) che in assenza dello stato-assicuratore tale obbligo conferirebbe alle società di assicurazione del settore privato un potere di mercato ingiustificato, il quale condurrebbe alla creazione di cartelli con i produttori di servizi sanitari, con prezzi e quantità assimilabili a quelli propri dei monopoli normativi (è del resto uno scenario non molto lontano da quanto avviene sul mercato statunitense, ove i prezzi delle prestazioni e delle polizze sanitarie sono marcatamente più elevati rispetto alla maggioranza dei paesi OCSE); (3) che solo un sistema sanitario centralizzato è in grado di far fronte a eventi catastrofici. La solidità di tali argomentazioni è dubbia. Come ricordato in precedenza, l’affermazione (1) dà per scontato che gli assicuratori siano incapaci di discriminare fra le diverse tipologie di assicurati. Questa ipotesi non è realistica. Anche se la discriminazione fosse approssimativa (e non sempre lo è), se l’avversione al rischio è significativa e se gli individui non sottostimano eccessivamente i rischi a cui sono esposti, essi sarebbero disposti a pagare sistematicamente di più rispetto ai servizi sanitari di cui in media usufruirebbero. Di conseguenza, una polizza il cui prezzo
LE RAGIONI DEL PRODUTTORE STATALE (1) ASSICURAZIONE UNIVERSALE
(2) ASSICURAZIONE STATALE
(3) CENTRALIZZAZIONE DEL SISTEMA SANITARIO
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(4) LA CENTRALIZZAZIONE: INFORMAZIONE E COORDINAMENTO
LO STATO PATERNALISTA
è una media fra il costo di curare una persona “robusta” e il costo di curare una persona “fragile” non sarà necessariamente rifiutata dalla persona robusta. Per quanto riguarda il punto (2), un mercato assicurativo aperto alla concorrenza, e dunque privo di barriere normative all’entrata, è sufficiente per ridurre significativamente o perfino distruggere le rendite monopolistiche (si veda al riguardo quanto già discusso nei primi tre capitoli di questo volume). In breve, un settore assicurativo privo di barriere all’entrata è come tutti gli altri settori di un’economia. Non necessita di un intervento pubblico in nome della cosiddetta efficienza allocativa, cioè della quantità socialmente desiderabile di servizi assicurativi; e ancora meno necessita di un assicuratore pubblico che opera in un regime prossimo al monopolio normativo. Naturalmente, e sempre con riferimento all’argomentazione (2), ciò non impedisce che politici e burocrati si trasformino in imprenditori dei settori assicurativo e sanitario, e si pongano in concorrenza con il settore privato senza ricorrere ai finanziamenti dei contribuenti. Né impedisce che essi si trasformino in consulenti e valutino (certifichino) la qualità della gestione e la solidità patrimoniale delle imprese assicuratrici disposti a fornire i dati necessari. Sarebbe altresì insensato costringere gli individui a devolvere parte del proprio reddito al datore di lavoro, il quale sarebbe a sua volta obbligato a sottoscrivere polizze in loro vece per la durata del rapporto di lavoro. Nulla vieta a un datore di lavoro di offrirsi di organizzare i propri dipendenti in un gruppo d’acquisto, spuntando così condizioni più vantaggiose presso le controparti (gli assicuratori). Tuttavia, come già avviene attualmente in alcuni settori, fra cui quello bancario, questa dovrebbe essere un’opportunità che il datore di lavoro offre ai propri dipendenti (o a chiunque altro), e non un obbligo a sottoscrivere. Infine, e veniamo al punto (3), la presunta superiore efficienza del settore pubblico non è giustificata neppure da vantaggi in termini di informazione e coordinamento in presenza di eventi catastrofici. Se si pensa alla recente epidemia Covid-19, per esempio, sono emersi con evidenza i danni provocati da procedure farraginose che, sebbene disegnate per accertare che il burocrate operi effettivamente a favore della collettività, alla fine hanno rallentato il processo decisionale e reso difficile l’attribuzione delle responsabilità in caso di errore. Queste procedure, a cui si è aggiunta l’evidenza di incompetenza diffusa e derive ideologiche, hanno contribuito all’aggravarsi della situazione, non di rado costringendo migliaia di medici e infermieri a operare in condizioni di grave pericolo che almeno in parte sarebbero state evitabili se fossero state disponibili
I BENI DI MERITO: LA SANITÀ
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attrezzature elementari. Nel contesto italiano si pensi, per esempio, alla mancanza di mascherine, occhiali protettivi e camici idrorepellenti e, successivamente, alla gestione delle vaccinazioni. Altri affermano che, poiché il produttore pubblico non deve rendere conto a – e remunerare – investitori privati, può vendere i propri servizi a prezzi inferiori a quelli richiesti da un’impresa privata. In questo modo l’operatore pubblico riuscirebbe a soddisfare una domanda maggiore e accrescere il benessere della collettività. A questo proposito vanno richiamati due ordini di considerazioni generali. In primo luogo, è inaccettabile obbligare il contribuente a diventare azionista (azionista non remunerato, per l’esattezza). Inoltre, la presenza di azionisti coatti senza il potere di intervenire sulla gestione dell’impresa è fonte di inefficienze che inevitabilmente si ripercuotono sui costi di produzione, i prezzi e la qualità dei servizi erogati. Certamente, nulla vieta che un operatore pubblico svolga la sua attività senza ricorrere ai contribuenti. Si ricordi, tuttavia, che tale operatore deve necessariamente coprire i propri costi di produzione rivalendosi sui consumatori/acquirenti con prezzi adeguati. Tali prezzi coprono le spese correnti e includono i margini necessari per finanziare gli acquisti di immobili e attrezzatture, la ricerca, l’aggiornamento del personale. Per quanto riguarda indebitamento e capitale di rischio, e analogamente a un’impresa privata, anche l’impresa pubblica necessita di capitali. Quasi sempre i pagamenti ai fornitori di capitale fisso hanno luogo prima che abbia termine la vita utile dei macchinari, e considerazioni analoghe valgono per gli acquisto di beni intermedi, che sono normalmente saldati prima di riscuotere il prezzo dei servizi erogati agli utenti/acquirenti. Dunque, anche l’impresa statale deve raccogliere risorse finanziarie adeguate. A questo scopo, se si esclude il ricorso al contribuente, deve rivolgersi a due categorie di investitori: coloro che conferiscono risorse e chiedono una remunerazione concordata in anticipo (gli acquirenti di obbligazioni), e coloro disposti a partecipare agli utili d’impresa senza fruire di privilegi, senza potersi rivolgere al Tesoro (e quindi ai contribuenti) e potendo fallire come qualunque altra impresa. A queste condizioni è chiaro che i costi di gestione comprendono anche gli oneri finanziari, e che pertanto la possibilità che l’impresa statale si finanzi a tassi inferiori al concorrente privato è legata alla credibilità di un produttore pubblico che, se inefficiente, non può contare su interventi di salvataggio pubblico e può fallire come qualunque imprenditore privato. Ebbene, il liberista dubita che, a queste condizioni, che sono poi le condizioni proprie della libera concorrenza, il produttore pubblico sia un debitore migliore di un debitore pri-
(5) LA CENTRALIZZAZIONE: PREZZI INFERIORI?
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vato e che quindi riesca ad avere costi finanziari inferiori. Del resto, se il produttore pubblico fosse davvero più efficiente di uno privato, non avrebbe bisogno di creare situazioni di privilegio a proprio favore: potere impositivo, regolamentazione e divieto di concorrenza.
5. Il ricorso alla fiscalità generale PREZZI REGOLAMENTATI
LO STATO PRODUTTORE DI RIFERIMENTO
Veniamo ora al punto (v) menzionato all’inizio del capitolo. Si può sostenere che, poiché si tratta di un bene di merito che gli individui non consumano in quantità appropriata, è opportuno produrre e offrire una quantità di servizi sanitari superiore a quella che caratterizzerebbe un mercato concorrenziale, che tale necessità giustifica che si produca in perdita, e che solo lo stato è in grado di farlo, poiché solo lo stato può rivalersi sulla fiscalità generale. Anzi, proprio questa necessità giustificherebbe il ricorso al contribuente. Nondimeno, non è evidente che la produzione di tali servizi da parte dello stato provochi meno distorsioni rispetto a una situazione concorrenziale ove i consumatori beneficiano di un sussidio vincolato, che nel nostro caso sarebbe un voucher sanitario. Anzi, è probabile che si verifichino inefficienze di altra natura e forse maggiori. In particolare, un produttore statale che opera in un contesto di privilegio (il ripianamento delle perdite gestionali garantito dal contribuente) non ha incentivi ad attenersi a criteri di efficienza per quanto riguarda le tecnologie e i prezzi corrisposti ai fornitori. E non è escluso che in alcuni casi si sfrutti tale situazione di privilegio per scopi che poco hanno a che fare con l’interesse pubblico: si pensi alle assunzioni clientelari e agli organici dilatati, soprattutto nei ruoli amministrativi e a seguito di regolamentazione eccessiva, ma non casuale. In alternativa, alcuni propongono che si imponga un prezzo massimo per le prestazioni sanitarie, un prezzo che garantirebbe un esito socialmente “ottimo” a cui si accompagnerebbe un sussidio pari alla differenza fra il prezzo di mercato, che consentirebbe ai produttori di non fallire, e il prezzo regolamentato. Tuttavia, come già sottolineato da Mises (1935) nella sua critica alla pianificazione centralizzata, è impossibile definire a tavolino il prezzo di mercato che emerge dalla continua interazione fra una moltitudine di produttori e consumatori, uno sforzo peraltro reso ancora più difficile dal fatto che non esiste un bene omogeneo “sanità”, ma una miriade di beni e prestazioni diverse. Ed è parimenti illusorio sperare di poter stimare la funzione di domanda di sanità e calcolare qua-
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le prezzo massimo si dovrebbe imporre, per ogni prestazione e in ogni circostanza, al fine di indurre gli individui ad acquistare tali servizi nelle quantità “ottime”. Né sarebbero ragionevoli proposte volte ad assegnare ad un produttore pubblico presente sul mercato il compito di rivelare al decisore politico la struttura dei costi sulla base dei quali stabilire i sussidi erogati ai produttori privati. Per diverse ragioni che abbiamo già menzionato in precedenza, e che qui ci limitiamo a ricordare, non è affatto scontato che i privati producano effettivamente il tipo di prestazione richiesta dal decisore (si pensi alla qualità e ai risultati delle cure o ai tempi di attesa), né che il produttore pubblico si comporti in modo efficiente, investa ammontari appropriati in ricerca, sviluppo e innovazione e quindi scopra/ riveli i prezzi concorrenziali. Insomma, è illusorio pensare che il decisore pubblico sia in grado di definire l’ammontare ideale di consumo del bene di merito in questione e di calcolare tempestivamente i sussidi desiderabili per ogni tipologia di prestazioni. A ben vedere, l’illusione sarebbe un mero esercizio di fantasia se si considera che la realtà è in costante evoluzione e che il decisore deve modificare regole e comportamenti continuamente, per adeguarsi all’evoluzione delle tecnologie, delle organizzazioni e delle preferenze degli individui, alla presenza di nuovi prodotti, all’incessante riconfigurarsi dei mercati.
6. Quantità della spesa, qualità dei risultati e prospettive In sintesi, credere nell’esistenza dei beni di merito e nella necessità che una collettività garantisca ai meno abbienti accesso agevolato o addirittura gratuito al consumo di tali beni non implica che lo stato debba farsi carico della produzione, e ancor meno che debba garantire privilegi normativi ai produttori. In particolare, ritenere che le scelte degli individui in un contesto concorrenziale conducano a consumi insufficienti e risultati indesiderabili non significa che è necessario sottrare i produttori ai vincoli di efficienza propri di un contesto concorrenziale, neppure se tali eccezioni sono giustificate dalla speranza di introdurre dosi di altruismo e professionalità. Come è noto, di frequente i moderni apparati statali si dimostrano incapaci di selezionare ed eventualmente scartare i propri quadri dirigenti adottando come unico criterio di valutazione le loro capacità professionali. Del resto, quando incaricati di perseguire risultati ideali, anche le persone più capaci e rette tendono a proteggere la propria reputazione e serenità moltiplicando i carichi burocratici e isti-
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tuendo procedure e protocolli sempre più complessi. Il personale medico-infermieristico si trova così appesantito da incombenze che riducono la produttività, gonfiano i ruoli amministrativi e, a parità di spesa, sottraggono risorse che potrebbero essere destinate – per esempio – all’acquisto di apparecchiature, a ridurre i prezzi delle prestazioni e/o la pressione fiscale. Inoltre, per un liberista il principio di responsabilità individuale vale anche per le attività economiche che hanno per oggetto i beni di merito. Di qui la necessità che l’acquirente sia l’individuo – non un intermediario quale un’agenzia governativa o lo stato centrale; che questi sia consapevole del costo-opportunità delle proprie decisioni, subisca le conseguenze dei propri eventuali errori e sia pertanto incentivato a selezionare il fornitore che offre il migliore rapporto qualità-prezzo. Non è casuale che i Paesi ove la sanità sembra essere migliore sono quelli in cui la percentuale della spesa sanitaria privata sulla spesa sanitaria totale è più elevata (Singapore, Hong-Kong e Sud Corea e, più distanziati, Israele e Italia) e in cui la gestione pubblica delle strutture sanitarie è minima. Il caso di Singapore è esemplare: prevede l’accesso a un fondo pubblico per il finanziamento della spesa sanitaria per coloro senza disponibilità. Al resto della popolazione, invece, è imposto un sistema di risparmio obbligatorio. I risparmi dei singoli sono depositati su un fondo proprio a cui attingere in caso di necessità sanitaria o per sottoscrivere polizze assicurative sanitarie. In particolare, lo stato non ha un ruolo rilevante né come assicuratore, né come erogatore di servizi sanitari. Le somme ancora presenti sul fondo individuale, al termine della vita del singolo, fanno parte del patrimonio lasciato in eredità. Il principio di responsabilità individuale vale anche per la gamma delle prestazioni offerte, che sarebbe opportuno mantenere limitata. Come il caso della Svizzera dimostra, infatti, l’obbligo di acquistare una polizza assicurativa che comprende un’ampia gamma di prestazioni conduce sì a una qualità elevata delle prestazioni sanitarie, ma a costi decisamente superiori rispetto a Singapore e senza risultati molto diversi. Quanto è realistica una transizione verso un sistema sanitario ove lo stato non abbia un ruolo di produttore, ma solo di assistenza ai bisognosi? Nonostante le perplessità di varia natura richiamate in queste pagine, la domanda per un sistema sanitario statale è intensa, diffusa e destinata a rimanere tale. Tale domanda è alimentata da elementi redistributivi e, forse soprattutto, dalla convinzione di molti individui, non necessariamente bisognosi, i quali ritengono di ricevere servizi sanitari pubblici a prezzi inferiori a quelli che prevarrebbero in libero mercato. Ciò in parte
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perché considerano il produttore pubblico più affidabile e conveniente di quello privato: si teme che l’offerta privata di sanità sia viziata dalla corsa al profitto, si dimentica che i profitti sono moderati dalla concorrenza, e si percepisce la sanità pubblica come disinteressata e altruista. E in parte perché molti temono che uscire dal sistema pubblico non liberi risorse sufficienti (una riduzione delle imposte) per acquistare polizze assicurative private. Questi timori non sono privi di fondamento. In Italia, per esempio, nel 2018 il 58% dei contribuenti versava un’imposta media sul reddito pari a 642 euro. Ciò significa che per la maggioranza dei contribuenti uscire dal sistema sanitario nazionale darebbe luogo a un credito d’imposta variabile a seconda delle classi d’età, ma comunque significativo. È plausibile che si paventi che l’erario non sia disposto a riconoscere tali somme, e che si sospetti che la diminuzione del carico fiscale sia vanificato dall’introduzione di nuove imposte o da aumenti del peso di quelle esistenti. In altri termini, l’opinione pubblica tenderebbe a considerare il carico fiscale come una costante, e attribuirebbe all’erogazione di servizi pubblici un costo-opportunità nullo (la cosiddetta sanità gratuita). In tale contesto, il passaggio da una sanità statale a una sanità prevalentemente privata (come a Singapore o in Svizzera) si risolverebbe in un ulteriore aggravio per la maggior parte dei contribuenti.
Riferimenti bibliografici Hayek, Friedrich A. (1976), Law, Legislation and Liberty – The Mirage of Social Justice, Chicago: Chicago University Press (traduzione italiana: Milano, Il Saggiatore 1986). Mises Ludwig (1935), “Economic calculation in the socialist commonwealth”, in F. Hayek (a cura di), Collectivist Economic Planning, Londra: Routledge, pp. 87-130 (in origine “Die Wirtschaftsrechnung im sozialistischen Gemeinwesen”, Archiv für Sozialwissenschaften, 47 (1920). Murphy, Peter (2019), Limited Government. The Public Sector in the AutoIndustrial Age, Abingdon: Routledge. Sen, Amartya (2002), “Why health equity?”, Health Economics, 11 (8), novembre, pp. 659-666. Tobin, James (1970), “On limiting the domain of inequality”, Journal of Law and Economics, 13 (2), ottobre, pp. 263-277.
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LO STATO PATERNALISTA
CAPITOLO 7
PREVIDENZA SOCIALE: LA QUESTIONE PENSIONISTICA 1. I limiti del sistema attuale Il rispetto dei principi di responsabilità individuale e di libertà da coercizione richiede che nel corso della propria vita ogni individuo provveda a conservare o accumulare quanto necessario per il proprio sostentamento nei periodi durante i quali non percepisce redditi da lavoro. Si tratta quindi di costituire risorse a cui attingere quando si è disoccupati o non in grado di lavorare. Per un liberista, provvedere al proprio futuro non è un obbligo, così come i membri di una comunità non sono obbligati a farsi carico delle necessità di chi non ha voluto o potuto provvedere. Certamente, ciò non significa che si debba voltare le spalle agli indigenti, che ognuno potrà certamente aiutare a seconda delle proprie disponibilità e generosità. In altri termini, anche quando si tratta di previdenza, la visione liberista non ammette che si sia altruisti con i soldi degli altri, ma non impedisce di essere altruisti con le risorse proprie. Nella maggior parte delle economie avanzate e soprattutto in Europa i principi di responsabilità individuale e libertà da coercizione sono violati sotto più profili. Pur con alcune distinzioni, secondo questi sistemi previdenziali • ogni individuo è obbligato a sottoscrivere un piano di contribuzione imposto dallo stato e gestito dallo stato, i cui termini – ammontare delle contribuzioni e delle prestazioni godute a scadenza – sono modificabili unilateralmente dallo stato stesso; • lo stato ha la facoltà di spendere immediatamente i risparmi degli individui, risparmi il cui impiego in un contesto di libero mercato sarebbe vincolato da un contratto che garantisce che le somme versate vadano a formare il capitale a cui attingere nei periodi di bisogno (è questa l’essenza del principio di capitalizzazione – la Svizzera ne è un esempio);
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• lo stato ricorre ai contribuenti di oggi per onorare i propri obblighi verso i pensionati (è questo il principio di ripartizione); • è obbligatorio versare un numero minimo di premi (annualità contributive) per avere diritto a una rendita pensionistica e i versamenti sono persi qualora l’individuo non raggiunga un numero minimo di annualità; non è consentito il riscatto, nemmeno parziale, di quanto versato, né il trasferimento ad altri della rendita maturata.
L’IDEOLOGIA RIFLETTE IL NOSTRO PATRIMONIO GENETICO
GLI INTERESSI DELLE ÉLITE POLITICHE
Un tale sistema è oggetto di critica diffusa, soprattutto per quanto riguarda la facoltà di convertire i flussi di risparmi dei contribuenti in consumi pubblici immediati, conversione attraverso la quale le pensioni non sono più un piano di risparmio con rendita differita, bensì una sorta di schema Ponzi. È questa del resto la differenza sostanziale fra un sistema a capitalizzazione e uno a ripartizione. Di fatto, il capitale su cui i risparmiatori di oggi potranno contare in futuro è la volontà e la capacità dell’autorità statale di obbligare i contribuenti futuri a finanziare le pensioni future; una capacità che viene meno quando il rapporto fra contribuenti e pensionati si riduce e quando il tasso di crescita di un’economia è modesto. È la stessa logica che caratterizza la sostenibilità del debito pubblico, di cui si tratterà nel capitolo successivo. Nonostante si sia consapevoli della fragilità del sistema oggi prevalente, le proposte di riforma incontrano due insiemi di ostacoli. In primo luogo, è opinione diffusa che la gestione della previdenza sociale nel senso ampio del termine (pensioni, indennità di disoccupazione, assicurazioni contro gl’infortuni e le malattie legati all’attività lavorativa) sia compito dello stato. Gli antropologi sostengono che nel nostro patrimonio genetico è radicata la visione propria delle comunità paleolitiche di cacciatori/raccoglitori, in base alla quale la sopravvivenza è legata alla solidarietà cementata da sanzioni all’interno di piccoli gruppi. Nel passaggio a società estese caratterizzate da insiemi di relazioni impersonali, la solidarietà fra individui che si conoscono l’un l’altro si trasforma nella cosiddetta giustizia sociale garantita dallo stato. Secondo questa visione, ove i comportamenti individuali sono ereditati da un passato relativamente vicino di cacciatori/raccoglitori, dunque, il confine fra responsabilità individuale e obblighi collettivi è labile. È pertanto comprensibile che trovi ampio consenso la tesi secondo cui le imprese private di assicurazione possono integrare, ma non sostituire, l’intervento statale. In secondo luogo, le élite a cui spetterebbe l’onere di promuovere il cambiamento ritengono che il costo della transizione da un sistema pensionistico statale a ripartizione a un sistema pensionistico privatizzato a capitalizzazione sia economicamente insostenibile (il debito pubblico come
PREVIDENZA SOCIALE: LA QUESTIONE PENSIONISTICA
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minimo raddoppierebbe) e politicamente poco attraente. Preferiscono quindi evitare una soluzione radicale del problema (il passaggio a un sistema a capitalizzazione e la privatizzazione della gestione) e sostenere il regime attualmente in vigore con interventi al margine volti ad allontanare la minaccia d’insostenibilità del debito pubblico complessivo, e quindi l’implosione per fallimento dell’intero sistema previdenziale. Si assiste così a un aumento del carico contributivo sui redditi da lavoro, che costituiscono la base imponibile per il finanziamento della sicurezza sociale; alla riduzione della spesa non-previdenziale; e alla riduzione sostanziale delle prestazioni pensionistiche pro capite. Quando queste misure si dimostrano insufficienti ci si avvale della fiscalità generale, utilizzando il gettito non contributivo per ripianare il disavanzo previdenziale corrente. Nel caso italiano, per esempio, si tratta di circa 120 miliardi annui (previsione 2020, esclusi gli effetti Covid).
2. Ripartizione e debito implicito: una questione di giustizia Benché a volte si affermi che il sistema a ripartizione sia desiderabile poiché rafforza il vincolo intergenerazionale e la coesione di una collettività, i suoi limiti sono evidenti. Le società attuali non sono più composte da gruppi di cacciatori/raccoglitori caratterizzati da modeste dotazioni di capitale fisso e possibilità di accumulazione limitate dall’assenza di mercati finanziari. In altri termini, la solidarietà all’interno di una generazione e fra generazioni non è più l’unica possibilità di sopravvivenza. Come si è affermato in altri capitoli di questo volume, la solidarietà è certamente una virtù, e pertanto desiderabile. È dunque comprensibile che costituisca parte delle istituzioni informali, le violazioni delle quali sono sanzionabili attraverso disprezzo, ingiurie e varie forme di ostracismo. Tuttavia, per il liberista, il fatto che la solidarietà sia parte della cultura di una collettività e del patrimonio genetico degli individui che la compongono non giustifica istituzioni formali e sanzioni coercitive. Non sorprende, quindi, che il liberista consideri il sistema a ripartizione, mediante il quale un gruppo di individui è obbligato a finanziare il consumo di un altro gruppo di individui, una violazione della libertà da coercizione, uno schema che indebolisce il senso di responsabilità individuale e genera incentivi perversi. In questa luce, benché non trascurabile, la (in)sostenibilità finanziaria del sistema occupa un ruolo secondario. Ben più importante è osservare che le erogazioni pensionistiche proprie di un regime a ripartizione corrispondono alla capacità di una
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IL DEBITO PUBBLICO IMPLICITO
LO STATO PATERNALISTA
generazione di appropriarsi dei redditi della generazione che segue, una generazione, quest’ultima, che opera con gli stimoli di chi è costretto a lavorare e risparmiare a favore di altri, nella speranza di potersi poi rivalere sulle generazioni successive. Insomma, sembra che il principio sottostante sia l’opportunismo, un principio certamente lontano sia dalla visione paternalistica di Bismarck, volta a garantire continuità nei livelli di consumo a chi non percepisce redditi, sia da quella assistenziale di Beveridge, volta a contrastare la povertà. In altri termini, un sistema pensionistico a ripartizione è un meccanismo di trasferimento della ricchezza in apparenza giustificato da un principio di solidarietà sociale intergenerazionale, ove il termine “solidarietà” si riferisce al fatto che si ritiene che gli “anziani” abbiano diritto alla solidarietà dei giovani lavoratori perché in passato i primi avevano a loro volta trasferito reddito ad altri. Un tale meccanismo, tuttavia, non dà origine a un diritto alla solidarietà futura, bensì a una sorta di presunzione di credito nei confronti delle generazioni che seguono, le quali non hanno nessun motivo di sentirsi debitrici. È un po’ come se una coppia di genitori presentasse il conto ai propri figli, per averli allevati per venti e più anni. Non è questo il concetto di famiglia proprio di un liberista; e in ogni caso non è chiaro perché il conto sarebbe collettivo, anziché proprio di ogni nucleo famigliare. Questo credito atteso – che forse sarebbe preferibile definire “credito presunto” – è il cosiddetto debito pubblico implicito, che si aggiunge al debito pubblico esplicito, ovverosia alla somma dei titoli di debito statale in circolazione e dei debiti ordinari dello stato nei confronti di banche e aziende. In particolare, il debito esplicito e il debito implicito differiscono perché il primo presenta condizioni note di servizio – sono noti gli ammontari delle cedole periodiche e del capitale che sarà rimborsato al creditore – mentre il secondo si caratterizza per condizioni imprecisate e comunque modificabili a piacimento dal debitore, fra cui l’età pensionabile e gli ammontari delle somme corrisposte. Di conseguenza, il mancato rimborso del debito nel primo caso equivale a un fallimento, nel secondo al mancato rispetto di una promessa da parte del politico in carica in un certo momento, al non realizzarsi di un auspicio. Si può pertanto concludere che la sostenibilità del debito esplicito dipende dalle condizioni prevalenti sui mercati finanziari e dalla credibilità del debitore agli occhi degli investitori; mentre la sostenibilità del debito implicito dipende dalle condizioni demografiche, economiche e politiche del paese in oggetto. Questo spiega perché la comunità internazionale tende a prestare scarsa attenzione al debito implicito: i (presunti) creditori in pericolo sono
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esclusivamente i residenti/contribuenti. E spiega altresì perché i vincoli sul debito esplicito appaiono più pressanti rispetto a quelli sul debito implicito. Nel primo caso i mercati finanziari possono rifiutarsi di finanziare un debito insostenibile. Nel secondo caso i giovani sono poco propensi a organizzarsi in gruppo di pressione e a rifiutarsi di onorare il debito implicito – forse nell’illusione che il servizio del debito implicito sia comunque trasferito su altri (la generazione successiva) e/o nel timore che dubitare del principio di solidarietà intergenerazionale metta in discussione il ruolo dello stato redistributivo, le nozioni di giustizia sociale e responsabilità condivisa, tutti principi di cui una larga parte dei giovani forse si ritiene probabile beneficiaria.
