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italian Pages 500 [504] Year 2017
Questo manuale è rivolto agli studenti di sociologia economica e a chi si avvicina per la prima volta alla disciplina. Nella prima parte (Gli autori di riferimento) viene illustrata la rilevanza degli autori classici e contemporanei per la comprensione delle dinamiche e dei problemi della società odierna. La seconda parte (La cassetta degli attrezzi) vuole socializzare gli studenti all’importanza dei metodi e delle tecniche di ricerca empirica, mostrando che la sociologia economica è in grado di rispondere in modo scientifico a domande di ricerca teoricamente rilevanti. La terza parte (Temi e percorsi di ricerca) si focalizza su vecchi e nuovi temi della disciplina, con uno sguardo sulle problematiche contemporanee: dal mondo dell’impresa, al mercato del lavoro, al rapporto con la finanza, alle dinamiche di sviluppo locale. Il manuale è corredato da un ampio apparato digitale di risorse didattico-funzionali fruibili online.
Barbera · Pais
Filippo Barbera è professore associato di Sociologia Economica presso l’Università di Torino, dove insegna Sviluppo Locale e Teoria Sociale Applicata, e affiliate presso il Collegio Carlo Alberto (Moncalieri). Tra le sue pubblicazioni recenti: Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale (a cura di, con J. Dagnes, A. Salento e F. Spina, Roma, 2016) e L’isola che c’è. Azione pubblica e microcredito in Sardegna (con A. Podda, Milano, Egea, 2016).
fondamenti di sociologia economica
fondamenti di sociologia economica
Ivana Pais è professore associato di Sociologia Economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Si occupa di lavoro ed economia digitale. Tra le sue pubblicazioni recenti: Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità (con P. Peretti e C. Spinelli, Milano, Egea, 2014) e La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale (Milano, Egea, 2012).
a cura di
Barbera Pais
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fondamenti di sociologia
economica Dal XIV secolo alla crisi di inizio XXI
SECONDA EDIZIONE ISBN 978-88-238-2240-5
9 788823 822405
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Barbera Pais
fondamenti di sociologia
economica
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Prima edizione: settembre 2017 ISBN 978-88-238-2240-5 ISBN ebook 978-88-238-1869-9
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Indice
Introduzione, di Filippo Barbera e Ivana Pais
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Parte I – Gli autori di riferimento 1 Max Weber. Il capitalismo, di Luigi Burroni, Cecilia Manzo e Gemma Scalise 1.1 Vita e opere 1.2 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo 1.3 Non solo «L’etica»: i fondamenti istituzionali del capitalismo occidentale 1.4 L’attualità di Weber Letture di approfondimento 2
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Émile Durkheim. La divisione del lavoro sociale: contratti e rituali, di Filippo Barbera e Nicola Negri 2.1 Fondare la società, costruire la sociologia 2.2 Le coordinate concettuali e le parole chiave 2.2.1 Il problema: l’interesse non basta a tenere insieme la società 2.2.2 Le trasformazioni della società non partono dagli individui 2.2.3 Il valore morale della divisione del lavoro 2.2.4 Il superamento del dilemma del prigioniero 2.2.5 Il nesso fra società e sacro 2.2.6 La teoria dei rituali 2.3 Rituali e contratti nella ricerca empirica 2.3.1 La transizione alla vita adulta 2.3.2 Il fallimento nella ricerca del lavoro 2.4 Sfide e problematiche contemporanee Letture di approfondimento Karl Marx. Storia, economia e società, di Gabriele Ballarino 3.1 Marx e il marxismo 3.2 La vita
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3.3 La visione della storia 3.4 Il primato dell’economia e la critica dell’economia politica 3.5 Le classi sociali 3.6 Marx come studioso Letture di approfondimento
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Georg Simmel. Il denaro tra relazione sociale e agire strumentale, di Laura Sartori 4.1 Simmel e il suo contesto sociale e intellettuale 4.2 La sociologia di Simmel 4.3 Moneta e denaro tra economia e sociologia 4.3.1 La teoria economica 4.3.2 Marx 4.3.3 Weber 4.3.4 Simmel 4.3.5 Zelizer 4.4 La filosofia del denaro 4.4.1 Natura e proprietà del denaro 4.4.2 Denaro e istituzioni 4.4.3 Denaro e alienazione 4.5 Le sfide e le problematiche contemporanee Letture di approfondimento
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Joseph Schumpeter. Dall’imprenditore innovatore allo stato imprenditoriale, di Francesco Ramella 5.1 Un economista eterodosso 5.2 Le coordinate concettuali: innovazione e sviluppo nel capitalismo concorrenziale 5.3 Attori e processi dell’innovazione 5.3.1 Gli imprenditori-innovatori 5.3.2 Il capitalismo trustificato 5.3.3 La crisi del capitalismo 5.4 L’attualità di Schumpeter Letture di approfondimento Karl Polanyi. Le forme di integrazione tra economia e società alla prova della sharing economy, di Ivana Pais e Giancarlo Provasi 6.1 Una breve nota biografica 6.2 Le «forme di integrazione» tra economia e società 6.2.1 Scambio 6.2.2 Redistribuzione 6.2.3 Reciprocità 6.3 Perché Polanyi è tornato di attualità
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6.4 La sharing economy: verso una risocializzazione dell’economia? 6.5 Per concludere Letture di approfondimento
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Pierre Bourdieu. Le strutture (sociali e simboliche) dell’economia, di Marco Santoro 7.1 Brevi cenni biografici 7.2 Una sociologia critica del mondo economico 7.3 Fondamenti di antropologia (economica) 7.4 Il sistema concettuale di Bourdieu 7.4.1 Habitus 7.4.2 Campo 7.4.3 Capitale 7.5 Il capitale e le sue forme 7.6 La teoria in pratica: due ricerche empiriche 7.7 Per concludere Letture di approfondimento
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James S. Coleman. Scambio economico e risorse sociali: fiducia e reputazione, di Federico Bianchi e Flaminio Squazzoni 8.1 La rilevanza economica della fiducia 8.2 Le coordinate concettuali 8.2.1 Scambio e interdipendenza strategica 8.2.2 Fiducia 8.2.3 Sistemi di fiducia e reputazione 8.3 Ricerca empirica 8.4 Per concludere Letture di approfondimento
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9 Mark Granovetter. Radicamento dell’azione economica: le reti sociali, di Alberta Andreotti 9.1 Contestualizzazione storico-culturale 9.2 Le coordinate concettuali: attori, reti, istituzioni 9.2.1 Il radicamento nelle reti sociali 9.3 Tre ricerche empiriche 9.3.1 Come si trova lavoro: la forza dei legami deboli 9.3.2 La costruzione sociale dell’industria elettrica americana ai primi del Novecento 9.3.3 Nascita e trasformazione della Silicon Valley 9.4 L’attualità di Granovetter Letture di approfondimento
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10 Walter Powell e Paul DiMaggio. Isomorfismo e organizzazioni: il cambiamento istituzionale, di Roberto Rizza e Federica Santangelo » 129 10.1 Due autori alle origini del neo-istituzionalismo » 129 10.2 I concetti fondamentali » 131 10.2.1 Le organizzazioni come agenti di istituzionalizzazione » 131 10.2.2 Organizzazioni e ambiente istituzionale » 133 10.3 Tre ricerche empiriche » 136 10.3.1 Isomorfismo e imprese asiatiche » 136 10.3.2 Il campo organizzativo: i musei statunitensi » 138 10.3.3 Isomorfismi mimetici: il web e le organizzazioni senza scopo di lucro a San Francisco » 140 10.4 Il contributo del neo-istituzionalismo agli sviluppi del pensiero organizzativo » 141 Letture di approfondimento » 142 11 Luc Boltanski. Economia morale e convenzioni di qualità, di Vando Borghi 11.1 Il percorso biografico e intellettuale 11.2 L’economia morale presa sul serio: coordinate di una prospettiva di ricerca 11.2.1 Superare il «patto di Parsons» 11.2.2 Convenzioni e capacità critiche degli attori 11.2.3 Capacità critiche degli attori ed «economia morale» 11.2.4 Regimi di giustificazione e convenzioni di qualità 11.3 Prospettive di ricerca all’opera 11.3.1 Il nuovo spirito del capitalismo e le forme della critica 11.3.2 Convenzioni di qualità e regimi di giustificazione 11.4 Orizzonti di ricerca Letture di approfondimento
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Parte II – La cassetta degli attrezzi 12 La selezione del problema di ricerca, di Filippo Barbera 12.1 Gli oggetti empirici della sociologia economica 12.2 I livelli di analisi della sociologia economica 12.3 Come scegliere le ipotesi di ricerca 12.4 Il ruolo delle euristiche 12.5 Fatti enigmatici e importanza della descrizione Letture di approfondimento
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13 Come si fanno le domande? Intervista e questionario, di Davide Arcidiacono online
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14 Questione di metodo, le basi per l’analisi dei dati socio-economici di Mauro Migliavacca e Guido Cavalca online 15 Inferenza causale e approccio controfattuale, di Gianluca Argentin online 16 La social network analysis, di Antonello Podda online 17 I modelli ad agenti, di Federico Bianchi, Simone Gabbriellini e Flaminio Squazzoni online 18 I metodi sperimentali, di Davide Barrera e Sara Romanò online 19 L’analisi comparata e gli studi di caso, di Alberto Gherardini online 20 Netnografia, comunità e pubblici online, di Alessandro Caliandro online 21 I big data, di Simone Gabbriellini online 22 L’analisi spaziale, di Moreno Mancosu online Parte III – TEMI E PERCORSI DI RICERCA A. I mercati come costruzione sociale 23 L’economia tra formale e informale, di Paola De Vivo e Enrico Sacco 23.1 Una prima definizione 23.2 Le sfide interpretative 23.3 Meccanismi di regolazione sociale della vita economica 23.3.1 La scoperta dell’economia diffusa: il gioco del mercato tra formale e informale 23.3.2 Il governo simbolico dell’economia sommersa 23.4 Le problematiche emergenti Letture di approfondimento 24 Mercati illegali e illegalità nei mercati. Crimine organizzato, mafia ed economia, di Rocco Sciarrone e Luca Storti 24.1 Inquadramento del fenomeno 24.2 Una cornice interpretativa 24.3 Campi di ricerca: alcuni esempi 24.3.1 Il filone di ricerca sulla mafia come impresa: il caso Blue Call
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24.3.2 La criminalità di impresa: una ricerca nel settore finanziario 24.4 Le problematiche emergenti Letture di approfondimento 25 L’inclusione del consumatore nella catena del valore, di Davide Arcidiacono 25.1 Il consumo come fatto sociale totale 25.2 Consumatori e produttori: dicotomia o sinergia? 25.2.1 Oltre il consumo come scelta 25.2.2 Dal consumo come distruzione al consumo come creazione: fordismo, toyotismo, produserismo 25.3 Studiando i consum-autori: dal lavoro del consumo al consumerismo 25.4 L’analisi dei consumi e le attuali sfide per la sociologia economica Letture di approfondimento
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B. Organizzazione dei mercati 26 I mercati finanziari come arene sociali, di Joselle Dagnes » 247 26.1 La costruzione sociale dei mercati finanziari: un inquadramento » 247 26.2 L’analisi dei mercati finanziari da una prospettiva sociologica » 248 26.3 Reti, credenze, performatività: esempi di ricerca sul sistema finanziario » 251 26.3.1 La dimensione relazionale dei mercati: il contributo di Baker » 251 26.3.2 Tra opportunismo individuale e regolazione istituzionale: il contributo di Abolafia » 253 26.3.3 La performatività delle teorie economiche: il contributo di MacKenzie e Millo » 255 26.4 Temi emergenti: i modelli finanziari alternativi » 256 Letture di approfondimento » 259 27 La finanziarizzazione delle imprese, di Angelo Salento 27.1 Inquadramento empirico 27.1.1 Le due fasi della finanziarizzazione delle imprese 27.1.2 Le modalità dell’accumulazione finanziaria 27.2 Come si spiega la finanziarizzazione delle imprese? 27.3 Tre esempi di ricerche 27.3.1 Gli studi di Neil Fligstein 27.3.2 Le ricerche dell’Università di Manchester 27.3.3 La finanziarizzazione in Italia 27.4 Accumulazione finanziaria, declino, disuguaglianze, opacità dell’azione economica Letture di approfondimento
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28 L’impresa nel mercato mondiale. Le catene globali del valore, di Lidia Greco 28.1 Le catene globali del valore 28.2 Inquadramento empirico 28.3 Le sfide interpretative 28.4 Esempi di ricerche 28.5 Interrogativi emergenti e percorsi di ricerca 28.5.1 Disuguaglianze/esclusioni 28.5.2 Il ruolo del lavoro e l’upgrading sociale 28.5.3 La convergenza dei sistemi istituzionali nel mercato globale 28.6 Mercato mondiale e CGV Letture di approfondimento
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C. Territori e sviluppo 29 Le città come attori dello sviluppo, di Laura Azzolina 29.1 Studiare le città 29.2 Le sfide interpretative 29.3 La ricerca in Italia: due esempi 29.3.1 Le città del Nord 29.3.2 Le città del Sud 29.4 Le problematiche emergenti Letture di approfondimento
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30 Le aree marginali, di Giovanni Carrosio e Giorgio Osti 30.1 Inquadramento empirico 30.2 Le sfide interpretative 30.3 Due esempi di ricerche 30.3.1 La fragilità territoriale nel Nord Italia 30.3.2 La Strategia Nazionale per le Aree Interne 30.4 Le problematiche emergenti Letture di approfondimento
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31 Il dualismo Nord-Sud, di Maurizio Avola 31.1 Inquadramento empirico: i termini del divario 31.2 Le spiegazioni delle origini e della persistenza del dualismo territoriale 31.2.1 L’eredità storica (origini del divario) 31.2.2 Le relazioni economiche funzionali tra aree a diverso grado di sviluppo 31.2.3 Le spiegazioni culturaliste 31.2.4 I fattori politico-istituzionali 31.3 Tre esempi di ricerche
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31.3.1 Arnaldo Bagnasco: «Tre Italie» 31.3.2 Carlo Trigilia: «Sviluppo senza autonomia» 31.3.3 Robert Putnam: «La tradizione civica nelle regioni italiane» 31.4 Le problematiche emergenti: quale futuro per il Mezzogiorno e per la questione meridionale? Letture di approfondimento
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D. Vecchi e nuovi cleavage nel mercato del lavoro 32 Genere e generazioni nel mercato del lavoro, di Sonia Bertolini e Rosy Musumeci 32.1 Inquadramento empirico 32.2 Le sfide interpretative 32.3 Tre esempi di ricerche 32.3.1 L’ingresso nel mercato del lavoro: l’insicurezza lavorativa dei giovani 32.3.2 La permanenza nel mercato del lavoro degli adulti: famiglia e lavoro nella transizione alla genitorialità 32.3.3 L’uscita dal mercato del lavoro: le strategie di pensionamento 32.4 Le problematiche emergenti Letture di approfondimento 33 La stratificazione sociale: occupazioni, origini sociali e istruzione, di Gabriele Ballarino e Nazareno Panichella 33.1 La stratificazione sociale 33.2 Dimensioni e misurazione della stratificazione: la struttura occupazionale 33.3 Lo studio empirico della stratificazione e della mobilità sociale 33.4 Le tavole di mobilità 33.5 La fluidità sociale e gli effetti diretti dell’origine sociale 33.6 Studi di stratificazione: un bilancio e una sfida Letture di approfondimento 34 Migrazioni e mercato del lavoro, di Ivana Fellini 34.1 I nuovi flussi migratori nel quadro europeo 34.2 Le sfide interpretative: penalizzazione etnica e segregazione occupazionale 34.3 Due esempi di ricerche 34.3.1 L’economia sommersa: causa o effetto dell’immigrazione? 34.3.2 Dopo il declassamento occupazionale: recupero o intrappolamento? 34.4 Le problematiche emergenti: l’integrazione nel lungo periodo Letture di approfondimento
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E. Nuovi sistemi di welfare 35 Come cambia il welfare state fra vecchi e nuovi rischi sociali, di Marco Arlotti e Emmanuele Pavolini 35.1 Il welfare state fra società post-industriale, bassa crescita economica e nuovi rischi sociali 35.2 Le interpretazioni dei cambiamenti in atto 35.3 Il cambiamento del welfare state e l’approccio del social investment: alcune ricerche empiriche 35.4 Gli effetti dei cambiamenti in atto fra mutamenti socio-economici e scelte di policy Letture di approfondimento 36 Dentro e oltre il welfare mix, di Rosangela Lodigiani 36.1 Il «diamante» del welfare e l’equilibrio dinamico tra le fonti del benessere sociale 36.2 Le sfide interpretative: capire le ragioni di una nuova «onda lunga» del welfare 36.3 Un campo di ricerca vasto e frammentato 36.3.1 Il laboratorio di ricerca sul secondo welfare 36.3.2 Il welfare occupazionale 36.4 Le problematiche emergenti: regolazione, governance e universalismo Letture di approfondimento 37 Le politiche di contrasto alla povertà nella crisi del capitalismo democratico, di Enrica Morlicchio 37.1 Un tema periferico? 37.2 Le sfide interpretative 37.2.1 Gli obiettivi delle politiche di contrasto alla povertà 37.2.2 Le forme embrionali di tutela dei poveri: l’economia morale 37.2.3 La necessità dell’azione statale 37.2.4 L’area grigia tra politiche del lavoro e politiche contro la povertà 37.2.5 La dialettica tra classi laboriose e classi pericolose 37.3 Tre esempi di ricerche 37.4 Le problematiche emergenti: l’immunizzazione Letture di approfondimento
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F. Forme della rappresentanza 38 La rappresentanza del lavoro, di Roberto Pedersini 38.1 Lavoro e rappresentanza 38.2 Oltre l’individualismo
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Fondamenti di sociologia economica
38.3 Come si misura la rappresentanza? 38.4 Un punto di partenza: il lavoro rappresentato 38.5 Stili di sindacalismo e tipi di sindacato 38.5.1 Gli stili di sindacalismo 38.5.2 I tipi di sindacato 38.5.3 Il sindacalismo confederale 38.6 Accanto al sindacato 38.7 Prospettive e strategie sindacali Letture di approfondimento 39 Lavoro autonomo e forme della rappresentanza, di Paolo Borghi e Elena Sinibaldi 39.1 Rappresentare il lavoro autonomo 39.2 Le sfide della rappresentanza 39.3 Due esempi di ricerche 39.3.1 I professionisti indipendenti (iPros) europei 39.3.2 Le nuove generazioni di professionisti indipendenti milanesi 39.4 Il lavoro autonomo: le problematiche emergenti Letture di approfondimento 40 Rappresentanza del lavoro e relazioni industriali a livello europeo, di Bruno Cattero 40.1 Le relazioni industriali «in Europa» vs «a livello europeo» 40.1.1 Le relazioni industriali in Europa 40.1.2 Evoluzione e realtà delle relazioni industriali a livello europeo 40.2 Le sfide interpretative: «euro-corporativismo» o «neo-volontarismo»? 40.3 Due esempi di ricerche 40.3.1 Il CAE come veicolo di europeizzazione delle relazioni industriali (ricerca qualitativa) 40.3.2 La partecipazione a livello di impresa in Europa (ricerca quantitativa) 40.4 Le problematiche emergenti: tra relazioni industriali e «governance» Letture di approfondimento Gli Autori
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Capitoli online I capitoli 13-22 di questo volume sono pubblicati online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it. Risorse integrative online Questo manuale è accompagnato da un set di risorse integrative disponibili online, a cura di Davide Arcidiacono, che includono per ciascun capitolo: box e/o figure e tabelle (Fig./Tab., .D1, .D2 ecc.) di approfondimento (segnalati nel testo da un’apposita icona 2), bibliografia completa, sitografia, glossario e domande di auto-verifica. Questi materiali sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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Introduzione di Filippo Barbera e Ivana Pais
Si ritiene che il termine «sociologia economica» sia comparso per la prima volta in un testo del 1879 dell’economista inglese William Stanley Jevons; di certo venne ripreso pochi anni dopo dai fondatori della sociologia, che individuarono nell’analisi del nesso economia-società uno snodo di portata epocale. I fenomeni economici furono così al centro dell’interesse della sociologia sin dalla sua fase nascente (18901920): già Karl Marx aveva analizzato il ruolo dell’economia nella società, ma furono Max Weber, émile Durkheim e Georg Simmel a esplicitare le differenze tra l’analisi sociologica dell’economia e quella propria degli economisti (Swedberg 2007). Dal 1920 fino agli anni Settanta, con la diffusione dello struttural-funzionalismo di Talcott Parsons, le strade dell’economia e quelle della sociologia si separarono: la divisione del lavoro derivata dall’impostazione struttural-funzionalista prevedeva che l’economia si occupasse del sottosistema economico, mentre la sociologia economica doveva studiare lo stato degli altri sottosistemi (cultura, politica, comunità sociale) e le relazioni di interscambio tra i diversi sottosistemi (Parsons e Smelser 1956). L’economia si sarebbe dovuta occupare dei fenomeni economici e la sociologia delle precondizioni sociali, politiche e culturali del funzionamento dell’economia e dello scambio di mercato. David Stark (2009) ha etichettato questa divisione del lavoro tra discipline con l’espressione «il patto di Parsons»: l’economia studia il valore, la sociologia si occupa dei valori. Chiusa entro tali confini, la sociologia economica si ritrovò gradualmente marginalizzata, ritagliandosi un proprio ruolo solo nell’ambito della sociologia industriale e della sociologia del lavoro e lasciando agli economisti lo studio dei temi più strettamente economici come mercati, formazione dei prezzi, denaro, innovazione economica. Lo stesso processo di chiusura caratterizzò l’ambito economico: l’economia diventò la scienza della scelta razionale e lasciò alle altre scienze sociali lo studio delle scelte non razionali (Convert e Heilbron 2007). In questa cornice, assumono ancora più rilievo le importanti eccezioni di Joseph Schumpeter e Karl Polanyi. La rinascita della sociologia economica può essere ricondotta simbolicamente a due saggi di Mark Granovetter: «The strenght of weak ties» (1973) ed «Economic action and social structure: The problem of embeddedness» (1985), che segnano la nascita della cosiddetta «nuova sociologia economica» (anche se il termine non compare nei due articoli)1. Con le parole di Granovetter: 1
Alcuni autori (tra cui si segnala Fligstein 2015) rimandano invece al saggio del 1981 di Harrison White «Where do markets come from»; White è stato il maestro di Granovetter.
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XVIII
Fondamenti di sociologia economica
Una delle principali differenze tra la vecchia e la nuova sociologia economica consiste appunto nel fatto che quest’ultima rovescia l’imperialismo economico, offrendo spiegazioni di tipo sociologico di fenomeni chiave dell’economia, come i mercati, i contratti, la moneta, lo scambio e l’attività bancaria (Granovetter 1998, p. 209).
L’idea di radicamento (embeddedness) dell’economia nella società parrebbe richiamare la proposta di Polanyi, ma l’assonanza è solo terminologica e non concettuale. Nella concezione di Granovetter, la prospettiva del radicamento si propone come alternativa sia alla visione ipo-socializzata sia a quella iper-socializzata dell’attore sociale: i fenomeni economici non sono solo regolati da dimensioni istituzionali, come nella proposta di Polanyi, ma dipendono dalla specifica interconnessione tra dimensioni economiche e non economiche, definita dalla struttura relazionale e simbolica dei network in cui, appunto, è «radicato» lo scambio. I mercati devono quindi essere studiati come strutture sociali e l’azione economica è sempre funzione di obiettivi economici e non economici. Dopo più di 30 anni, la sociologia economica è un campo di studi maturo, con un buon numero di programmi di ricerca e strutture organizzative e istituzionali che supportano la creazione e circolazione delle relative idee (Fligstein 2015). Ed è interessante rilevare che i paper più citati in sociologia – e in sociologia economica – restano ancora oggi quelli degli anni Ottanta2; un dato che in parte può essere spiegato con la tendenza più generale delle teorie sociologiche di successo a raggiungere il picco di influenza 30-40 anni dopo la loro formulazione (Chen e Yan 2016). Che rapporto sussiste tra l’economia e la sociologia economica? In generale, la sociologia economica si caratterizza per l’analisi dell’influenza che fattori, meccanismi e dimensioni non economiche (sociali, politiche, culturali) esercitano sulla vita economica (Regini e Ballarino 2007). La sociologia economica condivide quindi con la scienza economica gli oggetti e i problemi di analisi, ma se ne distingue per gli elementi che spiegano tali oggetti e problemi. Mentre gli autori classici collocavano la sociologia economica all’intersezione tra economia e sociologia, che perciò apparteneva a entrambe le discipline, la nuova sociologia economica nasce in esplicita contrapposizione con l’economia e, in particolare, l’economia neoclassica (Swedberg 2004). In cosa consiste, più precisamente, questa differenza? Innanzitutto, l’economia studia l’agire strumentale orientato dai prezzi in contesti di mercato o a questo assimilabili, dove il prezzo sintetizza l’informazione rilevante per le scelte degli attori. I prezzi e gli scambi di mercato costituiscono la ragione alla base dell’efficienza, ovvero dell’allocazione ottimale di risorse scarse tra fini alternativi. L’economia, inoltre, si caratterizza per una rappresentazione semplificata degli attori e dell’azione, nonché dei contesti in cui gli attori agiscono. Innanzitutto, ritiene che gli attori abbiano una chiara percezione dei costi e dei benefici associati alle alternative di scelta. Inoltre, i contesti dell’azione sono spesso rappresentati come ambienti a un basso livello di complessità, dove le relazioni di 2
Si veda l’analisi di James Moody disponibile all’indirizzo: http://kieranhealy.org/files/misc/citedotplot-by-decade-grouped-prod.pdf.
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Introduzione
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potere, le dimensioni simbolico-culturali e le relazioni sociali non svolgono un ruolo indipendente e autonomo. La sociologia economica, al contrario, ricerca spiegazioni della vita e dei fenomeni economici mettendo a tema modelli più complessi e ricchi di dimensioni sociologicamente rilevanti: istituzioni, potere, cultura, relazioni sociali. Gli approcci interpretativi più recenti sono orientati al superamento di quelle che Zelizer (2007) ha definito le storie gemelle delle «sfere separate» e dei «mondi ostili». Con sfere separate intende la pretesa di distinguere in arene differenti l’azione economica razionale e le relazioni personali: la prima nella sfera del calcolo e dell’efficienza, le seconde nella sfera dei sentimenti e della solidarietà. La conseguente teoria dei mondi ostili assume che dal contatto tra le due sfere derivi il disordine: la razionalità economica corrompe l’intimità e le relazioni intime ostacolano l’efficienza. Il messaggio principale della sociologia economica, al contrario, è che gli attori sociali perseguono congiuntamente obiettivi economici, accettazione sociale, status e potere, ed è quindi sbagliato separare artificialmente ciò che si presenta in modo unitario dal punto di vista empirico. Le diverse tradizioni di ricerca della sociologia economica si differenziano in merito all’enfasi che attribuiscono al livello più adeguato a cui osservare queste interconnessioni e alle loro conseguenze. In altre parole, se la sociologia economica in generale guarda all’interdipendenza o radicamento tra economia, politica, cultura e società, declina diversi modelli in relazione a specifiche tradizioni di ricerca. Semplificando, possiamo così mettere a fuoco quattro diversi modelli di radicamento che tipicamente caratterizzano la sociologia economica (Zukin e DiMaggio 1990): 1) il radicamento cognitivo. L’azione economica è sempre un’azione socialmente strutturata nelle sue componenti cognitive come le rappresentazioni, i quadri di riferimento e le mappe mentali. Gli attori non sono solo macchine razionali, capaci di calcolare l’azione più conveniente, ma anche agenti cognitivamente complessi, ricchi di «filtri», «cornici» e «lenti» che influenzano la scelta della catene mezzifini, le opportunità soggettive e le aspettative; 2) il radicamento culturale. L’azione economica ha luogo in relazione al ruolo svolto da valori, norme sociali, convinzioni etiche e morali. Elementi, questi, che caratterizzano gli scambi, i campi in cui si svolgono le azioni e i meccanismi di legittimazione dell’azione economica; 3) il radicamento strutturale. Riguarda il ruolo esercitato dalle reti di relazioni sullo scambio e sui fenomeni economici. Gli attori sono tipicamente in situazioni di interdipendenza: non sono «atomi» isolati, ma nodi di reti più o meno complesse che influenzano l’informazione disponibile, la fiducia, la reputazione e l’azione individuale e collettiva; 4) il radicamento politico. È relativo al ruolo svolto dalle asimmetrie di potere e dai suoi correlati sull’azione economica. Le risorse materiali e immateriali non sono egualmente distribuite e, inoltre, le posizioni e strategie degli attori collettivi influenzano il funzionamento dell’economia. Queste forme di radicamento non vanno intese come alternative secche, dal momento che empiricamente si presentano in modo congiunto.
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Fondamenti di sociologia economica
Un tratto importante della disciplina è la sua vocazione empirica: la sociologia economica è innanzitutto interessata a descrivere e spiegare la vita economica. La molteplicità dei nessi economia-politica-cultura-società deve essere affrontata identificando domande di ricerca di media portata, ben definite e in grado di essere tradotte in un adeguato disegno di ricerca. Inoltre, la sociologia economica ha un’importante valenza applicata: non vuole solo offrire spiegazioni e descrizioni scientifiche dei fenomeni di interesse, ma anche identificare possibili leve per intervenire sugli stessi. I meccanismi messi a fuoco dalla sociologia economica, in altre parole, sono tanto più rilevanti quanto più possono essere tradotti in interventi applicati, che mettono «in pratica» il processo identificato nella fase di ricerca. Non è ovviamente compito principale del sociologo economico applicare direttamente i meccanismi: piuttosto, un aspetto qualificante della dimensione applicativa della disciplina è la costante tensione tra domande di ricerca squisitamente scientifiche (che cioè provengono dalla comunità scientifica) e domande di cambiamento o intervento che provengono da attori esterni alla comunità scientifica: per esempio, policy maker, imprese, associazioni, comunità territoriali, organizzazioni degli interessi. A riguardo, è importante ricordare che proprio queste caratteristiche (vocazione empirica teoricamente fondata, tensione tra ricerca scientifica e intervento applicato) costituiscono o dovrebbero costituire importanti elementi della sociologia tout court. Se gli economisti tendono a concentrarsi su modelli matematici teoricamente orientati (clean models), i sociologi spesso si «sporcano le mani» (dirty hands) con ricerche empiricamente orientate e di medio raggio (Davern e Eitzen 1995). è da questa vocazione empirica che nascono anche le diversità nelle sociologie economiche nazionali: la «nuova sociologia economica», come abbiamo visto, è nata e ha raggiunto la massima espressione negli Stati Uniti, ma altre importanti tradizioni di sociologia economica si sono sviluppate in contesti diversi, soprattutto in Europa, con l’etichetta di political economy comparata. In questo manuale viene dato rilievo anche alla tradizione francese, con i lavori di Pierre Bourdieu e di Luc Boltanski. Le peculiarità della sociologia economica italiana sono evidenti nello sviluppo di una specifica agenda di ricerca – come vedremo tra poco –, ma anche nella diversa accoglienza di autori e approcci sviluppati all’estero: dall’analisi attraverso Ngram Viewer delle citazioni in libri dal 1850 al 2008 emerge chiaramente che, tra gli autori presentati in questo manuale, il più citato in italiano è Max Weber – con uno scarto significativo rispetto agli altri autori – mentre in lingua inglese prevalgono le citazioni di Karl Marx (2 Figg. I.D1 e I.D2). Con riferimento all’agenda di ricerca, la sociologia economica italiana si è sviluppata a partire da un’attenzione peculiare a tre ambiti principali, strettamente legati alle specificità del modello italiano di sviluppo, orientati empiricamente più che teoricamente e finalizzati alla costruzione di «modelli locali» (Boudon 1986) più che di leggi universali (Barbera 2002; Bonazzi 1992; Martinelli 1985; Regini 1996): a) lo studio delle specificità della cosiddetta «Terza Italia», quella del Centro/Nord-Est che si caratterizza – a differenza del modello di sviluppo fordista del Nord-Ovest e di assistenzialismo statale del Sud – per l’imprenditorialità diffusa, il dinamismo
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Introduzione
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delle piccole e medie imprese, la coesione delle comunità locali e che ha portato allo sviluppo dei concetti di «distretti industriali» (Bagnasco 1977, 1988; Bagnasco e Trigilia 1984, 1985; Trigilia 1986, 1989, 1997) e di «specializzazione flessibile», ampiamente ripresi nel dibattito internazionale (Piore e Sabel 1984). In qualche modo connesso a questo tema è anche quello del modello italiano di sviluppo, relativo al Sud Italia, con attenzione a un riposizionamento del dibattito dalla cosiddetta «questione meridionale» allo studio delle varietà interne (Mutti 1994) e all’integrazione dell’analisi dei fattori economici con variabili socio-politiche (Trigilia 1992); b) lo studio del capitalismo italiano nell’ambito del dibattito sulle «varietà del capitalismo» (Regini 1997) sviluppato in particolare nell’ambito della rivista Stato e mercato (fondata nel 1981) con interventi sul rapporto tra politica e mercati (Bordogna e Provasi 1984), sulle relazioni industriali (Cella e Treu 1998) e sul processo di «scambio politico» tra sindacati e stato, con i primi che assicurano consenso sociale in cambio di politiche a favore della classe operaia (Lange e Regini 1987; Regini 1995); c) l’analisi del mercato del lavoro (Reyneri 2007), della povertà (Negri e Saraceno 1996) e delle disuguaglianze di classe in rapporto ai meccanismi di regolazione (Barbieri 1997, 1998) ha rappresentato un ulteriore filone di interesse. In generale, come rilevato a suo tempo da Mutti (2002), la sociologia economica italiana è sempre stata ben ancorata a problematiche empiriche, senza indulgere in discussioni e confronti squisitamente teorici. Negli ultimi anni, a questi filoni principali di studio si sono affiancati, e in alcuni casi sostituiti, nuovi oggetti di indagine – di cui la parte III di questo manuale restituisce le principali evidenze. Se, tradizionalmente, la sociologia economica italiana è stata influenzata più dalla tradizione della political economy (a livello macro) che non dalla nuova sociologia economica (micro) (Barbera 2002), la ricostruzione delle tendenze più recenti del dibattito mostra un legame sempre più stretto tra questi due filoni di ricerca (Bagnasco 2016).
La struttura del volume Da queste premesse discende l’impostazione del volume. Negli ultimi anni la sociologia economica ha esplorato nuove tematiche e problemi, ricorrendo in modo sistematico a strumenti metodologici consolidati e innovativi. Per dare conto dell’ampio paesaggio di riferimento per la disciplina, il manuale vuole offrire uno strumento didattico completo, articolato in tre parti: • gli autori di riferimento (parte I); • la cassetta degli attrezzi (parte II); • temi e percorsi di ricerca (parte III). La parte I del manuale si concentra sulla rilevanza degli autori classici e contemporanei per la sociologia economica e per l’analisi delle dinamiche e dei problemi degli assetti sociali e dei fenomeni emergenti.
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Fondamenti di sociologia economica
La parte II (di cui il Cap. 12 è incluso nel manuale cartaceo, mentre gli altri capitoli sono disponibili online nell’area web dedicata al volume sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it) vuole socializzare all’importanza dei metodi e delle tecniche di ricerca empirica, mostrando che la sociologia economica è in grado di rispondere in modo scientifico a domande di ricerca teoricamente rilevanti. A riguardo, il taglio scelto riflette la recente diffusione di strumenti e tecniche di analisi transdisciplinari (dagli esperimenti, ai modelli per agenti, ai big data), affiancati ai modelli causali e a un uso metodologicamente rigoroso degli studi di caso e dell’analisi qualitativa. Infine, la parte III si focalizza su vecchi e nuovi temi della disciplina, con uno sguardo sulle problematiche contemporanee, raggruppate in sei nuclei tematici: i mercati come costruzione sociale; l’organizzazione dei mercati; territori e sviluppo; vecchi e nuovi cleavage nel mercato del lavoro; nuovi sistemi di welfare; la rappresentanza del lavoro. L’orientamento didattico del manuale è rafforzato da un ricco apparato di materiali digitali, curato da Davide Arcidiacono. Nell’area web dedicata al volume sul sito dell’editore (http://mybook.egeaonline.it), oltre ai testi dei capitoli della parte II non inclusi nel manuale cartaceo, sono disponibili per ciascun capitolo: • box e/o figure e tabelle (Fig./Tab., .D1, .D2 ecc.) extra di approfondimento (segnalati con un rimando puntuale nei testi dei vari capitoli attraverso un’apposita icona 2); • un glossario (i termini definiti online sono indicati in grassetto nel testo dei capitoli); • la bibliografia completa (in coda ai capitoli è invece acclusa una selezione di letture di approfondimento); • una sitografia; • un test di auto-verifica. Per i docenti che adotteranno il manuale è inoltre disponibile su richiesta un set di slide da utilizzare in classe. Risorse online Risorse integrative sui contenuti dell’Introduzione, inclusa la bi bliografia completa, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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Parte I Gli autori di riferimento
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1 Max Weber. Il capitalismo di Luigi Burroni, Cecilia Manzo e Gemma Scalise
1.1 Vita e opere Maximilian Carl Emil Weber nasce a Erfurt, in Turingia nel 1864, in una famiglia protestante di origine borghese. Il padre, iscritto al partito nazional‐liberale, è membro della Camera prussiana e deputato del Reichstag. La famiglia frequenta ambienti intellettuali e Maximilian fin da giovane ha importanti stimoli culturali grazie al contatto con politici, accademici e figure di spicco della cultura tedesca del tempo, che influenzano la sua vocazione di studioso. Segue studi di diritto, storia ed economia politica tra Heidelberg e Göttingen: la sua tesi, Storia delle società commerciali nel Medioevo (1889), e il suo lavoro di abilitazione, Storia agraria romana (1891), portano a inserirlo nella tradizione storicista tedesca. Insegna Diritto ed Economia Politica a Friburgo (1895) e a Heidelberg (1896). È uno dei fondatori, nel 1904, della rivista Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik (Archivi di scienze sociali e di scienze politiche), insieme a Sombart e Jaffé – dove pubblica la prima versione del suo celebre L’etica protestante e lo spirito del capitalismo – e partecipa anche, nel 1910, alla fondazione della Società tedesca di sociologia. Oltre alla sua intensa attività di ricerca e di scrittura, si impegna anche nell’attività politica, opponendosi al regno del Kaiser Guglielmo II – nonostante la sua forte convinzione riguardo all’importanza dello stato-nazione – e schierandosi contro un nazionalismo aggressivo e l’antisemitismo. Dopo la sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, diviene membro della delegazione tedesca ai negoziati che portano al trattato di Versailles e collabora alla riorganizzazione dello stato tedesco dopo il crollo dell’Impero, partecipando all’elaborazione della Costituzione della Repubblica di Weimar. Nello stesso periodo gli viene assegnata prima la cattedra di Economia Politica all’Università di Vienna e poi la cattedra di Sociologia all’Università di Monaco, dove tiene la nota conferenza sulla Politica come professione. Muore prematuramente nel 1920 a Monaco, a seguito di complicazioni polmonari, senza completare una tra le sue opere più famose, Economia e società (Swedberg 1991). Weber è ancora oggi uno dei maggiori esponenti della cultura tedesca e uno scienziato sociale a tutto tondo, autore di opere fondamentali di carattere storico, filosofico, economico e giuridico, ma è soprattutto considerato uno dei padri fondatori della sociologia. Nei suoi lavori si ritrovano, infatti, i presupposti fondamentali della disciplina – il postulato dell’assenza dei giudizi di valore, il concetto di Verstehen, il comprendere, lo strumento analitico del tipo ideale – e la trattazione di temi appartenenti a tutti i campi del sapere sociologico: religioni, forme dello stato e forme
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I – Gli autori di riferimento
di potere, agire economico e professioni, valori e norme condivise ecc. Il pensiero di Weber è dunque fondamentale per lo sviluppo della disciplina nel XX secolo, e tutt’oggi le scienze sociali non possono prescindere dal suo contributo in termini di strumenti analitici e metodologici. Sin dall’inizio del suo percorso di ricerca Weber ha dedicato ampia parte del suo lavoro allo studio del capitalismo moderno. Il suo pensiero è influenzato dalla concezione materialistica della storia di Karl Marx (si veda il Cap. 3), dalla quale però si distacca ridimensionando l’importanza del conflitto di classe nello sviluppo storico e controbilanciando questo fattore con altri di natura culturale, valoriale e istituzionale, che influiscono sulla società allo stesso modo delle condizioni economiche.
1.2 L’etica protestante e lo spirito del capitalismo Il contributo di Weber, e in particolare i suoi studi sulle origini del capitalismo, è stato di fondamentale importanza per lo sviluppo successivo della sociologia economica. La definizione che Weber dà del capitalismo è frutto di un lungo processo di analisi che può essere ricostruito attraverso molti dei suoi scritti. Tale percorso di ricerca ha portato l’autore a formulare una vera e propria tipologia di modelli di capitalismo, che rappresenta le diverse forme organizzate di «impresa» e di orientamento acquisitivo. Secondo Weber, infatti, «vi è capitalismo là dove la copertura del fabbisogno di un gruppo umano – secondo la modalità di una economia acquisitiva – ha luogo tramite impresa, non importa di quale fabbisogno si tratti» (Weber 1923, trad. it. 1993, p. 243). In particolare, Weber individua tre modelli di capitalismo all’interno dei quali sono compresi diversi orientamenti all’azione economica: si tratta del capitalismo politico, del capitalismo tradizionale commerciale e del capitalismo razionale (Swedberg 1998). I primi due tipi di capitalismo sono quelli che Weber colloca già in epoche antiche, e che si trovano in diverse civiltà, mentre il capitalismo razionale è un orientamento «moderno» che si sviluppa nel contesto occidentale. Il primo tipo di capitalismo, quello politico, emerge, secondo la definizione di Weber, quando è la sfera politica ad aprire degli spazi per l’attività economica. È un capitalismo che prende forma attraverso le forze politiche e ha solo indirettamente un carattere economico. In questo caso, dunque, l’opportunità di acquisizione del profitto è detenuta da gruppi o singoli attori politici, o individui orientati ad agire politicamente, nelle mani dei quali è detenuto un potere garantito politicamente. Weber ne individua diversi sottotipi, come per esempio il capitalismo d’avventura, orientato verso l’acquisizione violenta e l’azione predatoria – si pensi al profitto ottenuto attraverso il dominio coloniale –, oppure quello basato su forme di autorità politica. Questo tipo di capitalismo è caratterizzato da una razionalità che non è funzionale rispetto alla regolazione di mercato e può anche essere di ostacolo allo sviluppo economico. Il secondo tipo, il capitalismo commerciale, rappresenta invece la più antica forma di attività economica, commerciale e mercantile. L’accumulazione della ricchezza in questo caso si fonda principalmente sullo scambio; sono elementi costitutivi
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1 Max Weber. Il capitalismo
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di questo tipo di capitalismo i primi metodi di commercio, di forme di pagamento e di prestito, incluse le iniziali attività di credito bancario, e anche forme di usura e di speculazione. Imprese capitalistiche di questo tipo si trovano ovunque, dall’India all’Egitto, in Cina come nell’antica Roma. È un capitalismo di piccola scala che, se nelle epoche antiche rappresentava il principale tipo di orientamento economico, in epoca moderna è, secondo l’autore, meno centrale. Un esempio di questo tipo di capitalismo è quello sviluppatosi all’interno delle comunità ebraiche in Europa, che Weber definisce capitalismo-pariah, basato su attività di tipo finanziario, in particolare prestiti, ma non su attività industriali. Il capitalismo industriale, infatti, rientra nel terzo tipo di capitalismo weberiano, ovvero il capitalismo razionale. Questo orientamento al profitto si fonda sulle attività di produzione, di commercio e sulla finanza tipiche dell’età moderna. L’origine del capitalismo razionale, centrale nel pensiero weberiano, si basa su un preciso insieme di presupposti che sono elencati dallo stesso autore nel capitolo finale della sua Storia economica: 1) l’appropriazione di tutti i mezzi materiali di produzione da parte delle imprese private, ovvero la proprietà privata; 2) la libertà di mercato, ovvero l’«affrancamento» del mercato da «barriere irrazionali» di natura culturale o politica; 3) la tecnica razionale, calcolabile e meccanica, sia nella produzione sia nel commercio; 4) un diritto razionale, ovvero una giustizia e un’amministrazione prevedibili alle quali l’impresa capitalistica possa «affidarsi»; 5) il lavoro libero, «che vi siano cioè persone non solo in grado giuridicamente di vendere in modo libero la loro forza di lavoro sul mercato, ma che siano anche economicamente costrette a farlo» (Weber 1923, trad. it. 1993, p. 245), fattore che rende possibile il calcolo razionale del capitale; 6) la commercializzazione dell’economia, intesa come la possibilità di avere strumenti per distinguere il patrimonio dell’impresa da quello familiare, come titoli e azioni, e che colleghino il risparmio all’investimento, la «speculazione» (approfondita da Weber nel saggio La borsa del 1894). Secondo Weber, le tre forme di capitalismo sopra richiamate possono coesistere, ma allo stesso tempo egli dà al capitalismo razionale un’identità specifica, che lo distingue da altre forme di organizzazione economica – come l’economia domestica e l’auto-consumo – e da altri tipi di capitalismo pre-moderni o non occidentali; tale specificità è fondata sul sistema di mercato e sul «calcolo razionale del capitale come norma». In altre parole, il capitalismo moderno è un capitalismo razionale, ed è proprio su questo tipo di capitalismo che Weber concentra l’analisi delle sue origini. Un’impresa capitalistica razionale è un’impresa con calcolo del capitale, cioè un’impresa acquisitiva, la cui redditività è controllata attraverso calcoli, a mezzo della contabilità moderna e della stesura di un bilancio (Weber 1923, trad. it. 1993, p. 243).
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I – Gli autori di riferimento
Nella ricostruzione delle origini e delle cause che hanno portato all’affermarsi del capitalismo razionale in Occidente, Weber individua due tipi principali di fattori causali: in primo luogo, fattori di natura normativo-culturale, e in modo particolare il ruolo svolto dall’etica protestante; in secondo luogo, fattori di contesto, istituzionali e relativi alla dimensione associativa-relazionale (descritti più approfonditamente nel prossimo paragrafo). Per quanto riguarda il primo ordine di fattori, Weber mostra il legame tra la religione e le radici del capitalismo, evidenziando la capacità del protestantesimo ascetico, e in particolare dell’etica calvinista, di influenzare l’orientamento e l’azione economica del credente. La religione è dunque la chiave interpretativa che spiega lo sviluppo socio-economico: l’esercizio ascetico dell’attività imprenditoriale è infatti un orientamento volto alla ricerca del profitto e del successo economico che è sostenuto e sollecitato sul piano etico-morale, e il suo sviluppo è una conseguenza non intenzionale dell’etica economica alimentata dal protestantesimo, e in particolare dalla sua componente calvinista (Trigilia 1993). Questa mentalità, nata in Europa al tempo della Riforma, assegna un valore etico positivo all’attività economica, definendola come valore morale e distinguendola dal mero desiderio di denaro: si tratta piuttosto di una spinta proattiva e creativa, un atteggiamento responsabile di chi si assume dei rischi per guadagnare e reinvestire il capitale (Burgos 1996). Dio vuole che il Cristiano operi nella società, poiché vuole che la forma sociale della vita sia ordinata secondo i suoi comandamenti ed in modo tale da corrispondere a quello scopo. Il lavoro sociale del calvinista nel mondo è esclusivamente lavoro “in majorem gloria Dei”. Questo carattere ha pertanto anche il lavoro professionale che è a servigio della vita terrena della comunità. […] L’amore per il prossimo, poiché deve esser solo in servigio della gloria di Dio e non delle creature, si manifesta in prima linea nell’adempimento dei doveri professionali imposti dalla lex naturae e prende così il carattere obiettivo ed impersonale di servigio reso all’ordinamento razionale del mondo sociale che ci circonda (Weber 1922b, trad. it. 1965, pp. 185-86).
In L’etica protestante e lo spirito del capitalismo Weber mostra il legame fra sfera religiosa e attività economica attraverso la nozione di Beruf, ovvero il lavoro inteso come luogo per la propria realizzazione, morale e religiosa. Diversamente dal cattolicesimo, che guarda alle attività terrene come potenzialmente pericolose e aspira al loro superamento attraverso l’ascetismo monastico, le chiese protestanti sostengono che l’unico modo di essere graditi a Dio sia adempiere attraverso l’ascesi intra-mondana ai doveri terreni che risultano dalla posizione occupata dall’individuo nella vita, ossia dalla sua professione, che appunto diventa la sua vocazione. Il protestantesimo ascetico conduce dunque a una condotta sobria e metodica che si basa sulla razionalizzazione della vita entro il mondo. Il comportamento rigoroso nel proprio lavoro, inteso come vocazione, si combina con un ulteriore elemento: la condanna, tipica della dottrina calvinista, dell’impulso di accumulo di capitale. Tale accumulo genera infatti uno stile di vita all’insegna del lusso e all’attaccamento ai beni materiali. In altre parole, la ricerca del profitto nello spirito del capitalismo ha una dimensione etica, dato che non è il piacere,
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ma il dovere che orienta e motiva tale ricerca (D’Andrea 2014). Questa restrizione al consumo e all’accumulo volto ad accrescere il patrimonio familiare si traduce nell’impegno a un impiego produttivo del capitale, che viene così reinvestito in attività produttive. La tesi di Weber è incentrata, infine, anche su un altro elemento chiave: la dottrina della predestinazione divina, secondo la quale il destino individuale non può essere modificato, e non è conosciuto dagli uomini. Alcuni, gli «eletti», sono predestinati alla salvezza; gli altri sono destinati invece a essere dannati. Tale dogma influenza la condotta dei credenti, i quali interpretano il successo della loro attività economica come segno di elezione. Una rigorosa condotta economica, quindi, e il successo imprenditoriale, aiutano il credente a rassicurarsi di fronte a tale stato di incertezza, rafforzando la propria convinzione di rientrare nel novero degli eletti. A differenza della dottrina cattolica, infatti, nel calvinismo non sono sviluppate le pratiche «magico-sacramentali» che «mediano» e che aiutano il credente a raggiungere la salvezza, poiché tale dottrina non si fonda sul ciclo peccato-pentimento-perdono che permette all’individuo di modificare la propria condizione. L’assenza di questi elementi spinge l’eletto a sviluppare un orientamento eticamente rigoroso all’azione economica, che si traduce in un obbligo morale a compiere il proprio dovere nel lavoro e nella riuscita negli affari. Il guadagno è considerato come scopo della vita dell’uomo, e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali. Questa inversione del rapporto naturale, che è addirittura priva di senso per il modo di sentire comune, è manifestamente un motivo fondamentale del capitalismo così come è estranea all’uomo non toccato dal suo soffio. Ma essa contiene al tempo stesso una serie di sentimenti, che sono in stretta connessione con talune concezioni religiose (Weber 1922b, trad. it. 1965, pp. 105-106).
Nell’adesione al dogma calvinista, unita all’etica della professione come vocazione, quindi, è possibile riscontrare uno degli elementi centrali che hanno stimolato l’atteggiamento imprenditoriale-capitalistico. L’analisi di questa «affinità» tra la mentalità religiosa creata dalla Riforma protestante e l’attività capitalista porta Weber a comparare le diverse religioni e il loro legame con lo sviluppo economico in particolari momenti storici: una comparazione che permette di evidenziare la tipicità del capitalismo occidentale. Tra le varie religioni, particolare importanza viene data all’induismo e al momento in cui questa dottrina si afferma in India: in questo periodo, secondo l’autore, vi è un intenso sviluppo della manifattura e del commercio sulla base di presupposti simili a quelli che hanno dato vita al capitalismo moderno europeo. Mettendo in luce le diverse tradizioni alla base della pratica induista, però, Weber mostra perché l’induismo non incentiva l’introduzione di innovazione e lo sviluppo socio-economico come avviene invece nel capitalismo occidentale. L’autore si concentra sui principi di reincarnazione e di compensazione – il Karma – e sul legame che questi hanno con il sistema organizzativo delle caste. Nella dottrina induista un individuo determina il suo destino nella prossima vita attraverso il proprio comportamento e le azioni
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che sono compiute nella vita attuale. Un fedele, dunque, può cercare di conquistare la reincarnazione in una casta superiore nella vita successiva, e migliorare così la propria condizione. L’ascesi è qui intesa come «altro mondo»: fuga dagli ingombri del mondo materiale piuttosto che, come nel protestantesimo, proiezione verso il padroneggiamento razionale nel mondo (Giddens 1992). La dottrina induista però promuove il rispetto per la posizione sociale che si è acquisita alla nascita, e l’idea che l’avvicinamento alla divinità si ottenga non attraverso il successo personale in questo mondo, ma attraverso l’obbedienza ai principi della propria casta, che porteranno un «premio» in una successiva incarnazione. Questo tipo di etica non porta, quindi, a quell’atteggiamento che spinge invece il credente calvinista a migliorare la propria posizione attraverso l’attività economica. Infine, anche lo studio della società cinese porta Weber a ipotizzare che, in alcuni periodi storici, si siano sviluppati in Cina dei presupposti simili a quelli che hanno favorito lo sviluppo del capitalismo moderno. Il sistema di credenze del confucianesimo, al contrario dell’induismo e del calvinismo, non incorpora valori ascetici e l’aspirazione dell’individuo è al raggiungimento di un equilibrio con l’esistente ordine cosmico. In tale religione, però, manca l’idea del legame diretto fra azione umana nel mondo terreno e gloria divina: per Weber il confucianesimo, quindi, pur nella sua mondanità, non fornisce agli individui incentivi all’attivismo negli affari paragonabili a quelli che caratterizzano lo spirito del capitalismo di matrice protestante.
1.3 Non solo «L’etica»: i fondamenti istituzionali del capitalismo occidentale L’attenzione posta al ruolo della religione, e in particolare del protestantesimo ascetico, nel dar vita a un nuovo tipo di mentalità e attitudine economica, il capitalismo razionale, non deve portare a sottovalutare il peso che Weber assegna ad altri fattori nello spiegare lo sviluppo capitalistico. «Fattori multipli», infatti, interagiscono e concorrono al processo di origine del capitalismo. Nel pensiero maturo di Weber, in particolare, è possibile notare la crescente importanza dei fattori istituzionali e storici che si aggiungono a quelli culturali; si pensi, per esempio, ai lavori che hanno sottolineato l’importanza del ruolo giocato dalla dimensione associativa e relazionale nello sviluppo capitalistico. Durante un suo viaggio negli Stati Uniti, infatti, Weber osserva la profonda eredità lasciata dalle sette protestanti e la forte rete di «libere associazioni» che caratterizza la democrazia americana. Nei saggi di sociologia religiosa l’autore esplicita quanto la particolare forma organizzativa della setta contribuisca a generare lo spirito del capitalismo moderno, integrandosi con l’etica promossa dal credo protestante. Perché le sette sono così importanti, tanto da influenzare lo sviluppo, il successo dell’imprenditorialità, l’orientamento all’azione e all’innovazione in campo economico? Weber descrive la setta come un’associazione volontaria, in cui si riconosce la libertà di coscienza ma si segue una severa disciplina etica, e la distingue dalla chiesa, istituzione dedita all’amministrazione della grazia, all’interno della quale
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il fedele nasce e cui appartiene da sempre. I meccanismi di funzionamento della setta, e la rete di relazioni personali su cui si fonda, vanno a promuovere, secondo l’autore, la buona riuscita in campo economico e professionale. Le sette infatti sono delle comunità chiuse, cui si accede per cooptazione, in cui i membri si conoscono personalmente e coloro che non sono ritenuti «degni» sono lasciati fuori. All’interno di esse circolano informazioni e si creano reti fiduciarie e solidali che rafforzano gli scambi economici. La setta, inoltre, essendo un’organizzazione dalla forte disciplina morale e di controllo dell’altro, fa sì che i membri per potervi accedere debbano tenere un comportamento coerente e conforme ai suoi principi di condotta. Ai membri della setta sono riconosciute quindi qualità etiche, una «condotta della vita razionale» e rispettabilità sociale. Questi fattori, insieme alle risorse cognitive e fiduciarie, hanno una ricaduta dal punto di vista economico, favorendo gli affari: per esempio, sostenendo le transazioni economiche basate su fiducia e status, facilitando la possibilità di ottenere prestiti e di ricevere credito di fronte all’introduzione di sistemi innovativi (Trigilia 1998). Allo stesso tempo, tale logica associativa ha contribuito al consolidarsi dei valori morali che hanno promosso lo spirito del capitalismo moderno in occidente. A questi fattori associativi e relazionali si uniscono, nella spiegazione dello sviluppo del capitalismo, fattori istituzionali e storici, esplicitati da Weber soprattutto in due opere, Economia e società, pubblicata nel 1910, e l’opera postuma Storia economica, dove è riportato il contenuto di un corso tenuto dall’autore all’Università di Monaco nel 1919-20, poco prima della sua morte. Attraverso l’approccio storico e della spiegazione causale, Weber ricostruisce in questi lavori l’affermarsi del capitalismo, descritto come un processo complesso e graduale, una traiettoria di sviluppo che si estende su più secoli e che scaturisce appunto da un insieme di concause di natura culturale e istituzionale (Swedberg 1998; Trigilia 1993, 2015). Questa analisi, che guarda a una pluralità di condizioni causali, emerge attraverso lo studio delle trasformazioni avvenute all’inizio dell’Ottocento, la cui origine è riscontrata però dall’autore in un lungo percorso che comincia nel Medioevo. In particolare, tre precondizioni storico-istituzionali sono considerate determinanti in questo processo: l’affermarsi della città occidentale e della borghesia urbana; il processo di demagificazione e il crescente predominio della scienza empirica moderna e della tecnologia; l’emergere dello stato razionale e la creazione di istituzioni amministrative e giuridiche. La «catena causale» tra questi fattori è spiegata dall’autore attraverso un’analisi comparata con altre realtà, in particolare quella cinese e quella indiana. Nei primi tre capitoli di Storia economica, infatti, Weber ricompone, per differenza, quelle condizioni «specificatamente occidentali» che hanno reso possibile lo sviluppo del capitalismo industriale in Occidente, fattori che l’autore ha più volte modificato e sviluppato nel tempo, fin dalle sue prime opere (Collins 1980). L’importanza della città occidentale e dell’ambiente sociale urbano erano emersi, in effetti, già nelle prime ricerche che Weber aveva condotto sulla società tedesca di inizio Ottocento, in cui sottolineava le differenze interne in termini di sviluppo economico tra le città occidentali e orientali: il forte tessuto urbano delle prime – dove l’abolizione degli obblighi feudali avrebbe rafforzato il ruolo di alcuni gruppi sociali,
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dai contadini ai mercanti agli artigiani – avrebbe favorito l’emergere di stimoli per il mercato e, soprattutto, per l’imprenditorialità (Bendix 1960; Trigilia 1993). La città è un “luogo di mercato”, cioè possiede un mercato locale come centro economico dell’insediamento, nel quale – in seguito alla specializzazione della produzione economica – anche la popolazione non cittadina copre il proprio fabbisogno di prodotti industriali o di articoli commerciali o di entrambi, e nel quale anche gli stessi cittadini, naturalmente, scambiano tra loro i prodotti speciali e quelli necessari al fabbisogno di consumo delle loro economie (Weber 1922a, trad. it. 1968, pp. 531-32).
Il tipo di città a cui l’autore fa riferimento è quella che si sviluppa all’epoca dei comuni medievali, ma trae origine dalla polis greca: luoghi di commercio e di produzione, entità politicamente indipendenti dal signore o dal principe che detiene il potere, dove si instaurano pratiche di cooperazione economica non tradizionali, ovvero non fondate su legami di parentela o su gerarchie religiose, ma tra singoli individui, i quali hanno lo status giuridico di liberi cittadini che garantisce loro pari diritti legali e formali (Collins 1980). È in questo contesto che il commercio e la produzione si espandono, l’imprenditore acquisisce i mezzi di produzione, la forza lavoro si offre sul mercato e si creano nuove opportunità economiche. Nelle città crescono gli scambi e si sviluppano nuovi strumenti commerciali e forme di credito per le imprese. Chi sono i protagonisti delle trasformazioni sociali che avvengono in queste realtà? Weber sottolinea il ruolo svolto dalla borghesia urbana, impegnata nelle attività commerciali, artigiane e poi imprenditoriali. La borghesia cittadina gioca una funzione chiave nel processo di modernizzazione dell’economia e della società, accelerando il passaggio da un mondo feudale-tradizionale a una società industriale. Essa infatti sfida le regole e l’organizzazione della signoria fondiaria, del tradizionalismo – fondato su interessi particolaristici e credenze magiche – e della produzione orientata all’economia domestica e all’auto-consumo. Un altro elemento caratterizzante la vita economica della città medievale, centrale nella lettura di Weber sullo sviluppo del capitalismo, è la dissoluzione delle corporazioni medievali e il venir meno del loro potere regolativo. Lo «spirito della corporazione», sostiene Weber, mirava a garantire pari opportunità ai membri della collettività, regolando i rapporti commerciali e produttivi. Con la trasformazione da artigiano e mercante a imprenditore, invece, ha luogo il processo di appropriazione dei mezzi di produzione, di stimolo alla concorrenza e di propensione al rischio che contribuiranno all’origine del capitalismo moderno. Vi è all’interno della corporazione un’ascesa di artigiani allo stato di mercanti e mercanti-imprenditori. Maestri che mostrano disposizioni economiche acquistano la materia prima, affidano il lavoro ad altri compagni della corporazione, a cui fanno seguire il processo di produzione, e vendono il prodotto finito. Ciò è in contrasto con l’organizzazione della corporazione (Weber 1923, trad. it. 1993, p. 143).
Il secondo processo storico che contribuisce a rendere il capitalismo moderno possibile in Occidente è collegato al processo di demagificazione del mondo, ovvero
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lo sviluppo della razionalità in ogni ambito della vita sociale. Tale processo rimuove i vincoli alla condotta di vita legati alla «mentalità magica» e alle visioni del mondo fondate sulla sacralità e la tradizione, facendo spazio sempre più a spiegazioni basate sulla logica scientifica e l’empirismo. Il razionalismo che caratterizza la civiltà occidentale, e che ha origine nelle religioni monoteistiche – in particolare nelle tradizioni ebraico-cristiana e greco-romana – progredisce a tal punto da investire i sistemi di valore, le strutture familiari, la scienza, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici. Infine, un ruolo di primaria importanza è svolto dalla scienza empirica moderna, che sarà poi coniugata con la tecnica razionale e applicata alle innovazioni nel processo produttivo. La scienza permetterà infatti, nel tempo, lo sviluppo di forme innovative di produzione, la meccanizzazione e l’utilizzo di nuove materie prime. Dobbiamo ancora menzionare il prodotto più importante e cruciale per il destino dell’Occidente: il carbone. Già nel corso del Medioevo accresce lentamente la sua importanza […]. Come impresa tipica, la lavorazione del ferro con carbon fossile (anziché lignite) è propria solo del XVI secolo. Cominciò allora la fatale alleanza tra ferro e carbone. Fu necessario un più ampio scavo dei pozzi minerari. E con ciò emerse un nuovo problema per lo sviluppo tecnico: com’è possibile sollevare l’acqua con il fuoco? L’idea della moderna macchina a vapore ebbe origine dalla costruzione di gallerie nella miniera (Weber 1923, trad. it. 1993, pp. 176-77).
Weber descrive così nei suoi lavori il progresso scientifico e le innovazioni di fine Ottocento applicate alle macchine e agli apparati produttivi industriali. Scienza e tecnica hanno fornito macchinari sempre più veloci e potenti, permettendo la standardizzazione dei prodotti e dei mezzi di produzione, gettando le basi per quella che sarà la produzione di massa. La razionalizzazione è dunque il presupposto per il coordinamento e la pianificazione su larga scala dell’attività economica. Come è noto però, il pensiero weberiano giungerà a rileggere il processo di razionalizzazione della modernità – tema che attraversa diverse opere dell’autore, da Sociologia delle religioni, a Economia e società e La scienza come professione – come un crescente predominio delle logiche di efficienza, produttività e burocrazia, che porteranno alla «fuga dello spirito»: una scissione tra razionalità e valori, tra cultura e natura, che sarà il germe della decadenza occidentale. Infine, il terzo fattore di natura istituzionale e politica, che garantisce al capitalismo occidentale di affermarsi, è la presenza di uno stato razionale moderno, frutto anch’esso del processo di razionalizzazione e allo stesso tempo elemento che contribuisce alla demagificazione. Sviluppatosi dopo l’epoca dei comuni, in seguito alla rivendicazione del monopolio dell’uso legittimo della forza fisica all’interno di un territorio, all’«appropriazione» dei mezzi dell’amministrazione, delle finanze e dei beni utilizzabili in senso politico in un unico vertice, lo stato weberiano è quello «stato di diritto» che offre le condizioni per l’espansione di un capitalismo organizzato e politicamente regolato. Questo prende forma e si struttura su una serie di fattori: un diritto razionale, fondato su principi calcolabili e prevedibili, che sia una garanzia giuridica per i soggetti coinvolti nell’attività economica e nel processo di liberazione della forza lavoro; l’organizzazione razionale, l’unificazione e la centralizzazione politico-
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amministrativa, sostenuta da un esercizio del potere politico anch’esso calcolabile e prevedibile, non arbitrario, a tutela dei soggetti che interagiscono con la macchina amministrativa; un’azione politica razionale, contrapposta all’azione politica rituale legata alle credenze religiose; infine, un sistema monetario nazionale, che promuove lo sviluppo del credito e del mercantilismo nazionale. Weber sottolinea il ruolo giocato in questo processo dalla burocrazia, forma particolarmente pervasiva del processo di razionalizzazione, tipica della modernità (Collins 1980). La burocrazia è un sistema di norme e regolamenti fondato su una «razionalità rispetto allo scopo» che porta a una trasformazione radicale dei rapporti nelle diverse sfere della vita – politica, amministrativa e della produzione – sostituendo quei rapporti sociali basati su pratiche tradizionali, personali o spontanee, con procedure sistematiche, precise e calcolate razionalmente. Questo sistema, impersonale e standardizzato, permette di applicare le regole in modo imparziale e stabile, elemento centrale nello sviluppo delle attività imprenditoriali. Come vedremo, le considerazioni di Weber sul ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo offrono spunti di riflessione interessanti ed estremamente attuali, di fronte ai flussi internazionali di capitale, ai nuovi livelli di regolazione economica e politica sovranazionali e al riemergere di tendenze protezioniste: Lo stato, nel senso di stato razionale, è esistito soltanto in Occidente. La lotta costante, pacifica e armata, tra stati nazionali concorrenti per la conquista della potenza, ha offerto le maggiori possibilità al capitalismo occidentale dell’età moderna. Il singolo stato doveva concorrere per il capitale, libero di spostarsi da un paese all’altro, che gli prescriveva le condizioni alle quali era disposto ad aiutarlo a conquistare la potenza. Dalla necessaria alleanza dello stato nazionale con il capitalismo è sorto il ceto nazionale borghese, cioè la borghesia nel senso moderno della parola. Lo stato nazionale chiuso garantisce dunque al capitalismo le possibilità di sussistenza; finché esso non farà posto a uno stato mondiale, anche il capitalismo persisterà (Weber 1922a, trad. it. 1968, p. 670).
Il quadro descritto da Weber mostra la combinazione di processi di lungo periodo, che attraversano più secoli e che vanno a creare il contesto e le precondizioni per la genesi del capitalismo moderno, razionale e industriale. Un insieme di fattori istituzionali che, congiuntamente alla componente culturale e religiosa, descrivono un modello idealtipico di capitalismo, nel quale fattori storici, politici e sociali si combinano, dando forma alla specifica natura del capitalismo occidentale.
1.4 L’attualità di Weber L’influenza di Max Weber sulle scienze sociali contemporanee è enorme e anche limitando l’ambito di analisi a un tema specifico – pur sempre ampio – come quello dello studio del capitalismo, è davvero difficile sintetizzarne l’eredità e l’attualità. Si può però provare a riassumere l’impatto del suo lavoro sui diversi filoni di studio del capitalismo contemporaneo facendo riferimento a due aspetti principali: il primo a
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carattere metodologico e il secondo, invece, più direttamente legato alle variabili e ai processi esplicativi che Weber ha preso in considerazione. Per quanto riguarda il primo aspetto, ovvero l’attualità di Weber dal punto di vista metodologico, numerose ricerche hanno utilizzato una serie di strumenti a cui Weber ha fatto ampio ricorso nei suoi lavori. Innanzitutto, sin dai tempi di Shonfield (1965), gli studi sul capitalismo contemporaneo hanno adottato un approccio comparato e, come abbiamo visto, proprio Weber ha utilizzato in modo estensivo l’analisi comparata (si veda il Cap. 19) per individuare e spiegare i fattori che hanno reso l’Occidente il luogo privilegiato nel quale il capitalismo razionale potesse affermarsi: fattori culturali, religiosi e istituzionali hanno fatto sì che qui, piuttosto che altrove, vi fossero delle condizioni favorevoli allo sviluppo di questo modello di regolazione dell’economia e della società. Anche oggi la prospettiva comparata rimane uno strumento privilegiato per mettere meglio a fuoco le caratteristiche, le traiettorie e le specificità del capitalismo: il confronto tra paesi aiuta, infatti, a individuarne meglio le peculiarità, i punti di forza e di debolezza, oltre che le sfide che dovranno affrontare (Amable 2003) (2 Box 1.1). Un secondo contributo metodologico importante di Weber, ampiamente utilizzato nell’analisi comparata, è dato dall’introduzione dello strumento concettuale dell’idealtipo, che consente di astrarre determinate caratteristiche di un fenomeno dal suo specifico contesto storico riassumendole in un costrutto teorico, appunto un tipo ideale. Tale strumento continua a essere ampiamente utilizzato, sia dal punto di vista teorico sia empiricamente, per poter inquadrare le principali caratteristiche del capitalismo contemporaneo e per comparare, rispetto a un idealtipo, le specificità delle diverse varianti di capitalismo; si pensi, per esempio, al confronto tra due modelli – o idealtipi – di capitalismo, ovvero le economie liberali e coordinate di mercato, che tanto ha influenzato e ispirato la recente letteratura sullo sviluppo del capitalismo (Hall e Sokice 2001). Un altro elemento è dato dall’importanza che Weber attribuiva alle spiegazioni basate sull’azione congiunta di una pluralità di variabili, che lo portava a sostenere come sia molto difficile individuare processi causali semplici e unidirezionali. Da questo punto di vista, il lavoro di Weber, basato sull’individuazione di una serie di «pacchetti causali», ha direttamente influenzato l’approccio metodologico della political economy contemporanea, la quale sottolinea l’importanza dell’interazione tra una serie di fattori che vanno a favorire o ostacolare determinati equilibri e trasformazioni dei capitalismi contemporanei; si pensi per esempio agli studi sulla disuguaglianza dei redditi che mostrano come questa sia influenzata da una pluralità di fattori che determinano la redistribuzione, tra cui la struttura della contrattazione collettiva, le politiche fiscali, l’assetto del sistema di welfare (Piketty 2014). Un quarto elemento è rappresentato dal ruolo giocato dalla storia e dalla necessità di studiare il capitalismo – o meglio i diversi tipi di capitalismo – radicandoli nel loro passato, con la consapevolezza che la loro storia non determina il futuro, ma senz’altro lo influenza. In questo caso, il contributo di Weber ha avuto un impatto rilevante sulla cosiddetta comparative historical analysis, che sottolinea come per ben
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comprendere gli assetti odierni dei modelli di capitalismo sia indispensabile guardare alle caratteristiche degli assetti istituzionali del loro passato: questi, infatti, costituiscono un insieme di vincoli e opportunità per le strategie e le azioni future che possono essere messe in campo dagli attori individuali e collettivi. Molti studi hanno evidenziato come gli assetti delle relazioni industriali e dei rapporti tra «capitale e lavoro» nel capitalismo contemporaneo trovino le loro radici nelle tradizioni storiche degli stati nazionali (Crouch 2013). Il contributo di Weber allo studio del capitalismo contemporaneo non è però soltanto di tipo metodologico, ma è anche direttamente collegato a quanto la sua analisi ha fatto emergere in termini di variabili dipendenti e indipendenti collegate allo sviluppo del capitalismo. Per esempio, a livello micro, l’aver sottolineato come la razionalità del soggetto, anche quella più orientata al fine, sia sempre radicata in un sistema di valori e in una cultura condivisa, ha dato un importante contributo per identificare la componente sociale e relazionale dell’agire dell’homo oeconomicus: razionalità e comportamenti, anche quelli più tipici dell’azione economica, sono sempre parte di un contesto sociale fatto di preferenze, visioni condivise, interpretazioni e interessi che influenzano in modo determinante le scelte degli attori. L’uomo economico come attore sociale: una visione che da sempre costituisce il fondamento micro dell’analisi della sociologia economica (Granovetter 1985; si veda il Cap. 9). A livello più macro, abbiamo visto come il lavoro di Weber abbia enfatizzato il peso della dimensione culturale e il ruolo dei valori nell’influenzare gli assetti e le traiettorie del capitalismo: l’affermarsi di una determinata etica religiosa favorisce l’orientamento acquisitivo tipico del capitalismo razionale, basato sul reinvestimento dei profitti, sull’organizzazione razionale dell’impresa e sul lavoro libero. Tale dimensione culturale-normativa continua a essere analizzata a fondo anche oggi. Si pensi, per esempio, agli studi sulla cultura socialdemocratica e sulla lunga tradizione storica di una concezione di solidarietà «di cittadinanza» che caratterizza il capitalismo scandinavo e alla loro influenza nei confronti di un welfare di tipo universalistico; o ancora, alle ricerche che hanno sottolineato l’importanza dell’etica del lavoro industriale e la forte legittimazione sociale dell’imprenditorialità di piccola impresa nel promuovere l’emergere e il consolidamento delle aree distrettuali in alcune regioni italiane ed europee. Un ulteriore esempio è dato dagli studi che hanno definito il contesto culturale in cui era radicato il capitalismo giapponese durante gli anni Ottanta e le sue pratiche di organizzazione della produzione incentrate sulla «qualità totale» e sulla «produzione snella». Lavori, questi, che insieme a molti altri si sono mossi proprio sulla scia del contributo weberiano, mostrando come sia necessario «prendere la cultura sul serio» (DiMaggio 1994). Allo stesso modo, l’enfasi che abbiamo visto dedicare da Weber ad alcuni fattori istituzionali a sostegno dello sviluppo economico è stata ampiamente ripresa da molti filoni di studio, tra tutti il neo-istituzionalismo sociologico. È questo il caso dello studio sulle Sette, sul ruolo «economico» che hanno queste associazioni non economiche e su come la loro struttura organizzativa e i meccanismi di selezione degli aderenti da un lato influenzano i comportamenti e dall’altro offrono risorse di
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tipo relazionale. Pur non usando esplicitamente il termine «capitale sociale», così ampiamente utilizzato dalla sociologia economica contemporanea, Weber mostra in modo molto efficace come tale dimensione relazionale sia un elemento costitutivo del capitalismo, aprendo così un filone di ricerca che ha portato negli ultimi decenni a importanti risultati (Trigilia 1998). Anche i lavori sul ruolo dello stato e della macchina amministrativo-burocratica hanno avuto un impatto particolarmente rilevante fino agli anni più recenti. Lo stato e le sue modalità di azione, infatti, sono al centro di un ampio dibattito scientifico sul capitalismo contemporaneo che ha mostrato come le diverse logiche di intervento dell’attore pubblico nel sostegno allo sviluppo e all’innovazione, nelle politiche del lavoro, nell’istruzione e nelle politiche sociali, rafforzino la presenza di percorsi e rendimenti differenziati tra i diversi modelli di capitalismo. E oltre alla quantità di investimenti nelle arene sopra richiamate, i diversi modelli si differenziano anche per una differente capacità di mettere in atto politiche efficaci. Da questo punto di vista, la distinzione che Weber ha effettuato tra stato razionale e amministrazione burocratica, e quindi anche tra volontà politica di mettere in campo determinate misure e risorse e capacità amministrativa di finalizzarle, è ancora molto rilevante (Block 2008; Mazzucato 2013). Infine, seppure in una forma molto diversa da quella sottolineata da Weber, la città come luogo privilegiato del capitalismo continua ad attirare l’attenzione di un nutrito gruppo di scienziati sociali, non soltanto sociologi. Il rapporto tra città e sviluppo del capitalismo viene studiato nei paesi che stanno attraversando percorsi di modernizzazione accelerata, come per esempio India e Cina, dove sia le attività industriali sia quelle a maggiore presenza di innovazione sono concentrate in realtà urbane e metropolitane, ma anche nei paesi del capitalismo maturo, dove le produzioni legate alla creazione di conoscenza si concentrano spesso nelle città (Le Galès 2002; Scott 2012). Questi che abbiamo richiamato sono solo alcuni spunti che mostrano l’enorme influenza del pensiero di Max Weber sull’agenda di ricerca dedicata all’analisi delle caratteristiche e traiettorie del capitalismo contemporaneo. In particolare, il filone della comparative political economy e gli studi comparati sui modelli di capitalismo hanno da subito utilizzato gli strumenti concettuali di Weber, così come la comparative historical analysis e il neo-istituzionalismo sociologico, evidenziando come i pilastri della sociologia di Weber siano degli indispensabili strumenti della cassetta degli attrezzi non solo dei sociologi economici, ma anche degli scienziati sociali più in generale.
Letture di approfondimento Bendix R. (1960). Max Weber: An Intellectual Portrait, New York, Doubleday (trad. it. Max Weber. Un ritratto intellettuale, trad. di P. Giglioli, Bologna, Zanichelli, 1984). Giddens A. (1992). «Introduction», in M. Weber, The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism, London-New York, Routledge.
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I – Gli autori di riferimento
Swedberg R. (1998). Max Weber and the Idea of Economic Sociology, Princeton (NJ), Prince ton University Press. Trigilia C. (1993). «La teoria del capitalismo di Max Weber», in M. Weber, Storia economica, Roma, Donzelli (ed. or. 1923).
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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2 Émile Durkheim. La divisione del lavoro sociale: contratti e rituali di Filippo Barbera e Nicola Negri *
2.1 Fondare la società, costruire la sociologia David Émile Durkheim nasce nel 1858 a épinal, nella regione francese dell’AlsaziaLorena. Figlio del rabbino del luogo, nell’adolescenza affianca alla carriera scolastica che lo porta al baccalauréat in lettere (1874) e scienze (1875) lo studio dell’ebraico, del vecchio Testamento e del Talmud in vista di diventare lui stesso rabbino. Influenzato da un’insegnante segue poi un avvicinamento al cattolicesimo. Nel 1879, Durkheim viene ammesso, dopo un paio di fallimenti, all’École Normale Supérieure di Parigi. Il trasferimento a Parigi per sostenere l’esame di ammissione alla Normale e poi frequentarla corrisponde all’interruzione del rapporto personale con la religiosità che nondimeno resterà centrale come oggetto di studio. Siamo negli anni della Terza Repubblica francese, nata in seguito alla sconfitta di Sedan (1° settembre 1870) nella guerra franco-prussiana. In questo clima, nazionalismo, patriottismo e afflato verso una terza via alternativa al vecchio ordine monarchico e all’insorgente movimento della Comune rappresentano per Durkheim non solo o non tanto un problema politico, quanto il contesto in cui prende forma il suo programma di ricerca volto a fondare una vera e propria scienza laica della morale come fatto sociale: una scienza autonoma distinta dalle scienze naturali e dalla psicologia ma non meno rigorosa. Questo orientamento teorico di Durkheim ha radici profonde nelle figure di importanti pensatori, incontrati negli anni della formazione all’École Normale. Il primo è lo storico francese Numa Denis Fustel de Coulanges (1830-1889), autore di uno studio sui fondamenti religiosi dell’antica Roma, La città antica. Nell’opera di Fustel de Coulanges si trovano in nuce numerosi temi poi ripresi da Durkheim: l’importanza del metodo storico-comparativo, la rilevanza dei gruppi primari, il rifiuto di spiegazioni individualistiche dell’ordine sociale, le istituzioni come conseguenze delle pratiche religiose. Una seconda fonte di influenza è Émile Boutroux (1845-1921) per le sue riflessioni sul rapporto religione/società nonché per la tesi, sostenuta da Boutroux in accordo con Auguste Comte (1798-1857), che ogni scienza studia un distinto livello di realtà governato da principi specifici. La terza figura è il filosofo Charles Renouvier (1815-1903), un intellettuale che non divenne mai professore universitario, noto per importanti opere sull’analisi scientifica della morale, sul ruolo dei corpi intermedi e sul primato della giustizia sociale sull’utilità individuale. Sempre durante *
I due autori hanno discusso e definito insieme l’impostazione generale e i singoli passaggi di questo contributo. Ai fini della valutazione si specifica che Filippo Barbera ha scritto i Parr. 2.2 e 2.3 mentre i Parr. 2.1 e 2.4 sono stati scritti a quattro mani.
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gli studi alla Normale, Durkheim, in parte instradato dallo stesso Boutroux, studia a fondo le opere di Auguste Comte, apprezzandone il tentativo di fondare una scienza autonoma della società. Molto approfondita è anche la lettura di Herbert Spencer (1820-1903), mentre è più controverso se Durkheim abbia preso diretta visione delle opere di Karl Marx (1818-1883; si veda il Cap. 3) al quale pure non risparmia radicali critiche di metodo e di sostanza (Borlandi 1984). Conseguita l’abilitazione nel 1882 Durkheim, dopo un periodo di insegnamento nei licei, soggiorna nel 1885-86 in Germania. Qui matura una profonda ammirazione per il lavoro di Wilhelm Wundt (1832-1920), psicologo e filosofo tedesco, promotore della psicologia sperimentale, interessato all’analisi delle «leggi morali» come fatti sociali variabili nello spazio e nel tempo. Nel 1887 Durkheim viene chiamato all’Università di Bordeaux per insegnare Pedagogia e Scienze Sociali, iniziando così la sua carriera accademica. Nel 1893 pubblica la sua tesi di dottorato La divisione del lavoro sociale. In questa opera riecheggia l’influenza dei maestri filosofi francesi del periodo della Normale e sono fitti i riferimenti a Fustel de Coulanges e a Wundt. Filo rosso dell’opera è però la critica di Comte alle spiegazioni che identificano il motivo del mutamento sociale nella maggiore «felicità» che gli individui conseguirebbero attraverso esso. Con riferimento a Comte, Durkheim critica poi le tesi di Spencer – nonché degli economisti utilitaristi – secondo cui la costruzione del nuovo ordine sociale basato sulla divisione del lavoro emergerebbe gradualmente attraverso accordi contrattuali fra individui motivati da interessi egoistici. In sintesi, in La divisione del lavoro sociale si mostra, versus Spencer e gli utilitaristi, che lo scambio economico e la divisione del lavoro sono conseguenza di dimensioni e processi di natura collettiva che precedono gli interessi degli individui e ne condizionano le coscienze. Nel 1895 Durkheim pubblica Le regole del metodo sociologico e due anni dopo Il suicidio: studi di sociologia. Nel 1898 fonda la prima rivista francese di sociologia, L’Année Sociologique. Sia Le regole sia Il suicidio procedono lungo la via tracciata con lo studio sulla divisione del lavoro sociale. Oggetto di Le regole è infatti il metodo per studiare la società come costellazione di forze morali. In Il suicidio si approda alla rilevanza delle interazioni nell’ambito delle corporazioni professionali per generare la solidarietà sociale (2 Box 2.1). Questa tesi – poi richiamata nel 1902 nell’introduzione alla seconda edizione di La divisione del lavoro sociale – contiene in nuce gli elementi che fanno di Durkheim il capostipite delle spiegazioni dell’ordine morale basate sull’analisi dei processi rituali. Nel 1902 Durkheim lascia Bordeaux per trasferirsi alla Sorbona, prima come chargé de cours e poi, a partire dal 1906, come titolare della cattedra di Scienza dell’Educazione. Fra i contributi del secondo periodo parigino spicca lo studio su Le forme elementari della vita religiosa del 1912. è in Le forme che Durkheim individua nelle interazioni rituali l’origine della forza esercitata dai valori morali. L’idea è che alle interazioni rituali corrispondano stati di «effervescenza collettiva» da cui emergono valori condivisi e connesso senso di appartenenza a un gruppo. Sono i riti – quelli religiosi come quelli civili – a generare le categorie morali (come la distinzione sacro-profano) e cognitive (come quelle di spazio e tempo) che rendono
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possibile l’ordine sociale. L’errore di Spencer e degli utilitaristi è proprio la sottovalutazione dei processi rituali. Questo è anche l’aspetto trascurato da Gabriel Tarde (1843-1904) quando, nel suo celebre lavoro Le leggi dell’imitazione (1890), peraltro molto citato in La divisione del lavoro sociale, fonda i fenomeni sociali sui processi imitativi. Per Durkheim, Tarde non considera che gli individui si imitano non per ragioni psicologiche ma perché condividono i medesimi valori e obblighi morali, che affondano le radici negli stati di effervescenza collettiva. Gli individui non sono simili perché si imitano, ma si imitano perché sono simili. Pochi anni dopo l’uscita di Le forme, nel 1915 cade in guerra l’unico figlio di Durkheim, Profondamente segnato da questo lutto, Durkheim morirà di infarto due anni dopo (2 Box 2.2).
2.2 Le coordinate concettuali e le parole chiave Secondo Durkheim, l’interdipendenza creata fra gli individui dalla divisione del lavoro, ovvero dalla specializzazione delle loro funzioni (coltivare la terra, produrre manufatti, curare le malattie, amministrare un’azienda ecc.), è la base della coesione delle società moderne. Durkheim definisce «solidarietà organica» questa forma di coesione. Tale solidarietà pone però un problema che Durkheim affronta in La divisione del lavoro sociale (1893). La questione è che la specializzazione per funzioni implica che gli uomini cooperino scambiandosi prodotti e servizi. Gli scambi, per funzionare, richiedono a loro volta che siano rispettati i contratti con cui si concordano le prestazioni. Tuttavia – qui il punto critico – «tenere fede» ai contratti non è un fatto scontato che possa essere risolto attraverso l’interesse egoistico e il calcolo razionale. 2.2.1 Il problema: l’interesse non basta a tenere insieme la società Randall Collins illustra questo punto usando una versione del modello di interazione strategica, tratto dalla teoria dei giochi, noto come «dilemma del prigioniero» (si veda il Cap. 8). La Tab. 2.1 illustra la versione proposta. In questo schema la scelta razionale per entrambi i giocatori è sempre l’inganno, in quanto ognuno ha la possibilità di vincere tutto (se l’altro tiene fede al contratto) o per lo meno nessuno perderà nulla (se entrambi imbrogliano). Questo problema costituisce il nucleo della già richiamata critica di Durkheim a Herbert Spencer (1820-1903) e agli economisti utilitaristi in genere. Punto debole di Spencer è l’assunzione che oggi definiremmo «liberista», secondo cui le società moderne possano reggersi su «l’accordo spontaneo degli interessi individuali, del quale i contratti costituirebbero l’espressione naturale» (Durkheim 1893, trad. it. 1996, p. 211). Si sottovaluta così che – come mostra la Tab. 2.1 – la stessa stipulazione dei contratti, se basata esclusivamente sull’egoismo, può tentare i contraenti a ingannare la controparte. Ricorrendo ai concetti oggi utilizzati per studiare la regolazione delle transazioni economiche, si può sostenere che la questione è quella dell’opportunismo. Gli esem-
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Tabella 2.1 Il problema implicito nella solidarietà organica
Attore A
Attore B Tiene fede al contratto
Tiene fede al contratto
Entrambi dividono il guadagno
Inganna
A vince tutto B perde tutto
Inganna B vince tutto A perde tutto Entrambi non perdono e non vincono nulla
Fonte: R. Collins, M. Makowsky, Storia delle teorie sociologiche, trad. di R. Biscaretti, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 98 (ed. or. 1972).
pi di opportunismo reso possibile dai contratti sono numerosi: se ho fretta sono tentato di guidare in modo imprudente perché ho assicurato l’auto; posso firmare un contratto con un fornitore motivandolo a investimenti così specializzati da renderlo fortemente dipendente dalla mia domanda per poi, da posizioni di forza, «tirare sul prezzo» delle sue forniture. È evidente che la possibilità di simili comportamenti opportunistici rende i contratti, anziché base di scambi che aumentano la soddisfazione dei contraenti, veicolo di frustrazione, di sentimenti di ingiustizia e di conflitti. Le società basate sulla divisione del lavoro, in cui gli scambi pacifici sono indispensabili, sarebbero dunque molto fragili se si affidassero a contratti stipulati sulla base di interessi egoistici (mi accordo con l’altro perché mi è utile). Secondo Durkheim se tali società funzionano è perché in esse «il contratto presuppone qualcosa in più di se stesso» (ivi, p. 371). Occorre che i contratti siano protetti da «qualcosa» di precontrattuale. Di cosa si tratta? 2.2.2 Le trasformazioni della società non partono dagli individui La tesi di base illustrata in La divisione del lavoro sociale è che l’elemento precontrattuale che permette ai contratti di funzionare emerge nel processo di specializzazione che genera la divisione del lavoro. È altrettanto basilare sottolineare che questo processo non può essere innescato dai singoli individui. Infatti secondo Durkheim sono fallaci le teorie che assumono che gli individui, come singoli, siano in grado di anticipare con il calcolo razionale le conseguenze positive della divisione del lavoro sul proprio benessere. Per Durkheim, la divisione del lavoro introduce trasformazioni tali della società da cambiare radicalmente i bisogni e le connesse preferenze. Ne consegue un’insuperabile incertezza (un’incertezza radicale) circa la valutazione exante delle trasformazioni con il criterio dell’impatto sul futuro benessere. Il cambiamento sociale pone le persone di fronte a veri e propri «tsunami» che modificano radicalmente il paesaggio, cioè il contesto socio-culturale di riferimento e, a fortiori, i criteri di rilevanza attraverso cui noi giudichiamo il nostro interesse/felicità/benessere (Pizzorno 2007). L’interesse egoistico al benessere non può dunque motivare il processo di divisione del lavoro. Le cause di quest’ultimo vanno cercate fuori dagli individui, nelle trasformazioni dell’ambiente sociale che li circonda. Le dinamiche che secondo Durkheim trasformano l’ambiente sociale sono la crescita del volume della popolazione, ovvero del numero degli individui che la com-
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pongono, nonché – conditio sine qua non – l’aumento della sua densità, ovvero la crescita dei contatti fra individui. L’ambiente così trasformato è quello delle società pre-moderne, classificate da Durkheim come società a struttura segmentaria o a solidarietà meccanica. Queste sono costituite da gruppi (segmenti, appunto) relativamente isolati, ciascuno dei quali forma una micro-società tenuta insieme da consanguineità e contiguità territoriale. Nelle micro-società tutti vivono nello stesso ambiente, fanno più o meno le stesse cose e perciò provano impressioni comuni. Ne consegue una forte coscienza collettiva (con carattere di religione) che conferisce un valore intrinseco riconosciuto da tutti alle «cose» che fanno parte dell’ambiente comune, nonché alla somiglianza o uniformità dei comportamenti, dei sentimenti e delle idee, e quindi alla tradizione che riproduce tale somiglianza fra generazioni. A causa della forte pressione a conservare e riprodurre le uniformità, inoltre, i singoli hanno scarsa coscienza di sé e sono assorbiti nel gruppo. 2.2.3 Il valore morale della divisione del lavoro In La divisione del lavoro sociale si illustrano vari meccanismi per cui la crescita in volume e densità della popolazione mette in tensione le società basate sulla solidarietà meccanica. Alcuni di questi meccanismi ne intaccano i contenuti della coscienza collettiva. Per esempio, l’aumento della densità facilità la mobilità degli individui fra gruppi diversi. Diventano così più rarefatti i legami dei giovani con gli anziani che li hanno cresciuti e ai quali è riconosciuta l’autorità morale. Sono invece più frequenti contatti con anziani di gruppi diversi da quello di origine e, perciò, dotati di minore influenza. Essendo però gli anziani a trasmettere la tradizione, ne deriva la perdita di autorità di quest’ultima. L’aumento della densità, allentando i legami fra le coorti e le generazioni (si veda il Cap. 32), indebolisce le forme più tradizionali di coscienza collettiva. La maggiore densità ha inoltre effetto sulle attività materiali delle società segmentate. I gruppi di tali società grazie al loro isolamento spaziale (si veda il Cap. 22) sono protetti dalla concorrenza. Quando l’aumento della densità attenua l’isolamento, i produttori che in alcuni gruppi avevano sviluppato – per circostanze ambientali – una capacità produttiva eccedente tendono a sostituire produttori di altri gruppi meno efficienti. Così si inasprisce, secondo Durkheim, la lotta per la vita. La messa in luce di questi meccanismi ha importanti risvolti analitici. Innanzitutto, la crescita del volume e della densità della popolazione sono fattori di cambiamento non in quanto cadono dall’alto «sulla testa» di individui isolati, ma perché mediati dai legami e dalle interazioni sociali. Nell’ottica di Durkheim, occorre quindi pensare a un processo complesso per cui la divisione del lavoro si innesta su una rete di relazioni data (si veda il Cap. 16), nata dalla fusione dei segmenti della vecchia società. Questo nuovo tessuto sociale è sotto stress, perché pervaso da un’inedita intensificazione della lotta per la vita e dalla crisi di valori prima dominanti. Tuttavia non è detto che vi debbano prevalere conflitti distruttivi in cui contano solo i rapporti di forza: in una popolazione più numerosa e densa non è più necessario che tutti fac-
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ciano tutto. Volume e densità dei contatti consentono lo sviluppo della divisione del lavoro. È così possibile uno «scioglimento mitigato» (Durkheim 1893, trad. it. 1996, p. 270) della lotta per la vita. La divisione del lavoro impedisce che la concorrenza basata su meri rapporti di forza fra simili degeneri in sopraffazione e la trasforma in cooperazione basata sull’interdipendenza fra diversi. Si genera in questo modo quella forma di solidarietà che, come anticipato, Durkheim definisce «organica». Il nuovo tessuto sociale è l’ambito in cui ogni individuo «ridiventa [corsivo nostro] consapevole del suo stato di dipendenza nei confronti della società» (ivi, p. 391). In esso la divisione del lavoro emerge non come mero fatto tecnico, ma con un valore e una forza morale che attraggono e insieme vincolano gli individui a seguire regole di condotta atte a conservare la coesione della società di cui fanno parte. Perciò la specializzazione si configura come dovere morale con i connessi sentimenti di obbligazione ma anche di «soddisfazione» nel compierlo1. Certo il dovere di calarsi in un ruolo specializzato è molto diverso dai doveri fondamentali che, nelle società a solidarietà meccanica, portano gli individui a dissolversi nel gruppo. Nelle società moderne, la divisione del lavoro si sviluppa tanto più quanto più gli individui sono autonomi e liberi di differenziarsi. Perciò la morale collettiva della solidarietà organica «ordina» loro di «essere […] una persona» (ivi, p. 394), ovvero di distinguersi aderendo attivamente e volontariamente a un ruolo nell’ambito della divisione del lavoro. Ad avere valore collettivo è così l’individuo, non più la società uniforme nella quale ciascuno è chiamato a dissolversi. Di qui un’altra implicazione analitica. Si è visto che nella prospettiva di Durkheim non sono gli individui isolati a innescare il passaggio dalla solidarietà meccanica a quella organica. Ora si ravvisa che per Durkheim gli individui sono, in realtà, il prodotto di tale transizione: l’individualità è un prodotto sociale. Tuttavia l’individualità che emerge non è puro interesse egoistico. L’ordine di «essere una persona» specializzandosi in una funzione e ruolo ha la stessa logica di quello che obbligava a «dissolversi nel gruppo»: tenere insieme la società. Inoltre, va richiamato che la divisione del lavoro in quanto forza morale non assegna agli individui la competenza esclusiva circa le condizioni degli scambi: essa, al contrario, prevede un fitto sistema di norme sociali e valori morali come pre-condizione degli stessi. Primo compito di tali norme non è l’arbitraggio degli interessi fra le parti in causa per rendere conveniente lo scambio, come si potrebbe desumere da una prospettiva utilitarista, bensì consentire la regolazione delle transazioni tramite i contratti quale espressione del valore morale della divisione del lavoro. Nell’impostazione di Durkheim, quindi, il rispetto di un contratto stipulato secondo le regole da parte dei contraenti assume un valore intrinseco, in quanto corrisponde alla loro obbligazione di cooperare e realizzarsi come persone morali in base a specifici criteri inscindibili di giustizia e adeguatezza tecnica (si veda il Cap. 11).
1 In un lavoro successivo a La divisione del lavoro sociale si legge: «troviamo un certo fascino [corsivo nostro] nel compiere l’atto morale che ci è ordinato dalla regola e per il fatto che esso ci è comandato» (Durkheim 1924, trad. it. 1973, p. 174).
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2.2.4 Il superamento del dilemma del prigioniero Possiamo così definire quel «qualcosa in più» di tipo precontrattuale che per Durkheim deve essere presupposto dai contratti affinché siano effettivamente protetti dai rischi di comportamenti opportunistici. Dalle analisi di La divisione del lavoro sociale si desume che questo elemento è il carattere morale della divisione del lavoro, dei contratti e delle regole che li tutelano. Se torniamo così alla situazione configurata nella Tab. 2.1, possiamo osservare importanti cambiamenti. Innanzitutto, le poste in gioco sono ridefinite. Il valore morale del contratto fa sì che per entrambe le parti la scelta di «tenere fede» possieda un valore intrinseco e, quindi, una sua specifica forza attrattiva al di là dei guadagni che permette di conseguire. Simmetricamente, l’opzione di «ingannare» è intrinsecamente repulsiva indipendentemente dalle sue conseguenze che possono, in situazioni contingenti, continuare a essere individualmente vantaggiose (Collins 2004). Si sciolgono così in linea di massima i problemi che generano il dilemma del prigioniero nel senso che, in condizioni normali (certo c’è sempre la possibilità di comportamenti anomici o devianti), le parti in causa sentono un’attrazione sui generis per il rispetto degli accordi presi: vogliono realizzarsi come persone attraverso relazioni utili all’altro a prescindere da valutazioni egoistiche in termini di massima utilità e interesse individuale; aborrono gli inganni perpetrati per guadagnare sempre e comunque di più, così come la situazione di «non rapporto» cui approda l’interazione egoistica se entrambi sono prudenti e razionali. 2.2.5 Il nesso fra società e sacro In contributi successivi a La divisione del lavoro sociale, Durkheim precisa i meccanismi attraverso cui una serie di atti materiali svolti da collettività, come il processo di specializzazione, possa acquisire un valore morale e quindi la forza di generare obbligazioni. Il chiarimento si avvia nella ricerca di Durkheim sul suicidio (1897). Tuttavia sono essenziali le analisi sulla religione e la genesi dei valori illustrate in Le forme elementari della vita religiosa (1912) e in altri contributi più brevi fra cui il saggio «Jugements de valeur et jugments de réalites» (1911). In questi studi si sostiene che, in un dato gruppo sociale, le azioni materiali sollecitate da circostanze critiche possono generare valori in quanto lo conducono a uno stato definito di effervescenza. Si tratta di uno stato tipico di quelle situazioni di mobilitazione che comportano intensi contatti fra i partecipanti (manifestazioni, assemblee), fitti scambi di idee e relativa comunanza di sentimenti 2. Durante l’effervescenza i partecipanti si sentono coinvolti da forze collettive che li attrag2
Già in La divisione del lavoro sociale Durkheim è consapevole dell’efficacia della condivisione di idee sull’intensità dei sentimenti che esse suscitano e sulla concezione del «sacro» di cui diremo fra poco, anche se tratta queste questioni nel contesto delle analisi sulla solidarietà meccanica (Durkheim 1893, trad. it. 1996, pp. 118-19).
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gono verso obiettivi percepiti come superiori: possono perciò anche compiere atti «smisurati», di eroismo così come di barbarie (Durkheim 1912, trad. it. 2005, p. 269). Il vissuto degli attori diventa monodimensionale: gli egoismi evaporano e i valori si sovrappongono all’esperienza quotidiana. In Le forme elementari della vita religiosa e in «Jugements de valeur et jugments de réalites» si richiamano vari esempi storici di stati di effervescenza: dalle Crociate alle agitazioni sociali del XIX secolo. Si potrebbe aggiornare la casistica con le «resistenze» in Europa nella seconda guerra mondiale, i vari Sessantotto in Francia, Italia e USA, i movimenti per i diritti civili, la caduta del muro di Berlino, Occupy Wall Street, le primavere arabe ecc. Superate le circostanze critiche, all’effervescenza subentra il raffreddamento, e con esso una netta distinzione fra realtà e ideali. Gli ideali sopravvivono nel «ricordo» («memoria» si direbbe oggi) delle fasi di effervescenza. Si tratta quindi di «idee» distinte dalla concretezza delle sensazioni quotidiane. Queste idee sono però degli «ideali» (Weiss 2012) in quanto rappresentazioni delle forze collettive che hanno permesso agli individui, nei periodi di effervescenza, di realizzare forme di vita sentite come superiori, non contaminate dagli egoismi quotidiani. In questo senso sono anche rappresentazioni del sacro distinte dal mondo profano. Così Durkheim mostra che una società, transitando dall’effervescenza al raffreddamento, non potrà mai essere soltanto «un corpo organizzato in vista di certe funzioni vitali» (Durkheim 1911, trad. it. 2001, p. 217). Sacro e profano sono sempre compresenti e gli individui non possono «appartenere all’una sfera senza appartenere all’altra» (Durkheim 1912, trad. it. 2005, p. 486). Ne consegue che la vita sociale non può che essere bidimensionale: i comportamenti hanno sempre un risvolto simbolico che li rafforza stabilendo nessi con la dimensione ideale e del sacro. Il rapporto con l’ideale o sacro è sentito in modo vivido quando gli individui si radunano in occasione di cerimonie, manifestazioni, incontri di massa. Nondimeno, secondo Durkheim «non vi è, si può dire, un solo istante della nostra vita in cui non ci giunga dal di fuori qualche afflusso di energia» (ivi, p. 269) che emana dal rapporto del quotidiano con l’ideale. Ciò accade, per esempio, ogni volta che qualcuno è ricambiato con espressioni di sincera stima e simpatia per avere tenuto un comportamento coerente con una regola condivisa e da ciò trae (anche inconsapevolmente) sicurezza e fiducia in se stesso (si veda il Cap. 9). 2.2.6 La teoria dei rituali Le analisi svolte in Le forme elementari della vita religiosa e in saggi come «Jugements de valeur et jugments de réalites», che completano quelle di La divisione del lavoro sociale, fanno di Durkheim il capostipite della teoria dei rituali messa a punto da vari sociologi e antropologi fra cui Erving Goffman (1967), Mary Douglas (1966, 1970) e Randall Collins (1985, 1988, 2004). Questa teoria estende, nel solco di Durkheim, la riflessione sugli stati di effervescenza e sulle loro conseguenze. Si assume infatti che, in generale, le sequenze di interazioni caratterizzate da compresen-
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Figura 2.1
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Situazione rituale: modello semplificato Co-presenza fisica +
Comune focus dell’attenzione e reciproca consapevolezza
Simboli dell’appartenenza al gruppo (sacro)
+ Comune tonalità emozionale
Fonte: R. Collins, Teorie sociologiche, trad. di U. Livini, Bologna, il Mulino, 1992, p. 245 (ed. or. 1988).
za fisica, comuni emozioni e focalizzate sullo stesso obiettivo possono costituire dei rituali, anche in assenza di un apparato cerimoniale codificato; in proposito si parla di «rituali naturali» (Collins 2004, p. 50). Nel corso di tali rituali, la presenza di un comune focus di attenzione in situazioni di interazione faccia a faccia genera un crescendo emozionale – uno stato di effervescenza appunto – che si solidifica in valori morali condivisi, in un senso di appartenenza a un gruppo, nella sacralità degli oggetti assurti a simbolo del gruppo (Collins 2004) (Fig. 2.1). Con le lenti fornite dalla teoria dei rituali è possibile osservare come in una società, all’incrocio tra rapporti verticali di potere e contatti orizzontali fra le persone, possano condensarsi varie situazioni intermedie costituite da addensamenti di relazioni caratterizzate da emozioni condivise e comuni punti di attenzione. Per esempio simili situazioni possono strutturarsi nello svolgimento di occupazioni similari, nella firma di un contratto, in un comune modello di consumo, nella fruizione del medesimo servizio, nella condivisione di uno stile di vita, nell’appartenenza a un’area territoriale, nell’inserimento nello stesso percorso di carriera, nella partecipazione a una competizione politica o nel «tifo» per una squadra, nel rancore verso chi si è macchiato di un delitto ecc. è possibile quindi capire come diverse dimensioni della struttura sociale facciano emergere – come per la divisione del lavoro – campi o catene di interazione rituale fonte della solidarietà e della differenziazione di gruppi sociali (Collins 2004). L’emersione può verificarsi a livello sociale complessivo e contribuire a forgiare la stratificazione sociale tramite meccanismi di costruzione dello status, del carisma e del prestigio. Nelle scuole di élite o nei club esclusivi, per esempio, esistono specifici rituali di classe (leggere certi giornali, vestirsi in un certo modo) che contribuiscono a definire le appartenenze sociali. Gli elementi della situazione rituale possono strutturarsi all’interno di imprese, burocrazie, mercati di beni e servizi, nonché in ambienti come le periferie, la strada e il metrò. Inoltre i campi di interazione possono distinguersi per maggiore o minore densità rituale, nonché per «convenzioni» morali più o meno differenziate e compatibili: per esempio, più centrate sui meriti o sui bisogni, sull’abilità o sulla gerarchia, sul cosmopolitismo o
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sull’appartenenza alla tradizione, sul valore del pubblico e del collettivo o sulla libertà del mercato, sulla creatività personale o sul rispetto tecnico delle procedure (si veda il Cap. 11).
2.3 Rituali e contratti nella ricerca empirica Di seguito presentiamo due esempi dell’utilità della teoria dei rituali nell’analisi delle relazioni fra economia e società. 2.3.1 La transizione alla vita adulta Le ricerche empiriche mostrano che i modelli di transizione alla vita adulta (TVA) nei «Trenta Gloriosi» (1945-75) conoscono una marcata standardizzazione (Negri e Filandri 2010) per entrambi i generi. Per gli uomini «diventare grandi» vuol dire: finire la scuola, trovare lavoro e una casa diversa da quella dei genitori, sposarsi, avere il primo figlio (S-L-C-M-F). Per le donne la successione è: scuola, casa e matrimonio, figli (S-CM-F). Tutti devono seguire questi percorsi completandone le tappe («eventi marcatori») non solo secondo l’ordine previsto ma anche nei tempi stabiliti, cioè entro certe età. Date queste condizioni, la TVA, nella fase fordista, acquista i tipici caratteri, illustrati nel precedente paragrafo, di un «rituale naturale»: una massa di persone compresenti, in età simili, si trova a focalizzare l’attenzione su episodi simili (lavoro, matrimonio ecc.), in tempi e spesso spazi (le aree urbane) concentrati, condividendo emozioni simili (celebrazione festosa dei passaggi, aspirazioni di mobilità, nuovi consumi e stili di vita di ceto medio). In quanto rituale, la TVA «sacralizza» le stesse successioni SLCMF/SCMF: le modalità del loro svolgimento, i loro tempi e ritmi, nonché tutte le loro condizioni di supporto materiale acquistano un valore intrinseco. Le sequenze in questione, così sacralizzate, diventano modalità diffuse e trasversali che simboleggiano lo status del «normale» cittadino e come tali devono essere rispettate, nonché universalmente garantite. La possibilità di rispettare i tempi e i modi giusti per diventare adulti diventa la condizione per essere riconosciuti come persone morali e quindi cittadini. Altrimenti si rischia di «perdere la faccia». Come è noto la crisi del fordismo diffonde posizioni occupazionali più precarie, «atipiche», rispetto a quelle stabili dei Trenta Gloriosi (si veda il Cap. 39). Cambia anche il modo di muoversi sul mercato del lavoro: in presenza di trappole della precarietà occorre poter aspettare le (non molte) «buone occasioni» lavorative attraverso strategie di adattamento. Queste però richiedono adeguate risorse abitative e di reddito, tali da permettere un minimo di «libertà da» bisogni immediati che obbligano ad accettare qualsiasi lavoro remunerato. Si rafforza così il sistema di disuguaglianze socialmente strutturate (si veda il Cap. 33). Inoltre le strategie in questione, da cui dipende la possibilità di una vita autonoma «da adulti», non sono più praticabili da chiunque si trovi nello status di cittadino-lavoratore. Sono pratiche «private», rese possibili dalla disponibilità familiare di vari tipi di capitale: economico, sociale e
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culturale (si veda il Cap. 7). La «privatizzazione» delle strategie di TVA mette così in discussione la sacralità dei modelli normativi fordisti e, con essi, le retoriche della cittadinanza industriale. Si esplicita di conseguenza un gap fra gli ideali universalistici di piena cittadinanza industriale e le nuove pratiche private della TVA: aspirazioni a un tenore di vita medio, rispetto del valore sacro della società e costituzione degli individui come persone morali e cittadini non avanzano più insieme. 2.3.2 Il fallimento nella ricerca del lavoro Il fallimento nella ricerca del lavoro può mettere in discussione l’identità personale, il prestigio e l’autostima come «persone morali». In questa prospettiva, è legittima l’ipotesi che le conseguenze morali del fallimento siano tanto più sofferte quanto più i valori dell’autonomia, dell’auto-realizzazione e del progetto diventano costitutivi della sfera economico-lavorativa. Come notano Boltanski e Chiapello, parlando in proposito di «nuovo spirito del capitalismo» (2014), quanto più questi valori sono esaltati come «fattore umano» al servizio dell’impresa e del mercato, tanto più «vita» e «lavoro» si (con)fondono. Perciò il fallimento economico diventa difficilmente separabile dal fallimento biografico complessivo. La ricerca di Ofer Sharone (2013) sottopone a prova questa tesi attraverso una ricerca qualitativa comparata sugli effetti dei colloqui di assunzione di white collars negli Stati Uniti e in Israele. L’analisi di Sharone consente di sostenere che il colloquio di lavoro negli USA è analogo a un’interazione rituale focalizzata non tanto sulle abilità e sulle competenze del lavoratore, quanto sulla sua identità, le sue convinzioni etiche, i suoi modelli normativi e culturali. Nel caso israeliano l’interazione rituale è invece focalizzata sulle competenze formali, i titoli di studio, l’esperienza pregressa e le abilità tecniche riferite al ruolo organizzativo e professionale. I due rituali generano reazioni opposte: nei lavoratori americani, il fallimento del colloquio di lavoro crea un senso di inadeguatezza personale che coinvolge l’auto-rappresentazione degli individui. Nei lavoratori israeliani, al contrario, si sviluppano sentimenti avversi al «sistema» di selezione e ai metodi utilizzati, giudicati inadatti al compito. Inoltre i lavoratori americani si scoraggiano più facilmente: sentendosi rifiutati come «persone morali», dopo qualche fallimento tendono a evitare l’interazione che mette a rischio la loro identità, rinunciando a presentarsi sul mercato del lavoro. I lavoratori israeliani non si scontrano con questo problema: il rifiuto viene giudicato come guidato da logiche sistemiche, opache e anche casuali, simili a quelle che determinano la vincita a una lotteria. La ricerca di Sharone comprova quindi che se le dimensioni identitarie sono intrecciate alle competenze e abilità formali, il rifiuto crea un dolore emotivo profondo, che colpisce l’autostima e destabilizza il sé individuale. Inoltre la ricerca ha importanti risvolti «applicativi» (si veda il Cap. 12). Sharone nota infatti che le retoriche delle «guide» che stilano suggerimenti per la ricerca di lavoro condividono l’idea del «controllo individuale» e dell’«empowerment». In questa prospettiva, sono dunque i singoli ad avere la responsabilità ultima dei propri destini occupazionali: quanto più e quanto
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meglio essi sono in grado di «controllare» le strategie di ricerca e «gestire» il colloquio di lavoro, tanto maggiori saranno le probabilità di ottenere il posto. Ciò, però, ha l’effetto non voluto di individualizzare le responsabilità di un eventuale fallimento, portando le persone a incolparsi per esso. Per individuare un’alternativa, Sharone ha collaborato con un gruppo di consulenti del lavoro e coach per mettere a punto suggerimenti e counseling in grado di aiutare le persone a tenere distinte e separate le dimensioni del proprio sé come «persone morali» e le strategie di ricerca dell’impiego.
2.4 Sfide e problematiche contemporanee Abbiamo appena illustrato casi di applicazione della teoria dei rituali, di cui Durkheim è il capostipite, all’analisi di dinamiche a cavallo di economia e società. In conclusione, ritorniamo in modo più diretto sui nessi fra le opere di Durkheim fin qui considerate, per precisare su quali frontiere il suo pensiero possa sostenere lo sviluppo della ricerca nel campo della sociologia economica. Va detto che l’opera di Durkheim presenta delle discontinuità difficili da risolvere senza eccedere nel lavoro interpretativo (Parsons 1937; Pizzorno 1963, 1996). Egli non esplicita infatti in modo completo le connessioni fra i meccanismi messi in luce in La divisione del lavoro sociale e quelli trattati in Le forme elementari della vita religiosa e in «Jugements de valeur et jugments de réalites»3. Tuttavia le discontinuità non impediscono di cogliere che già in La divisione del lavoro sociale il valore morale della divisione del lavoro emerge da un processo sociale dotato di tutte le caratteristiche degli stati effervescenti, carichi di energia, nel corso dei quali sorgono, secondo Durkheim, ideali dotati di forza morale. A riguardo, nel Par. 2.2 si sono visti tre aspetti essenziali descritti in La divisione del lavoro sociale. Innanzitutto il processo che genera la divisione del lavoro è innescato da una situazione critica provocata dall’impatto del volume e dalla densità della popolazione sulle società tenute insieme dalla solidarietà meccanica; come si è visto le criticità si danno sia sul piano culturale sia su quello della vita materiale, inasprita dalla concorrenza sregolata. In secondo luogo, la situazione è vissuta dagli individui, prima incapsulati in piccoli gruppi, con un’inedita comunanza di emozioni, tale da farli convergere sul comune obiettivo della specializzazione delle funzioni. In terzo luogo, questa convergenza è possibile perché le nuove reti relazionali, nate dalla fusione della società segmentaria, sono più dense. È la densità a consentire la compresenza fisica, l’assiduità delle comunicazioni, la continuità delle interazioni grazie alle quali la suddivisione delle vecchie attività in specializzazioni complementari è possibile. 3
D’altro canto i suoi studi su religione e genesi dei valori raggiungono lo stadio compiuto pochi anni prima della sua morte e alla vigilia, come si è visto nel Par. 2.1, di eventi biografici drammatici. È dunque possibile che avesse ragione Talcott Parsons quando ipotizzava, proprio a proposito delle riflessioni sull’effervescenza, che a Durkheim fosse mancato il tempo per esplicitare i nessi fra i vari filoni del proprio pensiero (Parsons 1937).
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È dunque fondato desumere da La divisione del lavoro sociale che situazioni rituali di effervescenza, generatrici di valori morali, si costituiscono non soltanto in occasione di grandi sommovimenti storici con un’immediata valenza ideologica e politica. Anche un processo economico come lo sviluppo della divisione del lavoro, che sembrerebbe costituire il fondamento tecnico del mercato, può configurarsi come un campo di interazioni rituali generatore di forze morali che agiscono sugli individui. Come è noto, la tesi di Karl Polanyi (1886-1964) che l’economia è un «processo istituzionale» costituisce una delle principali sorgenti della ricerca nel campo della sociologia economica (Polanyi 1957; si vedano anche Barbera e Negri 2008 e il Cap. 6 di questo volume). Essa alimenta le analisi attraverso cui i sociologi economici si impegnano a spiegare i casi di fallimento nella regolazione dei processi economici delle ricette più ancorate alla teoria della scelta razionale (si veda il Cap. 8) e alla scienza economica standard. Una solida sponda al flusso dei programmi di ricerca che sgorgano da questa sorgente è fornita dagli approcci cosiddetti di political economy (si veda il Cap. 1) e «neoistituzionali» (si veda il Cap. 10). Si tratta di approcci diversi ma accomunati dal fatto di considerare – come peraltro fa lo stesso Polanyi – le varie attività e scambi oggetto della sociologia economica (si veda il Cap. 12) come variabili dipendenti da fattori normativi e istituzionali che caratterizzano contesti definiti da specifiche coordinate spazio-temporali. In questa prospettiva il focus è sulle relazioni fra le condizioni normative istituzionali del contesto storico-spaziale e la capacità del mercato di auto-regolarsi «bene», ovvero sulla base di puri criteri di efficienza strumentale. In questa prospettiva la sociologia economica ha dato rilevantissimi contributi: dalle analisi delle economie regionali subnazionali, alla ricostruzione delle modalità con cui le diverse economie nazionali hanno reagito alle crisi economiche, alla tipologia dei vari modelli di capitalismo (per una rassegna si veda Trigilia 1998). Con la configurazione della divisione del lavoro come processo intrinsecamente rituale e generativo di valori, l’opera di Durkheim prefigura ante litteram una seconda importante sponda dei programmi di ricerca della sociologia economica. È quella costituita dal cosiddetto approccio della «nuova sociologia economica» (si veda l’Introduzione). Si tratta di un approccio che fa ampio uso della network analysis (si veda il Cap. 16) e trova in Mark Granovetter il moderno caposcuola (Granovetter 1990, 2000) (si veda il Cap. 9). Le analisi teoriche che seguono questa sponda – solo a titolo di esempio si possono citare i contributi di Harrison C. White (1981, 2001) o di Viviana Zelizer (2009) – condividono con il pensiero di Durkheim l’idea che le forme dell’agire economico hanno sempre un intrinseco valore normativo e istituzionale (si veda il Cap. 10). Nell’approccio di Durkheim si è visto che la divisione del lavoro (salvo stati patologici) non può non avere una forza morale e non esprimersi nel rispetto dei contratti. Similmente, il focus dei programmi di ricerca nell’ambito della nuova sociologia economica non tratta l’economia come un sistema autonomo in grado di auto-regolarsi. L’ipotesi è che molte dinamiche economiche siano invece regolabili in modo più efficace se non si isolano le soluzioni di adattamento efficiente e mediato dalla regola dei costi/benefici, dagli aspetti morali, delle problematiche di integrazione sociale e di reciproco riconoscimento delle persone. Sia che si tratti della deci-
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sione di un prezzo di mercato, di investire su un prodotto di nicchia, della vendita di un’automobile di seconda mano, di definire le modalità di una competizione per un posto da dirigente, di trasformare un servizio sociale in una transazione economica, di estendere (o restringere) una tutela assicurativa, ci troviamo comunque sempre di fronte a campi di interazioni rituali in cui sono in gioco, in modo più o meno implicito, connessioni simboliche con aspetti di valore che guidano l’azione degli attori a prescindere dal calcolo razionale e dal rispetto utilitaristico dei contratti.
Letture di approfondimento Collins R. (2004). Interaction Ritual Chain, Princeton (NJ), Princeton University Press. Durkheim É. (1893). De la division du travail social, ètude sur l’organisation des sociétés supérieures, Paris, F. Alcan; 2a ed. riv., 1902 (trad. it. della 2a ed. La divisione del lavoro sociale, trad. di F. Airoldi Namer, Segrate, Edizioni di Comunità, 1996). Durkheim É. (1912). Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi, F. Alcan (trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, trad. di C. Cividali, riv. da M. Rosati, Roma, Meltemi, 2005). Goffman E. (1967). Interaction Ritual, New York, Doubleday (trad.it. Il rituale della interazione, trad. di A. Evangelisti, V. Mortara, Bologna, Il Mulino, 1988). Zelizer V. (2009). Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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3.1 Marx e il marxismo Di tutti gli studiosi di sociologia economica trattati in questo manuale, Karl Marx è il solo a cui sono state dedicate città ed erette migliaia di statue. Al suo pensiero si sono richiamati partiti che sono arrivati a governare su circa metà degli abitanti del pianeta. Dopo la sua morte, da alcune delle sue opere pubblicate in vita e dai molto più numerosi inediti venne elaborato il marxismo, una religione laica di cui egli era il profeta indiscusso, che per diverse generazioni è stata l’ideologia dell’ala radicale del movimento operaio, prima socialista e poi comunista. Ancora oggi, nonostante gli esiti disastrosi dell’esperienza sovietica, esistono molti partiti e gruppi politici che si richiamano a Marx e al marxismo, in primo luogo il Partito Comunista Cinese, anche se le sue scelte politiche effettive ormai hanno poco a che fare sia con Marx sia con il marxismo. Marx credeva di aver sviluppato una teoria della storia, basata sull’economia, che spiegava la gran parte dei fenomeni sociali. Questa sua elaborazione teorica si è strettamente intrecciata con la sua militanza politica nella sinistra rivoluzionaria, non solo dal punto di vista biografico ma anche in rapporto alla visione che ispirava la sua analisi. Dopo aver illustrato la biografia di Marx (Par. 3.2), il capitolo presenta le coordinate principali del suo pensiero. Andando dal macro al micro, i paragrafi successivi presentano rispettivamente la visione marxiana della storia (Par. 3.3); poi la sua teoria economica (Par. 3.4), e infine il suo contributo più rilevante per la sociologia: la teoria delle classi sociali (Par. 3.5). Il Par. 3.6 conclude con un sintetico bilancio sull’opera di Marx
3.2 La vita Karl Marx nacque il 5 maggio 1818 a Treviri, nella Renania prussiana, da una famiglia agiata1. Il padre, Heinrich, era un avvocato di successo, che proveniva da un’importante famiglia ebrea: il nonno e lo zio di Karl erano stati rabbini di Treviri. La madre, Henriette Pressburg, proveniva da una ricca famiglia di commercianti ebrei di Nimega, in Olanda. Per via delle difficoltà cui gli ebrei andavano incontro
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La ricostruzione della vita di Marx si basa sui recenti lavori di Ween (1999) e di Stedman Jones (2016).
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nell’esercitare le professioni, Heinrich Marx negli anni intorno alla nascita di Karl si convertì con la propria famiglia al luteranesimo. Il contesto politico e sociale in cui Marx crebbe fu decisivo per la sua formazione. La Renania era stata investita dalla Rivoluzione Francese, e per diversi anni era stata annessa alla Francia. Questo aveva significato l’abolizione dei privilegi e delle servitù feudali, l’introduzione di istituzioni parlamentari e di un moderno sistema giuridico, basato su codici e tribunali validi per tutti. Le riforme napoleoniche erano state molto popolari in Renania, e con la Restaurazione erano state solo parzialmente abolite: la stessa Prussia, pur rimanendo una monarchia assoluta, aveva imitato molte delle istituzioni create dalla Rivoluzione Francese ed esportate da Napoleone. In Renania esisteva un forte movimento liberale e anti-assolutista, rinforzato dalle rivoluzioni del 1830-31 e alimentato anche dalla tensione religiosa tra il cattolicesimo dei renani e il luteranesimo, religione di stato del regno prussiano. A Treviri, Heinrich Marx era tra i leader del movimento, e la maggior parte dei professori del liceo frequentato dal giovane Marx condivideva il suo orientamento illuminista e monarchico-costituzionale. Nel 1836 Karl si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bonn, dove visse la vita bohémien di un tipico studente tedesco dell’epoca, con bevute, duelli e notti insonni. Si fidanzò con Jenny von Westphalen, di famiglia nobile e di poco più anziana di lui. Al secondo anno si trasferì a Berlino, dove ebbe il fondamentale incontro con la filosofia di Hegel (morto nel 1831), che univa in una sintesi originale e influente il liberalismo e la filosofia tedesca. L’influenza del pensiero di Hegel fu fondamentale per la visione della storia e della società di Marx che, dopo la laurea, scelse la filosofia per i propri studi dottorali, allontanandosi dal liberalismo illuminista e teista del padre (e dello stesso Hegel) per avvicinarsi alle posizioni più radicali, repubblicane e atee, dei cosiddetti «giovani hegeliani». Queste scelte si rivelarono incompatibili con l’obiettivo di una carriera universitaria: dopo essersi addottorato nel 1841, Marx dovette abbandonare l’accademia quando il suo supervisore, Bruno Bauer, fu licenziato dall’Università di Bonn per ragioni politiche. A questo punto Marx, come molti altri giovani liberali e rivoluzionari dell’epoca, si diede al giornalismo, scrivendo per quotidiani e riviste progressiste lunghi saggi, dapprima di argomento filosofico e di critica religiosa, successivamente sempre più dedicati all’attualità politica ed economica. I guadagni da questa attività furono i soli redditi da lavoro della sua vita, anche se dagli anni Sessanta in avanti vi si aggiunsero le rendite provenienti da eredità familiari e dall’amico Engels. Ma per tutta la sua vita le sue attività principali, strettamente intrecciate, furono da una parte lo studio e la stesura di opere di teoria economica, dall’altra l’attivismo politico nelle file della sinistra rivoluzionaria. Dopo la chiusura da parte della censura prussiana del quotidiano che dirigeva, nel 1843 Karl si sposò e con Jenny emigrò a Parigi, dove divenne comunista 2 e fece 2
Negli anni Quaranta, a Parigi, si usava il termine «comunista» per indicare le correnti repubblicane radicali e ugualitarie, che si rifacevano a François-Noël Babeuf e Filippo Buonarroti e predicavano l’insurrezione contro i governi monarchici. I «socialisti» francesi proponevano invece la creazione pacifica
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amicizia con Friedrich Engels, che già aveva conosciuto a Berlino e i cui scritti sulla «critica dell’economia politica» (vedi oltre) aveva letto e apprezzato. Engels, nato nel 1820, figlio di un industriale renano, lavorò per gran parte della vita nella filiale di Manchester dell’azienda paterna. Questo gli consentì di vivere in modo agiato e gli fornì una conoscenza di prima mano dell’industria e della classe operaia (Engels 1845). L’amicizia con Engels fu fondamentale per Marx. Engels fu il suo coautore e collaboratore, e diede un contributo fondamentale allo sviluppo del suo pensiero, in particolare per quanto riguarda la centralità della grande fabbrica basata sulle macchine, di cui comprese l’importanza in un’epoca in cui la gran parte degli operai lavorava a casa o in piccole botteghe artigiane. Engels era dotato di una grande sensibilità sociologica, mentre Marx era più portato alla sintesi filosofica e storico-politica (Collins 1996). Dopo la sua morte, Engels fu l’inventore del marxismo: non solo pubblicò i libri del Capitale lasciati incompiuti da Marx, ma soprattutto diede al pensiero suo e dell’amico la veste «scientifica» e sistematica che lo rese utilizzabile come ideologia ufficiale prima della socialdemocrazia tedesca e poi, dopo un’ulteriore sistemazione a opera di Lenin, del comunismo sovietico (Engels 1878; si veda anche Stedman Jones 2016). Dopo Parigi, Marx visse a Bruxelles e, dal 1849 in avanti, a Londra. Nel 1845 perse la cittadinanza prussiana e da allora fu apolide. Ritornò in Germania tra il 1848 e il 1849, come uno dei leader dei moti rivoluzionari a Colonia, e poi ancora negli ultimi anni della sua vita, una volta risolti, grazie a un’amnistia del 1861, i problemi giudiziari che lo avevano spinto all’esilio. A seguito dell’amnistia sperò per qualche tempo di poter rientrare in Germania, per svolgere attività politica a Berlino, ma rinunciò quando la sua richiesta di riprendere la cittadinanza venne respinta. Negli ultimi anni chiese la cittadinanza inglese, ma neppure questa gli fu concessa. Fino alla fine degli anni Sessanta la sua fama fu limitata a una cerchia ristretta di intellettuali e attivisti: lo stesso Manifesto del partito comunista (Marx e Engels 1848) ebbe per anni una circolazione limitata a poche centinaia di copie. Solo la pubblicazione del primo volume del Capitale (Marx 1867) gli diede una certa notorietà, poi amplificata dalla sua partecipazione all’Internazionale dei lavoratori, e, soprattutto, dalla sua presa di posizione a favore della Comune di Parigi nel 1870, contenuta nel suo unico successo editoriale da vivo, La guerra civile in Francia (Marx 1871). Negli ultimi anni Marx fu afflitto da gravi problemi di salute e, di nuovo, economici. Dopo la fine dell’Internazionale partecipò in modo critico alla nascita del partito socialdemocratico tedesco, del quale non condivideva l’inclinazione riformista e parlamentare. Morì a Londra nel 1883, pochi mesi dopo la moglie.
di cooperative di lavoratori come nucleo della futura società egualitaria. Il socialismo del Novecento, basato sul sindacalismo e sulla partecipazione parlamentare dei partiti operai, nasce nel decennio 186070 (Stedman Jones 2016).
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3.3 La visione della storia La teoria di Marx è una teoria macro, che vuole descrivere, spiegare e prevedere comportamenti e interazioni di un gran numero di individui lungo un ampio arco temporale (Collins 1992). Non è, però, una teoria scientifica nel senso che oggi diamo al termine, ma una «grande narrazione» (Lyotard 1979), con caratteristiche affabulatorie e prescrittive: Marx vuole convincere il lettore della propria visione e, soprattutto, del proprio obiettivo politico, la rivoluzione. Come ricercatore sociale, non propone ipotesi da verificare analizzando dati raccolti indipendentemente dalla teoria, ma raccoglie prove empiriche per confermare la propria teoria. La narrazione di Marx fonde la filosofia tedesca in cui si era formato, l’economia politica inglese che studiò per diversi decenni, e il pensiero rivoluzionario precedente e successivo al 1789, nella sua versione radicale ispirata a Rousseau. Questa sintesi trae la propria efficacia da una vasta cultura, molto ammirata dai suoi contemporanei, e da una straordinaria convinzione delle proprie ragioni, altrettanto testimoniata dai coevi. Marx propone certezze, e chi si oppone è un nemico da attaccare con una retorica colta e velenosa. Personalmente non era incline alla violenza fisica3, ma di fatto nel Novecento i regimi che si sono definiti marxisti hanno utilizzato la violenza in modo massiccio e sistematico, fino ad arrivare nei casi estremi al genocidio (Pinker 2011, p. 343). In ogni caso, Marx volle sempre presentarsi come uno scienziato illuminista e razionalista. A suo parere, la storia si svolge secondo strutture conoscibili e prevedibili. Quindi, una «scienza della storia» è possibile, ma perché sia tale deve fondarsi sul principio che governa il flusso degli avvenimenti storici, la «dialettica». Questo è un termine della filosofia classica greca che indica un argomento che emerge dalla discussione di punti di vista diversi e contrapposti (mentre la «logica» deduce le conseguenze di uno o più principi). Nella filosofia di Hegel, la dialettica è sia un principio logico, secondo cui ogni categoria rinvia al contesto complessivo della teoria ed è quindi definita negativamente da questo, sia un principio ontologico, secondo cui la storia è la sequenza degli stadi di sviluppo della ragione umana, che gradualmente apprende a conoscere il mondo e quindi se stessa. Questa visione hegeliana riprende in forma laica le dottrine cristiane del peccato originale e della redenzione: la sofferenza e la violenza di cui la storia è piena sono parte della progressiva liberazione dell’umanità dallo stato di inconsapevolezza e dell’affermazione di un’organizzazione sociale efficiente e razionale. La «dialettica dello spirito» è questa evoluzione, in cui il male è condizione dell’affermazione del bene. Il processo non è graduale, ma attraversa una serie di stadi discreti, e il passaggio dall’uno all’altro può essere brusco e conflittuale. Analogamente, Marx vede la storia come la successione di una serie di modi di produzione, ciascuno dei quali contiene elementi critici che conducono allo sviluppo 3
Né fu mai coinvolto operativamente in episodi di violenza politica, anche se spesso li approvò (Stedman Jones 2016). Il suo stile di vita fu sempre quello di un alto borghese, anche se non sempre ebbe i mezzi per permetterselo (Ween 1999).
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di quello successivo, fino all’affermazione finale del bene. Il modo di produzione attuale, il «capitalismo»4, si è sviluppato dal precedente, il feudalesimo, per le criticità interne di quest’ultimo, e a sua volta è caratterizzato da una serie di problemi interni (che Marx chiama, hegelianamente, «contraddizioni») che lo porteranno in tempi brevi all’auto-dissoluzione e a essere sostituito da un nuovo sistema economico e sociale, il comunismo, in cui quelle criticità saranno risolte. Le modalità della transizione dalla società capitalista a quella comunista non sono mai state approfondite da Marx, ma gli accenni disponibili nelle opere pubblicate suggeriscono che si tratterà di un processo insurrezionale, analogo alla Rivoluzione Francese, l’evento storico che più di ogni altro ha ispirato il suo pensiero politico5. La visione evoluzionistica accomuna Marx ad altre teorie della storia sviluppate nel XIX secolo, quali quelle di Auguste Comte e di Herbert Spencer, oggi abbandonate perché troppo semplici per descrivere in modo adeguato la complessità dei processi storici, anche se i dualismi concettuali che le ispirano, per esempio «comunità-società» o «status-contratto», sono ancora oggi utili strumenti euristici per lo studio del mutamento sociale (Collins 1992). Come altre teorie evoluzioniste (ma diversamente da quella di Darwin), la teoria della storia marxiana è olista e determinista: essa vede il processo storico come determinato da forze sovraindividuali (di cui si dirà tra breve) e crede che l’azione di queste forze sia inarrestabile, anche se può venire rallentata da contro-tendenze. È anche vero che Marx respinge la personalizzazione di queste tendenze, e sostiene che gli unici agenti della storia sono gli individui in carne e ossa, con formulazioni vicine a quelle dell’individualismo metodologico contemporaneo (Elster 1985). Rimane, però, che Marx non sviluppa una teoria dell’individuo, né una teoria dell’ordine sociale distinto da quello economico, per cui nella sua visione gli individui non possono che realizzare una tendenza storica che rimane in generale fuori della loro possibilità di intervento e di comprensione (2 Box 3.1). La semplificazione del processo storico e del conflitto sociale implicata da questa visione della storia ne ha favorito il successo politico. L’idea è duplice: la storia ha un senso e una direzione, e chi è capace di coglierne il senso e assecondarne la direzione può fare grandi cose. Questo produce nei militanti una motivazione analoga a quella di una fede religiosa, come venne osservato da subito (si veda Bloch 1918). Inoltre, la concezione secondo cui la storia procede per ribaltamenti «dialettici» consente di unire un giudizio negativo sulla società presente, tipico dei movimenti rivoluzionari, alla convinzione della possibilità di una sua rapida trasformazione, indispensabile per motivare gli attivisti. Per gran parte della sua vita Marx pensò che la rivoluzione fosse imminente: solo dagli anni Settanta in avanti sembra che si fosse reso conto che non sarebbe stato così, anche se non lo espresse mai apertamente, neanche in privato (Stedman Jones 2016). Un’implicazione sgradevole di questa visione della storia è 4
In realtà il termine «capitalismo» non è quasi mai usato da Marx, che invece parla di «capitale» come soggetto o di «società borghese» in senso più descrittivo. 5 La Rivoluzione Francese amata da Marx è quella del 1792-94, del terrore giacobino e dell’esportazione bellica della rivoluzione.
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che un partito rivoluzionario che lotta per il potere, o lo ha conquistato, si può sentire legittimato a compiere azioni brutali e odiose, giustificandole perché necessarie a risolvere le contraddizioni del presente e ad avviare la storia verso il proprio fine.
3.4 Il primato dell’economia e la critica dell’economia politica Più produttiva per le scienze sociali successive è stata la seconda delle idee di Marx, di cui si occupa questo capitolo: la centralità dei rapporti economici nella vita sociale e politica. Vale la pena di citare alcune sue righe, giustamente celebri: Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienze. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la coscienza (Marx 1859b, trad. it. 1986, p. 133).
Dopo la morte di Marx, Engels ha ideato per questa visione la fortunata definizione di concezione materialistica della storia. Gli studiosi marxisti vedevano nella concezione materialistica della storia l’origine della sociologia e della storia economica moderne (Merker 1986); coerentemente con questa idea, i governi marxisti hanno in genere vietato la ricerca sociale, giustificando il divieto con il fatto che la concezione materialistica della storia la rendeva inutile. In effetti, in Marx manca una teoria della società distinta dall’economia. Spesso nel lavoro giornalistico di ricostruzione degli avvenimenti contemporanei, e nelle sezioni storiche del Capitale, la sua intelligenza gli consentì analisi lucide e influenti, come nel caso della teoria delle classi di cui tratta il Par. 3.5, o di alcune intuizioni sul ciclo economico (Schumpeter 1954). Ma il nucleo del suo lavoro sistematico, la «critica dell’economia politica» che considerava la propria opera della vita, consiste nell’applicazione della visione dialettica della storia alle teorie degli economisti inglesi e francesi che lo avevano preceduto. Il fatto che Marx parli di «critica» dell’economia politica deriva dalla sua posizione ambivalente sul mercato, l’istituzione centrale dell’economia e della scienza economica moderne. Da una parte, egli segue gli economisti politici britannici di fine Settecento e inizio Ottocento, in particolare Smith e Ricardo, che spiegavano lo sviluppo economico in base alla libertà di scambio e all’espansione dei mercati competitivi: questi stimolano la divisione del lavoro, la specializzazione delle attività produttive e l’utilizzo della tecnologia, e quindi la creazione di ricchezza e la crescita economica. Dall’altra, Marx è un critico spietato della visione liberale del mercato propria di gran parte degli economisti, secondo cui la diffusione dei mercati rende possibile un «equilibrio» giusto e condiviso, perché tramite il libero scambio e il gio-
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co di domanda e offerta ciascun individuo può massimizzare i propri fini nei limiti consentiti dai fini di tutti gli altri. Secondo Marx, invece, la diffusione del mercato crea una società irrimediabilmente divisa tra datori di lavoro e lavoratori, la ricchezza che il mercato produce è inseparabile dallo sfruttamento e la sua espansione implica necessariamente un peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Tuttavia, secondo la visione dialettica della storia, questa situazione è destinata a ribaltarsi, e al massimo dello sfruttamento, associato al mercato e alla società borghese, seguirà l’abolizione dello sfruttamento stesso nella società comunista. Al centro della critica del mercato marxiana è lo scambio tra salario e lavoro. Mentre gli economisti lo vedono come un caso particolare di scambio, in cui i lavoratori cedono il proprio lavoro a un datore di lavoro, in cambio di un salario determinato dal gioco di domanda e offerta, Marx ne dà una lettura contemporaneamente politica e storico-filosofica. Egli riprende la teoria di Ricardo secondo cui il valore con cui i beni vengono scambiati sul mercato, il loro prezzo, deriva in ultima analisi dalla quantità di lavoro che vi è contenuto6. Questo argomento era popolare tra i radicali dell’epoca, come base normativa per le rivendicazioni salariali e politiche dei lavoratori. Marx lo amplia in una teoria «scientifica» dello sfruttamento con il concetto di «plusvalore». Il profitto che il datore di lavoro trae dalla propria attività in realtà è un’appropriazione di gran parte del valore creato dal lavoratore, perché il salario, il valore del lavoro, copre solo parte del valore creato dal lavoratore: questa parte è il costo di produzione del lavoro, cioè del mantenimento dell’operaio, mentre il rimanente, il plusvalore, rimane al datore di lavoro. Marx era convinto che la teoria del plusvalore fosse il suo più grande contributo scientifico, perché dimostrava che lo scambio tra salario e lavoro è tutt’altro che equo: è la base dello sfruttamento. Non solo: tutta la ricchezza dei datori di lavoro, il «capitale» propriamente detto, non è altro in ultima analisi che valore strappato ai lavoratori. Le teorie economiche del mercato sono storie che i capitalisti raccontano a sé e alla società per nascondere la vera natura del contrasto tra lavoratori e datori di lavoro, che non è un mero contrasto distributivo, ma una contrapposizione metafisica, storico-filosofica, tra il «lavoro morto», i capitalisti borghesi, e il «lavoro vivo», la classe operaia7. Questa contrapposizione riprende, di nuovo, la filosofia hegeliana, e in particolare la celebre sezione della Fenomenologia dello spirito sulla «dialettica servo-padrone» (Hegel 1807), in cui il lavoro è visto come una delle forme più importanti dello sviluppo storico dello spirito, cioè dell’umanità. L’idea secondo cui il valore non può provenire che dal lavoro vivo ha un’altra implicazione. Come Marx osserva, il progresso tecnologico gradualmente rimpiazza il
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Secondo Ricardo si tratta in realtà della quantità di lavoro «socialmente necessario», il che implica lo scambio di mercato e quindi il valore di scambio: nelle edizioni successive della sua opera principale, Principi di economia politica e della tassazione, uscita nel 1817, la teoria del valore-lavoro viene ampiamente ridimensionata rispetto a una teoria del valore più basata sullo scambio, e simile a quella poi sviluppata dagli economisti neoclassici (Schumpeter 1954; Stedman Jones 2016). 7 Questo lato del pensiero di Marx è stato portato avanti dall’«operaismo» italiano (Tronti 1966; Negri 1979).
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lavoro degli operai con quello delle macchine: spesso questo processo è paradossalmente incentivato dalle lotte operaie, che spingono i datori a sostituire il lavoro delle macchine a quello degli operai (Marx 1867, cap. 13). Ma questo significa che non viene creato più valore, perché le macchine, diversamente dagli operai, non sono lavoro vivo. Dunque anche il profitto dei capitalisti tende a diminuire, creando le condizioni per la fine del modo di produzione capitalistico: all’analisi del capitalismo si unisce una diagnosi, fondata nell’analisi stessa, della sua prossima sparizione. La potenza teorica e retorica di questo argomento fa sì che esso, nonostante una storia più che secolare di smentite, sia stato ripreso di recente dai sociologi economici critici del capitalismo contemporaneo (Streeck 2013). Il problema è che l’analisi non è corretta, e quindi la fondazione «scientifica» della prognosi della fine del capitalismo non è tale. Dopo avere esposto nel primo libro del Capitale, l’unico pubblicato, la teoria del valore-lavoro e del plusvalore, Marx si mise al lavoro per completarla dal punto di vista economico, cercando di dimostrare, numeri alla mano, che i prezzi a cui le merci vengono scambiati derivano dalla quantità di lavoro in esse contenuto. Ricardo, che pure aveva inventato l’idea del valore-lavoro, non aveva neanche tentato una simile derivazione, perché era consapevole del fatto che il valore di scambio dei beni non può prescindere dall’utilità che essi hanno per gli attori che li scambiano (Schumpeter 1954). Quando Engels pubblicò il secondo libro del Capitale, nel 1885, immediatamente la teoria del valore-lavoro e il tentativo di derivarne i prezzi vennero stroncati dagli economisti8, e nessuno dei tentativi posteriori di riprenderla analiticamente ha avuto successo. Nel Novecento, gli studiosi provenienti dal marxismo ma indipendenti dai partiti comunisti e interessati a mantenere il proprio lavoro al livello dell’economia e della sociologia scientifiche hanno infatti sostituito la teoria del valore-lavoro con teorie diverse, come la macroeconomia di Keynes (Hall e Soskice 2001), la teoria dei giochi (Roemer 1982), o la teoria della giustizia distributiva di Rawls (Burawoy e Wright 2000).
3.5 Le classi sociali Marx viene annoverato tra i protagonisti della nascita della prospettiva sociologica sull’economia, intesa come ampliamento e critica delle teorie della vita economica che trascurano la storia e le istituzioni (Paci 2013; Trigilia 2002). Una lettura diversa, ma non incompatibile, è quella che vede in Marx ed Engels gli ispiratori della moderna «sociologia del conflitto» (Collins 1992), la prospettiva sociologica che mette in luce l’importanza della competizione e del conflitto nella vita sociale. Tuttavia, oggi il concetto marxiano più utilizzato in sociologia, a parte quello di capitalismo9, è probabilmente quello di classe sociale. Marx non lo ha inventato: esso si trova in Smith e in Ricardo, nella teoria dei fattori di produzione e delle loro implicazioni distributive, 8
C’è chi sostiene che Marx non proseguì nella pubblicazione del Capitale proprio perché consapevole dell’impossibilità di derivare i prezzi dal valore-lavoro (Stedman Jones 2016). 9 Ma si veda la nota 4.
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ed era ampiamente in uso nella discussione politica nella Gran Bretagna del suo tempo, in particolare nel quadro del dibattito e delle mobilitazioni politiche per l’estensione del suffragio (Stedman Jones 2016). Marx ha unito il significato economico e quello politico del concetto di classe in un modo così efficace che è stato ampiamente ripreso da diversi autori non marxisti, da Max Weber a John Goldthorpe, che ne hanno fatto uno dei concetti più importanti della sociologia contemporanea. Il concetto marxiano di classe descrive come la posizione economica degli individui suddivida la popolazione in gruppi tra loro distinti, con dotazione differenziale di risorse e diverse capacità di mobilitarsi, individualmente o collettivamente, per mantenere o incrementare queste risorse. Come altre categorie fondamentali nello studio della disuguaglianza sociale, quali «genere» o «razza», il concetto di classe si basa sulla funzione psicologica fondamentale svolta dalle categorie: tramite esse possiamo «conoscere» il mondo e i nostri simili, classificando i singoli individui che incontriamo, altrimenti troppo faticosi da conoscere nelle loro caratteristiche singolari. Tali categorie vengono incontro al bisogno cognitivo, radicato nella psico-fisiologia dell’esperienza, di ridurre la complessità della percezione degli altri individui (Massey 2007). Secondo Marx, un modo di produzione comprende un determinato assetto delle «forze produttive», ovvero l’insieme dei capitali, delle tecnologie e delle materie prime disponibili, e un determinato assetto dei «rapporti di produzione», definiti in primo luogo dai rapporti di proprietà. La società borghese è caratterizzata dalla proprietà privata, in base a cui sono definite due classi: i proprietari, la borghesia, e i non proprietari, la classe operaia o proletariato. Secondo la teoria marxiana della dialettica storica, come abbiamo visto, queste due classi definiscono il modo di produzione capitalistico, e la loro contrapposizione è al centro del conflitto economico, sociale e politico che lo caratterizza. Marx non fornisce una definizione esplicita e coerente del concetto di classe sociale, probabilmente perché credeva che la sua fondazione nella teoria del plusvalore fosse più che sufficiente. In effetti lungo tutta la sua produzione edita e inedita, a partire dalle celebri pagine giovanili sull’alienazione del lavoro10, attraverso le varie redazioni del Capitale, fino all’analisi del passaggio storico dall’«estrazione del plusvalore relativo» a quella del «plusvalore assoluto» contenuta nel primo libro del Capitale (Marx 1867), Marx elabora una sociologia del lavoro operaio che ne ricostruisce la transizione dalla figura dell’artigiano, relativamente autonomo nel suo lavoro, collegato al mercato dal capitalista che gli commissiona il lavoro e lo rivende sul mercato, a quella dell’operaio industriale moderno, il cui lavoro è semplificato ed eterodiretto perché integrato con quello delle macchine. Questa analisi, ispirata dall’esperienza industriale di Engels, ha avuto un importante impatto sulla sociologia del lavoro e dell’industria tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma è stata 10
Pagine che vennero pubblicate quasi un secolo dopo con il titolo di Manoscritti economico-filosofici del 1844 (Marx 1932). La storia dei Manoscritti, un’opera discussa e influente, ma di fatto inventata dagli editori a partire da quaderni di appunti non sistematici (Rojahn 1983), è un buon esempio di come la pubblicazione degli inediti di Marx sia parte delle vicende politiche del marxismo.
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superata, almeno nei paesi più ricchi, dagli sviluppi della tecnologia e dell’organizzazione del lavoro post-fordisti. D’altra parte, quando studia la società a lui contemporanea o le sue origini immediate, Marx descrive un quadro dei rapporti di classe più articolato e realistico, che amplia il dualismo capitale-lavoro in un’analisi ante litteram della stratificazione sociale (si veda il Cap. 33). Nei testi marxiani si possono ricostruire due teorie delle classi di questo tipo, una basata sui rapporti di proprietà, l’altra sui rapporti con il mercato. La prima, la più frequente e più utilizzata, definisce la classe come «un gruppo di persone che si trovano nella medesima relazione di proprietà o non proprietà rispetto ai fattori di produzione, ovvero la forza lavoro e i mezzi di produzione» (Elster 1985, p. 322). Data la complessità reale dei rapporti di proprietà, questa definizione è difficilmente riconducibile al dualismo capitale-lavoro: la proprietà terriera è molto diversa dalla proprietà finanziaria, un piccolo imprenditore agricolo è diverso da un grande imprenditore industriale, esistono importanti forme di proprietà collettiva (dai beni demaniali alle società per azioni) e così via. Lo stesso vale per la seconda definizione, secondo cui le classi sono gruppi di individui che condividono una condizione e un comportamento rispetto al mercato, in particolare al mercato del lavoro: la classe borghese acquista lavoro; la classe operaia lo vende; la piccola borghesia non fa nessuna delle due cose, come nel caso del negoziante, o le fa entrambe, come nel caso del piccolo imprenditore che produce per conto di un intermediario commerciale. Entrambe le teorie sono utilizzate nelle ricerche della sociologia contemporanea: la prima corrisponde all’analisi delle classi «neomarxista» (Wright 1997), la seconda all’analisi delle classi «neoweberiana» (Goldthorpe 2006), ma dal punto di vista operativo le affinità tra le due versioni dell’analisi di classe sono maggiori delle divergenze. Per quanto riguarda la teoria, la discussione sulle classi è oggi una delle più importanti in sociologia (Wright 2005), mentre dal punto di vista della ricerca empirica la classe sociale viene ritenuta lo strumento analitico più adeguato per conciliare le esigenze di parsimonia e di dettaglio nell’osservazione su grande scala della stratificazione sociale, e in particolare per la comparazione nel tempo e nello spazio della disuguaglianza di opportunità (di diverso genere) e del suo mutamento (Lareau e Conley 2008).
3.6 Marx come studioso Marx non pensava a se stesso come a uno studioso o un insegnante nel senso consueto del termine, cioè una persona la cui occupazione consiste nella creazione e nella trasmissione di conoscenza. Con coerenza e determinazione, egli vide il compito della propria vita nell’elaborazione e nella giustificazione teorica della rivoluzione comunista, il fine a cui tende la storia della società, che riteneva essere imminente. Un compito simile a quello del profeta biblico, o del filosofo-poeta romantico, entrambe figure a lui vicine, il primo per le sue origini familiari, il secondo per la sua formazione culturale; e molto diverso, invece, da quello che gli scienziati sociali contem-
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poranei danno alla propria attività. Questi ultimi infatti, seguendo Max Weber, credono che gli studiosi debbano tenere ben distinte la ricerca e gli ideali personali, e che la ricerca sia una cosa ben distinta dall’attivismo politico, anche quando le due attività si avvicinano e collaborano. Marx è un’eccellente dimostrazione dell’importanza e dell’efficacia della distinzione weberiana. Come abbiamo visto, le parti del suo lavoro più direttamente legate ai suoi obiettivi e ai suoi ideali politici, in particolare la teoria della storia e la critica dell’economia politica, si sono dimostrate errate teoricamente, e hanno avuto implicazioni pratiche indesiderabili, quando non tragiche. Quando Marx è stato capace di calarsi interamente nel proprio oggetto di studio, lasciando perdere i propri obiettivi politici, ci ha invece lasciato spunti di analisi importanti e influenti, di cui la teoria delle classi, di cui abbiamo parlato, è uno degli esempi. D’altra parte, è vero che la visione romantico-religiosa dell’attività intellettuale, e la capacità di trasmetterla con una scrittura potente ed efficace spiegano il fascino che Marx ancora oggi esercita sui militanti e sugli studiosi della società che, contro Weber, vedono nel proprio lavoro una forma di attivismo politico, o una funzione di quest’ultimo. Ma se vediamo la sociologia economica, e le scienze sociali ed economiche più in generale, come un’impresa intellettuale autonoma, il cui obiettivo è una conoscenza dei processi socio-economici quanto più possibile obiettiva, allora Marx scende dal piedistallo e diventa nulla di più, ma anche nulla di meno, di un grande studioso di un’epoca e di una scienza lontane e diverse dalla nostra.
Letture di approfondimento Marx K. (1867). Das Kapital, Hamburg, Otto Meissner (trad. it. Il Capitale, a cura di A. Macchioro, A. Maffi, Torino, UTET, 2009). Schumpeter J.A. (1954). History of Economic Analysis, New York, Oxford University Press (trad. it. Storia dell’analisi economica, a cura di C. Napoleoni, Torino, Bollati Boringhieri, 1982). Stedman Jones G. (2016). Karl Marx. Greatness and Illusion, London, Allen Lane.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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4.1 Simmel e il suo contesto sociale e intellettuale Georg Simmel nasce nel 1858 in una Berlino che, da lì a poco, si sarebbe trasformata da realtà provinciale a metropoli moderna, al centro dello sviluppo economico dell’Impero tedesco unificato. Oltre a una scena culturale vivace e dinamica animata da artisti, scrittori, drammaturghi, Berlino si distingue anche per una sorta di controcultura organizzata intorno a un gruppo di intellettuali che accolgono e divulgano idee respinte dalla cultura ufficiale, come quelle del materialismo storico e del darwinismo sociale e gli attacchi à la Nietzsche alla borghesia dell’epoca. Simmel si forma, dunque, in un ambiente intellettuale non tradizionale o provinciale, ma stimolante e alternativo, crocevia di correnti di pensiero e stili di vita moderni. Durante tutta la sua vita, Simmel si trova completamente immerso nei dualismi e nelle contraddizioni della società tedesca dell’epoca: è portato per la scienza e la carriera accademica, ma soffre di un percorso particolarmente difficile; dotato di una forte capacità di analisi, non l’accompagna alla necessaria sistematicità accademica; attivo frequentatore di salotti e caffè culturali della controcultura berlinese, non si impegna politicamente; scrive libri scientifici per un pubblico accademico e articoli divulgativi per un’audience più ampia; è stimato, ma contemporaneamente respinto dall’Università. Insomma, Simmel rappresenta una figura decisamente atipica, mai integrata completamente in un mondo o in un altro, uno «straniero» in molti contesti. Non è infatti un caso che il tema degli stranieri, delle metropoli, della marginalità e dell’impersonalità siano tra i temi meglio sviluppati e più profondi. La sua carriera universitaria ne è un caso emblematico. Se di norma la carriera volgeva nel giro di pochi anni verso una posizione regolare nell’organico universitario, a Simmel ci vollero quindici anni per diventare professore associato e altri quindici per diventare ordinario. Sicuramente, la sua origine ebraica fu un pesante ostacolo alla carriera in un generale clima di antisemitismo, nonostante il battesimo protestante, le idee e i comportamenti laici. Un secondo motivo che ne rallentò la carriera era legato allo stile accademico decisamente anticonvenzionale: i suoi corsi attiravano – contemporaneamente – frotte di studenti e le antipatie dei colleghi, per via di un approccio brillante, ampio, affascinante, ma non metodologicamente sistematico. Anche il fatto di essersi dedicato, oltre che alla filosofia, alla sociologia pare sia stato un ostacolo. Questa era una nuova scienza che, sul finire del secolo, ancora non aveva un suo spazio nell’organizzazione disciplinare universitaria; richiamava una «preoccupante» associazione termi-
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nologica con «socialismo»; era promossa in Francia come una sorta di superscienza positivista alla ricerca di leggi sociali universali (si veda il Cap. 2) in netto contrasto con la scuola storica tedesca. Tutto sommato, Simmel compensò una carriera lenta e accidentata con un notevole successo nella vita intellettuale e culturale di Berlino e l’aperto riconoscimento di professori universitari decisamente integrati come Max Weber (si veda il Cap. 1).
4.2 La sociologia di Simmel Prima di passare all’opera principale di Simmel, La filosofia del denaro, uscita in Germania nel 1900, esporremo brevemente i concetti di forma, valore, differenziazione e istituzione. Innanzitutto, Simmel è considerato uno dei padri fondatori della sociologia, perché ha contribuito a definire l’oggetto di studio della nuova scienza, comparsa sulla scena europea a metà del XIX secolo. La sociologia studia i comportamenti degli individui e le loro regole nel momento in cui interagiscono e creano gruppi sociali. L’attenzione dell’autore si concentra sulle «interazioni tra gli atomi della società», ovvero sulle forme che le interazioni sociali tra due o più individui assumono. La sua è stata definita una sociologia «formale», perché interessata allo studio della forma della vita sociale, indipendentemente dal contenuto specifico di ogni singola interazione. In altre parole, Simmel guarda alle «strutture» che sostengono certi comportamenti specifici, come per esempio le diadi, le triadi o le strutture di interazione più complesse. Ciò che è importante non sono i contenuti specifici delle azioni, ma le loro associazioni, le loro forme. Per esempio, i comportamenti richiesti alla corte del Re Sole o nel consiglio di amministrazione di una società per azioni non avranno molte similitudini, ma la ricerca di relazioni conflittuali e di stili di subordinazione nei due casi potrà fare emergere modelli di comportamento (forme di sociazione) comuni. Simmel ha, infatti, come obiettivo quello di tracciare una «geometria della vita sociale». La differenziazione è il secondo concetto cardine del pensiero di Simmel. Nei piccoli gruppi, gli individui stabiliscono tra loro relazioni dirette che, però, si diradano, si stirano, si parcellizzano mano a mano che la grandezza e la complessità del gruppo crescono. Un gruppo ampio pretende meno dai propri membri, perché ciascuno avrà uno specifico compito che lo differenzia dagli altri. Infatti, le società moderne sono individualizzanti, eterogenee e basate su una solidarietà di tipo organico, mentre le società tradizionali sono a vocazione totalizzante e omogenizzante con una solidarietà di tipo meccanico (si veda il Cap. 2). La differenziazione implica che l’individuo aumenta il numero, modulandone l’intensità, delle cerchie sociali a cui partecipa, ma soprattutto apre le porte a una sua progressiva «liberazione» da rapporti di fedeltà e di dipendenza totalizzanti (come nel sistema feudale). Nel XII secolo in Germania inizia il processo di trasformazione dei pagamenti dovuti dai contadini ai loro signori: dalle corvée in natura si passa ai tributi in denaro; si capisce presto che questa pratica «libera» in una qualche misura i contadini che cominciano a maneggiare denaro. Per esempio:
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Il contadino feudale in Inghilterra non poteva vendere nessun capo di bestiame senza un particolare permesso del suo Lord. Infatti, mediante la vendita del bestiame, riceveva denaro col quale poteva comprarsi della terra da qualche parte e sottrarsi agli obblighi nei confronti del suo signore (Simmel 1900, trad. it. 1984, p. 414).
L’aumento del numero di relazioni monetarie, che facilitano gli scambi economici su larga scala, contribuisce progressivamente alla libertà individuale nelle società moderne. Secondo Simmel, il denaro è un fattore «assolutamente mobile» che nella società moderna diventa il mezzo che permette di conseguire, contemporaneamente, la massima estensione di una cerchia sociale e l’autonomia della personalità individuale. In altre parole, il denaro permette di coniugare libertà e riservatezza individuali, estendendo e allargando le reti sociali frequentate. Inoltre, tale libertà si riflette sempre più nella segmentazione della personalità di chi si trova a partecipare a un numero crescente di cerchie sociali, ritenute un fondamentale «indice di sviluppo della civiltà». Ci si allontana così progressivamente dall’idea di corporazione medievale che racchiudeva in sé l’uomo intero: l’arte dei lanaioli non era soltanto un’associazione di individui che curava gli interessi della manifattura della lana, ma anche una comunità di vita, dal punto di vista tecnico, sociale, religioso, politico e da molti altri punti di vista (ibidem).
Per Simmel, l’azione in generale è sostanzialmente individualistica e orientata verso un fine. Anzi, verso una «catena di fini»: maggiore il numero di cerchie sociali di appartenenza, più variegata è la gamma di finalità che guidano le azioni, in particolare se parliamo di un’azione economica in un mercato che si allarga. Infatti, lo scambio presuppone l’esistenza di mezzi e fini, che possono trasformarsi a loro volta in mezzi per ulteriori fini, in parallelo alla differenziazione strutturale della società. La divisione del lavoro ne è un tipico esempio: la catena di montaggio di una fabbrica manifatturiera A ha il fine di produrre un determinato bullone B, che a sua volta sarà lo strumento per la produzione di una merce nella fabbrica C. Lo stesso accade con il denaro: nella società moderna esso facilita lo scambio in quanto mezzo, ma può tramutarsi in un fine «assoluto che […] invade le pratiche sociali» (Simmel 1900, trad. it. 1984, p. 338), acquisendo una sua propria desiderabilità sociale. Tuttavia, l’azione non è egoistica (come per gli economisti neoclassici), proprio perché richiede che ci sia una «controparte»: La libertà individuale non è la pura determinazione interna di un soggetto isolato, ma un fenomeno di relazione che perde il proprio senso quando non c’è una controparte (ivi, p. 430).
Mettiamo a fuoco l’ultimo aspetto chiave di Simmel: le istituzioni, cioè quei complessi sistemi di regole e di risorse che riguardano specifici valori (etici, religiosi, politici) critici per l’attività umana. Esse sono in stretta relazione con il processo di differenziazione prima descritto perché nascono dalle «interazioni di molti». Si configurano come
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istituzioni oggettive, che costituiscono, per così dire, la stazione centrale per infinite curve teleologiche degli individui e offrono a questi uno strumento perfettamente adatto per la loro estensione a ciò che sarebbe per loro irraggiungibile (ivi, p. 307).
Ciò significa che l’individuo «beneficia di uno strumento apprestato dalla collettività che moltiplica la forza individuale» (ivi, p. 306), dimostrando la prima caratteristica delle istituzioni: sono un’opportunità per i singoli. Una volta che emergono e si consolidano, le istituzioni risultano come dati oggettivi, con risorse e organizzazione proprie, ma non immutabili. Per quanto la loro vita sia più lunga di quella del singolo, esse muoiono e risorgono, cristallizzandosi in strutture diverse, come il baratto e il mercato o il sistema feudale e lo stato, in base al periodo storico. Qui si rivela la seconda caratteristica delle istituzioni: esse sono anche un vincolo. Infatti, una volta che si rendono indipendenti dall’interazione che le ha prodotte, diventano agenzie centrali, più astratte e generali (come lo stato), nella società che rappresentano, e svolgono funzioni di potere. Il denaro è un perfetto esempio di istituzione pubblica perché, nato dall’interazione tra soggetti sempre meno dipendenti da una società totalizzante e operativi su una scala geografica più ampia (per esempio, mercanti e banchieri), diventa oggettivo e condiziona le relazioni sociali future. Paradossalmente, l’individuo consegue libertà solo attraverso le forme istituzionali, ma queste compromettono la sua libertà effettiva. Il denaro è contemporaneamente disgregante e unificante, allontana dalla società tradizionale e traghetta verso quella moderna.
4.3 Moneta e denaro tra economia e sociologia Il denaro è tradizionalmente visto come uno dei tratti distintivi della modernità ed è associato all’individualismo e alla razionalità del sistema capitalistico. Tuttavia, economia e sociologia hanno spesso scelto la strada più facile e relegato la spiegazione del denaro ai margini delle loro teorie. In entrambe le discipline – a parte qualche emblematica eccezione – c’è stata una sistematica sottovalutazione della moneta, della sua natura, delle sue caratteristiche e delle sue implicazioni economiche, politiche e sociali. Procediamo ora con una breve presentazione di alcuni punti chiave della teoria economica con i quali i sociologi classici (Marx, Weber e Simmel) a cavallo tra Ottocento e Novecento si confrontano ed elaborano la loro posizione relativa alla moneta per poi presentare i contributi più recenti che dagli anni Settanta del XX secolo hanno dato nuovo smalto alla sociologia del denaro (Zelizer). 4.3.1 La teoria economica Quattro sono le funzioni economiche attribuite alla moneta: mezzo di scambio, riserva di valore, mezzo di pagamento e misura di valore. La funzione di mezzo di scambio è la principale e da questa derivano le altre. La teoria economica classica vede
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il denaro come un oggetto che rende più efficiente una forma tradizionale di scambio come il baratto, nel momento in cui più di due soggetti partecipano allo scambio (che da bilaterale diventa multilaterale). In una società via via più complessa, la moneta rappresenta il mezzo di scambio che affianca la divisione del lavoro e permette di equiparare, trasformandolo, il lavoro del barbiere a quello del contadino attraverso tassi di scambio adeguati. Successivamente, la rivoluzione marginalista fonda la teoria neoclassica dell’economia sul principio di «utilità marginale» agganciato agli assiomi di razionalità e concorrenza perfetta. Il denaro è considerato una merce e, in quanto tale, il suo valore può essere spiegato dall’incontro tra domanda e offerta, dall’utilità marginale, dai costi di produzione o dalla quantità di moneta in circolazione. Infine, la moneta è il simbolo dei rapporti di scambio, emerge «naturalmente» dal mercato e rappresenta un «velo» steso sui meccanismi di funzionamento dell’economia. Si tratta di un velo neutro, di una «cosa» che non altera l’economia reale né costituisce una forza economica autonoma. Non ci si interroga sulla natura della moneta che è, dunque, definita dalle sue stesse funzioni: essa è ciò che essa fa. 4.3.2 Marx Nonostante l’opera di Karl Marx (si veda il Cap. 3) rappresenti una critica radicale all’economia classica, nella spiegazione del capitalismo egli riprende il concetto di moneta come mezzo di scambio, senza problematizzarne la natura e le origini. La moneta è infatti assimilata a una merce, il cui valore si desume dalla teoria del valore-lavoro, ovvero il valore del lavoro necessario alla sua produzione. Tuttavia, Marx (1867) critica ed elabora ulteriormente l’idea che il denaro sia un semplice velo steso sui meccanismi economici. In realtà ci sono due veli: il primo è quello, individuato anche dai classici dell’economia, che rappresenta le «naturali» relazioni di scambio nell’economia reale basata sulle merci, mentre il secondo è quello che «maschera» le relazioni sociali sottostanti ai rapporti economici. L’invito è dunque ad andare oltre le relazioni monetarie per smascherare i rapporti economici in esse simbolizzati che, a loro volta, nascondono relazioni sociali di uno specifico modo di produzione (per esempio, quello capitalistico). Secondo Marx, quindi, il denaro rappresenta l’alienazione dei rapporti tra borghesia e proletariato, ovvero le relazioni sociali sottostanti il modo di produzione economico tipico del capitalismo. In altre parole, il denaro è il simbolo con cui si esprime l’appropriazione del plusvalore del lavoro da parte della classe dominante, e quindi diventa uno strumento di dominio. La lotta di classe si esprime anche attraverso il denaro. Solo scostando questo doppio velo sarà possibile demistificare e guardare la vera anima del capitalismo. 4.3.3 Weber Max Weber (1923) considera la moneta un prerequisito, ma, soprattutto, una conseguenza del processo di razionalizzazione del mondo occidentale.
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L’uso della moneta sostiene l’ampliamento del mercato, permettendo un sempre maggior numero di scambi indiretti, cioè multilaterali, in cui i beni offerti sono separati nel tempo e nello spazio da quelli domandati rispetto alle persone coinvolte e rispetto alla quantità da entrambi i lati della transazione. A differenza dei classici e di Marx, Weber non pensa che la moneta sia una merce, ma la identifica con la sua funzione di unità di conto – anziché mezzo di scambio – che permette di «assegnare valori monetari a tutti i beni e servizi scambiati». La moneta diventa così il migliore strumento che può orientare razionalmente l’attività economica, permettere l’accumulazione di capitale e creare relazioni di credito e debito. La moneta pensata in primo luogo come unità di conto (misura astratta di valore) consente un’attribuzione sempre più precisa dei valori monetari e promuove lo sviluppo razionale degli apparati burocratici e dei sistemi di tassazione. In altre parole, la moneta è un’infrastruttura tecnologica che connette l’economia allo stato. L’analisi di Weber centrata sull’unità di conto contestualizza anche un’altra funzione della moneta: la riserva di valore. Affinché la moneta sia riserva di valore deve esserci un’autorità che definisca e sostenga formalmente il sistema monetario di riferimento. Oltre a quella formale, Weber attira l’attenzione sulla validità sostanziale della moneta. Non è solo questione di autorità, ma anche della lotta di potere tra parti contrapposte (con i loro propri interessi) che contribuiscono a creare una ragionevole aspettativa reciproca sul valore della moneta. Infine, Weber riconosce il ruolo conflittuale della moneta quando sottolinea come il prezzo non sia il frutto delle dinamiche della domanda e dell’offerta secondo un’ottica neoclassica. I prezzi sono, invece, l’espressione della lotta tra interessi opposti – di produttori e consumatori – che riflettono «costellazioni di potere» che caratterizzano la società. In linea con Marx, la moneta perciò non è un velo neutro steso sui meccanismi di scambio delle merci, ma è un’arma nella lotta economica. 4.3.4 Simmel Le analisi sul denaro di Georg Simmel sono state sottovalutate, perché quasi esclusivamente associate ai caratteri della modernità (si veda il Par. 4.4.3). Simmel si interrogò invece sulla natura e le origini della moneta, nonché sulle sue qualità e sulla sua produzione. Come per Weber, la moneta per Simmel è sia causa sia conseguenza dell’aumento delle relazioni «impersonali» e quindi moderne, tanto nell’economia quanto nella società. Essa, come forma di sociazione, sostiene relazioni sempre più individualizzate e frammentate, cioè astratte. Non a caso, Simmel attribuisce il primato analitico alla funzione di moneta di conto e, dunque, a un valore astratto. Per questo motivo, Simmel rifiuta l’idea di moneta come merce, non allineandosi alla teoria neoclassica o a Marx. Simmel non si accontenta dell’idea che il denaro supplisca alle inefficienze del baratto, ma capisce che lo scambio economico tramite moneta è strutturalmente diverso. Il suo tratto distintivo è l’essere agganciato a una struttura di relazioni sociali: anzi, a una relazione sociale particolare come quella tra creditore e debitore. Il denaro non è quindi una cosa o un velo, ma un titolo, cioè una riven-
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dicazione, verso la società (Par. 4.4.1). Tuttavia, Simmel non approfondisce questa sua intuizione e finisce con l’enfatizzare il suo valore neutrale, proprio in quanto valore astratto. Alla pari di Weber, Simmel sottolinea il legame tra economia moderna, stato e moneta. Quest’ultima assume il ruolo di istituzione socialmente e politicamente costruita (Par. 4.4.2), di cui Simmel analizza in dettaglio gli aspetti sociali di interazione. 4.3.5 Zelizer Viviana Zelizer (1977, 2009) si distanzia nettamente dai classici dell’economia e della sociologia. Dei primi non condivide l’idea che la moneta sia una cosa, un velo neutro, che facilita le transazioni economiche. Dei secondi (in particolare, di Simmel e Marx) critica la netta separazione tra economia e cultura quando, invece, la moneta è il punto di incontro di queste due sfere. La moneta non è un semplice mezzo di scambio senza qualità intrinseche, ma un processo in cui gli attori hanno un ruolo attivo. Ci sono valori monetari propri (nella sfera economica, profana o impersonale), ma ci sono anche valori non monetari (nella sfera sociale, sacra o personale) a contribuire alla definizione di denaro. Inoltre, Zelizer contesta la direzione unilaterale di questa influenza: se è vero che il denaro modifica i valori (uniformandoli e standardizzandoli), i classici non riconoscono che anche i valori non-monetari (caratteristici della sfera culturale) possono modellare il denaro. Infine, l’autrice critica gli effetti negativi attribuiti al denaro, ritenuto responsabile dell’alterazione e della corrosione delle relazioni sociali in un’economia monetaria. In altre parole, il «pregio» di rendere uniformi, calcolabili e razionalizzati i processi economici viene ridiscusso e smontato attraverso due argomenti. Primo, Zelizer critica l’omogeneizzazione del denaro, perché esso è sempre multiplo. Chiunque utilizzi denaro lo può trasformare, adattare e modellare per i propri fini e in base alle strutture di significato personali. Ecco perché tanto nelle società moderne quanto in quelle tradizionali si possono elencare molteplici pratiche che «differenziano» il denaro, per cui «non tutti i dollari sono uguali». Per esempio, la divisione del lavoro domestico ed extradomestico nella coppia può generare significati differenti per le finanze della famiglia: il dollaro guadagnato dalla moglie con piccoli lavoretti è diverso da quello guadagnato dal marito. Ugualmente, il denaro vinto alla lotteria o racimolato illegalmente ha un significato e un impiego diversi dal denaro guadagnato con il proprio lavoro. Infine, è esperienza comune distinguere e destinare somme di denaro ad attività specifiche, come le vacanze, lo studio, la spesa alimentare. L’attribuzione di significato è il cuore dell’attività – Zelizer la chiama earmarking – che rende il denaro non omogeneo e, quindi, multiplo. Secondo, l’autrice rifiuta anche l’idea, di converso, di un’omogeneizzazione di tutte le forme della vita sociale attraverso il denaro. Se è vero che il denaro influenza le pratiche sociali (anche non di mercato), è altrettanto vero che esso è modellato da fattori sociali e istituzionali che esulano dal mercato. L’organizzazione della sfera sociale e politica ne influenza quindi la produzione, la distribuzione e gli usi. Zeli-
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zer confuta così l’idea che economia e cultura siano «mondi ostili», ossia due ambiti separati e indipendenti. Anzi, essi si sostengono a vicenda, in un rapporto di mutua interazione che si riflette sul denaro. Ricapitolando, le visioni della moneta qui richiamate possono essere ulteriormente schematizzate in un approccio strutturale e in uno culturale, scomponibili a loro volta in una prospettiva micro e in una macro. Il primo approccio è determinato dalla struttura sociale, mentre il secondo è agganciato al complesso di valori e norme condivise che gli attori traducono in pratiche e simboli specifici. La prospettiva strutturale enfatizza la struttura sociale associata alla moneta: ci possono essere modelli di relazioni interpersonali in cui il denaro è un oggetto (livello micro) oppure meccanismi politici e legali che definiscono il contesto in cui opera la moneta (livello macro). Nel primo caso, come vedremo, Simmel evidenzia le strutture sociali che sottostanno agli scambi monetari tipici del mercato o delle relazioni intime. Nel secondo caso, Simmel fa riferimento agli assetti politici e burocratici che costruiscono l’ambito di azione del denaro. Al contrario, per Marx le relazioni sociali di classe definiscono l’ambito in cui il denaro è usato come strumento di dominio; lo stesso vale per Weber, che vede i prezzi e il denaro definiti dalle lotte di potere di gruppi sociali contrapposti. La prospettiva culturale guarda agli aspetti cognitivi e culturali della transazione economica, sottolineando i valori e le credenze che influenzano le pratiche relative al denaro (livello micro) oppure i sistemi di significato più ampi – come la religione, la società civile – che contribuiscono a definire il suo valore e ruolo sociale (livello macro). Qui rientrano quelle che Simmel chiama «costellazioni sociologiche» (Par. 4.4) oppure gli studi di Zelizer, che sottolineano come siano i valori culturali – per esempio, inerenti alle relazioni di genere – a modellare l’attività di allocazione di significato del denaro. Il denaro, poi, può essere visto come una variabile indipendente, cioè come causa, oppure come variabile dipendente, cioè come conseguenza. Se la moneta è una variabile indipendente, sarà possibile individuarne gli effetti, per esempio, nella corrosione e nel deterioramento delle relazioni che di solito non sono organizzate intorno al denaro, come quelle familiari. Oppure emergeranno dei fenomeni, come l’alienazione, quale effetto diretto dell’operare del denaro (Marx, Simmel). Se, invece, il denaro è una variabile dipendente, esso sarà l’esito di processi come l’attribuzione di significato (earmarking, Zelizer), oppure di lotte di potere (Weber).
4.4 La filosofia del denaro In questo paragrafo approfondiremo le caratteristiche del denaro che Simmel analizza nella sua opera La filosofia del denaro, che – senza farci trarre in inganno dal titolo – rappresenta il primo contributo sistematico per una sociologia del denaro.
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4.4.1 Natura e proprietà del denaro Per proseguire nell’analogia della «catena di fini», possiamo dire che per Simmel il denaro è un anello, un tramite tra le relazioni individuali che in ambito economico si configurano come scambio. Il denaro ha una «doppia natura», di relazione e di strumento. In altre parole, è tanto un processo quanto una cosa. Vediamone i particolari. Come anticipato, l’azione economica non è egoistica, ma è sempre in relazione ad altri attori. Infatti, il denaro è «una forma squisitamente sociologica» (Simmel 1900, trad. it. 1984, p. 254) perché priva di significato quando si riferisce a un solo individuo. Il denaro ha una doppia natura, dato il suo essere contemporaneamente espressione e strumento di una relazione sociale di reciproca dipendenza tra uomini e, quindi, di fiducia (2 Box 4.1 e 4.2). Anzi, la moneta si sostanzia in una promessa di pagamento tra un creditore e un debitore. Ciò accade perché essa veicola le valutazioni soggettive che gli individui danno di beni scambiati per soddisfare i propri desideri. Così, Simmel mette a nudo l’importanza della dimensione sociale del denaro, tema che sarà fondamentalmente rivalutato da Zelizer: Il rapporto comune che il possessore di denaro e il venditore hanno nei confronti di una determinata cerchia sociale, la pretesa del primo a una prestazione nell’ambito di questa cerchia e la fiducia del secondo che questa pretesa verrà soddisfatta, costituisce la costellazione sociologica nella quale si compie la transazione monetaria in contrapposizione allo scambio in natura (ivi, p. 263).
Veniamo ora all’altra faccia del denaro: la strumentalità. La forma pura di moneta delineata da Simmel è perfettamente fungibile, nel senso che può essere scambiata con qualsiasi cosa ed è universalmente riconosciuta come strumento di quantificazione del valore. Essa facilita i confronti tra merci diverse attraverso il prezzo, che è tale solo in confronto ad altre merci, non ha valore intrinseco e si può quindi prestare a essere spiegata dall’incontro tra domanda e offerta (neoclassici) o dalla teoria del valore-lavoro (Marx). Come la misura di un litro ha valore economico non per il materiale di cui è fatta e per la sua forma, ma perché assolve la funzione di misurare – se non servisse a questo scopo esterno, nessuno la richiederebbe – così anche il denaro acquista valore grazie alla sua facoltà di servire da misura e di svolgere altre funzioni (ivi, p. 295).
Questa strumentalità del denaro è poi enfatizzata quando pensiamo alle caratteristiche di generalità, trasportabilità, silenziosità e impersonalità. Il denaro rimanda agli usi molteplici e generali che di esso si possono fare, come una stazione centrale che accoglie e smista i treni. La trasportabilità del denaro è una caratteristica che si è sviluppata gradualmente nella storia – pensiamo alle banconote, alle cambiali o ad altri strumenti di credito – ed è risultata cruciale per l’espansione dell’economia monetaria moderna. La terza caratteristica (la silenziosità) deriva dal fatto per cui «in linea di principio il denaro rende possibile una segretezza, un’invisibilità, una silenziosità nel cam-
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biare proprietario che nessuna altra forma di valore consente» (ivi, p. 548). Gli stranieri, coloro che occupano cerchie sociali marginali o oppresse, realizzano attraverso il denaro ciò che la società preclude loro: basti pensare ai liberti romani, agli ebrei o a certe famiglie fiorentine bandite dai Medici che non godevano della piena cittadinanza, non potevano accedere a cariche pubbliche o venivano spogliate della loro potenza politica (ivi, p. 330). L’impersonalità deriva direttamente dalla strumentalità, ma implica anche una relazione con la collettività che trascende i singoli individui. Infatti, il denaro acquista valore solo in rapporto ad altre merci e altre persone, che costituiscono la costellazione sociologica all’interno della quale si registra la transazione economica e si commina eventualmente la sanzione. L’impersonalità presuppone e, contemporaneamente, alimenta quell’atteggiamento specifico del denaro – strumentale, distaccato, neutrale – interpretabile come «il migliore strumento razionale» per la calcolabilità e la condotta economica (Weber). Infine, l’impersonalità del denaro si svela nel legame meno stretto che intercorre con il suo possessore rispetto al proprietario di terra, che invece ha degli obblighi specifici nei confronti del proprio bene. Il denaro strumentale e impersonale si adatta perfettamente a tutte quelle relazioni che non richiedono affetto o impegno personale. Per esempio, «solo la transazione in denaro ha quel carattere di relazione del tutto momentanea che è proprio della prostituzione» (ivi, p. 536). L’oggettività del denaro lo rende un puro mezzo di scambio, perfetto per la prostituzione, perché «tronca ogni ulteriore conseguenza nel modo più netto» (ibidem).
4.4.2 Denaro e istituzioni La doppia natura – relazionale e strumentale – del denaro si riflette nella molteplicità di usi di cui il denaro si fa protagonista, sia come riserva di valore sia come mezzo di scambio. Il denaro stesso diventa istituzione, perché si realizza come vincolo e come opportunità. Tutto ciò è possibile all’interno di un contesto istituzionale strutturato e ben organizzato, in cui la «cultura dello scambio sia solida e sicura», perché essa influenza tutti gli aspetti esteriori della forma monetaria. Che un materiale così delicato e facilmente logorabile come la carta sia divenuto portatore dei più elevati valori monetari […] è stato possibile soltanto in un ambito […] capace di fornire garanzie di reciproca protezione (Simmel 1900, trad. it. 1984, p. 254).
Questo è il ruolo del potere politico quando si centralizza e si dota di strutture burocratiche efficienti e moderne. Infatti, il valore del denaro dipende dalla garanzia che il potere politico centrale offre nel sostituire gradualmente la garanzia immediata rappresentata dalla moneta metallica. Sono infatti gli assetti politici che sanciscono e garantiscono il denaro come istituzione pubblica, in base alla condivisione di accordi, regole e valori che si riflettono anche in altre istituzioni che caratterizzano l’economia monetaria moderna, come la libertà, il diritto positivo e la costituzione liberale. In particolare, Simmel sottolinea
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«il carattere democratico del denaro rispetto a forme personali di ricompensa tipiche del feudalesimo o del mecenatismo» (ivi, p. 488): l’anonimità di chi paga in denaro rompe il legame specifico tra il produttore e il consumatore di una merce. In altre parole, Simmel considera il denaro come una costruzione sociale e politica. Da un lato, si tratta di una relazione sociale vera e propria che si struttura all’interno di una costellazione sociologica, dove gli attori interagiscono e veicolano significati e aspettative. Dall’altro lato, il denaro è anche una costruzione politica, perché ha bisogno di un’autorità che lo sostenga e ne garantisca il valore nel tempo. 4.4.3 Denaro e alienazione In linea con Marx, Simmel pensa che la società moderna esponga l’individuo a una condizione di alienazione crescente, dovuta alla progressiva differenziazione strutturale e alla crescente produzione di oggetti culturali. La prima, come abbiamo visto, allontana e allarga la distanza tra gli individui all’interno di cerchie sociali multiple, sempre più ampie, tipiche di metropoli o di mercati. La seconda, invece, è dovuta alla crescente produzione di oggetti che eccedono la soddisfazione dei bisogni primari degli individui. Questi prodotti culturali, scambiabili attraverso il denaro, diventano opportunità di conoscenza e di crescita personale. Tuttavia, producono anche un senso crescente di estraniamento – di alienazione – negli individui che, di fronte a tanta varietà, non riescono a consumarne e a goderne pienamente. C’è però una differenza sostanziale: per Simmel, l’alienazione è una condizione inevitabile nella società moderna, ne rappresenta il destino ineludibile; Marx, invece, la legge come condizione specifica del sistema capitalistico destinata a essere superata in futuro. L’alienazione si associa, infine, allo strano fenomeno che Simmel etichetta come la «tragedia della cultura», ovvero lo scarto tra le chance di miglioramento e avanzamento culturale presenti nella società moderna rispetto alle capacità dei singoli di appropriarsene. In pratica, Simmel è preoccupato che l’individuo alienato sia sommerso e soggiogato dalla quantità di oggetti che la società moderna, anche grazie alla tecnologia, riesce a produrre, perdendo in autonomia personale e capacità individuale di conoscere, criticare e valutare (i tratti caratteristici della modernità). Chiudiamo con un interessante parallelo con la società contemporanea, in cui il ruolo della tecnologia è ancora più evidente e caratterizzante. Pensiamo alla quantità di informazioni disponibile oggi, in particolare grazie al web e ai social media, come a un insieme di oggetti culturali di cui possiamo godere per aumentare le nostre conoscenze. Tuttavia, di fronte a tale sovrabbondanza di informazioni molti non riescono più a filtrare e selezionare, smarrendo la capacità di valutare e criticare (per esempio, le fake news). Esattamente le stesse preoccupazioni di Simmel.
4.5 Le sfide e le problematiche contemporanee Oltre un secolo dopo l’opera di Simmel, il processo di modernità ha proceduto speditamente e si dice che la nostra società stia vivendo un momento di modernità «radi-
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cale». Proprio in questa direzione oggi Simmel leggerebbe il moltiplicarsi di monete cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni. La moneta ideale, basata sulla perfetta fungibilità immaginata da Simmel, elencherebbe oggi molti più casi empirici di quelli disponibili all’inizio del XX secolo. Oltre alle monete ufficiali degli stati, si sono sviluppate monete alternative e complementari (Amato e Fantacci 2016). Le prime sono monete che vogliono soppiantare quelle ufficiali, seguono una logica di competizione tipica del mercato, incorporano tutte le funzioni tradizionali che abbiamo elencato e, quindi, sono generali. Le seconde vogliono affiancare quelle ufficiali, hanno un carattere locale, sono territorialmente definite e accentuano la funzione di unità di conto, limitando quella di riserva di valore. Tra le prime spiccano le monete virtuali, tra le seconde annoveriamo i circuiti di mutuo credito (LETS e banche del tempo). Faremo qualche breve considerazione su una delle più famose monete virtuali – Bitcoin – e una moneta complementare italiana – Sardex. Oltre a riallacciarsi all’idea di Simmel circa la produzione di oggetti che nascono e poi soggiogano gli individui, la diffusione di monete può essere letta in due modi: in una prospettiva più economica, come il tentativo di porre rimedio a sistemi monetari imperfetti, e, in una prospettiva più sociologica, come la ricerca di stili di vita alternativi – sia di consumo sia di produzione – a quelli di mercato. Non è un caso che dalla crisi del 2008 si parli sempre più di monete e sistemi monetari innovativi, perché, come diceva negli anni Trenta del secolo scorso l’economista eterodosso Keynes, si parla di moneta quando essa non funziona. Complice la tecnologia, assistiamo all’esplosione di monete virtuali (Dash, Litecoin, Dogecoin, Ripple), di cui la più famosa è Bitcoin, una moneta basata sulla tecnologia distribuita Blockchain. Come sistema di pagamento, Bitcoin si affianca alle più conosciute forme elettroniche, come le carte di credito, e realizza un’effettiva forma di disintermediazione, non necessitando più il ricorso a una banca, a favore dello scambio tra pari (peer-topeer). Come moneta, Bitcoin si caratterizza per essere slegata da un effettivo scambio di beni e servizi e da una moneta ufficiale, nonché per un volume predeterminato e per un’alta volatilità dovuta alla sua non fungibilità. In generale, questa descrizione richiama i tratti della moneta descritti dai classici dell’economia e della sociologia, mentre le monete complementari rientrano nel filone aperto da Simmel e Weber, ripreso da Zelizer. In Bitcoin, la crittografia permette anche di «sostituire» quella «relazione sociale», di fiducia, insita nella moneta, di cui abbiamo ormai capito l’importanza. Bitcoin rimane una merce e, come tale, può essere sottratta alla circolazione (perché riserva di valore) e tesaurizzata. L’accumulazione di ricchezza, però, non è neutrale, ma porta con sé la costruzione di gerarchie che riflettono relazioni di potere. Oggetto di attenzione da parte di sociologi come Simmel, Weber e Marx, le relazioni di potere intorno alle monete virtuali – e quindi alla loro architettura, al loro funzionamento e alle loro conseguenze – sono tutte da studiare. Se invece non si considera la moneta come merce, si enfatizza la sua caratteristica di valore da preservare. Ecco allora riapparire la dimensione sociale, cioè la «controparte specifica» che Simmel ritiene fondamentale in ogni transazione che si svolge all’interno di un gruppo e di una comunità. In quest’ottica nascono le monete complementari. Sardex è un circuito di mutuo credito tra piccole e medie imprese
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nato nel 2010 in Sardegna con l’intento di reagire alla crisi economica e muovere l’economia locale. Il progetto prende ispirazione dal circuito WIR per imprese nato a Basilea nel 1934 per contrastare la Grande Depressione, gestito oggi da una banca di credito cooperativo. La costruzione di questo circuito, in cui si possono fare solo operazioni commerciali, prevede che ogni transazione generi un credito per chi vende e un debito per chi compra, per cui la somma algebrica di tutte le compravendite è zero. Sardex, come unità di conto, è in parità con l’euro, non è però convertibile e non ha tasso di interesse. Ciò significa che non c’è incentivo ad accumulare moneta, ma, anzi, a farla circolare. Sardex enfatizza quella relazione sociale che ogni creditore/debitore ha nei confronti della comunità di riferimento che Simmel chiama «costellazione sociologica». La moneta non si riduce così a svolgere solo funzioni economiche, ma riacquista un valore e un significato sociale, tanto per i singoli che per la collettività di riferimento. In quest’ottica, le monete complementari rappresentano una sfida per i futuri studi sul denaro a cui tanto gli approcci strutturalisti quanto quelli culturali potranno dare il loro contributo.
Letture di approfondimento Amato M., Fantacci L. (2016). Per un pugno di Bitcoin, Milano, Università Bocconi Editore. Marx K. (1867). Das Kapital, Hamburg, Otto Meissner (trad. it. Il Capitale, a cura di A. Macchioro, A. Maffi, Torino, UTET, 2009). Simmel G. (1900). Philosophie des Geldes, Leipzig, Duncker & Humblot; 2a ed., 1907; 7a ed., 1977 (trad. it. Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli, L. Perucchi, Torino, UTET, 1984). Weber M. (1923). Wirtschaftsgeschichte, Berlin, Duncker & Humblot (trad. it. Storia economica, trad. di S. Barbera, Roma, Donzelli, 2007). Zelizer V. (1977). The Social Meaning of Money, Princeton (NJ), Princeton University Press. Zelizer V. (2009). Vite economiche. Valore di mercato e valore della persona, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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5 Joseph Schumpeter. Dall’imprenditore innovatore allo stato imprenditoriale di Francesco Ramella
5.1 Un economista eterodosso Joseph Alois Schumpeter nasce a Triesch in Austria nel 1883. A dieci anni si trasferisce con la madre a Vienna, dove compie i suoi primi studi universitari in legge e in economia. Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza nel 1906, inizia a insegnare Economia Politica, prima come Privatdozent all’Università di Vienna (1909), poi come professore aggiunto all’Università di Czernowitz (1909) e infine come professore ordinario all’Università di Graz (1911), dove rimane fino alla prima guerra mondiale. In ognuno di questi ruoli, che segnavano le tappe della carriera accademica nell’Impero Austro-ungarico, risulta il più giovane professore di economia ad avere ottenuto l’incarico. Al termine del conflitto vive una breve ma intensa parentesi che lo proietta verso la politica e il mondo degli affari. Nel 1919 diventa ministro delle Finanze nella Repubblica socialista austriaca e dal 1921 al 1924 presidente della Biedermann Bank. Entrambe le esperienze si concludono con un insuccesso. Dal 1925 al 1932 viene nominato professore di Scienza delle Finanze all’Università di Bonn e poi, nel 1932, si trasferisce negli Stati Uniti dove insegna presso l’Università di Harvard fino al momento della sua morte, avvenuta all’età di 66 anni (Swedberg 1991). Schumpeter è un economista a tutto tondo. Possiede però un profilo intellettuale particolare, di grande interesse per la sociologia economica. Sviluppa infatti un approccio di studio attento ai fattori storici e istituzionali, che lo pone al confine di più discipline. Si muove, inoltre, a cavallo tra il mondo mitteleuropeo e quello anglosassone e questo lo sensibilizza sulla variabilità e storicità degli assetti socioistituzionali, consentendogli di analizzare le trasformazioni e la crisi del capitalismo ottocentesco da diverse prospettive, tratteggiando una previsione circa l’affermarsi di forme più regolate di economia e, in prospettiva, del socialismo. Sebbene si formi nell’ambito della scuola austriaca, e condivida molti degli assunti dell’analisi economica neo-classica, risente anche delle influenze della scuola storica, all’epoca piuttosto diffusa in Germania, così come del marxismo e dell’approccio sociologico. Nel corso degli anni sviluppa un marcato interesse per un paradigma scientifico più comprensivo e interdisciplinare, vicino all’idea weberiana dell’economia sociale, in cui trova spazio anche un approccio di tipo storico-empirico. Tra le tecniche necessarie per l’analisi economica, infatti, Schumpeter elenca la storia, la statistica e la teoria, aggiungendovi poi anche la sociologia economica. Nonostante si sentisse molto vicino a uno studio teorico dei fenomeni economici, di taglio analitico
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e astratto, cionondimeno riteneva la conoscenza empirica, in generale, e quella storica, in particolare, molto importanti. L’oggetto dell’economia, infatti, è un «processo unitario» collocato nel tempo, la cui comprensione richiede un’adeguata padronanza di ciò che l’economista austriaco chiama l’«esperienza storica». La sua interpretazione, inoltre, non può essere puramente economica ma deve includere anche i fattori istituzionali. È all’interno di questa prospettiva, perciò, che trova posto anche la sociologia economica, il cui scopo è quello di fornire «descrizioni interpretative» delle istituzioni rilevanti per il funzionamento dell’economia, quali: le abitudini e tutte le forme di comportamento in generale, come il governo, la proprietà, l’impresa privata, i comportamenti consuetudinari o razionali (Schumpeter 1949b, pp. 203-204).
5.2 Le coordinate concettuali: innovazione e sviluppo nel capitalismo concorrenziale L’importanza attribuita da Schumpeter ai fattori socio-istituzionali si rileva già ne La teoria dello sviluppo economico (pubblicato per la prima volta nel 1911), l’opera più famosa del «periodo giovanile». Si tratta di un libro che affronta il tema dello sviluppo dal punto di vista teorico, collocando al centro della spiegazione la funzione imprenditoriale. In esso Schumpeter prende chiaramente le distanze dalla corrente di pensiero prevalente ai suoi tempi – la cosiddetta economia neo-classica – che viene indicata come sostanzialmente statica e incapace di spiegare l’elemento centrale per lo sviluppo: l’innovazione. Nel primo capitolo, infatti, fornisce una descrizione tipizzata del flusso circolare della vita economica: una situazione caratterizzata da un equilibrio di mercato che determina la quantità e il prezzo delle merci prodotte, sulla base di routine e di consuetudini consolidate. I mutamenti che vi si riscontrano sono di tipo continuo, marginali e incrementali, e avvengono senza modificare in maniera sostanziale il quadro delle condizioni date. È a questo tipo di situazioni che la teoria neo-classica fa riferimento, poiché si occupa degli stati stazionari e dei mutamenti di minore entità che contraddistinguono la crescita economica. Non riesce però a rendere conto di ciò che caratterizza maggiormente il capitalismo, cioè le trasformazioni più profonde e radicali che sono alla base dello sviluppo economico. La teoria «statica» non è in grado di descrivere le conseguenze di cambiamenti discontinui nel modo tradizionale di compiere le cose; qui l’analisi statica non può spiegare né il verificarsi di rivoluzioni produttive né i fenomeni che in tali occasioni si producono. Può solo indagare, una volta che esse siano avvenute, il nuovo stato di equilibrio. […] Si aggiungano pure successivamente tante diligenze quanto si vogliano, non si otterrà mai una ferrovia (Schumpeter 1912, trad. it. 1977, pp. 72, 74n6).
Schumpeter, invece, intende analizzare proprio «l’evoluzione economica» del capitalismo, cioè «i cambiamenti del sistema economico provocati dalle innovazioni»
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(Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 113). Come avvengono queste rivoluzioni produttive? A differenza dei suoi contemporanei, non pensa che siano dovute a fattori esogeni all’economia (incrementi demografici, guerre ecc.), bensì all’azione di fattori endogeni, e in particolare ai «cambiamenti nei metodi di offerta dei prodotti» (ivi, p. 97). A innescare lo sviluppo sono dei cambiamenti nei modi di «combinare materiali e forze» produttive, cioè l’introduzione di nuove combinazioni di mezzi di produzione (Schumpeter 1912, trad. it. 1977, p. 76). Queste innovazioni possono consistere: (1) nel lancio di un nuovo bene, non familiare ai consumatori; (2) in un nuovo modo di organizzare la produzione, (3) nell’apertura di nuovi mercati; (4) nell’acquisizione di nuove fonti di approvvigionamento di materie prime e di semilavorati; (5) nella riorganizzazione di un’industria, come la creazione o distruzione di un monopolio (ibidem) (2 Box 5.1). Secondo Schumpeter «le innovazioni sono il fatto fondamentale nella storia economica della società capitalistica» (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 128). Gli imprimono un particolare dinamismo che non si basa su una concorrenza di prezzo tra le imprese, ma su una competizione di tipo tecnologico e organizzativo: cioè su «qualsiasi “modo di fare le cose diversamente” nel campo economico» (ivi, p. 110). Lo sviluppo, infatti, avviene mediante un cambiamento industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza tregua la vecchia e creando continuamente quella nuova. È questo processo di distruzione creatrice che caratterizza il capitalismo, poiché quest’ultimo è per natura una forma o un metodo di evoluzione economica; non solo non è mai, ma non può mai essere, stazionario (Schumpeter 1942, trad. it. 1977, p. 78).
Le innovazioni che hanno successo assicurano agli imprenditori un profitto economico che però è di natura transitoria, poiché le novità vengono presto imitate dalle imprese concorrenti. Le innovazioni, inoltre, non sono distribuite in maniera uniforme: (a) non rimangono eventi isolati, tendono invece ad addensarsi alimentando innovazioni collegate tra di loro; (b) non si presentano ovunque nell’economia, ma si concentrano in particolari settori (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 128). Già nella Teoria dello sviluppo economico, Schumpeter si pone la domanda sul perché lo sviluppo non proceda regolarmente, bensì a salti, attraverso gli alti e bassi dei cicli economici. La risposta è che le «nuove combinazioni» non compaiono uniformemente nel tempo, ma piuttosto in maniera discontinua e a gruppi (Schumpeter 1912, trad. it. 1977, p. 266). Inizialmente, esse producono un allontanamento dallo stato di equilibrio, innescando una fase di prosperità nel ciclo economico. Quando qualcuno realizza un’innovazione, cioè, si avvia un periodo di espansione che investe prima uno specifico settore e quelli adiacenti e poi tutto il sistema. Altri imprenditori lo seguono, e dopo di essi altri ancora in numero crescente, sulla strada dell’innovazione, che diventa sempre più facile per quelli che vengono dopo,
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grazie all’accumularsi delle esperienze e alla scomparsa degli ostacoli (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 161).
Nel momento in cui questo «sciame» imprenditoriale/innovativo si interrompe e cessa la creazione di nuove imprese, la fase espansiva comincia a invertirsi, a causa degli effetti generati dall’innovazione sul sistema delle vecchie imprese. Quelle che non sono state in grado di adattarsi alla nuova situazione di mercato escono dagli affari oppure devono ridimensionare le loro attività. Alla prosperità segue perciò una tendenza di segno opposto, che vede prima un rallentamento dell’economia, con una recessione, e poi una caduta più profonda, con una depressione, legata ai fenomeni speculativi e di indebitamento eccessivo che di solito accompagnano la prosperità iniziale. Questa fase depressiva lascia poi nuovamente il passo a una ripresa economica, che riavvicina il sistema a uno stato di equilibrio e di flusso circolare – fino a che un’altra innovazione pone le basi per un nuovo ciclo di sviluppo. Nell’evoluzione capitalistica, secondo Schumpeter, si intrecciano tre tipi di cicli economici con una durata temporale diversa: il ciclo di Kitchin è di 40 mesi, quello di Juglar è di nove/ dieci anni e quello di Kondatrieff è di 40/50 anni.
5.3 Attori e processi dell’innovazione Con riferimento allo sviluppo, l’economista austriaco è però consapevole che la dinamica del capitalismo non è legata esclusivamente a fattori economici, ma anche a fattori sociali e istituzionali. Di seguito perciò ci occuperemo dapprima degli attori protagonisti dell’innovazione, quindi delle diverse fasi di sviluppo del capitalismo, e infine delle «tendenze di crisi» di quest’ultimo. 5.3.1 Gli imprenditori-innovatori Schumpeter legge l’innovazione come un fenomeno socio-economico strettamente connesso a una specifica figura: quella degli imprenditori. Sono loro a rompere l’immobilismo del flusso circolare fornendo una «risposta creativa», anziché «adattiva», alle sfide poste dalla situazione economica, facendo qualcosa «che è fuori dalla gamma delle prassi esistenti» (Schumpeter 1947, p. 150). Queste risposte creative modificano il corso successivo degli eventi e ne modellano i risultati a lungo termine. Rappresentano perciò un ingrediente essenziale del cambiamento storico, connesso alla qualità del personale presente in una società e all’azione di alcuni individui particolari. In genere, infatti, sono uno o pochi uomini a intravedere le nuove possibilità e ad affrontare le difficoltà del cambiamento. Nel capitalismo di tipo concorrenziale il meccanismo è essenzialmente legato all’iniziativa di «uomini nuovi» che creano delle imprese innovative, oppure all’avvento di uomini nuovi alla guida di vecchie imprese, poiché queste ultime in genere mostrano i «sintomi di cosa è eufemisticamente chiamato conservatorismo» (ivi, p. 124).
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Schumpeter opera una netta distinzione tra gli imprenditori-innovatori che introducono «nuove combinazioni» e i manager che, al contrario, nella gestione delle imprese sfruttano unicamente le conoscenze già acquisite e le routine consolidate. L’attività imprenditoriale, inoltre, non coincide con la proprietà dei mezzi di produzione o del capitale finanziario, poiché le risorse necessarie all’innovazione sono assicurate dal sistema creditizio che – utilizzando i depositi dei clienti – crea un potere d’acquisto aggiuntivo. Gli imprenditori sono anche diversi dagli inventori. Queste due figure svolgono funzioni differenti: «L’inventore produce idee, l’imprenditore le realizza». Mentre l’attività inventiva rimane confinata nell’ambito dell’avanzamento delle conoscenze, la funzione specifica dell’imprenditore è di introdurre novità nella sfera economica, piegando le molte resistenze che esse suscitano. In primo luogo le resistenze sociali. L’ambiente infatti genera reazioni di varia intensità, che vanno dalla semplice disapprovazione fino alla prevenzione (per esempio, divieti dei nuovi macchinari) o all’aggressione (distruzione dei nuovi macchinari). Le prassi tradizionali, per di più, sono sorrette da elementi che incoraggiano la ripetizione: sia i creditori sia i consumatori si orientano più volentieri verso ciò che è loro familiare; esiste una manodopera già formata per le attività di routine. In secondo luogo le resistenze psicologiche, dato che «la gente è inibita quando si presenta la possibilità di percorre una strada nuova» (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 127). Alcune di queste resistenze interiori sono di tipo irrazionale, altre invece non lo sono, poiché l’incertezza legata all’innovazione non permette di ponderare i rischi sulla base delle esperienze precedenti. In Business Cycles, l’economista austriaco offre un dettagliato resoconto storico delle opposizioni – talvolta violente – di tipo economico, sociale e politico provenienti dai ceti minacciati dalle innovazioni. Emblematica è, per esempio, la ricostruzione della resistenza fatta dai piccoli artigiani inglesi e dalle loro corporazioni alla meccanizzazione del processo produttivo e all’affermazione del sistema di fabbrica (McCraw 2007). L’innovazione, infatti, non solo minaccia le vecchie imprese ma essa inevitabilmente minaccia anche la struttura esistente della sua industria o settore, così come crea disoccupazione da una parte o dall’altra. […] Ne seguono delle situazioni che producono un paradosso: l’industria qualche volta tenta di sabotare quel “progresso” che inesorabilmente monta, in virtù della sua stessa legge di vita. […] Prendendo l’industria nel suo insieme, c’è sempre un settore innovativo in lotta con un settore “vecchio” che alle volte cerca di impedire i nuovi metodi (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 135).
Per vincere queste opposizioni è perciò necessaria una personalità particolare, dotata di energia, determinazione e intuito. Cruciale è anche la capacità di guidare gli altri, creando consenso intorno a un progetto su cui domina la più completa incertezza. Sotto questo profilo, l’imprenditore incarna una funzione di leadership sociale che nel capitalismo – a differenza delle società precedenti – viene esercitata prevalentemente all’interno della sfera economica.
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Esercitare una leadership sociale significa decidere, comandare, vincere, essere all’avanguardia. Essa è, in quanto tale, una funzione peculiare, sempre distinguibile sia nell’attività di un individuo, sia nell’ambito dell’insieme sociale; una funzione che ricorre solo in connessione con circostanze individuali e sociali sempre nuove, e che non esisterebbe se la vita dei singoli e dei popoli scorresse in modo sempre uniforme sui binari di un’invariabile routine (Schumpeter 1927, trad. it. 2009, p. 149).
Le motivazioni che stanno alla base del comportamento imprenditoriale sono ben diverse da quelle, razionaliste e utilitaristiche, usate dalla teoria economica convenzionale per descrivere l’homo oeconomicus. All’imprenditore, infatti, mancano le informazioni necessarie per applicare una valutazione razionale dei costi e dei benefici del proprio comportamento, poiché quest’ultimo si allontana dalle routine consolidate. Il tipo di motivazioni che lo sospingono, inoltre, non sono di tipo edonistico: In primo luogo vi è il sogno di fondare un impero privato e in genere, seppure non necessariamente, una dinastia. […] C’è poi la volontà di vincere. Volontà di lottare, da una parte, dall’altra volontà di ottenere il successo in quanto tale piuttosto che i frutti del successo. […] Una terza famiglia di moventi è costituita infine dalla gioia di creare (Schumpeter 1912, trad. it. 1977, pp. 102-103).
5.3.2 Il capitalismo trustificato Se nel delineare la figura dell’imprenditore Schumpeter enfatizza le caratteristiche individuali e psicologiche che lo contraddistinguono, tuttavia non trascura neppure il diverso quadro storico all’interno del quale questo attore si trova ad agire. Il contesto socio-istituzionale e l’azione individuale, cioè, sono posti in una relazione di reciproca interdipendenza. Schumpeter analizza in particolare la figura dell’imprenditore nella cornice istituzionale del capitalismo moderno. Ciò che caratterizza specificamente questa formazione economica è la funzione creditizia, le cui origini storiche vanno rintracciate nella creazione delle banche di deposito avvenuta tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo nel Sud dell’Europa. Capitalismo è quella forma di economia basata sulla proprietà privata, nella quale le innovazioni sono realizzate con denaro preso a prestito, il che normalmente, anche se non per necessità logica, implica creazione di credito (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 240).
Il tratto maggiormente distintivo del capitalismo, dunque, non risiede di per sé nella funzione imprenditoriale. Questa modalità di «leadership economica», che assicura lo sviluppo mediante l’innovazione, è stata presente in diverse società ed epoche storiche e si riscontra «seppure in altre forme, perfino in una tribù primitiva o in una comunità socialista» (ibidem). È per questo – dice Schumpeter (1947, p. 153) – che sarebbe utile anche una «classificazione sociologica» degli imprenditori per tipi e origini sociali, poiché sia i signori feudali, sia i proprietari terrieri aristocratici, i fun-
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Tabella 5.1 Impresa e imprenditorialità nelle due fasi di sviluppo del capitalismo Capitalismo concorrenziale
Capitalismo trustificato
Tipo di impresa
Impresa familiare
Impresa gigante
Tipo di manager
Fondatore d’impresa
Capitano d’industria
Tipo di imprenditorialità
Uomo nuovo
Imprenditore collettivo
Modo di innovazione
Creatività individuale
Routine organizzative
Modalità di leadership
Leadership personale
Leadership burocratica
Meccanismo di selezione
Competizione di mercato
Competizione regolata
Tipo di reddito manageriale
Profitto imprenditoriale
Stipendio impiegatizio
zionari pubblici, i contadini, gli operai, gli artigiani e i membri delle professioni liberali hanno assolto compiti di questo tipo. La funzione imprenditoriale, in altri termini, è stata svolta storicamente da diversi attori, radicati in contesti socio-istituzionali differenziati e mutevoli (Ebner 2006a). «L’evoluzione economica o “progresso” […] è un processo soggetto a cambiamenti istituzionali» (Schumpeter 1939, trad. it. 1977, p. 240), e i diversi assetti regolativi che ne derivano condizionano i modi in cui la funzione imprenditoriale si configura. Schumpeter, per esempio, delinea varie fasi di sviluppo del capitalismo, distinguendo in particolare il capitalismo concorrenziale dal capitalismo trustificato (ivi, p. 123; si veda anche Ebner 2006b). Nel primo modello le innovazioni vengono introdotte da figure individuali. Il tipico imprenditore industriale dell’Ottocento è un uomo che dà vita a una nuova impresa, che dirige personalmente e di cui è proprietario insieme alla sua famiglia. Nel secondo modello, invece, l’innovazione scaturisce dai laboratori di ricerca e sviluppo delle grandi aziende oligopolistiche che, soprattutto negli Stati Uniti, dominano il capitalismo a partire dall’inizio del Novecento1. In questo secondo scenario la competizione diventa più ristretta e regolata: si svolge tra poche «imprese giganti», in cui la proprietà è separata dalla gestione (affidata a manager stipendiati che rispondono agli azionisti) e la funzione imprenditoriale perde i tratti personali della fase precedente. Si sviluppa così il dominio delle grandi organizzazioni burocratiche e un crescente processo di razionalizzazione della vita economica, che modifica le procedure di selezione e le caratteristiche di coloro che si trovano a dirigere le aziende (Tab. 5.1). Alla luce di queste premesse, qual è il rapporto che lega la borghesia capitalista alla funzione imprenditoriale? Dato che in realtà quella di imprenditore non è una condizione durevole, gli imprenditori, a differenza di capitalisti o lavoratori, non costituiscono una classe sociale specifica e non vanno perciò confusi con la borghesia. 1
Questi due modelli di innovazione sono conosciuti tra gli economisti come Schumpeter Mark I e Schumpeter Mark II (Freeman 1994, p. 741).
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L’adempimento della funzione di imprenditore comporterà naturalmente per l’imprenditore fortunato e per i suoi una posizione sociale, corrispondente ad una classe, e può anche dare la sua impronta ad un’epoca, plasmare lo stile di vita, il sistema di valori morali ed estetici, ma in sé non significa affatto una posizione di classe e neppure ne presuppone una (Schumpeter 1912, trad. it. 1977, p. 88).
Esiste tuttavia un rapporto stretto tra l’azione imprenditoriale e la borghesia. Quest’ultima, infatti, tende ad assorbire gli imprenditori e le loro famiglie nei propri ranghi. Gli imprenditori, pur non appartenendo necessariamente o anche tipicamente a questo strato ex-origine, vi entrano tuttavia in caso di successo. Così, sebbene gli imprenditori non formino di per sé una classe sociale, la classe borghese li assorbe insieme ai loro familiari e parenti, rinnovando e ringiovanendo continuamente le proprie file mentre, nello stesso tempo, le famiglie che troncano i rapporti attivi con gli “affari”, dopo una generazione o due ne escono. In mezzo, c’è il grosso di quelli che chiamiamo industriali, mercanti, finanzieri e banchieri, e che si trovano nello stadio intermedio fra l’iniziativa imprenditoriale e la semplice, ordinaria amministrazione di possesso ereditato. […] Così, economicamente e sociologicamente, direttamente e indirettamente, la borghesia dipende dall’imprenditore e, come classe, vive e morrà con lui (Schumpeter 1942, trad. it. 1977, pp. 129-130).
La capacità innovativa e il dinamismo economico assicurati dall’imprenditore conferiscono alla borghesia il prestigio e la legittimazione che è a fondamento della loro posizione di classe. Per Schumpeter, infatti, le classi sociali assolvono a una specifica funzione sociale da cui deriva il loro status e, storicamente, ascendono o decadono a seconda della capacità dei loro componenti di assolvere a tale funzione, e del valore collettivo che viene loro attribuito all’interno della società che è determinato, in ogni caso, dal grado di leadership sociale che il suo esercizio implica o ha per conseguenza (Schumpeter 1927, trad. it. 2009, p. 144).
Queste ultime notazioni – tratte da un breve saggio sulle classi sociali scritto negli anni Venti – aiutano a chiarire le cause che, secondo Schumpeter, conducono alla crisi del capitalismo e della sua classe dominante. 5.3.3 La crisi del capitalismo L’analisi delle tendenze di crisi del capitalismo costituisce il tema centrale del libro più famoso di Schumpeter: Capitalismo, socialismo, democrazia (1942). È in quest’opera, infatti, che l’economista austriaco si interroga in forma compiuta sul destino del capitalismo, affermando che la concentrazione dell’industria e la crescente regolazione dell’economia lo inducono a dare una risposta negativa alla domanda con cui si apre la seconda parte del libro: Può il capitalismo sopravvivere? A questo proposito, l’originalità della posizione di Schumpeter – che lo differenzia da
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Marx – consiste nell’individuare nelle «contraddizioni sociali» del capitalismo i motivi che porteranno alla sua scomparsa. Le trasformazioni socio-culturali provocate dallo sviluppo economico, infatti, rendono sempre più difficile il funzionamento dell’economia di mercato. Da un punto di vista strettamente economico, invece, il capitalismo sarebbe ancora in grado di assicurare un benessere crescente. L’avvento dei trust, ovvero di imprese sempre più grandi e concentrate, che agiscono in condizioni di oligopolio o di monopolio, non impedisce lo sviluppo economico. Queste imprese giganti, infatti, presentano strutture organizzative capaci di promuovere – su scala allargata e continuativa – l’introduzione di nuove combinazioni dei fattori produttivi. L’innovazione, anzi, viene in qualche misura routinizzata e assume una forma più collettiva, poiché viene assicurata da team di specialisti che sono dei lavoratori dipendenti dell’impresa. La funzione imprenditoriale può essere e spesso è svolta cooperativamente. Con lo sviluppo delle imprese a più vasta scala ciò è diventato evidentemente di grande importanza: attitudini che nessun singolo individuo può riunire possono così essere integrate in una personalità aziendale (Schumpeter 1949a, p. 261, corsivo aggiunto).
Con l’affermazione delle imprese giganti, inoltre, la proprietà e la direzione tendono sempre più a separarsi. I manager che dirigono le aziende diventano dei funzionari che svolgono compiti amministrativi e gestionali sempre più orientati verso una logica burocratica e una razionalità organizzativa. Come nota Schumpeter, i «capitani d’industria», involontariamente, diventano i pionieri dell’economia pianificata (Ebner 2005). Questi mutamenti, infatti, tolgono spazio alla figura dell’imprenditore nella sua forma «individuale-familiare»: si riducono cioè i margini per una leadership personale basata sulla forza di volontà, sull’intuito e sulla responsabilità del singolo uomo d’affari (Schumpeter 1947, pp. 157-58). Le cause della crisi del capitalismo, dunque, non vanno ricercate in motivi di ordine economico, bensì di tipo sociale e culturale. Schumpeter ne evidenzia in particolare quattro. 1) In primo luogo l’indebolimento della borghesia connesso al «deperimento» della figura dell’imprenditore. Con la spersonalizzazione e la burocratizzazione dell’innovazione, la classe dominante viene a perdere gran parte del prestigio e della legittimazione legata all’esercizio di quella funzione sociale. Si erode, in altri termini, la base su cui poggiava la sua leadership all’interno della società capitalistica. Se l’evoluzione capitalistica – il «progresso» – cessa o diviene completamente automatica, la base economica della borghesia industriale finirà per ridursi a stipendi come quelli pagati per il lavoro amministrativo corrente […]. L’unità industriale gigante perfettamente burocratizzata soppianta non solo l’azienda piccola e media e ne «espropria» i proprietari, ma soppianta in definitiva l’imprenditore ed espropria la borghesia, come classe destinata a perdere tanto il suo reddito, quanto (molto più importante) la sua posizione (Schumpeter 1942, trad. it. 1977, p. 130).
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2) A questo si deve aggiungere lo snaturamento di alcune istituzioni tipiche della società borghese. I contratti, per esempio, perdono crescentemente quella connotazione di accordo individuale bilaterale, temporalmente definito, tipica del capitalismo liberale, mentre assumono una forma sempre più impersonale e burocratizzata, come nei contratti collettivi di lavoro. Inoltre, la crisi della famiglia borghese – con la diffusione di un atteggiamento utilitaristico che allenta i legami familiari e restringe gli orizzonti temporali alla singola vita individuale – erode alcune delle motivazioni che erano alla base dello spirito d’intrapresa e della ricerca del profitto. 3) C’è poi il venire meno di alcuni strati protettivi, ovvero di gruppi sociali sopravvissuti al disfacimento della società feudale, che puntellano gli equilibri di classe presenti nel capitalismo. Schumpeter pensa in particolare alla crisi dei ceti aristocratici che, in alcune nazioni (per esempio, in Inghilterra), avevano continuato a svolgere funzioni politiche cruciali per le quali la figura del borghese, «razionalista ed antieroico», non sembra particolarmente tagliata (ivi, p. 133). La concentrazione della struttura produttiva, inoltre, tende a ridurre il peso di tutta una serie di ceti sociali intermedi (artigiani, contadini, piccoli proprietari ecc.) alleati della borghesia. Il ruolo assunto dai manager nella gestione dell’economia, per di più, toglie vigore all’azione di difesa del sistema capitalistico da parte di soggetti che nutrono un interesse limitato nella proprietà delle imprese. 4) Infine, vi è la diffusione di un’atmosfera sociale ostile al capitalismo. In parallelo alla crescita del benessere e delle aspirazioni, infatti, il capitalismo tende a generare una situazione di inquietudine permanente, legata alla mancanza di sicurezza individuale. Questa condizione di disagio, però, rimarrebbe senza conseguenze se non venisse fomentata e organizzata da gruppi di intellettuali che alimentano la critica alle istituzioni. La condizione di relativo declassamento subita da queste figure – a seguito dell’incremento sia dei livelli di istruzione sia della disoccupazione intellettuale – crea uno strato di soggetti «socialmente disancorati» e ostili verso le classi dominanti. Grazie alla libertà di espressione assicurata dalla democrazia borghese, questi intellettuali tendono a tradurre il loro risentimento e la loro frustrazione in una critica radicale nei confronti delle istituzioni capitalistiche, alimentando la radicalizzazione delle classi popolari. L’insieme di questi fattori, ad avviso di Schumpeter, spiega l’emergere di politiche anticapitalistiche che – ampliando il ruolo dello stato e della contrattazione collettiva – introducono elementi incompatibili con il funzionamento dei liberi mercati: la crescente regolazione dell’economia apre così la strada a un sistema di tipo socialista. Schumpeter riteneva che una pianificazione centralizzata potesse assicurare un buon grado di efficienza economica, eliminando le fasi cicliche di recessione. Non pensava, inoltre, che ciò fosse incompatibile con la salvaguardia delle libertà «borghesi» e della democrazia politica. Non auspicava, tuttavia, l’avvento del socialismo. Forse non lo riteneva neppure un esito necessario, benché probabile, della crisi del capitalismo. Era e rimase un liberal-conservatore che credeva nel ruolo positivo dell’im-
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presa privata. In alcuni degli ultimi scritti, per attenuare le tensioni sociali provocate dall’economia di mercato, si fece sostenitore di una soluzione corporativa simile a quella proposta da Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno.
5.4 L’attualità di Schumpeter Alcune delle previsioni di Schumpeter sulla crisi del capitalismo e sul declino delle piccole e medie imprese si sono dimostrate, alla prova dei fatti, sbagliate. Tuttavia le sue riflessioni sull’innovazione sono ancora oggi di grande attualità. In primo luogo, perché mostrano un approccio di studio in cui l’analisi macro del capitalismo, di taglio storico-istituzionale, si coniuga con una micro-fondazione basata sui comportamenti degli imprenditori. In secondo luogo, perché le sue opere hanno avuto un profondo impatto sugli innovation studies, un ambito di ricerca interdisciplinare focalizzato sull’innovazione, che si sta affermando sempre di più a livello internazionale (Fagerberg, Martin e Andersen 2013; Ramella 2013). La rilevanza di Schumpeter è oggi del tutto indiscussa nell’ambito dell’economia dell’innovazione. Il suo contributo è stato a lungo ignorato dalle teorie economiche prevalenti, che hanno teso a considerare il progresso tecnologico come un fattore esogeno all’economia (Freeman 1994; Verspagen 2007). Negli ultimi decenni, però, vi è stato un forte risveglio di attenzione per l’innovazione che, progressivamente, è stata «endogenizzata» all’interno delle nuove teorie della crescita economica (Helpman 2004). L’economista austriaco è stato così riscoperto, specialmente a opera della cosiddetta «economia evolutiva», che vede nell’innovazione e nella competizione tecnologica tra le imprese la forza trainante dello sviluppo2. Ci sono poi altri due filoni di ricerca che hanno messo a frutto le riflessioni di Schumpeter: gli studi sull’imprenditorialità e quelli sui sistemi nazionali d’innovazione. Per quanto riguarda il primo filone, va ricordato che durante gli anni Quaranta, ad Harvard, Schumpeter fu coinvolto nelle attività del Research Center in Entrepreneurial History, animato dallo storico economico Arthur Cole. Appartengono a questo periodo alcuni suoi scritti, in cui sostiene la necessità di elaborare un’ampia storia delle forme d’imprenditorialità esistite. La letteratura economica ha sempre dedicato poco spazio all’analisi della figura imprenditoriale. Gli studi di Schumpeter, al contrario, hanno contribuito all’affermazione di un forte movimento di studi nelle scienze sociali dedicato a questo tema, a cui anche la sociologia economica ha dato un contributo rilevante (Berta 2004; Ebner 2005; Swedberg 2000). Recentemente, la traduzione in lingua inglese di alcuni capitoli della prima edizione de La teoria dello sviluppo economico ha fatto anche riscoprire alcune riflessioni «giovanili» utili a estendere la sua teoria dell’imprenditorialità ad altri ambiti di azione. In questa direzione si muove la proposta di concettualizzare l’«imprenditorialità sociale» in chiave 2
Per un confronto tra l’approccio neo-classico ai temi dell’innovazione e quello dell’economia evolutiva si veda Malerba (2000, in particolare i capp. 1-4). Per una dettagliata ricostruzione dei vari filoni neoschumpeteriani e per le differenze rispetto alle nuove teorie della crescita si veda Fagerberg (2003).
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schumpeteriana, come «una forma di comportamento dinamico in uno degli ambiti non-economici della società» (Swedberg 2006, p. 33, corsivi nel testo). Per quanto riguarda poi il filone di ricerca sui sistemi nazionali d’innovazione dobbiamo ricordare che, in diversi passaggi delle sue opere, Schumpeter rileva che la funzione imprenditoriale può assumere varie forme, perfino di tipo collettivo e pubblico. Questo non solo nelle economie socialiste, ma anche in quelle capitalistiche: la funzione imprenditoriale non deve necessariamente essere incarnata in una persona fisica e in particolare in una singola persona fisica. Ogni ambiente sociale ha il suo proprio modo di riempire la funzione imprenditoriale. Per esempio, la pratica agricola in questo paese è stata ripetutamente rivoluzionata dall’introduzione di metodi progettati nel Dipartimento dell’Agricoltura e dal successo di quest’ultimo nell’insegnare tali metodi. In questo caso quindi il Dipartimento dell’Agricoltura ha agito come un imprenditore (Schumpeter 1949a, p. 260).
Questi spunti hanno perciò aperto la strada a un’agenda di ricerca d’ispirazione neoschumpeteriana, che sottolinea il ruolo dello stato, la variabilità nazionale delle politiche di regolazione e il carattere sistemico dell’innovazione, che coinvolge una pluralità di attori appartenenti a sfere istituzionali diverse (Ebner 2000). Verso la metà degli anni Ottanta, perciò, si è iniziato a parlare di «sistemi d’innovazione nazionale» in relazione a «tutti i più importanti fattori economici, sociali, politici, organizzativi, istituzionali e di altro tipo che influenzano lo sviluppo, la diffusione e l’utilizzo delle innovazioni» (Edquist 1997, p. 14; Ramella 2013, cap. V). Con riferimento poi alla crescita dei paesi asiatici, si è sviluppata anche una riflessione sul developmental state, cioè sul ruolo che i governi possono svolgere nella promozione dello sviluppo sia nei paesi emergenti sia in quelli avanzati (Ebner 2006a, 2009). Di recente, per esempio, l’economista Mariana Mazzucato (2013) ha invitato a dismettere le visioni «mercato-centriche» dell’innovazione e a riconsiderare il ruolo imprenditoriale dello stato. Per argomentare la sua tesi, la studiosa italo-inglese si rifà alla distinzione tra rischio e incertezza introdotta dall’economista americano Frank Knight. Le situazioni di rischio sono quelle in cui i risultati delle azioni, sebbene ignoti, sono tuttavia prevedibili con una certa approssimazione sulla base di una distribuzione di probabilità che è conosciuta dagli attori. Questi ultimi perciò possono applicare regole di decisione basate sulla massimizzazione dell’utilità attesa. Le situazioni di incertezza, al contrario, sono quelle in cui non solo l’esito delle azioni è sconosciuto, ma non sono neppure note le probabilità che si verifichi un certo evento oppure un altro. Le imprese private tendono a rifuggire questo tipo di scenari, che caratterizzano in particolare i progetti alla frontiera della ricerca scientifica. È qui perciò che entra in campo la funzione imprenditoriale dello stato: nel finanziamento di progetti di ricerca lungimiranti e incerti, dal momento del loro avvio fino a quello della commercializzazione dei risultati. Il ruolo «visionario e anticipatore» dell’attore pubblico assolve due compiti insostituibili sul fronte del cambiamento tecnologico: fornisce agli innovatori un «capitale paziente» che scarseggia nell’economia di mercato; promuove partnership innovative tra ricercatori, univer-
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5 Joseph Schumpeter. Dall’imprenditore innovatore allo stato imprenditoriale
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sità, laboratori pubblici e imprese, orientando gli interessi particolari di ognuno in direzioni compatibili con il bene pubblico. Lo stato imprenditoriale, in altri termini, esplora il «panorama del rischio» e ne ridefinisce i confini, creando nuovi mercati, specialmente laddove sono richiesti forti investimenti di capitali in situazioni di radicale incertezza. Svolge perciò un ruolo cruciale di leadership economica che – come sappiamo – è il tratto distintivo dell’imprenditore schumpeteriano.
Letture di approfondimento Berta G. (2004). L’imprenditore: un enigma tra economia e storia, Venezia, Marsilio. Ramella F. (2013). Sociologia dell’innovazione economica, Bologna, il Mulino. Swedberg R. (1991). Schumpeter. A Biography, Princeton (NJ), Princeton University Press (trad. it. Joseph A. Schumpeter. Vita e opere, trad. di D. Panzieri, Torino, Bollati Boringhieri, 1998).
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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6 Karl Polanyi. Le forme di integrazione tra economia e società alla prova della sharing economy di Ivana Pais e Giancarlo Provasi *
Non è più l’economia ad essere inserita nei rapporti sociali, ma sono i rapporti sociali ad essere inseriti nel sistema economico. L’importanza vitale del fattore economico per l’esistenza della società preclude qualunque altro risultato perché una volta che il sistema economico sia organizzato in istituzioni separate, basate su motivi specifici e conferenti uno speciale status, la società deve essere formata in modo da permettere a questo sistema di funzionare secondo le proprie leggi. Karl Polanyi
6.1 Una breve nota biografica Karl Polanyi (1886-1964) nasce a Vienna, da una famiglia della borghesia progressista austro-ungarica. Negli anni Novanta la famiglia si trasferisce a Budapest dove Karl e i fratelli (tra cui Michael, poi chimico-fisico e noto filosofo della scienza) vengono educati in casa fino all’età di tredici anni. In quegli anni, egli acquisisce la completa padronanza di ungherese, tedesco e inglese, oltre a greco e latino. Viene poi ammesso con una borsa di studio al prestigioso Trefort Street Gymnasium e nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Legge e Scienze Politiche dove, oltre alle discipline giuridiche, segue corsi di Storia e Scienze Sociali. Si laurea nel 1909 all’Università di Koloszvar (oggi Cluj, in Romania) dopo essere stato allontanato dall’Università di Budapest per aver difeso un professore dagli attacchi di studenti reazionari. Nei primi anni del Novecento svolge un’intensa attività politica e culturale e nel 1919, a seguito dell’avvento al governo ungherese del reazionario Miklós Horthy, si trasferisce a Vienna. La guerra interrompe bruscamente la sua attività e l’esperienza al fronte è seguita poi da una lunga ospedalizzazione dovuta a una depressione da cui uscirà solo nel 1925. Nella capitale austriaca incontra la sua futura moglie, Ilona Duczynska, donna dai molteplici interessi e da un’intensa e radicale militanza politica. A Vienna, l’avvicinamento agli «austro-marxisti» e il confronto serrato con gli economisti della scuola austriaca inducono Polanyi ad abbandonare le posizioni politiche più radicali della gioventù e all’elaborazione di un socialismo associativo, sindacale e cooperativo, che lo porta ad aderire alla Lega dei Socialisti Religiosi Austriaci e a entrare in contatto con il Guild Socialism inglese. *
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo i Parr. 6.2 e 6.3 a Giancarlo Provasi e il resto del testo a Ivana Pais.
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Nel 1933, a seguito dell’ascesa di Hitler al potere in Germania, Polanyi si trasferisce a Londra, dove si avvicina alla Christian Left e lavora per la Workers’ Educational Association, tenendo corsi serali di affari internazionali e di storia economica e sociale inglese nei piccoli centri del Kent e del Sussex. Nel 1940, grazie a un finanziamento della Rockefeller Foundation, si reca negli Stati Uniti e alla fine della guerra è chiamato a insegnare alla Columbia University, dove rimarrà fino alla pensione nel 1953. Il materiale raccolto per le lezioni inglesi costituisce la prima traccia de La grande trasformazione, la sua opera più sistematica e nota, pubblicata nel 1944, dove analizza la crisi della struttura istituzionale del capitalismo liberale e il passaggio a un assetto che vede un intervento crescente dello stato nell’economia per garantire quella protezione e coesione sociale che il mercato non è in grado di per sé di assicurare. Durante gli anni del maccartismo si trasferisce in Canada, vicino a Toronto, per seguire la moglie che non poteva risiedere negli Stati Uniti in quanto ex militante del Partito Comunista. In quegli anni sviluppa un progetto di ricerca interdisciplinare sugli aspetti economici dello sviluppo istituzionale che lo porta nel 1957 alla pubblicazione del saggio L’economia come processo istituzionale. Con lo studio comparato dei sistemi economici Polanyi sviluppa la distinzione tra significato formale e sostanziale di economia, contesta la pretesa universalità delle categorie della scienza economica e rafforza la sua teoria dell’eccezionalità del mercato come una tra le forme sociali storiche di regolazione dell’economia. Polanyi tornerà a Budapest solo negli ultimi anni della sua vita, nel 1960 e 1963. La sua unica figlia Kari Polanyi-Levitt, professore di economia, è tra le animatrici del Karl Polanyi Institute of Political Economy presso la Concordia University di Montréal.
6.2 Le «forme di integrazione» tra economia e società Nella Grande trasformazione e in L’economia come processo istituzionale, Polanyi analizza l’economia come un «processo istituzionalizzato» riconducibile a tre «forme di integrazione» tra economia e società: lo scambio, la redistribuzione, la reciprocità. Queste esistono sempre in combinazione, ma la loro diversa mescolanza permette di classificare i processi economico-sociali e di comprenderne le trasformazioni. Un eccessivo spostamento a favore della forma dello scambio (di mercato), soprattutto quando applicata a quelle che Polanyi chiama «merci fittizie» (2 Box 6.1), ovvero la terra, il denaro e il lavoro, essenziali per la vita delle persone, produce infatti secondo l’autore un contro-movimento delle altre due a garanzia delle condizioni sociali necessarie alla riproduzione dell’intero sistema (quello che egli chiama double-movement). Nel seguito di questo paragrafo si introdurranno brevemente1 le tre forme di integrazione che si ritiene possano essere di ausilio per interpretare i diversi modelli di 1
Per una trattazione più estesa delle tre forme polanyiane di integrazione e per una loro applicazione meglio dettagliata alla sharing economy si veda Pais e Provasi (2015).
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capitalismo che si sono succeduti nella storia della modernità, e in particolare l’articolata e complessa fenomenologia oggi emergente della sharing economy. 6.2.1 Scambio La forma dello scambio (di mercato) attraverso l’incontro di domanda e offerta regola i prezzi dei beni (o servizi) oggetto della transazione, consentendo a certe condizioni (assenza di esternalità, simmetria informativa e concorrenza) un’allocazione efficiente delle risorse. I soggetti che si incontrano sul mercato sono reciprocamente liberi di accordarsi a seconda che ritengano conveniente o meno perfezionare lo scambio e non contraggono obblighi (presenti o futuri) oltre a quelli assunti nella transazione stessa. Le motivazioni che li muovono sono dunque unicamente strumentali alla massimizzazione dell’utilità economica. La loro identità (o storia) personale è indifferente ai fini della transazione e possono essere considerati anonimi gli uni agli altri. La fiducia necessaria a evitare comportamenti opportunistici prescinde dalla conoscenza specifica del partner della transazione ed è interamente rimessa alla fiducia nel funzionamento del sistema. Questo deve garantire un mezzo di scambio (denaro) affidabile e un efficace dispositivo di enforcement dei contratti, che si presume possano essere il più possibile «completi», tali cioè da prevedere tutti i termini della transazione. In regime di mercato, chi non è disposto a pagare il prezzo e a contribuire ai costi di produzione del bene può e deve essere escluso dai benefici relativi. Tutti i beni scambiati sul mercato sono cioè beni escludibili e il primo diritto ritenuto meritevole di tutela è quello della proprietà privata, che garantisce appunto al proprietario del bene che voglia alienarlo la contropartita in denaro attesa. A queste condizioni il mercato viene ritenuto dagli economisti tale da generare un risultato di equilibrio, vale a dire un risultato ottimale nell’allocazione delle risorse e in grado di riprodursi spontaneamente (la cosiddetta «mano invisibile»). Sono noti i rilievi che sono stati mossi alla forma pura del mercato: innanzitutto quelli relativi alla sua presunta sufficienza. Già Durkheim (si veda il Cap. 2) rilevava come le garanzie necessarie al funzionamento del mercato (denaro ed enforcement) dipendano da un quadro istituzionale che non può che poggiare su principi diversi (quelli che egli chiamava «elementi non contrattuali del contratto»). Inoltre i presupposti di completa internalizzazione delle esternalità, di simmetria informativa e soprattutto di libertà di scelta (la possibilità di uscire da un rapporto non soddisfacente) non solo non si sono mai dati pienamente nelle esperienze storiche sin qui conosciute ma non possono neppure darsi secondo Polanyi con riferimento alle «merci fittizie» (2 Box 6.1), di cui le persone non possono fare a meno e nei confronti delle quali non sono liberi di rifiutare un contratto ancorché insoddisfacente. Ciò avvalora la posizione da lui assunta (e seguita da buona parte della political economy successiva) circa l’esigenza di un radicamento (embeddedness) del mercato dentro le istituzioni e la necessità che le formazioni economico-sociali concrete vedano la combinazione e l’equilibrio tra più forme di integrazione: in primo luogo, accanto a quella dello scambio, quella appunto della redistribuzione.
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6.2.2 Redistribuzione La forma di integrazione per molti versi opposta a quella di mercato è la redistribuzione. In questo caso le risorse vengono allocate da un soggetto dotato di autorità allo scopo di perseguire fini che lo stesso soggetto definisce come corrispondenti al bene collettivo. Il rapporto tra chi occupa posizioni di autorità e chi occupa posizioni di subordinazione è asimmetrico e i subordinati sono legati da un obbligo di obbedienza all’autorità. Non vi è cioè, a differenza che nello scambio, la libertà di uscita dal rapporto (exit) quando insoddisfatti, ed è possibile esercitare solo il dissenso o la protesta – voice, nell’accezione di Hirschman (1970) a cui si deve tale distinzione –, nel rispetto dei principi e delle modalità previste dalle norme democratiche. Chi esercita l’autorità deve dunque godere (almeno nelle democrazie moderne) di un sufficiente grado di consenso da parte dei subordinati. Il che presuppone che i fini indicati dall’autorità debbano essere giustificati (razionalmente) e che i processi redistributivi siano ispirati a criteri condivisi di giustizia. I beni e le risorse allocate per via d’autorità possono essere i più vari ma in quanto sottoposti al regime redistributivo assumono per ciò stesso la caratteristica di beni pubblici (si veda il Cap. 18): beni che rispondono a bisogni ritenuti degni di tutela pubblica e che sono perciò allocati in forza di diritti definiti dalla legge. La non-escludibilità che la letteratura economica ha sempre attribuito a questo tipo di beni, in quanto opposti a quelli privati che sono invece come si è visto escludibili, prima ancora che dalla natura del bene è dettata dall’universalità che il diritto impone all’esercizio dell’autorità nelle società democratiche moderne. I beni allocati per via d’autorità devono rispettare l’imparzialità dell’azione pubblica e dunque sono beni standardizzati e prescindono dall’identità personale di chi li riceve («Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge»). L’allocazione pubblica di risorse è finalizzata innanzitutto a garantire il buon funzionamento del sistema su cui (come si è visto) poggia l’affidabilità istituzionale di cui pure la forma mercato necessita. Oltre alla predisposizione e al mantenimento dei dispositivi necessari all’ordine sociale, l’autorità ha svolto in passato e continua a svolgere (seppure con forza alterna) una funzione complementare di supplenza a fronte dei «fallimenti del mercato» (esternalità, asimmetrie, costi di transazione, monopoli, squilibri ciclici) così da garantire l’efficienza e l’efficacia del sistema. Ma se l’affidabilità nelle istituzioni è garantita dalla redistribuzione operata dall’autorità, su cosa può fondarsi il consenso di cui la stessa autorità ha necessità per poter esercitare la sua funzione riequilibratrice? Anche la forma redistributiva ha bisogno di un’apertura di credito fiduciario nei confronti delle istituzioni pubbliche e dunque di una fonte morale in grado di fondare la coesione e la giustizia sociale. È qui che entra in gioco la forma della reciprocità. 6.2.3 Reciprocità Si tratta della forma teoricamente più controversa. Non può essere considerata una semplice forma intermedia (o mista) tra scambio e redistribuzione. È una terza forma
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del tutto distinta che presenta caratteristiche sue proprie, anche se non facilmente definibili. Se è infatti distinguibile dalla redistribuzione in quanto presuppone una sostanziale simmetria tra i soggetti coinvolti, è poi non facilmente discernibile, su questa base, dagli scambi di mercato. Polanyi fa riferimento principalmente alle forme non economiche di scambio caratterizzanti le società premoderne e le relazioni primarie (amicali, familiari, di prossimità) di quelle moderne. Chi ha cercato di esplorare la reciprocità con strumenti analitici nuovi rispetto a quelli messi in campo da Polanyi2 è stata la cosiddetta «economia del dono» (Bruni 2006; Sugden 1986). Applicando i principi della teoria dei giochi a strutture ripetute di interazione a somma variabile e a motivazione sia cooperativa sia competitiva (il noto «dilemma del prigioniero»: si veda il Cap. 8), questa letteratura ha definito tre diversi modelli di reciprocità: 1) la reciprocità incondizionata, che agisce secondo il principio: «Coopero sempre e comunque a prescindere dal comportamento del partner»; 2) la reciprocità cauta, che risponde alla massima d’azione: «Coopero solo con chi abbia cooperato nel round precedente», dunque mi astengo dal cooperare alla prima mossa in attesa di vedere come si comporta il partner; 3) la reciprocità coraggiosa, che agisce sulla base del principio: «Coopero sempre nel primo round e nei successivi mi comporto come si è comportato il partner nel round precedente, ovvero coopero se ha cooperato, defeziono se ha defezionato», che dunque a differenza della precedente contempla un’iniziale apertura di credito alla cooperazione del partner. È relativamente facile dimostrare che le prime due forme di cooperazione, in una società composta originariamente da una distribuzione casuale di cooperatori e non cooperatori, non sono in grado di raggiungere un equilibrio cooperativo: quella incondizionata, perché – al di là dell’atto di testimonianza – manca di un dispositivo efficace di sanzionamento dei comportamenti non cooperativi; quella cauta, perché se tutti si attenessero a essa nessuno farebbe la prima mossa cooperativa. Solo la forma coraggiosa è in grado di avviare un circolo virtuoso capace di generalizzarsi. È a questo terzo tipo di reciprocità che si riferisce Axelrod (1984) quando introduce la sua proposta di soluzione del dilemma del prigioniero nota come tit-for-tat. Chi avvia il circolo lo fa infatti generosamente e gratuitamente, accettando il rischio di non essere ricambiato (qualora dall’altra parte vi sia un soggetto non cooperativo). A differenza che nel mercato, si tratta sempre di uno scambio, ma asincrono e non necessariamente equivalente. Genera piuttosto un ciclo di indebitamenti re-
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Il riferimento a cui guarda Polanyi è infatti l’antropologia economica inglese di inizio secolo e specialmente gli studi di Malinowski (Salsano 1974; Cella 1997). Dobbiamo peraltro a Marcel Mauss e al suo Saggio sul dono (1924) l’idea che la reciprocità costituisca la «roccia eterna» di ogni morale possibile e il fondamento ultimo del vivere in società (Provasi 2014). È soprattutto da Mauss (e non da Malinowski) che trae spunto l’economia del dono a cui si fa di seguito riferimento per sviluppare il concetto di reciprocità.
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ciproci positivi, che alimentano la gratitudine o riconoscenza personale: si coopera senza chiedere nulla immediatamente in cambio ma acquisendo un credito di riconoscenza che potrà tornare utile in altra occasione. È questa caratteristica a permettere di superare la soglia iniziale della non cooperazione (prudenziale) di alcuni e a fondare quell’atteggiamento inizialmente generoso ma non remissivo che accetta la non cooperazione iniziale e perdona l’errore in buona fede ma non l’opportunismo e la defezione intenzionale, che vengono sanzionati spontaneamente attraverso la risposta non cooperativa (2 Box 6.2). Non è estraneo alla reciprocità (anche coraggiosa) un interesse personale alla riconoscenza o alla sicurezza che può derivare dal poter contare sul sostegno altrui in caso di bisogno. Tuttavia le motivazioni che muovono questa forma non possono essere del tutto strumentali (come nello scambio di mercato), ma debbono salvaguardare una componente intrinseca, che rende disponibili a scommettere sulla cooperazione iniziale e consente di evitare l’effetto di spiazzamento (Frey 2005) che una generosità altrimenti «interessata» finirebbe con il determinare. I beni scambiati possono avere natura diversa, ma ciò che li qualifica sotto il regime della reciprocità è il valore di legame (Caillé 1998) che contribuiscono a creare. Sono cioè sempre beni relazionali, il cui valore dipende dalla misura in cui sono in grado di modificare la relazione dei soggetti coinvolti. Attraverso la reciprocità si genera dunque un legame interpersonale diretto che riguarda esclusivamente i soggetti coinvolti nella relazione e, come tale, non generalizzabile. La riconoscenza è cioè «personale» e – a differenza del denaro e dell’autorità – non è un mezzo liberamente circolabile. La forza della reciprocità sta piuttosto nella sua capacità di ispessire progressivamente il tessuto delle relazioni interpersonali producendo una rete fitta di rapporti, da quelli familiari, amicali e di prossimità a quelli associativi, politici, di rappresentanza, che fondano e sostanziano quella che si potrebbe chiamare la società civile. Se la forma istituzionale dello scambio è il mercato e quella della redistribuzione è lo stato (e le gerarchie di secondo ordine, comprese le organizzazioni di impresa), la reciprocità trova la sua naturale sede istituzionale nella società civile e in tutte le sue ricche articolazioni: quelle articolazioni su cui si fondano le premesse etiche anche del mercato e delle istituzioni pubbliche.
6.3 Perché Polanyi è tornato di attualità Dopo un periodo di relativo oblio negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso3 e a più di settant’anni dalla pubblicazione de La grande trasformazione, l’insegnamento di Karl Polanyi è tornato oggi di grande attualità (Block e Somers 2014; Hann e Hart 2009; Salvati 2015). Nel mezzo di una crisi meno devastante (per i massicci interventi pubblici in soccorso della finanza), ma dalle conseguenze altrettanto e forse più 3
Ma tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila escono in Italia due libri importanti che testimoniano come Polanyi, anche se in parte ai margini del dibattito o assimilato inconsapevolmente, resta un riferimento ormai classico della letteratura economico-sociale: Cella (1997); Salsano (2003).
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profonde di quella del 1929 sulle economie di mercato, il contributo di Polanyi sembra potere ancora fornire chiavi interpretative utili. Innanzitutto per una ragione di metodo. Pur focalizzata sulla dimensione storica, la sua analisi non implica un’idea lineare di sviluppo, come invece la sociologia della modernizzazione (si veda il Cap. 30) o l’utopia storico-economica marxista (si veda il Cap. 3). Piuttosto, la sua teoria sociale concepisce la dinamica dello sviluppo quale risultato di una tensione tra un principio di libertà individuale e uno di protezione sociale (Maertens 2008). Tale tensione può dar luogo a equilibri (o compromessi) diversi tra le tre forme sopra ricordate o produrre, in particolari contingenze storiche, un allontanamento dall’equilibrio con conseguenze negative per gli individui e le società. Definisce così una solida prospettiva critica rispetto alle diverse soluzioni praticate senza cadere nel determinismo unilineare degli altri approcci e rimanendo aperta alle infinite possibilità della storia. In secondo luogo, e forse soprattutto, per ragioni sostanziali. La critica di Polanyi al liberismo classico e la prospettiva di un superamento della crisi economico-sociale del 1929 attraverso un intervento redistributivo da parte dello stato (la «grande trasformazione» appunto maturata tra il New Deal rooseveltiano e il secondo dopoguerra) si presta a un’immediata reinterpretazione in chiave attuale, suggerendo così una ricetta politica di uscita dalla crisi (attraverso il ritorno allo stato sociale e all’intervento pubblico in economia) che trova facile ascolto tra i critici del mainstream neoliberista. Tuttavia, un uso siffatto non renderebbe merito alla ricchezza e alle possibilità interpretative suggerite dall’insegnamento di Karl Polanyi. Chi lo sta oggi riscoprendo è sfidato piuttosto a mettere a tema il complesso rapporto tra le tre forme di integrazione alla luce della crisi presente. In particolare, non può non interrogarsi sui fallimenti speculari dei due modelli che hanno segnato l’economia del XX secolo. E non solo su quello liberista prima e neoliberista poi, che hanno cercato di fare del mercato uno strumento di regolazione sociale e politica, oltre che di allocazione economica. Ma anche su quello ispirato ai principi redistributivi pubblici che hanno sì consentito, attraverso il riequilibrio dei rapporti di mercato, di garantire coesione e consenso sociale per una lunga fase di crescita, ma le cui difficoltà crescenti (a partire dagli anni Settanta del Novecento) hanno poi aperto la via al ritorno (neo)liberista. L’ipotesi che si intende avanzare in questa sede, alla luce di una più completa attualizzazione dell’insegnamento polanyiano, è che entrambi i modelli – ancorché opposti nelle loro ispirazioni teoriche e ricette politiche – hanno tuttavia contribuito a «sradicare» i rapporti economici dai legami sociali necessari alla loro riproduzione: il mercato attraverso lo scambio anonimo e strumentale di equivalenti e l’annullamento di qualsiasi principio morale di equità; lo stato in forza di un’autorità incapace di fondare criteri condivisi di giustizia sostanziale e perciò sempre più dipendente da meccanismi democratici meramente procedurali. È di questo spazio, ormai desertificato, che sembra potersi riappropriare la sharing economy, sperimentando forme sociali collaborative in grado (almeno potenzialmente e idealmente) di tornare a radicare le relazioni economiche dentro la reciprocità sociale e la sua capacità di ricostruire relazioni etiche e fiduciarie partendo dal basso.
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In verità, come si cercherà di valutare nel paragrafo seguente, le esperienze in atto si prestano a interpretazioni spesso divergenti, dove non sempre è agevole distinguere se trattasi di un tentativo di ulteriore deregolamentazione del mercato (grazie anche alle possibilità offerte dalle tecnologie della informazione e della comunicazione) o di forme autenticamente collaborative in grado di ricostituire nuovi legami sociali tra i soggetti coinvolti. Se dovesse prevalere la seconda tendenza, ci si troverebbe in presenza di un grande potenziale di innovazione sociale, dei prodromi di un nuovo modello di sviluppo, significativamente diverso rispetto a quelli keynesiano e neoliberista che hanno contrassegnato il Novecento e capace di una più equilibrata ed efficace triarticolazione di scambio, redistribuzione e reciprocità.
6.4 La sharing economy: verso una risocializzazione dell’economia? Il termine sharing economy, che ha raggiunto il suo apice di popolarità con la copertina dedicatagli dall’Economist nel marzo 2013, è diventato una sorta di concettoombrello a cui si riconducono fenomeni diversi o comunque diversamente appellati quali: mesh economy, collaborative consumerism, peer-to-peer economy, commonsbased peer production, rental economy, on-demand economy. Siamo in presenza di una realtà emergente che non trova ancora nelle categorie linguistiche di senso comune né in quelle scientifiche una precisa collocazione e che abbisogna di una nuova mappa per essere interpretata. Da un punto di vista empirico, la molteplicità di esperienze che la letteratura (sia scientifica sia divulgativa) riconduce alla sharing economy possono essere classificate in sei diverse categorie: 1) l’offerta di noleggio da parte di società specializzate di beni di solito sottoutilizzati quando di proprietà privata esclusiva (access o rental economy). L’esempio forse più significativo è il car sharing (ZipCar è stata la prima, seguita ormai da numerose altre diffuse in molte città del mondo), che permette di accedere a un parco auto per utilizzo temporaneo e offre una soluzione alternativa all’auto privata per una mobilità più sostenibile; 2) la messa a disposizione di beni sempre sottoutilizzati, ma direttamente da parte dei loro possessori (peer-to-peer economy o collaborative consumerism: si veda il Cap. 25). È il caso delle piattaforme di accoglienza tra privati (Airbnb la più conosciuta) o di piattaforme per il prestito di oggetti di (raro) uso quotidiano (Peerby) o per la condivisione dei posti auto non occupati durante viaggi programmati (BlaBlaCar); 3) le piattaforme che intermediano prestazioni professionali o servizi anche da parte di persone non professioniste (on-demand economy), per servizi di trasporto personale, lavori domestici, piccole riparazioni, consegne a domicilio, preparazione dei pasti, fino ad attività più qualificate come l’insegnamento o la consulenza. Uber (soprattutto per il servizio Uber pop) è senz’altro la piattaforma più rappresentativa di questa categoria di pratiche, ma sono ormai numerose quelle
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nate seguendone l’esempio nei più svariati campi di applicazione (Taskrabbit, Upwork); 4) una quarta classe non si discosta molto dal punto di vista dei servizi offerti dalla precedente, ma non utilizza denaro nelle transazioni, ricorrendo a forme di baratto (local exchange system) o utilizzando il tempo come unità di misura del valore delle prestazioni scambiate (time banking). Le prime sono diffuse in molte realtà economiche in giro per il mondo (con il ricorso a sistemi di conto più o meno sofisticati o a monete complementari); delle seconde, l’esempio digitale più diffuso in Italia è la piattaforma TimeRepublik; 5) le esperienze più originarie di condivisione produttiva tra pari (commons-based peer production) risalgono ai software liberi o open source prodotti da comunità di sviluppatori e utilizzatori evoluti e messi a disposizione gratuitamente a condizione che non vengano privatizzati (Linux è il caso forse di maggiore successo e valore economico generato). Oggi queste logiche si stanno estendendo dal software all’hardware: la piattaforma Arduino ne è un esempio significativo, ma sono in atto numerosi tentativi in campi produttivi diversi. A questa classe possono essere ricondotte poi le pratiche di condivisione delle infrastrutture di rete, dall’energia al wi-fi; 6) infine anche la finanza non è estranea alle innovazioni della sharing economy. Dalle forme di social lending (prestiti diretti tra persone) alle piattaforme di crowdfunding che favoriscono la raccolta dei capitali necessari allo sviluppo di una nuova idea tra i molti potenzialmente interessati alla stessa (Kickstarter la piattaforma più nota). Come si può dedurre anche da questa semplice classificazione empirica, si tratta di una realtà molto variegata, ma in rapida crescita e dal forte impatto potenziale sui modelli più consolidati e tradizionali di funzionamento dell’economia e del mercato. La domanda che molti cominciano a porsi è quale sarà la direzione che queste forme emergenti imprimeranno a tale organizzazione. Per esprimerci con Polanyi, si tratta di un movimento verso una risocializzazione dell’economia o piuttosto verso un’ulteriore deregolamentazione della stessa, con effetti negativi sulla già compromessa coesione sociale sottostante? Gli studiosi si sono divisi sul punto. Da un lato gli entusiasti della prima ora esaltano le «magnifiche sorti e progressive» della nuova realtà: sostituzione della proprietà privata con diritti di accesso distribuiti (de-ownership), uso più intelligente ed efficiente delle risorse, temperamento delle forme più esasperate di individualismo, sono tutti elementi che inducono costoro a guardare alla sharing economy come a un movimento che apre, per taluni, a forme più mature e progressive di capitalismo (Botsman 2013), per altri addirittura a un superamento dello stesso modello capitalista (Rifkin 2014). Dall’altro, per contro, soprattutto a partire dall’esperienza delle piattaforme peer-to-peer e on-demand che costituiscono oggi la quota più significativa del valore intermediato (Uber e Airbnb su tutte), cominciano ad affacciarsi dubbi e ombre che riguarderebbero queste nuove forme di organizzazione economica (Schor 2016). Oltre alla tendenza a sottrarsi agli obblighi fiscali, anche per la diffi-
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coltà delle normative nazionali a stare al passo con le opportunità offerte dalle piattaforme digitali, è soprattutto la totale deregolamentazione del mercato del lavoro nei rapporti peer-to-peer a sollevare perplessità (Slee 2015). Le tre forme di integrazione proposte da Polanyi e ricostruite nelle pagine precedenti possono aiutare a dare una risposta teoricamente più fondata all’interrogativo circa gli effetti sociali della sharing economy. Ci sono innanzitutto pratiche rubricate entro il perimetro sopra definito che poco si discostano invece dalle logiche tradizionali dello scambio di mercato. È così senz’altro per quelle appartenenti alla categoria della rental economy, come il già citato car sharing. Con modalità simili al più tradizionale noleggio di auto, la proprietà dei mezzi è di una società privata (o più raramente di una pubblica amministrazione), il pagamento avviene in denaro sulla base di un principio di equivalenza rispetto al tempo d’uso del mezzo e il consumo è disgiunto: tra le persone che utilizzano il servizio non si crea alcuna occasione di incontro. La novità riguarda solo la durata: la tecnologia abilita anche su brevi distanze forme di noleggio finora limitate a tratte e periodi più lunghi, ma non ne trasforma le modalità. Chi ricorre a queste soluzioni, rinunciando all’uso di un mezzo di proprietà sottoutilizzato, dimostra una maggiore sensibilità ai temi della sostenibilità ecologica e dell’ottimizzazione delle risorse, ma la forma in sé non promuove una maggiore socializzazione tra gli utilizzatori, né offre un forum di discussione e di diffusione di una nuova cultura sul tema. Più variegate sono le esperienze ascrivibili alla seconda categoria, quella della peer-to-peer economy. Alcune, come i marketplace che offrono in locazione dietro pagamento interi appartamenti o ville private, presentano caratteristiche del tutto simili alla rental economy e dunque non si discostano dalle logiche di mercato consolidate. Si tratta, dal lato dell’offerta, spesso di gestori (quasi) professionali di più proprietà immobiliari che sfruttano la piattaforma per la visibilità globale che offre e la flessibilità che consente. I vantaggi fiscali e normativi di cui queste forme di locazione a breve termine godono in quasi tutti i paesi consentono poi di contenerne i prezzi e di renderli appetibili a un vasto pubblico. Il rapporto che si instaura è tuttavia del tutto strumentale, il consumo è disgiunto e l’unica garanzia richiesta è relativa alla qualità del servizio e prescinde da qualsiasi relazione interpersonale tra compratore e venditore. Siamo invece in presenza di una forma non pienamente riconducibile al mercato nel caso di piattaforme che affittano posti letto in coabitazione con il proprietario (room sharing) o che consentono a un automobilista che abbia posti liberi sulla sua auto per un tragitto già programmato di entrare in contatto con persone interessate a condividere il viaggio a fronte di una partecipazione alle spese (car pooling o ride sharing); o ancora, per quanto riguarda la ristorazione, la possibilità di partecipare a cene preparate da cuochi non professionisti presso la loro abitazione (social dining). In tutti questi casi, un fattore che spinge taluni a sperimentare queste esperienze è anche (se non soprattutto) l’opportunità di incontrare e conoscere persone nuove. Nella piattaforma più nota di car pooling, BlaBlaCar, il «blabla» del nome intende richiamare proprio l’interesse all’incontro e alla conversazione. In questi casi diventa perciò importante valutare, oltre alla qualità del bene oggetto di scambio (la casa, la
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macchina, il cibo ecc.), anche le caratteristiche del proprietario, con cui si entra necessariamente in relazione: viene cioè messa in gioco una qualche forma di reciprocità, seppure limitata e debole. Queste forme ibride che comportano una qualche collaborazione tra i soggetti coinvolti sono tra le esperienze più interessanti della sharing economy, per la diffusione che sembrano assicurare in prospettiva e per i processi di risocializzazione che potenzialmente possono avviare. Nelle relazioni di questo tipo ci si attende una restituzione a breve e il più possibile equivalente di quanto dato (in termini di costo/ qualità della prestazione o anche solo di valore della relazione interpersonale avviata): prevalgono cioè le motivazioni strumentali su quelle intrinseche. In questo sono affini alle transazioni di mercato; e tuttavia sono tali da richiedere una partecipazione personale attiva da ambo le parti e quindi una qualche intesa che non può essere definita a priori in un contratto «completo». Un certo grado di fiducia nel partner è dunque necessario. Si avvicinano pertanto al modello della reciprocità cauta, proposto – come si è visto – dall’economia del dono, in cui le parti, consapevoli dei vantaggi della collaborazione, non intendono tuttavia impegnarsi sin da subito in un rapporto duraturo e sono prudenti nel fare il primo passo esponendosi a possibili comportamenti opportunisti del partner. L’impasse alla cooperazione insito nel modello della reciprocità cauta viene superato grazie alle piattaforme tecnologiche che intermediano queste pratiche collaborative. Tali piattaforme sopperiscono alla mancanza di conoscenza personale pregressa con meccanismi reputazionali che riportano il giudizio di altri che hanno potuto sperimentare in passato l’affidabilità del partner (si veda il Cap. 8). Una volta innescato il processo, l’esperienza resa possibile dalla collaborazione avviata permette a quegli stessi soggetti non solo di sperimentare, se del caso, forme di reciprocità più durature e impegnative con il partner, ma di essere a loro volta generatori di reputazione verso altri in un processo cumulativo che può auto-sostenersi. Dal consumo collaborativo è dunque possibile che scaturisca una più diffusa e fitta rete di rapporti sociali eticamente orientati alla cooperazione. Si tratta, in verità, di una situazione inedita, mai sperimentata né nei rapporti di mercato, dove – come si è detto – è sufficiente l’affidamento generico nel funzionamento del sistema istituzionale, né nelle forme tradizionali di reciprocità, dove la fiducia è basata sul rapporto interpersonale diretto. Sono pertanto pratiche il cui esito sociale definitivo è ancora da scoprire ma, proprio per questo, meritevoli di essere seguite con attenzione. Forme di reciprocità più forti e coinvolgenti (avvicinabili al modello della reciprocità coraggiosa dell’economia del dono) sono invece rintracciabili sia nelle esperienze di commons-based peer production sia nelle pratiche di baratto comunitario locale (local exchange system e banche del tempo). Ciò che contraddistingue questi casi è la forte appartenenza identitaria, innanzitutto di coloro che hanno promosso e sostengono l’iniziativa, e la condivisione di valori fondanti che caratterizzano i rapporti tra i partecipanti, generano una fiducia nella comunità in quanto tale e di riflesso tra gli appartenenti alla stessa, consentono di regolare l’uso delle risorse comuni e il contributo di ciascuno alla loro produzione e conservazione. Sfuma in queste esperienze (assai più che in quelle collaborative viste in precedenza) la differenza tra produt-
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tori e consumatori, anche se permangono forme differenziate di ricompensa (sia in denaro sia soprattutto in prestigio), ma secondo principi di giustizia condivisi. Per certi versi sono le esperienze più alternative a quelle di mercato e capaci di per sé di favorire una positiva risocializzazione dell’economia. Peraltro si tratta di esperienze allo stato attuale ancora circoscritte sia per diffusione sia per tipo di beni o servizi allocati. Soprattutto, necessitano all’origine di un forte affidamento reciproco tra i promotori della comunità sottesa all’iniziativa, che non sempre è però oggi diffuso e senza il quale processi siffatti non si innescano spontaneamente. La qualità dei rapporti tra produttori e consumatori in queste forme di condivisione contrasta nettamente con quella che caratterizza un’altra delle categorie prima viste e considerate entro il perimetro della sharing economy: le piattaforme di on-demand economy che intermediano servizi da parte di freelance o lavoratori non professionisti. Se nelle esperienze di condivisione produttiva si genera un ambiente comunicativo tra domanda e offerta di prestazioni tale da favorire l’emergere di rapporti fiduciari e orientati eticamente, gli scambi sulle piattaforme on-demand sono invece pure transazioni di mercato, contingenti, dettate da motivazioni strumentali e tra soggetti che restano indifferenti l’uno all’altro. Il meccanismo di valutazione adottato anche da queste piattaforme – per cui alla fine della prestazione viene richiesto al fruitore di valutare il prestatore e viceversa – attiene alla qualità del servizio (come nelle piattaforme di valutazione di alberghi e ristoranti) e non a quella della relazione. Al più entra in gioco la reputazione della piattaforma e la sua capacità di garantire un certo standard di qualità attraverso l’affidabilità e la trasparenza delle informazioni messe in circolo. Al di là dei problemi di garanzia della qualità delle prestazioni di operatori non professionisti, che pure sussistono ma potrebbero essere risolti da normative al passo con le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, ciò che interroga gli analisti più sensibili è appunto la deregolamentazione di queste nuove forme di lavoro. Con ciò esasperando, oltre le stesse tendenze neoliberiste, la precarizzazione e gli effetti distorsivi del mercato su una (forse la principale) «merce fittizia» considerata da Polanyi. Infine più difficile è ricondurre al mercato o alla reciprocità l’ultima categoria considerata, il crowdfunding. Nella variante forse più diffusa e prossima al mercato, il crowdfunding reward-based, la relazione tra progettista/produttore e consumatore è simmetrica e il contratto è incompleto, perché si finanzia un prodotto o servizio che non è stato ancora realizzato e di cui non è possibile accertare a priori il valore. Assume dunque rilievo l’affidabilità del proponente che, come nel caso già analizzato delle pratiche collaborative, non può che fondarsi su meccanismi reputazionali, con tutti i limiti ma anche le potenzialità generative di legami sociali che si sono viste. Il crowdfunding donation-based, in cui il o i proponenti raccolgono finanziamenti senza offrire controprestazioni – se non simboliche – per progetti di valore sociale, si avvicina invece alla reciprocità coraggiosa, come sopra definita, anche se di nuovo si tratta allo stato attuale di pratiche ancora scarsamente diffuse. Di maggiore interesse (anche in termini di possibile diffusione) sono gli esperimenti di crowdfunding civico, che vedono la mobilitazione di risorse volontarie (in denaro e/o in tempo di lavoro), ancorché spesso con un contributo incentivante delle
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stesse pubbliche amministrazioni, per il recupero o la gestione di spazi, beni o servizi pubblici. Ciò che appare degno di nota in questi casi è il rapporto che viene a instaurarsi tra amministrazione pubblica e cittadini. Non si è più in presenza del meccanismo classico della redistribuzione pubblica che prevede, da un lato, il prelievo fiscale e, dall’altro, il coinvolgimento democratico dei cittadini nelle decisioni dell’autorità; piuttosto di un conferimento diretto di risorse, al di fuori del circuito fiscale, per la produzione di beni comuni su cui si intende mantenere un diretto controllo collettivo. In un momento di crisi delle forme storiche della rappresentanza politica, si tratta di pratiche di grande interesse, da seguire con attenzione per le possibilità che aprono di un diverso rapporto non solo – per esprimerci ancora una volta con le categorie di Polanyi – tra scambio e reciprocità ma anche tra reciprocità e redistribuzione.
6.5 Per concludere Come abbiamo visto, le tre forme di integrazione polanyiane mantengono la loro utilità per interpretare un fenomeno nuovo quale la sharing economy. Non si è in presenza di una nuova forma; anzi in alcuni casi, come si è visto, nulla si innova rispetto alla forma dello scambio o, dove ciò avviene grazie alle opportunità rese possibili dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, è per esasperare piuttosto che temperare gli effetti negativi dello scambio sulla sicurezza e coesione sociale. Si danno tuttavia, entro lo stesso perimetro della sharing economy, numerose pratiche «ibride» rispetto alle tre forme polanyiane canoniche, come tali potenzialmente in grado di espandere la sfera della reciprocità in direzione sia del mercato sia della redistribuzione. Nella fase di profonda crisi che l’economia di mercato sta attraversando, il fenomeno della sharing economy, con tutte le luci e le ombre che evidenzia, merita dunque una particolare attenzione per le implicazioni anche di carattere generale che può assumere. Memori dell’insegnamento di sobrietà teorica di Karl Polanyi, occorre trattenersi tuttavia dal considerare la sharing economy come un nuovo modello destinato a divenire egemone in alternativa a quelli che hanno sin qui caratterizzato le economie moderne; piuttosto e più semplicemente sembra favorire, grazie alla risocializzazione della sfera economica che le pratiche di collaborazione e condivisione rendono possibile, un diverso compromesso o equilibrio tra mercato, stato e società. Stato e mercato continueranno a rimanere centrali negli assetti futuri, ma esperienze che sappiano radicare di nuovo almeno una parte dei rapporti economici dentro la sfera della reciprocità sociale risulteranno indispensabili per un modello di sviluppo più coeso e stabile.
Letture di approfondimento Cella G.P. (1997). Le tre forme dello scambio. Reciprocità, politica, mercato a partire da Karl Polanyi, Bologna, il Mulino.
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Polanyi K. (1944). The Great Transformation, New York, Farrar & Rinehart (trad. it. La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, trad. di R. Vigevani, Torino, Einaudi, 1974). Polanyi K. (1957). «The economy as an instituted process» in K. Polanyi, C.M. Arensberg, H.W. Pearson (eds.), Trade and Markets in Early Empires. Economies in History and Theory, Glencoe (IL), The Free Press, pp. 243-69 (trad. it. «L’economia come processo istituzionale», in K. Polanyi (a cura di), Traffici e mercati negli antichi imperi, trad. di E. Somaini, Torino, Einaudi, 1978). Schor J. (2016). «Debating the sharing economy», Journal of Self-Governance and Management Economics, 4(3), pp. 7-22.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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7 Pierre Bourdieu. Le strutture (sociali e simboliche) dell’economia di Marco Santoro
7.1 Brevi cenni biografici Sociologo (francese) tra i più noti e più influenti a livello mondiale, Pierre Bourdieu è nato nel 1930 alle pendici dei Pirenei in una famiglia della piccola borghesia contadina. Compie i suoi studi in provincia grazie a borse di studio arrivando a Parigi nel 1948, per poi laurearsi in Filosofia, all’École Normale Superieur di Rue d’Ulm, nel 1954. La sua biografia intellettuale prosegue con un periodo di studi post-laurea per un dottorato (mai terminato) sulle strutture del tempo nella filosofia di Husserl. Chiamato a svolgere il servizio militare nella colonia algerina, Bourdieu si «converte» alla ricerca etnologica svolgendo, come assistente presso l’Università di Algeri, ricerche empiriche sulla società e l’economia algerine. Nel 1960 ritorna a Parigi come assistente di Raymond Aron e segretario del Centre de Sociologie Européenne da quest’ultimo fondato presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales. è in questa cornice istituzionale che Bourdieu avvia negli anni Sessanta e Settanta, da solo o con altri, numerose ricerche empiriche su aspetti della società (francese) come il tempo libero, le strategie matrimoniali, le pratiche amatoriali, i consumi culturali, la partecipazione scolastica, la produzione letteraria e artistica, il mondo accademico, la produzione filosofica, la rappresentanza politica, il linguaggio, la religione, lo stato, il mercato immobiliare, i media. Non c’è campo o sfera di vita collettiva in effetti che non sia stato studiato da Bourdieu nei poco più che quarant’anni della sua intensa attività di studio e ricerca, attività che lo avrebbe portato nel 1982 alla cattedra di sociologia al Collège de France (la più prestigiosa istituzione accademica francese) e al conseguimento ufficioso, ma certificabile con dati bibliometrici, del titolo di sociologo più citato al mondo, e non solo dai sociologi. Come questi cenni biografici e questo elenco di argomenti lasciano intendere, Bourdieu non ha mai amato né rispettato le specializzazioni e i confini disciplinari, pur riconoscendosi sempre come sociologo e praticante della sociologia, e battendosi per il riconoscimento di questa disciplina ogni volta che l’occasione lo richiedeva. Per questo non ha mai descritto la sua ricerca come sociologia economica – e neppure come sociologia dell’educazione, della famiglia, dell’arte, della politica, della religione… pur essendo tutto questo. Critico delle partizioni di comodo che parcellizzano il mondo secondo criteri che rimandano più alle classificazioni del mondo intellettuale che alle strutture della realtà sociale, Bourdieu ha studiato la scuola, la religione e l’arte nei loro aspetti economici e politici, la politica e l’economia nei loro aspetti religiosi e simbolici, sottolineandone le reciproche connessioni. Ha studiato
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da sociologo la filosofia di Heidegger e la produzione letteraria di Flaubert, ma ha utilizzato le sue competenze filosofiche per studiare con metodi empirici i consumi e il lavoro.
7.2 Una sociologia critica del mondo economico Pur non essendo un sociologo economico in senso stretto, l’economia è onnipresente nell’opera di Bourdieu, dai suoi primissimi studi sulla società algerina fino a quello che resta il suo ultimo libro pubblicato in vita, dall’inequivocabile titolo Le strutture sociali dell’economia (Bourdieu 2000). Volendo semplificare, in quest’opera troviamo tanto una sociologia politico-culturale del mondo economico quanto una sociologia economica della cultura, ovvero del mercato dei beni simbolici. Non è difficile rintracciare in questa concettualizzazione una distinzione ancora più fondamentale, quella utilizzata anche da Karl Polanyi (si veda il Cap. 6) mezzo secolo fa tra l’economia in senso formale e quella in senso sostanziale o meglio processuale. Da un lato l’economia come dimensione dell’agire umano (il cui principio è l’«economizzare») che si ritrova anche in altri campi, per esempio quello culturale e artistico. Dall’altro, una sfera di attività umana: l’economia come campo a parte, come universo sociale specializzato e con proprie regole e logiche (concezione sostanziale). L’economia come disciplina è nata e si è sviluppata dai tempi di Adam Smith privilegiando, nel corso del suo sviluppo, la prima accezione, spesso estendendo i suoi principi e modelli a campi di indagine apparentemente distanti, come la famiglia, l’istruzione, la criminalità (il cosiddetto «imperialismo economico»). Questa espansione (ed estensione) non è tuttavia priva di problemi, osserva Bourdieu: La scienza che si chiama “economia” riposa su un’astrazione originaria, che consiste nel dissociare una particolare categoria di pratiche, o una particolare dimensione di ogni pratica, dall’ordine sociale nel quale ogni pratica umana è immersa. Questo profondo radicamento, di cui ritroviamo alcuni aspetti o alcuni effetti quando si parla, seguendo Karl Polanyi, di embeddedness, obbliga […] a pensare ogni pratica – a cominciare da quella che si spaccia, nel modo più evidente e rigoroso, per “economica” – come un “fatto sociale totale”, nel senso di Marcel Mauss (Bourdieu 2000, trad. it. 2004, p. 17).
In effetti, la sociologia di Bourdieu si presenta come alternativa alla scienza economica per almeno due motivi: 1) perché per intendere l’economia come sfera di attività, come sistema di pratiche, immerso nell’ordine sociale, mobilita saperi diversi ricavabili da tutto l’insieme delle scienze storico-sociali (in particolare la storiografia e l’etnologia); 2) perché ricorre a un insieme sistematico di concetti che Bourdieu stesso ha forgiato nel corso del tempo per rendere conto di quell’ordine sociale, di cui le pratiche cosiddette economiche sono parte integrante.
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7.3 Fondamenti di antropologia (economica) Obiettivo primario di Bourdieu è restituire all’economia la sua «verità di scienza storica» (2000), mostrando come gli stessi risultati della scienza economica siano meglio spiegabili entro un quadro teorico diverso dalla teoria della scelta razionale e dall’individualismo metodologico. Quando Bourdieu fa riferimento alla dimensione economica dell’azione sociale non ha dunque in mente un principio di razionalità formale dell’agire individuale1. L’attore sociale di Bourdieu è calato nelle circostanze ordinarie dell’esistenza, alle prese con un mondo che si dà nella prassi prima che nell’astrazione del pensiero. Si tratta dunque di un attore sociale che opera nel mondo attraverso pratiche, fasci di azioni organizzate nel tempo e nello spazio, che hanno una propria durata e una certa distribuzione di forme e modi. Così, per fare un esempio, non esiste il «cucinare», ma modi storicamente e culturalmente diversi di trasformare il crudo in cotto. Il riferimento al concetto di pratica è cruciale per comprendere la prospettiva di Bourdieu: è nel dipanarsi della vita quotidiana che prendono forma la vita economica e gli scambi economici. Il punto centrale della critica alla teoria economica avanzata da Bourdieu è però un altro: l’homo oeconomicus è un prodotto storico, un effetto istituzionale che presuppone la genesi e la progressiva imposizione di un certo ordine sociale, nonché la sua incorporazione tanto nelle coscienze quanto nei corpi degli attori sociali. Tutto ciò che la scienza economica pone come un dato, ossia l’insieme delle disposizioni dell’agente economico che fondano l’illusione dell’universalità astorica delle categorie e dei concetti utilizzati da tale scienza, è in realtà il prodotto paradossale di una lunga storia collettiva, incessantemente riprodotto nelle storie individuali, prodotto di cui solo l’analisi storica può rendere davvero conto: è perché le ha iscritte parallelamente all’interno di strutture sociali e di strutture cognitive, di schemi pratici di pensiero, di percezione e d’azione, che la storia ha conferito alle istituzioni di cui l’economia vorrebbe essere la teoria astorica la loro apparente evidenza naturale e universale: ciò in particolar modo, attraverso l’amnesia della genesi, che privilegia, in questo dominio come altrove, l’accordo immediato fra il “soggettivo” e l’“oggettivo”, fra le disposizioni e le posizioni, fra le aspettative (o le speranze) e le opportunità (Bourdieu 2000, trad. it. 2004, p. 21).
L’agente economico razionale, l’homo oeconomicus, è quindi non solo un’astrazione teorica ma una costruzione sociale storicamente data. Quelle che Bourdieu chiamerebbe le sue «disposizioni» ad agire secondo principi logico-formali e razionali sono tutto fuorché innate, naturali, universali. Ma non è questo l’unico problema della teoria economica. Storicamente situati, gli agenti sociali sono anche animali culturali, simbolici. Il concetto di cultura è implicito in tutta la ricerca di Bourdieu, seppure sia difficile 1
Sulla visione dell’economia e della razionalità economica di Bourdieu, si vedano in particolare Boyer (2003), Swedberg (2011) e Garcia-Parpet (2014) e, con specifico riferimento alla categoria del «lavoro», Quijoux (2015).
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trovare il termine direttamente nei suoi testi, come riconoscimento della rilevanza della dimensione simbolica del mondo sociale – di quegli aspetti del mondo sociale che rimandano alle rappresentazioni che gli agenti sociali si fanno di se stessi e del proprio mondo, attraverso il linguaggio, ma anche tramite le immagini e i suoni. Bourdieu è molto attento alle forme e ai modi del linguaggio e alle funzioni sociali che il linguaggio, le parole, i modi di parlare svolgono nelle relazioni di potere. Ma il linguaggio non esaurisce il simbolico, come si è detto. Da qui l’interesse che Bourdieu ha per lo studio delle «forme simboliche» in senso ampio: sistemi di pensiero, opere letterarie, programmi scolastici, ma anche mitologie, soluzioni architettoniche, arredamento, abbigliamento ecc., riconosciute nel loro ruolo costitutivo dell’esperienza sociale. Le forme simboliche sono rilevanti in quanto serbatoi di quello che Bourdieu chiama «potere simbolico» – potere che a sua volta si manifesta come potere di classificare, di nominare, di etichettare. Le relazioni economiche non fanno eccezione: anzi, le condotte che la scienza economica identifica come «economiche» possono esistere solo a seguito e attraverso l’adozione di un sistema di rappresentazioni simboliche che precedono il calcolo razionale e lo scambio mediato dai prezzi. Così, la ricerca del profitto non è solo o tanto di tipo monetario, ma è indissolubilmente intrecciata con la dimensione simbolica, in termini di prestigio, di status, di riconoscimento.
7.4 Il sistema concettuale di Bourdieu Quella di Bourdieu è dunque una teoria insieme storica e strutturale del mondo sociale articolata intorno ad alcuni concetti-chiave: habitus, campo e forme di capitale. Si può dire che l’intera architettura teorica di Bourdieu poggi su questa triade di concetti, che andremo adesso a illustrare2. 7.4.1 Habitus Con questo termine, ricavato dalla filosofia medievale3, Bourdieu intende un sistema di disposizioni acquisite dall’attore nel corso del tempo (a cominciare dalla primissima infanzia) come effetto della sua esposizione a un determinato insieme di condizionamenti sociali. Le strutture del mondo sociale in cui si cresce vengono così introiettate come strutture mentali, principi di visione e di divisione, cioè di classificazione, del mondo medesimo. L’habitus – che è tendenzialmente simile tra quanti hanno condiviso analoghe condizioni sociali – è ciò che dispone gli agenti sociali a percepire, giudicare e trattare 2
Per efficaci e ampie ricostruzioni del sistema concettuale in oggetto, in italiano possono consultarsi con profitto Boschetti (2003), Paolucci (2011) e Wacquant (1992). 3 Sulle origini del concetto bourdieusiano di habitus si veda Lizardo (2004).
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il mondo nel modo in cui lo fanno. Si radica qui, secondo Bourdieu, la capacità degli agenti sociali di «fare ciò che il mondo si aspetta da loro». Benché non intenzionale, questo agire pratico governato dall’habitus può fondare dunque «strategie» nella misura in cui esso produce condotte situate e organizzate – pratiche, appunto – che si rivelano le più adatte alla situazione. Questa sintonia tra agire e mondo sociale non è garantita, ma non è nemmeno così rara da potersi trascurare. Anzi, secondo Bourdieu è al principio di molte delle condotte che non smettono di stupire lo scienziato sociale, come la straordinaria capacità dei membri delle classi dominanti di agire in modi che tendono a riprodurre il loro dominio senza alcuna apparente collusione o accordo esplicito circa il da farsi. Naturalmente, Bourdieu sa bene che ci sono regole e norme sociali (regole nella scelta matrimoniale, norme per lo scambio dei doni ecc.): ma queste si rivelano spesso secondarie al cospetto delle pratiche sociali degli attori che possono empiricamente osservarsi (Bourdieu 1972). Gli attori conoscono le regole e le norme sociali, ma il loro agire va normalmente ben oltre, cercando più che una mera osservanza normativa un «adattamento pragmatico» alle circostanze. In questo adattamento, essi non sono né totalmente liberi né manovrati da forze esterne: sono piuttosto vincolati innanzitutto dal loro senso pratico veicolato dalle strutture sociali che operano come strutture mentali, come schemi cognitivi, fondando il senso del limite che ciascun attore ha riguardo alle sue reali possibilità in un dato contesto sociale. Noi sappiamo che non possiamo fare tutto, che ci sono limiti alla nostra volontà e ai nostri desideri, e soprattutto alle nostre probabilità di riuscita, e questa conoscenza pratica ci guida nella scelta delle azioni (Bourdieu ha chiamato questo meccanismo la «causalità del probabile»). Di più: essa fa in modo che ciò che non possiamo fare spesso non venga neppure preso in considerazione come possibilità, che non venga neppure visto o desiderato («non fa per me»). Al contempo, è solo tramite questa medesima conoscenza pratica che noi sappiamo cosa e come fare ciò che crediamo di poter fare («fa per me»). Queste disposizioni hanno inoltre due caratteristiche: sono durature e soprattutto sono trasferibili. Una volta apprese, introiettate, costituite nella personalità nel corso di un contatto prolungato con una certa situazione o classe di condizioni sociali, esse possono facilmente attivarsi e impiegarsi dagli agenti anche per far fronte a situazioni inedite e del tutto impreviste. L’habitus può essere così contemporaneamente un principio di continuità (Bourdieu lo chiama «storia incorporata»), ma anche, nel momento in cui entra in relazione con una situazione o un ambiente sociale diverso da quello da cui è stato originariamente generato, di discontinuità o rottura, anche sotto forma di innovazioni. L’habitus ha così ben poco di meccanico o automatico: non è un principio di determinazione meccanica dell’agire sociale. Piuttosto, è un principio di «improvvisazione regolata» come nel jazz: metafora spesso evocata da Bourdieu per cercare di trasmettere il senso in cui intende il concetto di habitus. 7.4.2 Campo Questa teoria dell’azione è un frammento di un’architettura più vasta che include anche una concezione dello spazio sociale e una delle risorse (o del potere). Le due con-
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cezioni sono del resto strettamente integrate e reciprocamente implicate. Bourdieu si sbarazza del concetto generale e generico, radicato nel senso comune, di «società» e lo sostituisce con quello, più astratto e puramente analitico, di spazio sociale. Questo spazio, in cui evidentemente sono collocati, posizionati, gli agenti sociali (individuali e collettivi), non è omogeneo: esso si articola in settori, regioni, sfere distinte, che Bourdieu chiama «campi». Campo è, per Bourdieu, qualunque microcosmo sociale definito da una posta in gioco (un fine specifico), da proprie regole e forme di autorità (e riconoscimento di questa autorità) e da un almeno relativo grado di autonomia. è un principio di differenziazione sociale – tipico della società moderna – che produce spazi strutturati e tra loro in potenziale competizione o conflitto. Gli esempi possibili di campi così intesi sono innumerevoli: da quello religioso a quello politico, da quello economico a quello giuridico, da quello scolastico a quello burocratico, da quello giornalistico a quello cinematografico ecc. Un campo è uno spazio strutturato di posizioni, che funziona sia come «campo di forze» capaci di incidere con la loro dinamica su chi e cosa sta nei suoi confini (un po’ come un campo magnetico) sia come «campo di battaglia» o «arena», luogo di una lotta potenzialmente continua per la sua definizione, per la definizione dei suoi confini e per la conservazione o trasformazione delle gerarchie che valgono al suo interno. Quella di Bourdieu è quindi una visione conflittuale e agonistica della vita sociale, che pensa la «società» come uno spazio (di potere), in cui si giocano partite (la metafora del gioco è onnipresente negli scritti di Bourdieu, giocatore di rugby in gioventù) che hanno come posta la conquista del campo – o quanto meno il suo controllo. è lo stato dei rapporti di forza tra i giocatori a definire in ogni momento la struttura del campo: possiamo immaginare che ogni giocatore abbia davanti a sé pile di gettoni di diversi colori, corrispondenti alle diverse specie di capitale in suo possesso; la sua forza relativa nel gioco, la sua posizione nello spazio di gioco, come pure le sue strategie nel gioco, le mosse più o meno arrischiate, più o meno prudenti, più o meno sovversive o conservatrici che può fare, dipendono sia dal volume globale dei suoi gettoni sia dalla struttura delle pile di gettoni, dal volume globale e dalla struttura del suo capitale (Bourdieu 1992a, trad. it. 1992, p. 69).
Il gioco competitivo, e più in generale la lotta, sono le metafore centrali del pensiero di Bourdieu. E la lotta è un principio del divenire e del mutamento, non di riproduzione e di stasi4. Un campo non è un’entità stabile, né una qualche essenza immutabile. Un campo, con la sua forma e le sue forze, è sempre un prodotto della storia. Non c’è sempre stato un campo letterario, ma questo ha dovuto essere costruito (grazie al lavoro di imprenditori culturali come Flaubert e Baudelaire), e per continuare a esistere deve essere difeso e protetto dalle interferenze e pressioni che giungono da al-
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Il concetto di «riproduzione» è stato a lungo considerato la chiave di lettura della teoria di Bourdieu, che lo stesso autore ha però nel tempo sconfessato.
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tri campi (quello economico in primis, e poi quello politico, spesso con la mediazione del campo dei mass media). Troviamo qui, ancora, uno dei capisaldi della teoria sociologica di Bourdieu, la sua spiccata sensibilità per la storicità e per la temporalità dell’esistenza sociale. Un campo esiste nel tempo, come istante in una traiettoria la cui dettagliata ricostruzione è condizione indispensabile per comprendere come il campo funziona, secondo quali logiche si muova. Ma oltre a questo, il concetto di «campo» identifica un principio epistemologico chiave dell’opera del francese: la relazionalità. La nozione di campo è per un verso una stenografia concettuale di un modo di costruzione dell’oggetto che guiderà, od orienterà, tutte le scelte pratiche della ricerca. Funziona come un promemoria: devo verificare che l’oggetto che mi sono dato non si trovi implicato in una rete di relazioni da cui abbia tratto l’essenziale delle sue proprietà. Attraverso la nozione di campo viene richiamato il primo precetto del metodo. […] Bisogna pensare in maniera relazionale (ivi, pp. 180-81).
Pensare in modo relazionale vuol dire collocare le cose (siano esse beni, pratiche, risorse, e anche persone) nei loro contesti, cercarne il valore – il significato – non nelle loro proprietà intrinseche o nei loro presunti attributi «essenziali», bensì nel loro rapporto con le altre cose, nella loro differenza da altre cose, nei rapporti di somiglianza (ovvero omologia) che intrattengono con altre cose situate anche in altri contesti. Non esistono «cose in sé» per la scienza. E le «cose sociali» non fanno eccezione. Una pratica originariamente nobile, ci ricorda Bourdieu, può essere abbandonata dai nobili se viene adottata da una quantità crescente di borghesi e piccoli borghesi, se non dalle classi popolari, facendone mutare il significato, il valore sociale e culturale, e anche quello economico. è quanto è accaduto, per fare un esempio noto, alla boxe nel corso del Novecento. Non c’è niente nella boxe che la rende intrinsecamente nobile o popolare: è solo la sua posizione in uno spazio relazionale, in un sistema di differenze, a stabilirne il significato, in quanto tale mutevole. 7.4.3 Capitale Non ci sarebbero dunque «campi» se non ci fossero differenze. E le differenze portano con sé la possibilità reale delle disuguaglianze, delle asimmetrie di risorse e di potere, di cui la vita sociale è ovunque intessuta, seppure in forme e misure diverse nel tempo e nello spazio. Ogni campo esiste sia in quanto spazio circoscritto di distribuzione di risorse (per cui alcuni hanno più e altri meno), sia a sua volta come elemento di uno spazio più grande in cui esso è diversamente posizionato rispetto ad altri campi – in altre parole, rispetto alla distribuzione generale delle risorse nello spazio sociale in cui quei campi sono inseriti, collocati5. 5
Per un’analisi più articolata del concetto di capitale in Bourdieu rimando alla mia introduzione a Bourdieu (1986, trad. it. 2015). Ma si veda anche quanto scrivono Bennett, Warde e Devine (2005) e, criticamente, Hikaru Desan (2013).
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Il termine generale che Bourdieu impiega per designare le risorse è quello, di matrice economica, di capitale. Nell’uso che ne fa Bourdieu, è «capitale» ciò che si possiede e il cui possesso (o disponibilità) conferisce potere agli agenti sociali entro gli specifici campi in cui questi sono attivi, e che gli stessi agenti mobilitano, più o meno consciamente, sia per aumentare lo stock di cui dispongono sia per garantirsi la sua conservazione nel corso del tempo, anche attraverso le generazioni. Così concepito, capitale è dunque qualunque risorsa che dia un vantaggio a chi la possieda, e che inoltre possa essere accumulata e perpetuata attraverso meccanismi di trasmissione ereditaria. In effetti, esiste in Bourdieu un’equivalenza, o una circolarità, tra la categoria di capitale e quella di potere, inteso come capacità di agire e di produrre effetti ovvero vantaggi per l’agente sociale: il potere si manifesta sotto forma di capitale e il capitale è una forma di potere. Il contributo più originale di Bourdieu è nel concetto di «forma» o meglio di forme del capitale6. A differenza di quanto sostiene la teoria economica, e che il senso comune ha ampiamente accolto, il capitale non è infatti solo di tipo economico: piuttosto, il capitale economico è solo una specie di una categoria più ampia, che include anche altre specie, altre forme appunto. Nelle parole dello stesso Bourdieu: Non è […] possibile render conto della struttura e del funzionamento del mondo sociale a meno di re-introdurre il concetto di capitale in ogni sua forma e non solo nella forma conosciuta dalla teoria economica. La teoria economica si è di fatti lasciata imporre il concetto di capitale da una prassi economica che è un’invenzione storica del capitalismo (Bourdieu 1986, trad. it. 2015, p. 36).
Laddove la teoria economica concepisce un’unica specie o forma di capitale – il capitale economico, nella forma tipica di beni monetizzabili, ovvero traducibili in valore monetario – e tende comunque a limitare, più o meno esplicitamente, la sua utilizzabilità a una data epoca storica (comunque «moderna») e formazione storico-sociale (la società capitalistica), una teoria della «struttura e funzionamento del mondo sociale» non può prescindere dal riconoscimento dell’esistenza di una pluralità di forme di capitale («tipi e sottotipi»), che richiedono di essere introdotti nell’analisi.