3. La diffidenza nei confronti delle prospettive di riforma Sebbene l’opinione pubblica sia propensa a considerare il debito implicito nel suo insieme come un problema quasi inesistente e comunque di pertinenza delle generazioni future (alla fine dello scorso decennio il debito medio implicito nell’eurozona era pari a poco meno di due volte il PIL), vi è diffusa preoccupazione circa gli ammontari che gli istituti statali di previdenza possono e potranno erogare ai creditori presunti. In altri termini, le preoccupazioni non nascono dall’aver preso coscienza delle carenze di un sistema a ripartizione affidato a un gestore che sostituisce il calcolo attuariale con la ricerca di consenso e il cui orizzonte temporale è definito dalle scadenze elettorali anziché dagli obblighi verso gli assicurati. Esse nascono, invece, dalle poco incoraggianti proiezioni sul gettito fiscale futuro e sulla palese difficoltà di spostare quote crescenti di spesa pubblica verso le erogazioni pensionistiche, penalizzando così – per esempio – il finanziamento della produzione e del consumo di beni meritori quali l’istruzione o la sanità. Insomma, le attuali pressioni per una riforma del sistema pensionistico non nascono da impulsi liberisti, i quali favorirebbero una riforma strutturale fondata sulla privatizzazione dell’impianto previdenziale, bensì dalla ricerca di rimedi provvisori il cui scopo prevalente è scongiurare e rinviare l’emergenza. Purtroppo, è un fenomeno comprensibile. La natura stessa (intergenerazionale) del debito implicito, e in alcuni casi la sua sostenibilità apparente quando calcolato in termini netti, ovverosia come differenza fra il debito futuro e il gettito tributario futuro presunti, contribuiscono a spiegare la diffidenza nei confronti di proposte di riforma radicale, che
CHI SI OPPONE E PERCHÉ
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riduca o addirittura azzeri il debito implicito e consenta il passaggio da un sistema a ripartizione a uno a capitalizzazione. Più in generale, e come già accennato in precedenza, è utile osservare come l’ideologia prevalente e le percezioni sul futuro contribuiscano a deformare la natura del problema e impediscano che le generazioni più giovani, quelle che pagheranno i contributi senza godere di una controprestazione adeguata, si sentano minacciate. Coloro in pensione o prossimi alla pensione si oppongono a tentativi di riforma strutturale poiché temono che i nuovi criteri di calcolo e/o la transizione li penalizzerebbero. I più giovani sono anch’essi restii a considerare con favore la transizione verso un sistema a capitalizzazione. L’entrata tardiva nel mercato del lavoro li penalizza (l’aumento della scolarità ha ridotto gli anni di contribuzione e non si è disposti ad accettare un significativo innalzamento dell’età pensionabile). Inoltre, la propensione al risparmio di tali generazioni è stata scoraggiata dalla convinzione di poter contare su un sistema a ripartizione, che induce a risparmiare meno di quanto sarebbe necessario per sostenere il tenore di vita desiderato. Al tempo stesso, non si è disposti a farsi carico di un piano di accumulo a proprio favore e del finanziamento delle erogazioni a favore di chi è e sarà in pensione prima che la transizione verso il sistema a capitalizzazione sia completata. Infine, il passaggio a un sistema a capitalizzazione è giustamente percepito come un arretramento del ruolo dello stato e un passo verso l’assunzione di responsabilità individuali; un passo che comporta un indesiderato ridimensionamento della retorica che ha alimentato le nozioni di giustizia e solidarietà sociale, tuttora care alle generazioni più giovani. In questa prospettiva, la transizione verso un sistema a capitalizzazione risulta tanto più difficile, quanto minore è l’ambizione imprenditoriale e quanto maggiore è la propensione a ritenere lo stato fonte delle soluzioni e non già dei problemi, una propensione che pare particolarmente accentuata fra coloro – i giovani sono fra questi – che si considerano potenziali beneficiari futuri dello stato assistenziale.
4. Le proposte di riforma Questa diffidenza diffusa contribuisce a spiegare gli atteggiamenti a fronte degli schemi di riforma e transizione generalmente proposti, i quali interessano gli insiemi di variabili studiate dalla cosiddetta “economia delle pensioni” (Sergio Nisticò, 2019). In questa sezione ci si limita a esporre un breve elenco delle proposte e dei principi sottostanti, mentre in quelle successive si offriranno alcuni approfondimenti.
PREVIDENZA SOCIALE: LA QUESTIONE PENSIONISTICA
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Il dibattito recente ha posto in evidenza: • Il cauto interesse nei confronti dell’introduzione di un’Imposta sociale sul Valore Aggiunto, ovverosia di un aumento delle aliquote IVA al fine di raccogliere le risorse necessarie per finanziare il debito implicito, eventualmente riducendo l’ammontare dei contributi previdenziali. • Il modesto entusiasmo nei confronti di proposte volte a sostituire il sistema di previdenza sociale centralizzato con diverse casse autonome organizzate su base geografica o professionale e parzialmente finanziate dallo stato. • Lo scarso successo riscosso dalle iniziative che prevedono il potenziamento della componente a capitalizzazione del secondo pilastro pensionistico, ovverosia l’ampliamento dei piani di accumulo complementari obbligatori gestiti da casse autonome autorizzate dallo stato. Questo schema lascerebbe in vita il primo pilastro (un fondo statale gestito in regime di ripartizione), al quale tuttavia sarebbe attribuita una funzione puramente assistenziale a sostegno di coloro in condizioni di estrema povertà. • L’opposizione all’assimilazione del debito implicito a quello esplicito, in virtù del quale i pensionati continuerebbero a fruire delle erogazioni pensionistiche in essere, mentre coloro che entrano nel mercato del lavoro al momento della riforma sarebbero tenuti a sottoscrivere un piano a contribuzione presso un fondo pensionistico. Coloro in attività al momento dell’entrata in vigore della riforma avrebbero accesso a un trattamento misto (previdenza sociale commisurata ai versamenti passati ed erogazioni del fondo pensionistico a cui si è contribuito per gli anni rimanenti). Il disavanzo di bilancio sarebbe coperto con l’emissione di titoli di debito esplicito. • Il limitato interesse per la creazione di un sistema previdenziale a punti, mediante il quale l’individuo compra annualmente un numero minimo di punti erogati da un fondo pensione (non necessariamente statale), punti che possono essere trasferiti a terzi. Il prezzo di acquisto dei punti può variare a discrezione del fondo pensione, mentre a ogni punto corrisponde una somma base predefinita in prestazioni previdenziali, ma corretta in base a parametri concordati (aliquota di rendimento ed età pensionistica) o arbitrari (se il sistema è gestito dallo stato) e aggiornati a seconda degli andamenti demografici. • La marcata tendenza a intervenire per stabilizzare il peso della spesa pensionistica sul PIL con l’adozione di provvedimenti volti a ritardare l’età di pensionamento e a ridurre gli importi che saranno erogati a coloro ancora attivi, soprattutto se lontani dell’età della pensione.
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LO STATO PATERNALISTA
5. Prospettive di riforma (I): IVA sociale, casse autonome e secondo pilastro
L’IVA SOCIALE
IL DECENTRAMENTO IN CASSE AUTONOME
Come si è già osservato più volte nelle pagine di questo volume, la visione liberista pragmatica insiste su due requisiti: chiarezza e trasparenza nel rappresentare la situazione in essere e, per quanto riguarda le proposte di riforma, transizione più o meno graduale da criteri di scelta fondati su principi di responsabilità sociale (il legislatore sceglie per tutti e i residenti/contribuenti si fanno carico dei costi) a criteri fondati sul principio di responsabilità individuale. In quest’ultimo caso, il singolo decide e si fa carico delle conseguenze delle proprie azioni, nel rispetto della proprietà privata altrui e senza che maturino diritti/doveri legati agli eventuali effetti indesiderati provocati dalle sue azioni. Il rispetto del requisito di trasparenza non lascia dubbi: il debito pubblico dovrebbe includere anche il debito implicito. Il fatto che il debito implicito sarà almeno in parte finanziato da future imposte non cambia la natura della posta: un sistema pensionistico a ripartizione comporta comunque la presenza di un debito che andrà onorato. Poco importa se tale debito è implicito e se l’ammontare può essere modificato dal debitore. È evidente che un eventuale aumento della pressione fiscale – per esempio a seguito dell’introduzione della cosiddetta IVA sociale – rafforza la credibilità del debitore. Tuttavia, non può essere considerata una riforma del regime pensionistico, bensì uno strumento per rendere sostenibile il regime statale a ripartizione in essere. Questo probabilmente spiega perché, fra le proposte avanzate, questa è quella che incontrerebbe meno ostacoli presso l’opinione pubblica. Riflessioni analoghe valgono per le proposte di riduzione dei capitoli non previdenziali della spesa pubblica, o per altre iniziative volte ad accrescere il prelievo fiscale. Una riorganizzazione del sistema imperniata sulla creazione di casse autonome professionali favorirebbe la trasparenza. Per un individuo è certamente più facile rendersi conto dell’eventuale situazione dissestata della cassa di appartenenza ed agire nei confronti degli amministratori in carica, che non sostituire – e forse rivalersi nei confronti di – una burocrazia statale che non sempre è selezionata in base alla capacità di amministrare un sistema assicurativo, che è responsabile solo nei confronti di sé stessa o di referenti politici, e quindi non è sostanzialmente perseguibile in sede giudiziaria. Inoltre, una riorganizzazione per casse autonome avrebbe il pregio di esprimere in termini più chiari il problema del debito implicito. Anziché essere un debito pubblico generico, il debito implicito farebbe capo alle diverse casse professionali, le quali non solo non godrebbero del potere
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impositivo proprio di un’autorità statale, ma svolgerebbero la propria attività secondo regole statuite dagli associati. Per esempio, questi potrebbero deliberare di ridurre le quote contributive o le erogazioni a favore dei pensionati in essere e di coloro che hanno contribuito in passato e che sono ancora in attività. Soprattutto, una ristrutturazione del sistema pensionistico per casse autonome porterebbe necessariamente a tre conseguenze: il confronto fra la qualità delle gestioni; la possibilità di fallimento da parte di una o più casse; la facoltà, da parte degli aderenti a una cassa, di recedere e costituire piani pensionistici presso altri assicuratori o presso altre casse le quali, pertanto, perderebbero le loro caratteristiche professionali o territoriali originarie. Nondimeno, i problemi operativi e redistributivi di un simile programma sarebbero pressoché insuperabili. In primo luogo, è probabile che il conferimento del debito implicito alla cassa di appartenenza sollevi non poche obiezioni, a seconda di come le categorie professionali sono assegnate alle diverse casse autonome, dei poteri attribuiti alle casse e dei criteri di attribuzione del debito implicito adottati (lo spacchettamento del debito pubblico implicito). In secondo luogo, se le casse operassero secondo regole imposte dallo stato, gli organi gestionali sarebbero necessariamente nominati dallo stato e presumibilmente gli associati sarebbero obbligati a versare somme adeguate a garantire l’equilibrio dei conti. Gli importanti aspetti virtuosi della riforma enunciati nel paragrafo precedente sarebbero così cancellati. Inoltre, le casse dissestate finirebbero per ricevere sussidi statali, mentre non è garantito che gli aderenti alle casse in avanzo beneficerebbero di una minore pressione fiscale complessiva. Insomma, è probabile che la transizione a un sistema per casse nella realtà si riveli un’operazione cosmetica e fonte di confusione, accompagnata da nuovi, inutili e dispendiosi strati di burocrazia, nuovi obblighi e meccanismi di salvataggio. Al contrario, se le casse operassero in modo autonomo, allora sarebbe essenziale chiarire a chi farebbe capo il debito implicito. Se il debitore implicito fosse la singola cassa, il sistema crollerebbe: poiché tutte le casse nascerebbero gravate da debito (l’ammontare iniziale complessivo del debito implicito non cambia), e poiché le casse non avrebbero potere coercitivo, coorti sempre più folte di aderenti/contribuenti abbandonerebbero la cassa, affidandosi a piani pensionistici esterni a capitalizzazione e liberandosi del proprio debito presunto/implicito. La cassa fallirebbe e i pensionati e quasi-pensionati finirebbero a carico dell’assistenza centralizzata. È come se lo stato trasformasse il debito implicito in passività a carico di imprese-fantoccio prive di attivi e quindi fallite ancora prima di nascere. Se i debitori impliciti fossero i singoli individui, invece,
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IL POTENZIAMENTO DEL SECONDO PILASTRO
LO STATO PATERNALISTA
non sarebbe chiaro perché si debba ricorrere a casse geografiche o professionali obbligatorie, e non si possa lasciare libertà di scegliere l’assicuratore preferito. In questo caso, tuttavia, i pensionati e i quasi-pensionati, oltre a essere gravati dal debito implicito ora reso esplicito, sarebbero privati di entrate. Molti di loro si rivolgerebbero alla previdenza sociale centralizzata. In questo scenario, allora, sarebbe preferibile che lo stato azzerasse il debito implicito con un tratto di penna, cessasse qualunque erogazione pensionistica e si limitasse a erogazioni puramente assistenziali. Anche le proposte di potenziamento del secondo pilastro, ovverosia dei piani obbligatori di accumulo presso operatori autorizzati dallo stato, con rigidi vincoli operativi stabiliti dallo stato e gestione a capitalizzazione, lasciano irrisolto il problema di fondo – il trattamento del debito implicito – e presentano non poche ambiguità. L’obbligo di gestione a capitalizzazione, infatti, esclude che gli operatori autorizzati si facciano carico del debito implicito pregresso. Si avrebbe dunque una situazione in cui onorare il debito implicito accumulato richiede comunque un’imposizione fiscale elevata (per esempio, il perdurare di contributi sociali significativi), un gravame che si aggiungerebbe all’onere dei versamenti necessari per alimentare il secondo pilastro. Inoltre, il versamento coatto a un assicuratore individuato dallo stato comporta un doppio obbligo: quello di rivolgersi a un gestore individuato da terzi (lo stato) e quello di accettare la polizza assicurativa da questi proposta: ammontare dei versamenti, modalità di erogazione ed eventuale riscatto. L’introduzione di un obbligo contributivo aggiuntivo è comprensibile se l’autorità statale prevede di ridurre progressivamente le erogazioni a ripartizione. Tuttavia, se è vero che il secondo pilastro è gestito in un regime a capitalizzazione, e se è vero che tale regime esclude che le risorse accumulate siano utilizzate per finanziare erogazioni a favore di coloro che non hanno contribuito, l’individuazione di operatori autorizzati lascia perplessi. Non si capisce perché ai residenti sia impedito di rivolgersi ad assicuratori privati o quanto meno all’operatore preferito. Inoltre, è difficile non pensare che il capitale accumulato dagli operatori autorizzati possa essere impiegato secondo criteri dettati dallo stato, convogliando, per esempio, risorse verso imprese o iniziative “privilegiate”. Non solo. Configurato nei termini qui descritti, lo sviluppo del secondo pilastro potrebbe anche diventare lo strumento per realizzare manovre redistributive fra gli assicurati all’interno di ogni singola cassa, trasformando così un piano pensionistico in un sistema di nuove imposte e di sussidi. Per esempio, gli assicuratori del secondo pilastro potrebbero essere obbligati a ridurre le erogazioni a favore degli assicurati ad alto reddito e/o con patrimoni significativi, e aumentare quelle a favore dei meno abbienti.
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In conclusione, la parte virtuosa del secondo pilastro corrisponde alla caratteristica essenziale del terzo pilastro: la possibilità di costituire un piano pensionistico presso l’assicuratore di proprio gradimento configurando la polizza preferita. Di conseguenza, se l’unica finalità dell’autorità fosse evitare che i residenti trascurino di proteggersi con un piano pensionistico in alternativa a quello statale a ripartizione (il primo pilastro), e poi gravino sulla spesa pubblica assistenziale, sarebbe sufficiente imporre un obbligo di sottoscrizione minima nell’ambito del terzo pilastro. Il secondo pilastro sarebbe inutile. È dunque lecito attribuire ai fautori di riforme imperniate sul secondo pilastro il desiderio nascosto di utilizzare il secondo pilastro per sostenere il primo, una soluzione che ridurrebbe anche questa proposta di riforma a un tentativo cosmetico.
6. Prospettive di riforma (II): azzeramento graduale del debito implicito Di certo, l’assimilazione del debito implicito a quello esplicito sarebbe la soluzione preferita in chiave liberista, poiché essa garantirebbe la massima trasparenza. Lo stesso giudizio di merito vale per l’azzeramento degli obblighi contributivi e dei diritti previdenziali presunti. La libertà di non contribuire e, più in generale, di non sottoscrivere un piano pensionistico è coerente con il principio di pari dignità delle preferenze degli individui i quali, per esempio, potrebbero voler costituire e gestire un patrimonio in forma autonoma, o semplicemente attingere a risorse di cui già dispongono. Al tempo stesso, il venir meno dei diritti a erogazioni pensionistiche statali in regime di ripartizione solleva i contribuenti dall’obbligo di trasferire risorse alle generazioni che li hanno preceduti. Tuttavia, come si è detto, tali azzeramenti difficilmente sarebbero accettati da una quota significativa dell’opinione pubblica e dell’elettorato. Una soluzione di ripiego consiste nel realizzare l’emersione graduale del debito implicito, pur rimanendo, quanto meno in una fase iniziale, in un contesto statalizzato. In particolare, gli individui in attività al momento dell’entrata in vigore della riforma sarebbero comunque soggetti all’obbligo contributivo, ma i contributi che essi verserebbero a partire da quel momento sarebbero accumulati, non già utilizzati per finanziare i redditi pensionistici altrui. Una volta terminata la fase di accumulazione, quegli individui godrebbero di erogazioni commisurate a quanto accumulato, a cui si aggiungerebbe un ammontare legato alle annualità contributive versate prima dell’entrata in vigore della riforma. Questo am-
I TERMINI DELLA RIFORMA
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DUE PUNTI CRITICI
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montare sarebbe necessariamente finanziato attraverso la fiscalità generale (con la riforma, infatti, avrebbe fine il regime a ripartizione). Coloro che sono già in pensione al momento di entrata in vigore della riforma continuerebbero a godere delle erogazioni pensionistiche in essere, che sarebbero anch’esse finanziate dalla fiscalità generale e non più dai contributi versati dalla popolazione attiva. Due sono i punti critici di questa soluzione, il cui principio di massima – e solo il principio di massima – sarebbe probabilmente accolto con favore dall’opinione pubblica. Il primo riguarda il capitale accumulato, esposto all’avidità dell’autorità statale, che difficilmente saprebbe resistere alla tentazione di farne uso per finanziare la spesa corrente, eventualmente sostituendo il capitale sottratto con titoli del debito pubblico; o di conferire la gestione a un ente con contratti disegnati e imposti dall’autorità statale. La risposta più semplice a tali criticità sarebbe concedere a ogni contribuente la libertà di scegliere a quale gestore affidare il proprio capitale pensionistico e di configurare in sede contrattuale le caratteristiche della polizza. Il secondo punto critico, più delicato, riguarderebbe l’aggravio per la fiscalità generale che dovrebbe sostenere l’onere delle erogazioni a favore di coloro già pensionati quando entra in vigore il nuovo regime. In particolare, questo progetto di riforma implica un pesante onere iniziale quando, in assenza di contributi da parte da parte della popolazione attiva, cresce il disavanzo dovuto alle erogazioni a favore dei pensionati compresi nel regime a ripartizione. Il disavanzo tende ad azzerarsi (e il debito a stabilizzarsi) solo dopo molti anni, al crescere del numero dei pensionati che godono di erogazioni a regime misto (ripartizione/capitalizzazione) e di coloro in regime di capitalizzazione pura. A parità di altre condizioni, si avrebbero quindi forti tensioni nei primi vent’anni anni della riforma, tensioni che potrebbero rimanere alte a causa dell’invecchiamento della popolazione e dell’innalzamento dell’età a cui i giovani entrano a fare parte del mondo del lavoro e diventano quindi contribuenti. In altri termini, è ben vero che l’introduzione del nuovo regime libererebbe l’individuo dai cosiddetti contributi sociali e quindi aumenterebbe il suo potere d’acquisto. Tuttavia, parte dell’aumento sarebbe impiegato per sottoscrivere un piano assicurativo o per aumentare il proprio patrimonio per sostenere la spesa futura e sarebbe certamente colpito dalla maggiore pressione fiscale necessaria per finanziare le pensioni maturate a ripartizione, che non potrebbero più avvalersi delle entrate contributive: nel 2018 in Italia queste ammontavano a 218 miliardi di euro, sufficienti per finanziare le pensioni di vecchiaia/anzianità (209 miliardi di euro), ma non quelle corrisposte ai cosiddetti superstiti (43 miliardi di euro).
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Le figure 1 e 2 che seguono illustrano con un esempio molto semplificato e non troppo lontano dalla realtà italiana l’evolversi quarantennale della situazione pensionistica in un’economia che al momento iniziale non presenta indebitamento, conta 23 milioni di individui occupati (i contribuenti) e 16 milioni di pensionati. Si suppone che ogni individuo sia attivo per 40 anni, goda di una retribuzione media annua complessiva (al lordo delle imposte e al netto dei contributi sociali) di € 30.200 e versi contributi annui per € 9.500 (circa il 23% del costo del lavoro, pari a € 41.800). Si ipotizza inoltre che ogni individuo percepisca per 20 anni una pensione annua statale di € 13.600 e che, per cause demografiche, il numero di individui attivi scenda a tassi dell’1% annuo e dello 0,5% annuo, rispettivamente, nel primo e nel secondo decennio considerati 1. Per semplicità, gli interessi sul debito contratto sono posti uguali a zero.
FIGURA 1. – Andamento del debito in assenza di riforma
La fig. 1 presenta la situazione di partenza, in assenza di riforma e senza debito esplicito pregresso. L’andamento del debito esplicito riflet
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realtà, nel 2018 i 16 milioni di pensionati italiani ricevevano in media circa 16.000 euro annui (vecchiaia, anzianità e superstiti). La somma indicata nel testo (13.600 euro) è quella compatibile con le entrate contributive di quell’anno (218 miliardi). Si noti inoltre che, secondo le ipotesi qui formulate, il rapporto contribuenti/pensionati cresce nel tempo poiché si ipotizza una vita contributiva di 40 anni (o una riduzione equivalente negli importi legati al pensionamento anticipato). Ben diverse sarebbero le conclusioni se, come molti paventano, il rapporto fosse destinato a scendere.
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te l’accumularsi dei disavanzi di gestione corrente, da finanziarsi attraverso ulteriore indebitamento. Il dato per l’anno 1 è quindi pari al debito dell’anno precedente (nullo per definizione), più la differenza fra le erogazioni pensionistiche di quell’anno (13.600 euro a 16 milioni di pensionati) e il gettito contributivo di quell’anno (9.500 euro da 23 milioni di contribuenti), che nell’esempio è prossimo a zero per costruzione. L’andamento del debito implicito, invece, descrive l’impegno di spesa complessivo in essere ogni anno, ovverosia quanto sarà dovuto in futuro ai contribuenti attivi e ai pensionati che compongono la popolazione all’anno 1. Il dato per l’anno 1 (8.432 miliardi) è dunque l’ammontare delle erogazioni pensionistiche future a 23 milioni di contribuenti, pari a 13.600 euro annui per 20 anni, più l’ammontare delle erogazioni a favore di 16 milioni di pensionati, pari a 13.600 euro annui per 10 anni (si ipotizza che ogni anno il pensionato medio abbia davanti solo 10 anni di erogazioni). Dalla figura si evince che il debito esplicito ben presto si trasforma in un attivo – i contributi versati sono maggiori delle pensioni erogate – e cresce moderatamente all’aumentare del rapporto fra contribuenti e pensionati, pari a 1,44 nel primo anno e a 1,76 nel 40mo anno. Come si è detto, il debito implicito è inizialmente pari a euro 8.432 miliardi e corrisponde alle erogazioni future dovute alla popolazione attiva e ai pensionati. Questo ammontare scende per ragioni esclusivamente demografiche: secondo le ipotesi qui formulate, infatti, si riducono sia la popolazione di coloro aventi diritto a prestazioni a ripartizione sia la popolazione dei pensionati. I risultati non cambierebbero sensibilmente se si tenesse conto del servizio del debito. In sintesi, questa economia presenterebbe un debito totale legato al numero dei contribuenti che andranno in pensione negli anni successivi alla riforma, un debito che tuttavia si ridurrebbe già del 14% nel corso dei primi quindici anni, al crescere dei fondi disponibili. Naturalmente, i risultati sarebbero decisamente peggiori se la vita attiva/contributiva fosse inferiore ai 40 anni, se aumentasse il numero di anni di erogazione, o se si riducesse il gettito contributivo pro capite. Considerazioni analoghe varrebbero se l’ammontare medio di ogni erogazione aumentasse. A questo proposito, va osservato che, nel nostro esempio, il piano assicurativo sottoscritto presso l’autorità statale sarebbe un pessimo affare per molti pensionati e spiega perché il sistema non tracolla. Durante i 40 anni della sua vita lavorativa l’individuo medio versa 380.000 euro, che diventano 574.000 euro se si considera un tasso di capitalizzazione pari al 2% annuo. A fronte di tale capitale, sempre secondo le ipotesi qui formulate, durante la sua vita di pensionato l’individuo medio riceverebbe solo 272.000 euro.
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Che cosa succederebbe se il sistema fosse disegnato per far emergere (e dunque azzerare) il debito implicito con le modalità enunciate in precedenza – azzeramento dei contributi versati al sistema statale a partire dall’entrata in vigore della riforma e mantenimento dei diritti acquisiti maturati nel passato a ripartizione?
FIGURA 2. – Andamento del debito con azzeramento del debito implicito
La risposta è sintetizzata nella figura 2, che di nuovo ipotizza un debito esplicito pregresso nullo. Il debito esplicito cresce sensibilmente a causa del mancato gettito contributivo e si protrae per 60 anni, fino all’esaurimento delle erogazioni a favore di coloro attivi al momento dell’entrata in vigore della riforma. Per esempio, nell’anno 4 il debito esplicito (881 miliardi) è pari al debito dell’anno precedente (666 miliardi), più le erogazioni pensionistiche dell’anno a favore di coloro andati in pensione prima della riforma (13.600 euro a 13,6 milioni di pensionati) e a favore di coloro andati in pensione dopo la riforma (in media 13.130 euro a 2,3 milioni di pensionati). Naturalmente, dal ventesimo al sessantesimo anno, in cui si completa la transizione al regime a capitalizzazione, il debito aumenta per le erogazioni a favore di coloro andati in pensione dopo l’introduzione della riforma.
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Il debito implicito, invece, si riduce durante tutto il periodo e soprattutto nel corso dei primi venticinque anni. Come detto in precedenza, il debito implicito corrisponde a quanto dovuto a coloro già in pensione al momento della riforma, a cui si aggiungono le somme dovute a chi è ancora attivo/contribuente e in passato ha maturato il diritto alle erogazioni. Di nuovo per l’anno 1, dunque, il debito implicito complessivo è pari 5.382 miliardi di euro, costituiti dai 2.176 miliardi che saranno erogati in media per dieci anni ai 16 milioni di individui andati in pensione prima della riforma, e dagli esborsi (euro 3.206 miliardi) a cui avranno diritto coloro che andranno in pensione successivamente e beneficeranno di ammontari annui inferiori. Da questa doppia simulazione (figure 1 e 2), che in parte ricalca il contesto italiano, si possono trarre conclusioni significative. In primo luogo, è innegabile che in un’economia ove molti individui ricevono nel periodo della pensione meno di quanto hanno versato come contribuenti (senza contare gli interessi), e ove la diminuzione del numero dei contribuenti è limitata a un periodo iniziale di vent’anni, la questione della sostenibilità del sistema si riduce significativamente. Il debito esplicito è in realtà un attivo e il debito implicito si riduce progressivamente senza alcun intervento (figura 1), sostenendo così le argomentazioni di coloro che affermano che la spesa pensionistica è tutto sommato sostenibile, soprattutto se si inverte la dinamica del rapporto contribuenti/pensionati o si penalizzano adeguatamente gli importi erogati a chi ha una vita contributiva limitata. I benefici di una riforma volta a eliminare il debito implicito, dunque, non riguardano l’ammontare del debito pubblico totale (la somma di quello esplicito e di quello implicito), che con sistema riformato si stabilizzerebbe intorno a un valore pari a circa l’80% di quello registrato nello scenario “senza riforma”. La riforma, invece, consente il graduale azzeramento del debito implicito ed è giustificata dal principio di trasparenza. Inoltre, poiché la riforma implicherebbe la migrazione da un sistema a ripartizione che di fatto implica piani pensionistici con rendimenti fortemente negativi a un sistema a capitalizzazione con rendimenti positivi, il beneficio per i pensionati sarebbe innegabile. Insomma, in questi scenari la riforma non sarebbe necessaria tanto per porre rimedio alla insostenibilità del sistema pensionistico a ripartizione, poiché il debito esplicito rimarrebbe elevato; quanto per rispettare un criterio di trasparenza ed equità, trasformando il debito implicito (invisibile) in debito esplicito (visibile) e consentendo ai contribuenti un rendimento non negativo sui propri risparmi. Si tratta di trasparenza
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– perché il debito implicito è comunque un onere ed è bene che i residenti ne siano consapevoli, e perché è opportuno che i contribuenti prendano coscienza che circa la metà dei contributi versati non sono il premio per una polizza pensionistica statale, bensì imposte. Si tratta infine di equità, poiché non è giusto che un individuo nasca già gravato da un debito (implicito) che altri hanno contratto a sua insaputa e senza il suo consenso. Certamente, un’eventuale riforma ridurrebbe sensibilmente la spesa pensionistica e alleggerirebbe la pressione fiscale sul contribuente, poiché si azzererebbero i contributi sociali, che sono imposte. Il prelievo fiscale medio sul reddito scenderebbe così di quasi 23 punti percentuali (9.500 euro su 41.800, nel nostro esempio). Nella simulazione qui proposta, tuttavia, il nuovo debito pubblico esplicito raggiungerebbe i 2.000 miliardi di euro dopo circa dieci anni e i 5.000 dopo 35 anni. Nel caso italiano si tratterebbe di importi rilevanti (il debito pubblico a fine 2020 era di 2.570 miliardi di euro), che comporterebbero un aggravio probabilmente impossibile da sostenere ricorrendo ai mercati finanziari, soprattutto qualora gli operatori dubitassero che a una scomparsa del debito implicito si accompagnerebbe una minore pressione fiscale e una crescita economica più sostenuta. In secondo luogo, occorre considerare gli effetti redistributivi. Per esempio, come suggerito in precedenza, nel caso italiano il confronto fra la storia dei contributi e la storia delle erogazioni indica che i sottoscrittori del sistema pensionistico statale sono in realtà penalizzati, poiché una quota cospicua dei versamenti è utilizzata per erogazioni di tipo clientelare (trasferimenti a gruppi di pressione privilegiati) e assistenziale (riduzione della povertà). È dunque comprensibile che privilegiati e assistiti siano soddisfatti dello status quo, e più propensi a preferire gli aggiustamenti cosmetici ai cambiamenti radicali. A questi elementi critici – sostenibilità finanziaria e pressione di gruppi d’interesse – si aggiungono gli interrogativi legati all’azione dell’autorità governativa che, a fronte di tali difficoltà, potrebbe ricorrere a drastici tagli della spesa pubblica e/o a provvedimenti impositivi straordinari, quali la ristrutturazione del debito pubblico o la sua monetizzazione – entrambe misure che equivarrebbero a una pesante imposta patrimoniale concentrata sui detentori dei titoli del debito pubblico e sui detentori di liquidità. Chi è in pensione o prossimo alla pensione nel momento in cui la riforma entra in vigore avrebbe ben poco interesse a vedere emergere il debito implicito e sarebbe per contro fortemente preoccupato da eventuali crisi della finanza pubblica. In una società demograficamente
INSOSTENIBILITÀ FINANZIARIA
GRUPPI DI PRESSIONE
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vecchia, questa categoria di persone ha un peso politico decisivo, a cui si aggiungono i beneficiari indiretti dell’attuale sistema, nonché coloro che iniziano la propria attività in tarda età, o che temono di attraversare lunghi periodi di disoccupazione, o che sono comunque percettori di bassi salari. Si tratta di un aspetto particolarmente importante in economie ove il tasso di disoccupazione giovanile è superiore al 20% (in Italia nel 2020 era superiore al 30%) e dove le qualificazioni professionali della forza lavoro sono insoddisfacenti. Per completezza, può essere interessante considerare che cosa succederebbe se, ferme le altre condizioni ipotizzate in precedenza, l’erogazione annuale media a favore dei pensionati passasse da 13.600 a 18.000 euro. La figura 3 pone in evidenza come, in assenza di riforme, dopo 40 anni il debito esplicito raggiungerebbe i 1.800 miliardi di euro (nel caso precedente si aveva un attivo di 546 miliardi di euro), mentre il debito implicito si stabilizzerebbe intorno ai 9.200 miliardi di euro (contro i 6.900 miliardi del caso precedente).
FIGURA 3. – Andamento del debito in assenza di riforma ed erogaz. maggiorate
Le conseguenze dell’azzeramento del debito implicito sono invece descritte nella figura 4, in cui si osserva come dopo 40 anni il nuovo debito esplicito si avvicini ai 7.000 miliardi di euro, contro i circa 5.250 miliardi del caso descritto nella figura 2.
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FIGURA 4. – Andamento del debito con azzeramento del debito implicito ed erogaz. maggiorate
In breve, la transizione verso un sistema pensionistico meno iniquo in termini di rapporto fra prestazioni erogate e contributi versati sarebbe certamente molto pesante in assenza di riforma: il debito implicito aumenterebbe di oltre il 30% e quello totale di quasi il 60%. In presenza di un sistema riformato, il debito implicito tenderebbe a zero, mentre quello esplicito e quello totale aumenterebbero del 40% circa. È altresì interessante osservare che il debito totale in condizioni di riforma ed erogazioni maggiorate (7.322 miliardi di euro) supererebbe del 15% il debito totale in assenza di riforma con erogazioni ridotte (6.375 miliardi), ma consentirebbe a coloro che hanno accesso al regime di ripartizione di percepire erogazioni maggiori del 32%.
7. Prospettive di riforma (III): il sistema a punti Come anticipato nella sezione 2, l’ultima categoria di proposte di riforma ha per oggetto la transizione verso il cosiddetto sistema a punti, uno schema previdenziale generale che comprende anche una componente pensionistica, come a Singapore; oppure limitato alla componente pensionistica, come accade attualmente, per esempio, in Germania e in Francia. In sintesi, tale schema consiste nell’obbligo, imposto a ogni residente in età lavorativa, di costituire un patrimonio minimo, vincolato e
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trasferibile, per far fronte alle spese necessarie per godere di un tenore di vita pari o superiore a un livello definito dall’autorità. Naturalmente, l’obbligo viene meno per coloro che già dispongono di un patrimonio adeguato o che versano in condizioni di estrema povertà e che pertanto beneficiano comunque dell’assistenza a carico della fiscalità generale. Nella sua versione più ampia, lo schema prevede che i punti siano acquistati con i propri risparmi o con quanto acquisito grazie a donazioni ed eredità. I punti possono essere lasciati in eredità a chiunque e danno diritto a una somma • minima, volta a evitare che l’individuo si trovi in condizioni di estrema povertà e quindi gravi sui programmi assistenziali finanziati attraverso la fiscalità generale; • variabile, poiché commisurata alla necessità futura di ricorrere al capitale accumulato, necessità che presumibilmente crescerà al ridursi della vita lavorativa dell’individuo e diminuirà al ridursi della sua vita residua attesa; • vincolata, poiché non può essere disinvestita se non per finalità di spesa previdenziale (pensioni, sanità e sostegno durante i periodi di disoccupazione); • garantita, poiché il depositario deve essere in grado di tutelare il valore reale del patrimonio accantonato; • trasferibile, poiché a ogni individuo deve essere assicurata la libertà di trasferire quanto accantonato presso il depositario che preferisce, a meno che l’individuo non accetti volontariamente ed esplicitamente clausole contrattuali che lo vincolino. Di certo, il sistema pensionistico-previdenziale a punti è quello che più si avvicina al rispetto della libertà da coercizione. In questo ambito, infatti, la coercizione si limita all’obbligo di accumulare quanto necessario per non gravare sul prossimo e al vincolo sulla garanzia del patrimonio depositato. Comprende inoltre la presenza di un sistema previdenziale minimo per gli indigenti a carico della fiscalità generale, secondo il concetto di solidarietà sociale attualmente prevalente. Benché si tratti di flussi monetari che fanno riferimento al capitale accumulato grazie al flusso di contributi, e dunque sia un sistema a capitalizzazione a tutti gli effetti, lo schema è noto come sistema a punti perché s’intende sottolineare la possibilità di attribuire il rischio finanziario all’assicuratore. Per esempio, qualora si voglia garantire la certezza della prestazione, l’autorità governativa fissa un valore di riscatto minimo e aggiornato in base all’indice dei prezzi al consumo, e ogni assicuratore compete con gli altri assicuratori
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cercando di vendere i punti al massimo prezzo possibile al massimo numero di acquirenti. Ogni punto riscattato dà luogo a quantità di moneta – euro, dollari, sterline, ecc. – che gli individui assicurati potranno spendere in sanità, istruzione, o riscattando i propri diritti pensionistici. Un sistema di questo tipo si articola su due caratteristiche uniche. In primo luogo, si tratterebbe di un programma previdenziale completo, che obbliga l’individuo a risparmiare per affrontare situazioni difficili, ma in gran parte prevedibili (periodi di disoccupazione, vecchiaia, malattia). Inoltre, la transizione consentirebbe la cancellazione immediata del debito pensionistico implicito. L’emersione potrebbe avvenire secondo due modalità estreme, con infinite soluzioni intermedie. Secondo una prima modalità, lo stato emetterebbe titoli del debito pubblico per la quantità necessaria a finanziare il debito implicito e distribuirebbe i punti corrispondenti ai creditori (i contribuenti futuri pensionati e i pensionati in essere). Seguendo una seconda modalità, invece, lo stato consegnerebbe ai creditori nuovi titoli di stato emessi alla pari, per un ammontare pari al credito implicito vantato dai contribuenti e dai futuri pensionati. Con il ricavato ed eventuali integrazioni gli interessati acquisterebbero i punti necessari. In entrambi i casi, lo stato cesserebbe immediatamente di erogare pensioni. Farebbero eccezione le prestazioni puramente assistenziali, le quali sosterrebbero anche coloro che, già pensionati, superano la vita attesa utilizzata per il calcolo del debito implicito. Come accennato, possono ravvisarsi soluzioni intermedie, in cui il debito implicito è azzerato attraverso una combinazione di titoli assegnati direttamente ai creditori-pensionati e di somme ricavate dalla vendita di titoli sul mercato. Gli effetti redistributivi di una tale riforma sono legati alle caratteristiche intrinseche del nuovo regime e a quanto accade a seguito dell’emissione dei nuovi titoli di debito pubblico. In particolare, come in tutti i sistemi a capitalizzazione, vengono meno il trasferimento intergenerazionale e la possibilità che l’autorità statale utilizzi i flussi di cassa generati dai contributi per scopi diversi da quelli pensionistici – per esempio, finanziando i consumi pubblici correnti. Inoltre, si avrebbe probabilmente un riequilibrio nella spesa previdenziale in senso lato, poiché ogni individuo sarebbe consapevole – sempre per esempio – che il proprio consumo di servizi sanitari ha un costo opportunità (il consumo di punti/risorse sottratti/e ai proventi pensionistici futuri). Più in generale, sarebbero sfavoriti coloro con esigenze previdenziali non-pensionistiche più accentuate, perché maggiormente vulnerabili a periodi di disoccupazione o perché maggiormente bisognosi di cure sanitarie, per sé o per i propri famigliari.
SISTEMA A PUNTI E DEBITO IMPLICITO
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LO STATO PATERNALISTA
8. Una brutta fine Gli effetti della transizione verso un sistema a punti sarebbero certamente assai più rilevanti di quelli della riforma tratteggiata nella sezione precedente e, per molti, ancor più preoccupanti. L’emersione immediata del debito implicito corrisponderebbe a un significativo aumento del debito pubblico esplicito in circolazione. I prezzi dei titoli ne soffrirebbero, con una caduta che sarebbe tanto maggiore, quanto minore sarà la credibilità dell’emittente e la propensione a detenere in portafoglio fino a scadenza i nuovi titoli. Paradossalmente, a parità di crescita economica, più le più finanze pubbliche sono fragili (elevato rapporto Debito/PIL), maggiore è il disavanzo di bilancio pubblico che l’economia può permettersi senza peggiorare il rapporto Debito/PIL. È questo, in fin dei conti, il meccanismo che ha conferito irresponsabile sicurezza a molti Paesi in difficoltà, fra cui l’Italia, anche prima del Covid. Per esempio, un’economia con un debito pubblico pari al 60% del PIL e una crescita del PIL intorno all’1% può presentare un disavanzo pubblico dello 0,6% del PIL senza indebolire la propria situazione finanziaria. Un disavanzo superiore provoca un aumento del rapporto Debito/PIL, mentre un disavanzo inferiore provoca una diminuzione, ovverosia maggiore sostenibilità. La stessa crescita del PIL (1%), invece, consente a un’economia con un peso iniziale del debito pari al 120% di accumulare un disavanzo intorno all’1,2% del PIL senza peggiorare la propria condizione (che comunque rimane fragile). Diverse sono le condizioni di vulnerabilità a fronte di una variazione dei tassi d’interesse, la cui crescita ovviamente penalizza un’economia con fragili finanze pubbliche. Naturalmente, un aumento del costo del servizio del debito può essere neutralizzato con una maggiore crescita economica. Tuttavia, se questo non fosse possibile, la strada verso il deterioramento potrebbe essere evitata solo con un maggiore saldo primario (il saldo del bilancio pubblico al netto degli interessi su debito), un saldo tanto maggiore, quanto più fragile è la situazione di partenza. Per esempio, si considerino due economie inizialmente stagnanti (crescita del PIL nulla) e con il bilancio pubblico in pareggio. Un aumento dei tassi d’interesse di due punti percentuali può essere neutralizzato da una crescita del PIL del 2% sia da un’economia con un rapporto iniziale Debito/PIL pari a 0,6, sia da un’economia con un rapporto pari a 1,2. Tuttavia se il PIL crescesse dell’1%, all’economia più solida basterebbe ridurre il disavanzo tendenziale dello 0,6%, mentre a quella più fragile sa-
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rebbe richiesta una contrazione due volte più intensa. Naturalmente, la crisi si acuirebbe al crescere della differenza fra crescita necessaria e crescita effettiva (a parità di crescita nelle due economie), e probabilmente colpirebbe i Paesi finanziariamente più deboli, i quali di solito presentano problemi di (mancata) crescita maggiori. Per concludere, i progetti di transizione che riguardano paesi fortemente indebitati, con scarse prospettive di crescita ed esposti a un possibile sensibile rialzo dei tassi d’interesse sul debito pubblico sono destinati a essere scartati perché di fatto condurrebbero a forme più o meno mascherate di bancarotta della finanza pubblica: ristrutturazione del debito o monetizzazione. Per un paese OCSE l’azzeramento del debito implicito avrebbe come conseguenza un aumento del rapporto debito/PIL a valori non inferiori a 3, a cui corrisponderebbe un notevole aumento nel costo del servizio del debito. Anche se non è impossibile immaginare avanzi primari significativi e forse sostenibili per Paesi come la Germania, essi sarebbero di fatto improponibili per un Paese come l’Italia. Questo non significa che il problema del debito implicito sia ineliminabile. Significa però che probabilmente non sarà risolto attraverso una riforma volta a farlo emergere, bensì attraverso il suo parziale schiacciamento, ovverosia la progressiva riduzione delle prestazioni pensionistiche statali e un aumento del peso della spesa previdenziale, ma di fatto assistenziale, sulla spesa pubblica complessiva.
Riferimenti bibliografici ISTAT (2019), Anno 2016, La struttura del costo del lavoro in Italia, Statistiche Report, Roma: Istat (https://www.aranagenzia.it/attachments/article/ 9531/Struttura-costo-del-lavoro.pdf). Nisticò, Sergio (2019), Essentials of Pension Economics, Cham: Palgrave MacMillan.
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LO STATO PATERNALISTA
PARTE IV
SPESA E FINANZA PUBBLICA
TUTTI PIANIFICATORI: DOMANDA AGGREGATA E DEBITO PUBBLICO
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CAPITOLO 8
TUTTI PIANIFICATORI: DOMANDA AGGREGATA E DEBITO PUBBLICO 1. Una premessa di metodo Gli economisti sono soliti distinguere fra gli studi microeconomici e quelli macroeconomici. I primi hanno per oggetto l’analisi dei meccanismi decisionali attraverso cui i singoli individui perseguono i propri fini e soddisfano le proprie preferenze in contesti caratterizzati da scarsità. In questa chiave il concetto fondamentale è il costo-opportunità, ovverosia il benessere a cui si rinuncia quando si sceglie l’azione A con risorse che avrebbero potute essere utilizzate per B. Il costo-opportunità spiega l’attività di scambio, il consumo, il risparmio e l’investimento, nonché le scelte circa l’impiego del proprio talento, del proprio tempo e gli atteggiamenti a fronte dell’incertezza. Più difficile, invece, è definire gli scopi della macroeconomia, che ha per oggetto l’analisi degli aggregati, quali milioni di consumatori, investitori, lavoratori tutti diversi fra loro, oppure variabili che includono, per esempio, prestazioni sanitarie e chili di farina. Certamente, l’osservazione dei dati aggregati costituisce un utile strumento per descrivere alcune caratteristiche di una collettività. Nondimeno, i macroeconomisti difficilmente si riconoscerebbero come meri raccoglitori ed elaboratori di numeri, attività che solitamente sono considerate proprie della statistica economica. La definizione degli scopi della macroeconomia aldilà della statistica economica è il punto di frattura fra la visione tradizionale e quella evoluzionista. La prima è oggi largamente prevalente. Già nota durante il periodo mercantilista, fu successivamente ripresa negli scritti di Thomas R. Malthus (1820) e riscosse grande consenso negli ambienti accademici e politici nel secolo scorso grazie a John M. Keynes (1936). La visione evoluzionista, invece, nasce dal contributo di diversi autori del Novecento ed è stata di recente ulteriormente sviluppata e sistematizzata da Richard Wagner (2020).
MICROECONOMIA E COSTOOPPORTUNITÀ
MACROECONOMIA O STATISTICA ECONOMICA?
146 LA MACROECONOMIA TRADIZIONALE
LA MACROECONOMIA EVOLUZIONISTA
SPESA E FINANZA PUBBLICA
In breve, l’impostazione macroeconomica tradizionale riconduce il comportamento di ogni aggregato a quello di un attore-tipo – per esempio, il consumatore-tipo o il produttore-tipo. Questi seguirebbe schemi di azione-reazione standardizzati e misurabili, che possono condurre a squilibri e risultati indesiderati, soprattutto in presenza di eventi imprevisti: i cosiddetti “shock esogeni”, non di rado erroneamente trattati come se fossero eventi del tutto accidentali, alla stregua di un terremoto o di un’eruzione vulcanica. In questa luce, gli studi macroeconomici tradizionali si prefiggono di capire la natura e l’intensità degli squilibri, e suggerire all’autorità governativa interventi volti a ristabilire l’equilibrio e/o perseguire obbiettivi condivisi. Come è noto, tali interventi si concretizzano nella regolamentazione, nella politica fiscale e in quella monetaria. La prospettiva evoluzionista, più vicina all’impostazione liberista, nega che si possa ridurre un aggregato alla finzione dell’individuo-tipo che ama – ed è progettato per – operare in un contesto di equilibrio. In primo luogo, perché ogni individuo ha preferenze proprie, non confrontabili e non aggregabili. Dunque, poiché l’individuo-tipo non esiste, non ha senso immaginare una scienza sociale che tratta di soggetti immaginari. Inoltre, perché la realtà è caratterizzata da continui squilibri, condizione di cui gli individui sono consapevoli e che il liberista considera non solo inevitabile, ma fonte di opportunità e nuova conoscenza, e dunque motore di progresso. Infine, come del resto già ampiamente argomentato in questo libro, perché il liberista nega all’autorità di politica economica la capacità di individuare equilibri desiderabili e la legittimità di perseguire o imporre tali obbiettivi, soprattutto quando si tratta di attività che comportano violazioni della proprietà privata, costi di transazione significativi e, in generale, redistribuzioni forzose del reddito e della ricchezza. La macroeconomia in chiave evoluzionista, dunque, si astiene dall’effettuare simulazioni sul comportamento dell’individuo-tipo e predilige, invece, lo studio del contesto istituzionale, che nasce dalle interazioni fra individui e gruppi di pressione, e che a sua volta genera insiemi di incentivi. Il macroeconomista liberista, in particolare, non ha ambizioni normative, ma è attento alle variabili di tipo sociologico e politico che influiscono sull’interazione e sui risultati inintenzionali a cui l’interazione può condurre. In altri termini, mentre la microeconomia è la teoria dei costiopportunità individuali, delle scelte e dello scambio, la macroeconomia evoluzionista è la teoria delle conseguenze inintenzionali provocate da decisioni e scambi individuali, e quindi intenzionali. Come accennato, la politica macroeconomica odierna è solidamente
TUTTI PIANIFICATORI: DOMANDA AGGREGATA E DEBITO PUBBLICO
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ancorata all’impostazione macroeconomica tradizionale, la quale giustifica l’intervento pubblico in presenza di situazioni poco soddisfacenti (per esempio, modesta crescita economica o elevata disoccupazione), o per evitare che eventi imprevisti e temporanei diano luogo a reazioni spontanee indesiderate. È quest’ultima la cosiddetta azione anticiclica, anche se forse sarebbe preferibile definirla “stabilizzatrice”. Per questi motivi gli economisti tradizionali ritengono necessari interventi fiscali (imposte, spesa pubblica e indebitamento pubblico) o monetari in senso lato (moneta e credito) per ricomporre o conseguire l’equilibrio, non senza contraddizioni. All’esame di questi insiemi di temi – ruolo della spesa pubblica, interventi anti-ciclici e politica monetaria – sono dedicati questo capitolo e quello successivo.
2. Legge di Say, domanda pubblica e domanda privata Si è già trattato del ricorso a imposte e spesa pubblica per garantire l’accesso agevolato ai beni di merito e provvedere alla gestione del sistema pensionistico. Non è dunque necessario ripetere le argomentazioni liberiste su tali temi, né i criteri – trasparenza e responsabilità individuale – con cui riflettere su obbiettivi comunque condivisi dalla larga maggioranza della collettività. Scopo delle pagine che seguono, piuttosto, è approfondire una delle argomentazioni macroeconomiche che tradizionalmente giustificano la politica fiscale: il ricorso alla spesa pubblica per ottenere tassi di crescita soddisfacenti al netto delle oscillazioni congiunturali. In particolare, questa sezione tratta di domanda aggregata e di spesa pubblica, mentre nelle sezioni 3-6 si considerano diverse modalità di finanziamento a debito. Le sezioni 7 e 8 sono dedicate alla sostenibilità del debito e al cosiddetto rischio sistemico, mentre l’ultima sezione offre alcune considerazioni conclusive in chiave propositiva. Il fondamento dell’intervento normativo prospettato dalla macroeconomia tradizionale è la cosiddetta teoria del moltiplicatore, teoria che in passato godeva di un credito certamente maggiore rispetto a oggi e i cui poteri taumaturgici continuano tuttavia a essere evocati con entusiasmo nei mezzi di comunicazione, nei ministeri e in molte aule universitarie. In sintesi, secondo tale teoria, il semplice trasferire risorse dal settore privato (che risparmia) al settore pubblico (che consuma) condurrebbe a una domanda aggregata e una produzione (PIL) maggiori. Il benessere della collettività aumenterebbe.
IL MOLTIPLICATORE KEYNESIANO
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LA LEGGE DI SAY
SPESA E FINANZA PUBBLICA
Le ragioni per cui tale argomentazione è sempre risultata assai gradita al decisore pubblico sono evidenti e saranno fra breve richiamate. Eppure, i suoi limiti sono altrettanto palesi e possono essere analizzati sotto tre profili: (1) la legge di Say, secondo cui il potere d’acquisto di un individuo o di una collettività dipende dal valore di ciò che si produce, (2) le diverse caratteristiche della domanda privata e di quella pubblica, (3) il ruolo del risparmio. In breve, secondo la legge di Say (1803), una crescita economica insoddisfacente non può che avere tre origini: la presenza di errori sistematici da parte dei produttori, i quali producono beni e servizi poco graditi dai potenziali acquirenti e/o con tecniche inefficienti; la ridotta crescita delle produttività dei fattori produttivi impiegati; la mancanza di fattori produttivi. Di conseguenza, interventi volti ad accrescere la domanda aggregata generano effetti auspicabili se l’aumento della spesa pubblica è in grado di correggere gli errori sistematici, di influire sulla produttività e aumentare la quantità dei fattori a disposizione. Si noti che la legge di Say non menziona il problema della domanda aggregata insoddisfacente, e con ragione. In un mondo popolato da individui che cercano continuamente di migliorare il proprio benessere è difficile comprendere come una domanda globale potenzialmente illimitata induca gli imprenditori a commettere errori sistematici e duraturi, soprattutto se chi commette tali errori vedrà ridurre la domanda per i propri prodotti e sarà quindi stimolato a rivedere le proprie decisioni. In altri termini, è certamente possibile che si sbaglino le previsioni: l’ingiustificato ottimismo può indurre a eccessi di produzione, mentre il pessimismo esagerato può favorire errori di segno opposto. Tuttavia, in un’economia di libero mercato gli errori comportano perdite (o minori profitti), segnali che inducono a riconsiderare le proprie scelte. Ed è quanto meno singolare che si possa pensare di correggere un errore di previsione adattando la realtà all’errore, per esempio tassando gli imprenditori di successo per finanziare chi si è dimostrato inefficiente o, peggio, chi non produce nulla. In effetti, la carenza di domanda aggregata non ha alcun ruolo, poiché gli appetiti dell’individuo sono inesauribili: incoraggiare con sussidi a desiderare e domandare di più è dunque inutile, se non dannoso. In particolare, e contrariamente a quanto potrebbe lasciare credere la macroeconomia tradizionale, non vi è relazione causale fra domanda aggregata e produttività in un’economia concorrenziale in cui il consumatore ha libertà di scelta e ove tutti gli attori coinvolti, imprenditori e proprietari dei fattori produttivi, hanno interesse ad aumentare la produtti-
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vità indipendentemente dal volume della domanda aggregata. Il motore di tale interesse è la necessità di rimanere competitivi, di non essere spinti fuori mercato o acquisiti da produttori più efficienti, di aumentare la propria remunerazione e il proprio potere d’acquisto. Considerazioni analoghe valgono per i volumi di produzione, che dipendono dalla capacità dei singoli produttori di soddisfare una domanda potenzialmente infinita, la domanda di un mondo globalizzato in cui, come scrisse Adam Smith, e Mises (1956) sottolineò in tempi più recenti, ogni individuo cerca di migliorare la propria condizione materiale. Talvolta accade che insiemi di produttori non riescano a reperire le risorse necessarie per aumentare la produzione e soddisfare un numero maggiore di potenziali acquirenti. È questa una situazione in cui la remunerazione dei fattori impiegati altrove è relativamente elevata, oppure in cui il mercato dei fattori produttivi non funziona a dovere. Nel primo caso è dunque bene che i fattori produttivi non si spostino: evidentemente, sono meglio impiegati dove già si trovano. Nel secondo caso, compito del decisore di politica economica è rimuovere o almeno ridurre gli ostacoli che impediscono un normale funzionamento del mercato dei fattori: per esempio, deregolamentando il mercato del lavoro e azzerando il cosiddetto “cuneo salariale”. Intervenire aumentando la domanda aggregata non fa che accrescere le strozzature e allontanare la struttura dei prezzi da quella che prevarrebbe in concorrenza. Si considerino ora la spesa privata e quella pubblica: è questo il secondo profilo enunciato all’inizio di questa sezione. Le politiche dirette ad accrescere la domanda aggregata sono in realtà interventi che, se aumentano la spesa pubblica senza ricorrere all’indebitamento, sottraggono potere di acquisto ad alcuni (i contribuenti) per attribuirlo ad altri (le autorità governative). Secondo la prospettiva macroeconomica tradizionale tali interventi sarebbero giustificati se la domanda di provenienza pubblica avesse un effetto di traino della produzione superiore a quello generato dalla domanda di provenienza privata. Nondimeno, ammesso che si possa parlare di “traino”, vi sono diversi motivi per dubitare che questo sia il caso. Per un verso non vi è ragione di ritenere che i produttori si sentano stimolati a produrre meglio e di più quando hanno di fronte un acquirente pubblico. Inoltre, come afferma la legge di Say, la capacità di domandare nasce dalla capacità di produrre: coerenza vorrebbe, allora, che si intervenisse sulla produzione (nazionalizzandola?), non sulla domanda. La storia ha già ampiamente illustrato le nefaste conseguenze della pianificazione centralizzata e della produzione di stato.