7.5 Il capitale e le sue forme Vediamo più da vicino di cosa stiamo parlando. Sono quattro7 le specie fondamentali in cui può darsi il «capitale»: 6
L’allusione è evidentemente a Le forme elementari della vita religiosa di Durkheim (1912), come noto testo fondativo dell’analisi sociologica del simbolico e della cultura (si veda il Cap. 2). 7 Le specie o forme cui fa riferimento Bourdieu nei suoi testi sono in realtà molte di più, poiché ogni campo sviluppa poi la propria forma di capitale specifico (per esempio, capitale letterario, capitale politico ecc.), ma Bourdieu, considera queste specie specificazioni dei quattro tipi fondamentali, e in particolare della quarta.
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1) il capitale economico, su cui Bourdieu non ha in effetti molto da dire8, a parte specificare che «è immediatamente e direttamente convertibile in denaro e si istituzionalizza nella forma del diritto di» (ivi, p. 86); 2) il capitale culturale, «convertibile a determinate condizioni in capitale economico e [che] si istituzionalizza soprattutto nella forma di titoli scolastici» (ibidem); 3) il capitale sociale, costituito da «obblighi e “relazioni” sociali, [che] è convertibile a determinate condizioni in capitale economico e si istituzionalizza in particolare nella forma di titoli nobiliari» (ibidem) (2 Box 7.1); 4) il capitale simbolico, ovvero il capitale di riconoscimento, sorta di meta-capitale che esiste in sé (sotto forma di prestigio, onore, reputazione), ma spesso si aggiunge ai precedenti portando a essi un supplemento di legittimità, rendendoli efficaci (si veda Bourdieu 1972, 1992a). Di queste quattro specie o forme, sono le prime due a rilevare soprattutto nella società contemporanea secondo Bourdieu: perché è intorno a esse che nel mondo contemporaneo si struttura lo spazio sociale. La distinzione tra capitale economico e capitale culturale è uno dei capisaldi della visione sociologica di Bourdieu. A seconda della predominanza dell’una o dell’altra forma si hanno infatti tipi sociali diversi, ovvero diverse strategie di azione, diverse visioni del mondo, diversi orientamenti politici, diversi interessi. Anche rispetto alle strategie di valorizzazione del capitale ci sono differenze. Il modo in cui gli agenti sociali mobilitano le loro risorse non è infatti una costante, un dato naturale, ma dipende – sostiene Bourdieu – dalla proporzione relativa di capitale economico e culturale di cui possono disporre. A differenza di campo e habitus, ricavati da precedenti usi e rielaborati, quello di capitale culturale è un neologismo, una creazione originale di Bourdieu (e del collega Jean-Claude Passeron, coautore di alcuni dei primi studi di Bourdieu). L’idea fondamentale alla base del concetto di capitale culturale è che quella sostanza eterea e altamente legittimata nella società contemporanea chiamata «cultura» (nell’accezione umanistica del termine, quella acquisita dal sistema scolastico e promossa dallo stato con le sue istituzioni culturali e le sue politiche culturali) può essere, e spesso in effetti è, una risorsa, o base, di potere e non solo di coltivazione spirituale e crescita individuale. Sviluppato come ipotesi interpretativa per spiegare i risultati di indagini empiriche sui meccanismi di funzionamento della scuola e sul rendimento scolastico9, 8
Bourdieu ha spesso manifestato una forte esitazione a discutere direttamente la teoria economica del capitale: «Per quanto riguarda il capitale economico, mi rimetto ad altri perché non è il mio mestiere» (Bourdieu 1980, p. 55). 9 In breve, l’ipotesi è che l’istituzione scolastica non premia il talento o le doti individuali così come queste vengono messe in luce e rafforzate dall’insegnamento scolastico e dallo studio, quanto piuttosto il background di cui ogni studente è portatore e veicolo (e riproduttore) per il semplice fatto di essere stato socializzato in una certa famiglia e quindi nella classe sociale a cui la famiglia partecipa condividendo con altre famiglie simili «classi di condizioni di esistenza». Più che lo studio dei libri e dei programmi scolastici, sostiene Bourdieu, sarebbe dunque la familiarità con elementi e frammenti più o meno organici di cultura resa possibile dalla partecipazione a un certo stile di vita familiare a contare
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il concetto di capitale culturale è stato comunque ben presto applicato dallo stesso Bourdieu per rendere conto delle più generali e generiche pratiche culturali, cioè dei modelli di partecipazione alle arti e ai consumi del tempo libero che tutte le ricerche condotte (e non solo in Francia) hanno rilevato essere fortemente differenziati per classi sociali, con una forte sproporzione a favore dei membri delle classi più istruite e appunto meglio dotate in termini di capitale culturale, e in particolare di quella sua sottospecie che è il «capitale scolastico» 10. Dopo essere stato impiegato come principio esplicativo delle differenze sociali rilevate nell’organizzazione delle pratiche fotografiche e nei modelli di frequentazione museale, il concetto è stato utilizzato anche per studiare l’altra faccia dell’economia culturale, quella della produzione (Bourdieu 1992b). Anche i produttori culturali – scrittore, pittori, musicisti, giornalisti ecc. – sono infatti individui posizionati nello spazio sociale, e quindi provvisti di una qualche dotazione di risorse culturali più o meno istituzionalizzate e più o meno incorporate, dallo stile di abbigliamento alla dizione fino alla stessa scrittura, che incidono direttamente e spesso inconsciamente sulle loro creazioni artistiche. Insomma, per riassumere e fare il punto, quella di «capitale culturale» è una metafora che deriva il suo valore dalla capacità di mettere in relazione istruzione, stratificazione sociale, consumo (e quindi gusti) e produzione culturale: un sistema di connessioni strategiche per ogni indagine sociologica, che contribuisce certo a spiegare il successo del concetto. Uno dei problemi del concetto di capitale culturale è che esso copre una grande varietà di caratteri utilizzabili come risorse, come la facilità di parola, il possesso di conoscenze culturali generali, il tipo di preferenze estetiche, il complesso di informazioni disponibili, e naturalmente i titoli di studio (credenziali educative). Quest’ultimo è in effetti l’indicatore più spesso utilizzato, per la sua disponibilità e maneggevolezza, per operazionalizzare e quindi misurare empiricamente il capitale culturale dell’individuo e/o della sua famiglia, anche a costo di perdere buona parte della complessità del concetto11. L’utilizzo del concetto nella ricerca empirica ha richiesto non solo l’ideazione e adozione di tutta una serie di strategie di operativizzazione, ma anche inevitabilmente una selezione piuttosto drastica, entro il campo degli indicatori così costruiti, di quelli effettivamente impiegabili nella ricerca12. nel successo scolastico e a spiegare la forte selezione che via via si compie nel corso della carriera scolastica, a tutto vantaggio dei figli delle classi superiori, o dominanti, sovrarappresentati ai livelli alti del sistema scolastico. 10 Sulla «teoria del capitale culturale» come contributo alla sociologia dell’educazione esiste una letteratura vastissima: per una rassegna si veda Lareau e Weininger (2003). Una critica spietata del concetto (e della teoria intorno a esso costruita) in Goldthorpe (2007), da leggere però con i commenti che lo accompagnano. 11 Per un’influente rassegna dei molti significati, non sempre coerenti, attribuiti al concetto dallo stesso Bourdieu e da chi ha seguito le sue tracce si veda Lamont e Lareau (1988). 12 Per rendersi conto della varietà di usi del concetto nella ricerca empirica – tanto da rendere spesso non comparabili i risultati – basti dire che alcuni lo operativizzano semplicemente con i titoli di studio conseguiti, altri con misure di conoscenza di opere d’arte (si veda per esempio DiMaggio 1982); altri ancora con i programmi delle scuole d’élite. In applicazioni influenti, Alvin Gouldner ha tradotto empiricamente il concetto con la capacità di svolgere compiti in modi culturalmente accettabili, mentre
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Oltre alla classificazione secondo forme, Bourdieu offre alcuni strumenti per un’analisi dinamica, introducendo il concetto di conversione di capitale – ovvero di trasformazione di una forma di capitale in altra forma. Ciò che rende sociologicamente pregnante il concetto bourdieusiano di capitale non è quindi solo la varietà di esperienze e forme che esso permette di catturare, ma anche la possibilità di ragionare per suo tramite su alcuni meccanismi di trasformazione della realtà sociale. Il capitale ha infatti la proprietà non solo di cambiare quantitativamente nel corso del tempo – un capitale può aumentare, diminuire, dilapidarsi e anche perdersi – ma anche di cambiare qualitativamente, di mutare forma, di trasformarsi (convertendosi in altro): e sono appunto i principi di trasformazione, ovvero le «leggi di conversione», a interessare Bourdieu. In breve, sono almeno tre le proprietà che una risorsa sembra dover avere per potersi qualificare come capitale: essere accumulabile (e quindi avere una durata); essere trasferibile (ovvero trasmissibile, in qualche modo); essere convertibile in altre risorse (ciò che è spesso condizione per la trasferibilità). Esistono comunque limiti alla convertibilità – limiti imposti dalla struttura stessa del campo e dalle sue proprietà – e anche da questi dipende il valore locale di un certo capitale. Poter contare su una rete ampia e differenziata di legami sociali (quindi un’elevata dotazione di capitale sociale) può essere di grande aiuto nella ricerca di un lavoro, e tramutarsi così in una risorsa economica (il salario o lo stipendio). Un solido capitale economico può convertirsi in percorsi scolastici di élite e in preziosi titoli di studio. Ma una rete di relazioni sociali, per quanto ampia e potente, non può facilmente convertirsi in padronanza di uno strumento musicale, che è di certo il capitale più importante se si aspira a una carriera di musicista.
7.6 La teoria in pratica: due ricerche empiriche Sono questi concetti e la loro articolazione a costituire quella che viene spesso chiamata la «teoria sociale di Bourdieu» – una teoria che è più una cassetta di attrezzi utili per studiare il mondo sociale che un corpo sistematico e coerente di proposizioni su quel mondo. Non è una teoria generale della società quella che Bourdieu offre, e che ancor prima ha puntato a sviluppare: è piuttosto un insieme di principi epistemologici e di dispositivi teorici da utilizzare nella pratica della ricerca sociale, che per Bourdieu trova la sua specificità e la sua forza (e la sua ragione d’essere rispetto alla ricerca filosofica) solo in quanto ricerca empirica ed empiricamente controllabile. Anche quando scende sul campo per raccogliere dati (e ne ha raccolti in dosi massicce, utilizzando tutte le tecniche di raccolta dati disponibili), Bourdieu non è mai «solo» un etnografo o un ricercatore sociale: la tensione alla costruzione di categorie e di schemi concettuali è in lui altrettanto forte della spinta a saggiarne e misurarne il valore e l’utilità nel confronto serrato con le ruvidezze del mondo nella sua empirica realtà13. Randall Collins l’ha generalizzato – ma anche ridefinito in termini interazionisti – come «lo stock di idee e concetti acquisiti nel corso di precedenti incontri». 13 Sul punto si veda almeno Brubaker (1993).
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Un’efficace illustrazione del metodo di lavoro di Bourdieu è la sua analisi del mercato immobiliare francese (Bourdieu 2000). La scelta di questo mercato, e del bene che in esso si tratta cioè la casa, consente a Bourdieu di focalizzarsi su un «oggetto tipicamente attribuito all’economia» e di mostrare al contempo i limiti della visione (antropologica) che sottende le analisi economiche degli economisti. Attraverso l’analisi di numerosi dati (statistici, ma anche iconografici, come le immagini pubblicitarie, ed etnografici come interviste in profondità e osservazioni in situ), Bourdieu mostra come le scelte economiche in materia di casa – affitto o proprietà, casa di nuova costruzione o già costruita, di tipo tradizionale o no ecc. – dipendono da un lato dalle disposizioni degli agenti economici, come i loro gusti e i loro mezzi economici, che sono socialmente costituiti, e dall’altro dallo stato dell’offerta delle abitazioni in un dato tempo e luogo. Ma entrambi questi fattori – su cui si concentra l’attenzione dell’economista, salvo considerare i gusti come «dati» (de gustibus non est disputandum) e prescindendo dalle proprietà sociali diversificate dei costruttori e dei mediatori di beni immobiliari – dipendono poi da tutto un insieme di condizioni economiche e sociali prodotte dalla «politica della casa» e quindi dall’agente collettivo che in modo diretto e indiretto definisce questa politica, cioè lo stato e «tutti coloro che sono in grado di imporre le loro vedute per suo tramite» (Bourdieu 2000, p. 29). È lo stato infatti che attraverso le sue regole e le sue misure fiscali e di aiuto finanziario orienta direttamente o indirettamente gli investimenti – insieme economici e affettivi – delle varie categorie di attori sociali coinvolti nel mercato immobiliare. E l’interesse dello stato non è banalmente economico o immediatamente politico, di costruzione del consenso: è un interesse complesso, storicamente condizionato, che include l’interesse alla riproduzione di quella solo apparentemente naturale, ma in realtà socialmente costruita, unità sociale e politica che è la famiglia nucleare. La casa è ben lungi dall’essere un semplice bene economico: è luogo di investimenti affettivi e oggetto di significazioni sociali, su cui grava tutta una mitologia insieme collettiva e privata, che non a caso viene costantemente evocata e quindi sfruttata dalla retorica pubblicitaria. Lo studio dei significati attribuiti alla casa non deve però far dimenticare che in questo caso come in ogni altro le esperienze e le aspettative sono differenziate secondo un principio che è quello del diverso posizionamento nello spazio sociale. La struttura delle preferenze – per esempio, per una casa di proprietà contro una casa in affitto – è diversificata per categorie sociali (le statistiche mostrano che la proprietà è più diffusa tra gli imprenditori e tra gli artigiani che tra le professioni artistiche, i professori e gli insegnanti). In breve, non si è «naturalmente», «spontaneamente», orientati verso la proprietà della casa ma anche questa «scelta» è in funzione della struttura del capitale (capitale economico vs capitale culturale, per esempio) e delle condizioni di accesso a quei capitali che, detenuti o controllati dalle grandi agenzie creditizie (dalle banche), sono a loro volta regolamentati dallo stato e dalle sue politiche (economiche, creditizie, e anche più specificamente «delle abitazioni»). Abbiamo a questo punto gli elementi per quella «costruzione dell’oggetto di ricerca» che per Bourdieu è momento necessario nella ricerca sociale, senza il quale non si dà «scienza del mondo sociale», ma solo ripetizione sotto altra forma della doxa, del senso comune: il mercato immobiliare è uno spazio complesso in cui operano
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numerosi attori, individuali e collettivi, che includono ovviamente le famiglie (e il capofamiglia innanzitutto, o chi detiene il potere di decidere dentro la famiglia), i costruttori edili, le banche (con il loro personale), gli agenti immobiliari (che gestiscono concretamente, nell’interazione ordinaria, l’incontro tra domanda e offerta), le agenzie pubblicitarie, gli ingegneri e gli architetti, gli artigiani specializzati in finiture, e tutti quei soggetti che contribuiscono alla costruzione dell’immagine della casa (quindi riviste di arredamento, rotocalchi ecc.). A complicare le cose, ciascuna di queste categorie di attori è a sua volta posizionata in uno spazio, un microcosmo: quello dei costruttori edili innanzitutto, quello delle agenzie pubblicitarie, quello delle agenzie di intermediazione immobiliare, quello delle banche, quello degli studi professionali, quello burocratico (dello stato) ecc. Ciascun microcosmo configura un campo nel senso visto, spazio strutturato che funziona come un campo di forze e di lotte per modificare o conservare la struttura del campo stesso: Più che le nozioni di “settore” o di “ramo” industriale con le quali si indicano comunemente degli aggregati di imprese che producono lo stesso prodotto […] la nozione di campo permette di tener conto delle differenze fra le imprese […] e anche dei rapporti oggettivi di complementarità nella rivalità che le uniscono e le oppongono al tempo stesso: dunque, di comprendere la logica della concorrenza della quale il campo è il luogo e di determinare le proprietà differenziali che, funzionando come risorse specifiche, definite nella loro esistenza e nella loro efficacia stessa dalla relazione con il campo, determinano la posizione che ogni impresa occupa nello spazio del campo, ossia nella distribuzione di tali risorse (Bourdieu 2000, trad. it. 2004, p. 60).
Dopo aver ricostruito la struttura del campo dei produttori di case (incluse le strategie pubblicitarie da essi seguite, e la struttura di alcune delle imprese di costruzione in quanto esse stesse campi con una loro storia e configurazione di relazioni), Bourdieu avanza una delle ipotesi più forti, e più tipiche, della sua visione del mondo sociale: quella che pone un’omologia strutturale tra spazio dei produttori (ovvero dell’offerta) e spazio degli acquirenti (ovvero della domanda). Quell’aggiustamento che per la teoria economica avviene «miracolosamente» per le virtù della smithiana mano invisibile e del calcolo razionale, è invece per Bourdieu l’effetto di una fitta serie di corrispondenze tra disposizioni – gusti, preferenze, bisogni percepiti – e quindi habitus dei venditori e dei compratori, ovvero di chi gestisce l’offerta – costruttori, progettisti, pubblicitari, addetti alle vendite ecc. – e di chi si muove sul mercato delle case per acquistarla. Per sostenere questa tesi Bourdieu passa quindi ad analizzare il ruolo dello stato nella costruzione sociale del mercato delle case e successivamente quello che chiama il «campo dei poteri locali» – essendo le case dei beni a base territoriale, che esistono nello spazio fisico, geografico, che è anch’esso differenziato (ci sono valori diversi dei terreni, ma anche tradizioni locali differenti rispetto alla forma e alla qualità di una casa). Non è qui possibile entrare nel dettaglio dell’analisi che fa Bourdieu della storia delle politiche della casa in Francia dagli anni Sessanta, e poi della distribuzione territoriale dei poteri di attuazione e regolamentazione del mercato immobiliare, attraverso cui si mostrano le variazioni che a livello appunto locale si possono da-
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re circa i modi in cui le politiche centrali e i regolamenti vengono messi in pratica, anche attraverso forme di deroga rese possibili dalla costituzione nelle burocrazie locali di concentrazioni di capitale sociale e simbolico sotto forma di notabilato (funzionari dotati di carisma burocratico). Così come non è possibile illustrare qui la sottigliezza dell’analisi condotta da Bourdieu delle situazioni concrete in cui avviene l’interazione tra funzionari di banca addetti alla concessione dei mutui e acquirenti di casa: nonostante il peso che Bourdieu attribuisce ai condizionamenti strutturali, quello che Erving Goffman ha chiamato «l’ordine dell’interazione» non scompare di scena, anzi, assume una strategicità analitica nella misura in cui viene riconosciuto come luogo in cui si orchestrano gli habitus, le disposizioni dei singoli agenti, come spazio di negoziazione in cui si attualizza concretamente la struttura delle relazioni economiche, e che solo l’osservazione etnografica permette di catturare nelle forme in cui essa si dà nell’esperienza degli agenti sociali. L’analisi delle condizioni sociali di produzione dei gusti, delle preferenze, delle disposizioni all’acquisto e al consumo è uno dei fili conduttori delle ricerche empiriche di Bourdieu, dai primi studi sulle pratiche fotografiche e sulla frequentazione dei musei, fino a quello che molti considerano il suo capolavoro, il volume La distinzione. Critica sociale del gusto, pubblicato nel 1979 ma basato su un’inchiesta condotta negli anni Sessanta, insieme ricca descrizione della vita culturale francese a partire dai consumi di beni simbolici e materiali (la musica, i musei, il cinema ma anche l’alimentazione e l’arredamento) e opera di elaborazione concettuale e teorica in cui vengono messe a punto categorie come quella di spazio sociale, capitale culturale, habitus e pratica. La distinzione è un libro stratificato, complesso, ricco di dettagli e di ardite speculazioni teoretiche, che ha ispirato nel tempo numerosi studiosi anche di paesi diversi (si veda per esempio Bennett et al. 2009). La capacità delle categorie bourdieusiane di ispirare ricerche (ovvero di generare programmi di ricerca sociale) è ben illustrato da uno studio condotto qualche anno fa da Omar Lizardo (2006). L’obiettivo di questo breve ma prezioso studio è testare l’idea che alla base delle nostre relazioni sociali, delle nostre amicizie, del «giro» che frequentiamo, ci sia appunto la condivisione dei gusti: in breve, come le variazioni di capitale culturale possano rendere conto (quindi spiegare) delle variazioni nel capitale sociale. Si tratta di un argomento per nulla scontato, dal momento che sociologicamente si tende a privilegiare la relazione a senso inverso, per cui è invece la condivisione di legami sociali e spiegare la comunanza delle preferenze culturali, dei gusti. Questa tesi non viene rovesciata, ma integrata e affinata. Muovendo proprio dal modello bourdieusiano delle forme di capitale e della loro dinamica di conversioni, e analizzando con strumenti statistici sofisticati una ricca serie di dati quantitativi tratti dal General Social Survey (un’inchiesta periodica e ufficiale su un vasto campione di cittadini americani), Lizardo è in grado di dimostrare che, se i gusti culturali sono in parte determinati dalle reti di relazioni sociali in cui si è inseriti, essi sono però anche usati per formare e sostenere queste stesse reti. In secondo luogo, Lizardo mostra che ci sono variazioni nel modo in cui il capitale culturale incide sul capitale sociale. Integrando il concetto di capitale culturale di Bourdieu con successive elaborazioni del concetto da parte di studiosi come Paul
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DiMaggio (1982) che hanno distinto fra tipi diversi di cultura (in particolare: capitale culturale d’élite vs capitale culturale popolare), e integrando il modello delle forme di capitale con il modello di Mark Granovetter sulla «forza dei legami deboli» (in particolare la sua distinzione tra legami forti e legami deboli: Granovetter 1973), Lizardo ha mostrato che la familiarità con forme di cultura elevata (musica da camera, pittura astratta, letteratura classica ecc.) ha meno probabilità di essere convertita in capitale sociale al di là di cerchie ristrette fortemente coese, laddove la familiarità con forme di cultura popolare (commerciale o, come si diceva una volta, «di massa») tende a tradursi in ampie reti di relazioni sociali del tipo «debole». L’implicazione di questo studio è evidente: quanto più si dispone di capitale culturale pregiato, elitario (legittimo, direbbe Bourdieu) tanto più è facile usarlo come strumento di esclusione, come «barriera». Un’ampia rete di relazioni, che a quel punto sono inevitabilmente deboli ma capaci di funzionare da «ponte» integrandosi in reti sempre più ampie, tende ad associarsi con la familiarità con forme di cultura popolare, come il calcio, le serie televisive o le canzoni. Evidentemente, la situazione migliore è quella di chi ha familiarità sia con forme di cultura esclusiva sia con forme di cultura popolare, e quella peggiore quando non si ha familiarità con alcuna forma culturale, in breve: quando non si partecipa ad alcuna forma di cultura. Nelle parole dell’autore: il consumo di beni culturali ampiamente disponibili è uno dei modi in cui gli individui si connettono e si integrano nella struttura sociale. È pertanto più probabile che gli individui che non sono impegnati in consumi culturali siano anche disconnessi da altri e perdano tutti i benefici provenienti dalle relazioni sociali che vengono racchiusi sotto l’etichetta di capitale sociale. In questo modo la spesso notata, ma raramente spiegata, associazione tra status socio-economico elevato e densità della rete di relazioni personali può essere spiegata. Nella misura in cui agenti sociali di status elevato sono anche consumatori culturali più avidi, essi saranno anche coloro che sono capaci di sostenere le più ampie reti sociali (Lizardo 2006, p. 800).
7.7 Per concludere Come gli esempi di ricerca presentati illustrano, Bourdieu offre meno una teoria generale e astratta che un tool-kit, una cassetta di strumenti analitici, riccamente elaborati – spesso tramite numerose rivisitazioni effettuate nel corso di un lungo arco temporale – ma sufficientemente flessibili nel loro congegno da potersi adattare ai casi storici e geografici più diversi. Concetti aperti, come li ha definiti lo stesso autore (Bourdieu 1992a), concetti insomma abbastanza astratti e generali da poter essere applicati in molte e diverse situazioni, ma pur sempre abbastanza «vicini all’esperienza» da poter essere impiegati nella ricerca empirica e facilmente «tradotti» (operativizzati) in termini empirici. Sta qui a ben vedere la forza di Bourdieu e la ragione ultima del suo successo: la sua abilità nella costruzione di strumenti efficaci e maneggevoli, astratti quel tanto che basta per poter generalizzare, ma mai al punto da non potere essere tradotti in osservazioni empiriche, che consentono a chiunque li utilizzi di fare ricerca in proprio, anche «piegando» quegli strumenti alle proprie esi-
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genze – vale a dire al proprio oggetto di studio e alla propria sensibilità intellettuale. Non c’è bisogno di essere «bourdieusiani» per fare uso dei concetti di Bourdieu, anche se una certa aderenza al progetto epistemologico di fondo – o almeno una certa comprensione dei suoi fondamenti e delle sue logiche – è sempre opportuna per un uso adeguato e consapevole di quegli strumenti.
Letture di approfondimento Boyer R. (2003). «L’anthropologie économique de Pierre Bourdieu», Actes de la Recherche en Sciences Sociales, n. 150, pp. 65-78. Christoforou A., Laine M. (eds.) (2014). Re-thinking Economics. Exploring the Work of Pierre Bourdieu, London, Routledge. Convert B., Ducourant H., Éloire F. (2014). «Introduction au dossier “Faire de la sociologie économique avec Pierre Bourdieu”», Revue Française de Socio-Économie, 13(1), pp. 9-22. Paolucci G. (2011). Introduzione a Bourdieu, Roma, Laterza. Santoro M. (2015). «Introduzione», in P. Bourdieu, Le forme di capitale, trad. di B. Grüning, Roma, Armando (ed. or. 1986). Wacquant L. (1992). «Introduzione», in P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Torino, Bollati Boringhieri (ed. or. 1992).
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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8 James S. Coleman. Scambio economico e risorse sociali: fiducia e reputazione di Federico Bianchi e Flaminio Squazzoni *
8.1 La rilevanza economica della fiducia La crisi dei mercati finanziari, successiva al fallimento di Lehman Brothers nel settembre del 2008, ha avuto un impatto drammatico su banche e imprese italiane, con implicazioni negative su credito, investimenti e tenuta del sistema economico nel suo insieme (si veda il Cap. 26). Da un lato, la crisi ha evidenziato alcuni problemi strutturali pre-esistenti dell’economia italiana, come la debolezza dell’innovazione e la bassa produttività del lavoro nelle imprese. Dall’altro, ha portato alla luce alcune storie di imprenditori che hanno resistito alla crisi sostenendo spesso direttamente le loro imprese partner, facendo lavorare i propri collaboratori anche in assenza di commesse e ordini. Si pensi al caso di due imprese, l’impresa A e l’impresa B. Da tempo A fornisce importanti componenti a B, che altrimenti dovrebbe approvvigionarsi presso un’altra impresa con costi logistici maggiori e incertezza sulla qualità del bene. Di fronte alla crisi del 2008, le banche decidono di ridurre i crediti ad A, che non riesce a garantire la fornitura a B secondo i precedenti accordi. Al posto di sostenere costi di selezione e contrattazione scegliendo un’altra impresa di fornitura, B decide di sostenere i costi di A fornendole liquidità per ammortizzare la contingenza in modo da mantenere la collaborazione, in cambio della promessa di restituire l’investimento appena possibile. B sta dando fiducia ad A in condizioni di incertezza sulla prevedibilità dei ritorni, stimando la probabilità di una reciprocità futura di A; quest’ultima a sua volta dovrebbe riconoscere il rischio intrapreso deliberatamente da B investendo in essa. Se la presenza di fiducia crea condizioni per transazioni tra attori economici anche in contesti di incertezza, la sua mancanza a volte diventa un ostacolo al buon funzionamento del mercato. Sempre con riferimento alla crisi dei mercati del 2008, fu esattamente una spirale di sfiducia tra banche a causare la crisi globale del credito: istituti che in precedenza condividevano liquidità garantendo in tal modo crediti agli investimenti delle imprese iniziarono a rafforzare la loro liquidità riducendo i rischi e le loro esposizioni. Ciò era dovuto alla previsione che altre banche avrebbero fatto lo stesso a causa dell’imprevedibilità dell’impatto delle esposizioni rischiose in loro capo, oltre che della possibile ondata di panico da «assalto agli sportelli» da parte dei correntisti. Ciò che prima era dato per scontato, il pilastro fiduciario del mercato, ora era venuto meno. *
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo i Parr. 8.2 e 8.3 a Federico Bianchi e il resto del testo a Flaminio Squazzoni.
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Al di là delle specificità del precedente esempio, questi episodi indicano l’importanza dei meccanismi di generazione di fiducia per lo sviluppo di transazioni economiche in contesti di incertezza. Questi elementi sono centrali nelle opere di James S. Coleman, che costituiscono uno strumento importante per comprendere il comportamento economico e le norme e istituzioni sociali che lo regolano. James Samuel Coleman nasce a Bedford (Indiana, USA) nel 1926. Il suo approdo alle scienze sociali non è immediato: laureatosi nel 1949 in ingegneria chimica alla Purdue University, lascia presto il suo lavoro da chimico per iscriversi alla scuola dottorale in sociologia della Columbia University di New York, dove otterrà il dottorato nel 1955. La sua formazione sociologica è segnata dalle collaborazioni con i membri più influenti della «Scuola della Columbia» (Barbera 2004): Paul F. Lazarsfeld, Seymour M. Lipset e Robert K. Merton, al quale è dedicata l’opera teorica che Coleman considerava più importante, Fondamenti di teoria sociale (Coleman 1990). Dopo un primo anno di lavoro come ricercatore al Center for Advanced Study of Behavioral Science di Palo Alto (California, USA), nel 1956 si sposta all’Università di Chicago, per poi approdare nel 1959 al neonato Dipartimento di Relazioni Sociali dell’Università Johns Hopkins. Infine, nel 1973 viene assunto come professore all’Università di Chicago, dove lavorerà fino alla morte, nel 1995. L’attività scientifica di Coleman si muove principalmente su tre aree: ricerca empirica applicata, elaborazione metodologica e costruzione di una teoria dell’interazione sociale. Per quanto riguarda la ricerca empirica, questa si concentra principalmente sull’analisi della disuguaglianza nell’accesso all’istruzione, sul cui tema l’opera più celebre è Equality of Educational Opportunities (1966), meglio conosciuto come il Coleman Report. Coleman contribuisce poi in maniera pionieristica allo sviluppo di strumenti di analisi formale delle dinamiche sociali, specialmente nella sua Introduction to Mathematical Sociology (1964) e in Mathematics of Collective Action (1973). Infine, l’opera teorica di Coleman si concentra nei già citati Fondamenti di teoria sociale (1990), in cui propone lo sviluppo di una teoria dell’interazione sociale e dei processi micro-macro. Su quest’opera concentreremo in particolare la nostra attenzione.
8.2 Le coordinate concettuali 8.2.1 Scambio e interdipendenza strategica L’obiettivo fondamentale dei Fondamenti è la costruzione di una teoria sociologica sistematica che sia in grado di spiegare il funzionamento delle società moderne, al fine di fornire indicazioni scientificamente fondate per la loro regolazione istituzionale. Il punto di partenza, infatti, è una concezione delle formazioni sociali contemporanee come sistemi sociali complessi in cui l’interazione sociale ha luogo sia fra individui razionali sia fra questi e gli attori sovraindividuali o corporate entro un contesto di vincoli. Per comprendere il funzionamento delle società è necessario, dunque, che la sociologia si occupi di spiegare il funzionamento dei sistemi sociali che le compongono, come reti di scambio, mercati, norme e istituzioni regolatrici.
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Figura 8.1
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La Coleman Boat
M1
M2
m1
m2
Nota: la Coleman Boat rappresenta il modello di spiegazione sociologica dei fenomeni macro (Coleman 1986). Al tempo t = 0, attori razionali agiscono al livello micro m1 (per esempio, effettuano degli scambi) secondo i vincoli imposti dalla situazione macro M1 (per esempio, la distribuzione delle risorse all’interno di una popolazione), generando degli esiti al livello micro m2 (per esempio, guadagni individuali), che si aggregano nel fenomeno macro M2 (per esempio, una diversa distribuzione delle risorse). Il passaggio da M1 a M2 è l’oggetto della spiegazione. Fonte: rielaborazione da J.S. Coleman, «Social theory, social research, and a theory of action», American Journal of Sociology, 91(6), 1986, p. 1322.
Tale obiettivo era già proprio della sociologia struttural-funzionalista che costituiva il mainstream della sociologia nordamericana nei decenni della formazione di Coleman (Parsons 1937), il quale, però, ne aveva imparato i limiti formandosi alla ricerca empirica presso la scuola della Columbia. Il limite fondamentale, per Coleman, si trovava nella spiegazione del funzionamento dei sistemi sociali attraverso le relazioni che questi hanno con altri sistemi sociali: gli individui agirebbero all’interno di schemi normativi ai quali sarebbero socializzati e che ne influenzerebbero le decisioni in maniera quasi deterministica. Il risultato, secondo Coleman, è la condanna a spiegare il funzionamento dei sistemi sociali in maniera tautologica, ricorrendo a un modello di attore che ha già internalizzato le norme che si dovrebbero, invece, spiegare. La soluzione di Coleman è assumere un modello di azione che si impernia su individui che non agiscono sulla base di norme, ma che contribuiscono, agendo in maniera interdipendente, a generare la formazione di norme e istituzioni sociali, che caratterizzano la dimensione sistemica o macro (Fig. 8.1). Tale modello viene esplicitamente adattato dalla teoria microeconomica neoclassica, dove individui razionali decidono intenzionalmente di perseguire i loro obiettivi, al netto di condizionamenti esterni e della variabilità intrinseca delle attitudini e disposizioni psicologiche individuali. La proposta colemaniana, dunque, dialoga con la teoria economica ma apre l’attenzione ai condizionamenti sociali, cercando di ricondurre la logica dello scambio economico entro il perimetro più generale di una teoria dello scambio sociale. Per far ciò, Coleman individua due proprietà fondamentali: gli interessi e le risorse. Più precisamente, gli individui agiscono intenzionalmente per gestire le risorse che controllano e per ottenere il controllo di altre risorse che non possiedono. A tal fine, essi sono disposti a scambiare alcune delle risorse che controllano per ottenere quelle desiderate. Sull’interazione tra individui, interessi e risorse si basa, dunque, il modello di scambio che Coleman mutua dalla teoria dello scambio sociale del sociologo statunitense George C. Homans (1974). In questa prospettiva, uno scambio sociale
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configura una relazione tra due o più individui in cui delle risorse – materiali (per esempio, l’aiuto per un trasloco), cognitive (per esempio, un consiglio professionale) o emotive (per esempio, l’aiuto a una persona depressa) – vengono trasferite costosamente da un individuo all’altro. Nel quadro di questa definizione, il modello di scambio economico costituisce un tipo di scambio sociale, nel quale un trasferimento reciproco di risorse avviene simultaneamente secondo modalità regolate da un accordo negoziato tra le parti (per esempio, un contratto: si veda Blau 1964). Uno scambio tra individui razionali, dunque, avviene se entrambi si aspettano di ottenere un beneficio netto dalle nuove risorse, sostenendo il costo della cessione di parte delle proprie risorse. Più precisamente, i decide di trasferire una risorsa a j se Bi > Ci, dove Bi è il beneficio che i crede di ricavare dalle risorse trasferite da j e Ci il costo che dovrà sostenere trasferendo sue risorse a j. La sociologia, però, applica questo schema analitico a contesti in cui le risorse sono distribuite in modo diseguale, per cui individui diversi possono avere interessi differenti riguardo alle risorse che desiderano. Da questo deriva che la distribuzione delle risorse e degli interessi all’interno di una popolazione configura una situazione di interdipendenza strategica, per cui la decisione di un attore che persegue razionalmente il proprio interesse può modificare il benessere di un altro attore. Non solo: il conflitto di interessi può portare a situazioni in cui il perseguimento dell’interesse individuale confligge con quello collettivo. L’interdipendenza strategica tra attori razionali costituisce, per Coleman, la struttura fondamentale di un sistema sociale. Ancora una volta, il modello di individuo razionale è funzionale a studiare come, al netto delle differenze fisiche, psicologiche e culturali tra individui diversi, le istituzioni delle società complesse contemporanee risolvano i problemi che derivano dall’interdipendenza strategica, favorendo meccanismi che la regolino. Qui si innesca il legame tra la teoria dell’azione colemaniana e la teoria dei giochi, la quale offre strumenti analitici utili ad analizzare le dinamiche di interazione tra attori razionali (Colombo 2003). Un gioco è un modello formale semplificato di una situazione di interazione, nella quale gli attori – detti «giocatori» – perseguono razionalmente strategie per massimizzare il proprio benessere (payoff), in base alle informazioni di cui dispongono. Ogni gioco presenta uno o più equilibri, cioè combinazioni di strategie possibili dei giocatori per le quali nessuno di questi avrebbe razionalmente interesse a cambiare strategia, avendo informazione su quella degli altri (equilibrio di Nash). L’equilibrio in una situazione di interdipendenza strategica, quindi, emerge dal perseguimento razionale dell’interesse individuale di ciascun individuo. La teoria dei giochi mostra che non necessariamente l’equilibrio di un gioco corrisponde all’ottimo paretiano, cioè alla situazione nella quale nessun individuo sarebbe in grado di aumentare il proprio payoff senza contestualmente peggiorare quello di altri. È proprio sull’opposizione tra equilibrio e ottimo che si fonda, per Coleman, la necessità di costruire una teoria sociale che analizzi l’interdipendenza strategica tra individui razionali. Nel linguaggio della teoria dei giochi, situazioni di questo tipo si definiscono dilemmi sociali: situazioni di interazione sociale dove l’esito collettivo, cioè l’esistenza stessa e/o la qualità di un bene collettivo di cui un insieme di individui potrebbe beneficiare, dipende dalla capacità dei
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singoli individui di vincere le tentazioni del reciproco opportunismo, vale a dire di evitare di sfruttare il contributo e l’impegno degli altri per il proprio tornaconto personale (2 Box 8.1). 8.2.2 Fiducia Si è detto come ogni scambio economico comporti un certo grado di rischio, cioè la probabilità che il trasferimento delle risorse di un individuo a un altro possa risolversi senza che il primo ricavi un guadagno che giustifichi la decisione di trasferire alcunché. Come esaminato nel paragrafo precedente, il rapporto tra costi e benefici per un attore A è condizionato, in primo luogo, dagli interessi individuali di B, che, a sua volta, deciderà in base ai propri interessi individuali. Tutto ciò comporta l’esistenza di un grado di rischio inerente a qualsiasi scambio. A e B, dunque, devono stimare la probabilità p secondo cui lo scambio si risolverà in un guadagno e non in una perdita. In termini formali, per A e B sarà razionale decidere di intraprendere uno scambio se: pG > (1 – p) dove G è il guadagno potenziale ricavato dallo scambio, che accadrà con probabilità p, mentre con probabilità pari a 1 – p, lo scambio si risolverà in una perdita (L). L rappresenta la perdita da sostenere con probabilità contraria a quella di G, ovvero 1 – p. Da questa relazione possiamo dedurre che un individuo razionale, quindi, deciderà di intraprendere uno scambio con un altro se stimerà che la probabilità di successo, rapportata a quella di un insuccesso, sarà superiore al rapporto tra la perdita derivante dall’insuccesso e il guadagno connesso al successo. In termini formali, A deciderà di intraprendere uno scambio con B se stimerà che p L > 1 – p G Coleman definisce p come la fiducia che A ripone in B. In termini più generali, la fiducia è il livello di probabilità soggettiva che un attore razionale, detto prestatore, stima al fine di prevedere l’esito di uno scambio rischioso con un altro attore, detto fiduciario. La fiducia, quindi, è concepita come la stima dell’affidabilità del fiduciario. Questa dipende dalla stima che il prestatore ha della volontà o della capacità del fiduciario di reciprocare le risorse trasferite dal primo al secondo, trasferendo a sua volta risorse al prestatore in maniera tale che quest’ultimo ottenga un guadagno. Come suggerito da Mutti (1998), tale stima è costruita dal prestatore attraverso un’analisi delle informazioni disponibili, sia circa il fiduciario, sia circa il contesto dello scambio. Dunque, la decisione di riporre fiducia sarebbe basata su processi cognitivi di elaborazione delle informazioni più che su aspetti emotivi, fatto che distinguerebbe la «logica della fiducia» dalla «logica della speranza». La stima dell’affidabilità del fiduciario è, dunque, cruciale al fine di controllare il rischio associato a un certo scambio. L’affidabilità, secondo Coleman, dipende da
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due fattori: da un lato, la possibilità strutturale che il fiduciario si comporti in maniera opportunistica; dall’altro, l’eventuale incapacità del fiduciario di trasferire le risorse dovute al prestatore in modo appropriato. L’incertezza per il prestatore, quindi, non dipende soltanto dal rischio connesso alla situazione di interdipendenza strategica con il fiduciario, bensì anche dalla possibilità di non possedere informazioni corrette e complete riguardo alla capacità del fiduciario di portare a termine lo scambio, al di là delle sue intenzioni. Come si è visto nell’esempio proposto a inizio capitolo, è difficile per l’impresa B al tempo t = 0 stimare la probabilità che la liquidità condivisa con l’impresa A sia sufficiente a sostenere A al tempo t + 1, cioè prevedere precisamente ulteriori condizionamenti a cui A potrà essere posta di fronte o la probabilità che A stia scaricando inefficienze produttive su B, che le banche avevano previsto meglio di B mentre decidevano di interrompere il loro credito. Coleman individua alcune caratteristiche connesse alla struttura dello scambio che hanno un’influenza sull’emergere della fiducia. Per prima cosa, l’importanza della fiducia cresce nella misura in cui uno scambio avviene in assenza di una struttura formale o informale di vincoli, in grado di minimizzare l’incentivo del fiduciario a comportarsi in maniera opportunistica. Inoltre, la fiducia si rende tanto più necessaria quanto più ampio è il divario temporale tra il trasferimento di risorse iniziale dal prestatore al fiduciario e l’evento in cui il fiduciario reciprocherà il trasferimento di risorse. Infine, la fiducia dipende anche dal valore della possibile perdita alla quale il fiduciario potrebbe andare incontro: tanto più questa è onerosa, quanto più è determinante un livello di fiducia elevato per la realizzazione di uno scambio. La teoria dei giochi rappresenta formalmente le caratteristiche basilari della fiducia fin qui esposte attraverso il gioco della fiducia (2 Box 8.2). Tornando all’esempio, supponiamo che tra l’impresa fornitrice A e l’impresa B sussista una collaborazione di lungo periodo, regolata prevalentemente da norme informali e taciti accordi, senza che esse abbiano mai ricorso alla stipula di contratti formali, comprensivi di clausole di salvaguardia e sanzioni. Supponiamo che la fornitura di un bene da parte di A richieda un certo lasso di tempo, dato che il bene richiesto comporta laboriosi processi di progettazione e realizzazione. Supponiamo, infine, che l’impresa A lavori prevalentemente per l’impresa B, così che la perdita di commesse da parte di B avrebbe conseguenze significative sulle attività di A. Se è così, la pregressa esperienza di collaborazione avrà dato occasione ad A di mostrare la propria affidabilità a B, proprio a causa dell’assenza di istituzioni formali di regolazione delle loro transazioni. In fondo, A avrebbe potuto già danneggiare B in passato, magari sfruttando le asimmetrie di informazione di cui soffre B: per esempio, riducendo la qualità del bene su alcuni aspetti difficoltosamente osservabili da B. Il fatto che ciò non sia accaduto, proprio in assenza di clausole formali di sanzionamento sull’operato di A da parte di B, rinforza la percezione da parte di B dell’affidabilità di A e, quindi, crea un contesto favorevole all’investimento di B (Fig. 8.2). È interessante notare come, in base a queste caratteristiche, gli scambi possano essere classificati secondo un continuum compreso tra due modelli ideali: da un lato, un tipo di scambio i cui termini sono rigidamente regolati da una struttura formale (per esempio, un contratto) che incorpora disincentivi e sanzioni nel caso in cui il
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Figura 8.2
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Il gioco della fiducia (Ti > Ri > Pi > Si) Prestatore Pone fiducia
Non pone fiducia
Fiduciario
Payoff del prestatore Payoff del fiduciario
Onora la fiducia
Abusa della fiducia
R1 R2
S1 T2
P1 P2
Fonte: D. Barrera, «The social mechanisms of trust», Sociologica, n. 2, 2008, p. 8.
fiduciario non ne rispettasse i termini e nel quale i trasferimenti di risorse avvengono simultaneamente; dall’altro lato, un modello privo di una struttura di assicurazione formale o informale, che viene inizializzato da un prestatore senza garanzie di ottenere un trasferimento reciproco da parte del fiduciario. Non senza rischiare eccessive semplificazioni, si ritiene spesso che le transazioni economiche tendano in linea di massima al primo polo, mentre al secondo tipo possano essere ascritti quegli scambi sociali basati su motivazioni espressive del prestatore (per esempio, aiutare un estraneo in difficoltà). 8.2.3 Sistemi di fiducia e reputazione Come già spiegato, la proposta teorica di Coleman ha come obiettivo la spiegazione dei sistemi sociali. Il modello di fiducia negli scambi tra attori razionali è, infatti, strumentale alla comprensione dei meccanismi sociali che permettono la formazione di sistemi di scambio, nonostante il rischio connesso all’interdipendenza strategica tra gli individui: la sociologia economica, per esempio, si occupa di analizzare il comportamento strategico degli individui per comprendere il funzionamento dei mercati, non quello delle azioni individuali in sé. La prospettiva sistemica o macro implica due importanti variazioni rispetto al modello di scambio descritto nel paragrafo precedente. Per prima cosa, a differenza dei giochi presentati fin qui, in un sistema di scambio i trasferimenti tra due individui possono essere ripetuti più volte. Inoltre, i due attori possono intrattenere altre relazioni di scambio con altri attori, oppure averlo fatto in passato o avere intenzione di farlo in futuro. Questi due elementi di ulteriore complessità influenzano gli attori nella formazione delle proprie credenze sull’affidabilità del fiduciario, formando di conseguenza aspettative sull’esito dello scambio e, infine, sulle loro decisioni. Questo perché le informazioni che gli attori utilizzano per stimare p possono variare nel tempo in funzione delle esperienze di
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scambio passate e delle informazioni riguardo agli scambi che avvengono tra altri individui. Nella realtà, infatti, gli attori effettuano scambi all’interno di reti di relazioni (si veda il Cap. 16) che coinvolgono altri individui allo stesso tempo: tramite queste reti gli attori ricavano le informazioni sull’affidabilità di un altro attore, determinando la decisione di inizializzare o meno gli scambi (si veda il Cap. 9). Ciò avviene, per esempio, nei sistemi locali di produzione, come distretti industriali o cluster, che caratterizzano buona parte del sistema produttivo italiano, cioè in sistemi dove numerose imprese sono localizzate nello stesso territorio (Bellandi e Caloffi 2014; si veda anche Powell et al. 2005). L’alta probabilità di connessione tra attori economici veicolata dalla localizzazione rende possibile l’accesso a informazioni rilevanti circa una controparte con cui non si è mai realizzata alcuna transazione. Da un lato, ciò tende a diminuire le asimmetrie informative, rendendo più probabile l’interazione con nuovi partner; dall’altro lato, crescono i costi dell’opportunismo, dato che la circolazione di informazione sul comportamento degli attori potrebbe inibire future occasioni di scambio a causa del discredito reputazionale di cui l’opportunista potrebbe essere vittima. Quindi, gli scambi tra due o più attori possono essere facilitati dalla presenza di una terza parte, detta intermediario, che influenza la fiducia riposta da un prestatore in un fiduciario. Qui entra in scena la reputazione, cioè un processo sociale di comunicazione che concorre a formare la considerazione – positiva o negativa – di cui un attore gode presso gli altri (Boero et al. 2010b; Conte e Paolucci 2002; Mutti 2008). Nello specifico, essa consiste in un processo di comunicazione attraverso cui un intermediario (attore C), precedentemente connesso a due attori A e B non connessi tra di loro, condivide una valutazione sull’attore A (detto il target) a beneficio dell’attore B (detto beneficiario). La valutazione di C sarà usata da A per predire l’affidabilità di B in un contesto di incertezza. Coleman distingue tre tipi fondamentali di sistema di fiducia tramite intermediario, a seconda della natura dell’intermediazione. Nel caso di una situazione di scambio rischioso, un intermediario può agire da garante dell’affidabilità di un fiduciario: in questo caso, l’intermediario si impegna a farsi carico di eventuali perdite materiali del prestatore mediante la mobilitazione delle proprie risorse. In un caso diverso, più vicino al processo reputazionale visto in precedenza, un intermediario può agire da consigliere, proponendo al prestatore informazioni circa l’affidabilità del fiduciario: in questo caso l’intermediario non si assume il rischio di coprire la potenziale perdita del prestatore nel caso in cui lo scambio fallisse, ma rischia la propria reputazione, cioè è potenziale oggetto di rappresaglia da parte del prestatore. Qui, la fiducia viene riposta dal prestatore nell’intermediario, il quale, a sua volta, ripone la propria fiducia nel fiduciario. La fiducia tra prestatore e fiduciario è, quindi, trasferita indirettamente. Infine, la terza figura è quella dell’imprenditore. In questo caso l’intermediario si occupa di coordinare varie figure di prestatori con vari fiduciari, inducendo la fiducia dei primi e gestendone le risorse in maniera tale da trasferirle ai secondi (per esempio, una banca) (Fig. 8.3). Infine, Coleman analizza un modello di intermediario simile al garante, ma che da questo differisce essenzialmente per l’assenza del suo coinvolgimento diretto: il
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Figura 8.3
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Sistemi di fiducia con intermediari
(A) Consigliere Prestatore di fiducia
Intermediario
Fiduciario
Intermediario
Fiduciario
(B) Garante Prestatore di fiducia (C) Imprenditore Prestatore di fiducia
Fiduciario
Intermediario Prestatore di fiducia
Fiduciario
Fonte: J.S. Coleman, Fondamenti di teoria sociale, trad. it. di G. Ballarino, Bologna, il Mulino, 2005, p. 238 (ed. or. 1990).
caso della fiducia di una terza parte. In questo caso, un prestatore trasferisce delle risorse a un fiduciario perché quest’ultimo possiede un’obbligazione di un intermediario. È importante notare come l’intermediario non sia necessariamente a conoscenza dello scambio e che, quindi, giochi un ruolo completamente passivo. Un interessante esempio di fiducia tramite terza parte è quello del funzionamento di un’organizzazione formale complessa, come per esempio un’azienda. In questo caso, ogni impiegato all’interno dell’organizzazione si comporta secondo le direttive di un superiore, riponendo fiducia nel fatto che, in cambio dei propri servizi, riceverà un salario stabile a scadenza regolare non dal superiore, bensì dall’organizzazione in capo al proprio superiore. In questo caso, analogamente agli scambi non economici, la terza parte gioca un ruolo passivo nel garantire il successo di uno scambio.
8.3 Ricerca empirica Il lavoro di Coleman sulla fiducia negli scambi sociali è stato utilizzato in seguito nella ricerca empirica per studiare l’effetto della struttura delle relazioni sociali sul comportamento economico e per analizzare sistemi economici reali. Per quanto riguarda il rapporto tra struttura delle relazioni e fiducia, alcuni esperimenti di scambi economici in laboratorio hanno evidenziato come la fiducia tra gli attori possa variare in funzione di meccanismi di controllo e apprendimento (Buskens e Raub 2002; Raub e Weesie 1990; si veda anche Barrera 2008). Per quan-
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to riguarda i primi, se gli scambi vengono ripetuti nel tempo tra due individui, il prestatore ha la possibilità di sanzionare un eventuale abuso del fiduciario ritraendo la fiducia riposta: dunque, se il numero di ripetizioni dello scambio è indefinito, il fiduciario è incentivato a onorare la fiducia del prestatore, scegliendo razionalmente di accumulare l’utile ricavato da più scambi invece di massimizzare il proprio beneficio a breve termine. La possibilità di controllare il comportamento opportunistico di un fiduciario aumenta se si considera la presenza nel sistema di altri attori: in questo caso, il prestatore può sanzionare un eventuale fiduciario opportunista informando altri attori del livello di affidabilità del fiduciario. Di conseguenza, il fiduciario è incentivato a non abusare della fiducia accordatagli per evitare il rischio di perdere la fiducia di altri eventuali proponenti. In altri termini, il fiduciario è razionalmente interessato a costruire una reputazione positiva per quanto riguarda la sua affidabilità. I meccanismi di apprendimento hanno a che fare con la dinamica degli scambi. Nella realtà, gli individui interagiscono sulla base di informazioni incomplete sul conto degli altri attori. Inoltre, le preferenze degli attori riguardo alle strategie da intraprendere in uno scambio possono variare all’interno di una popolazione, per cui è probabile che non tutti gli attori intendano comportarsi razionalmente, cioè abusando della fiducia di un prestatore. Di conseguenza, assumendo la stabilità relativa delle preferenze nel tempo, un attore razionale può apprendere informazioni sull’affidabilità di un fiduciario. Perciò, se uno scambio viene ripetuto nel tempo tra due attori, un fiduciario è razionalmente incentivato a segnalare al prestatore la propria affidabilità, affinché questi continui a inizializzare nuovi scambi. Analogamente ai meccanismi di controllo, l’apprendimento dell’affidabilità del fiduciario è amplificato se un prestatore ha accesso alle informazioni che derivano dagli scambi che altri hanno intrapreso con lo stesso fiduciario. Anche qui, la circolazione delle informazioni all’interno di una rete di relazioni incentiva un fiduciario a non abusare del prestatore, al fine di costruire per sé una reputazione positiva che, a sua volta, faciliterà l’inizializzazione di nuovi scambi con altri attori. Esperimenti in laboratorio (si veda il Cap. 18) e simulazioni al computer (si veda il Cap. 17) hanno mostrato come un sistema di scambi economici possa generare un equilibrio cooperativo efficiente qualora gli attori abbiano la possibilità di scelta circa i fiduciari con i quali intraprendere relazioni di scambio e far circolare informazioni, potendo così «apprendere» informazioni riguardo all’affidabilità degli altri attori (Boero et al. 2010a; Bravo, Squazzoni e Boero 2012). La reputazione, dunque, si configura come uno dei pilastri della cooperazione in un sistema di scambio ed è resa possibile dal fatto che ogni individuo agisce all’interno di una rete di relazioni nella quale è posizionato. La dinamica della reputazione all’interno di un sistema di scambio si complica se si considera, però, che attori razionali possono comportarsi in modo da costruire strategicamente una propria reputazione positiva ma che, altrettanto strategicamente, possono agire in maniera tale da rovinare la reputazione di altri, anche favorendo la circolazione di informazioni scorrette. Inoltre, meccanismi di controllo analoghi a quelli descritti in questo paragrafo possono essere impiegati per sanzionare individui che danneggino la reputazione di
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altri attraverso le informazioni fatte circolare nella rete. Studi computazionali hanno simulato le dinamiche di circolazione della reputazione, mostrando come perfino la diffusione di informazioni false riguardo alla cattiva reputazione di un attore sia più funzionale al mantenimento di un equilibrio cooperativo rispetto all’inesistenza di informazioni reputazionali (per esempio, Conte e Paolucci 2002). Un altro filone di ricerca debitore dell’analisi colemaniana dei rapporti tra rischio e fiducia ha analizzato l’effetto della contrattualizzazione degli scambi sulla fiducia. Studi sperimentali hanno mostrato come i soggetti di uno scambio economico siano più inclini a fidarsi l’uno dell’altro se lo scambio avviene senza una struttura di accordo (Kollock 1994; Malhotra e Murnighan 2002; Yamagishi e Yamagishi 1994; Yamagishi et al. 1998). Infatti, la presenza di una forma di assicurazione modifica il contesto istituzionale entro cui avviene lo scambio, minimizzandone il rischio intrinseco. In questo modo, il comportamento cooperativo del fiduciario viene interpretato dal prestatore non già come una manifestazione di affidabilità, bensì come l’esito prevedibile degli effetti di un accordo che scoraggia l’adozione di comportamenti opportunistici. Di conseguenza, il prestatore non viene messo in condizione di apprendere informazioni utili alla corretta stima dell’affidabilità del fiduciario; al contrario, concluderà che il comportamento cooperativo di quest’ultimo sia dovuto non già a genuine motivazioni cooperative (si veda il Cap. 2), bensì al calcolo razionale dei costi di sanzione che avrebbe dovuto sostenere se avesse abusato della fiducia riposta. Infine, la ricerca empirica ha anche evidenziato gli effetti negativi della fiducia negli scambi economici. Per esempio, l’analisi empirica delle reti sociali ha evidenziato come le relazioni di fiducia che nascono dalla ripetizione di scambi cooperativi tendano a chiudersi in modo triadico: se A si fida di B e B si fida di C, allora probabilmente anche A si fiderà di C in virtù della fiducia che ripone in B. Questo meccanismo dà luogo alla costituzione di reti chiuse e dense di relazioni di fiducia, che hanno spesso, come effetto negativo, quello di essere scarsamente permeabili dall’esterno. Il risultato è che reti di fiducia di questo tipo tra attori economici possono inibire la circolazione di nuove informazioni e sfavorire l’innovazione. Si pensi, per esempio, al caso di banche commerciali che non crescono perché, in situazioni di grande incertezza, tendono a chiudere accordi con partner di cui si fidano molto, ma che non rappresentano spesso l’alternativa più profittevole (Mizruchi e Stearns 2001). In questo senso, la fiducia è cruciale in contesti in cui lo scambio di risorse economiche e immateriali è assente o debole e, come tale, la sua creazione ex novo è spesso oggetto di intervento politico (Barbera 2001). In contesti in cui (a) gli attori economici utilizzano il circuito della fiducia come criterio dominante di selezione dei partner commerciali; (b) tra essi si instaurano reti di scambio dense, chiuse e auto-riferite; (c) il contesto operativo si caratterizza per elevato rischio e competizione, è probabile che la fiducia intrappoli gli attori in processi di controllo e condizionamento che rendono la rottura delle obbligazioni reciproche molto costosa, dando vita a esiti avversi all’apprendimento e all’innovazione (si veda Cook, Hardin e Levi 2005 sui limiti della fiducia nel sostenere la regolazione degli scambi in sistemi socio-economici complessi).
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8.4 Per concludere Il percorso di teorizzazione e ricerca sociologica compiuto da James Coleman si è basato sul tentativo di edificare una scienza sociale delle norme e delle istituzioni sociali utile a progettare soluzioni istituzionali che favorissero l’aggregazione degli interessi individuali in esiti collettivi positivi. Nello sviluppare tale percorso, Coleman ha arricchito la visione meramente razionalista e utilitaristica della teoria economica delle motivazioni individuali, fornendo spunti interessanti per la comprensione di come le norme sociali che emergono dall’interazione possano essere pilastri fondamentali al sostegno degli scambi sociali ed economici in condizioni di rischio. Vale la pena di notare come anche in mercati altamente sviluppati sia in senso di regolazione sia in senso di infrastruttura tecnologica, i prezzi e altri indicatori economici che dovrebbero sintetizzare tutta l’informazione utile alle decisioni razionali degli attori e al loro coordinamento spesso non sono sufficienti a sostenere calcoli razionali circa la prevedibilità del comportamento altrui e delle conseguenze delle decisioni. Non a caso, prezzi e indicatori economici sono spesso sostituiti o completati dall’intercettazione di segnali e scambi di informazione diretti o indiretti tra soggetti attraverso il ricorso a contatti, reti e connessioni (Casnici et al. 2015). Vi è un interessante messaggio in tale intuizione: la regolazione istituzionale dei sistemi socio-economici, che spesso si riassume nel mantra degli incentivi top-down per modificare le fonti di costo delle alternative decisionali, tende a sottovalutare l’importanza delle forze sociali e normative endogene ai sistemi sociali. Gli individui, invece, tendono a ridurre i margini di rischio attraverso accordi impliciti, osservazione reciproca e ricorso all’informazione sociale (Squazzoni 2017). Sotto le impalcature istituzionali, le regole e i contratti, sui quali si erige la moderna complessità dei sistemi socio-economici, vi è una fondamentale dimensione normativa informale, entro cui gli attori si osservano, commisurano i rispettivi obblighi, promuovono sanzioni immateriali reciproche e aggiustano i loro piani d’azione (North 2005). Il fatto che tale prospettiva rimanga comunque entro il paradigma della scelta razionale costituisce al contempo la forza e la debolezza dell’impianto teorico di Coleman. Riconoscere l’importanza delle norme sociali per la costruzione di una teoria dell’azione significa aprire all’analisi del ruolo delle emozioni sociali, come recentemente ricordato anche da Granovetter (2017) sulla scorta di Elster (1999). Attraverso l’osservazione reciproca e l’interdipendenza negli scambi rischiosi gli attori non solo ricavano dall’ambiente, da opinioni altrui o da precedenti esperienze dirette informazioni utili alla predizione del comportamento reciproco e a prevedere i rispettivi interessi; contestualmente, sviluppano obbligazioni, vincoli e legami che poggiano su valori condivisi che spesso oltrepassano la logica dell’interesse materiale (si veda il Cap. 2. Ciò spiega perché, a volte, un prestatore sanzioni moralmente, magari proprio attraverso la leva reputazionale, il comportamento eccessivamente «auto-interessato» di un fiduciario, laddove questo ultimo in realtà non abbia fatto null’altro che perseguire il proprio interesse, idealmente prevedibile ex ante da parte del prestatore stesso (Granovetter 2017). Studiare il complesso gioco di razionalità strumentale e
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aspetti valoriali, interessi materiali e obbligazioni morali, spesso sottovalutato dalla teoria della scelta razionale nel suo ricondurre la razionalità al solo interesse materiale dell’attore, è tema oggi rilevante per la sociologia economica, in un’epoca di istituzioni sociali ed economiche frammentate.
Letture di approfondimento Barrera D. (2008). «The social mechanisms of trust», Sociologica, n. 2. Lindenberg S. (2000). «James Coleman», in G. Ritzer (ed.), The Blackwell Companion to Major Contemporary Social Theorists, Malden, Blackwell, pp. 513-44. Marsden P.V. (2005). «The sociology of James S. Coleman», Annual Review of Sociology, 31, pp. 1-24.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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9 Mark Granovetter. Radicamento dell’azione economica: le reti sociali di Alberta Andreotti
9.1 Contestualizzazione storico-culturale Mark Granovetter è uno dei maggiori esponenti della sociologia economica contemporanea. Il suo articolo del 1985 «Economic action and social structure: The problem of embeddedness» pubblicato sull’American Journal of Sociology costituisce un autentico punto di svolta per la disciplina ed è unanimemente considerato il contributo fondativo della nuova sociologia economica. Mark Granovetter nasce a Jersey negli Stati Uniti nel 1943 da una famiglia di origine ungherese della media borghesia urbana. Si laurea in storia americana e storia moderna europea alla Princeton University nel 1965; tuttavia, il suo interesse non è rivolto ai singoli eventi storici ma alle grandi questioni di interesse sociologico, come: perché si sono realizzate le rivoluzioni? Perché si è sviluppato il capitalismo? È quindi naturale per Granovetter decidere di continuare i suoi studi in ambito sociologico. Nel 1970 ottiene il dottorato in Sociologia ad Harvard con una tesi dal titolo Changing Jobs: Channels of Mobility Information in a Suburban Community, che sarà la base per il suo famoso articolo «The strength of weak ties» (1973) e del saggio Getting a Job (1974). Il periodo del dottorato si rivela cruciale per almeno due motivi. Il primo è la grande dinamicità intellettuale del dipartimento di Harvard dove si sviluppa una forte critica alla teoria, allora dominante, di Talcott Parsons e vi è l’emergere di teorie alternative, come quella dello scambio sociale di George Homans (1964) e dell’importanza delle relazioni sociali di Harrison White (1992). Il secondo elemento è la relazione intellettuale con Harrison White, suo relatore di tesi e principale esponente della «Rivoluzione di Harvard» che riporta al centro dell’attenzione delle scienze sociali la dimensione relazionale (si veda il Cap. 16). Da questo clima intellettualmente molto vivace, Granovetter svilupperà il desiderio di contrapporsi alle teorie dominanti, portatrici di una visione semplicistica dell’azione economica. L’obiettivo è mostrare che la realtà è più complicata di come viene descritta, e che gli individui non agiscono come atomi isolati; al contrario le loro azioni, cosi come le norme e le istituzioni, sono il risultato di relazioni e interazioni sociali. La carriera accademica di Granovetter inizia alla Johns Hopkins (dal 1970 al 1973), dove insegna Relazioni Sociali. Nello stesso dipartimento vi è anche James Coleman (si veda il Cap. 8); i due si conoscono ma, nonostante la stima reciproca, le loro strade restano separate. Granovetter nel corso di un’intervista sosterrà che Coleman «si era spinto troppo in là nella teoria dell’azione razionale e dal punto di vista
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intellettuale non vi è stato incontro»1. Come vedremo, la critica all’attore razionale è una delle tematiche più importanti del pensiero di questo autore. Verso la metà degli anni Settanta, Granovetter torna ad Harvard per poi spostarsi alla State University a New York. Nel 1995 approda all’Università di Stanford dove trascorre il resto della sua carriera. Qui forma un’importante équipe di ricerca che si concentra su tre tematiche: (1) la riflessione teorica sulla costruzione sociale delle istituzioni economiche il cui esito è il saggio Society and Economy. Framework and Principles (2017)2; (2) la nascita e le trasformazioni dell’industria elettrica negli Stati Uniti; (3) l’analisi della Silicon Valley con attenzione alla struttura delle reti personali e istituzionali.
9.2 Le coordinate concettuali: attori, reti, istituzioni Tutto il lavoro di Granovetter evidenzia l’importanza di considerare congiuntamente economia e società: non si possono capire i fenomeni economici a prescindere dagli elementi sociali dentro i quali essi prendono forma. Egli si pone dunque nel solco della tradizione dei classici della sociologia economica, da Weber (si veda il Cap. 1) a Simmel (si veda il Cap. 4). Le azioni economiche sono intrise di motivazioni sociali e le istituzioni economiche, che sono prima di tutto istituzioni sociali, si fondano su processi storici di lungo periodo plasmati da azioni individuali e collettive non necessariamente (quasi mai) basate su considerazioni di efficienza economica. Alla base del concetto di radicamento che Granovetter propone vi è un modo specifico di interpretare i fenomeni economici: essi non sono mai scissi dalla struttura sociale, è proprio la relazione tra economia e struttura sociale a dover essere indagata. Tutti i suoi lavori insistono sul fatto che gli attori, individuali e collettivi, non agiscono in un vacuum istituzionale (Granovetter 2017), ma all’interno di una struttura sociale pregressa. In questa impostazione, le reti sono un elemento centrale della struttura sociale e contribuiscono a spiegare il rapporto tra azione individuale e istituzioni. Questo approccio teorico richiede, secondo Granovetter, una varietà di metodi di indagine che includono «un accurato lavoro storico, culturale, a volte etnografico, in aggiunta ai più tradizionali metodi di analisi statistica» (ivi, p. 204). Il concetto di radicamento era già stata introdotto nelle scienze sociali da Karl Polanyi (si veda il Cap. 6), ma con un approccio e un significato differenti. Granovetter in più occasioni evidenzia la sua distanza dall’approccio polanyiano riguardo al concetto di radicamento e ribadisce di aver tratto ispirazione piuttosto da Harrison White. Ciò che Polanyi e Granovetter condividono, pur da prospettive differenti, sono due elementi: (1) l’idea che economia e società debbano essere studiate congiuntamente; (2) la critica al paradigma di mercato che postula l’attore razionale orientato alla massimizzazione del proprio utile in un mercato perfettamente auto-regolato. Dove 1
Intervista dell’Autrice con Mark Granovetter, 14 gennaio 2010. Edizione italiana in corso di pubblicazione. Per le citazioni nel presente capitolo la traduzione è dell’Autrice.
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invece i due autori si distinguono in modo radicale è la possibilità che vi sia sradicamento (disembeddedness). Mentre per Granovetter non è data alcuna forma di sradicamento, perché economia e società sono sempre intrecciate e gli attori inseriti in reti sociali e contesti istituzionali, per Polanyi non è così: il mercato, infatti, è l’unica istituzione che tende ad auto-regolarsi, anche se con conseguenze sociali ed economiche dirompenti. Per spiegare i fenomeni economici secondo Granovetter è necessario fare riferimento a tre livelli di analisi: azione individuale, esiti economici e istituzioni economiche (si veda il Cap. 12). Questi tre livelli corrispondono a ciò che in sociologia si definisce analisi micro, meso e macro. Granovetter si concentra su come il livello micro e quello macro sono collegati, ed è qui che si inserisce il concetto di radicamento. La prima definizione di radicamento proposta dal nostro autore fa riferimento al «ruolo delle relazioni personali e delle strutture di tali relazioni nel generare fiducia e nello scoraggiare la prevaricazione» (1985, trad. it. 1991, p. 59). Nel saggio Economy and Society (2017), il concetto di radicamento assume un’accezione più ampia e indica l’intersezione tra gli aspetti economici e non della società, incluso non solo le relazioni sociali e le reti con le loro conseguenze, ma anche le influenze culturali, politiche, religiose e più in generale tutte le influenze istituzionali (ivi, p. 15).
Nonostante questa ampia definizione e il continuo insistere sul fatto che le relazioni sociali non sono l’unico collegamento tra micro e macro, sgombrando quindi il campo dalle critiche di eccessivo strutturalismo, Granovetter ribadisce che l’analisi relazionale è sempre necessaria per comprendere fenomeni come fiducia, solidarietà, cooperazione, potere, norme e identità sociali (2000, 2017). L’analisi relazionale continua dunque a essere centrale in tutti i suoi lavori. è per questo motivo che di seguito ci focalizzeremo sul radicamento nelle reti sociali.
9.2.1 Il radicamento nelle reti sociali Il punto di partenza di Granovetter è comprendere le motivazioni dell’azione economica. Qui si inserisce la sua critica sia alla visione neoclassica dell’attore razionale atomizzato (visione iposocializzata) sia alla visione parsonsiana dell’attore aderente ai valori e alle norme del ruolo ricoperto (visione ipersocializzata). Nel primo caso l’individuo compie le sue scelte indipendentemente da qualsiasi influenza esterna e con l’unico obiettivo di massimizzare la sua funzione di utilità. Nel secondo caso l’individuo compie le sue scelte indipendentemente da qualsiasi influenza esterna perché segue valori e ruoli già interiorizzati attraverso il processo di socializzazione. Benché queste due interpretazioni siano divergenti, perfino opposte, entrambe finiscono per non considerare l’importanza delle relazioni sociali dentro le quali gli individui sono inseriti. Granovetter propone una terza via, quella del radicamento nelle reti sociali.
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L’attore sociale e le sue azioni economiche possono essere comprese solo a partire dal suo radicamento nella struttura delle reti sociali che lo circondano (1985, trad. it. 1991, p. 59).
Egli identifica due dimensioni del radicamento: relazionale e strutturale. Il radicamento relazionale ha effetti diretti sull’azione economica individuale, mentre quello strutturale ha effetti indiretti. Come esempio di radicamento relazionale si può pensare alla relazione diadica tra un datore di lavoro e il suo dipendente. è altamente probabile che il modo in cui i due interagiscono dipenda dalla storia della loro relazione, dalla struttura di aspettative reciproche e dall’identità degli attori. Nel caso del radicamento strutturale, la relazione tra gli stessi due soggetti può essere altamente influenzata dalla relazione che il dipendente ha con gli altri dipendenti e che questi, a loro volta, hanno con il datore di lavoro. Per esempio, il dipendente può avere come obiettivo quello di farsi accettare socialmente dai suoi colleghi e non quello di guadagnare il più possibile, andando contro le richieste del datore di lavoro se questo può contribuire al suo obiettivo. La struttura della rete all’interno dell’impresa, sia del dipendente sia del datore di lavoro, influisce dunque sul loro comportamento in azienda. Ma anche la struttura della rete che si estende oltre i confini aziendali ha un impatto sui comportamenti all’interno dell’azienda. La possibilità di cambiare lavoro da parte del dipendente è legata non solo alla relazione del dipendente con gli altri colleghi e con il datore di lavoro, ma anche all’informazione di cui può disporre rispetto ad altri posti di lavoro, che è connessa alla struttura della sua rete. In tutti e due i tipi di radicamento – relazionale e strutturale –, Granovetter sottolinea l’importanza della dimensione storica e della ricostruzione temporale, tanto che in un suo recente scritto la definisce una terza forma di radicamento della rete (2017). A partire da questi elementi l’autore individua tre principi di interazione tra livello micro e macro in cui il radicamento relazionale e quello strutturale assumono un ruolo centrale. Il primo principio mette in relazione reti, fiducia e norme: tanto più le reti sono dense (si veda il Cap. 16) tanto più è elevato il grado di fiducia e tanto più è probabile che le norme siano condivise e rispettate. A tali condizioni, i comportamenti devianti sono più difficili da nascondere e l’adesione alle norme più forte. Tanto più una rete è ampia, tanto più è probabile che sia lasca, frammentata e formate da clique, perché la nostra capacità di estendere e mantenere relazioni è limitata. La connessione tra reti e norme non è affatto nuova in sociologia ed è richiamata da diversi autori, non ultimo James Coleman quando identifica «norme e sanzioni» come una forma di capitale sociale (Coleman 1990; si veda anche il Cap. 8 di questo volume). Non va tuttavia dimenticato, come sottolinea Granovetter, che reti dense e relazioni forti (radicamento relazionale) non escludono affatto situazioni di frode, poiché è proprio in queste situazioni che le difese emotive si abbassano e il confidence racket diventa possibile. Per esempio, la babysitter che frequenta quotidianamente casa nostra e consideriamo parte della famiglia può più facilmente adottare comportamenti fraudolenti – per esempio, sottrarci dei soldi – senza che noi lo si sospetti.
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Il secondo principio mette in relazione la circolazione dell’informazione e la natura dei legami. I legami forti sono con maggiore probabilità legami omofili, vale a dire che i nodi hanno caratteristiche socio-economiche simili. La combinazione di questi due fattori – forza del legame e omofilia – ha come esito che i legami forti si muovano tendenzialmente all’interno delle stesse cerchie sociali, entrando in contatto con le stesse informazioni. Al contrario, i legami deboli rappresentano aperture su cerchie esterne e permettono di accedere a nuova informazione (si veda il Cap. 16). Il terzo principio mette in relazione la struttura della rete con la modalità con cui circolano informazione e potere. L’argomentazione poggia sul radicamento strutturale. Quando due reti non sono tra loro collegate vi è un buco strutturale (Burt 1992) e il nodo che collega queste due reti stabilisce un «legame ponte» attraverso cui circola nuova informazione (2 Box 9.1). Questo nodo si trova in una situazione di vantaggio competitivo poiché è il crocevia di un flusso informativo. Il rapporto tra legame debole e buco strutturale è molto stretto, ma i due non sono la stessa cosa. I legami che coprono un buco strutturale possono essere solo deboli, ma i legami deboli non necessariamente sono buchi strutturali. Gli individui che coprono un buco strutturale svolgono la funzione di broker, cioè di integrazione e superamento della frammentazione. Questo può avvenire sia all’interno di reti individuali, sia tra reti di attori collettivi o tra sfere economiche diverse, per esempio l’industria e la finanza, portando a un vantaggio competitivo sugli altri attori in gioco, come si vedrà nelle tre ricerche empiriche.
9.3 Tre ricerche empiriche Le analisi di Granovetter seguono uno schema logico didatticamente molto utile ed efficace (si veda il Cap. 12). Il primo passaggio consiste nell’esplicitare l’oggetto di ricerca, quindi vengono esposte le principali teorie che hanno già affrontato quell’oggetto di studio evidenziandone le criticità. Nel terzo passaggio l’autore propone la propria spiegazione del fenomeno, solitamente alternativa alle precedenti. Segue l’analisi empirica con l’applicazione dei concetti teorici, e infine la discussione dei risultati. Di seguito saranno illustrati brevemente tre esempi di ricerche condotte da Granovetter in cui è possibile evidenziare il suo persistente interesse nel livello di aggregazione intermedio tra micro e macro; le reti sociali come strumento analitico di collegamento tra il livello di analisi micro e macro; la complessità sempre crescente del concetto di radicamento. I tre esempi presentati illustrano lo studio di fenomeni economici secondo la prospettiva della nuova sociologia economica. 9.3.1
Come si trova lavoro: la forza dei legami deboli
Oggetto del saggio Getting a Job è come le persone trovano lavoro e più specificatamente come le persone vengono a conoscenza di nuove opportunità occupazionali. Il nostro autore considera la letteratura precedente sull’argomento evidenziando
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come la maggior parte degli studi fino a quel momento si fosse focalizzata sulla dimensione macro o micro. Gli studi macro analizzavano i flussi tra occupazioni e relativo turnover, gli studi micro guardavano alle motivazioni socio-psicologiche dei soggetti che volevano cambiare occupazione. Il lavoro di Granovetter si concentra invece sulle modalità di circolazione dell’informazione relativa a nuove opportunità occupazionali. Già a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, la letteratura, soprattutto americana, aveva evidenziato che per trovare lavoro i canali informali erano cruciali. Benché questi studi si concentrassero prevalentemente su operai e disoccupati, le poche ricerche sui colletti bianchi andavano nella stessa direzione. L’importanza dei legami sociali nel mediare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro non era dunque in discussione, era «un dato per scontato» dal quale partire. Anche oggi, quando si afferma che i legami sociali sono importanti nella spiegazione di un fenomeno economico, si dice un’ovvietà. è necessario fare un passo ulteriore e Granovetter indica una possibile direzione. Egli indaga il tipo di legame esistente tra chi fornisce e chi riceve l’informazione (forte o debole); dove si è costituita la relazione; come è fatta la catena di trasmissione dell’informazione. In pratica, guarda alla natura dei legami e alla morfologia della rete. Per rispondere a queste domande Granovetter si concentra su un campione di manager, tecnici e professionisti, tutti maschi, bianchi, residenti a Boston. Il campione è quindi omogeneo per strato sociale, genere e razza. I risultati della ricerca si basano su 182 risposte a un questionario con domande chiuse e 100 interviste in profondità a individui che hanno cambiato lavoro nei cinque anni precedenti l’indagine, esclusi i cambiamenti all’interno della stessa azienda. I risultati evidenziano che la maggioranza degli intervistati ha cambiato occupazione grazie al ruolo svolto dalle relazioni informali – fin qui nulla di nuovo rispetto alle ricerche precedenti. A rendere questo studio un classico della sociologia economica contemporanea sono invece i seguenti risultati: 1) sono i legami deboli a essere più rilevanti nella trasmissione delle informazioni circa le nuove opportunità occupazionali; 2) le catene di trasmissione dell’informazione sono molto brevi; 3) la maggioranza delle persone che ha cambiato occupazione non stava cercando attivamente un nuovo posto; 4) questi risultati non valgono in tutti i contesti. è necessario indagare quali caratteristiche della società strutturano i canali di mobilità e comparare i diversi meccanismi nei processi di mobilità (radicamento). Vediamo brevemente ciascuno di questi punti. 1) Nella maggior parte dei casi sono i legami deboli a fornire l’informazione circa la nuova occupazione (68,7 per cento del campione) e più in particolare i legami ponte, vale a dire i conoscenti sul lavoro. Granovetter spiega:
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Ci si potrebbe aspettare che i legami forti siano quelli maggiormente motivati ad aiutarci e passarci delle informazioni, ma la struttura sociale prevale sulle motivazioni individuali. Coloro ai quali siamo debolmente connessi è più probabile che si muovano in circoli differenti dai nostri e abbiano quindi accesso a informazioni differenti da quelle che abbiamo noi. […] In molti casi il contatto era qualcuno solo marginalmente incluso nella rete dei contatti attuali, e comunque appartenenti alla rete professionale (1973, p. 1371).
I legami deboli comportano maggiori possibilità di accedere a informazioni nuove, poiché appartengono con maggiore probabilità a cerchie sociali differenti, come abbiamo visto nel secondo principio del radicamento di rete. L’informazione è nella maggior parte dei casi trasmessa come by-product di altri processi sociali e in contesti diversi da quello professionale, anche se i legami appartengono alla sfera professionale. Immaginare il passaggio di informazioni come un «investimento» strumentale in relazioni è tuttavia profondamente fuorviante. Non si inizia una relazione amicale con una persona perché si pensa che questa possa essere utile alla nostra carriera professionale, o almeno così non accade nella maggioranza dei casi. Quando si capisce che una persona ci è amica solo per avere dei vantaggi, tanto più se professionali, l’amicizia finisce o ne è fortemente danneggiata (Blau 1964; Granovetter 2000, 2017). 2) Le catene attraverso cui circola l’informazione sono corte, composte cioè da uno o due passaggi. Questo vuol dire che il legame che ha fornito l’informazione sulla nuova opportunità di lavoro ha solo un grado o due di separazione dalla fonte dell’informazione stessa. Si tratta di informazioni «di prima mano» o quasi, e questo fa dire che i legami deboli sono anche legami ponte nei casi individuati da Granovetter. Vi è un vantaggio temporale e reputazionale per coloro che ne vengono in possesso, perché hanno l’informazione prima di altri e perché possono far valere l’influenza dell’intermediario sul possibile datore di lavoro. Quando le catene sono lunghe, il numero delle persone che entra in contatto con l’informazione è elevato e l’effetto reputazionale svanisce, non vi è più differenza con i canali formali. La combinazione di vantaggio temporale e reputazionale è ciò che secondo Granovetter rende economicamente conveniente, cioè efficiente, utilizzare il canale informale. Le aziende utilizzano strutture sociali già esistenti anziché crearne di nuove. In quest’ottica, l’informale, secondo Granovetter, non può essere trattato come qualcosa di residuale che accade incidentalmente all’interno di processi universalistici, ma va considerato necessariamente insieme a tali processi. È la relazione tra formale e informale, universalismo e particolarismo che deve essere indagata, proprio come tra economia e società. Il concetto di radicamento, che Granovetter non utilizza esplicitamente in questo studio, pur utilizzando il termine di imbedded e incapsulated, si pone esattamente come strumento analitico per l’analisi di tale relazione. 3) La rilevanza dei legami deboli e le catene corte sono maggiormente diffusi tra coloro che hanno cambiato occupazione, ma non la cercavano attivamente. Chi invece cerca attivamente un lavoro, secondo Granovetter, ha maggiori probabilità di
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utilizzare (efficacemente) canali formali o legami forti: si tratta di giovani al primo impiego, disoccupati, e/o coloro che hanno cambiato occupazione molto frequentemente (sei o più volte). Questi profili risultano particolarmente svantaggiati nel senso che sono meno soddisfatti del lavoro trovato e guadagnano meno di coloro che hanno trovato lavoro attraverso i legami deboli. Come mai? Granovetter avanza l’ipotesi che nel caso dei giovani essi non abbiano ancora costruito una rete professionale sufficientemente ampia da poter disporre di legami deboli efficaci per trasmettere informazioni. Nel caso dei disoccupati, essi hanno fretta di trovare un’occupazione e sono dunque maggiormente disposti ad accettare qualsiasi offerta. Per coloro che hanno cambiato occupazione molto frequentemente, giocherebbe invece un «effetto (dis-)investimento», vale a dire una permanenza troppo corta nei posti precedenti che impedisce di creare un rapporto di reputazione e fiducia professionale. 4) Sulla scia di questo lavoro si è aperto un importante dibattito, sviluppatosi soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, teso a validare o invalidare la tesi della forza dei legami deboli (Adler de Lomnitz 1977; Barbieri 1997; Granovetter 1995; Grieco 2001; Lin 2000; Morlicchio 1999; Nakao 2004). Questi studi confermano la necessità di indagare le caratteristiche dei mercati del lavoro oggetto di analisi e delle professioni al loro interno – in una parola, di guardare al radicamento sociale del fenomeno economico. Oggi tale filone di ricerca si arricchisce guardando all’impatto dei social media nell’incontro tra domanda e offerta di lavoro. 9.3.2 La costruzione sociale dell’industria elettrica americana ai primi del Novecento In questo caso il nostro autore sceglie un oggetto di studio tradizionalmente appannaggio degli economisti: l’affermarsi del modello organizzativo dell’industria elettrica negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. Le spiegazioni degli economisti, secondo Granovetter, sottolineano che tale modello è l’esito «naturale» e più efficiente della tecnologia disponibile, delle caratteristiche tecniche del prodotto elettricità, della domanda dei consumatori e della riduzione dei costi di produzione e transazione. La tesi proposta e sostenuta da Granovetter, insieme agli altri studiosi che formano l’équipe di ricerca, è che questi fattori non sono sufficienti: bisogna guardare ai processi e alle interazioni sociali che si instaurano tra i diversi attori in gioco. In questo modo risulta più chiaro che il modello di organizzazione dell’industria elettrica non è il risultato inevitabile ed efficiente della tecnologia, e neppure delle condizioni di mercato. Per mostrare tutto ciò, occorre entrare nel cuore dell’organizzazione del settore industriale e analizzare cinque fattori: 1) la struttura interna delle aziende che fanno parte di quel settore; 2) come si strutturano le relazioni tra aziende del settore, la loro catena di fornitura e le relazioni tra organizzazioni che hanno qualche influenza su tale catena (per esempio, i sindacati);
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3) i consigli di amministrazione, i comitati direttivi delle associazioni che regolano quel settore ecc.; 4) le relazioni tra le aziende dell’industria e le istituzioni esterne a quel settore (per esempio, le comunità professionali); 5) le relazioni tra industria e regolazione pubblica ai diversi livelli istituzionali. Questi fattori restano centrali per l’analisi di qualsiasi settore anche ai nostri giorni. Per indagare questi aspetti, Granovetter, insieme a un consistente numero di ricercatori, si basa su: analisi di documenti in archivi storici; ricostruzione della storia di 80 compagnie elettriche; analisi delle carriere di più di 200 manager che avevano lavorato per l’azienda elettrica Edison, una delle più grandi e potenti nel contesto statunitense, ricostruendo le reti e la struttura delle reti di alcuni di questi manager; analisi della composizione dei consigli di amministrazione delle principali associazioni nazionali dell’industria elettrica americana studiando la partecipazione di più di 1500 manager nelle stesse. Un lavoro impegnativo durato anni. I risultati ai nostri fini più interessanti mettono in evidenza come l’organizzazione dell’industria elettrica sia radicata nella struttura sociale, sia costruita cioè attraverso reti sociali molto identificabili, relazioni familiari e partecipazione in reti differenziate. Amicizie di lunga data, esperienze simili, dipendenze comuni, multiple appartenenze a consigli di amministrazione, capacità di veicolare risorse da una rete a un’altra grazie a legami ponte, capacità di veicolare risorse tra campi istituzionali differenti hanno portato a cristallizzare decisioni e sistemi che non erano né tecnicamente né economicamente maggiormente efficienti di altri. In particolare, Granovetter e la sua équipe evidenziano che nel periodo tra il 1880 e il 1925 vi è un piccolissimo gruppo di individui, estremamente coeso al suo interno (radicamento strutturale), che è particolarmente influente e che riesce a condizionare tutte le decisioni strategiche del settore elettrico. Si tratta del cosiddetto «gruppo Insull», dal nome del leader del gruppo, Samuel Insull, originariamente manager in Edison e poi grande imprenditore nel settore. Questo gruppo è formato da uomini ambiziosi e abili, che avevano studiato insieme e condiviso esperienze professionali simili (primo principio del radicamento di rete). Grazie alla capacità di utilizzare le conoscenze e le reti sociali a proprio vantaggio, essi riescono a fondare e occupare i consigli di amministrazione delle associazioni nazionali elettriche più rilevanti, sia ricoprendo direttamente posizioni importanti in momenti strategici, sia lasciando a uomini di fiducia tale compito nelle fasi di consolidamento delle decisioni. La capacità di costruire ponti, di far circolare informazione e risorse tra reti e campi differenti è costantemente al centro della spiegazione di Granovetter. I ricercatori evidenziano che Samuel Insull disponeva di un’ampia rete sociale, composta da contatti in settori diversi, istituzionalmente separati, come industria, finanza, scienza e tecnologia, mondo del volontariato, politica. È l’abilità di far muovere (perfino manipolare) risorse tra queste diverse reti che permette a Insull di ottenere un vantaggio competitivo sugli altri imprenditori e di avere un ruolo strategico nell’affermarsi di quello specifico modello organizzativo (Granovetter 2017). Insull è quindi un «imprenditore» nel senso schumpeteriano del termine (si veda il Cap. 5).
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L’analisi della rete di Samuel Insull e del gruppo coeso a questa connesso è rilevante perché mette in evidenza come gli elementi sociali, e in particolare la struttura delle reti di relazioni, contribuiscano alla comprensione degli esiti economici nel settore elettrico. Questi si sono poi radicati, diventando relazioni istituzionalizzate, pratiche standard, routine e norme (si veda il Cap. 10). Non necessariamente questi si perpetuano nel tempo: possono venire messi in discussione da uno shock esogeno o da una crisi interna del settore. È in questi momenti di stress che possono emergere nuove reti sociali e nuove configurazioni, quindi nuovi esiti economici, in funzione della struttura sociale e della capacità degli attori di utilizzare diverse opzioni di scelta disponibili. 9.3.3 Nascita e trasformazione della Silicon Valley Nei diversi studi di approfondimento sulla nascita e le trasformazioni della Silicon Valley, forse più che in altri casi, è possibile rintracciare il senso analitico del concetto di radicamento e i diversi modi nei quali può essere utilizzato. Granovetter coniuga ancora una volta elementi storici con analisi della struttura sociale e dell’organizzazione socio-economica, gettando quel ponte tra analisi micro e macro che è al centro della sua proposta intellettuale. Com’è noto la Silicon Valley è un’area a sud della baia di San Francisco in cui vi è un’elevata concentrazione di aziende elettroniche e informatiche ad alta tecnologia originariamente basata sui semiconduttori (Hewlett-Packard, Google, Facebook, Microsoft ecc.). Si tratta di un’area ben delimitata e riconosciuta all’interno e all’esterno, con una reputazione (positiva) e un’identità sociale ed economica forte. Tale identità si è costruita nel tempo e si fonda su diversi elementi tra loro intrecciati, sovente trattati come distintivi rispetto al resto degli Stati Uniti, tanto da far parlare di una diversità culturale. Proprio per sottolineare tale diversità, la storia di questo territorio viene paragonata, per contrasto, alla storia della Route 128 di Boston, un’area egualmente tecnologica che nel corso del tempo ha perso il suo primato. Come abbiamo visto, Granovetter tende a confutare spiegazioni che non si ancorano a precise ricostruzioni di fatti e meccanismi sociali, come le tesi che chiamano in causa una presunta differenza culturale senza spiegarla. Per confutare tale tesi, Granovetter fa riferimento al lavoro di altri scienziati sociali oltre al suo, soffermandosi in particolare su due aspetti: la presunta unicità della cultura della piccola-media impresa (PMI) flessibile con organizzazione orizzontale; la presunta maggiore mobilità interaziendale dei professionisti nella Silicon Valley. In tutti e due i casi, il nostro autore evidenzia che in una prospettiva storica di longue durée nessuna di queste due situazioni è tipica della Silicon Valley. Lo studio di AnnaLee Saxenian (1994) serve a Granovetter per mostrare come dopo la crisi degli anni Ottanta del secolo scorso, nella Silicon Valley vi sia stato un importante cambiamento organizzativo, trasformando il modello delle piccolemedie imprese flessibili in un modello di grandi imprese integrate verticalmente, come quello esistente a Boston nella Route 128. Tale rapida trasformazione, afferma
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Granovetter (2017), suggerisce che non vi era nessuna specificità culturale nella Silicon Valley. Inoltre, adottando una prospettiva di più lungo periodo, il nostro autore evidenzia che, nonostante la persistente importanza delle reti di PMI, le grandi aziende hanno sempre avuto un ruolo strategico in quel territorio (ivi, p. 149). Si tratta di un ruolo teoricamente sottovalutato perché mal si adattava al modello coerente di organizzazione economica basato sul distretto. Ma i modelli sono complessi e nella realtà vi è spesso una contaminazione di forme organizzative differenti che possono essere colte solo se si guarda alle configurazioni culturali, strutturali, normative e ai loro cambiamenti. È così anche nel caso della presunta maggiore mobilità-flessibilità dei professionisti all’interno del mercato del lavoro locale. Riprendendo il lavoro dello storico economico Gavin Wright (1999), Granovetter spiega che la formazione di una forte comunità professionale di tecnici e ingegneri non è affatto distintiva della Silicon Valley, ma è l’esito di una configurazione di quel settore che si era delineata già nel XIX secolo. In quel periodo si era formata e consolidata una forte comunità tecnologica di ingegneri a elevata mobilità professionale che adottava un insieme di principi, metodi e conoscenze tecniche comuni in tutti gli Stati Uniti. Questa elevata mobilità era un potente meccanismo di diffusione del nuovo modo di lavorare e costituiva una rete importantissima tra professionisti che si riconoscevano come appartenenti a tale comunità (ivi, pp. 299-300). La lealtà non era verso l’impresa, ma verso la comunità professionale. Questo elevato livello di mobilità interaziendale e la rete di conoscenze che ne è seguita, iniziata con l’industrializzazione e continuata successivamente, ha giocato un ruolo cruciale nell’innovazione della Silicon Valley, ma non ne è affatto un tratto distintivo (Granovetter 2017). È questo il senso analitico del concetto di radicamento, soprattutto nella sua accezione più ampia; lo sforzo è alzare lo sguardo e adottare una prospettiva di lungo periodo, cercando di capire quale meccanismo collega attori, azioni ed esiti economici all’interno dei vincoli posti dalle istituzioni sociali ed economiche. Un tratto distintivo di cui la Silicon Valley è stata protagonista, secondo Granovetter e il suo gruppo di ricerca, è invece la nascita dei venture capitalist (2000, 2017). Prima dell’arrivo dei venture capitalist, i finanziatori non avevano relazioni con le industrie che finanziavano, se non in modo sporadico e debole, anche perché non avevano le competenze tecniche per entrare nel merito delle innovazioni. Finanza e industria restavano due campi separati. Negli anni Sessanta del secolo scorso qualcosa inizia a cambiare, si afferma un nuovo modello dove i due campi sono messi in connessione reciproca. È la capacità di creare un collegamento, un ponte tra questi due campi che costituisce un vantaggio competitivo per lo sviluppo della Silicon Valley. Ancora una volta è la prospettiva di lungo periodo che Granovetter richiama per elaborare la sua spiegazione. Gli ingegneri e gli specialisti di marketing che durante gli anni del boom economico avevano accumulato grosse fortune iniziano a diventare essi stessi finanziatori – i venture capitalist, appunto – di imprese che proponevano prodotti innovativi. Questi tecnici e ingegneri possono contare su una conoscenza tecnologica molto elevata e reti personali estese che li fanno entrare in contatto con nuove idee, idee che essi stessi sono capaci di valutare anche dal punto di vista tecnico. Cominciano così non solo a finanziare start-up, ma a essere coinvolti nei
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consigli di amministrazione delle aziende finanziate e ad avere un ruolo attivo nelle strategie aziendali, ruoli che i finanziatori tradizionali avevano sempre evitato, non avendone le competenze. Proprio grazie a questa collaborazione, venture capitalist e professionisti non solo passano da un’azienda all’altra, rafforzando la propria rete, ma si muovono all’interno di settori diversi – dal tecnico al finanziario – creando nuovi legami (gettando ponti) interistituzionali. Il successo e la reputazione dei primi venture capitalist hanno poi attratto altri capitali provenienti da fondi di investimento, espandendo ulteriormente le reti e le possibilità di finanziamento. I finanziatori tradizionali non sono più riusciti a riprendersi un ruolo di primo piano e nemmeno a duplicare il successo dei venture capitalist, perché questi hanno creato un network forte, e con un’elevata reputazione. Adottando un approccio storico, di ricostruzione dei consigli di amministrazione e delle reti di alcune figure chiave all’interno dell’area, Granovetter e la sua équipe hanno ricostruito i patterns che hanno portato agli esiti economici che si sono cristallizzati nel tempo.
9.4 L’attualità di Granovetter Il lavoro di Granovetter ha profondamente influenzato la sociologia economica contemporanea in almeno tre direzioni: oggetto di studio, approccio teorico-analitico e metodo. Fin dagli esordi Granovetter ha insistito sull’importanza di scegliere come oggetto di studio fenomeni economici che in passato erano appannaggio degli economisti. Questa insistenza deriva dal fatto che per molti anni la sociologia, anche economica, era stata confinata a studiare aspetti secondari, che richiamavano principalmente il background e le aspettative degli individui, senza aggredire veramente il funzionamento interno dei fenomeni economici. Obiettivo di Granovetter è dimostrare che tutti i fenomeni economici e i processi di mercato sono analizzabili sociologicamente e che tale analisi non è per nulla secondaria. Le relazioni sociali, e più in generale tutte le istituzioni sociali, giocano sempre un ruolo cruciale nel funzionamento dei fenomeni economici. Il secondo aspetto distintivo è l’approccio teorico-analitico il cui perno è il concetto di radicamento. Alla base di tale approccio vi è l’idea che i fenomeni economici sono sempre fenomeni costruiti socialmente e devono essere studiati congiuntamente alla struttura sociale dentro la quale si formano e/o funzionano. Si tratta di collegare l’azione (economica) individuale con gli esiti (economici) e le istituzioni (economiche). Il concetto di radicamento permette al nostro autore di ricercare le cause «prossime» che aiutano nella comprensione di questi passaggi e quindi dei fenomeni economici, rigettando sia le spiegazioni che fanno generico riferimento alla cultura, alle norme e ai valori senza spiegare come si formano e/o si trasformano, sia alle spiegazioni che fanno riferimento agli interessi individuali e alle preferenze date. La spiegazione dell’azione non può prescindere, in questo approccio, dalle relazioni sociali (che da sole però non sono sufficienti) e dall’insieme di opzioni rese possibili, in un certo momento storico, dalle istituzioni sociali presenti in quel contesto (radi-
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camento). L’individuo non agisce né come un automa né come un atomo. Pochi sociologi si potrebbero dire in disaccordo con queste affermazioni. Il grande merito di Granovetter è aver «reso scontato» questo modo di guardare ai fenomeni economici, a prescindere dall’utilizzo del concetto di radicamento. Per diversi anni, l’approccio del radicamento è stato associato all’analisi di rete come tecnica di ricerca. Comprendere come e quale morfologia di rete influenza un fenomeno economico ha avuto il grande merito di diffondere un metodo e una tecnica di analisi poco conosciuta, basata su una raccolta dati e un’analisi matematica rigorosa (si veda il Cap. 16) (2 Box 9.2). I passi avanti in questa direzione sono stati notevoli, anche nei programmi statistici capaci di elaborare queste informazioni e restituire grafi comprensibili. Un esempio sono le visualizzazioni grafiche delle reti che si ottengono analizzando i milioni di scambi Twitter o Facebook messi in relazione con diversi fenomeni economici e politici (si veda il Cap. 21). Tuttavia, il concetto di radicamento non si riferisce solo alle reti sociali, e limitarsi all’analisi di rete come metodo di indagine è riduttivo e fuorviante. Le dimensioni storica e istituzionale sono centrali in tutto il lavoro di Granovetter. È per questo che, con sempre maggior forza nel corso degli anni, il nostro autore sottolinea che ricorrere a sofisticati modelli astratti per la spiegazione dei fenomeni economici è importante, ma non sufficiente perché essi ipostatizzano la realtà, imbrigliandola in una configurazione che va spiegata. Dove la sociologia economica costituisce un valore aggiunto per la spiegazione dei fenomeni economici, afferma Granovetter, è «quando si concentra sulle condizioni, le circostanze che permettono lo svilupparsi dei fenomeni economici» (2017, p. 19) ed è «dalla combinazione di questi modelli astratti e delle spiegazioni concrete delle circostanze e dei “patterns” che si ottiene la comprensione dei fenomeni economici» (ivi, p. 205).
Letture di approfondimento Granovetter M. (1973). «The strength of weak ties», The American Journal of Sociology, 6(78), pp. 1360-80 (trad. it «La forza dei legami deboli», in La forza dei legami deboli e altri saggi, a cura di M. Follis, Napoli, Liguori, 1998, pp. 115-46). Granovetter M. (1985). «Economic action and social structure: The problem of embeddedness», American Journal of Sociology, 91(3), pp. 483-510 (trad. it. «Azione economica e struttura sociale. Il problema dell’embeddedness», in Azione economica come azione sociale, a cura di M. Magatti, Milano, FrancoAngeli, 1991, pp. 49-81). Granovetter M. (2017). Society and Economy: Framework and Principles, Harvard (MA), Harvard University Press (trad. it. Società ed economia, Milano, Università Bocconi Editore, in corso di stampa). Lin N. (2000). Social Capital Theory and Research, New York, Aldine de Gruyter.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it. +
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10 Walter Powell e Paul DiMaggio. Isomorfismo e organizzazioni: il cambiamento istituzionale di Roberto Rizza e Federica Santangelo *
10.1 Due autori alle origini del neo-istituzionalismo Walter Powell e Paul DiMaggio possono essere considerati due tra gli esponenti di maggior spicco della corrente neo-istituzionalista nell’analisi delle organizzazioni. Walter (Woody) Powell, nato il 15 agosto 1951, è un sociologo americano tra i più conosciuti soprattutto nell’ambito degli studi sulle organizzazioni. Powell, dopo avere ottenuto il PhD in Sociologia presso la State University di New York, Stony Brook, oggi insegna all’Università di Stanford. Per l’articolo del 1990 «Neither market nor hierarchy: Network forms of organization» gli è stato conferito dall’American Sociological Association il premio Max Weber; inoltre, è membro della Royal Swedish Academy of Sciences. Paul DiMaggio è nato il 10 gennaio dello stesso anno a Filadelfia e oggi insegna a Princeton. Ha ottenuto il PhD in Sociologia presso l’Università di Harvard nel 1979 ed è stato direttore del programma di ricerca sul settore non profit presso l’Università di Yale (1982-87), dove è stato anche professore di Sociologia. È stato fellow al Center for Advanced Study in the Behavioral Sciences (1984-85) e presso la John Simon Guggenheim Memorial Foundation (1990). Uno dei principali contributi di DiMaggio e Powell è l’articolo «The iron cage revisited: Institutional isomorphism and collective rationality in organizational fields», che, pubblicato nel 1983, è il più citato di sempre tra quelli apparsi sull’American Sociological Review. Gli anni in cui Powell e DiMaggio svolgono le loro ricerche sono contrassegnati dalla centralità che la «nuova sociologia economica» assume nell’ambito del rinnovamento degli studi sull’economia e il lavoro (Smelser e Swedberg 1994). Di particolare rilevanza, in quegli anni, è l’interpretazione fornita da Mark Granovetter (si veda il Cap. 9) al principio dell’embeddedness nel suo celebre articolo apparso sull’American Journal of Sociology (1985), che assegna ai rapporti personali e ai network relazionali un ruolo decisivo nella definizione dei fenomeni economici. Il filone di ricerca del neo-istituzionalismo, pur condividendo molti degli assunti della nuova sociologia economica, concentra il proprio interesse sui processi di costruzione sociale dell’economia, ponendo al centro il ruolo delle istituzioni e mostrando il condizionamento da esse esercitato sul comportamento individuale (Powell e DiMaggio 1991a; Meyer e Scott 1992; Fligstein 2001). Tale orientamento ha avuto *
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo i Parr. 10.1 e 10.2 a Roberto Rizza e i Parr. 10.3 e 10.4 a Federica Santangelo.
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I – Gli autori di riferimento
il merito di estendere la riflessione sull’embeddedness, operando uno slittamento da una teoria dell’azione economica incentrata sul condizionamento delle reti di relazione sociale a una prospettiva che ha enfatizzato la centralità delle istituzioni nel dare forma ai processi economici. Una visione che pur maturando negli anni Ottanta e Novanta, parallelamente agli sviluppi della nuova sociologia economica, affonda le proprie radici anche in periodi precedenti. Due possono essere considerate, a questo proposito, le principali fonti di ispirazione. La prima risale al 1977, quando appare sull’American Journal of Sociology un articolo di John W. Meyer e Brian Rowan dal titolo «Intitutionalized organizations: Formal structure as myth and ceremony», in cui viene evidenziata l’inadeguatezza di una visione delle organizzazioni come somma di azioni di soggetti razionali e si mostra l’influenza che l’ambiente sociale esterno esercita sulla vita delle organizzazioni. La seconda fonte di ispirazione affonda le radici nel cosiddetto «vecchio» istituzionalismo, quello rappresentato dai lavori di Philip Selznick (1949), cui Powell e DiMaggio si rifanno, e che ha il merito di concepire le organizzazioni come organismi sociali non unitari, in cui le motivazioni degli attori che vi operano sono multidimensionali, in conflitto fra loro. Le organizzazioni, di conseguenza, non sono strutture razionali volte al raggiungimento di obiettivi valutabili solo in termini di efficienza economica, ma organismi adattivi, mutevoli, che risentono dell’influenza dell’ambiente istituzionale esterno, che cambiano continuamente i loro obiettivi anche raggiungendo finalità indesiderate al momento della loro costituzione, inattese e talvolta tutt’altro che efficienti. L’insoddisfazione verso una visione delle organizzazioni come mera aggregazione di azioni razionali è mutuata anche dalle idee di Harold Garfinkel e dalla considerazione che le azioni sono mediate dalle mappe cognitive degli attori. Queste spingono a riprodurre comportamenti routinari e nascondono il campo delle azioni alternative (Garfinkel 1967). Un esempio derivato da uno dei famosi esperimenti di Garfinkel e dei suoi studenti è il seguente: a cena con i nostri genitori o fratelli, o con persone con cui abbiamo familiarità, associamo ogni proposizione pronunciata con «scusa», «grazie», «posso?». «Scusa se te lo chiedo papà, ma potresti, per favore passarmi il sale?»; «Grazie papà te ne sono infinitamente grato»; «Mamma, ho il permesso di aprire il frigorifero per prendere l’acqua?». Adottiamo, in altri termini, con i nostri familiari e in casa nostra il registro che tipicamente useremmo se fossimo a cena con estranei? Se dovessimo farlo, la reazione di chi ci circonda sarebbe probabilmente prima di incredulità, poi di rabbia. Quello che è stato svelato è un «ordine di sistemi simbolici», una conoscenza pratica di regole e norme che nell’interazione quotidiana gli attori riproducono per lo più senza esserne consapevoli e in modo routinario. In questa direzione per i neo-istituzionalisti le routine dell’azione sono centrali nell’analisi delle organizzazioni: le interazioni si basano su una comune conoscenza del senso comune, data per scontata. L’interesse verso l’ambiente esterno in cui le organizzazioni operano – predominante come abbiamo visto nelle opere di Selznick – è determinato, secondo i neoistituzionalisti, da un contesto fittamente popolato da istituzioni. Esse sono concepite come «sistemi di programmi o di regole socialmente costruiti e riprodotti in modo routinario. Esse operano come punti stabili in relazione ad ambienti vincolanti e so-
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10 Walter Powell e Paul DiMaggio. Isomorfismo e organizzazioni
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no accompagnate da spiegazioni date per scontate» (Jepperson 1991, trad. it. 2000, p. 204). Le istituzioni forniscono, in questa prospettiva, regole culturali che contribuiscono a dare un significato riconosciuto ad attività collettive, ordinando la realtà e attribuendo un senso allo scorrere del tempo e all’organizzazione dello spazio. Veicolano la condivisione di significati e contribuiscono all’ordinamento sensato della realtà sociale ed economica. Sono le istituzioni a consentire la riproduzione nel tempo delle forme organizzative, perché nella gran parte dei casi gli individui non sono in grado di concepire tutte le alternative d’azione. In quest’ottica, le istituzioni agiscono sugli individui definendone le preferenze, abbattono i costi cognitivi legati alla raccolta di tutte le informazioni sui corsi d’azione possibili e favoriscono la riproduzione di routine. Le istituzioni pertanto non sono altro che la riproduzione e cristallizzazione di azioni abitudinarie. E di conseguenza l’interesse dei neo-istituzionalisti si concentra sulla stabilità e l’omogeneità nella vita delle organizzazioni. Come affermano DiMaggio e Powell a questo proposito: Il neoistituzionalismo assume come punto di partenza la sorprendente omogeneità di procedure e di accordi che si osserva nel mondo del lavoro, nelle scuole, negli stati e nelle grandi imprese […]. La caratteristica costante e ripetitiva di gran parte della vita organizzata si può spiegare non solo in riferimento ad attori individuali che tendono alla massimizzazione, ma anche e soprattutto in un’ottica che colga la persistenza delle pratiche sia nella loro caratteristica di essere date per scontate, sia nella loro capacità di riprodursi in strutture che in qualche misura si autosostengono (Powell e DiMaggio 1991a, trad. it. 2000, p. 16).
10.2 I concetti fondamentali 10.2.1 Le organizzazioni come agenti di istituzionalizzazione Abbiamo visto come il neo-istituzionalismo ponga attenzione alle regole, o meglio alle regolarità nell’agire organizzativo, in particolar modo all’aderenza a quelle che possono essere definite regole normative e regole costitutive (Barbera e Negri 2008). Le prime si riferiscono a specifiche norme sociali e concezioni rispetto a ciò che è appropriato fare in una data situazione (March e Olsen 1989); le seconde si manifestano in schemi mentali e regole di senso che definiscono la logica della situazione e la parte assegnata a ogni attore (Powell e DiMaggio 1991b). Venendo alle prime, l’aspetto normativo dell’azione organizzativa è stato approfondito soprattutto nella scienza politica. I due autori di riferimento sono James March e Johan Olsen (1989), che si sono soffermati sull’importanza di valori e norme. I valori sono concezioni di ciò che è preferibile o auspicabile, servono a costruire criteri in base ai quali è possibile valutare strutture diverse e diversi comportamenti. Le norme specificano quali comportamenti dovrebbero venire adottati e quali mezzi possono essere considerati legittimi per il perseguimento di determinati valori o fini. I sistemi normativi non definiscono scopi e obiettivi, ma designano i modi più appropriati per raggiungerli. La distinzione proposta da March e Olsen (1979) tra logica strumentale e logica
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dell’appropriatezza chiarisce l’aspetto normativo dell’azione organizzativa. Seguendo una logica strumentale gli individui sarebbero portati a chiedersi: «Cosa ci guadagno in questa situazione?», mentre seguendo una logica normativa ispirata all’appropriatezza ci si chiede: «Dato il mio ruolo in questa situazione, che cosa sarei tenuto a fare?». Secondo le parole di March e Olsen: La proposizione secondo cui le organizzazioni seguono delle regole, cioè che buona parte del comportamento in un’organizzazione viene specificato da procedure operative standardizzate, è piuttosto comune nella letteratura sulle burocrazie e sulle organizzazioni. […] Essa può essere estesa alle istituzioni politiche. Molti comportamenti che osserviamo nelle istituzioni politiche riflettono il modo routinizzato in cui la gente fa quello che è tenuta a fare (March e Olsen 1989, trad. it. 1992, p. 47).
Da queste considerazioni emerge chiaramente che l’azione organizzativa è istituzionalizzata in quanto portato della riproduzione di routine, procedure, convenzioni, ruoli. Descrivere il comportamento organizzativo come guidato dall’aspetto normativo significa dunque considerare l’azione come la corrispondenza di una situazione a quanto viene imposto da una posizione. Venendo alle seconde, le regole costitutive – aspetto centrale sul quale la scuola sociologica neo-istituzionalista si interroga –, esse si riferiscono invece alla dimensione cognitiva dell’azione organizzativa. Si riferiscono ai sistemi simbolici e ai significati condivisi considerati come fattori esterni agli attori che hanno un’influenza determinante sul corso delle azioni organizzative. Come affermano Meyer, Boli e Thomas in un importante articolo programmatico della scuola neo-istituzionalista: La maggior parte della teoria sociale considera gli attori e le loro azioni come entità reali, esistenti a priori […], noi interpretiamo l’azione più come l’attuazione di programmi o script istituzionali che come il risultato di scelte, motivazioni e obiettivi indipendenti ed endogeni (Meyer, Boli e Thomas 1987, p. 13).
Come chiarisce a questo proposito Scott: Gli schemi istituzionali definiscono i fini e influenzano i mezzi con cui gli interessi vengono perseguiti e determinati. Sono fattori di carattere istituzionale che fanno sì che gli attori all’interno di un contesto chiamato impresa perseguano il profitto; che i funzionari di varie agenzie organizzative agiscano per l’appropriazione di fondi sempre più ingenti; che i membri dei partiti politici vadano alla ricerca dei voti; e che gli studiosi all’interno di quei contesti molto speciali chiamati università e centri di ricerca si sforzino di produrre pubblicazioni (Scott 1987, p. 508).
Il nodo centrale dell’analisi organizzativa ruota intorno alla cristallizzazione di logiche di azione, tanto che sono le organizzazioni stesse a diventare agenti di istituzionalizzazione. Come nota a questo proposito Richard Scott: In quanto studiosi delle organizzazioni, il nostro compito non è solo quello di spiegare perché un ospedale è più efficiente di un altro, o perché certe scuole sono meno tranquille di
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altre: noi dobbiamo spiegare perché alcune organizzazioni vengono costituite come ospedali e altre come scuole. Dobbiamo domandarci da dove vengono i diversi modelli organizzativi, in che modo si riproducono, come si trasformano (Scott 1995, trad. it. 1998, p. 68).
10.2.2 Organizzazioni e ambiente istituzionale Un aspetto essenziale nell’approccio neo-istituzionalista riguarda la centralità delle relazioni interorganizzative (Meyer e Rowan 1977; DiMaggio e Powell 1983). Il problema fondamentale a cui dare risposta cambia rispetto a precedenti analisi da cui nondimeno i neo-istituzionalisti traggono ispirazione. Se il programma di ricerca di Selznick si condensava, come abbiamo visto, nella domanda: «Come avviene che le organizzazioni modificano gli scopi originari per cui sono sorte?», per i neo-istituzionalisti la domanda di ricerca si modifica e diventa: «Per quale ragione organizzazioni dello stesso tipo sono così simili fra loro?». Sotto questo profilo, l’analisi di Meyer e Rowan (1977) è illuminante. Secondo i due studiosi, la struttura formale e i processi di razionalizzazione dipendono da modelli di azione istituzionalizzati, legittimati e accettati socialmente. Le organizzazioni sono infatti incorporate in contesti istituzionali caratterizzati da un insieme di regole e di criteri di legittimità che ne definiscono le modalità di funzionamento e i livelli di successo. Ciò che diviene importante è il processo di istituzionalizzazione mediante il quale «i processi sociali, gli obblighi e le condizioni reali vengono ad assumere uno status di norma nel pensiero e nell’azione sociale» (Meyer e Rowan 1977, trad. it. 1986, p. 239). Tale considerazione è tratta da una ricerca sul sistema scolastico americano dalla quale emergeva l’impossibilità di controllare l’effettiva efficacia dell’insegnamento sul futuro professionale degli studenti. Per questo il sistema scolastico ha elaborato delle procedure sostitutive basate su parametri che valutano insegnanti, allievi, contenuti didattici, qualità delle scuole. Ma poiché la reale efficacia di quei parametri non può essere verificata in modo diretto, Meyer e Rowan deducono che essi rispecchiano le convinzioni socialmente prevalenti su cosa sia l’efficacia formativa (Bonazzi 2006). E dal momento che quelle convinzioni non sono suffragate da prove empiriche, sono soltanto un mito. Pertanto, «il criterio per valutare la qualità e l’efficacia di una scuola non è altro che il grado in cui essa si conforma al cerimoniale delle procedure stabilite per onorare il mito di ciò che si ritiene sia la qualità e l’efficienza dell’insegnamento» (ivi, p. 111). Quanto è più alta la conformità, tanto più la scuola sarà riconosciuta come efficiente e i suoi allievi saranno i più richiesti sul mercato del lavoro. In questo senso se ne deduce che: Le posizioni, le politiche, i programmi e le procedure delle organizzazioni moderne sono imposti in gran parte dall’opinione pubblica, dal giudizio di importanti portatori di interesse nei confronti dell’organizzazione, dalle conoscenze legittimate attraverso il sistema scolastico, dal prestigio sociale, dalle leggi e dalle definizioni di negligenza e prudenza usate dai tribunali. Questi elementi della struttura formale sono manifestazione di possenti regole istituzionali che fungono da miti altamente razionalizzati, vincolanti per particolari organizzazioni (Meyer e Rowan 1977, trad. it 1986, p. 242).
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Standard e regole sono perciò implementati da strutture amministrative e tecniche caratterizzate da ideologie, culture, professionalità e tradizioni che informano la prassi organizzativa. Le organizzazioni, dunque, operano in contesti istituzionali al cui interno la ricerca di legittimazione sociale è estremamente importante. E l’omologazione a concezioni cerimoniali ritualizzate – i miti – promette alle organizzazioni stabilità e continuità di risorse, proteggendole dai rischi della delegittimazione. Da questa ipotesi discende che l’oggetto principale di ricerca è caratterizzato dalle pressioni che l’ambiente istituzionale esercita sulle organizzazioni, affinché si adeguino ai criteri di razionalità cerimoniale prevalenti: un processo che la teoria neoistituzionalista definisce isomorfismo e che porta le organizzazioni ad assomigliarsi. Il centro dell’interesse analitico non è la singola organizzazione, ma l’intero mondo sociale ed economico fittamente popolato da organizzazioni di ogni tipo – enti internazionali, nazionali e locali, associazioni di categoria, di consulenza, agenzie di controllo – che nell’insieme formano una cornice istituzionale che stabilisce un fitto reticolo di normative a cui le organizzazioni devono attenersi per avere riconoscimento e successo, tanto che non è possibile comprendere l’azione di singole organizzazioni se non si tengono in conto le pressioni ambientali. Processi di isomorfismo e miti razionalizzati sono legati, poiché i criteri che governano lo sviluppo dei primi sono il prodotto di potenti regole istituzionali – i miti razionalizzati – che non sono altro che credenze rese plausibili da un discorso logico. Ne sono un esempio le normative sulla qualità dei prodotti e dei processi organizzativi, i requisiti tecnici per esercitare una professione, nuove teorie manageriali che improvvisamente si impongono e che premono affinché le organizzazioni si conformino, nuove teorie pedagogiche che indicano nuovi programmi didattici come più efficaci di quelli passati, nuove idee su come incrementare l’occupazione che spingono le politiche pubbliche ad aderire a nuovi approcci ecc. L’affermazione di un mito razionalizzato favorisce l’affermarsi di un nuovo campo di attività in cui si scatena la corsa di vecchie e nuove organizzazioni per soddisfare il business alimentato dal mito stesso. Non è detto, tuttavia (Bonazzi 2006, p. 113), che la crescente omogeneizzazione corrisponda a maggiore efficienza, dal momento che la diffusione di un’innovazione non ha tanto l’effetto di migliorare le prestazioni, quanto quello di incrementare la legittimazione sociale di chi la accetta. Meyer e Zucker (1989) hanno evidenziato, a questo proposito, l’abilità delle organizzazioni di riflettere i diversificati interessi di disparati gruppi sociali in grado di assicurare sostegno, legittimazione e sopravvivenza, anche in presenza di risultati non brillanti. In questo senso, razionalità ed efficienza possono essere separati analiticamente, dando luogo anche alla possibilità di condotte organizzative razionali, ma estremamente inefficienti (Rizza 1999). Come nota a questo proposito Bonazzi: Quanti investimenti nella formazione professionale, in consulenze esterne, in iniziative di pura immagine sono decisi non perché se ne conosca a fondo l’utilità, ma per un semplice effetto imitativo, perché sono alla moda e aiutano a legittimare una politica? E, d’altra parte, come si fa a dire che sono così inutili, se proprio in virtù di quegli
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investimenti si crea un clima interno più favorevole, i mass-media diffondono un’immagine positiva e le banche concedono prestiti più facilmente? In un contesto istituzionalizzato diventa difficile distinguere gli stretti calcoli aziendali dai ritorni d’immagine legati al fatto che l’impresa ha onorato convinzioni e convenzioni (Bonazzi 2006, p. XII).
Si tratta di tendenze che favoriscono, nelle organizzazioni, la creazione di due strutture e processi separati, decoupled (Brunsson 1989): la prima più incline a seguire le regole dell’efficienza, la seconda maggiormente consona alla dimensione informale, rituale, cerimoniale. Ne costituiscono degli esempi i complessi sistemi di calcolo degli investimenti di cui spesso le aziende si dotano, ma che non utilizzano, o la sofisticata raccolta di minuziose informazioni che alla fine non costituiscono la base per le decisioni. DiMaggio e Powell (1983) assumono come punto di partenza della loro analisi queste conclusioni, ossia la tendenza delle organizzazioni a diventare simili ma non necessariamente più efficienti, aggiungendo, però, che restano da spiegare le ragioni per cui questo fenomeno accade. È a questo proposito che i due autori utilizzano il concetto di campo organizzativo, definito come un insieme di organizzazioni che, considerate complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale: fornitori, consumatori di risorse e prodotti, agenzie di controllo e altre organizzazioni che producono prodotti o servizi simili (Powell e DiMaggio 1991b, trad. it. 2000, p. 90).
All’interno di un campo organizzativo interagiscono vari attori (imprese, organizzazioni pubbliche, associazioni di categoria, associazioni professionali, sindacati) che istituiscono credenze legittimate cui adeguarsi, influenzando il corso dell’azione economica. Un campo organizzativo è formato da soggetti che si contaminano vicendevolmente e che contribuiscono a definire standard di riferimento riguardo a differenti dimensioni della vita di una organizzazione (per esempio, le politiche di gestione del personale, lo sviluppo di nuovi prodotti/servizi, la ricerca di nuove soluzioni per la risoluzione di problemi ecc.). è all’interno di un campo organizzativo che si definiscono le soluzioni più appropriate per un determinato problema: per esempio, come si recluta la manodopera, quali sono le strategie adeguate per conquistare nuovi mercati, quali certificazioni di qualità acquisire. Di conseguenza, un campo organizzativo è una galassia varia ed eterogenea, dai confini non chiaramente definiti, ma con stabili e fitte relazioni interne. Il campo organizzativo è quindi determinato dal livello istituzionale e la sua strutturazione è definita da quattro vettori: 1) la crescita dell’interazione tra le organizzazioni presenti; 2) l’emergere di strutture interorganizzative di dominazione e di modelli di coalizione ben definiti; 3) la crescita delle informazioni con cui le organizzazioni operanti in un campo hanno a che fare; 4) il formarsi, tra i membri delle organizzazioni, della consapevolezza di essere coinvolti in un’impresa comune (DiMaggio e Powell 1983).
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Ne consegue che fare ricerca utilizzando il concetto di campo organizzativo significa, in prima istanza, studiare il cambiamento in quanto portato dell’interazione fra tutti gli attori interessati al processo: autorità pubbliche di vario tipo, imprese private, associazioni, gruppi professionali, comunità accademiche, consumatori ecc. In secondo luogo, scompare la distinzione tra organizzazioni che subiscono pressioni istituzionali e altre che le esercitano. Il problema di ricerca, pertanto, non è quello di analizzare chi si adegua alle pressioni, ma come esse circolano nel campo, come sono interpretate e recepite e con quale velocità. L’isomorfismo, però, secondo DiMaggio e Powell (1983) non è un processo indistinto, ma varia a seconda della modalità e della velocità con cui si sviluppa. Perciò essi distinguono tre tipi di isomorfismo: coercitivo, mimetico e normativo. All’origine del primo ci sono le pressioni esterne che obbligano le organizzazioni a conformarsi: leggi, normative, clausole contrattuali tra imprese madri e subfornitrici. L’isomorfismo mimetico è determinato dall’incertezza dell’ambiente, che spinge le organizzazioni a imitarsi, nella convinzione che se la maggior parte delle organizzazioni hanno strutture simili, sia razionale riprodurre quei modelli allo scopo di ottenere legittimazione. Infine, l’isomorfismo normativo deriva da credenze diffuse circa il modo migliore di condurre le imprese. In questo caso il cambiamento non è determinato dalla costrizione o dall’incertezza, ma dalla convinzione che le nuove pratiche siano superiori a quelle precedenti. Ne è un esempio l’influenza che ha sulle organizzazioni la diffusione di nuove teorie manageriali, di nuove idee su come reclutare, sulle caratteristiche delle competenze professionali cruciali. Concludono a questo proposito Powell e DiMaggio che «molti percorsi di carriera sono così strettamente controllati sia all’entrata sia durante il loro corso, che gli individui in grado di arrivare al vertice sono indistinguibili tra di loro».
10.3 Tre ricerche empiriche In questo paragrafo prenderemo in considerazione tre ricerche, una di Marco Orrù, Nicole Woolsey Biggart e Gary G. Hamilton (1991), una di Paul DiMaggio (1991) e una di Walter W. Powell, Aaron Horvath e Christof Brandtnder (2016). Sarà attraverso di esse che proveremo a chiarire alcuni dei concetti fino a qui illustrati. 10.3.1 Isomorfismo e imprese asiatiche Nella ricerca «Organizational isomorphism in East Asia: Broadening the New Institutionalism», Orrù, Biggart e Hamilton esaminano il tessuto delle imprese di tre diverse economie di mercato asiatiche: Taiwan, Giappone e Corea del Sud. L’analisi si incentra sul rapporto tra le logiche che organizzano i gruppi di interesse all’interno delle strutture organizzative e interorganizzative delle imprese e il contesto istituzionale e culturale nei tre paesi asiatici. I gruppi di imprese nei tre paesi asiatici differiscono qualitativamente, comportando varietà importanti nell’organizzazione dei
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lavoratori, nel carattere delle relazioni contrattuali tra aziende, nei modelli di investimento. Ognuno di questi gruppi dà forma non solo ai rapporti aziendali, ma anche alle relazioni sociali all’interno di altre istituzioni. Sfere diverse – famiglia, politica, economia – utilizzano le stesse logiche per organizzare i propri membri e per modellare le interazioni. Da queste prime considerazioni emerge come l’obiettivo degli autori sia mostrare che l’isomorfismo competitivo che si sviluppa nel mondo delle imprese coesiste con quello istituzionale e che tale fenomeno non necessariamente comporta una perdita in termini di efficienza di mercato. I paesi asiatici esaminati sarebbero in questo senso un esempio in cui le caratteristiche istituzionali e la cultura diffusa nella società rappresentano un elemento che favorisce il successo economico e viceversa. La competizione tecnica e l’ordine di mercato sono potenti catalizzatori di isomorfismo interorganizzativo, ma esso è generato dai contesti istituzionali e dalla cultura. Per mettere in luce questi elementi, la ricerca prende in considerazione, in ognuno dei tre paesi, i gruppi di imprese più importanti (le imprese in tutti e tre i paesi formano gruppi interconnessi su base non episodica) e indaga l’isomorfismo tra i gruppi. In Giappone esistono due tipi di grandi gruppi industriali: quelli operanti su mercati diversi e quelli che operano sullo stesso mercato. I gruppi sono relativamente pochi (gli autori ne esaminano complessivamente sedici), anche perché ogni gruppo è composto da circa 60 imprese, con una media di dipendenti per azienda vicina ai 3000. Esaminando le caratteristiche dei gruppi giapponesi si evidenziano sostanzialmente due tipi di forme organizzative: uno orizzontale tra settori industriali non competitivi in cui non compare un’impresa dominante; uno verticale in cui i rapporti tra imprese sono di tipo gerarchico. L’intensa interdipendenza delle imprese giapponesi è testimoniata anche dalla forte compartecipazione azionaria. Tutti i gruppi hanno almeno la proprietà di un istituto bancario e una compartecipazione proprietaria nella banca locale. L’assetto istituzionale stimola la massimizzazione del profitto e la condivisione del rischio nel gruppo, sicché le imprese hanno molti rapporti di reciprocità. La cooperazione e l’assetto comunitario, in questo senso, sono un dovere istituzionalmente prescritto. Gli autori definiscono l’isomorfismo così individuato dei gruppi giapponesi di tipo coercitivo «che dipende dalle aspettative culturali delle società nelle quali le imprese operano» (DiMaggio e Powell 1983, p. 150) I gruppi di imprese coreani (50 quelli investigati nella ricerca) si caratterizzano per essere composti da un numero di imprese medio (undici) e da un numero di dipendenti medio per impresa (1440) notevolmente inferiore rispetto al caso giapponese. I gruppi coreani tendono a internalizzare la produzione, hanno una struttura fortemente gerarchica (normalmente l’impresa principale ha una sola famiglia proprietaria) e non si evidenziano rapporti di reciprocità tra imprese. Ai tempi della ricerca erano poche le imprese quotate in borsa, nonostante lo stato coreano le incentivasse a rivolgersi al mercato. Le compartecipazioni, inoltre, non riguardavano mai l’impresa centrale ed erano ridotte rispetto al modello giapponese. Se tutti i grandi gruppi giapponesi posseggono una propria banca, nei gruppi coreani ciò non accade mai. È lo stato coreano che ha fornito ingenti capitali alle imprese per stimolarne la crescita e che si riserva il diritto di nominare il management bancario. Lo stato
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è, inoltre, il maggiore azionista di gran parte dei gruppi bancari coreani ed esercita sulle imprese una pressione basata sulla logica patrimoniale. Sebbene lo sviluppo delle imprese e dei gruppi coreani sia più recente rispetto all’esempio giapponese, gli autori sostengono che i processi di isomorfismo prodotti dall’azione dello stato e rispecchiati anche nelle strutture familiari siano essenzialmente diversi da quelli giapponesi. In quest’ottica, i condizionamenti istituzionali danno forma ad assetti organizzativi specifici, limitando alcune possibilità, rendendo alcune forme di azione probabili o più ragionevoli poiché beneficiano di legittimazione sociale. A Taiwan sono stati esaminati 96 gruppi di dimensioni ridotte rispetto ai due casi precedenti (i dipendenti medi per azienda si aggirano intorno a 400 e mediamente ogni gruppo è composto da otto imprese). La grande differenza in termini di dimensioni trova riscontro anche rispetto alla centralità dei gruppi fra imprese nell’economia. Le aziende leader di settore a Taiwan non fanno parte, infatti, di gruppi e in generale i gruppi di imprese sono solo una piccola fetta delle imprese totali, oltretutto non la più importante per l’economia taiwanese. Lo stato taiwanese non interferisce nel settore privato, i gruppi hanno interconnessioni labili e non integrate verticalmente. La logica organizzativa dominante è quella familiare: le imprese sono familiari e per lo più utilizzano la famiglia allargata per il soddisfacimento dei propri bisogni finanziari. Le compartecipazioni sono rare e di solito si tratta di cariche affidate agli stessi attori che sono proprietari dell’impresa principale, elemento che evidenzia come il modo per mantenere interconnessioni tra imprese siano i rapporti personali e quelli tra famiglie. L’isomorfismo tra imprese taiwanesi, pertanto, è in questo caso il prodotto delle strutture familiari del mondo cinese. Dall’insieme dell’analisi proposta da Orrù, Biggart e Hamilton emerge come i processi di isomorfismo tra imprese nei tre paesi asiatici non siano essenzialmente il frutto di spinte di mercato, quanto l’esito di pressioni isomorfe: la struttura istituzionale e culturale impone vincoli normativi entro cui si strutturano campi organizzativi coerenti a tali pressioni, con organizzazioni efficienti economicamente perché embedded nella cultura e legittimate socialmente. 10.3.2 Il campo organizzativo: i musei statunitensi Questa ricerca di Paul DiMaggio ha una serie di pregi importanti: l’originalità dell’oggetto di ricerca, ossia la nascita dell’organizzazione dei musei statunitensi così come li conosciamo oggi; l’imponenza e l’ampiezza delle fonti documentali cui attinge in chiave storica esaminando i cambiamenti occorsi tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento in quel campo organizzativo. La ricerca ha, inoltre, tre esiti di una certa rilevanza: mostra la tendenza del campo organizzativo a strutturare processi di istituzionalizzazione che conducono a un isomorfismo di tipo normativo per effetto di innovazioni introdotte dai professionisti operanti in quel campo. In secondo luogo, viene evidenziata l’importanza del conflitto nel dare forma ai cambiamenti organizzativi, un elemento non sempre valorizzato appieno dalla teoria istituzionalista. Infine, la ricerca evidenzia quanto il campo or-
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ganizzativo e le relazioni interorganizzative abbiano modellato la professionalizzazione degli operatori museali negli Stati Uniti. Nella sua ricerca, DiMaggio mostra come alla fine della guerra civile gli Stati Uniti sperimentassero due spinte opposte rispetto al ruolo e agli scopi che i musei avrebbero dovuto soddisfare: una conservatrice e una riformista. La prima vedeva i musei come luoghi in cui collezionare oggetti di pregio, rari e antichi, senza prefiggersi alcuno scopo educativo nei confronti delle masse, perché destinati a un pubblico ristretto e a un’élite di esperti. Per i riformisti, invece, i musei avrebbero dovuto avere anche il compito di avvicinare l’arte a masse più vaste, operando in questa direzione sia nella scelta degli oggetti collezionabili, sia connettendo i musei a interventi educativi. Il gruppo vincente risulterà essere quello dei riformisti, principalmente grazie alle scelte degli operatori museali. Il processo di cambiamento delle strutture museali e l’imporsi di specialisti abilitati a lavorare nel settore avviene tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, quando le sovvenzioni ai musei triplicano e nella maggior parte delle grandi città nordamericane nascono musei cittadini. Il reclutamento dei fondi museali avviene principalmente attraverso donazioni private. I finanziatori sono per lo più famiglie di elevata classe sociale, portatrici di una visione conformista e conservatrice rispetto agli scopi dei musei. L’aumento delle donazioni e la crescita delle strutture museali sul territorio ha, però, importanti conseguenze. I musei, infatti, a questo punto hanno bisogno di figure professionali in grado di dirigerli. Di conseguenza, le università più prestigiose investono sui corsi di laurea e le specializzazioni in belle arti, con il risultato di ampliare le collaborazioni con i musei, i quali, in questa direzione, finiscono per reclutare il personale proprio dalle università, rafforzando, così l’istituzionalizzazione della professione museale. Questi professionisti, opportunamente formati, esprimono però una visione riformista rispetto agli scopi dei musei e si trovano in una posizione ambivalente: da un lato devono soddisfare i finanziatori, portatori di una visione tradizionalista rispetto al ruolo dei musei, dall’altro sono protagonisti di convinzioni riformiste. Il conflitto tra professionisti dei musei e finanziatori si gioca prevalentemente al di fuori dell’organizzazione museale nell’ambito di una fitta rete di relazioni informali e fra organizzazioni parallele. Un ruolo determinante è giocato da una fondazione privata, la Carnegie Corporation, che finanzia circa l’80 per cento delle donazioni complessive in quel periodo, il cui presidente, Frederick Keppel, è incline ad appoggiare una visione innovativa rispetto al ruolo dei musei. Keppel finanzia le università, l’American Association of Museums, composta dai direttori dei musei, e una moltitudine di pubblicazioni di settore, conferenze e mostre itineranti in tutto il paese. La fitta rete di relazioni tra associazioni, professionisti museali e università che si viene a istituzionalizzare promuove l’aumento anche dei finanziamenti governativi, rendendo più indipendenti gli operatori professionisti dai finanziatori privati. Il risultato è un forte consolidamento del campo organizzativo composto anche dalle organizzazioni parallele ai musei e dominate dalla presenza dei professionisti volti a sostenere la causa riformista. La ricerca di DiMaggio mostra così l’importanza delle convinzioni, della cultura dei professionisti di un settore nel dare forma ai processi di istituzionalizzazione di
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un campo organizzativo e svela i meccanismi che premono verso un isomorfismo di tipo normativo di cui sono protagonisti gli operatori del settore. Un altro aspetto rilevante della ricerca di DiMaggio è la messa in luce del conflitto, del contrasto fra visioni diverse di quel mondo e la ricerca di legittimazione che struttura il campo di battaglia tra innovatori e conservatori: un campo di battaglia che non ha il suo epicentro all’interno di singole organizzazioni, quanto in una più vasta arena esterna composta da molte organizzazioni parallele. 10.3.3 Isomorfismi mimetici: il web e le organizzazioni senza scopo di lucro a San Francisco La ricerca di Powell, Horvath e Brandtnder è un’indagine longitudinale, condotta dal 2000 al 2014 su un campione di circa 500 organizzazioni senza scopo di lucro con sede nella baia di San Francisco. I risultati di ricerca sono apparsi a più riprese in sedi editoriali differenti. Alcuni dei risultati emersi, pubblicati nel 2009, hanno evidenziato l’istituzionalizzazione nelle organizzazioni no-profit di alcune figure professionali, analogamente a quanto fatto da DiMaggio in riferimento ai professionisti museali. La managerializzazione delle aziende no-profit, mostrano gli autori, se da un lato ha creato maggiore razionalità organizzativa, dall’altro ha fatto perdere in capacità di sperimentazione. La conseguenza è stata un processo di isomorfismo che caratterizza l’intero settore no-profit nell’area indagata. Dalla ricerca si osserva che le pratiche organizzative di un museo, quelle di un’associazione genitori-insegnanti o quelle di un’associazione religiosa non mostrano difformità degne di nota. Standardizzazione e orientamento al risultato pervadono il settore. Più recenti risultati di ricerca comparano varie fonti di dati: i siti web delle organizzazioni, dati amministrativi e interviste in profondità. Nel 2014 è stata inoltre condotta una survey di follow up sul web con i dirigenti delle organizzazioni e sono stati analizzati estensivamente dati presenti sui siti Internet; sono state anche svolte ulteriori interviste in profondità, ma su un campione ridotto di organizzazioni (circa 200). All’inizio della ricerca, solo il 30 per cento del campione aveva un sito web e in pochissimi casi esso era interattivo. Nel 2014 più dell’85 per cento delle aziende ha sviluppato una propria pagina web interattiva che contiene la presentazione dell’azienda per chi intenda lavorarci come volontario, voglia sostenerla con finanziamenti o possa fruire dei suoi servizi. Powell e colleghi mostrano come gli scopi aziendali illustrati sui siti web delle organizzazioni senza scopo di lucro si siano modificati nel corso degli ultimi dieci anni, divenendo più astratti. Non solo: gran parte delle organizzazioni ha un profilo Facebook, partecipa a blog, twitta e risponde ai commenti e alle critiche sul web. La rapidità e l’ampiezza delle interconnessioni della rete Internet permette alle organizzazioni senza scopo di lucro di raggiungere un pubblico molto più ampio. Tuttavia, gli autori della ricerca notano come la comunità di Internet imponga forti pressioni sulle organizzazioni affinché:
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a) aggiornino continuamente i contenuti. Un’organizzazione potrebbe essere attiva ed efficace ma non dedicare risorse al web; ciò ne darebbe però un’immagine inefficiente, spingendo eventuali finanziatori a destinare altrove il proprio danaro; b) siano trasparenti, negli scopi, nei risultati ottenuti esposti in modi quantificabili e comparabili e rispetto alla rete interorganizzativa di cui fanno parte; c) dirigano i propri sforzi verso alcune attività piuttosto che verso altre. I manager delle organizzazioni confermano di prestare enorme attenzione a tutto ciò che si muove sul web. Uno spunto di grande interesse deriva dal fatto che, nei rari casi in cui non vi è perfetta corrispondenza tra le informazioni fornite dalle pagine web e altre fonti di dati, i dirigenti delle organizzazioni senza scopo di lucro analizzate confermano che la discrepanza sia spesso determinata da un’aspirazione, da un progetto ancora non ben definibile. Così il processo diventa ricorsivo: il digitale stimola le organizzazioni a modificarsi, ma le organizzazioni sfruttano il virtuale per prefiggersi degli scopi e realizzarli. L’esito finale della ricerca è il disvelamento, anche in questo caso, dei processi di isomorfismo prodotti dal campo organizzativo di cui le organizzazioni senza scopo di lucro fanno parte. Un campo organizzativo in cui la rete Internet e le compagnie che vi operano creano grande standardizzazione e omologazione fra organizzazioni differenti. Come affermano sotto questo profilo gli autori, «anche le pagine web creano isomorfismo» (Powell, Horvath e Brandtner 2016, p. 113) avviene così che organizzazioni profondamente diverse (club, associazioni di football, case per donne maltrattate, associazioni musicali e religiose) rivelano, nella loro descrizione online, molte similarità. Ciò è spiegato evidenziando quanto la presenza online sia fonte di reputazione e contribuisca a generare maggiore legittimità sociale alle organizzazioni senza scopo di lucro, creando un clima interno più favorevole, un’immagine positiva e incrementando la possibilità di trovare nuovi finanziatori.
10.4 Il contributo del neo-istituzionalismo agli sviluppi del pensiero organizzativo Uno dei principali risultati dell’analisi neo-istituzionalista è di avere attirato l’attenzione sull’importanza dei contesti istituzionali in cui le organizzazioni si trovano a operare, intesi come l’insieme degli schemi culturali e normativi che influenzano i comportamenti: sia quelle regole che definiscono ciò che è appropriato fare in una determinata situazione, sia i copioni che gli attori recitano per effetto di pressioni che provengono dall’esterno. Così, le strutture formali – come le costituzioni, le strutture associative, le professioni, gli enti di regolazione – sono tornate a essere un importante oggetto di analisi. È merito dei neo-istituzionalisti se le organizzazioni non sono più trattate come scatole nere, meri involucri al cui interno attori ottimizzatori si scambiano risorse ed effettuano transazioni, e si riconosce, ormai, che le caratteristiche strutturali delle organizzazioni condizionano i processi e i risultati economici.
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Un altro merito del neo-istituzionalismo è l’emergere di un nuovo livello di analisi: quello che fa riferimento ai campi organizzativi, ossia sistemi intermedi, o meso, che uniscono contesti istituzionali macro e singole organizzazioni. È indispensabile focalizzare i processi che avvengono nei campi organizzativi, le pressioni che si sprigionano dal loro interno, le logiche che li determinano, al fine di capire il funzionamento di interi settori dell’economia e della società. Tale livello di analisi mette in luce la centralità dei legami fra organizzazioni; una dimensione che nelle ricerche più recenti della corrente neo-istituzionalista porta a soffermarsi sulla centralità delle reti interorganizzative. Per esempio Powell (2003) ha mostrato quanto la centralità di un’impresa all’interno del network favorisca la crescita della sua reputazione e garantisca l’accesso a risorse importanti, attraendo personale qualificato e partecipando a progetti innovativi. In altre parole, la condizione essenziale per la crescita delle organizzazioni del XXI secolo è la loro collocazione al crocevia di reti di relazione. Si tratta di dimensioni analitiche che ampliano l’interesse del neo-istituzionalismo, in un primo momento concentrato sulle organizzazioni del settore del no-profit e dell’amministrazione pubblica (scuole, università, ospedali). La tendenza era di separare l’analisi fra settori prevalentemente condizionati dalle forze di mercato o altamente tecnologici e quelli a maggiore istituzionalizzazione e cogenza della cornice normativa esterna, soffermandosi soprattutto su questi ultimi. Più recentemente anche Walgenbach, Drori e Höllerer (2017) hanno esteso la teoria neo-istituzionalista ai fenomeni di mercato, applicandola ai processi organizzativi delle compagnie multinazionali, evidenziando la potenza esplicativa di questo approccio nel rendere conto dell’omogeneizzazione globale delle imprese in un gioco di interconnessione tra fenomeni globali e forze locali. Sotto questo profilo è stato ulteriormente mostrato come i cambiamenti nell’economia e all’interno delle organizzazioni a stretto contatto con le pressioni del mercato non corrispondano ad astratti canoni di efficienza, ma siano il frutto di complessi giochi che riguardano sia il potere nei campi organizzativi, sia le definizioni socialmente legittimate di ciò che è giusto o auspicabile. Emerge così chiaramente come tutte le organizzazioni, non solo quelle pubbliche maggiormente sottoposte a pressioni normative esterne ed esigenze di legittimazione, abbiano una doppia faccia: quella più razionale e incline a seguire criteri economici e quella cerimoniale, preoccupata di corrispondere alle aspettative esterne (2 Box 10.1). Potremmo dire, l’ipocrisia organizzativa non come condizione di eccezione, ma come elemento del tutto naturale.
Letture di approfondimento Bonazzi G. (2006). Come studiare le organizzazioni, Bologna, il Mulino. Powell W.W., DiMaggio P. (eds.) (1991). The New Institutionalism in Organizational Analysis. Chicago, University of Chicago Press (trad. it. Il Neo-istituzionalismo nell’analisi organizzativa, trad. di L. Chiesara, Milano, Comunità, 2000). Scott R.W. (1995). Institutions and Organizations, Thousands Oaks (CA), Sage (trad. it. Istituzioni e organizzazioni, trad. di A. Visentin, Bologna, il Mulino 1998).
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Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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11.1 Il percorso biografico e intellettuale Luc Boltanski nasce a Parigi, nel 1940, in quella che dal figlio Christophe (2017) è stata raccontata come una «stravagante famiglia intellettuale». Boltanski conclude i propri studi con una tesi supervisionata da Raymond Aron e lega il proprio percorso intellettuale alle strutture dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales. Tra il 1965 e il 1984 è membro del Centre de Sociologie Européenne (EHESS/CNRS), diretto da Pierre Bourdieu (si veda il Cap. 7). La sua attività di ricerca è profondamente influenzata, anche successivamente alla loro rottura nel corso degli anni Ottanta, da Pierre Bourdieu, con il quale è intensamente coinvolto nella realizzazione di Actes de la recherche en sciences sociales, la rivista con cui il gruppo di ricerca di Bourdieu si identifica. Il distacco da Bourdieu e dalla sua «sociologia critica», nonché l’avvio di un suo specifico programma di ricerca, definibile nei termini di una sociologia pragmatica della critica o più recentemente strutturalismo pragmatista (di qui in poi SP), vengono sanciti anche attraverso la fondazione, con Laurent Thévenot, del Groupe de Sociologie Politique et Morale (GSPM, EHESS/CNRS), del quale sarà direttore dal 1985 al 1992. In questi stessi anni prende corpo anche il programma di ricerca dell’economia delle convenzioni (di qui in poi, EC), promossa, oltre che dagli stessi Boltanski e Thévenot, da un ampio insieme interdisciplinare di studiosi (per non ricordarne che alcuni, Alain Desrosieres, François Eymard-Duvernay, Olivier Favereau, André Orléan, Robert Salais) (Borghi e Vitale 2006a; Jagd 2007). Schematizzando un percorso intellettuale assai denso e complesso (Boltanski e Vitale 2006; Susen e Turner 2014), possiamo identificare due grandi fasi. La prima, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta, in cui Boltanski dedica le proprie analisi alle classi e alla stratificazione sociale, indagando il modo in cui tali strutture incidono in sfere diverse dell’esperienza sociale (pratiche mediche, educazione, forme di classificazione sociale e così via). La seconda, a partire dalla metà circa degli anni Ottanta, nella quale le diverse aree di interesse di Boltanski sono sostanzialmente riconducibili a due grandi tematiche: da un lato, quella della nozione di giustizia – per come essa combina le categorie concettuali elaborate nella semantica colta (Luhmann 1983) e le concezioni che gli attori comuni sviluppano nelle circostanze della vita quotidiana – e delle forme di critica che essa alimenta; *
Un ringraziamento particolare va a Tommaso Vitale, senza il cui aiuto questo lavoro sarebbe stato assai più impreciso. La responsabilità del risultato finale, naturalmente, è interamente dell’Autore.
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dall’altro, l’evoluzione del capitalismo e dei regimi di giustificazione (lo «spirito del capitalismo») attraverso i quali si riproducono le condizioni del coinvolgimento individuale nel funzionamento del capitalismo stesso. Entrambe le fasi sono accomunate da un’analisi empirica dell’ideologia, dei processi di creazione e stabilizzazione delle categorie e dall’uso di una pluralità di metodi. Nei paragrafi successivi cercheremo di ricostruire le principali coordinate di queste prospettive di ricerca.
11.2 L’economia morale presa sul serio: coordinate di una prospettiva di ricerca 11.2.1 Superare il «patto di Parsons» Possiamo dire che SP ed EC, coinvolgendo diverse aree disciplinari (sociologia, storia, antropologia, economia, statistica), hanno un comune obiettivo di fondo, cioè indagare i fenomeni e i processi socio-economici (e non solo) mettendo in luce il modo in cui interviene in essi l’intreccio tra diverse dimensioni: quella cognitiva, quella politica e quella morale. Riprendendo una definizione lungamente invalsa in ambito sociologico, si tratta di comprendere il modo in cui dimensioni non economiche giocano un ruolo decisivo (anche) nell’economia. Occorre però fare immediatamente una precisazione in merito al significato di questa formulazione. L’obiettivo di indagare le dimensioni non economiche dell’economia non è da intendersi, come invece è lungamente accaduto nel campo della sociologia economica, nei termini di quello che David Stark (2006, p. 200) ha definito il «patto di Parsons»: «Voi economisti studiate il valore, noi sociologi studieremo i valori. Voi avrete competenza sull’economia; noi affermeremo la nostra competenza sulle relazioni sociali da cui traggono origine le economie». Tale patto, infatti, nel fissare una netta divisione del lavoro tra sociologia ed economia, affida alla prima il compito di indagare dell’economia ciò che ne sta a monte, le relazioni sociali entro le quali i processi economici prendono forma e si evolvono, e ciò che si trova invece a valle, cioè gli effetti che i processi economici hanno sulla società. Delega invece completamente all’economia l’indagine sul merito dei processi economici: l’analisi del codice (il valore) che ne guida il funzionamento e delle modalità con cui esso opera effettivamente nel coordinamento dell’agire economico. Al contrario, secondo la prospettiva che stiamo introducendo, si tratta di superare quella divisione del lavoro scientifico, attraverso un programma di ricerca che sottoponga a indagine temi e fenomeni anche molto diversi, compresi quelli tipicamente economici, e che metta al centro il modo in cui quell’intreccio sopra indicato tra dimensione cognitiva, morale e politica si configura in una cornice unitaria: il processo di categorizzazione. La vita sociale è infatti impregnata di dimensioni normative la cui cogenza, vale a dire la capacità di imprimere un coordinamento di base alla vita collettiva, non è l’esito di decisioni consapevoli, di regole esplicitamente contrattate e neppure di valori cui aderiscono intenzionalmente gli individui. In una prospettiva durkheimiana, i fatti sociali «hanno sempre una loro normatività riconosciuta emoti-
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vamente che indica non solo come il mondo è, ma anche (e meno visibilmente) come il mondo dovrebbe essere» (Borghi e Vitale 2006b, p. 9). È attraverso le categorie che si impongono nel mondo sociale (per esempio, la distinzione tra feto e bambino; oppure le categorie di genere) che la realtà e i mondi possibili prendono forma. Se è vero che la norma è una regola, per il suo potere di coordinare l’agire sociale, è vero anche che non si tratta di un coordinamento meccanico e deterministico. La norma sociale è soggetta a una pluralità di possibilità interpretative e di criteri di valutazione circa la sua effettiva applicazione. Mettendo a frutto un apparato teorico multidisciplinare (ivi, p. 13), la SP e l’EC pongono al centro dell’analisi il processo interpretativo che si lega inevitabilmente all’uso di una norma e all’applicazione di una regola. Agire secondo una norma significa interpretarla; perché l’operazione di interpretazione possa effettivamente compiersi occorre fare riferimento a dei criteri di valutazione (2 Box 11.1). La norma svolgerà effettivamente un ruolo attivo nel coordinamento dell’interazione sociale allorché, a partire da questi criteri di valutazione, sarà stato possibile trovare un accordo. Questo accordo è ciò in cui consiste una convenzione, di cui vediamo immediatamente qualche esempio. 11.2.2 Convenzioni e capacità critiche degli attori Quella secondo la quale in alcuni paesi si guida stando sulla destra, mentre in altri occorre tenere la sinistra è appunto una convenzione; così come è fondato su una convenzione, che associa a determinati colori specifiche possibilità di comportamento, quel banale regolatore del traffico automobilistico che è il semaforo. Per quanto semplici, questi esempi ci mostrano già una caratteristica fondamentale della convenzione, vale a dire la sua natura arbitraria e artificiale. Oltre a inscrivere immediatamente la convenzione nell’ambito dei fenomeni non naturali, sottolineandone così la natura di prodotto sociale, questa osservazione ci indica un ulteriore importante aspetto: una convenzione rimanda a un «orizzonte di possibilità teoriche» (Boltanski e Vitale 2006, p. 107). Facciamo un paio di esempi ulteriori. Il primo: ospitiamo a casa nostra una grande cena, in cui sono presenti in gran numero genitori, suoceri, nipoti, cugini e parenti vari, con alcuni dei quali abbiamo grande confidenza e familiarità, mentre con altri abbiamo rapporti molto più formali; tutto è pronto e dobbiamo cominciare a servire i commensali, ma a questo punto ci chiediamo: da chi dobbiamo cominciare? È più opportuno dare la precedenza agli ospiti anziani? Meglio cominciare dai più piccoli e più impazienti? Prima le donne? Secondo esempio: trovandoci all’estero per un lungo soggiorno di studio, andiamo a nuotare in una piscina poco distante dalla zona in cui abitiamo da pochi giorni. Quando entriamo in acqua la piscina è quasi vuota e cominciamo a nuotare in piena tranquillità, ma dopo un po’ di tempo ci sembra di percepire qualcosa di strano. Ci fermiamo, ci guardiamo intorno. Poi ci rendiamo conto: diverse corsie sono destinate a un solo stile di nuoto e noi stavamo alternando stili diversi in quella assegnata al nuoto a dorso. Questi due esempi ulteriori consentono di vedere come la convenzione intervenga in relazione a un «orizzonte di possibilità teoriche». I criteri a partire dai quali
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istituire un accordo, una convenzione che ci permetta di coordinare adeguatamente le nostre azioni, sono molteplici. Essi mobilitano criteri diversi di valutazione, attinenti di volta in volta a pretese, politico-morali, di giustizia (nell’esempio della cena: a partire da quale valore e schema di priorità sociale si ritiene di selezionare la norma di coordinamento?) e a considerazioni, cognitive, di giustezza (nell’esempio della piscina: quale schema di organizzazione socio-spaziale risulta appropriato per coordinare l’azione di una specifica collettività?). Nella vita sociale sono compresenti molteplici forme di classificazione, in cui criteri di giustezza e di giustizia sono tra loro combinati, che alimentano registri di valutazione differenti e che possono anche entrare tra loro in conflitto. Nel suo lavoro di analisi dei meccanismi di produzione delle disuguaglianze e dello sfruttamento, la SP contribuisce a ricostruire l’orizzonte di possibilità teoriche cui le convenzioni che rintracciamo nella vita sociale rimandano, nonché le contraddizioni che da quella pluralità possono generarsi. Si tratta di una ricostruzione in cui quei registri di giustificazione, a vocazione universale, sono colti nella loro continua interazione con il piano della vita quotidiana e delle situazioni specifiche in cui gli attori agiscono. Un’interazione in cui giocano un ruolo determinante sia la dimensione istituzionale, in cui quei registri si oggettivano, sia l’esperienza soggettiva che gli attori elaborano in situazione: la critica, come vedremo, può generarsi proprio a partire dal non allineamento di queste due dimensioni. Quanto abbiamo fin qui richiamato ci mostra con evidenza alcune tra le principali eredità intellettuali che il programma di sociologia politico-morale e l’EC raccolgono, dall’attenzione alla natura processuale della normatività dei fatti sociali per come essa si configura in forme di classificazione (si veda il Cap. 2), alla centralità del senso e dell’approccio storico-comparativo (si veda il Cap. 1), all’esplicitazione della natura politica dell’economia e dei criteri che ne fondano il funzionamento (si veda il Cap. 3). Ma tutta l’opera di Boltanski è fortemente marcata dall’incontro con ulteriori prospettive di ricerca, come quelle, tra altre, di Albert Hirschman – cui è dedicato uno speciale omaggio in apertura dello studio sul «nuovo spirito del capitalismo» (Boltanski e Chiapello 2014) –, Claude Lévi-Strauss, Fernand Braudel, Edward P. Thompson (Boltanski e Vitale 2006). Oltre a consolidare l’attenzione al modo in cui le dimensioni cognitive, politiche e morali contribuiscono alla formazione dei criteri di coordinamento dell’azione (anche) nell’ambito dell’economia, tali influenze conducono il lavoro di Boltanski verso quello che, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, diviene un motivo fondamentale del suo programma di ricerca, vale a dire il passaggio da una sociologia critica a una sociologia della critica. Esercitato nell’analisi di oggetti empirici differenti (dalla pratica della denuncia attraverso i giornali, ai regimi di giustificazione del coinvolgimento individuale nel capitalismo reticolare, all’argomentazione pubblica del paradigma umanitario e così via) e condiviso con studiosi di altre aree disciplinari (per esempio, lo statistico Alain Desrosières, l’economista Laurent Thévenot), questo passaggio è fondato sul riconoscimento delle capacità critiche con cui gli attori costruiscono il senso della loro esperienza e sull’esigenza di tener conto delle grammatiche del giudizio con cui gli attori de-
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finiscono la realtà nella quale intervengono. Già con L’amour et la justice comme compétences (1990), infatti, Boltanski pone al centro «i fondamenti morali della società prendendo sul serio la capacità delle persone di impegnarsi nella costruzione delle forme quotidiane di normatività», nonché il coinvolgimento attivo degli individui in «dispute quotidiane su concezioni della giustizia differenti e, per molti versi, in competizione» (Susen 2014, pp. 7, 8). Secondo tale prospettiva, dunque, la critica delle condizioni di vita sociale non è prerogativa esclusiva dello scienziato, cui verrebbe così consegnata la competenza dell’individuazione delle ragioni che dovrebbero alimentarla. Essa è riformulata come componente costitutiva della vita quotidiana degli attori sociali; compito della sociologia è quello di rintracciare e dare evidenza a tali capacità critiche, studiarle empiricamente, spiegare ciò che le rende legittime, facendo emergere le linee di tensione lungo le quali esse si generano e l’orizzonte di possibilità che prefigurano. La capacità critica, in questo senso, è una specificazione della capacità umana di giudicare, traducendo poi in prassi e azione tale giudizio. 11.2.3 Capacità critiche degli attori ed «economia morale» Il tema delle capacità critiche degli attori recupera e sviluppa una prospettiva che era già stata introdotta, in particolare nell’analisi storica da E.P. Thompson, nel cercare di comprendere le radici delle cosiddette «rivolte della fame» nell’Inghilterra del XVIII secolo (si veda il Cap. 37). Mostrando tutti i limiti di spiegazioni banalmente materialistiche (l’esclusivo interesse economico, la fame come fatto fisiologico), Thompson evidenzia come in gioco, anche in quei casi, sia un processo valutativo in cui vengono messi all’opera criteri su ciò che giusto e ciò che è legittimo. Thompson definisce sinteticamente l’insieme di questi criteri nei termini di un’economia morale. È naturalmente vero che i disordini e i tumulti sono innescati «dai prezzi saliti alle stelle, dai soprusi dei negozianti, dalla fame». Ma, sottolinea Thompson: Queste rimostranze agivano all’interno della concezione popolare che definiva la legittimità o l’illegittimità dei modi di esercitare il commercio, la molitura del frumento, la preparazione del pane ecc. E questa concezione, a sua volta, era radicata in una consolidata visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità, che, nel loro insieme, costituivano l’“economia morale” del povero (Thompson 1971, trad. it. 1981, p. 60).
E sebbene tale concezione popolare non possa essere propriamente intesa come una visione politica, «non si può nemmeno rappresentarla come apolitica, perché presupponeva una precisa concezione del benessere comune sostenuta con passione» (ibidem). Tali criteri e parametri di giustizia e di legittimità regolano e sanciscono i comportamenti individuali, negli scambi e nelle transazioni, in modo autonomo rispetto ai criteri di valutazione interni all’economia stessa. Si tratta dunque di rintracciare, nelle situazioni concrete, quei quadri politico-morali che innervano le logiche dell’azione sociale, fornendo loro le coordinate all’interno delle quali vengono fissate le convenzioni e strutturando così i regimi di giustificazione dell’agire.
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Il concetto di «economia morale» è stato ripreso più volte, in ambiti disparati, dall’antropologia alla scienza politica o alla storia della scienza, con significati a volte prossimi a quello attribuitogli da Thompson, altre volte significativamente divergenti (Fassin 2014). Nel quadro della prospettiva elaborata da Boltanski, esso consente di guadagnare un importante vantaggio cognitivo, vale a dire quello di riportare l’osservazione sociologica dai margini al cuore stesso dell’agire economico, evitando interpretazioni che lo riconducono esclusivamente alle proprietà psicologiche dell’attore o al puro calcolo di un attore auto-interessato. Grazie a tale approccio teorico, diviene possibile comprendere il modo in cui i quadri politico-morali sono mobilitati attivamente nel corso di lunghi processi storici nella costruzione di gruppi sociali, nella strutturazione di dispositivi e norme stabili di sfruttamento, e quindi anche nella strutturazione di regimi di azione. Questo consente di far emergere l’insieme delle possibilità teoriche concernenti il modo in cui questo regime si riproduce, le contraddizioni che al suo interno possono generarsi (Boltanski e Thévenot 1991) e lo spazio di voice (Bifulco 2013) che gli attori elaborano, prendendo distanza da quel regime d’azione e criticandolo. 11.2.4 Regimi di giustificazione e convenzioni di qualità Come abbiamo visto, pertanto, SP ed EC indagano i processi di definizione, valutazione e classificazione che trovano poi un esito fondamentale, per il coordinamento dell’azione collettiva, nella formulazione di una convenzione. Non si tratta di contratti o di forme di regolamentazione formalizzate: come ha sottolineato Orléan (1989, p. 265), la convenzione può essere identificata come «una rappresentazione collettiva che delimita a priori il campo del possibile». L’incertezza costituisce il problema principale nella rappresentazione dell’economia proposta dagli approcci mainstream. Essa è l’esito dell’interazione tra logiche d’azione differenti, dell’insufficienza della razionalità strategica degli attori individuali ad assicurare la stabilità, dell’incompletezza dei contratti rispetto al futuro. Ma l’EC, così come essa viene programmaticamente delineata alla fine degli anni Ottanta (Eymard-Duvernay et al. 2006), ne fornisce una diversa lettura, che mette al centro i processi di definizione e di classificazione fin qui richiamati. Invece di concentrarsi sugli obiettivi di stabilità e di prevedibilità, l’EC mette al centro «le dispute tra attori sul giudizio di situazioni specifiche» e indaga le convenzioni di cui si avvale l’economia in quanto «socialmente costruite e dunque soggette a trasformazioni storiche» (Jagd 2007, p. 78). Possiamo schematicamente riassumere in due punti la specificità dell’approccio dell’EC all’economia. In primo luogo, il mercato stesso, in quanto meccanismo di coordinamento dell’economia, presuppone un processo di valutazione. La convenzione è appunto un accordo sulle qualità fondamentali del bene che viene scambiato, che quasi sempre si accompagna anche a un criterio di qualificazione degli attori della transazione; solo tale accordo consente poi di procedere all’attribuzione di un prezzo e alla negoziazione tra domanda e offerta. L’operatività di tale convenzione e la sua riproduzione, fondate sul ruolo di organizzazioni e istituzioni
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sociali, è ciò che consente agli attori portatori di interessi diversi di agire in modo coordinato sul mercato. In secondo luogo, il mercato non è la sola forma di coordinamento all’opera nell’economia. Abbandonando ogni ipostatizzazione del mercato come forma universale e atemporale di coordinamento nell’economia (si veda il Cap. 6), l’EC fa emergere una pluralità di «mondi della produzione» (Salais e Storper 1993) e, più in generale, una molteplicità di ordini normativi e di regimi di giustificazione a essi collegati, in cui si trovano combinate sia la dimensione universale che ne fonda il carattere normativo sia quella della quotidianità, in cui gli attori fanno esperienza situata di quei principi universali e dei dilemmi che essi sollevano. Boltanski e Thévenot hanno appunto cercato di riscostruire questi ordini normativi, conferendo loro la forma di cité: «Le cités sono gli ordini morali di cui si afferma la legittimità […], forme idealtipiche che incorporano riferimenti a tipi molto generali di convenzioni orientate a un bene comune», che forniscono agli attori le cornici entro cui interagire e attraverso cui rispondere all’imperativo di giustificazione (Perulli 2006-2007, p. 209). Tali ordini risultano strutturati da «principi di equivalenza» (codici morali da cui nessuno può essere escluso), in base ai quali si stabilisce una specifica definizione di «grandezza», intesa come misura morale (la distinzione tra il «grande» e il «piccolo» come scala morale) e del bene comune; si tratta di principi e definizioni la cui validità è continuamente verificata attraverso il ricorso a delle «prove» in base alle quali i giudizi di «grandezza» sono sottoposti a imperativi di giustificazione coerenti con i codici politico-morali di quella città. Per esempio, le azioni che, messe alla prova della comunicazione, potrebbero procurare quella notorietà che contraddistingue i «grandi» nell’ordine-politico morale dell’opinione, risulterebbero inadeguate nell’ordine «civico» che opera secondo il registro dell’interesse generale. Schematicamente, vengono individuati sei ordini di grandezza (Tab. 11.1): • quello di mercato, nel quale predomina la modalità di valutazione che fa del prezzo il proprio riferimento, in cui il valore monetario è il formato di informazione pertinente e lo scambio costituisce il formato relazionale adeguato; • quello industriale, in cui il terreno di valutazione privilegiato si identifica con l’efficacia della performance, con l’efficiente corrispondenza tra mezzi e fini e con modalità relazionali di tipo funzionale; • quello domestico, fondato su criteri che derivano da quelli tipicamente familiari, vale a dire la stima e la reputazione, in cui è la fiducia a rappresentare la forma che deve assumere la relazione reciproca; • quello civico, nel quale l’interesse generale è la modalità di valutazione prevalente, che si regge su uno schema relazionale di tipo solidale e che trova soprattutto nelle regole e nelle norme il formato informativo più adeguato; • quello dell’ispirazione, che si regge sui criteri della creatività e dell’innovazione, in cui è il coinvolgimento derivante dalla passione ad alimentare la struttura relazionale; • quello dell’opinione, nel quale la relazione si incarna sostanzialmente nella dimensione comunicativa e il cui criterio di valutazione fa riferimento alla notorietà.
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emozione
passionale
creatività
rottura, discontinuità
in presenza
Formato dell’informazione
Tipo di relazione
Caratteristiche
Scala temporale
Scala spaziale
polare, localizzato per prossimità
passato (del precedente, della tradizione)
gerarchia
fiduciaria
orale, aneddotico, esemplare
stima, reputazione
Domestico
Civico
omogeneo
perenne
uguaglianza
solidarietà
formale, scritto, ufficiale,
interesse collettivo
Fonte: rielaborazione da Boltanski e Thévenot (1999); Thévenot (2006); Jagd (2007).
non conformità, novità, unicità
Metrica di valutazione
Dell’ispirazione
Tabella 11.1 Ordini politico-morali e regimi di giustificazione
di visibilità
effimero
celebrità
riconoscimento, comunicazione
segni esteriori
fama, notorietà
Dell’opinione
globale
presente
desiderio
scambio
monetario
prezzo
Di mercato
cartesiano
avvenire (del progetto, dell’investimento)
competenza tecnica
legame funzionale
misurabilità tecnica
produttività, efficienza
Industriale
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11.3 Prospettive di ricerca all’opera Per comprendere in che modo questa impostazione teorica consenta di indagare i fenomeni economici, è utile a questo punto richiamare assai sinteticamente alcuni casi di ricerca, la cui eterogeneità per ambizione teorica e ampiezza del terreno empirico d’indagine testimonia l’estrema duttilità dell’approccio. 11.3.1 Il nuovo spirito del capitalismo e le forme della critica Alla fine del 1994 (Boltanski, Chiapello e Vitale 2006-2007, p. 231), comincia a prendere forma un progetto di lavoro che ha per obiettivo di fondo quello di rimettere il concetto di «capitalismo» al centro dell’analisi. Infatti, spiegheranno Luc Boltanski e Eve Chiapello (2014, p. 21) a circa dieci anni di distanza dalla prima edizione dell’esito di quella ricerca, si tratta di un concetto che «era nientemeno che bandito dal vocabolario» del dibattito pubblico e scientifico. Ma diversamente da come esso si era imposto negli anni Sessanta e Settanta, in una cornice di più o meno stretta ortodossia marxista, Boltanski e Chiapello reinterpretano lo studio del capitalismo «prendendo sul serio» l’economia morale che ne è alla base e ne consente la riproduzione. Di qui il diretto richiamo alla prospettiva weberiana (lo «spirito del capitalismo»; si veda il Cap. 1) e l’attenzione al regime di giustificazione che consente la riproduzione continua di quella specifica «formazione economico-sociale» (Gallino 1994). Se infatti è possibile assumere del capitalismo una definizione estremamente parsimoniosa, in quanto organizzazione sociale animata da un’«esigenza di accumulazione illimitata del capitale attraverso mezzi formalmente pacifici» (Boltanski e Chiapello 1999, trad. it. 2014, p. 65), l’analisi pone in evidenza che tale organizzazione sociale «non può accontentarsi di offrire nient’altro che la sua intrinseca insaziabilità» (ivi, p. 531) e deve invece costantemente riprodurre le proprie basi morali. In questo senso, lo spirito del capitalismo deve comunque fornire risposte, adeguate alle differenti circostanze storiche, a tre domande di fondo: In che cosa l’impegno nel processo di accumulazione capitalistico è fonte di entusiasmo, anche per quelli che non saranno necessariamente i primi beneficiari dei profitti realizzati? In che misura quanti si implicano nell’universo capitalista possono avere la garanzia di una sicurezza minima per loro stessi e i propri figli? Come giustificare, in termini di bene comune, la partecipazione al progetto capitalista e difendere, di fronte alle accuse di ingiustizia, il modo con cui è animata e gestita? (ivi, p. 78).
I due studiosi delineano le trasformazioni dello «spirito del capitalismo», per come questo è andato storicamente evolvendo. Una prima fase dello spirito del capitalismo è quella analizzata nel celebre studio di Weber sul ruolo dell’etica protestante. Qui il capitalismo moderno è messo in relazione con l’ethos della figura del borghese proprietario (Moretti 2017) e con la centralità della dimensione patrimoniale. Esso pren-
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de le forme del capitalismo familiare, il cui principio costitutivo è quello del produttivismo. In questa fase, il capitalismo assume una valenza emancipatoria nei confronti dei vincoli e dei legami che la società tradizionale imponeva agli individui. La fase successiva, così come emerge nel periodo immediatamente seguente alla grande crisi del ’29, è quella del capitalismo industriale organizzato, caratterizzato da un’organizzazione produttiva di tipo fordista, centrato sulle grandi imprese e combinato con un’impostazione keynesiana del ruolo attivo dell’attore pubblico nell’economia. Le figure chiave sono quella del manager e dell’uomo dell’organizzazione (Whyte 1960). Per quanto riguarda i criteri di giustizia e di bene comune, «mentre il primo spirito si fondava soprattutto su un compromesso tra giustificazioni domestiche e giustificazioni legate al mercato», il secondo spirito del capitalismo «ricorre a giustificazioni che si basano su un compromesso tra città industriale e città civica (e, secondariamente, città domestica)» (Boltanski e Chiapello 1999, trad. it. 2014, p. 87). La gran parte della ricerca di Boltanski e Chiapello è naturalmente dedicata all’analisi del terzo tipo di spirito del capitalismo, vale a dire quello contemporaneo. Esso viene messo a fuoco nella sua fase di configurazione, tra la metà degli anni Sessanta e quella degli anni Novanta, anche attraverso un serrato studio della letteratura e della manualistica manageriale, prodotte sia nei contesti educativi (università di Economia) in cui le nuove figure manageriali devono essere formate, sia dall’ambito consulenziale che a quelle figure si rivolge per vendere i propri servizi. Si delinea così un’ulteriore «città», vale a dire un nuovo ordine politico-morale nel quale si incarna lo spirito del capitalismo contemporaneo, cioè la «città per progetti». In questa città si configura una logica del sociale che la differenzia profondamente da quella che si era affermata nel corso della lunga storia della «società salariale» (Castel 1995). Anche in questa città il criterio di valutazione rimanda all’attività degli individui ma, a differenza di quanto si constata nella città industriale, nella quale l’attività si confonde col lavoro, nella città per progetti l’attività supera le contrapposizioni tra lavoro e non lavoro, stabile e instabile, salariato e non salariato, agire interessato e agire benefico, e così via (Boltanski e Chiapello 2002, p. 114).
In questo contesto, ciò che viene valorizzato è la mobilità (materiale e immateriale), l’adattabilità, la capacità di cambiamento, la polivalenza. Sul mercato e sul lavoro non sono più messe all’opera soltanto specifiche competenze tecniche e professionali, ma le stesse facoltà che caratterizzano l’essere umano, quali la relazionalità, la creatività, la comunicazione e così via. Nelle reti del capitalismo definito connessionista, i dispositivi e le forme di organizzazione dei processi produttivi, anche mettendo a frutto le più recenti acquisizioni della psicologia e delle scienze cognitive, esigono la disponibilità a mobilitare se stessi, a essere cioè «imprenditori di se stessi», distorcendo facoltà specificamente umane – la loro logica e la loro finalità – in funzione di obiettivi strumentali (economici) (Boltanski e Chiapello 2014, p. 519). Nella città per progetti e nel capitalismo reticolare il controllo è sempre meno esercitato dall’esterno e sempre più trasformato in auto-controllo (Thévenot 2010; Borghi 2011) e lo sviluppo di sé diviene esso stesso fattore di produzione e prerequisito dell’occu-
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pabilità. L’onnipresente ingiunzione, fatta sia ai disoccupati sia ai lavoratori, a essere «imprenditori di se stessi» (Zimmerman 2006, p. 468), a valorizzare il proprio «capitale umano», a perseguire la «qualità totale» interiorizzando gli imperativi di «zero errori» e «miglioramento continuo», non sono che alcuni esempi della trasformazione della performance individuale in un prerequisito sistemico (che conduce a crescenti livelli di sofferenza individuale: Chan 2013; Dejours 2000; Deranty 2008; Ehrenberg 1999; Ferraris 2010). Particolare attenzione viene poi riservata alla relazione che la critica, in quanto componente strutturale delle logiche del sociale, intrattiene di volta in volta con lo spirito del capitalismo. La critica infatti svolge un ruolo centrale nelle dinamiche del capitalismo e l’impatto che essa ha su quest’ultimo può essere schematicamente riassunto in tre possibilità (Boltanski e Chiapello 2014, pp. 91 ss.). Un primo esito della critica consiste nell’effetto di progressiva delegittimazione dei regimi di giustificazione precedenti, togliendo loro efficacia e contribuendo così a modificare significativamente le forme di coinvolgimento degli individui nella riproduzione dello spirito del capitalismo. In secondo luogo, laddove la critica è in grado di mobilitare ampi settori della popolazione, essa comporta l’introduzione di effettivi miglioramenti relativamente alle istanze da cui quella critica è mossa: dai miglioramenti salariali, a benefici come le ferie pagate fino ad ambienti di lavoro, quali quelli adottati in alcune sedi di imprese ICT, sempre più simili agli spazi del tempo libero o della vita familiare. In tal modo si genera un paradossale contributo della critica all’innovazione del capitalismo stesso: quanto più essa è in condizione di farsi ascoltare e di imporsi, tanto più i valori da cui quella critica era alimentata sono assorbiti e vengono essi stessi mobilitati al servizio di quel regime di accumulazione. Infine, ed è la terza possibilità, il capitalismo può reagire alla critica «rendendosi più difficilmente decifrabile» invalidando i criteri di valutazione della critica o rendendoli di difficile applicazione a causa di un significativo mutamento delle condizioni. Per esempio, laddove un tirocinante è messo né più né meno al lavoro, si sta offrendo un’efficace opportunità di formazione o ci si sta appropriando del valore prodotto da lavoro non remunerato? In termini estremamente schematici, l’analisi di Boltanski e Chiapello mette a fuoco proprio il passaggio dal secondo al terzo spirito del capitalismo, avvenuto attraverso l’incorporazione nel nuovo capitalismo delle istanze critiche che trovarono il loro apice alla fine degli anni Sessanta. La «critica sociale», centrata su rivendicazioni di superamento della miseria e maggiore uguaglianza sociale, formulata in primo luogo dal movimento operaio, e la «critica artistica», mossa prevalentemente dai movimenti sociali e intellettuali, volta a ottenere più ampie possibilità di autonomia, autenticità e auto-realizzazione degli individui, vennero infatti assorbite nel processo di innovazione e di trasformazione del capitalismo stesso. Da un lato, esse contribuirono al potenziamento del potere d’acquisto (funzionale allo sviluppo del consumo) di ampie fasce di popolazione e al superamento dei modelli organizzativi gerarchico-burocratici caratterizzanti la fase precedente del capitalismo; dall’altro, costituirono il terreno sul quale si sarebbe poi alimentata la cultura del capitalismo connessionista, della flessibilità, della cooperazione progettuale e del pieno coinvol-
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gimento della personalità nell’attività strutturata in reti globali che caratterizza la «città per progetti». È in questa nuova fase che il capitalismo adotta la strategia di sottrarsi alla critica, dando corpo a quello che Boltanski (2010, p. 113) definisce un «dominio complesso», che si dispiega «attraverso il cambiamento» e che permette di sgretolare quell’assetto sociale e istituzionale in cui dei «collettivi critici» (per esempio, il movimento operaio) hanno costituito e consolidato i propri spazi di voice, frammentando le appartenenze, ridefinendo diritti conquistati in passato come privilegi nel contesto attuale, riducendo il lavoro alla dicotomia occupazione/disoccupazione ed espungendo ogni altra qualificazione (sui contenuti, il senso, le condizioni del lavoro stesso). In questa cornice, va dunque ripensato anche uno dei perni su cui era incardinata la critica, vale a dire il concetto di sfruttamento. Nella misura in cui la logica del capitalismo contemporaneo è fondata sulla messa a valore di progetti che prendono forma lungo complesse catene reticolari, essa genera «un nuovo rapporto di forza» e «una nuova forma di sfruttamento che permette al più mobile di pagare l’apporto del meno mobile a un prezzo poco elevato» (Boltanski e Chiapello 2002, p. 138). Questa nuova fase del capitalismo risulta dunque caratterizzata «da un fortissimo aumento della forza sprigionatasi dal differenziale di mobilità», che si dispiega ai più svariati livelli delle catene reticolari: «mercati finanziari vs paesi; mercati finanziari vs imprese; multinazionali vs paesi; grande committente vs piccola contoterzista; esperto mondiale vs impresa; impresa vs personale precario; consumatore vs impresa, e così via» (ibidem). La «città per progetti» risulta così caratterizzata da un rapporto di sfruttamento che i più mobili operano ai danni dei meno mobili ed è a questo nuovo quadro che la critica deve a sua volta riferirsi per innovare le proprie rivendicazioni (ivi, pp. 139-40). Boltanski e Chiapello (1999, trad. it. 2014, pp. 35-41), nell’esplicitare essi stessi i limiti dell’analisi del capitalismo da loro tracciata alla fine dello scorso secolo (l’eccesso di capacità riformista attribuita a quello stesso capitalismo; l’aver trascurato la critica ecologista allo stesso), dimostrano ulteriormente il carattere aperto di questo programma di ricerca, facendo di tale capacità auto-critica uno degli elementi di forza di quest’ultimo. 11.3.2 Convenzioni di qualità e regimi di giustificazione Per avere indicazioni sul modo in cui questo impianto analitico può essere messo al lavoro in termini di ricerca, riprendiamo qui, in termini estremamente sintetici, due altri casi di ricerca. Il primo di essi concerne il ruolo determinante che le convenzioni di qualità svolgono relativamente all’ambito della filiera produttiva vitivinicola e alle sue trasformazioni in Italia (Barbera e Audifredi 2010, 2012). La cesura storica assunta dai ricercatori come momento di partenza della trasformazione di cui essi si occupano è quella del cosiddetto «scandalo del metanolo» (1986) e del trauma culturale, socio-economico e istituzionale a esso legato. La drammaticità (23 morti e decine di intossicati) e la portata del fatto (estese reti di sofisticazioni che, attraverso il ricorso a una sostanza chimica nociva, alzavano la gradazione del
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vino a fronte dell’uso di una materia prima di scarsa qualità o addirittura del tutto assente) generarono una grande crisi di quel settore produttivo, portando a una contrazione di un terzo delle esportazioni e alla perdita di un quarto circa del fatturato complessivo. Più in generale, si tratta di un vero e proprio trauma culturale, il cui significato economico si manifesta tuttavia pienamente allorché si produce un mutamento istituzionale profondo. La ricerca concentra la propria analisi sul caso di un’area territoriale, il Piemonte, nella quale quel settore produttivo e la relativa crisi rivestono un ruolo centrale, analizzando il modo in cui quel trauma si riverbera nel dibattito pubblico (attraverso lo studio della stampa locale) e ricostruendo le trasformazioni che intervengono a modificare le convenzioni di qualità che consentono il coordinamento di quella filiera produttiva, del mercato e del complessivo assetto istituzionale che caratterizzano il settore stesso (sulla base di un ampio lavoro di interviste con figure chiave di queste diverse articolazioni sociali, economiche e istituzionali). A vent’anni di distanza da quello scandalo, lo scenario della produzione vitivinicola risulta profondamente ristrutturato. Forte è stata la convergenza sul passaggio da un processo produttivo centrato sulla quantità a uno fondato sulla qualità, come risulta evidente dalla relazione tra una forte contrazione della quantità di vino prodotta tra il 1986 e il 2005 (–37,4 per cento) e del consumo pro-capite (–28,2 per cento) da un lato, e i dati sulla crescente percentuale di vino di qualità (+102 per cento dei vini DOC, DOCG, IGT) e sull’andamento economico del settore (+260 per cento del fatturato; +250 per cento del valore dell’export) dall’altro. Ricostruendo le trasformazioni relativamente alle convenzioni di qualità che regolano quel settore, un primo passaggio chiave risulta consistere nella generale adozione del principio di qualità che si impone tra i produttori dopo una prima fase in cui si erano succedute altre interpretazioni dell’evento traumatico (la retorica delle «mele marce»; quella dei «controlli insufficienti» e così via). Il passaggio non ha solo una valenza culturale, bensì è proprio la sua istituzionalizzazione, attraverso la ridefinizione dei «disciplinari di produzione» e delle forme di certificazione di qualità, a radicarne in profondità gli effetti. La natura più stringente di quei dispositivi e la loro adozione generalizzata, infatti, modificano profondamente le caratteristiche del settore vitivinicolo. Ma proprio l’ampiezza di questa adesione comporta la perdita di potere discriminante del riferimento alla qualità. A partire dalla metà degli anni Novanta l’articolazione interna (che si riflette poi anche sui prezzi di mercato dei prodotti finali) introduce, in un quadro di condivisione centrato sulla qualità del prodotto, ulteriori elementi di differenziazione. L’indagine, soprattutto attraverso le interviste con i produttori finalizzata a comprendere il modo in cui viene effettivamente definito il concetto di qualità, consente di comprendere come «la cooperazione all’interno di una identità locale condivisa e la competizione attraverso i prezzi siano entrambi elementi chiave» del mercato locale e che i «mondi della produzione» di cui avevano parlato Salais e Storper (1993) e i «mondi della qualità» hanno una struttura isomorfica (Barbera e Audifredi 2012, p. 326) (si veda il Cap. 10). Il secondo caso di ricerca è invece dedicato all’analisi delle logiche sociali della mobilità dei lavoratori all’interno delle organizzazioni di lavoro (La Rosa, Borghi e
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Chicchi 2008). Svolta nella provincia di Bologna, la ricerca è organizzata secondo le coordinate proprie della prospettiva fin qui illustrata. Essa prende dunque sul serio i criteri di valutazione a partire dai quali soggetti diversi (lavoratori di imprese grandi e piccole, sindacalisti, datori di lavoro, responsabili del personale) elaborano le scelte e formulano i giudizi (richieste e decisioni) circa la mobilità degli individui. La mobilità nei luoghi di lavoro (intesa come avanzamento di carriera) viene indagata in quanto terreno di disputa, argomentazione, messa all’opera di parametri di appropriatezza e di giustizia, così come sono espressi da postazioni sociali e organizzative diverse, all’interno di settori economico-produttivi a loro volta differenziati. Con l’obiettivo infatti di verificare se le trasformazioni nei regimi di giustificazione descritti da Boltanski e Chiapello si possano applicare a contesti anche significativamente differenti, i ricercatori hanno selezionato due differenti «mondi della produzione». Da un lato, un settore manifatturiero tradizionale, molto consolidato in particolare in quell’area territoriale, quale quello metalmeccanico; dall’altro, un settore relativamente innovativo e di recente sviluppo, al momento dell’indagine, cioè il settore dell’ICT. Caratterizzato dalla presenza di 1586 imprese, prevalentemente di piccola e media dimensione, da un’accelerata crescita della numerosità nel periodo 1997-2000 e da un processo di inasprimento della competizione e di moltiplicazione di fallimenti e fusioni a partire dal 2001, il settore ICT conta nel 2006 poco meno di 4000 addetti. Relativamente al settore metalmeccanico, caratterizzato invece da 9000 aziende a da circa 56.000 addetti, nonostante la perdita di 12.000 unità nell’arco dei sette anni che precedono la ricerca, l’inserimento nel mercato internazionale e la creazione di una vasta rete di subfornitura costituiscono i principali fattori di resistenza a fronte della situazione generalizzata di crisi. Entrambi i mondi produttivi sono attraversati da profondi processi di riconfigurazione: crisi dell’industria manifatturiera, passaggi di controllo come effetto della globalizzazione, moltiplicazione di piccole imprese in cui risulta più difficile la penetrazione del sindacato, per il settore metalmeccanico; intensificazione della competizione all’interno del settore, radicalizzazione della differenze tra le professionalità che lo strutturano (imprenditori, figure tecniche, figure commerciali, curatori dei contenuti) e forte individualizzazione dei modelli di carriera, per il settore ICT. I regimi di giustificazione concernenti la mobilità al loro interno sono parte significativa di questa trasformazione. Per quanto concerne il settore metalmeccanico, queste trasformazioni risultano schematizzabili in un sempre più evidente passaggio da una condizione generale di compromesso tra l’ordine industriale e quello civico, a situazioni in cui è sempre più frequente il ricorso a principi, argomentazioni e vocabolario riconducibili all’ordine del mercato, da un lato, e quelli appartenenti all’ordine domestico, dall’altro. Nel settore ICT è possibile riscontrare una più ampia compresenza dei differenti ordini di valutazione, che si combinano diversamente a seconda sia delle caratteristiche strutturali (imprese medio-grandi vs imprese piccole) cui i criteri di valutazione sono riferiti, sia della fase del ciclo di vita (donne over 35 e lavoratori più maturi vs lavoratori più giovani) in cui si trova il lavoratore che a partire da quei criteri deve elaborare le proprie scelte.
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11.4 Orizzonti di ricerca Rimanendo legati agli ambiti di maggiore interesse in questa sede, vale a dire quello delle problematiche e dei fenomeni socio-economici, possiamo intravedere due principali direzioni di ricerca lungo le quali si sviluppano attualmente gli approcci della SP e della EC. La prima concerne l’analisi del capitalismo contemporaneo, le trasformazioni dei regimi di giustificazione attraverso cui si riproduce la sua legittimità e dei relativi formati della critica. È proprio a questo ultimo tema – ruolo e compiti della critica – che Boltanski dedica uno specifico approfondimento (2014; si vedano anche Basaure, Borghi e Iofrida 2015; de Leonardis, Rositi e Donolo 2011). Nel riprendere l’impostazione della «sociologia della critica», elaborata con continuità dalla metà degli anni Ottanta, finalizzata a riconoscere il ruolo attivo degli attori, sul piano morale e riflessivo, nel processo di valutazione normativa delle situazioni in cui agiscono, Boltanski traccia un bilancio del rapporto con l’impianto analitico della «sociologia critica» di Bourdieu, che rilegge non tanto in termini oppositivi, quanto piuttosto di complementarietà e reciproca integrazione. La dimensione critica emerge come componente strutturale dell’esperienza che gli attori fanno delle frizioni tra il «mondo» (tutto ciò che accade) e la «realtà» (le categorie socialmente costruite e istituzionalmente stabilizzate attraverso cui il mondo è reso intellegibile). Si tratta allora di esplorare i formati in cui può configurarsi, nel contesto contemporaneo del «dominio complesso», allo scopo di contribuire alla progettazione di forme di vita emancipate. La linea di ricerca sul capitalismo e i suoi regimi di giustificazione che abbiamo sinteticamente ricostruito nel paragrafo precedente, è proseguita di recente nell’analisi di ciò che Boltanski e Esquerre (2016a, 2016b) definiscono l’«economia dell’arricchimento». Prendendo a prestito l’immagine che rimanda alle tecniche per «arricchire» un metallo grezzo, i due studiosi mostrano come nell’economia dell’arricchimento, che caratterizza la fase attuale del capitalismo, prevalgano modalità di creazione della ricchezza basate sullo sfruttamento e messa a valore del passato, per come quest’ultimo si incarna in tecniche artigianali, identità, genius loci, tradizione, patrimonio materiale e immateriale, insomma cultura in senso lato. Nell’economia dell’arricchimento, le forme di sfruttamento che erano venute prendendo forma nelle fasi evolutive precedenti del capitalismo si riarticolano all’interno di un insieme di attività lavorative sempre più disperse, ampiamente trasversali alla distinzione pubblico/privato e spesso non identificate con il vocabolario del lavoro in senso stretto, rappresentate invece attraverso il registro del «desiderio» e della «passione». Quest’ultimo terreno d’analisi è esplicitamente connesso (Boltanski e Esquerre 2015) alla seconda direzione di sviluppo dei programmi di ricerca qui discussi, concernente specificamente i modi e i formati della valutazione e già programmaticamente incluso nelle prospettive di ricerca di SP ed EC. Nell’ambito di un arco tematico di indagine assai ampio (Diaz-Bone e Thévenot 2010), la riflessione sui processi valutativi, come campo di indagine interdisciplinare, costituisce un oggetto ormai ampiamente sviluppato (si veda http://valuationstudies.liu.se/), che si concretizza in direzioni anche significativamente diverse. Le modalità attraverso le quali gli attori valutano oggetti e situazioni, il rapporto tra valore (economico) e valori, il formato che il processo valu-
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tativo assume, i dispositivi in cui è incorporato e i suoi effetti performativi, per quanto affrontati secondo letture differenti, sono al centro di analisi dedicate, per esempio, alle dinamiche organizzative (Berthoin Anal, Hutter e Stark 2015), anche a partire dall’idea che le convenzioni possano garantire non solo il coordinamento, ma anche la «dissonanza» (Stark 2009) tra concezioni diverse; al modo in cui sono organizzati processi produttivi nella filiera dell’agroalimentare (Cheyns e Ponte 2017) o, più in generale, al modo in cui la governance delle «catene globali del valore» si articola al proprio interno in relazione alle «convenzioni di qualità» (Gibbon e Ponte 2008; si veda anche il Cap. 28 di questo volume); alle modalità in cui i processi valutativi si oggettivano in forme di certificazione e standard internazionali (Thévenot 2015). Di particolare importanza risulta, a tale proposito, l’analisi del fenomeno della quantificazione, che caratterizza la conoscenza e il processo di valutazione su cui si basano le politiche e le forme di governo in ambito pubblico e privato. Si pensi, per non fare che un esempio vicino all’esperienza di uno studente universitario, alla trasformazione dei contenuti di studio in termini di contabilità dei crediti formativi universitari (CFU) e alla pervasività di criteri quantitativi (indici, ranking, benchmarking) nell’amministrazione del lavoro scientifico (Espeland e Sauder 2016). Il fenomeno ha a che fare con le più disparate sfere di attività sociale, dal momento che tale quantificazione ha profonde ricadute su attività di valutazione e governo proprie del mondo scolastico e formativo, della sanità e dei servizi sociali così come nei diversi ambiti produttivi e di mercato (Bezes, Chiapello e Desmarez 2016; Borghi, in stampa; Borghi e Giullari 2015; de Leonardis e Neresini 2015; Diaz-Bone e Didier 2016; Espeland e Stevens 2008; Faucher e Le Galès 2014) producendo al tempo stesso forme di conflitto che si avvalgono a loro volta di basi informative quantitative (Bruno, Didier e Vitale 2014). L’orizzonte di ricerca della SP e dell’EC si conferma, pertanto, molto ampio, promettente e appassionante.
Letture di approfondimento Boltanski L., Chiapello E. (1999). Le nouvel esprit du capitalisme, Paris, Gallimard (trad. it. Il nuovo spirito del capitalismo, Milano, Mimesis, 2014). Boltanski L., Esquerre A. (2016). Enrichissement. Une critique de la marchandise, Paris, Gallimard Boltanski L., Vitale T. (2006). «Una sociologia politica e morale delle contraddizioni», Rassegna Italiana di Sociologia, n. 1, pp. 91-116. Borghi V., Vitale T. (a cura di) (2006). Le convenzioni del lavoro, il lavoro delle convenzioni, numero monografico di Sociologia del lavoro, n. 104. Susen S., Turner B.S. (eds.) (2014). The Spirit of Luc Boltanski, London-New York, Anthem.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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Parte II La cassetta degli attrezzi
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12 La selezione del problema di ricerca di Filippo Barbera
12.1 Gli oggetti empirici della sociologia economica La ricerca sociale è un’attività sistematica e codificata volta alla soluzione di problemi scientifici. La corretta messa a fuoco del problema di ricerca richiede la formulazione di domande appropriate, alle quali trovare risposte valide seguendo le regole del metodo scientifico. Ciò vale per la sociologia economica come per tutte le altre specializzazioni della sociologia. La selezione del problema, del resto, è una fase importante e poco codificata del processo di ricerca. Ma in cosa consiste il «problema di ricerca»? E come si sceglie, tra i molti possibili, lo specifico problema da indagare? Per Weber (1904; si veda il Cap. 1), la selezione del problema è fortemente condizionata dai valori individuali: se la risposta deve seguire le regole del metodo scientifico, la selezione del problema è invece guidata dai criteri di rilevanza valoriali del ricercatore. Per esempio, chi nutre un’avversione per la disuguaglianza, selezionerà un problema a questa collegato, come: «Che ruolo svolgono le appartenenze di classe nella ricerca della prima occupazione?». Oppure, chi ha a cuore i destini delle regioni del Mezzogiorno, potrà chiedersi: «Quali intrecci e scambi si danno tra mercati legali e mercati illegali?». Le risposte dovranno poi, indipendentemente da valori e interessi, seguire le regole del metodo scientifico. Con questa indicazione metodologica, Weber si riferisce all’oggetto o al fenomeno empirico di interesse. I valori del ricercatore permettono di selezionare quella parte di realtà empirica che merita, nel giudizio soggettivo, di essere presa in considerazione. I valori sono però relativi, sia al contesto storico-culturale sia ai criteri etico-morali dell’individuo e, come tali, la scelta dell’oggetto di studio esula dalle regole della discussione scientifica (2 Box 12.1). Ma l’oggetto/fenomeno rappresenta solo una parte, ancorché importante, del problema di ricerca, che è costituito da altre due dimensioni non dipendenti dai valori del ricercatore: il livello di analisi a cui «osservo» il fenomeno/oggetto e le ipotesi teoriche che lo spiegano. L’indebita sovrapposizione tra le diverse dimensioni del problema di ricerca (oggetto empirico, livelli analitici, ipotesi teoriche) può condurre a derive ideologiche e prescrittive, come nel caso di alcune tendenze del marxismo (si veda il Cap. 3). Prima di analizzare queste differenze e le loro implicazioni, consideriamo la specificità della proposta weberiana per gli oggetti studiati dalla sociologia economica. Secondo Weber, la sociologia economica studia tre ampie classi di oggetti empirici (Barbera e Negri 2008):
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1) i fenomeni economici in senso stretto; 2) le istituzioni economiche; 3) i fenomeni economicamente rilevanti. I fenomeni economici sono quelli principalmente analizzati dall’economia come disciplina scientifica. Rientrano in questa categoria, per esempio, i mercati di scambio, i prezzi, l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, i consumi e i risparmi, lo sviluppo economico e l’innovazione tecnologica. Fino agli anni Settanta (Parsons e Smelser 1956) la divisione del lavoro tra economia e sociologia prevedeva che la sociologia economica non studiasse i fenomeni economici in quanto tali, ma le loro «precondizioni» sociali. Per esempio, non era importante studiare l’azione imprenditoriale in sé, ma se e come la socializzazione familiare generasse strutture della personalità orientate al rischio e alla realizzazione individuale. Con la nascita del programma di ricerca delineato da Granovetter (si veda il Cap. 9 di questo volume; si veda anche Swedberg 1997), la sociologia economica non solo si preoccupa di chiarire le precondizioni del funzionamento dei fenomeni economici, ma deve anche e soprattutto concentrarsi sulla loro spiegazione: formazione dei prezzi, incontro tra domanda e offerta, produzione e allocazione di beni e servizi. In questa impostazione, quindi, economia e sociologia condividono i medesimi oggetti empirici, differenziandosi per il tipo di meccanismi che li spiegano: economici nel primo caso, sociali nel secondo (2 Box 12.2). Le istituzioni economiche si riferiscono a quelle istituzioni «le quali siano state create o siano utilizzate consapevolmente per scopi economici» (Weber 1904, trad. it. 1974, p. 74). La sociologia economica ha da sempre dato grande rilievo all’analisi delle istituzioni economiche (Trigilia 1998): lo scambio economico è regolato da una varietà di regole formali e informali, nonché caratterizzato dalla presenza di risorse materiali e immateriali, che danno conto del funzionamento dell’economia. Per esempio, la produzione di un bene può essere più o meno concentrata all’interno di una stessa struttura organizzativa o suddivisa per fasi e/o componenti in capo a strutture diverse, più o meno spazialmente dislocate e con rapporti di potere asimmetrici (si veda il Cap. 28). I vari tipi di contratti, le leggi, i regolamenti, i sistemi di contabilità finanziaria (si veda il Cap. 27) che regolano le transazioni economiche costituiscono altri esempi a riguardo. Le forme di rappresentanza del lavoro hanno conseguenze diverse e funzionano in base a meccanismi variabili nello spazio e nel tempo (si veda il Cap. 38). Infine, i fenomeni economicamente rilevanti non interessano in primo luogo per il loro significato economico intrinseco ma per il fatto che – in certe circostanze – possono avere effetti economici. Sono qui incluse, tra le altre, le conseguenze economiche dell’appartenenza etnica, della solidarietà familiare, della divisione del lavoro in base al genere, ma anche la relazione tra valori e consumi e gli effetti della coesione sociale e della marginalità territoriale sullo sviluppo economico (si vedano, tra gli altri, i Capp. 30, 32 e 34). La prospettiva di Weber è ancora oggi preziosa, non fosse altro perché permette di semplificare in tre classi coerenti la varietà degli oggetti empirici di cui si occupa la sociologia economica. Come prima accennato, però, è necessaria una specifica-
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zione ulteriore: Weber si riferisce agli «oggetti» o «fenomeni» empirici, la cui scelta è appunto guidata dalla sfera valoriale del ricercatore. Il problema di ricerca è però costituito da due ulteriori dimensioni, i livelli di analisi e le domande di ricerca, per le quali è possibile specificare principi e regole generali non legati a doppio filo ai criteri di rilevanza valoriali del ricercatore.
12.2 I livelli di analisi della sociologia economica Ogni oggetto o fenomeno empirico può essere «osservato» a diversi livelli di analisi: per esempio, una qualsiasi transazione economica è composta da aspetti economici in senso stretto (per esempio, il prezzo), da dimensioni di potere (per esempio, la capacità degli attori di influenzare le regole del gioco) e culturali (per esempio, l’appartenenza etnica o identitaria). Una prima distinzione importante è quindi quella tra oggetto o fenomeno «concreto» e livello analitico scelto per «osservare» quel dato oggetto/fenomeno. Dal punto di vista analitico, secondo Mark Granovetter (2000), la sociologia economica ha tre fuochi principali: l’azione economica, gli esiti economici e le istituzioni economiche1. Per definire l’azione economica Granovetter riprende una definizione comune a sociologi (Weber 1922) ed economisti (Robbins 1932) secondo cui questa è caratterizzata dall’utilizzo di risorse scarse con usi alternativi (mezzi) per la realizzazione di scopi ritenuti soggettivamente rilevanti (fini). L’azione economica, in questa accezione, si può applicare a oggetti economici in senso stretto (per esempio, la domanda di lavoro) o a oggetti sociali (per esempio, le scelte matrimoniali). La relazione tra mezzi scarsi e fini soggettivamente rilevanti qualifica quindi l’azione economica come azione soggettivamente orientata all’«economizzare». Il secondo livello analitico rimanda agli esiti aggregati delle azioni individuali: si pensi al prezzo medio di vendita delle arance nella città di Roma nel mese di gennaio del corrente anno, ai diversi livelli di istruzione che caratterizzano giovani e anziani oggi in Italia, alle speranze di vita di uomini e donne in Piemonte e Calabria e così via. Si tratta, in questi esempi, di dimensioni che si estendono oltre il livello individuale e che, nel loro insieme, denotano proprietà di aggregati sociali, come appunto gli individui di una certa fascia di età (si veda il Cap. 32), specifiche aree territoriali (si veda il Cap. 22), o categorie di persone variamente definite in base a classe, reddito, istruzione (si veda il Cap. 33). Il terzo livello analitico si riferisce alle istituzioni economiche: queste, come gli esiti economici aggregati, si estendono oltre il livello dell’azione economica, ma, diversamente dai primi, riguardano insiemi di azioni più estesi nello spazio e/o nel tempo e, soprattutto, costituiscono per gli attori una sorta di realtà esterna, con caratteristiche anche normative concernenti l’attribuzione di significati, norme sociali, valori e prestigio sociale (si veda il concetto di «capitale culturale» nel Cap. 7). Si pensi,
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Come vedremo, Granovetter utilizza il concetto di «istituzione» in un’accezione diversa da Weber.
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per esempio, al funzionamento delle professioni di medico, notaio o avvocato: le regole che le caratterizzano affondano le loro radici nell’Ottocento in parallelo con la formazione degli stati nazionali, con lo sviluppo delle cosiddette professioni liberali. L’aggettivo «liberale» ha implicazioni di status in quanto i professionisti, laureati in università prestigiose come Oxford e Cambridge, erano considerati gentiluomini, «liberali» per educazione (Speranza 1991). Come sostiene Maria Malatesta (2006), dopo la caduta degli antichi regimi e l’affermazione della società borghese, l’interesse dello stato nella regolazione delle professioni liberali si è dimostrato convergente con l’interesse delle stesse a ottenere la protezione pubblica. Tale reciproco vantaggio ha trovato il terreno di incontro nel sistema dell’istruzione: Nel corso dell’Ottocento […] fu stilato allora un patto rivelatosi decisivo per la costruzione della società europea e la sua governabilità. Le professioni chiesero allo stato riconoscimento pubblico, legittimazione, protezione; lo stato chiese loro di svolgere il ruolo di élite della competenza (ivi, p. 6).
Se la mappa sin qui tracciata ci permette di delineare le classi di oggetti e i livelli di analisi rilevanti per la sociologia economica, è ora necessario chiarire il ruolo svolto dalle ipotesi teoriche. In altre parole, una volta chiarito «cosa» ci interessa e «quale livello analitico» privilegiamo, dobbiamo attrezzarci per rispondere alla domanda: «Perché?».
12.3 Come scegliere le ipotesi di ricerca Come selezionare una o più domande coerenti e rilevanti circa il «Perché?» dei fenomeni di interesse per la sociologia economica? La prima e più semplice risposta a questa domanda è: attraverso ipotesi rilevanti. In generale, possiamo definire l’ipotesi come una supposizione (composto da hypo, «sotto», e thesis, «posizione») che svolge il ruolo di premessa sottesa a un certo ragionamento. Le ipotesi devono essere confrontabili con i dati, quindi devono poter essere smentite dalle loro implicazioni empiriche; inoltre, esse devono essere logicamente coerenti e non auto-contraddittorie, dunque non è possibile sostenere che a parità di condizioni l’ipotesi è sia vera sia falsa; infine, le ipotesi devono essere dotate di un buon potere analitico, cioè un’ipotesi è tanto più apprezzabile quanto più numerose sono le sue conseguenze empiriche. Al netto di queste caratteristiche formali, la regola più importante da seguire per la scelta delle ipotesi è che la conoscenza scientifica del mondo è un’impresa collettiva: le ipotesi, quindi, devono innanzitutto collocarsi all’interno di un dibattito scientifico coerente con gli interessi e la vocazione della disciplina. In altri termini, le ipotesi non devono essere rilevanti solo o principalmente per me, ma devono suscitare l’interesse della comunità scientifica di riferimento. Le ipotesi non nascono dalla geniale e solitaria mente del ricercatore, ma dal confronto sistematico con la produzione teorica ed empirica di conoscenza relativa al tema che si intende analizzare. Possiamo quindi sostenere che le ipotesi devono porre una questione rilevante per la letteratura di ri-
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Tabella 12.1 Conoscenza di base e conoscenza applicata Applicazione Avanzamento conoscenza scientifica
Sì
No
Sì
MODELLO DI PASTEUR
MODELLO DI BOHR
No
MODELLO DI EDISON
ferimento, contribuendo alla crescita collettiva della comunità scientifica. Nel nostro caso, le ipotesi devono essere rilevanti per l’analisi dei nessi teorici ed empirici relativi al rapporto economia-società, così come affrontati dalle diverse tradizioni di ricerca della sociologia economica (si veda l’Introduzione a questo volume). Possiamo aggiungere una seconda dimensione importante per la selezione delle ipotesi: esse dovrebbero anche funzionare come strumenti utili agli attori individuali e collettivi per intervenire sul fenomeno. Almeno potenzialmente, le ipotesi dovrebbero essere rilevanti anche per attori esterni alla comunità scientifica: siano essi responsabili del disegno e dell’implementazione di politiche pubbliche, imprenditori e manager di imprese private, animatori di comunità territoriali, movimenti sociali, partiti politici, sindacati, associazioni di vario tipo e natura. Ciò riflette l’idea che tra scienze sociali e società esista una sorta di contratto sociale implicito: la «società» fornisce le risorse per la produzione del sapere sociologico e le ricerche forniscono una conoscenza utilizzabile. Il combinato-disposto di questi due elementi (rilevanza scientifica e rilevanza pratica) è analogo alla scelta di un «massimo vincolato»: scelgo l’ipotesi migliore dal punto di vista scientifico, dato il vincolo che l’ipotesi, se in accordo con il dato empirico, permetta anche l’individuazione di meccanismi sui quali è possibile intervenire. Questo modello, noto come use-inspired research, si colloca nel cosiddetto «quadrante di Pasteur» (Stokes 1997), in onore di Louis Pasteur (1822-1895), il cui lavoro scientifico ha contemporaneamente posto le basi per la moderna microbiologia e contribuito ad affrontare importanti problemi applicativi in agricoltura e zootecnia. Se la ricerca produce un avanzamento della conoscenza di base, siamo nel quadrante in alto a destra della Tab. 12.1, noto come «quadrante di Bohr», da Niels Bohr (1885-1962), fisico teorico considerato il fondatore della teoria dei quanti2. Infine, il modello puramente applicativo o modello di Edison – in onore di Thomas Edison (1847-1931) –, prevede la risoluzione «ingegneristica» di un problema applicativo (per esempio, l’illuminazione tramite lampada a incandescenza), senza che ciò comporti anche un avanzamento della conoscenza di base (elettromagnetismo). Il quadrante di Pasteur sottopone dunque la scelta delle ipotesi a un duplice vincolo: scientifico e applicativo. Il rispetto del primo vincolo impone alla ricerca di 2 Ovviamente la ricerca di base ha conseguenze indirette per le possibili applicazioni (nel caso della fisica quantistica: il laser e la risonanza magnetica), ma non è disegnata sin dall’inizio in questa direzione.
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contribuire alla crescita della conoscenza scientifica del mondo. Ma come individuare, nella letteratura di riferimento, il corretto «punto di entrata» che mi permette di formulare la domanda di ricerca sul «Perché?»? Possiamo a riguardo identificare alcune «regole pratiche» che ci aiutano nella scelta delle ipotesi. Gary King, Robert Keohane e Sidney Verba (1994) ci danno importanti indicazioni in merito, tramite sei suggerimenti via via più complessi: 1) scegliere un’ipotesi ritenuta importante, ma scarsamente sottoposta a controllo empirico; 2) scegliere un’ipotesi ritenuta importante, ma che sospettiamo falsa e confrontarla con i migliori dati disponibili; 3) mostrare quale tra due o più ipotesi presenti in letteratura meglio si accorda con la documentazione empirica; 4) indagare direttamente gli assunti impliciti relativi ad aree di ricerca e teorie applicate; 5) creare disegni di ricerca utili per investigare ipotesi nuove, mai esplorate dalla letteratura; 6) trasferire modelli e ipotesi da un’area di studio a un’altra, mostrandone così l’applicabilità generale. I primi tre punti rimandano all’elaborazione di ipotesi esistenti, aggiungendo uno o più elementi a ciò che già esiste, mentre il quarto, quinto e sesto richiedono l’introduzione di nuove idee. Incontriamo a questo riguardo un’importante differenza tra ipotesi ed euristiche (Abbott 2004). Esaminiamo i primi tre suggerimenti, relativi alle ipotesi, per poi illustrare cosa sono e come si utilizzano le euristiche. Nel primo suggerimento, l’analisi sistematica della letteratura di riferimento evidenzia come la maggior parte delle ricerche realizzate a proposito di un certo fenomeno di interesse (l’innovazione economica, la disuguaglianza, lo sviluppo locale) assegni grande rilevanza a una certa ipotesi, senza mai sottoporla a controllo empirico. Compito del lavoro di ricerca sarà allora quello di individuare e realizzare uno o più test empirici, confrontando l’ipotesi con i dati disponibili. Per esempio, secondo la cosiddetta economia positiva è del tutto giustificato assumere ipotesi false che conducono a previsioni in accordo con i dati empirici: Ipotesi veramente importanti e significative si scopriranno caratterizzate da “assunti” che sono completamente inesatti come rappresentazioni descrittive della realtà, e in generale, più è significativa la teoria, più irrealistici sono i suoi assunti [in questo senso]. La ragione è semplice. Un’ipotesi è importante se “spiega” molto con poco, cioè se astrae gli elementi in comune e cruciali dalla massa di circostanze complesse e dettagliate che circondano i fenomeni da spiegare e permette così valide predizioni. Per essere importante, perciò, un’ipotesi deve essere descrittivamente falsa nei suoi assunti (Friedman 1953, p. 14, cit. in Hedström 2005, trad. it. 2006, pp. 78-79).
Per esempio, uno degli assunti relativi alle ipotesi dell’economia positiva è che il modo in cui sono presentate le alternative di scelta non influenzi la decisione individua-
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le (2 Box 12.3). Si tratta di un assunto non indagato direttamente in quanto, come messo in evidenza dalla citazione precedente, l’aspetto importante è il potere analitico: generare valide implicazioni predittive (se A, allora B) a partire da ipotesi astratte, senza preoccuparsi del loro grado di realismo («Per essere importante, perciò, un’ipotesi deve essere descrittivamente falsa nei suoi assunti»). Kahneman e Tversky (1979, cit. in Ortona 2001, p. 10) sottopongono a test empirico l’assunto secondo cui le decisioni non siano influenzate dal modo in cui le alternative di scelta sono presentate, ipotizzando invece un effetto «cornice» per cui le persone sono influenzate dal modo in cui i termini di scelta sono proposti. Per esempio, supponiamo che un campione di individui sia chiamato a scegliere tra due programmi di vaccinazione per 600 persone, dove nel primo programma la scelta è presentata come «400 persone salve su 600», nel secondo «200 persone morte su 600»; in questo caso, le persone sono indotte a scegliere la prima alternativa che omette le perdite ed enfatizza gli effetti positivi, anche se le due opzioni sono identiche nello loro conseguenze. Il secondo suggerimento di King, Keohane e Verba (1994) si applica a quei casi in cui l’ipotesi in questione è controversa, per esempio perché ha ricevuto un supporto empirico non robustissimo, oppure perché le conclusioni che permette di raggiungere sono, a parità di altri fattori, contraddittorie. Anche in questi casi non rimane che confrontare l’ipotesi sospetta con i dati disponibili, cercando di chiarire quale ipotesi ha il miglior grado di accordo con i dati. Il terzo suggerimento deriva da una situazione tipica: l’analisi della letteratura di riferimento restituisce una situazione divisa in due campi contrapposti, da un lato chi sostiene che il fenomeno X sia meglio spiegato dall’ipotesi A e dall’altro chi ritiene che lo stesso fenomeno sia invece in accordo con l’ipotesi B. Le ipotesi, come prima accennato, possono essere assimilate a delle «scommesse» che il ricercatore fa circa il «funzionamento» dei fenomeni di interesse. Per capire se la «scommessa» è valida, l’ipotesi deve trovare una o più forme di supporto che vadano oltre l’ipotesi formulata. Per esempio3, come spiegare – si chiede Elster (2010) – l’aumento, rispetto a vent’anni fa, del numero di spettacoli di Broadway accolti da standing ovation? Per rispondere alla domanda, Elster suggerisce una spiegazione basata sull’aumento dei prezzi. Ovvero, se si pagano 75 dollari o più per un posto può essere difficile riconoscere che lo spettacolo visto era di bassa qualità e ammettere così di aver sprecato il proprio denaro. Per confermare a se stessi di aver goduto di un ottimo spettacolo, gli spettatori di oggi applaudono in modo molto convinto. La spiegazione è quindi cercata in una specifica ipotesi secondo cui il valore attribuito a un bene dipende dal denaro speso per acquistarlo, o dallo sforzo profuso per ottenerlo. L’ipotesi è meritoria in quanto supera il cosiddetto «test minimale», ovvero: (a) la condizione dei prezzi crescenti negli ultimi venti anni è empiricamente vera; (b) da essa si può inferire il fenomeno empirico da spiegare. Senza una di queste due condizioni – realismo empirico e potere analitico – il ricorso all’ipotesi è molto dubbio. Per discernere le ipotesi feconde da quelle sterili è infatti necessario sviluppare nel modo più preciso
3
Per questa parte, si veda Barbera (2010).
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possibile le implicazioni o conseguenze empiriche delle nostre «scommesse». E tali conseguenze, come prima sottolineato, devono poter essere sconfessate dai dati. Inoltre, occorre evitare ipotesi troppo generali, il cui livello di astrazione è tale che – in un modo o nell’altro – sarà possibile «raccontare una storia» in accordo con i dati empirici. Spiegare troppo rappresenta un problema analogo a spiegare troppo poco. Se in un buon romanzo giallo ogni dettaglio trova una collocazione narrativa e tutti i tasselli del puzzle vanno a occupare il posto giusto, così non è per la ricerca scientifica. La presenza degli elementi sin qui illustrati rende la spiegazione sufficiente per dare conto del «Perché?», ma per rafforzare la nostra fiducia in questa particolare spiegazione dobbiamo mostrare che essa è anche necessaria, in quanto sostenuta «dal basso», «dall’alto» e «lateralmente». Arriviamo qui al tema del controllo empirico delle ipotesi, fase cruciale del processo di ricerca e rispetto alla quale è necessario essere molto esigenti. Una spiegazione è sostenuta dal basso, ci dice sempre Elster, se l’ipotesi permette di mettere a fuoco fatti osservabili diversi dal fatto che essa intende spiegare. In altri termini, se l’ipotesi A fosse vera, cosa dovrei essere in grado di osservare nel mondo? Tornando al caso dell’aumento delle standing ovation a Broadway, ci si dovrebbe aspettare una frequenza minore di «applausi entusiasti» per gli spettacoli i cui prezzi non siano, per qualche ragione, cresciuti. In modo analogo, le standing ovation dovrebbero essere meno frequenti anche nel caso degli spettacoli i cui biglietti siano stati donati gratuitamente dalle imprese ai propri dipendenti. Infatti, anche se i biglietti di questi spettacoli sono costosi, gli spettatori non li hanno ottenuti pagando di tasca propria e dunque non hanno necessità di confermare a sé stessi la bontà della scelta effettuata. Ma, di nuovo, anche se l’ipotesi passasse questo controllo empirico «dal basso», non potremmo comunque formulare una legge di validità generale per cui «non vi sono standing ovation in quegli spettacoli i cui prezzi sono più a buon mercato». Infatti, le persone non reagiscono solo alle variazioni nei prezzi, ma anche alle azioni altrui: se un gruppo di persone si alza in piedi ad applaudire ci si può sentire a disagio restando seduti e si «imita» il comportamento altrui; oppure ci si può dover alzare, se altri spettatori davanti a noi lo hanno fatto per primi, semplicemente per riuscire a vedere lo spettacolo. E questo a prescindere dal prezzo pagato. Una spiegazione è invece sostenuta dall’alto se è possibile derivare l’ipotesi da una teoria più generale. Per esempio, l’ipotesi prima descritta è una specificazione della teoria della cosiddetta dissonanza cognitiva di Festinger (1957). Secondo questa teoria, una persona che sperimenta un’incoerenza interna, o «dissonanza», tra le sue credenze e i suoi valori è probabile che tenda a eliminare o ridurre la dissonanza nel modo meno «costoso». Così, se si spendono 75 dollari per assistere a uno spettacolo che si rivela di cattiva qualità non sarà semplice convincersi di aver pagato una cifra minore: il prezzo pagato costituisce un ricordo saliente e difficilmente aggirabile. Al contrario, sarà più agevole persuadersi di aver assistito a uno spettacolo di qualità piuttosto buona e adeguata al prezzo pagato. È bene sottolineare che il «sostegno dall’alto» è importante, ma non può costituire un argomento dirimente: lo statuto della teoria in sociologia è tale per cui non è mai possibile difendere la validità dell’ipotesi solo perché essa deriva da una teoria più generale, come nel caso
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prima citato della riduzione della dissonanza cognitiva, al contrario della fisica, dove esistono teorie forti (per esempio, la legge della forza di gravità, elettromagnetismo) che meglio giustificano il sostegno dall’alto. In sociologia, invece, se si ha un conflitto tra due o più ipotesi non si dovrebbe ricorrere solo alla teoria di riferimento per scegliere quale spiegazione è più plausibile: è la teoria a essere sostenuta dalle spiegazioni di successo, non il contrario. Infine, una spiegazione riceve un sostegno laterale quando si riescono a immaginare e a falsificare spiegazioni alternative in grado anch’esse di superare il «test minimale». Per esempio, oltre all’effetto prezzo (reazione a uno stimolo esterno) e all’effetto interazione sociale (imito gli altri), la standing ovation può dipendere da un «effetto selezione» che cambia la popolazione di riferimento: le ovazioni entusiaste sono aumentate nel tempo perché il pubblico degli spettacoli di oggi, arrivando in pullman dal New Jersey, ha un capitale culturale meno «raffinato» rispetto al pubblico tradizionale, costituito da consumatori avvezzi a consumi culturali più «elitari». Per decidere quale ipotesi è più plausibile, è necessario immaginare controlli empirici ulteriori. Per esempio, se riconduco l’aumento degli applausi in piedi alla minor ricercatezza culturale del pubblico proveniente dalla provincia, dovrei essere in grado di rilevare una frequenza di standing ovation simile anche nelle manifestazioni di provincia di venti anni fa. Per ribadire il punto in questione: le ipotesi veramente utili generano implicazioni osservative e devono poter essere smentite dai dati empirici. Per queste ragioni, per la credibilità della spiegazione occorre essere molto esigenti, specie se si è ideologicamente affini al fenomeno che si è scelto di studiare. È necessario cioè confrontare le proprie «scommesse» con altre forti e plausibili, anziché che con quelle più facilmente confutabili. Un’importante specificazione a riguardo è che le buone idee devono guadagnare il proprio status scientifico confrontandosi con alternative reali o, in altre parole, con ipotesi alternative «sfidanti» e ricche di implicazioni empiriche. La buona teoria si sviluppa a stretto contatto con definiti referenti empirici. Tutte le buone teorie – per quanto astratte e complesse – nascono a contatto con la ricerca empirica, nel tentativo di capire il mondo sociale. Da questo punto di vista è bene tenere a mente l’avvertimento di Abbott (2004), secondo cui gli studenti di sociologia non devono lasciarsi sedurre dalle sirene della pura teoria, perché ciò costituirebbe un invito all’irrilevanza intellettuale. Si tratta di un’avvertenza cruciale per la sociologia economica, intesa come disciplina empirica teoricamente fondata dove teoria e ricerca crescono insieme (2 Box 12.4).
12.4 Il ruolo delle euristiche I suggerimenti indicati ai punti 4-5-6 dell’elenco di King, Keohane e Verba (1994) riportato nel paragrafo precedente rimandano invece al ruolo delle euristiche e suggeriscono al ricercatore come trovare nuove idee4. Il termine euristica proviene
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Questa parte è riadattata da Barbera (2006).
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dall’archimedeo Eureka!, dal verbo greco heuriskein, cioè «trovare, scoprire» (Abbott 2004, trad. it. 2007, p. 80). Per produrre nuove idee abbiamo innanzitutto a disposizione i topic, cioè quell’insieme di categorie e concetti che – confrontati con le idee esistenti – si rilevano straordinariamente feconde e foriere di nuove ipotesi. Per esempio, Abbott invita ad applicare i cinque elementi del teatro di Kenneth Burke, secondo cui ogni scena teatrale è composta da azione, attore, agente, scenario e scopo, ai fenomeni sociali. La ricerca di Lawrence Cohen e Marcus Felson (1979) applica questa euristica per trovare una nuova ipotesi adeguata per rispondere alla domanda: «Perché i furti in appartamento sono aumentati dopo il 1960?». L’euristica suggerisce di supporre che l’aumento dei furti in appartamento possa essere spiegato da un cambiamento nello scenario: il concomitante aumento di oggetti di consumo negli appartamenti (più facili da trasportare e da vendere) e la minore presenza delle donne in casa, associata all’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro. A un livello superiore di complessità troviamo le search heuristics – cioè regole per uscire dal quadro teorico in cui si è immersi e guardare il problema «dall’esterno» (possiamo dire: per adottare uno sguardo out-of-the-box) – e le argument heuristics, ovvero logiche utili per trasformare «dall’interno» il proprio problema di ricerca. All’interno della famiglia delle search heuristics troviamo l’analogia. Per esempio, il fenomeno che sto studiando (come l’unione coniugale) è – per qualche aspetto cruciale – analogo allo scambio economico e quindi posso mettere alla prova empirica un’ipotesi che consideri il matrimonio come un incontro tra domanda e offerta mediato dai prezzi. Anche le scelte scolastiche possono essere considerate analoghe a un fenomeno economico – con una domanda, un’offerta e un prezzo – come nel lavoro dell’economista Gary S. Becker sul capitale umano (1976). La città, poi, può essere studiata alla stregua di un fenomeno ecologico, dove gruppi di persone si stabiliscono in determinate nicchie ecologiche caratterizzate da specifiche risorse, come nei lavori della scuola di Chicago (Abbott 1997). Uno dei vantaggi dell’analogia è, secondo Abbott, la possibilità di prendere a prestito idee sistematiche, già ben strutturate e articolate. L’analogia, infatti, è tanto più utile quanto meno è solo evocativa. In generale, avverte Abbott, le buone analogie sono in grado di reggere la specificazione dei dettagli del ragionamento analogico, per quanto radicale questo sia: anzi la radicalità costituisce una premessa per analogie di successo, a patto di reggere l’impatto con lo sviluppo delle implicazioni puntuali dell’analogia. Per coltivare la capacità di sviluppare buone analogie, occorre spesso attingere a discipline diverse: molti grandi sociologi sono infatti stati (prima o in parallelo) cultori di materie non sociologiche, come biologia, chimica, fisica, storia e filosofia 5. Se le search heuristics guardano «fuori» per ottenere nuove idee, le argument heuristics rappresentano modi per trasformare ciò che sappiamo in nuove domande sul «Perché?». Il primo tipo è la problematizzazione dell’ovvio: per esempio, è possibile 5 Per esempio, per richiamare alcuni nomi noti, James S. Coleman è stato ingegnere chimico, Harrison White e Peter Abell hanno un PhD in fisica, Granovetter proviene da studi storici, lo stesso Abbott ha alle spalle studi storici e umanistici.
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pensare alle scuole non come luoghi per apprendere (definizione «ovvia»), ma come ambienti per la riproduzione dei rapporti di dominio tra le classi sociali. Gli studenti delle classi agiate hanno mediamente un miglior profitto scolastico perché possono contare su un maggiore capitale culturale che aiuta il rendimento scolastico. Altrettanto diffusa è l’euristica nota come make a reversal (ribaltamento): si imputa al fenomeno l’esatto contrario di quanto assunto. L’euristica del ribaltamento è illustrata dal libro di Edward O. Laumann e David Knoke The Organizational State (1987): un reversal può semplicemente partire dal titolo del libro, considerando il sostantivo come aggettivo – Statist Organization(s) –, facendo così nascere plausibili domande di ricerca. Per esempio, posso ipotizzare che le organizzazioni stiano via via assumendo prerogative statuali (quali il monopolio della violenza, l’interventismo economico); oppure che le organizzazioni, come gli stati, diano accesso a specifici diritti di cittadinanza per i propri membri. L’euristica del reversal si trasforma così in un’analogia: i membri delle organizzazioni come cittadini, pur avendo preso le mosse da una semplice e «meccanica» trasformazione grammaticale. Un’euristica molto diffusa in sociologia è la riconcettualizzazione, come quando si ridefinisce un certo fenomeno (per esempio, «consumi di qualità») con altre categorie concettuali (per esempio, «giochi di distinzione di status»), generando così nuovi interrogativi di ricerca. L’insegnamento didattico più utile che possiamo derivare dalle euristiche è questo: l’uso delle euristiche richiede l’adozione di un atteggiamento ludico e desacralizzante; la ricerca scientifica è un «gioco serio» dove sviluppare la propria creatività e immaginazione sociologica nei confronti del mondo empirico, vincolandosi però al rigore della tecnica e all’uso della logica.
12.5 Fatti enigmatici e importanza della descrizione Che differenza sussiste tra il modo di osservare e interpretare tipico di chi fa ricerca scientifica e quello che caratterizza la vita quotidiana? Una differenza cruciale, forse la più importante, risiede nella diversità degli strumenti utilizzati. I fenomeni scientificamente rilevanti sono difficilmente percepibili all’occhio nudo del ricercatore, ma diventano visibili solo attraverso specifici strumenti metodologici. La complessità delle strutture di network (si veda il Cap. 16), le differenze e somiglianze tra istituzioni (Cap. 19), le co-variazioni tra variabili (Cap. 15), la dimensione spaziale dei fenomeni (Cap. 22) non possono essere colte se non ricorrendo a strumenti tecnici e metodologici appropriati, come nel caso delle scienze fisico-naturali (Goldthorpe 2000). La chimica sarebbe molto diversa senza l’uso del microscopio e la fisica astronomica non avrebbe raggiunto l’attuale conoscenza senza il telescopio spaziale Hubble. Allo stesso modo, anche nelle scienze sociali non c’è conoscenza scientifica del mondo senza la mediazione di strumenti tecnici e regole metodologiche. Per queste ragioni, le nostre «scommesse» circa il funzionamento del mondo e dei fenomeni/oggetti che intendiamo studiare devono mettere in tensione la domanda circa il «Perché?» con la capacità di fornire buone descrizioni relative al «Cosa?» o al «Quanto?». Come sostenuto da Merton (1987), prima di procedere alla spiegazio-
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II – La cassetta degli attrezzi
ne o all’interpretazione del fenomeno, è necessario stabilire che esso esiste. In altre parole, prima di chiedersi «Perché?», è necessario domandarsi «Perché cosa?»: si rischia altrimenti di «spiegare» pseudo-fatti e la ricerca costruita su pseudo-fatti genera – continua Merton – pseudo-problemi. La capacità di chiedersi «Perché?» e di scorgere il carattere enigmatico del mondo sociale è una dimensione cruciale dell’immaginazione sociologica, che deve però accompagnarsi alla capacità di descrivere il fenomeno di interesse. Il mondo sociale è ricco di potenziali fatti enigmatici (Boudon 2002; Gambetta 2016; Elster 2010): «Perché il fondamentalismo islamico si radica ed emerge nei dipartimenti di Ingegneria e in quelli scientifici?» (lo stesso Osama Bin Laden ha frequentato studi tecnico-scientifici); «Perché i suicidi crescono più durante i governi di centro-destra, in Inghilterra e in Australia?»; «Perché si risponde di più alle email di sconosciuti che hanno lo stesso nome e/o cognome del destinatario?»; «Perché il numero di suicidi è maggiore tra le donne solo in Cina?»; «Perché i libri di teologia risultano tra quelli più rubati dalle biblioteche?»; «Perché, negli Stati Uniti, la paura del crimine è aumentata molto, quando il tasso di criminalità è invece diminuito?»; «Perché l’omosessualità maschile è più diffusa di quella femminile?». La spiegazione di fenomeni enigmatici ha costituito uno degli obiettivi principali della sociologia. Per esempio, Boudon (2002) si chiede perché gli Stati Uniti mostrano un proliferare di sette religiose e di sentimenti positivi verso la loro diffusione, nonostante siano uno dei paesi più modernizzati del mondo? La risposta va cercata nelle condizioni istituzionali che influenzano l’azione degli individui, pur senza determinarla in modo meccanico. Negli Stati Uniti le sette hanno conservato funzioni sociali importanti di educazione e assistenza, che in altri paesi sono state invece assorbite dagli apparati statali. Gli individui incontrano le sette nella loro vita quotidiana, nella risoluzione di problemi concreti, sviluppando quindi un atteggiamento positivo verso la loro esistenza. Ma il carattere enigmatico del fenomeno, da solo, non è sufficiente a farne un genuino problema di ricerca. La domanda «Perché?» si deve accompagnare alla specificazione: «Perché cosa?». La cassetta degli attrezzi presentata in questa sezione del manuale illustra i principali strumenti per distinguere i fatti dagli pseudofatti, permettendo al ricercatore di concentrarsi sulla spiegazione di fenomeni empirici accertati, non su «fantasmi» dalla discutibile consistenza fattuale.
Letture di approfondimento Barbera F., Negri N. (2008). Mercati, reti, istituzioni. Una mappa per la sociologia economica, Bologna, il Mulino. Elster J. (2010). La spiegazione del comportamento sociale, trad. di P. Palminiello, a cura di F. Barbera, Bologna, il Mulino (ed. or. 2007). Goldthorpe J.H. (2000). On Sociology, Oxford-New York, Oxford University Press (trad. it. Sulla sociologia, trad. di A. Treves, a cura di F. Barbera, Bologna, il Mulino, 2000). Hedström P. (2005). Dissecting the Social. On the Principles of Analytical Sociology, Cambridge, Cambridge University Press (trad. it. Anatomia del sociale. Sui principi della sociologia analitica, trad. di M. Vigiak, a cura di F. Barbera, Milano, Bruno Mondadori, 2006).
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12 La selezione del problema di ricerca
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Swedberg R. (1997). «New economic sociology: What has been accomplished, what is ahead», Acta Sociologica, 40(2), pp. 161-72 (trad. it. «La nuova sociologia economica. Bilancio e prospettive», Sociologia del lavoro, a cura di E. Mingione, J.L. Laville, n. 73, 1999, pp. 48-70). Trigilia C. (1998). Sociologia economica. Stato, mercato e società nel capitalismo moderno, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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13 Come si fanno le domande? Intervista e questionario di Davide Arcidiacono
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14 Questione di metodo, le basi per l’analisi dei dati socio-economici di Mauro Migliavacca e Guido Cavalca
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15 Inferenza causale e approccio controfattuale di Gianluca Argentin
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16 La social network analysis di Antonello Podda
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17 I modelli ad agenti di Federico Bianchi, Simone Gabbriellini e Flaminio Squazzoni
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18 I metodi sperimentali di Davide Barrera e Sara Romanò
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19 L’analisi comparata e gli studi di caso di Alberto Gherardini
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20 Netnografia, comunità e pubblici online di Alessandro Caliandro
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21 I big data di Simone Gabbriellini
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22 L’analisi spaziale di Moreno Mancosu
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Parte III TEMI E PERCORSI DI RICERCA
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A. I mercati come costruzione sociale
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23 L’economia tra formale e informale di Paola De Vivo e Enrico Sacco *
23.1 Una prima definizione Una delle questioni molto dibattute dalla sociologia economica, intorno alla quale si è sviluppata una parte importante del dibattito scientifico, è la problematica della relazione tra formale e informale nell’azione economica. L’economia informale ha ulteriormente accresciuto la sua rilevanza nello studio dei processi di sviluppo del capitalismo durante gli anni Settanta del Novecento. I sociologi economici si sono dedicati alla comprensione delle modalità di funzionamento del fenomeno, al ruolo svolto dagli attori e dalle loro strategie, fino agli esiti dei meccanismi informali di regolazione dell’economia (Portes e Haller 2005)1. Gli anni Settanta rappresentano una fase storica di transizione, in quanto quasi tutte le economie dei paesi occidentali – caratterizzate da assetti fordisti-keynesiani – registrano un calo sensibile della crescita economica, accompagnato da elevati tassi di disoccupazione. Le imprese e lo stato incontrano crescenti difficoltà nel loro funzionamento, determinate dalla crisi economica di quel periodo, e per arginarle intraprendono processi di decentramento produttivo e di deregolazione delle funzioni pubbliche. Entrambi sono costretti da un lato a confrontarsi con mercati più concorrenziali e instabili; dall’altro, a rivedere in termini restrittivi la spesa pubblica, in uno scenario che finisce per contribuire alla diffusione dell’economia informale (Gallino 1982; Bagnasco 1981, 1986). Si tratta di strategie di aggiustamento sociale, dal doppio lavoro alla produzione domestica di beni di consumo per la vita quotidiana, che implicano un insieme di scambi economici che sfuggono alle statistiche ufficiali e, pertanto, non sono ricompresi nei calcoli che determinano il valore del prodotto interno lordo di un paese. Per capire le ragioni di scarsa visibilità di tali attività è bene soffermarsi sulle caratteristiche che aiutano a definire analiticamente sia gli spazi formali dell’economia sia quelli informali. È possibile definire l’economia formale come l’insieme dei processi di produzione, distribuzione e scambio di beni e servizi regolati dal mercato, realizzati tipicamente da imprese industriali e commerciali orientate al profitto e alla razionalizzazione del lavoro, le quali agiscono sottomesse alle regole del diritto commerciale, *
Enrico Sacco ha curato i Parr. 23.1 e 23.2, mentre i restanti vanno attribuiti a Paola De Vivo. Il termine economia informale ha una storia recente: è stato adottato durante gli anni Settanta del secolo scorso e ha visto la sua apparizione in una pubblicazione ufficiale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) nel 1972.
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fiscale e del lavoro e in generale nel quadro delle leggi e delle disposizioni con cui lo stato regola e orienta l’azione economica (Gallino 1978). Quando si afferma che il mercato (si veda il Cap. 6) rappresenta il meccanismo di regolazione complessivo dell’economia si presuppone che l’insieme delle transazioni siano basate sulla formazione di prezzi fluttuanti a seconda della domanda e dell’offerta. In questo caso il denaro esprime il rapporto economico tra gli oggetti e i servizi in termini astrattamente quantitativi, lasciando completamente al di fuori le relazioni sociali (si veda il Cap. 9) e le variabili culturali e politiche (si veda il Cap. 1). Infine, bisogna ricordare che questa forma di economia si basa sulla proprietà privata dei mezzi di produzione (si veda il Cap. 3) e sul fatto che anche il lavoro è fornito per un compenso fissato dalle parti con una contrattazione di mercato2. L’economia informale coincide, invece, con i processi di produzione, distribuzione e scambio che tendono a sottrarsi per uno o più aspetti ai requisiti formali appena indicati, deputati a regolare le attività economiche (Bagnasco 1988). O, ancora, per economia informale si intendono «tutte le attività economiche – legali e illegali, di mercato e fuori mercato, monetarie e non monetarie – che in tutto o in parte sfuggono alle norme istituzionali che regolano le transazioni economiche e non vengono riportate nei dati statistici nazionali» (Chiarello 1983, p. 218). Schematizzando, si identificano quattro principali componenti dell’economia informale (si veda anche il 2 Box 23.1): 1) l’economia sommersa include tutte le attività svolte sul mercato per un corrispettivo monetario, ma non in conformità con le norme istituzionali vigenti. Si pensi, per esempio, a una piccola impresa agroalimentare che immette sul mercato beni leciti ma violando, in tutto o in parte, la normativa sui contratti di lavoro3. Oppure a una media azienda nel settore manifatturiero che, pur operando in un pieno regime di legalità sul versante occupazionale, non dichiara al fisco una parte dei suoi proventi. O, ancora, al segmento di soggetti che oltre a svolgere un lavoro dipendente nell’ambito dell’economia formale ne realizza un altro nel settore informale dell’economia; 2) l’economia criminale ricomprende tutte quelle attività di produzione di beni o servizi la cui vendita, distribuzione e possesso è proibita per legge (come per esempio il traffico di stupefacenti o di armi, o lo sfruttamento della prostituzione). Qui, al di là delle regole che sovraintendono lo scambio, è lo stesso bene o servizio venduto che viola le normative vigenti e con ciò si spiega la natura più repressiva attraverso cui gli organi di uno stato o di una comunità internazionale cercano di porre fine a tali scambi; 2
Per chi intende studiare sul piano storico e sociale l’ascesa e la crisi dell’economia di mercato nell’Europa del XIX secolo, il volume di Karl Polanyi La grande trasformazione può rappresentare sicuramente un buon punto di partenza. 3 I soggetti dell’economia sommersa differiscono ampiamente in termini di reddito (per inquadramento, durata dell’impiego, stagionalità ecc.), di status occupazionale (lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, precari, lavoratori domestici ecc.), di settore operativo (commercio, agricoltura, industria), di tipologia e dimensione d’impresa (micro impresa, PMI, gruppo, impresa urbana o rurale) e infine per il livello di protezione sociale e di tutela dell’occupazione.
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3) l’economia domestica rimanda alla produzione di beni e servizi per l’auto-consumo. Il suo ambito elettivo è la famiglia, dove beni e servizi prodotti vengono scambiati senza un corrispettivo monetario e sulla base di legami di reciprocità, di relazioni che al fondo hanno un valore affettivo. Il lavoro di cura e di assistenza che soprattutto le donne svolgono fornendo prestazioni che se immesse sul mercato dovrebbero essere pagate4 è un esempio di tali forme di scambio; 4) infine, l’economia comunitaria o associativa include la produzione e distribuzione di beni e servizi all’interno di reti sociali composte da parenti, amici e conoscenti o costituite da persone aventi interessi e valori comuni. Le attività informali di questo tipo prendono forma in primo luogo su base locale, in un contesto spaziale (si veda il Cap. 22) dove la prossimità fisica continua a conservare la sua importanza (il vicinato). Tali attività costituiscono la trama che compone il ricco tessuto della vita e vanno dallo scambio di beni e servizi di base (strumenti di lavoro, babysitting, risorse monetarie) fino all’uso di competenze più complesse, come aiutare un ragazzo per un esame o riparare il motore della macchina (Pahl 1991). L’associazionismo e l’attività di volontariato possono sopperire, nell’ambito di specifici sistemi istituzionali e motivazioni solidaristiche, ai limiti nell’azione dello stato e del mercato offrendo prestazioni non retribuite. In queste ultime due componenti dell’economia informale, che per caratteristiche e strategie di azione sono quelle più distanti dalla logica regolativa del mercato e dal movente del profitto, la dimensione della reciprocità acquista una rilevanza importante (si veda il Cap. 6). Essa si basa su regole di scambio a contenuto economico non esplicitato e non tematizzato come tale, ma inserito in significati sociali e culturali più complessi (Bagnasco 1999; si veda anche il Cap. 2 di questo volume). Nelle società contemporanee, relazioni di reciprocità sono presenti nella famiglia, nelle relazioni amicali o in certe forme di relazioni comunitarie, ma occorre anticipare che queste peculiari forme di interazione sono diffuse, con diversi gradi di intensità, anche in ambiti organizzativi – l’impresa è tra questi – collocati analiticamente nel perimetro dell’economia formale (Magatti 1991). Se sulle definizioni di economia informale – e sulle diverse aree di attività legale e illegale – si è giunti a un relativo accordo tra gli studiosi, molto più complessi e non sempre univoci sono i metodi per calcolarne le dimensioni. Ciò non deve stupire, tenendo conto delle difficoltà a valutare un fenomeno che per le sue intrinseche caratteristiche «si nasconde» e quindi si sottrae agli strumenti di rilevazione standard. Molte ricerche che si sono rivolte a tale problematica si sono dunque avvalse di metodi d’inchiesta campionaria o di stima indiretta per giungere a ipotesi ragionevoli relative al peso e alle caratteristiche generali del fenomeno in un determinato ambito territoriale. Si stima per esempio che in Italia, nel 2014, 4
L’opportunità di far rientrare l’economia domestica nell’ambito delle attività informali deriva dal fatto che anche nelle società industriali più avanzate la famiglia continua a ricoprire una funzione di primaria importanza, dal momento che funge da unità di produzione di beni e servizi destinati ad assicurare la riproduzione dei suoi membri (Mingione 1997, 2009).
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l’economia non osservata (sommersa e derivante da attività illegali) valeva 211 miliardi di euro, pari al 13 per cento del PIL. Il valore aggiunto generato dalla sola economia sommersa equivaleva a circa 194 miliardi di euro (12 per cento del PIL), mentre quello derivante dalle attività illegali (incluso l’indotto) a circa 17 miliardi (1 per cento del PIL). Inoltre, le unità di lavoro in condizione di non regolarità erano 3.667.000 (il 15,7 per cento sul totale della forza lavoro), per lo più alle dipendenze di imprese e famiglie (circa 2.500.000) 5. Il tasso di irregolarità dell’occupazione era particolarmente elevato nel settore dei Servizi alla persona (circa il 47 per cento), seguito da Agricoltura (17,5 per cento), Commercio, trasporti e ristorazione (16,5 per cento) e Costruzioni (16 per cento) (Istat 2016).
23.2 Le sfide interpretative Gli studi sul fenomeno dell’economia informale e sul funzionamento delle economie avanzate e dei paesi in ritardo di sviluppo pongono una serie di sfide interpretative di non facile risoluzione. Si discute di un percorso teorico e di ricerca che si compone di più correnti di pensiero e, tuttavia, si individuano almeno quattro interpretazioni che hanno influenzato il dibattito scientifico a partire dal secondo dopoguerra 6. L’approccio dualistico, già presente negli schemi teorici di economisti e sociologi alla fine degli anni Cinquanta, sostiene che si è davanti ad attività marginali, residuali e destinate a prosperare soltanto finché il settore industriale non si sia dispiegato compiutamente. La corrente dualista è nata e si è consolidata nell’ambito degli studi dedicati alla modernizzazione dei paesi meno sviluppati (Scidà 2006), dove la maggioranza della popolazione operava – e tuttora opera – nel settore primario, in un’economia di sussistenza e auto-consumo basata su rapporti di reciprocità e redistribuzione. In questa lettura dei percorsi di modernizzazione emergono due diversi modelli di attività economica: da un lato quello tradizionale, comprendente essenzialmente l’agricoltura di sussistenza, e dall’altro il settore moderno, relativo all’agricoltura intensiva, alle attività minerarie e soprattutto all’industria manifatturiera. Una distinzione che implica «la netta separazione tra due società coesistenti o, come spesso si dirà in seguito, tra due settori della società, quello pre-capitalistico e quello occidentale, capitalistico, moderno» (Bottazzi 2007, p. 111). Tale approccio si è soffermato non solo sul rapporto tra città e campagna, mettendo a fuoco gli scambi informali presenti nel settore primario e secondario, ma anche
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Considerando, invece, la distribuzione dell’economia sommersa per attività economica, la sua incidenza sul valore aggiunto complessivo risulta particolarmente elevata nel settore delle Altre attività dei servizi (33,6 per cento), nel Commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (25,9 per cento), nelle Costruzioni (23,5 per cento) e nelle Attività professionali, scientifiche, tecniche (19,8 per cento). 6 I quattro approcci schematicamente proposti trovano una maggiore sistematizzazione, sul piano storico e concettuale, in Pavanello (2008).
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sullo studio delle reti di relazioni informali nelle economie urbane. Il settore informale rappresenta una fonte importante di occupazione e profitto, con salari inferiori al livello minimo previsto dalla legge e con processi produttivi che presentano un’elevata intensità di lavoro, pochi macchinari e ridotti investimenti. Un’area grigia nella quale sono coinvolti artigiani, lavoratori a domicilio, piccoli commercianti, venditori ambulanti, lustrascarpe, intrattenitori di strada, raccoglitori di rifiuti, autisti di pulmini, tassisti non autorizzati, riparatori di macchine e tanti altri lavoratori autonomi, talvolta con un seguito di apprendisti, collaboratori familiari e impiegati (Nafziger 2006). Una molteplicità di soggetti e attività che – secondo l’approccio dualista – saranno progressivamente attratti nelle dinamiche più trasparenti dell’economia formale, oppure tenderanno semplicemente a sparire. L’impostazione strutturalista, consolidatasi durante gli anni Ottanta, quando diventano ormai chiari i limiti delle prime teorizzazioni dualiste7, tende a considerare il settore informale come un insieme di modi e forme di produzione subalterne al capitalismo, ma funzionali alla sua riproduzione: il settore informale è utile, con i beni e servizi a basso costo che offre, per elevare i margini di profitto delle imprese moderne. È questa una connotazione che procede per differenza rispetto ai requisiti attribuiti a un’economia moderna: Sono informali tutte le situazioni caratterizzate dall’assenza di: 1) una chiara separazione tra capitale e lavoro; 2) una relazione contrattuale tra i due; 3) una forza lavoro retribuita col salario e le cui condizioni lavorative e di pagamento sono regolate legalmente. Così definito, il settore informale è strutturalmente eterogeneo e include dalle attività per la diretta sussistenza, alla produzione e commercio su piccola scala, fino ai subcontratti a imprese semiclandestine e familiari (Portes e Sassen 1987, p. 31).
In una versione più recente, questa tesi fa riferimento non più al capitalismo, bensì a un assetto istituzionale «compiuto», con l’economia informale che diventa il complesso delle attività generatrici di reddito che non sono istituzionalizzate, entro un contesto sociale e legale nel quale attività simili sono istituzionalmente regolate (Sassen 1994). Vi è poi la prospettiva di coloro che attribuiscono l’informalità ai costi eccessivi previsti da un determinato sistema fiscale e contributivo. Si parte quindi dal presupposto che uno stato più efficiente e meno invasivo lascerebbe i mercati auto-regolarsi e perciò stesso ridurrebbe i vantaggi dei comportamenti contrari o estranei alle norme. Il settore informale diviene in questo caso un luogo in cui si cerca rifugio quando i costi del rispetto della legge superano i vantaggi, una strategia per certi aspetti razionale adottata da cittadini e imprese al fine di difendersi da un contesto regolativo inefficiente, senza la quale ampi segmenti della popolazione non riuscirebbero a sopravvivere. In sostanza, si sostiene che l’economia informale rappresenti una rea-
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Tra i limiti più evidenti dell’impostazione dualista va ricordato che la crescita e la modernizzazione di numerose regioni dei paesi in via di sviluppo non hanno innescato una parallela crisi delle economie informali e delle organizzazioni sociali entro cui si riproducono.
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zione automatica all’eccesso di pressione proveniente da regole impositive, come la tassazione, che governano le attività di produzione e i rapporti di lavoro. Infine, una quarta posizione ritiene che nelle altre tesi vi sia un eccessivo uso di schemi normativi nel definire e interpretare l’economia informale. Si pone in primo piano il fatto, per esempio, che da troppo tempo si tende a considerare molte delle attività che sfuggono ai tradizionali parametri di un’economia di mercato come negative per l’ordine e la stabilità di un sistema sociale, o, in via secondaria, come espressioni marginali di una data organizzazione economica, interpretando l’informale come se fosse il non-formale, il mero negativo dell’economia ufficiale, regolata, legale, pulita, e quindi positiva (Cross 2000). I processi di informalizzazione dell’economia sono invece estremamente robusti, dinamici e pervasivi, al punto da coinvolgere il Nord oltre al Sud del pianeta, i settori di punta oltre a quelli della mera sussistenza. Una ragione di questo fenomeno risiede nell’incapacità dei sistemi economici di creare adeguati flussi di nuovi lavori formali: nel Sud ciò avviene per la debolezza della crescita, nel Nord perché la crescita tende, sulla base del progresso tecnologico, a diventare jobless. Infine, va enfatizzato il ruolo della crescente globalizzazione economica, della maggiore mobilità del capitale e dei connessi cambiamenti sistemici che innescano nuove dinamiche competitive tra governi e territori volti ad attrarre, attraverso processi di deregolamentazione delle attività produttive, potenziali investimenti e capitali (Carr e Chen 2002). È un percorso che: con le sue combinazioni di lavoro flessibile, subcontratti e delocalizzazione, risale dalle imprese supplementari e subordinate a quelle grandi. Non appena le companies vanno alla ricerca del lavoro a basso costo, i paesi competono per diminuire le obbligazioni allo stato (tasse) e il benessere dei lavoratori (sicurezza, pensioni), rendendo legittime pratiche prima illecite o evitate (Light 2004, pp. 717-18).
In questo caso, l’economia informale può essere considerata come il frutto dell’inadeguatezza delle istituzioni a includere ampi settori della società.
23.3 Meccanismi di regolazione sociale della vita economica Con l’intento di chiarire ulteriormente il campo di applicazione degli strumenti concettuali offerti nella prima parte del capitolo, vengono di seguito illustrate due ricerche empiriche che, a partire da differenti punti di osservazione, pongono in evidenza i confini mutevoli e le interdipendenze che intercorrono tra l’economia formale e quella informale. Si è scelto di porre al centro dell’interesse quelle analisi che ricadono nel perimetro della cosiddetta economia sommersa e della piccola e media impresa. Le due ricerche rientrano in un più vasto filone di studio che si è posto l’obiettivo di comprendere le peculiarità dello sviluppo capitalistico italiano, caratterizzato al suo interno dalla compresenza di differenti formazioni economiche e sociali. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, emerge una lettura del capitalismo italia-
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no più complessa, che tende a superare la concezione dualistica (Nord-Sud; si veda in merito il Cap. 31) precedentemente adottata, arrivando a ipotizzare una tripartizione nell’economia italiana, che risulta composta da macro-aree interdipendenti economicamente e contraddistinte da una specificità nei loro caratteri economici e produttivi. Si tratta dell’area del Nord-Ovest, prevalentemente basata sulle grandi imprese e su di una corrispondente struttura sociale più polarizzata, con le figure operaie che vi prevalgono; dell’area denominata Terza Italia (Nord-Est-Centro), dove le piccole e medie imprese sono predominanti e dove vi è una minore divaricazione tra le classi sociali; del Mezzogiorno, che si configura come un’area di scarsa industrializzazione, con una composizione sociale che porta a rendere rilevante l’impiego pubblico e con una quota massiccia di disoccupazione. Queste parti dell’Italia hanno subito nel tempo una trasformazione dei caratteri originari; la Terza Italia e quella del Mezzogiorno sono comunque i due casi di osservazione in cui si collocano le ricerche presentate, poiché anche nei territori meridionali sono state individuate, in tempi recenti, formazioni economiche in cui risulta rilevante il ruolo di sistemi di piccole e medie imprese. Gli studi sulla Terza Italia, caratterizzata dalla presenza di un numero cospicuo di piccole e medie imprese, hanno dimostrato come si combinano differenti meccanismi di regolazione sociale, tra cui mercato e reciprocità, e come l’intreccio tra economia formale e informale abbia agevolato l’emergere di un particolare modello di sviluppo socio-economico. Sono state, tra l’altro, numerose le indagini8 su tali economie che hanno posto in evidenza l’importanza della famiglia nella genesi dei percorsi imprenditoriali. Analogamente, nel caso dell’analisi sui processi di nascita e sviluppo dei sistemi produttivi di piccole e medie imprese del Mezzogiorno si sono messi a fuoco i meccanismi di regolazione sociale e la loro interazione, dando una particolare rilevanza al ruolo svolto dall’economia sommersa. 23.3.1 La scoperta dell’economia diffusa: il gioco del mercato tra formale e informale La prima ricerca pone due domande fondamentali: quali sono i meccanismi regolativi di natura socio-istituzionale che permettono un processo di sviluppo basato sulla piccola impresa industriale? In che modo hanno interagito agevolando l’innesco dei percorsi di sviluppo endogeno? La ricerca, i cui risultati sono compendiati nel volume la Costruzione sociale del mercato di Bagnasco (1988), si è soffermata sull’analisi delle caratteristiche socio-economiche e culturali di un’area macro-regionale, la Terza Italia, una formazione sociale, come si è detto, distinta dal Nord-Ovest e dal Mezzogiorno. Sono stati usati due livelli di riferimenti empirici: a un primo livello generale, sono stati raccolti dati statistici e riferimenti di letteratura relativi all’insie8 Per approfondire la genesi e i risultati di questo filone di ricerca, si rimanda in via prioritaria a Bagnasco (1977, 1988), De Vivo (1997a, 1997b, 2009), Paci (1980), Trigilia (1986) e Viesti (2000).
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me delle regioni in questione; a un livello di maggiore approfondimento, in relazione agli aspetti istituzionali, si sono presi in esame i risultati raggiunti da studi di caso (si veda il Cap. 19). Le regioni dell’Italia centro-nordorientale sono la sede tipica di quello che viene definito lo sviluppo a economia diffusa. All’inizio degli anni Settanta, oltre il 60 per cento degli addetti all’industria manifatturiera in tutte le regioni considerate lavorava in unità al di sotto dei 250 addetti, con un massimo dell’86 per cento e dell’81 per cento rispettivamente nelle Marche e in Emilia Romagna. Si parte dal presupposto che per studiare lo sviluppo della piccola impresa non è possibile considerare come unità di riferimento la singola unità produttiva ma occorre osservare in che modo è avvenuta la formazione di sistemi di imprese. Nello specifico, l’unità di riferimento diventa il «distretto industriale»: «Un tipico distretto industriale è insieme una popolazione di imprese specializzate in una o più produzioni e una comunità di persone legate da una storia e da istituzioni proprie. Le due realtà si compenetrano, e hanno caratteri fra loro congruenti» (Bagnasco 2003, p. 101). I più semplici di questi distretti sono caratterizzati da una specializzazione tipica, che molte volte segnala l’evoluzione di una tradizione artigiana precedente (scarpe, ceramica ecc.). In realtà più complesse, sono necessarie la divisione specialistica del lavoro fra le imprese e una maggiore diversificazione produttiva. La crescita di tali sistemi – in termini di fatturato, occupazione, produttività e capacità di esportare – è interpretabile alla luce di dimensioni economiche e sociali. Quanto all’economia formale, il mercato è centrale in questi processi. Come si è detto, durante gli anni Settanta vi è una crisi economica profonda che investe le economie mondiali, una congiuntura negativa che mette in discussione il modello di produzione fordista che ha come fulcro la grande impresa. Quest’ultima cerca di arginare tale crisi attraverso un fenomeno definito decentramento produttivo, cioè facendo realizzare delle componenti, dei semilavorati o addirittura delle fasi di lavorazione da altre aziende, di dimensioni minori, in modo tale da ridurre i costi di produzione e governare l’accresciuta incertezza dei mercati. In altre parole, prima della crisi la grande impresa produce al suo interno tutto il prodotto, mentre in seguito cerca delle strategie per abbassare i costi del lavoro e i rischi legati alla produzione in serie. Le piccole e medie imprese si ritrovano così delle commesse di mercato, ma bisogna interrogarsi sulle ragioni per cui esse riescono a produrre a prezzi più vantaggiosi rispetto ai grandi complessi industriali. Per comprendere il crescente protagonismo di queste forme alternative di organizzazione della produzione, le variabili endogene importanti appaiono subito di tipo sociologico: Non si può agganciare con successo e in tempi brevi una nuova possibilità che si apre senza possedere particolari risorse culturali e istituzionali suscettibili di essere impiegate e sviluppate in quella direzione, senza una certa congruenza fra strutture sociali originarie e nuove strutture sociali possibili (Bagnasco 1988, p. 41).
La riduzione dei costi di mercato, dunque, non è una spiegazione sufficiente. Occorre esplorare il gioco tra dinamiche sociali e di mercato per comprendere come si sviluppano questi sistemi produttivi. Nei territori indagati esistevano, seppure in forma
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embrionale, forme di commercio estero, una specializzazione artigiana, la struttura familiare della produzione e della finanza, un peculiare rapporto città-campagna con diffusione di putting-out system e produzioni di piccola scala. Per esempio, è interessante segnalare una correlazione statistica molto significativa fra sviluppo di piccola impresa e precedenti rapporti di lavoro autonomo in agricoltura: mezzadria, piccola proprietà, affitto, anziché grande conduzione con salariati. Ancora tra gli anni Cinquanta e Sessanta, nelle famiglie allargate si condensava una pluralità di risorse (grazie alla complessa geografia di lavori formali e informali nell’industria nascente e nell’agricoltura) e venivano assolte funzioni riproduttive che di fatto ammortizzavano sia i bassi salari e i trattamenti irregolari che le piccole imprese riservavano alle loro maestranze, sia l’assenza o la fragilità dei servizi pubblici. Così l’industrializzazione inizia il proprio percorso senza l’apparenza di gravi e immediate fratture sociali; il cambiamento avviene in uno scenario di persistenza di valori e istituzioni tradizionali, mentre inizia a prendere corpo l’infrastrutturazione del territorio (Carboni 2009). La struttura familiare fa da cinghia di trasmissione tra esigenze di mercato e bisogni sociali; essa può essere interpretata come primo centro di allocazione di risorse e competenze differenziate (in base al genere, all’età, ai percorsi di vita dei suoi componenti), assicurando un alto grado di coesione e tenuta del mercato del lavoro locale e ampliando i margini di azione di un sistema produttivo alla continua ricerca di flessibilità. I rapporti tra le imprese in ambito distrettuale sono regolati da meccanismi di mercato (esistono cioè delle dinamiche competitive), ma questi si sovrappongono e si affiancano a rapporti cooperativi e solidali, tipici di un’economia informale, volti a contenere gli effetti disgreganti di forti spinte concorrenziali. La concentrazione spaziale, la specializzazione settoriale e le modalità di funzionamento rinviano quindi a una combinazione di forme di regolazione, dove le dimensioni del mercato e dell’azione pubblica e le forme di reciprocità e cooperazione hanno dato vita a originali strategie organizzative e competitive. La compresenza di diversi meccanismi di regolazione della vita economica ha contribuito a rafforzare un contesto storico-istituzionale funzionale all’ulteriore crescita di queste forme alternative di produzione, assicurando al contempo discreti livelli di coesione sociale. La ricerca mostra che ogni territorio segue un proprio percorso di crescita, dove dimensione economica e sociale riescono a trovare un equilibrio peculiare. Alcune aree regionali, caratterizzate da modelli di sviluppo a economia diffusa e sistemi produttivi locali nati spontaneamente, si somigliano per le sinergie che si rilevano tra fattori economici e fattori sociali (culturali e istituzionali). Esse danno luogo a un’economia distrettuale sul territorio, con alta densità di piccoli imprenditori, flessibile e competitiva. 23.3.2 Il governo simbolico dell’economia sommersa La seconda ricerca è stata compiuta nel Mezzogiorno d’Italia, al fine di indagare le logiche di riproduzione dell’economia sommersa (De Vivo 2004). In particolare, so-
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no state poste sotto osservazione le dinamiche che caratterizzano due settori (abbigliamento e calzature) della provincia di Napoli. L’economia sommersa investe attività produttive e coinvolge segmenti di lavoro profondamente differenziati. Alla luce di questi elementi e della sua capillare diffusione è utile porsi degli interrogativi: questo tipo di economia informale è un fenomeno temporaneo e residuale? Oppure, in virtù del suo radicamento, di quella più o meno universale tolleranza di cui gode, della sua rispondenza a specifici caratteri dell’organizzazione sociale, economica e culturale dei territori meridionali, esprime una caratterizzazione di tipo endemico? Per rispondere a queste domande, di fondamentale importanza è stato il reperimento di dati secondari aggiornati e affidabili attraverso le fonti ufficiali (Istat, camera di commercio) e le «fonti alternative» (commercialisti, altre aziende, rappresentanti sindacali), al fine di costruire un campione rappresentativo dell’universo delle imprese. Sono stati raccolti ed elaborati dati relativi al numero di addetti e unità locali che operano nel sommerso (caratteristiche dei soggetti e delle organizzazioni coinvolte, dinamiche competitive territoriali e struttura della produzione). In secondo luogo, attraverso interviste in profondità a imprenditori e lavoratori che operano nel settore dell’abbigliamento e del calzaturiero, sono state ulteriormente studiate le dimensioni sociali e culturali che contribuiscono a chiarire alcuni aspetti regolativi dell’attività di piccola impresa. Nella ricerca si parte dall’ipotesi che un regime fiscale restrittivo o una regolamentazione eccessiva possano generare comportamenti tesi a eludere la normativa da parte di imprese e lavoratori, ma che tale fattore non riesca a spiegare fino in fondo la persistenza storica di una così vasta area di economia sommersa. Se la pressione fiscale fosse così determinante, infatti, sarebbe logico attendersi dimensioni dell’economia informale più elevate nei paesi dove le tasse sono più alte. Ma il punto è che non si hanno riscontri empirici probanti in tal senso: per la sociologia economica, quando i fatti smentiscono la teoria, è la seconda a doversi adeguare (si veda il Cap. 12). Non è raro, poi, che il tentativo di irrigidire i controlli finisca per ottenere come principale risultato l’individuazione di sistemi ancor più sofisticati per aggirarli. Quali sono allora le cause profonde che spiegano almeno in parte la propensione di molti soggetti, siano essi lavoratori dipendenti o imprenditori, a impiegare le proprie risorse nei segmenti di economia irregolare? Va subito posto in evidenza che la struttura familiare e i valori che ne orientano i comportamenti influiscono sui modi e sui tempi di allocazione della forza lavoro, insieme alla cultura del lavoro prevalente nell’ambiente di riferimento, finendo ineluttabilmente per condizionare percorsi, strategie ed esiti della ricerca di occupazione dei soggetti. Nelle piccole fabbriche dell’abbigliamento, per esempio, sono le giovani donne a essere le più richieste (esisterebbe una propensione «femminile» al lavoro di cucito), oltre ai giovani che abbandonano precocemente gli studi preferendo imparare un mestiere; nell’edilizia si preferiscono i giovani maschi, perché sono nel pieno del loro vigore fisico; nel commercio, le commesse sono per la maggior parte giovani donne con livelli di istruzione piuttosto bassi. In molti di questi casi, i «lavoratori del sommerso» provengono da famiglie operaie, con il capofamiglia occupato più o meno stabilmente nell’industria
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(talvolta alle prese con la cassa integrazione), precariamente nell’edilizia, nelle piccole imprese artigianali di calzature, abbigliamento, o nei livelli più bassi del pubblico impiego. Vi sono altri casi in cui il sommerso è più qualificato, in cui diplomati in informatica o laureati in lettere, in economia, in architettura, vanno a ricoprire posizioni lavorative di più basso livello rispetto ai titoli di studio di cui dispongono, oppure svolgono attività lavorative i cui contenuti corrispondono soltanto in parte a quanto hanno appreso. Le loro famiglie di origine appartengono per lo più al ceto medio ed essi permangono più a lungo nelle strutture familiari, perché hanno maggiori possibilità di essere sostenuti da queste anche economicamente. Nella strutturazione di questo peculiare scenario economico e sociale, caratterizzato dalla forte presenza del sommerso, hanno un peso determinante anche le regole informali e la cultura delle imprese. Nelle imprese il rapporto di lavoro si basa principalmente su forme ormai codificate di accordi non scritti tra lavoratori e datori di lavoro, derivanti da un negoziato costante e non convenzionale; tali rapporti di lavoro risultano condizionati da criteri sociali che ne legittimano le modalità di funzionamento, criteri che rispondono a fattori quali l’anzianità e il genere. I più anziani, anche quando lavorano in nero, risultano maggiormente tutelati e ciò avviene anche nelle imprese che hanno un’elevata quota di lavoratori irregolari. Il comportamento lavorativo delle donne viene invece percepito in modo differente, essendo più strettamente legato ad alcune fasi tipiche del loro ciclo di vita: esse tendono ad abbandonare l’occupazione nel momento in cui si sposano e hanno bambini; o, se non abbandonano il mercato del lavoro, a sperimentare la faticosa ricerca di un equilibrio tra famiglia e lavoro, in cui pure conta il modello di organizzazione sociale prevalente, ancora strutturato intorno a una cultura che tende a favorire l’occupazione maschile. La persistenza di una quota rilevante di economia irregolare va ricondotta a un sistema complesso di concause; le ragioni della sua presenza nello scenario economico meridionale non sono meccanicamente riconducibili agli aspetti ciclici dell’economia o alle deficienze che si sono manifestate nella sfera normativa e istituzionale. Le cause vanno invece ricercate in una più ampia dimensione sociale. Una sfera nella quale incide, non marginalmente, la legittimazione individuale e sociale di cui il fenomeno gode a livello delle consuetudini collettive, della tradizione, della cultura. Studiare il sommerso vuol dire, innanzitutto, comprendere come funziona e come viene costruito un universo culturale, come si struttura un orizzonte valoriale capace di giustificarlo (si veda il Cap. 11). In altre parole, è indispensabile riflettere intorno alle regole implicite, ai principi sottesi, agli automatismi mentali, ai modelli che sovrintendono all’organizzazione dei sistemi parentali, dei legami solidaristici di comunità radicati nelle reti sociali (si vedano i Capp. 9 e 16).
23.4 Le problematiche emergenti Le due ricerche sinteticamente descritte dimostrano come il confine che divide la dimensione formale da quella informale dell’economia sia estremamente labile e mu-
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tevole, tenendo conto in primo luogo delle peculiarità storiche, sociali e culturali di ogni territorio. In via generale, sulla scorta dei numerosi studi condotti sia nei paesi avanzati sia in quelli in via di sviluppo, è possibile affermare che le due sfere sono fortemente intrecciate e interdipendenti e, solo su di un piano analitico, la dicotomia formale-informale può conservare una discreta dose di utilità. Come sostiene Zelizer: chi incorre nella fallacia delle sfere separate sostiene che esistono due diversi tipi di vita sociale, una (solitamente le organizzazioni economiche formali) orientata da principi di razionalità ed efficienza, l’altra (solitamente le famiglie e i gruppi legati da vincoli amicali) orientata da principi sentimentali e di solidarietà. Se lasciate a se stesse, e ben separate l’una dall’altra, le due sfere funzionerebbero bene, ciascuna seguendo i propri principi. Questo non è vero: infatti […] senza un’ampia integrazione fra attività economica e sentimenti la vita sociale si fermerebbe (Zelizer 2009, p. 11).
Elementi formali e informali sono strettamente intrecciati in determinate strutture d’azione, mercati di scambio e organizzazioni produttive: «La conclusione importante è allora che non l’economia informale, in quanto tale, deve essere al centro di problematiche scientifiche di ricerca, ma piuttosto il gioco del formale e dell’informale in concrete strutture d’azione» (Bagnasco 1999, pp. 46-47). Sul piano delle emergenti problematiche che attraggono sempre più gli sforzi conoscitivi della sociologia economica, l’economia informale e tutte le sue eterogenee manifestazioni concrete vanno riconsiderate non soltanto come elementi di debolezza della moderna economia capitalistica. Esse, in altre parole, non rappresentano solo un ambito di azione residuale, instabile e imprevedibile, un fenomeno di scarsa importanza in quanto espressione di rapporti sociali destinati a essere superati. Certo più di un indizio conduce a ritenere che importanti segmenti del lavoro irregolare possano essere intesi come la logica conseguenza di strategie competitive che hanno come unico obiettivo la riduzione del costo del lavoro per restituire flessibilità al processo produttivo. O, spostando l’interesse sulle dinamiche sociali dell’economia domestica, non può essere ignorata la variabile di genere attraverso cui vengono distribuite in maniera asimmetrica le attività di cura in ambito familiare. Si tratta di campi di azione e di interazione in cui la dimensione informale delle attività economiche acquista obiettivamente una valenza negativa, segnalando la presenza di aree di arretratezza sociale, politica e culturale che per certi aspetti si ricollegano alle aporie dell’emergente modello di capitalismo globale deregolato. Tuttavia, va segnalato che l’economia informale e le forme di integrazione alternative allo scambio di mercato possono in altri casi facilitare l’emergere di processi innovativi non previsti. In fondo, una delle lezioni da trarre dalle ricerche sui sistemi produttivi locali in Italia investe proprio la capacità innovativa che in particolari contesti sociali e territoriali può sprigionarsi dai reticoli informali dell’agire economico. Si è visto, per esempio, come l’incapacità dell’economia formale di garantire risorse sufficienti ha obbligato le famiglie a sviluppare complesse strategie miste (tra mercato e reciprocità) volte a colmare il crescente divario tra i propri bisogni e le risorse
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necessarie per soddisfarli. Elementi, questi, che vanno collocati all’interno di uno specifico contesto storico e culturale che ha incentivato determinate strategie d’intrapresa imprenditoriale a livello locale.
Letture di approfondimento Bagnasco A. (1988). La costruzione sociale del mercato, Bologna, il Mulino. De Vivo P. (2004). «Il Mezzogiorno e il governo simbolico dell’economia sommersa», il Mulino, 4, pp. 662- 72.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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24 Mercati illegali e illegalità nei mercati. Crimine organizzato, mafia ed economia di Rocco Sciarrone e Luca Storti
24.1 Inquadramento del fenomeno La sociologia economica ha dedicato in anni recenti uno spazio crescente allo studio dei mercati. Da un punto di vista della ricerca empirica ne sono stati indagati molteplici, che differiscono tra loro per quanto riguarda i beni e servizi che vengono domandati e offerti, le dinamiche dello scambio, l’andamento e la formazione dei prezzi. Da un punto di vista teorico, in questo campo di studi hanno poi trovato nuovi ambiti di applicazione strumenti di analisi consolidati, quali le reti, la fiducia, le norme di reciprocità, le dinamiche di regolazione politica dell’economia (si vedano i Capp. 8, 9 e 16). La gran parte di questi contributi assume però un presupposto implicito: il fatto che lo scambio di mercato avvenga in un quadro di legalità (Beckert e Wehinger 2012). In un certo senso, il tema dell’illegalità nei mercati è rimasto confinato all’interno delle indagini sull’economia informale (Bagnasco 1986; Trigilia 2009; si veda anche il Cap. 23 di questo stesso volume) le quali tendono a osservare principalmente la violazione della legge che si realizza durante la produzione di un bene (per esempio, con evasione fiscale o lavoro in nero). Si tratta di un filone di studi rilevante, che ha arricchito gli orizzonti della sociologia economica, ma che non satura la sfera dei mercati illegali e, più ampiamente, quella del rapporto tra scambio di mercato e illegalità. Queste sfere interessano infatti anche la produzione e la diffusione di beni propriamente illegali (per esempio, il traffico di stupefacenti), nonché la realizzazione di beni legali commercializzati per vie illegali o le situazioni di confine, in cui legale e illegale si confondono. Cercheremo di affrontare questi temi prima sul piano teorico, poi illustrando alcuni filoni di ricerca empirica. In via preliminare è opportuno fornire alcune indicazioni su come osservare il nesso tra mercati e illegalità. È possibile intendere i mercati come delle arene in cui volontariamente vengono scambiati beni specifici o servizi in cambio di una contropartita in denaro e in presenza di un certo grado di competizione (Aaspers e Beckert 2008). Rappresentare i mercati come arene significa immaginarli come se fossero dei campi, ovvero degli spazi densi di interazioni sociali (si veda il Cap. 26). I mercati infatti vengono intesi dalla sociologia economica come un tipo particolare di istituzione sociale: essi non gravitano nel vuoto, ma sono collocati in ambienti sociali regolati sia da norme formali sia da norme sociali che riguardano le abitudini e le consuetudini, le convinzioni che animano le scelte di acquisto e di consumo, le convenzioni relative al modo in cui i prodotti sono presentati e percepiti dai diversi
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attori che partecipano agli scambi. Tanto le norme formali, che vietano alcuni comportamenti e ne permettono altri, quanto le norme sociali sono fattori che regolano a livello micro il funzionamento dei mercati: forniscono i principi e gli orientamenti che guidano l’allocazione delle risorse; sono aspetti rilevanti nel delineare il nesso tra illegalità e mercati e per comprendere i meccanismi che incentivano o, viceversa, sanzionano comportamenti economici illegali. Un ulteriore tema di cui è opportuno un inquadramento introduttivo, prima di osservare le dinamiche di funzionamento interne ai mercati illegali, attiene al rapporto tra economia e criminalità. Definiamo quindi il concetto di criminalità economica nelle sue varianti più importanti, con attenzione particolare al fenomeno della corruzione, ovvero al peculiare scambio illecito che solca la sfera economica e quella politica-amministrativa. Con il concetto di criminalità economica si indicano «quei reati che hanno un contenuto economico e una qualche relazione con un’attività imprenditoriale o professionale» (Savona 2001, p. 95). Tra le forme di criminalità economica, rilevante è quella dei «colletti bianchi» (Sutherland 1940) o dei «potenti», così definita in quanto riguarda soggetti socialmente privilegiati, che occupano posizioni di responsabilità (nel mondo dell’impresa e della finanza) e sono contraddistinti da una grande disponibilità di risorse, oltre che dalla capacità di dettare regole di comportamento e di sottrarsi alle imputazioni (Ruggiero 2015). Al fine di garantirsi l’impunità, questi soggetti si mobilitano infatti per cambiare la definizione della realtà o per oscurarla, in modo da giustificare e fare apparire legittimo il loro comportamento illecito (Cottino 2005; Dino 2009; si veda anche il 2 Box 24.1). Questo tipo di criminalità ha conseguenze rilevanti sul funzionamento del sistema economico. Per esempio, con riferimento al nostro paese è stato osservato che la «singolare propensione delle imprese italiane (soprattutto le grandi) all’illecito e alla corruzione politica costituisce un fattore ambientale di estrema importanza che condiziona le scelte di investimento e di sviluppo della generalità delle imprese» (Onado 2011, p. 204). Tratti peculiari del capitalismo italiano sarebbero proprio «la frequenza e la continuità con cui la finanza (bancaria e delle imprese) è stata usata per puri scopi di corruzione» (ivi, p. 192), conseguenza di un sistema economico «tradizionalmente basato su relazioni personali e su intrecci societari, che tendono a costruire una rete di alleanze […] in cui l’aspetto del potere prevale su quello astrattamente imprenditoriale» (ivi, p. 202). Una caratteristica che si è ulteriormente rafforzata con la diffusione del modello dell’impresa «irresponsabile», che cerca di massimizzare a ogni costo e a breve termine il suo valore di mercato, ritenendo di «non dover rispondere ad alcuna autorità pubblica e privata, né all’opinione pubblica, in merito alle conseguenze in campo economico, sociale e ambientale delle sue attività» (Gallino 2005, p. VI). Entriamo qui nel campo della criminalità dell’impresa, definita come corporate oppure organizational crime (Savona 2001). Al riguardo è possibile distinguere i «crimini per l’impresa», che comprendono i reati commessi per ottenere benefici economici a favore dell’impresa, e i «crimini contro l’impresa», che invece indicano comportamenti attuati da dipendenti a danno dell’impresa (in questo caso si parla anche di «reati occupazionali»). Nel campo dei rapporti tra economia e criminalità assai rilevante è il fenomeno della corruzione, ovvero l’esistenza «di un patto criminoso tra il pubblico ufficiale o
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l’incaricato di un pubblico servizio e il privato cittadino, in forza del quale il primo soggetto concorrente fa mercimonio della propria funzione pubblica o dei poteri a essa connessi, mettendoli a disposizione del privato in cambio di danaro o altra utilità» (Ardenghi 2015, p. 141). Caratteristiche importanti degli scambi corrotti sono la serialità dei comportamenti illeciti, quando il corrotto è protagonista di più atti di corruzione, la loro natura plurisoggettiva, vale a dire il coinvolgimento di una molteplicità di soggetti (collettori, intermediari, faccendieri), e la necessità di stabili protezioni politico-burocratiche (Davigo e Mannozzi 2007, pp. 26-28). In questi casi, la corruzione assume carattere sistemico e risulta strutturata in reti di relazioni stabili in cui sono collocati politici, funzionari, attori economici che – in funzione di norme non scritte ma di comune accettazione all’interno di quella cerchia – regolano la divisione dei profitti, l’attribuzione di cariche, i processi di carriera, la distribuzione delle tangenti, l’emarginazione di chi non si adegua, l’estromissione degli organi di controllo (Vannucci 2012). La corruzione sistemica e ad ampio raggio comporta un campo di interazione caratterizzato da un elevato grado di opacità, in cui è complicato attribuire responsabilità e accertare condotte di complicità. Sono questi peraltro i tratti distintivi della cosiddetta area grigia (Sciarrone 2011; Sciarrone e Storti 2016), terreno di incontro e di compenetrazione tra forme diverse di illegalità, in cui la corruzione trova la massima potenzialità di espressione.
24.2 Una cornice interpretativa Un mercato illegale è caratterizzato dalla presenza di scambi continuativi di beni e servizi la cui produzione, commercializzazione e consumo sono vietati dalla legge degli stati e/o dalle norme del diritto internazionale. I mercati illeciti emergono non solo come esito della dinamica della domanda e dell’offerta di specifici beni e servizi proibiti sul piano giuridico, ma anche per effetto di strumenti e disposizioni che mirano a controllare e regolare transazioni economiche e relazioni sociali. Per esempio, solo in tempi relativamente recenti sono state approvate leggi che vietano esplicitamente l’investimento nell’economia lecita di capitali accumulati per via criminale. Questo è accaduto in Italia nel 1982, con l’approvazione della legge Rognoni-La Torre, che ha introdotto nel codice penale il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, prevedendo anche il sequestro e la confisca di beni posseduti in modo formalmente legale ma accumulati con metodi illeciti. Le dinamiche e i caratteri dei mercati illegali sono per molti aspetti simili a quelli dei mercati legali: abbiamo venditori e compratori, grossisti e dettaglianti, mediatori, importatori e distributori, prezzi, profitti e perdite (Arlacchi 1988, p. 407). Un mercato illegale può essere poi più o meno competitivo, per quanto riguarda tendenzialmente la fornitura di beni e servizi illeciti ai consumatori finali, oppure oligopolistico, prevalentemente in relazione alle fasi della produzione e del commercio su larga scala. I mercati illeciti presentano tuttavia alcune peculiarità rispetto ai sistemi dello scambio economico legale. In primo luogo, vi troviamo tendenzialmente unità or-
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ganizzative «polivalenti», che combinano risorse di natura diversa, vale a dire che agiscono non solo come imprese economiche, ma anche come gruppi politici o di potere, ricorrendo all’uso specializzato della violenza e a risorse di capitale sociale (Sciarrone 2009). In secondo luogo, il costo elevato delle transazioni – dovuto al carattere clandestino delle attività e ai rischi connessi all’azione di gruppi criminali rivali e a quella delle agenzie di contrasto – favorisce assetti organizzativi di tipo reticolare, basati prevalentemente sul modello del clan. Infine, è assente un apparato formale in grado di scoraggiare l’opportunismo e di garantire l’adempimento dei contratti. I gruppi più rilevanti di criminalità organizzata, come quelli di tipo mafioso, mettono in campo specifiche strategie per tutelare e rendere sicure le loro attività, cercando innanzitutto di neutralizzare gli apparati investigativi e giudiziari. Si dotano infatti di modelli organizzativi in grado di assicurare elevati livelli di segretezza per sfuggire all’azione delle forze dell’ordine, rafforzano i legami di lealtà per disincentivare la defezione dei membri che vi fanno parte, ricorrono a scambi corruttivi per manipolare i funzionari pubblici e assicurarsi l’impunità. In alcuni casi, cercano di ottenere un diffuso consenso sociale per allargare le basi del proprio potere, offrendo servizi o distribuendo risorse, oppure strumentalizzando a proprio vantaggio situazioni di disagio, ovvero tentando di occultare la natura criminale delle loro attività e di giustificarle con ragioni di ordine ideologico e culturale. Si diceva che per scoraggiare i comportamenti opportunisti nei mercati illegali risulta prevalente il modello di azione tipico del clan (Ouchi 1980), per cui i rapporti contrattuali tendono a essere affiancati e, spesso, sostituiti da relazioni di solidarietà etnica, politica, religiosa e territoriale. I traffici illeciti richiedono infatti costi di transazione elevati, insieme a una proliferazione di livelli di intermediazione. Ne consegue che una parte delle relazioni di mercato tende a essere «internalizzata», trasformandosi in rapporti di cooperazione tra membri di uno stesso gruppo sociale, ovvero dello stesso clan (Arlacchi 1988, p. 417). Le organizzazioni criminali di maggior successo, in grado di competere nei grandi mercati illeciti e di muoversi quindi a livello transnazionale, cercano però di inserirsi in più ampi «network illeciti», combinando elementi tipici sia delle organizzazioni formali sia dei gruppi primari. Questi reticoli offrono garanzie sulla reputazione dei partecipanti e consentono di ridurre i costi e i rischi degli scambi illeciti. Per comprendere il funzionamento dei mercati illegali è necessario porre attenzione al grado di fiducia e di violenza che gli scambi illeciti comportano. Da un lato, bisogna tenere conto dei meccanismi attraverso cui si concede o meno credito alla controparte in una situazione in cui risulta difficile valutare l’affidabilità dei soggetti coinvolti nella transazione. Dall’altro, bisogna considerare come venga garantito il buon esito degli scambi in assenza di un ordinamento giuridico formale, ovvero quando e come si ricorra all’uso della forza per disciplinare le controversie e sanzionare i comportamenti non conformi. Le transazioni illecite, per loro natura, richiedono un certo margine di segretezza, ma anche di riconoscimento tra le parti. Nella letteratura sociologica ed economica si applica a queste particolari situazioni la cosiddetta teoria del signalling, tesa a identificare quali sono le procedure, gli strata-
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gemmi, i segnali che i contraenti producono – e a cui si rifanno – per dare luogo allo scambio, superando i timori di essere raggirati (Gambetta 2009). Molte transazioni che avvengono nei mercati illeciti, infatti, sono contraddistinte da un’elevata asimmetria informativa: uno dei due contraenti sa per certo che l’altro sta infrangendo la legge, ma non viceversa. Immaginiamo l’acquisto di droga: può essere che l’acquirente sia un agente sotto copertura o che lo sia chi vende il prodotto. Un ulteriore esempio deriva dagli scambi mediati dalla corruzione, nei quali è essenziale che chi intende corrompere per ottenere un vantaggio in una competizione economica si accerti che il pubblico ufficiale sia interessato all’offerta o perlomeno non propenso a denunciare la proposta. Analoga dinamica, a ruoli invertiti, si ha nelle vicende di concussione, ovvero quando è un pubblico ufficiale a richiedere una controparte in denaro per dare a terzi ciò che spetterebbe loro di diritto o comunque non mediante una transazione monetaria ad hoc. Per superare queste difficoltà, che possono impedire l’attivazione dello scambio, entrano in gioco le reti di relazione in cui sono collocati gli attori, di cui sono rilevanti le caratteristiche strutturali, le risorse che circolano all’interno, i meccanismi di diffusione della reputazione, le funzioni svolte da intermediari e garanti degli accordi. Le pratiche illegali di allocazione di risorse scarse richiedono infatti strutture relazionali in grado di rendere fluidi e sufficientemente prevedibili gli scambi, garantire un livello adeguato di norme di reciprocità, favorire il rispetto delle regole e scoraggiare l’exit. Queste componenti possono attivarsi efficamente all’interno di reti relazionali stabili, in cui vi siano buoni livelli di conoscenza interpersonale, ma anche figure di autorità, capaci di svolgere funzioni di controllo, oltreché di interconnessione. Si tratta di figure che si collocano in posizione strategica dentro i network illeciti, costituendo nodi a elevata multiplexity (si veda il Cap. 16): mettono a disposizione le loro risorse di capitale sociale e possono essere chiamate a esercitare compiti di coordinamento, scoraggiando la violazione dei patti. Attori dotati di queste caratteristiche sono, per esempio, i mafiosi. Questi ultimi da un lato favoriscono l’attivazione di scambi di mercato, soprattutto in contesti conflittuali e contraddistinti da bassi livelli di fiducia; dall’altro richiedono l’intervento di intermediari (professionisti, politici, funzionari pubblici, imprenditori) per investire il denaro e costruire accordi di affari duraturi. Da qui partiremo per illustrare alcuni esempi di ricerca.