SPESA PRIVATA E SPESA PUBBLICA
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IL RUOLO DEL RISPARMIO
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In secondo luogo, sottrarre capacità di spesa a un insieme di individui (i contribuenti) per aumentare la domanda da parte di altri individui (i beneficiari della spesa pubblica) è un gioco a somma negativa a causa degli sprechi e della presenza di costi ingiustificati. Si pensi ai costi dell’amministrazione tributaria, alle distorsioni sul mercato dei fattori produttivi e sulla scelta delle tecniche produttive, all’ammontare delle risorse destinate alla gestione e al monitoraggio della spesa pubblica, con buona pace delle speranze riposte nel “moltiplicatore”. Soprattutto, si pensi ai fenomeni di corruzione o negligenza che si verificano quando si spendono risorse altrui senza essere responsabili dei risultati conseguiti; o alla possibilità che il decisore pubblico scelga progetti che non necessariamente sono coerenti con l’interesse collettivo e gli obbiettivi annunciati, ma che accrescono la popolarità e il prestigio del decisore stesso. Una terza argomentazione addotta a favore della spesa pubblica finanziata da imposte riguarda il ruolo del risparmio. Nella visione macroeconomica ereditata da Malthus e Keynes il risparmio non gode di buona fama: è descritto come una sottrazione di risorse alla spesa. In altri termini, si ritiene che ogni euro risparmiato e tesaurizzato sia un euro sottratto alla domanda aggregata, a danno dei produttori che altrimenti potrebbero espandere l’attività, l’occupazione, i salari corrisposti ai propri addetti. Insomma, secondo questa impostazione non sarebbe necessario disporre di talenti imprenditoriali: chiunque potrebbe produrre con profitto se ci fosse una domanda aggregata adeguata. Da questo punto di vista, pertanto, scopo dell’intervento pubblico è trasferire reddito da coloro con un’alta propensione al risparmio (il settore privato) a coloro con un’alta propensione al consumo (lo stato), trasformando almeno parte della spesa privata congelata in risparmi in spesa pubblica creatrice di ricchezza. In breve, uno stato virtuoso metterebbe al bando le formiche e premierebbe le cicale. Benché si tratti di un’affermazione che è stata ampiamente condivisa in passato e che trova consenso ancora oggi, non occorrono studi approfonditi per comprendere quanto essa sia ingannevole. Vediamo perché nella parte rimanente di questa sezione. Naturalmente, i risparmi – anche quanto depositati in forma liquida presso il sistema bancario – sono i fondi che consentono ai consumatori e ai produttori di finanziare, rispettivamente, l’eccesso di consumo e gli acquisti di capitale fisso. In altri termini, tali depositi sono prestiti dei risparmiatori al sistema bancario, il quale a sua volta finanzia la spesa di coloro che intendono consumare e investire a debito. Da questo punto di vista, dunque, non si può negare che al risparmio in realtà corrisponde
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una domanda – propria o altrui – di beni e servizi. In particolare, il credito, essenziale per la nascita e la vita delle imprese, è ciò che rende possibile trasformare il consumo posticipato di alcuni (i risparmiatori) in consumi e investimenti immediati da parte di altri. Non vi sarebbero investimenti senza coloro che si astengono dal consumare e consentono ad altri di spendere in eccesso rispetto alle proprie disponibilità immediate. Non è dunque lecito affermare che al risparmio corrispondono risorse congelate o potere d’acquisto non speso. Ciò non solo quando il risparmiatore acquista azioni o obbligazioni, ma anche quando crede di lasciare la sua liquidità sul conto corrente. Il fatto che le banche usino tale liquidità per acquistare titoli del debito pubblico non cambia la sostanza del ragionamento: grazie ai risparmiatori esse finanziano i consumi dei beneficiari della spesa pubblica. Una riflessione a parte meritano quei fondi che appartengono a ciò che si ama definire ricchezza tesaurizzata, ovverosia flussi di risparmio accumulati a cui non corrisponderebbe potere d’acquisto trasferito ad altri: le monete e banconote che i residenti conservano in casa, in cantina o in cassette di sicurezza e che non intendono spendere mai. Anche se in verità si tratta di ammontari molto modesti – nell’ottobre 2019, per esempio, il denaro tesaurizzato in media da ogni Americano ammontava a 219 dollari – va sottolineato che la propensione alla tesaurizzazione non darebbe luogo né a sprechi, né a occasioni mancate, nemmeno se la tesaurizzazione fosse per sempre, una sorta di operazione volta a soddisfare il desiderio di contemplare un materasso contenente poche centinaia di euro, desiderio il cui appagamento sarebbe peraltro una fonte di consumo immateriale, analogo alla soddisfazione che un individuo trae osservando un quadro, un bel mobile o una scultura. In questo caso, la carenza di domanda del tesaurizzatore provocherebbe una riduzione dei prezzi dei beni e dei fattori, la quale accrescerebbe il valore in termini reali della moneta tesaurizzata e, al tempo stesso, il potere d’acquisto di coloro che non tesaurizzano, che quindi potranno effettivamente incrementare la loro domanda. Insomma, la carenza di domanda scomparirebbe da sola, pur appagando le preferenze per la contemplazione dei tesaurizzatori e di coloro convinti che ogni euro nel materasso sia un euro sottratto a una possibile imposta sulla liquidità. Di conseguenza, gli interventi statali che colpiscono la cosiddetta tesaurizzazione improduttiva – per esempio, un prelievo forzoso sui depositi in conto corrente – in realtà discriminano a favore di chi spende il proprio reddito a mano a mano che viene percepito, penalizzando chi consente ad altri di consumare o investire, e chi accantona risorse per
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consumare in futuro. Come ricordato poc’anzi, si punisce chi teme di dover fra fronte a imprevisti e chi preferisce contemplare un materasso o un cuscino contenente qualche rettangolo di carta colorata e stampata firmata da un banchiere centrale; ma si ammira, per esempio, chi si sofferma rapito davanti a una tela colorata e anch’essa firmata, con una cornice intorno.
3. Spesa pubblica e debito finanziato dai residenti: il breve periodo
AUMENTO DELLA DOMANDA AGGREGATA: PREZZI, COERCIZIONE E INGANNO
Quanto esposto in precedenza spiega perché le proposte volte ad aumentare la domanda aggregata sostituendo la domanda pubblica alla domanda privata, ovverosia finanziando la prima con imposte sulla seconda, non convincono l’opinione pubblica, che avverte come i costi e le distorsioni legati a un intervento macroeconomico così concepito danneggino l’attività economica e nascondano una redistribuzione del reddito dai contorni poco trasparenti. Maggiori consensi raccoglie l’idea di aggiungere alla domanda privata una domanda pubblica finanziata con titoli di debito (le varie categorie di “buoni del tesoro”), il cui servizio – pagamento degli interessi e rimborso del capitale – graverebbe in larga misura sui contribuenti futuri. A questo riguardo, si possono configurare tre scenari diversi, a seconda che il debito sia sottoscritto dai residenti, dai non-residenti o dall’autorità monetaria. Questa sezione e quella successiva considerano il primo scenario, mentre gli altri sono esaminati in seguito. Naturalmente, la presenza di pezzi di carta (virtuali) con la dicitura “debito pubblico”, i cosiddetti “buoni del tesoro”, non costituisce ricchezza. Il debito è un titolo accettato dai creditori, i quali trasferiscono potere d’acquisto ai debitori, i quali a loro volta s’impegnano a effettuare trasferimenti in direzione opposta secondo modalità e tempi concordati. La credibilità di questi ultimi flussi dipende dalla probabilità con cui il debitore – in questo caso lo stato – è in grado di aumentare il prelievo fiscale futuro, ridurre la spesa, raccogliere nuove risorse sui mercati finanziari. Si considerino ora i due effetti di breve periodo di un’espansione della domanda aggregata finanziata con debito pubblico. Se i creditori sono tutti residenti e considerano i titoli di stato equivalenti a un investimento finanziario verso il quale convogliare i propri risparmi, uno stato che spende in disavanzo (e quindi s’indebita) in realtà trasforma i risparmi dei residenti in spesa per beni di consumo e, in minima parte, in investimenti fissi. È questo, per esempio, il caso italiano. Nel breve periodo la produt-
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tività e la quantità di risorse disponibili all’interno di un’economia sono invariate. La produzione rimane quindi costante. Se la produzione di beni d’investimento è indipendente dal risparmio dei residenti, l’aumento della domanda di beni di consumo tende a condurre a pressioni inflazionistiche e maggiori importazioni. In un regime a cambi fissi le pressioni inflazionistiche saranno almeno in parte riassorbite, poiché il deterioramento della bilancia commerciale provoca una riduzione della quantità di moneta che, a parità di altre condizioni, ha effetti deflattivi. In un regime a cambi flessibili si ha, invece, inflazione 1 e deprezzamento del tasso di cambio. Il secondo effetto riguarda i debitori e i creditori involontari. L’emissione dei titoli di stato lascia alle generazioni future l’onere di finanziarne parte del costo (gli interessi e il rimborso del capitale), ancorché queste non abbiano avuto la possibilità di esprimersi ed eventualmente opporsi. Insomma, i contribuenti futuri sono così vittime di un atto di coercizione, obbligati a servire un debito che non hanno mai contratto e ricostituire capacità produttiva che la generazione precedente ha trasformato in consumi. Una situazione simile ha per protagoniste le banche, che utilizzano i depositi bancari per acquistare titoli del debito pubblico. Sebbene nulla vieti che le banche impieghino quei fondi come meglio credono, esse contribuiscono a trasformare i risparmi delle famiglie in spesa pubblica, senza che queste ne siano del tutto consapevoli. Si favoriscono così accordi collusivi più o meno espliciti fra lo stato e il sistema bancario. Questi accordi prevedono carote e bastoni. Si pensi a come sono considerati i titoli del debito pubblico ai fini della valutazione degli indicatori di solidità patrimoniale delle banche commerciali, oppure agli effetti delle circolari delle banche centrali, ricche di consigli e raccomandazioni per le banche commerciali (la cosiddetta “moral suasion”). Si creano in questo modo le condizioni affinché le autorità statali si indebitino senza eccessiva difficoltà per ammontari elevati. Il limite teorico di tale indebitamento sono i depositi bancari. Nel breve periodo, quindi, la spesa a debito consente effettivamente di aumentare il potere d’acquisto dei residenti; permette di mantenere costante la ricchezza finanziaria percepita dai sottoscrittori dei titoli di stato; crea tensioni sul mercato della moneta (e dunque sui conti con l’estero) a causa della differenza fra potere d’acquisto e produzione. Se la dif
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In economia si è soliti distinguere fra l’inflazione monetaria, che descrive l’aumento proporzionale nella quantità di moneta, e l’inflazione di prezzi dei beni e dei servizi. In queste pagine si farà riferimento alla seconda accezione.
IL BREVE PERIODO
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ferenza fra potere d’acquisto e produzione è contenuta o diluita nel tempo, il debito costituisce una soluzione attraente per gli attori di politica economica attenti a mantenere consenso elettorale, soprattutto in un orizzonte politico di breve periodo, durante il quale i contribuenti sono convinti di dover sostenere solo una piccola porzione dei costi (parte degli interessi sul debito). Ciò spiega perché l’opposizione all’indebitamento pubblico è generalmente ridotta, mentre la spinta a favore è significativa. Essa sarà crescente al crescere della dimensione del settore pubblico (un processo perverso che si autoalimenta), all’aumentare dell’età media della popolazione (cresce il numero di coloro convinti che il debito sarà pagato da altri) e al ridursi dei redditi dei giovani (aumenta il numero di coloro che si illudono di essere al riparo da eventuali futuri inasprimenti fiscali).
4. Spesa pubblica e debito finanziato dai residenti: il lungo periodo
IL RISCHIO D’INSOLVENZA
In una prospettiva di lungo periodo, in assenza di una riduzione della spesa pubblica cresce l’aggravio fiscale sull’insieme dei contribuenti per un ammontare pari agli interessi corrisposti ai detentori del debito e al rimborso finale del capitale. Si assiste dunque a più fenomeni. La cartolarizzazione dei prelievi fiscali futuri – i titoli di debito non sono altro che un derivato sul gettito fiscale futuro – dà luogo a una redistribuzione del reddito dai contribuenti futuri ai beneficiari della spesa pubblica corrente. I beneficiari ne usufruiscono verosimilmente all’inizio del periodo, quando ha luogo la spesa, mentre i contribuenti ne avvertirebbero il peso soprattutto alla fine, quando il debito dovrebbe essere rimborsato. È dunque probabile che, all’esaurirsi della spesa aggiuntiva finanziata dal debito e prima che il debito giunga a scadenza, si formi un forte gruppo di pressione che non intende farsi carico degli oneri del rimborso e preme per rinnovare il debito in scadenza. Coloro che ne sosterranno i costi in periodi successivi non hanno modo di opporsi, per i motivi già tratteggiati in precedenza. Naturalmente, la stessa situazione si rinnova alla nuova scadenza del debito, probabilmente dilatato dalla necessità di finanziare anche il pagamento degli interessi e dal desiderio di non rinunciare ai flussi di benefici che la prima emissione di titoli aveva consentito. Insomma, una volta intrapresa la strada dell’indebitamento si innescano meccanismi che ne impediscono il rimborso e che anzi, ne favoriscono l’espansione.
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Appare pertanto evidente che per i sottoscrittori del debito pubblico il rischio di non essere rimborsati dipende non tanto dalla capacità di raccogliere il gettito fiscale necessario quando il debito giunge a scadenza, quanto dalla capacità di rifinanziare il debito con nuove emissioni. In altri termini, se lo stato-debitore ricorre al gettito fiscale solo quando non può percorrere la via più agevole, cioè quando il ricorso al mercato dei capitali non è più praticabile, e se il contribuente si oppone, si pone la questione del fallimento, tema a cui sono dedicate le ultime sezioni di questo capitolo. Oltre ai rischi per gli individui in quanto risparmiatori e alla minaccia per i contribuenti, vi sono conseguenze per gli individui-imprenditori. In particolare, la trasformazione dei risparmi privati in consumi pubblici contribuisce ad aumentare la domanda aggregata – consumi più investimenti – se le imprese sono comunque in grado di ottenere le risorse finanziarie necessarie per contenere la domanda di beni strumentali. In mancanza dei risparmi da parte dei residenti, trasformati in consumi pubblici, le risorse finanziarie necessarie saranno reperite sul mercato internazionale dei capitali, direttamente o attraverso il sistema bancario. Tale approvvigionamento sarà relativamente agevole per imprese di grandi dimensioni: esse si rivolgeranno a istituti di credito sul territorio nazionale e no, oppure raccoglieranno capitale di rischio ed emetteranno prestiti obbligazionari sottoscritti da risparmiatori esteri. Se questi sforzi andranno a buon fine, negli anni successivi quote crescenti del valore aggiunto delle imprese spetteranno ai non residenti che hanno contribuito a finanziarle. Ed è anche probabile che quote crescenti della proprietà delle imprese nazionali saranno trasferite a non residenti. In altri termini, pur con un debito sostenibile, s’indebolisce l’illusione del cosiddetto pasto gratis: se il debito conferisce ai residenti un potere d’acquisto superiore al valore di quanto producono, la differenza è la cessione o la condivisione di parte della propria ricchezza (la proprietà dell’apparato produttivo) e del valore aggiunto che essi produrranno. Diverse saranno le prospettive per le imprese di piccole e medie dimensioni, le cui esigenze di finanziamento sono soddisfatte in ambito prevalentemente locale (autofinanziamento e indebitamento). È presumibile che le loro capacità di autofinanziamento rimangano inalterate: ciò equivale a ipotizzare che i proprietari delle imprese continuino a reinvestire una parte costante degli utili nella propria impresa, anche in presenza dell’alternativa rappresentata dai titoli del debito pubblico. Possono tuttavia cambiare i rapporti con il mondo bancario. Se la banca perde il suo ruolo tipico e si trasforma in acquirente di in-
GLI EFFETTI SULLE IMPRESE
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genti quantità di debito pubblico – nel 2019 oltre il 35% del debito pubblico italiano figurava nelle attività delle banche italiane – vengono a mancare le risorse per finanziare le imprese. Del resto, l’acquisto di ingenti quantità di titoli di stato è percepita come un’attività ben più interessante: il rischio è minore e si ha modo di compiacere l’autorità politica senza costi apparenti. In altri termini, le banche sono scarsamente incentivate a svolgere il ruolo di intermediari e acquisire sui mercati internazionali i fondi necessari per finanziare le imprese locali, fondi che sarebbero peraltro accessibili a costi relativamente elevati: un debitore (la banca del paese A) che raccoglie fondi nel paese B e offre a garanzia titoli di debito pubblico di scarsa qualità è un debitore rischioso, che deve riconoscere al creditore B un tasso d’interesse elevato, tasso che poi la banca in A applica, maggiorato, alle imprese di A. In breve, un paese caratterizzato da un tessuto di piccoli e medi produttori e che presenta un debito pubblico elevato è un paese costretto a crescita modesta e nanismo imprenditoriale. In sintesi, e analogamente a quanto riscontrato per la politica fiscale “espansiva” in assenza di debito (sezione 2), anche la presenza di debito finanziato da residenti si risolve nella riconfigurazione della domanda aggregata, che non è più guidata dalle preferenze individuali, ma dalle preferenze dell’autorità di politica economica; in una probabile perdita di produzione a causa di inefficienze e distorsioni; e nell’attuazione di una redistribuzione del reddito in cui è difficile stabilire l’identità dei privilegiati e delle vittime. Inoltre, e a differenza della spesa pubblica finanziata da prelievo fiscale immediato, il ricorso al debito può provocare tensioni sul mercato della moneta; il formarsi di gruppi d’interesse che conducono a una crescita continua dell’indebitamento; una riconfigurazione degli assetti proprietari nelle grandi imprese internazionalizzate; crescenti difficoltà di accesso al credito per le imprese di dimensioni minori, alcune delle quali saranno acquisite da risparmiatori non residenti e altre saranno costrette a ridurre gli investimenti e infine uscire dal mercato.
5. Spesa pubblica e debito finanziato dai non residenti Collocare i titoli di debito pubblico sui mercati esteri presenta analogie e difformità rispetto a una situazione in cui i sottoscrittori sono esclusivamente residenti. Come in precedenza, il conferimento di potere d’acquisto alle autorità statali conduce a modificazioni nella struttura
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dei prezzi e nell’impiego delle risorse. Inoltre, produttività e quantità dei fattori produttivi rimangono costanti e il fenomeno redistributivo è simile a quanto illustrato in precedenza: i beneficiari sono i destinatari della spesa pubblica (che non sono necessariamente gli individui più bisognosi), mentre le vittime sono i contribuenti, sui quali incombe l’onere di servire il debito. Infine, si ha un aumento della domanda aggregata per i beni di consumo e, in misura minore, gli investimenti fissi. Ciò non dovrebbe stupire. Attingere ai risparmiatori residenti o a quelli non-residenti è indifferente ai fini della domanda per beni di consumo o di investimento interni, soprattutto in paesi con un tessuto di imprese di grandi dimensioni. Le differenze riguardano la parte monetaria e creditizia, e la dinamica di lungo periodo degli investimenti. Se si ricorre ai risparmi dei residenti, l’eccesso di domanda provocato dalla spesa a debito dà luogo a pressioni sui prezzi di beni di consumo, saldo negativo dei conti con l’estero e, a seconda del regime di cambio in vigore, riduzione della quantità di moneta e successiva deflazione o deprezzamento del tasso di cambio. Se si ricorre, invece, ai risparmi dei non residenti, il saldo negativo dei conti con l’estero è finanziato con l’aumento della quantità di moneta ottenuta in conto capitale (i proventi della vendita dei titoli di debito). I fenomeni di deflazione o deprezzamento sul mercato dei cambi sono dunque distribuiti durante il periodo di servizio del debito, con un picco al momento del rimborso. Per quanto riguarda gli investimenti, se il debito è finanziato da non residenti, le piccole e medie imprese continueranno a finanziarsi attraverso i consueti canali bancari interni, a condizioni che dipendono dalle modalità con cui il debito è servito: imposte, nuovo debito verso sottoscrittori residenti, nuovo debito verso sottoscrittori non residenti. In particolare, è verosimile che il ricorso all’imposizione fiscale sottrarrebbe al risparmio interno risorse inferiori a quelle che si sottrarrebbero ricorrendo all’indebitamento interno. Vi sarebbero così più fondi disponibili per il finanziamento interno delle attività produttive. Dunque, ci si può aspettare che alcuni produttori preferiscano la prima soluzione (fiscalità). Al contrario, altri produttori e contribuenti preferiranno la seconda soluzione, timorosi della riduzione del reddito disponibile, nella speranza di traslare gli oneri del servizio su contribuenti futuri e convinti che il nuovo indebitamento sia una semplice riconfigurazione del proprio portafoglio, senza che la consistenza dello stesso sia alterata. Imprese e contribuenti saranno però d’accordo sull’opportunità di servire il debito in essere ricorrendo a nuovo debito sottoscritto in larga parte da non residenti.
MONETA E INFLAZIONE
INVESTIMENTI
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6. Spesa pubblica e debito monetizzato Come brevemente accennato all’inizio della sezione 3, l’aumento della spesa pubblica in disavanzo può anche essere finanziato con debito monetizzato. In sintesi, i titoli emessi dall’autorità statale (il cosiddetto “Tesoro”) sono acquistati dalla banca centrale, la quale così immette moneta nel sistema. La monetizzazione è temporanea se la banca centrale pretende il rimborso dei titoli a scadenza o ne pianifica la rivendita, mentre è di fatto definitiva se a scadenza rinnova regolarmente la sottoscrizione di debito. In alternativa alla stampa di moneta, il Tesoro può anche avvalersi di una sorta di scoperto di conto corrente presso la banca centrale, una modalità a cui è ricorso di recente, per esempio, il governo del Regno Unito. In passato si discusse a lungo sull’opportunità che la banca centrale e le autorità governative si accordassero affinché la prima provvedesse alle esigenze finanziarie delle seconde erogando le quantità di moneta richieste. Gran parte del mondo accademico concluse a favore della cosiddetta indipendenza della banca centrale, una formula con la quale si libera il banchiere centrale dall’obbligo di acquistare i titoli. Il venir meno di tale obbligo è apprezzabile, poiché interrompe il finanziamento automatico. Tuttavia, l’indipendenza non ha impedito che i politici si adoperassero per nominare al vertice delle banche centrali individui convinti della necessità di una politica monetaria attiva e sensibili alle esigenze della politica fiscale. La storia recente della Banca Centrale Europea ne è un esempio: dal 2016 in poi oltre la metà delle attività che compaiono nel suo stato patrimoniale sono titoli di stato e in tempi più recenti circa l’85% del debito netto emesso dai Paesi membri è stato di fatto acquistato dalla BCE. In breve, anche se la monetizzazione non è automatica, essa rimane comunque un’opzione a cui si ricorre con frequenza, per ammontari importanti e, se necessario, aggirando le regole. In effetti, la monetizzazione costituisce una tentazione quasi irresistibile per diverse ragioni. I dati indicano che nel lungo periodo la relazione fra quantità di moneta e inflazione è di equiproporzionalità, o quasi, confermando così la teoria monetarista: il tasso d’inflazione è uguale o di poco inferiore al tasso di variazione della quantità di moneta. Ciò significa che un disavanzo pubblico contenuto e finanziato con emissione di moneta, tende a generare un tasso d’inflazione moderato. Esso sarebbe sufficiente per dar luogo a fenomeni redistributivi significativi nel mediolungo periodo. Tuttavia, questi sarebbero percepiti con difficoltà dall’opinione pubblica, soprattutto se prevalesse il convincimento secondo cui l’inflazione moderata è segno di vitalità economica e preludio di crescita
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(un’altra eredità della retorica della domanda aggregata). Del resto, le conseguenze inflazionistiche della monetizzazione emergono con un ritardo temporale di almeno un anno e non di rado si mescolano ad altre variabili (fra cui il tasso di crescita economica), rendendo così più difficile collegare la causa (il debito) con gli effetti (la redistribuzione e la tassa da inflazione). Per completezza, va anche segnalato che il ricorso alla monetizzazione è solitamente più frequente in periodi caratterizzati da incertezza, che inducono a una maggior domanda di moneta, la cosiddetta preferenza per la liquidità, che può assorbire buona parte della moneta immessa nel sistema. È dunque possibile che nei primi periodi di monetizzazione l’eccesso di moneta e la pressione sui prezzi di molti beni di consumo siano ridotti, alimentando l’illusione che la monetizzazione sia una soluzione priva di costi. Eppure, nemmeno la monetizzazione offre pasti gratis. Così come la carta su cui sono stampati i titoli di debito non contribuisce ad aumentare il valore di quanto si produce all’interno di un paese, la carta su cui sono stampate le banconote accresce sì il potere d’acquisto di coloro che le ricevono prima che si avvii la dinamica inflazionistica, ma a danno di coloro che subiscono tale dinamica senza aver mai ricevuto una banconota (il cosiddetto “effetto Cantillon” (1755)). Inoltre, poiché il ricorso alla monetizzazione conferisce ampi poteri discrezionali all’autorità politica, i mercati finanziari sconterebbero il rischio di un debito denominato da una moneta dal potere d’acquisto decrescente (la conseguenza dell’inflazione), mentre i mercati valutari sconterebbero il rischio di cambio: deprezzamento o svalutazione. In particolare, si aprirebbero due scenari. In presenza di disavanzo contenuto, e quindi di monetizzazione e inflazione limitate, il premio per il rischio lascia inalterate le possibilità di investimento delle imprese residenti che si autofinanziano, mentre è una fonte di costo per i residenti – consumatori e imprese – che si indebitano presso il sistema bancario o che raccolgono capitale di rischio sui mercati finanziari. A parità di altre condizioni, l’aggravio dei costi è più lieve per le imprese di piccola dimensione, che ricorrono più frequentemente all’autofinanziamento, pur penalizzando la loro crescita dimensionale. A ciò si accompagnerà una riduzione della quantità di moneta e prezzi relativamente stabili se in regime di cambi fissi, deprezzamento della valuta se in regime di cambi flessibili. Insomma, gli effetti sarebbero tutto sommato modesti, o comunque poco percettibili. In presenza di estesa monetizzazione, e dunque di inflazione elevata, la distribuzione dei benefici e dei costi diventerebbe più articolata. Aumenterebbe il costo opportunità della liquidità: diminuirebbe quindi la
IL PASTO MONETARIO NON È GRATIS
SCENARIO 1: MONETIZZAZIONE CONTENUTA
SCENARIO 2: MONETIZZAZIONE ESTESA
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L’INDICIZZAZIONE: UN FALSO RIMEDIO
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domanda di moneta e, a parità di altre condizioni, crescerebbe il tasso d’inflazione. In secondo luogo, le conseguenze dell’effetto Cantillon diventerebbero più acute, e darebbero luogo a cambiamenti importanti. Per esempio, le tensioni sociali create da inflazione più elevata potrebbero generare un forte aumento della domanda di spesa pubblica per fini assistenziali, e quindi di nuovo debito monetizzato. Inoltre, poiché il tasso d’inflazione è la media ponderata delle variazioni proporzionali dei prezzi di un paniere rappresentativo di beni e servizi, maggiori sono le differenze fra queste variazioni proporzionali, maggiore è la variazione nella struttura dei prezzi relativi. Se queste alterazioni sono tanto più accentuate e rapide, quanto più elevato è il tasso d’inflazione, l’economia dovrà far fronte a più elevati costi di aggiustamento. A questo proposito, si consideri che l’indicizzazione dei prezzi stabiliti contrattualmente (per esempio, i salari) in presenza di inflazione elevata o di iperinflazione – rispettivamente superiore al 2% e al 50% mensile – è una forma di sterilizzazione solo parziale, che può anzi diventare fonte di ulteriori privilegi e forme di redistribuzione. Per esempio, è certamente possibile indicizzare gli importi monetari oggetto di una transazione ove il momento dell’accordo contrattuale non coincide con quello dell’esecuzione. Si pensi a situazioni in cui si lega l’ammontare nominale di un salario o il pagamento di una fornitura a un tasso di cambio o a un indice dei prezzi, eliminando così l’incertezza sul prezzo reale del bene/servizio venduto o acquistato. Tuttavia, indicizzare un contratto non impedisce che un governo che si indebita aumenti il numero di dipendenti pubblici o trasferisca risorse a favore di gruppi di individui che il decisore politico ritiene meritevoli. Non solo. L’indicizzazione comporta un’accelerazione dell’effetto Cantillon, dal momento che l’inflazione si propaga più rapidamente. Di conseguenza, i benefici per i gruppi di interesse privilegiati sono di più breve durata, mentre le perdite per la porzione non indicizzata dell’economia si accentuano. Si pensi, per esempio, ai molti creditori, risparmiatori e percettori di sussidi, pensioni o stipendi non pienamente indicizzati, o legati a indici poco rappresentativi. Si può così concludere che il decisore di politica economica ha buone ragioni per monetizzare il debito se il disavanzo è contenuto e la domanda di liquidità non si riduce: l’inflazione (moderata) non provoca tensioni e il premio per il rischio che si manifesta sui mercati finanziari è limitato. L’autorità di politica economica può essere ulteriormente incoraggiata a percorrere questa strada se si allunga l’intervallo tra monetizzazione e inflazione. A parità di altre condizioni, il danno di immagine rimane dunque legato al deprezzamento o alla svalutazione della moneta
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– fenomeni che di solito sono attribuiti alle politiche monetarie altrui, definite come eccessivamente restrittive. Al contrario, se la monetizzazione è eccessiva, dal momento in cui si innesca il processo inflazionistico si creano o si dilatano le sacche di povertà e si formano nuove e intense pressioni per una spesa pubblica aggiuntiva, da finanziarsi con ulteriore disavanzo monetizzato. Di norma, in questi casi l’assetto istituzionale perde di credibilità, gli investimenti in capitale fisso ne risentono e la produzione si contrae.