24.3 Campi di ricerca: alcuni esempi 24.3.1 Il filone di ricerca sulla mafia come impresa: il caso Blue Call La spiegazione del crimine organizzato si basa da oltre un secolo su categorie quali tradizione, assenza dello stato, deprivazione relativa, sottocultura criminale. Si tratta di categorie che rientrano in un «paradigma del deficit», secondo cui le cause del crimine vanno ricondotte a una qualche carenza: di controllo, di reddito, di socializzazione, di opportunità, di razionalità. Tuttavia, nelle sue forme attuali il crimine organizzato sembra essere «un esito non già di un deficit, ma di una ipertrofia delle opportunità, non del sottosviluppo, ma del sovrasviluppo» (Ruggiero 1996, p. 59). In
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questa prospettiva, i gruppi criminali più strutturati possono essere analizzati come delle vere e proprie imprese economiche. L’analisi della criminalità organizzata come «impresa» costituisce uno specifico paradigma interpretativo del fenomeno. Le radici di questo tipo di spiegazione possono essere rintracciate in una serie di studi che hanno analizzato il crimine organizzato negli Stati Uniti adottando un approccio economico (Reuter 1983; Schelling 1984). Questa prospettiva teorica si è sviluppata in contrapposizione all’interpretazione «cospirativa», secondo cui la presenza della criminalità organizzata era frutto del trapianto negli Stati Uniti di modelli culturali di provenienza esterna, tipici di alcuni gruppi di immigrati. L’analisi della criminalità organizzata come impresa ha evidenziato l’origine endogena del fenomeno, focalizzando l’attenzione sulle condizioni economiche e sociali della società statunitense, in particolare sulla presenza di una domanda di beni e servizi illeciti (Lupo 2008). Il paradigma della mafia come impresa si sviluppa compiutamente negli ultimi decenni, quando l’attenzione degli studiosi, concentrandosi sulla razionalità dell’agire mafioso, si orienta dapprima sull’ingresso dei gruppi mafiosi nelle attività imprenditoriali lecite e, poi, sulle attività criminali analizzate come attività di impresa (Santino 2006). Si deve a Pino Arlacchi la tematizzazione della «mafia imprenditrice», in un libro che risale agli inizi degli anni Ottanta (1983). La sua tesi è che la mafia può rientrare a pieno titolo nella categoria di imprenditorialità, anche nella sua versione più restrittiva, vale a dire quella che si richiama alla teoria di Schumpeter, il quale identifica la figura dell’imprenditore con quella dell’innovatore (si veda il Cap. 5). I mafiosi sarebbero divenuti imprenditori a partire dagli anni Settanta, quando alla competizione per l’onore e il prestigio si sostituisce la competizione per la ricchezza. Secondo Arlacchi, essi passano da un ruolo passivo di mediazione a un ruolo attivo di accumulazione, divenendo con successo imprenditori economici. L’ingresso diretto del mafioso nella competizione economica – vale a dire l’orientamento in senso imprenditoriale del proprio agire – avviene sia attraverso l’introduzione del calcolo razionale-capitalistico, sia attraverso un adattamento selettivo della cultura e dei valori tradizionali. La tesi della mafia come impresa presenta il vantaggio di superare le concezioni che la rappresentano come fenomeno residuale, tipico di una società tradizionale e arretrata. Secondo alcuni autori, sarebbe però fuorviante considerare la mafia imprenditrice espressione di una nuova mafia: la ricerca storica ha evidenziato come la sete di guadagno sia una costante dell’agire mafioso. La dimensione imprenditoriale, intesa come ricerca di profitti economici, non esaurisce certo la complessità del fenomeno mafioso. Quella di «impresa» è solo una delle dimensioni della mafia: l’accumulazione della ricchezza non è l’unico scopo, e spesso neppure quello prevalente. La ricerca e l’esercizio del potere sono, in particolare, aspetti peculiari delle organizzazioni mafiose e ne costituiscono la dimensione politica, che si manifesta nel cosiddetto «controllo del territorio» e nel collegamento con settori delle istituzioni e della società civile (Sciarrone 2006). Per Raimondo Catanzaro (1988) i mafiosi sono essenzialmente «imprenditori della protezione violenta». Essi hanno interesse a mantenere basso il livello della fidu-
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cia generalizzata, di tipo impersonale, poiché così aumenta la domanda di fiducia personalizzata che sono in grado di offrire. Il problema principale, tuttavia, non è la bassa quantità di fiducia, bensì la sua distribuzione all’interno della comunità. Infatti, nelle zone mafiose, l’imparzialità delle istituzioni statali, l’anonimato e l’impersonalità delle relazioni di mercato non riescono ad affermarsi «perché la fiducia è concentrata in modo eccessivo all’interno di gruppi ristretti ed è allocata nelle mani sbagliate» (Catanzaro 1987, p. 279). In questa prospettiva, si può richiamare l’interpretazione di Diego Gambetta, secondo cui «la mafia è un caso particolare di una specifica attività economica: è un’industria che produce, promuove e vende protezione privata» (1992, p. VII). Secondo questa formulazione, l’attività specifica dei mafiosi consiste nel produrre e vendere un tipo particolare di bene in qualità di sostituto della fiducia, indispensabile per ridurre l’incertezza che caratterizza gran parte delle transazioni economiche e per garantire che ognuna delle parti rispetti i propri obblighi nei confronti dell’altra: questo bene è, appunto, la protezione privata che le imprese mafiose offrono in concorrenza e in conflitto con lo stato. L’autore osserva che la protezione mafiosa può essere desiderabile in situazioni in cui la fiducia è scarsa: in questi casi il suo acquisto «può essere il frutto non di un’imposizione ma di un atto razionale, può rientrare cioè negli interessi individuali di determinati soggetti». Gli stessi clienti dei mafiosi sanno comunque «che farsi proteggere dalla mafia più che un bene è spesso solo il male minore» (ivi, p. IX). L’accumulazione della ricchezza viene perseguita dai mafiosi nell’ambito sia dei mercati leciti sia di quelli illeciti: anzi, spesso attraverso forme di sovrapposizione tra sfera legale e illegale dell’economia. Pertanto, l’attività imprenditoriale dei mafiosi si sviluppa fondamentalmente lungo due direttrici: (a) attraverso imprese costituite e gestite direttamente da esponenti del gruppo criminale (anche se di frequente proprietà e ragione sociale sono dissimulate); (b) attraverso forme di compartecipazione con altri soggetti economici. In tale prospettiva, rilevanti sono i rapporti di collusione che si stabiliscono tra mafiosi e imprenditori sulla base di scambi reciprocamente vantaggiosi. Rispetto all’economia legale sono privilegiati, accanto ai tradizionali investimenti nel campo dell’edilizia, quelli in settori «protetti», ossia legati a forme di regolazione pubblica dell’economia, caratterizzati da concorrenza ridotta e, spesso, da situazioni di rendita (attività commerciali, società immobiliari, servizi alle imprese e alle famiglie e, più in generale, i settori delle infrastrutture e dei servizi pubblici). La produttività di un’attività legale condotta da un mafioso non è però quasi mai elevata. I mafiosi mostrano infatti scarse capacità imprenditoriali, ma godono di notevoli vantaggi competitivi in virtù delle loro competenze criminali. Essi, per esempio, eludono le regole del mercato e gestiscono in modo opaco la forza lavoro. Possono ricorrere alla minaccia o all’uso della violenza per scoraggiare i concorrenti e dispongono di ingenti risorse finanziarie provenienti dai traffici illeciti. La superiorità economica delle imprese mafiose dipende anche dalla capacità di accumulare e utilizzare il capitale sociale disponibile nei reticoli sociali in cui sono inseriti e che essi stessi contribuiscono a intrecciare. Al riguardo è importante sottolineare la rilevanza dell’area grigia (Sciarrone 2011) tra mondo legale e illegale, tra mercati leciti e illeciti: solo i gruppi che riescono a muoversi ai confini dei due mon-
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di possono usufruire di quelle affiliazioni sociali multiple che incrementano le loro opportunità. Da questo punto di vista è ormai riduttivo parlare di infiltrazione della mafia nell’economia legale; si osserva piuttosto un rapporto di compenetrazione: non si tratta infatti di una mera estensione dell’area dell’illecito nel lecito, quanto di una commistione tra le due aree, attraverso forme di compartecipazione e di scambio. D’altra parte, reticoli basati su relazioni di complicità e di collusione costituiscono canali privilegiati di comunicazione e di scambio che, oltre a garantire il buon esito delle transazioni economiche, permettono di estendere raggio di azione e sfera di influenza delle stesse imprese criminali. Senza queste relazioni esterne la capacità dei mafiosi di agire nei mercati legali sarebbe nettamente ridimensionata. In questa prospettiva, numerose ricerche hanno messo in evidenza che la mafia costituisce un vincolo allo sviluppo di vaste zone del Mezzogiorno e crea distorsioni nel funzionamento dei mercati anche nelle aree del Centro e Nord Italia in cui ormai da tempo si è diffusa. Illustriamo in proposito un esempio empirico che riguarda proprio l’economia dell’Italia settentrionale (Storti et al. 2014). L’indagine ricostruisce una vicenda verificatasi nel 2012 in Lombardia, notoriamente la regione più ricca del paese, che vede protagonista una grande società del settore dei call center, denominata Blue Call. Un aspetto sorprendente della vicenda è la dinamica del contatto tra imprenditori e mafiosi: sono i primi a rivolgersi volontariamente ai secondi, richiedendone un intervento di tipo regolativo. La Blue Call, infatti, ha anche una sede in Calabria, finita sotto la mira di alcuni gruppi criminali da cui gli imprenditori intendono difendersi. Non lo fanno però mediante l’ausilio delle forze dell’ordine, bensì ricorrendo alla protezione di un altro gruppo malavitoso, riconducibile alla ’ndrangheta. In cambio del loro intervento, i mafiosi chiedono di entrare nella compagine societaria, controllandone una quota. Per realizzare concretamente l’intestazione fittizia e la partecipazione occulta vengono coinvolti consulenti e professionisti compiacenti. L’intreccio tra imprenditori e mafiosi si fa dunque più fitto: prima sono gli imprenditori a chiedere un servizio ai mafiosi e poi questi ultimi cercano di ottenere un controllo, almeno parziale, sull’attività economica. Il mondo della criminalità organizzata e quello dell’economia formalmente lecita si confondono progressivamente. La situazione non è però stabile: i mafiosi in questione non sono mossi da vere intenzioni imprenditoriali, non ambiscono a rinforzare la posizione di Blue Call sul mercato; hanno soltanto una finalità predatoria: utilizzano la società come un «bancomat», per estrarre risorse utili al sostentamento del gruppo, finendo così per ridurne la forza economica. Inoltre inseriscono negli organi gestionali di Blue Call membri del gruppo mafioso totalmente privi di capacità manageriali. Gli improvvidi imprenditori, ormai consapevoli dell’esigenza di liberarsi dai mafiosi per evitare il fallimento della società, cercano di riacquisire le quote che hanno ceduto loro. I mafiosi però non arretrano, anzi reagiscono violentemente. Sarà poi l’autorità giudiziaria a porre fine al contenzioso e a collocare la società in amministrazione controllata. L’aspetto più rilevante di questa vicenda è che coinvolge imprenditori a capo di un’azienda di grandi dimensioni e di notevole rilevanza economica. Per essi ottenere servizi mediante il ricorso a comportamenti illeciti è ritenuto «adeguato», evidentemente più appropriato e conveniente dell’agire di mercato.
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24.3.2 La criminalità di impresa: una ricerca nel settore finanziario Cambiando scenario, osserviamo ora una vicenda che vede coinvolte imprese multinazionali e società di consulenza finanziaria. Questo ulteriore esempio di ricerca aiuta a delineare i meccanismi attraverso cui una serie di azioni spregiudicate e illecite si diffondono nei mercati, generando indebiti vantaggi per alcuni, perdite ingenti per altri ed elevati costi nei confronti del bene pubblico. Si tratta di un’indagine condotta da Richard Swedberg (2004), che ha studiato lo «scandalo di impresa» che ha coinvolto la società Enron, una grande multinazionale dell’energia chiusa per bancarotta fraudolenta nel 2001, e la Arthur Andersen, una delle cinque più grandi società di revisione di bilancio e consulenze allora esistenti al mondo, sostanzialmente fallita a seguito della vicenda in questione. Swedberg lamenta una mancanza di attenzione negli studi recenti della sociologia economica, che ha prevalentemente indagato il ruolo delle relazioni sociali nel plasmare gli scambi di mercato, trascurando la rilevanza degli interessi (2004, p. 157). Questi ultimi costituiscono le fondamenta dell’economia e guidano l’agire di mercato. Il problema è che, soprattutto in campo economico, gli interessi tendono a essere tra loro confliggenti e possono essere conciliati solo parzialmente. Questo rende l’economia una sfera difficilmente governabile, strutturalmente esposta a tensioni, eccessi di opportunismo, comportamenti che si situano ai confini di ciò che è lecito e che, non di rado, sfociano nell’illecito. Per sviluppare l’analisi Swedberg applica la teoria dell’agenzia, la cui idea costitutiva è piuttosto semplice: qualcuno (il principale) necessita di qualcun altro (l’agente) per realizzare il proprio interesse (ivi, p. 157). Si tratta, per esempio, del rapporto proprietari/azionisti-manager nelle grandi corporation: chi detiene il possesso di un’impresa può avere bisogno di persone qualificate per gestirla. In queste situazioni possono emergere problemi di regolazione, perché sovente gli interessi tra principale e agente non sono allineati: può accadere per esempio che gli azionisti abbiano l’obiettivo di consolidare l’azienda nel lungo periodo, mentre i manager intendono ottimizzare i propri interessi monetari di breve periodo (ibidem). Un mancato allineamento degli interessi principale-agente sarebbe la causa principale della consistente diffusione di comportamenti illeciti che hanno visto protagonista sia la Enron sia la Arthur Andersen. L’antecedente è costituito da una crescita economica del mercato borsistico sconosciuta in passato, verificatasi negli anni Novanta, che attrae una moltitudine di micro-investitori euforici, disabituati a collocare una parte della loro ricchezza in azioni. Per rendersi appetibile ai nuovi arrivati sul mercato borsistico, le società quotate hanno bisogno di una parvenza di affidabilità. Emergono così «conflitti di interesse» che mettono sotto pressione le società di certificazione. Queste ultime, tradendo la loro ragione sociale, allentano i controlli, permettendo a un enorme numero di società di «gonfiare i loro utili» (ivi, p. 160). Un processo di questo tipo riguarda anche una società prestigiosa come la Arthur Andersen che, cercando una via di adattamento al nuovo ambiente economico, contraddistinto da una crescente finanziarizzazione, abbandona i suoi standard di controllo dei bilanci, in primo luogo nei confronti di Enron, di cui è ispettore contabile. Fino
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all’ottobre del 2001 Enron risulta essere una società sana e dinamica, ambita da molti micro-investitori, e certificata come in piena salute dalla voce autorevole di Arthur Andersen. La svolta avviene in modo improvviso, quando i vertici della società, ormai con l’acqua alla gola, sono costretti ad ammettere una perdita di 618 milioni di dollari, occultati attraverso una serie di trucchi contabili. Di lì a poco emerge che anche le entrate dichiarate da Enron negli ultimi anni sono state superiori a quelle reali di diverse centinaia di milioni di dollari. Il mercato reagisce senza prova d’appello: in meno di due mesi un colosso mondiale dell’energia passa dal successo alla bancarotta. Il crac travolge anche Arthur Andersen, che viene dichiarata colpevole di attività legate all’ostruzione della giustizia per aver distrutto i documenti che testimoniavano le certificazioni compiacenti (ibidem). Evidentemente, sostiene Swedberg, la rapida crescita del mercato borsistico degli anni Novanta aveva generato una nuova struttura delle opportunità: spazi crescenti per gli interessi privati, che interferiscono con l’interesse generale, fino a produrre una bolla di comportamenti illeciti. L’agente – nel caso specifico, Arthur Andersen – ha un suo specifico interesse, che è differente da quello del principale – in questa circostanza, gli investitori. Il mancato allineamento di questi interessi, che non è stato garantito dal controllo legale o dagli incentivi monetari, ha fatto sì che l’agente operasse contro l’interesse del principale, accettando onorari smodati provenienti da una terza parte e finalizzati a effettuare attività di consulenza e revisione contabile menzognere. Non basta però chiamare in causa la cupidigia di Arthur Andersen e la spregiudicatezza dei dirigenti di Enron per spiegare la diffusione di comportamenti illeciti e il tradimento degli interessi diffusi di molti piccoli e medi investitori. Vi è una questione sociologica più sottile. L’interesse generale – nel nostro caso quello dei piccoli investitori che chiedono di poter fare scelte consapevoli – prende forma all’interno di rapporti sociali durevoli e definiti. Il tema dell’interesse del piccolo investitore si afferma soprattutto a partire dagli anni Novanta: prima non era riconosciuto come interesse pubblico e non godeva di adeguate protezioni legislative. Del resto, quella del piccolo investitore è una figura sociale indefinita, che riguarda attori tendenzialmente di classe media, ma caratterizzati da condizioni occupazionali diverse; non è dunque facile costruire una rappresentanza univoca dei loro interessi. Questi fattori hanno sicuramente abbassato le resistenze da parte delle grandi società a truffare i piccoli investitori. Date queste precondizioni, il passo verso le attività illecite diventa breve. La vicenda Arthur Andersen-Enron non è un caso isolato: per esempio, presenta alcune analogie con il crac Parmalat, che ha scosso il nostro paese e l’intera Europa. Anche in quel caso la società copre per molti anni un ingente buco di bilancio, che si aggira intorno ai 14 miliardi di euro, mediante falsi contabili, emersi clamorosamente nel 2003 quando l’incapacità di rimborsare un bond di 150 milioni di euro desta l’attenzione delle autorità di sorveglianza, che svelano lo stato disastroso della società. Se possibile, il caso Parmalat è contraddistinto dalla presenza di una gamma di comportamenti illegali ancora più ampi rispetto a quelli della vicenda Arthur Andersen-Enron (Sapelli 2004). Nondimeno, lo stesso caso mostra l’esistenza di una rete trasversale ed eterogenea che ha retto il gioco illecito, composta da professioni-
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sti, dirigenti, revisori contabili e membri dei collegi sindacali, oltre a un ambiente istituzionale in cui agiscono politici e funzionari distratti e molto benevoli verso gli interessi particolaristici dell’azienda.
24.4 Le problematiche emergenti Nel capitolo abbiamo illustrato due fenomeni distinti ma che si pongono lungo un continuum: il funzionamento dei mercati propriamente illegali e la presenza di comportamenti illeciti in mercati formalmente legali. Anche gli esempi di ricerca forniti nel paragrafo precedente si collocano dentro questo spettro, la cui trama di fondo è l’incontro tra lo scambio di mercato e l’illegalità. Non si tratta di un fenomeno marginale: i comportamenti illeciti non sono confinati nei settori residuali dell’economia, né i mercati dei beni illeciti si estinguono in modo naturale. Al contrario, possiamo affermare che le nuove tendenze dell’economia, la sua crescente globalizzazione e l’incremento del tasso di finanziarizzazione pongono nuove sfide alla trasparenza dei mercati. Una prima questione riguarda dunque l’opportunità di approfondire sia a livello conoscitivo sia in sede politica i nuovi rischi di comportamenti illeciti connessi alle sfere più innovative dell’economia. La ricerca che abbiamo presentato sulla vicenda Arthur Andersen testimonia i rischi che il mercato e chi vi opera siano ingannati da attori economici di grande dimensione, che attivano transazioni complesse su larga scala. Per la politica le sfide principali riguardano le modalità di governo della concorrenza e l’esigenza di limitare le opacità, facilitando così scelte di mercato consapevoli. Da un punto di vista della ricerca, è opportuno indagare come si formano le scelte di investimento, i processi di allocazione della fiducia e le strategie con cui si accreditano sul piano economico attori che hanno interessi diversi. Non si vuole con questo dare un’idea criminogena della finanza e della globalizzazione, come se questi processi generassero necessariamente un aumento dell’illegalità diffusa e di scambi di mercato che violano le norme. Si deve piuttosto tenere presente che ogni formazione economica ha le sue insidie ed è contraddistinta da forme caratteristiche di illegalità. Un’altra tematica attiene alle zone di confine tra legale e illegale, che incrostano i mercati e molti fenomeni economici. Da questo punto di vista l’Italia è un «laboratorio» eccellente di possibili approfondimenti empirici. In presenza di un’economia che fatica a ritrovare slancio, esiste il rischio che si espandano le zone in cui il rispetto delle regole si attenua. Sono questi i casi in cui gli operatori economici ricorrono a un tipo particolare di «via bassa» (informalità e pratiche illegali) per mantenere i loro margini di profitto o eventualmente incrementarli. Usualmente sono queste le situazioni in cui si articolano reti di relazioni complesse: per forzare il funzionamento dei mercati al fine di garantirsi posizioni di rendita, gli imprenditori possono ricorrere a intermediari che facilitino la corruzione e ostacolino i concorrenti. Infine, un riferimento ai veri e propri mercati illegali. Un aspetto da approfondire è quello del nesso tra le dinamiche del loro funzionamento e le politiche repressive.
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In altri termini, le scelte di policy finalizzate a contenere i mercati illegali devono tenerne maggiormente in conto le strutture. La ricerca ha per esempio fatto emergere che i mercati della droga hanno spesso una struttura decentrata e dispersa; questo li rende reattivi a politiche di contrasto di tipo repressivo, anche quando queste ultime conseguono risultati positivi da un punto di vista quantitativo (numerosi arresti e ingenti sequestri di droga). Tali fattori suggeriscono l’opportunità di concentrare il contrasto sulla qualità più che non sulla quantità: non sembra tanto rilevante eliminare il più alto numero possibile di nodi della rete criminale di un mercato illegale, quanto piuttosto identificare gli eventuali nodi che interconnettono le pedine tra loro, i quali – se scardinati – sarebbero difficili da rimpiazzare e potrebbero portare a un parziale collasso della rete. Ferma restando l’esigenza di diversificare le politiche intervento, è necessario investire molto nella prevenzione oltreché nella repressione. L’esito più avanzato di quest’ultima posizione è rappresentato dalle politiche anti-proibizioniste, che propongono uno spostamento dell’asticella della legalità per svuotare i contenuti illegali di uno specifico mercato – una considerazione che ci fa ricordare quanto anche i mercati propriamente illegali siano in sé una costruzione sociale e non un’entità data. Possiamo così concludere ribadendo la rilevanza dello studio dei mercati illegali e dell’illegalità nei mercati per la sociologia economica (Beckert e Dewey 2017), in quanto argomento trasversale, che interessa la disciplina a tutto tondo: in che modo i mercati illegali vengono regolati e contrastati dalle scelte politiche; come si strutturano al loro interno; come interagiscono fra loro gli attori che vi operano. Si tratta dei capisaldi di un possibile progetto conoscitivo e di ricerca che sicuramente richiede il contributo di strumenti analitici e concetti illustrati anche in altre parti di questo manuale.
Letture di approfondimento Beckert J., Dewey M. (eds.) (2017). The Architecture of Illegal Markets, Oxford, Oxford University Press. Beckert J., Wehinger F. (2012). «In the shadow: Illegal markets and economic sociology», Socio-Economic Review, 11(1), pp. 5-30. Catanzaro R. (1987). «Imprenditori della violenza e mediatori sociali. Un’ipotesi di interpretazione della mafia», Polis, 1(2), pp. 261-82. Gambetta D. (1992). La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Torino, Einaudi. Sciarrone R., Storti L. (2016). «Complicità trasversali tra mafia ed economia. Servizi, garanzie, regolazione», Stato e mercato, n. 3, pp. 353-90.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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25 L’inclusione del consumatore nella catena del valore di Davide Arcidiacono
25.1 Il consumo come fatto sociale totale Alla richiesta di illustrare quali siano gli elementi che spingono gli individui a consumare, la maggior parte delle persone risponde con convinzione accennando al termine bisogno, magari facendo riferimento al fattore prezzo, mentre alcuni invocano i media e il potere della pubblicità. Non senza imbarazzo, ma molto più tardi, altri iniziano a parlare di moda, o di piacere, mentre altri ancora aggiungono l’importanza del confronto e del passaparola tra i pari. Qualcuno azzarda e parla perfino di identità, una nicchia accenna anche al termine qualità. Già questo semplice esperimento mentale consente di evidenziare la polarità delle due «narrazioni» emerse: da una parte l’idea di un consumatore come soggetto che si muove nella scarsità di risorse disponibili, condizionato da una mancanza (a cui in qualche modo il concetto di bisogno, tanto caro agli economisti, si richiama), in un certo senso subordinandosi a questa o a un sistema che la ordina o ne costruisce il senso (la comunicazione commerciale); dall’altra parte, invece, troviamo la rappresentazione di un soggetto proattivo e creativo, seppur influenzato dal desiderio (categoria questa cara agli psicologi), ma anche da relazioni e appartenenze (ed è qui il contributo della sociologia). In questo semplice gioco di rappresentazioni si può sintetizzare il dualismo che anima da decenni il dibattito scientifico sul consumatore e il suo ruolo nella catena del valore. Produttori e consumatori, protagonisti di questo dibattito, sono stati concettualizzati secondo uno schema dicotomico quali soggetti con ruoli, bisogni, comportamenti e competenze autonome, e perfino in contrapposizione tra loro. Oggi, invece, tendono sempre più a «lavorare» come in un sistema collaborativo e sinergico in cui capacità, repertori, saperi e competenze dell’uno si contaminano nell’altro. Il consumo può giustamente qualificarsi, citando Mauss, come un fatto sociale totale, ovvero un fenomeno complesso e multidimensionale in grado di attraversare e influenzare una buona parte delle fenomenologie e delle dinamiche delle società di ogni tempo. Se adottiamo questa prospettiva, consumo e produzione non sono sempre momenti del tutto separati o autonomi. Per esempio, quando andiamo da Ikea e scarichiamo la merce dagli scaffali, trasportiamo e montiamo il nostro divano, è veramente difficile capire se siamo soltanto dei semplici consumatori; così come quando postiamo un video su YouTube, o testiamo l’ultimo sistema operativo di Microsoft. Allo stesso modo, se decidiamo di non comprare più un prodotto che riteniamo dannoso per
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l’ambiente o per la salute, o ci mobilitiamo e organizziamo in un gruppo d’acquisto, o ancora se decidiamo di consumare i prodotti del commercio equo e solidale, in qualche modo non stiamo soddisfacendo un semplice bisogno, ma stiamo contribuendo alla creazione di una nuova catena del valore1. Come si colloca una simile trasformazione nel dibattito sociologico classico? Sono ancora valide le categorie analitiche del passato? Cosa succede al consumo (e di conseguenza alla produzione) quando la tecnologia diventa accessibile e l’informazione non è più un bene scarso? Quali riflessioni possiamo trarre dalle ricerche più recenti sul tema? A queste domande cercheremo di rispondere in questo capitolo.
25.2 Consumatori e produttori: dicotomia o sinergia? 25.2.1 Oltre il consumo come scelta Nell’economia classica il consumo è un momento intermedio ma necessario al vero fine del sistema economico, ovvero la creazione e l’estensione del surplus. Al consumatore non è assegnato alcun ruolo specifico. Adam Smith si limita a descrivere il processo economico come un sistema interconnesso: le imprese acquistano il lavoro dalle famiglie e lo trasformano in beni di consumo, che alla fine arrivano sul mercato per essere acquistati dalle stesse, alimentando un ciclo che si rinnova nel tempo. La famiglia svolge dunque un duplice ruolo: da un lato detiene i fattori di produzione (la quota di reddito non consumata, o risparmio, e il lavoro) e li offre sul mercato, dall’altro spende la remunerazione percepita. Solo con la scuola neo-classica inizia a costituirsi una vera e propria teoria economica della domanda fondata sulla relazione inversa tra prezzo e quantità. Nonostante la teoria economica parli esplicitamente di sovranità del consumatore, in termini di impulso fondamentale al sistema dell’offerta, il ruolo di chi consuma rimane perlopiù confinato al termine consumere, ovvero distruggere ciò che viene prodotto. Le scelte del consumatore rimangono strumentali all’equilibrio del mercato. Lo scambio è simultaneo e paritetico, ovvero si stabilisce a priori che non esisterebbe alcuna differenza gerarchica e di potere tra la sfera di chi produce e quella di chi consuma. Su quest’ultimo postulato la riflessione sociologica ha maggiormente contribuito a superare (o meglio innovare) la riflessione economica sul ruolo del consumatore nella catena del valore. In questo senso uno dei contributi più rilevanti appartiene a Werner Sombart e al suo saggio su Dal lusso al capitalismo (1921). Il sociologo tedesco dimostra come le scelte di consumo della classe più abbiente sarebbero alla base dello sviluppo del capitalismo moderno. La storia del lusso rappresenta uno dei tasselli fondamentali della genesi e dell’evoluzione del capitalismo moderno. Già a
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Sul concetto di catena del valore si rimanda al Cap. 28 di questo stesso volume.
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25 L’inclusione del consumatore nella catena del valore
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partire dal tardo Medioevo i consumi di lusso incentivarono lo sviluppo del credito e la propensione all’indebitamento, liberando progressivamente i soggetti dal principio pre-capitalistico di uno stile di vista conforme al proprio ceto sociale. L’espansione del commercio internazionale, alimentato dallo sfruttamento coloniale, era sostenuto da una crescente domanda di beni inediti di carattere voluttuario sui mercati europei (spezie, droghe, profumi, seta, lino, pietre preziose, cacao, caffè, thè) da parte delle classi abbienti. A sua volta questa domanda comportava una progressiva tendenza alla «massificazione» o «democratizzazione» dei lussi stessi, in quanto il sistema produttivo che si veniva a costruire necessitava che quei beni non essenziali perdessero nel tempo la loro esclusività e venissero prodotti in serie per essere accessibili a una cerchia sempre più ampia di individui. La domanda crescente di questi prodotti di fatto avrebbe favorito l’organizzazione capitalistica a partire da un mercato del lusso che si nutriva del desiderio di visibilità, di dimostrazione di status e di appartenenza a un gruppo socialmente dominante o in ascesa, come mostrava lo stile di vita della borghesia imprenditoriale tra Sette e Ottocento. Questo principio è al centro anche della riflessione di Thorstein Veblen (1899), che ben evidenziava come il modello di consumo della classe agiata si propagasse «per sgocciolamento» alle classi inferiori, secondo il paradigma emulazione/ostentazione (2 Box 25.1). Il principio di diffusione gerarchico delle mode, comune anche all’analisi di altri sociologi (da Simmel fino a Bourdieu) viene richiamato in qualche modo anche nei contributi della sociologia di Marx e dalla scuola di Francoforte. Questi autori ne deducono di fatto la subordinazione dei consumi di massa alla classe e agli interessi dei «produttori». Nella Critica all’economia politica (1859) Marx ribadisce come la produzione non si limita a creare l’oggetto della produzione ma anche il modo in cui deve essere consumato e il fine del suo utilizzo. Chi produce non definisce solo l’oggetto (il bene/merce) ma anche l’elemento soggettivo (il suo utilizzo e lo scopo, e perfino il desiderio di consumarlo). A sua volta il sistema capitalistico ha bisogno di una massa di consumatori «distruttori», capaci solo di smaltire quanto prodotto e a ritmi sempre più serrati. Per questa ragione ha bisogno di controllarne desideri e bisogni. Ne consegue che il consumatore non sarebbe altro che un soggetto alienato, eterodiretto e unidimensionale, incapace di svolgere un ruolo attivo nel processo di scambio. Simili tesi critiche hanno svolto un ruolo importante nell’analisi dei consumi, contribuendo alla costruzione di concetti come quello di consumismo o di società dei consumi, al centro di riflessioni anche di sociologi contemporanei come Jean Baudrillard (1976), George Ritzer (1997) e Zygmunt Bauman (1998). A ribaltare le concezioni francofortesi sono stati soprattutto i cultural studies che hanno messo in evidenza come gli individui attraverso l’uso si riappropriano della dimensione semantica delle merci e la rielaborano (demercificazione), divenendo essi stessi co-creatori di pratiche oltre che di significati che hanno un grande valore per l’impresa (si pensi per esempio ai grandi investimenti che il settore moda fa nell’analisi degli street style). Nello studio, per esempio, di Mary Douglas e Baron Isherwood (1984) i beni di consumo sono qualificati come barriere o ponti tra gli individui, perché tramite essi si fornisce base materiale alle proprie categorie concettuali, o si esprimono giudizi e valori (per esempio, il rispetto dell’ambiente decidendo di anda-
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re al lavoro in bicicletta). Tale approccio ribalta l’atavico ruolo di subordinazione del consumo rispetto al momento produttivo, trovando richiami e conferme anche in numerose analisi antropologiche (Appadurai 1988; Belk e Ger 1990; De Certeau 2001). Si passa così da un focus sui comportamenti del consumo nella sfera delle scelte a un focus sul consumo come capacità di produzione e costruzione del valore, che si inserisce all’interno di un più ampio dibattito sul ripensamento del concetto e del ruolo del consumatore, da semplice «distruttore della produzione» a protagonista di una rinegoziazione dei processi di divisione del lavoro sociale (Glucksmann 2005). Tale concezione non è nuova in sociologia. Chester Barnard (1938) fu uno dei primi a parlare del consumatore come «quasi-impiegato», seguito da Talcott Parsons (1968) che aveva sottolineato l’importanza della partecipazione e del coinvolgimento dei consumatori nell’economia dei servizi. Già dagli anni Settanta alcuni analisti iniziavano a parlare di prosumer (producer + consumer) (Toffler 1970), seguiti poi da Colin Campbell (2005), che conia il termine di «consumatore artigiano». Più recentemente, con l’emergere delle nuove tecnologie alcuni autori hanno iniziato a parlare di produsage (Bruns 2008), ovvero la generazione autonoma di contenuti da parte dei consumatori che caratterizzerebbe la transizione dall’era industriale all’era informatica. Il tema del consumatore-produttore ripropone la medesima dicotomia tra azione e subordinazione che aveva animato il dibattito classico: da una parte un filone ottimistico che sottolinea il ruolo di agency dei consumatori (i citati Belk, Bruns e Campbell, per esempio); dall’altra, un filone critico che ripropone l’idea di un consumatore comunque alienato e sfruttato dalla produzione (a partire da Fuchs, che parla di servuction, ovvero considera il consumatore come un fattore della produzione con un ruolo essenziale nell’influenzare la produttività dell’impresa; o il caso della macdonaldizzazione cui fa riferimento Ritzer, riguardo al modello della nota catena di fast food che organizza un sistema efficiente di produzione a partire da una standardizzazione e contingentamento dei tempi e delle azioni di «lavoro» dei consumatori). Si pensi oggi alla centralità che il consumatore svolge nel modello di servizio offerto da Ikea; ma anche al caso più recente della sharing economy (si veda il Cap. 6) e di piattaforme come Airbnb, l’azienda ricettiva con l’offerta più grande al mondo, con più di 1.500.000 di stanze senza di fatto possedere alcun immobile, se non quelli dei propri stessi utenti. Il concetto del consumatore-produttore permea poi il discorso di marketing e le strategie di impresa, ed è sempre più oggetto di analisi di discipline esterne alla sociologia, quali il design dei servizi, l’informatica. Una trasformazione dell’oggetto di indagine che è anche una rivoluzione del linguaggio tecnico-manageriale, a testimonianza del fatto che i confini tra produzione e consumo non sono mai stati così netti come le tradizioni teoriche precedenti ci avevano fatto pensare. Le catene del valore sono rappresentate sempre più come consumocentriche, al punto che il «lavoro» degli utenti-consumatori viene sempre più riconosciuto, valorizzato, legittimato e organizzato dal sistema produttivo; questo comporta nuovi rischi oltre che opportunità che spesso sono stati sottovalutati dalla ricerca accademica sul campo. Concludendo, possiamo sintetizzare le diverse posizioni teoretiche intorno a due dimensioni principali (Fig. 25.1):
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Figura 25.1 I modelli interpretativi sul ruolo del consumatore nel ciclo del valore Potere
Consumatore produttore (Sociologia culturale e antropologia)
Consumatore sovrano (Economia neo-classica) Isolamento
Coordinamento Consumatore alienato (Sociologia critica)
Consumatore acquisitivo (Sociologia economica classica)
Subordinazione
1) potere/subordinazione: ovvero il ruolo di agency e la posizione del consumatore rispetto a chi produce e il grado con cui ne influenza scelte e assetti; 2) isolamento/coordinamento: la capacità del consumatore di costruire pratiche, senso e significati oltre la dimensione individuale all’interno dei gruppi sociali di riferimento. Dall’incrocio di queste due dimensioni si determina una tipologia che sintetizza i quattro modelli interpretativi sul ruolo dei consumatori nella catena del valore: • il consumatore sovrano, che è speculare al modello descritto dall’economia neoclassica. Ha un potere elevato nei confronti della domanda sulla base di una presunta autonoma capacità di scelta, ma opera in una condizione atomistica di totale isolamento rispetto al gruppo; • il consumatore alienato, tipico della sociologia critica, per cui il consumatore ha un potere limitato e subordinato alla produzione e opera in una condizione di manipolazione, isolamento e solitudine di cui la massificazione delle scelte è in qualche modo espressione. Questa visione marginalizza il ruolo del consumatore nella creazione del valore in quanto lo estromette del tutto dai processi decisionali e istituzionali; • il consumatore acquisitivo, prevalente nelle teorie sociologiche di Sombart e Veblen, che opera con un potere limitato rispetto a chi produce, ma esercita un ruolo rilevante attraverso il coordinamento all’interno del gruppo di appartenenza, che definisce gli spazi di differenziazione all’interno del conformismo definito dalle mode e dalla competizione sociale. La sua posizione nella catena del valore è quella in qualche modo di complice della classe dominante; • il consumatore produttore, che viene riconosciuto a partire dai processi di demercificazione emersi dalla sociologia dei processi culturali e dall’antropologia,
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e che, in maniera sempre più rilevante, contagia i modelli di analisi del management e del marketing contemporaneo: ovvero un soggetto con un potere autonomo di creazione, proposta e influenza sulla produzione, di cui in qualche modo fa parte attraverso la propria capacità di creazione di senso all’interno del gruppo dei consumatori che hanno le sue stesse esigenze/aspettative. Un consumatore critico, selettivo, creativo che contribuisce attivamente alla catena del valore. 25.2.2 Dal consumo come distruzione al consumo come creazione: fordismo, toyotismo, produserismo L’evoluzione dei modelli interpretativi sul consumatore segue in qualche modo anche l’evoluzione storico-organizzativa del sistema produttivo. Proviamo a distinguere tre diversi paradigmi della produzione classificabili in maniera scalare per il diverso grado di coinvolgimento del consumatore nella catena del valore (Tab. 25.1). Tabella 25.1 Paradigmi produttivi e coinvolgimento del consumatore Taylorista-fordista
Flessibile-toyotista
Platform-produserista
Paradigma teorico di riferimento
Organizzazione scientifica del lavoro (OSL)
Specializzazione flessibile
Service Dominant Logic (SDL)
Mercati di riferimento
Mercato di massa
Massa di mercati
Mercati conversazionali
Tecnologia
Specialistica
Polivalente
Accessibile/aperta
Struttura
Gerarchico-piramidale
Reticolare
Eterarchica
Produzione
Standardizzata
Differenziata
Personalizzata
Fasi di produzione
Internalizzazione e integrazione fasi del ciclo produttivo
Esternalizzazione limitata (outsourcing)
Esternalizzazione diffusa (crowdsourcing)
Lavoro
Formalizzato e poco qualificato
Formalizzato e altamente specializzato
Formale e informale con livelli di qualificazione eterogenei
Flussi di informazione
Parcellizzati e scarsi
Condivisi internamente alla rete del ciclo produttivo
Condivisi e ridondanti all’interno e all’esterno del processo produttivo
Processi di marketing
Mass Marketing
Relational Marketing
Societing
Tipo di consumatore a cui si rivolgono
Acquirente
Cliente
Consum-autore
Coinvolgimento del consumatore
Assente
Sin dalla sua Prevalentemente nella fase finale di produzione progettazione, in tutti le o nel post vendita fasi chiave del processo produttivo
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Il primo è il modello di produzione taylorista-fordista durante il cosiddetto glorioso trentennio – ovvero dal secondo dopoguerra alla prima metà degli anni Settanta del Novecento. Si basava sui principi di organizzazione scientifica del lavoro di Taylor (OSL), ovvero un sistema parcellizzato e codificato di compiti che cercava di ricondurre il lavoro umano ai sistemi di funzionamento ed efficienza tipici delle macchine (per esempio, la catena di montaggio). L’impresa era verticalmente integrata in una struttura piramidale caratterizzata dall’«internalizzazione» di tutti i processi intermedi che portavano alla costruzione del prodotto finito. Fortemente dipendenti dalla localizzazione fisica delle risorse, il capitale economico e il lavoro svolgevano il ruolo di asset fondanti. Il processo produttivo era altamente standardizzato e di fatto limitava il set di competenze e abilità richieste alla forza lavoro. Il bene poteva essere di bassa qualità. Il controllo di quest’ultima era estraneo al processo produttivo, contribuendo ad aumentare l’ammontare degli scarti di produzione. Questo modello produttivo si sviluppava in grandi imprese nazionali rivolgendosi prevalentemente al mercato di massa interno. La creazione di valore era concentrata sui flussi di cassa nel breve periodo e sul concreto aumento delle quote di mercato secondo una strategia make & sell. Il marketing, inteso come disciplina di studio del mercato, era perlopiù orientato alla dimensione commerciale e rappresentava un’appendice funzionale al potenziamento della capacità di vendita dell’impresa. La produzione era rivolta a una platea di clienti, indistinta e in qualche modo incompetente, che si affacciava in buona parte per la prima volta ai consumi di massa e che nella soddisfazione del bisogno doveva di fatto limitare le proprie preferenze a quanto offerto dall’impresa produttrice – da cui la famosa frase di Henry Ford sulla produzione della sua Ford T, ovvero «any customer can have a car painted any colour that he wants so long as it is black» («il cliente può avere l’auto del colore che vuole, basta che sia nera»). Il paradigma produttivo che si affianca e in qualche modo supera quello fordista è l’impresa flessibile (Sabel 1988). Si è sviluppato a partire dalla crisi del paradigma precedente durante gli anni Settanta e la sua notorietà è in parte legata all’esperienza applicata alla Toyota (per questo si parla appunto di toyotismo). Il modello fordista aveva mostrato la sua inadeguatezza in termini di prontezza e flessibilità di risposta a mercati sempre più complessi, volatili e incerti. La competizione si è spostata a livello globale ed è cresciuto il ruolo dei paesi emergenti, mentre si saturava il mercato dei beni di massa. Il consumatore, sempre più istruito e capace di spendere, ha ormai terminato il suo periodo di «apprendistato» nel mercato e la domanda si è fatta più sofisticata, attenta alla qualità e alla differenziazione del prodotto/servizio. La qualità, oggettiva e percepita, diviene il principio strategico di differenziazione materiale e immateriale per la stabilizzazione di quote della domanda per l’impresa. Il controllo della stessa viene pertanto incorporato all’interno delle diverse fasi di produzione (si parla di total quality management), coinvolgendo attivamente le risorse umane nel miglioramento continuo e progressivo degli standard. Questo richiede un aumento della qualificazione del lavoro e della specializzazione dei processi che di fatto incoraggia all’esternalizzazione di alcune fasi della produzione a una rete di fornitori e subfornitori (outsourcing): si parla anche di produzione snella.
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Delocalizzazione ed esternalizzazione si sviluppano in reti transnazionali o localistiche e autonome di imprese private, come i distretti industriali o i cluster. Questo modello non opera in un mercato di massa ma in una massa di mercati, basati sul primato della conoscenza/informazione per la definizione di strategie di lungo termine, adattive/responsive rispetto alle fluttuazioni del mercato. Produrre nelle quantità e varietà richieste dal mercato necessita di presidiarlo e monitorarlo non solo per il raggiungimento di nuovi target di clienti, ma soprattutto per il consolidamento di quelli già in portafoglio, basandosi su approcci incentrati sulla clientela e la sua rilevanza nella creazione del valore per l’impresa, come la customer based view (CBV) (Busacca e Bertoli 2009). Il consumatore è coinvolto all’interno del processo produttivo al momento del primo contatto con il bene o durante il suo utilizzo, attraverso cinque strategie fondamentali: • m ass customization o personalizzazione di massa, l’offerta di un’ampia varietà di beni e servizi proposti a costi contenuti, in cui il ruolo del consumatore è circoscritto alla fase di scelta entro la varietà predefinita dall’azienda (per esempio, automobili o i mobili Ikea); • one-to-one personalization, l’offerta viene tarata sulla base delle informazioni possedute dall’azienda attraverso l’addizionalità di servizio che correda il prodotto (per esempio, nel punto vendita o nelle attività desk di accoglienza e relazione con la clientela); • customerization, il cliente non solo ha la possibilità di definire il suo prodotto ideale tra quelli disponibili, ma scambia con l’impresa informazioni sui contenuti e sui processi legati all’acquisto (visibile per esempio nel settore dell’arredamento e del design); • intimization, i consumatori possono personalizzare il prodotto con segni e simboli che li identificano (nomi, fotografie) (per esempio, nel settore del lusso); • caring, la gestione dei reclami e della fidelizzazione del cliente a partire dalla gestione delle criticità nella sua esperienza d’uso con il prodotto/servizio. L’assistenza al cliente viene considerata una delle attività primarie all’interno della struttura della catena del valore (Porter 1985). Il marketing transita dal mass marketing al relational marketing. Le urgenze di una concorrenza sempre più pressante e la conseguente esigenza di differenziazione portano l’impresa a competere non solo sul prodotto, ma sull’addizionalità di servizio, rafforzando il processo di terziarizzazione. Attraverso un surplus di servizio il rapporto tra cliente e azienda non rimane più vincolato solo al momento della vendita o del reclamo, ma si trasforma in un continuo flusso bidirezionale di informazioni/merci e servizi che si prolunga per tutto il ciclo di vita del prodotto – si parla, infatti, di customer relationship cycle (Rygby e Lendingham 2004). Il terzo paradigma è un modello emergente ancora in fase di sistematizzazione analitica che inizia a delinearsi a partire dalla fine del secolo scorso, rappresentando un’ulteriore evoluzione del modello flessibile. Più technologically driven, leggero,
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reticolare e diffusivo, è ispirato alla struttura della piattaforma 2, ovvero un sistema centrale in base al quale possono essere sviluppati, innestati e adattati sistemi produzione diversificati. L’ambito applicativo prevalente non è più quello dell’industria tradizionale manifatturiera (esemplificata dai settori automotive, come nel caso di Ford e Toyota), bensì soprattutto quello della produzione informatica e dei servizi, in base ai principi della service dominant logic (2 Box 25.2). Questo nuovo orientamento ridefinisce il modello di business anche delle produzioni tradizionali, come l’industria automobilistica, in cui la vendita del prodotto auto diviene il tramite di un sistema ancorato di servizi collaterali (finanziamento, manutenzione, noleggio a lungo o a breve termine ecc.). La massa dei mercati si è ulteriormente frammentata e polverizzata in un’eterogeneità fluida di nicchie e tribù di consumatori interconnessi tra loro. Il mercato è condizionato dalla rilevanza sempre più consistente di flussi informativi e relazionali, più che da quelli delle merci (in questo senso parleremo di mercati conversazionali). Il produttore diventa sempre più un abilitatore di processi produttivi distribuiti all’interno di una rete di attori professionali e non. Il modello organizzativo si fa più complesso, ibrido, ancora più flessibile, anche se meno omogeneo e organizzato rispetto alle produzioni snelle. Per tale ragione si può fare riferimento anche al concetto di eterarchie (Stark 1996), in contrapposizione ai modelli rigidamente gerarchici e omogenei di tipo fordista o a quelli ordinati di tipo reticolare. Nelle eterarchie, i processi di decision making, così come i benefici che ne derivano, sono distribuiti e condivisi, per cui l’organizzazione dell’impresa tende ad andare ben oltre i confini dei suoi processi produttivi formali. Nel modello piattaforma il valore strategico passa ai consumatori, che diventano i co-autori di un servizio per cui il cliente da «produttore silenzioso» esce dalla clandestinità per rivendicare un ruolo forte dentro e fuori i processi produttivi. Per esempio, il valore generato da Facebook (il cui servizio agli utenti è gratuito) è pari solo all’intensità con cui i propri clienti creano informazioni e contenuti che sono fruiti tramite la piattaforma del social network, ed è proprio questo patrimonio informativo co-creato dagli user ciò che l’azienda vende e che determina la qualità del suo business. La capacità innovativa, ma anche l’efficienza, si misurano proprio con la possibilità di creare una maggiore possibilità espressiva e creativa per i suoi stessi utenti, da trasformare in valore per l’impresa. L’azienda diventa così un «sistema aperto» in cui le reti produttive e collaborative si fanno ampie e fluide. I consumatori sono più che stakeholder, sono partner, in quanto portatori di «risorse dormienti» (idle capacity) da attivare: la diversa abilità dell’impresa nel farlo si trasforma in vantaggio competitivo. Il marketing si reiventa per diventare societing (Arvidsson e Giordano 2013), ovvero non può più semplicemente limitarsi a guardare allo spazio del solo mercato, ma deve volgere uno sguardo più ampio alla complessità dello spazio di interazione sociale dei consumatori, trasformandosi da semplice strumento di commercializza2 Il termine, non a caso, proviene dall’informatica, in cui si usa per indicare il sistema di base sul quale possono poi essere sviluppati software e altre applicazioni. Non ci si riferisce invece con questo termine al sistema della piattaforma modulare, tipica dei sistemi di produzione flessibile e che troviamo anche nell’industria dell’automotive.
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zione in leva di abilitazione e inclusione dei cosiddetti «pubblici produttivi» (ivi, p. 63). L’inclusione formale e sistematica del consumatore nel processo produttivo può essere: • d i tipo gerarchico, ovvero mantenere comunque una certa asimmetria tra l’impresa e il consumatore in relazione agli obiettivi e agli strumenti da adottare, come nel caso del crowdsourcing3; • oppure paritaria e orizzontale, per cui i consumatori producono non allo scopo di appropriazione individuale ma per generare benefici condivisi, come nel caso degli open content system. Inoltre il lavoro svolto dai consumatori può essere: • i ndividuale, nel caso della self service economy o della do it yourself economy (per esempio, Ikea); • collaborativo, nel qual caso si parla di do it with the other ma anche di consumo collaborativo, o ancora di peer-to-peer production o produzione tra pari (per esempio, il file sharing). Il ruolo del consumatore finisce con l’attraversare l’intero ciclo produttivo assumendo nuove forme: • c o-design; per esempio, la progettazione di uno spazio di vendita, di una campagna commerciale, il packaging, o perfino di un servizio ecc; • co-creation; in questo caso il cliente partecipa alla costruzione del prodotto/servizio (o di un suo prototipo) o alla soluzione di un problema (per esempio, nel settore dei videogiochi e dei software o nel caso di un’app per smartphone); • co-learning; consumatori e produttori scambiano volontariamente informazioni e conoscenze che influenzano e contaminano l’apprendimento reciproco (per esempio, lo scambio di messaggi tra consumatori o la creazione di tutorial online da parte degli stessi diventa un utile strumento per l’azienda per riprogettare interi processi e individuare nuovi bisogni; al contempo, attraverso video o assistenti fisici o virtuali, l’azienda cerca di informare i consumatori sul processo produttivo e di comprenderne le criticità); • co-production; dall’esternalizzazione di compiti semplici e automatici in base al principio do it yourself, come quello di un bancomat o di un ristorante self service, 3 Il crowdsourcing non è una pratica open source/open content in quanto i problemi risolti e progettati dai consumatori/utenti diventano proprietà di imprese che da questi traggono un profitto esclusivo con il benestare e la consapevolezza dei primi. Nell’open source o nell’open content, contenuti e licenze sono liberi e chiunque può usufruire/riusare il valore da questi generato. Si pensi alla differenza tra l’esternalizzazione ai consumatori del collaudo della versione beta di Microsoft 10 e il processo di collaborazione aperta che sta dietro un progetto di sistema operativo come Linux, che viene distribuito con una licenza che ne permette non solo l’utilizzo da parte di chiunque e in qualsiasi circostanza, ma anche la modifica, la copia e l’analisi.
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a compiti via via più complessi, sia di tipo manuale, come l’assemblaggio di un divano Ikea, sia di tipo intellettuale, come la valutazione della qualità o il collaudo, fino ancora ai servizi di sharing economy come BlaBlaCar e Airbnb, o la produzione di un’applicazione, come nel caso di App Store (2 Box 25.3), o di una mappa collaborativa, come Open Street Map.
25.3 Studiando i consum-autori: dal lavoro del consumo al consumerismo L’analisi del consumatore nella catena del valore non può che partire dal contributo di sistematizzazione e analisi svolto da Miriam Glucksmann, docente emerito di Sociologia all’Università di Essex, che ha dedicato diversi anni di ricerca a questo tema. La sua riflessione parte dalla disamina del processo di divisione del lavoro e dall’elaborazione del concetto di domini socio-economici del lavoro (TSOL o total social organisation of labour) (Glucksmann 2016, p. 880), ovvero le diverse connessioni e interazioni tra differenti modalità di lavoro che possono assumere specifiche caratteristiche (pagato/non pagato, formale/informale ecc.) all’interno dei diversi spazi socio-istituzionali: lo stato, il mercato, il terzo settore, la famiglia e la comunità. Il processo di divisione del lavoro nel tempo può attraversare i diversi domini e assumere caratteristiche differenti in ogni contesto socio-economico, dove si possono avere combinazioni e articolazioni di sistemi multi-modali di organizzazione dello stesso. Data questa premessa, secondo Glucksmann non si può prescindere dal riconoscimento del valore del lavoro del consumatore in quanto: • e sistono solo pochi prodotti/servizi che sono direttamente consumabili e che escludono che il consumatore svolga un qualche processo che si integra con quello dell’impresa; • il lavoro del consumatore si basa sull’acquisizione di conoscenze e competenze, anche formalmente certificate (si pensi alla patente e alla guida di un’automobile); • il lavoro del consumatore necessita coordinamento con i produttori, al fine di sviluppare coerenza e complementarietà con le fasi precedenti o successive (produzione, distribuzione, smaltimento); • il lavoro del consumatore può essere «esternalizzato», nel caso in cui i consumatori non riescano o non vogliano partecipare al processo produttivo (si pensi alla consegna a domicilio o all’installazione di un software); • anche se storicamente buona parte del lavoro del consumatore è rimasto confinato nell’informalità e non è stato retribuito in alcun modo, oggi esistono interi comparti che si reggono sul lavoro dei consumatori. Per esempio la green economy, dalla produzione di energia alternativa4, al riciclo ecc.;
4 Per esempio, il termine prosumer oggi si ritrova nei documenti dell’Autorità di Regolazione per l’Energia e il Gas italiana.
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• i n qualche modo il lavoro del consumatore diviene sempre più formalizzato e codificato dal processo produttivo, e perfino retribuito, seppur non sempre o esclusivamente in termini monetari, per esempio nei servizi pubblici (Boyle et al. 2006; Horne e Shirley 2009; O’Reilly 2011), nella sanità (Glazer 1993), nel retail (Humphery 1998), nella ristorazione (Ritzer 1997), nei trasporti (Chan e Shaheen 2012). Glucksmann applica la propria elaborazione teorica a tre settori (servizi Internet, ristorazione, riciclaggio domestico) in quattro paesi (UK, Francia, Svezia e Corea del Sud) e rileva come il lavoro del consumatore e la sua rilevanza intersecano gli altri domini del lavoro, con un forte condizionamento dei fattori socio-culturali e delle scelte di politica economica legati ai contesti di riferimento. Per esempio, nel caso del riciclaggio, il modello svedese si basa prevalentemente su un meccanismo di attivazione dei consumatori che vengono motivati all’importanza del riciclo stimolando la loro sensibilità ambientale. La questione del riciclo e del lavoro che comporta viene tematizzata come valore morale in Svezia al punto tale che i cittadini sono spinti a lavorare e al tempo stesso a pagare tasse elevate per affrontare i costi dello smaltimento. In un sistema gestito in maniera not for profit, i consumatori sono pienamente responsabilizzati e formati all’attività da svolgere (il livello di frazionamento e articolazione della differenziata in Svezia è tra i più alti nel mondo), i rifiuti vanno tenuti in casa e non situati in cassonetti esterni o contenitori condominiali. A loro volta i consumatori si coordinano con i produttori, a cui sono affidate chiare responsabilità, per esempio predisponendo le infrastrutture di raccolta a cui le famiglie devono fare riferimento. Il modello UK, invece, rappresenta il modello polare a quello svedese: si basa sull’esternalizzazione a una serie di soggetti privati. Ciò crea un sistema con un forte orientamento for profit, assai differenziato, al punto tale che vi sono sostanziali divergenze tra vicinati su cosa differenziare e come farlo. I consumatori, inoltre, non hanno il dovere di conferire loro il prodotto, al massimo lo raccolgono in appositi contenitori forniti dalla municipalità all’esterno della loro abitazione e ricevono il servizio di raccolta porta a porta. Il discorso pubblico non si basa sulla sensibilità ecologica ma è tutto incentrato sulle ragioni economiche dello sforzo lavorativo al riciclo (per esempio, la riduzione dei costi per la pubblica amministrazione). Compiti e responsabilità lavorative del consumatore sono limitate, e vi è anche un più basso livello di coordinamento tra i diversi attori della filiera. In conclusione il sistema è più costoso e comunque meno efficiente rispetto al modello svedese, in cui si sono raggiunte percentuali record con il 99 per cento di rifiuti riciclati e solo l’1 per cento di prodotto che finisce in discarica. Un altro importante contributo in termini di analisi e ricerca sul tema è stato elaborato da Daren Brabham dell’Università della South California. Occupandosi di nuovi media, Brabham inizia a interessarsi al tema del crowdsourcing, suscitando l’interesse dell’IBM Center for the Business of Government e il Social Sciences and Humanities Research Council del Canada, che hanno finanziato la sua ricerca. La sua analisi parte dalla messa in discussione dei confini tra formale
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e informale e tra pubblico e privato che hanno a lungo dominato il dibattitto tra consumo e produzione. L’analisi effettuata mette in relazione da un punto di vista comparativo i casi più noti di crowdsourcing a livello mondiale (Brabham 2008): • T hreadless, azienda di magliette basata su un sistema di competizione tra gli utenti online per il design dei prodotti. I creatori che vincono ottengono 1500 dollari e circa 500 dollari di buoni acquisto in t-shirt. Il sistema permette all’azienda di mantenere bassi i costi di progettazione e vendere le magliette tra i 10 e i 15 dollari; • iStockphoto, sito che vende fotografie, animazioni e video royalty-free. Chiunque può mandare le proprie foto sul sito perché siano vendute, previo giudizio dello staff aziendale. Professionisti, agenzie, aziende possono acquistare queste foto e i fotografi ricevono il 20 per cento di ogni acquisto; • InnoCentive, piattaforma online di ricerca e sviluppo su base crowd. Grandi aziende come DuPont o Procter & Gamble postano i loro problemi sulla piattaforma. I potenziali risolutori possono proporre la loro soluzione e ottenere un reward che può variare tra i 10.000 e i 100.000 dollari. A oggi il sistema conterebbe più di 80.000 iscritti distribuiti in 150 paesi; • Amazon Mechanical Turk, piattaforma che fa parte del gruppo Amazon Web Services e che non è altro se non una piattaforma di lavoro on demand dove non si fa distinzione tra professionisti e non, con più di 780.032 offerte di micro prestazioni (denominate HIT – Human Intelligence Task) per lo sviluppo di un lavoro coordinato di inserimento dati per potenziare la capacità di calcolo di macchine e intelligenze artificiali. Brabham (2011) prova a classificare i quattro diversi tipi di crowdsourcing sulla base dei task/problemi che provano a risolvere: • p eer-vetted creative production, dove i problemi riguardano i gusti dei consumatori e i meccanismi di coinvolgimento si concentrano su problemi estetici o di design (per esempio, Threadless.com); • knowledge and discovery management, dove il problema è quello di intensificare e massimizzare i processi di raccolta delle informazioni o creare risorse collettive (per esempio, iStockphoto); • broadcast search, per l’ideazione di soluzioni per problemi di natura pratica o tecnico-scientifica (per esempio, InnoCentive); • distributed human intelligence tasks, dove il problema riguarda l’immissione e l’analisi di una grande quantità di dati (per esempio, Amazon Mechanical Turk). Dall’analisi dei casi, Brabham deduce come il sistema produttivo basato sul crowd sourcing sia assai più efficiente rispetto ai modelli produttivi tradizionali: Threadless, per esempio, vende 60.000 magliette in un mese e avrebbe margini di profitto del 35 per cento, a fronte di un costo di design di prodotto assai inferiore rispetto a quello
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Figura 25.2 Le dimensioni del consumerismo CONSUMERISMO
Dimensione individuale
Dimensione collettiva
Scelte di consumo critiche ed eco-compatibili, attivazione contro abusi ai propri diritti di consumatore
Partecipazione a proteste e scioperi della spesa, adesione ad associazioni e/o a forme di acquisto collettivo
Fonte: D. Arcidiacono, Consumatori attivi. Scelte d’acquisto e partecipazione per una nuova etica economica, Milano, FrancoAngeli, 2013, p. 50.
di una tradizionale esternalizzazione a un team di designer esperti. Questo processo evidenzia, tuttavia, come l’economia post-industriale nell’era dei media digitali, abbassando le soglie di accesso alla sfera della produzione, renda fluida la distinzione tra professionismo e hobbismo e al contempo riduca il costo del lavoro, «svalutando» le competenze dei professionisti più esperti e subordinandoli alla cosiddetta «dittatura del dilettante». Se il consumo pertanto diviene il principio ordinatore di nuovi modelli organizzativi/produttivi, non può essere più considerato come semplice azione passiva e anti-sociale, ma diventa espressione di interessi che possono assumere anche forma organizzata e collettiva, capaci di proporre ambiziosi progetti di trasformazione e cambiamento sistemico: si parla così di consumerismo. Su questo tema il contributo di ricerca più rilevante è fornito da Michele Micheletti, docente all’Università di Stoccolma e studiosa dei nuovi movimenti collettivi. In una fase di crisi delle forme tradizionali di partecipazione politica (dai partiti al sindacato), il consumo diventa sempre più un’arena di confronto, resistenza e pressione che (come indicato anche dalla Fig. 25.2) può assumere due dimensioni: individuale, per esempio attraverso l’acquisto di prodotti che incarnano un modello di produzione alternativo (buycott – preferisco comprare il biologico a chilometro zero perché rispetta di più l’ambiente o l’equo-solidale perché sfrutta meno il lavoro) o tramite il rifiuto/astinenza dal consumo di prodotti ritenuti dannosi o che incarnano un modello economico non più sostenibile (boicottaggio); collettiva, attraverso la creazione di aggregazioni per finalità condivise, come gruppi d’acquisto, associazioni dei consumatori ecc. Micheletti, Hooghe e Stolle (2005), analizzando i dati della World Values Survey (WVS) e dell’European Social Survey (ESS), evidenziano come le forme di attivazione politica tramite il boicottaggio siano aumentate nel periodo 1974-2000. I consumatori scelgono i prodotti basandosi largamente su considerazioni etico-politiche e, attraverso le loro scelte e comportamenti, provano a rinegoziare gli spazi a loro
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disposizione nell’attuale catena del valore. Questi consumatori sarebbero perlopiù giovani istruiti, in prevalenza donne, dotati di un’adeguata capacità di spesa, con precedenti esperienze di mobilitazione/attivazione politica che a volte li hanno in qualche modo lasciati delusi o insoddisfatti, che ora concentrano le loro istanze partecipative su obiettivi/valori post-materialisti (la tutela dell’ambiente, le pari opportunità, i diritti umani ecc.). Questi attori credono nell’efficacia di azioni partecipative non convenzionali (rispetto al voto, per esempio) e promuovono forme di partecipazione ibrida, al punto che Micheletti parla esplicitamente di «azione collettiva individualizzata» (2003, p. 23). Al tempo stesso, all’interno di alcune pratiche consumeriste, per esempio nel settore dell’alimentazione (i gruppi d’acquisto, food sharing, last minute market, social eating ecc.), si sviluppano dal basso nuove pratiche innovative «di resistenza», che sono il prototipo di quelle forme co-produttive/co-gestionali proprie del modello piattaforma a cui le imprese con un’organizzazione tradizionale (per esempio, la grande distribuzione) guardano con sempre maggiore interesse. A oggi, quella del consumerismo è forse la tradizione di ricerca sociologica sui consumi che si è maggiormente sviluppata all’interno della sociologia italiana (Bovone e Mora 2007; Forno e Graziano 2016; Paltrinieri 2012; Perna 1998; Sassatelli 2003; Tosi 2006). Il grande interesse per questo tema mette in evidenza come il consumerismo rappresenti il contrappeso ineliminabile del consumo produttivo, così come la mobilitazione e l’organizzazione dei lavoratori lo sono stati per gli operai della fabbrica fordista. Senza un movimento che orienta e negozia il ruolo dei consumatori nella catena del valore il consumo produttivo si trasforma solo in una nuova occasione di sfruttamento ed estrazione del valore. Ecco che allora il pendolo dell’analisi sul consumo ripropone nuovamente la nota dicotomia tra potere e subordinazione che oscilla nei due sensi: quello della customization sovversiva (McCracken 1990), opposta alla mass customization prima citata, per cui i consumatori sviluppano pratiche di utilizzo che sono in qualche modo non previste e non intenzionali rispetto a chi ha prodotto un bene, di fatto determinando un’innovazione che poi potrebbe essere sviluppata in maniera scalare dalle stesse imprese; oppure quello dello sfruttamento e della co-optazione produttiva (Dujarier 2009), ovvero una de-responsabilizzazione produttiva da compiti che prima erano prerogativa dell’impresa e che ora vengono forzatamente imposti ai consumatori.
25.4 L’analisi dei consumi e le attuali sfide per la sociologia economica La rilevanza dei fenomeni fin qui esposti si è scontrata con una scarsa ricognizione da parte della sociologia economica, in particolar modo italiana, immersa nella centralità del lavoro e nelle questioni della produzione. L’analisi del consumo, quale atto legato alle pratiche e agli usi quotidiani, ha fatto sì che tale tema si sviluppasse soprattutto all’interno di altre sociologie (quella politica o quella dei processi culturali) o di altre discipline: dal marketing, all’organizzazione aziendale, alla psicologia sociale.
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Certamente la sfida interpretativa per la sociologia economica italiana su questi temi parte da una revisione delle statistiche nazionali disponibili, che appaiono lacunose e inadeguate. I dati ufficiali sui consumi delle famiglie in Italia tendono ancora a basarsi su una concezione statica e «produttivista» dei bisogni, incapace di cogliere le nuove evoluzioni di un fenomeno sempre più complesso e multidimensionale. La seconda sfida è metodologica: attiene alla capacità di sviluppare sistemi di raccolta efficienti dei dati, che oggi in gran parte sono disponibili online. La questione dei metodi digitali e dei big data (su cui si rimanda ai Capp. 20 e 21) rappresenta una frontiera a cui i sociologi dell’economia devono necessariamente accostarsi. Inoltre, buona parte delle ricerche in materia si concentra sulla disamina di studi di caso, mentre manca l’elaborazione di un sistema di valutazione e di un set di indicatori «macro» capaci di misurare, possibilmente anche in un’ottica comparativa, il concreto impatto socio-economico di queste pratiche. Una terza sfida riguarda la costruzione/revisione delle categorie interpretative. Il consumo produttivo e fenomeni come la sharing economy (si veda il Cap. 6) o l’open source sfidano il sociologo economico a rivedere più in profondità i concetti di lavoro e consumo così come sono stati finora elaborati. Tale revisione appare necessaria per giungere alla concreta comprensione degli effetti delle trasformazioni in atto. Due possono essere le dimensioni che meritano approfondimento scientifico all’interno di queste trasformazioni: una, più classicamente, può richiamarsi alla tradizione marxista e riguarda più semplicemente come si articola da un punto di vista concreto il possesso dei mezzi di produzione all’interno dei processi di co-produzione; l’altra riguarda la distribuzione del valore generato da queste pratiche e i sistemi «retribuitivi», non solo monetari, dei consumatori attivi. La sfida finale è quella di valutare se, e in quali ambiti o condizioni contestuali, il consumo produttivo è capace di indirizzare le catene del valore, promuovendo innovazione ma anche sviluppo, o è invece il risultato di un semplice processo che tende a co-optare (Dujarier 2009) il desiderio di interloquire e di resistere dei consum-autori attraverso il potenziamento delle loro opzioni espressive e co-creative. Tuttavia, tali strategie piuttosto che rimettere al centro la sovranità del consumatore di fatto scaricano su di lui i costi di produzione e i rischi dell’innovazione, configurando nuove forme di sfruttamento nell’era del prosumer capitalism (Ritzer e Jungerson 2010).
Letture di approfondimento Douglas M., Isherwood B. (1984). Il mondo delle cose: oggetti, valori, consumo, trad. di R. Maggioni, Bologna, il Mulino (ed. or. 1979). Dujarier M.A. (2009). Il lavoro del consumatore. Come co-produciamo ciò che compriamo, trad. di G. Tallarico, G. Gerevini, Milano, Egea (ed. or. 2008). Glucksmann M. (2016). «Completing and complementing: The work of consumers in the division of labour», Sociology, 50(5), pp. 878-95. Micheletti M. (2003). Political Virtue and Shopping. Individuals, Consumerism and Collective Action, London, Palgrave.
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Ritzer G., Jurgenson N. (2010). «Production, consumption, prosumption», Journal of Consumer Culture, 10(3), pp. 13-36. Sombart W. (1921). Luxus und Kapitalismus, München, Duncker & Humblot (trad. it. Dal lusso al capitalismo, trad. di R. Sassatelli, Roma, Armando Editore, 2003).
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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B. Organizzazione dei mercati
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26 I mercati finanziari come arene sociali di Joselle Dagnes
26.1 La costruzione sociale dei mercati finanziari: un inquadramento Nell’idea minimale di mercato proposta dall’economia neoclassica non vi è posto per le dimensioni sociali. Secondo questo modello, in condizioni di concorrenza perfetta il mercato è costituito da una moltitudine di attori economici che scambiano beni con l’obiettivo di massimizzare i propri interessi a partire da preferenze date. Ogni operatore, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, agisce su base individuale, senza influenze diverse dal suo reddito disponibile e dal prezzo medio (postulato dell’atomismo); ha a disposizione tutte le informazioni relative alle caratteristiche dei beni, ai prezzi e alle condizioni di scambio (postulato dell’informazione perfetta); può decidere in ogni momento se e quanto acquistare o vendere (postulato della libertà decisionale). I beni oggetto di scambio presentano caratteristiche simili rispetto all’utilità soggettiva e risultano quindi confrontabili tra loro (postulato dell’omogeneità). Tra i diversi mercati con cui siamo abituati a confrontarci, quelli finanziari sembrano rappresentare la migliore approssimazione del modello minimale proposto dalla scienza economica. A un primo sguardo, infatti, le attività di natura finanziaria parrebbero avvenire in un vuoto sociale: un numero elevatissimo di acquirenti e venditori scambiano tra loro beni del tutto equivalenti (pensiamo per semplicità alle azioni societarie) a un prezzo definito dal punto di incontro tra domanda e offerta e al solo scopo di massimizzare il proprio guadagno. La realtà risulta però più complessa: da lungo tempo infatti le scienze sociali hanno mostrato come anche in questo tipo di mercati le dimensioni strutturali, culturali, politiche e istituzionali svolgano un ruolo centrale. Indagare queste dimensioni e svelare i meccanismi che ne regolano il funzionamento risulta allora necessario per evitare di cadere in una sorta di «tirannia tecnocratica dei mercati». Sempre più spesso infatti a ciò che accade nella sfera della finanza – e all’influenza da questa esercitata su altre sfere e sulla vita dei cittadini – viene attribuito un carattere tecnico1, connesso a un sapere esperto del tutto privo di influenze sociali. Al contrario, il potere (si veda il Cap. 7), la fiducia, la reputazione (si veda il Cap. 8), le relazioni sociali (si 1
Questa tendenza è evidente in alcune espressioni, diventate ormai comuni nel discorso pubblico, che attribuiscono ai mercati un’apparente volontà unitaria, intenzionale e autonoma, come nei riferimenti sempre più diffusi alle «richieste dei mercati», alla «volontà dei mercati» o al «giudizio dei mercati» in termini di riforme economiche e scelte politiche dei singoli stati.
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vedano i Capp. 9 e 16), le norme e le credenze (si veda il Cap. 10) – solo per citare alcuni esempi – svolgono un ruolo fondamentale nell’orientare le dinamiche che hanno luogo nei mercati finanziari. In questo capitolo daremo conto dei mercati finanziari come arene sociali: campi di azione e interazione individuale e collettiva che, attraverso il loro funzionamento quotidiano, definiscono in modo sempre più marcato l’assetto del mondo in cui viviamo (Knorr Cetina e Preda 2005, 2012). Nelle economie avanzate il ruolo della finanza è infatti cresciuto considerevolmente negli ultimi trent’anni, trasformandosi da semplice strumento per la raccolta e l’allocazione di capitali di rischio a principio ordinatore capace di modificare i processi di produzione del valore (si veda il Cap. 27). Sebbene non sia immediato fornire una misura sintetica dell’evoluzione dei mercati finanziari, alcuni dati elaborati dalla Banca Mondiale permettono di coglierne la portata. Il numero complessivo di società quotate nelle borse valori nazionali, pari a circa 17.000 nel 1980, è aumentato in modo consistente nel corso degli anni Novanta, arrivando a collocarsi stabilmente oltre le 40.000 unità a partire dai primi anni Duemila (43.500 nel 2015). Coerentemente è cresciuta anche la capitalizzazione di mercato – vale a dire il valore complessivo delle azioni quotate nel mondo –, passando da 4.600 miliardi di dollari nel 1985 (pari al 48,8 per cento del PIL mondiale) a 61.800 nel 2015 (97,4 per cento del PIL)2. Questi dati permettono però di cogliere solo una parte del mutamento in corso: ciò che colpisce maggiormente dei mercati finanziari è infatti la loro pervasività rispetto ad altre sfere, vale a dire la capacità di penetrazione delle logiche di tipo finanziario in ambiti tradizionalmente orientati alla produzione di valore (come nei settori industriali), al soddisfacimento dei bisogni quotidiani (Barbera et al. 2016) o alla protezione dai rischi di malattia, disoccupazione e invecchiamento (come nella sanità, nei servizi sociali e nei sistemi previdenziali: si veda il Cap. 35). È a questo fenomeno che si fa riferimento più in generale quando si parla di finanziarizzazione (Epstein 2005). Analizzare le dinamiche che governano i mercati finanziari ha quindi una rilevanza che va al di là dei mercati stessi: significa, in effetti, comprendere le logiche di funzionamento di una porzione sempre più vasta del nostro mondo (Godechot 2016).
26.2 L’analisi dei mercati finanziari da una prospettiva sociologica Le prospettive sociologiche di analisi dei mercati finanziari sono essenzialmente riconducibili a tre grandi famiglie. Vi è innanzitutto un approccio relazionale allo studio del settore finanziario, che discende dalla concezione strutturale dei mercati propria della nuova sociologia economica (Granovetter 1985; White 1981; si vedano anche i Capp. 9 e 15). I mercati sono qui intesi come reti di relazioni: per comprendere il loro funzionamento non è
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Ulteriori misure della diffusione dei mercati finanziari sono disponibili nella 2 parte online del volume.
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quindi sufficiente fare riferimento all’azione e alle motivazioni che orientano il singolo individuo, ma è necessario considerare la struttura relazionale in cui egli è inserito. Transazioni di mercato complesse sono infatti spesso rese possibili dalla fiducia esistente tra attori che condividono legami sociali stabili. Allo stesso modo, le informazioni che circolano nella rete di relazioni e la possibilità di esercitare controllo sociale sul comportamento altrui contribuiscono a diminuire l’incertezza e, dunque, a rendere più fluido il sistema di scambi. Un esempio di come agiscono questi processi è fornito dagli studi sugli interlocking directorates, i legami interorganizzativi originati dalla presenza delle stesse persone negli organi decisionali di due o più grandi società industriali o finanziarie. Si crea così, per il tramite di questi individui, una connessione tra aziende formalmente autonome, attraverso cui possono circolare pareri e informazioni, diffondersi pratiche imitative e determinarsi pressioni sociali (sul caso italiano si veda Dagnes 2014; un approfondimento è disponibile nel 2 Box 26.1) della sezione online di questo capitolo, dove sono presenti anche link a strumenti online che ricostruiscono la mappa degli interlocking directorates esistenti). Vi è poi un secondo approccio che concepisce il mercato in termini essenzialmente istituzionali, rifacendosi al neo-istituzionalismo sociologico (si veda il Cap. 10) e, in parte, alla political economy comparata (si veda il Cap. 1). Vengono qui prese in considerazione da un lato la dimensione cognitiva delle istituzioni – vale a dire i rituali, i sistemi di credenze, gli schemi interpretativi adottati dagli attori in uno specifico contesto –, dall’altro la dimensione normativa, legata ai meccanismi di regolazione e al ruolo dello stato (Powell e DiMaggio 1991). A contare sono dunque, oltre alle reti di relazioni, i fattori culturali e politici, capaci di definire gli interessi dei soggetti coinvolti e gli standard di comportamento appropriati per il loro perseguimento. Con riferimento specifico ai mercati finanziari, tra gli elementi di analisi particolarmente rilevanti in ottica neoistituzionalista vi sono i processi di regolamentazione e supervisione posti in essere dallo stato, da organismi sovranazionali e da enti di auto-disciplina, caratterizzati da un crescente allentamento di vincoli e controlli, solo in parte ridimensionato dopo lo scoppio della crisi economico-finanziaria del 20072008. Altro aspetto oggetto di attenzione è il progressivo trasferimento del sistema di credenze e di produzione simbolica proprio della finanza ad altri ambiti e settori. In anni recenti, grandi aziende attive nei settori industriali e delle utilities, che forniscono beni e servizi necessari alla vita quotidiana dei cittadini (si pensi ai trasporti, alle telecomunicazioni, alla produzione e distribuzione di gas, energia e acqua, allo smaltimento dei rifiuti) hanno infatti riorientato strategicamente i propri asset prediligendo gli investimenti finanziari – che non producono nuovo valore, bensì lo estraggono da risorse già esistenti – a discapito degli investimenti produttivi (si veda il Cap. 27). Tale riposizionamento, che si è accompagnato nella maggioranza dei casi a una riduzione dei servizi offerti e della qualità complessiva, è stato possibile grazie alla legittimazione sociale conferita a operazioni essenzialmente speculative rappresentate in termini di razionalizzazione e ammodernamento (Barbera et al. 2016). Infine, a partire dagli anni Novanta emerge un terzo nucleo di analisi dei mercati finanziari, che affonda le sue radici negli studi sociali sulla scienza e la tecnologia, e a cui ci si riferisce complessivamente come social studies of finance (Godechot 2009;
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Preda 2007; per una rassegna sul tema si veda Moiso 2011). Tale approccio considera la finanza come un sistema esperto, all’interno del quale le pratiche quotidiane degli attori prendono forma nell’interazione concreta non solo con altri soggetti individuali e collettivi, ma anche con gli specifici strumenti che supportano gli scambi di mercato. Market devices di diverso tipo – per esempio, modelli econometrici, indicatori economici, software di analisi dei dati, documenti ufficiali – partecipano dunque al processo di costruzione dei mercati finanziari e ne influenzano gli esiti (Callon, Millo e Muniesa 2007). Uno dei concetti più influenti affermatisi nell’ambito dei social studies of finance è quello della performatività della conoscenza specialistica, inizialmente proposto da Callon (1998) e poi sviluppato soprattutto da MacKenzie (MacKenzie 2006; MacKenzie e Millo 2003). Secondo questi autori, la scienza economica non descrive semplicemente la realtà fattuale dei mercati e i meccanismi che ne orientano lo sviluppo, ma contribuisce a dare loro forma e a spingerli in una specifica direzione, partecipando attivamente alla co-costruzione del fenomeno che pretende di rappresentare3. In questo senso, richiamando il titolo di un celebre volume sul tema (MacKenzie 2006), possiamo sostenere che i modelli economici non forniscono una fotografia dei mercati finanziari, piuttosto ne costituiscono il motore. La tesi della performatività applicata alla sfera della finanza può essere concepita in modo più o meno forte, variando dalla semplice diffusione tra operatori e organismi finanziari di elementi provenienti dalla teoria economica (performatività generica), alla concreta incidenza di questi elementi sui processi che hanno luogo nei mercati finanziari (performatività effettiva), per arrivare fino a una trasformazione della realtà empirica secondo quanto postulato dalla teoria (performatività barnesiana)4. Il tratto comune che emerge da queste diverse concezioni di performatività è l’idea che le teorie economiche, che si propongono di descrivere quanto avviene nei mercati, in realtà possono essere incorporate nel sistema di credenze degli attori che popolano il campo finanziario e, per questo tramite, modificarne la configurazione. I tre approcci che abbiamo sinteticamente delineato (relazionale, neoistituzionalista, social studies of finance) rappresentano altrettanti modi di guardare ai mercati finanziari secondo una prospettiva sociologica. Ciascuno di essi si focalizza in modo prioritario su alcune dimensioni che permettono di comprendere il funzionamento del sistema finanziario, lasciandone in ombra altre. Non si tratta, tuttavia, di modelli di spiegazione alternativi: le diverse prospettive possono essere proficuamente integrate, come di fatto sempre più spesso accade nelle concrete esperienze di ricerca. È questa anzi la sfida che la sociologia dei mercati finanziari ha di fronte: sviluppare analisi empiriche approfondite in grado di mostrare all’opera meccanismi che si col-
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L’idea di performatività delle teorie economiche presenta alcuni elementi di vicinanza con il concetto che è alla base del principio di indeterminazione di Heisenberg della fisica quantistica, secondo cui non è possibile osservare un fenomeno senza esercitare un’influenza su di esso. 4 Esiste un ulteriore tipo di performatività identificata da MacKenzie, nota come contro-performatività, che è l’esatto contrario di quella barnesiana: in questo caso, cioè, l’implementazione di un modello economico nella pratica finanziaria può indebolire gli assunti teorici di partenza.
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locano su livelli analitici diversi (si veda il Cap. 12) e che agiscono e interagiscono dando complessivamente forma al sistema finanziario. Nel prossimo paragrafo illustreremo tre ricerche di grande rilievo nello studio sociologico dei mercati finanziari. Si tratta di contributi classici, ciascuno chiaramente riconducibile a uno degli approcci presentati. Pur non andando specificamente nella direzione di un’integrazione tra le diverse prospettive di analisi sociologica della finanza, essi illustrano in modo efficace le coordinate di analisi e il valore aggiunto di ciascun approccio.
26.3 Reti, credenze, performatività: esempi di ricerca sul sistema finanziario 26.3.1 La dimensione relazionale dei mercati: il contributo di Baker Tra le prime ricerche che sfidano gli assunti dell’economia neoclassica ponendo al centro il ruolo delle reti nei mercati finanziari vi è il contributo del sociologo statunitense Wayne Baker (1984). Baker studia le dinamiche di scambio presenti in un mercato statunitense di derivati finanziari in cui le stock option societarie vengono negoziate direttamente e in condizioni di prossimità fisica da intermediari (broker) e agenti (trader). Attraverso una metodologia che combina analisi qualitativa e quantitativa – facendo ricorso all’osservazione partecipante nelle trading room, a interviste semi-strutturate agli operatori e all’analisi di rete dei legami ricostruiti a partire dai registri delle transazioni –, Baker approfondisce l’interazione in due sottomercati con caratteristiche distinte. Il primo è formato da un numero elevato di intermediari e agenti che gestiscono un grande volume di scambi, mentre nel secondo gruppo un numero più limitato di operatori negozia un minor numero di transazioni. Secondo la teoria neoclassica, la numerosità degli attori è condizione necessaria per il raggiungimento del prezzo di equilibrio tra domanda e offerta. Di conseguenza, nel sottomercato più ampio dovremmo osservare una maggiore stabilità dei prezzi; viceversa, in quello più ridotto ci aspettiamo una consistente volatilità (che tuttavia tenderà a diminuire nel tempo dal momento che le opportunità di profitto determinate dai prezzi volatili attireranno ulteriori operatori e questo stabilizzerà il mercato). Ciò che emerge dall’analisi di Baker è però precisamente il contrario: il sottomercato di grandi dimensioni presenta una volatilità maggiore rispetto a quello più piccolo. Come mostrato dalla Fig. 26.1, infatti, nel network più esteso gli operatori tendono a segmentarsi in clique, vale a dire a interagire con un numero ristretto di altri attori con cui condividono legami fiduciari e norme informali di comportamento. Le clique si sviluppano perché esistono limiti cognitivi e spaziali al numero di legami che un soggetto è in grado di gestire e perché all’interno dei sottogruppi è possibile esercitare un controllo sociale che tiene a bada l’opportunismo dei singoli (Granovetter 2005). La stabilizzazione dei legami di scambio all’interno dei mercati di maggiori dimensioni è dunque una strategia per fronteggiare l’incertezza messa in
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Figura 26.1 Rappresentazione grafica dei network di scambio in due sottomercati di dimensione diversa
Fonte: W.E. Baker, «The social structure of a national securities market», American Journal of Sociology, 89(4), 1984, p. 792. © 1984 by The University of Chicago. All rights reserved.
atto dagli stessi operatori, che ha come conseguenza una maggiore volatilità dei prezzi in questo tipo di mercati, al contrario di quanto postulato della teoria neoclassica. Il lavoro pionieristico di Baker mostra che la struttura di un mercato è in grado di influenzarne gli esiti economici. Nel caso specifico, le relazioni interpersonali tra gli attori risultano cruciali per comprendere il meccanismo di formazione dei prezzi.
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Non si può tuttavia ignorare che negli ultimi vent’anni la diffusione del trading telematico e la proliferazione di soggetti che vi operano hanno mutato profondamente le caratteristiche dei mercati finanziari. In questo senso, la ricerca di Baker, basata sull’osservazione di quanto avviene nel corso di contrattazioni faccia a faccia, nello stesso luogo fisico, appare datata e poco corrispondente alla realtà che conosciamo (Mutti 2008). Tuttavia, ricerche successive hanno evidenziato che anche nei mercati odierni, dove una moltitudine di operatori è globalmente interconnessa grazie alle tecnologie informatiche, permangono limiti strutturali all’interazione e si osservano strategie di coordinamento dell’azione di carattere relazionale. Per esempio, Knorr Cetina e Bruegger (2002) nel loro studio sugli scambi valutari mostrano l’emergere nei mercati virtuali globali di micro-strutture di interazione situata. Si tratta di clique composte da operatori che contrattano nelle stesse fasce orarie e che, a partire da questa sincronia temporale, danno vita a vere e proprie «comunità di tempo» all’interno delle quali si definiscono forme di coordinamento e reciprocità. In questi gruppi le micro-dinamiche sociali sono dunque presenti e non di rado si caratterizzano per intimità e confidenza; in questi casi, l’interazione faccia a faccia è sostituita dagli scambi virtuali via terminale. A un diverso livello, una conferma dell’embeddedness dei mercati finanziari globali e del ruolo che in essi svolgono dimensioni non di mercato è fornita da Saskia Sassen (2005). Nel suo lavoro, Sassen rintraccia le radici dei mercati virtuali in contesti spazialmente definiti, identificati con le grandi città globali in cui si concentrano risorse e talenti del settore finanziario (si veda il Cap. 29). La legittimazione sociale di cui godono questi centri finanziari è tale da permettere loro di svolgere un ruolo di primo piano nell’orientare l’azione di soggetti potenzialmente liberi di operare su scala globale, fornendo un solido ancoraggio territoriale e politico-istituzionale a un mercato di fatto dematerializzato. 26.3.2 Tra opportunismo individuale e regolazione istituzionale: il contributo di Abolafia La complessa interazione tra ambiente istituzionale e comportamento dei singoli attori è al centro della ricerca etnografica condotta da Mitchell Abolafia (1996) sulle pratiche quotidiane dei trader di Wall Street. Adottando un’ottica neoistituzionalista, l’autore analizza il sistema di credenze degli operatori di borsa, il modo in cui queste influenzano le strategie di negoziazione e il legame tra pratiche e contesto in cui l’azione finanziaria assume forma e significato. Nella loro attività, i trader sembrano mostrare caratteristiche che li avvicinano all’homo oeconomicus: nel dettaglio, sono dotati di razionalità, agiscono in modo atomistico – con livelli bassissimi di cooperazione e fiducia tra pari – e sono orientati in modo pressoché esclusivo all’interesse individuale, che coincide con il perseguimento del profitto. A uno sguardo più attento, però, Abolafia identifica pattern di comportamento fortemente ritualizzato (si veda il Cap. 2), che prescinde dalle caratteristiche richiamate. Ne è un esempio quella che l’autore chiama iper-raziona-
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lità: una qualità individuale che incorpora certamente capacità di analisi e ragionamento logico, ma in cui hanno spazio anche l’intuizione e l’attitudine alla vigilanza sul comportamento altrui. Tali elementi sono fondamentali in relazione alle caratteristiche del contesto in cui i trader agiscono e a cui sono stati socializzati. Tutti gli operatori di borsa possono infatti accedere alle stesse informazioni: ciò che fa la differenza è da un lato l’abilità di analisi, dall’altro la capacità di intuire come queste informazioni saranno interpretate dagli altri agenti e che conseguenze avranno sulle loro azioni. Detto in altri termini, ad avere maggior successo non sono necessariamente gli analisti più capaci, bensì coloro che hanno più consapevolezza del sistema di credenze condiviso tra pari. Anche la ricerca di profitto, che a prima vista sembra orientare in modo esclusivo l’azione individuale, nasconde in realtà secondo Abolafia un repertorio di motivazioni più complesso, che chiama in causa dimensioni di status. In un contesto organizzativo in cui non sono previste posizioni di carriera differenziate – tutti i trader sono trader allo stesso modo – gli attori ricercano infatti altre forme di distinzione tra pari (si veda il Cap. 7). L’ammontare di denaro guadagnato viene dunque utilizzato per collocare gli operatori in una scala di prestigio sociale, insieme – nota l’autore – alla valutazione di altre caratteristiche rilevanti nell’ambiente, come il grado di fiducia in se stessi e la propensione al rischio. Tutto ciò ha anche, evidentemente, un effetto sulle strategie di azione individuale. Dal momento che gli elementi sopra richiamati fanno parte della cultura condivisa dei trader, vi è infatti un’ampia accettazione sociale dei comportamenti opportunistici. La manipolazione delle comunicazioni, che può oscillare dal fornire informazioni parziali ai colleghi e ai clienti fino al diffondere notizie false, è un’attività di routine che non viene sanzionata socialmente, anche se è un aspetto su cui gli operatori esercitano la massima vigilanza possibile per le transazioni che li coinvolgono. Parte della socializzazione alla professione di trader consiste proprio nell’apprendere queste tecniche di distorsione dell’informazione ai limiti tra lecito e illecito, imitandole dai colleghi più anziani, e nel difendersi dalle strategie opportunistiche messe in atto dagli altri. Per comprendere la diffusione di questi comportamenti – e in termini più generali il senso dell’azione finanziaria – non è sufficiente concentrarsi sul livello individuale degli attori e neppure solo sulla rete di relazioni esistente. Secondo l’approccio neo-istituzionalista sposato da Abolafia sono infatti le dinamiche organizzative a dare forma al mercato. Nel caso specifico il perseguimento dell’interesse individuale, anche mediante strategie opportunistiche, è promosso e sostenuto dallo stesso assetto istituzionale e normativo dei mercati finanziari. Il riferimento è tanto al contesto specifico osservato (come è organizzata concretamente la trading room oggetto di studio, quali sono i percorsi di carriera possibili, qual è il sistema di incentivi economici esistente) quanto al più ampio quadro normativo di riferimento, segnato da una progressiva deregolamentazione in ambito finanziario che lascia ampi margini per condotte che si situano al confine tra lecito e illecito, tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è.
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26.3.3 La performatività delle teorie economiche: il contributo di MacKenzie e Millo Non solo i mercati finanziari sono socialmente costruiti, come mostrano efficacemente i lavori di Baker e Abolafia. Le stesse teorie economiche non possono essere comprese se non si fa riferimento alla loro embeddedness strutturale, politica, culturale e cognitiva e ai processi di legittimazione sociale connessi. Da qui deriva la capacità della teoria economica di influenzare – piuttosto che di descrivere – i mercati, dando loro forma e condizionandone lo sviluppo. È questa, in sintesi, l’idea di performatività a cui abbiamo già fatto riferimento e che è efficacemente illustrata nella ricerca condotta da MacKenzie e Millo (2003). Gli autori ricostruiscono il processo che ha portato allo sviluppo del mercato dei derivati a Chicago, uno dei più importanti degli Stati Uniti, e per suo tramite alla diffusione esponenziale di un prodotto finanziario osservato per lungo tempo con sospetto. Dopo la crisi economica del 1929, infatti, i derivati sono stati considerati per decenni strumenti estremamente speculativi e per molti versi prossimi al gioco d’azzardo, al punto che era difficile trovare operatori disposti a trattarli. Nel corso degli anni Settanta, però, le cose cambiano in modo significativo. In questo periodo, infatti, gli economisti della scuola di Chicago elaborano la teoria dei prezzi delle opzioni, secondo cui è possibile modellizzare l’andamento dei prezzi dei derivati a partire dall’analisi della volatilità dei prezzi dei prodotti sottostanti osservata nei periodi precedenti. Il lavoro della scuola di Chicago risulta fondamentale innanzitutto perché fornisce legittimazione sociale a un mercato fino a quel momento considerato moralmente controverso. Questo avviene anche grazie all’azione di pressione politica esercitata dalle istituzioni e dai soggetti attivi nella copertura dei rischi derivanti dall’oscillazione dei prodotti agricoli, un ambito in cui i derivati possono essere impiegati proficuamente. Ma il vero punto di svolta si ha con l’elaborazione del modello Black-Scholes-Merton (BSM), un’equazione che, muovendo da assunzioni che presuppongono condizioni di mercato estremamente semplificate rispetto a quelle osservabili nella realtà, permette di stimare il prezzo teorico delle opzioni e di calcolarne i margini di rischio. Grazie alla sua formulazione compatta e all’apparente controllo che consente di esercitare sulle fluttuazioni dei derivati, il modello BSM si diffonde in breve tempo tra gli operatori finanziari e getta le basi per il successo di questo tipo di prodotto, la cui esplosione ha luogo tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Nello stesso periodo, viene attribuito il premio Nobel per l’economia a Scholes e Merton. L’analisi condotta da MacKenzie e Millo fa emergere chiaramente il carattere performativo dell’equazione BSM. In una prima fase, infatti, il modello elaborato da Black, Scholes e Merton appare lontano dalle condizioni effettive di mercato e mostra una limitata capacità predittiva: le sue assunzioni risultano irrealistiche e i prezzi teorici stimati differiscono considerevolmente da quelli di scambio. Tuttavia, con il passare del tempo, si assiste a una convergenza tra il dato empirico e la predizione teorica, che MacKenzie e Millo riconducono a due processi distinti ma collegati. Primo, alcune condizioni esterne – sollecitate dalla nuova legittimazione sociale di cui
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godono i prodotti finanziari – intervengono sulla direzione di sviluppo dei mercati, modificandone l’assetto in modo coerente con quanto postulato dalla teoria. Tra gli elementi più significativi in questo senso vi sono da un lato l’implementazione di nuove tecnologie che rendono più fluide le transazioni e facilitano la circolazione delle informazioni sui prezzi; dall’altro, il processo di liberalizzazione dei mercati finanziari che ha inizio con la presidenza Nixon. Secondo, la diffusione stessa del modello incide sui mercati. L’equazione BSM viene infatti progressivamente assunta come criterio guida da parte degli operatori finanziari per la costruzione dei derivati e per la definizione dei prezzi di scambio, che tendono così a convergere con le stime teoriche. Il modello dà dunque forma alla realtà, intervenendo sul modo in cui gli attori rappresentano e interpretano i mercati. In questo caso, la teoria economica non descrive un fenomeno: piuttosto, lo costituisce performativamente, trasformando i precedenti assetti di sistema. Il complesso rapporto tra attori, processi cognitivi e strumenti tecnici all’interno dei mercati finanziari è alla base di un altro contributo di MacKenzie (2011) che indaga il ruolo avuto da due specifiche tipologie di titoli, i CDO e gli ABS, nella crisi economico-finanziaria esplosa nel 2007-085. L’autore in particolare mostra come la sistematica sottostima del rischio connesso alla diffusione di questi prodotti sia riconducibile primariamente alle pratiche di valutazione affermatesi nel corso del tempo. Sebbene CDO e ABS siano prodotti molto simili e spesso connessi tra loro, gli operatori finanziari e le agenzie di rating si sono infatti specializzati nell’uno o nell’altro strumento, dando vita a «cluster di pratiche valutative» separati e incapaci di dialogare tra loro. Ciascun cluster ha sviluppato specifiche credenze e metodi per la valutazione, efficienti in relazione al singolo segmento di competenza, ma incapaci di fornire una visione di insieme del fenomeno. Le pratiche valutative, considerate una procedura di carattere esclusivamente tecnico, incorporano evidentemente elementi di carattere strutturale, culturale, cognitivo e politico che sarebbe stato necessario tenere in considerazione per comprendere potenzialità e limiti degli strumenti utilizzati.
26.4 Temi emergenti: i modelli finanziari alternativi La crisi economico-finanziaria iniziata nel 2007-08 ha generato, come già richiamato, una rinnovata attenzione ai meccanismi che governano il funzionamento dei mercati, ma anche un nuovo interesse per le forme alternative di finanza. In conclusione di questo capitolo, presentiamo tre temi che costituiscono altrettanti promettenti ambiti di ricerca su esperienze e pratiche finanziarie che si discostano dal paradigma dominante e che sono sempre più oggetto di studio da parte delle scienze sociali: la microfinanza, la finanza islamica e le monete complementari (Maurer 2012).
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Un approfondimento sulla genesi della recente crisi è disponibile nel 2 Box 26.2.
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Con il termine microfinanza si indica l’insieme di prodotti e servizi destinati ai soggetti esclusi dal sistema finanziario tradizionale perché considerati non solvibili o perché la loro inclusione nel circuito creditizio standard non risulta economicamente conveniente. È il caso, per esempio, di coloro che non dispongono di sufficienti garanzie per accedere a un mutuo, magari perché percepiscono un reddito basso o hanno un contratto di lavoro temporaneo, ma anche di coloro che vivono in paesi in cui non esistono istituzioni bancarie sufficientemente sviluppate e distribuite sul territorio. Tra gli strumenti più diffusi in microfinanza vi è il microcredito, un’erogazione di denaro destinata prioritariamente al sostegno di piccole attività imprenditoriali (Barbera e Podda 2017). Esistono nel mondo forme di microcredito erogate da istituti specializzati, come le banche etiche o banche dei poveri, che consistono nell’erogazione di piccoli prestiti a tassi di interesse molto bassi. L’esempio più noto è quello della Grameen Bank fondata in Bangladesh da Muhammad Yunus, vincitore del premio Nobel per la pace nel 2006. Ma vi sono anche forme di microcredito informale, come quello genericamente indicato con il termine ROSCA (Rotating Savings and Credit Association). Si tratta di gruppi di individui che nel corso di incontri periodici versano in un fondo comune piccole somme di denaro. L’ammontare totale di quanto raccolto viene ogni volta destinato a un solo membro che, quando è il suo turno, ha quindi a disposizione soldi sufficienti per investire in un progetto di micro-imprenditorialità o per fare fronte ad altre esigenze specifiche. I partecipanti alle ROSCA hanno di norma condizioni socio-economiche comparabili e fanno parte di una stessa rete di relazioni: in questo modo è possibile esercitare un certo controllo sociale all’interno del gruppo e limitare i comportamenti opportunistici, come l’abbandono una volta avuta la propria parte. Possono infine essere annoverate tra gli strumenti del microcredito anche alcune nuove modalità di finanziamento di tipo peer-to-peer, diffuse nei paesi a economia avanzata, che utilizzano piattaforme web per raccogliere capitali tra privati e destinarli a piccoli imprenditori che intendono sviluppare idee innovative o a persone che si trovano in condizioni di bisogno (si veda il Cap. 6). La comprensione delle dinamiche in atto nel mondo della microfinanza intercetta due grandi temi che sollecitano approfondimenti empirici puntuali. Primo, l’affermazione dell’accesso al credito come politica attiva di sostegno a soggetti vulnerabili si salda con una concezione sempre più individualizzata del rischio finanziario: la gestione consapevole delle finanze familiari è considerata il principale strumento a disposizione dei singoli e delle famiglie per fronteggiare l’incertezza economica e, dunque, è sempre più intesa come una responsabilità individuale. Di qui discendono nuove pratiche di disciplinamento nell’uso del denaro (si veda il Cap. 4), un’enfasi sull’educazione finanziaria dei cittadini, ma anche esperienze emergenti di riappropriazione e gestione alternativa delle finanze familiari (Moiso 2012). Secondo, suscita interesse e preoccupazione la tendenza alla finanziarizzazione della microfinanza, vale a dire la penetrazione anche in questo ambito di logiche proprie del settore finanziario standard e il coinvolgimento di istituzioni finanziarie classiche, come i grandi gruppi bancari (Aitken 2013). Se da un lato infatti un’istituzionalizzazione delle esperienze della microfinanza può risultare necessaria per garantirne la soste-
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nibilità a lungo termine e la diffusione su larga scala, dall’altro vi è il rischio che l’allargamento dell’accesso al credito ai soggetti economicamente più fragili, inizialmente orientato da intenti solidali, definisca un ulteriore bacino di estrazione di valore da parte dei grandi attori della finanza globale. Tra i modelli finanziari alternativi a cui si inizia a prestare attenzione vi è poi la finanza islamica. L’interesse è motivato innanzitutto dal numero di persone potenzialmente interessate a questi mercati: i musulmani nel mondo sono oggi circa 1,6 miliardi, pari al 23 per cento della popolazione, e risultano in crescita rispetto ad altri gruppi (Pew Research Center 2015). Inoltre, le pratiche finanziarie di derivazione islamica sono guidate da principi etici che, almeno in teoria, presentano una forte discontinuità con gli elementi della finanza dominante a cui più spesso vengono attribuite le responsabilità della crisi finanziaria e, più in generale, delle crescenti disuguaglianze economiche. Tali principi includono la proibizione del prestito a interesse, considerato sempre una forma di usura; la condivisione di rischi e profitti tra debitore e creditore; l’obbligo di investimento in attività produttive reali e, specularmente, il divieto all’investimento puramente finanziario (Pitluck 2012). Conformemente a questi precetti, gli strumenti più diffusi nella finanza islamica sono i sukuk, titoli di debito comunemente paragonati alle obbligazioni, ma che definiscono in realtà un diritto di proprietà. La raccolta di capitali mediante sukuk deve infatti avere come obiettivo un progetto concreto – per esempio, la realizzazione di un’infrastruttura o l’acquisto di una proprietà immobiliare – a cui gli investitori partecipano diventando proprietari di quote-parte. Il ruolo di norme religiose e principi etici nella definizione di ciò che è lecito fare all’interno di un settore pervasivo come quello finanziario costituisce un ambito di studio di grande interesse per le scienze sociali. Da ultimo, rivolgiamo la nostra attenzione ai sistemi di monete complementari, un ulteriore esempio di alternativa alle modalità finanziarie classiche (si veda il Cap. 4). Le valute complementari sono strumenti di scambio adottati su base volontaria da diversi tipi di soggetti – individui, imprese, istituzioni – in abbinamento al sistema monetario vigente, per perseguire una pluralità di scopi, primo fra tutti quello di facilitare gli scambi all’interno di comunità o contesti definiti e promuovere così lo sviluppo socio-economico locale. Questo obiettivo è perseguito limitando una delle funzioni tradizionalmente svolte dalla moneta, quella di riserva di valore, che fa sì che la valuta non spesa nel presente possa essere impiegata alle stesse condizioni in un tempo futuro (Greco 2001). Al contrario, poiché la tendenza al risparmio costituisce un freno alla circolazione del denaro, in numerosi sistemi di moneta complementare i processi di accumulazione sono esplicitamente scoraggiati mediante l’applicazione di un tasso di interesse negativo, noto come demurrage. Concretamente, questo significa che la moneta non spesa perde progressivamente il suo valore. La valuta complementare regionale Chiemgauer, adottata a partire dal 2003 in Baviera, prevede un funzionamento di questo tipo: al fine di mantenere la validità delle banconote in circolazione, infatti, è necessario apporvi trimestralmente un contrassegno il cui costo è pari al 2 per cento del loro valore, con un tasso negativo annuo dunque dell’8 per cento (Schroeder 2006). Nei casi più estremi, la moneta è dotata di una ve-
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ra e propria data di scadenza, con conseguente totale perdita di valore di quanto non è stato speso. I meccanismi descritti modificano in modo sostanziale la concezione stessa di moneta come strumento che permette la sovraccumulazione finanziaria, impedendo di fatto l’uso speculativo del denaro all’interno del circuito monetario. Essi pongono inoltre ancora una volta al centro la dimensione sociale dei mercati. Infatti, se per un verso l’esistenza di un tessuto fiduciario costituisce un prerequisito alla diffusione del denaro complementare – poiché è necessario che vi sia un certo grado iniziale di fiducia tra i partecipanti affinché le monete alternative si diffondano – per un altro verso la creazione di una rete di scambi ripetuti nel tempo favorisce l’emergere di nuove relazioni fiduciarie. È questo il caso, per esempio, del Sardex, la moneta complementare di maggior successo in Italia. Nella creazione e implementazione di questo circuito valutario la fiducia preesistente ha svolto un ruolo fondamentale e, al contempo, i valori sociali di cui la moneta sarda è diventata veicolo hanno contribuito a ri-territorializzare l’economia locale (Sartori e Dini 2016). Gli strumenti finanziari illustrati evidenziano come modelli differenti dal sistema finanziario dominante stiano emergendo, coinvolgendo un numero sempre maggiore di individui e famiglie. L’impatto sulla società della diffusione di strumenti finanziari alternativi e la relazione tra questi e modalità più tradizionali di finanziamento e investimento rappresentano ambiti di analisi che stanno guadagnando uno spazio crescente nelle scienze sociali.
Letture di approfondimento Knorr Cetina K., Preda A. (eds.) (2005). The Sociology of Financial Markets, Oxford, Oxford University Press. Knorr Cetina K., Preda A. (eds.) (2012). The Oxford Handbook of the Sociology of Finance, Oxford, Oxford University Press. Stearns L.B., Mizruchi M.S. (2005). «Banking and Financial Markets», in N.J. Smelser, R. Swedberg (a cura di), The Handbook of Economic Sociology, Princeton (NJ), Princeton University Press.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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27.1 Inquadramento empirico La finanziarizzazione dell’economia è un processo estremamente pervasivo: non c’è ambito della vita economica – e non soltanto nei paesi dell’Occidente – che non sia attraversato in misura crescente da azioni economiche che tendono a generare reddito e ricchezza attraverso canali prettamente finanziari. Sono esempi di questa tendenza, fra i tanti, la crescita degli scambi di azioni e di altri valori finanziari, l’espansione del mercato dei prodotti assicurativi, la spinta all’indebitamento privato (anche attraverso il credito al consumo), lo sviluppo di strumenti finanziari sui beni immobili (come i fondi immobiliari o le società di investimento quotate). In questo quadro va collocato il processo di finanziarizzazione delle imprese. Beninteso, è ovvio che le imprese finanziarie (come le banche e le compagnie di assicurazione) operino attraverso strumenti finanziari. Ma le imprese non finanziarie – ovvero tutte le altre – dovrebbero fondare la loro attività, in linea di principio, sulla produzione e la vendita di beni e di servizi non finanziari; dovrebbero espandere i loro profitti attraverso i meccanismi ordinari dell’accumulazione di capitale, ovvero reinvestendo nel processo produttivo una parte del reddito che producono e impegnandosi a scoprire e creare mercati nei quali prosperare. In particolari circostanze, però – si vedrà quali – le imprese non finanziarie preferiscono espandere i profitti attraverso canali prettamente finanziari; tendono, appunto, all’accumulazione finanziaria. Il loro obiettivo preferenziale diventa «profiting without producing» (Lapavitsas 2013): sviluppare profitti in maniera (almeno parzialmente) indipendente dall’attività produttiva. Il profitto tende, così, a diventare rendita. Negli ultimi quarant’anni, questa tendenza all’accumulazione finanziaria è andata aumentando rapidamente ed è divenuta comune presso le grandi imprese (e in particolare presso le imprese quotate). 27.1.1 Le due fasi della finanziarizzazione delle imprese In quest’arco di tempo, si possono distinguere due fasi di finanziarizzazione delle imprese (Fligstein 1990), descritte di seguito.
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III – Temi e percorsi di ricerca
1) La prima fase inizia negli anni Settanta del secolo scorso. Alla guida delle grandi imprese, dirette per molto tempo da manager di formazione tecnica, vengono posti sempre più spesso manager di formazione finanziaria. Essi tendono a concepire l’impresa, più che come un’istituzione dedita nel suo complesso alla produzione e alla vendita di specifici beni o servizi, come un «portafoglio» di linee di prodotto; ciascuna di esse può essere valutata sulla base del proprio tasso di rendimento nel breve periodo, e quindi eventualmente ristrutturata o dismessa. Quest’approccio alla gestione delle grandi imprese «considerava gli uffici centrali come una banca e trattava le divisioni come potenziali creditori. Gli uffici centrali investivano nelle divisioni che presentavano un grande potenziale e smantellavano quelle che operavano nei mercati a crescita lenta» (Fligstein 1990; trad. it. 2001, pp. 265 ss.). Anche in Italia, dalla prima metà degli anni Settanta le grandi imprese iniziano a riorganizzarsi in forma di «portafogli finanziari» gestiti da holding con forti propensioni speculative. Inoltre, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, le grandi imprese iniziano a svolgere attività prettamente finanziarie, incrementando gli investimenti finanziari (a detrimento degli investimenti produttivi). Nel 2 Box 27.1 si spiega la relazione fra queste tendenze e il declino dell’industria italiana. 2) La seconda fase del processo prende piede negli Stati Uniti negli anni Ottanta, e poi negli anni Novanta in Europa. Non solo la tendenza a investire risorse in attività finanziarie diventa sempre più marcata, ma, nel complesso, si assiste a un cambiamento nel modo stesso di concepire gli obiettivi e i criteri di gestione delle grandi imprese. Il criterio fondamentale che guida le strategie delle grandi imprese diventa la massimizzazione del valore per gli azionisti (shareholder value maximization): se fino a quel momento il compito dichiarato delle direzioni d’impresa era stato quello di incrementare la competitività (a lungo termine) delle imprese nei mercati dei beni e dei servizi, ora il compito fondamentale del top management diventa perseguire l’interesse degli azionisti/investitori (shareholders): far crescere il valore dell’impresa nel mercato azionario il più velocemente possibile. Passano invece in secondo piano gli interessi di tutti gli altri soggetti coinvolti nell’azione economica (i cosiddetti stakeholders): i lavoratori, i fornitori, i clienti, gli abitanti e le amministrazioni dei contesti che ospitano le strutture dell’impresa. Vedremo più avanti quali conseguenze comporti quest’approccio. 27.1.2 Le modalità dell’accumulazione finanziaria Nel complesso, si osservano tre modalità con le quali le imprese non finanziarie accedono all’accumulazione finanziaria. L’uso finanziario dei proventi delle attività di produzione e vendita Una prima modalità è l’uso dei proventi delle attività di produzione e vendita per investimenti specificamente finanziari, come l’acquisto di azioni, l’acquisto di titoli del
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Figura 27.1 Rapporto fra investimenti finanziari e investimenti tecnici (1990-2011)
Nota: campione di 2032 società. Fonte: elaborazione su dati Mediobanca.
debito pubblico, l’accesso al mercato dei derivati. Anche il ri-acquisto di azioni proprie (cosiddetto buyback) e il finanziamento di fusioni e acquisizioni sono operazioni orientate al profitto finanziario, perché sono finalizzate a un apprezzamento dei titoli azionari dell’impresa. Naturalmente, utilizzare capitale per investimenti finanziari significa sottrarlo a possibili investimenti tecnico-produttivi. Gli investitori ne conseguono vantaggi pressoché immediati, perché – soprattutto in fase di «euforia» dei mercati finanziari – gli investimenti finanziari sono molto remunerativi. Ma ne soffre l’impresa intesa come apparato produttivo (dunque, anche i lavoratori), perché vengono trascurati gli investimenti tecnici. Se si considera il caso italiano, si nota che, nelle imprese che compongono il cosiddetto «campione Mediobanca» (circa duemila imprese non finanziarie, fra cui tutte le grandi imprese e un campione rappresentativo delle imprese di medie dimensioni) all’inizio degli anni Novanta il valore degli investimenti finanziari era pari a circa il 20 per cento del volume degli investimenti tecnici, negli anni Duemila ammontava mediamente al 70 per cento (Fig. 27.1). Se però si isola il dato relativo alle imprese quotate (disponibile dal Duemila), si notano investimenti finanziari anche molto elevati, che seguono le ondate di «euforia» dei mercati finanziari e in alcuni anni superano di tre o quattro volte gli investimenti tecnico-produttivi. Naturalmente, a fronte di un aumento degli investimenti finanziari, crescono anche i proventi finanziari. Nella Fig. 27.2 si osserva che essi si quadruplicano nelle imprese del campione Mediobanca, in un arco di tempo che va dalla metà degli anni Settanta fino ai primi anni Duemila.
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III – Temi e percorsi di ricerca
Figura 27.2 Proventi finanziari 1974-2002 e proventi finanziari in percentuale del margine operativo lordo 12.000
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10.000
8.000
6.000
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Proventi finanziari (prezzi costanti anno 2000) Rapporto (%) proventi finanziari / margine operativo lordo 0
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98 19
96 19
94 19
92 19
90 19
88 19
86 19
84 19
82 19
80 19
78 19
76 19
19
74
0
Nota: campione di 980 società, migliaia di euro a prezzi costanti anno 2000. Fonte: elaborazione su dati Mediobanca.
Lo sviluppo di attività finanziarie «a margine» Una seconda modalità di accesso all’accumulazione finanziaria è lo sviluppo di attività finanziarie «a margine» di quelle produttive: una sorta di «filiazione» di rami finanziari dal ramo di attività principale. L’esempio più chiaro è quello delle grandi imprese (soprattutto nei settori dei beni di consumo durevoli) che offrono, attraverso divisioni specializzate o imprese consociate (ovvero controllate dalla stessa holding), servizi di finanziamento destinati alla loro stessa clientela. In passato, queste attività erano finalizzate soprattutto a promuovere la vendita di beni (per esempio, si proponeva un finanziamento per incentivare l’acquisto delle automobili), ma – via via che le attività finanziarie hanno guadagnato profittabilità rispetto a quelle di produzione e vendita – il rapporto si è invertito. Il cliente acquista il bene di consumo, ma quel che più importa, in termini di profittabilità, è che stipuli un contratto di finanziamento. È per questo motivo che molte promozioni offrono beni a prezzi scontati soltanto a condizione che si acceda a un finanziamento presso la società finanziaria consociata: il prezzo nominale è ridotto, ma gli interessi sul finanziamento garantiranno un profitto consistente. Beninteso, l’attività di credito al consumo non è che una delle possibili attività «satelliti». Come si spiega nel 2 Box 27.2, le interrelazioni fra «attività-madre» e
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«attività-satelliti», frutto di sofisticate ingegnerie finanziarie, possono essere anche molto complesse e non facilmente percepibili dal cliente finale. Questa seconda modalità di accesso all’accumulazione finanziaria è del tutto connessa e integrata con la prima. Anche in questo caso, il baricentro del business si sposta da attività che un tempo erano considerate «caratteristiche» verso attività «di servizio», che in passato erano ritenute meramente strumentali. In tutti i casi, questo spostamento verso l’accumulazione finanziaria è finalizzato a incrementare il rendimento del capitale investito nell’impresa. Come osserva Robin Blackburn (2006, pp. 43 ss.): uno degli stimoli alla finanziarizzazione è che le imprese che hanno difficoltà a vendere i loro prodotti trovano più semplice offrire finanza esse stesse, dalla più semplice rete di credito al consumo fino a operazioni complesse nelle quali una società vende il suo prodotto a una consociata, che a sua volta lo cede in leasing al cliente […]. General Electric Capital ha aiutato i clienti dell’impresa ad acquistare i suoi motori aeronautici e altri apparecchi utilizzando accordi di leaseback [accordi in base ai quali il bene acquistato viene ceduto a un’impresa finanziaria, ricevendolo contestualmente in leasing] convenienti sotto il profilo fiscale. Ben presto ha diversificato la sua presenza nel settore del credito al consumo in vista degli attraenti profitti che esso permette. Nel 2003, il 42 per cento dei profitti di gruppo sono stati generati da General Electric Capital. Nello stesso anno GM e Ford hanno registrato quasi tutti i loro profitti da contratti di leasing, mentre le vendite raggiungevano a malapena il pareggio.
La shareholder value maximization Una terza modalità di slittamento verso l’accumulazione finanziaria è la focalizzazione dell’impresa verso l’obiettivo della già citata massimizzazione del valore per gli azionisti. In realtà, il concetto di shareholder value maximization designa qualcosa di più di un semplice canale di accesso alla valorizzazione finanziaria del capitale. È piuttosto – per usare un termine coniato da Neil Fligstein (1990) – una peculiare concezione del controllo d’impresa, ovvero un modo di intendere gli obiettivi dell’impresa: quali interessi debba perseguire, attraverso quali strategie, con che tipo di strumenti. Secondo questa concezione, lo scopo preminente dell’impresa – ovvero l’obiettivo verso il quale le attività dell’impresa devono essere complessivamente rivolte – è quello di realizzare l’interesse degli azionisti a veder crescere, il più rapidamente possibile, il valore del capitale investito, attraverso un aumento del valore dei titoli azionari nel mercato finanziario. Come ha scritto Luciano Gallino, in quest’ottica «il profitto sistematicamente cercato non è più soltanto l’eccedenza dei ricavi sui costi, bensì, di preferenza, l’eccedenza del valore in borsa al tempo t2 rispetto al tempo t1 – dove lo scarto tra t1 e t2 può essere anche soltanto di pochi giorni» (Gallino 2009, p. 100). Posto il principio per cui l’impresa dev’essere indirizzata a perseguire l’interesse degli azionisti, non stupisce che le retribuzioni dei top manager delle grandi aziende siano in larga misura commisurate al raggiungimento di questo risultato. Tali retribuzioni sono costituite, in buona parte, da equity, ossia da titoli azionari, o da bonus commisurati a indicatori di breve periodo. Con questo espediente, i manager – in
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quanto beneficiano essi stessi dell’incremento del valore delle azioni – sono incentivati a operare nell’interesse degli azionisti. Nel complesso, la gratificazione economica che questi dirigenti ricevono è smisurata. Negli Stati Uniti, la retribuzione dei vertici manageriali delle grandi imprese può superare di centinaia di volte quella degli operai: in media è 262 volte più alta, secondo i dati riportati da Bivens e Mishel (2013), riferiti al 2005. In Italia, secondo un recente rapporto di Assonime (2015), la retribuzione totale media annua degli amministratori delegati delle società dell’indice FTSE-MIB è pari a circa due milioni di euro, ovvero circa 90 volte più alta del salario medio degli operai. Retribuzioni così alte sono quindi, per così dire, il «prezzo» della fedeltà dei manager agli investitori. È comprensibile perciò che i top manager siano sempre più spesso figure di formazione finanziaria, con una tendenza a dirigere le imprese – spesso esigendo l’accentramento di ampi poteri nelle loro mani – in maniera tale da accondiscendere alle aspettative dei mercati finanziari. Come ha schiettamente ammesso l’amministratore delegato di FCA, l’assunto basilare per chi dirige una grande impresa è che il mercato finanziario debba essere considerato «l’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende. Il resto sono cavolate» (Marchionne 2008, pp. 107 ss.). Questa grande trasformazione della concezione del controllo delle imprese, nel suo complesso, può essere efficacemente descritta – come proponeva Luciano Gallino (2005) – come il passaggio da un capitalismo manageriale produttivo, cioè una configurazione nella quale i manager perseguono l’utile attraverso l’aumento della produttività e l’incremento dell’innovazione, a un capitalismo manageriale azionario (o capitalismo degli investitori), una configurazione nella quale i manager sono incaricati di perseguire gli obiettivi di chi detiene le quote azionarie di controllo (si veda una sintesi nella 2 Tab. 27.D1). Vedremo in seguito quali sono le implicazioni di questa trasformazione delle imprese sul piano delle scelte organizzative e della gestione del lavoro.
27.2 Come si spiega la finanziarizzazione delle imprese? I processi di finanziarizzazione pongono alla sociologia economica interrogativi estremamente impegnativi. Come spiegare la pervasiva presenza dell’accumulazione finanziaria nella vita economica, e financo nella gestione economica delle famiglie? Come mai le attività speculative hanno acquistato una piena legittimazione sociale? E, in particolare, perché le imprese non finanziarie utilizzano in via del tutto ordinaria strumenti ed espedienti finanziari per generare profitti? Prima di tutto, va ricordato che già i classici delle scienze sociali si erano posti interrogativi di questo tenore. Come abbiamo detto, il processo di finanziarizzazione delle imprese che abbiamo oggi sotto gli occhi non è privo di precedenti. Pressoché tutti i padri della sociologia economica hanno testimoniato che l’intreccio fra attività produttive e attività finanziarie ha radici antiche, risalenti almeno al XIX secolo
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(2 Box 27.3): il capitale finanziario, da allora, si è andato trasfondendo nell’organizzazione industriale. Nonostante ciò, fino agli anni Sessanta del Novecento la gestione delle imprese non ha preso la forma di una corsa all’accumulazione finanziaria. Fino a quel momento, l’obiettivo perseguito dalle direzioni d’impresa era stato quello di accrescere la prosperità e la solidità della dimensione produttiva dell’impresa. L’impresa era percepita – come scriveva nel 1927 il caposcuola dell’economia aziendale italiana, Gino Zappa – alla stregua di «una coordinazione economica istituita e retta per il soddisfacimento dei bisogni umani» (Zappa 1927), ovvero come un’istituzione sociale che persegue obiettivi di produzione. Per molti decenni, l’accumulazione produttiva di capitale ha garantito ai proprietari-azionisti profitti di tutto rilievo, consentendo al tempo stesso alti livelli di occupazione (nonostante la progressiva sostituzione di forza lavoro con macchine), massicci investimenti tecnico-produttivi, innovazioni di grande portata (sia dei processi di produzione, sia dei prodotti). Dagli anni Settanta, come abbiamo detto, si è registrata la svolta verso l’accumulazione finanziaria: l’impresa è divenuta – nella prospettiva di chi la governa – un «portafoglio di attività» chiamate a produrre i massimi rendimenti possibili per gli investitori. Questo fenomeno, però, è stato pressoché trascurato dalle scienze sociali, con rare eccezioni, almeno fino all’inizio degli anni Novanta. Innumerevoli sono stati gli studi e le ricerche sulle trasformazioni delle imprese, di ogni genere e dimensione, ma quasi mai queste ricerche hanno preso in considerazione quella che oggi appare a molti come la radice fondamentale delle trasformazioni, ovvero il mutamento delle modalità di accumulazione, il passaggio da un capitalismo produttivo a un capitalismo azionario. Negli anni Duemila, infine, gli studi sulla finanziarizzazione si sono moltiplicati (anche perché si sono via via moltiplicati gli «scandali» finanziari, fino al collasso del sistema finanziario internazionale del 2008), fino a diventare uno dei filoni più robusti dell’analisi socio-economica. Una rassegna degli studi principali permette di individuare diversi approcci che spiegano il fenomeno della finanziarizzazione dell’economia (e delle imprese) in maniera parzialmente diversa. Ogni approccio parte da presupposti teorici e metodologici diversi; e tutti esplorano piani analitici differenti, mettendo in luce elementi diversi (e concomitanti) del processo di finanziarizzazione dell’economia. Per questo motivo, i diversi approcci non si escludono a vicenda; si può dire, piuttosto, che ciascuno di essi aggiunga un «tassello» a un quadro analitico molto complesso, nel quale non è possibile individuare una sola «causa» della finanziarizzazione. Sintetizzando al massimo, gli approcci che si individuano sono almeno quattro. 1) La ricostruzione più diffusa è quella che spiega la finanziarizzazione come esito di una spirale di crescita degli investimenti finanziari negli ultimi trent’anni: una massa crescente di investimenti nella quale sono state coinvolte sia le imprese, sia le famiglie (per esempio, Shiller 2000). Alla base di questa modalità di comprendere la finanziarizzazione dell’economia c’è dunque l’idea di una corsa alla speculazione, e di una conseguente bolla finanziaria, alimentata da mercati finanziari sostanzialmente irrazionali (Beunza e Stark 2010). Quest’approccio met-
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te in luce un aspetto importante del fenomeno, ovvero la crescita smisurata delle transazioni finanziarie (cui partecipano, come abbiamo detto, anche le imprese non finanziarie); ma ha anche il merito di smentire il dogma della razionalità e del tendenziale equilibrio dei mercati finanziari. I mercati finanziari danno prova di non essere affatto giudici affidabili dei comportamenti economici: sono invece arene altamente instabili e imprevedibili. Le bolle speculative sono forme di euforia collettiva che nascono da occasioni contingenti (per esempio, l’introduzione di una nuova tecnologia) e producono un volume degli scambi avulso dal valore intrinseco delle attività finanziate. Altrettanto contingenti sono le vicende che generano le cosiddette ondate di panico, ossia le repentine inversioni di tendenza che seguono a una certa distanza di tempo. 2) Su un piano analitico diverso si pongono le prospettive che interpretano i processi di finanziarizzazione come «risposte» dei grandi attori economici (e delle forze politiche che li sostengono) alle fasi di declino dei tassi di profitto. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazione cui stiamo assistendo nascerebbe dalla reazione delle istituzioni politiche e degli attori economici (statunitensi in primo luogo) al declino dei profitti manifestatosi alla fine degli anni Sessanta. Sono quelle le circostanze in cui maturano tre «mosse» del governo statunitense: la rottura della parità aurea del dollaro (1971) con l’ingresso in un regime di cambi flessibili; il rialzo dei tassi d’interesse, alla fine degli anni Settanta, con il conseguente orientamento dei capitali verso gli Stati Uniti; e infine la liberalizzazione del movimento dei capitali, condizione fondamentale per lo sviluppo del capitalismo finanziario internazionale. Oggi ampiamente diffusa, questa lettura è stata proposta soprattutto – anche molto tempo prima della crisi del 2008 – dai teorici del sistema economico mondiale (per esempio, Arrighi 1994), negli studi marxisti (per esempio, Magdoff e Sweezy 1987) e in quelli post-keynesiani (per esempio, Palley 2007). Tutti comunque concordano nel ritenere che – sebbene uno slittamento verso la produzione puramente finanziaria di ricchezza si generi ogni volta che declinano i profitti1 – il processo di finanziarizzazione tuttora in corso appare privo di precedenti paragonabili, per intensità e durata. 3) Una terza spiegazione, anch’essa di derivazione marxista, concepisce la finanziarizzazione come la conseguenza del dominio di una classe capitalista transnazionale. In questa prospettiva, l’espansione della finanza è dovuta all’uso dei mercati finanziari per scopi di arricchimento di gruppi che occupano una collocazione di rilievo nella distribuzione del potere politico-economico. Si tratta di una nuova 1
Bisogna precisare che, secondo i teorici dell’economia-mondo, il declino dei profitti si produce quando inizia a tramontare una fase di egemonia economica ben definita, poiché ciò comporta un aumento dei livelli della concorrenza. Secondo i teorici marxisti, invece, il declino dei profitti da attività produttive non consegue da una più intensa competizione, ma da un processo di monopolizzazione. Secondo i post-keynesiani, infine, il declino dei profitti deriva da una contrazione della domanda aggregata di merci innescata dalle politiche liberiste dei mercati del lavoro, che riducono la capacità di acquisto dei lavoratori: da qui scaturiscono sia la propensione delle imprese a intraprendere investimenti di ordine finanziario, sia quella delle famiglie a indebitarsi, con il conseguente aumento di prodotti finanziari connessi ai contratti di mutuo.
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borghesia mondiale a cui afferiscono i top manager delle grandi società transnazionali, i professionisti, i politici e le élite del consumo di lusso, che perseguono obiettivi di accumulazione non legati alla dimensione nazionale (per esempio, Epstein e Jayadev 2005). In Italia, questa tesi è stata sostenuta da Luciano Gallino, secondo cui le vicende politiche ed economiche dell’ultimo trentennio sono leggibili come una «lotta di classe dall’alto», ovvero una restaurazione del dominio del grande capitale: La lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente (Gallino 2012, p. 12).
4) Particolarmente importante in una prospettiva sociologica, infine, è l’approccio che osserva nel processo di finanziarizzazione dell’economia il ruolo giocato dalla politica degli stati nazionali, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta. Uno dei lavori più rilevanti, da questo punto di vista, è quello di Greta Krippner (2011), che ha ricostruito le vicende politico-economiche che hanno accelerato la finanziarizzazione dell’economia statunitense (e poi di quella globale). Quando si è manifestata una tendenza al declino dei profitti, la politica americana ha scelto di non farsi carico di un programma di distribuzione sociale delle risorse; ha deciso invece di affidare al mercato il ruolo di arbitro, deregolamentando i mercati finanziari e quindi dando la stura all’espansione del credito. La liberalizzazione dell’accesso al credito ha (temporaneamente) alleviato il disagio delle famiglie e quindi il conflitto sociale, ma ha comportato l’aumento del costo del credito e, per conseguenza, la produzione di un ambiente economico nel quale le attività finanziarie sono più redditizie degli investimenti produttivi. Quest’approccio allo studio della finanziarizzazione ha il merito di portare l’attenzione sui processi politici, spesso sottovalutati nell’analisi dei processi economici. Inoltre, chiarisce che la tendenza alla deregolamentazione e la mancanza di politiche distributive possono ripercuotersi anche sulla stabilità del sistema economico. Come scrivono Ewald Engelen et al. (2011), «la finanza non è soltanto un settore economicamente rischioso e violentemente prociclico, ma è anche una parte di una democrazia che non funziona» (p. 11) e dunque «l’unica risposta credibile non è una lista di rimedi di ordine tecnico, ma […] un programma politico che metta il sistema bancario e finanziario sotto il controllo democratico» (p. 219).
27.3 Tre esempi di ricerche Per offrire un esempio della varietà degli approcci al tema della finanziarizzazione dell’economia, si possono considerare tre esempi di ricerche specificamente riferite alla finanziarizzazione delle imprese non finanziarie.
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27.3.1 Gli studi di Neil Fligstein La prima ricerca (già citata) è quella di Neil Fligstein (1990), sociologo economico dell’Università di Berkeley: uno studio pionieristico che ha tracciato il solco per molte ricerche successive. Fligstein adotta uno schema esplicativo di carattere evolutivo, nel quale le trasformazioni dell’azione strategica e organizzativa delle grandi imprese statunitensi sono ricostruite come successioni di diverse concezioni del controllo, ossia modalità di interpretare la funzione stessa dell’impresa. Il sociologo statunitense individua, a partire dalla fine dell’Ottocento, la successione di quattro diverse concezioni del controllo d’impresa. La prima è la logica della concorrenza predatoria, dominante alla fine del XIX secolo. La seconda, prevalente nella prima metà del Novecento, è quella che Fligstein definisce del controllo produttivo, fondata sulla ricerca di un’egemonia su segmenti di mercato attraverso processi di integrazione orizzontale e verticale. Nel secondo dopoguerra la concezione egemone è quella dell’orientamento al marketing e alle vendite, che focalizza le imprese alla scoperta, alla creazione e al mantenimento di mercati. Dagli anni Settanta, si va infine imponendo una concezione finanziaria del controllo: essa sottolinea l’importanza del controllo ottenuto mediante l’uso degli strumenti finanziari che misurano la performance in conformità ai tassi di profitto. Le linee di prodotto vengono valutate sulla scorta della loro redditività a breve termine e le decisioni fondamentali si basano sulla potenziale redditività di ogni linea. Le imprese sono considerate beni che garantiscono differenti tassi di ritorno e non produttori di date categorie merceologiche (Fligstein 1990; trad. it. 2001, p. 19).
L’aspetto più interessante della ricerca di Fligstein è proprio la capacità di collocare il processo di finanziarizzazione delle imprese in un quadro storico di lungo corso (seguendo l’esempio di Alfred Chandler, celebre storiografo dell’economia statunitense). Su quest’approccio il sociologo californiano ha innestato una vasta ricerca empirica, analizzando una serie di indicatori dell’orientamento finanziario delle imprese, come il numero di fusioni e acquisizioni, la diversificazione di prodotto, il background culturale dei dirigenti. Un altro punto di forza della ricerca di Fligstein è quello di considerare non le singole imprese, ma il «campo organizzativo» (su questo concetto si veda il Cap. 10 di questo volume), costrutto che include non soltanto tutte le imprese, ma anche il quadro delle norme che regolano comportamenti e relazioni economiche. Ciò gli permette di argomentare che, benché la concezione finanziaria del controllo porti talune imprese a risultati economici di successo, nel complesso – sulla scala del campo organizzativo, appunto – essa sia fallimentare, e metta l’economia statunitense sulla via di un prolungato declino. Occorrerà prendere atto dell’insostenibilità della concezione finanziaria del controllo – conclude Fligstein – e sviluppare gradualmente una nuova concezione, con il sostegno di una politica economica che incentivi investimenti di lungo periodo.
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27.3.2 Le ricerche dell’Università di Manchester Un approccio diverso è quello seguito da un’équipe di ricercatori dell’Università di Manchester, fra i primi in Europa a studiare la finanziarizzazione delle imprese (Froud et al. 2006). Convinti che il tratto qualificante della finanziarizzazione contemporanea sia la crescita smisurata dell’ingegneria finanziaria, questi studiosi hanno mostrato come essa venga messa anche al centro delle strategie delle imprese non finanziarie. Sarebbe vano, perciò, provare a comprendere il comportamento delle grandi imprese contemporanee nell’ottica tradizionale degli studi di strategia, attenti alla dimensione prettamente produttiva delle imprese. Bisogna prendere atto che le grandi imprese, per mano dei loro manager, hanno cambiato le basi stesse della strategia: l’elemento centrale non è più la capacità di competere nel mercato dei beni e dei servizi, bensì quella di utilizzare resoconti e cifre (narrative and numbers) per incrementare il valore dei titoli azionari. Con una grande capacità di analisi dei documenti contabili, i ricercatori di Manchester hanno comprovato questa ipotesi attraverso tre studi di caso su altrettante grandi imprese statunitensi e britanniche (General Electric, Ford e GlaxoSmithKline): in ciascuno di questi casi, l’analisi di bilanci e resoconti ha permesso di constatare che il top management ha preferito costruire discorsi e rendicontazioni persuasive, piuttosto che fornire risultati positivi sul piano produttivo. La spinta verso la shareholder value maximization, dunque, non ha portato sostanziali miglioramenti nella performance delle grandi imprese. Chi ha beneficiato di quest’approccio sono stati soprattutto i manager, che sono riusciti a ottenere remunerazioni strepitose intestandosi il merito di incrementi di valore azionario dovuti in realtà, il più delle volte, ad andamenti dei mercati finanziari. 27.3.3 La finanziarizzazione in Italia Infine, si può fare cenno all’unica ricerca che ha esplorato il processo di finanziarizzazione delle imprese in Italia (Salento e Masino 2013). In questo caso, gli autori erano soprattutto interessati a comprendere i moventi di alcune trasformazioni organizzative osservate nelle imprese italiane negli ultimi trent’anni, partendo dall’ipotesi che queste trasformazioni fossero legate non tanto a spinte derivanti dai mercati di beni e servizi – come solitamente si ritiene – quanto a esigenze di accumulazione finanziaria e di shareholder value maximization. Sono state quindi seguite tre piste di ricerca: prima di tutto, l’analisi di dati di bilancio aggregati ha mostrato che anche le grandi imprese non finanziarie che operano in Italia sono coinvolte nel processo di finanziarizzazione. In secondo luogo, una ricostruzione della normativa pertinente (e dei processi politici da cui è emersa) ha mostrato che la finanziarizzazione delle imprese italiane è stata permessa e agevolata da una serie di «riforme» che hanno introdotto l’Italia nei mercati finanziari internazionali e hanno deregolamentato il mercato del lavoro. Infine, l’analisi di oltre 50 casi di studio relativi a grandi imprese operanti in Italia fra il 1995 e il 2008, insieme a un ciclo di interviste in profondità
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a top manager, ha dato riscontro all’ipotesi che alcune essenziali scelte organizzative sono state adottate, nelle grandi imprese, proprio in ragione di una vocazione all’accumulazione finanziaria. Via via che adottano strategie di accumulazione finanziaria, le imprese tendono a operare profonde ristrutturazioni, a darsi un’organizzazione accentrata in capo a un top management molto forte, a cercare la massima riduzione possibile della forza lavoro e la massima flessibilità dei ruoli esecutivi, a esternalizzare e a delocalizzare ampie porzioni dei processi produttivi (su quest’aspetto, si veda in questo manuale il Cap. 28). La conclusione che emerge dalla ricerca è che non è possibile comprendere le trasformazioni organizzative delle grandi imprese se non si considera la trasformazione delle modalità di accumulazione, ovvero il passaggio da una strategia fondata sulla produzione e vendita di beni e servizi, a una strategia fondata sulla massimizzazione del rendimento del capitale investito.
27.4 Accumulazione finanziaria, declino, disuguaglianze, opacità dell’azione economica Il processo di finanziarizzazione delle imprese solleva una serie di problematiche di ordine economico-sociale, che sono anche altrettante questioni rilevanti per la sociologia economica. Innanzitutto, in termini generali, la crescente dedizione delle imprese ad attività di natura strettamente finanziaria mette a rischio le basi stesse del sistema produttivo. Se le imprese privilegiano strumenti di accumulazione finanziaria, mirando a un’alta profittabilità nel breve periodo, tendono correlativamente a ridurre gli investimenti tecnico-produttivi e le strategie di lungo periodo: dedicano grande attenzione all’innovazione finanziaria e contabile, ma a detrimento dell’innovazione produttiva, che costituisce la base della solidità economica più duratura. Si innesca così un circolo vizioso: la riduzione degli investimenti produce un declino della crescita, e questo a sua volta – insieme alla diminuzione della domanda aggregata indotta dal calo dell’occupazione e delle retribuzioni – induce le imprese a preferire l’accumulazione finanziaria rispetto agli investimenti produttivi. Una seconda problematica, connessa alla precedente, riguarda gli effetti della finanziarizzazione sulle disuguaglianze sociali. La questione è estremamente complessa, e sociologi ed economisti vi stanno dedicando un’attenzione crescente. Qui si può accennare a due aspetti essenziali. In primo luogo, come si è visto, la tendenza all’accumulazione finanziaria induce una riduzione dei costi del lavoro (anche attraverso esternalizzazioni e delocalizzazioni), e dunque un decremento dell’occupazione e una riduzione delle retribuzioni. Si consideri a questo proposito che, dalla metà degli anni Settanta a oggi, in tutti i paesi OCSE le retribuzioni del lavoro si sono venute riducendo di un importo pari mediamente al 15 per cento del prodotto interno lordo di ciascun paese (Fig. 27.3). In secondo luogo, le esigenze di accumulazione finanziaria e di shareholder value maximization delle imprese hanno portato a un aumento vertiginoso delle retribuzioni del top management e di tutte le professionalità coinvolte nel business finanziario
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Figura 27.3 Quota (%) dei salari su PIL in alcuni paesi OCSE (1970-2012)
Fonte: Ameco.
delle imprese (come gli studi legali d’affari). Peraltro, secondo alcune ricostruzioni (Bivens e Mishel 2013) le retribuzioni dei top manager hanno fatto da «apripista» per l’aumento della compensation di un’élite di lavoratori ricchi anche in altri settori, come nel caso delle star dello sport e dello spettacolo. In generale, l’affermarsi di un’élite remunerata in misura incommensurabilmente maggiore rispetto alla generalità dei lavoratori contribuisce alla formazione di quella che è stata definita la winner-take-all society (Frank e Cook 1995), ovvero una società fortemente squilibrata, nella quale viene accettato che si debba competere (a partire da condizioni di partenza molto differenti) per accaparrarsi poche posizioni di grande privilegio. È un’idea di società non soltanto inaccettabile sotto il profilo etico, ma anche corrosiva per il legame sociale e per il benessere dei cittadini (Wilkinson e Pickett 2009); senza dire del fatto che una società nella quale una larga parte delle persone non ha la possibilità di superare i livelli di sussistenza è anche una società facilmente preda di instabilità sociale ed economica. La profonda divaricazione dei redditi fra un’élite sempre più ricca (anche perché attivamente coinvolta nei processi di accumulazione finanziaria) e la generalità della popolazione lavoratrice o disoccupata viene registrata anche dall’andamento dell’indice di Gini (2 Box 27.4). Infine, la propensione all’accumulazione finanziaria induce spesso a una gestione contabile «disinvolta». Lo hanno dimostrato chiaramente i numerosi «scandali» legati proprio all’uso di escamotage contabili con cui – anche grazie alla copertura di reti collusive – i manager di grandi imprese hanno dissimulato mediocri performance
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produttive. Il caso più noto su scala internazionale è stato quello della multinazionale statunitense Enron (ottobre 2001) (2 Box 27.5). Altri casi eclatanti, negli Stati Uniti, sono stati quelli di Worldcom e Tyco; in Italia quelli di Cirio e Parmalat; quello di Vivendi in Francia, quello di Lernout&Hauspie in Belgio, di Ahold in Olanda, di Kirk in Germania, di Skandia in Svezia. Di volta in volta, il copione si è ripetuto: pochi manager si arricchiscono attraverso manovre contabili fraudolente che coinvolgono banche e società di consulenza, generando il fallimento dell’impresa e la perdita dei posti di lavoro dei dipendenti, oltre che il gonfiarsi di bolle speculative costruite sulle rendicontazioni fraudolente, con il conseguente collasso dell’impresa (che spesso coinvolge l’intero mercato azionario) e l’azzeramento del patrimonio azionario dei piccoli azionisti.
Letture di approfondimento Fligstein N. (1990). The Transformation of Corporate Control, Cambridge (MA), Harvard University Press (trad. it. La trasformazione del controllo d’impresa, trad. di M. Minna, Torino, Edizioni di Comunità, 2001). Gallino L. (2005). L’impresa irresponsabile, Torino, Einaudi. Salento A., Masino G. (2013). La fabbrica della crisi. Finanziarizzazione delle imprese e declino del lavoro, Roma, Carocci.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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28 L’impresa nel mercato mondiale. Le catene globali del valore di Lidia Greco
28.1 Le catene globali del valore Un tratto distintivo del capitalismo contemporaneo è senza dubbio la globalizzazione delle relazioni economiche. Lo studio del mercato globale diventa perciò essenziale per comprendere i meccanismi sociali e istituzionali che lo contraddistinguono storicamente e per esplorare l’agire strategico di una varietà di attori. Se gli scambi commerciali e i movimenti di capitale finanziario sono diventati gli aspetti più noti del mercato mondiale, in realtà non ne rappresentano che una dimensione. Mutamenti significativi hanno coinvolto anche l’organizzazione dei processi produttivi: la produzione è sempre più spesso infatti il risultato dell’attività di reti di imprese che, autonome sotto il profilo legale e diversamente dislocate sotto quello territoriale, cooperano funzionalmente per la sua realizzazione. Ciò riguarda sia prodotti finiti sia prodotti intermedi (per esempio, i componenti) e settori come i servizi (si pensi ai call center) e l’agroindustria, accanto a quelli più propriamente manifatturieri. È stato stimato che circa l’80 per cento dei flussi commerciali globali avviene attraverso reti di produzione e che un lavoro su cinque è connesso a esse. Le imprese organizzate in catene di valore sono diventate le protagoniste del mercato mondiale, imbastendo le trame di una nuova e complessa divisione internazionale del lavoro. La teoria delle catene globali del valore (cgv), presentata in questo capitolo, fornisce una lettura del mercato mondiale centrata sulle imprese e sulle strutture che ne sottendono il funzionamento, cioè le reti produttive (2 Box 28.1). La sua rapida espansione nei primi anni del nuovo secolo è da legare alla capacità di interpretare alcune dinamiche dell’economia mondiale, dando conto in primo luogo della scelta sempre più frequente da parte delle imprese di frammentare il processo produttivo e di riorganizzarlo su scala globale e, in secondo luogo, della tendenza di diversi paesi/ regioni a specializzarsi in compiti e funzioni della produzione, oltre che nella produzione di beni/servizi finiti (per esempio, l’India è nota per la sua specializzazione nei servizi informatici: dallo sviluppo e manutenzione di software alla gestione delle risorse delle imprese, quali buste paga, rendicontazione e logistica, fino ai call center). Nel mercato globale, quindi, la maggior parte delle merci e un numero crescente di servizi sono il risultato di interdipendenze produttive; i paesi non competono solo sulla base di prodotti finiti, ma anche per ruoli economici all’interno di reti di produzione che si estendono su scala transnazionale. La metafora della rete suggerisce, dal punto di vista organizzativo, la ricchezza delle modalità con cui tali network possono articolarsi. Tuttavia questi sono strutturati intorno a significativi squilibri di potere: le
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imprese della rete e i territori che le ospitano hanno cioè una diversa capacità di appropriazione del valore della produzione. Ciò dipende dal potere di alcune organizzazioni (le lead firms o imprese principali) che riescono a imporre alle altre, de facto se non de jure, l’architettura della catena, nonché le relazioni che la contraddistinguono, in modo da massimizzare il proprio profitto. Inoltre, le relazioni di potere risultano cruciali in quanto influiscono sia su un eventuale percorso di riposizionamento delle imprese all’interno della catena alla ricerca di maggiori quote di valore aggiunto – il cosiddetto upgrading industriale – sia sulla distribuzione spaziale delle attività produttive e quindi, complessivamente, sui processi di sviluppo di singoli territori – noto come upgrading economico –, i quali saranno tutt’altro che generalizzati e uniformi. Con la crisi cominciata nel 2008-09, l’economia globale sembra essere entrata in una nuova fase. Per effetto della stagnazione dei mercati più maturi, si registra l’ampliamento del ruolo dei produttori e dei fornitori delle economie emergenti e una tendenza alla concentrazione geografica delle catene produttive in paesi che, nonostante le difficoltà, continuano ad avere ampi mercati e regimi regolatori a sostegno dell’attività economica, sono in grado di offrire materie prime abbondanti e solide competenze industriali e che possono contare su adeguate riserve di forza lavoro e capitale umano. In questo quadro, infine, le istanze protezionistiche potrebbero generare conseguenze sulla configurazione e sulle tendenze del mercato mondiale.
28.2 Inquadramento empirico Chi non ha un telefono portatile o un computer? Si tratta senza dubbio di prodotti di largo consumo diventati indispensabili tra i consumatori di diverse età, per ragioni sia di lavoro sia di svago. Probabilmente però molti ignorano che tali prodotti sono un ottimo esempio di catena globale del valore nel settore elettronico. Si prenda il caso della Apple. La multinazionale americana, con quartier generale in California, definisce il design e il marketing dei suoi prodotti, ma delocalizza il processo di produzione, per ciascuno dei circa 450 componenti, tra il Nord America, l’Europa e l’Asia. Nel 2015, iPad, iPhone, iPod, Mac e altri accessori sono stati realizzati avvalendosi di 198 fornitori (tra questi vi sono multinazionali della tecnologia, come Toshiba, Intel, Texas Instrument, Samsung, LG, Quanta), 759 controllate e altre piccole imprese coinvolte nella fornitura di specifici componenti o, come nel caso della Foxconn, impegnate nell’assemblaggio dei prodotti. Come anticipato, geograficamente queste imprese sono localizzate tra Stati Uniti (circa 300 aziende), Giappone (poco meno di 350 aziende), Taiwan (circa 200), Corea del Sud e Cina, più limitatamente in Europa. In particolare, in Cina si concentrano più del 44 per cento di tali imprese, dato che sale a più del 50 per cento per i fornitori diretti e a quasi l’80 per cento per le piccole imprese che si occupano della fabbricazione dei microchip (Fig. 28.1). L’esempio di Apple porta a concettualizzare la catena del valore come la descrizione dell’intera gamma di attività che le imprese e i lavoratori svolgono per realizzare un prodotto o un servizio, dal suo concepimento all’uso finale. In generale, vi si includono attività come ricerca e sviluppo (R&S), progettazione, produzione,
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28 L’impresa nel mercato mondiale. Le catene globali del valore
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Figura 28.1 La catena globale del valore della Apple
Figura 28.2 La catena globale del valore dell’abbigliamento Pianificazione e sviluppo della collezione
Design e prototipazione dei modelli
Acquisto dei materiali
Manifattura e assemblaggio dei capi
Marketing
Distribuzione
Vendita
marketing, distribuzione e l’eventuale fornitura di servizi di supporto al consumatore finale (Fig. 28.2). Le catene produttive sono dunque un insieme di reti di organizzazioni che contribuiscono a uno specifico bene/servizio. I relativi processi di produzione e di lavoro sono rappresentati come nodi del network: ogni successivo nodo implica l’acquisizione e/o l’organizzazione di materie prime, forza lavoro, tecnologie e dunque l’aggiunta di valore al bene/servizio1. Nel mercato mondiale, tali processi, invece di essere ricompresi all’interno di una singola azienda, sono generalmente in capo a reti produttive che connettono imprese, lavoratori, ma anche regioni ed economie di diverse parti del mondo. Secondo Gary Gereffi, le cgv sono contraddistinte da quattro dimensioni principali (Fig. 28.3). 1) La struttura di input-output indica i principali segmenti presenti in una catena globale del valore, che possono variare da settore a settore, e le caratteristiche e le dinamiche delle attività svolte in ciascuno di essi (per esempio, il tipo di imprese coinvolte e le loro caratteristiche: PMI o grandi imprese, globali o locali, private o pubbliche). La struttura di input-output è tradizionalmente rappresentata come un 1
Più che un flusso di beni, che implicitamente racchiudono valore già prodotto, nelle catene si produce e trasferisce valore in relazione alle diverse attività economiche.
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Figura 28.3 Le principali dimensioni delle catene globali del valore Struttura di input-output
Contesto istituzionale
Catene globali del valore
Estensione geografica
Governance
insieme di scatole che mostrano i flussi di beni e servizi materiali e immateriali che sono fondamentali per la mappatura del valore aggiunto nelle diverse fasi della catena (2 Fig. 28.D1). 2) L’analisi della dimensione della governance permette di comprendere il funzionamento dell’intera catena e, in particolare, di individuare l’impresa principale e le modalità attraverso le quali questa organizza e controlla i legami con le altre imprese, distribuendo i diversi tipi di risorse (per esempio, umane, materiali e finanziarie) e definendo le modalità di appropriazione del surplus lungo la catena. A partire dalle strutture di governance, Gereffi ha distinto le catene guidate dal produttore – che tendono a emergere nei settori a maggiore intensità di capitale, come per esempio in quello automobilistico, metalmeccanico, dei semiconduttori –, e le catene guidate dal compratore – con il ruolo forte esercitato dalla grande distribuzione o dai grossisti sui fornitori (2 Box 28.2). In seguito, la letteratura sulle cgv ha elaborato una tipologia più sofisticata di cinque strutture di governance (mercato, modulare, relazionale, captive, gerarchia) a partire dalla combinazione di tre variabili indipendenti: la complessità delle transazioni tra le imprese, la loro codificabilità e la capacità dei fornitori (2 Box 28.3). La dimensione della governance rimanda essenzialmente a quelle del potere e del valore, in quanto temi strettamente connessi. All’interno di ciascuna catena, il valore viene creato, accresciuto, ma anche appropriato secondo modalità che riflettono l’organizzazione e il controllo dei vari nodi. È proprio questo circuito a influenzare la distribuzione di ricchezza tra le imprese e, attraverso la divisione territoriale del lavoro, le opportunità di sviluppo dei territori2. Le imprese che hanno maggiore capacità produt-
2 Come indicato nei precedenti capitoli, l’enfasi sul valore è fondamentale per comprendere anche il processo di finanziarizzazione dei processi economici.
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tiva, derivante per esempio dalla tecnologia o dai volumi produttivi, si pongono al riparo da eccessive pressioni competitive e finiscono per controllare direttamente o indirettamente l’intero sistema; al contrario, le attività economiche sottoposte a una maggiore concorrenza saranno più instabili, sostituibili e vulnerabili. L’idea di fondo è che nelle reti di produzione non vi siano processi win-win: lo sforzo collettivo, in altri termini, non beneficia tutti alla stessa maniera. 3) L’estensione geografica. Reti produttive più estese dal punto di vista geografico tendono a contraddistinguere quei settori, come per esempio l’abbigliamento, nei quali la competizione tra le imprese risulta elevata, le capacità produttive richieste sono basse, le competenze della forza lavoro sono circoscritte e il capitale gode di estrema mobilità; in questi settori le imprese lead perseguono un ampio decentramento produttivo e hanno relazioni di lunga distanza con una vasta gamma di subfornitori. Viceversa, le catene meno globalizzate, quindi più corte, sono quelle in cui la capacità produttiva richiesta è maggiormente elevata. I settori a maggiore intensità di capitale tendono a rimanere concentrati nelle economie più sviluppate o emergenti, dove sono presenti anche le attività di design, sebbene non si disdegni l’esternalizzazione della produzione e di altre attività a basso contenuto di valore aggiunto in località più competitive dal punto di vista dei costi del lavoro. 4) Il contesto istituzionale si riferisce alle condizioni socio-istituzionali e alle politiche che, a diversi livelli (per esempio, locale, nazionale, internazionale), influenzano la possibilità di un paese/regione di partecipare alle reti di produzione globali. Le catene sono infatti estremamente sensibili a dinamiche, di natura economica, sociale e istituzionale. Le condizioni economiche includono l’adeguata disponibilità di input quali il lavoro, le infrastrutture, il sistema creditizio; le condizioni sociali attengono per esempio alla disponibilità di manodopera e al suo livello di competenze, alla partecipazione femminile al lavoro, al lavoro informale; le condizioni istituzionali infine includono tra le altre cose la regolazione del lavoro e quella fiscale, eventuali incentivazioni, le politiche per l’innovazione e, più in generale, tutte quelle politiche che possono promuovere o ostacolare lo sviluppo di un settore. È importante sottolineare che le istituzioni non sono semplici elementi di contesto, ma aspetti cruciali di condizionamento delle motivazioni e dei comportamenti degli attori. Il contesto regolatorio e socio-istituzionale contribuisce a spiegare, tra gli altri, il profilo delle imprese, la loro capacità produttiva, le relazioni che riescono a intrattenere con l’esterno, con implicazioni rilevanti a livello sia di reti produttive sia di performance economica complessiva. Per concludere, ogni settore è caratterizzato da specifiche condizioni di lavoro, di mercato e tecnologiche, e ciò darà luogo a diverse configurazioni della catena produttiva in termini di governance, complessità organizzativa e dispersione geografica. La centralità delle imprese e delle catene di produzione nei processi di globalizzazione economica si consolida per effetto di alcune tendenze di fondo. Innanzitutto, la possibilità di suddividere la progettazione e la produzione in blocchi separabili di compiti o moduli (modularità) contribuisce alla formazione di reti variamente organizzate, prima in situ e poi disperse geograficamente. Oltre alla modularità, alla ri-
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duzione dei costi e alla ricerca di innovazioni di varia natura, le imprese perseguono poi diverse fonti di vantaggio competitivo, tra le quali il cosiddetto time to market. Complessivamente, cambiamenti tecnologici e di mercato, con la rivoluzione dei consumi, ma anche uno scenario storico contraddistinto da minori regolamentazioni al commercio internazionale e maggiori disponibilità di mezzi di comunicazione e di trasporto, hanno indotto la trasformazione dell’assetto organizzativo delle grandi imprese verso modelli più flessibili e aperti all’esterno: un numero sempre più ampio di settori è stato conseguentemente interessato da processi di scomposizione del ciclo produttivo e di riorganizzazione a scala globale.
28.3 Le sfide interpretative La prospettiva delle cgv elaborata da Gereffi costituisce un importante schema teorico di natura organizzativa per interpretare dal punto di vista sociologico il mercato mondiale. La sua specifica ambizione è quella di analizzare l’economia globale a partire dalle reti produttive nelle loro dimensioni organizzative e di governance che, secondo Gereffi, sono alla base del funzionamento reticolare del capitalismo contemporaneo. Viceversa, gli approcci teorici di natura istituzionale hanno enfatizzato i modelli nazionali di capitalismo e la loro interazione con i processi globali (2 Box 28.4). L’evoluzione del processo di integrazione produttiva globale ha come protagoniste le imprese multinazionali già a partire dagli anni Sessanta. Successivamente, con l’industrializzazione di alcuni paesi meno sviluppati, tali imprese favoriscono una divisione internazionale del lavoro che però si articola secondo una rigida ripartizione dei ruoli: la produzione di beni e servizi specifici e più sofisticati si concentra nei paesi più industrializzati, mentre la produzione di merci standardizzate avviene nelle piattaforme produttive localizzate nei paesi a basso costo del lavoro (2 Box 28.5). Oggi la diffusione di competenze manifatturiere anche nei paesi meno sviluppati e i cambiamenti tecnologici e di comunicazione hanno ridotto le difficoltà di coordinamento della produzione a distanza. Le imprese multinazionali hanno gradualmente rinunciato al coinvolgimento diretto nella produzione e/o alla presenza in zone periferiche del mondo, privilegiando il controllo indiretto di una catena produttiva. Questa maggiore articolazione del mercato globale non implica tuttavia una maggiore dispersione del potere economico e neppure relazioni più equilibrate tra le imprese: viceversa i processi e le dinamiche di accumulazione del capitalismo contemporaneo sono fortemente squilibrati. Un secondo ambito di riflessione attiene al tema dello sviluppo. Nella prospettiva delle cgv, la partecipazione delle imprese al mercato globale può influenzare positivamente il percorso di sviluppo dei territori in cui sono localizzate. Si tratta, tuttavia, di una condizione necessaria ma non sufficiente. Innanzitutto, la letteratura ritiene cruciale la capacità dell’impresa di intraprendere un percorso di riposizionamento – upgrading industriale – all’interno di una catena del valore, svolgendo attività che le consentono di trattenere una maggior quota di surplus all’interno dei suoi confini organizzativi (per esempio, un coltivatore di frutta che entra nella trasformazione dei prodotti e produce marmellate) (2 Tab. 28.D1). Ciò dipende anche
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dalle più ampie dinamiche della rete produttiva di cui l’impresa fa parte: è possibile infatti che un’impresa aumenti il contenuto di valore nel proprio prodotto, senza però riuscire a trattenerlo per le condizioni contrattuali imposte dall’impresa principale (per esempio, un supermercato che impone i prezzi) o perché il riposizionamento si traduce esclusivamente in una maggiore assunzione di responsabilità. In secondo luogo, l’upgrading economico – o sviluppo – di una regione/paese si verifica essenzialmente nel momento in cui, attraverso il riposizionamento, le sue imprese riescono a giocare un ruolo qualificato nelle reti produttive, appropriandosi di quote di surplus e trattenendole nel territorio sotto forma di profitti, salari, tasse, ulteriore occupazione, e quando riescono a stimolare in situ lo sviluppo di altri settori, attraverso la domanda di prodotti e servizi intermedi e/o complementari. Per esempio, ciò si verifica quando imprese dell’abbigliamento stimolano la nascita di imprese nel settore tessile e/o di una serie di servizi complementari come, a monte del processo produttivo, attività professionali impegnate nel design dei capi e/o, a valle, attività di stiratura dei capi o di imballaggio (2 Box 28.6). Viceversa, la partecipazione alle dinamiche di una rete produttiva ha un impatto limitato sulle economie regionali nel momento in cui essa induce una specializzazione in attività di assemblaggio e a basso contenuto di valore; in questi casi l’integrazione nelle catene produttive può consentire ad alcune aree di accrescere la propria capacità di export, la produttività e la dotazione tecnologica, ma i benefici sono limitati dalla natura dipendente che il nodo ricopre nella rete produttiva. Nel mettere a tema la questione dello sviluppo, l’approccio delle cgv coglie quindi la natura profondamente diseguale delle relazioni che connotano l’economia mondiale. Nel quadro di una divisione internazionale del lavoro, la competizione per l’appropriazione di surplus produce il duplice effetto di creare relazioni asimmetriche tra le imprese e, allo stesso tempo, una gerarchia tra territori, con implicazioni differenti per le loro traiettorie di sviluppo. Questa visione si pone in netta contrapposizione con le prospettive economiche convenzionali per le quali la divisione internazionale del lavoro, valorizzando i vantaggi comparati, si traduce in benefici generalizzati. Infine, soffermandosi sulla dimensione relazionale delle catene del valore, dove imprese, lavoratori e consumatori interagiscono, e disvelando le relazioni sociali che le sottendono, alcuni studiosi sottolineano la possibilità che le cgv diventino strumenti di analisi critica e di esercizio dell’azione politica. Conoscere le circostanze in cui si realizza il processo di produzione – per esempio, se viene utilizzato lavoro minorile o se l’attività produttiva considera le sue conseguenze ambientali o ancora se vengono messi in pratica meccanismi redistributivi che permettono a ciascun attore economico di ricevere il giusto compenso per la propria attività – può agevolare la comprensione delle condizioni e delle implicazioni sociali e politiche della globalizzazione economica. Inoltre, se si concepisce la catena del valore come strumento di analisi critica, appare logico che essa possa essere vista anche come una modalità di esercizio dell’azione politica: da un lato, chiarisce le relazioni sociali di produzione e, dall’altro, diventa un mezzo per resistere allo sfruttamento dei lavoratori. Sempre più frequentemente le forme di resistenza assumono l’espressione di un riorientamento delle pratiche di consumo e di un’inedita alleanza tra consumatori del
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Nord del mondo e produttori del Sud. Per esempio, le campagne di boicottaggio a danno delle multinazionali dell’abbigliamento e, in generale, di tutte quelle imprese che devono proteggere la loro reputazione, possono costituire una fonte di potenziale riduzione del loro potere e di contrasto a logiche di mercato che negano radicalmente la dimensione di responsabilità sociale dell’attività economica. È in quest’ottica che si inserisce, con esiti discutibili, la diffusione di una serie di strumenti (per esempio, certificazioni di qualità, codici di condotta, codici etici e standard globali) che hanno lo scopo di tutelare nel mercato globale lavoratori e consumatori.
28.4 Esempi di ricerche In questo paragrafo saranno illustrate alcune ricerche realizzate utilizzando l’approccio delle cgv. In linea generale, la ricerca empirica in questo campo privilegia l’analisi settoriale o lo studio di singole imprese principali e si articola in due fasi: (1) la mappatura delle cgv; (2) la loro analisi. La mappatura identifica i soggetti coinvolti nella rete produttiva, l’insieme delle attività di produzione e la loro geografia (2 Box 28.7). L’analisi della catena del valore mira a individuare il ruolo svolto da alcuni fattori dinamici (governance, istituzioni e relazioni tra imprese) nell’influenzare lo sviluppo, la competitività e la geografia di un prodotto/servizio. L’obiettivo complessivo è esaminare l’organizzazione dei settori globali, prestando specifica attenzione alla dimensione spaziale, individuare l’impresa lead e il ruolo delle altre imprese, capire le dinamiche di creazione e appropriazione del valore e la loro evoluzione nel tempo. Non secondaria è l’analisi di tutti gli altri attori coinvolti nella rete (per esempio, consumatori, soggetti istituzionali – regioni, stati nazionali –, organizzazioni non governative) e dell’influenza derivante dal contesto socio-istituzionale. Detto in altri termini, si tratta di analizzare la struttura e la dinamica delle industrie globali per capire dove, come e da chi è stato creato e distribuito valore economico, sociale e ambientale. Di seguito sono presentati tre esempi di ricerca che, pur replicando complessivamente la metodologia appena indicata, saranno approfonditi enfatizzandone solo alcune dimensioni. Il caso dell’abbigliamento sarà utilizzato per mettere in evidenza il ruolo degli attori nelle reti; il caso del settore dell’elettronica servirà a mettere in luce i possibili percorsi di sviluppo territoriale; infine, il caso dell’agroindustria metterà in rilievo il processo di appropriazione del valore. L’industria dell’abbigliamento3 è stato uno dei primi settori industriali a globalizzarsi e a coinvolgere nelle sue dinamiche di espansione, sin dagli anni Settanta, regioni meno sviluppate come l’Estremo Oriente (India, Cina, Bangladesh, Vietnam, per esempio), ma anche alcune aree del Messico e della Turchia. Il settore rappresenta l’esempio paradigmatico di una catena del valore guidata dal compratore (si veda 2 Box 28.2). Le imprese lead sono cioè catene commerciali di massa, negozi
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Rispetto a questo settore, le ricerche internazionali sono innumerevoli. Si citano tra le altre Bair e Gereffi (2003), Gereffi (1999), Neidik e Gereffi (2006), Toktali (2013).
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di abbigliamento di marca, marchi o altri intermediari che controllano e coordinano un’estesa rete produttiva transnazionale che può coinvolgere centinaia di piccole aziende produttrici in diverse parti del mondo il cui vantaggio competitivo è il basso costo del lavoro. Per un’impresa di questo settore, la tipica traiettoria di riposizionamento in una catena produttiva implica intraprendere un upgrading funzionale che la porti a effettuare, oltre che tutte le attività di produzione, anche quelle di design, e ad abbandonare l’attività di mero assemblaggio delle parti che compongono un capo (2 Box 28.8). Come anticipato, ciò che qui interessa è mettere in rilievo il ruolo delle imprese, ma anche quello di altri attori socio-istituzionali e le condizioni regolatorie che influenzano le loro decisioni. Innanzitutto, emerge l’attivismo degli stati nazionali. La Turchia, terzo esportatore mondiale, per esempio ha stretto una serie di accordi commerciali privilegiati con l’Europa che l’hanno sottratta nel tempo al regime dei dazi doganali stabiliti dagli accordi internazionali sul settore. Già dagli anni Ottanta il Bangladesh, quarto paese esportatore, ha istituito un’autorità pubblica impegnata nell’attrazione di investimenti esteri nelle export processing zones (EPZ). Le dinamiche dell’industria sono inoltre influenzate da accordi settoriali (come il NAFTA) e da decisioni relative alla regolamentazione del commercio (per esempio, l’Organizzazione Mondiale del Commercio che elimina i dazi doganali). Altri attori importanti per le dinamiche di questo settore sono le associazioni dei produttori, ma ancor di più i gruppi di consumatori e le organizzazioni non governative (ong). Per esempio, a seguito del licenziamento di alcuni operai che protestavano contro le condizioni di lavoro e di igiene della mensa, la Kukdong Corporation, impresa sud-coreana fornitrice di Nike e Reebok, è stata oggetto di una campagna di mobilitazione internazionale guidata dalla United Students Against Sweatshops (USAS). Agendo direttamente sulle imprese occidentali coinvolte affinché facessero rispettare i loro codici di condotta e, indirettamente, sulle università americane che acquistavano prodotti da queste multinazionali, l’organizzazione studentesca è riuscita a ottenere il reintegro degli operai licenziati, la costituzione di un sindacato autonomo in azienda e la negoziazione di un contratto collettivo. Il secondo esempio attiene all’industria dell’elettronica4 e appare estremamente utile per esplorare i processi di sviluppo di alcune regioni – in questo caso, Taiwan, Corea del Sud e Singapore (le Tigri asiatiche) – legati proprio alla partecipazione alle cgv. Innanzitutto, l’industria comprende un ampio insieme di componenti, prodotti intermedi e finali che confluiscono in una varietà altrettanto ampia di mercati (per esempio, personal computer, elettronica di consumo, elettronica per l’industria automobilistica, medica e militare) e si caratterizza per rapidi cambiamenti tecnologici ed elevati investimenti in R&S (2 Tab. 28.D2). La combinazione tra standardizzazione e codificazione ha portato allo sviluppo della modularità e quindi alla netta divisione del lavoro tra design e manifattura. Fino agli anni Sessanta, l’industria dell’elettronica era concentrata in un numero limitato di paesi avanzati: Stati Uniti, Europa Occidentale, Giappone. Nel decennio successivo, la ricerca di vantaggi competitivi spinge alcune impre-
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Tra le molte ricerche si citano Massini e Miozzo (2012), Sturgeon e Kawakami (2011), Yeung (2007).
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se, come HP, Motorola, IBM, ad avviare stabilimenti di produzione nei paesi asiatici, confinando però le imprese locali nelle attività a basso contenuto di valore aggiunto, segnatamente componenti non cruciali del prodotto. Negli anni Ottanta la necessità di sviluppare nuovi prodotti a costi minori e di accorciare il ciclo degli stessi spinge le imprese occidentali a delocalizzare una parte significativa della produzione e della componentistica. L’Asia comincia a diventare un’area manifatturiera di rilievo e ciò traina la crescita dei singoli paesi. I produttori locali (per esempio, Acer, Samsung, LG) ampliano e consolidano le loro attività, diventando fornitori di componenti specializzati e di moduli integrati o accedendo direttamente nel mercato; tutto ciò stimola la nascita di ulteriori imprese nel settore. A questo processo contribuiscono, da un lato, l’accumulazione su scala locale di adeguate competenze e conoscenze, anche per effetto del ritorno in patria di ingegneri e manager che avevano studiato e/o avviato attività autonome soprattutto negli Stati Uniti; dall’altro, la profonda trasformazione delle condizioni di mercato. È noto inoltre il ruolo dello stato nei tre paesi che, tramite adeguate politiche industriali, ha considerevolmente indirizzato l’economia. Negli anni Novanta, l’attività industriale della regione si consolida per la diffusione del contract manufacturing, con il quale le imprese leader globali instaurano un contratto di fornitura con altre imprese che diventano loro partner strategici nella produzione, mentre le prime si specializzano nelle attività a maggiore valore aggiunto e nei mercati dei prodotti premium. Si presenta infine il caso di un prodotto tropicale – il caffè – per mettere in luce le asimmetrie nei processi di produzione e di appropriazione del valore5. Com’è noto, storicamente i maggiori produttori mondiali di caffè sono il Brasile e la Colombia, affiancati più recentemente dal Vietnam. La Fig. 28.4 descrive la catena globale del valore del settore. Fino alla fine degli anni Ottanta il commercio del caffè è stato soggetto a un sistema di quote, decise nell’ambito dell’Accordo internazionale sul caffè siglato nel 1962 dai maggiori paesi produttori e consumatori, per mantenere stabili i prezzi del prodotto; le quote di export per ciascun paese produttore venivano ampliate o ridotte a seconda della fluttuazione del prezzo della materia prima rispetto a quello prefissato. Con la fine degli accordi internazionali (1989) e la liberalizzazione del mercato, la situazione di equilibrio tra produttori e consumatori si è modificata sostanzialmente a vantaggio dei secondi e il mercato è andato incontro a un processo di concentrazione in favore dei grossisti (2 Fig. 28.D2). Neumann e Volcafe, i maggiori grossisti internazionali, controllano il 30 per cento del mercato totale mentre le maggiori aziende di trasformazione occidentali – per esempio, Nestlé, Kraft – quasi il 50 per cento del mercato del caffè tostato; allo stesso tempo è aumentata la volatilità dei prezzi. L’esempio proposto è rilevante in quanto consente di riflettere sul cambiamento della distribuzione del reddito totale generato lungo la catena del valore. Negli anni Settanta la proporzione di reddito per i produttori era circa il 20 per cento del totale; i paesi consumatori si appropriavano invece di circa il 50 per cento di quel reddito. Dopo il 1989,
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Tra le molte ricerche si citano Dolan e Humphrey (2000), Gibbon e Ponte (2005), Ponte (2002), Talbot (1997).
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Figura 28.4 La catena globale del valore del caffè Coltivazione Piccoli coltivatori
Produzione Aziende medio-grandi
Mediazione Grossisti internazionali
Trasformazione
Distribuzione e marketing
Marchi produttori di caffè tostato (es. Nestle, Illy)
Supermercati Negozi al dettaglio Ristoranti, Caffè
Cooperative
Marchi produttori di caffè solubile (es. Starbucks) Aziende esportatrici
Paesi produttori
Produttori indipendenti
Paesi consumatori
la proporzione di reddito dei produttori è scesa al 13 per cento, mentre la quota dei paesi consumatori è salita a quasi l’80 per cento. Si tratta di un immenso trasferimento di ricchezza a danno dei paesi produttori, tra l’altro indipendente dai livelli dei prezzi, e alla base del cosiddetto paradosso del caffè: l’espansione quantitativa e qualitativa del consumo si affianca alla crisi dei produttori e all’irrisorietà del valore aggiunto da essi appropriato. L’affermazione del caffè di specialità e/o di ambience, come Starbucks, sta indicando una possibile strada alternativa: uscire dal commercio generico ed entrare in quello di nicchia. Anche l’aumento del commercio equo e solidale può aiutare i paesi produttori a recuperare almeno in parte quote di valore aggiunto.
28.5 Interrogativi emergenti e percorsi di ricerca Nel dibattito sul mercato globale, il contributo della teoria delle cgv solleva interrogativi di rilievo. 28.5.1 Disuguaglianze/esclusioni Secondo i modelli economici classici, nella divisione internazionale del lavoro la differente dotazione di fattori tra imprese e territori tende a produrre convergenza. Con la globalizzazione la mobilità ascendente dei paesi nella gerarchia della ricchezza non è più vincolata dalla struttura dell’economia mondiale, cioè dalla persistente tendenza alla concentrazione di diversi tipi di attività in aree geografiche diverse (2 Box 28.1). Le relazioni economiche globali appiattiscono il mondo, portando un dinamismo diffuso anche nei paesi meno sviluppati che registrano la convergenza
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del prodotto pro-capite e del reddito. Utilizzando i dati sul commercio internazionale, alcuni autori mostrano invece che le maggiori opportunità di crescita rapida non si verificano né nei paesi più sviluppati dal punto di vista industriale né in quelli periferici, ma nei paesi cosiddetti intermedi. Si tratta di paesi con un’adeguata capacità tecnologica e, allo stesso tempo, con livelli salariali appetibili per imprese pronte a delocalizzare. Nell’analisi si sostiene quindi che, nonostante i possibili cambiamenti nel mix delle attività dei singoli paesi, la distribuzione di ricchezza nell’economia globale risulta sempre più disuguale; in sintesi, il mercato mondiale produce vincitori e perdenti in termini di crescita economica. Per esempio, tra il 1965 e il 1982 l’indice di Gini, che misura la disuguaglianza in una distribuzione, è rimasto praticamente inalterato (intorno a 0,47). Dopo quel periodo le disuguaglianze economiche tra paesi tendono a crescere, con quelli più poveri che in media fanno peggio dei paesi più ricchi; alla fine del millennio l’indice di Gini raggiunge il valore di 0,54. L’analisi dell’economia globale centrata sulle cgv mette in evidenza, d’altra parte, come la distribuzione delle attività ad alto e a basso contenuto di valore aggiunto non si ripartisce casualmente nello spazio, ma tende a concentrarsi in alcuni nodi/aree che presentano caratteristiche funzionali ai processi di accumulazione del capitale: le reti di produzione globali sono dunque dei meccanismi di stratificazione spaziale dell’attività economica. È opportuno sottolineare inoltre che i processi di inserimento e di partecipazione alle catene, sia delle imprese sia dei paesi – cioè i processi di incorporazione – si accompagnano costantemente a processi di dipendenza, esclusione e disconnessione (de-coupling): l’incessante ricerca di profitto attraverso migliori opportunità di investimento e migliori condizioni strutturali in nuove località spinge le imprese a svalorizzare le precedenti relazioni sociali. Tali processi dipendono quindi dalle dinamiche del capitalismo, anche se non possono essere ridotti interamente alla logica del capitale: non è il capitale in maniera esclusiva a determinare quale processo produttivo sarà esternalizzato, dove e a quali condizioni; ciò dipenderà anche da un insieme di condizioni sociali e istituzionali. È l’insieme di questi processi a determinare e perpetuare le disuguaglianze. 28.5.2 Il ruolo del lavoro e l’upgrading sociale Alcuni studi ispirati alla teoria delle cgv hanno enfatizzato l’importanza del lavoro e più in generale delle relazioni sociali nei processi di accumulazione capitalistica. Per esempio, le politiche sociali e del lavoro, ma anche le modalità di impiego e di controllo della forza lavoro attuate dalle imprese, le pratiche di inclusione e/o esclusione che articolano la forza lavoro sulla base di caratteristiche ascritte (per esempio, origine etnica, genere, età), le strutture e le relazioni familiari che decidono chi entra nel mercato del lavoro retribuito e a quali condizioni, sono tutti aspetti che influenzano prepotentemente la creazione di valore in ciascuno dei nodi, e complessivamente lungo la catena, e la geografia delle sue attività. Le dinamiche delle imprese nel mercato globale non sono quindi influenzate esclusivamente dalla ricerca del profitto ma anche dall’andamento delle relazioni di classe, dai conflitti con i lavora-
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tori o ancora da valutazioni attinenti all’inclusione di forza lavoro dotata di specifiche caratteristiche, per esempio di genere. Il lavoro subisce e allo stesso tempo è in grado di condizionare i processi di globalizzazione economica. Emerge inoltre lo stato e il suo ruolo nei processi di produzione e riproduzione del capitalismo: lo stato è un attore cruciale nel definire il quadro politico e legale entro cui i lavoratori e le loro organizzazioni si fanno portatori di interessi, così come nel plasmare attivamente le condizioni per rispondere alle necessità economiche della globalizzazione. Il focus sulle relazioni sociali di produzione si è intrecciato con il dibattito sull’upgrading sociale, inteso come il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori coinvolti nelle reti di produzione (2 Box 28.9). Il riposizionamento che porta crescita economica può avere un risvolto importante nel miglioramento di tali condizioni, ma non vi è alcuna evidenza che ciò ne sia una conseguenza necessaria se, per esempio, il lavoro generato è insicuro o addirittura basato sullo sfruttamento. La questione centrale è quindi comprendere la relazione causale tra crescita e sviluppo economico e sociale e, più precisamente, analizzare le condizioni nelle quali la prima conduce al secondo o viceversa a un peggioramento delle condizioni e dei diritti dei lavoratori. 28.5.3 La convergenza dei sistemi istituzionali nel mercato globale Un lungo dibattito ha attraversato la sociologia economica e riguarda il confronto tra quanti sostengono l’importanza e la specificità delle istituzioni nazionali per gli esiti dell’attività economica, anche di quella perseguita dalle imprese globali, e quanti invece privilegiano la variazione dei modelli di internazionalizzazione legata alle tipologie di reti produttive. Per comprendere il dibattito, si farà riferimento al lavoro di Herrigel e Wittke (2006) sulle imprese automobilistiche tedesche e quelle americane. Si osserva che, pur in presenza di difficoltà simili nel costruire e governare la crescente articolazione dei processi produttivi, gli sforzi di queste imprese nei contesti osservati – nel modello capitalistico tedesco e in quello americano – non possono essere considerati identici (2 Box 28.4). Tale evidenza smentirebbe la tesi dell’omogeneità delle strategie imprenditoriali e, viceversa, si muoverebbe a sostegno dell’ipotesi della diversità istituzionale del capitalismo. Tuttavia, lo studio confuta anche che le strategie delle imprese seguono modalità tipiche dei loro contesti istituzionali (per esempio, che le imprese tedesche perseguono sempre relazioni cooperative a differenza di quelle statunitensi). Gli autori sottolineano piuttosto il grado di autonomia e creatività che le imprese dei due contesti studiati possiedono riguardo alle rispettive istituzioni nazionali; ciò permette loro di rispondere alle sfide poste dal mercato globale secondo modalità che non sembrano dipendere dall’architettura istituzionale in cui sono radicate. Sulla stessa scia, si osserva che le configurazioni nazionali continuano a esercitare un’influenza notevole sulle strategie delle imprese, soprattutto quando queste rimangono orientate verso il mercato interno e quando non trovano fornitori esterni in grado di assicurare standard globali; allo stesso tempo, però, le imprese non si adeguano passivamente. Esse si comportano piuttosto come attori dinamici «in cerca» di nuove e diverse opzioni, anche attraverso i vari contesti
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nazionali, di cui sono in grado di modificare le stesse istituzioni. In altre parole, le interazioni tra cambiamento istituzionale, strategie a livello di impresa e le nuove dinamiche della competizione globale fanno emergere combinazioni complesse.
28.6 Mercato mondiale e cgv L’evidenza relativa alla profonda interdipendenza tra economie nazionali sulla base dell’attività di complesse catene produttive, caratterizzate da elevati livelli di cooperazione e scambio, ha sollecitato negli ultimi decenni la costruzione di modelli interpretativi della globalizzazione economica aventi per oggetto le imprese, oltre a quelli focalizzati sulle economie nazionali. Questo capitolo ha presentato la teoria delle cgv e ha messo in rilievo il ruolo discriminante delle imprese nella strutturazione e nelle dinamiche del mercato mondiale. Il contributo innovativo di questa prospettiva è duplice. Innanzitutto, analizza l’economia mondiale a partire dalle reti produttive che sono alla base dell’integrazione profonda che qualifica l’attuale fase di sviluppo capitalistico. In secondo luogo, permette di coglierne le condizioni e le implicazioni economiche e sociali. Le crescenti disuguaglianze e la problematicità delle condizioni di vita e di lavoro di molte persone sollevano quesiti sociologicamente rilevanti circa le modalità con cui le reti di produzione organizzate su scala transnazionale mediano la partecipazione dei territori e dei lavoratori nel mercato globale.
Letture di approfondimento Gereffi G. (2005). «The global economy: Organisation, governance and development», in N. Smelser, R. Swedberg (eds.), The Handbook of Economic Sociology, Princeton (NJ), Princeton University Press, pp. 160-82.
Greco L. (2016). Capitalismo e sviluppo nelle catene globali del valore, Roma, Carocci. Herrigel G., Wittke V. (2006). «Varieties of vertical disintegration: The global trend towards heterogeneous supply relations and the reproduction of difference in US and German manufacturing», in G. Morgan et al. (eds.), Changing Capitalism? Internationalization, Industrial Change and Systems of Economic Organization, Oxford, Oxford University Press, pp. 277-311.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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C. Territori e sviluppo
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29 Le città come attori dello sviluppo di Laura Azzolina
29.1 Studiare le città Le città hanno tradizionalmente costituito l’oggetto di ricerca di urbanisti, sociologi urbani e geografi, ma oggi sempre più frequentemente anche di sociologi dell’economia ed economisti. Il coinvolgimento di una più ampia comunità scientifica si è accompagnato negli ultimi decenni a una crescita di attenzione sul ruolo che le città svolgono nei processi di sviluppo e, particolarmente, nei processi di crescita economica e in quelli di regolazione dei mercati e dell’economia. Il rilievo della città nello sviluppo economico non è nuovo, né recente, ma lungo la storia del capitalismo ha conosciuto alcune oscillazioni interpretative. è Max Weber (si veda il Cap. 1) a evidenziare l’importante ruolo economico svolto dalle città alle origini del capitalismo moderno. Secondo il sociologo tedesco, le città occidentali e il loro peculiare modo di strutturare la cittadinanza hanno dato un importante impulso allo spirito imprenditoriale, allo sviluppo del commercio, della borghesia artigianale e commerciale, alla liberazione della forza lavoro e della terra (Trigilia 2002). Già a partire dall’inizio del Novecento, però, in una fase più matura del capitalismo, il ruolo economico delle città ha perso rilievo per effetto di due condizioni. La prima è la diffusione dell’industria di massa, un modello di produzione basato su grandi imprese verticalmente integrate, che sviluppano tutte le fasi della produzione al loro interno e tendono a essere relativamente più autonome da ciò che si svolge al loro esterno, nei territori. La seconda è una centralizzazione di funzioni in capo allo stato, che si impone sulle città come centro regolatore. Con l’affermarsi dello stato moderno si determina il declino delle città-stato, ovvero delle città come soggetti politici, economici e sociali sostanzialmente autonomi (Bagnasco 2003). A partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso e nella fase corrente del capitalismo, i grandi processi che interessano le economie e le società globali ripropongono nuovamente un maggior rilievo delle città che, ancora una volta, assumono una duplice natura: economica e istituzionale. Sul piano economico sono innanzitutto le trasformazioni dei processi di produzione industriale e dei mercati a ridare centralità alle città e ai territori. La fabbrica manifatturiera si deverticalizza, esternalizza alcune funzioni che prima svolgeva al proprio interno, acquistando da altre imprese componenti, semilavorati, beni e servizi. Nei processi produttivi che si strutturano in forme reticolari, le grandi imprese dipendono in misura maggiore dalla disponibilità di collaborazione con altre imprese, ma anche da economie esterne, beni materiali come servizi e infrastrutture, o
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immateriali, come formazione professionale e capitale umano, che, per gran parte, sono prodotti nelle città. La crescita del settore dei servizi e la globalizzazione, intesa come intensificazione degli scambi commerciali internazionali e integrazione dei mercati, contribuiscono poi a un rilancio delle città come luoghi in cui si concentrano attività, funzioni e servizi più o meno specializzati. Tali funzioni e servizi, infatti, necessitano sempre più di capitale umano altamente qualificato e di strutture per la loro formazione, come università o centri per la ricerca. In questo modo le città diventano veri e propri incubatori di innovazione e crescita, luoghi generatori di servizi e risorse materiali e immateriali che sempre più costituiscono le precondizioni per la crescita economica. Accanto alle trasformazioni dei sistemi produttivi e dei mercati, vi sono poi anche processi di natura istituzionale che hanno rafforzato il ruolo svolto dalle città nella fase attuale del capitalismo. In molti paesi, con la globalizzazione lo stato ha promosso un trasferimento di poteri e di risorse ai livelli subnazionali (RodrìguezPose e Gill 2003). La produzione di servizi pubblici è forse l’aspetto in cui più chiaramente si manifestano queste tendenze, che derivano da un lato dalla necessità di adeguare i regimi di protezione sociale ai nuovi bisogni, dall’altro da quella di limitare l’impegno finanziario e organizzativo del centro. I processi di devoluzione o decentramento, nelle varie forme che hanno assunto, hanno generalmente determinato il passaggio alle città e ai territori di nuove competenze per la produzione di servizi pubblici. Ciò ha costituito un’occasione di rafforzamento istituzionale delle città, talvolta anche a scapito dello stato. Nel caso dei paesi europei, un’ulteriore spinta alla crescita delle città è poi giunta dai processi di europeizzazione (Pichierri 2002). Infatti, l’Unione Europea ha stabilito per le città regole omogenee che travalicano le differenze nazionali e le livellano. Inoltre, dall’UE sono stati creati programmi e politiche urbane, con relativi finanziamenti appositamente rivolti alle città, le quali, nell’interlocuzione diretta con i centri politici e amministrativi europei, hanno visto accresciute le risorse di legittimità e finanziarie autonome rispetto a quelle fornite dagli stati e dalle regioni.
29.2 Le sfide interpretative In questa nuova centralità le città sono state studiate da punti di vista differenti. Senza pretese di esaustività, ne ricordiamo qui alcuni fra quelli che hanno avuto maggiore eco nel dibattito internazionale, indirizzando successive linee o filoni di ricerca. Nell’accezione di città creative, le città sono considerate luoghi in cui si stabiliscono processi generativi di trasformazioni economicamente rilevanti, e sono studiate in particolare come incubatori, o poli di attrazione, di creatività, innovazione e in ultima istanza di crescita economica. Il sociologo americano che ha molto insistito su tali funzioni delle città, Richard Florida, pone al centro dei suoi lavori il nesso fra città e «classe creativa» (2002, 2005, 2014). L’avvento dell’economia della conoscenza ha determinato un grande rilievo di quell’insieme di attività volte alla produzio-
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ne di innovazioni, sia in forma di nuovi artefatti tecnologici sia di nuovi metodi di produzione (Florida 2002). Un rilievo che si può osservare con riferimento a diversi fattori, fra i quali il più importante è certamente l’ascesa della classe creativa. Si tratta dell’insieme di lavoratori impegnati nella produzione di innovazioni (scienziati, ingegneri, architetti, ma anche poeti, artisti, compositori) o occupati in settori caratterizzati da alto impiego di conoscenza (medici, avvocati, dirigenti) (2 Box 29.1). La classe creativa ha un ruolo cruciale non solo perché in rapida e intensa ascesa, perché detiene i redditi più elevati e perché la sua crescita non è stata interrotta della crisi del 2008 (Florida 2014), ma soprattutto perché da essa dipende lo sviluppo economico di un paese, la ricchezza di una nazione. Che ruolo hanno le città in questo quadro? Secondo Florida la mobilità e le scelte di residenza della classe creativa dipendono in misura elevata e crescente dalla qualità dei luoghi e dell’ambiente urbano. Tale qualità è connessa alla presenza di strutture per il tempo libero, alla possibilità di fruire di servizi culturali elevati, alla possibilità di partecipare ad ambienti di lavoro e di socializzazione stimolanti; ciò si determina in contesti urbani culturalmente aperti e tolleranti nei confronti della diversità (per esempio nei riguardi di stranieri o di omosessuali). In tali contesti è più facile che si addensino i lavoratori creativi, in genere i più inclini a cambiare residenza. Ma una presenza di elevata dotazione di capitale umano e creativo nelle città è poi, secondo Florida, ciò che attrae gli investimenti in quella città, dal momento che le imprese innovative faranno scelte di localizzazione delle loro sedi produttive sulla base della disponibilità sul territorio di forza lavoro altamente qualificata. Le città dunque non devono far altro che strutturare un ambiente urbano che corrisponda alle preferenze della classe creativa, un ambiente di qualità con buoni servizi culturali, aperto e tollerante; a questo faranno seguito localizzazioni di attività produttive innovative. In questa dinamica le città incarnano il modello di crescita economica definito dall’autore delle 3 T (tecnologia, talento e tolleranza). Si noti che, nel quadro teorico presentato, le città vengono studiate nel compiuto definirsi di processi endogeni, ovvero l’analisi tende a concentrarsi sui meccanismi e sui processi che si stabiliscono all’interno delle città. Non è un caso che, nell’identificare le cause che hanno concorso a rivitalizzare le città americane negli anni Novanta, il sociologo individui fattori quali: la diminuzione della criminalità, l’aumento della sicurezza, una maggiore cura per gli spazi e maggiore pulizia, lo stabilirsi di attrattive e strutture per il tempo libero dove le persone single possono incontrarsi, l’assunzione da parte dei governi locali di scelte e investimenti volti a intensificare la densità abitativa (Florida 2002). In letteratura sono state avanzate diverse critiche alla teoria di Florida, e non sempre le sue tesi sono state confermate da ricerche svolte in contesti istituzionali differenti; per esempio ricerche svolte in Italia e in Europa mostrano una forte stabilità occupazionale e residenziale degli inventori che contraddice uno degli assunti di Florida sui lavoratori creativi (Ramella 2013). Più in generale vengono avanzati dubbi sul ruolo della classe creativa come generatore primario delle città innovative (Storper e Scott 2009). Lo stesso Florida del resto, nei suoi lavori più recenti (2014) è tornato sugli aspetti più discussi della sua teoria. Su un punto però, fortemente evidenziato nel suo lavoro, vi è una sostanziale convergenza della letteratura sull’in-
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III – Temi e percorsi di ricerca
novazione: nello scenario attuale le attività innovative e quelle legate all’alta tecnologia tendono a concentrarsi nelle città, dove si sviluppa quell’insieme di interazioni formali e informali fra soggetti con competenze diverse e contenuti differenti di conoscenza, che sono sempre di più alla base dei processi innovativi (Burroni e Trigilia 2011). Un altro importante filone di studi si è concentrato sulle città globali. In questa accezione, le città sono viste come nodi di reti di attivazione e controllo di processi economici globali, e sono dunque analizzate in stretta relazione a quanto accade al loro esterno, e precisamente in relazione ai processi di globalizzazione. La globalizzazione comporta un intensificarsi di flussi di informazioni resi possibili dalle nuove tecnologie, ma anche una crescita di flussi di mobilità dei capitali per investimenti all’estero. Una conseguenza risiede nella de-territorializzazione che deriva dalla delocalizzazione di alcune attività non solo di produzione, con il trasferimento di fabbriche in contesti dove ci sono maggiori vantaggi competitivi, ma anche di servizi, con il trasferimento di lavoro che può essere espletato ovunque, come per esempio nel caso dei call center. Ma vi è un’altra conseguenza che risiede in un opposto effetto di accentramento territoriale di altre funzioni, quelle di direzione e di controllo, che si sviluppano in (alcune) città. In questo modo, città come New York, Tokyo, Londra, Sydney, Bangkok, Città del Messico, Buenos Aires, fra le altre, sono diventate luoghi di concentrazione di attività ad alto valore aggiunto e funzioni specializzate come i servizi finanziari, assicurativi, immobiliari, i servizi legati all’esportazione, la contabilità, la pubblicità, la consulenza per la direzione, l’assistenza legale internazionale. Si noti che in questa prospettiva transnazionale, come viene definita dalla sociologa americana Saskia Sassen, che la adotta (2000), non si tratta però solamente di guardare alle città come a luoghi centrali nelle dinamiche globali, ma anche di studiarle nella loro qualità di snodi di circuiti integrati. Dal momento che gli scambi di mercato e i flussi transnazionali comportano localizzazioni multiple, che si estendono a più di un paese, le grandi città in cui ciò si realizza risultano connesse entro un circuito reticolare, partecipando alle stesse reti di scambi; esse sono quindi componenti di una dinamica sistemica. Studiarle in questa ottica permette anche di cogliere come ognuna di queste città si trova a svolgere una funzione specifica, entro un processo di reciproca specializzazione che determina una complementarietà fra le città. Così, per esempio, verso la metà degli anni Ottanta, mentre Tokyo è stata la principale esportatrice di moneta e New York il maggior centro di produzione di nuovi strumenti finanziari, Londra costituiva il maggior centro di raccolta di piccoli flussi di capitale provenienti da mercati finanziari sparsi per il mondo (Sassen 2000). È nel ruolo di nodi di una rete integrata di flussi, a volte complementari, che le città diventano città globali; in questo senso, il loro rilievo strategico non può essere studiato se non in relazione ai flussi esogeni. In tale prospettiva, è anche importante notare che i flussi che interconnettono le città globali sono il mero prodotto di anonime forze di mercato che sfuggono a disegni intenzionali o strategie di governo (Perulli 2012b). Nel rafforzamento dei legami transnazionali di queste grandi città globali, allora, non solo esse perdono lo status di società locale, ma allentano i rapporti con il loro hinterland e con il sistema urbano nazionale (Sassen 2000).
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Un’idea emersa in letteratura successivamente a quella di città globale, ma di cui è stata considerata un’estensione (Bagnasco e Storti 2008), è quella di città-regione globale (Scott 2001). Essa è stata elaborata con riferimento al fatto che la concentrazione di attività produttive e di servizio può essere riconoscibile anche su scala più ampia. Il modello teorico della città-regione globale presuppone che lo sviluppo si strutturi in forma di addensamenti multipli, basati su una molteplicità di centri o sistemi locali in cui si condensano reti di produzione di beni e di servizi diversi. In questi territori le città diventano sempre più centri di specializzazione nella produzione di servizi intermedi che vengono richiesti dal sistema regionale nel suo insieme, e in quanto tali assumono funzioni di integrazione sistemica. Un modello teorico questo che si presta particolarmente all’applicazione al caso del Nord Italia, in cui distretti industriali e città di servizio compongono una nebulosa che l’attenzione a dinamiche territoriali più circoscritte non riuscirebbe a cogliere (Bagnasco e Storti 2008). Nella letteratura sulle città sono stati identificati per le città europee tratti peculiari, alla luce dei quali appaiono inadeguati tanto lo schema di società locale compiuta e autonoma, quanto quello di nodo di flussi globali. Innanzitutto, il contesto europeo presenta una struttura insediativa caratterizzata da una rete di città di piccole e medie dimensioni che ha richiamato l’attenzione sulla specificità della città media (Bagnasco e Le Galès 2001). Inoltre, guardando alle caratteristiche che la storia ha sedimentato nel contesto europeo, il sociologo francese Patrick Le Galès ha proposto di studiarle come «società locali incomplete» (2002, trad. it. 2006). In questa chiave, le città sono viste innanzitutto come società locali complesse, luoghi di interazione di una molteplicità di attori, gruppi e organizzazioni, che agiscono per difendere i propri interessi, a volte cooperando, altre volte confliggendo, strutturando disuguaglianze e sostenendo azioni pubbliche e politiche. Su tali società però, nel corso del Novecento, è stata anche esercitata un’importante funzione di stabilizzazione attraverso il funzionamento di istituzioni come scuole, università, porti, ospedali, tutte in gran parte dipendenti dall’azione dello stato. Lo sviluppo di un welfare state dei servizi in Europa (si veda il Cap. 35) ha costituito più che altrove la trama per un più stretto collegamento fra lo stato nazionale e le città. I servizi pubblici hanno anche rappresentato per le città europee una base di impiego stabile, che ha favorito la formazione e il consolidamento di un ceto medio; ciò ha inoltre limitato gli effetti di polarizzazione sociale osservabili, invece, nelle città americane. Ecco allora che la città europea ha strutturato storicamente i tratti di una società locale con proprie stabili caratteristiche, ma incompleta, in quanto posta a un livello di articolazione delle dinamiche sociali, economiche e politiche in cui lo stato ha giocato un ruolo più rilevante che in altri contesti. A partire dagli anni Novanta, con l’europeizzazione e la globalizzazione, il rapporto fra città e stato si è andato modificando secondo una logica che appare, nuovamente, peculiare. L’europeizzazione ha comportato da un lato un allentamento del peso dello stato sotto gli effetti della formazione di una moneta unica, di una ridotta tensione militarista, della diminuzione del rilievo delle frontiere e della produzione normativa di livello europeo. Dall’altro ha comportato anche una crescita istituziona-
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le delle città, che sono diventate sempre più interlocutori diretti delle politiche comunitarie e che si sono trovate a gestire la pressione della competizione globale in una posizione di maggiore esposizione rispetto al passato. Secondo il sociologo francese, non si può però parlare di un semplice ritiro dello stato, ma di una sua ridefinizione. Come Le Galès ricorda, la formazione dell’Europa è stata voluta dagli stati ed è stata realizzata sotto il loro controllo. Sono ancora gli stati che hanno pilotato le grandi ondate di privatizzazione e che hanno incoraggiato il decentramento dell’investimento pubblico. In altri termini, gli stati stessi hanno per molta parte incoraggiato i processi di trasformazione del loro ruolo economico e ne hanno mantenuto la regia. È precisamente in questa ridefinizione che per le città europee si apre lo spazio per un riposizionamento. Questo potrà essere tanto più favorevole alle città, quanto più strutturate saranno le rispettive società locali.
29.3 La ricerca in Italia: due esempi Le prospettive presentate hanno ispirato un’ampia produzione di ricerca empirica, parte della quale ha riguardato il caso italiano: un contesto notoriamente caratterizzato da un differente grado di sviluppo fra le città del Nord e quelle del Sud del paese. Si propongono qui due esperienze di ricerca che esemplificano, come sintetizzato nella Tab. 29.1, differenti progetti condotti nelle due diverse aree geografiche. 29.3.1 Le città del Nord Il volume Nord. Una città-regione globale curato da Paolo Perulli (2012a) presenta un programma di ricerche che si inserisce nell’ambito del Progetto Nord (Conti 2010; Perulli 2010; Perulli e Pichierri 2010). Il progetto nasce con l’intenzione di applicare il concetto di città-regione globale al Nord Italia, un esercizio il cui successo deriva dalle caratteristiche del modello di sviluppo di quest’area del paese. La compresenza di distretti manifatturieri, poli urbani di produzione di servizi e sistemi di produzione di cultura e conoscenza sembra infatti corrispondere ai tratti costi-
Tabella 29.1 Le due ricerche presentate Frame teorico Nord. Una cittàregione globale
Area di ricerca
Città-regione Nord globale
La nuova occasione. Società locali Sud Città e valorizzazione incomplete delle risorse locali
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Dimensione di analisi privilegiata
Unità territoriale di riferimento
Modello di regolazione richiesto
Analisi per flussi
Sistema regionale
Assemblaggi di politiche
Analisi per stock
Comuni capoluogo
Governance
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tutivi con cui la teoria definisce una city-region. L’opzione interpretativa privilegiata è quella della città relazionale, letta attraverso l’analisi delle relazioni esterne, globali, in cui la città-regione si inserisce e che la città-regione interconnette. Tale opzione teorica richiede un’attenzione prevalente all’analisi dei flussi: sia di quelli materiali, come quelli di persone, di beni o di servizi, sia di quelli immateriali, come contenuti di creatività e conoscenza – temi su cui si concentrano le ricerche svolte nell’ambito di questo programma. Ne deriva un quadro di evidenze empiriche che mostra come i cluster e i distretti produttivi abbiano stabilito e rafforzato delle connessioni con le città del Nord che si sono specializzate sempre più nei servizi; e come da tale interconnessione siano derivate spinte alla specializzazione funzionale e alla complementarietà, fra città e territori, ma anche fra le diverse città, secondo la logica del modello teorico della città-regione globale. L’analisi di lungo periodo della popolazione ha consentito di mostrare come il tessuto del Nord sia rimasto prevalentemente policentrico, come nel secolo scorso. Nel tempo però sembrano essersi modificate le logiche di addensamento demografico. Se infatti fra gli anni Cinquanta e Settanta la crescita demografica si concentrava su Milano e Torino per effetto della presenza della grande industria, e nel ventennio successivo si spostava sul territorio della Terza Italia (le regioni del Centro-Nord-Est) in concomitanza con lo sviluppo della piccola impresa e dei distretti (Bagnasco 1977, 1988), a partire dagli anni Novanta si osservano aree di nuovo addensamento lungo le fasce che corrono parallele agli assi della rete autostradale. L’area metropolitana veneta e quella dell’Emilia centrale assumono caratteristiche di «corridoi» di densificazione la cui centralità strategica sembra accresciuta dalla loro funzione di nodo sui flussi principali di mobilità in una scala di macro-regione. Il ruolo di Milano, oltre che nei processi di addensamento demografico, emerge anche come fornitore di servizi alle imprese e di servizi connessi con l’industria culturale e creativa (produzione di cultura, spettacoli, consulenza gestionale e contabile, design, attività di ricerca e sviluppo). Ma un’elevata diffusione di servizi si osserva in tutti i centri urbani e metropolitani del Nord, secondo una tendenza alla specializzazione funzionale. Mentre Verona si distingue per una maggiore concentrazione nella logistica e nella finanza (in secondo piano rispetto a Milano), Trento e Torino appaiono più specializzate in ricerca e sviluppo; Padova nei servizi alle imprese; Vicenza nelle attività di amministrazione di impresa; Bologna nell’industria creativa (pubblicità, design, media) e via dicendo. Oltre che centri di produzione di servizi, le città del Nord sono anche luoghi fisici in cui si sviluppano network professionali «creativi» rilevanti, come osservato nei casi di Parma e di Modena, dove tali network si affermano anche a partire da iniziative culturali, festival e concerti. Ma reti innovative si stabiliscono anche al confine fra distretti e città, attraverso il ruolo delle imprese distrettuali. Queste da un lato acquistano servizi avanzati che possono reperire nelle città, per esempio commissionando un nuovo prodotto a un designer; ma dall’altro, nella fase di realizzazione del prototipo, coinvolgono i fornitori locali nella definizione dei semilavorati, contribuendo in ultima istanza allo sviluppo del nuovo prodotto. Anche i processi di riorganizzazione delle funzioni di produzione delle public utilities (reti energetiche) avvengono su una scala sovraregionale, secondo logiche in gran parte definite dalla
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specificità del settore. Ma è nell’analisi del ruolo di Milano che emerge con maggiore nitore il rilievo globale delle connessioni che vi si stabiliscono. Milano risulta l’ottava global city al mondo in una classifica del grado di connettività dei servizi avanzati alle imprese ivi localizzati con altre città mondiali. Dal confronto con l’altra maggiore realtà metropolitana italiana, Roma, emergono indicazioni circa una loro tendenza alla complementarietà: mentre Milano risulta più concentrata sui servizi finanziari, Roma sembra specializzarsi nel settore della pubblicità e della consulenza sfruttando le sue funzioni di capitale nazionale. È però Milano a svolgere con più forza il ruolo di snodo globale. Rispetto a Roma, Milano risulta più connessa alle città nordamericane, alla diade New York e Londra, a un’altra regione-globale, quella dell’Asia Sudorientale. Le ricerche, nel complesso, mostrano in definitiva come i flussi che derivano dal dispiegarsi delle forze di mercato, dallo strutturarsi delle interdipendenze e dalle scelte localizzative di residenti e di imprese, determinano una integrazione sistemica che può essere letta con riferimento all’area del Nord ove risulta superata la precedente differenziazione fra Nord-Ovest e Centro-Nord-Est. Non sempre però questi processi spontanei sono stati accompagnati da una progettualità strategica volta ad assecondare, a valorizzare o a governare gli effetti di questi flussi secondo una logica transregionale. La debolezza della città-regione globale Nord è forse individuata nel suo incompiuto riconoscersi come attore globale unitario e nella sua difficoltà a definire una strategia che, secondo logiche di assemblaggi di politiche, sappia valorizzare l’integrazione sistemica nel rispetto delle diversità locali. 29.3.2 Le città del Sud La ricerca curata per conto della Fondazione Res da Paola Casavola e Carlo Trigilia e pubblicata nel 2012 nel volume La nuova occasione. Città e valorizzazione delle risorse locali è invece rivolta alle città del Sud nel confronto con quelle del Centro-Nord. Essa parte dal presupposto che la globalizzazione si associ a una crescita della domanda per beni di consumo di qualità nei quali la componente simbolica e il richiamo a tradizioni e identità territoriali è rilevante e a una crescita della domanda turistica sempre più collegata alla fruizione di beni culturali e storico-artistici nelle città dei paesi avanzati. La globalizzazione offre dunque «nuove occasioni» di riposizionamento anche per quelle città, come le città del Sud d’Italia, che nella fase del capitalismo industriale hanno risentito di una generale debolezza competitiva del territorio. Sulla base di tale premessa, gli autori della ricerca si sono posti l’obiettivo di valutare se le città meridionali detengano le risorse locali necessarie a riposizionarsi e in che misura questo si sia realizzato. Il disegno si è allora concentrato sugli stock di dotazioni delle città di tre tipi di risorse: quelle relative al patrimonio culturale e ambientale, quelle di capitale umano e quelle di saper fare diffuso. Per brevità, in questa sede, faremo riferimento solamente al primo tipo di risorse. La comparazione di tutti i capoluoghi italiani sulla base di un indicatore di dotazione culturale e ambientale (costruito considerando il numero di siti museali, ar-
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cheologici, ma anche di zone protette ecc., e ponderandone la rilevanza) ha permesso di evidenziare come le città del Sud siano tutt’altro che sfavorite rispetto alle città del Nord. Dopo le grandi città d’arte (Roma, Firenze e Venezia), città come Siracusa, Napoli, Palermo, Catania, Agrigento e Caserta figurano nel gruppo di maggiore dotazione insieme a Ravenna, Pisa, Torino, Genova e Siena. Inoltre, le città meridionali presentano i migliori equilibri fra dotazioni culturali e risorse ambientali. D’altra parte, la comparazione dei capoluoghi sulla base di un indicatore di attivazione (che misura invece le presenze turistiche) evidenzia – per il periodo esaminato – una marcata debolezza delle città del Sud rispetto a quelle del Nord. Le città meridionali avrebbero dunque, al pari di quelle del Nord, tutte le risorse potenzialmente necessarie per sviluppare un’industria turistica, ma attraggono visitatori in misura inferiore che al Nord. Perché? Approfondimenti qualitativi condotti in una selezione di casi di studio siciliani e del Centro-Nord hanno esplorato i fattori di debolezza nei meccanismi di attivazione delle città studiate. Secondo uno schema analitico ispirato all’idea di città come società locali incomplete, e per molti aspetti ancora strettamente legate a livelli superiori di regolazione, i meccanismi di attivazione vengono distinti dai ricercatori fra esogeni ed endogeni. Del primo tipo sono la domanda turistica esterna, che è in grande espansione su scala globale; ma anche le politiche sovralocali e gli investimenti privati esterni. Il ruolo delle politiche sovralocali è stato rilevante per tutti i casi analizzati. Negli anni Novanta le città osservate hanno utilizzato tutte, seppure in misura variabile, fondi europei, politiche nazionali o fondi regionali legati a legislazioni speciali per il recupero e la riqualificazione dei propri centri storici, con un conseguente accrescimento delle rispettive dotazioni di risorse architettonico-museali fruibili. Anche gli investimenti esterni hanno avuto un ruolo rilevante in tutti i casi studiati. L’apporto di capitali esterni ha consentito di incrementare la capacità ricettiva, attraverso la realizzazione di villaggi turistici, resort e alberghi di fascia alta. Questo aumento dell’offerta ricettiva però non ha corrisposto a un innalzamento delle presenze turistiche, che in alcuni casi sono risultate addirittura in calo nel periodo osservato. L’attenzione è stata dunque posta sul ruolo dei fattori endogeni, fra i quali sono stati considerati: l’accessibilità del luogo garantita dai sistemi di trasporto, la qualità dell’offerta, il ruolo dei soggetti locali. Sebbene i voli low cost abbiano potenziato il traffico aereo di città come Palermo e Catania, il maggiore dinamismo sul piano turistico di località molto più difficilmente raggiungibili, come nell’esempio di Ragusa, ha portato a relativizzare il fattore connesso all’accessibilità del luogo. Un ruolo maggiore ha invece giocato la qualità dell’offerta, e in particolare la rilevanza di un grande attrattore, come può essere la Valle dei Templi di Agrigento, o la Torre di Pisa, rispetto a una dotazione diffusa di beni minori e meno rinomati. Nell’attivazione dell’industria turistica è stato mostrato anche il rilievo di elementi connessi alla comunicazione, come il successo dalla popolare serie televisiva del commissario Montalbano, che ha contribuito alla diffusione dell’immagine dell’area ragusana; o come la realizzazione della tappa della regata velica America’s Cup a Trapani nel 2005. Ma è soprattutto il ruolo degli attori locali, il meccanismo di attivazione su cui si concentra infine l’attenzione dei ricercatori. La comparazione fra città del Sud e quelle del Nord mostra
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come al Nord sia più solida un’imprenditorialità qualificata e innovativa, mentre in alcune città del Sud sono emersi modelli di «imprenditorialità laterale», provenienti da altri settori (immobiliare) e con una cultura imprenditoriale dipendente dal sostegno pubblico. Ma, soprattutto, è emersa al Nord una più solida strategia pubblica mirata a investimenti in promozione e marketing e integrata in un quadro di politiche per la qualità urbana in cui, per esempio, l’organizzazione di eventi di qualità, l’efficienza dei servizi pubblici, la sicurezza dei luoghi e l’arredo dell’ambiente urbano non sono trascurati. Questa tensione strategica è persistente nel tempo e costituisce un indirizzo di lungo termine, verso cui vengono convogliate energie degli attori privati coinvolti, in una logica di governance partecipata alle politiche di sviluppo più matura e sviluppata, che invece stenta ad affermarsi nelle città del Sud.
29.4 Le problematiche emergenti Le evidenze tratte dalle ricerche sul Nord mostrano come processi compositi e spontanei abbiano determinato un sistema economico integrato che fa del Nord una città-regione globale; ma non vi è evidenza di processi di regolazione su scala transregionale che abbiano significativamente accompagnato tali sviluppi, anche nella direzione di limitare gli effetti della polarizzazione fra aree urbane di sviluppo e aree interne marginali (si veda il Cap. 30). D’altra parte la ricerca sulle città del Sud ha mostrato come lo scarto fra dotazione di risorse locali e loro valorizzazione in termini economici dipende dalla debolezza delle azioni pubbliche e private predisposte a livello locale e dalla loro scarsa cooperazione. Sia che si tratti di indirizzare, riequilibrare o governare processi spontanei di mercato sia che si tratti di innescarne di nuovi, in quei settori dove più forte è il ruolo di attivazione dell’attore pubblico (come in quello turistico), le ricerche mostrano come le possibilità che il riposizionamento strategico delle città e dei territori nel contesto della globalizzazione abbia successo dipende anche dal ruolo, variamente giocato, di un’intenzionalità strategica. In questo senso le ricerche presentate esemplificano, seppure da diversi percorsi teorico-analitici e con riferimento a differenti territori, una tematica molto presente nella letteratura che si è concentrata sul nesso fra città e crescita economica. Quest’ultima infatti in molti casi ha indagato tale nesso sotto un duplice aspetto, guardando da un lato al ruolo delle città nei processi economici in senso stretto, dall’altro al loro ruolo come centri di regolazione dell’economia. In questo senso le città sono state viste come protagoniste di nuove forme di intervento, di vere e proprie politiche di sviluppo. Tale protagonismo era emerso negli anni Ottanta in forma essenzialmente difensiva, nel momento in cui la deindustrializzazione e il ridimensionamento del settore pubblico creavano nei contesti urbani crescenti difficoltà occupazionali che i governi locali dovevano gestire imbastendo le linee di una propria politica per l’occupazione (Pichierri 2002). Ma l’assunzione di tali nuovi compiti ha comportato il determinarsi di altre condizioni, e in particolare un cambiamento nei contenuti e nelle forme della regolazione urbana dello sviluppo. Il primo è un cambiamento di prospettiva, l’affermarsi di una nuova visione. Le politiche occupazionali locali hanno intrapreso la
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strada della valorizzazione delle risorse endogene e, via via che si accresceva la mobilità dei capitali, sempre di più quella dell’attrazione di investimenti esterni. Questo ha corrisposto a un cambio di passo rispetto alla stagione precedente, in cui un’elevata presenza di capitale esterno era vista come indicatore di debolezza e di dipendenza, e ha comportato la diffusione di un nuovo orientamento più favorevole all’impresa, alle sue esigenze e ai suoi bisogni. In questo percorso le città si sono spostate sempre di più verso la promozione di politiche per l’offerta (ibidem). Insieme ai contenuti dei nuovi interventi regolativi si sono modificate anche le forme attraverso cui questi interventi sono stati realizzati. La regolazione pubblica infatti ha assunto – per usare un termine particolarmente ricorrente nella letteratura sulle città – la forma della governance più che del government. Questo vuol dire che decisioni pubbliche e strategie, più che come esercizio di autorità di governo, sono derivate dal coinvolgimento allargato ad attori privati. La città come società locale è infatti innanzitutto un’arena di interessi segmentati, multipli e confliggenti. Quando però attori pubblici, nell’ambito della sfera politica e di quella amministrativa, imprese, associazioni di categoria, camere di commercio, associazioni o gruppi organizzati di cittadini si coordinano per il raggiungimento di un obiettivo comune (che può essere l’attrazione di investimenti esterni o di eventi, o la riqualificazione di un’area della città), la città comincia a essere studiata come attore unitario in grado di mobilitare risorse nella competizione verso l’esterno (Bagnasco e Le Galès 2001). Come è stato notato (Bagnasco 2003), tale logica richiede una leadership propriamente politica: non è un caso che l’analisi di tali processi regolativi sia stata accompagnata da un rinnovato interesse per i governi urbani, che nel frattempo hanno sperimentato un accrescimento del peso degli esecutivi locali e la diffusione dell’elezione diretta dei sindaci, attraverso riforme che hanno fornito nuove risorse di legittimità ai governi locali. Anche le esperienze europee dei piani strategici sono una testimonianza di queste evoluzioni. Si tratta di un modello di regolazione che, diffuso fra gli anni Novanta del secolo scorso e il primo decennio successivo, ha assunto forme e pratiche differenti, ma che è stato ricondotto a tre principi ricorrenti: il ricorso da parte dei decisori a uno stile politico pragmatico e partecipativo; la (conseguente) formazione di politiche pubbliche derivanti da una governance nel senso sopra specificato; l’inclusione dell’obiettivo della partecipazione nella costruzione stessa del piano (Bagnasco 2003). Il declino degli ultimi anni della pianificazione strategica segnala l’addensarsi di maggiori difficoltà per le città nel riuscire a svolgere una funzione regolativa adeguata al loro ruolo economico. Su queste difficoltà ha certamente influito la crisi degli ultimi anni, che ha ridotto le risorse finanziarie di cui gli attori pubblici locali possono oggi disporre; e può avere influito anche la tendenza a una parziale ri-centralizzazione delle funzioni in capo allo stato. Del resto, l’obiettivo non è tanto di identificare processi lineari né uniformi. I modi in cui le città hanno assorbito gli effetti della globalizzazione attraverso le forme dell’interazione fra potere politico e società urbana hanno dato forma a modelli di «contratti urbani» differenti e in certa misura variabili (Perulli 2016). Per questa stagione di ricerche sulle città si tratta semmai di reinterpretare il concetto weberiano di città, che incorpora in un unico soggetto mercato e cittadinanza politica, alla luce del contesto globalizzato del XXI secolo.
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Letture di approfondimento Bagnasco A. (2003). Società fuori squadra. Come cambia l’organizzazione sociale, Bologna, il Mulino. Perulli P. (2004). Piani strategici. Governare le città europee, Milano, FrancoAngeli. Pichierri A. (2002). La regolazione dei sistemi locali. Attori, strategie, strutture, Bologna, il Mulino. Ramella F. (2013). Sociologia dell’innovazione economica, Bologna, il Mulino. Trigilia C. (2005). Sviluppo locale. Un progetto per l’Italia, Roma-Bari, Laterza.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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30 Le aree marginali di Giovanni Carrosio e Giorgio Osti *
30.1 Inquadramento empirico Il tema delle disparità territoriali è oggetto di studio interdisciplinare tra sociologi, economisti e geografi, i quali a diverse scale di analisi hanno messo in luce le differenti dinamiche demografiche e sociali e la diversa capacità di produrre e distribuire ricchezza tra aree, siano esse stati nazionali, regioni o subregioni. La «marginalità» è una categoria con cui leggere le disuguaglianze territoriali. Essa richiama la dimensione subregionale e interroga la condizione di svantaggio socio-economico di aree che durante il processo di sviluppo industriale sono diventate interstiziali rispetto ai principali poli nei quali si sono concentrate ricchezza e popolazione e pertanto relativamente marginali rispetto a essi. Il tema è particolarmente rilevante in un paese come l’Italia, nel quale l’articolazione delle differenze interne è decisamente variegata. Le aree marginali, infatti, non sono riconducibili al dualismo aree urbane-aree rurali che in altri paesi europei permane come lettura dominante, non rispondono meccanicamente alla dimensione altimetrica che distingue montagna e pianura, così come non sono riconducibili solo alla dinamica Nord-Sud. Come vedremo di seguito, non esiste un’interpretazione unica della marginalità, come non esiste una metodologia unica per individuare le aree marginali. La selezione delle variabili è determinata dalla cornice teorica assunta. Tuttavia, se proviamo a definire le aree marginali a partire dalle loro caratteristiche possiamo per ora tracciarne un’approssimativa geografia. Un indicatore piuttosto fedele di un generale malessere di alcune aree è il calo demografico. Tuttavia, esso non è sufficiente. Anche alcune grandi città vedono calare la popolazione in favore del loro hinterland, dando luogo in alcune aree del paese allo studiato fenomeno dello sprawl urbano. Al calo demografico si devono aggiungere la bassa densità abitativa e l’alta incidenza della popolazione anziana, la difficoltà a mantenere i servizi sul territorio a causa del venire meno delle soglie di sostenibilità economica e organizzativa del servizio, la scarsa capacità di attrarre popolazione dall’esterno, la presenza di redditi pro-capite più bassi e la debolezza del tessuto imprenditoriale. Tutti questi elementi si auto-alimentano e danno vita a una spirale della marginalità (Buran et al. 1998) che si manifesta nel progressivo e incessante abbandono del territorio e nel sottoutilizzo del capitale naturale e culturale, i quali a loro volta si traducono in dissesto idrogeologi*
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo i Parr. 30.1 e 30.4 a Giorgio Osti e i Parr. 30.2 e 30.3 a Giovanni Carrosio.
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co, degrado dei beni culturali e architettonici, perdita di biodiversità generata dalla compresenza tra attività umane e ambiente naturale, dispersione di conoscenze tacite e tradizionali. Provando a tracciare una geografia dell’Italia marginale a partire da queste caratteristiche, possiamo individuare innanzitutto parte dell’arco alpino, in particolare le vallate della montagna cuneese e torinese, quelle bergamasche e bresciane, l’alta Carnia e parte delle province di Belluno e Pordenone. Vanno quindi considerate alcune aree interstiziali di pianura, come l’area del delta del Po, una piccola porzione di territorio compreso tra le province di Cremona e Mantova, il grossetano e la piana di Sibari in Calabria. Si distingue con forza la fascia appenninica, con alcuni addensamenti in particolare: l’area all’incrocio delle province di Alessandria, Piacenza, Pavia e Genova (detta anche l’area «delle quattro province»), buona parte dell’Appennino Ligure e Tosco-Emiliano, il grande blocco dell’Appennino centrale compreso tra le regioni Toscana, Marche, Molise, Abruzzo e Lazio. Nelle regioni meridionali si distinguono l’Irpinia in Campania, gran parte della Basilicata, l’Appennino Dauno, la Calabria grecanica, le porzioni di territorio interne rispetto alla costa di Sicilia e Sardegna (si vedano la mappa in Fig. 30.2 e 2 Fig. 30.D1). Da qualche anno vi è un rinnovato interesse per le aree marginali, sia nel mondo della ricerca sia nel dibattito pubblico. Alcune questioni rilevanti – il ritorno all’agricoltura, l’attenzione al cibo e il problema dell’accesso alla terra, nuove forme di impresa sociale e di comunità, la questione della valorizzazione dei borghi e dei piccoli comuni, la diffusione delle energie rinnovabili, una nuova attenzione ai rapporti di produzione nelle campagne, la distribuzione ecologica della presenza immigrata, il problema del dissesto idrogeologico e dell’abbandono del territorio, gli sciami sismici – hanno stimolato l’interesse da parte di più soggetti: ricerca accademica, associazioni di cittadinanza attiva, giornalismo ambientale e territoriale, la politica e le politiche pubbliche, al punto che durante il governo Monti (2011-13) ha preso vita una politica di sviluppo nazionale dedicata alle cosiddette Aree Interne del paese (Strategia Nazionale per le Aree Interne), con l’obiettivo di invertire i trend demografici nelle aree periferiche afflitte dallo spopolamento.
30.2 Le sfide interpretative Perché esistono le disparità territoriali? Quali sono le ragioni che fanno sì che nella storia dello sviluppo alcune aree progrediscano a discapito di altre? Come nasce il fenomeno della marginalità territoriale? Come individuare le aree marginali, quali variabili utilizzare? E come fare per uscire dal circolo vizioso della marginalità, rimettendo in moto il cambiamento in queste aree? Sono le domande che le scienze sociali e i policy maker si pongono, dal punto di vista sia analitico sia pratico (politiche efficaci). I quadri concettuali di cui le scienze sociali si sono dotati per spiegare la marginalità territoriale hanno messo al centro i vincoli socio-culturali presenti all’interno delle aree (teoria della modernizzazione), la natura dei rapporti di scambio tra aree forti e aree deboli (teoria della dipendenza), la capacità di valorizzare risorse
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Figura 30.1 Schema dei modelli di spiegazione della marginalità territoriale Ambito di analisi
Universali Fattori Tipici
Singole aree
Interazione fra aree
Teorie della modernizzazione
Teorie della dipendenza
Marginalità come ritardo culturale
Marginalità come subalternità economica e culturale
Teorie dello sviluppo endogeno
Teorie dei reticoli sociali
Marginalità come incapacità di valorizzare le risorse interne
Marginalità come incapacità di instaurare relazioni su diversi piani e con l’esterno
Fonte: rielaborazione da G. Osti, Sociologia del territorio, Bologna, il Mulino, 2010.
locali (teoria dello sviluppo endogeno) e la capacità di instaurare relazioni su diversi piani e con l’esterno (teoria dei reticoli sociali). Questi quattro grandi filoni teorici sono riconducibili a una classica tipologia a quattro caselle, nella quale i codici interpretativi si distinguono sulla base dei fattori causali della marginalità e dell’ambito di analisi: possiamo infatti stabilire, da un lato, se siano rilevanti o meno le caratteristiche interne alle aree marginali, ovvero se i fattori causali siano prevalentemente tipici o universali; dall’altro, se le dinamiche della marginalizzazione riguardino singole aree o piuttosto le interazioni tra queste e aree forti (Fig. 30.1). Nella prima casella si possono collocare le teorie della modernizzazione, che fanno leva su fattori considerati universali e si concentrano sulle singole aree. L’impianto teorico di queste teorie vede come primogenitore Talcott Parsons (1971) e i suoi universali evolutivi tipici della società moderna, che diventano il parametro di riferimento per analizzare le diverse società locali e spiegarne i gradi di sviluppo in una scala che tende naturalmente alla modernizzazione. La marginalità è perciò un ritardo rispetto all’evoluzione naturale, causata dalla persistenza o dalla forma di alcune aggregazione sociali – in primis la famiglia, ma anche la comunità locale –, che sono viste come ostacoli allo sviluppo (Hoselitz 1960; Levy 1966). Esse inibiscono la libertà di azione individuale o sono basate su solidarietà troppo ristrette. Le aree marginali sarebbero caratterizzate da un modello di società tradizionale, dove la compresenza di elementi culturali e strutturali conservativi funzionano da freno rispetto al naturale processo di sviluppo verso il quale – attraverso la successione di stadi evolutivi (teoria degli stadi di Rostow, 1962) – devono tendere le società locali. Nella seconda troviamo le teorie della dipendenza, che nascono contestando gli assunti parsonsiani e mettono al centro delle spiegazioni della marginalità non il fattore culturale, ma quello economico, insieme alla dinamica relazionale tra centri e periferie dello sviluppo. La marginalità non è il punto di partenza di un processo evolutivo naturale, bensì l’esito di un processo storico che ha agito in modo negativo sulle strutture economiche e produttive delle aree periferiche. Le aree marginali vengono espropriate di risorse naturali e della migliore forza lavoro durante il processo di concentrazione dello sviluppo e subiscono una relazione di dipendenza dalle aree più
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forti attraverso il meccanismo dello scambio ineguale (Amin 1977): le aree centrali possiedono capitale, tecnologia e capacità commerciale, mentre le aree periferiche possiedono soltanto prodotti a basso valore aggiunto. Questo meccanismo di scambio induce la dinamica della marginalizzazione, attraverso le migrazioni del lavoro dalla periferia al centro e la sottodotazione delle aree periferiche di centri produttivi e di competenza. Alla dinamica economica si aggiunge la dipendenza culturale: le aree marginali assorbono valori e conoscenze proprie dei centri, che risultano autostigmatizzanti (senso di inferiorità). Le élite locali assumono i caratteri dei rentier del sottosviluppo, ponendosi in una logica estrattiva rispetto alle risorse locali e di subalternità rispetto agli appetiti esterni (Frank 1970). Una simile lettura è condivisa da Daron Acemoglu e James A. Robinson (2013), pur essendo la loro impostazione non ascrivibile alla teoria della dipendenza ma al neo-istituzionalismo economico. Essi individuano nel ruolo delle élite locali e delle istituzioni estrattive presenti nelle aree marginali l’impossibilità di produrre cambiamento. Sono estrattive quelle istituzioni il cui solo scopo, manifesto o latente, è la conservazione del potere acquisito nel tempo dalle élite dominanti. Le élite locali, per conservare potere, traggono legittimazione dai meccanismi del sottosviluppo, riproducendolo in alleanza con le élite esterne. Quella dei due autori è una spiegazione che fa sintesi delle teorie della modernizzazione e della dipendenza, individuando sia nelle relazioni interno-esterno sia nella qualità delle istituzioni locali le cause della marginalità. Echi di questo approccio si trovano anche nelle teorie dello sviluppo endogeno, che mettono al centro, tra le altre cose, il tema del capitale sociale e la qualità dei beni pubblici. Le chiavi interpretative della modernizzazione e della dipendenza sono state utilizzate su scale territoriali diverse, per spiegare il rapporto tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, quello tra Nord e Sud – in particolare nel contesto italiano, ma anche in altri paesi dove la dinamica nord-sud ha assunto connotati diversi: per esempio, in Germania tra Est e Ovest, in Cina tra Nord e Sud ma secondo una dinamica inversa rispetto a quella italiana, dove è il Sud a essere al centro di un processo di industrializzazione. Grazie al contributo degli studi spazialisti i due approcci sono stati utilizzati anche nello studio dei rapporti tra città e campagna: in particolare la scuola dei geografi marxisti ha prodotto molte analisi sul rapporto tra economia metropolitana ed economia periferica a partire da Slater (1975), che ha interpretato le disparità territoriali come frutto della trasposizione spaziale della divisione del lavoro, mentre gli approcci della modernizzazione hanno messo in luce aspetti legati alla cultura contadina e alla famiglia allargata rurale, indagando le differenze tra aree sulla base del principio della differenziazione funzionale. Per sintetizzare le due teorie in rapporto alla marginalità territoriale ci aiutiamo con una tabella di sintesi (Tab. 30.1), che ne mette in luce i principali caratteri. Nella terza casella della Fig. 30.1 troviamo le teorie dello sviluppo endogeno, ovvero quegli approcci che spiegano la marginalità a partire da fattori non generalizzabili di ogni singolo contesto territoriale. Essi si affermano nel momento in cui le teorie della modernizzazione e della dipendenza si dimostrano sempre meno capaci di interpretare in modo efficace la realtà. Nord-sud, sviluppo-sottosviluppo, centroperiferia, città-campagna, modernità-tradizione non sono più contrapposizioni suf-
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Tabella 30.1 Differenze tra le teorie della dipendenza e quelle della modernizzazione nell’approccio alla marginalità territoriale Teorie della modernizzazione
Teorie della dipendenza
Cause della marginalità
Fattori interni Arretratezza culturale
Scambi ineguali con l’esterno Subalternità economica
Cause delle disparità territoriali
Differenziazione funzionale
Trasposizione spaziale della divisione del lavoro
Definizione della marginalità
Arretratezza
Sottosviluppo Perifericità
Soluzioni alla marginalità
Modernizzazione
Auto-determinazione
ficienti per spiegare le disparità territoriali. In particolare in Italia è l’emergere di un terzo modello rispetto alla distinzione tra Nord e Sud a rompere la capacità euristica dei modelli dicotomici. Si tratta della cosiddetta Terza Italia (Bagnasco 1977), caratterizzata da specializzazione produttiva, diffusione della piccola impresa, rapporti di lavoro diversificati, nella quale convivono una molteplicità di figure sociali e professionali che va oltre la classica dicotomia fra capitalisti e lavoratori. Si tratta di aree rurbane, dove si riscontra un’ibridazione tra urbano e rurale che coinvolge gli stili di vita, i modi di produzione, la relazione con l’ambiente. Questi studi mettono al centro delle spiegazioni le risorse cognitive, ovvero la presenza di conoscenze tacite e di saper fare diffuso; l’esistenza di subculture politiche territoriali, tali da plasmare il modello delle relazioni di produzione; la qualità e la natura delle istituzioni locali, che possono più o meno facilitare lo sviluppo; la dotazione di capitale sociale localizzato (Coleman 1990). La marginalità territoriale si manifesta nel momento in cui un’area non è in grado di creare valore a partire dalle risorse locali, siano esse cognitive, sociali o materiali. Questa incapacità può derivare da debolezze delle istituzioni e/o dalla scarsa dotazione di capitale sociale e civico, ossia sfiducia e scarso radicamento (embeddedness dell’azione economica), che ostacolano l’agire collettivo secondo schemi di cooperazione reciproca e la produzione di beni pubblici (Barbera 2001). Nella quarta casella della Fig. 30.1 sono collocate le teorie dei reticoli sociali, che interpretano la marginalità come il risultato dell’incapacità di instaurare relazioni interno-esterno stabili e leali. Individuano perciò in dinamiche relazionali asfittiche e dominate da opportunismo sia nel contesto locale sia in quello più vasto le spiegazioni alle disparità territoriali. Esistono due accezioni di rete nello studio delle dinamiche territoriali, una positiva e una metaforica. Quella positiva rappresenta l’insieme degli elementi fisici e infrastrutturali che determinano la strutturazione dello spazio geografico ed economico, organizzato a seconda delle interconnessioni tra luoghi. La seconda concezione viene utilizzata per rappresentare le relazioni tra gli attori. Dematteis (2002) distingue un duplice livello di rete: quello globale (o sovralocale), nel quale le reti connettono più nodi appartenenti a sistemi territoriali differenti; quello locale, in cui le relazioni si instaurano tra soggetti diversi,
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III – Temi e percorsi di ricerca
Tabella 30.2 Differenze tra le teorie dello sviluppo endogeno e quelle dei reticoli sociali nell’approccio alla marginalità territoriale Teorie dello sviluppo endogeno Teorie dei reticoli sociali Cause della marginalità
Fattori interni Relazioni interne e con l’esterno Incapacità di valorizzazione delle Auto-contenimento delle relazioni risorse locali
Cause delle disparità territoriali
Carenza di capitale sociale, istituzioni e substrato culturale
Densità della rete Estensione della rete
Definizione della marginalità
Sottoutilizzo e sottodotazione
Isolamento Perifericità
Soluzioni alla marginalità
Investimento su competenze e risorse locali
Connessione fra reti lunghe e reti corte
ma sono auto-contenute in un sistema locale territoriale. I sistemi auto-contenuti sono caratterizzati da reti sociali molto dense, che non consentono interscambi e collegamenti con le reti sovralocali. L’esistenza di un livello locale isolato può portare a due situazioni: l’autosufficienza, in cui il territorio raggiunge una capacità di auto-organizzazione tale da non necessitare interferenze con l’esterno (situazione puramente teorica); la marginalità, dove l’auto-contenimento non voluto è fonte di decadimento e deperimento del sistema locale. Analogamente Mela (2006) distingue tra reti continue/discontinue e alta/bassa densità. Le situazioni di marginalità territoriale sono caratterizzate dalla prevalenza di reti continue e dense (reti comunitarie tradizionali): continue perché la rete tende a essere contenuta in uno spazio geografico locale, contraddistinto da continuità tra le persone che lo costituiscono; dense perché le relazioni tra i soggetti che compongono la rete sono ridondanti. Molto probabilmente la maggioranza di questi legami è forte, non dotata perciò della paradossale forza dei legami deboli (Granovetter 1998), che sono propensi a ramificarsi conferendo alla rete dinamicità e apertura. La teoria delle reti mette al centro il tema dell’intermediazione, come appartenenza simultanea alla rete globale e a quella locale e come attivazione di legami tra i due piani. Dalla connessione tra reti spaziali differenti si può innescare un processo di mutamento. Per sintetizzare le due teorie ci aiutiamo con una tabella (Tab. 30.2).
30.3 Due esempi di ricerche Le ricerche sul campo intorno al tema della marginalità territoriale sono soltanto parzialmente riconducibili ai filoni teorici esposti. Esse hanno privilegiato, soprattutto in anni recenti, la mappatura delle aree marginali a partire dall’individuazione di alcuni indicatori attraverso i quali costruire indici di marginalità a livello comunale. L’individuazione delle variabili sottende però un’ipotesi teorica. Proviamo a confrontare due approcci differenti, scaturiti dalla scelta di indicatori diversi:
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1) la ricerca sulla fragilità territoriale nel Nord Italia realizzata dall’unità di ricerca dell’Università di Trieste, coordinata da Giorgio Osti, nell’ambito dei fondi PRINMIUR 2004-2006 Reti sociali e sostenibilità nelle aree rurali remote1; 2) la mappatura sulle Aree Interne prodotta dal Dipartimento Politiche di Sviluppo della Presidenza del Consiglio come base per la strutturazione della politica di sviluppo denominata Strategia Nazionale per le Aree Interne. 30.3.1 La fragilità territoriale nel Nord Italia La ricerca si limita al Nord Italia e parte da questa domanda: poiché la modernità è penetrata anche nelle aree più remote e nei contesti demograficamente più deboli, rischiando di accentuare forme di individualismo esasperato e uno sfruttamento di beni ambientali, quale socialità e quale sostenibilità sono possibili nelle aree fragili dell’Italia del Nord? Per rispondere al quesito la ricerca si dota di un essenziale apparato concettuale, che ruota intorno a mobilità e reciprocità, al fine di tracciare un profilo della socialità nelle aree marginali. L’incrocio tra le due categorie considerate sulla base della loro forza o debolezza porta a individuare quattro tipi ideali di socialità: le società liquide, reticolari, marginali e auto-contenute. La società marginale è quella in cui le persone sono molto statiche e hanno poche occasioni di socialità; società doppiamente penalizzate, nelle quali la vicinanza fisica, la prossimità, non basta a creare cemento sociale, solidarietà, mutuo aiuto, senso di comunità. Gli esempi concreti più vicini a questo idealtipo sono sia i quartieri più degradati delle città sia le aree rurali remote nelle quali la popolazione è anziana e gli insediamenti rarefatti. Per verificare le interferenze tra tipi di socialità e sostenibilità ambientale, la ricerca procede in tre diverse direzioni di analisi: la rilevanza empirica dei quattro tipi ideali nelle aree fragili; la loro dinamica nel tempo; le implicazioni di ciascun tipo sociale per la sostenibilità ambientale. Lo studio passa così a tratteggiare la morfologia delle aree fragili sotto il profilo sociale e ambientale. Per individuarle viene realizzata una mappa dei comuni dell’Italia settentrionale secondo l’indice congiunto della variazione demografica intercensuaria (1991-2001) e del reddito imponibile pro-capite (1998) (Fig. 30.2). Le aree più fragili – quelle rappresentate dalla tonalità più chiara – sono individuabili nelle aree di crinale e nelle valli laterali dell’Appennino e di alcune vallate alpine, nelle aree di collina piemontesi e nelle aree padane centrali, che hanno un retaggio economico agricolo e una storia di alluvioni e bonifiche. Individuate le aree sulle quali applicare i tipi sociali che guidano l’analisi, la ricerca isola alcuni indicatori proxy di mobilità e reciprocità. Rispettivamente vengono utilizzati i dati del censimento della popolazione sul pendolarismo e quelli sulla grandezza media della famiglia. La scelta di usare la grandezza media della famiglia si giustifica con il fatto che è un indicatore del peso sociale di un’istituzione che rappre-
1
Per approfondire la ricerca, qui esposta in modo conciso, si veda Osti (2004-2005).
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III – Temi e percorsi di ricerca
Figura 30.2 Morfologia delle aree fragili del Nord Italia, per comune
Nota: la mappa è realizzata secondo l’indice congiunto della variazione demografica intercensuaria (1991-2001) e del reddito imponibile pro-capite (1998) e scaturisce dalla somma dei due indici standardizzati e le classi di ampiezza dell’indice somma sono state formate secondo il metodo di default di Arcview natural breaks. Fonte: G. Osti (a cura di), Aree fragili e sostenibilità ambientale, numero monografico di Sviluppo Locale, XI(27), 20042005, p. 14.
senta per eccellenza i rapporti di reciprocità. Ovviamente non considera i rapporti che un singolo attore intrattiene con la società più vasta, che sono però difficili da cogliere. La famiglia forte sembra un contraltare alla liquidità dei rapporti sociali. Resta un indicatore parziale: in certi contesti di familismo amorale funziona addirittura come indicatore di reciprocità ristretta, quel bonding social capital di cui parla Robert Putnam (2000). Per il pendolarismo i problemi sono minori. Un elevato numero di persone che si spostano per lavoro o studio è un indicatore di mobilità spaziale. Anch’esso presenta alcuni difetti interpretativi: potrebbe indicare perifericità, ma anche apertura verso l’esterno. Trattando con cautela le due variabili, la ricerca arriva a costruire uno schema (Fig. 30.3) che posiziona i sistemi locali del lavoro (SLL) corrispondenti alle aree marginali individuate nella Fig. 30.2 sulla base del tasso di pendolarismo e della dimensione media dei nuclei familiari. I SLL considerati sono Cortemilia (CN), che rappresenta la marginalità delle aree collinari piemontesi; Verzuolo, in rappresentanza delle valli alpine del cuneese; Viadana e Asola (MN), che comprendono comuni della bassa mantovana ritenuti rappresentativi della fragilità padana; Adria e Badia (RO) e Copparo (FE) per la problematica situazione nella parte terminale del fiume Po. Altri SLL rimandano alla marginalità della montagna: Bobbio (PC), Bedonia (PR) e Varzi (PV) sono collocati sulla dorsale appenninica, mentre Tolmezzo (UD), Amaro (UD) ed Edolo (BS) si trovano nelle Alpi centro-orientali.
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Figura 30.3 Collocazione dei sistemi locali del lavoro delle aree fragili: incrocio fra grandezza media della famiglia e pendolarismo medio-lungo
Bobbio
tassopen
40,00
Varzi
30,00 Copparo Adria
Cortemilia Ampezzo Bedonia
Edolo
20,00
Tolmezzo Verzuolo
Badia Polesine Viadana Asola
10,00 1,80
2,00
2,20
2,40
2,60
2,80
fammedia Nota: per pendolarismo medio-lungo si intende il rapporto percentuale tra il pendolarismo oltre i 30 minuti e il totale dei pendolari. Fonte: G. Osti (a cura di), Aree fragili e sostenibilità ambientale, numero monografico di Sviluppo Locale, XI(27), 20042005, p. 19.
Dallo schema emergono le società auto-contenute, dove le famiglie sono grandi e i tassi di pendolarismo sono bassi (Viadana, Asola, Badia Polesine); spiccano Varzi e Bobbio come emblemi della marginalità liquida, dove il pendolarismo è esasperato e sono molte le famiglie mononucleari. Gli altri SLL rimangono su posizioni meno estreme, ma tuttavia diversificate: a indicare che in seno al fenomeno della marginalità territoriale esistono discrete differenziazioni, che possono portare a spiegazioni e soluzioni differenziate per quanto riguarda il raggio di azione delle politiche pubbliche. La ricerca si conclude con un confronto tra i tipi sociali e la sostenibilità ambientale, delineando quattro scenari evolutivi della marginalità territoriale. Il primo vede l’incedere della società liquida, dove il futuro di molte aree marginali si gioca su un incremento della mobilità e una residenzialità intermittente. Questo significa un incremento dell’impronta ecologica degli individui che vivono nelle aree fragili, ma una diminuzione del carico ecologico (Bagliani 2006) su queste aree, che rimangono spazi residuali a residenzialità debole. Il secondo vede l’irrobustirsi delle reti sovralocali, dove giovani molto mobili mediano con lo spazio esterno e sono capaci
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di attrarre risorse connettendo domini locali con mercati sovralocali. In questo caso sia il carico sia l’impronta ecologica nelle aree marginali sono destinate a crescere. Il terzo caso va nella direzione del destino ecologico, una situazione nella quale conviene alla società tutta che le aree marginali incedano verso un ulteriore spopolamento e marginalizzazione. Solo a livello teorico le aree marginali diminuirebbero carico e impronta ecologica come conseguenza della rivincita della natura sull’uomo. Infatti, il destino ecologico fa venire meno il presidio del territorio. Le conseguenze sono due: l’esposizione delle aree marginali a una nuova dipendenza dai centri, per lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali; il deterioramento di ambiente e paesaggio che, plasmati dalla presenza antropica da centinaia di anni, non sono in grado di riprodursi in modo autonomo, generando dissesto idrogeologico e riduzione della biodiversità. Il quarto scenario va verso la chiusura dei cicli produttivi: rafforzamento delle relazioni interne rispetto a quelle esterne, ovvero la società auto-contenuta. In termini ambientali, ciò significa maggiore carico ecologico, perché aumentano i costi ambientali della produzione di merci e servizi attraverso risorse interne, ma minore impronta, poiché l’attenzione all’interno dovrebbe generare comportamenti più attenti alla sostenibilità. 30.3.2 La Strategia Nazionale per le Aree Interne La Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) definisce le aree marginali come Aree Interne. La politica pubblica scaturisce da un lavoro analitico che contempla sia un’interpretazione teorica della marginalità, sia una rilevazione del fenomeno a partire dalla classificazione dei comuni italiani. La lettura che fa la SNAI rimanda, rispetto allo schema interpretativo, sia alla visione neo-istituzionalista riconducibile alle teorie dello sviluppo endogeno, sia – nella lettura storica – alle teorie della dipendenza, ritenendo le Aree Interne marginalizzate a causa del rapporto ineguale con quelle urbane. La condizione attuale di queste aree infatti viene interpretata come l’esito di un processo di marginalizzazione che si è manifestato attraverso lo spopolamento, la riduzione dei livelli occupazionali e il progressivo sottoutilizzo del capitale territoriale, la riduzione quantitativa e qualitativa dell’offerta locale di servizi collettivi, siano essi privati o pubblici. A questo processo hanno contribuito, e da esso hanno tratto profitto, i cosiddetti nemici delle Aree Interne. Si tratta di quegli attori privati e pubblici che hanno estratto risorse – costruendo posizioni di rendita significative – anziché innovare. Sono stati realizzati interventi – discariche, cave, impianti per l’energia eolica o l’utilizzazione di biomasse e altro ancora – che non hanno generato benefici locali di rilievo. Si è trattato di modalità d’uso del territorio alle quali le amministrazioni locali hanno in genere acconsentito per il fatto di trovarsi in condizioni negoziali di debolezza a causa della scarsità di fonti di finanziamento/investimento. Ma nemici delle Aree interne si possono considerare anche i fautori di un comunitarismo locale chiuso, che si oppone alle iniziative dei soggetti portatori di innovazione e costruttori di ponti verso altre comunità e altri territori (DPS 2013).
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L’individuazione empirica delle Aree Interne si basa sulla differente capacità di accesso dei cittadini ai servizi di cittadinanza, dove la distanza rispetto a un centro erogatore di servizi è proxy della qualità e quantità di servizio garantito. La mappatura giunge a una lettura policentrica del territorio italiano, caratterizzato da una rete di comuni o aggregazioni di comuni (centri di offerta di servizi) intorno ai quali gravitano aree caratterizzate da diversi livelli di perifericità spaziale. Il carattere di «centro di offerta di servizi» è riservato solo ed esclusivamente a quei comuni, o aggregati di comuni confinanti, in grado di offrire simultaneamente tutta l’offerta scolastica secondaria, ospedali sedi di DEA di I livello2 e stazioni ferroviarie Platinum, Gold o Silver3. L’introduzione del servizio ferroviario, insieme a due servizi essenziali quali l’istruzione e la salute, si spiega con il valore che la mobilità ferroviaria ha rivestito in questo paese. Si reputa pertanto fondante la presenza di una stazione ferroviaria di qualità media nella rete dei centri di offerta di servizi. Un limite da considerare a questo stadio dell’analisi è che i centri di offerta di servizi sono selezionati facendo riferimento all’offerta del servizio stesso, senza tenere conto dei livelli di qualità degli stessi. L’ipotesi portante è dunque quella che identifica in prima istanza la natura di Area Interna nella lontananza dai servizi essenziali. Da notare che Area Interna, in questa concezione, non è necessariamente sinonimo di «area debole». Solo attraverso l’esame delle caratteristiche e della dinamica della struttura demografica e socio-economica delle aree individuate si potrà avere una lettura completa dei diversi percorsi di sviluppo territoriale. Nel paese esiste infatti un panorama molto differenziato di Aree Interne. In alcune le capacità particolarmente spiccate degli attori locali, insieme ai molti interventi di policy che si sono susseguiti a partire dagli anni Ottanta, hanno permesso di trasformare la perifericità in un elemento da valorizzare, innescando interessanti processi di sviluppo, attraverso il coinvolgimento delle comunità locali e riuscendo a frenare il drenaggio della popolazione. La metodologia proposta si sostanzia in due fasi principali: 1) individuazione dei poli, secondo un criterio di capacità di offerta di alcuni servizi essenziali; 2) classificazione dei restanti comuni in quattro fasce, in base alle distanze dai poli misurate in tempi di percorrenza di un mezzo privato: aree peri-urbane; aree intermedie; aree periferiche; aree ultra periferiche. La mappatura finale risulta quindi principalmente influenzata da due fattori: i criteri con cui selezionare i centri di offerta di servizi e la scelta delle soglie di distanza per misurare il grado di perifericità delle diverse aree. A tale proposito, la classificazione dei comuni è stata ottenuta sulla base di un indicatore di accessibilità calcolato in termini di minuti di percorrenza rispetto al polo più pros2 L’ospedale sede DEA (Dipartimenti di Emergenza Urgenza e Accettazione) di I livello rappresenta un’aggregazione funzionale di unità operative che, oltre alle prestazioni fornite dal Pronto Soccorso, garantisce le funzioni di osservazione, breve degenza e rianimazione e realizza interventi diagnosticoterapeutici di medicina generale, chirurgia generale, ortopedia e traumatologia, terapia intensiva di cardiologia. Inoltre assicura le prestazioni di laboratorio di analisi chimico-cliniche e microbiologiche, di diagnostica per immagini e trasfusionali. 3 Per la classificazione delle stazioni secondo RFI si rimanda a http://www.rfi.it/rfi/LINEE-STAZIONI-TERRITORIO/Le-stazioni/Vivibilit%C3%A0-e-fruibilit%C3%A0/La-classificazione-delle-stazioni-ferroviarie.
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simo. Le fasce che si ottengono sono determinate usando il secondo e terzo quartile della distribuzione dell’indice di distanza in minuti dal polo prossimo, pari circa a 20 (aree intermedie) e 40 (aree periferiche) minuti. È stata poi inserita una terza fascia, oltre 75 minuti, pari al 95-esimo percentile, per individuare i territori ultra periferici. La mappa Aree Interne (2 Fig. 30.D1) rappresenta i comuni italiani suddivisi in base al loro grado di perifericità rispetto ai centri di offerta di servizi, in colore rosso. Abbiamo i comuni cintura (arancioni) e i comuni distinti in intermedi, periferici e ultraperiferici secondo le diverse gradazioni del colore verde. La costruzione di questo indicatore non ha soltanto una valenza analitica, ma risponde all’esigenza di programmare e attuare una politica pubblica. A partire dalla mappatura, la Strategia Aree Interne ha individuato 66 aree4 sulle quali concentrare gli interventi e le risorse, definite sulla base di indicatori che ne attestano l’involuzione economica e sociale e criteri di omogeneità territoriale e contiguità amministrativa. Sul funzionamento di questa politica pubblica, che rappresenta un caso di applicazione dell’approccio place-based (Barca 2009; Carrosio 2016) alle politiche di sviluppo territoriale, si rimanda al 2 Box 30.1.
30.4 Le problematiche emergenti Le disparità territoriali hanno sempre suscitato grandi preoccupazioni nei governi nazionali. L’esistenza di forti differenze fra regioni di uno stesso paese rappresenta un vulnus non solo per i principi della democrazia sostanziale (effettiva parità di accesso al lavoro e ai servizi) ma anche per la costruzione del consenso politico. Un partito che voglia assumere una leadership nazionale deve godere di consensi ampi in ogni parte del paese. In caso contrario si formano delle tendenze secessioniste o emergono partiti regionali che rendono la formazione dei governi laboriosa e fortemente incline allo scambio di breve raggio (Trigilia 1986). In questi termini, si può per esempio leggere la dinamica italiana degli ultimi sessant’anni: dapprima si sono impostate grandi politiche nazionali di tipo infrastrutturale (elettrificazione ed edilizia rurale, autostrade, poli industriali) nel tentativo di colmare ampie sperequazioni fra Nord e Sud del paese. Vi è da dire che l’azione perequativa più incisiva fu dovuta non tanto alle policy, quanto all’emigrazione, che ridusse la disoccupazione, incrementò i bilanci familiari con le rimesse e sprovincializzò le aree remote con i migranti di ritorno. Poi con la nascita delle regioni e con il parallelo rafforzamento dell’Unione Europea si è guardato di più alle differenze interne alle regioni, in particolare alla povertà di mezzi del settore agricolo e al potenziamento della pubblica amministrazione locale. Per la prima, ciò ha comportato ampi sussidi alla meccanizzazione agricola; per il secondo, assunzioni negli enti locali e nelle società da questi partecipate. In questa seconda fase è interessante notare 4 Si tratta di aree che hanno una dimensione media di 15 comuni e 29.000 abitanti. La varianza è però elevata: l’area più piccola ha 3 comuni (area del Tesino, nella P.A. di Trento), mentre l’area più grande ha 33 comuni (Basso Sangro Trigno, in Abruzzo).
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che la marginalità economica veniva identificata con la prevalenza del settore agricolo. L’Unione Europea nel suo intento perequativo ha in qualche modo avallato questo cliché usando gran parte del suo bilancio proprio per il primario. In realtà, anche in questo caso le policy sono state meno incisive di fenomeni spontanei come l’industrializzazione delle campagne (Esposti e Sotte 2001). Possiamo individuare una terza fase delle politiche territoriali a scopo perequativo: è quella dello sviluppo locale, che trova nell’Iniziativa Comunitaria LEADER la propria forma istituzionale. Essa si basa su tre principi: auto-delimitazione dei territori a partire da un accordo fra soggetti pubblici e privati; introduzione del cofinanziamento fra Unione Europea, enti locali e imprese economiche; competizione fra territori in base alla plausibilità e robustezza di un progetto di sviluppo. Come si può notare, vi è un ribaltamento della prospettiva: non sono le autorità nazionali o regionali a stabilire aree, fini e mezzi di intervento, ma libere associazioni pubblicoprivate locali. È il cosiddetto approccio bottom-up. Oltre a una certa dose di autogoverno, vi è anche uno spostamento di interesse fra settori: non più solo e soltanto quello agricolo, ma anche quello turistico-artigianale e infine quello dei servizi alla popolazione. Diremo anche che viene privilegiata l’intersettorialità; il caso emblematico è l’agriturismo, che trova nella trama insediativa molto diffusa dell’Italia e in una certa nostalgia per il mondo rurale il terreno ideale per proliferare. Questa rapida rassegna delle politiche di perequazione territoriale insegna due cose: la prima è che le analisi della marginalità variano nel tempo; esse sono condizionate da modelli che riguardano il giusto equilibrio fra città e campagna. In tal senso vi sono state oscillazioni rilevanti nel modo di concepire l’agricoltura e le attività del primario. Per un lungo periodo, è stata l’Unione Europea a ricordare all’Italia di avere una poderosa tradizione enogastronomica. Altra oscillazione ha riguardato l’autonomia locale: questa non si è sviluppata solo in termini di decentramento, ma anche di combinazione fra livelli politico-amministrativi. Primo fra tutti va menzionato il connubio fra regioni e Unione Europea nella gestione delle ultime generazioni di LEADER. Una riedizione è invece la menzionata Strategia per le Aree Interne che ripropone un rapporto privilegiato fra governo nazionale ed entità subprovinciali. Tutte queste combinazioni di livelli di governo non devono far dimenticare quella storica di più lungo periodo, che riguarda la città e il suo contado: un blocco territoriale relativamente autosufficiente che persiste in paesi di antica urbanizzazione come l’Italia. Allora emerge un problema conoscitivo e politico per le aree marginali: sia l’incapacità di riconoscere i condizionamenti derivanti dalla trama insediativa, assai variabile in Italia, sia quella di promuovere politiche di sviluppo e perequative che assecondino movimenti spontanei delle popolazioni locali piuttosto che seguire cliché imposti da mode culturali. Questo compito è molto difficile. Ma lo si può spiegare con un esempio finale. Le politiche hanno dapprima sussidiato le aziende agricole, poi quelle agrituristiche, infine gli agri-asili. Ciò ha avuto indubbiamente il merito di ridurre l’esodo dalle campagne e dalle aree remote. Tuttavia, la tendenza spontanea delle popolazioni urbane e rurali è stata quella di conservare una fitta trama di scambi di beni e servizi in mercati che qualcuno ora chiama nested markets (van
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der Ploeg, Jingzhong e Schneider 2012). In altre parole, mentre le politiche insistevano sulla modernizzazione delle aziende, l’innovazione più rilevante consisteva nella formazione di mercati nidificati, ossia a corto raggio, attenti alla qualità dei prodotti, connotati da impliciti principi etici, non disgiunti da preoccupazioni per la conservazione di commons, come l’ambiente, la scuola locale, il patrimonio storico-artistico minore. In conclusione, un problema cognitivo (cosa sono le aree marginali) e politico (cosa fare per cambiarne il destino) diventa l’occasione per una lezione metodologica, quale dovrebbe emergere da un manuale: conservare un forte senso critico verso le mode culturali, usare una pluralità di metodi di ricerca, cogliere ecologicamente le tendenze spontanee delle popolazioni per cucirvi sopra un vestito politico non troppo stretto e pur sempre bello.
Letture di approfondimento Calvaresi C. (a cura di) (2015). Una strategia nazionale per le aree interne: diritti di cittadinanza e sviluppo locale, numero monografico di Territorio, n. 74. Corrado F., Dematteis G. (a cura di) (2016). Riabitare la montagna, numero monografico di Scienze del Territorio, n. 4. Lancerini E. (2005). Territori lenti: contributi per una nuova geografia dei paesaggi abitati italiani, numero monografico di Territorio, n. 34. Osti G., Bock B. (a cura di) (2016). Il welfare fragile delle aree rurali europee, numero monografico di Sociologia e Politiche Sociali, n. 3. Provenzano V. (2009). Il valore della marginalità in un mondo conformista. Un diverso modo di pensare lo sviluppo, Roma, Carocci.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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31 Il dualismo Nord-Sud di Maurizio Avola
31.1 Inquadramento empirico: i termini del divario Come già sottolineato nel capitolo precedente, il tema delle disparità territoriali in termini di sviluppo socio-economico all’interno di uno stesso contesto nazionale rappresenta un oggetto di studio di grande rilevanza per le scienze sociali in generale e per la sociologia in modo particolare. Tanto in una prospettiva di sociologia economica in senso ampio, quanto in una prospettiva di sociologia dello sviluppo e della modernizzazione in senso stretto (Bottazzi 2009; Trigilia 2009; Martinelli 2010), esiste un’ampia e consolidata tradizione di studi e di ricerche che ha cercato di fare emergere il ruolo giocato dai fattori socio-istituzionali nel determinare differenti traiettorie di sviluppo, guardando non solo ai rapporti tra stati nazionali o tra aggregazioni geografiche e politico-economiche sovranazionali diverse (paesi avanzati vs paesi arretrati), ma anche alle differenziazioni interne a unità politiche omogenee, come per l’appunto uno stato nazionale. I casi di divari regionali sono diffusi soprattutto nei paesi che stanno attraversando un rapido sviluppo economico, poiché ci sono molteplici ragioni che possono generare inizialmente una concentrazione della crescita solo in alcune aree (disponibilità di materie prime e fonti di energia, posizione geografica e infrastrutturazione, politiche industriali selettive ecc.) e determinare processi di agglomerazione che tendono poi ad auto-alimentarsi (attrazione di investimenti, capitale umano ecc.). La Cina, per varie ragioni, è forse il caso oggi più eclatante da questo punto di vista1. Le differenze possono anche persistere nel tempo, ma generalmente tendono ad appiattirsi al crescere del livello di sviluppo di un paese. In effetti, non mancano esempi di divari territoriali nei paesi sviluppati più vicini a noi, come la Spagna. Probabilmente, però, nessuno è paragonabile per dimensioni e persistenza nel tempo a quello italiano tra Nord e Sud2. D’altronde, su tale divario o dualismo, sulla sua natura e perQui le differenze rilevanti corrono da Est, dove si trovano le regioni più industrializzate (Guangdong su tutte) e i grandi poli di attrazione del terziario avanzato (Pechino, Shanghai e aree limitrofe), a Ovest, con l’area interna che è rimasta ai margini dello sviluppo cinese degli ultimi decenni. 2 Convenzionalmente le venti regioni italiane sono distribuite tra tre diverse macro-aree: il Sud (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia), il Centro (Lazio, Marche, Toscana, Umbria) e il Nord, a sua volta spesso suddiviso in Nord-Ovest (Liguria, Lombardia, Piemonte e Valle d’Aosta) e Nord-Est (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige e Veneto). Rispetto alla questione trattata in questo capitolo, quindi, il Centro viene 1
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sistenza nel tempo, si sono esercitati a lungo numerosi studiosi, tanto italiani quanto stranieri, e sono stati scritti centinaia di libri e articoli scientifici, alcuni dei quali diventati veri e propri best seller delle scienze sociali, letti e citati in tutto il mondo (come La tradizione civica nelle regioni italiane di Robert Putnam o Le basi morali di una società arretrata di Edward Banfield), a dimostrazione di una rilevanza del tema che va ben al di là dei ristretti confini della penisola. A riprova della specificità del caso italiano nel panorama internazionale basta citare qualche semplice dato. Il primo riguarda l’indicatore più noto e utilizzato, ancorché contestato, per misurare lo sviluppo economico: il prodotto interno lordo (2 Box 31.1). Come si può facilmente dedurre dalla Fig. 31.1, nessun altro paese europeo presenta una variabilità interna del PIL pro-capite a livello regionale (NUTS-2) simile a quella italiana. Nella maggior parte dei paesi vi sono poche eccezioni (per esempio, le regioni della capitale) all’interno di situazioni nazionali particolarmente omogenee. In altri, come la Spagna, la distribuzione regionale è piuttosto articolata 3. Solo in Italia, però, è evidente una frattura netta tra le regioni del Mezzogiorno e il resto del paese: al Sud il PIL pro-capite si colloca nel gruppo inferiore, superato in molti casi anche da regioni dell’Europa dell’Est; nel Centro-Nord si registrano performance superiori alla media UE-28 e alcune regioni (Lombardia, Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta) viaggiano su livelli non dissimili da quelli delle regioni più ricche del vecchio continente. Solide conferme in questa direzione vengono da apposite ricerche che hanno calcolato specifici indici di disuguaglianza regionale del PIL per abitante anche a livello OECD (Iuzzolino 2009). La situazione non cambia se si utilizza un altro indicatore particolarmente importante per valutare il differenziale di sviluppo tra diverse aree, ovvero il tasso di occupazione. Considerando le quasi 300 regioni europee, quattro delle ultime sei per tasso di occupazione appartengono al Sud Italia (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia), con valori intorno al 40 per cento, mentre le regioni del Centro-Nord (Lazio escluso) raggiungono livelli occupazionali vicini o superiori alla media europea (65 per cento). Ancora una volta, in ottica comparata non esiste una variabilità interna simile a quella italiana, come dimostra il fatto che da anni a livello europeo il nostro paese presenta il più elevato tasso di dispersione regionale dell’occupazione, circa il doppio di quello della Spagna, che si colloca in seconda posizione (si veda anche la 2 Fig. 31.D1). Mettendo da parte la comparazione internazionale e limitandosi d’ora in poi a rimanere all’interno dei confini nazionali, va evidenziato che il divario tra il Mezzogiorno e il resto d’Italia è significativo anche andando al di là di un indicatore sintetico e controverso di sviluppo come il PIL o di quelli più strettamente legati al mercato del lavoro: Cersosimo e Nisticò (2013), per esempio, mostrano inequivocabilmente
talvolta considerato una macro-area intermedia, talvolta incluso all’interno del più ampio Nord in contrapposizione al Sud, talvolta associato al Nord-Est, finendo per costituire quella che è stata definita Terza Italia (sul punto si avrà modo di tornare ampiamente nel prosieguo del capitolo). 3 Oltre alla regione di Madrid, spiccano da un lato il Nord-Est, con Catalogna e Paesi Baschi che hanno un PIL per abitante superiore alla media europea, e dall’altro il Sud, con Andalusia ed Estremadura che restano molto al di sotto.
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Figura 31.1 PIL pro-capite (a parità di potere d’acquisto) a livello regionale (NUTS-2) in % sulla media UE-28 (2014)
Fonte: elaborazione su dati Eurostat.
come il divario sul piano dei diritti civili, misurati in termini di accesso a servizi (scuola, sanità, giustizia, assistenza ecc.) che non dovrebbero essere differenziati all’interno di un medesimo stato, sono talvolta più ampi di quelli economici. In effetti, è realmente difficile individuare qualche misura dello sviluppo socio-economico che non veda costantemente, e di gran lunga, il Sud penalizzato rispetto al Centro e soprattutto al Nord: ciò vale sia per gli indicatori alternativi elaborati a livello internazionale, come lo Human Development Index, sia per quelli nazionali, come dimostra la misurazione del Benessere Equo e Sostenibile (BES) sviluppata dall’Istat (si vedano il 2 Box 31.2 e l’Appendice statistica online). L’analisi per macro-aree è utile in quanto permette di rappresentare in modo semplice il divario interno al paese. Tuttavia, non bisogna dimenticare che esistono rilevanti differenze interne alle macro-aree stesse, tanto al Sud quanto al CentroNord. Si tratta sia di differenze tra regioni, sia di differenze che hanno origine da
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altri cleavage territoriali, come quelli tra aree urbane e rurali, centrali e periferiche, costiere, pianeggianti e montane (si veda il cap. 30).
31.2 Le spiegazioni delle origini e della persistenza del dualismo territoriale Le evidenze empiriche fin qui analizzate ripropongono con forza le questioni interpretative che hanno animato il dibattito degli scienziati sociali sul dualismo territoriale nel nostro paese sin dalla fine del XIX secolo e che riguardano la spiegazione delle sue origini e della sua persistenza. In questo dibattito possiamo distinguere quattro principali filoni interpretativi. 31.2.1 L’eredità storica (origini del divario) La questione delle origini del divario economico Nord-Sud è stata dibattuta soprattutto dagli storici, i quali hanno incontrato significative difficoltà nel reperire fonti statistiche affidabili per la comparazione tra due aree che fino al 1861 mantennero assetti politici e amministrativi distinti. Sebbene un certo revisionismo filo-borbonico continui a rivendicare un primato socio-economico del Regno delle Due Sicilie rispetto al Regno di Sardegna alla vigilia dell’unificazione, secondo le ricostruzioni più accreditate il Nord sabaudo era, al momento dell’Unità d’Italia, più avanzato del meridione borbonico sotto diversi punti di vista. Lo era, per esempio, in termini di PIL pro-capite, come dimostrerebbero i calcoli di Felice (2013), che si spingono indietro nel tempo fino al 18714, sottolineando come all’epoca tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord vi fosse una differenza inferiore al 20 per cento. Potrebbe sembrare un divario minimo, e in effetti lo era. Tra l’altro, parlare di dualismo, almeno dal punto di vista strettamente economico, era improprio, se si considera che una regione come la Campania vantava livelli di reddito pro-capite inferiori solo a Lazio, Liguria e Lombardia, mentre la Sicilia si avvicinava all’Emilia Romagna. Ma, come tiene a sottolineare lo stesso Felice, ciò che maggiormente differenziava il paese non era il reddito in termini assoluti, ma la sua distribuzione, ben più disuguale nelle regioni meridionali che in quelle centro-settentrionali. In un’economia ancora prevalentemente agricola come quella dell’Italia post-unitaria si facevano pesantemente sentire le conseguenze di differenti forme di proprietà e conduzione della terra: nonostante alcune aree di agricoltura intensiva volta alle esportazioni fossero presenti anche al Sud, il latifondo dominava nelle regioni meridionali, con colture prevalentemente estensive e con i suoi pochi proprietari terrieri da cui dipendeva una massa di contadini poveri; nel Centro-Nord, invece, erano più diffuse tanto le imprese agricole capitalistiche, che si avvalevano di braccianti ed erano maggiormente impegnate in colture intensive e aperte all’innovazione, quanto Daniele e Malanima (2011) si spingono a calcolare il reddito pro-capite fino al 1861, verificando una sostanziale parità tra le due macro-aree, ma si tratta di stime particolarmente fragili e contestate.
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Figura 31.2 Reddito pro-capite per macro-aree. Numeri indice (Italia = 100). Anni 1871-2009 160
Nord-Ovest Nord-Est e Centro Mezzogiorno
150 140 130 120 110 100 90 80 70 60
1871
1891
1911
1931
1938
1951
1961
1971
1981
1991
2001
2009
Fonte: E. Felice, Perché il Sud è rimasto indietro?, Bologna, il Mulino, 2013, p. 101.
la mezzadria, una modalità che prevedeva che il proprietario cedesse la responsabilità della conduzione della terra al mezzadro (e di fatto a tutta la sua famiglia) con il quale avrebbe diviso poi il raccolto5. Di fatto, nel Mezzogiorno era più limitato il capitalismo agrario, che è il presupposto sia per la creazione di un surplus agricolo, sia per lo sviluppo di un orientamento imprenditoriale, o spirito borghese o del capitalismo (si vedano i Capp. 1 e 5). Se a ciò si aggiunge che nelle regioni meridionali la maggiore povertà limitava più che al Centro-Nord i consumi e che erano peggiori anche i livelli di alfabetizzazione, la speranza di vita, la dotazione infrastrutturale (strade e ferrovie innanzitutto), l’efficienza degli apparati amministrativi, ecco allora che appare più evidente che al momento dell’Unità vi era una significativa differenziazione di quelle che possono essere individuate come delle precondizioni dello sviluppo. Tra l’altro, la perifericità geografica rispetto ai paesi europei maggiormente industrializzati rappresentava per le regioni meridionali un onere non indifferente poiché significava maggiore distanza dai mercati di approvvigionamento e di sbocco e difficoltà a beneficiare degli effetti diffusivi (per contiguità territoriale) dello sviluppo. Ma basta ciò a spiegare quanto sarebbe avvenuto di lì a poco, ovvero un progressivo allontanamento del Sud dal resto del paese che si attenuerà, in parte, solo nel ventennio post bellico? Come mostra la Fig. 31.2, il divario minimo all’indomani dell’Unità crebbe lentamente fino all’inizio del Novecento, più rapidamente fino alla seconda guerra 5 Il bracciantato e la mezzadria erano presenti anche al Sud, ma la loro rilevanza rispetto al Centro-Nord era limitata, tanto dai rapporti semifeudali di produzione, quanto dall’assetto territoriale basato sulle agro-towns piuttosto che sull’urbanizzazione diffusa, che impediva lo sviluppo delle famiglie appoderate.
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mondiale. Questo divario diventa un abisso se si confronta il Mezzogiorno con il Nord-Ovest, l’area del triangolo industriale, storicamente la più ricca del paese. Ma nello stesso periodo si accentuò anche il divario tra Nord-Ovest e Centro-Nord-Est, macro-regione in posizione sempre più intermedia. Gli anni Cinquanta e Sessanta, quelli del miracolo economico italiano, ma anche della prima e più proficua fase della Cassa per il Mezzogiorno, rappresentarono invece l’unico periodo storico di lunga durata in cui il divario diminuì. Dagli anni Settanta in poi, infatti, il Mezzogiorno non solo non sarebbe più riuscito a ridimensionare il distacco dal Nord-Ovest, ma avrebbe anche significativamente accresciuto quello con il Centro-Nord-Est. In definitiva, la convergenza delle macro-aree centro-settentrionali ha finito per accentuare il dualismo italiano (si vedano anche le 2 Figg. 31.D2 e 31.D3 sulle serie storiche ricostruite dei tassi di occupazione e disoccupazione). Le dinamiche territoriali degli ultimi 150 anni, quindi, fanno sorgere una seconda domanda, ovvero quali siano le ragioni della persistenza nel tempo del divario NordSud e come mai il processo di unificazione politica, prima, e l’incessante processo di modernizzazione che ha portato l’Italia a collocarsi tra le maggiori potenze economiche mondiali, poi, non siano stati accompagnati da un’armonizzazione (o quantomeno un significativo avvicinamento) tra i livelli di sviluppo socio-economico del Sud e quelli del resto del paese. 31.2.2 Le relazioni economiche funzionali tra aree a diverso grado di sviluppo La spiegazione che più a lungo ha dominato il dibattito sulla questione meridionale è quella che attribuisce al concetto di dualismo una valenza interpretativa e non meramente descrittiva (Bonazzi, Bagnasco e Casillo, 1972; Palidda 2007): non si tratta, cioè, di un semplice divario tra due aree in termini di livelli di reddito, occupazione, consumi ecc., bensì di una condizione di sottosviluppo del Mezzogiorno come conseguenza della divisione internazionale (e nazionale) del lavoro, funzionale allo sviluppo del Nord. Si tratta di un’interpretazione che ha origine nel meridionalismo classico di inizio Novecento di Gramsci e Salvemini, secondo i quali lo stato unitario aveva favorito l’alleanza tra gli industriali del Nord e i grandi proprietari terrieri del Sud, determinando una maggiore concentrazione di investimenti finalizzati allo sviluppo nelle regioni settentrionali e alimentando invece il clientelismo ai fini di raccolta del consenso in quelle meridionali. Uno schema che si sarebbe riproposto anche nel secondo dopoguerra: ancora una volta le politiche industriali dello stato nazionale sarebbero funzionali allo sviluppo del Nord, mentre la spesa pubblica nel Mezzogiorno svolgerebbe la duplice funzione di sostenere elettoralmente i partiti di governo e alimentare i consumi del Mezzogiorno, che assume la funzione di fondamentale mercato di sbocco dei beni prodotti nelle regioni del Nord, alimentando un circolo vizioso che riproduce e amplifica il dualismo6. Questa 6 Questa interpretazione però non tiene conto che, al di là delle storture applicative, l’intervento straordinario segue i modelli economici mainstream del secondo dopoguerra, ispirati allo sviluppo dall’alto e alle teorie degli stadi.
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spiegazione, quindi, rientrerebbe all’interno dei rapporti di scambio tra aree forti e aree deboli, di dominio e subalternità, propri delle teorie della dipendenza e della riproduzione della marginalità (si veda il Cap. 30). Un simile schema analitico viene riproposto da chi, come Bagnasco (1977), complica il quadro della differenziazione territoriale introducendo una tripartizione (Nord-Ovest, Centro-Nord Est e Mezzogiorno) di formazioni sociali (si veda il Par. 31.3.1). Il meridionalismo e l’approccio che interpreta l’arretratezza del Mezzogiorno come funzionale allo sviluppo del Centro-Nord hanno avuto una vasta eco e allo stesso tempo non sono stati esenti da critiche. Innanzitutto, se ne contesta proprio la rappresentazione dualistica, ovvero l’immagine del Mezzogiorno come un «tutto» omogeneo (le dinamiche interne alla macro-area meridionale dovrebbero piuttosto fare parlare di Mezzogiorni), così come la retorica dell’immobilismo, ovvero quella visione che, continuando a misurare lo sviluppo socio-economico del Sud in ottica comparata con il Nord, ha finito per non tenere conto o sottovalutare i mutamenti straordinari che hanno interessato l’economia e la società meridionali (Cersosimo e Donzelli 2000). L’insoddisfazione per l’approccio dualistico e per la teoria della «dipendenza interna» è evidente anche nel contributo di Mutti (1991, 2002). Secondo questo autore, la visione del Mezzogiorno come bacino di forza lavoro delle regioni settentrionali, attraverso le migrazioni interne, e mercato di sbocco dell’industria del Nord non reggerebbe più di fronte ai processi di sviluppo locale di piccola e media impresa registratisi a partire dagli anni Settanta nelle regioni adriatiche del Mezzogiorno. Tra l’altro questi processi si sono verificati in presenza di condizioni socio-culturali e politiche tradizionali (particolarismo, familismo e clientelismo), che nell’ottica della teoria classica della modernizzazione dovrebbero sfavorire lo sviluppo. In effetti, valorizzando l’approccio storico-comparato della sociologia della modernizzazione e rivisitando criticamente la dicotomia tradizione/modernità, Mutti suggerisce che non si possono predeterminare le condizioni dello sviluppo e che esiste una grande variabilità di risorse attivabili a tal fine7. 31.2.3 Le spiegazioni culturaliste Un’altra spiegazione che ha una lunga tradizione è quella che enfatizza il ruolo della cultura come freno allo sviluppo socio-economico del Mezzogiorno. Qui non si può non partire da Banfield (1958) e dalla categoria del familismo amorale dei meridionali, utilizzata nello studio condotto dal politologo americano negli anni Cinquanta a Chiaromonte (rinominato Montegrano), un piccolo paese della Basilicata:
7 Come evidenzia Mutti, l’approccio storico-comparato della sociologia della modernizzazione ha contribuito sin dagli anni Sessanta a evidenziare la variabilità dei contesti tradizionali (non definibili a priori sulla base di caratteristiche date), la differenziazione dei processi attraverso i quali si transita alla modernità (non è l’esito di una one best way) e l’eterogeneità degli esiti stessi della modernizzazione (non riconducibili all’esperienza dei paesi occidentali). Negli anni Ottanta questo approccio trae nuova linfa dalla nuova political economy comparata che, analizzando le esperienze di sviluppo dei paesi dell’Asia Orientale, suggerisce l’esistenza di una pluralità di soluzioni politiche e culturali allo sviluppo, ovvero di specificità storico-locali dei processi di modernizzazione e allo stesso tempo di una complessità del rapporto tra tradizione e modernità.
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Lo studio concerne un solo paese dell’Italia meridionale, la cui estrema povertà e arretratezza si possono spiegare in gran parte – ma non interamente – con l’incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda l’interesse materiale immediato della famiglia nucleare. Tale incapacità di organizzarsi attivamente al di là della ristretta cerchia familiare deriva da un ethos8 – quello del “familismo amorale” (Banfield 1958, trad. it. 1976, pp. 37-38).
Il familismo, quindi, si tradurrebbe in carenza di azione collettiva, incapacità di collaborare, scarso interesse per la cosa pubblica, orientamenti che rappresentano il presupposto dello scarso impegno civico rilevato nel Mezzogiorno da Putnam (1993) (si veda il Par. 31.3.3). Le tesi culturaliste presentano parecchi limiti e sono state oggetto di feroci critiche che hanno messo in dubbio tanto la validità scientifica delle categorie utilizzate quanto il nesso causale con lo sviluppo economico. Tuttavia, non si può negare che abbiano alimentato un dibattito particolarmente interessante sull’opportunità di non trascurare i fattori endogeni dello sviluppo, culturali e socio-istituzionali, recuperando alcuni assunti centrali nell’approccio classico della modernizzazione, offuscati dal successo della teoria della dipendenza, che aveva invece messo al centro il ruolo dei condizionamenti economici e politici esterni (Trigilia 1995)9. 31.2.4 I fattori politico-istituzionali Tra i limiti principali dell’approccio culturale, Trigilia sottolinea la scarsa attenzione al ruolo della politica e delle politiche nei processi di sviluppo e nella formazione o riproduzione di capitale sociale: «Per comprendere perché il nodo del Mezzogiorno non si è sciolto occorre allora mettere al centro il ruolo giocato dalla politica locale e nazionale nel condizionare lo sviluppo» (Trigilia 2012, p. 101). Al Sud, l’incapacità del ceto politico di produrre beni collettivi, di favorire la cooperazione, di alimentare piuttosto che scoraggiare le logiche di una domanda particolaristica avrebbe ostacolato l’imprenditorialità economica e lo sviluppo autonomo delle attività di mercato e favorito il clientelismo e l’imprenditorialità politica. In definitiva, nel Mezzogiorno la politica «crea sfiducia nell’azione collettiva, alimenta l’opportunismo, e […] favorisce la formazione di reti di relazioni sociali particolaristiche. Essa quindi abbassa a sua volta – indipendentemente dalle radici storiche – il capitale sociale in un circolo vizioso che si auto-alimenta e scoraggia lo sviluppo» (ivi, p. 114). Ancor più netto appare il giudizio di uno storico economico come Felice che, riprendendo l’approccio socio-istituzionale di autori come Acemoglu e Robinson (2013), sottolinea come a fare la differenza nei percorsi di sviluppo sarebbe la qualità delle istituzioni politiche ed economiche: «Chi ha soffocato il Mezzogiorno sono state le sue stesse classi dirigenti – una minoranza privilegiata di meridionali – che ne hanno orientato le risorse
Banfield precisa che per ethos intende un insieme di usi, idee, termini di giudizio e comportamenti che caratterizzano una collettività. 9 Un ulteriore esempio di enfatizzazione dei fattori culturali è quello di Cassano (1996) (2 Box 31.3). 8
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verso la rendita piuttosto che verso gli usi produttivi» (Felice 2013, p. 12). Nel Mezzogiorno, sin dal regime borbonico, prevarrebbero istituzioni estrattive che tendono a intermediare risorse dal centro con lo scopo di favorire ristrette élite; nel Nord, invece, sarebbero maggiormente presenti istituzioni inclusive che incoraggiano il coinvolgimento dei cittadini, l’imprenditorialità economica e, quindi, favoriscono lo sviluppo. Anche in questo caso la principale critica può essere riconducibile a Mutti, allorquando contesta il nesso causale tra il particolarismo che caratterizza il sistema politico italiano e le possibilità di modernizzazione economica e sociale nelle diverse aree del paese. Per completare il quadro sulle spiegazioni rilevanti delle differenze territoriali italiane occorre fare riferimento al ruolo giocato dalla criminalità organizzata, che richiama la dimensione politico-istituzionale, anche se per certi aspetti è riconducibile alla questione culturale. Si tratta di un’interpretazione che parte da lontano, evidenziata già nella seconda metà dell’Ottocento nella prima inchiesta sociale sulla questione meridionale condotta da Franchetti e Sonnino: la violenza godeva nella Sicilia post-unitaria di un ampio radicamento in un tessuto sociale (élite politiche ed economiche, le stesse forze di polizia) che ne faceva largo uso e che di fatto la legittimava come mezzo per raggiungere molteplici fini, tra i quali il successo negli affari. Nelle regioni meridionali la presenza di cosa nostra, ’ndrangheta, camorra rappresenterebbe quindi una pesante ipoteca sulle possibilità di sviluppo economico e sociale, poiché tali organizzazioni mafiose alimentano la sfiducia e l’incertezza, accrescono i costi di transazione, sostengono la corruzione, disincentivano l’innovazione, scoraggiano gli investimenti e le attività di mercato e rappresentano vere e proprie istituzioni sociali che sostengono lo sviluppo di un capitalismo parassitario-predatorio in senso weberiano, ovvero che si affida all’uso di una risorsa politica, la forza, come meccanismo principale su cui si fonda l’accumulazione delle risorse economiche. Si tratta di una prospettiva analitica ampiamente diffusa (Catanzaro 1988; La Spina 2008; Sciarrone 2009), che ha suggerito diverse ipotesi interpretative e non è suscettibile di riscontri empirici univoci: in alcuni casi il nesso causale, più mafia meno sviluppo, viene ribaltato (sarebbero piuttosto le condizioni di arretratezza economica e sociale a rappresentare le precondizioni per la nascita e la riproduzione della mafia) o diventa un circolo vizioso (mafia e sottosviluppo si alimentano a vicenda), mentre c’è chi sottolinea che esistono regioni meridionali dove la presenza della criminalità organizzata è piuttosto scarsa, ma continuano a persistere seri problemi in termini di modernizzazione (Mutti 1992).
31.3 Tre esempi di ricerche 31.3.1 Arnaldo Bagnasco: «Tre Italie» Il saggio che Arnaldo Bagnasco scrive nel 1977 rappresenta ormai un caposaldo della sociologia economica italiana e, in particolare, un’immancabile lettura per chi studia le differenze interne, italiane e non. In questo libro, infatti, viene articolata la
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tradizionale visione dualistica dello sviluppo italiano: non più Nord-Sud, bensì Mezzogiorno, Nord-Ovest e Centro-Nord-Est (la cosiddetta Terza Italia). Di fronte alla persistenza della questione meridionale, e all’utilità di continuare a immaginare il Meridione come area di sottosviluppo relativo, è però anche possibile e necessario individuare un’altra differenziazione strutturale a base territoriale, questa volta all’interno della parte relativamente più sviluppata del sistema. […] Alla dicotomia Nord-Sud si sostituisce l’idea di un sistema complessivo, articolazione di tre formazioni sociali con caratteri propri, in certa misura specifiche per struttura economica, organizzazione sociale e sistema politico. Lo studio poi delle funzioni e contraddizioni di cui le tre formazioni sono portatrici nel sistema complessivo dovrebbe essere un elemento integrante della problematica, connesso a quello della struttura e del funzionamento di ognuna delle tre formazioni (Bagnasco 1977, pp. 13-14).
L’obiettivo di Bagnasco è triplice: innanzitutto, su un piano descrittivo, dimostrare che le Tre Italie rappresentano delle formazioni sociali caratterizzate da significative differenze in termini di struttura economico-produttiva, stratificazione sociale, modelli socio-culturali e politici di riferimento; in secondo luogo, nella prospettiva polanyiana di embeddedness dell’economia nella società (si veda il Cap. 6), evidenziare le interdipendenze interne alle singole formazioni tra fenomeni economici, socio-culturali e politici; infine, in un’ottica neomarxista (si veda il Cap. 3) che riprende la teoria della dipendenza, svelare le interconnessioni tra queste tre formazioni sociali e collocarle all’interno della divisione internazionale (e nazionale) del lavoro (si veda il Cap. 28). Le Tre Italie ritratte da Bagnasco corrispondono, quindi, a tre modelli diversi, e tra loro integrati, di sviluppo: • l’economia centrale del Nord-Ovest, basata sul modello produttivo delle grandi imprese fordiste operanti in settori più innovativi e ad alta intensità di capitale, un proletariato industriale con condizioni di impiego più stabili ma più conflittuale e sindacalizzato, concentrazione intorno a grandi aree urbane (il triangolo industriale), livelli più elevati di reddito e di consumi; • l’economia periferica del Centro-Nord-Est, caratterizzata dalla maggiore diffusione di piccole e medie imprese attive prevalentemente in settori industriali più tradizionali, con connessioni produttive diffuse sul territorio (in termini sia di dominanza-dipendenza tra imprese madri e satelliti nell’ambito di processi di esternalizzazione, sia di produzioni integrate in aree a forte specializzazione produttiva – i distretti), maggiore ricorso a una manodopera flessibile e a basso costo (in un mix variabile tra formale e informale), radicamento in contesti locali di piccoli e medi centri urbani, con un tessuto sociale caratterizzato da un saper fare diffuso (tradizioni artigianali), centralità della famiglia come attore economico in grado di fornire molteplici risorse indispensabili per lo sviluppo (finanziarie, di capitale umano, di imprenditorialità), netta dominanza di subculture politiche (cattoliche o social-comuniste); • l’economia marginale del Mezzogiorno, tipica delle aree di sottosviluppo relativo, con una scarsa industrializzazione, una polarizzazione tra poche grandi imprese
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dipendenti dalle politiche di incentivazione dall’alto e una pluralità di piccolissime imprese marginali in settori tradizionali e a mercato locale, da cui ha origine un proletariato differenziato (tra centrale, periferico e marginale), ma in prevalenza precario, con vaste sacche di sottoccupazione, una borghesia che occupa spazi di mercato al riparo dalla concorrenza esterna (vedi l’edilizia) e/o strettamente connessa al sostegno politico, una grande disgregazione sociale in senso gramsciano, per cui la regolazione politica particolaristico-clientelare rappresenta la principale forma di integrazione, tanto interna all’area, quanto tra questa e il resto del paese. Oltre a individuare in modo rigoroso le interconnessioni interne a ognuna delle tre formazioni sociali tra fattori economici, socio-culturali e politici, Bagnasco cerca di esplicitare i nessi, funzionali e strutturali, tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord (in un’ottica che non si distanzia molto dal meridionalismo classico), da un lato, e tra il Nord-Ovest e il Nord-Est, dall’altro, evidenziando in quest’ultimo caso le interconnessioni tra i due modelli di industrializzazione. Questo sistema di relazioni si colloca nello scenario più ampio della divisione internazionale del lavoro, che nel secondo dopoguerra ha assegnato al capitalismo italiano una posizione economicamente e politicamente subalterna rispetto ai paesi di più antica industrializzazione, relegandola nelle produzioni a tecnologia intermedia o matura. Da un punto di vista del metodo, Bagnasco fa largo uso dell’analisi secondaria di molteplici banche dati istituzionali (censimenti della popolazione e dell’industria, dati di contabilità nazionale, statistiche demografiche ed elettorali ecc.). Si tratta di un’analisi che, pur nella semplicità delle tecniche utilizzate (tendenzialmente analisi mono e bi-variate, si veda il Cap. 15), è particolarmente accurata e originale ed è puntualmente integrata dal riferimento ai risultati di un ampio ventaglio di ricerche sul campo, studi di caso di settori o di specifici contesti territoriali, scelti per il loro contributo esplicativo rispetto alle questioni trattate nel testo e significativamente rappresentativi della migliore tradizione socio-economica dell’epoca (si veda il Cap. 19). Come ricorda lo stesso autore, gli elementi di debolezza maggiori della ricerca sono da rintracciare nella carenza dell’analisi storica delle tre formazioni sociali («il problema delle differenze originarie resta sullo sfondo»: Bagnasco 1977, p. 8) e nell’attenzione in alcuni casi circoscritta alla differenziazione e ai mutamenti interni alle tre macro-aree. Indipendentemente da ciò, il saggio di Bagnasco ha il grande merito di inaugurare una tradizione importante di studi sul radicamento socio-istituzionale dei processi di sviluppo locale in Italia che ha fornito una chiave di lettura efficace anche per la spiegazione delle differenze interne al Mezzogiorno. 31.3.2 Carlo Trigilia: «Sviluppo senza autonomia» La pubblicazione di questo saggio nel 1992 segna per molti aspetti un superamento delle interpretazioni del meridionalismo classico e della teoria della dipendenza economica che tendevano a spostare fuori dal Sud le cause del suo sottosviluppo. Le differenze Nord-Sud esistono e sono rilevanti, così come le politiche dall’alto non vanno
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solo a vantaggio del Sud ma finiscono per sostenere interessi dell’industria del Nord. Tuttavia, il sociologo sin dalla presentazione della ricerca chiarisce che: La tesi esposta in questo saggio è dimostrare che tali fenomeni [crescita dei redditi pro-capite nel Mezzogiorno, da un lato, e incapacità di sviluppo autonomo e mancata maturazione della società civile, dall’altro] rendono necessaria un’attenta valutazione dei successi ma anche degli effetti perversi dell’intervento pubblico […]. Ma per seguire questa prospettiva analitica l’attenzione deve essere posta meno sugli ostacoli strettamente economici dello sviluppo del Mezzogiorno e più su quelli sociali e politici. Occorre in particolare guardare ai vincoli che vengono dalla pervasività della politica nella società meridionale (Trigilia 1992, pp. 7-8).
Per comprendere appieno le ragioni di tale tesi è opportuno chiarire il contesto storico in cui si colloca la ricerca. Siamo nel secondo dopoguerra, alla fine del quarantennio caratterizzato dall’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, espressione di un tipico modello di sviluppo dall’alto; allo stesso tempo, l’Italia ha sperimentato nei precedenti due decenni il successo del modello di sviluppo dal basso, tipico di quella Terza Italia dei distretti industriali raccontata magistralmente da sociologi ed economisti italiani (Bagnasco 1977; Becattini 1987; Brusco 1989) e diventata oggetto di studio in tutto il mondo (2 Box 31.4). Nonostante una sistematica redistribuzione di considerevoli risorse pubbliche dal Nord al Sud, l’Italia è segnata ancora da significative differenze interne. In questo scenario, quindi, secondo l’autore l’ipotesi da verificare è che «le politiche, mentre non sono riuscite a realizzare pienamente quegli obiettivi di sviluppo dall’alto nel cui quadro erano legittimate, hanno finito per ostacolare le stesse possibilità di uno sviluppo dal basso» (Trigilia 1992, p. 32)10. Il metodo di indagine seguito è simile a quello di Bagnasco, anche se Trigilia sfrutta al meglio la ben più ampia disponibilità di fonti statistiche rispetto agli anni Settanta e dimostra una maggiore attenzione ai processi di differenziazione interni al Mezzogiorno. Grazie alla mole di dati utilizzati, l’analisi di Trigilia chiarisce innanzitutto i termini dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno. Si tratta di un intervento che ha contribuito a determinare una crescita dei redditi e dei consumi simile a quella del Centro-Nord-Est e addirittura maggiore di quella del Nord-Ovest e di alcuni tra i paesi più sviluppati del mondo. Tuttavia, contrariamente all’opinione diffusa, la redistribuzione di risorse tra le due aree è stata garantita non da una maggiore spesa pubblica per il Sud (anzi, in rapporto agli abitanti sensibilmente più bassa), bensì da minori entrate fiscali e contributive, poiché in un contesto caratterizzato da redditi più bassi si pagano meno tasse per effetto delle aliquote progressive. Allo stesso tempo, la spesa pubblica nel Mezzogiorno è stata caratterizzata maggiormente dal sostegno ai redditi delle famiglie per prestazioni sociali, come le pensioni, e dalla spesa corrente degli enti locali e delle regioni, compresa la sanità, mentre ben più contenuto è
Wolleb e Wolleb (1990) e Becchi (1993), enfatizzando la dimensione economica più che quella politica, parlano di intervento contro lo sviluppo.