7. Sostenibilità e ripudio del debito Fino a dove può arrivare l’indebitamento, e che fare quando si raggiunge il limite? Per definizione, e come del resto accade a qualunque debitore, uno stato si può indebitare fino a quando vi sono potenziali creditori disposti a sottoscrivere i titoli del debito pubblico. Nel caso della monetizzazione, è illusorio pensare che il limite siano la capacità delle stampanti e le aperture di credito della banca centrale. Il crollo della credibilità dell’autorità statale interviene molto prima, come la storia dell’iperinflazione dimostra. Quando non ci sono più sottoscrittori o gli individui si rifiutano di accettare moneta deprezzata come mezzo di pagamento si pone il problema, a seconda dei casi, della bancarotta o della riforma del sistema monetario. Esaminiamone brevemente i lineamenti fondamentali. In genere, la variabile che sintetizza la sostenibilità del debito è il tasso d’interesse di mercato. Questo è certamente vero se il debito è collocato in un contesto concorrenziale, ove il tasso di interesse tiene conto del rischio percepito dagli investitori, ovverosia della probabilità stimata che il debitore non faccia fronte ai propri impegni. Tuttavia, il tasso d’interesse è un indicatore meno affidabile in presenza di sottoscrittori forzati o collusi. Si pensi, rispettivamente, a una banca centrale o a istituti creditizi di proprietà dello stato o dallo stato pesantemente condizionati. In questi casi, infatti, occorre considerare la credibilità del vincolo che lega lo stato alle istituzioni bancarie e come cambiamenti radicali in tale ambito possano precipitare il ripudio totale o parziale del debito pubblico. Per la verità, al liberista non interessa stabilire quale sia il limite dell’indebitamento pubblico. Per il liberista l’indebitamento pubblico ideale è quello che non c’è, e quindi il problema non si pone; e se il debito esiste, spetta al singolo individuo decidere se e quali tipologie di titoli del debito pubblico sottoscrivere. Di conseguenza, se il debito esiste, ci si attende che il liberista si adoperi o quanto meno auspichi che esso sia
IL RIPUDIO DEL DEBITO
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immediatamente eliminato (rimborsato o ripudiato) o drasticamente ridotto. Sarebbe una strategia realistica? Il ripudio del debito comporta diverse conseguenze. Quella immediata e visibile è l’azzeramento delle attività corrispondenti nei portafogli dei sottoscrittori: individui, banche e istituti assicurativi, con ricadute sui loro proprietari/azionisti. Alcuni di questi istituti potrebbero quindi fallire, con ripercussioni sui loro creditori; così come potrebbe fallire anche qualche banca centrale, se il capitale proprio non fosse sufficiente per coprire le perdite. Non vi sono aree grigie, né spazi per recriminazioni. Ogni creditore sa bene che quando acquista un titolo di debito accetta il rischio che il debitore venga meno ai propri impegni, analogamente a quanto avviene quando prestiamo dei soldi a qualcuno, soprattutto se questi ci offre come garanzia la promessa di obbligare un terzo a onorare il debito. In altri termini, il ripudio non cambia la natura del contratto originario, che è stato sottoscritto volontariamente dall’acquirente/creditore, il quale in caso di inadempienze del debitore non ha alcun titolo per rivalersi su terzi. Questo vale anche quando il debitore è lo stato, quando sono coinvolti gli azionisti di imprese bancarie o assicuratrici, o quando si tratta di depositanti che hanno prestato soldi a banche mal gestite o acquistato polizze assicurative presso società esposte al debito pubblico. Il fatto che il debitore inadempiente sia uno stato o un ente governativo è certamente notevole. Contrariamente a quanto avviene per un debitore tradizionale, infatti, lo stato non offre in garanzia beni mobili o immobili, ma la promessa di avanzi di bilancio futuri, ovverosia di estrarre ricchezza dai contribuenti futuri. L’unicità di tale contesto, tuttavia, non cambia la sostanza: il creditore è stato negligente nell’affidare i propri risparmi ad attori irresponsabili e complice di un accordo che ha per oggetto l’uso della violenza nei confronti di terzi (i contribuenti futuri).
8. Collasso locale e rischio sistemico LA MINACCIA DEL COLLASSO FINANZIARIO
In sintesi, il ripudio penalizza chi ha finanziato il cattivo debitore. Questo vale anche per i debitori non-residenti, ai quali non resta che rassegnarsi e accettare le perdite. È raro che un governo straniero intervenga militarmente a tutela dei cattivi investimenti dei propri residenti. Anche quando ciò è avvenuto – si pensi alla spedizione multinazionale in Messico in seguito alla moratoria dichiarata da Benito Juárez nel 1861 – è probabile che l’aspetto finanziario sia stato solo un pretesto.
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È tuttavia innegabile che il ripudio produca effetti indesiderati (i cosiddetti “spillover costs”) a danno di terzi, i quali tuttavia non hanno ragione di rivalersi né sul debitore, né sul creditore: i diritti di proprietà dei terzi, infatti, non sono stati violati. Il sistema finanziario ne soffrirà certamente, soprattutto quello interno, maggiormente coinvolto nel fallimento del debitore pubblico. A questo proposito si presentano due fenomeni distinti. Il primo riguarda la possibilità che il sistema bancario collassi. Ciò può avvenire dal punto di vista contabile, perché le perdite delle banche sui titoli non sono coperte da riserve e capitale proprio sufficienti; e dal punto di vista operativo, perché le difficoltà degli istituti di credito scatenerebbero il panico fra i depositanti che, preoccupati di perdere i propri depositi, darebbero vita alla cosiddetta corsa agli sportelli, provocando una crisi di liquidità che coinvolgerebbe anche le aziende bancarie con i conti in ordine. Il secondo fenomeno riguarda le eventuali reazioni del decisore pubblico. Per esempio, misure volte a soffocare la crescita della domanda di liquidità e/o imporre restrizioni sui movimenti di capitali avrebbero importanti ripercussioni sui flussi finanziari con l’estero e di conseguenza su quelli commerciali. In altri termini, la crisi di liquidità metterebbe in ginocchio il sistema produttivo. A questo riguardo è utile una premessa, a cui seguono diversi commenti. Come è noto, una banca è soggetta a un rischio d’illiquidità e a un rischio d’insolvenza. Si tratta di due concetti diversi. Il primo si riferisce alla mancanza di denaro per far fronte ai propri clienti qualora questi richiedano in massa la restituzione immediata delle somme depositate. È questo il caso quando i depositi sono a vista (o quasi), mentre gli impieghi sono di lungo periodo e i crediti non possono essere riscossi prima della loro scadenza. Il secondo si riferisce alla situazione patrimoniale della banca, ovverosia al fatto che l’ammontare delle passività è superiore a quello delle attività. Ora, gli effetti della corsa agli sportelli non riguardano tanto coloro che hanno affidato risorse a debitori insolventi, quanto coloro che soffrono pur non essendo creditori di chi ha dichiarato fallimento. Una banca in crisi di liquidità a causa di una corsa agli sportelli non è necessariamente una banca fallita. È una banca caratterizzata da uno sfasamento temporale fra attività e passività. Se i suoi fondamentali sono solidi, dovrà e potrà approvvigionarsi di liquidità raccogliendo risorse sul mercato interbancario o emettendo obbligazioni che riequilibrino la struttura temporale del suo stato patrimoniale. Certamente, questo approvvigionamento ha un costo, poiché una banca in crisi di liquidità presenta co-
GLI SPILLOVER: CRISI DI LIQUIDITÀ E RESTRIZIONI SUI MOVIMENTI DI CAPITALI
ILLIQUIDITÀ E INSOLVENZA
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IL COMPORTAMENTO DEL DECISORE PUBBLICO
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munque un elemento di rischio non trascurabile. È del resto un costo comprensibile, poiché riflette un errore di pianificazione che non mancherà di gravare sui corsi azionari. Ed è anche possibile che il patrimonio netto della banca illiquida sia sì positivo nonostante le perdite sui titoli del debito pubblico, ma diventi negativo se il servizio del debito contratto per far fronte alla richiesta liquidità è troppo elevato rispetto al rendimento previsto degli impieghi. In questi casi la banca può fallire, come accade in un contesto concorrenziale se un’impresa è mal gestita. Parimenti, ed è questa una soluzione a cui si ricorre di frequente, può accadere che la banca illiquida sia rilevata da altri operatori, che godono di migliore reputazione e possono accedere al mercato del credito a condizioni più vantaggiose, e che non di rado ritengono di poter gestire l’impresa acquisita meglio dei venditori. In buona sostanza, anche qualora si giunga al fallimento, e dunque all’uscita dal mercato di una o più banche, i residenti avranno comunque accesso al credito, poiché in un’economia concorrenziale la libertà d’entrata garantisce che nuovi attori – residenti o non residenti – occupino gli spazi lasciati liberi dalle imprese fallite e stimolino quelle sane a operare in modo efficiente. Se ciò non avviene, il problema non è il ripudio del debito pubblico, bensì le deficienze dello stato come garante di un contesto concorrenziale: si pensi al regime fiscale, alla regolamentazione, alla qualità della pubblica amministrazione o all’(in)efficienza del sistema giudiziario. In altre parole, gran parte degli effetti di una bancarotta statale sul comparto finanziario del paese dipendono dalla facilità con cui imprese fragili e vulnerabili, a fronte di un ripudio del debito pubblico, sono assorbite e sostituite da imprese patrimonialmente più solide, meglio gestite e con una visione imprenditoriale convincente. Questo spiega perché la variabile più importate ai fini dell’entità e delle caratteristiche degli effetti indesiderati del ripudio sia in realtà il comportamento dell’operatore pubblico che dichiara fallimento. Come si accennava in precedenza, l’esistenza o l’introduzione di restrizioni sui movimenti dei capitali, di vincoli antitrust sulle acquisizioni di imprese considerate strategiche o di rilevanza per la sicurezza nazionale, di difficoltà burocratiche, e di norme che impediscono o rendono comunque costose le ristrutturazioni aziendali sono barriere all’entrata che rendono i residenti vulnerabili alla crisi di liquidità e alla semi-paralisi delle attività economiche che dipendono dal credito. In questa prospettiva, è bene sottolinearlo, le vittime sistemiche del fallimento statale non sono provocate dal ripudio del debito in quanto tale, bensì dall’incapacità dello stato di porre
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fine ai meccanismi redistribuivi costruiti attraverso il debito, meccanismi che condurranno lo stato a fallire nuovamente non appena il mercato avrà dimenticato – o a sarà indotto a operare come se avesse dimenticato – che lo stato può fallire. Concludiamo questa sezione con un breve riferimento al cosiddetto “rischio sistemico” che, nel caso del ripudio del debito, indica una situazione in cui la crisi di liquidità che potrebbe colpire le istituzioni bancario-creditizie di un paese si propagano al resto del mondo. Si verificherebbe così, sempre secondo la narrazione ricorrente, una crisi globale del sistema finanziario che condurrebbe alla semi-paralisi di una larga parte dell’economia mondiale. In realtà il problema non esiste; o meglio, si pone in termini diversi da quelli tradizionalmente presentati. La storia dimostra che mai il ripudio del debito da parte di un paese ha provocato crisi importanti. Può danneggiare seriamente i principali creditori, come accadde verso la metà del XIV secolo, quando il ripudio del debito di Edoardo III affondò le banche Bardi e Peruzzi o, in tempi più recenti, in occasione del fallimento argentino del 2001-2002. In entrambi i casi (e in molti altri) i danni collaterali furono notevoli, ma circoscritti. In realtà, neppure crisi bancarie di altra natura contengono elementi di rischio sistemico, come peraltro ben documentato da David Stockman (2013) con riferimento alla crisi legata ai derivati sui mutui immobiliari del 2008. Il motivo principale per il quale queste catastrofi annunciate non si sono realizzate dipende dalla distribuzione dei titoli di debito ripudiati. Per provocare danni globali, occorre che i singoli creditori siano di grandi dimensioni, fortemente esposti, e numerosi. Ben difficilmente tali condizioni sono tutte soddisfatte contemporaneamente. È certamente comprensibile che i perdenti evochino lo spettro del congelamento della liquidità, richiamandosi ai rapporti di forte interdipendenza degli istituti bancari. Si tratta dell’argomentazione preferita dagli istituti più fragili che chiedono sussidi e aiuti a fondo perduto alle banche centrali, appoggiate dalle banche sane timorose di subire perdite qualora i prestiti erogati alle banche deboli non siano più rimborsati. Più in generale, evocare il rischio sistemico è l’arma che dà forza al sistema bancario nel suo insieme quando afferma il principio che le banche vanno salvate o rafforzate a qualunque costo, soprattutto se di grandi dimensioni. Tuttavia, una richiesta di sussidio e monetizzazione da parte di un gruppo di pressione non è di per sé segno inequivocabile di catastrofe imminente.
IL RISCHIO SISTEMICO
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9. Le opzioni: ripudio, ristrutturazione, mutualizzazione Nelle pagine iniziali di questo capitolo si è illustrato come i tentativi volti a stimolare la produzione aumentando la spesa pubblica e la domanda aggregata poggino su basi assai fragili. Per un verso, ammettere che gli individui nutrono un desiderio inesauribile di consumare equivale a riconoscere che il problema della domanda scarsa non esiste. Ne è del resto conferma quanto accaduto negli ultimi due secoli, durante i quali è venuto meno l’atteggiamento di rassegnata accettazione della propria condizione socio-economica e si è accentuato, a volte con violenza, il desiderio di migliorare il proprio tenore di vita, e dunque di consumare di più. Per altro verso, va sottolineato che il benessere materiale di una collettività, comunque lo si voglia misurare, dipende dal valore di ciò che quella collettività produce, valore che a sua volta è definito dalle risorse produttive a disposizione, dall’efficienza con cui tali risorse sono impiegate e, soprattutto, dal gradimento che gli acquirenti esprimono nei confronti di quanto offerto. In altri termini, l’aumento della spesa pubblica non crea nuove risorse, è dubbio che renda le risorse esistenti più produttive e, anche qualora si registrasse un aumento di produttività, non è evidente che il risultato sarebbe superiore a quello generato dalla spesa privata. In sintesi, secondo la visione liberista, il miglior modo per aumentare la domanda aggregata non consiste nel distruggere o scoraggiare il risparmio, bensì nel porre i produttori in condizione di interagire con una platea di potenziali acquirenti sempre maggiore; mentre il miglior modo per indurre i produttori a essere più efficienti è dare spazio alle pressioni concorrenziali. Ancora una volta, il ruolo delle istituzioni si rivela quindi cruciale per ridurre i costi di transazione, proteggere la proprietà privata ed evitare e la creazione e il perdurare di privilegi. In breve, la retorica della domanda aggregata alimentata dalla spesa pubblica si risolve in un progetto di redistribuzione del reddito, le cui caratteristiche dipendono anche dalle modalità con le quali la spesa è finanziata. In assenza di debito, si verifica un trasferimento di ricchezza dai contribuenti ai destinatari della spesa. In presenza di debito, invece, il trasferimento è a carico dei contribuenti futuri i quali, comprensibilmente, solleciteranno i decisori a finanziare il debito in scadenza con nuovo debito. Di fatto, attraverso rinnovi ripetuti, si tende a trasformare il debito esistente, in prevalenza a tasso fisso, in una sorta di debito semiperpetuo a tasso variabile. Potranno inoltre emergere conseguenze per le piccole e medie imprese che attingono al risparmio dei residenti per finanziare i propri in-
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vestimenti e il proprio sviluppo; e per le grandi imprese, che potrebbero subire variazioni negli assetti proprietari. Se il debito è finanziato attraverso monetizzazione, infine, agli effetti tipici della redistribuzione da spesa pubblica si accompagnano quelli dell’effetto Cantillon. La conclusione di fondo è che la spesa pubblica è alimentata da gruppi di interesse che premono affinché questa sia finanziata da debito e che il costo di questo sia traslato a danno dei contribuenti futuri e/o di coloro più esposti all’inflazione. Lo sbocco ultimo sono il ripudio o la ristrutturazione del debito e i fenomeni redistributivi da essi generati. Oltre all’instabilità monetaria, seguiranno nuova povertà e, verosimilmente, disordini sociali. La buona notizia è che, dopo decenni, le distorsioni e le inefficienze create dall’intervento pubblico dietro il velo del rilancio della domanda aggregata hanno reso l’opinione pubblica diffidente. Fino al 2020 (pandemia) l’opinione pubblica non era ostile all’idea di perseguire consistenti avanzi di bilancio per riassorbire il debito pubblico e ridurre o porre a fine alle distorsioni che esso comporta. Fra il 2018 e il 2019, per esempio, il debito pubblico nell’Unione Europea scese quasi ovunque in termini di PIL (a fine 2019 il debito era in media pari al 77,8% del PIL e il disavanzo allo 0,6%) e in oltre metà dei paesi scese anche in valore assoluto. Tuttavia, è opportuno non dimenticare che tale risultato fu anche riconducibile alla presenza di tassi di interesse compressi, che abbassarono (e abbassano) considerevolmente il servizio del debito. Naturalmente, se per un verso questa agevolazione non ha influito molto sui comportamenti dei paesi cosiddetti virtuosi, essa è stata determinante sulle finanze pubbliche dei paesi maggiormente indebitati, alcuni dei quali non hanno resistito alla tentazione di indebitarsi ulteriormente. Per questi ultimi paesi un significativo rialzo dei tassi di interesse potrebbe così avere conseguenze molto pesanti e rendere necessaria l’accensione di ulteriore debito, fino a raggiungere il collasso. Che fare? Ricordiamo a questo proposito i principi di responsabilità e trasparenza già richiamati in altre parti di questo libro. Il principio di responsabilità richiede che il peso del debito non ricada su chi non l’hai mai sottoscritto o alimentato. Il principio di trasparenza suggerisce di dichiarare il fallimento nel momento in cui è palese che il debito non ha speranza di essere ripagato senza ricorrere alle generazioni future. In questa prospettiva si aprono diverse possibilità: ripudio, ristrutturazione e mutualizzazione. La prima opzione è necessariamente unilaterale, la seconda può essere unilaterale o concordata con i creditori, la terza è necessariamente concordata.
UNA BUONA NOTIZIA: RIDURRE IL PESO DEL DEBITO È POSSIBILE
L’ALTRA FACCIA DELLA MEDAGLIA: I TASSI MANIPOLATI
RIPUDIO, RISTRUTTURAZIONE E MUTUALIZZAZIONE
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RIPUDIO
RISTRUTTURAZIONE
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Il liberista predilige il ripudio per coerenza e onestà intellettuale. Il ruolo di un creditore – in questo caso, il detentore dei titoli di stato – che scommette sulla violazione dei diritti di proprietà di individui che non hanno mai accettato esplicitamente l’indebitamento è più simile alla figura del ricettatore che non a quella di un contraente legittimo. Come illustrato e documentato da Jerome Roos (2019) e ricordato nei paragrafi precedenti di questo capitolo, il ripudio è temuto dai creditori, i cui portafogli titoli si impoveriscono, e dai debitori stessi, che temono la mancanza di liquidità e il collasso del sistema bancario. Sono preoccupazioni fondate, ma limitate ai paesi restii a liberalizzare e deregolamentare, e ove le imprese faticherebbero a reperire finanziamenti sul mercato. Del resto, è quanto è in parte accaduto in occasione di crisi recenti del debito pubblico, nel corso delle quali banche centrali e organizzazioni internazionali sono intervenute a favore dei creditori, svolgendo un ruolo importante per evitare conseguenze eccessivamente dolorose e preservare gli impianti di regolamentazione ereditati dal passato. Un secondo problema generato dal ripudio è la tentazione, nel paese debitore, di reagire alla mancanza di liquidità attraverso la nazionalizzazione del sistema bancario, che verrebbe rifinanziato ricorrendo alle stampanti di stato. In questo scenario, ai problemi tipici della monetizzazione si aggiungerebbero i danni della nazionalizzazione, senza peraltro risolvere il problema dell’accesso delle imprese ai mercati internazionali. In sintesi, il ripudio costituisce un potente stimolo ad avviare le riforme strutturali che consentono alle imprese di rimanere sul mercato. Per contro, ha il difetto di poter aggravare ulteriormente la situazione se prevale il partito dei privilegi e della monetizzazione e/o se la crisi conduce a tensioni geopolitiche. L’alternativa al ripudio sono le ristrutturazioni concordate. Esse sono di fatto un ripudio parziale: il debitore può sospendere il servizio del debito e proporre ai creditori di convertire i titoli di debito in essere in titoli di nuova emissione, con caratteristiche diverse: per esempio, con una nuova data di rimborso. In alternativa, si può offrire ai creditori di convertire i titoli in circolazione in nuovi titoli con scadenza invariata o allungata, ed eventualmente con una cedola maggiorata, ma rimborsabili solo per una parte (è il cosiddetto “haircut”). Rientrano fra le ristrutturazioni concordate anche le trasformazioni del debito corrente in debito perpetuo (un tempo si chiamavano consols, o rendite consolidate), titoli che potrebbero essere assorbiti con relativa facilità dagli stati patrimoniali dei creditori, poiché probabilmente limite-
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rebbero le perdite da inserire a bilancio. In particolare, la perdita del valore nominale è tanto minore quanto maggiore è la cedola contemplata dal nuovo titolo e quanto maggiore è la probabilità che il creditore onori i propri impegni in futuro. Proprio per questo motivo, è più facile che la comunità dei creditori auspichi una ristrutturazione con rimborso decurtato se il debitore non è credibile ed è possibile imporre misure temporanee di disciplina di bilancio: è questa la strategia che contempla la limitazione della sovranità nazionale e l’intervento di autorità esterne come la cosiddetta “troika”. Può essere, invece, preferibile una ristrutturazione che preveda la trasformazione in debito perpetuo laddove il debitore abbia attuato le riforme necessarie e abbia dimostrato di conseguire bilanci pubblici in pareggio o in leggero avanzo. Naturalmente, maggiore sarà l’avanzo, maggiore sarà la possibilità di comprare il proprio debito sul mercato e di ridurne quindi l’ammontare in circolazione. Nel caso italiano, celebri furono la “Rendita Italiana” attuata con notevole successo, sulla scorta di esperienze francesi e inglesi, dal governo Giolitti nel 1906 e, vent’anni dopo, il “Prestito del Littorio”, con cui il governo Mussolini trasformò forzosamente debito a breve in titoli con scadenza trentennale. Concludiamo con un breve riferimento alle proposte di mutualizzazione, ovverosia alla possibilità che diversi paesi si accordino per trasformare una parte o la totalità dei titoli di debito pubblico da loro emessi in titoli di debito riconducibili a un’istituzione centralizzata, che sostituirebbe la propria credibilità di debitore alla credibilità dei singoli paesi. Analogamente a quanto avviene per i titoli emessi dai singoli stati, i titoli emessi dall’ente centralizzato sarebbero garantiti dal potere impositivo dell’ente – per esempio l’Unione Europea – ovvero da una banca centrale in grado di monetizzare il debito – per esempio la Banca Centrale Europea. Si avrebbe così un’operazione di ristrutturazione fondata su un doppio accordo. Per un verso si richiede il consenso dei debitori, che potrebbero non gradire la cessione di parte della sovranità fiscale, cessione la quale è il prezzo da pagare per liberarsi del debito. Per altro verso occorre il benestare dei creditori, o quanto meno di una parte significativa di essi. Per esempio, non è evidente che tutti i detentori di un titolo di debito pubblico emesso dal tesoro tedesco siano disposti a convertire il loro credito in un credito nei confronti dell’Unione Europea, neanche se il nuovo titolo fosse associato a una cedola maggiorata. Quanto precede riguarda gli accordi sulla mutualizzazione parziale o totale dei debiti nazionali in essere. Tuttavia, è probabile che a tali accordi si accompagnino anche regole sulla mutualizzazione ex ante, in vir-
LA MUTUALIZZAZIONE DEL DEBITO
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tù della quale l’ente centrale si indebita per poi redistribuire le risorse raccolte fra le autorità dei paesi membri. Anche in questo caso è probabile che sorgano difficoltà. Occorre stabilire qual è la quantità di nuovi titoli di debito che è consentito emettere e come devono essere ripartite le risorse raccolte. Per esempio, si può convenire che le nuove risorse siano impiegate solo per la spesa pubblica approvata dall’istituzione centrale, oppure che esse siano distribuite ai paesi firmatari in base a parametri predefiniti e senza vincoli di destinazione. Altro tema delicato è la credibilità del potere impositivo di un’autorità internazionale, soprattutto qualora uno o più paesi membri denuncino l’accordo. Non è questa la sede per proporre simulazioni sugli accordi e le regole necessarie per rendere realistico un progetto di mutualizzazione. Piuttosto, preme sottolineare come da un punto di vista liberista tali accordi siano da respingere, ancora una volta per ragioni di trasparenza e attribuzione delle responsabilità. Conferire a un’istituzione sovranazionale il potere di emettere debito equivale a giustificare che questa istituzione sottragga risorse ai contribuenti futuri. Si pensi ai progetti che prevedono che l’Unione Europea si indebiti e raccolga risorse sui mercati finanziari. Se attuati, tali progetti rafforzeranno le proposte volte a istituire nuove imposte “europee” per servire e garantire i titoli emessi. Eppure, trasferire un potere impositivo illegittimo non rende tale potere legittimo. Inoltre, alleggerire la posizione debitoria dei singoli paesi non necessariamente migliora la loro situazione di finanza pubblica. Come più volte ricordato, la sostenibilità di un debito equivale alla capacità di servirlo, la quale a sua volta dipende dall’andamento del bilancio pubblico. L’alienazione di parte del debito, di per sé, non alleggerisce la pressione fiscale sui contribuenti, né costituisce un freno alla spesa pubblica. Al contrario, i benefici che i paesi meno solidi possono ottenere in termini di tassi d’interesse, grazie alla mutualizzazione del debito, potrebbero essere uno stimolo a mantenere o ad ampliare il disavanzo di bilancio pubblico. Certamente, è probabile che l’accordo di mutualizzazione includa un vincolo di spesa pubblica. Tuttavia, l’esperienza dell’Unione Europea dimostra come questi vincoli siano facilmente violati. Più efficace, ma forse ancora più deplorevole, sarebbe la centralizzazione della politica fiscale – il potere di tassazione e di spesa: ridurrebbe ulteriormente la concorrenza istituzionale e rafforzerebbe l’ingerenza dello stato, allontanando i centri decisionali dai contribuenti e dagli elettori e aprendo nuovi orizzonti ai gruppi di pressione meglio organizzati.
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Riferimenti bibliografici Cantillon, Richard (1755), Essai sur la Nature du Commerce en Général, Londra: Fletcher Gyles (traduzione italiana: Bologna, CLUEB 2007). Keynes, John Maynard (1936), The General Theory of Employment, Interest, and Money, Londra: MacMillan (traduzione italiana: Milano, Mondadori 2019). Malthus, Thomas (1820), The Works and Correspondence of David Ricardo, vol. 2, a cura di P. Sraffa (1951), Londra: Cambridge University Press – Introduzione e cap. 7, sezione 3. [Accessibile presso Liberty Fund: https://bit.ly/2SjhARy]. Mises, Ludwig (1956-2019), The Anticapitalistic Mentality, cap. 1.2, New York: Van Nostrand Company, accessibile presso https://bit.ly/3d6T6mI (traduzione italiana: Torino, Istituto Liberale 2019). Roos, Jerome (2019), Why not Default?, Princeton: Princeton University Press. Say, Jean-Baptiste (1803), Traité d’Économie Politique, cap. 15, Paris: Crapelet (traduzione italiana: Napoli, Ministero della Segreteria di Stato 1817). Stockman, David (2013), The Great Deformation, New York: Public Affairs. Wagner, Richard (2020), Macroeconomics as Systems Theory, Cham: Palgrave Macmillan.
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CAPITOLO 9
SCOSTAMENTI, CICLI ECONOMICI ED EVENTI INATTESI 1. Crisi e spesa pubblica Nel capitolo precedente si è sottolineato come le politiche fiscali espansive abbiano finalità e conseguenze prevalentemente redistributive, a favore dei (primi) destinatari degli interventi volti ad aumentare la domanda aggregata, e a carico di coloro su cui grava l’onere dell’imposta, del servizio del debito pubblico o dell’inflazione. L’accento sulle modalità dell’aspetto redistributivo è importante: la visibilità dei benefici e l’opacità dei costi spiegano il favore con cui il pubblico reagisce all’espansione della spesa pubblica, sebbene il nesso causale fra questa e la crescita economica non goda di molto credito, neppure quando la spesa è finanziata attraverso l’indebitamento o la monetizzazione e si evita di inasprire la pressione fiscale. Nonostante i mancati effetti sulla crescita, è opinione ampiamente condivisa che gli interventi finanziati a debito possano essere utili per sostenere la domanda in presenza di peggioramenti congiunturali. È del resto innegabile che chi si indebita per finanziare i consumi riesce effettivamente a vivere al di sopra delle proprie possibilità, almeno temporaneamente. In altri termini, si ritiene che la politica macroeconomica, soprattutto se finanziata da debito, sia giustificata per compensare fenomeni ciclici od occasionali negativi. Fra questi ultimi, si pensi a variazioni della domanda nei maggiori mercati di sbocco dei produttori nazionali, a un’inattesa riduzione della produzione legata a una pandemia, o a tensioni internazionali che si ripercuotono sui flussi commerciali. In questa prospettiva, in effetti, l’andamento storico della spesa pubblica nella maggior parte dei paesi occidentali non riflette tanto una fede nella virtù salvifica dell’intervento statale (impulso alla crescita di lungo periodo), quanto l’accumulo di interventi inizialmente concepiti e giustificati come misure di
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stabilizzazione, interventi che però danno luogo alla formazione di gruppi di interesse che successivamente tendono a trasformare i provvedimenti occasionali in provvedimenti strutturali. Come si è osservato in altre parti di questo volume, la trasformazione della spesa pubblica da temporanea a permanente è spiegata dal fatto che un eventuale ridimensionamento del ruolo dello stato alla condizione iniziale ha costi certi, poiché i beneficiati dell’intervento pubblico sono penalizzati, a partire dalla burocrazia statale; mentre i benefici di uno stato meno invasivo sono assai meno evidenti, soprattutto se la spesa pubblica è finanziata da debito a tassi d’interesse modesti e se la restituzione del capitale è finanziata attraverso l’emissione di nuovo debito. L’interazione fra gli interventi occasionali e quelli strutturali – e la parziale trasformazione degli uni negli altri – segue un nesso causale chiaro ed è ampiamente documentata. Dal punto di vista del liberista pragmatico è pertanto inutile analizzare come tale dinamica perversa possa essere bloccata o indebolita. Più importante, invece, è definire i limiti dell’intervento pubblico in chiave anticiclica o congiunturale e presentare le alternative. Questo è il proposito del presente capitolo, che nelle sezioni 24 espone la natura della retorica del ciclo e il ruolo dell’intervento pubblico in chiave anticiclica, e nella sezione 5 si sofferma sulla distinzione fra i fenomeni ciclici e quelli dovuti agli eventi imprevisti. La sezione 6 riassume e conclude.
2. Scostamenti congiunturali e intervento pubblico: segnali e incentivi distorti VIVIAMO TUTTI IN ECONOMIE CAPITALISTE
Si è sottolineato nelle pagine precedenti come la produzione di un individuo, e in generale di una collettività, dipenda dalla quantità dei fattori produttivi impiegati e dalla loro produttività. In altri termini, le variabili-chiave sono la quantità di ore dedicate alle attività produttive, il volume e l’intensità di utilizzo dei macchinari impiegati (il capitale fisso), le caratteristiche di tali risorse (capitale fisso, capitale umano, materie prime) e la capacità di sfruttare al meglio i macchinari e le risorse naturali disponibili. In tal senso, tutte le economie – anche quelle socialiste e a pianificazione centralizzata – sono capitaliste, poiché in tutte le economie gli individui impiegano e hanno impiegato strumenti produttivi. La differenza fra le diverse economie, infatti, riguarda i diritti di proprietà di tali strumenti, la qualità delle loro prestazioni e l’efficienza con cui essi sono utilizzati.
SCOSTAMENTI, CICLI ECONOMICI ED EVENTI INATTESI
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Solitamente le variabili-chiave ora richiamate cambiano con gradualità e danno luogo a tendenze di lungo periodo. Anche quando si verifica un’innovazione tecnologica importante, la trasformazione di tale innovazione in slancio imprenditoriale e opportunità di crescita non è immediata. Diverso è lo scenario se si verifica uno scostamento improvviso e temporaneo dalla tendenza di lungo periodo. Se si escludono il ruolo degli eventi atmosferici, importanti nelle economie prevalentemente agricole del passato, e la disponibilità di risorse naturali, il cui eventuale esaurirsi non è un fenomeno temporaneo, appare evidente che gli scostamenti sono in realtà il risultato di decisioni individuali in due soli ambiti. Per un verso, gli individui possono provvisoriamente cambiare l’impiego del proprio tempo e del proprio talento: si pensi al numero di ore dedicate alle attività produttive e al cosiddetto “tempo libero”, all’intensità dell’impegno lavorativo, alla motivazione, alla disponibilità ad affrontare rischi imprenditoriali. Per altro verso, possono intervenire cambiamenti, sempre temporanei, nell’uso del proprio potere d’acquisto. Si pensi alle scelte di consumo immediato e di risparmio. Per spiegare gli scostamenti occorre dunque spiegare perché, a un certo momento ed eventualmente a intervalli più o meno regolari, gli individui mutano i propri atteggiamenti, e successivamente si rendono conto di avere commesso errori, ravvedendosi e ritornando ai comportamenti originari o addirittura commettendo errori di segno opposto. In questi ultimi casi si avrebbe un ciclo. Uno scostamento, infatti, si trasforma in un ciclo quando al venire meno della causa scatenante si mette in moto un meccanismo di aggiustamento che conduce a scostamenti di segno opposto. Per esempio, è quanto accadrebbe se un peggioramento della competitività dei produttori di un Paese condusse a situazioni di crisi; e se a tali crisi seguisse una reazione, un recupero di redditività e una condizione di euforia generalizzata che sfociano in aspettative e aumenti degli investimenti in capacità produttiva che successivamente si rivelano infondati e ingiustificati. Una volta chiarite le cause di uno scostamento e delle sanzioni che possono seguire, dunque, si tratta di valutare se l’intervento pubblico è adatto a correggere gli errori ed eventualmente accelerare i tempi di ravvedimento/correzione. Come più volte accennato, gli individui commettono errori: nessuno è onnisciente, nessuno possiede la sfera di cristallo che consente di annullare l’incertezza e nessuno è disposto ad acquisire tutta l’informazione disponibile prima di effettuare una scelta. L’informazione è costosa e la ca-
NON BASTA SBAGLIARE PER PROVOCARE CRISI
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LA NATURA DELLO SCOSTAMENTO
ERRORI SISTEMATICI E NATURA UMANA
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pacità dell’individuo di elaborare l’informazione limitata. Normalmente, ciò che impedisce agli sbagli di trasformarsi in uno scostamento ed eventualmente in un ciclo è la frequenza costante con cui gli errori sono commessi e la capacità di porvi rimedio, adattandosi alle nuove circostanze e limitando così lo spreco di risorse. Quando i membri di una collettività sbagliano e si correggono con regolarità, essi consolidano una tendenza, non danno luogo a scostamenti o cicli. Certamente, talora alcuni produttori erroneamente prevedono che i loro prodotti avranno grande successo, mentre altri non si avvedono di una domanda potenziale che garantirebbe profitti interessanti. Si verificano così eccessi di offerta e di domanda, i quali generano continue variazioni nella struttura dei prezzi relativi e delle produzioni, e spiegano perché un’economia produce sempre meno di quanto si potrebbe produrre se tutti fossero onniscienti e perfettamente preveggenti. Nondimeno, gli squilibri che caratterizzano i mercati non innescano scostamenti, poiché questi richiedono, per un certo periodo di tempo, errori comuni nella stessa direzione. Affinché si verifichi uno scostamento occorre che gli errori presentino frequenza insolita e per un periodo relativamente prolungato (un anno o più), ma limitato: gli errori così si accumulano. Spiegare la natura dello scostamento significa dunque spiegare l’intensità e l’accumularsi degli errori prima che intervenga la correzione. A sua volta, spiegare il ciclo significa illustrare il concatenamento degli errori di segno opposto. Gli errori sistematici – ovverosia quelli non legati all’incertezza o alla fallibilità delle valutazioni – sono riconducibili alla natura umana oppure alla presenza di incentivi distorti. Si consideri, per esempio, il contesto finanziario. Non di rado gli individui investono i propri risparmi finanziando debitori di dubbia reputazione e rinnovano tale fiducia anche quando, dopo essere falliti, quegli stessi debitori (o altri debitori con una reputazione altrettanto discutibile) si ripresentano sul mercato. Il fenomeno della memoria corta è ben esemplificata dalla storia del debito pubblico argentino, ove il convincimento di poter lucrare elevati rendimenti e riavere il proprio capitale prima del probabile nuovo fallimento ha svolto un ruolo importante. Tuttavia, avidità, amore per il rischio e sovrastima della propria capacità di abbandonare la barca prima che questa affondi – poiché di questo si tratta – provocano cicli solo se i creditori/investitori cambiano atteggiamento e/o i cattivi debitori sono costretti a fare i conti con la propria prodigalità. Per esempio, è quanto accade se coloro che hanno subito perdite significative e che costituiscono una porzione rilevante dei residenti di un determinato paese aumentano la propria propensione al risparmio per ricostituire la ricchezza perduta; e
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se i debitori falliti non hanno più accesso alle risorse altrui e sono costretti a ridurre consumi e produzione, se quest’ultima era alimentata da risorse acquistate a debito. Insomma, come già accennato in precedenza, la natura umana è fonte di eventi ciclici se gli errori sono intervallati da ravvedimenti e reazioni di segno opposto. Successive ricadute (memoria corta) daranno luogo a nuovi cicli. Benché sia innegabile che la natura umana presenti elementi di avidità, che molti individui sovrastimino le proprie capacità di prevedere il futuro o di superare il prossimo in scaltrezza, è lecito dubitare che tali aspetti si manifestino a intermittenza regolare (caratteristica di un movimento ciclico) e simultaneamente; così come è lecito dubitare che i pentimenti, le azioni che seguono e le successive perdite collettive di memoria, componenti necessarie per avviare un nuovo scostamento, abbiano luogo anch’esse simultaneamente e in più comunità/paesi. È possibile che alcuni periodi pongano in evidenza diffusa euforia o generalizzato pessimismo. Nondimeno, per ora non esistono teorie e riscontri empirici sulla genesi spontanea di tali periodi. Una parziale eccezione fu forse la cosiddetta bolla delle dot-com della fine degli anni Novanta, che fu tuttavia un caso isolato e che, a ben vedere, non può considerarsi parte di un fenomeno ciclico. In effetti, è più verosimile immaginare che l’origine degli errori diffusi e dello stesso segno, persistenti e ricorrenti, siano da individuarsi nelle informazioni di cui gli individui dispongono, non già nella fallibilità della natura umana o in discutibili riflessioni sulla irrazionalità collettiva e periodica. In particolare, secondo la visione liberista, scostamenti e cicli sono dovuti in larga parte – se non esclusivamente – all’utilizzo razionale di informazioni che, benché non necessariamente veritiere, sono considerate credibili dalla maggioranza degli individui. Questi agiscono coerentemente con tali informazioni e correggono i loro comportamenti solo quando esse si rivelano erronee o sono sostituite da nuove informazioni, ugualmente credibili. In tale contesto, dunque, la perdita di memoria poc’anzi menzionata non si riduce a irrazionalità. È invece un fenomeno più articolato, che riguarda i costi legati alle cattive decisioni passate, la credibilità delle fonti di informazione con riferimento alle quali quelle decisioni erano state assunte, e le opzioni disponibili, non di rado limitate dal contesto normativo vigente e a loro volta possibile fonte di nuovi incentivi distorti. In conclusione, per il liberista gli scostamenti significativi dagli andamenti tendenziali e i cicli economici hanno origine dalla diffusione di informazioni sul contesto economico presente e futuro. Queste informa-
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INCENTIVI DISTORTI
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LE INORMAZIONI
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zioni sono ritenute credibili, sono di frequente accompagnate da norme e annunci di norme di futura emanazione, e generano comportamenti diversi da quelli che gli individui manifesterebbero in un contesto di libero mercato. In questa luce, e contrariamente a quanto si afferma solitamente e il vocabolo stesso induce a credere, il ciclo menzionato in tante occasioni è in realtà un insieme di scostamenti legati a errori provocati da comportamenti razionali indotti al fine di contrastare un andamento strutturale indesiderato e che dopo un certo periodo non sono più sostenibili e danno luogo a correzioni più o meno accentuate. Un periodo di espansione ingiustificata (la cosiddetta “bolla” o il cosiddetto “surriscaldamento”) corrisponde al periodo degli errori, a cui segue la correzione e al ritorno all’andamento coerente con i caratteri strutturali dell’economia. La corruzione è dunque un aggiustamento, non una recessione. Si ha recessione quando quantità crescenti di risorse produttive rimangono inutilizzate per periodi relativamente prolungati e pertanto l’attività economica è inferiore a quella consentita dalle condizioni strutturali del paese.
3. Due diversi episodi: USA (2002-2010) e Italia (2013-2019)
IL CASO USA
A titolo esemplificativo, si esaminino due episodi tratti dalla storia economica recente: il ciclo 2002-2010 negli Stati Uniti e quello, meno noto, dell’Italia nel periodo 2013-2019. Negli anni Novanta il PIL USA in termini reali presentò un tasso di crescita medio annuo intorno al 3%, che però scese decisamente nei primi due anni del decennio successivo. Seguirono una fase moderatamente espansiva nel periodo 2002-2007 (+3% medio annuo), una contrazione nel 2008-2009 (-1,3% medio nel biennio) e una crescita media del 2% annuo fra il 2011 e il 2019. La lettura liberista del periodo 2002-2007 è legata ai provvedimenti adottati dalle autorità per contrastare la contrazione del 2000-2002. Essi comprendevano una politica monetaria espansiva (manipolazione al ribasso dei tassi d’interesse), il rilancio del settore edilizio grazie a garanzie pubbliche ai mutui immobiliari, ripetute affermazioni delle autorità sulla solidità del sistema economico e delle società quotate, con particolare riferimento al comparto bancario. Queste informazioni alimentarono ottimistiche previsioni sulla crescita economica a venire e furono sostenute da provvedimenti che indussero gli individui a indebitarsi per aumentare la produzione e la domanda di beni e servizi. Le accelerazioni
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della domanda e dei prezzi, a loro volta, spinsero i produttori a rilanciare la scommessa sul futuro e il sistema bancario a erogare credito ancora più generosamente. L’indebitamento presentava costi ridotti per i debitori e rischi percepiti contenuti per i creditori. In breve, i produttori scommisero sul futuro e accrebbero la produzione, i risparmiatori ridussero i risparmi a vantaggio dei consumi correnti, e il sistema bancario si trovò esposto: crediti gonfiati e fragili garanzie offerte dai debitori. Tuttavia, nel 2006 la banca centrale tolse il piede dall’acceleratore e lasciò che i tassi d’interesse risalissero verso i loro valori di mercato, forse senza rendersi conto che un’espansione manipolata è sostenibile fino a quando gli operatori hanno di fronte segnali coerenti (ancorché distorti) e credibili. Le nuove condizioni monetarie, invece, generarono un nuovo insieme di percezioni – timori sull’esposizione finanziaria dei debitori e dei creditori – nonché dubbi diffusi e fondati sulla credibilità delle garanzie, pubbliche e private. Coloro che per primi corsero ai ripari limitarono i danni riducendo l’esposizione sul mercato immobiliare e su quello del credito, ma innescarono una sorta di effetto valanga che indusse gli altri operatori, individui e imprese, a rivedere al ribasso i propri piani. Di conseguenza, molti progetti di espansione furono abbandonati o ridimensionati e una quota cospicua dei redditi percepiti dalle famiglie fu utilizzata per servire i debiti contratti anziché per finanziare la produzione di nuovo capitale fisso. La crisi, tutto sommato, ebbe effetti limitati a pochi trimestri: la contrazione del PIL fu dello 0,1% (2008) e del 2,5% (2009). In questo senso, e a conferma di quanto suggerito nel paragrafo precedente, si trattò di una correzione, più che di una fase ciclica nel senso tradizionale del termine; e interessò in prevalenza coloro che avevano scommesso sui mutui immobiliari e sui prodotti derivati a essi collegati. Il massiccio intervento pubblico che seguì dopo il 2009 – sussidi pubblici di vario genere e politica monetaria nuovamente espansiva – in realtà non servì a rilanciare la produzione e quindi non ebbe un ruolo anticiclico. Il sistema produttivo americano, benché ingessato (crescita strutturale modesta), non era affatto sull’orlo del baratro e l’esperienza degli incentivi distorti era troppo fresca perché le nuove informazioni potessero incidere. L’intervento però non fu senza conseguenze: sussidiò gli azionisti delle imprese che avevano creduto alle garanzie pubbliche, che si erano indebitate eccessivamente approfittando dei tassi d’interesse artificiosamente bassi, e che erano in difficoltà per mancanza di competitività già prima della fine della fase espansiva. Naturalmente, servì anche a sostenere imprese che non avevano alcuna necessità di essere sussidiate. L’elemento
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IL CASO ITALIANO
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redistributivo appare con particolare evidenza se si considera la forte presenza di titoli azionari nella ricchezza delle famiglie. In altri termini, l’intervento pubblico si risolse in un regalo indiretto agli elettori-azionisti, finanziato con indebitamento pubblico. Fu un regalo che difficilmente sarebbe stato ben accolto in periodi normali o se fosse stato giustificato dalla necessità di contrastare un indebolimento strutturale dell’economia; ma che fu accettato e addirittura invocato quando proposto come un intervento anticiclico (nel 2000-2002) o eccezionale (nel 20082009). Per riassumere, non c’è dubbio che la natura umana – il desiderio di conseguire guadagni – alimentò la fase espansiva del 2002-2007. Tuttavia, mentre è difficile considerare irrazionale il desiderio di migliorare la propria condizione, va riconosciuto che tale propensione diede luogo ad azioni arrischiate e prolungate soprattutto a causa dei segnali e degli incentivi prodotti dall’autorità pubblica, fra cui garanzie e tassi d’interesse manipolati. Del resto, sarebbe stato irrazionale ignorare quegli incentivi e, sebbene chi previde il collasso e si comportò con prudenza meriti un plauso, nessuno può essere biasimato per avere cercato di approfittare della situazione. Naturalmente, resta da valutare se si sia trattato di un vero e proprio ciclo e non, come si suggerisce in questi paragrafi, delle conseguenze del tentativo delle autorità di contrastare un rallentamento strutturale dell’economia, un tentativo che condusse a squilibri a cui il governo rispose con interventi assistenziali a favore di gruppi di interesse privilegiati i quali non sempre erano composti da individui e famiglie in stato di povertà. Un secondo esempio, di diversa natura, riguarda l’economia italiana nel decennio appena trascorso. Essa si è caratterizzata per una produttività stagnante dal 2001 e da un tasso medio di crescita del PIL modesto (intorno all’1% annuo). A fronte di queste dinamiche, il bilancio pubblico ha mostrato una riduzione cospicua del peso degli investimenti pubblici (che hanno assunto valori negativi se si tiene conto degli ammortamenti) e un avanzo primario che, dopo aver raggiuto il 3,5% del PIL nel 2007, si è stabilizzato a circa l’1,5% del PIL fra il 2013 e il 2019, un valore che ha obbligato le autorità a emettere nuovo debito pubblico per rimborsare quello in scadenza e pagare parte degli interessi. Si può dunque osservare come, nonostante le ricorrenti previsioni e gli annunci sull’imminente “ripartenza” dell’economia, le autorità italiane abbiano fatto ricorso alla retorica del ciclo per giustificare aumenti dei consumi pubblici e della spesa in trasferimenti, comprimendo gli investimenti e affidandosi de facto alla politica monetaria espansiva posta in essere dalla
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banca centrale europea per contrastare il deterioramento strutturale dell’economia. In altre parole, nel decennio 2010-2020 l’economia italiana – al pari della maggior parte delle economie europee – beneficiò di un’azione (monetaria) presentata all’opinione pubblica come anticiclica, benché il problema fosse sostanzialmente strutturale: produttività bloccata, attività imprenditoriale limitata e dinamica degli investimenti produttivi debole. L’intervento anticiclico, in Italia ma non solo, fu così un pretesto per nascondere e contrastare, con parziale successo, un deterioramento strutturale. Tale intervento non fu disegnato per – né intendeva – affrontare i tratti fondamentali di un sistema economico. Tuttavia, e analogamente a quanto osservato nel contesto americano, non fu privo di conseguenze ai fini della redistribuzione del reddito. Ancora una volta, le conclusioni in chiave liberista sono relativamente semplici. Gli interventi confezionati in prospettiva anticiclica ma in realtà volti a compensare deterioramenti strutturali – per esempio, mancata crescita della produttività o riduzione della propensione a investire – tendono a essere stravolti e prolungati, dando luogo a distorsioni di vario genere. Si consideri, per esempio, il ricorso a una politica monetaria attiva, e quindi alla manipolazione dei tassi d’interesse: gli individui riconfigurano l’impiego dei propri redditi, privilegiando i consumi immediati a danno dei risparmi e quindi delle risorse disponibili per l’investimento. Secondo la visione tradizionale, e a parità di altre condizioni, i bassi tassi d’interesse dovrebbero stimolare la domanda di beni d’investimento. Tuttavia ciò non avviene – o avviene solo in minima parte – poiché in realtà la sensibilità degli investimenti rispetto ai tassi d’interesse è significativa in presenza di condizioni strutturali soddisfacenti, quali il rispetto dei diritti di proprietà e dei contratti, l’atteggiamento nei confronti dell’attività imprenditoriale, la pressione fiscale e la moderata regolamentazione dell’attività d’impresa. In contesti strutturali sfavorevoli, invece, la reattività degli investimenti rispetto al costo dei finanziamenti è ridotta, anche quando i tassi sono bassi. Se un progetto di investimento è poco attraente a causa di un quadro normativo incerto e pesante, difficilmente diventerà interessante se i tassi scendono di qualche punto percentuale. Certamente, il ribasso forzato dei tassi di interesse è ben accolto dalle imprese fortemente indebitate, poiché si riducono i costi di finanziamento del capitale circolante e, soprattutto, si riduce il servizio del debito. Parimenti è ben accolto da coloro che avrebbero investito comunque – soprattutto in una prospettiva di breve periodo – i quali saranno incorag-
CONCLUSIONI PRELIMINARI
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giati a finanziarsi a debito anziché con capitale di rischio; e da chi si limita a investimenti puramente finanziari, di nuovo con risorse a debito. Il risultato finale sarà però perverso e controproducente. Sarà perverso perché scoraggerà il ricorso al capitale di rischio, contribuendo così ad aggravare la posizione debitoria di imprese finanziariamente deboli, incoraggiando le iniziative imprenditoriali di portata limitata e con orizzonti di breve periodo, rendendo più difficile e costoso l’accesso al credito delle nuove imprese. Sarà controproducente poiché indebolirà la pressione concorrenziale mantenendo in vita imprese inefficienti, che non di rado si oppongono ai cambiamenti strutturali necessari e che, come si è detto, sottraggono quote di mercato e opportunità a potenziali nuovi produttori. Dunque, l’intervento cosiddetto anticiclico volto a nascondere le carenze strutturali/istituzionali di un’economia maschera e rallenta il degrado tendenziale e al tempo stesso impedisce di cogliere le opportunità per porvi rimedio. Anzi, l’effetto perverso sugli investimenti contribuisce a peggiorare il tessuto economico, crea le premesse per un ulteriore indebolimento della dinamica della produttività e stimola la domanda per nuovi interventi giustificati dalla retorica del ciclo e dell’emergenza.