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stato il peso delle voci di spesa legate allo sviluppo economico. Lo stesso intervento straordinario è stato limitato e il suo contributo all’industrializzazione, attraverso gli incentivi fiscali, decisamente meno importante della spesa per opere pubbliche. Per comprendere fino in fondo questo quadro occorre aggiungere un tassello: «Se questi risultati alimentano seri dubbi sulla produttività della spesa economica e sociale, certamente elevata sembra essere la sua produttività politica» (Trigilia 1992, p. 72). In un contesto sociale come il Mezzogiorno, caratterizzato dall’assenza di forti identificazioni collettive, il consenso è più instabile e dipendente dalla capacità della politica di rispondere a una domanda particolaristica piuttosto che dall’offerta di beni collettivi. L’intervento pubblico nel secondo dopoguerra diventa quindi un’opportunità per una classe politica locale poco legittimata di accrescere il proprio consenso che può essere utilizzato come risorsa di scambio con il potere centrale: i principali partiti di governo (DC e PSI), infatti, accrescono in questa fase storica i consensi elettorali nel Sud con una conseguente meridionalizzazione della maggioranza parlamentare. L’ipotesi degli effetti perversi di questo modello di intervento nel Mezzogiorno esce rafforzata ulteriormente dall’analisi territoriale condotta da Trigilia sulle diverse logiche dello sviluppo interne al Sud. Infatti, mentre le aree più dinamiche (Abruzzo e Molise), che hanno conosciuto uno sviluppo diffuso basato sulla piccola e media impresa manifatturiera, sono caratterizzate da un intervento pubblico più limitato e con minori effetti distorsivi, le aree della cosiddetta stagnazione, periferica o metropolitana, sono quelle in cui l’intervento pubblico è stato più consistente e la regolazione politica ha rappresentato, pur con diverse sfaccettature, un fattore decisivo di integrazione economica e sociale. Se a ciò si aggiunge che le aree del declino industriale sono quelle che hanno visto un più significativo impegno dell’intervento dall’alto attraverso le politiche di incentivazione alla localizzazione di grandi imprese esterne nei settori dell’industria petrolchimica e siderurgica, i contorni dello sviluppo senza autonomia sono definiti11. La ricerca di Trigilia ha avuto un duplice merito: da un lato, ha alimentato un importante dibattito sul Mezzogiorno, sul suo modello di sviluppo e sulla differenziazione interna; dall’altro, ha contribuito alla formulazione di un nuovo paradigma nazionale dell’intervento pubblico, basato sulla produzione di politiche dal basso e sulla programmazione negoziata (2 Box 31.4). Se la diagnosi appare molto convincente, la cura proposta ha avuto esiti problematici, come lo stesso autore ricorderà più tardi (Trigilia 2012): la stagione dei sindaci, dello sviluppo dal basso e del decentramento regionale non ha consolidato al Sud quel mutamento che agli inizi degli anni Novanta sembrava essersi avviato attraverso la mobilitazione di attori pubblici e privati, anche perché le élite politico-amministrative si sono dimostrate incapaci e indisponibili a una torsione verso modelli di efficienza e di orientamento alla produzione di beni collettivi. Una lettura riproposta in una prospettiva storico-economica di lungo periodo da Felice (2013) che, riprendendo una dicotomizzazione di Cafagna (1988), etichetta lo sviluppo meridionale come un chiaro esempio di modernizzazione passiva, rispetto alla modernizzazione attiva del CentroNord. 11
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31.3.3 Robert Putnam: «La tradizione civica nelle regioni italiane» Nel 1993 viene pubblicato La tradizione civica nelle regioni italiane del politologo Robert Putnam. L’opera è frutto di oltre vent’anni di ricerche condotte in Italia in diverse fasi con la collaborazione di Robert Leonardi e Raffaella Nanetti. L’impianto del volume appare abbastanza chiaro: l’oggetto di studio è il rendimento delle istituzioni democratiche in Italia e in particolare di quelle regionali; l’ipotesi di fondo è che tale rendimento sia influenzato dal contesto sociale all’interno del quale operano. Perché l’Italia? Per il semplice fatto che l’istituzione delle regioni nel 1970 rappresentava un’occasione imperdibile per «lo studioso di rendimento istituzionale [poiché] può esaminare il destino di questi nuovi organismi, formalmente identici, ma inseriti in ambienti sociali, politici e culturali lontanissimi» (ivi, p. 8). Per portare avanti il progetto di ricerca il politologo si avvale di diversi metodi e strumenti: analisi qualitativa e quantitativa, studi di caso, diversi cicli di interviste in profondità con consiglieri regionali e stakeholder locali, survey che hanno coinvolto gli elettori, analisi di dati statistici e perfino un esperimento. Combinando dodici indicatori relativi alla stabilità degli organismi decisionali, alla tempestività e trasparenza dell’azione amministrativa, ai contenuti dei programmi di governo e alla realizzazione degli obiettivi (asili nido, consultori, edilizia abitativa, agricoltura, sanità), Putnam elabora un indice sintetico di rendimento istituzionale secondo il quale i livelli più alti sono raggiunti dalle regioni del CentroNord, mentre quelli più bassi dalle regioni del Sud (con Lazio e Marche in posizione intermedia). Come si spiega questo diverso rendimento delle istituzioni regionali? Anche se esiste una certa correlazione tra il rendimento delle regioni e il loro grado di modernità economica, secondo Putnam benessere e sviluppo non possono essere considerati gli unici fattori determinanti per avere un buon governo. Piuttosto l’ipotesi è che tale rendimento istituzionale sia influenzato dalla civicness, ovvero dalla capacità dei cittadini di una comunità civica di perseguire i propri interessi in modo illuminato, valutandoli nel contesto più ampio dell’interesse pubblico. Anche in questo caso Putnam elabora un indicatore sintetico di civismo a partire da quattro subindicatori: tasso di associazionismo sportivo e culturale (definito un indicatore chiave di «sociabilità»), tasso di lettori di giornali (per testare la capacità di informarsi e partecipare consapevolmente alla vita pubblica), partecipazione elettorale ai referendum (consultazioni che dimostrerebbero attenzione alle questioni di interesse pubblico), voti di preferenza nelle consultazioni elettorali (come indicatore di personalismo, faziosità e clientelismo). I risultati mostrano che la mappa della civicness finisce per riprodurre quella del rendimento istituzionale delle regioni. Infine, una serie di correlazioni statistiche dimostrerebbero che l’impegno civico di ieri predice lo stato di salute dell’economia di oggi, ossia rappresenta il vero presupposto dello sviluppo che spiegherebbe le differenze della modernizzazione economica tra le regioni italiane. La parte meno convincente e senza dubbio più contestata del saggio è quella dedicata a ritrovare le radici della comunità civica. Qui Putnam fa un lungo viaggio nella storia per rintracciare le origini della differenza civica tra Centro-Nord e Sud Italia nel basso medioevo, quando nella prima macro-area si andò affermando l’esperienza
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dei Comuni, che favorì la partecipazione dei cittadini nella gestione pubblica, la formazione di organizzazioni di mutuo soccorso come le corporazioni di arti e mestieri e di altre forme associative con un ruolo importante nel governo locale, mentre nel Mezzogiorno iniziava con la dominazione normanna una lunga fase di organizzazione politica gerarchica, strettamente autocratica, assolutista, che di fatto comprimeva ogni spazio di partecipazione civica. Un’eredità culturale path-dependent, radicata nella storia, che si tramanderà nel tempo. È proprio questa pretesa di un destino quasi immodificabile, che mostra una «circolarità positiva» da un lato, e «un equilibrio autoperpetuantesi e autorinforzantesi di incivisme» dall’altro, che il sociologo contesta (Ramella 1995, pp. 123-24), ma che non regge nemmeno al vaglio dello storico che denuncia l’abuso che si fa del passato (Lupo 1993).
31.4 Le problematiche emergenti: quale futuro per il Mezzogiorno e per la questione meridionale? Il dibattito ultracentenario sul ritardo di sviluppo del Mezzogiorno e sulla questione meridionale ha avuto un’eco internazionale rilevante ed è diventato un case study imprescindibile in tema di differenze socio-economiche interne a una realtà politica nazionale. Da questo punto di vista, ferma restando la specificità storica del processo di formazione del dualismo italiano, il ricco contributo teorico e metodologico delle scienze sociali nell’analisi dell’esperienza italiana può rappresentare una valida cassetta degli attrezzi per l’interpretazione delle differenze territoriali interne che emergono in altri contesti. Detto ciò, da anni si assiste a un vero e proprio iato tra le dimensioni assunte dal divario territoriale (mai così ampio in termini occupazionali, per esempio) e il dibattito pubblico, soprattutto quello politico (e delle politiche), all’interno del quale il Sud sembra non rappresentare più una priorità (Viesti 2009). In effetti, il Mezzogiorno, come oggetto di studio da un lato e come ambito di intervento dall’altro, ha dovuto fare i conti negli ultimi decenni con il riconoscimento di una questione settentrionale, che per certi aspetti si configura come un ribaltamento del meridionalismo tradizionale e dei suoi limiti (il Sud che sfrutta il Nord: Ricolfi 2010) e che ha rappresentato il presupposto su cui si è fondata la rottura dell’equilibrio politico-territoriale della Prima repubblica con l’ascesa della Lega Nord. Di fatto diventa evidente la crisi del patto tra politica, imprenditoria e società civile che aveva reso conveniente e legittimato l’intervento a favore del Mezzogiorno; al contempo, la fine dell’illusione dello sviluppo illimitato e la sindrome della stagnazione del Nord finiscono per offuscare i termini di uno scambio che non è certo unidirezionale (Trigilia 2012; Viesti 2013). Inoltre, dagli anni Novanta in poi, il Mezzogiorno ha dovuto fare i conti con i vincoli esterni (il processo di integrazione europea, la globalizzazione e la crescita della competizione internazionale), che hanno spostato l’attenzione dalla comparazione interna a quella internazionale e allo stesso tempo hanno rappresentato un limite alle possibilità di intervento, sia sul piano delle politiche di sviluppo in senso stretto, sia più semplicemente su quello delle politiche di redistribuzione territoriale delle risorse. In questo sce-
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nario, è passato quasi inosservato l’esito differenziato che ha avuto in Italia la grande recessione iniziata nel 2008: nell’arco di sei anni al Sud la contrazione dell’occupazione si è avvicinata al 10 per cento (quella del PIL al 5 per cento), mentre al Centro-Nord è rimasta al 2 per cento (con il PIL che è addirittura positivo). Sembra quasi che, come temeva Mutti (1991), si sia cronicizzata e generalizzata la sindrome del fallimento. Se il misconoscimento della crisi del Mezzogiorno come questione nazionale rappresenta al contempo un problema sociale e sociologico rilevante, è completamente nuova, invece, una seconda problematica emergente, vale a dire il parallelismo apparentemente paradossale tra una situazione economica e occupazionale drammatica come quella meridionale, che ha determinato tra le altre cose una significativa ripresa dell’emigrazione, soprattutto di giovani istruiti, e la continua crescita della domanda di lavoro di stranieri provenienti da paesi a forte pressione migratoria (Avola 2015). Se storicamente al Sud l’emigrazione è stata la spia di un malessere sociale diffuso, il suo intreccio con l’immigrazione sta a testimoniare che oggi nella società e nell’economia meridionale c’è un fabbisogno che la forza lavoro autoctona non riesce a soddisfare. Qui emerge con forza il paradosso della modernizzazione a due velocità del Mezzogiorno: da un lato, livelli di istruzione, modelli di vita e di consumo, orientamenti culturali che diventano sempre più simili al Centro-Nord; dall’altro, un sistema socio-economico e una struttura del mercato del lavoro che restano particolarmente problematici, forse i più problematici all’interno dell’Occidente. In un contesto sempre più caratterizzato da quella che è stata definita una via bassa alla decrescita dell’occupazione (Fellini 2015; Reyneri e Pintaldi 2013), il mismatch crescente tra un’offerta di lavoro sempre più istruita e una domanda di lavoro stagnante (in cui aumenta il peso delle occupazioni a bassa qualificazione) si traduce in una combinazione inedita tra disoccupazione, overeducation ed emigrazione dei giovani nativi, da un lato, e crescita dell’occupazione e della segregazione nei cattivi lavori degli immigrati, dall’altro. Un intreccio che appare particolarmente problematico per i risvolti politici e sociali che può comportare nel lungo periodo e che sicuramente rappresenta una sfida importante per la ricerca sociologica.
Letture di approfondimento Cersosimo D., Donzelli C. (2000). Mezzo Giorno. Realtà, rappresentazioni e tendenze del cambiamento meridionale, Roma, Donzelli. Trigilia C. (2012). Non c’è Nord senza Sud. Perché la crescita dell’Italia si decide nel Mezzogiorno, Bologna, il Mulino. Viesti G. (2009). Mezzogiorno a tradimento. Il Nord, il Sud e la politica che non c’è, RomaBari, Laterza.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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D. Vecchi e nuovi cleavage nel mercato del lavoro
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32 Genere e generazioni nel mercato del lavoro di Sonia Bertolini e Rosy Musumeci *
32.1 Inquadramento empirico Genere e generazione sono due dimensioni cruciali per analizzare il modo in cui si strutturano la divisione, la distribuzione e l’organizzazione del lavoro, come anche importanti disuguaglianze (si veda il Cap. 33) nelle opportunità e condizioni di impiego per gli individui (per esempio, la diffusione del lavoro atipico, in particolare quello a termine), nelle società contemporanee. Sia l’andamento nel tempo sia la composizione dell’occupazione e della disoccupazione variano molto per genere ed età nella maggior parte dei paesi e in Italia a seconda della ripartizione territoriale considerata (Nord, Centro e Sud Italia). In sociologia il termine generazione identifica un insieme di persone che è nato e vissuto nello stesso periodo ed è stato esposto agli stessi eventi (Ariès 1979). Gli eventi influiscono sulla generazione che li ha vissuti; nel nostro caso ci interessa come gli appartenenti a una certa generazione si sono comportati sul mercato del lavoro, dunque quali sono stati i loro tassi di partecipazione, di disoccupazione e quali le problematiche a cui sono stati esposti. Lo sguardo attraverso la generazione ci permette di dar conto del tempo e dei mutamenti che sono intercorsi nei modi di partecipazione al mercato del lavoro. Il genere è un concetto utilizzato nelle scienze sociali per indicare le rappresentazioni delle identità maschile e femminile, l’essere uomo o donna, correlate a modelli di relazione, ruoli, aspettative, vincoli e opportunità diverse. Nel nostro capitolo ce ne occuperemo in relazione ai ruoli che i generi ricoprono nel mercato del lavoro, le specificità settoriali e di modi di partecipazione al lavoro retribuito, anche in relazione ai ruoli di lavoro non retribuito, domestico e/o di cura, tenendo presente i modelli di famiglia. Le due tematiche sono state trattate separatamente. Il tema di genere e mercato del lavoro è stato ampliamente discusso: aumento e mutamento della partecipazione femminile al mercato del lavoro, persistenza di disuguaglianze tra uomini e donne nel mercato del lavoro (per esempio, il cosiddetto soffitto di cristallo), la doppia presenza nel mercato del lavoro e in famiglia. Il tema del genere si incrocia, tuttavia, con quello delle generazioni. Diverse generazioni di donne hanno comportamenti differenziati sul mercato del lavoro: diversi *
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo a Rosy Musumeci i Parr. 32.1, 32.2, 32.3.2 e i Box 32.1, 32.2, 32.3; a Sonia Bertolini attribuiamo i Parr. 32.3.1, 32.3.3, 32.4.
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sono, per esempio, i tassi di partecipazione delle donne al mercato del lavoro a seconda della loro età e della fase del corso di vita (2 Box 32.1). Il comportamento degli uomini di partecipazione al mercato del lavoro è variato meno nel tempo, rispetto alle donne, e cambiano di meno durante il corso di vita maschile; per esempio, i tassi di occupazione e disoccupazione degli uomini non cambiano molto, a differenza di quelli delle donne, quando diventano padri. Il contesto su cui ci focalizzeremo è quello italiano di questi ultimi tre/quattro decenni, che è caratterizzato da alcune specificità. A differenza di altri paesi europei, la regolazione del mercato del lavoro italiana per lungo tempo è stata caratterizzata da un modello che potremmo definire di stampo fordista, in cui la disoccupazione era concentrata maggiormente sui giovani e sulle donne (Reyneri 2011). Questa situazione in Italia, ma non solo, ha coinciso per lungo tempo con un modello di famiglia male breadwinner, in cui il maschio adulto capofamiglia si occupava del lavoro retribuito e la donna del lavoro domestico e di cura. Gli uomini adulti erano inseriti nel mercato del lavoro spesso con contratti stabili, garantiti da forme di assunzione a tempo indeterminato, tutelate da una serie di garanzie e di protezioni dalla disoccupazione sostenute dallo stato. Il reddito fisso consentiva di proteggere anche gli altri membri della famiglia, la donna e i figli, dai rischi di inattività e disoccupazione per le prime e dalle difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro per i giovani. La grande difficoltà di ingresso nel mercato del lavoro dei giovani è stata identificata con la presunta scarsa mobilità del mercato del lavoro italiano. Questa tesi è stata attaccata da alcuni studiosi che hanno fatto notare come, in realtà, il mercato del lavoro italiano non sarebbe così rigido1 e i suoi indici di protezione dell’occupazione non così diversi in confronto a quelli di altri paesi (Contini e Trivellato 2005; Reyneri 2011). Con il passaggio al post-fordismo, dalla fine degli anni Ottanta in avanti assistiamo anche in Italia a politiche di smantellamento e trasformazione del welfare state (si veda il Cap. 34), a politiche di flex-security2 che portano a una diversa strutturazione del mercato del lavoro, con un reingresso delle donne nel mercato del lavoro, la diffusione di coppie a doppio reddito (dual-earners), la doppia presenza delle donne nel mercato del lavoro e nella cura. La flessibilizzazione avrebbe dovuto inoltre rendere più veloce e facile sia l’accesso al mercato del lavoro per i giovani, sia il re-ingresso delle donne dopo interruzioni per motivi familiari. Tra le conseguenze previste di questo processo troviamo più rapidi tempi di ricerca del primo lavoro e aumento della partecipazione al mercato del lavoro delle donne. In realtà questo in Italia è avvenuto solo in parte, rispetto al resto d’Europa. Sebbene con tendenze non sempre univoche nel corso dei decenni, attualmente il tasso di occupazione delle donne e quello dei giovani continua a essere più basso rispetto a quello degli uomini e degli adulti e quello di disoccupazione più elevato nella maggior parte dei paesi, come ci mostrano la Tab. 32.1, la 2 Fig. 32.D1 e la Fig. 32.2; anzi la crisi economica iniziata nel 2008 ha peggiorato in molti casi la si1 2
Un mercato del lavoro è definito rigido quando il rischio di diventare disoccupato in esso è basso. Per una definizione si veda per esempio Semenza (2014).
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Tabella 32.1 Tassi di occupazione per sesso e paese (fascia di età 15-64, valori percentuali, 2015) Paese
Maschi
Femmine
Grecia
59,3
42,5
Italia
65,5
47,2
Malta
76,2
51,0
Croazia
60,1
51,5
Spagna
62,9
52,7
Romania
69,5
53,2
Slovacchia
69,5
55,9
Polonia
69,2
56,6
Ungheria
70,3
57,8
Irlanda
68,7
57,9
Belgio
65,5
58,0
Cipro
66,7
59,0
Bulgaria
65,9
59,8
Unione Europea (media dei 28 paesi)
70,8
60,4
Francia
67,1
60,6
Lussemburgo
71,3
60,8
Slovenia
69,2
61,0
Portogallo
66,9
61,1
Repubblica Ceca
77,9
62,4
Lettonia
69,9
66,4
Lituania
68,0
66,5
Austria
75,1
67,1
Finlandia
69,3
67,7
Regno Unito
77,6
67,9
Estonia
75,3
68,5
Olanda
79,0
69,2
Germania*
78,0
69,9
Danimarca
76,6
70,4
Norvegia
76,5
73,0
Svezia
77,0
74,0
Svizzera
84,4
76,0
Islanda
87,1
82,3
Nota: * fino al 1990 ex territorio della Repubblica Federale di Germania. Fonte: elaborazione su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/web/lfs/data/database.
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tuazione, specie dei giovani, determinando un radicalizzarsi di fenomeni quali quello del drastico innalzamento dei tassi di NEET (2 Box 32.2). Come si vede, le donne risultano meno occupate degli uomini praticamente in tutti i paesi considerati. Tuttavia il cosiddetto gender gap, ovvero la differenza tra il tasso di occupazione femminile e quello maschile, varia molto in Europa: da paesi come Malta, in cui supera i 25 punti percentuali, a paesi in cui la differenza è invece molto più contenuta, come la Lituania. In questa graduatoria l’Italia presenta la più ampia differenza tra tasso di occupazione maschile e femminile dopo Malta (2 Fig. 32.D1). Con riguardo alla situazione giovanile, alla fine del primo decennio del XXI secolo (e in gran parte la situazione oggi non è mutata) tre erano i modelli di disoccupazione prevalenti in Europa. Il primo modello riguardava il caso italiano, dove i tassi di disoccupazione raggiungevano livelli molto alti per i giovani, scendevano per gli adulti arrivando a valori minimi per i quarantenni e aumentavano solo leggermente per la fascia di età dai 55 anni in su. A questo modello si avvicinavano anche gli altri paesi del Sud Europa, Belgio, Francia e dal 2005 anche due paesi che prima erano inclusi nel terzo modello: la Svezia e la Gran Bretagna (Reyneri 2011). Il secondo modello era tipico invece della Germania dove i giovani non risultavano più penalizzati degli adulti e degli anziani, come dimostrato dall’andamento della curva dei tassi di disoccupazione per età. Il terzo modello infine si caratterizzava per tassi di disoccupazione giovanili moderatamente più alti di quelli degli adulti. Questo modello era tipico a fine anni Duemila di paesi come Olanda e Irlanda e lo era stato in precedenza di paesi come Gran Bretagna, Svezia e Francia che tuttavia, come abbiamo detto, dal 2005 invece risultavano in avvicinamento al modello italiano (Fig. 32.1). Figura 32.1 Modelli di disoccupazione stilizzati in Europa 35 Tedesco Europeo Italiano
30 25 20 15 10 5 0
14-19
20-24
25-29
30-34
35-39 40-44 Fasce di età
45-49
50-54
55-59
60-64
Nota: tassi di disoccupazione per età (modelli stilizzati). Fonte: E. Reyneri, Sociologia del lavoro, Bologna, il Mulino, 2011, p. 111, Fig. 3.4.
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Figura 32.2 Tassi di occupazione e disoccupazione per classi d’età e paese (valori percentuali, 2015)
Nota: * Fino al 1990 ex territorio della Repubblica Federale di Germania. Fonte: elaborazione su dati Eurostat, http://ec.europa.eu/eurostat/web/lfs/data/database.
La Fig. 32.2 riporta i livelli di occupazione e disoccupazione dei giovani (20-29 anni) confrontati con quelli degli adulti (40-59 anni) in Europa in anni più recenti (2015). La situazione dei giovani può essere molto diversa a seconda del contesto sociale, culturale e istituzionale in cui vivono. Infatti, se nella maggior parte dei paesi considerati i giovani presentano tassi di disoccupazione più alti e tassi di occupazione più bassi rispetto agli adulti, in alcuni paesi la distanza che separa i tassi di occupazione e disoccupazione giovanili, senza distinzioni di sesso, da quelli degli adulti è molto più marcata che in altri; in altri paesi, addirittura, i giovani risultano più occupati degli adulti. Nel nostro paese il tasso di disoccupazione dei giovani di 20-24 anni è più alto di 29,4 punti percentuali rispetto a quello degli adulti 40-59enni.
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32.2 Le sfide interpretative Come mai le donne e i giovani continuano a essere penalizzati in Italia? Perché sono meno occupati e più disoccupati in confronto ad altre categorie sociali (gli uomini per il caso delle donne, gli adulti per quello dei giovani)? E perché i differenziali su base di genere e generazione nei livelli di occupazione variano da paese e paese? La penalizzazione delle donne e dei giovani risulta collegata alla capacità di un paese di creare posti di lavoro, capacità misurata attraverso il tasso di occupazione totale; più alta è la quota di popolazione occupata, minore è per donne e giovani il rischio di essere disoccupati (Reyneri 2011). Ma per comprendere le differenze nel diverso grado di penalizzazione di donne e giovani nel mercato del lavoro di diversi paesi occorre aver presente che i modelli di occupazione e disoccupazione non sono influenzati soltanto dalle caratteristiche e dall’evoluzione della domanda e dell’offerta di lavoro, ma anche da stili di vita e norme sociali prevalenti in un dato paese, come anche dal funzionamento e dalle peculiarità di altre istituzioni non specificatamente economiche (tra cui, per esempio, stato e famiglia: si veda il Cap. 12) e si configurano pertanto come delle vere e proprie «costruzioni sociali». Per esempio, i diversi modelli di welfare state (si veda il Cap. 35) e di regolazione del lavoro costruiscono opportunità e vincoli all’interno dei quali gli individui modellano i loro comportamenti rispetto all’entrata, alla permanenza e all’uscita dal mercato del lavoro. Infatti, le scelte lavorative degli individui dipendono non soltanto da motivazioni pecuniarie ma anche dal senso che essi attribuiscono a specifiche esperienze lavorative e al lavoro in generale come dimensione della vita, al ruolo che quest’ultimo ha nella costruzione della loro identità personale e sociale; tali scelte sono influenzate dalle relazioni sociali in cui gli individui sono immersi e sono orientate da norme condivise e principi di equità che variano nello spazio e nel tempo (si veda il Cap. 9). Struttura e strategie delle famiglie condizionano la formazione dell’offerta di lavoro e il suo incontro con la domanda. La divisione dei ruoli familiari per genere ed età scandisce i tempi di accesso al mercato del lavoro dei membri della famiglia e ne definisce le caratteristiche di flessibilità/rigidità; funziona, pertanto, come fattore di segmentazione dell’offerta. Redistribuendo beni e servizi al proprio interno, la famiglia allenta le cogenze economiche che favoriscono la mercificazione del lavoro e amplia gli spazi discrezionali dell’attore sociale; se per esempio un giovane alla ricerca di lavoro vive nella casa dei genitori e sa di poter contare sul supporto economico e materiale della famiglia di origine, è probabile che non accetti un lavoro qualsiasi ma adotti comportamenti di ricerca più selettivi nei confronti delle offerte disponibili. Anche lo stato, come la famiglia, regola/influenza il volume, le caratteristiche, l’allocazione e l’uso della forza lavoro. Questo avviene direttamente (attraverso il diritto e le politiche del lavoro) e indirettamente (attraverso le politiche di welfare ed economiche). Per esempio, le politiche sociali e i sistemi di tutela del lavoratore riducono la strutturale asimmetria della relazione fra datori di lavoro e lavoratori; inoltre, la determinazione di soglie d’età per l’obbligo scolastico e per il pensionamento de-
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finisce il volume dell’offerta di lavoro potenziale; l’offerta pubblica di servizi sociali alle persone e di conciliazione famiglia-lavoro e il potenziamento del sistema scolastico possono favorire la partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne. Con riguardo al ruolo dei fattori macro-istituzionali, per esempio, è il sistema di formazione duale a mantenere bassi in Germania i livelli di disoccupazione giovanili. L’alternanza tra scuola e lavoro favorisce, infatti, un veloce inserimento dei giovani nel mercato del lavoro (che già prima del conseguimento del titolo di studio hanno la possibilità di socializzarsi/formarsi al lavoro e di stabilire relazioni e contatti con i datori di lavoro) e consente di classificare come occupati molti giovani che studiano. Quanto alle donne, oltre alle politiche sia pubbliche sia aziendali di conciliazione famiglia-lavoro (per esempio, disponibilità di congedi genitoriali e di servizi di cura per l’infanzia, in particolare economici, e possibilità di richiedere e ottenere il part time), tra i fattori che possono influenzarne i livelli di partecipazione al mercato del lavoro vi sono, sul versante più micro-sociale, un diverso grado di condivisione della cura e del lavoro domestico tra i partner come anche differenti concezioni circa la buona genitorialità e il benessere dei figli. Per esempio, laddove si ritiene che il meglio per i figli, specie quando sono piccoli, coincide con la presenza e la cura materna, le donne tendono a ridurre l’orario di lavoro e a prendere periodi di congedo genitoriale (cioè periodi di astensione dal lavoro) più lunghi (Naldini 2015). La presenza di figli, quindi, ha un differente impatto sulla partecipazione al mercato del lavoro di uomini e donne, padri e madri, sulla sua continuità e qualità (2 Box 32.1).
32.3 Tre esempi di ricerche Qui di seguito descriviamo interrogativi, metodologia e risultati di tre ricerche con fuochi analitici diversi: nella prima sono analizzati gli effetti della precarietà lavorativa sull’autonomia abitativa, psicologica ed economica dei giovani in Europa, nella seconda la conciliazione tra famiglia e lavoro nella transizione alla genitorialità, e nella terza i comportamenti rispetto al pensionamento. Ripercorreremo in questo modo gli andamenti dei corsi di vita degli individui di diversi generi e generazioni, in relazione alle scelte lavorative in differenti fasi della loro vita. Questo ci permetterà di evidenziare quali sono i punti di forza e di debolezza del mercato del lavoro italiano in rapporto a quelli europei, per quel che riguarda l’ingresso nel mercato del lavoro, la permanenza nel mercato del lavoro in relazione a eventi legati alla transizione alla vita adulta, l’uscita dalla famiglia di origine e la formazione della famiglia. 32.3.1 L’ingresso nel mercato del lavoro: l’insicurezza lavorativa dei giovani Gli studi sui modelli di disoccupazione in Europa degli anni Ottanta-Novanta mettevano in evidenza come tra le caratteristiche del mercato del lavoro del nostro paese vi
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fosse il difficile inserimento e la penalizzazione dei giovani3. La precarietà lavorativa ha esacerbato questa caratteristica: da un lato la diffusione di lavoro atipico avrebbe dovuto facilitare l’accesso al mercato del lavoro da parte dei giovani, rendendo più flessibili le entrate e permettendo al datore di lavoro di testare la qualità del giovane. Dall’altra, tali forme contrattuali inserite in un mercato del lavoro duale rischiano di divenire una trappola più che un trampolino verso il lavoro stabile, segmentando ulteriormente il mercato del lavoro in posti di lavoro stabili e di buona qualità da un lato e in posti instabili e di scarsa qualità dall’altro. Una parte della letteratura ha realizzato ricerche empiriche in chiave comparata in Europa per analizzare le conseguenze di questo «intrappolamento» lavorativo rispetto ai corsi di vita degli individui (Blossfeld et al. 2005). Da un lato, si è analizzato l’effetto del lavoro atipico in tutti i paesi in termini di posticipazione delle transizioni alla vita adulta, quale per esempio uscire dalla famiglia di origine, registrando come tale effetto vari in relazione allo specifico contesto istituzionale in cui le forme contrattuali a termine sono inserite. Dunque, le conseguenze del lavoro instabile sulle carriere lavorative e sui corsi di vita varierebbero in funzione della specifica modalità di regolazione del mercato del lavoro di un paese e del suo specifico sistema di welfare state, cui corrispondono diverse politiche attive e passive del lavoro. Questi studi hanno utilizzato di solito metodologie quantitative. All’interno di questo filone, una recente ricerca (EXCEPT, Social Exclusion of Youth in Europe: Cumulative Disadvantage, Coping Strategies, Effective Policies and Transfer4) utilizza la metodologia mixed-method, coniugando metodi quantitativi con metodi qualitativi, per studiare proprio le conseguenze della precarietà lavorativa sui giovani in Europa (http://www.except-project.eu/). Gli obiettivi sono essenzialmente i seguenti: • analizzare i vissuti dei giovani che sperimentano l’insicurezza lavorativa e la disoccupazione, e le relazioni tra queste ultime e l’autonomia e le condizioni economiche future; • individuare le strategie utilizzate dai giovani per far fronte all’insicurezza lavorativa e alla disoccupazione e per diventare adulti; • approfondire il ruolo attuale delle politiche e fornire indicazioni per migliorare le politiche future a sostegno dei giovani; • comprendere i nessi tra insicurezza lavorativa e rischi di esclusione sociale. Nell’ambito del progetto l’insicurezza lavorativa è considerata da due punti di vista: soggettivo, intendendo con ciò la preoccupazione relativa alla continuità del proprio lavoro, il timore di perdere il lavoro, di non trovare un nuovo lavoro, di avere un reddito instabile/incerto, e lo stress che possono derivare da un lavoro; e oggettivo, intendendo con ciò la difficoltà a entrare nel mercato del lavoro, l’alternanza tra periodi Per una rassegna sulle motivazioni di tale esclusione si veda Reyneri (2011). Progetto coordinato da Marge Unt e finanziato all’interno del programma Horizon 2020; nell’ambito di tale progetto Sonia Bertolini coordina la parte di ricerca qualitativa comparativa in nove paesi.
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di occupazione e di disoccupazione, il lavorare con forme contrattuali a termine, atipiche, informali. Il concetto di autonomia invece è declinato in tre diverse direzioni: autonomia abitativa, economica e psicologica. Rispetto alla prima, il progetto si chiede quali ragioni spingono i giovani a rimanere nella casa dei genitori o a lasciarla, quanto il senso di precarietà della condizione lavorativa influenza questa scelta; rispetto alla seconda forma di autonomia, quella economica, il progetto si propone di indagare quali sono le conseguenze dell’insicurezza lavorativa e della disoccupazione sull’autonomia economica nel breve e nel lungo periodo, se lo svantaggio economico può portare a scelte lavorative e di vita subottimali creando circoli viziosi, e quali sono le conseguenze dello svantaggio economico sul benessere e sull’inclusione sociale. Riguardo all’autonomia psicologica, infine, il progetto si chiede quali effetti ha l’insicurezza lavorativa sul benessere dei giovani, quali strategie i giovani utilizzano per farvi fronte e come queste strategie di fronteggiamento influenzano la relazione tra insicurezza lavorativa e autonomia. La ricerca presenta una parte di elaborazione di dati quantitativi sul mercato del lavoro europeo (EU-SILC dataset) in relazione all’autonomia giovanile e alle conseguenze economiche di breve e lungo periodo della precarietà. Per la parte qualitativa, invece, nei nove paesi coinvolti in Except (Bulgaria, Estonia, Gran Bretagna, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Svezia, Ucraina) sono stati intervistati 386 giovani dai 18 ai 30 anni NEET, disoccupati o con contratti precari. Fa parte del campione anche un piccolo gruppo di lavoratori con contratto a tempo indeterminato, per analizzare le strategie più efficaci per uscire dalla trappola della precarietà lavorativa e dalla disoccupazione (5 per cento). Il 47 per cento degli intervistati, poi, è coinvolto in politiche (per esempio, Garanzia Giovani); il 35 per cento è costituito da disabili, stranieri, madri single. Per ogni intervista è stata realizzata una sinossi, cioè un breve rapporto che raccoglie gli elementi principali dell’intervista per facilitare il lavoro di comparazione transazionale. Qui di seguito presentiamo un grafico (Fig. 32.3) che mostra la proporzione di giovani tra i 16 e i 29 anni che vivono nella casa dei genitori, a seconda del loro status occupazionale (occupati o disoccupati). In generale, in tutti i 28 stati europei la percentuale di individui che vivono fuori dalla famiglia di origine è maggiore tra coloro che sono occupati rispetto ai disoccupati, suggerendo un’associazione negativa tra esclusione dal mercato del lavoro e autonomia abitativa. L’Italia è tra i paesi in cui meno giovani sono fuori casa dei genitori, come si può evincere dal grafico5, ed è nel gruppo in cui la differenza tra la percentuale di giovani che vivono fuori casa dei genitori occupati e disoccupati è più elevata. La letteratura scientifica sul tema interpreta questo risultato come una precisa strategia di «attesa»: i giovani italiani, in assenza di adeguate politiche di supporto alla transizione al primo lavoro, vivono con la famiglia di origine finché non trovano un impiego stabile
La percentuale di giovani che vivono con i genitori è 67,3 per cento contro una media europea di 47,9 per cento (fonte: Eurostat 2015).
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Figura 32.3 Proporzione di giovani età 16-29 che non vivono con i genitori (autonomi abitativamente), per condizione occupazionale
Nota: il pallino nero indica la differenza in punti percentuali tra la proporzione di giovani occupati e la proporzione di giovani disoccupati che vivono autonomi. L’asterisco (*) indica che la relazione non è statisticamente significativa. Fonte: EU-SILC UDB 2014, agosto 2016, http://ec.europa.eu/eurostat/web/microdata/european-union-statistics-onincome-and-living-conditions (elaborazione a cura di Valentina Goglio).
e di buona qualità. Ciò è congruente con un altro risultato empirico: il primo lavoro segna in modo marcato la carriera professionale e, per questo, il primo ingresso nel mercato del lavoro va attentamente valutato (Barbieri e Cutuli 2014). I primi risultati qualitativi mettono in evidenza i meccanismi alla base di questi risultati quantitativi, mostrando che l’autonomia abitativa è sempre più difficile anche a causa di percorsi lavorativi incerti. L’uscita dalla famiglia di origine allora in molti casi non è solo posticipata, come emergeva da precedenti ricerche in Italia, ma è spostata molto in avanti ed è più «sognata» che progettata. In quest’ottica tutto è concentrato sul presente e l’autonomia assume una connotazione limitata nello spazio e nel tempo, che non porta alla decisione di uscire dalla famiglia di origine. Se da un lato emerge come il lavoro stabile e un reddito sicuro siano ritenuti essere elementi rilevanti dai giovani per poter compiere le transizioni verso la vita adulta, lasciare la famiglia di origine e progettarne una nuova, il contesto istituzionale nel quale si trovano non permette loro di programmare quando e come raggiungere tali mete, mancando una visione chiara degli step intermedi e dei mezzi a disposizione. Riguardo all’autonomia economica emerge che si tratta di una condizione che si può perdere e riacquistare più volte, con gradi differenti, in quanto lo status lavorativo di molti intervistati non è nettamente definito, dentro o fuori il mercato del
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lavoro; l’autonomia economica risulta inoltre fortemente collegata con l’irregolarità dei pagamenti e l’inadeguatezza del reddito, non compensati da un adeguato sistema di welfare e da un mancato accesso alla disoccupazione, mentre il risparmio per tamponare emergenze, per mantenersi durante la disoccupazione o per progettarsi un futuro è possibile solo grazie all’aiuto dei genitori nel sostenere le spese per la quotidianità – quindi alla perdita di autonomia abitativa oltre che economica. Dai primi risultati emerge inoltre che: • la mancanza di autonomia abitativa non è considerata dai giovani intervistati come un fattore di esclusione sociale; • un ruolo importante, ma anche ambivalente, è svolto dalla famiglia di origine che è la fonte principale di sostegno, è protettiva nei confronti dei giovani, ma ne rafforza al contempo la dipendenza; • la disponibilità o meno del sostegno familiare è un fattore di disuguaglianza; • gli intervistati non si sentono emarginati né isolati socialmente: percepiscono di condividere con i coetanei stili di vita e pratiche di consumo; • i giovani si sentono svantaggiati se si rapportano alle generazioni precedenti. Molteplici fattori di esclusione emergono dall’analisi: esclusione dai ruoli adulti, dal futuro e dalla possibilità di progettarlo, ed esclusione dalle istituzioni e dalle politiche. A proposito di politiche pubbliche, solo una minoranza di essi si dichiara soddisfatta. Molti giovani si sentono lasciati soli, abbandonati. L’analisi delle interviste consente anche di individuare diverse problematicità nel rapporto tra sistema scolastico e universitario e mondo del lavoro: mancanza di una forte e strutturata collaborazione tra i due; mancanza di una guida e di un orientamento nel guidare le scelte dei giovani nei percorsi formativi e occupazionali; difficoltà ad affrontare le problematicità dell’auto-impiego e di costruire un’impresa. 32.3.2 La permanenza nel mercato del lavoro degli adulti: famiglia e lavoro nella transizione alla genitorialità La seconda ricerca che proponiamo ha avuto tra i suoi obiettivi quello di analizzare se e come cambiano gli orientamenti, le preferenze e i comportamenti rispetto alla partecipazione e al coinvolgimento nel mercato del lavoro di un gruppo di diciassette coppie italiane eterosessuali, in cui entrambi i partner sono occupati, durante la transizione alla genitorialità (per un approfondimento si vedano Bertolini e Musumeci 2015; Grunow e Evertsson 2016; Naldini 2015). Ciascun partner è stato intervistato, nell’ambito del progetto «Practices and Policies around Parenthood. Work-family balance and childcare policies in multicultural context»6, prima della nascita del figlio
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Progetto coordinato da Manuela Naldini e finanziato dall’Università di Torino e dalla Compagnia di San Paolo.
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(in gravidanza) e circa un anno e mezzo dopo di essa; pertanto il materiale empirico utilizzato per l’analisi è costituito in tutto da 68 interviste qualitative semi-strutturate (cioè quattro interviste per ciascuna coppia: si veda il Cap. 13). Le interviste sono state condotte a Torino e provincia nel periodo 2010-15. Gli intervistati sono stati intercettati in gran parte attraverso consultori familiari e corsi di preparazione alla nascita pubblici. Per quanto riguarda il campione di intervistati, al momento delle interviste pre-nascita (realizzate in gran parte tra il sesto e il nono mese di gravidanza), la maggior parte di essi aveva tra i 30 e i 39 anni, una laurea e un’occupazione qualificata nel settore terziario. Nella maggior parte dei casi almeno uno dei due partner è occupato a termine o lavoratore autonomo e l’altro dipendente a tempo indeterminato. Nella metà dei casi il reddito netto di coppia è al massimo di 3000 euro e il wage gender gap (cioè la differenza tra il reddito di lei e quello di lui) è di almeno 500 euro. La disponibilità di interviste precedenti e successive alla nascita ha permesso di analizzare i cambiamenti (e le incoerenze anche) negli orientamenti, preferenze e comportamenti lavorativi dei neo-padri e delle neo-madri in tre diversi momenti dei corsi di vita all’interno della coppia: prima della gravidanza (periodo ricostruito retrospettivamente attraverso le interviste pre-nascita), durante la gravidanza e dopo la nascita del figlio/della figlia. All’origine di questo interesse troviamo l’idea che la nascita del primo figlio possa costituire un turning point (un punto di svolta) intorno a cui gli individui ridefiniscono priorità, preferenze e i propri ruoli circa la partecipazione e l’impegno nel mercato del lavoro. Tale idea presuppone che gli individui siano dinamici e interattivi, che abbiano preferenze che possono cambiare nel tempo, in relazione ai vincoli strutturali, istituzionali ed economici, ma anche in rapporto alle diverse fasi del corso di vita e all’interazione con il partner. Ragionare in questi termini significa porre in discussione alcune teorie (economiche e non) sul mercato del lavoro, che partono dal presupposto che le preferenze degli individui siano stabili nel tempo, come per esempio la teoria del «capitale umano» di Becker7 e la «preferences theory» di Hakim (2 Box 32.3). Infatti, mentre c’è accordo tra gli studiosi nel riconoscere che la partecipazione (cioè il comportamento concreto) degli uomini al lavoro retribuito non cambi particolarmente nelle diverse fasi del corso di vita familiare, come la nascita del primo figlio, quella di altri figli, l’ingresso di questi nella scuola dell’obbligo e così via (Aisenbrey, Evertsson e Grunow 2009; Solera 2009), non altrettanto si può dire per gli studi sulle preferenze verso il lavoro retribuito delle donne. Questi, infatti, non sono sufficientemente indagati con riguardo alle fasi del corso di vita attraversate: sia per la carenza di studi longitudinali qualitativi come quello qui presentato che consentano di scandagliare i meccanismi di (ri)produzione o al contrario di ridefinizione delle preferenze, sia perché considerate sostanzialmente stabili nel tempo e quindi non oggetto di interesse. I risultati della ricerca qui illustrata ci mostrano che Secondo la teoria del capitale umano di Becker (1964), per esempio, un elevato livello di istruzione è un investimento che consente di acquisire conoscenze e maggiore produttività, che generano anche un reddito più elevato, e che spinge l’individuo a essere più presente, e in modo continuativo, nel mercato del lavoro.
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i modelli di interruzione/sospensione del lavoro prevalenti intorno alla nascita sono fortemente connotati da un punto di vista del genere: la situazione ricorrente tra le coppie intervistate è che la madre, prima della nascita, prevede di sospendere e, nei fatti, dopo di essa sospende per un periodo più o meno lungo il lavoro per prendersi cura del figlio/della figlia, mentre il padre raramente lo fa. Emblematico di questi diversi comportamenti di genere nei confronti del lavoro sono le strategie d’uso del congedo parentale all’interno delle coppie. Infatti, in Italia la legge n. 53/2000 riconosce a madri e padri lavoratori diritti (e doveri) di cura autonomi, prevedendo per entrambi il congedo parentale, che consiste in un periodo di astensione facoltativa dal lavoro della durata massima di sei mesi che il genitore può prendere o tutti subito o un po’ alla volta, fino ai dodici anni di vita del bambino e che è retribuito in minima parte (30 per cento), per un massimo di sei mesi a livello di coppia, se preso entro i sei anni di vita del figlio/della figlia. L’uso di questo strumento per la conciliazione tra la cura dei figli piccoli e il lavoro retribuito tra le nostre coppie è connotato da una netta divisione di genere. Le madri, nella quasi totalità dei casi, pianificano prima della nascita del bambino/della bambina di usufruire del congedo genitoriale e prenderlo, nei fatti, subito dopo la nascita, mentre solo in rarissimi casi i padri prendono in considerazione l’idea di interrompere il lavoro usando almeno qualche giorno di congedo (Musumeci, Naldini e Santero 2015). Tra le motivazioni di questa rigida divisione del lavoro retribuito e dei compiti di cura tra i partner c’è anche l’idea che il bambino abbia bisogno della madre quando è piccolo, che debba essere quindi questa a doversene prendere cura, mentre il ruolo del padre è secondario, di supporto; inoltre, è diffusa l’idea che un «buon padre» è innanzitutto colui che si occupa di assicurare le risorse economiche e materiali necessarie al benessere della propria famiglia non riducendo il suo impegno lavorativo, anzi aumentandolo se possibile (il male breadwinner). I risultati di questo studio mostrano anche che, contrariamente a quanto sostengono alcune prospettive teoriche che presuppongono un attore statico lungo il tempo, non è realistico considerare le preferenze individuali di donne e uomini verso il lavoro e la famiglia come poli opposti di un continuum; al contrario, gli individui ridefiniscono continuamente le loro preferenze (oltre che i comportamenti) verso il lavoro e la famiglia. Infatti, in diversi casi madri che sembravano più orientate alla cura all’epoca dell’intervista realizzata in gravidanza, dopo la nascita non solo mettono in atto comportamenti incoerenti con quanto pianificato e previsto prima della nascita (per esempio, se prima avevano pianificato un lungo periodo di sospensione dell’attività lavorativa per prendersi cura a tempo pieno del bambino, in realtà dopo la nascita ritornano al lavoro prima di quanto previsto), ma sembrano anche modificare la propria preferenza nei confronti del lavoro, ri-attribuendogli una rinnovata centralità nella definizione della propria identità personale. Le motivazioni alla base di questi processi di ridefinizione delle preferenze e dei comportamenti circa il lavoro sono composite, riguardando al contempo vincoli e opportunità, costrutti culturali e aspettative di ruolo che derivano dallo specifico contesto sociale in cui sono inserite e dalle tensioni che si possono determinare tra questi.
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32.3.3 L’uscita dal mercato del lavoro: le strategie di pensionamento Cosa succede in Italia quando i lavoratori escono dal mercato del lavoro, nell’ultima fase del corso di vita lavorativo? Per occuparci di questa tematica ripercorreremo brevemente una ricerca internazionale sul pensionamento in Europa, Stati Uniti e Giappone, coordinata da Dirk Hofaecker (Hofacker, Hess e König 2016), che ricostruisce i principali passaggi relativi alle politiche di pensionamento e i loro effetti sul mercato del lavoro. I risultati per l’Italia mostrano che seppure il nostro paese si caratterizzi per una difficoltà di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, come abbiamo visto, presenta anche i più bassi tassi di occupazione degli ultra-cinquantenni in Europa. Da un punto di vista demografico la percentuale di persone più vecchie dei 65 anni si è incrementata di molto e il tasso di occupazione è in costante aumento, ma a un ritmo lento. Storicamente il tasso di occupazione dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni è stato caratterizzato da due fasi (Fig. 32.4): la prima di declino fino al 1999, che ha visto il suo minimo storico a 27,6 per cento; la seconda di crescita, fino a raggiungere il 40 per cento nel 2012, rimanendo comunque più bassa del 48,3 per cento registrato a livello europeo. La prima fase di declino è stata una conseguenza della ristrutturazione industriale, e ha impattato soprattutto su lavoratori con un basso livello di competenze, che erano particolarmente numerosi nel gruppo 55-64 anni in Italia, poiché la crescita dei livelli di istruzione della popolazione è cominciata solo negli anni Settanta. Il surplus della forza lavoro era stato gestito attraverso interventi significativi da parte dello stato, con politiche di pensionamento precoci e schemi pensionistici di anziaFigura 32.4 Tasso di occupazione per sesso in Italia (fascia di età 55-64, anni 1983-2012) 60 50 40 30 20 Uomini Donne Totale
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1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012
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Fonte: OECD, 7 dicembre 2013, http://stats.oecd.org/BrandedView.aspx?oecd_bv_id=lfs-data-en&doi=data-00310-en#.
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nità. Ma hanno inciso anche le pensioni di disabilità, che hanno regolato l’uscita precoce dal mercato del lavoro. Inoltre, l’uscita precoce è stata sorretta dalla Cassa Integrazione Guadagni e dalle liste di mobilità, che sono state utilizzate come ponte verso il pensionamento specialmente per chi era sopra i cinquant’anni. Fino al 1980, le politiche pensionistiche miravano, dunque, a ridurre l’offerta di lavoro dei lavoratori ultra-cinquantenni, secondo il principio «giovani dentro, vecchi fuori». Dal 2000 il trend si inverte, attraverso numerose riforme che mirano a incrementare l’età del pensionamento di fronte a un sistema pensionistico sbilanciato che avrebbe dovuto sostenere un’enorme spesa sociale e all’aumento della speranza di vita. Nel privato si aumenta l’età di cinque anni e nel pubblico le baby pensioni vengono eliminate: il contributo minimo passa da quindici ai vent’anni. Più recentemente, nel 2009 l’età minima per il pensionamento nel settore pubblico è stata spostata a 65 anni sia per gli uomini sia per le donne. Le diverse fasi corrispondono a quelli che sono stati chiamati i contradictory ends, le finalità contradditorie (Marcaletti 2012): infatti per bilanciare l’occupazione giovanile, viene chiesto ai lavoratori più vecchi di lasciare prima il mercato del lavoro; allo stesso tempo, per bilanciare il sistema finanziario dello stato i lavoratori vengono forzati attraverso le riforme a rimanere sul mercato del lavoro. L’andamento è differente per genere e il gap è persistente. Tuttavia, mentre nella prima fase (1983-99) il tasso di occupazione maschile ha un andamento discendente nel tempo, quello femminile ha un andamento più lineare. Nella seconda, invece, entrambi hanno un trend ascendente, ma le donne hanno un incremento superiore agli uomini, e il totale dell’occupazione femminile anziana aumenta dal 36 per cento del 2000 al 41,6 del 2012. Tale incremento è collegato anche all’aumento del livello di istruzione in Italia e in particolare a quello femminile, che è notevolmente cresciuto a partire dalla fine degli anni Settanta, fino a superare quello maschile negli anni Duemila. Il livello di istruzione (si veda il Cap. 33), infatti, è un importante predittore del tasso di partecipazione al mercato del lavoro sia nella fase di ingresso, sia nella fase adulta, sia anche nella fase anziana. La Fig. 32.5 mostra il legame del tasso di occupazione con il livello di istruzione nei periodi osservati: più elevato è il livello di istruzione raggiunto, più elevato il tasso di occupazione dei lavoratori anziani. I lavoratori con istruzione elevata, infatti, continuano a lavorare molto più a lungo rispetto ai lavoratori con istruzione minore. Questo è spiegabile con il fatto che la forza lavoro meno istruita ha poche possibilità di riqualificazione, oppure al fatto che i lavoratori con alte qualificazioni entrano più tardi nel mercato del lavoro e hanno un percorso di crescita del reddito associato all’età più ripido rispetto ad altre categorie; svolgono, inoltre, di solito lavori meno usuranti. La ricerca mette in evidenza alcuni tratti tipicamente caratteristici del sistema italiano rispetto agli altri paesi considerati nella ricerca. Le donne, a parità di titolo di studio, vanno in pensione più tardi degli uomini perché spesso hanno periodi di interruzioni lavorative dovute ai compiti di cura e faticano a rientrare nel mercato del lavoro, per cui ci mettono più tempo ad accumulare i contributi necessari. Inoltre, i lavoratori del Sud Italia vanno in pensione relativamente più tardi perché, a causa della struttura del mercato del lavoro di questa parte del paese, il rag-
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Figura 32.5 Tasso di occupazione dei lavoratori anziani (fascia di età 55-64) per sesso e livello di istruzione in Italia 90 80
male lower male intermediate male higher
female lower female intermediate female higher
70 60 50 40 30 20 10
19 92 19 93 19 94 19 95 19 96 19 97 19 98 19 99 20 00 20 01 20 02 20 03 20 04 20 05 20 06 20 07 20 08 20 09 20 10 20 11 20 12
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Fonte: OECD, 7 dicembre 2013, http://stats.oecd.org/BrandedView.aspx?oecd_bv_id=lfs-data-en&doi=data-00310-en#.
giungimento di una situazione di stabilità (che permette di accumulare i contributi necessari) richiede tempi più lunghi rispetto alle regioni del Centro-Nord. Infine, il clima di incertezza generato dal susseguirsi di diversi provvedimenti di riforma del sistema pensionistico a partire da metà anni Novanta ha determinato una percezione di timore e incertezza per l’introduzione di possibili interventi normativi sfavorevoli, e con ciò ha fatto aumentare la propensione ad andare in pensione il prima possibile (non appena raggiunti i requisiti minimi).
32.4 Le problematiche emergenti Quanto detto finora ci consente di evidenziare alcuni nodi cruciali nel rapporto tra genere, generazione e mercato del lavoro italiano. Come abbiamo visto, uno dei più importanti cambiamenti nel modello italiano di occupazione è stato il rallentamento della tradizionale caduta dei tassi di occupazione delle donne nel periodo centrale e avanzato del loro corso di vita lavorativa8 (Reyneri Nell’ultimo decennio l’incremento del tasso di occupazione più rilevante si è registrato tra le donne di età 55-59 anni. Infatti, in questo gruppo di età il tasso di occupazione è passato dal 27,5
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2011). In questo processo, un ruolo può averlo giocato l’aumento dei livelli di istruzione delle donne che, storicamente, ha favorito la generale crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro: a un più elevato livello di istruzione, infatti, corrisponde un maggiore attaccamento delle donne al lavoro; questo, secondo la teoria economica del capitale umano (Becker 1964), perché quanto più si investe in istruzione, tanto maggiore è la perdita dello stare fuori dal mercato del lavoro. All’individuo conviene, infatti, riscattare con un ritorno nella sfera lavorativa l’investimento fatto durante il percorso scolastico in tempo e denaro; inoltre, secondo le teorie sociologiche, l’istruzione ha un effetto di emancipazione nei confronti delle donne, che ne influenza le preferenze in termini di aspirazione all’autonomia (Reyneri 2011). Tuttavia, come una delle ricerche sopra presentate ci suggerisce, le preferenze possono cambiare nel corso del tempo e in presenza di diversi vincoli istituzionali nei diversi paesi. La crescente partecipazione al lavoro delle donne comporta che si vada sempre di più verso un modello di famiglia dual earners (a due percettori di reddito), in cui il comportamento femminile è simile a quello maschile. Ciò comporta la necessità di sostenere l’occupazione femminile lungo il corso di vita e di promuovere una migliore conciliazione famiglia-lavoro. La tematica della conciliazione non è nuova, tuttavia riemerge come sfida dalle nostre ricerche: forse perché non è mai stata veramente risolta; o forse perché emerge con connotazioni nuove (si pensi agli effetti della crisi economica che ha portato molti uomini a perdere il lavoro e alle trasformazioni conseguenti nella famiglia). Analisi longitudinali (come per esempio la ricerca sulle coppie in transizione al primo figlio sopra descritta) mostrano che le donne, oggi, anche con titoli di studio elevati, in Italia hanno aspettative di cura verso i figli piccoli che non coincidono del tutto con le durate consentite dai congedi parentali previsti dalla legge. Oltre al disallineamento tra ideali di cura e opzioni concretamente praticabili, un’altra problematica riguarda la diversità di tempi e indennità dei congedi in base al tipo di contratto di lavoro del genitore. In particolare, per i lavoratori autonomi e per alcune categorie di quelli temporanei iscritti alla gestione separata INPS, il congedo ha una durata massima inferiore (tre mesi) rispetto a chi ha un contratto a tempo indeterminato (che può usufruire fino a un massimo di sei mesi) e può essere preso entro il primo anno di vita del bambino contro i dodici anni di questi ultimi. Ciò comporta importanti differenze, nonché disuguaglianze, di opportunità sia per i genitori riguardo alle strategie di conciliazione che possono praticare, sia per i bambini riguardo al loro accudimento da parte dei genitori. Dopo aver assolto compiti di cura, le donne si ri-orientano al mercato del lavoro e il loro reintegro è una preziosa fonte per il lavoro. Allo stesso tempo anche i padri sembrano più orientati verso la cura dei figli. Paradossalmente, la stessa crisi economica per alcuni ha comportato la riscoperta del piacere della cura in seguito alla necessità di farsene carico a causa di perdita del lavoro, per altri ha piuttosto esasperato «l’auto-censura» rispetto alla possibilità di chiedere nei luoghi di lavoro di usufruire, per esempio, di congedi parentali per la paura di perdere il posto di lavoro o di non ottenere il rinnovo del contratto. per cento nel 2003 al 46,3 nel 2012, avvicinandosi sempre di più a quello dei gruppi di età più giovani.
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Per i giovani emerge che il sostegno della famiglia non può più reggere nel lungo periodo e che tale sostegno li rende molto dipendenti e incapaci di progettarsi un futuro e di intraprendere percorsi lavorativi in autonomia. Inoltre, molti nuovi genitori sono toccati dal fenomeno della precarietà e del basso salario e non possono e non potranno proteggere i loro figli mentre cercano lavoro: diventa necessario investire in politiche per l’inserimento più rapido dei giovani nel mercato del lavoro italiano. La tematica dell’entrata nel mercato del lavoro andrebbe, inoltre, collegata alla tematica dell’uscita, sia in termini quantitativi (se si prolunga l’età pensionabile non si liberano posti di lavoro per i giovani), sia in termini qualitativi e di competenze; a tal riguardo, come si può permettere la trasmissione delle competenze dalla vecchia alla nuova generazione? Come fare in modo che il ricambio generazionale permetta alle imprese sia un investimento in nuove competenze portate dai giovani, sia la trasmissione del capitale umano sedimentato nelle vecchie generazioni? Come fare in modo, se l’età pensionabile sale, che i lavoratori anziani siano riqualificati e non parcheggiati? Tutte queste sembrano tematiche tralasciate nel dibattito scientifico e politico. Per rispondere a questi dilemmi occorre guardare congiuntamente ai due aspetti, che spesso vengono trattati separatamente. Maggiore è la problematicità per i lavoratori delle coorti più giovani nell’accumulare contributi necessari ad andare in pensione, perché le forme di lavoro atipiche spesso prevedono meno tutele sociali e perché le carriere dei giovani sono molto più discontinue. Dunque quali saranno le conseguenze economiche di lungo periodo della precarietà giovanile di oggi, soprattutto se si pensa che la protezione della famiglia diventerà ancor più problematica nei prossimi anni nel mercato del lavoro? La cura della famiglia influenza l’età di pensionamento delle donne e degli uomini nello stesso modo: la presenza di bambini economicamente a carico ritarda l’uscita del mercato del lavoro, mentre gli anziani che vivono in casa hanno un effetto opposto. Infine, da un punto di vista metodologico, è importante sviluppare sempre di più un approccio longitudinale e comparativo nello studio del mercato del lavoro che permette di analizzare le differenze negli esiti delle transizioni occupazionali nel mercato del lavoro in relazione al contesto istituzionale nazionale, di osservare fenomeni lungo i corsi di vita degli individui e di guardare agli incastri tra generazioni.
Letture di approfondimento Blossfeld H.P., Klijzing E., Mills M., Kurz K. (eds.) (2005). Globalization, Uncertainty and Youth in Society, London, Routledge. Reyneri E. (2011). Sociologia del mercato del lavoro, Bologna, il Mulino. Saraceno C., Naldini M. (2011). Sociologia della famiglia, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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33 La stratificazione sociale: occupazioni, origini sociali e istruzione di Gabriele Ballarino e Nazareno Panichella
33.1 La stratificazione sociale Con il termine stratificazione sociale si indica il fatto che le risorse e le opportunità di vario genere, materiali e immateriali, disponibili in una società sono distribuite in modo ineguale tra gli individui e i gruppi che costituiscono tale popolazione. Stratificazione è quindi un sinonimo di disuguaglianza: il termine proviene dalla geologia, dove lo si utilizza per indicare il fatto che la crosta terrestre è costituita da strati di diversi materiali tra loro sovrapposti. Questo è il senso del termine anche in sociologia: la stratificazione comporta un ordinamento o una gerarchia, in cui c’è chi sta sopra e chi sta sotto, e in cui stare sopra è meglio che stare sotto. Questo rinvia a una distinzione importante, quella tra stratificazione (disuguaglianza) da una parte, ed eterogeneità (differenza) dall’altra (Blau 1977). Nel primo caso si tratta di una diversità ordinata, in cui è preferibile trovarsi in una posizione piuttosto che in un’altra, mentre nel secondo si tratta di una diversità in senso stretto, dove non è possibile definire una volta per tutte quale posizione sia preferibile. Per esempio, il genere o la nazionalità sono fattori di eterogeneità: è diverso essere maschio o femmina, o essere italiano o francese, ma è difficile dire una volta per tutte e in modo valido per tutti che essere femmina è meglio che essere maschio, o che essere francese è meglio che essere italiano. Di contro, il reddito o il prestigio sociale sono fattori di stratificazione perché chiunque preferisce guadagnare bene e godere di un alto prestigio. Eterogeneità e stratificazione si possono però sovrapporre, quando un gruppo definito da una differenza (le donne o i francesi) viene a trovarsi in una situazione di sistematica subordinazione gerarchica a un altro (gli uomini o gli italiani). Tutte le popolazioni umane di cui abbiamo notizia sono stratificate. Lo studio della variazione delle caratteristiche fisiche della popolazione, reso possibile dalle moderne tecniche archeologico-antropometriche, mostra l’esistenza di disparità nelle opportunità alimentari dei diversi membri di popolazioni primitive (Boix 2015). In effetti, la stratificazione sociale affonda le proprie radici in due fenomeni presenti in qualsiasi gruppo umano: la diversa dotazione di abilità, fisiche e intellettuali, e la divisione del lavoro che a questa più o meno direttamente si ricollega. Come l’economia politica e la sociologia classiche hanno mostrato, la divisione del lavoro è un potente fattore di sviluppo, poiché aumenta la produttività degli individui, quindi l’efficienza dell’economia e le opportunità che questa crea (Durkheim 1893; Smith 1776).
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Ma se la divisione del lavoro e la stratificazione sono presenti in tutte le società, le loro forme variano nel tempo e nello spazio. La disuguaglianza era relativamente bassa nelle società primitive di raccoglitori, è poi aumentata nelle società agricole, ed è successivamente diminuita nelle società industriali (Boix 2015; Lenski 1966). Non solo cambia la struttura della stratificazione sociale, ma cambiano anche i meccanismi che governano l’attribuzione delle risorse agli individui e quindi la loro posizione nella stratificazione sociale. In particolare, la teoria sociologica distingue due tipi di meccanismi. Nelle società premoderne la posizione sociale individuale, o «status», è di solito determinata da criteri di tipo «ascrittivo» (ereditario), per cui gli individui si trovano nella medesima posizione dei propri genitori: difficilmente un figlio di contadini potrà essere altro che un contadino, e di certo la figlia di un nobile sarà a sua volta nobile. Nelle società moderne, invece, le posizioni sono determinate da criteri di tipo «acquisitivo» (di merito), per cui dipendono da quello che gli individui sono stati capaci di fare nel corso della vita (Blau e Duncan 1967; Parsons 1951). Questa differenza ha un riferimento di tipo normativo: la sensibilità contemporanea è ugualitaria, e tende a giustificare le disuguaglianze sociali solo nella misura in cui si collegano al merito. La grande ricchezza di mezzi e di opportunità di un imprenditore di successo viene ritenuta legittima in virtù del suo talento e del suo impegno, mentre l’altrettanto grande ricchezza di un erede di una dinastia di proprietari d’azienda viene messa in discussione e ritenuta poco legittima perché non meritata. Il passaggio da una stratificazione sociale basata sull’ereditarietà a una basata sul merito è dovuto all’espandersi dell’economia di mercato e alla concorrenza che questa normalmente implica. In un’economia di mercato competitiva, i datori di lavoro sono incentivati ad assegnare le posizioni secondo le capacità delle persone, e non secondo le loro appartenenze (religiose, etniche, di genere, familiari e così via). Se non lo facessero, le persone più competenti e più produttive verrebbero assunte dai loro concorrenti, che grazie alla maggiore produttività del personale potrebbero vendere merci e servizi della stessa qualità a prezzi inferiori, mettendo fuori mercato chi non seleziona sulla base della competenza. Questa dinamica, che per la sociologia classica era un dato di fatto, è stata messa in discussione dalle stesse ricerche di stratificazione, che hanno mostrato l’importanza dei meccanismi ereditari anche nella società contemporanea (Blau e Duncan 1967; Coleman et al. 1966). Oggi la contrapposizione tra meccanismi ereditari e meritocratici non è più vista come formula di un’evoluzione storica irreversibile dai primi verso i secondi, ma come strumento euristico per descrivere lo sviluppo socioeconomico nel lungo periodo. È riconducibile a questa contrapposizione, per esempio, la distinzione tra istituzioni «inclusive», che creano opportunità economiche per ampi strati della popolazione, e istituzioni «estrattive», che garantiscono le rendite di piccoli gruppi dominanti (Acemoglou e Robinson 2013). Gli studi di stratificazione si occupano quindi della variazione spaziale e temporale dell’operare dei meccanismi ereditari e di quelli meritocratici, rispondendo a domande come «la stratificazione sociale in Italia oggi è più o meno basata sull’ereditarietà di quanto non fosse nel secolo scorso?», o «la stratificazione sociale oggi è più basata sul merito in Germania o in Italia?».
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33.2 Dimensioni e misurazione della stratificazione: la struttura occupazionale Seguendo Max Weber (1922; si veda il Cap. 1), si distinguono tre dimensioni di stratificazione: economica, culturale e politica. La prima indica la distribuzione disuguale delle risorse economiche, materiali e monetarie, la seconda la distribuzione disuguale di risorse immateriali come l’istruzione o il prestigio, la terza l’accesso disuguale alle risorse distribuite dal sistema politico. Ciascuna delle tre dimensioni, inoltre, definisce una serie di gruppi: le risorse economiche definiscono le classi, le risorse socio-culturali i ceti e le risorse politiche i partiti. Nella sociologia contemporanea per indicare i vari tipi di risorse si usa anche il termine economico «capitale»: esistono un capitale «economico», la ricchezza materiale e monetaria; un capitale «umano», le capacità e le informazioni disponibili; e un capitale «sociale», le relazioni sociali in cui ciascuno è inserito e le risorse che da queste relazioni si possono attingere (si veda il Cap. 7). Esistono quindi vari modi di misurare le risorse in possesso di un individuo, e quindi la sua posizione nella stratificazione sociale. Tra gli scienziati sociali c’è ampio consenso, però, sulla centralità dell’occupazione nella stratificazione sociale contemporanea: nella grande maggioranza dei casi, gli individui oggi traggono gran parte delle risorse e delle opportunità a loro disponibili da una qualche forma di lavoro dipendente o autonomo. Mentre gli economisti utilizzano come misura della posizione sociale il reddito da lavoro, eventualmente integrato con i trasferimenti pubblici1, i sociologi preferiscono al reddito misure della posizione sociale direttamente ricavate dall’occupazione degli individui, per diverse ragioni. In primo luogo c’è un problema di disponibilità di informazioni attendibili: il reddito è un’informazione delicata, e molte persone non gradiscono che esso sia noto, quindi non rispondono alle rilevazioni in proposito (si veda il Cap. 13), o comunicano un reddito inferiore a quello effettivo, mentre le informazioni provenienti dai registri delle tasse sono poco attendibili, per l’elusione e l’evasione fiscale. La seconda ragione è più di sostanza: mentre il reddito è esposto a fluttuazioni congiunturali e al rischio della disoccupazione, l’occupazione è una misura più attendibile del «reddito permanente», il reddito medio sul lungo periodo. Infine, quando le indagini studiano il corso della vita, raccogliendo informazioni retrospettivamente, ad anni di distanza, gli intervistati normalmente si ricordano bene delle proprie occupazioni passate, anche non recenti, mentre è più difficile ricostruire con esattezza il proprio stipendio di molti anni prima. Le occupazioni, però, sono migliaia, a volte diverse solo per minimi particolari: è quindi necessario classificarle, individuandone le caratteristiche più importanti dal nostro punto di vista, vale a dire l’accesso a risorse e opportunità. Seguendo Marx e Weber, i sociologi contemporanei raggruppano le occupazioni in gruppi più ampi, 1
Fra i vari indici di disuguaglianza di reddito, il più noto è l’indice di Gini. Esso può variare da 0 a 1 (o da 1 a 100). È pari a 0 quando la distribuzione del reddito è perfettamente uguale tra tutti gli individui, ovvero tutti hanno lo stesso reddito; è pari a 1 quando la distribuzione è perfettamente disuguale, ovvero quando tutto il reddito è di un solo individuo.
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III – Temi e percorsi di ricerca
definiti «classi sociali»2, in base ai due loro aspetti principali: la situazione di lavoro e la situazione di mercato. La situazione di lavoro è la posizione di un’occupazione nella divisione dei compiti e nella gerarchia organizzativa del contesto di lavoro. La prima distinzione è quella tra occupazioni manuali e non (operai contro impiegati). La seconda è quella tra occupazioni dipendenti, dove il lavoro è diretto da altri, e occupazioni autonome. In quest’ultimo ambito un’ulteriore suddivisione è quella tra imprenditori, che gestiscono il lavoro di altri, e occupazioni autonome senza dipendenti. Le occupazioni alle dipendenze, invece, si distinguono sulla base della posizione nella gerarchia organizzativa. I dirigenti sono molto autonomi e gestiscono il lavoro dei loro sottoposti. Altre occupazioni consistono invece soprattutto nell’eseguire direttive: si tratta degli operai comuni, nel lavoro manuale, o degli impiegati esecutivi, nel lavoro non manuale. In un terzo gruppo di occupazioni dipendenti ci si trova in mezzo: si è diretti dal vertice, ma si gestiscono altri lavoratori; è questo il caso dei capi operai, nel lavoro manuale, e degli impiegati direttivi o di concetto nel lavoro non manuale. La situazione di mercato, invece, guarda all’esterno del luogo di lavoro, e comprende l’insieme delle ricompense, materiali e non, associate a ciascuna occupazione. Queste dipendono sia dalla competizione di mercato in sé, compresa quella delle macchine e dei lavoratori stranieri, sia dalla regolazione istituzionale che influisce sul mercato. Per esempio, oggi l’agricoltura è molto meccanizzata e la concorrenza delle macchine ha molto ridotto i compensi dei lavoratori agricoli, sia in termini di reddito sia in termini di prestigio. Al contrario, lavoratori autonomi come avvocati o medici sono stati in grado, per mezzo dello stato, di limitare l’accesso all’occupazione: questo riduce la concorrenza e aumenta prestigio e compensi dei «professionisti». Si giunge così allo schema di classe riprodotto nella Tab. 33.1. Lo schema è uno strumento analitico, che quindi può variare in relazione ai diversi obiettivi che la ricerca si pone: la Tab. 33.1 ne riporta la versione più dettagliata, che raggruppa le occupazioni in dodici classi, e due versioni ridotte, a sei o a tre classi. Quale si utilizzi dipende anche dalla numerosità dei campioni (più numeroso è il campione, più dettagliato può essere lo schema) e dalle caratteristiche della società che si studia (se in Italia l’agricoltura è quasi scomparsa, è inutile considerare le classi agricole a livello nazionale, ma se la scala di analisi è globale, i contadini/agricoltori rappresentano tuttora una parte considerevole delle classi lavoratrici). La versione più semplice dello schema, nella prima colonna a sinistra della tabella, distingue tre grandi classi: la borghesia (o service class), le classi medie e la classe operaia. Nella versione più dettagliata la borghesia si divide in tre classi: in base alla situazione di lavoro si distingue tra imprenditori (con almeno quindici dipendenti) e lavoratori dipendenti di alto livello, i dirigenti; in base alla situazione di mercato vengono distinti i professionisti (con o senza dipendenti). Le classi medie, invece, vengono suddivise a seconda della situazione di lavoro: da una parte la clas-
2
Altri due modi di misurare la posizione di un’occupazione nella stratificazione sociale sono presentati nel 2 Box 33.1.
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Tabella 33.1 Schemi di classe Schema a 3 posizioni
Schema a 6 posizioni Schema a 12 posizioni
Borghesia
Borghesia
Imprenditori Liberi professionisti Dirigenti
Classi medie
Classe media impiegatizia
Impiegati di concetto (lavoratori dipendenti non manuali, a qualifica medio-alta) Impiegati esecutivi (lavoratori dipendenti non manuali, a qualifica medio-bassa)
Classe operaia
Piccola borghesia urbana
Artigiani e commercianti con dipendenti
Piccola borghesia agricola
Proprietari agricoli, con e senza dipendenti (coltivatori diretti)
Classe operaia urbana
Operai qualificati (dell’industria e del terziario)
Artigiani e commercianti senza dipendenti
Operai comuni industriali Operai dei servizi (lavoratori dipendenti a bassa qualificazione nel terziario) Classe operaia agricola Braccianti (lavoratori dipendenti nel settore agricolo) Fonte: A. Cobalti, A. Schizzerotto, La mobilità sociale in Italia, Bologna, il Mulino, 1994.
se media impiegatizia, che comprende lavoratori dipendenti di livello medio-alto, di norma non manuali; dall’altra la piccola borghesia, i lavoratori autonomi con pochi o nessun dipendente. A seconda della situazione di mercato, cioè del settore economico, la piccola borghesia viene suddivisa in urbana e agricola: della prima fanno parte i piccoli commercianti (negozianti) e artigiani, con pochi o nessun dipendente; della seconda i coltivatori diretti. Nella classe operaia, infine, sono comprese le occupazioni prevalentemente dirette da altri, manuali e non. In base alla situazione di lavoro, si distinguono i capi operai e gli operai qualificati dagli operai comuni, mentre in base alla situazione di mercato si distingue la classe operaia urbana da quella agricola, e in quella urbana si distingue la classe operaia industriale da quella dei servizi. La prima comprende gli operai classici, le «tute blu», la seconda occupazioni poco qualificate del terziario, come camerieri, autisti, addetti alle pulizie e così via. Coloro che non lavorano sono classificati in base alla loro ultima occupazione se hanno lavorato in precedenza (pensionati e disoccupati). Se si tratta di casalinghe o di studenti, invece, viene loro attribuita la classe sociale rispettivamente del marito e dei genitori. Infine, i cosiddetti lavoratori atipici, formalmente autonomi ma di fatto dipendenti, vengono considerati dipendenti, perché quello che conta è la sostanza del rapporto, non la forma del contratto di lavoro.
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33.3 Lo studio empirico della stratificazione e della mobilità sociale Gli studi di stratificazione si pongono in generale due obiettivi: (1) descrivere la struttura di classe di una data società e il suo cambiamento; (2) studiare i movimenti degli individui nello spazio sociale così descritto. Mentre il primo obiettivo, lo studio del mutamento della struttura occupazionale anche sul lungo periodo, è comune agli studi di stratificazione e ad altre discipline, come la sociologia del lavoro o la storia economica 3, il secondo obiettivo è più specifico di questo campo, tanto che «studi di mobilità sociale» è un sinonimo di studi di stratificazione sociale. La mobilità sociale è il passaggio di individui (o gruppi) da una collocazione iniziale (l’origine o la partenza) a una posizione finale (la destinazione) nella stratificazione sociale. Il primo passo per studiarla empiricamente è quindi definire l’origine e la destinazione. In genere, la mobilità sociale viene studiata confrontando la posizione della famiglia di origine con quella raggiunta dall’individuo adulto, oppure confrontando le posizioni sociali che lo stesso individuo ha occupato nel corso della sua carriera occupazionale. Nel primo caso si parla di mobilità intergenerazionale, perché si studia il passaggio dalla generazione dei genitori a quella dei figli; nel secondo si parla di mobilità sociale intragenerazionale (o di carriera), perché si confrontano le posizioni successive degli stessi individui. Le tecniche usate per studiare i due tipi di mobilità sono simili, quindi per ragioni di spazio qui ci concentreremo solo sullo studio della mobilità intergenerazionale (sulla mobilità di carriera si vedano, per esempio, Ballarino e Barbieri 2012; Schizzerotto 2002). Sempre per ragioni di spazio non possono essere affrontate in questa sede altre due questioni importanti: le differenze di genere nei percorsi di mobilità e l’andamento temporale della mobilità sociale (si vedano Cobalti e Schizzerotto 1994; Schizzerotto 2002). Lo schema analitico con cui si studia la mobilità intergenerazionale è il triangolo O-I-D che rappresenta, in maniera semplificata, i principali meccanismi del processo di riproduzione delle disuguaglianze sociali tra due generazioni (Fig. 33.1). Nello schema, la classe sociale della famiglia di origine (O) influenza la classe sociale di destinazione (D) in due modi. Il primo è l’effetto indiretto, mediato dal livello di istruzione dell’individuo (I). Questo effetto, rappresentato dalle linee tratteggiate, coinvolge due associazioni. La freccia OI esprime il legame tra origine sociale e istruzione e, quindi, la disuguaglianza delle opportunità educative (d’ora in avanti, DOE). È noto, infatti, che in Italia così come altrove l’effetto complessivo delle origini sociali è trainato soprattutto dalle differenze di istruzione: i figli delle classi superiori conseguono più spesso diplomi e lauree, che assicurano loro migliori opportunità occupazionali (Ballarino, Barone e Panichella 2016). La freccia ID indica invece il fatto che i titoli di studio elevati hanno un effetto positivo sulle possibilità
3 Nel 2 Box 33.2 si trova una breve descrizione del mutamento della struttura di classe italiana tra la fine dell’Ottocento e oggi.
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Figura 33.1 Triangolo origine-istruzione-destinazione (O-I-D )
OI
Istruzione (I)
ID
OD
Classe di origine (O) Effetto indiretto
Classe di destinazione (D) Effetto diretto
di accedere ai piani alti della stratificazione sociale, nonostante negli ultimi anni ci sia stata una notevole diminuzione del valore occupazionale del titolo di studio (Ballarino e Scherer 2013)4. Oltre all’effetto indiretto, la classe sociale di origine può avere un effetto diretto sulla destinazione (o DESO, direct effect of social origin, Bernardi e Ballarino 2016), anche a parità di istruzione raggiunta. Il DESO, rappresentato dal legame OD nella Fig. 33.1, si basa sull’effetto congiunto di diversi meccanismi, che riguardano la distribuzione tra le classi sociali delle risorse economiche, culturali e sociali: la trasmissione intergenerazionale delle attività economiche familiari; l’accesso a reti sociali; la trasmissione di capacità (cognitive e non) in grado di aumentare la produttività; le aspirazioni occupazionali; infine, il favoritismo da parte delle aziende5. Dunque, se due individui hanno lo stesso titolo di studio ma provengono rispettivamente dalla borghesia e dalla classe operaia agricola, l’azione di questi meccanismi garantisce al primo un più facile accesso alle classi sociali superiori (Ballarino, Barone e Panichella 2016). Dal punto di vista analitico, l’effetto diretto (DESO) è misurato dal legame OD, mentre quello indiretto equivale al prodotto tra l’influenza esercitata dalla classe sull’istruzione e l’effetto del titolo di studio sulla classe di destinazione: EI = OI × OD. La somma dell’effetto diretto e indiretto rappresenta l’effetto totale dell’origine sociale sulla classe di destinazione. In una società perfettamente meritocratica, dove l’allocazione degli individui nella struttura occupazionale dipende solo dalle capacità e dall’impegno individuale, e quindi dal titolo di studio raggiunto, il DESO e il legame OI sono entrambi uguali a 0, mentre il legame ID è positivo. In questa società ideale e completamente acquisitiva, l’effetto totale dell’origine sociale è pari a 0. Al contrario, in tutti i casi in cui il DESO e le disuguaglianze educative (OI) non sono 0, l’effetto totale della classe sociale di origine sarà positivo e diverso da 0.
4
Il 2 Box 33.3 approfondisce il rapporto tra istruzione e stratificazione sociale. Per una discussione approfondita sui cinque meccanismi elencati si rimanda al capitolo conclusivo di Bernardi e Ballarino (2016).
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33.4 Le tavole di mobilità Lo strumento di base con cui gli studi di stratificazione analizzano la mobilità, sia intergenerazionale sia di carriera, è la tavola di mobilità (Hout 1983). Si tratta di tabelle a doppia entrata che dividono gli individui in base alla loro classe di origine (o di partenza, nel caso della mobilità di carriera) e di destinazione (Ballarino e Cobalti 2003). La Tab. 33.2 è una tavola di mobilità intergenerazionale per l’Italia, che incrocia la classe sociale della famiglia di origine con quella degli individui a 45 anni, costruita con i dati dell’Indagine statistica multiscopo sulle famiglie – Famiglia e soggetti sociali del 2009, condotta dall’Istat su un campione rappresentativo della popolazione italiana di quasi 44.000 individui. La classe di origine è definita in base all’occupazione dei genitori quando gli intervistati avevano 14 anni, con il principio di dominanza, che classifica i soggetti nella classe più alta tra quella del padre e quella della madre. La classe di destinazione è rilevata all’età di 45 anni, quando le persone hanno raggiunto una certa stabilità occupazionale. Tabella 33.2 Tavola di mobilità intergenerazionale all’occupazione svolta a 45 anni
BOR CMI PBU PBA COU COA Totale (A)
BOR
CMI
PBU
PBA
COU
COA
Totale (B)
220
410
89
10
65
5
799
27,5
51,3
11,1
1,3
8,1
0,6
100,0
224
1.127
204
9
213
9
1.786
12,5
63,1
11,4
0,5
11,9
0,5
100,0
155
804
491
30
268
9
1.757
8,8
45,8
27,9
1,7
15,3
0,5
100,0
72
674
388
338
646
48
2.166
3,3
31,1
17,9
1,6
29,8
2,2
100,0
170
1.941
623
45
1.499
37
4.315
3,9
45,0
14,4
1,0
34,7
0,9
100,0
41
569
332
100
950
129
2.121
1,9
26,8
15,7
4,7
44,8
6,1
100,0
882
5.525
2.127
532
3.641
237
12.944
6,8
42,7
16,4
4,1
28,1
1,8
100,0
3.804 9.140 4.272 1.772 3.096
29,4 70,6 33,0 13,7 23,9
Immobili Mobili Mobili ascendenti Mobili discendenti Mobili orizzontali
Nota: BOR = borghesia; CMI = classe media impiegatizia; PBU = piccola borghesia urbana; PBA = piccola borghesia agricola; COU = classe operaia urbana; COA = classe operaia agricola.
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La tavola di mobilità è composta da k celle, dove k è il prodotto del numero di classi sociali di origine e il numero di classi sociali di destinazione. Ogni cella (i, j) della tavola rappresenta una specifica combinazione di origine (i) e destinazione (j). Nel nostro caso, ogni cella contiene due valori: le frequenze assolute e le percentuali di riga6. I valori assoluti indicano il numero di individui che si sono mossi secondo la combinazione i, j. Per esempio, il valore 804 riportato nella cella (3,2) sta a indicare che 804 individui si sono mossi dalla posizione 3 alla posizione 2, ovvero dalla PBU alla CMI. Le percentuali di riga, invece, indicano la probabilità di inserirsi nelle diverse classi a seconda della classe di origine. Il valore 51,3 riportato nella cella (1,2), per esempio, indica che gli originari della BOR hanno una probabilità pari a 51,3 per cento di trovarsi nella CMI all’età di 45 anni. In termini tecnici, con queste percentuali è possibile fare un’analisi di deflusso, dalle classi di origine verso le classi di destinazione (Ballarino e Cobalti 2003). Oltre alle celle, le tavole di mobilità includono i totali di riga e i totali di colonna. I totali di riga (totale B) si trovano nell’ultima colonna di destra che è la distribuzione marginale delle origini. I totali di colonna (totale A) si trovano invece nella riga inferiore, la distribuzione marginale delle destinazioni. Spesso i marginali vengono letti come altrettante rappresentazioni della stratificazione sociale in due tempi successivi. Questo è sbagliato per due motivi. Primo, perché la tavola di mobilità intergenerazionale non tiene conto della differenza dei tassi di fertilità tra le classi sociali (Cobalti 1995; Duncan 1966). Secondo, perché il gruppo di individui incluso nella tavola comprende individui di età diversa, come diversa è l’età dei loro genitori: quindi le distribuzioni di classe dei marginali non hanno un riscontro empirico reale, temporalmente situato. Le celle della tavola possono essere classificate in due gruppi. Le diagonali sono le celle che occupano la diagonale principale della tavola, che rappresentano combinazioni di riga e di colonna in cui l’origine è identica alla destinazione (i = j): esse quindi includono tutti gli individui immobili, che non hanno cambiato posizione sociale rispetto ai genitori. Le diagonali della nostra tavola mostrano un’immobilità sociale particolarmente elevata per coloro che provengono dalla CMI (63,1 per cento) e molto bassa per gli originari delle classi agricole (rispettivamente 15,6 per cento e 6,1 per cento). Percentualizzando sul totale della tavola la somma dei valori delle celle sulla diagonale si ottiene il tasso di immobilità, in questo caso pari a 29,4 per cento. Nel confrontare l’immobilità sociale tra le diverse classi non sono state usate le frequenze assolute, ma le percentuali di riga: l’utilizzo delle prime per comparare la mobilità di diversi gruppi è fuorviante, perché sono influenzate dalla numerosità dei gruppi stessi. Per esempio, la frequenza degli immobili della COU (1499) è più alta di quella degli immobili provenienti dalla CMI (1127), ma questo non significa che l’immobilità della prima sia superiore a quella della seconda, perché il confronto è 6
Per non appesantire eccessivamente la tavola non abbiamo riportato le percentuali totali e quelle di colonna (di veda Ballarino e Cobalti 2003). Nella sezione online di questo capitolo si trova l’2 Appendice statistica contenente un file Excel della Tab. 33.2, con cui possono essere calcolate tutte le statistiche presentate in questo paragrafo.
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distorto dalla maggiore numerosità degli individui originari della COU (4315 contro 1786). Le percentuali di riga, invece, tengono conto della numerosità delle diverse classi di origine. La loro interpretazione è semplice: fatti 100 gli originari delle due classi sociali, 63,3 originari della CMI rimangono in questa classe, contro 34,7 nel caso della COU. Le celle extradiagonali rappresentano combinazioni in cui l’origine è diversa dalla destinazione (i ≠ j) e contengono il numero di individui mobili rispetto ai genitori. Il tasso di mobilità si ottiene sottraendo a 100 il tasso di immobilità: nella nostra tavola esso è pari al 70,6 per cento, ovvero la gran parte della società italiana si trova in una classe sociale diversa da quella di origine. I dati relativi a mobilità e immobilità sono naturalmente collegati tra loro. Per esempio, l’alta immobilità della COU e della CMI è dovuta all’accrescimento quantitativo di queste due classi sociali che hanno «trattenuto» al loro interno i loro discendenti, ma allo stesso tempo hanno svolto un ruolo di «attrattore», con flussi consistenti da tutte le altre classi. Naturalmente i flussi in entrata di queste due classi sono molto diversi: i flussi più consistenti alla CMI arrivano dalle altre tre classi urbane, mentre i flussi più consistenti alla COU provengono dalle due classi agricole e dalla PBU. Dato che le sei classi sociali utilizzate sono ordinabili, il tasso di mobilità complessivo può essere scorporato in tre componenti. La prima è la mobilità ascendente, il passaggio da una classe sociale inferiore a una superiore. Sono considerati mobilità ascendente i passaggi dalle tre classi medie (CMI, PBU e PBA) alla borghesia e quelli dalle classi basse (COU e COA) verso le tre classi medie o verso la borghesia. La mobilità ascendente è stata notevole per i figli della classe operaia urbana: ben il 64,4 per cento degli originari di questa classe ha migliorato rispetto alla posizione dei genitori, inserendosi soprattutto nella CMI (45 per cento) e nella PBU (14,4 per cento). Si può inoltre notare come la gran parte della mobilità ascendente sia di breve raggio, mentre è poco diffuso il passaggio tra classi sociali distanti tra loro, in particolare dalle classi agricole alle classi urbane medio-alte (BOR e CMI). Questo dipende dalla bassa scolarità dei figli degli agricoltori che, prima della diffusione dei trasporti pubblici, dovevano affrontare costi molto elevati per ottenere titoli di studio superiori (Ballarino e Schadee 2006). La mobilità discendente è il passaggio a una posizione sociale inferiore, cioè l’uscita dalla borghesia oppure il passaggio dalle classi medie a quelle operaie. Secondo i nostri dati, questa ha riguardato solo il 13,7 per cento della popolazione italiana. Infine, la mobilità orizzontale riguarda il passaggio tra posizioni sociali dello stesso rango, quindi può avvenire all’interno delle classi medie (PBU, PBA, CMI) o all’interno delle due classi operaie (COU, COA). La mobilità orizzontale più diffusa è quella dalla COA alla COU (44,8 per cento), conseguenza del processo di industrializzazione e della conseguente migrazione dalle campagne alle città che hanno caratterizzato la società italiana nel secondo dopoguerra, specialmente tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta (Panichella 2014). Quando si studiano queste forme di mobilità bisogna fare attenzione a due problemi. Il primo è empirico: gli originari della borghesia non possono avere una mobilità ascendente (effetto tetto) e, analogamente, gli originari delle classi operaie non posso-
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no avere mobilità discendente (effetto pavimento). Se non adeguatamente controllati, questi due effetti possono creare problemi tecnici quando si stimano con modelli statistici multivariati le possibilità individuali di esperire i tre tipi di mobilità. Il secondo punto è che diversi tipi di mobilità sociali hanno significati qualitativi diversi. Per esempio, il passaggio dalla COA alla COU è mobilità orizzontale, ma non bisogna dimenticare che l’uscita dal lavoro nelle campagne ha rappresentato per molti italiani un importante miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro (Panichella 2014). In generale, i dati della nostra tavola mostrano che nella società italiana del 2009 le possibilità di aver migliorato la condizione sociale di partenza sono superiori a quelle di averla peggiorata: la gran parte degli italiani ha cambiato classe sociale e la mobilità ascendente è molto più diffusa di quella discendente. Questa conclusione, però, è influenzata dai cambiamenti strutturali della società italiana nel periodo considerato. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta lo sviluppo industriale ha comportato un notevole ridimensionamento del settore agricolo e un contemporaneo aumento del numero degli operai di fabbrica. A partire dalla prima metà degli anni Settanta, quando il processo di industrializzazione ha raggiunto il culmine, il peso quantitativo della classe operaia urbana ha iniziato a diminuire a vantaggio delle occupazioni non manuali e terziarie (Bell 1972; Panichella 2014). Queste trasformazioni hanno influito sui percorsi di mobilità sociale, facendo diminuire l’immobilità delle due classi agricole e aumentando gli ingressi nella COU e nella CMI. Questa mobilità sociale è quindi definita assoluta, perché influenzata dalla trasformazione della struttura occupazionale e, quindi, dalla diversa distribuzione dei marginali di riga e di colonna della tavola di mobilità. Si tratta di una mobilità creata dai cambiamenti della struttura sociale ed economica, ma non è detto che la distribuzione di queste opportunità di mobilità sia equa, tale da avvantaggiare tutte le classi allo stesso modo (Ballarino e Cobalti 2003). La mobilità sociale assoluta è quindi la somma di due componenti: i cambiamenti strutturali e la «fluidità sociale», cioè le possibilità di mobilità delle diverse classi di origine al netto dei cambiamenti dei marginali. Solo analizzando la fluidità sociale, o mobilità relativa, si può valutare se le possibilità di mobilità create dai cambiamenti strutturali si sono distribuite in maniera omogenea tra le diverse classi sociali. Il prossimo paragrafo descrive le tecniche per farlo.
33.5 La fluidità sociale e gli effetti diretti dell’origine sociale Per studiare la fluidità sociale bisogna usare misure che, diversamente dalle percentuali e dalle frequenze assolute, tengano in considerazione i cambiamenti della numerosità di ciascuna classe sociale, misurando le probabilità di spostamento da una classe all’altra al netto di questi cambiamenti. Tra le varie misure utilizzate, le più diffuse sono gli odds ratio (OR), che misurano l’associazione tra variabili categoriali basandosi sui rapporti, interpretati in senso probabilistico (Ballarino e Cobalti 2003). Il punto di partenza per calcolare l’OR è l’odds (ω), il rapporto tra la probabilità di un evento (p) e la probabilità che tale evento non si verifichi (1 – p). Essi variano tra 0 e
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infinito e la loro interpretazione è semplice: un valore pari a 1 indica pari probabilità, un valore tra 1 e infinito una probabilità superiore, un valore tra 0 e 1 una probabilità inferiore. Per esempio, per i figli della CMI l’odds di finire nella BOR piuttosto che nella COU è uguale a 1,05 (224/213)7. L’analogo odds per gli originari della COU è pari a 0,11 (170/1499). Nel primo caso, quindi, la probabilità di inserirsi nella BOR è (leggermente) superiore a quello di entrare nella COU, perché l’odds è superiore a 1; nel secondo caso l’odds inferiore a 1 indica che il secondo evento – l’entrata nella classe operaia – ha una probabilità maggiore di verificarsi, precisamente poco meno di 10 volte maggiore. L’odds ratio è il rapporto tra due odds (ω1/ω2), che nel nostro caso misura il vantaggio (o svantaggio) di una classe rispetto a un’altra nel raggiungere una data destinazione piuttosto che un’altra. Mettendo a rapporto i due odds calcolati sopra si ottiene il valore di 9,27 (1,05/0,11), che significa che i figli della CMI hanno, rispetto a quelli della COU, circa 9 volte tante possibilità di inserirsi nella BOR piuttosto che nella COU. Questa è una misura di fluidità sociale perché non considera i marginali e tiene quindi sotto controllo il mutamento della struttura occupazionale. Odds ratio come questo, però, sono misure parziali, perché considerano solo due traiettorie specifiche di mobilità. Per dare un quadro completo della mobilità relativa si calcolano gli odds ratio generalizzati (ORG)8. In primo luogo, sulla tavola si calcolano gli odds ratio per tutte le possibili origini in relazione a tutte le possibili destinazioni, quindi questi odds ratio sono sintetizzati in una media geometrica (odds ratio generalizzato) che misura il vantaggio o lo svantaggio dei figli di una determinata classe nella possibilità di raggiungere una determinata posizione, piuttosto che tutte le altre, rispetto agli originari delle altre classi. Si ottiene quindi un valore compreso tra 0 e infinito, dove 1 indica la situazione di equilibrio concorrenziale, ovvero una situazione di uguali possibilità di mobilità da tutte le posizioni di origine a quella determinata posizione. Per semplificare la presentazione dei dati, i valori compresi tra 0 e 1 sono stati trasformati in valori negativi, calcolandone l’inverso e premettendo il segno negativo9. Si ottiene, in questo modo, un valore per ogni cella della tavola di mobilità. Questi valori costituiscono la tavola di mobilità relativa, che misura la struttura della mobilità sociale non in termini di flussi, ma di maggiori o minori probabilità di movimento controllando per il cambiamento della struttura occupazionale (Ballarino e Cobalti 2003; Cobalti e Schizzerotto 1994). I valori della tavola di mobilità relativa sono riportati nella Fig. 33.2: ognuno dei sei grafici è riferito a una classe e rappresenta il vantaggio o lo svantaggio dei figli di questa classe, rispetto a quelli delle altre, nella probabilità di entrare in quella posizione sociale, piuttosto che in tutte le altre (Pisati 2002). In una situazione ideale di perfetta uguaglianza delle opportunità di accedere alle diverse classi, i valori riportati nel grafico sarebbero uguali a 0. 7
Il calcolo può essere effettuato anche con le percentuali, perché riferite al medesimo totale. Nel 2 Box 33.4 è descritto un metodo alternativo per ottenere un quadro completo della fluidità sociale. 9 Se la tavola di mobilità ha una o più celle vuote non è possibile calcolare gli odds ratio (la divisione per 0 non è possibile). Per questo motivo i casi mancanti possono essere sostituiti con il valore 0,1. 8
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A
U
I
U CO A
CO
PB
PB
CM
A
U CO A BO R
CO
PB
PB
CM
BO
CO
CO
U
COA
I
COU
R
PBA
A
PBU
U
CMI
A
U
I
BOR
PB
PB
CM
BO
R
Figura 33.2 Disuguaglianza nell’opportunità di mobilità intergenerazionale: odds ratio generalizzati
Invece, i dati nella Fig. 33.2 mostrano che in Italia le opportunità di accedere alle diverse classi non sono equidistribuite, ma dipendono dalla classe di partenza. Per esempio, i figli della borghesia (9,4) e della CMI (4,2) hanno un netto vantaggio nella possibilità di accedere alla borghesia, mentre quelli della COA (–8,7) e della COU (–1,7) sono sistematicamente svantaggiati. Inoltre, si vede come tutte le classi di origine hanno un coefficiente alto per l’immobilità, che misura la tendenza a trattenere i discendenti all’interno della propria stessa classe. Queste analisi della tavola di mobilità misurano l’effetto totale dell’origine sulla destinazione, senza considerare che il vantaggio dei figli delle classi alte può essere in parte mediato dalla loro migliore istruzione, come raffigurato dal triangolo O-I-D. Per studiare l’effetto diretto dell’origine sulla destinazione si possono calcolare gli odds ratio generalizzati separatamente per coloro che hanno un titolo di studio basso (elementare o media) e un titolo medio-alto (diploma o laurea). Così si tiene sotto controllo la mediazione dell’istruzione, perché si confrontano individui di diversa classe ma con la stessa istruzione. Se la mobilità sociale (Y) è funzione dell’origine sociale (X) e dell’istruzione (Z), quindi Y = f(X,Z), comparando individui in cui Z è fisso, è possibile studiare l’effetto diretto di X su Y. L’effetto diretto (DESO) sarà nullo se l’effetto totale (total effect of social origin, TESO) osservato precedentemente scompare quando si suddivide il campione in base all’istruzione. In questo caso, quindi, l’effetto totale dipenderebbe dal fatto che i figli delle classi alte sono più
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A
U
I
U CO A
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COA
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Figura 33.3 Disuguaglianza nell’opportunità di mobilità intergenerazionale per titolo di studio: odds ratio generalizzati
istruiti: TESO = 0 + OI × ID, quindi TESO = OI × ID. Al contrario, se il vantaggio delle classi alte persiste anche differenziando il campione per Z, allora si può concludere che il DESO è diverso da 0 e che la classe sociale di origine ha un effetto diretto e indipendente sulla destinazione, anche a parità di istruzione. Gli ORG riportati nella Fig. 33.3 confermano che in Italia le origini sociali hanno un impatto diretto sulle possibilità di entrare ai piani alti della struttura occupazionale (Ballarino, Barone e Panichella 2016). Infatti, gli ORG relativi alle possibilità di entrare nelle diverse classi sociali non cambiano molto tra i due gruppi. Per esempio, anche tra diplomati e laureati, chi proviene dalla borghesia ha un vantaggio sostanziale nelle possibilità di accedere a questa classe: se un figlio di un operaio e quello di un avvocato conseguono lo stesso titolo di studio, in questo caso il diploma o la laurea, il secondo ha comunque più possibilità di entrare nella classe superiore. Analogamente, sia tra i poco istruiti sia tra i diplomati o laureati, i figli di borghesia, classe media impiegatizia e piccola borghesia urbana sono avvantaggiati rispetto ai figli delle altre classi nelle possibilità di accedere alla classe impiegatizia. Per definizione, questi vantaggi non dipendono dall’istruzione. L’effetto diretto deriva invece dalle maggiori risorse economiche, informative, relazionali e motivazionali associate alle origini familiari. è chiaro, quindi, che la struttura della società italiana contemporanea rimane segnata da forti effetti ereditari, come del resto accade in tutti i paesi simili al nostro (Bernardi e Ballarino 2016).
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33 La stratificazione sociale: occupazioni, origini sociali e istruzione
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33.6 Studi di stratificazione: un bilancio e una sfida Questo capitolo ha presentato, in forma necessariamente breve e semplice, i concetti e le misure empiriche che stanno alla base degli studi di stratificazione. Da quasi un secolo, questi rappresentano uno dei filoni di ricerca più importanti della sociologia per almeno due ragioni: da una parte, la rilevanza sociale ed economica del loro oggetto, le disuguaglianze sociali ed economiche e la loro trasmissione intergenerazionale; dall’altra, la coerenza con cui gli studiosi della stratificazione hanno mantenuto nel corso dei decenni una concezione empirica e cumulativa, in breve scientifica, della ricerca. Gli stessi due fattori spiegano probabilmente anche perché gli studi di stratificazione sono stati, e sono tuttora, uno dei settori della sociologia meglio capaci di dialogare con discipline affini quali la demografia, l’economia del lavoro e dell’istruzione, la storia economica e sociale e l’analisi delle politiche sociali. La coerenza metodologica, e la capacità (che ne deriva) di tenere separati i giudizi di valore dei ricercatori dal lavoro analitico, spiegano anche perché gli studi di stratificazione sono stati in grado di rivedere, anche in modo radicale, i propri assunti e i propri risultati. Mentre negli anni Sessanta gli studiosi della stratificazione erano molto ottimisti sul fatto che le società moderne stessero diventando più egualitarie e meritocratiche, successivamente proprio i risultati di ricerca hanno finito per mettere in crisi questa assunzione, trasformandola in una domanda: è vero che le società moderne stanno diventando più egualitarie e meritocratiche? Come spesso succede nella ricerca, non è facile dare una risposta semplice e univoca a questa domanda. Sicuramente la struttura occupazionale, almeno nei paesi più sviluppati, si è profondamente modificata. In primo luogo, nel lungo periodo la crescita della produttività ha fatto sì che il lavoro di meno persone consente di mantenere l’insieme della popolazione. In secondo luogo, le occupazioni faticose, interamente o quasi basate sulla forza fisica, sono molto diminuite, almeno nei paesi più sviluppati come il nostro. Sicuramente esiste una tendenza alla diminuzione delle disuguaglianze di istruzione, favorita dall’aumento della partecipazione scolastica, e le ricerche sulla fluidità sociale mostrano in complesso una simile tendenza di indebolimento della trasmissione intergenerazionale della posizione sociale. D’altra parte, anche analisi elementari come quelle presentate in questo capitolo mostrano che nonostante le trasformazioni della struttura occupazionale, l’aumento della scolarità e la riduzione delle disuguaglianze educative, l’idealtipo di una società perfettamente meritocratica dove i legami OI e OD sono nulli è molto lontano, e le opportunità dei figli delle classi basse rimangono peggiori di quelle dei figli delle classi alte. Di fronte a questo quadro, gli studi di stratificazione devono affrontare una duplice sfida. Da una parte, si tratta di rendere conto in modo più dettagliato e preciso delle diverse dimensioni della stratificazione, della loro tendenza nel tempo (che potrebbe anche non essere la medesima) e dei meccanismi che producono la disuguaglianza e ne garantiscono la persistenza nel tempo. Dall’altra, si tratta anche di aumentare la consapevolezza, sia dei ricercatori sia di chi è interessato ai loro risultati,
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III – Temi e percorsi di ricerca
di quanto il tema della disuguaglianza sia complesso e difficilmente riconducibile a un solo meccanismo, o gruppo di meccanismi: il caso del pensiero di Marx (si veda il Cap. 3) e gli esiti tragici della sua applicazione politica mostrano quanto un discorso fortemente semplificatore di questa complessità possa essere fuorviante, sia dal punto di vista scientifico sia da quello etico-politico.
Letture di approfondimento Ballarino G., Cobalti A. (2003). Mobilità sociale, Roma, Carocci. Ballarino G., Barone C., Panichella N. (2016). «Origini sociali e occupazione in Italia», Rassegna Italiana di Sociologia, LVII(1), pp. 103-34. Cobalti A. (1995). Lo studio della mobilità, Roma, La Nuova Italia Scientifica. Schizzerotto A. (a cura di) (2002). Vite ineguali. Disuguaglianze e corsi di vita nell’Italia contemporanea, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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34 Migrazioni e mercato del lavoro di Ivana Fellini
34.1 I nuovi flussi migratori nel quadro europeo Se la sociologia delle migrazioni si concentra soprattutto sulle ragioni che danno origine e strutturano i flussi migratori e sui processi di integrazione degli immigrati nelle società di arrivo, la sociologia economica privilegia lo studio dei processi di inserimento economico degli immigrati, per quanto radicati nella ben più ampia sfera delle relazioni sociali (Portes 1995). Nel quadro europeo, gli attuali flussi migratori sono in gran parte sostenuti, come in passato, dall’interazione tra la ricerca di emancipazione economica da parte degli immigrati e i fabbisogni dei mercati del lavoro dei paesi di arrivo; tuttavia, la geografia della presenza straniera e dei flussi migratori verso i paesi europei è profondamente cambiata rispetto al periodo delle «frontiere aperte» che va dal secondo dopoguerra alla metà degli anni Settanta del secolo scorso (2 Box 34.1). A differenza del passato, gli attuali flussi si confrontano con politiche degli ingressi restrittive: soprattutto nelle nuove destinazioni del Sud Europa, molti dei nuovi immigrati, magari entrati con un visto temporaneo per ragioni diverse dal lavoro, sono overstayers non autorizzati al soggiorno, mentre quelli autorizzati all’ingresso per motivi di lavoro sono contingentati. Per gestire i nuovi flussi, i paesi di arrivo, in particolare quelli più impreparati a gestire il fenomeno, sono ricorsi a periodiche sanatorie per regolarizzare i molti immigrati senza permesso di soggiorno presenti sul territorio. Rispetto al passato, gli immigrati provengono ora da un ampio numero di paesi extraeuropei. Nell’Europa dei forti squilibri territoriali, inoltre, i paesi dell’Est sono diventati una nuova e importante area di emigrazione, anche per effetto del progressivo allargamento dell’Unione Europea, che ha accresciuto le opportunità di circolazione e ha costituito un importante meccanismo di transizione dall’irregolarità alla regolarità per molti immigrati provenienti da quei paesi (Colombo 2012). I nuovi flussi sono interessati da tendenze di trasformazione che investono tutte le migrazioni internazionali. Innanzitutto sono flussi più globalizzati, come testimonia la crescita del numero di paesi interessati, sia di emigrazione, sia di immigrazione; in secondo luogo, il fenomeno mostra un’accelerazione, poiché l’entità dei flussi cresce velocemente. Inoltre, le migrazioni contemporanee sono caratterizzate da una marcata femminilizzazione rispetto al passato: le donne non si spostano più solo a seguito del marito o dei familiari, ma emigrano da sole o anticipano la venuta dei congiunti (Castles, de Hass e Miller 2014). Infine, gli immigrati sono più istruiti che in passato: non solo perché la migrazione, soprattutto quando ostacolata, è un processo «costo-
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III – Temi e percorsi di ricerca
so» e perciò selettivo, che richiede la mobilitazione di maggiori risorse personali e sociali (Portes 1995), ma anche perché in molti paesi da cui si originano i flussi i livelli di istruzione sono elevati o cresciuti. Tra i più significativi esiti dei crescenti flussi migratori vi è il rapido recupero della distanza tra le nuove destinazioni del Sud Europa e i paesi dell’Europa Centrosettentrionale, cosicché in quasi tutti i paesi europei occidentali gli immigrati rappresentano oggi una componente strutturale sia della popolazione residente, sia delle forze di lavoro. Per quanto riguarda l’Italia, dopo una lunga storia di emigrazione, flussi di immigrazione apprezzabili sono iniziati nella metà degli anni Ottanta del secolo scorso e, nel decennio successivo, l’immigrazione è cresciuta massicciamente, tanto che, dopo la Spagna, l’Italia è il paese che ha ricevuto il maggior numero di immigrati negli ultimi 30 anni. Il quadro aggiornato al 2015 stima che gli stranieri in Italia siano 5,8 milioni, all’incirca il 9 per cento della popolazione residente. Di questi, circa 5 milioni sarebbero regolarmente presenti e iscritti all’anagrafe di un comune italiano come cittadini residenti, mentre circa 400.000, pur regolarmente autorizzati al soggiorno, non sono residenti. Altri 400.000 stranieri sarebbero invece irregolarmente presenti, cioè sprovvisti di una valida autorizzazione al soggiorno (ISMU 2016). Gli immigrati sono maggiormente concentrati nelle regioni centro-settentrionali, dove più elevata è la domanda di lavoro a loro rivolta, e i paesi di origine sono numerosi, spesso senza precedenti legami con l’Italia, per quanto la frammentazione delle provenienze si sia ridotta nel tempo (Bonifazi 2013). Se in una prima fase gli immigrati provenivano soprattutto dai paesi del Nord Africa e dell’ex Jugoslavia, il grosso dei flussi si è successivamente originato dai paesi dell’Est europeo (Romania, Albania, Ucraina, Polonia, Moldavia), da cui proviene oltre il 40 per cento degli immigrati. I gruppi attualmente più importanti sono quelli dei romeni, degli albanesi e dei marocchini. La femminilizzazione è più elevata che negli altri paesi, con marcate differenze per area di provenienza: le donne rappresentano oltre la metà degli immigrati e la femminilizzazione è più forte tra i gruppi che provengono dall’Est Europa, dal Sud America e dalle Filippine, mentre quelli che provengono dal Nord Africa e dal continente indiano mostrano una prevalenza maschile (Reyneri 2017). Per quanto riguarda la partecipazione al lavoro, l’incidenza dei nati all’estero sulle forze di lavoro nel 2015 è ancor più rilevante di quella che si registra sulla popolazione: gli oltre 3,6 milioni di stranieri residenti che lavorano o cercano lavoro rappresentano una componente strutturale importante del mercato del lavoro italiano, con un peso di oltre il 14 per cento sulla popolazione attiva e di oltre il 13 per cento sugli occupati, valori che sfiorano rispettivamente il 17 per cento e il 15 per cento se si considerano le sole regioni centro-settentrionali. In questi territori, vi sono settori come le costruzioni, la ristorazione e la ricettività turistica dove ben più di un lavoratore su cinque è immigrato, mentre nel settore degli altri servizi, che comprende il lavoro presso le famiglie, la quota supera il 45 per cento (2 Figg. 34.D1 e 34.D2). Il confronto con gli altri paesi europei mostra che, nella media dell’Europa a 15 paesi, i cittadini residenti nati all’estero e provenienti da aree a elevata pressione emigratoria (intra ed extra europee), rappresentano l’8,3 per cento della popolazione (2 Fig. 34.D3), mentre coloro che provengono da paesi a elevato sviluppo economico
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sono all’incirca il 2,5 per cento. La Svezia, l’Austria e la Gran Bretagna, paesi a vecchia immigrazione, sono quelli in cui la presenza degli immigrati da aree a elevata pressione emigratoria è massima, con valori superiori al 10 per cento e che arrivano a sfiorare il 15 per cento. Tra i paesi che superano la media vi è però anche la Spagna1 (9,4 per cento), destinazione recente dei nuovi flussi, mentre l’Italia (8 per cento) non è lontana dai livelli della Francia o del Belgio, paesi con una storia migratoria molto meno recente. Nel confronto tra paesi di vecchia e nuova immigrazione va considerato però che nei primi sono più numerose le seconde generazioni cosicché, in questi paesi, le minoranze etniche rivestono un peso più rilevante di quello che si registra nei paesi di nuova immigrazione, dove la presenza dei figli degli immigrati nati nel paese comincia a essere importante solo tra la popolazione in età infantile e giovanile. Nei paesi a più antica immigrazione è inoltre molto più importante la quota di coloro che, pur di origine straniera, hanno acquisito la cittadinanza del paese in cui si sono stabiliti. In Italia, solo da qualche anno le acquisizioni di cittadinanza hanno assunto un certo rilievo. Ancor più che tra la popolazione, nei paesi di nuova immigrazione, gli stranieri sono importanti tra le forze di lavoro e gli occupati (2 Figg. 34.D4 e 34.D5): se in Austria, Svezia, Gran Bretagna la quota di immigrati da aree a elevata pressione migratoria che lavorano o cercano lavoro è solo leggermente superiore a quella che si rileva tra la popolazione, in Spagna (13,8 per cento delle forze di lavoro e 11,8 per cento degli occupati) e in Italia (12,1 per cento e 11,5 per cento) questa quota è molto più importante e raggiunge il livello dei paesi in cui la presenza straniera è più elevata. Il recupero della distanza dai paesi con più lunga storia migratoria è stato dunque veloce; la più recente storia migratoria fa sì che chi è emigrato si sia spostato soprattutto alla ricerca di un lavoro, perciò gli immigrati risultano più concentrati tra chi è in età attiva e si offre sul mercato del lavoro (2 Box 34.2). A differenza di altri paesi, in Italia la crescita del peso degli stranieri sulle forze di lavoro è proseguita anche negli anni della crisi, consolidando il processo di insediamento, nonostante il generale rallentamento dei flussi in ingresso in tutti i paesi (Tilly 2011; Ponzo et al. 2015; Fellini 2017) e l’aggravarsi della recente crisi europea dei rifugiati. Con il protrarsi della crisi, i paesi dell’Europa meridionale sono però tornati a essere paesi di emigrazione: i flussi riguardano ora giovani istruiti che si muovono in altri paesi europei, alla ricerca di opportunità di lavoro, coerenti con la loro formazione e le loro aspirazioni di vita e di carriera che non riescono a essere soddisfatte in patria (Bartolini, Gropas e Triandafyllidou 2017).
34.2 Le sfide interpretative: penalizzazione etnica e segregazione occupazionale Nei paesi europei gli immigrati e le minoranze etniche sperimentano sostanziali svantaggi nell’inserimento nel mercato del lavoro rispetto alle principali dimensioni
1
Il dato spagnolo coglie parte delle presenze irregolari.
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con cui si misurano gli esiti occupazionali. In tutti i paesi, il tasso di disoccupazione degli immigrati risulta più elevato di quello dei nativi, a indicare un maggiore rischio per gli immigrati di non trovare lavoro quando lo cercano (2 Fig. 34.D6). Salvo l’Italia, il tasso di occupazione degli stranieri risulta ovunque inferiore a quello dei nativi, a indicare minori occasioni di lavoro per gli immigrati (2 Fig. 34.D7). Inoltre, il profilo dell’occupazione dei lavoratori immigrati è più limitato poiché pressoché ovunque gli immigrati sono più concentrati nei settori e nei lavori a minore qualificazione e con andamento stagionale, fattori associati a una maggiore instabilità lavorativa. Le disuguaglianze etniche si intrecciano e sovrappongono a quelle di genere, cosicché gli immigrati e le immigrate trovano lavoro in specifici ma distinti settori e occupazioni. Le ragioni che spiegano la più debole posizione degli immigrati rispetto ai nativi ci invitano a guardare all’inserimento degli stranieri nel mercato del lavoro come un fenomeno complesso, in cui le caratteristiche, le dinamiche e le strategie di azione dell’offerta di lavoro, sia immigrata sia nativa, si intrecciano non solo con quelle della domanda, ma anche con i fattori di contesto e istituzionali che caratterizzano i paesi di arrivo, come il sistema produttivo, la struttura del mercato del lavoro e il sistema di welfare (si vedano i Capp. 35 e 37), oltre al ruolo delle politiche migratorie. Per quanto riguarda l’offerta di lavoro, le caratteristiche degli immigrati e dei nativi potrebbero spiegare i loro differenti esiti sul mercato del lavoro: gli immigrati sono ovunque più disoccupati, meno occupati e più probabilmente svolgono cattivi lavori perché potrebbero avere un profilo formativo più limitato di quello dei nativi. In realtà, il livello di istruzione della popolazione straniera tende a rispecchiare quello della popolazione nativa (Reyneri 2016) e i numerosi studi sulla penalizzazione etnica mostrano come lo svantaggio degli immigrati permane anche quando si tengano sotto controllo le principali differenze socio-demografiche (età, sesso, titolo di studio) tra le due popolazioni (Heath e McMahon 1997; Berthoud 2000; Reyneri e Fullin 2011; Ballarino e Panichella 2013), cosicché altri meccanismi devono essere all’opera (si veda il Cap. 33). Per la prospettiva economica, il capitale umano è il principale fattore che spiega la penalizzazione degli immigrati poiché, come argomenta l’ipotesi dell’assimilazione, l’istruzione e le competenze degli immigrati non sono perfettamente trasferibili nei mercati del lavoro dei paesi di arrivo. Le competenze degli immigrati risultano meno «produttive» di quelle dei nativi, soprattutto all’inizio, quando la conoscenza della lingua è scarsa, così come la conoscenza del funzionamento del nuovo mercato del lavoro, i titoli di studio acquisiti nei paesi di origine non sono riconosciuti e le conoscenze apprese possono non essere trasferibili ad altri contesti produttivi, cosicché le occasioni di lavoro sono meno numerose e più spesso dequalificate (Chiswick 1978). La penalizzazione degli immigrati sarebbe comunque solo temporanea: con il passare del tempo, i nuovi venuti acquisiscono capitale umano specifico del paese di arrivo e diventano «simili» ai nativi – apprendono la lingua e la cultura (si veda il Cap. 7), si inseriscono meglio nei luoghi di lavoro – cosicché la penalizzazione si attenua. Ma un ruolo importante è quello della struttura della domanda di lavoro dei paesi di arrivo, che può «destinare» e intrappolare gli immigrati nel mercato del lavo-
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ro secondario. Già gli studi degli anni Settanta del secolo scorso avevano mostrato come tra i fattori di attrazione più rilevanti delle migrazioni vi fosse la domanda di forza lavoro per lavori a minore qualificazione, più faticosi e instabili, meno remunerati, tutelati e protetti, spesso irregolari e senza prospettive di carriera. Questi lavori definiscono un segmento meno strutturato e più informale di quello del mercato del lavoro primario (Piore 1979). I lavoratori nativi sono poco disponibili per questi impieghi poiché hanno aspettative e aspirazioni più elevate, costruite su un rapporto meno strumentale con il lavoro che, se per gli immigrati è soprattutto un modo per guadagnarsi da vivere, per i nativi è anche un’esperienza identitaria e di riconoscimento sociale. La strumentalità del lavoro per gli immigrati è specialmente forte all’arrivo, quando il progetto migratorio è ancora in via di definizione e più cogente è la necessità di accedere a risorse economiche. La domanda di lavoro poco qualificato ha un ruolo cruciale anche nella definizione degli attuali flussi migratori perché tende a polarizzarsi anche nel contesto europeo. Le nuove tecnologie informatiche e della comunicazione riducono la domanda di occupazioni routinarie ed esecutive, sostituibili dalle macchine, ma aumentano sia quella di professioni altamente qualificate, con compiti gestionali e astratti, sia quella di occupazioni non qualificate ma non routinarie, come le professioni di vendita e di servizi alla persona – dai camerieri ai lavoratori domestici –, non sostituibili da processi automatizzati. Se l’offerta di lavoro nativa, più femminilizzata e istruita, risponde al fabbisogno di lavoratori qualificati ed è sempre meno disponibile per i lavori a bassa qualificazione, gli immigrati rappresentano una risposta per il fabbisogno di lavoratori se non dequalificati, almeno disponibili a svolgere i «cattivi lavori» (Oesch 2013). Questi aspetti strutturali si intrecciano con i comportamenti degli immigrati e si rafforzano reciprocamente: per esempio, il modo in cui gli immigrati cercano e trovano lavoro non è casuale, ma riflette, come per i nativi, la struttura delle relazioni fra individui e la capacità di ottenere informazioni rilevanti, cosicché i contatti personali sono il metodo più utilizzato ed efficace per trovare lavoro (si veda il Cap. 9). Per gli immigrati che conoscono poco il mercato del lavoro, e neppure possono contare su una rete consolidata di relazioni con i nativi, le relazioni parentali, amicali e di conoscenza con i connazionali sono il principale canale di accesso al lavoro (si veda il Cap. 16): ma se, soprattutto all’arrivo, le relazioni interne al gruppo etnico aiutano i nuovi venuti a trovare occasioni di impiego, con il tempo offrono opportunità circoscritte ai lavori più scadenti e meno qualificati in cui gli immigrati sono concentrati, riproducendo, in un circolo vizioso, meccanismi di segregazione occupazionale (Lancee 2016). Fattori strutturali, comportamenti e risorse degli immigrati limitano dunque il processo di assimilazione ai nativi nel mercato del lavoro, cosicché lo svantaggio e la penalizzazione etnica sono persistenti nel tempo (ipotesi dell’assimilazione segmentata). L’entità della penalizzazione degli immigrati non è la stessa nei diversi paesi e può variare a seconda dell’esito occupazionale che si considera. Le differenze tra paesi rivelano che la dimensione di contesto e istituzionale è importante e permettono di identificare diversi modelli di inserimento degli immigrati nel mercato del
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Tabella 34.1 Rischio di disoccupazione e qualità del lavoro per gli immigrati nei principali paesi europei Paese
Rapporto tra tassi di disoccupazione di immigrati a) e nativi
% di immigrati a) in professioni non manuali qualificate b)
% di nativi in professioni non manuali qualificate b)
Tutti
Titolo di studio elevato
Tutti
Titolo di studio elevato
Danimarca
2,4
27,0
60,3
46,5
87,4
Svezia
3,1
33,3
61,5
51,8
86,8
Gran Bretagna
1,4
39,3
62,6
47,3
76,3
Olanda
2,2
34,7
72,1
48,2
83,6
c)
2,5
23,0
58,6
45,6
82,0
Francia
2,1
35,2
67,7
45,5
78,3
Italia
1,3
9,0
37,4
39,6
84,7
Spagna
1,6
10,8
35,9
36,8
66,5
Germania
Note: a) da aree a elevata pressione migratoria; b) manager e dirigenti; professioni a elevata specializzazione; professioni tecniche; c) non si considerano i nati all’estero ma coloro che non hanno la cittadinanza tedesca. Fonte: elaborazione su microdati Eurostat, Labour Force Survey, 2014.
lavoro (Reyneri e Fullin 2011). Nei paesi del Sud Europa, lo svantaggio degli immigrati è relativamente limitato per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, mentre è enorme per quanto riguarda la qualificazione: come mostra la Tab. 34.1, in Italia e in Spagna il rapporto tra il tasso di disoccupazione degli immigrati e quello dei nativi è poco superiore a 1, a indicare che il rischio di disoccupazione per i due gruppi è abbastanza simile. L’esclusione degli immigrati dal lavoro non manuale qualificato è invece sistematica, anche quando gli immigrati hanno un titolo di studio elevato, a indicare che il tipo di occupazioni che gli immigrati e i nativi svolgono sono molto diverse e gli immigrati non hanno accesso ai lavori qualificati. Opposto è il caso dei paesi europei centro-settentrionali, dove gli immigrati risultano molto più svantaggiati per il rischio di disoccupazione, doppio o anche triplo rispetto a quello dei nativi, ma la segregazione occupazionale è molto meno marcata, non solo per gli immigrati più istruiti. In questi paesi, non solo è presente una domanda di lavoro qualificato espressamente rivolta agli immigrati istruiti poiché anche tra le posizioni più elevate si generano shortages, ma la più qualificata struttura dell’occupazione attrae lavoratori qualificati. I paesi europei mostrano dunque un trade-off tra la «quantità» di occasioni di lavoro e la qualità degli impieghi che gli immigrati svolgono: tanto più è facile per gli immigrati trovare lavoro (rispetto ai nativi), tanto più è probabile che sia lavoro scarsamente qualificato. Il trade-off dipende dall’azione di fattori di contesto e istituzionali (si veda il Cap. 19) che possono favorire l’inserimento e l’intrappolamento degli immigrati nella «fascia bassa» delle occupazioni (Fullin 2014). In primo luogo, le caratteristiche dei
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sistemi produttivi e i modelli di sviluppo dei paesi di arrivo influenzano la struttura e i caratteri della domanda di lavoro: a differenza dei paesi dell’Europa centro-settentrionale, in quelli dell’Europa meridionale le piccole e micro imprese manifatturiere tradizionali e i servizi finali a minore qualificazione (commercio, ristorazione, pubblici esercizi, lavoro domestico) sono più importanti, cosicché le opportunità di lavoro scarsamente qualificato, instabili e/o stagionali, assorbono una quota maggiore della domanda di lavoro. Secondariamente, la segmentazione del mercato del lavoro è maggiore nei paesi del Sud Europa, favorita dalla contrapposizione tra la regolazione del lavoro nelle (poche) grandi imprese e la flessibilità sostanziale del lavoro nelle piccole realtà produttive, tra le quali diffuse e consolidate sono le forme di lavoro informale e irregolare. Inoltre, i paesi europei si caratterizzano per sistemi di welfare diversi (si veda il Cap. 35): l’offerta di servizi pubblici di cura è ampia nei paesi del Nord Europa, mentre è scarsa e inadeguata nei paesi sudeuropei. In questi ultimi, le famiglie affrontano il problema dell’assistenza e della cura di una popolazione che rapidamente invecchia ricorrendo alla forza lavoro immigrata (in Italia le cosiddette «badanti»), ampliando ulteriormente la domanda di lavoro poco qualificato (e irregolare). Infine, lo sbilanciamento dei sistemi di protezione dalla disoccupazione verso i lavoratori nativi più anziani nei paesi sudeuropei può spingere gli immigrati, che non possono contare sulla protezione della famiglia, ad accettare il primo lavoro che capita purché consenta di guadagnare nell’immediato. L’importanza dei molti fattori in campo non esclude i comportamenti discriminatori da parte dei datori di lavoro, avversi ai lavoratori immigrati, per effetto di pregiudizi razziali, che rendono difficile l’accesso sia al lavoro sia agli impieghi migliori. La letteratura distingue tra discriminazione statistica e da gusti, ma empiricamente è difficile distinguere questi diversi tipi di discriminazione. Per quanto riguarda il caso italiano, una ricerca di qualche anno fa ha mostrato come situazioni di oggettiva discriminazione coinvolgono gli immigrati che si candidano per un’occupazione semi-qualificata in misura superiore a quanto si rileva in altri paesi: in molti casi un lavoratore marocchino viene scartato nelle procedure di selezione senza che le sue competenze siano state ancora vagliate (Allasino et al. 2004). Se in edilizia la discriminazione è più bassa, nel settore della ristorazione è massima, probabilmente perché, per le occupazioni a contatto con la clientela, i datori di lavoro preferiscono assumere personale nativo. Secondo diverse interpretazioni, un canale con cui gli immigrati cercano di sfuggire alla subalternità occupazionale e sociale e alla discriminazione è il passaggio al lavoro indipendente (Ambrosini 2011) (si veda il Cap. 39). La vastissima letteratura sull’imprenditorialità etnica pone l’accento sui molti aspetti che possono influenzare la scelta degli immigrati di mettersi in proprio: dalla maggiore propensione al lavoro autonomo in alcune culture alle difficoltà di accesso e di carriera nel lavoro dipendente, dalla domanda di specifici beni e servizi da parte delle comunità immigrate al processo di sostituzione dei nativi nelle attività autonome poco remunerative. Raramente la questione è affrontata dal punto di vista del confronto tra il lavoro indipendente degli immigrati e quello dei nativi, che mostra come la partecipazione al lavoro autonomo degli immigrati sia inferiore a quella dei nativi solo nei paesi dove
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il lavoro indipendente è più diffuso, come l’Italia, la Spagna, la Grecia e il Portogallo (OECD 2011). L’analisi del ruolo dell’istruzione delinea l’ipotesi che nei paesi sudeuropei gli immigrati facciano più fatica a inserirsi nel lavoro autonomo perché la concorrenza con i nativi è più forte: in questi paesi il lavoro in proprio è un canale di mobilità soprattutto per i meno istruiti cosicché solo gli immigrati più «competitivi», quelli più istruiti, riescono ad accedervi (Fullin 2014).
34.3 Due esempi di ricerche Gli studi sociologici su migrazioni e lavoro rappresentano un campo vastissimo di ricerca poiché moltissimi sono i temi che l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro tocca e con cui si intreccia. Oltre alla disoccupazione e all’occupazione, ci sono le caratteristiche del lavoro svolto, le condizioni di lavoro, le carriere occupazionali, l’influenza delle diverse aree di origine, della cultura, della religione, della cittadinanza, dei progetti migratori, le differenze di genere, i fenomeni di discriminazione, l’imprenditorialità etnica, il ruolo delle reti di relazione, le seconde generazioni e le minoranze etniche, l’interazione tra contesti di arrivo e di partenza, solo per citarne alcuni. Si tratta di un campo in cui convivono, inoltre, approcci metodologici e livelli di analisi differenti. Le ricerche proposte approfondiscono meccanismi rilevanti nei processi di inserimento lavorativo degli immigrati. La prima affronta l’importanza del lavoro irregolare nei paesi del Sud Europa, la seconda guarda alle carriere occupazionali degli immigrati dai paesi di origine a quelli di arrivo. 34.3.1 L’economia sommersa: causa o effetto dell’immigrazione? La ricerca comparativa condotta nell’ambito del progetto europeo MIGRINF (Migrants’ Insertion in the Informal Economy, Deviant Behaviour and Impact on Receiving Society, 1996-2000) ha cercato di spiegare perché gli immigrati fossero così coinvolti dal lavoro informale e irregolare nelle nuove destinazioni migratorie del Sud Europa (Baganha 1998; Reyneri 1998, 2003; Solé et al. 1998; Wilpert 1998). Il tema dell’economia informale e del lavoro irregolare è un classico della sociologia economica poiché mostra come sia sottile il confine tra economia formale e sostanziale e come i comportamenti economici siano radicati nel più ampio spazio delle relazioni sociali in cui gli attori sono inseriti (si veda il Cap. 23). Tuttavia il fenomeno non era mai stato affrontato in relazione alla crescita dei flussi migratori; negli studi internazionali, il lavoro irregolare degli immigrati era letto come conseguenza dell’irregolarità della presenza e la sua crescita attribuita essenzialmente ai fattori di espulsione dai paesi di origine. La ricerca è condotta in anni in cui il dibattito pubblico attribuisce agli immigrati la causa del fiorire sia dell’economia irregolare sia della criminalità. L’ipotesi della ricerca ribalta questa prospettiva poiché assume che l’immigrazione eserciti una «funzione specchio» che rivela i problemi e le contraddizioni intrinseche delle socie-
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tà di arrivo. Il lavoro irregolare perciò, più che conseguenza dell’immigrazione, dovrebbe esserne la causa. In un approccio di sociologia economica, le ragioni di questo esito macro vanno ricercate nei comportamenti degli attori e nell’influenza dei fattori istituzionali e di contesto: attraverso l’analisi dei dati statistici e della letteratura esistente (survey, studi qualitativi, etnografie), integrati da diversi studi sul campo ad hoc, la ricerca ha messo in luce similitudini e differenze dell’immigrazione e degli immigrati nei nuovi paesi di ricezione, in un quadro analitico molto articolato. I risultati della ricerca sconfessano numerosi luoghi comuni sulla prima fase dell’immigrazione in Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Gli immigrati solo raramente sono entrati illegalmente, mentre frequenti sono stati l’ingresso con un titolo temporaneo e la permanenza irregolare dopo la scadenza. Gli immigrati non sono «in fuga» dai paesi di origine, come il luogo comune sulle modalità di ingresso irregolari faceva supporre, ma spesso sono giovani istruiti, provengono dalle aree urbane meno deprivate e da famiglie non stremate dalla povertà, mossi da sentimenti di deprivazione relativa e dal desiderio di rompere con la cultura tradizionale e accedere a più moderni modelli di consumo. D’altro canto, nei paesi di ricezione, l’elevata disoccupazione convive con un’ampia domanda di lavoro dequalificato insoddisfatta dai lavoratori nativi: gli immigrati perciò non competono, semmai sostituiscono i nativi in alcuni segmenti del mercato del lavoro. La maggioranza degli immigrati ha avuto esperienze di lavoro irregolare perché sprovvista del permesso di soggiorno, titolo senza il quale non si può accedere a un lavoro regolare; tuttavia la relazione tra regolarità del soggiorno e regolarità del lavoro non è scontata poiché anche chi ha un valido permesso di soggiorno può lavorare irregolarmente (2 Box 34.3). Nei paesi sudeuropei, l’economia sommersa era fiorente e radicata da ben prima dell’arrivo degli immigrati: nel quadro del difficile accesso alla regolarità del soggiorno per le politiche di restrizione degli ingressi, il lavoro irregolare è stata un’opportunità di lavoro e sussistenza per molti, divenendo uno dei principali fattori di attrazione. Tramite le informazioni diffuse dalle reti di relazione e della catena migratoria, chi aveva intenzione di emigrare sapeva che anche senza permesso di soggiorno, nei paesi del Sud Europa, era possibile trovare un lavoro. Caratteristiche e strategie di azione degli immigrati, processi a livello micro e fattori strutturali e di contesto hanno così rivelato che il problema dell’immigrazione irregolare non dipendeva dall’inefficacia dei controlli delle frontiere ma dal funzionamento del mercato del lavoro interno e che gli immigrati più che produrre l’economia irregolare erano attratti dalle numerose opportunità che offriva. Gli immigrati non erano dunque la causa dell’economia irregolare, pur contribuendo alla sua riproduzione. 34.3.2 Dopo il declassamento occupazionale: recupero o intrappolamento? Con questo secondo esempio, consideriamo un insieme di contributi, non una singola ricerca, che analizzano le «traiettorie» occupazionali degli immigrati dal paese di origine a quello di destinazione, per studiare la relazione tra la qualificazione dell’occupazione svolta dagli immigrati prima di emigrare e quella del lavoro svolto nei pa-
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esi di arrivo. I meccanismi di inserimento nel mercato del lavoro sono un tema rilevante per la sociologia economica perché rappresentano un classico esempio di come l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro sia mediato da fattori istituzionali e di contesto e dalle strategie degli attori che in tale contesto vengono elaborate, fino a produrre esiti non scontati o magari opposti in contesti diversi. L’ipotesi consolidata, emersa dall’evidenza che le differenze salariali tra gli immigrati e i nativi si riducono con gli anni di permanenza negli Stati Uniti (Chiswick 1978), è che le carriere occupazionali degli immigrati seguirebbero una «traiettoria a U». Il primo lavoro nel paese di immigrazione, pur consentendo quasi sempre un maggior reddito, grazie alle differenze nel costo della vita tra paese di arrivo e di origine, comporterebbe un declassamento occupazionale rispetto al lavoro lasciato o svolto in patria. I motivi sono diversi ed essenzialmente ascrivibili all’ipotesi dell’imperfetta trasferibilità del capitale umano (si veda il Par. 34.2): la scarsa conoscenza della lingua del paese di arrivo, le competenze professionali non pienamente utilizzabili nel nuovo contesto, i titoli di studio non riconosciuti, la limitata dimestichezza con il funzionamento del mercato del lavoro, l’assenza di relazioni sociali utili a trovare una buona occupazione, per citare le più importanti. Secondo questa ipotesi si può supporre che, con il tempo, gli ostacoli che causano il declassamento iniziale siano almeno in parte superati e che quindi una parte degli immigrati riesca a recuperare, almeno parzialmente, il livello professionale che aveva nel paese di origine. Tanto maggiore è stata la caduta iniziale, tanto maggiore sarà il recupero. Nonostante l’ampio riconoscimento di quest’ipotesi, le ricerche che hanno studiato la carriera degli immigrati dal paese di origine a quello di destinazione sono pochissime. Per queste analisi sono necessarie informazioni longitudinali che ricostruiscano la storia lavorativa degli immigrati prima di lasciare il paese di origine o, almeno, informazioni retrospettive sul lavoro svolto prima di emigrare. Tra gli studi che sfruttano le poche indagini disponibili, alcuni sembrano corroborare l’ipotesi della traiettoria a U per l’Australia (Chiswick, Lee e Miller 2005) e per gli Stati Uniti (Akresh 2008). L’ipotesi non trova riscontro però negli studi recenti condotti in mercati del lavoro assai diversi da quello americano o australiano, come quelli spagnolo (Aysa-Lastra e Cachón 2013; Simon, Sanromá e Ramos 2014) e italiano (Fellini, Guetto e Molinari 2017), due paesi in cui specifiche indagini sulla popolazione immigrata hanno reso disponibili le informazioni sul lavoro prima della migrazione. Attraverso il confronto dello status occupazionale in tre momenti – prima della migrazione, all’arrivo, all’intervista – e la stima della relazione tra lo status dell’occupazione in origine e di quello al primo lavoro, e tra il primo lavoro e il lavoro al momento dell’intervista, questi studi mostrano che sia in Spagna sia in Italia gli immigrati, oltre a sperimentare un marcato declassamento all’arrivo, non recuperano lo status perso. Gli immigrati, massicciamente inseriti in occupazioni dequalificate rispetto a quelle svolte prima della migrazione, restano semmai intrappolati nel mercato del lavoro secondario (2 Fig. 34.D8). L’esito dipende dall’elevato e strutturale fabbisogno di lavoro scarsamente qualificato, proveniente sia dal sistema delle imprese, sia da quello delle famiglie, e dalla forte segmentazione di questi mercati del lavoro.
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34.4 Le problematiche emergenti: l’integrazione nel lungo periodo Nonostante le preoccupazioni che la presenza degli immigrati produce nell’opinione pubblica di molti paesi, aggravate dalle difficoltà generate da una protratta fase di crisi economica e dalla recente crisi europea dei rifugiati, gli squilibri demografici e il carattere auto-propulsivo del fenomeno fanno prevedere che il loro ruolo nel mercato del lavoro è destinato a essere ancor più importante (Reyneri 2016). Senza il contributo dei flussi migratori, il progressivo invecchiamento della popolazione, l’assottigliamento delle coorti di giovani e, in prospettiva, della popolazione in età lavorativa prefigurano, infatti, un’evoluzione demografica difficilmente compatibile con l’architettura relativamente generosa dei sistemi di welfare europei. Gli scenari descritti dalla contabilità demografica si scontrano con la sostenibilità culturale, sociale ed ecologica di flussi migratori consistenti che, se anche non possono rappresentare l’unica risposta agli squilibri e pongono nuovi problemi e nuove sfide, certamente avranno un ruolo centrale. Diverse sono le problematiche emergenti nei mercati del lavoro europei, contraddistinti da un sostanziale ethnic divide: problematiche che interessano sia la sfera dell’integrazione economica, sia quella dell’integrazione sociale. Accenniamo brevemente alle questioni dello spreco di capitale umano degli immigrati di prima generazione e alla penalizzazione delle seconde generazioni come esempi di disuguaglianze etniche che possono avere importanti ripercussioni, in prospettiva, sulla coesione sociale. L’inserimento subalterno degli immigrati nella struttura occupazionale dei paesi di arrivo e il loro declassamento professionale, pur con le significative differenze tra paesi che abbiamo discusso, configura un notevole spreco di capitale umano – il cosiddetto brain waste –, poiché molti immigrati sono ampiamente sovraqualificati rispetto ai lavori che svolgono. Al di là delle considerazioni più prettamente economiche legate all’inefficienza di questo esito, che spreca il potenziale di innovazione portato dall’ingresso di forza lavoro qualificata, nel breve periodo questa situazione può essere sopportata dagli immigrati alla luce dei guadagni superiori rispetto a quelli che avrebbero potuto ottenere nel paese di origine, anche svolgendo occupazioni più qualificate. Al crescere dell’anzianità migratoria e dei progetti di insediamento che ne conseguono, la frustrazione derivante da anni di «cattiva occupazione» e da prospettive di mobilità sociale molto scarse può diventare però insostenibile e sfociare in una crescente tensione sociale. Quanto alle seconde generazioni, i figli e i discendenti degli immigrati rappresentano già una componente importante della popolazione dei paesi di più antica migrazione e stanno crescendo anche nei paesi sudeuropei che si sono confrontati con i flussi migratori solo nei decenni più recenti. L’esperienza dei primi mostra che la penalizzazione etnica coinvolge significativamente i figli degli immigrati e interessa diversi aspetti dell’integrazione economica e sociale e della cittadinanza. La penalizzazione di chi ha origini immigrate comincia a scuola (si veda il Cap. 33): i figli degli immigrati hanno generalmente minori opportunità formative e livelli di istruzione inferiori rispetto ai figli dei nativi, cosicché quando entrano nel mercato del lavoro
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continuano a rappresentare un bacino di forza lavoro candidato ai lavori meno qualificati. I figli degli immigrati sono anche più disoccupati dei giovani nativi e, quando trovano lavoro, sono più spesso sovraqualificati (OECD 2007, 2011). Si tratta di aspetti che vanno approfonditi e compresi, soprattutto in quei paesi, come l’Italia, in cui solo ora le seconde generazioni cominciano ad affacciarsi sul mercato del lavoro: i meccanismi in azione sono molteplici e complessi e hanno importanti ripercussioni sia sul coinvolgimento nel lavoro, sia sull’inasprirsi del conflitto sociale e dell’oppositività verso la società. Oltre alle pratiche di discriminazione da parte dei datori di lavoro, i figli degli immigrati sperimentano infatti contradditorie e forti tensioni verso l’integrazione poiché le aspirazioni e le aspettative di inclusione socio-economica confliggono spesso con le reali opportunità.
Letture di approfondimento Ambrosini M. (2011). Sociologia delle migrazioni, Bologna, il Mulino, capp. 1, 2, 3, 4, 5, 6. Fullin G. (2014). «L’inserimento occupazionale degli immigrati: l’Italia e il modello sud europeo», in P. Barbieri, G. Fullin (a cura di), Lavoro, istituzioni, diseguaglianze. Sociologia comparata del mercato del lavoro, Bologna, il Mulino, pp. 189-223. Reyneri E. (2017). «Gli immigrati in un mercato del lavoro segmentato», in E. Reyneri, Introduzione alla sociologia del mercato del lavoro, Bologna, il Mulino, pp. 251-280.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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E. Nuovi sistemi di welfare
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35 Come cambia il welfare state fra vecchi e nuovi rischi sociali di Marco Arlotti e Emmanuele Pavolini *
35.1 Il welfare state fra società post-industriale, bassa crescita economica e nuovi rischi sociali Durante gran parte del Novecento il welfare state si è occupato di assicurare interventi per coprire quelli che vengono definiti i «vecchi» rischi sociali: la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e la vecchiaia, quest’ultima intesa come la fase di vita in cui gli individui hanno minori possibilità di guadagnarsi un reddito attraverso il proprio lavoro. Al contempo, e nel corso degli ultimi decenni, le società occidentali sono state investite da nuovi e profondi processi di mutamento socio-economico, che hanno condotto all’emergere e alla diffusione di «nuovi» rischi sociali, accanto a quelli «vecchi» (Armingeon e Bonoli 2006; Taylor-Gooby 2004). Per comprendere meglio il concetto di «nuovi» rischi sociali occorre adottare una prospettiva di lungo periodo, più specificatamente a partire dalla crisi del modello dominante di regolazione economico-sociale affermatosi dalla fine della seconda guerra mondiale alla seconda metà degli anni Settanta circa. Tale modello, definito nella letteratura come «fordista-keynesiano» (Brenner 2004; Jessop 2002), era infatti caratterizzato da assetti specifici dal punto di vista economico, sociale e politico-istituzionale. Sul primo versante, si può fare riferimento alla centralità della produzione industriale manifatturiera, agli elevati tassi di crescita economica, alla piena occupazione e ai salari crescenti. Sul versante sociale, gli elementi principali rimandavano alla presenza di una forte stabilità nei nuclei familiari e alla centralità del cosiddetto modello male breadwinner (Esping-Andersen 2011; si veda anche il Cap. 32 di questo volume). Infine, sul versante politico-istituzionale, l’intervento dello stato garantiva, attraverso politiche interventiste e di sostegno alla domanda, un’ampia redistribuzione del reddito e una copertura crescente ed estesa dei «vecchi» rischi sociali. All’interno di tale quadro, e «al netto» di congiunture economiche sfavorevoli, l’emergere di condizioni di rischio per la popolazione veniva pertanto fortemente attutito o quantomeno limitato, data la combinazione di tre elementi cruciali: lavoro sicuro del capofamiglia maschio da cui dipendeva il reddito delle famiglie; divisione stabile dei ruoli all’interno dei nuclei familiari; garanzie di protezione tramite il welfare (Ranci e Pavolini 2015). Tuttavia, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, diversi fattori hanno messo in crisi questo modello specifico di regolazione socio-economica (Jessop 2002; *
Questo capitolo è l’esito di un lavoro condiviso dai due autori. Vanno, tuttavia, attribuiti più specificamente a Marco Arlotti i Parr. 35.1 e 35.3; a Emmanuele Pavolini i Parr. 35.2 e 35.4.
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Tabella 35.1 Evoluzione dei tassi di disoccupazione in alcuni dei principali paesi europei (1970-2015) Paese
1970
1980
1990
2000
2007
2015
Francia
2,4
6,4
8,9
8,6
8,2
10,4
Germania
0,7
3,8
7,2
7,9
8,4
4,6
Italia
5,4
7,6
11,0
10,5
6,1
11,9
Svezia
1,5
2,0
1,6
4,7
6,1
7,4
Regno Unito
3,3
6,8
5,9
3,8
2,7
5,3
Fonte: dati ILO e Eurostat online database per il 2015.