4. Una nota sul ciclo austriaco POLITICHE ANTICICLICHE PER CICLI INESISTENTI
Si perviene così a una prima conclusione: nella storia economica degli ultimi decenni è difficile individuare dei cicli. In particolare, per quanto riguarda le economie occidentali, è probabilmente più ragionevole far riferimento al manifestarsi di indebolimenti strutturali di medio-lungo periodo che sono stati contrastati da politiche economiche volte a nascondere una dinamica che, appunto, non era affatto ciclica. Tale conclusione trova conferma da una prospettiva austriaca, termine con il quale si fa riferimento a una visione del ciclo sviluppata nel secolo scorso soprattutto da Mises (1912) 1. In sintesi, secondo la visione propria della scuola austriaca – ne presentiamo qui una versione semplificata – la manipolazione al ribasso dei tassi d’interesse conduce a un eccesso di domanda di beni di consumo e di investimento, a cui si accompagna un aumento dell’indebitamento e l’avvio di progetti per la creazione di nuova capacità produttiva. Il periodo di espansione ha termine
1 Si vedano al riguardo le efficaci sintesi di Kirzner (2001, cap. 5) e Oppers (2003).
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quando l’aumento del credito si traduce in aumento della quantità di moneta e infine inflazione, o quando l’intervento monetario si esaurisce e i tassi tornano al loro livello di mercato. A quel punto, il consumo si contrae e torna ai livelli pre-euforia o addirittura inferiori, per ricostituire lo stock di risparmi. A loro volta, i piani d’investimento formulati in previsione di una domanda in espansione si rivelano non redditizi, e le imprese e le banche che li avevano finanziati ne soffrono di conseguenza. La parte negativa del ciclo, pertanto, è il periodo durante il quale i proprietari dei fattori produttivi impiegati in progetti avventati subiscono il costo delle loro scelte. Gli investitori/finanziatori vedono ridursi o azzerarsi il valore delle loro proprietà, il settore bancario-creditizio soffre per i crediti divenuti inesigibili e/o per l’eventuale squilibrio fra il costo della raccolta (aumentato) e la remunerazione degli impieghi (a tassi ridotti). Inoltre, i lavoratori devono ricollocarsi, attraversando periodi di disoccupazione e, di frequente, subendo riduzioni nelle remunerazioni percepite. La fase di recupero, durante la quale si ritorna a configurazioni dettate da comportamenti non manipolati, corrisponde al periodo durante la struttura dei prezzi relativi si aggiusta e torna a essere un sistema affidabile di segnali, nuove energie imprenditoriali danno vita a imprese che si sostituiscono a quelle che hanno abbandonato il mercato e le risorse liberate durante la crisi sono riqualificate e riutilizzate. In altre parole, e coerentemente con quanto suggerito dall’effetto Cantillon descritto nella sezione 6 del capitolo precedente, il ciclo è innescato dal maggior potere d’acquisto percepito dai beneficiari dei tassi d’interesse artificiosamente ridotti, maggior potere d’acquisto che induce i produttori ad ampliare l’offerta in previsione di una domanda futura che si prevede stabilmente più elevata. Quando l’effetto Cantillon si esaurisce e la domanda torna ai livelli iniziali, i produttori soffrono per un eccesso di offerta. Il costo della parte negativa del ciclo, quindi, è il costo legato sia alle risorse sprecate nei piani di ampliamento della capacità produttiva (i debiti vanno ripagati anche se non sono serviti a creare capacità produttiva e reddito), sia alla ricollocazione degli addetti direttamente e indirettamente interessati dai piani di ampliamento. Nel corso del decennio passato la fase negativa del ciclo fu pressoché assente, nonostante le tante distorsioni provocate dalla politica – si pensi all’andamento del debito pubblico, alla regolamentazione, alla manipolazione al ribasso dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali – e nonostante fino al diffondersi della pandemia si fosse assistito a un sensibile e generalizzato aumento della propensione al consumo, a danno del risparmio. In realtà, la crisi fu periodicamente rinviata attraverso la con-
IL COSTO DEL CICLO
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IL PARADOSSO DELLA CRISI RINVIATA
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tinua espansione della massa monetaria che, come si sarà ormai capito, implicò un trasferimento di ricchezza dall’economia in generale verso le imprese inefficienti. Al tempo stesso, le distorsioni previste dalla teoria austriaca furono in gran parte neutralizzate dal ridursi della propensione all’investimento (l’imprenditorialità produttiva s’indebolì) e dalla forte crescita della preferenza per la liquidità, che ritardò il sorgere di pressioni al rialzo sui prezzi dei beni e servizi, ma trovò in parte sbocco sui mercati finanziari. La crescita dei corsi borsistici dopo l’avvio delle varie forme di quantitative easing, infatti, non rifletté certo la dinamica delle economie reali dei paesi occidentali. In sintesi, e a prescindere dalle distorsioni sottolineate dalla scuola austriaca, si ha l’impressione che l’intervento cosiddetto antiriciclo sia stato almeno parzialmente neutralizzato dalla scarsa fiducia che si ripone nell’intervento pubblico fiscale e monetario e dalle alternative offerte da un’economia globalizzata: si pensi, per esempio, ai tanti imprenditori che si sono finanziati sui mercati finanziari manipolati occidentali e hanno poi realizzato nuova capacità produttiva in Asia. Rimangono però le conseguenze assistenziali, il giudizio in merito alle quali dipende dalla qualità dei meccanismi di redistribuzione in essere, che talora favoriscono effettivamente i bisognosi, talora si rivelano essere pretesti per soddisfare gruppi organizzati e clientele elettorali.
5. I liberisti e l’imprevisto
GLI EVENTI INATTESI
Se si esclude il ruolo dell’intervento pubblico in chiave strutturale e anticiclica rimane l’aspetto puramente assistenziale, tollerato nella visione classico-liberale, caro ai conservatori sociali e di particolare rilievo in presenza di eventi inattesi sfavorevoli. Per chiarezza, va ricordato come per il liberista la presenza di un evento inatteso non giustifichi la violazione della proprietà altrui, né da parte della vittima, né da parte di terzi che intendono soccorrere la vittima. In altri termini, così come l’individuo A non ha il diritto di appropriarsi dei beni di B solo perché questi li ha conseguiti in modo fortunoso o senza sforzo, così A, vittima di un evento sfavorevole, non ha il diritto di violare la proprietà di B. Il liberista, infatti, rifiuta le visioni utilitarista e lockeana. Secondo la prima, la legittimità di un’azione dipende dalla desiderabilità del risultato – un criterio necessariamente arbitrario, poiché l’idea di “desiderabilità” è legata a chi esprime la propria opinione su un risultato o una situazione e dal numero di perso-
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ne che nutrono gli stessi desideri. Per il liberista, come è noto, il criterio di giustizia non segue l’opinione del singolo, principi di maggioranza, esercizi di ingegneria sociale volti ad aggregare le utilità individuali per massimizzare il benessere di una collettività. Il liberista respinge anche la prospettiva lockeana, secondo cui la proprietà originaria è acquisita attraverso lo sforzo lavorativo, un contesto che lascia presupporre che la proprietà vada in qualche modo meritata e che, di conseguenza, i trasferimenti volontari di proprietà immeritati siano di fatto nulli. Si pensi alle successioni. Il contesto liberista richiede, invece, il soddisfacimento di un criterio di giustizia che riguarda la natura dell’azione individuale, non la desiderabilità del risultato dell’azione. In particolare, come sottolineato nei due capitoli introduttivi, l’azione deve rispettare il principio di non aggressione o, se si preferisce, la presunzione di libertà. Si applichi ora la prospettiva liberista agli eventi imprevisti. Essi appartengono a tre categorie. Possono essere la conseguenza di fenomeni naturali, per esempio un terremoto. Possono essere il risultato involontario di azioni involontarie altrui: per esempio, uno stabilimento libera sostanze o radiazioni che solo successivamente si rivelano nocive. Infine, possono essere l’effetto involontario di azioni intenzionali individuali: per esempio, le attività imprenditoriali e gli scambi che nascono dall’interazione della domanda e offerta di beni e servizi provocano cambiamenti nei prezzi relativi dei beni. In presenza di eventi imprevisti la prospettiva utilitarista è oggi dominante, ancorché gli interventi differiscano da paese a paese a seconda dell’obbiettivo collettivo che si intende perseguire. L’atteggiamento utilitarista nei confronti delle vittime di eventi imprevisti è relativamente semplice. Il politico, l’elettorato o l’opinione pubblica si prefiggono di massimizzare un’ipotetica funzione di benessere sociale, una funzione ove l’intensità e la rapidità della variazione della distribuzione del reddito – e talora anche della ricchezza – occupano un ruolo rilevante. Con riferimento a tale funzione l’autorità di politica economica decide quindi in quale misura le vittime di un evento negativo possano beneficiare di un risarcimento per il danno sofferto. Con riferimento agli esempi sopra menzionati, dunque, un terremoto prevede un trasferimento di reddito a favore delle vittime, che varia a seconda che si applichi il criterio di compensazione (il trasferimento è inteso come indennizzo per i beni e/o i redditi perduti) o il criterio di eguaglianza (il trasferimento è legittimo solo se la vittima ha redditi o patrimoni sotto una certa soglia). Nel secondo caso (inquinamento non
TRE CATEGORIE DI IMPREVISTI
L’IMPOSTAZIONE UTILITARISTA
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L’ALTERNATIVA LIBERISTA
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intenzionale), e se l’individuo colpevole non è in grado compensare le vittime per il danno causato o se il reato è prescritto, il governo interviene obbligando la collettività a risarcire le vittime secondo criteri arbitrari che di solito discriminano a seconda della natura del danno, delle condizioni reddituali e patrimoniali dei beneficiari, e talora anche degli interessi di chi redistribuisce. Per esempio, il risarcimento all’individuo è generalmente minimo se si tratta di danni limitati e geograficamente circoscritti, ma può essere rilevante se l’evento accidentale comporta la cessazione di attività produttive e può trasformarsi in un’occasione per sussidiare nuovi ipotetici beni di merito. Per esempio, nel caso italiano sono stati emblematici i sussidi al consumo di monopattini, di servizi di baby-sitting, di servizi turistici in seguito ai danni provocati dai provvedimenti di contenimento del Covid-19. In questi casi è ovviamente sottile il confine fra il merito (temporaneo) di un bene o un servizio e l’intento di acquisire il consenso di fasce dell’elettorato o cementare alleanze governative. In questi ultimi casi, naturalmente, il calcolo utilitarista sarebbe un velo per errori o abusi. Nel terzo caso (effetti inintenzionali di azioni intenzionali), infine, l’intervento utilitarista si risolve in regolamentazione sui prezzi o sulle quantità ed eventualmente sussidi a vario titolo, dalla cosiddetta politica industriale alle indennità di disoccupazione. Chi crede nel principio di responsabilità individuale e nel principio di giustizia negativa rifiuta l’impostazione utilitarista sotto due profili. Non riconosce che il verificarsi di un evento imprevisto giustifichi il ricorso a trasferimenti di reddito obbligatori all’interno di una generazione (imposte) o fra generazioni (debito pubblico); né ammette distorsioni nelle scelte di consumo/risparmio. Inoltre, il liberista non considera legittimi gli interventi centralizzati volti a contrastare situazioni di emergenza e ripone la propria fiducia nei tratti della natura umana. A questi sono dedicati i paragrafi che seguono di questa sezione. L’impostazione liberista riconosce che l’individuo, per definizione, non può evitare che si verifichino eventi imprevisti, ma sottolinea anche che egli può adoperarsi per ridurre il costo che tali eventi possono provocare. Naturalmente, si tratta di una questione di costo-opportunità e quindi di scelta fondata sulle preferenze (soggettive) di ognuno. Per esempio, un individuo può decidere di acquistare un immobile situato in un’area a rischio sismico ridotto. In questo caso il costo-opportunità è collegato all’acquisto di un immobile a un prezzo inferiore situato in una zona ad alto rischio ed esposto a eventi sismici. La differenza di prezzo fra i due immobili, a parità di altre caratteristiche, costituisce il prezzo pagato per ridurre il costo dell’e-
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vento sfavorevole (il costo-opportunità del basso rischio). In alternativa, l’individuo può acquistare l’immobile esposto a un possibile evento sismico e assicurarsi, oppure rinunciare all’acquisto e stipulare un contratto di affitto. In particolare, il premio corrisposto all’assicuratore è il prezzo pagato per trasferire ad altri il costo associato all’evento sfavorevole. Infine, la terza possibilità consiste nel ridurre l’impatto dell’evento sfavorevole aumentando il proprio risparmio e costituendo riserve adeguate a fronteggiare il costo dell’evento; o indebitandosi per far fronte all’emergenza e restituire il debito in futuro. È del resto questa la soluzione normale per qualunque impresa sostanzialmente sana che attraversa un periodo di difficoltà, la cui attività produttiva non è intralciata da un sistema fiscale e normativo oppressivo e che ha come controparte un sistema finanziario concorrenziale (assenza di regolamentazione e di barriere all’entrata). Naturalmente, non tutti gli eventi sono assicurabili. Nondimeno, l’assenza di un assicuratore disposto a farsi carico volontariamente dei costi legati a un evento sfavorevole non conferisce alla collettività il ruolo di assicuratore di ultima istanza, con polizze a carico dei contribuenti e costo zero per l’assicurato. In altri termini, il costo-opportunità associato alla riduzione dei costi di un evento sfavorevole può essere elevato, a volte proibitivo. Tuttavia, il liberista non prevede l’esistenza di un costo-opportunità massimo oltre il quale scatta l’obbligo, da parte degli altri membri della collettività, di farsi carico dei danni subiti dalla vittima. La conclusione preliminare, di conseguenza, è che per il liberista nessuno ha l’obbligo di intervenire a favore di coloro colpiti da un evento imprevisto. Lo stato di necessità di A non crea obblighi formali per B, a meno che gli obblighi non siano oggetto di un contratto esplicito. L’impiego del termine “formali” è importante. Sottolinea che esistono anche vincoli informali che di solito prescrivono che in caso di catastrofi impreviste tutti, secondo le proprie disponibilità, soccorrano i bisognosi fermo restando che nulla impedisce alle persone di seguire i propri sentimenti di carità e altruismo. Quanto precede riguarda eventi inattesi che danneggiano la proprietà di beni materiali e l’integrità fisica delle persone. Un ragionamento analogo vale per eventi paragonabili a forme di aggressione involontaria o che influiscono sulla natura delle interazioni fra individui. Si pensi, per esempio, ai danni che un individuo (infetto) può causare a un altro individuo (sano). Eventi di questo tipo sollevano interrogativi in tema di regolamentazione (restrizioni ai movimenti delle persone) e d’indennità corrisposte alle vittime. La prospettiva dirigista è nota e non richiede particolari commenti: è una combinazione di decisioni discrezionali dell’autorità, auspicabilmente
PANDEMIE E CONTAGI
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dettate da benevolo utilitarismo, e da interventi di natura assistenziale dettati da considerazioni egualitarie. Diversa è la visione liberista, che nega legittimità all’imposizione di vincoli alla libertà individuale a meno che non si tratti di legittima difesa a fronte di una minaccia effettiva e credibile. In linea di principio, una persona sana che ha subito dei danni poiché contagiata da un individuo infetto potrà rivalersi su quest’ultimo. In pratica, tuttavia, può essere difficile stabilire da chi l’individuo sano è stato infettato e l’aggressore può non essere in grado di risarcire la vittima. Più realistica è la soluzione prospettata in chiave di diritti di proprietà. Poiché in un contesto liberista un individuo può disporre dei beni di cui è proprietario come meglio crede, questi potrà impedire l’accesso alla propria proprietà a coloro che ritiene siano contagiosi, indipendentemente dal fatto che lo siano effettivamente. Tale scelta riguarda le abitazioni private, gli esercizi commerciali, le scuole (private), gli uffici. Sarà facoltà dei proprietari stabilire le modalità di accesso, e responsabilità dei frequentatori decidere di conseguenza, scegliendo di recarsi nei luoghi che riterranno più sicuri, adottando le precauzioni giudicate opportune (maschere, occhiali, camici particolari) ed eventualmente chiudendosi in casa. Qualunque sia il risultato delle scelte individuali, il manifestarsi di una malattia contagiosa comporta certamente dei costi. Per esempio, un lavoratore timoroso di essere contagiato non sarà più in grado di rispettare il proprio impegno contrattuale e perderà il proprio reddito (se il contratto non prevede clausole specifiche al riguardo); oppure i proprietari di un’impresa penalizzati da una riduzione della domanda per i propri prodotti potrebbero subire sensibili perdite e addirittura fallire. Tuttavia, come si è sottolineato in precedenza, i danni sofferti non creano un diritto alle risorse del prossimo. Rendono però più acuta la mancanza di un sistema bancario efficiente, che sia in grado di erogare credito a chi lo merita, soprattutto nei momenti di difficoltà, e che sia più sensibile alle esigenze degli individui che a quelle della finanza pubblica.
6. In conclusione Anche in questo capitolo si sono di fatto confrontate due visioni del ruolo dell’autorità, e in particolare del decisore di politica economica: quella utilitarista, fondata sul concetto di benessere collettivo, e quella liberista, che fa riferimento al soggettivismo, alla libertà da coercizione e alla cooperazione volontaria. Tali visioni sono il contesto all’interno del quale sono state analizzate due classi di fenomeni che sembrano giustificare l’in-
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tervento da parte dello stato: gli scostamenti dall’andamento tendenziale e gli eventi imprevisti. In sintesi, si è argomentato che gli scostamenti, quando sensibili, sono soprattutto il frutto delle distorsioni create dall’azione di politica economica e che gli interventi che concorrono ad alimentare e contrastare tali scostamenti sono in realtà mirati a redistribuire il reddito secondo criteri necessariamente discrezionali, a volte non del tutto condivisi, di frequente attraverso modalità poco trasparenti. Al contrario, gli eventi sfavorevoli imprevisti sono considerati problematici quando provocano una rapida e significativa variazione nella distribuzione del reddito all’interno di un’area economica, generalmente un paese. Emergono così occasioni per interventi assistenziali e/o redistributivi. Poiché in un contesto liberista non esiste spazio per l’intervento di politica economica, il problema degli scostamenti, dei cicli e delle azioni anticicliche di fatto è limitato ai fenomeni di euforia collettiva innescati da percezioni o informazioni sistematicamente erronee. È stato forse questo il caso per la cosiddetta bolla tecnologica alla fine degli anni Novanta – che tuttavia ha innescato una bolla sui mercati azionari, non un ciclo economico. Di certo, non c’è traccia di scostamenti o fenomeni ciclici nel tendenziale deterioramento delle economie occidentali negli ultimi lustri, che è stato strutturale e riconducibile alla deludente dinamica della produttività e alla minore propensione all’investimento. Contrastare fenomeni strutturali attraverso politiche espansive significa redistribuire il reddito a favore di gruppi di interesse selezionati o, più frequentemente, strati elettorali. La differenza fra le diverse modalità di finanziamento della spesa aggregata “anticiclica” riflette le decisioni su chi ne pagherà il costo. Per esempio, quando si ricorre al debito pubblico per finanziare l’erogazione di sussidi o l’aumento dei consumi pubblici si trasferisce il costo alle generazioni future di contribuenti, a cui spetterà l’onere di ripagare i risparmiatori/creditori; mentre se si ricorre alla politica monetaria il costo grava su coloro più vulnerabili alle pressioni inflazionistiche e sulla collettività intera, che sconta così l’ingombrante presenza di imprese inefficienti e la mancata capacità di rinnovarsi, cogliere le opportunità e reagire alle pressioni concorrenziali. Diverso è il problema sollevato dalle emergenze e dagli eventi inattesi che, per il liberista, sono fenomeni ove l’aiuto ai bisognosi è una questione che riguarda il singolo donatore, altruista e caritatevole. Come auspicava Adam Smith, l’autorità può certamente incoraggiare i singoli a donare e, aggiungiamo noi, può anche proporsi in concorrenza con altri agenti per raccogliere fondi e distribuirli in modo oculato; tuttavia non può obbligare a donare.
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Anche in questi contesti purtroppo, la visione liberista sarebbe oggi politicamente inaccettabile. Per esempio, la possibilità di contrarre debito a tassi reali nulli se non negativi e la straordinaria facilità con cui il debito pubblico dei paesi avanzati è collocato e rinnovato sui mercati internazionali trasformano il debito nell’illusione di un pasto gratis a cui pochi sanno resistere. Inoltre, va osservato che una porzione rilevante delle famiglie presenta consistenze patrimoniali modeste – nel 2014 il 30% più povero delle famiglie italiane presentava un patrimonio medio totale (mobiliare e immobiliare) di 7.000 euro – in molti casi insufficienti a fronteggiare situazioni prolungate di crisi, nemmeno vendendo l’abitazione di proprietà: un contesto fonte di tensioni sociali e tentazioni demagogiche a cui difficilmente la classe politica è in grado di resistere. In fin dei conti, l’opinione pubblica non ha dubbi quando deve scegliere fra una soluzione che prevede responsabilità individuali e costi/sacrifici e pseudo-soluzioni che promettono più potere d’acquisto per tutti. Si auspica tuttavia che, se si deve subire l’assistenzialismo obbligatorio, questo sia a beneficio esclusivo dei nuclei famigliari in stato di necessità (reddito e patrimoni inferiori a una soglia definita), indipendentemente dai motivi che hanno provocato tale condizione e, per coloro in condizione di poter svolgere un’attività lavorativa, limitato nel tempo.
Riferimenti bibliografici Kirzner, Israel (2001), Ludwig von Mises – the Man and its Economics, Wilmington: ISI Books. Mises, Ludwig (1912), Theorie des Geldes und der Umlaufsmittel, Monaco e Lipsia: Duncker & Humblodt (traduzione italiana: Napoli, ESI 1999). Oppers, Stefan (2003), “The Austrian theory of business cycles: old lessons for modern economic policy?”, in K. Leube (a cura di), Austrian Economics Today, Francoforte: Frankfurter Allgemeine Buch.
CONCLUSIONI
STATO SOCIALE, DEBITO E MONETA
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CAPITOLO 10
STATO SOCIALE, DEBITO E MONETA 1. Liberismo, stato sociale e stato produttore Nella prima parte di questo volume si è sottolineato come i liberisti neghino che l’autorità statale abbia la legittimità per violare o minacciare l’integrità fisica di un individuo, per porre limiti alla sua capacità di scegliere e di agire, per violare i suoi diritti di proprietà fondati sulla presunzione di libertà (cap. 1). In breve, nulla impedisce che abili organizzatori eletti da migliaia o milioni di individui si propongano di perseguire il bene della collettività, suggeriscano di adottare norme e schemi di comportamento, producano e offrano merci e servizi. Tuttavia, il liberista non accetta che questi suggerimenti diventino norme imposte con la forza, che i costi di produzione siano in parte o del tutto coperti con imposte e che i beni e servizi debbano essere acquistati da coloro che non intendono pagare il prezzo richiesto. In questa prospettiva, può essere utile richiamarlo, i liberisti non si riconoscono nella vena consequenzialista ed egualitaria di alcuni, fra cui Hayek (1944-1979, p. 27), secondo cui la coercizione è lecita nell’interesse collettivo e la redistribuzione del reddito auspicabile per mantenere un clima concorrenziale, favorire la mobilità sociale, ed evitare che lavoratori possano essere sfruttati (“manipolati”) dai datori di lavoro. In altri termini, e contrariamente a quanto affermavano Hayek (1948, cap. 6) e Friedman (1962, pp. 29 e 134), non esistono diversi tipi di “libero mercato” a seconda dei paletti necessari per perseguire l’interesse collettivo. Il mercato è libero oppure è regolamentato: non esistono terze vie. La visione antistatalista propugnata dai liberisti non nega i concetti di società e virtù civica. Tuttavia, la società non è un’area geografica definita da guerre e trattati ove, in un contesto di ideale democrazia rappresentativa, la maggioranza dei residenti si impone sulla minoranza. Piuttosto, una società è un sistema di relazioni personali e impersonali volontarie volte a realizzare forme di cooperazione e favorite dalla condivisione di valori, fra cui la cosiddetta virtù civica. Come ricordato da
NON ESISTONO TERZE VIE
VIRTÙ CIVICA E INTERVENTISMO STATALE
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IL DIRITTO DI SCEGLIERE
IL RIFIUTO DELL’UTILITARISMO
IL RIFIUTO DEI PRIVILEGI
CONCLUSIONI
Murray (2016, p. 88), la virtù civica degli individui non si impara sui banchi di scuola. Essa è il risultato di un apprendimento graduale fondato sull’esempio, sulla consuetudine e sull’esercizio della responsabilità individuale. La trasformazione dei sentimenti di empatia (la capacità di percepire le sofferenze altrui) e di simpatia (la capacità d’immedesimarsi e soffrire per le sofferenze altrui) in generosità e altruismo richiede che l’individuo sviluppi e alimenti un interesse concreto per i bisogni degli altri, che abbia modo di verificare se e come i propri interventi servono a soddisfare le esigenze dei meno fortunati, e che possa modificare la propria azione acquisendo esperienza e rimediando ai propri errori. Si illude chi pensa che la morale individuale e la virtù civica siano stimolate da trasferimenti forzati ad una burocrazia statale anonima, che gestisce fondi ingenti senza la possibilità che il donatore sia consapevole delle condizioni dei beneficiari e di come le risorse ricevute sono da essi impiegate. Anzi, questa sorta di disprezzo per lo sviluppo della virtù dell’individuo getta ombre sull’autenticità dell’interesse per il bene collettivo: perché mai un governante che non ha a cuore la realizzazione del singolo dovrebbe preoccuparsi per la crescita di una collettività? In questa luce, ridimensionare il ruolo dello stato nelle economie moderne in realtà significa per un verso restituire all’individuo il diritto e il dovere di esercitare la propria libertà di scelta, la quale comprende naturalmente anche il potere di delega esplicita ad altri, che sono così legittimati a decidere in sua vece; e per altro verso ridurre la possibilità che la retorica dell’interesse collettivo celi il costituirsi e consolidarsi di situazioni di privilegio e di complicità fra gli attori della politica economica e gruppi di interesse. In altri termini, pur scettici, i sostenitori del libero mercato non discutono della capacità dell’autorità politica in quanto produttore efficiente di beni e servizi (il cosiddetto “stato imprenditore”). Le questioni sono altre. Il messaggio liberista si oppone alla visione utilitarista di chi ritiene che sia possibile quantificare oggettivamente i benefici e i costi delle azioni individuali; che sia lecito procedere per il solo fatto che si presume che i benefici goduti da alcuni superino i costi inflitti ad altri, come se alcuni individui fossero risorse da sfruttare a beneficio di altri individui; e che la coercizione, più volte ricordata nella prima parte di questo volume, sia ammessa per eliminare o ridurre forme di coercizione immaginaria. Inoltre, il messaggio liberista corrisponde a esigere che non si discrimini fra pubblico e privato: l’eventuale capacità dell’operatore statale in quanto produttore sia confermata dalle scelte dei consumatori, senza essere inficiata da privilegi, soprattutto se finanziati dai contribuenti.
STATO SOCIALE, DEBITO E MONETA
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2. I falsi sostenitori del libero mercato La visione utilitarista richiamata nella sezione precedente svolge un ruolo importante negli odierni ordinamenti. Essa giustifica forme di ingegneria sociale (capp. 1 e 5) ed è la chiave per mezzo della quale molti sedicenti sostenitori del libero mercato credono di poter accogliere il concetto di giustizia sociale e partecipare alla sua applicazione nella realtà. In una recente ed efficace sintesi di questa posizione, Åsbjørn Melkevik (2020) afferma che l’argomentazione a favore del regime di libero mercato, da Adam Smith in poi, poggia sulla garanzia di migliorare la condizione economica di tutti i membri di una collettività. Da ciò si potrebbe desumere che, se mantenuta, tale promessa assicuri un miglioramento paretiano: nessun individuo peggiora la propria condizione e almeno un individuo sta meglio di prima. È ragionevole presumere che nessun essere umano potrebbe rifiutare tale proposta istituzionale senza rinnegare la propria natura, soprattutto se si ipotizza l’assenza di invidia (ipotesi per la verità poco realistica) e se si conviene che nessun altro regime è in grado di fare di meglio (tema a cui sono state dedicate pagine e pagine). A queste condizioni i sedicenti fautori del libero scambio ritengono quindi di acquisire un consenso ipotetico che, per l’appunto, legittimerebbe il libero mercato. In questa cornice, allora, la giustizia sociale si concretizzerebbe negli interventi redistributivi necessari per mantenere la promessa di miglioramento paretiano e impedire che eventuali “imperfezioni” provochino un peggioramento delle condizioni di alcuni (Melkevik 2020: pp. 62-63 e 115). Oltre ai dubbi sollevati dalle ipotesi menzionate, tale impostazione presenta contraddizioni che di fatto rendono assai discutibile la proposta di un compromesso fra libero mercato e giustizia sociale, giustificando il ricorso al contribuente per finanziare trasferimenti di reddito in un contesto liberista. Per esempio, la transizione verso il libero mercato implica necessariamente il peggioramento della condizione di coloro che in precedenza godevano di rendite normative. Possono essi essere annoverati fra coloro “lasciati indietro”? Inoltre, la distribuzione del reddito in un’economia di libero mercato è legata in parte al merito, ma anche ad elementi fortuiti indipendenti dal talento e dall’impegno individuale (sezione 4, cap. 1). In generale, la misura del merito è riferita alla capacità di soddisfare le necessità del prossimo, e il libero mercato non assicura che il favore che ognuno godrà presso gli altri durerà in eterno. Anzi, è assai probabile che in un contesto di libero mercato la posizione relativa e assoluta di un individuo cambi.
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CONCLUSIONI
In conclusione, e ripetiamo quanto già enunciato all’inizio del cap. 4, la visione liberista esclude assistenza obbligatoria e compensazioni a vario titolo. Non vi sono eccezioni e non vi sono promesse.
3. Assistenza volontaria e trasparente: tre opzioni
L’IMPOSTA NEGATIVA SUL REDDITO
REDDITO MINIMO UNIVERSALE (UBI)
Le considerazioni che precedono non escludono il fiorire di attività assistenziali. Nulla impedisce che un gruppo di capaci e credibili imprenditori dia vita a una sorta di associazione assistenziale con finalità non troppo lontane da quelle perseguite dalle migliaia di associazioni che caratterizzavano, per esempio, il mondo anglosassone nell’Ottocento. Come ben documentato da James Bartholomew (2004) nel caso dell’Inghilterra, tale associazione offrirebbe i propri servizi a coloro che, mossi da spirito caritatevole, vogliono aiutare coloro in stato di necessità e preferiscono affidarsi ad esperti senza dedicare troppo tempo a confrontare e verificare le situazioni dei singoli bisognosi. Quale strategia assistenziale è opportuno perseguire? La letteratura che si propone di contenere o eliminare lo stato sociale offre due risposte diverse, a cui qui si aggiunge una terza, che secondo l’avviso di chi scrive è quella che meglio di altre si avvicina al sentire comune. Lasciamo al lettore il compito di riflettere sulle varie possibilità. La prima è assimilabile all’imposta negativa sul reddito, proposta già negli anni Quaranta da Friedman (1962, cap. 12). Il trasferimento o sussidio assistenziale sarebbe pari a una frazione della differenza fra un reddito di riferimento e il reddito percepito dal povero o dalla sua famiglia. Per reddito di riferimento s’intende di solito il reddito corrispondente alla soglia di povertà assoluta (si tratta dell’equivalente di circa 1.000 euro mensili nel caso americano, circa 800 euro nel caso italiano). Anche Hayek (1976a, cap. 9) aderì a questa impostazione auspicando una frazione pari al 100%, che equivale a eliminare la povertà assoluta. Un secondo tipo di intervento è il reddito minimo universale (il cosiddetto Universal Basic Income o UBI) di Charles Murray (2016). Prevede un assegno garantito a tutti gli individui adulti, anche a coloro con redditi medi e alti, e indipendente dalla loro condizione occupazionale. L’ammontare del trasferimento è decrescente al crescere del reddito e in parte erogato sotto forma di voucher spendibile in beni di merito (assicurazione sanitaria a fronte di gravi malattie). Lo scopo, naturalmente, è quello di rendere l’UBI ininfluente ai fini dell’impegno lavorativo: chi accetta un lavoro a basso salario sa di non perdere l’UBI,
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mentre chi percepisce redditi elevati non è indotto a smettere di lavorare perché abituato a un tenore di vita molto superiore a quello consentito dal sussidio. In entrambi i casi – Friedman e Murray – l’introduzione del sussidio prevede l’eliminazione dello stato sociale. Essi tuttavia differiscono per il fatto che lo schema di Friedman scoraggia gli individui dal cercare e accettare un’occupazione, soprattutto quando la remunerazione è prossima al reddito di riferimento e quando il politico viola la regola di Friedman e mantiene in vita una parte rilevante dello stato sociale. Lo schema di Murray, invece, non scoraggia l’attività lavorativa, ma può essere sgradito da coloro che non approvano l’erogazione di sussidi a chi ha la possibilità di avere redditi superiori alla soglia di riferimento. La terza proposta esclude trasferimenti mascherati sotto forma di beni di merito e, fedele alla visione liberista, assegna agli imprenditori assistenziali menzionati in precedenza in questa sezione piena discrezionalità circa la distribuzione delle risorse raccolte, che potrà seguire più criteri allo stesso tempo, nel rispetto delle linee-guida dettate dai donatori. Si riproduce così ciò che accade quando un gestore di patrimoni propone ai propri clienti più fondi d’investimento, ognuno dei quali con obbiettivi e criteri gestionali specifici. La comunicazione fra i gestori eviterà possibili sovrapposizioni. In sintesi, quest’ultima proposta prevede la privatizzazione dell’assistenza, coerentemente con la visione di chi ritiene che generosità e altruismo siano sentimenti propri dell’individuo, non di organizzazioni statali. Laddove demagogia e regole di maggioranza rendessero inevitabile la solidarietà obbligatoria da parte del contribuente, la quota di reddito da trasferire che i comportamenti statali indicano essere congrua sarebbe pari al 10% del PIL, come suggerisce il semplice calcolo proposto nel cap. 4. Certo, la distribuzione privatizzata di tali risorse darà comunque adito ad abusi e distorsioni. Del resto, non esiste la formula magica dell’assistenza perfetta. Esiste però la possibilità di limitare gli eccessi: è appunto quanto consentirebbe l’esistenza di più enti assistenziali in concorrenza fra loro e responsabili a fronte dei donatori forzati ai quali, per esempio, sarebbe data facoltà di scegliere se finanziare gli enti che distribuiscono risorse a pioggia o gli enti che si astengono, sempre per esempio, dall’assegnare risorse ad adulti in età lavorativa, privi di gravi infermità e dotati di risorse patrimoniali proprie a cui attingere.
GLI IMPRENDITORI DELL’ASSISTENZA
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CONCLUSIONI
4. Paternalismo e stato produttore
LA TRANSIZIONE (I): ISTRUZIONE E SANITÀ
Nella terza parte di questo libro si è trattato della spesa pubblica non assistenziale o, per meglio dire, della spesa pubblica finalizzata ad attività economiche che i membri di una collettività trascurerebbero, per opportunismo o per miopia. Fra queste il consumo di sanità, istruzione e il risparmio con finalità previdenziali occupano un ruolo di gran lunga preminente. La visione liberista non ammette compromessi. Gli assiomi di pari dignità delle preferenze individuali e di libertà da coercizione escludono che un individuo o un nucleo famigliare sia obbligato a consumare e risparmiare più di quanto non faccia spontaneamente, per esempio, per acquistare istruzione o per costituire un patrimonio a cui attingere in vecchiaia. Escludono inoltre che i contribuenti siano costretti a farsi carico delle conseguenze della miopia e degli errori altrui. In altri termini, la visione liberista solleva quattro ordini di interrogativi: dubita che un individuo sia legittimato a decidere in vece altrui perché più istruito, perché di sangue aristocratico o perché sostenuto da una maggioranza di elettori; dubita che il decisore abbia una conoscenza superiore di ciò che è bene che l’individuo consumi; dubita che l’autorità sia in grado di conseguire i risultati promessi senza generare eccessivi sprechi e abusi; e dubita che l’autorità abbia interesse a distinguere gli aspetti puramente assistenziali, volti evitare situazioni di povertà assoluta, dagli aspetti clientelari. Per esempio, vi è ben poco di assistenziale (e neppure di razionale) nella gestione di sistemi pensionistici a ripartizione; né è evidente la logica secondo cui si pone rimedio alla miopia di chi non risparmia a sufficienza in vista della vecchiaia con un sistema di contribuzione obbligatoria a carico della generazione successiva. In tali contesti, come si è osservato, la transizione verso un impianto più vicino ai requisiti liberisti di responsabilità e trasparenza sarebbe relativamente agevole per l’istruzione e per la sanità, dolorosa e complessa per il sistema pensionistico. Per quanto riguarda istruzione e sanità si aprono diverse possibilità. Quella più radicale è la privatizzazione dei settori e l’azzeramento della quota di imposte necessarie per il loro finanziamento. Nel caso italiano nel 2017 si trattava di circa 66 miliardi di euro (istruzione) e di 115 miliardi (sanità), la cui somma era pari al gettito IRPEF di quell’anno, a circa il 35% del gettito tributario e al 25% del gettito fiscale complessivo (che comprende anche i contributi previdenziali). “Privatizzazione” significa che scuole, università e strutture sanitarie non percepiscono più trasferimenti da enti governativi, ma diretta-
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mente dai loro clienti e pazienti oppure, nel caso della sanità, dalle società di assicurazione presso le quali saranno state sottoscritte polizze. Come si è detto a più riprese, nulla vieta che strutture statali continuino a erogare servizi scolastico-universitari e sanitari ai loro eventuali acquirenti. In realtà, privatizzare significa eliminare la figura dello stato come produttore privilegiato che può liberamente ricorrere ai contribuenti per coprire i costi. Naturalmente, chi è preoccupato che l’eventuale irrazionalità degli altri membri della comunità di appartenenza sconfini nell’opportunismo può invocare il sistema a punti o i voucher (istruzione e sanità), o l’imposizione di un’assicurazione minima obbligatoria (sanità), come suggerito da Murray. Ancora una volta, per coloro in condizioni di povertà assoluta valgono le considerazioni esposte nella sezione precedente. La transizione verso un sistema pensionistico fondato sui principi di responsabilità individuale, e quindi a capitalizzazione, è resa delicata dal fatto che occorre porre rimedio alla doppia distorsione propria dei sistemi a ripartizione: il finanziamento del totale delle erogazioni con il gettito fiscale e l’assegnazione dei costi e benefici a generazioni diverse d’individui. A ciò si aggiunge il fatto che molti paesi che presentano questi scompensi sono anche paesi caratterizzati da una grave situazione di finanza pubblica e per i quali è comunque difficile distribuire su più anni il costo della transizione. L’Italia è fra questi. In particolare, il nodo è che i beneficiari del sistema attuale sono stati gli appartenenti alla prima generazione, che consumò tutti i contributi versati, confidando che l’ammanco così generato sarebbe stato coperto dalla generazione successiva e dando vita alla traslazione intergenerazionale che ben conosciamo. Purtroppo per i giovani di oggi, fu una scommessa vinta. Oggi si presentano due possibilità. La prima è stata illustrata nel cap. 7 e prevede l’emersione del debito implicito, a seguito della quale i debiti pensionistici in essere nei confronti della popolazione attiva e dei pensionati diventano debito esplicito. In pratica, la transizione prevede la cessazione immediata dei versamenti dei contributi sociali, l’emissione di titoli di debito pubblico per raccogliere le risorse necessarie per finanziarie le pensioni dei pensionati in essere e, a mano a mano che i lavoratori vanno in pensione, dei diritti pensionistici da loro maturati prima dell’entrata in vigore del nuovo regime. Nel giro di 15 anni il debito pubblico di un paese come l’Italia aumenterebbe di circa 3.000 miliardi e dopo altri 25 anni, a transizione completata, salirebbe a oltre 5.000 miliardi. Sarebbe una somma forse tollerabile, se – ed è un “se” importante – i tassi d’interesse rimanessero modesti: alle con-
LA TRANSIZIONE (II): PREVIDENZA
LE OPZIONI DISPONIBILI: • EMERSIONE DEL DEBITO IMPLICITO • RIDUZIONE DELLE PRESTAZIONI
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CONCLUSIONI
dizioni attuali e nel caso italiano, il servizio di questo debito emerso richiederebbe un avanzo primario ulteriore, a transizione ultimata, di circa tre punti percentuali di PIL; forse anche meno, se la crescita economica fosse sostenuta. Tuttavia, benché sulla carta si tratti di una riforma possibile, è probabile che l’opinione pubblica si opponga con decisione e che la fortuna politica dei suoi proponenti finisca ancora prima di nascere. Certo, la generazione coinvolta nella transizione avrebbe un futuro pensionistico migliore: un piano a contribuzione presso un assicuratore privato offrirebbe un rendimento decisamente superiore a quello proprio dell’assicuratore statale. Eppure, questo miglioramento non basterebbe a compensare due altri elementi. Per un verso, il sistema pensionistico attuale è in buona parte un sistema di assistenza, mediante il quale si trasferiscono risorse a chi non ha mai contribuito o ha contribuito in misura ridotta. Questi beneficiari sono numerosi, votano, e hanno tutto l’interesse a mantenere in vita i privilegi di cui godono, anche se per gli indigenti il privilegio è in realtà una forma di assistenza. Per altro verso, i veri beneficiari, coloro per i quali le remunerazioni nette aumenterebbero in misura rilevante (fra il 30% e il 50%), avrebbero il giustificato timore di vedere crescere il prelievo tributario, vanificare almeno in parte la riforma, e di rimanere comunque esposti al pericolo di una crisi della finanza pubblica, con conseguenze incerte, ma sicuramente poco piacevoli. La seconda possibilità è quella attualmente percorsa in numerosi paesi: aumento dei requisiti contributivi e riduzione delle prestazioni pensionistiche. In questi contesti sono così lasciati tali i due vizi di fondo, costituiti dalla commistione fra l’aspetto attuariale e quello redistributivo (il gettito contributivo è utilizzato sia per erogazioni pensionistiche, sia per trasferimenti assistenziali) e dalla permanenza del regime a ripartizione, in conseguenza del quale molti sistemi pensionistici sono non patrimonializzati. L’obbiettivo di lungo periodo dietro questa scelta è, forse, ridurre progressivamente la spesa pensionistica vera e propria, indurre individui e nuclei famigliari a costituirsi un profilo assicurativo privato sempre più importante e arrivare a utilizzare il gettito previdenziale per finalità prevalentemente assistenziali, con erogazioni slegate dalla storia contributiva del singolo lavoratore e dipendenti dall’andamento del PIL. Se compatibile con le condizioni di finanza pubblica, questa transizione sarebbe accompagnata da un alleggerimento del carico contributivo, che tuttavia non implicherebbe necessariamente uno sgravio della pressione fiscale.
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Per la verità, non si tratta di una soluzione troppo lontana dall’impostazione proposta nel cap. 4 e già richiamata in questa sezione. Si rinuncia così a far emergere il debito implicito perché si preferisce azzerarlo o ridurlo sensibilmente nel corso di due generazioni, addossandone il costo ai pensionati dei prossimi decenni e confidando che questa scelta non provochi tensioni sociali insostenibili. In altri termini, se l’opportunità politica impone la solidarietà obbligatoria e di stato, ben venga la trasformazione del sistema previdenziale attuale in un sistema assistenziale puro, ancorché finanziato con imposte che continueranno forse a essere etichettate come contributi sociali, associato a un forte incremento della propensione al risparmio e quindi, con ogni probabilità, a una riduzione del tenore di vita.
5. Indebitamento, fallimento e monetizzazione La presenza di debito netto significa che si vive o si è vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Quando questo accade per una famiglia, i suoi componenti devono rassegnarsi ad aumentare le entrate o spendere meno prima che i debiti giungano a scadenza. Se si tratta dell’indebitamento finanziario di un’impresa, gli azionisti sanno che i loro investimenti in attività produttive sono a rischio e che il capitale conferito è esposto a perdite. Diversa è la situazione dello stato, che ha di fronte quattro possibilità. Può risanare la situazione soddisfacendo i detentori dei titoli di stato: coloro e gli eredi di coloro che in precedenza avevano finanziato l’eccesso di consumo. In questo caso l’attore di politica economica ridurrà la spesa pubblica e aumenterà la pressione fiscale. Può perpetuare e perfino accrescere lo squilibrio ricorrendo a nuovi creditori. Emetterà così nuovi titoli di debito per rimborsare quelli in scadenza, direttamente o avvalendosi di un intermediario che emetterà titoli in sua vece: è questo uno dei possibili meccanismi di funzionamento di un eventuale futuro debito europeo. Può obbligare o persuadere la banca centrale ad acquistare il debito esistente, pagandolo con nuova base monetaria (stampa di banconote e aperture di credito presso la banca centrale stessa): è questa la cosiddetta monetizzazione, illustrata nel cap. 8. Oppure può dichiarare fallimento e rifiutare di servire il debito (interessi e capitale) o parte di esso. Per chi ritiene che lo stato non sia legittimato a raccogliere gettito fiscale, l’unica spesa pubblica ammissibile è quella legata ad attività di scam-
QUATTRO SCENARI PER LO STATO INDEBITATO
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FRODE, DEBITO E MONETIZZAZIONE
RISTRUTTURAZIONE E MONETIZZAZIONE
CONCLUSIONI
bio volontario o finanziata da donazioni (fattispecie poco verosimile). Pertanto, se il gettito fiscale fosse nullo, qualunque spesa pubblica potrebbe essere finanziata solo emettendo titoli di debito che non potranno mai essere serviti se non emettendo altri titoli; oppure con monetizzazione. In entrambi i casi si tratterebbe di frode. Qualora il tentativo di raggiro avesse comunque successo, e lo stato fosse effettivamente indebitato, allora sarebbe preferibile il ripudio immediato, che concentrerebbe il costo della frode su chi ha consapevolmente prestato risorse a un debitore palesemente inaffidabile. Il fatto che fino al momento del ripudio il creditore abbia percepito una remunerazione molto inferiore a quella commisurata al rischio di inadempienza del debitore è ovviamente irrilevante. Se si partisse da una situazione di finanza pubblica equilibrata (assenza di debito e gettito fiscale quanto meno congelato), il tentativo di frode sarebbe più evidente, o verrebbe comunque alla luce prima che il debito raggiunga dimensioni politicamente difficili da gestire. Una versione più morbida di tale soluzione è la ristrutturazione (fallimento parziale). Le vittime sono naturalmente coloro rimasti con il “cerino in mano”, ovverosia chi ha in portafoglio i titoli del debito pubblico nel momento in cui lo stato dichiara bancarotta, e di conseguenza anche chi è proprietario o creditore di società che avevano tali titoli fra gli attivi del proprio stato patrimoniale. La monetizzazione, invece, tende a privilegiare coloro che per primi ricevono la nuova quantità di moneta, mentre penalizza gli ultimi nella sequenza di trasmissione degli effetti inflazionistici, secondo l’effetto Cantillon descritto nel cap. 8. Come si è detto, in questa cornice il criterio di responsabilità individuale suggerisce la prima soluzione (fallimento). Concretezza politica induce a preferire probabilmente la monetizzazione: essa consente un’azione graduale ed è certamente meno percepibile dall’opinione pubblica, la quale sarà propensa a inveire contro chi si arricchirà con l’inflazione e non, come sarebbe appropriato, contro quelli che definiamo i “debitori impuniti”: coloro che hanno beneficiato della spesa a debito negli anni precedenti, soprattutto coloro legati al settore pubblico. Inoltre, sebbene la monetizzazione sia meno equa del fallimento, è pur sempre preferibile a quella che sarebbe l’alternativa più allettante agli occhi di un politico: un aumento del prelievo fiscale concentrato in apparenza su categorie selezionate di contribuenti, i cosiddetti “ricchi”, ma in realtà sul ceto medio.
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6. Una digressione sulla moneta Benché la monetizzazione sia un’opzione di sicuro interesse per l’attore di politica economica, il liberista tende a opporvisi sia perché si tratta di una via d’uscita iniqua e poco trasparente, sia perché si avvale del corso forzoso legale, un privilegio che un autentico sostenitore del libero mercato considera particolarmente pernicioso. Ciò offre lo spunto per una digressione conclusiva. Come il lettore avrà senza dubbio osservato, questo libro ha trattato solo marginalmente di questioni monetarie e di politica monetaria in particolare. In realtà il liberista non ha nulla da eccepire se un individuo o un ente emette moneta e decide in piena autonomia quantità e caratteristiche di tale mezzo pagamento. Ci sarà chi proverà a mettere in circolazione pezzi di vetro colorato, chi conchiglie, chi pezzi di metallo, chi titoli virtuali senza convertibilità in un bene fisico, ma con una promessa di non-manipolazione futura; e ci sarà anche chi stamperà pezzi di carta nella speranza che questi siano accettati da un numero sufficientemente alto di persone. Quando la moneta è un bene, per esempio una conchiglia o una quantità d’argento, nulla vieta che al posto di quantità fisiche si usino ricevute al portatore – le cosiddette banconote – che sono più facili da maneggiare e che, se richiesto, danno il diritto di riscuotere presso l’emittente il bene che la banconota stessa rappresenta e garantisce. Se a fronte della garanzia il bene non c’è, allora si tratta di frode. In una collettività prevarrà la moneta che i membri di quella collettività preferiscono per gli scambi fra i membri stessi e per gli scambi con altre comunità. Lo ripetiamo, il liberista non esprime giudizi sulle scelte dei singoli emittenti e degli utilizzatori. Tuttavia, si oppone a che un singolo emittente, lo si chiami banca centrale o divino imperatore, imponga la propria moneta con la forza, per esempio obbligando i membri di una comunità ad accettare quella moneta come mezzo di pagamento e a respingere monete concorrenti. In altre parole, il liberista si avvicina alla visione di Benjamin Klein (1974) e poi di Hayek (1976b, cap. VIII) sull’offerta concorrenziale della moneta e si oppone a un regime di corso legale forzoso. È probabile che in questa competizione fra monete finisca per prevalere l’emittente che offre una garanzia fisica, come l’oro e l’argento, e che gode di una reputazione di onestà (dietro alle sue banconote vi è davvero l’oro o l’argento promesso); ma nulla vieta che anche altri partecipino al mercato dei mezzi di pagamento, eventualmente emettendo monete elettroniche con diverse caratteristiche.
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DUE FALSI MITI: LA STABILITÀ E LA NECESSITÀ DI UNA BANCA CENTRALE
CONCLUSIONI
Questa impostazione dà luogo a due commenti conclusivi, fra loro collegati e legati a due luoghi comuni: uno riguarda il mito della moneta stabile, l’altro la necessità di una banca centrale. Si è soliti affermare che gli individui tendono a preferire una moneta stabile. In breve, è questa un’affermazione priva di significato. Una moneta è un mezzo di pagamento e, come tale, non è né stabile né instabile. La sua desiderabilità dipende da quanto è accettata da coloro con cui si intende scambiare. Solo in questo senso si può parlare di stabilità. Per esempio, se il numero di pezzi di vetro colorato (moneta) in circolazione aumenta, il venditore di un bene avrà di fronte potenziali compratori di quel bene che saranno disposti a offrire più moneta. Di conseguenza, poiché dopo l’immissione in circolazione di nuovi pezzi di vetro i singoli pezzi di vetro che erano in circolazione prima dell’aumento sono diventati meno scarsi, è necessario che il compratore ne offra di più se vuole persuadere il venditore a concludere lo scambio. Il risultato è che esistono monete più o meno desiderate, a seconda delle preferenze degli individui; e che la cosiddetta offerta di moneta – quantità e prevedibilità – in realtà contribuisce a rendere una moneta più o meno desiderabile. Tutto ciò ha conseguenze sulla politica monetaria. Come si è detto, il liberista non si oppone all’emissione di moneta cartacea, così come non si oppone a nessun tipo di moneta a meno che non sia fraudolenta (garanzie annunciate ma inesistenti). Si oppone, invece, all’emissione in regime di monopolio normativo, soprattutto se si tratta di moneta priva di garanzie fisiche, come attualmente accade per l’euro o il dollaro o come accadeva in passato quando lo stato imponeva l’uso di moneta a base metallica con un valore facciale superiore al contenuto di metallo. Se la presenza dell’autorità-monopolista è ineludibile, non rimane che formulare un auspicio: sperare che il monopolista si attenga a linee-guida che si presume possano riprodurre le configurazioni che si osserverebbero in un libero mercato oppure a linee-guida che vincolino la crescita della base monetaria, come auspicava Friedman (1960, cap. 4). In particolare, se si suppone che gli individui, se liberi di scegliere, (i) darebbero la preferenza a un’unità monetaria che le loro controparti desiderano con intensità all’incirca costante, e (ii) si opporrebbero a che l’emittente approfitti della posizione di monopolio per trasferire reddito fra i membri di una comunità (l’effetto Cantillon), allora il comportamento auspicato consiste nell’astenersi da ogni politica monetaria. Purtroppo, è una speranza che è stata e sarà sistematicamente vana, come dimostra la storia del deprezzamento delle monete cartacee (dal 2000 al 2020 l’euro e il dollaro persero, rispettivamente il 28% e il 34% del proprio potere d’acquisto) e
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dello svilimento delle monete metalliche. È proprio questo il motivo – la redistribuzione quasi invisibile del reddito e della ricchezza – per cui l’autorità non rinuncia alla propria condizione di emittente privilegiato e si sente legittimato a negare o penalizzare la libertà di scelta dei membri di una comunità.
Riferimenti bibliografici Bartholomew, James (2004), The Welfare State We Are in, Londra: Politico’s Publishing. Friedman, Milton (1960), A Program for Monetary Stability, New York: Fordham University Press. Friedman, Milton (1962), Capitalism and Freedom, Chicago: University of Chicago Press (traduzione italiana: Milano, IBL Libri 2010). Hayek, Friedrich (1944-1979), The Road to Serfdom, Londra: Routledge and Kegan Paul (traduzione italiana: Soveria Mannelli, Rubbettino 2011). Hayek, Friedrich (1948), Individualism and Economic Order, Chicago: University of Chicago Press. Hayek, Friedrich (1976a), Law, Legislation and Liberty, the Mirage of Social Justice, Chicago: University of Chicago Press (traduzione italiana: Milano, Il Saggiatore 2010). Hayek, Friedrich (1976b), Denationalisation of Money, Hobart Paper Special 70, Londra: IEA (traduzione italiana: Soveria Mannelli, Rubbettino 2018). Klein, Benjamin (1974), “The competitive supply of money”, Journal of Money, Credit and Banking, 6(4), novembre, pp. 423-453. Melkevik, Åsbjørn (2020), If You’re a Classical Liberal, how Come You’re also Egalitarian?, Cham: Palgrave MacMillan. Murray, Charles (2016), In Our Hands, Washington DC: AEI Press.
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CONCLUSIONI
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Finito di stampare nel mese di maggio 2021 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220
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