Tonkiss 2006). Infatti, sul piano economico, si sono registrati nelle società occidentali e a fronte del combinarsi di diversi fenomeni (per esempio, cambiamenti negli stili di consumo; innovazione tecnologica e spiazzamento della forza lavoro; nuovi paesi concorrenti a livello internazionale) un rallentamento della crescita del PIL e una progressiva contrazione della produzione industriale, con uno slittamento della struttura occupazionale verso il settore dei servizi (Wren 2013), da cui sono scaturite diverse conseguenze. In primo luogo si è assistito alla fine della piena occupazione e alla ripresa di fenomeni come la disoccupazione – peraltro anche di lungo periodo –, che risultava ridotta al minimo nel corso degli anni precedenti. La Tab. 35.1 mostra, infatti, come a inizio anni Settanta la disoccupazione registrasse livelli praticamente «frizionali» (a parte l’Italia, con un livello già comparativamente più elevato), mentre nel corso dei decenni successivi si è verificato un aumento dei tassi disoccupazione, che hanno subito un’ulteriore impennata con lo scoppio della grande recessione a partire dal 2008. Lo sviluppo del settore dei servizi ha favorito, invece, l’emergere di criticità legate alla presenza di comparti (per esempio, servizi alla persona, commercio) caratterizzati da bassi incrementi di produttività e quindi bassi salari (a cui si aggiunge anche bassa qualità negli standard di lavoro), in contrasto allo sviluppo di altri comparti sempre interni al settore terziario (per esempio, attività finanziarie) con livelli salariali decisamente più elevati (Wren 2013). Questo aspetto, associato al minor peso contrattuale che le organizzazioni sindacali assumono nel terziario e alla progressiva erosione dei salari bassi e medi, ha determinato una crescente polarizzazione nella struttura salariale e, su un piano più aggregato, l’aumento delle disuguaglianze sociali (Emmenegger et al. 2013). Infine, ma non per questo di minore importanza, un ulteriore processo investe il mercato del lavoro in aggiunta alla terziarizzazione: la crescente ristrutturazione, delocalizzazione e flessibilizzazione delle dinamiche produttive e il progressivo diffondersi di contratti atipici e a tempo determinato, alla luce anche della pressione internazionale derivante dalla globalizzazione e dalla liberalizzazione dei mercati. Oltre ai cambiamenti economici, trasformazioni profonde si sono registrate anche sul versante socio-demografico. Qui, infatti, il calo della fertilità associato all’allun-
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35 Come cambia il welfare state fra vecchi e nuovi rischi sociali
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Tabella 35.2 Incidenza percentuale della popolazione over 80 in alcuni dei principali paesi europei (1960-2060) Paese
1960
2010
2060 (stima)
Francia
2,0
5,2
11,0
Germania
1,6
5,1
13,5
Italia
1,3
5,8
14,1
Svezia
1,8
5,3
11,0
Regno Unito
1,9
4,6
9,3
Fonte: dati Eurostat online database.
gamento della speranza di vita spiega l’invecchiamento progressivo della popolazione e la crescita consequenziale della domanda di cura associata a condizioni di non autosufficienza. Tuttavia, il bisogno connesso a una popolazione che tende sempre più a invecchiare rimanda non solo all’aumento in senso lato del numero assoluto di persone anziane e, più specificamente, di coloro (come gli over 80) (Tab. 35.2) per i quali le probabilità di limitazione dell’autonomia tendono a essere più significative, ma anche al fatto che in parallelo si assiste a un indebolimento delle reti familiari e in particolare del modello di famiglia male breadwinner attraverso cui, durante il periodo «fordista-keynesiano», era stata assicurata un’ampia copertura dei bisogni dei soggetti in stato di dipendenza. Tale modello entra, infatti, in crisi sulla scia di diversi fattori, come il mutamento negli orientamenti di genere, l’innalzamento dei livelli di scolarità e la partecipazione crescente delle donne nel mercato del lavoro. Come si vede dai dati contenuti nella Tab. 35.3, il tasso di attività femminile, che misura la propensione delle donne a partecipare nel mercato del lavoro, presenta un aumento in tutti i paesi nel corso dei decenni. Ciò avviene anche in contesti nazionali, come l’Italia, tradizionalmente meno favorevoli dal punto di vista del coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro (Sabatinelli 2016; si veda anche il Cap. 32 in questo volume). Tabella 35.3 Tassi di attività femminile in alcuni dei principali paesi europei (percentuale, 1970-2015) Paese
1970
1980
1990
2000
2015
Francia
44
54
58
62
67
Germania
38
49
58
63
73
Italia
30
38
43
46
54
Svezia
57
67
73
74
80
Regno Unito
52
57
66
68
72
Fonte: dati ILO e Eurostat online database per il 2015.
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Il mutamento delle strutture familiari viene, inoltre, segnato anche dalla progressiva rilevanza assunta da nuovi modelli di convivenza (OECD 2011), a fronte di fenomeni come l’aumento dei divorzi, l’incremento del numero di figli nati fuori dal matrimonio o la diffusione di stili di vita maggiormente improntati all’individualizzazione. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, dunque, l’intrecciarsi di questo insieme di processi a livello economico e sociale determina l’emergere di «nuovi rischi sociali» all’interno dei corsi di vita delle persone (Taylor-Gooby 2004). I cambiamenti sul piano economico, e in primis la competizione sempre più spinta sul piano internazionale, l’offerta di lavoro disponibile a basse retribuzioni legata anche all’intensificarsi dei flussi migratori, nonché l’innovazione e il cambiamento tecnologico, conducono innanzitutto a forti rischi di vulnerabilità e/o di esclusione dal mercato del lavoro per i profili caratterizzati da basse qualifiche e con obsolescenza delle competenze; profili che, invece, precedentemente venivano facilmente integrati nel circuito della produzione industriale fordista (Armingeon e Bonoli 2006). A questa criticità si aggiunge per numerosi lavoratori il rischio potenziale di intrappolamento in attività terziarie a bassi salari e in circuiti di flessibilizzazione/ precarizzazione lavorativa, a cui si associano problemi di adeguatezza del reddito nonché di vera e propria povertà – per esempio, il caso dei working poor (Fraser, Gutierrez e Pena-Casas 2011) – che derivano non tanto da un’esclusione tout court dal mercato del lavoro, quanto dalle modalità specifiche di inserimento all’interno di esso (Taylor-Gooby 2004; Armingeon e Bonoli 2006). Altre criticità riguardano l’emergere di nuovi rischi in relazione al mutamento delle strutture familiari e al crescente bisogno di conciliazione lavoro-famiglia. Infatti, sul primo punto il progressivo affermarsi di nuovi modelli familiari determina il diffondersi di nuove situazioni più esposte a rischi di fragilità e impoverimento, come nel caso dei nuclei composti da genitori soli e figli minorenni oppure da anziani soli. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, l’allontanamento progressivo dal modello male breadwinner e il diffondersi di altri modelli familiari, come il dual earner, dove cioè entrambi gli adulti risultano occupati nel mercato del lavoro, determina nuove condizioni di rischio associate alla difficoltà di conciliare l’impegno lavorativo con i bisogni di cura dei più piccoli o dei familiari in condizioni di non autosufficienza (Sabatinelli 2016). A tal proposito, va segnalato come il modello dual earner risulti il più adatto per assicurare maggiore protezione e benessere alle famiglie (OECD 2011). Tuttavia, le difficoltà che possono incorrere sul versante della conciliazione, e che possono spingere addirittura al ritiro dal mercato del lavoro di uno dei componenti adulti – generalmente le donne a fronte del persistere di forti asimmetrie di genere – possono risultare determinanti nella costruzione di traiettorie potenziali di rischio e di impoverimento delle famiglie (Armingeon e Bonoli 2006). Più in generale, la capacità di risposta e di copertura da parte dello stato del rispetto all’emergere di questi «nuovi» rischi sociali, a cui si aggiunge il persistere di quelli «vecchi», si è scontrata tuttavia con una minore crescita dei sistemi economici. Se negli anni Sessanta e fino ai primi anni Settanta la crescita media annua del PIL si aggirava intorno al 4,5-5,0 per cento in gran parte dell’Europa occidentale, negli
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anni Duemila, prima della crisi economica, tale valore si era ridotto di circa la metà e si aggirava intorno al 2,5 per cento. I governi in tutto il mondo occidentale si sono così trovati a dover fronteggiare la diffusione di nuovi bisogni e la necessità di continuare a coprire quelli «vecchi», in un contesto in cui le risorse per finanziare i sistemi di protezione sociale sono più limitate. A partire dagli anni Novanta, quindi, gli stati occidentali hanno tentato di trovare il modo di conciliare l’esigenza di contrazione o per lo meno di contenimento della spesa pubblica con quella di protezione di fasce della popolazione sempre più ampie. La spesa del welfare viene così a doversi articolare in una condizione che Paul Pierson (2001) definisce di «austerità permanente».
35.2 Le interpretazioni dei cambiamenti in atto A partire dagli anni Novanta, le politiche sociali hanno dunque dovuto cercare un equilibrio difficile e precario fra bassa crescita economica e bisogni sociali crescenti, spesso in situazioni di forte debito pubblico da contenere. Il passaggio da una fase espansiva del welfare state, come quella registrata nei primi trenta anni del dopoguerra, a quella restrittiva dei decenni successivi ha comportato come conseguenza che i conflitti sociali e politici intorno al welfare si sono iniziati a concentrare sempre più sulla distribuzione delle perdite (chi non riceve aiuto o ne riceve meno che in passato) più che su quella dei vantaggi (chi viene maggiormente coperto rispetto al passato) (Ferrera 1998). All’interno di questo quadro, i sistemi consolidati di welfare devono affrontare almeno due sfide: contenere i costi crescenti associati ai «vecchi» rischi sociali (le pensioni ecc.), evitando che tale contenimento si traduca in un profondo scontento in larghe parti della popolazione beneficiarie di questi interventi; adattare i sistemi di welfare e investire risorse per rispondere ai «nuovi» rischi sociali. Il dibattito intorno a quali effettivamente siano le traiettorie di trasformazione dei sistemi di welfare si è centrato intorno a tre concetti e interpretazioni: • retrenchment, inteso come insieme di tagli alla spesa e minore generosità delle prestazioni sociali; • resilience, intesa come capacità di resistenza dei sistemi di welfare rispetto ai tentativi di taglio; • recalibration, cioè ricalibratura, intesa come capacità dei sistemi di welfare di agire in direzione di cambiamenti e riforme degli assetti di protezione sociale, alla luce delle profonde trasformazioni socio-economiche avvenute nel corso degli ultimi decenni. A partire dagli anni Novanta, la prima interpretazione che è emersa nel dibattito in merito a quanto stava avvenendo ha spiegato i mutamenti in atto in termini di tagli alla spesa (sotto forma di riforme politiche che introducevano maggiori barriere per l’accesso alle prestazioni, minore generosità delle stesse, maggiori e più stringenti
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forme di compartecipazione ai costi da parte dei beneficiari ecc.). Il termine generale utilizzato per indicare il cambio di direzione dei welfare state dopo decenni di crescita è stato quello di retrenchment (Levy 2010). Rispetto a tale interpretazione, che assumeva una parabola di smantellamento del welfare state, a partire dalla seconda parte degli anni Novanta se ne è affiancata una seconda, che invece contestava tale analisi. Lo studioso più noto di questo secondo approccio è Pierson (2001): studiando i trend di spesa sociale dei governi britannico e statunitense nel tempo, Pierson riscontra infatti che questa spesa non solo non era diminuita nel corso dei decenni più recenti, ma addirittura era aumentata a tassi più sostenuti della crescita economica complessiva. Sulla base di tale evidenza empirica, Pierson formula l’ipotesi che i sistemi di welfare siano dotati di una capacità di resilienza (resilience) al cambiamento e ai tagli, grazie a una serie di meccanismi e processi politico-istituzionali. Fra questi meccanismi Pierson indica, per esempio, come i cittadini tendano a opporsi ai tagli al welfare perché sono «avversi al rischio»: preferiscono cioè proteggere e mantenere i propri sistemi di welfare, anche se costosi, piuttosto che tagliarli. Tenendo presente che in genere i tagli al welfare comportano costi immediati per alcuni gruppi specifici di cittadini (per esempio, pensionati che si vedono diminuire improvvisamente la generosità di una serie di prestazioni) e in cambio promettono benefici futuri per l’intera popolazione non perfettamente ben definibili (per esempio, un abbassamento del carico fiscale o contributivo), coloro che si oppongono ai tagli (i potenziali «perdenti» delle riforme) avranno un interesse molto forte a mobilitarsi per bloccare il processo riformatore tramite proteste e punendo alle elezioni i governi che hanno introdotto i tagli. Un secondo meccanismo indicato da Pierson è collegato a fenomeni di path dependency: le scelte passate in tema di welfare e le istituzioni che ne sono derivate vincolano le decisioni attuali e future dei decisori politici, rendendo difficile introdurre e implementare tagli radicali. L’analisi di Pierson sulle profonde difficoltà nell’implementare politiche efficaci di taglio ha aperto un ampio dibattito nel corso degli ultimi due decenni fra sostenitori della capacità di resilienza dei sistemi di welfare e studiosi più critici di un simile approccio (Levy 2010). A questo proposito, le repliche si sono concentrate su tre linee argomentative. Per prima cosa, alcuni studi hanno mostrato come in realtà nei paesi occidentali politiche di taglio siano state effettivamente introdotte e implementate. Mentre Pierson basava la sua analisi sugli andamenti della spesa fino agli anni Novanta, ricerche che si sono potute basare su dati più recenti hanno mostrato come i tagli più robusti al welfare state non sono avvenuti negli anni Ottanta, ma sono stati implementati a partire dagli anni Duemila, fino a prendere maggiore forza con le recenti politiche di austerità scaturite dalla crisi del 2008 (Bonoli e Natali 2012; De la Porte e Heinz 2016). Vari studiosi (per esempio, Bonoli e Natali 2012; Starke 2008) hanno mostrato come politiche di forte riduzione della spesa di welfare possono essere presentate all’elettorato in termini di credit claiming (chi le introduce non viene punito ma anzi viene tollerato o premiato): in particolare, quando un paese deve fronteggiare una profonda crisi economica e pesanti deficit di bilancio pubblico, i governi
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possono sostenere che i tagli vengono effettuati per «salvare» le finanze pubbliche (e quindi la sostenibilità futura degli stessi sistemi di welfare) e per promuovere la crescita economica e l’occupazione. Inoltre, una modalità di retrenchment che si è dimostrata spesso efficace è stata quella di introdurre riforme con periodi lunghi precedenti l’effettiva implementazione (Palier 2010). Molte recenti riforme (a partire da quelle pensionistiche degli anni Novanta) hanno introdotto cambiamenti radicali nei livelli di generosità e di accesso a prestazioni di welfare, non intaccando però coloro che già beneficiavano di tali programmi, ma scaricando sulle generazioni future le conseguenze delle riforme (i giovani di oggi che riceveranno pensioni fra decenni a condizioni ben peggiori di chi è andato in pensione negli ultimi decenni). Un secondo filone di studi ha introdotto e utilizzato il concetto di retrenchment «nascosto». Lo studioso che per primo ha introdotto tale concetto è stato Hacker (2004), utilizzando il termine specifico di policy drift: l’ipotesi di tale studioso è che forme di privatizzazione della copertura di rischi sociali (e cioè di spostamento sulle spalle degli individui di programmi e interventi finanziati in precedenza dallo stato) possano avvenire anche in assenza di esplicite riforme atte a smantellare il welfare state. Questo processo di retrenchment «nascosto» può essere il risultato di una lenta e progressiva incapacità (non volontà) di adeguare il sistema di protezione sociale a profondi cambiamenti sociali avvenuti nel corso del tempo. In questa ottica, per esempio, in tutti quei paesi in cui non c’è stata capacità/volontà da parte dello stato di coprire le persone dall’emergere di «nuovi» rischi sociali (derivanti dai crescenti bisogni di conciliazione fra compiti di cura e lavoro, dalla non autosufficienza di parte della popolazione anziana ecc.) (si veda il Par. 35.1) siamo in presenza di policy drift: cambiano i bisogni sociali, ma le politiche pubbliche fingono di non vedere quello che sta accadendo rinunciando a intervenire. Il meccanismo individuato da Hacker è stato ripreso e analizzato più in dettaglio da Streeck e Thelen (2005), i quali, nell’ambito di una riflessione più generale sui meccanismi di innovazione istituzionale (2 Box 35.1), mostrano come sia possibile trasformare (e tagliare) un sistema di welfare non ricorrendo a politiche frontali ed esplicite di retrenchment, ma adottando quella che definiscono una strategia di «cambiamento graduale». In particolare, cambiamenti dagli effetti profondi si possono ottenere anche attraverso l’accumulazione nel tempo di una serie di piccoli, spesso neanche troppo rilevanti, aggiustamenti e trasformazioni nel funzionamento dei programmi di welfare pubblici, che però con il passare degli anni ottengono un effetto cumulativo complessivo rilevante (si potrebbe usare la metafora della goccia che scava la roccia del welfare state). Un terzo filone di ricerca più recente ha spostato l’attenzione dalla contrapposizione fra retrenchment e resilience, introducendo un asse nuovo di discussione, quello della capacità o incapacità dei paesi di «ricalibrare» il welfare. Questa prospettiva cerca di recuperare un approccio alle trasformazioni dei sistemi di protezione sociale che non osservi tutto solo in negativo (i tagli ci sono stati o non ci sono stati?), ma che tenga conto anche dei potenziali processi di innovazione sociale che hanno esteso o rimodellato i diritti e le protezioni delle persone (Ferrera, Hemerijck e Rhodes 2000). La ricalibratura può essere considerata come una strategia adattiva di risposta dei welfare state ai profondi cambiamenti socio-economici avvenuti
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negli ultimi decenni e si collega alla questione di come migliorare l’efficacia del sistema di welfare in tale situazione. Fra le forme di ricalibratura, due sono particolarmente rilevanti. Con il concetto di ricalibratura funzionale si fa riferimento a quali tipi di bisogni sociali vengano coperti dal welfare state o lasciati scoperti. In particolare ci si riferisce al processo tramite cui si aumenta la copertura di rischi sociali più scoperti (come in genere i «nuovi» rischi sociali), mentre al contempo si rimodula o si diminuisce la copertura di quelli «vecchi». La ricalibratura distribu tiva riguarda, invece, il ribilanciamento delle coperture sociali fra diversi gruppi e beneficiari, limitando la copertura per le categorie più garantite e aumentando quella delle categorie tradizionalmente meno garantite (per esempio, nel caso italiano, i giovani). Negli ultimi anni, dentro l’approccio della ricalibratura si è sviluppata la prospettiva del social investment (Morel, Palier e Palme 2012). Secondo questo approccio, la trasformazione post-industriale e lo sviluppo di una società fondata sulla conoscenza rendono cruciale la capacità dei sistemi sociali di investire nel capitale umano. Data la rilevanza di questo approccio, il prossimo paragrafo è dedicato proprio a questo tema.
35.3 Il cambiamento del welfare state e l’approccio del social investment: alcune ricerche empiriche Nel paragrafo precedente abbiamo visto come l’approccio del social investment costituisca all’interno della letteratura una delle linee interpretative più recenti e promettenti per inquadrare il cambiamento del welfare state nel corso degli ultimi anni. La ricerca che ha avuto il merito di sistematizzare e analizzare in profondità questo approccio è lo studio curato da Morel, Palier e Palme (2012). Lo studio definisce chiaramente quello che è il contenuto fondante del social investment, approfondendone al contempo il livello empirico di implementazione nei vari paesi. Per quanto riguarda il primo aspetto, il social investment sembra innanzitutto svilupparsi come una strategia «terza» rispetto ai due approcci principali che hanno dominato per lungo tempo la definizione degli assetti e le trasformazioni del welfare state: da un lato, l’approccio del welfare state keynesiano, centrato sul male bread winner e tuttavia mal equipaggiato nel far fronte all’emergere crescente di nuovi rischi sociali nel contesto della transizione post-industriale (si veda il Par. 35.1); dall’altro, l’approccio neoliberista secondo cui il welfare state è sostanzialmente un vincolo per lo sviluppo economico, fonte di passività per gli individui e quindi da ridurre il più possibile attraverso drastiche politiche di retrenchment (si veda il Par 35.2), le quali tuttavia hanno comportato problemi crescenti in termini di polarizzazione ed esclusione sociale. In questa contrapposizione, il social investment riconosce invece come le politiche di welfare possano trasformarsi in una potente leva di sostegno allo sviluppo economico, rendendo maggiormente qualificata, adattabile e flessibile la forza lavoro: tutto questo in un contesto che vede l’affermarsi progressivo di un’economia della conoscenza in cui, quindi, il capitale umano diventa un fattore chiave per la competitività (Morel, Palier e Palme 2012).
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Seguendo questo filo, le linee principali di azione del welfare state spaziano su diversi fronti. Innanzitutto, ovviamente, le politiche di investimento nell’educazione sono centrali e includono anche quella più precoce, come i servizi per la prima infanzia, stando alla rilevanza che diversi studi riconoscono ai primi anni di vita del bambino dal punto di vista dello sviluppo delle competenze cognitive e sociali. Investire in questi servizi diventa, quindi, cruciale in un’ottica di accrescimento del capitale umano, nonché per la creazione di pari opportunità fra i bambini e per il contrasto ai processi di trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze (si veda il Cap. 33). Altri interventi di welfare nella cornice del social investment sono quelli della formazione continua, per evitare l’obsolescenza delle competenze professionali, o le politiche di conciliazione famiglia-lavoro (quindi servizi per l’infanzia e per persone non autosufficienti, ma anche congedi) per sostenere l’occupazione dei vari componenti, e in particolare delle donne. Questo aspetto rende peraltro meno esposte a rischi di povertà le famiglie stesse (si veda il Par. 35.1), allargando inoltre la base fiscale e, quindi, la stessa sostenibilità di medio-lungo periodo del welfare state. Infine abbiamo le politiche attive del lavoro che, anziché adottare un approccio meramente passivo di sostegno al reddito tramite sussidi di disoccupazione, mirano, invece, a favorire sistematicamente l’inserimento degli individui nel mercato del lavoro, attraverso servizi appositi di consulenza, intermediazione domanda/offerta, sostegno ai percorsi individuali di formazione e ri-qualificazione ecc. Se questi sono gli assi strategici di intervento del welfare state in un’ottica di social investment, lo studio di Morel, Palier e Palme (2012) cerca anche di analizzarne a livello empirico il grado di attuazione. Il quadro che si delinea presenta, tuttavia, diversi limiti. Da un lato, infatti, i settori delle politiche di social investment non sembrano mostrare (a parte le politiche per la famiglia) una crescita particolarmente significativa in termini di risorse mobilizzate. Dall’altro lato, nel quadro europeo, il cambiamento del welfare state in un’ottica di social investment sembra aver riguardato solo un numero limitato di paesi, in primis quelli scandinavi, caratterizzati da forti investimenti in istruzione e formazione, un mercato del lavoro altamente competitivo e flessibile, combinato tuttavia con reti di protezione (dal reddito ai servizi) particolarmente estese (la cosiddetta flexicurity). La rilevanza dell’approccio del social investment all’interno del dibattito interpretativo sui processi di cambiamento del welfare state ha stimolato l’avvio di diversi percorsi di ricerca empirica volti ad analizzare il fenomeno, sia su una dimensione ampia comparata, sia attraverso l’analisi in profondità di specifici casi di studio. Sul primo versante le ricerche empiriche condotte da Bea Cantillon e colleghi hanno in particolare messo a fuoco l’impatto del social investment nello scenario europeo. Focalizzando l’attenzione sulle tendenze dei primi anni Duemila, in un contesto di riforme del welfare state fortemente orientate dall’approccio del social investment – fatto peraltro proprio anche dalla stessa Unione Europea attraverso importanti dispositivi di indirizzo delle politiche nazionali (vedi la strategia di Lisbona del 2000) –, Cantillon (2011) evidenzia come, nonostante si registri complessivamente una crescita occupazionale e l’innalzamento dei redditi, l’incidenza della povertà in Europa è rimasta stabile, se non in aumento.
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A questo proposito secondo l’autrice uno dei fattori esplicativi cruciali andrebbe attribuito proprio all’impatto che le strategie di social investment hanno avuto dal punto di vista dell’indebolimento della capacità redistributiva del welfare state. Infatti da un lato l’investimento di risorse in politiche come quelle volte a sostenere la conciliazione famiglia-lavoro (attraverso congedi o servizi) ha teso ad avvantaggiare inevitabilmente proprio quei soggetti che possono vantare un certo grado di inserimento nel mercato del lavoro, cioè principalmente famiglie di classi medie e medioalte, presso le quali sono più diffusi modelli a doppio reddito e, pertanto, maggiori risultano i bisogni di conciliazione; al contrario, nelle famiglie di classi sociali popolari e operaie è più significativa la possibilità che un adulto – in particolare di sesso femminile – rimanga inattivo. Dall’altro lato, il tentativo delle politiche di investimento sociale di favorire il più possibile l’inserimento sistematico degli individui nel mercato del lavoro è stato condotto anche attraverso politiche di attivazione «spinta» dei disoccupati, cioè mediante criteri più rigidi di accesso alle misure di sostegno al reddito, e una riduzione della generosità degli importi e della durata dei sussidi di disoccupazione: un aspetto che ha penalizzato l’allocazione di risorse verso le classi sociali popolari e operaie dove, non a caso, l’incidenza della disoccupazione è più significativa. Gli elementi di criticità che possono associarsi al dispiegamento dell’approccio del social investment vengono messi in luce anche in un recente lavoro curato da Ascoli, Ranci e Sgritta (2015) che analizza l’implementazione di questo approccio all’interno di un caso specifico nazionale: quello italiano. L’Italia rappresenta, infatti, un caso paradigmatico per testare l’implementazione delle politiche di social investment tenuto conto delle tradizionali difficoltà che i processi di riforma del welfare riscontrano nel nostro paese, a fronte dei «vincoli» derivanti dalla struttura consolidata della spesa sociale (fortemente concentrata su pensioni e trasferimenti monetari anziché sui servizi) e da un elevato debito pubblico (2 Box 35.2). A livello aggregato, il punto di partenza è innanzitutto un forte ritardo del nostro paese nella copertura dei «nuovi» rischi sociali. Tuttavia, a livello empirico, la ricerca mette in evidenza come sembrano aver avuto luogo alcune «tracce» di cambiamento in un’ottica di social investment, nei termini per esempio dell’espansione dei servizi alla prima infanzia o delle iniziative volte a costruire, in modo più sistematico, un raccordo fra il mondo del lavoro e il sistema educativo. Ciononostante secondo gli autori una prima valutazione degli esiti connessi a queste politiche – con un orizzonte inevitabilmente ristretto al breve periodo – mostra come l’implementazione del social investment in un contesto in cui permangono alcuni nodi specifici da un punto di vista strutturale può presentare diversi limiti, se non addirittura effetti negativi. Per esempio, in un contesto – come quello italiano – ove persistono profonde asimmetrie di genere nell’attribuzione delle funzioni e delle attività a livello domestico, l’investimento in servizi di supporto alla conciliazione non per forza di cose favorisce una maggiore partecipazione femminile nel mercato del lavoro. Oppure, gli investimenti in capitale umano e nel sistema educativo non necessariamente tendono a favorire produttività, crescita e contrasto alla disoccupazione, ma piuttosto possono presentare un certo rischio di sovraqualificazione e basso ritorno economico
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laddove, come nel nostro paese, la struttura produttiva è prevalentemente incentrata su piccole imprese orientate a produzioni a basso valore aggiunto e con richiesta di forza lavoro non particolarmente qualificata.
35.4 Gli effetti dei cambiamenti in atto fra mutamenti socio-economici e scelte di policy L’insieme di trasformazioni sin qui descritte ha prodotto alcuni impatti significativi. Una conclusione di fondo che si può trarre è che, rispetto al dibattito descritto nel Par. 35.2, tutti i principali approcci interpretativi (retrenchment, recalibration ecc.) sembrano in grado di descrivere alcuni aspetti dei processi di cambiamento, ma allo stesso tempo nessun approccio si può assumere come la chiave di lettura generale per interpretare quanto sta avvenendo. Le ragioni di tale difficoltà vanno cercate in varie direzioni. In primis, in molti paesi si nota un intreccio tra retrenchment nelle politiche rivolte ai «vecchi» rischi sociali ed espansione nelle politiche rivolte ai «nuovi» rischi sociali. Molti stati hanno, per esempio, riformato i propri sistemi pensionistici – la voce di spesa più costosa in gran parte dei sistemi di welfare europei – rendendoli meno generosi e, allo stesso tempo, hanno aumentato gli investimenti in istruzione, politiche attive del lavoro, politiche per la conciliazione. Nel campo sanitario e sociosanitario si è assistito spesso al tentativo di razionalizzare la spesa sanitaria «tradizionale» (quella legata agli interventi ospedalieri), mentre si è aumentata la spesa pubblica per prendersi cura delle persone con problemi di non autosufficienza. La difficoltà di comprendere quanto sta avvenendo è anche accresciuta dai cambiamenti avvenuti in questi ultimi anni, a seguito delle politiche di austerità introdotte con lo scoppio della grande recessione economica (tutt’ora in corso): gli esiti di tali processi non sono, infatti, né scontati né facilmente prevedibili. Complessivamente i sistemi di welfare europei si sono dimostrati molto più «resilienti» a processi di retrenchment di quanto molti studiosi immaginavano un ventennio fa, ma non per questo non sono stati sottoposti a trasformazioni, forme di ricalibratura e anche tagli. Inoltre, questa capacità è stata declinata in maniera differente nel quadro europeo. I paesi scandinavi sono fra quelli che, in termini relativi, hanno saputo meglio modulare una prospettiva di ricalibratura e di social investment. In molti casi sono intervenuti in un’ottica di rimodulazione delle forme di copertura rivolte ai «vecchi» rischi sociali piuttosto che operando veri e propri tagli strutturali e, allo stesso tempo, hanno aumentato la mole di interventi nel campo dei «nuovi» rischi sociali. Questi paesi appaiono quelli che con più efficacia hanno modificato il sistema di welfare attraverso una logica incrementale, ampliando gradualmente la platea dei beneficiari del welfare anche ai portatori di «nuovi» rischi sociali. Nell’area europea anglosassone, così come nell’Europa centro-orientale, sono invece prevalse logiche di taglio e retrenchment nei programmi tradizionali di welfare (come le pensioni) senza alcuna vera maggiore copertura per i «nuovi» rischi sociali. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro-orientale, cioè nei paesi dell’ex blocco co-
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munista a influenza sovietica, si è verificata una riduzione generalizzata della protezione sociale: in molti di questi si sono addirittura tagliati gli investimenti fatti fino agli anni Novanta nel campo della copertura dei «nuovi» rischi sociali (come nel caso dei servizi all’infanzia) (Cook 2010). I principali paesi dell’Europa continentale hanno tentato processi di ricalibratura, in cui però i tagli alla copertura dei «vecchi» bisogni sono stati molto più sostanziali di quanto avvenuto in Scandinavia. Tali interventi sono stati accompagnati da un’espansione degli interventi di copertura dai «nuovi» rischi sociali (da più risorse dedicate al sistema di istruzione, a quelle per la conciliazione e alla non autosufficienza). Il caso tedesco può essere considerato paradigmatico di questa traiettoria di cambiamento (Bonoli e Natali 2012). Al gruppo dei paesi continentali possiamo aggiungere anche la Spagna, perlomeno fino a quando la profonda crisi economica e le conseguenti politiche di austerity della fine del decennio scorso non hanno costretto il paese a intraprendere politiche di retrenchment. Un percorso differente è stato, invece, seguito dall’Italia (2 Box 35.2). Il nostro paese si caratterizza per il fatto che alle politiche di taglio nei settori di welfare che coprivano i bisogni tradizionali (fra cui le pensioni) non sono corrisposti sufficienti interventi per coprire i «nuovi» rischi, come mostrato anche nel paragrafo precedente nel discutere la ricerca di Ascoli, Ranci e Sgritta (2015; si veda anche Ascoli e Pavolini 2016). Si tratta di un quadro in cui, rispetto a quello anglosassone e centro-orientale europeo, i programmi di copertura dei «vecchi» rischi sociali seppur ridimensionati hanno resistito maggiormente ai tagli che, soprattutto, hanno colpito alcuni gruppi specifici (giovani, donne, immigrati) piuttosto che altri (lavoratori maschi adulti). Nonostante i diversi paesi abbiano adottato strategie differenti di riforma dei propri sistemi di welfare, un elemento sembra accomunare molti di essi: la crescente incapacità o non volontà di contrastare l’aumento delle disuguaglianze e dei rischi di esclusione sociale che si sono andati consolidando nel mercato del lavoro. Contrariamente a quanto accaduto nei primi decenni del dopoguerra, l’ultimo quarto di secolo ha visto aumentare vari tipi di disuguaglianze (si veda il Par. 35.2), che si sono accentuate con la crisi economico-finanziaria della fine del decennio passato. Tranne che nei paesi scandinavi, in quasi tutti gli altri contesti le trasformazioni nei sistemi di welfare hanno avuto due effetti negativi, che si sono mescolati in maniera differenziata a seconda dei paesi. Le politiche di retrenchment hanno rafforzato le disuguaglianze sociali createsi sul mercato del lavoro (si veda il Cap. 33), rendendo più vulnerabili individui e famiglie in precedenza (parzialmente) tutelati dal rischio di povertà e di esclusione sociale. Tuttavia anche alcune delle politiche di ricalibratura non sono state in grado di limitare processi di dualizzazione sociale (Emmenegger et al. 2012) fra coloro che vengono ancora protetti dal welfare (gli insider) e coloro che finiscono per essere non aiutati o lo sono solo parzialmente (gli outsider): la riduzione della copertura dei rischi tradizionali e l’espansione, spesso comunque limitata, delle coperture dei «nuovi» rischi ha colpito, nel primo caso, e beneficiato, nel secondo, gruppi sociali diversi. Come sottolinea Cantillon (2011) (si veda il Par. 35.3), spesso sono state le classi sociali medio-alte a beneficiare maggiormente dei processi di
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ricalibratura, mentre le classi popolari e operaie sono state più fortemente colpite dai tagli (ai sussidi di disoccupazione, nelle pensioni ecc.) e hanno beneficiato in misura minore degli interventi rivolti verso i «nuovi» rischi sociali.
Letture di approfondimento Ascoli U., Ranci C., Sgritta G.B. (a cura di) (2015). Investire nel sociale. La difficile innova zione del welfare italiano, Bologna, il Mulino. Morel N., Palier B., Palme J. (eds.) (2012). Towards a Social Investment Welfare State? Ideas, Policies and Challenges, Bristol, Policy Press. Ranci C., Pavolini E. (2015). Le politiche di welfare, Bologna, il Mulino. Taylor-Gooby P. (2004). New Risks, New Welfare: The Transformation of the European Wel fare State, Oxford, Oxford University Press.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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36.1 Il «diamante» del welfare e l’equilibrio dinamico tra le fonti del benessere sociale Il welfare state, che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, è il fulcro dei moderni sistemi di protezione sociale, non è l’unica fonte o agenzia di produzione di welfare (o di benessere) per i cittadini. Il suo intervento si è storicamente istituzionalizzato agli inizi del XX secolo senza sostituire del tutto l’apporto di altre agenzie che già provvedevano a fronteggiare i principali rischi e bisogni sociali: il mercato (nel quale i cittadini possono direttamente acquistare i beni e i servizi di cui necessitano) e in particolare il mercato del lavoro (che, grazie all’occupazione, fornisce il reddito con cui effettuare tali acquisti); la famiglia (incluse le reti di solidarietà parentali allargate e le reti amicali); le formazioni sociali intermedie (comprendenti le comunità informali, come il vicinato, e le realtà organizzate, come le associazioni e gli enti del terzo settore, e le parti sociali, ovvero le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro). Nel loro insieme, tali fonti di benessere – e le relazioni che intercorrono tra di esse – compongono il sistema o regime di welfare, che comprende al suo interno il welfare state senza dunque coincidere in modo esclusivo con esso (Ferrera 2006). Anzi, se si considerasse solo il ruolo dello stato, resterebbe in ombra un «residuo di welfare» straordinariamente ampio (Esping-Andersen 2000, p. 65). Perfino nel periodo del cosiddetto «trentennio glorioso» tra il secondo dopoguerra e la metà degli anni Settanta del secolo scorso – quando il welfare state tocca il massimo della sua espansione sia sotto il profilo della copertura dei bisogni (e della spesa) sia sotto quello del consenso sociale – l’apporto delle altre agenzie di benessere è rimasto decisivo. Data questa premessa, non stupirà constatare quanto tali agenzie continuino oggi a giocare un ruolo importante e in crescita, a fronte di un welfare state che fatica a tenere il passo rispetto all’evoluzione di rischi e bisogni sociali che aumentano e si diversificano (si veda il Cap. 35). Possiamo dunque affermare che le differenze storicamente emerse tra i sistemi di welfare non riguardano solo le priorità, le forme e l’ampiezza della copertura dell’intervento pubblico, e i modi in cui tale intervento è garantito e organizzato dallo stato attraverso forme istituzionalizzate di solidarietà collettiva. Infatti, devono essere considerati anche i modi in cui nei diversi sistemi è riconosciuto e valorizzato l’apporto di altre agenzie alla produzione del benessere sociale (Kazepov e Carbone 2007). Un’immagine aiuterà a chiarire quanto detto. Possiamo rappresentare, con Ferrera (2006), il quadrilatero costituito da stato, famiglia, mercato e sfera delle associazio-
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Figura 36.1 Il «diamante» del welfare Stato
Mercato
BENESSERE
Famiglia
Associazioni intermedie
Fonte: M. Ferrera, «L’analisi delle politiche sociali e del welfare state», in M. Ferrera (a cura di), Le politiche sociali, Bologna, il Mulino, 2006, p. 14.
ni intermedie mediante il cosiddetto «diamante del welfare» (Fig. 36.1). A seconda di come le relazioni formali e informali che legano i quattro vertici del diamante si strutturano (attraverso diversi meccanismi di coordinamento) si delinea un certo tipo di regime di welfare, e più precisamente un certo tipo di welfare mix, cioè un mix di responsabilità pubbliche e responsabilità private nelle funzioni di protezione e redistribuzione di risorse e opportunità di vita. Ciascuna delle agenzie di benessere indicate tende a incorporare, per dirla con Polanyi (1981), una specifica «forma di integrazione tra economia e società», ovvero tende a operare prevalentemente secondo una specifica forma di regolazione (delle transazioni) e allocazione (delle risorse). Come sappiamo, le forme indentificate da Polanyi sono tre: scambio, reciprocità, redistribuzione (si veda il Cap. 6). Streeck e Schmitter (1985) ne hanno proposta una quarta, associativa o corporativa, definita – sul piano della regolazione e dell’allocazione – come concertazione degli interessi organizzati. Di fatto, queste quattro forme di integrazione e regolazione/ allocazione si rispecchiano nei principi di funzionamento dell’agire che caratterizza le quattro agenzie di welfare (Tab. 36.1). L’aggiunta della quarta forma di regolazione, come vedremo, è particolarmente importante oggi. Nella rappresentazione stilizzata del diamante del welfare, lo stato riveste un ruolo predominate e sovraordinato rispetto agli altri attori. Da un lato, esso rappresenta il «contenitore», il perimetro che include tutti i processi di produzione di benessere, formali e informali, pubblici e non pubblici; dall’altro, esso ricopre il ruolo di «regolatore sovrano» di questi stessi processi (Ferrera 2006, p. 14). In altri termini esso riveste un ruolo di primo piano come fornitore diretto di servizi e prestazioni sociali, ma incide sulla distribuzione di tali servizi e prestazioni anche per via indiretta, disciplinando l’azione dei soggetti non pubblici che operano per fini di utilità pubblica. Lo stato infatti è investito di una responsabilità in più e maggiore degli altri; una
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Tabella 36.1 Criteri di regolazione e allocazione delle principali fonti di benessere del sistema di welfare Fonte/agenzia di welfare (benessere)
Criterio di regolazione e allocazione
Stato
Redistribuzione
Famiglia
Reciprocità
Mercato
Scambio
Sfera delle associazioni intermedie
Concertazione degli interessi organizzati
responsabilità istituzionale e sistematica nel proteggere e sostenere le condizioni di vita di tutti cittadini in quanto tali (cioè in modo universalistico, in linea di principio senza distinzioni di status), soddisfacendone i bisogni fondamentali, contrastando le disuguaglianze e promuovendo l’accesso a pari opportunità. In effetti, il processo di istituzionalizzazione del welfare ha portato lo stato ad assumere nel tempo un ruolo in tale senso sempre più rilevante, tanto che anche a livello teorico si è arrivati a far coincidere la modernizzazione del welfare con la lineare, progressiva e cumulativa crescita dei compiti dello stato (Ranci 2004). Tuttavia, se questa immagine ha ben rappresentato l’articolazione dei moderni sistemi di welfare nell’epoca d’oro del loro sviluppo e anche nei primi anni della loro crisi, oggi non appare più pienamente calzante. Le differenze tra i regimi di welfare restano importanti, seppure in movimento, e certamente ancora legate al ruolo giocato dallo stato al loro interno (Taylor-Gooby 2004). Ma, la crisi di sostenibilità finanziaria (crisi fiscale) e l’erosione della legittimazione sociale, politica e culturale, che a partire dagli anni Settanta del secolo scorso hanno intaccato il welfare state per investirlo in pieno nei due decenni successivi, hanno incrinato gli equilibri raggiunti. Si è così aperta una stagione nuova in cui i ruoli e le responsabilità attribuiti alle diverse agenzie del benessere hanno cominciato a cambiare in modo sostanziale. Ciò, con due conseguenze: in primo luogo, l’aumento di funzioni pubbliche svolte da soggetti privati, con un coinvolgimento sempre più diretto e intenso di questi ultimi nella produzione delle risposte di welfare; in secondo luogo, ma in modo congiunto, l’emergere di nuovi modelli di governance, regolazione e organizzazione del sistema di welfare (Ranci 2004). Se focalizziamo lo sguardo sull’Italia, in particolare a partire dagli anni Ottanta si assiste all’aumento delle responsabilità in capo agli attori privati di terzo settore. A rilevare in questo contesto è innanzitutto una peculiare configurazione del welfare mix il quale introduce la separazione tra il finanziamento dei servizi di natura sociale, che rimane in carico al pubblico, e la loro gestione ed erogazione ai cittadini, affidata invece ai fornitori privati, in particolare alle organizzazioni non profit. Di fatto l’ente pubblico delega la fornitura dei servizi a enti privati (gestori-erogatori) utilizzando meccanismi di appalto, come la contrattualizzazione (contracting out), per finanziarli direttamente. Il coinvolgimento degli attori privati di terzo settore fa perno, sul piano normativo, sul principio di sussidiarietà, specie nella sua dimensione «orizzontale», che
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regola l’ampliamento del novero delle soggettività sociali ammesse alla programmazione e gestione di servizi di utilità pubblica; e, sul piano valoriale, sulla responsabilità collettiva per la realizzazione del bene comune, prefigurando la creazione di un welfare non solo mix, ma «plurale», nel quale è riconosciuta l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale (2 Box 36.1). Sono diverse le ragioni che hanno sostenuto questa tendenza; per brevità possiamo sintetizzarle in ragioni di ordine: 1) politico-fiscale, quali l’impossibilità di estendere ulteriormente la responsabilità finanziaria e gestionale dello stato nell’ambito del welfare, dopo anni in cui la sua espansione era parsa inarrestabile, con evidenti effetti negativi sulla spesa pubblica; 2) organizzativo, come l’esigenza di razionalizzare, rendere più efficiente e di qualità l’offerta dei servizi, mantenendo una chiara regia pubblica ma valorizzando la capacità delle organizzazioni del terzo settore di offrire riposte flessibili e personalizzate, lontane dall’approccio burocratico della pubblica amministrazione; 3) socio-culturale, quali l’emergere dalla cittadinanza di una domanda di auto-realizzazione, di affermazione e partecipazione attiva alla costruzione del proprio benessere, che contrasta con l’idea passivizzante del welfare state keynesiano, e rivendica spazi maggiori di protagonismo, autonomia, libertà di scelta, dando luogo tanto a fenomeni di contestazione quanto allo sviluppo dell’impegno nel volontariato, nell’economia civile e nel terzo settore; fenomeni che, proprio a partire dagli anni Ottanta, crescono sotto il profilo quantitativo e del riconoscimento sociale e istituzionale, e acquisiscono interesse sotto il profilo teorico (si vedano i lavori seminali di Ardigò, per esempio 1979, e di Donati, per esempio 1984). Parallelamente hanno cominciato a diffondersi dispositivi di finanziamento della domanda di servizi da parte dei cittadini (per sostenerne la cosiddetta solvibilità, ovvero la capacità di acquisto), come i voucher e le forme di detrazione fiscale per l’acquisto di servizi privati; ciò perseguendo obiettivi diversi, quali: favorire lo sviluppo di un mercato dei servizi teso ad ampliare gli ambiti di copertura dei bisogni sociali, facendo crescere l’attenzione per bisogni fino a quel momento rimasti marginali (dipendenze, disabilità, esclusione sociale, istruzione e formazione permanente ecc.); sostenere la libertà di scelta del cittadino; evitare che le esigenze di contenimento dei costi della spesa pubblica si traducessero in una complessiva riduzione dell’offerta di servizi o in una corsa al ribasso dei costi di produzione da parte dei fornitori privati operanti in regime di concorrenza per accaparrarsi l’appalto. Prese insieme, queste due tendenze – separazione tra finanziamento e gestione dei servizi di offerta e diffusione di dispositivi di finanziamento della domanda – hanno teso a implementare un «sistema plurale di offerta» orientato a valorizzare una varietà di risorse professionali e finanziarie e a sviluppare forme di produzione dei servizi diversificate, finalizzate a rispondere in modo mirato e flessibile ai problemi sociali (Ascoli e Ranci 2003, p. 19). Tuttavia tali tendenze hanno prodotto effetti am-
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bivalenti che le ricerche hanno portato alla luce: da un lato, nuove opportunità, quali l’ampliamento della gamma dei servizi offerti e una maggiore efficienza organizzativa; dall’altro lato, rischi e dilemmi, per esempio sul piano della redistribuzione e dell’uguaglianza delle opportunità, sul piano della ricerca di qualità e innovatività dei servizi e sulla qualità e retribuzione dei lavori nei servizi socio-assistenziali1. Nella realtà, tali tendenze si sono concretizzate in modo diversificato e con intensità variabile, dando luogo a una varietà di modelli di welfare mix nazionali (a livello europeo; ibidem) e regionali, specie nel nostro paese (Fargion 1997); con ciò riflettendo i valori dominanti nelle visioni politiche e sociali proprie di ciascun contesto nazionale o locale (Kazepov 2009). L’affermarsi del welfare mix, in Italia come in Europa, ha inizialmente portato alla polarizzazione tra i modelli sbilanciati sull’obiettivo di sviluppare il mercato dei servizi, sostenendo la libertà di scelta e la capacità di acquisto dei cittadini (i cosiddetti modelli demand-driven), e i modelli sbilanciati sull’obiettivo di sostenere l’assunzione di responsabilità collettive da parte degli enti privati in ordine alla promozione del benessere sociale, sostenendo in particolare l’azione degli enti di terzo settore sul piano finanziario (i cosiddetti modelli supply-driven). Nel tempo, la polarizzazione ha però ceduto il posto alla contaminazione tra i modelli (2 Box 36.2). All’interno di queste complesse dinamiche di cambiamento dell’assetto organizzativo e regolativo del sistema di welfare, la regia pubblica e la posizione sovraordinata dello stato sopradescritta non è venuta meno, ma ha via via perso il suo carattere «dato per scontato». Procedendo in questo solco, il mix tra risorse (e responsabilità) pubbliche e private ha continuato a evolvere, erodendo la convinzione che tale posizione potesse essere l’unica possibile, nei fatti aprendo la strada a un sistema in cui la regolazione statale si mescola con quella del mercato e con quella societaria. Al punto che, oggi, sembra che si stia realizzando quanto prefigurato quasi tre lustri or sono da Ascoli e Ranci: Nel tempo si può prevedere che la contaminazione tra i due modelli faccia emergere un nuovo paradigma più complesso, che porti alla costruzione di sistemi misti di servizi sociali più articolati di quelli oggi esistenti (Ascoli e Ranci 2003, p. 27).
Al riguardo, da qualche anno nel nostro paese sta catalizzando l’attenzione di studiosi, politici e media il diffondersi di modalità «organizzate» di finanziamento privato, diverse, dunque, dalla semplice spesa privata dei cittadini (out of pocket), che individualmente acquistano sul mercato i servizi di cui hanno bisogno (per esempio, di cura alla persona, come babysitter o assistenti domiciliari privati). Tali forme organizzate di finanziamento, a seconda dei casi, vanno a integrare o supplire le risorse del 1
La dipendenza economica degli enti non profit dal finanziamento pubblico, regolata da meccanismi competitivi, porta a premiare le organizzazioni più capaci di gestire in modo efficiente i servizi dati in appalto ma rischia così di favorire, oltre a derive collusive, la loro burocratizzazione a danno della loro qualità e capacità di risposta innovativa; rischi e derive che chiamano in causa, quale deterrente, la capacità dello stato di definire le regole della competizione e i criteri di selezione degli enti, nonché di verificare il rispetto di standard di qualità, sia dei servizi offerti sia delle condizioni di lavoro degli operatori.
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Figura 36.2 Nuovi legami tra le fonti/agenzie del welfare
stato
individui e famiglie
mercato
formazioni sociali e corpi intermedi Fonte: rielaborazione da F. Maino, «Tra nuovi bisogni e vincoli di bilancio: protagonisti, risorse, innovazione sociale», in F. Maino, M. Ferrera (a cura di), Primo rapporto sul secondo welfare in Italia 2013, Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi, 2013, p. 28.
pubblico, in particolare negli ambiti del welfare sociale lasciati più scoperti nel sistema italiano di protezione, quali assistenza per la non autosufficienza, cura dei bambini, povertà, disagio ed emarginazione (Gori 2012). Assumendo simbolicamente lo scoppio della grave crisi economico-finanziaria internazionale come punto di svolta, possiamo affermare che a partire dal 2008 l’espansione delle funzioni pubbliche svolte da soggetti privati di diversa natura abbia subito un’«accelerazione», configurando, per questi stessi soggetti, spazi di maggiore autonomia di azione, incluso il piano finanziario, sospingendo la ricerca di nuove forme di integrazione tra pubblico e privato (Lodigiani 2012). Diverse realtà del privato (profit e non) si trovano quindi non solo a erogare e gestire, ma anche a finanziare direttamente (o in partnership tra loro e/o con lo stato) risposte di welfare sociale, sperimentando soluzioni organizzative, di intervento e finanziamento innovative. Sul piano empirico si rileva che una pluralità molto eterogenea di soggetti – imprese e parti sociali, assicurazioni private, fondazioni ed enti filantropici, organizzazioni di terzo settore e realtà della società civile – cerca in modo sempre più attivo di dare risposta ai bisogni sociali, tramite iniziative che si sviluppano soprattutto a livello territoriale, spesso con il coinvolgimento attivo dei beneficiari e la valorizzazione di appartenenze comuni, siano queste ultime legate a una realtà locale, aziendale, occupazionale, associativa o solidaristica. In questo contesto, i ruoli delle quattro agenzie del benessere sociale si modificano e appaiono sempre meno separati, specializzati funzionalmente; piuttosto si rilevano segnali di una «compenetrazione e sovrapposizione» fra di essi, grazie a relazioni di collaborazione che si fanno complesse e plurime (Maino 2013). Prende così forma una nuova configurazione del welfare mix, per non dire il suo superamento e trasformazione in un sistema misto in cui stato, mercato, privato sociale e cittadini (individui e famiglie) collaborano, integrando in modo nuovo sia le risorse (economiche, relazionali, di competenza) sia le logiche di azione, per produrre in modo sinergico soluzioni e risposte per il benessere sociale (Fig. 36.2).
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In questa nuova configurazione, coesistono «ambiti in cui i protagonisti delle quattro arene agiscono “da soli” e ambiti in cui si sviluppano sinergie di tipo bilaterale fino ai casi – sempre più frequenti – in cui stakeholder che appartengono alle quattro sfere fanno “rete” e insieme producono programmi e iniziative, contraddistinti appunto da un più elevato grado di condivisione di risorse finanziarie e progettuali» (ivi, pp. 27-28).
36.2 Le sfide interpretative: capire le ragioni di una nuova «onda lunga» del welfare Il dibattito intorno al ruolo e al contributo che gli attori (e le risorse) non pubblici apportano al ripensamento complessivo del modello di protezione è acceso. Del resto, molte sono le sfide interpretative che questo scenario solleva. Innanzitutto, siamo davvero di fronte a un nuovo paradigma di welfare? Quali le ragioni, i fattori determinanti? Quali le implicazioni? Per dirla con le parole di Massimo Paci in un fondativo articolo del 1982, l’integrazione tra responsabilità pubbliche e private è un tratto non solo distintivo ma costitutivo dei sistemi di welfare «maturi». Il loro concreto assetto storico dipende dal tipo di interazione che si viene a creare tra i differenti meccanismi di regolazione e allocazione delle risorse. Il mutamento nel tempo dei sistemi di welfare dunque non coincide, secondo una presupposta traiettoria evoluzionistica, con l’espansione dei compiti dello stato e il superamento del ruolo delle altre agenzie del benessere; piuttosto procede tramite «onde lunghe» di trasformazione che innescano «cambiamenti strutturali» nell’intreccio tra tali diverse forme regolative (per Paci, le tre forme identificate da Polanyi: redistribuzione, scambio, reciprocità). Questo mutamento porta di volta in volta alla dominanza di una delle forme di regolazione sulle altre, definendo uno specifico «mix a dominanza» (ivi, p. 18). Potremmo quindi limitarci a osservare che ci troviamo di fronte a una nuova onda lunga. Ma evidentemente ciò non basta. Resta da indagare quale nuovo equilibrio si stia raggiungendo, perché e come, cioè attraverso quali meccanismi di coordinamento tra gli attori e con quale nuova «dominanza». Al riguardo, gli approcci teorici e le ipotesi interpretative tendono a diversificarsi. Da un lato si trovano quanti leggono questo fenomeno come conseguenza di una (ulteriore) svolta neoliberale che – in ragione dei vincoli macro-economici e delle politiche di austerità imposte a livello europeo per fronteggiare l’impatto della crisi – giustifica surrettiziamente una contrazione dell’impegno dello stato nel welfare e, dunque, scelte di tagli alla spesa sociale che si accompagnano al tentativo di sostenere la ricerca di risorse alternative di tipo privato. Da qui, viene denunciato, deriverebbero il contestuale ritrarsi delle responsabilità collettive, la privatizzazione del welfare e un arretramento del concetto di cittadinanza o una sua riconfigurazione pre-moderna (Granaglia 2011; Pennacchi 2011). Conseguenze ambivalenti ricadrebbero anche sugli enti di terzo settore, sospinti, è vero, a recuperare la loro autonomia progettuale, svincolandosi dal rapporto di dipendenza con le risorse pubbliche, ma
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anche esposti ad ampi margini di incertezza circa la continuità del proprio lavoro e obbligati a spingersi in modo più deciso sul fronte della competizione di mercato (Accorinti 2011). Da un altro lato si trovano quanti leggono in questo passaggio una svolta potenzialmente positiva, anche se non priva di elementi di criticità da considerare e superare. Le posizioni che si ritrovano accomunate in questa lettura sono articolate. Alcuni studiosi puntano l’attenzione innanzitutto sulla dimensione funzionale del fenomeno. Nel tentativo di arrivare a dare risposta ai nuovi rischi e bisogni sociali, lasciati senza adeguata copertura dal welfare state tradizionale, la ricerca di soluzioni innovative cui attori privati di varia natura danno corpo con la loro mobilitazione soprattutto a partire dal basso, dai territori, genera un insieme sempre più rilevante e strutturato di esperienze tese a integrare e ad aggiungersi all’offerta pubblica. Questo insieme di esperienze delinea – con le parole di Ferrera e Maino (2011) – un vero e proprio secondo welfare, che integra dall’esterno il welfare state intervenendo laddove vi sono richieste di tutela e domande di servizi alla persona o alle famiglie non soddisfatte. Primo e secondo welfare sono quindi considerati come complementari, come le due facce di una stessa medaglia. A partire dall’innovativa integrazione tra tali due facce si starebbe delineando un nuovo paradigma di welfare, all’insegna di un «neowelfarismo liberale» (Ferrera 2013) capace di trovare un’inedita sintesi ideologica tra libertà, uguaglianza e giustizia sociale, e di riconoscere nel welfare un «investimento promozionale» per il benessere dei cittadini. Tra le due sfere di intervento sociale, quella pubblica e quella popolata anche da soggetti privati (il secondo welfare, appunto), non vi è in linea di principio una sovrapposizione di responsabilità, bensì delega di poteri e responsabilità dal centro alla periferia. In particolare, vi è delega dal soggetto pubblico ai corpi intermedi della società (Maino 2013). Ciò porta ad apprezzare la dimensione plurale e territoriale del sistema e a promuovere la costruzione di reti territoriali multi-attore (multi-stakeholder), anche se spetta agli enti locali un ruolo centrale nel supportare le partnership pubblico-privato e nell’assicurare le funzioni di coordinamento, monitoraggio, valutazione. Sul fronte politico-istituzionale, d’altro canto, è necessario agire per riscrivere i rapporti tra lo stato e gli altri attori del sistema di welfare. Due gli esiti attesi: alleviare il carico di pressione della domanda sociale sullo stato, per quanto possibile e in determinate aree, e valorizzare gli attori privati che integrano con proprie iniziative le strategie pubbliche di welfare (ibidem). Altri studiosi colgono nel fenomeno in parola una svolta significativa, che segnerebbe però non tanto l’emergere di un paradigma totalmente nuovo, bensì il pieno, compiuto, «radicale» realizzarsi di un welfare «plurale», che promuove in termini più sostanziali, rispetto al tradizionale welfare mix, la riallocazione delle responsabilità per la produzione del benessere sociale secondo i principi della sussidiarietà orizzontale (Lodigiani e Pesenti 2014), riconoscendo così nel welfare una «funzione diffusa», come da tempo teorizzato dal paradigma del welfare societario (Donati 1998). In questa prospettiva le iniziative private non semplicemente integrano dall’esterno, ma si trovano pienamente integrate in un sistema di welfare in cui la natura pubblica del servizio è definita dalla funzione assolta piuttosto che dallo sta-
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tus giuridico. Ciò apre la strada alla costruzione di modalità di partenariato complesse, che giungono fino all’ibridazione tra le logiche di azione degli attori in campo, e sollecita forme di governance reticolari, riflessive e plurali, innovative (Bertin 2009). Questa integrazione richiede metodi di regolamentazione che sono sempre più orientati verso forme di partnership negoziate tra gli attori pubblici e privati, che riconoscono e promuovono attivamente l’autonomia e la responsabilità degli attori privati, dentro a un quadro di regole congiuntamente definite secondo procedure deliberative partecipative, e una sussidiarietà che da alcuni viene letta in termini di «circolarità», come reciproca promozionalità (Zamagni 2011). Le diverse agenzie del benessere sono chiamate a interagire tra loro in modo sistematico e reciproco durante le diverse fasi di realizzazione dei servizi: progettazione, finanziamento e gestione. L’autonomia delle sfere sociali intermedie risulta valorizzata, così come la partecipazione attiva dei cittadini e delle diverse soggettività sociali profit e non profit nella co-produzione dei servizi di pubblica utilità, secondo un principio di responsabilità condivisa (Prandini e Orlandini 2015; Cesareo 2017). Ciò prefigura l’avvento di un sistema di welfare di tipo «poliarchico», caratterizzato da molteplici opportunità e forme di decisione e di partecipazione per tutti gli attori coinvolti; in questo quadro, i diversi attori sociali e gli enti pubblici contribuiscono a definire gli obiettivi sociali e il modo per raggiungerli (Prandini 2012). Il ruolo dello stato – di coordinamento, controllo e negoziazione – resta co-essenziale ma non è egemone. Esso da un lato si pone come garante del bene comune e delle regole generali entro cui sviluppare l’autonomia delle soggettività sociali; dall’alto lato assume una postura promozionale e capacitante non solo nei confronti degli individui, ma anche verso i contesti più fragili o deprivati. In tutti gli approcci, seppure espressi con accenti diversi, è posta in evidenza la rilevanza dei corpi intermedi e della dimensione territoriale delle risposte di welfare che i diversi attori promuovono, facendo leva sui legami sociali solidaristici e comunitari e sulle appartenenze comuni. Tali risposte, comunque siano denominate e classificate, sono considerate strategiche non solo per assicurare la sostenibilità finanziaria del sistema di welfare stesso – nella misura in cui sono capaci di apportare risorse aggiuntive – ma anche per produrre valore sociale in modo condiviso; un valore che si esprime attraverso la costruzione di nuove forme di socializzazione dei rischi e di reti di solidarietà, la promozione dell’autonomia, della partecipazione e della responsabilità di tutti gli attori sociali (a partire dal singolo individuo) alla produzione del benessere sociale (Magatti 2012). Di qui discende l’attenzione per la quarta forma di regolazione e allocazione, quella associativa o corporativa, e per le pratiche di concertazione degli interessi tra gli attori del welfare. Questa quarta forma appare nei fatti a tal punto rilevante da far ipotizzare possa diventare quella «dominante». Di qui, però, anche l’urgenza di comprendere fino in fondo quali sono le implicazioni della svolta in atto rispetto a quelle ambivalenze, rischi e dilemmi che già il welfare mix aveva sollevato sul piano non solo dell’efficienza, ma anche dell’uguaglianza e della redistribuzione, per valutare se questo tipo di evoluzione del welfare mix sia in grado di correggere o al contrario rafforzi tali tensioni.
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36.3. Un campo di ricerca vasto e frammentato Investigare empiricamente la trasformazione in corso è un’operazione complessa perché complesso è contornare il campo di indagine e tenere insieme i diversi livelli di analisi: dimensione quali/quantitativa del fenomeno (quali soggetti sono coinvolti, quante risorse mobilitano, quali risposte di welfare attivano, quanti cittadini interessano) e regolativa (quali forme di coordinamento e regolazione emergono, quale nuova «dominanza» si configura). A titolo esemplificativo citiamo due lavori di ricerca, molto diversi tra loro, focalizzando l’attenzione sulle domande di partenza e i metodi utilizzati. 36.3.1 Il laboratorio di ricerca sul secondo welfare Il primo esempio di ricerca è dato dal Laboratorio di ricerca sul Secondo welfare, promosso dal Centro Einaudi in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano. Dal 2011 questo laboratorio «si propone di ampliare e diffondere il dibattito sul secondo welfare in Italia studiando, approfondendo e raccontando dinamiche ed esperienze capaci di coniugare il ridimensionamento della spesa pubblica con la tutela dei nuovi rischi sociali, in particolare attraverso il coinvolgimento crescente di attori privati e del terzo settore», come si legge sul portale web del progetto (www.secondowelfare.it). Di fatto, il laboratorio ha avviato un processo di monitoraggio di una serie eterogenea di interventi di welfare attivati da soggetti privati profit e non profit (imprese, società di mutuo soccorso, sindacati e associazioni datoriali, enti bilaterali, fondazioni bancarie e fondazioni di comunità, fondi integrativi, assicurazioni ecc.), ma anche enti locali (regioni, province e comuni), in modo autonomo o in partnership con altri attori, in differenti aree di policy (povertà, cura alla persona, famiglie e minori, non autosufficienza, sanità, educazione, conciliazione famiglia-lavoro, inserimento lavorativo ecc.), dando luogo a diverse tipologie di welfare, quali principalmente: aziendale, contrattuale e bilaterale, mutualistico, comunitario, territoriale (2 Box 36.3). Gli obiettivi del laboratorio sono anche promozionali, tanto che per classificare questo progetto potremmo utilizzare il termine ricerca-azione: sostenere lo sviluppo del secondo welfare in modo che esso possa realmente ampliare e migliorare la copertura della rete di protezione sociale integrando e andando a complemento dell’azione del welfare state. La divulgazione dei risultati di ricerca è affidata a una serie di strumenti: working paper, articoli scientifici, articoli di taglio più divulgativo pubblicati sul sito web e i Rapporti sul secondo welfare (a oggi due: Maino e Ferrera 2013, 2015). Le domande alla base del monitoraggio sono di natura descrittiva, analitica e interpretativa: quali attori coinvolge? Quanto vale il secondo welfare in termini economici, occupazionali e sociali? Quale tipo di incastro si realizza con il primo welfare? Come inquadrare dal punto di vista teorico-concettuale, oltre che economico-sociale, questo fenomeno?
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Dare conto in termini sintetici della metodologia di ricerca non è semplice dato che le aree di policy e le tipologie di intervento sono investigate tramite indagini ad hoc, e dunque di volta in volta con i metodi ritenuti più appropriati. Nel complesso possiamo dire che il laboratorio utilizza un mix di metodi di ricerca quantitativi e qualitativi e di analisi desk e field. Dal punto di vista teorico viene esplicitato il triplice ancoraggio a (Maino 2013): 1) la teoria dei corsi di vita (Saraceno 2001), intesi questi come traiettorie biografiche individualizzate, nelle quali le fasi e le transizioni di vita non seguono un percorso modale, tipico, ma sono flessibili, aperte e intrecciano in modi diversi opportunità, rischi e bisogni; 2) il paradigma del social investment state (per esempio, Morel, Palier e Palme 2011), che considera il welfare come un investimento di lungo periodo per lo sviluppo e la coesione sociale, puntando l’attenzione in particolare su alcune specifiche aree di intervento, come servizi di cura per la non autosufficienza, servizi socio-educativi per la prima infanzia, servizi di attivazione e inclusione lavorativa, contrasto alla povertà ecc.; 3) l’approccio dell’innovazione sociale che, nella definizione europea, corrisponde alla realizzazione di risposte a bisogni sociali pressanti e rilevanti, orientate a migliorare il benessere e la qualità della vita delle persone, innovative sia nei fini sia nei mezzi: nuove idee (prodotti, servizi, modelli di intervento) che rispondono ai bisogni sociali in modo più efficace delle alternative esistenti e che, allo stesso tempo, creano nuove relazioni sociali e collaborazioni, incidendo sia sul tipo di risultato (valutato non solo sulla dimensione economica, ma appunto sociale) sia sul processo che porta a conseguirlo (BEPA 2010). Questo frame teorico disegna la cornice interpretativa entro cui vengono valutati gli interventi di secondo welfare. I dati raccolti e analizzati documentano che il fenomeno si è consolidato negli ultimi anni ed è divenuto ormai significativo sotto il profilo economico, finanziario, occupazionale e sociale, impattando sulla vita di milioni di persone (lavoratori, famiglie, minori, anziani, cittadini di ogni età) (2 Box 36.4). Il suo peso è in crescita e i riscontri mostrano che tende a colmare i buchi del primo welfare, con funzione a volte complementare a volte sostitutiva, riuscendo a intercettare le nuove vulnerabilità sociali. Inoltre, esso immette innovazione nei processi di produzione, erogazione, gestione dei servizi di welfare, oltre che nei rapporti tra gli attori coinvolti in relazioni cooperative; sviluppa forme di governance territoriali multi-stakeholder; sollecita una forma più «matura» di sussidiarietà, in cui tutti diventano responsabili della costruzione del bene comune; promuove l’empowerment e l’attivazione dei cittadini e delle diverse soggettività sociali. Ma contemporaneamente tali dati mostrano che la sua diffusione segue traiettorie territoriali (non è sviluppato in modo omogeneo nel paese) e categoriali (interessa in modo selettivo alcune categorie di persone). Per questo, rimane il rischio che, sviluppandosi senza un adeguato quadro regolativo pubblico, la frammentazione delle iniziative amplifichi le disparità territoriali e categoriali. Torna così in primo piano la questione dell’universa-
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lismo della protezione sociale. Per garantirlo occorre che il welfare state continui ad assicurare l’accesso ai diritti sociali in tutto il paese e livelli omogenei nelle prestazioni essenziali e che il secondo welfare integri, complementi, arricchisca il primo a rafforzarne la capacità di copertura. Da questo punto di vista viene evidenziata la rilevanza delle partnership pubblico-privato-privato non profit che si vanno costituendo nei territori per affrontare problematiche sociali specifiche, e la sottoscrizione di «patti» tra i differenti attori, pubblici e privati, attraverso cui programmare e progettare le politiche del territorio, per condividere priorità, risorse e responsabilità, e favorire sinergie e integrazioni (Maino 2015). 36.3.2 Il welfare occupazionale Il secondo esempio di ricerca è dato dal lavoro curato da Pavolini, Ascoli e Mirabile (2013) sul welfare occupazionale, e in particolare sul ruolo giocato in tale ambito dalle aziende e dai sindacati. Il termine welfare occupazionale (occupational welfare) è ripreso dalla pionieristica tipologia elaborata da Richard Titmuss (1958) per individuare i diversi canali e forme di redistribuzione attraverso cui gli individui possono ricevere prestazioni di welfare. Il welfare occupazionale indica l’insieme delle prestazioni sociali erogate dalle aziende ai lavoratori, in forza del rapporto di lavoro che li lega, e si distingue dal social welfare, cioè le assicurazioni sociali garantite dallo stato, e dal fiscal welfare, cioè gli interventi sempre effettuati dallo stato ma indirettamente, tramite la leva fiscale (detrazioni, incentivi ecc.). La ricerca di Pavolini, Ascoli e Mirabile indaga quindi un ambito specifico del secondo welfare, per come sopra definito, e precisamente indica l’ambito delle prestazioni sociali introdotte dalle imprese: 1) in forma unilaterale, come avviene nel welfare aziendale di diretta derivazione dalle scelte manageriali, dunque non negoziata con i sindacati; 2) in forma negoziata bilateralmente da datori di lavoro (e/o loro rappresentanze) e sindacati, come avviene nel welfare contrattuale, tramite la contrattazione collettiva a livello nazionale e a livello decentrato (aziendale e, raramente, territoriale), nonché tramite gli istituti e gli enti bilaterali paritetici (composti dalle rappresentanze delle parti sociali), a livello nazionale, settoriale, territoriale. Nell’uno e negli altri casi, come lo stesso termine welfare occupazionale rende evidente, si tratta di prestazioni rivolte ai lavoratori e non ai cittadini in quanto tali. Non sono dunque, per definizione, misure universalistiche, ma categoriali. I riferimenti teorici della ricerca sono forniti, oltre che dalla citata tipologia di Titmuss, dall’approccio della «varietà di capitalismo» (per esempio Hall e Soskice 2001; si veda anche il Cap. 1 di questo volume). Esso è utilizzato per individuare le caratteristiche del sistema economico-produttivo italiano (definito come mixed-market economy) e metterle in connessione sia con le specificità del sistema di welfare (male-breadwinner, familistico e dualistico, come visto nel Cap. 35) sia con il ruolo
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in esso giocato dalle parti sociali (si veda il Cap. 40). Il quadro così tracciato è utilizzato per interpretare la recente evoluzione del welfare occupazionale. Le domande da cui muove la ricerca sono sostanzialmente tre: • Quali forme assumono le forme di provision di welfare fornite dalle aziende? • Quali sono i motivi che spingono i vari attori a introdurre tali dispositivi? • Quali potrebbero essere (o sono già) le conseguenze dello sviluppo del welfare occupazionale rispetto al welfare pubblico e rispetto alla struttura delle disuguaglianze? Dal punto di vista metodologico, la ricerca si è mossa in quattro direzioni: analisi di banche dati ufficiali, analisi secondaria di altre indagini sul tema, studi di caso aziendali e una survey su un campione di grandi imprese realizzata ad hoc. La ricerca porta alla luce che il welfare occupazionale si articola in tre pilastri: 1) il primo pilastro, sia storicamente sia per rilevanza, è quello previdenziale; esso ruota intorno all’introduzione dei fondi pensione per la previdenza complementare a opera della contrattazione collettiva nazionale e degli enti bilaterali; 2) il secondo pilastro riguarda il campo sanitario, ovvero i fondi sanitari integrativi, i quali coprono la spesa di determinate prestazioni non garantite dal Sistema Sanitario Nazionale oppure i costi a carico dei cittadini (come i ticket) per le prestazioni garantite. I fondi sanitari si stanno diffondendo grazie alla contrattazione collettiva e ai fondi bilaterali, anche se non mancano esempi di fondi istituiti da grandi imprese o gruppi di imprese per iniziativa unilaterale dei datori di lavoro; 3) il terzo pilastro del welfare occupazionale si sviluppa a livello decentrato grazie alla contrattazione di secondo livello e in misura (per ora) ancora più significativa grazie alla volontà (unilaterale) delle imprese, che intravedono nel welfare aziendale una forma di gestione delle risorse umane (per migliorare il benessere dei lavoratori e il clima aziendale, per essere attrattive e poi capaci di trattenere i lavoratori più qualificati) oltre che un vantaggio fiscale (quando i benefici di welfare sono offerti per remunerare il premio di produttività). Questo ambito di welfare occupazionale annovera una gamma di servizi e benefit di varia natura, per esempio per la conciliazione famiglia-lavoro (permessi retribuiti e servizi, come il nido aziendale), l’inclusione sociale, il sostegno al potere d’acquisto (mensa, trasporti, carrello spesa, viaggi ecc.) o il sostegno diretto del reddito (trasferimenti monetari); esso inoltre include spesso l’adesione dell’azienda a forme mutualistiche o assicurative integrative per conto dei lavoratori. Tanto per i fondi di matrice negoziale (previdenziali ma, soprattutto, sanitari) quanto per le forme di welfare aziendale (contrattuale o meno che siano) la possibilità di contare su simili coperture varia in rapporto al settore di impiego (per esempio, bancario, chimico e farmaceutico sono quelli che offrono le maggiori opportunità), alla dimensione aziendale (sono più diffuse nelle grandi imprese), allo status occupazionale del lavoratore (escludendo evidentemente non solo i disoccupati ma anche i la-
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voratori autonomi) e alla strategicità della posizione nell’organizzazione (premiando lavoratori stabili e core-workers). Anche quando le coperture esistono, sono significative le differenze riguardo ai tipi (qualità e quantità) dei benefit offerti. Come anche altre ricerche hanno confermato, a oggi ciò tende a rafforzare la natura occupazionale, frammentata e dualistica del nostro sistema di welfare. D’altro canto, segnali incoraggianti rispetto all’estensione delle coperture provengono dal non facile, ma documentato, diffondersi di esperienze di welfare aziendale e contrattuale anche nelle imprese di piccole e medie dimensioni, in particolare grazie all’impegno profuso dalle associazioni di rappresentanza datoriali nella promozione di reti di imprese; allo stesso modo può essere valutata l’innovazione normativa introdotta con la legge di stabilità 2016, che, fra le altre cose, promuove la contrattazione del welfare aziendale sostenendone lo sviluppo nell’alveo della bilateralità, aumentando altresì gli incentivi di natura fiscale (Mallone 2015; Pesenti, 2017).
36.4. Le problematiche emergenti: regolazione, governance e universalismo La contrapposizione tra luci e ombre nel superamento del tradizionale modello di welfare mix e la spinta verso un maggiore protagonismo dei soggetti privati di varia natura è a questo punto evidente. Da un lato vi è il tendenziale aumento della copertura di nuovi rischi e bisogni sociali; la mobilitazione di risorse diffuse, ma altrimenti lasciate sopite, della società; la promozione di forme inedite di collaborazione tra le agenzie del benessere; l’attivazione dei cittadini. Tutti aspetti che nell’insieme prefigurano spazi di innovazione sociale, economica e istituzionale. Dall’altro lato vi è la constatazione empirica che l’eterogeneità, la frammentazione e la diffusione diseguale nei territori degli interventi di secondo welfare è ancora molto forte; che l’incastro tra primo e secondo welfare non è sempre virtuoso e non è esente dal rischio di essere ridotto a semplice strategia economica per risparmiare sulla spesa sociale pubblica; che gli elementi di disparità nei diritti tra inclusi ed esclusi tipici del sistema di welfare italiano rischiano di essere esacerbati invece che contrastati dall’accesso alle nuove forme integrative di protezione sociale. Quale sia il bilancio definitivo dei trade-off in campo non è facile dirlo, sia perché il quadro è in rapido mutamento sia perché occorre entrare nel merito dei diversi ambiti di intervento per una valutazione più puntuale (per questo rimandiamo ancora a Maino e Ferrera 2015, dove questo bilancio più analitico viene tentativamente proposto). Le problematiche emergenti sono però in ogni caso chiare e, come abbiamo visto, attengono la regolazione, la governance e l’universalismo del sistema di welfare, piani qui analiticamente distinti ma di fatto profondamente intrecciati e interdipendenti. Sul piano della regolazione si apre la problematica del ripensamento della sussidiarietà orizzontale prendendo sul serio il principio di autonomia delle formazioni sociali che esso introduce. Allo stesso tempo questo ripensamento ribadisce la necessità di una cornice normativa entro cui possa svilupparsi una sfera pubblica plurali-
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stica nella quale le autonomie personali e dei corpi intermedi siano effettive, senza dare per scontato che esse siano sempre e comunque capaci di non ripiegare nella difesa di interessi corporativi (Pizzolato 2009). Sul piano della governance urge definire meccanismi di coordinamento che assicurino la partecipazione, la condivisione e la cooperazione degli attori, la rappresentanza degli interessi, l’integrazione e razionalizzazione delle risorse (economiche, relazionali, organizzative, progettuali ecc.) e delle risposte di welfare: una governance partecipata, plurale e diffusa, ovvero, in termini più puntuali, multi-attore (multi-stakeholder) e reticolare, ma anche «ibrida» (Bertin 2009), capace di superare soluzioni basate in modo univoco sulla logica del mercato (incentrata sulla competizione) o della gerarchia (con lo stato al vertice, che delega) e di integrarle insieme alla logica concertativa tipica dei processi partecipativi, in cui il ruolo dello stato resta imprescindibile, ma non esclusivo. È anche dalla capacità di regolare e governare il sistema che passa la possibilità di affrontare la più rilevante delle questioni sul tappeto: quella dell’universalismo. Una questione che, è bene ricordarlo, la trasformazione in atto nel modello di welfare mix pone in evidenza, ma che non è questa trasformazione ad aver generato. La questione di come garantire a tutti i cittadini uguale accesso (per uguali bisogni) ai diritti sociali e alle risposte di welfare accompagna il sistema italiano di welfare sin dalle origini, a causa del suo impianto occupazionale e categoriale. Oggi la questione si pone in modo nuovo, ma nuove appaiono anche le strade con cui può essere affrontata.
Letture di approfondimento Ascoli U., Ranci C. (a cura di) (2003). «Introduzione», in U. Ascoli. C. Ranci, Il welfare mix in Europa, Roma, Carocci. Maino F., Ferrera M. (a cura di) (2015). Secondo rapporto sul secondo welfare in Italia 2015, Torino, Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi. Pavolini E., Ascoli U., Mirabile M.L. (2013). Tempi moderni. Il welfare nelle aziende in Italia, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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37 Le politiche di contrasto alla povertà nella crisi del capitalismo democratico di Enrica Morlicchio
37.1 Un tema periferico? Le politiche di contrasto alla povertà costituiscono un tema periferico nella tradizione della sociologia economica. Vi sono però diverse buone ragioni per trattare diffusamente questo tema. In primo luogo, come vedremo meglio più avanti, la nascita del moderno mercato del lavoro non sarebbe stata possibile senza il concorso dell’azione statale1 diretta a stabilire chi aveva diritto a essere assistito (le vedove con figli in tenera età, le persone male in arnese: poveri da aiutare perché non in grado di lavorare, i cosiddetti «poveri meritevoli») e chi invece doveva procurarsi di che vivere mediante un’occupazione, quali che fossero le condizioni nelle quali essa poteva essere esercitata e remunerata («poveri non meritevoli», sottinteso di assistenza). Una seconda buona ragione per considerare le politiche dirette ai poveri come questione rilevante della sociologia economica è il loro legame con la disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni, fenomeno affine ma diverso, e con la problematica del consumo come forma di riconoscimento sociale. Infine, le politiche di contrasto alla povertà offrono l’occasione per una riflessione sul carattere storicamente determinato di ciò che definiamo «regime riproduttivo», cioè l’insieme delle norme formali e informali e delle connesse istituzioni (come per l’appunto il mercato del lavoro) che regolano i vari aspetti della riproduzione, a partire dalla sopravvivenza. E qui occorre fare subito una specificazione e chiarire che per sopravvivenza non s’intende ciò che è strettamente necessario a mantenersi in vita, soddisfacendo bisogni biologici primari come il mangiare o l’essere al riparo dalle variazioni climatiche di ogni sorta. Nell’idea di ciò che è assolutamente indispensabile alla riproduzione rientra anche la possibilità di partecipare alla vita della comunità e mantenere le basi del rispetto di sé. Già nel Settecento, Adam Smith, in un brano della Ricchezza delle nazioni (1776, trad. it. 1945, pp. 788 ss.) molto citato, aveva richiamato l’attenzione su questo aspetto fondamentale e sul fatto che la dotazione di risorse necessarie alla riproduzione delle persone muta storicamente. Così, dunque, mentre nelle società più arretrate andare in giro scalzi non comprometteva la dignità sociale, essendo una condizione molto diffusa, un operaio della sua epoca doveva presentarsi in pub1
Come opportunamente fanno notare Lavinia Bifulco e Ota de Leonardis (2005), è oggi in atto un superamento dell’automatismo alla base dell’equivalenza tra pubblico e statale, in quanto altri attori non statali hanno acquisito titolo a prendere parte al disegno e all’implementazione delle politiche di contrasto alla povertà.
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blico adeguatamente vestito, scarpe incluse, per non essere oggetto di biasimo e non doversi vergognare in pubblico. Fatta questa premessa, e prima di addentrarci nella trattazione del tema, sarà bene rendere note le scelte che hanno orientato l’impostazione di questo capitolo, necessarie a concentrarsi soltanto su alcuni aspetti all’interno di una letteratura troppo ampia per poter essere richiamata per intero. La prima scelta riguarda l’attenzione riservata all’evoluzione storica dell’intervento diretto ai poveri mediante il riferimento sistematico a epoche precedenti e, in particolare, alla fase di affermazione della società di mercato, allo scopo di problematizzare meglio le categorie con le quali si analizzano le politiche nel presente. Per una più efficace contestualizzazione si è fatto ricorso a una scansione tripartita dei periodi che corrispondono rispettivamente: (a) alla prima affermazione della società industriale; (b) alla società industriale già consolidata e, infine (c) alla società attuale di transizione verso assetti variamente definiti in base alle diverse impostazioni teoriche già richiamate in altri capitoli del manuale (postfordisti, della tarda modernità, di crisi del capitalismo democratico e via dicendo). Il secondo orientamento seguito è stato quello di considerare soprattutto le misure di integrazione del reddito. Le politiche contro la povertà rimandano a un gioco di scatole cinesi: le prestazioni monetarie, di cui il reddito minimo di inserimento francese costituisce l’esempio più noto, sono solo una parte delle misure di assistenza sociale; queste ultime comportano anche la fornitura di servizi in natura come mense scolastiche, trasporti, edilizia popolare (generalmente finanziati attraverso la fiscalità generale). Sarebbe stato impossibile dar conto di tutti questi aspetti con lo stesso dettaglio e ciò ha imposto alcune limitazioni alla nostra analisi. Un’ultima avvertenza riguarda la scelta di non entrare nel merito del dibattito sul reddito di base e del monitoraggio e della valutazione delle politiche di contrasto alla povertà. Si tratta evidentemente di tematiche di grande interesse, diverse sono però come vedremo le questioni con cui si vuole invitare lo studente a confrontarsi nell’ambito di questo manuale.
37.2. Le sfide interpretative 37.2.1 Gli obiettivi delle politiche di contrasto alla povertà Con l’espressione «politiche di contrasto alla povertà» si identifica l’insieme degli interventi rivolti a soccorrere e controllare i poveri, e a prevenire le situazioni di bisogno. Vediamo di analizzare meglio i diversi obiettivi trattandoli separatamente, anche se spesso sono compresenti. 1) Un primo obiettivo è quello della prevenzione, sia in senso economico sia come inclusione sociale, mediante per esempio politiche educative, di incremento dell’occupazione femminile, di fissazione di livelli di salario minimo. In questo caso le misure attuate intervengono ex ante, cioè prima che si creino condizioni di povertà o interrompendo la catena di trasmissione intergenerazionale della povertà (perché poveri si nasce anche, non lo si diventa soltanto).
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2) Vi è poi l’obiettivo della promozione di capacità, incremento del capitale umano e dell’occupabilità con il quale si intende rendere i poveri capaci di uscire autonomamente dalla condizione di bisogno sia accrescendone le competenze sia agendo sul piano delle motivazioni. Si differenzia dall’approccio precedente perché prevede soprattutto percorsi individualizzati, regolati da «contratti» o «patti» tra beneficiario ed ente erogante. 3) Un terzo obiettivo è quello della riparazione del danno conseguente al fatto di essere povero attraverso politiche di sostegno al consumo sotto forma di trasferimenti monetari o pacchi di alimenti, ma anche mediante politiche a bassa soglia come la fornitura di coperte e bevande calde ai senza dimora. In questo caso le misure conseguenti agiscono quando già si è determinata la condizione di povertà. 4) Quarto obiettivo è quello del soccorso compassionevole. Le politiche ispirate da quest’obiettivo hanno un carattere per lo più sporadico e residuale e si pongono al di fuori di un’ottica di prevenzione o riparazione. 5) Infine vi è il disciplinamento e il controllo sociale, obiettivo molto vicino a quello che Frances Fox Piven e Richard A. Cloward (1971) definirono di «regolazione dei poveri» sviluppando il tema in un libro, divenuto un classico della sociologia, nel quale si analizzava il ruolo dei sussidi di povertà negli Stati Uniti in rapporto all’andamento del ciclo economico. In questo caso l’intervento su chi è già povero si combina con un’azione di prevenzione di forme di conflittualità sociale organizzate e di assoggettamento mediante rituali di attesa e di ispezione. Questa tipologia di orientamenti verso i poveri mediati dalle politiche sociali non intende suggerire una successione storica, e tanto meno una scala di desiderabilità, benché i primi tipi siano sicuramente più vicini a principi di giustizia sociale. Essa intende piuttosto mostrare la complessità degli elementi che concorrono a definire le misure di intervento dirette ai poveri. La loro traiettoria, inoltre, non è discontinua, ma presenta un andamento a «onde lunghe» (Paci 1982): fasi di declino di specifici obiettivi e istituzioni in una determinata epoca storica si alternano a fasi in cui si assiste al loro riemergere, senza che ciascun principio scompaia mai del tutto anche quando perde notevolmente rilevanza. Vediamo dunque di rintracciare questi obiettivi nelle trame dell’evoluzione storica delle politiche di contrasto alla povertà con riferimento al loro ruolo di regolazione, partendo dalla forma embrionale rappresentata dall’«economia morale». 37.2.2 Le forme embrionali di tutela dei poveri: l’economia morale L’«economia morale» consiste in un insieme di scambi economici «incapsulato» (nel senso polanyiano di embedded) entro reti sociali informali di solidarietà regolati da norme e obblighi di reciprocità non codificati ma comunemente accettati, la cui violazione può dare origine a conflitti sociali o generare vere e proprie rivolte (si veda anche il Cap. 11). Nel suo saggio sull’Inghilterra settecentesca, lo storico inglese Edward P. Thompson (1971) sottolineò come l’assalto ai forni non era una reazio-
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ne spasmodica alla fame e all’insopportabilità delle condizioni di vita, ma un modo per ristabilire un principio di giustizia sociale implicito – il diritto alla sopravvivenza – che era stato violato da pratiche speculative, come quella di immagazzinare farina per rivenderla a prezzi più alti, che sarebbero poi state ritenute del tutto legittime, e anzi incoraggiate, nel quadro dell’economia di mercato. Perché siamo partiti dall’economia morale per spiegare le politiche di contrasto alla povertà? La risposta è che esse ci consentono di comprendere come non sia la disponibilità di cibo, di risorse in generale, a essere così importante: ciò che conta maggiormente è la possibilità che determinati soggetti e gruppi sociali possano accedervi, possano disporre cioè di un «diritto di comando sulle risorse» stesse, sancito dalle convenzioni, come nel caso dell’economia morale, o dalle leggi dello stato, come è avvenuto con il consolidamento dei moderni sistemi di welfare nell’ambito del capitalismo democratico. 37.2.3 La necessità dell’azione statale Benché implicitamente fondata su un principio di giustizia sociale, l’economia morale era ancora lontana dal costituire un vero e proprio sistema di diritti, doveri e obblighi legali, necessario alla formazione di un moderno mercato del lavoro. Quest’ultima richiede infatti da un lato che siano escluse per legge dal novero delle opportunità di sopravvivenza l’emigrazione, l’accattonaggio, il sabotaggio delle macchine ecc. e dall’altro che siano rigidamente regolamentate le relazioni tra il mercato del lavoro e le diverse sfere di riproduzione sociale (famiglia, comunità, stato). Come hanno notano Claus Offe e Gero Lenhardt in un breve ma fondamentale saggio (1977) la formazione del mercato del lavoro richiede due passaggi storici: una fase di «proletarizzazione passiva» e una fase di «proletarizzazione attiva». La proletarizzazione passiva è il processo di creazione storica di individui «liberi», vale a dire di soggetti affrancati da ogni proprietà, dagli obblighi di natura feudale e dalle protezioni comunitarie e, pertanto, potenzialmente in grado di «mettere in vendita» l’unica cosa in loro possesso al di fuori della prole: la propria capacità lavorativa o forza lavoro. La proletarizzazione attiva è il compimento di questo processo di trasformazione di artigiani orgogliosi del loro mestiere, contadini inurbati un tempo indipendenti – ma anche servi della gleba e domestici spossessati – in lavoratori disposti ad accettare la condizione di salariato come condizione normale della loro esistenza. In questo passaggio cruciale per la storia occidentale hanno giocato un ruolo fondamentale le politiche sociali rivolte ai poveri. Infatti, scrivono Offe e Lenhardt: Se, quando e per quanto un individuo si trovi in una situazione che non gli consente di far parte del mercato del lavoro, se qualcuno è vecchio, malato, giovane, invalido o ha diritto a usufruire di provvedimenti d’istruzione o dell’assistenza sociale, è una decisione che non può essere lasciata ai bisogni individuali né alle possibilità di sussistenza esterne al mercato del lavoro: deve essere regolata autoritariamente in base a fattispecie definite politicamente. Altrimenti si avrebbe a che fare con tendenze imprevedibili dei salariati a sfuggire dalla funzione di operaio salariato verso uno dei sottosistemi di sostegno (1977; trad. it. 1979, p. 27).
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Il passaggio dalla proletarizzazione passiva a quella attiva tuttavia non si compie per tutti. Alcuni soggetti, vuoi per ragioni oggettive (la manifattura nascente non era in grado di assorbire tutti gli artigiani e i contadini impoveriti con la stessa velocità con cui essi si riversavano nelle città), vuoi per ragioni soggettive (obsolescenza delle competenze, scarsa forza fisica, difficoltà ad adattarsi alla rigida disciplina del lavoro alle dipendenze), non furono in grado di integrarsi nel mercato del lavoro e rimasero del tutto ai margini di quello che Marx definì l’esercito operaio attivo. 37.2.4 L’area grigia tra politiche del lavoro e politiche contro la povertà Questo mondo a ridosso della produzione industriale – che ricade in una sorta di «area grigia» a cavallo tra regolazione del lavoro e regolazione dei poveri – ha una complessa stratificazione interna che a metà dell’Ottocento Karl Marx analizzò in dettaglio nel primo libro de Il Capitale e che trovate rappresentata nella Fig. 37.1 (si veda anche il Cap. 3). Per Marx quest’area – che definì esercito industriale di riserva o sovrappopolazione relativa – presenta tre componenti principali: Figura 37.1 La stratificazione interna al mondo della povertà secondo Marx Esercito operaio attivo (Proletariato) Fluttuante «In agguato per acciuffare le circostanze favorevoli» Sovrappopolazione relativa (Esercito industriale di riserva)
Stagnante «Lavoratori con una occupazione irregolare» Latente «Contadino o operaio agricolo» «Persone capaci di lavorare»
Pauperismo (Sedimento più basso della sovrappopolazione relativa)
Sottoproletariato (Lumpenproletariat)
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«Orfani e figli di poveri» «Gente finita male, incarognita, incapace di lavorare» «Vagabondi, delinquenti e prostitute»
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1) una componente «fluttuante» tra la condizione di occupato e di disoccupato dalla quale attingere nei momenti di espansione del ciclo economico; 2) una componente «latente» nelle campagne, costituita da contadini poveri; 3) una componente «stagnante» costituita da lavoratori irregolari e saltuari soggetti a condizioni di sottosalario e sfruttamento. A ridosso dell’«area grigia» della sovrappopolazione relativa Marx individuò la sfera del «pauperismo», anch’essa articolata in tre componenti: 1) «persone capaci di lavorare» che rappresentavano una sorta di «peso morto dell’esercito industriale di riserva»; 2) «orfani e figli di poveri»; 3) «gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare» a seguito di invalidità o malattie contratte sul luogo di lavoro. La sfera del pauperismo era composta da soggetti che non erano in grado di sopravvivere senza il ricorso all’assistenza e che al contempo non erano del tutto estranei al mercato del lavoro, sia in quanto ex operai di fabbrica, minatori, artigiani impoveriti, sia in quanto potenziali lavoratori come appunto i trovatelli e i bambini in generale. In tal senso essi si differenziavano dal «sottoproletariato» propriamente detto (in tedesco Lumpenproletariat, cioè proletariato straccione) composto da «vagabondi, delinquenti e prostitute», cioè dai poveri che per propria scelta o per via delle circostanze sfavorevoli accettavano la loro condizione come inevitabile vivendo alla giornata e sfruttando ogni occasione di aiuto o mezzo per procurarsi illecitamente risorse. Questa distinzione, come vedremo meglio in avanti, sarà decisiva nello sviluppo delle politiche di contrasto alla povertà. Non a caso, mezzo secolo dopo, nell’ambito della sua ricerca sulla povertà a Londra (1902-1903), Charles Booth (2 Box 37.1) si preoccupò di separare la classe, corrispondente al sottoproletariato di Marx, dei «manovali occasionali, piccoli ambulanti, fannulloni, criminali e semi-criminali» che si «barcamenano senza lavorare affatto» (classe A) dallo strato pauperizzato in cui si collocava la classe B dei «falliti della specie industriale», come i facchini che sostavano sulle banchine o nelle stazioni in attesa di ingaggi occasionali, i robivecchi, i raccoglitori di sterco. Al di sopra di queste classi, tralasciando quelle più abbienti, vi erano poi i lavoratori saltuari della classe C e quelli sottoremunerati ma occupati stabilmente della classe D, per esempio lavoratori portuali e semplici manovali di fabbrica. Risalendo ulteriormente la struttura occupazionale Booth individuò la classe dei lavoratori manuali con paghe adeguate (classe E) e i lavoratori qualificati che, ricorrendo come Marx a una metafora militare, definì i «sottoufficiali dell’esercito industriale» tra i quali includeva contabili, guardiani del faro, capisquadra (classe F). La classificazione di Booth, illustrata nel 2 Box 37.2, rispondeva a tre scopi: in primo luogo tracciare una linea divisoria tra le classi povere da un lato (dalla A alla D) e quelle che potevano vivere del proprio salario o grazie alle rendite accumulate dall’altro; in secondo luogo, isolare la sfera del pauperismo in senso stretto da quella dei ladri e vagabondi indirizzando la
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classe B verso «colonie di lavoro» in modo da ridurne la dipendenza dall’assistenza; infine individuare gli strumenti idonei a ridurre l’insicurezza sociale della classe E pur sempre esposta a imprevisti che ne mettevano a repentaglio il salario, come la malattia del capofamiglia o la perdita del lavoro. 37.2.5 La dialettica tra classi laboriose e classi pericolose Abbiamo sin qui visto come in quasi tutti i paesi industriali o avviati sulla via dell’industrializzazione le profonde trasformazioni sociali in atto nell’Ottocento instaurarono una distanza tra gli strati più marginali del mercato del lavoro, le «classi pericolose» – secondo un’espressione classica dell’Ottocento francese – da un lato e le vere «classi laboriose» dall’altro che restavano estranee all’assistenza pubblica, grazie alla possibilità di svincolarsi gradualmente dalla condizione di povertà. È bene specificare che nella società industriale avanzata l’insicurezza sociale2 non era del tutto sparita anche per le classi laboriose e che il «salario familiare», un salario di importo sufficiente a mantenere una famiglia, restava prevalentemente appannaggio dei lavoratori maschi: il salario delle donne conservava un carattere «complementare» anche quando esse erano l’unico o il principale percettore di reddito in famiglia. Infine, come noterà Richard Titmuss, ancora per tutta la prima metà del Novecento «si andò avanti a strappare frammenti di bisogno dalle leggi contro la povertà» (Titmuss 1958, trad. it. 1986, p. 32). Le stesse forme di assistenza sanitaria nazionale erano ispirate da principi moralistici rivolti a educare i poveri alla pulizia, a una condotta di vita morigerata e a un minor spreco di medicinali. Non si cercava di guardare da vicino alle motivazioni principali del comportamento; non ci si chiedeva perché a quell’epoca si consumassero grandi quantità di medicinali; perché un terzo della popolazione anziana di età superiore ai settant’anni vivesse del sussidio di povertà; perché la vita familiare fosse tanto cambiata che le famiglie non accettavano più, si diceva, la responsabilità di badare ai genitori anziani e perché mai si parlasse tanto dell’indebolimento della disponibilità a lavorare (ibidem).
Parole di un’attualità straordinaria, che colpiscono per la luce che gettano sul presente. Anche le forme di sostegno al reddito dei disoccupati durante la grande depressione degli anni Trenta del secolo scorso, pur superando l’odiosa distinzione tra poveri bisognosi da aiutare («poveri meritevoli») e poveri oziosi da punire («poveri non meritevoli») che aveva improntato per oltre un secolo le politiche rivolte ai poveri, di fatto tendevano a scoraggiare il ricorso all’assistenza pubblica rendendo le prestazioni 2
Il concetto d’insicurezza sociale viene qui utilizzato per definire una situazione di incertezza rispetto alle condizioni di riproduzione sociale, ponendo dunque l’accento sulla prima delle tre accezioni individuate da Bauman. Quest’ultimo distingue infatti tra: unsecurity, ovvero precarietà dovuta all’assenza di protezioni sociali; uncertainty, che definisce l’impossibilità di perseguire un progetto e mantenerne i risultati nel tempo; e unsafety, che pone l’accento sulla sensazione di pericolo che deriva dall’esposizione a rischi reali o percepiti come tali: si veda Bauman (1999).
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così infime e stigmatizzanti da renderle «meno preferibili» rispetto a un salario anche se basso (il principio nella sua formulazione originaria, risalente al Poor Law Reform Act inglese del 1834, era detto appunto della minor preferibilità: per approfondimenti si rimanda a Morlicchio 2012). Nonostante i limiti evidenziati, tuttavia, si fece a poco poco strada un intento riparativo nei confronti della povertà e della disoccupazione, non più considerate colpe di soggetti «oziosi» e mal disposti verso il lavoro, ma una conseguenza dei nuovi rischi creati dalla società industriale abbinati al declino delle forme di protezione comunitaria, come l’economia morale e familiare. A tale azione riparativa da parte dello stato si associò poi lo sviluppo di moderni sistemi di sicurezza sociale, in particolare nel periodo compreso fra la fine degli anni Quaranta e la prima metà degli anni Settanta del Novecento, i cosiddetti trenta gloriosi, che agirono anche sul piano della prevenzione della povertà. Restava tuttavia uno «zoccolo duro» rappresentato da coloro che, per una somma di connotazioni individuali (bassi titoli di studio, appartenenza a minoranze svantaggiate) e contestuali (discriminazione istituzionale, residenza in aree depresse), anche nelle situazioni più favorevoli che si erano venute a creare dopo la fine del secondo conflitto mondiale, incontravano difficoltà nel trovare un lavoro, finendo per gravare sui sistemi di assistenza. Riprendendo un’espressione svedese ormai in disuso, Gunnar Myrdal (1963) definì underclass questo segmento più problematico del mercato del lavoro, categoria che conoscerà poi un’ampia diffusione nella letteratura sociologica degli anni Settanta e Ottanta assumendo tuttavia un significato ben lontano da quello originario, fino ad attribuire ai soggetti così classificati sia le connotazioni morali negative ritenute proprie della classe A identificata da Charles Booth sia la dipendenza cronica dai sistemi di welfare che per intanto si erano sviluppati. A partire dallo slittamento semantico del termine underclass il repertorio degli «scrocconi del welfare» si è accresciuto di sempre nuovi soggetti: l’eccentrica e furba welfare queen, cioè una donna, spesso senza dimora, che vive grazie ai sussidi di povertà; l’irresponsabile single mother, in molti casi afro-americana o appartenente a comunità immigrate, destinataria di programmi specifici di assistenza soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti; l’«ozioso» (idle) disoccupato (Romano 2017); le «famiglie nelle quali nessuno lavora da tre generazioni». Si tratta a ben guardare per lo più di rappresentazioni stereotipate, utili per giustificare tagli alle prestazioni in denaro e in natura dirette ai poveri, ma prive di una solida base empirica volta a provarne l’esistenza e la diffusione.
37.3. Tre esempi di ricerche Riguardo alla dipendenza cronicizzata dall’assistenza la prima ampia ricerca longitudinale comparata sull’assistenza economica in Europa, coordinata da Chiara Saraceno (2002) nell’ambito del progetto europeo denominato ESOPO3 ha mostrato 3
La ricerca includeva le città di Göteborg e Helsingborg in Svezia; Brema e Halle in Germania; Milano, Torino e Cosenza in Italia; Barcellona e Vitoria, in Spagna; Lisbona e Porto in Portogallo; Rennes e Saint-Étienne in Francia.
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l’esistenza di una correlazione assai debole fra durata dei sussidi economici e difficoltà di uscire dall’assistenza. Come sottolinea proprio Chiara Saraceno nelle conclusioni: Studi precedenti, più circoscritti dal punto di vista dei paesi e metodologicamente più sofisticati, avevano già segnalato la mancanza di prove empiriche dell’assioma secondo il quale l’assistenza crea dipendenza. Il nostro studio conferma e qualifica questi risultati per un campione più ampio, e comparativo, di situazioni (2002, trad. it. 2004, p. 216).
Gli autori della ricerca evidenziano anche che le ragioni che portano i poveri a prolungare la loro permanenza nei programmi di assistenza possono essere molto diverse a seconda dei contesti locali, del tipo di prestazione e delle condizioni di partenza dei beneficiari. Nei contesti più ricchi, come la cittadina svedese di Göteborg, sono le caratteristiche personali (una salute malferma, una qualifica professionale bassa, elevati carichi familiari, una scarsa conoscenza della lingua) a ridurre le possibilità di uscita dai programmi, mentre in contesti più poveri, come Cosenza o Lisbona, trasferimenti economici di scarsa entità, corrisposti solo a persone molto povere, si rilevano per tali ragioni poco risolutivi. Va poi tenuto presente che possono esservi buoni motivi per non rinunciare a un aiuto economico quando il suo conseguimento ha richiesto una lunga e umiliante istruttoria e non si ha nessuna certezza di poterlo ottenere di nuovo. Questo «tempo morto», ma ricco di eventi, rappresentato dall’attesa del sussidio è stato oggetto di una ricerca di tipo etnografico condotta recentemente dal ricercatore argentino Javier Auyero (2012). La ricerca si è basata su dati secondari e primari, quest’ultimi derivanti da una prolungata osservazione sul campo e da interviste strutturate e non strutturate a testimoni privilegiati (quali funzionari statali, vigilanti) e a soggetti in fila presso il Registro National de las Personas, il principale sportello di welfare di Buenos Aires. Le interviste erano rivolte a rilevare tra l’altro il tipo di prestazioni che potevano essere richieste, le procedure di ottenimento, i canali di accesso alle informazioni, i problemi abitativi e occupazionali dei richiedenti. La ricerca documenta in dettaglio l’arbitrarietà e l’incertezza dell’attesa e come quest’ultima rappresenti «un esercizio di potere» (ivi, p. 19) più o meno consapevole dello stato nei confronti dei poveri, in quanto alimenta una condizione di sottomissione e accresce l’insicurezza rispetto al proprio futuro. Già a suo tempo Cloward e Piven ebbero modo di notare del resto che come «gli operai fanno l’esperienza della fabbrica, del ritmo accelerato della catena di montaggio, del caposquadra […; il povero fa] l’esperienza dello squallore delle sale d’aspetto, dell’ispettore o dell’impiegato che si occupa del suo caso» (1977, trad. it. 1980, p. 41). Infine, allo scopo di illustrare diverse tecniche d’indagine, si può citare lo studio di caso basato soprattutto su storie familiari raccolte a Glasgow, città scozzese colpita dalla deindustrializzazione già negli anni Sessanta, e a Middlesbrough, una delle città più povere dell’Inghilterra a seguito del collasso dell’industria locale avvenuto negli anni Ottanta (Macdonald, Shildrick e Furlong 2013; Shildrick et al. 2012).
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L’idea iniziale dei ricercatori era di studiare complessivamente 40 famiglie nelle quali per tre generazioni i membri adulti non avevano mai lavorato, poiché questa categoria era continuamente utilizzata nel discorso pubblico come esempio di ricorso ingiustificato ai programmi di aiuto ai poveri. Ben presto tuttavia i ricercatori si sono accorti che l’individualizzazione di questo target equivaleva a «dare la caccia allo Yeti», come recita ironicamente il titolo del loro saggio, in quanto l’oggetto della ricerca semplicemente non esisteva o era limitato a pochissimi casi (era, quindi, uno pseudo-fatto: si veda il Cap. 12). La loro ricerca si è focalizzata allora sulle sole famiglie nelle quali tutti gli adulti della generazione di mezzo (genitori di circa 40 anni e poco più) non avevano mai lavorato. Tra gli aspetti messi in evidenza dalla ricerca vi è l’assenza di una trasmissione intergenerazionale della povertà mediante un sistema di valori e di atteggiamenti negativi nei confronti del lavoro come ipotizzato dalla cultura della povertà (Lewis 1970): tutti gli intervistati al contrario esprimono un disagio per il fatto di dipendere dal sistema pubblico di welfare e si dichiarano preoccupati che i figli possano in futuro essere obbligati a fare altrettanto (Macdonald, Shildrick e Furlong 2013). Ciò non toglie che la permanenza prolungata in una condizione di disoccupazione e di povertà e la difficoltà nel sottrarsi agli aspetti segreganti del quartiere in cui si vive determini o aggravi problemi di salute, dipendenza dall’alcol, precarietà abitativa, deprofessionalizzazione, che a loro volta riducono ulteriormente le possibilità di trovare un lavoro, anche nell’economia sommersa, contribuendo in questo modo a cronicizzare la dipendenza dal welfare. Ma, scrivono gli autori: «Per essere chiari […] la nostra è una “narrativa di deprivazione”, non una “narrativa di dipendenza dal welfare”» (ivi, p. 216). E aggiungono: «Quando i politici e altri sostengono ad nauseam che vi sono “tre (o quattro) generazioni familiari nelle quali nessuno ha mai lavorato” la sensazione è quella di avere a che fare con un’argomentazione zombie» (ivi, p. 217), cioè basata su fatti inesistenti.
37.4 Le problematiche emergenti: l’immunizzazione Nelle pagine precedenti abbiamo affrontato due problemi significativi dello sviluppo delle politiche verso i poveri: in primo luogo il trattamento da riservare a chi è in grado di lavorare e di conseguenza deve dimostrare una disponibilità ad attivarsi nella ricerca del lavoro rispetto a chi cronicizza la sua dipendenza dall’assistenza o finisce nell’area della devianza. Abbiamo anche visto come l’affermazione del mercato del lavoro nell’Ottocento, per quanto sconvolgente per gli assetti sociali dei paesi interessati e per l’esperienza culturale e psicologica vissuta dai protagonisti, aveva comunque condotto verso un modello per molti aspetti chiaro e univoco: quello rappresentato dalla società industriale, con una crescente quota di occupazione alle dipendenze della grande fabbrica e il consolidamento di una classe operaia protetta (si veda il Cap. 32). Non altrettanto si può dire per quel che succede oggi: la stabilità occupazionale è sempre meno garantita (non solo per quel che attiene al settore privato) e il ritorno a una situazione di precarietà diffusa e mancanza di protezione sociale – secondo tendenze generali che si realizzano a livello internazionale – carat-
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terizza sempre più il mercato del lavoro. È in questo stesso quadro che hanno avuto luogo fenomeni di informalizzazione dell’economia e l’articolarsi di modelli occupazionali diversi e sempre meno standardizzati. Coerentemente è emerso un altro fenomeno: l’estensione senza precedenti, dopo la crisi degli anni Trenta, della disoccupazione come rischio ricorrente o come condizione cronica, che riguarda in misura crescente anche maschi adulti con carichi familiari. Ciò ricorda da vicino la diffusa incertezza nella quale vivevano molte famiglie in seguito alle profonde trasformazioni nei regimi di riproduzione sociale avvenuti agli albori dell’affermazione della società industriale. Ma possiamo dire che, lasciataci alle spalle la fase di demercificazione, stiamo imboccando ora quella della rimercificazione, secondo una successione già sperimentata, in condizioni storiche diverse, con il passaggio dalla società tradizionale a quella salariata? Le analogie tra le due fasi di transizione sono molte e anche suggestive. Ma ci sono anche aspetti nuovi che si comprendono meglio proprio guardando ai cambiamenti che hanno riguardato gli orientamenti alla base delle politiche di contrasto alla povertà. Tra gli aspetti che rimandano al passato vi è senza dubbio l’emergere di orientamenti punitivi e colpevolizzanti, che si manifestano nella tendenza a reprimere con forza la criminalità di sussistenza (piccoli furti nei supermercati o nei frutteti, occupazione abusiva di edifici abbandonati) o a compiere forme di vessazione dei poveri negli spazi pubblici. Una variante di questo tipo di atteggiamento verso i poveri è quella che porta ad attribuire loro lo status di deviante, con il carcere come probabile orizzonte, sulla base di una condizione (per esempio, mancanza di un lavoro che li spinge all’accattonaggio) o di un’identità (rom, immigrato) e non dell’accertamento di un reato. In tale circostanza, scrive il giurista Luigi Ferrajoli, ha luogo una violazione del «principio di legalità in forza del quale si può essere puniti solo per “ciò che si è fatto” e non per “ciò che si è”, per aver commesso un reato e non per la propria identità personale» (2009, p. 14). Questa forma di soggettivazione del diritto penale ha prodotto il fenomeno dell’«ipercarcerazione dei poveri», particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove nelle carceri si registra una presenza di giovani maschi, per lo più afro-americani, di molto superiore alla loro incidenza nella popolazione (Wacquant 2006). L’orientamento punitivo non è il solo a caratterizzare questi decenni. Accanto a esso si è fatto strada un tipo nuovo di orientamento compassionevole incarnato negli approcci neofilantropici e neopaternalistici, come l’«economia del dono», che inducono una sorta di infantilizzazione del povero, visto come una persona fragile da proteggere e del tutto priva di risorse personali. Essi nel complesso presentano tre caratteristiche: a) Le scelte di giustizia vengono giustificate con il vocabolario dell’impegno morale e della coscienza personale, non con quello della giustizia sociale; b) le relazioni di servizio si configurano come relazioni tra persone, da cui sono espunti l’asimmetria di potere e l’onere della sua giustificazione pubblica; c) le prestazioni erogate vengono trattate […] come doni, non come diritti (Bifulco e de Leonardis 2005, p. 209)
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Un approccio opposto è quello dell’investimento sociale, che pone un’enfasi sul rafforzamento della capacità e delle competenze dei poveri per promuovere percorsi autonomi di vita e sulla necessità/obbligo di «attivarsi» sul mercato del lavoro, nelle sue diverse formulazioni che vanno da quella più restrittiva del workfare che subordina la prestazione monetaria all’accettazione del lavoro offerto4 a quella più attenuata del welfare to work che prevede maggiori margini di autonomia nella scelta dei percorsi di inserimento professionale e sociale da intraprendere. Gli approcci che abbiamo appena richiamato echeggiano sentimenti collettivi molto diversi, dal risentimento nei confronti di categorie sociali considerate immeritevoli e indisciplinate, al senso di colpa verso chi è stato più sfortunato, alla preoccupazione per un indebolimento dell’etica del lavoro. Ma essi s’inseriscono nel quadro di un sistema di obblighi e dipendenze reciproche che suscitano a loro volta nei poveri sentimenti diversi, talvolta contrastanti, di vergogna, riconoscenza o ribellione, ma non di estraneità nei confronti di una collettività della quale si sentono a vario titolo parte, anche se occupano una posizione marginale. Ciò che c’è di realmente nuovo – la «problematica emergente» per richiamare il titolo di questa sezione – è un orientamento di immunizzazione, che rimanda a processi che Saskia Sassen (2014) definisce senza mezzi termini di «espulsione» dallo spazio vitale e dall’accesso ai mezzi di sussistenza. Gli esempi sono molteplici: sistemi di cancelli e fili spinati a difesa dei confini tra gli stati; «comunità recintate» (gated community), cioè complessi residenziali a ingresso limitato protetti da sistemi di sorveglianza; relegazione nei campi profughi e nei centri di raccolta dei richiedenti asilo nelle loro diverse configurazioni. Come scrive Ota de Leonardis: Tra i fortini del privilegio e gli altrove abitati da popolazioni deprivate la distanza sociale non è soltanto incolmabile (vedi la polarizzazione delle disuguaglianze) ma è soprattutto incommensurabile […] la distanza diventa un vuoto nel quale scompaiono i legami sociali, i legami di determinazione reciproca tra “noi e loro”, la possibilità stessa di riconoscersi e nominarsi, e di qualificare la contrapposizione tra noi e loro. L’alterità così costruita è fatta piuttosto di assenza, assenza di nomi; designa una situazione di “non identificazione”, di “riconoscimento negato” (de Leonardis 2013, p. 366).
Premettendo che ciò che viene messo in scena è «l’ordine della repulsione, più che dell’esclusione» (ivi, p. 363), un esito possibile di questi processi è la scissione unilaterale del contratto sociale sul quale si fonda lo statuto sociale del povero. Questi infatti, secondo la lezione di Georg Simmel, è riconosciuto come tale nel momento in cui la società si fa carico del suo mantenimento mediante i sistemi di assistenza sociale (1906; si veda anche Paugam 2005). Si pone dunque non solo un problema di redistribuzione più equa di risorse, ma anche di «riconoscimento». Nella congiuntura attuale è in gioco anche il diritto di «voce» nel senso che Hirschman dà alla pos4
Come nota Vando Borghi «nella versione “workfarista” il concetto di attivazione subisce una torsione in senso punitivo e disciplinare» (2005, p. 49, n. 11). Lo dimostra anche una ricerca comparativa molto dibattuta il cui successo è legato anche all’efficace titolo ripreso dal film Il Padrino: An Offer You Can’t Refuse. Workforce in International Perspective (LØdemel e Trickey 2001).
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sibilità di mobilitarsi, protestare, farsi sentire (Barbera e Negri 2016). E anche se, come osserva ironicamente Ruth Lister, «Proud to be poor non è esattamente lo striscione dietro al quale molti probabilmente marcerebbero» (2004, p. 152), è tuttavia necessario trovare nuove e più efficaci forme di rappresentanza per dare voce ai «non rappresentati e non rappresentabili» (Beccalli, Mingione e Pugliese 2015) affinché essi possano far valere i loro diritti nel quadro di sistemi politici democratici nei quali nessuno – ricchi e poveri – possa sentirsi liberato dai legami di appartenenza alla società.
Letture di approfondimento Bolzoni M., Granaglia E. (2016). Il reddito di base, Roma, Ediesse. Madama I. (2010). Le politiche di assistenza sociale, Bologna, il Mulino. Morlicchio E. (2012). Sociologia della povertà, Bologna, il Mulino, parte prima. Saraceno C., Negri N. (1996). Le politiche contro la povertà in Italia, Bologna, il Mulino. Toso S. (2016). Reddito di cittadinanza o reddito minimo, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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F. Forme della rappresentanza
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38 La rappresentanza del lavoro di Roberto Pedersini
38.1 Lavoro e rappresentanza Porsi il problema della rappresentanza del lavoro significa accogliere una visione che privilegia la dimensione collettiva nel mercato del lavoro – una posizione non scontata e che appare oggi sfidata da individualismo e individualizzazione. Rappresentare il lavoro vuol dire cercare gli elementi che accomunano una pluralità di individui impegnati nel sistema produttivo: una particolare posizione nei processi di creazione del valore, specifiche competenze professionali, alcune caratteristiche personali, solo per citare qualche esempio. La rappresentanza può essere più o meno ampia, inclusiva o esclusiva, universalistica o particolaristica. Il lavoro non sfugge a questi dilemmi, che anzi costituiscono costanti fattori di tensione e di trasformazione della struttura della rappresentanza. Il riconoscimento di caratteri che rendono l’esperienza del lavoro simile per molti consente di creare un’identità collettiva intorno alla quale si aggregano domande di riconoscimento e interessi da tutelare. La costruzione della rappresentanza è un processo sociale complesso che include elementi materiali, simbolici e cognitivi e che risponde a diverse domande: chi si rappresenta? Come si rappresenta? Per cosa si rappresenta? Queste tre domande identificano l’elemento oggettivo della rappresentanza (il criterio, la caratteristica che accomuna i rappresentati), l’aspetto processuale (gli strumenti della rappresentanza) e il fine concreto che si persegue (la ragion d’essere della rappresentanza). È utile sottolineare, inoltre, che il processo di rappresentanza passa attraverso la creazione di un soggetto collettivo – una corporazione, una gilda, un sindacato – che diventa l’espressione autentica, riconoscibile e a volte riconosciuta, di chi si vuole rappresentare (Cella 2014, pp. 59-90). Questa personificazione della rappresentanza crea una separazione fra rappresentanti e rappresentati, che può essere fonte di tensioni e di crisi di legittimazione. Il problema di mantenere un contatto effettivo con la base è particolarmente forte nel caso del lavoro, poiché rappresentanza e regolazione collettiva si collocano nella quotidianità dei rappresentati e influenzano aspetti fondamentali della loro vita quali il salario, le condizioni di lavoro, le possibilità di conciliare lavoro e vita personale, le prospettive di carriera, la salute e la sicurezza. L’importanza di questi elementi rende lavoratori e lavoratrici particolarmente sensibili alle soluzioni che vengono trovate, il che rafforza l’accountability dei rappresentanti. Prima di iniziare un breve percorso di analisi della rappresentanza del lavoro, è opportuno delimitare la portata di queste note. In questo capitolo si affronterà il tema della rappresentanza del lavoro nelle economie avanzate del capitalismo occidentale.
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In tale contesto, le organizzazioni sindacali sono la forma che la rappresentanza del lavoro assume storicamente, attraverso un processo di costruzione dal basso, fondato sulla mobilitazione di soggetti che, come si è detto, si riconoscono per caratteristiche, interessi e obiettivi comuni. È questo il fenomeno che qui ci interessa, anche se bisogna ricordare gli esempi di organizzazioni nominalmente designate come sindacati o assimilate a essi, ma prodotte da decisioni politiche introdotte dall’alto. Questo avviene tipicamente nei regimi autoritari (e totalitari) di destra e di sinistra, dove, sebbene le libertà politiche e sindacali siano soppresse, spesso vi sono sindacati che affiancano il partito unico o dominante in una posizione subalterna, con compiti di mobilitazione nei luoghi di lavoro, se non di controllo sociale e di addomesticamento del conflitto. Per ragioni di spazio e di omogeneità dell’argomentazione, questi fenomeni non saranno qui trattati.
38.2 Oltre l’individualismo L’analisi economica ha efficacemente sottolineato la problematicità della rappresentanza del lavoro (Olson 1965). Il fatto che l’azione sindacale produca benefici per lavoratori e lavoratrici non implica necessariamente che i singoli lavoratori e le singole lavoratrici abbiano un incentivo a contribuire a tale azione collettiva. Se i benefici sono liberamente disponibili per tutti, indipendentemente dal contributo individuale, opportunismo e free riding diventano razionali. L’azione sindacale e il sindacato stesso cadono vittima dei problemi che affliggono la produzione di beni pubblici: nessuno sarà disponibile ad accollarsi costi privati a fronte di benefici collettivi. Tutti aspetteranno che altri sostengano tali costi per potere raccogliere i benefici senza sforzi. Il sindacato non avrà iscritti e gli scioperi non avranno adesioni. Se la teoria tocca un punto importante, è altrettanto chiaro che l’evidenza empirica mostra il contrario: milioni di persone si sono iscritte e impegnate nel sindacato lungo tutta la storia del movimento sindacale e ancora lo fanno, affrontando costi personali importanti, a volte a rischio e tragicamente anche a costo della propria vita. La consapevolezza di essere un’associazione che rischia di essere vittima dell’opportunismo perché produce beni collettivi, ma ha bisogno di sostegno e partecipazione non è assente nel movimento sindacale. Non a caso fin dall’inizio della storia del sindacato alcune delle prerogative sindacali più importanti affrontano e risolvono questo problema – oltre a rafforzare il controllo dell’offerta di lavoro. Le clausole di closed shop e union shop rispettivamente obbligano le imprese ad assumere solo iscritti al sindacato e impongono l’iscrizione ai nuovi assunti, alla fine del periodo di prova. In molti paesi, tali clausole sono state nel tempo giudicate incompatibili con la libertà di (non) iscriversi al sindacato. Tuttavia, rimangono un riferimento importante per l’analisi di questo problema. La soluzione proposta dall’analisi economica è garantire benefici selettivi, che siano disponibili solo agli iscritti: servizi di welfare, collocamento, assistenza legale nelle vertenze individuali, formazione, consulenze. In questo modo, i costi individuali sono bilanciati dai vantaggi individuali, recuperando gli incentivi all’adesione e
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alla partecipazione (si veda il Cap. 8). Questo tipo di intervento è una costante dell’offerta sindacale ai propri iscritti, che cambia nel tempo, adattandosi alle caratteristiche del contesto in cui opera e alle domande ed esigenze che i propri iscritti possono manifestare. Per esempio, l’offerta di servizi di welfare attraverso il sindacato diventa meno importante con lo sviluppo del welfare state dopo la seconda guerra mondiale e riacquista rilevanza con la riduzione della spesa sociale a partire dagli anni Novanta del secolo scorso (si vedano i Capp. 35 e 36). I programmi di formazione e il sostegno al collocamento possono essere importanti in presenza di riorganizzazioni industriali e di instabilità del rapporto di lavoro o di rapida obsolescenza delle competenze professionali. La forza delle sanzioni per i free rider è un altro elemento che può scoraggiare l’opportunismo. Mancur Olson (1965) ritiene che i piccoli gruppi siano meglio in grado di affrontare l’opportunismo perché il monitoraggio e la sanzione sociale sono più efficaci. L’analisi sociologica, però, segnala che le sanzioni interne possono essere altrettanto forti e importanti: se l’identità individuale è costruita intorno a un’appartenenza collettiva, la razionalità assiologica (rispetto al valore, nella tipologia weberiana: si veda il Cap. 1) può essere altrettanto forte di quella strumentale e spingere verso l’azione collettiva. Ma forse si può dire di più: non bisogna ritenere che la partecipazione sia sempre un costo. In certi frangenti, contribuire a una causa, spendersi personalmente, confermare la propria identità e la propria appartenenza attraverso l’azione collettiva producono benefici e gratificazione, trovando un incentivo in sé. E questa dimensione valoriale e identitaria è probabilmente decisiva nell’esperienza sindacale, come in altri campi dell’azione politica e sociale (si veda il Cap. 2). Ovviamente, contano anche il riconoscimento e il sostegno istituzionale: la legittimazione politica, il coinvolgimento nella concertazione sociale, la partecipazione all’applicazione delle politiche del lavoro, la delega di funzioni di sicurezza sociale (come nel caso dell’amministrazione dei sussidi di disoccupazione nel cosiddetto sistema di Gent presente in Belgio, Danimarca, Finlandia e Svezia), la creazione di strutture sindacali nei luoghi di lavoro e l’introduzione di prerogative sindacali possono promuovere la sindacalizzazione. Ciò avviene sia perché aumentano i benefici che possono essere ottenuti attraverso le organizzazioni del lavoro, sia perché si rafforzano gli aspetti simbolici e identitari dell’appartenenza sindacale.
38.3 Come si misura la rappresentanza? La valutazione di un fenomeno sociale è spesso problematica. Nel caso della rappresentanza del lavoro e del sindacato, esistono due indicatori quantitativi molto semplici e fondamentali: il numero di iscritti espresso in termini assoluti e in proporzione dei lavoratori dipendenti, ossia il tasso di sindacalizzazione (2 Box 38.1). Questi due modi di guardare agli iscritti sono entrambi importanti. Il primo dà una misura delle risorse di cui dispone l’organizzazione sindacale per la propria azione: quote di iscrizione e persone mobilitabili nelle vertenze. Il secondo misura la forza della rappresentanza (la rappresentatività) e l’efficacia del sindacato nel risolvere il problema
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del free riding. Quest’ultima misura non riesce a dirci tutto sul sindacato, per quanto riguarda le forme che assume, gli spazi decisionali che occupa, i risultati che ottiene. Tuttavia, è un indicatore sintetico, emblematico dello stato delle organizzazioni sindacali e della loro capacità di operare in modo incisivo. Per questo motivo, il tasso di sindacalizzazione è utilizzato sistematicamente per identificare le tendenze della rappresentanza e per i confronti internazionali. La Fig. 38.1 mostra l’andamento del tasso di sindacalizzazione in alcuni paesi europei, negli Stati Uniti e in Giappone dal 1960 al 2013. Il dato che emerge con più evidenza da una prima analisi è la dispersione dei livelli, e il salto fra la Svezia e gli altri paesi. Alla fine del periodo di osservazione, vi è una distanza di circa 30 punti percentuali fra la Svezia e l’Italia, ma anche fra quest’ultima e la Francia. La maggior parte dei paesi si colloca quindi nella fascia medio-bassa. È chiaro che questo dipende dalla selezione dei paesi. Tuttavia, anche se si considerano tutti i paesi dell’Unione Europea, un’area dove la rappresentanza sindacale è forte e consolidata, la situazione non cambia. Danimarca e Finlandia si posizionano vicino alla Svezia, mentre sopra l’Italia troviamo solo Belgio e Norvegia, con un tasso di sindacalizzazione di oltre il 50 per cento. Tutti gli altri paesi si collocano nell’area già più affollata. Questo dato indica la presenza di differenze sostanziali fra i sistemi nazionali di rappresentanza del lavoro. Non possiamo qui approfondire la questione, ma in generale tali differenze rimandano ai fattori che consentono di superare il problema dell’azione collettiva per la produzione di benefici collettivi: sostegno istituzionale, legittimazione e ricoFigura 38.1 Tasso di sindacalizzazione in alcuni paesi (1960-2013) Francia Svezia
100
Germania Regno Unito
Italia Stati Uniti
Giappone
90 80 70 60 50 40 30 20
0
1960 1962 1964 1966 1968 1970 1972 1974 1976 1978 1980 1982 1984 1986 1988 1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006 2008 2010 2012
10
Fonte: ICTWSS database. Per gli Stati Uniti: Bureau of Labour Statistics per il periodo 1983-2013; i dati per gli anni 1981-82 sono mancanti e sono stati interpolati per produrre il grafico.
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noscimento diffusi del ruolo sociale svolto dalla rappresentanza sindacale e datoriale, forza delle identità collettive del lavoro. Il secondo elemento evidenziato dal grafico è la riduzione progressiva del tasso di sindacalizzazione, più o meno veloce nei diversi contesti nazionali. In alcuni paesi, la discesa inizia dopo una fase di crescita, anche rilevante, soprattutto in Italia, ma anche nel Regno Unito e in Svezia. In altri, il declino appare costante fin dagli anni Sessanta, come negli Stati Uniti. In Svezia, la diminuzione comincia negli anni Novanta, mentre negli altri paesi era già in atto alla fine degli anni Settanta. Si tratta di un segnale evidente di difficoltà, che ha sollecitato una serie di domande sulle prospettive del sindacato e sulle possibili risposte per rinnovare e rivitalizzare la rappresentanza del lavoro. A questo tema è dedicata la sezione finale del capitolo. Detto questo, bisogna ricordare che il sindacato – insieme alle chiese – rimane la più grande associazione della società civile. Nella sola Europa, la Confederazione Europea dei Sindacati (CES, ETUC nell’acronimo inglese) rappresenta circa 45 milioni di iscritti a 89 organizzazioni sindacali in 39 paesi europei (si veda il Cap. 40).
38.4 Un punto di partenza: il lavoro rappresentato Per cercare di capire la rappresentanza, conviene partire dal lavoro, così come si esprime nel processo produttivo. È questo il luogo dove trova radicamento l’identità collettiva che poi si costituisce in una forma organizzata. È qui che si aggregano gli elementi che consentono di passare dalle individualità disconnesse di lavoratori e lavoratrici alla declinazione di un «noi», che sia depositario di bisogni e interessi specifici, alla ricerca di un riconoscimento. La consapevolezza di una comune appartenenza non si traduce subito e necessariamente in un’azione di tipo rivendicativo, ma può trovare nella solidarietà e nella reciprocità la sua prima manifestazione, come nel caso delle società operaie di mutuo soccorso, fondate nell’Ottocento. Tuttavia, la rappresentanza del lavoro si esprime compiutamente nel movimento sindacale, che nasce nella stessa congiuntura storica e si caratterizza per la richiesta forte di un riconoscimento esterno. Una volta consolidata un’identità collettiva, riconosciuti interessi distintivi, identificate richieste specifiche attinenti alla posizione nel sistema produttivo, l’azione si rivolge a una controparte per ottenere miglioramenti salariali e delle condizioni di lavoro. La mobilitazione si indirizza prioritariamente verso i datori di lavoro, ma sollecita anche le autorità pubbliche, in una combinazione di rivendicazioni economiche e obiettivi sociali che, con accenti diversi, qualifica in modo particolare l’esperienza sindacale dalle sue origini fino ai giorni nostri. La costruzione della soggettività collettiva è radicata nella realtà produttiva e da questa è influenzata. Anche in questa embeddedness (si vedano i Capp. 6 e 9) troviamo l’origine della particolare forza del legame che unisce rappresentati e rappresentanti e una fonte di potenziale instabilità, se e quando chi rappresenta non fa i conti con i cambiamenti avvenuti in ciò che dovrebbe rappresentare, ossia il lavoro, così come si manifesta e si esprime nei processi di produzione. Ma qual è la base del rico-
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noscimento di un’appartenenza comune? Non esiste un’unica risposta: dipende dalle forme del lavoro, dai modelli organizzativi, dai livelli di qualificazione professionale, per citare solo alcuni possibili riferimenti. Se il mestiere e la professione sono il criterio di aggregazione delle corporazioni di arti e mestieri e rimangono rilevanti nelle organizzazioni della cosiddetta «aristocrazia operaia» del primo periodo industriale, gli operai comuni, dequalificati, «proletari», privi di qualsiasi potere contrattuale nei confronti dei datori di lavoro possono trovare quasi solo nella subordinazione un fattore che li accomuni. È l’assenza di controllo rispetto alla propria condizione economica l’appiglio che consente di immaginare l’azione collettiva come una possibile risposta. Il lavoro salariato è così l’elemento essenziale della nuova organizzazione industriale che alimenta l’esperienza sindacale. A questo si aggiunga la presenza nella fabbrica di una pluralità, a volte una moltitudine, di persone, che condividono tale condizione e costruiscono fra loro relazioni, un «capitale sociale» (si veda il Cap. 7) che può diventare utile per la mobilitazione e l’azione collettiva. Infine, l’ideologia, le visioni del mondo contribuiscono a dare senso alla propria condizione, possono fornire chiavi di lettura, indicazioni, obiettivi e legittimazione per l’azione collettiva. Il socialismo, nelle sue varie declinazioni ottocentesche, così come la dottrina sociale della chiesa, scaturita dalla lettera enciclica di Leone XIII Rerum Novarum del 1891, senza trascurare l’anarchismo, forniscono un collante decisivo per l’ascesa del movimento sindacale (Baglioni 2014). Radicamento nelle forme e nei luoghi di lavoro e ideologia costituiscono due aspetti fondamentali della rappresentanza (Cella 2014): il rispecchiamento del lavoro «così com’è» e l’interpretazione di cosa sia e cosa implichi il lavoro, la dimensione oggettiva e quella soggettiva. Questi due elementi diventano particolarmente evidenti quando si consideri che la rappresentanza del lavoro si realizza attraverso un soggetto collettivo, il sindacato. L’organizzazione sindacale è il luogo dove si costruisce l’interpretazione della natura e degli interessi del lavoro, che diventa quella «vera», in quanto presente su una scena pubblica. Tuttavia, se tale interpretazione si discosta troppo da quello che il lavoro è, vi è un forte rischio di perdita di legittimazione e iscritti. Bisogna quindi attendersi una tensione fra lavoro e rappresentanza, fra rappresentati e rappresentanti, che continuamente sollecita risposte e adattamento. Nel lungo periodo, se cambia il lavoro, con ogni probabilità cambieranno anche le forme della rappresentanza e forse muteranno anche gli strumenti attraverso i quali essa si esercita. Questa intuizione è presente fin dall’inizio della storia degli studi sul movimento sindacale. Beatrice e Sidney Webb nella loro analisi del movimento sindacale inglese di fine Ottocento identificano nel sindacato di mestiere (craft union) la modalità tipica di organizzazione dei gruppi di lavoratori con una professionalità specifica e centrale nel processo produttivo, capaci di controllare direttamente lavoro e organizzazione in modo autonomo e unilaterale. Con un forte monopolio dell’offerta di lavoro, grazie alla gestione diretta dei percorsi di apprendistato, questi sindacati possono negoziare con i datori di lavoro le tariffe, il salario, ma rimangono sostanzialmente autonomi per gli altri aspetti del rapporto di lavoro, tanto che i Webb per loro parlano di «regolazione unilaterale», indicando con questo la presenza di un forte potere di
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mercato. Si tratta di organizzazioni esclusive, tipicamente maschili, che proteggono la propria professionalità nei confronti dei lavoratori comuni e che non mostrano solidarietà di classe. L’affermazione del modello di organizzazione tayloristica della produzione, che riduce la rilevanza delle professionalità operaie ed elimina i presupposti della regolazione unilaterale, crea le condizioni per il prevalere di una rappresentanza generale del lavoro. L’identità di classe di una manodopera relativamente indifferenziata, debole contrattualmente e con una qualificazione medio-bassa può trovare nel sindacato la sua espressione e la sua voce. Una trasformazione delle forme organizzative che è stata interpretata anche nel senso di scardinare le forme di controllo operaio e rafforzare le prerogative manageriali diventa, così, la base dello sviluppo del movimento sindacale. Il sindacato si afferma come uno dei protagonisti delle trasformazioni sociali del Novecento, contribuendo in maniera determinante al consolidamento della cittadinanza sociale e del lavoro. In questa fase, la subordinazione nel rapporto di lavoro è il nesso fondamentale che lega lavoratori e lavoratrici; essa costituisce il riferimento del sindacalismo inclusivo e confederale, che si propone di rappresentare tutto il lavoro. Rimane in ogni caso la forza coesiva dei luoghi di lavoro e delle residue specificità produttive, che si manifesta nella prevalenza del modello di organizzazione settoriale. Il sindacato industriale, organizzato nei diversi comparti, risponde anche a quanto avviene nel campo dell’associazionismo datoriale. Non bisogna dimenticare, infatti, che la rappresentanza del lavoro si esercita rispetto a una controparte. In questo è molto diversa dalla rappresentanza politica dei sistemi democratici, che si esprime in un luogo, come i parlamenti, e in un processo relativamente autonomo, come quello legislativo, e trova compiutamente la sua legittimazione e definizione nel sistema costituzionale della forma di stato e di governo. Se pure l’esperienza sindacale dipende in modo fondamentale dalla presenza, tutela e promozione dei diritti di associazione, delle libertà sindacali, del diritto di sciopero, della contrattazione collettiva, allo stesso tempo necessita del riconoscimento da parte dei datori di lavoro e dei governi. Ha bisogno di intraprendere processi negoziali – a volte partecipativi – e di raggiungere soluzioni consensuali che regolino in modo congiunto i diversi aspetti del rapporto di lavoro. Non si tratta delle forme di negoziazione che si possono trovare nel sistema politico, in una logica di coalizione o a volte fra forze governative e opposizione. Nel caso delle relazioni industriali non si decide a maggioranza, ma all’unanimità. Ciò significa che non c’è autosufficienza regolativa: le parti delle relazioni industriali sono interdipendenti nella loro capacità di regolazione e le loro azioni si muovono in uno spazio di interazione strategica. Se si può trovare un’analogia con la politica, questa si riferisce alle relazioni internazionali, non alla politica nazionale. In questo confronto fra interessi e ruoli distinti, la rappresentanza del lavoro si rispecchia in quella dei datori di lavoro e, almeno in parte, dipende dalle sue forme organizzative (bisogna essere in due per ballare – it takes two to tango, come spesso dicono anche gli studiosi di relazioni industriali). Negli anni in cui matura il passaggio del sindacalismo verso le organizzazioni di categoria, si consolida l’associazioni-
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smo imprenditoriale su base territoriale – un altro fattore organizzativo fondamentale delle origini – e settoriale. La rilevanza delle grandi imprese nei maggiori comparti manifatturieri, che guidano la modernizzazione del sistema produttivo e la crescita economica, l’emergente struttura oligopolistica dei mercati, l’importanza dei mercati nazionali, che si rafforza con la fine della prima globalizzazione in concomitanza con il primo conflitto bellico mondiale, sono tutti elementi che conducono verso una contrattazione collettiva di settore, calmierando così la concorrenza fra imprese e rispondendo agli obiettivi solidaristici del sindacato. Sindacati e associazioni datoriali di settore, affiliati ad ampie confederazioni nazionali, grandi imprese manifatturiere impegnate nella produzione di massa, contratti nazionali di categoria, legislazione promozionale, governi sensibili alle richieste del movimento dei lavoratori, anche per la compiuta realizzazione della cittadinanza politica e per l’integrazione dei partiti laburisti nel sistema della rappresentanza, costituiscono la tipica costellazione delle relazioni industriali dei paesi economicamente avanzati durante i trent’anni di crescita seguiti alla seconda guerra mondiale, specialmente in Europa. Le trasformazioni successive, dagli anni Settanta del secolo scorso in avanti, cambiano completamente il quadro di riferimento. L’economia si terziarizza e i servizi diventano il settore che crea occupazione in aree molto eterogenee per qualificazione e condizioni di lavoro, come i servizi finanziari e la consulenza alle imprese da un lato, e i servizi alla persona e alle imprese a bassa qualificazione (catering, pulizie, sorveglianza) dall’altro. Le grandi imprese industriali si riorganizzano, espellendo occupazione, che in parte diventa terziaria, attraverso il fenomeno delle esternalizzazioni. Le politiche sono più spesso market-friendly che labour-friendly. Le forme organizzative cambiano e le mansioni all’interno delle imprese diventano spesso più ampie e più esigenti. Tutto questo in una società molto diversa per standard di vita, stili di consumo, valori, aspettative, livelli di educazione. Tuttavia, la rappresentanza del lavoro rimane forte, malgrado le difficoltà e l’indubbio declino che ha subito negli ultimi decenni. In certe aree, come i servizi, riesce ancora a crescere. Il sindacalismo è oggi probabilmente più differenziato e versatile del passato. A dispetto dei grandi cambiamenti intercorsi, la subordinazione nel rapporto di lavoro – e la dipendenza economica – costituiscono ancora un fattore che influenza in maniera determinante l’esperienza di lavoratori e lavoratrici. In molti casi, le riforme e le trasformazioni economiche hanno aumentato l’incertezza della posizione e dei percorsi professionali, creando nuove domande di tutela e protezione. La capacità di adattamento del sindacato non è scontata, ma lo spazio per la sua azione è oggi ancora ampio, anche se affiancato da nuove forme organizzative (si veda il Cap. 39).
38.5 Stili di sindacalismo e tipi di sindacato La discussione del radicamento del sindacato nelle forme che il lavoro salariato assume nelle varie fasi di sviluppo del capitalismo occidentale ha già consentito di indivi-
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duare alcuni caratteri fondamentali del sindacalismo e delle modalità con cui opera concretamente nelle relazioni con i datori di lavoro e le autorità politiche. Cionondimeno, è opportuno illustrare in maniera sistematica alcune tipologie consolidate che cercano di distinguere le varie esperienze sindacali (Cella 2004). 38.5.1 Gli stili di sindacalismo Una prima utile distinzione è quella fra diversi stili di sindacalismo. Si tratta di una dicotomia che contrappone due modi di interpretare il ruolo del sindacato. È data da una particolare combinazione di tutti gli elementi principali che qualificano l’azione collettiva a tutela del lavoro: chi si rappresenta, come e con quali obiettivi. In questo senso, la dicotomia è costituita da due tipi ideali, che consentono di assimilare le varie esperienze sindacali ai due stili, senza pretendere che ci sia una sovrapposizione perfetta e ammettendo forme di ibridazione parziale. Poiché i due tipi ideali sono costruiti per astrazione di casi specifici – il sindacalismo statunitense e quello europeo continentale –, alcuni esempi risultano per costruzione più vicini ai tipi ideali. Con queste avvertenze sullo strumento concettuale, si può distinguere fra sindacalismo negoziale (business unionism) e sindacalismo competitivo (competitive unionism). Il primo si concentra sulla tutela degli interessi economici degli iscritti nel rapporto di lavoro e nei confronti del datore di lavoro, utilizzando essenzialmente lo strumento della contrattazione collettiva (2 Box 38.2). Il sindacato non ambisce a svolgere un ruolo particolare nel sistema politico, se non in quanto rappresentante di interessi specifici, e agisce principalmente come gruppo di pressione (lobby), al fine di ottenere misure e interventi legislativi favorevoli. Il secondo interpreta il proprio ruolo di rappresentanza in maniera inclusiva, comprendendo tutti i lavoratori e le lavoratrici, ed estensiva, indirizzando la propria azione anche nella sfera politica. È un sindacato di classe, che si mobilita su obiettivi di trasformazione del sistema economico e politico (a volte rivoluzionari, più spesso riformisti) e per l’ottenimento di riforme sociali. Oltre a negoziare con i datori di lavoro, partecipa al confronto politico ed è spesso legato a uno o più partiti fra quelli che appartengono alla tradizione socialista, comunista o cristiano-sociale, sulla base di una comune matrice ideologica. Per il caso italiano, si può pensare alla Cgil e alla Cisl e alle rispettive radici nella tradizione socialista e comunista e in quella cristiano-sociale. 38.5.2 I tipi di sindacato I tipi di sindacato servono soprattutto per classificare le organizzazioni di primo livello, ossia quelle che associano direttamente lavoratori e lavoratrici. A tal fine, si esamina in genere una variabile fondamentale: il perimetro della rappresentanza, ossia chi si può iscrivere al sindacato per tutelare i propri interessi. Come si è detto, nei
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paesi di prima industrializzazione e in particolare in Inghilterra, l’espressione originaria del sindacalismo è il sindacato di mestiere, che organizza il lavoro in base all’appartenenza a categorie dotate di una precisa caratterizzazione professionale (carpentieri, macchinisti, tipografi ecc. – un esempio è la Amalgamated Society of Carpenters and Joiners, costituita in Gran Bretagna nel 1860). L’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro erode la base di questo modello e conduce all’affermazione del sindacato generale, un sindacato più inclusivo e solidaristico, che associa lavoratori e lavoratrici di diversi settori e con varie posizioni professionali. È il caso, per esempio, della Australian Workers’ Union, le cui origini risalgono al 1886. A volte gli stessi sindacati di mestiere si aggregano e si aprono a una membership più ampia. Negli stessi anni emerge il sindacato industriale, che rappresenta tutti i lavoratori e le lavoratrici di un settore (per esempio, metalmeccanico, chimico, tessile), con l’obiettivo di contribuire a un miglioramento generalizzato delle condizioni economiche e di lavoro. Questo diventerà il modello prevalente e, insieme alle esperienze confederali, il protagonista dell’affermazione del sindacato come attore primario nella storia sociale e politica del Novecento. Anche nel suo momento di massima affermazione, nell’Europa occidentale del secondo dopoguerra, il sindacato industriale non esaurisce le modalità organizzative del sindacalismo. Fra le altre, una variante del primo sindacalismo di mestiere è di particolare importanza: il sindacato occupazionale, che rappresenta lavoratori e lavoratrici su base professionale (medici, infermieri, insegnanti, piloti, controllori di volo, capi stazione ecc.) oppure facendo riferimento a categorie occupazionali ampie, come avviene nei paesi nordici, con la presenza di organizzazioni distinte per operai (blue-collar worker), impiegati (white-collar worker) e personale con elevata qualificazione formale (tecnici e laureati). Anche il sindacato di impresa, che organizza tutti i dipendenti di una singola azienda, costituisce una forma rilevante di organizzazione sindacale. È il tipo di sindacato prevalente per tradizione in alcuni paesi, come il Giappone, e si presenta spesso nei paesi dove il movimento sindacale è debole a livello nazionale: è il caso dei paesi meno sviluppati e delle economie emergenti oppure, più recentemente, di quelli che hanno realizzato la transizione da regimi di tipo sovietico alla democrazia e all’economia di mercato, come in Europa centro-orientale. In tali contesti, il sindacato è presente nel settore privato quasi esclusivamente nelle grandi imprese e ciò può segmentare la rappresentanza del lavoro a questo livello decentrato. Il fatto che le organizzazioni di primo livello siano di carattere aziendale non esclude che vi siano organizzazioni settoriali di secondo livello e confederazioni nazionali. Questo avviene, per esempio, in Giappone e nei paesi dell’Europa centro-orientale. Inoltre, sebbene l’azione sindacale si svolga direttamente a livello di impresa, tale decentramento può essere abbinato a un coordinamento gestito dalle federazioni di settore e dalle confederazioni. È quello che avviene in Giappone, con la cosiddetta «offensiva di primavera», che concentra le negoziazioni in un periodo specifico per massimizzare la mobilitazione e i risultati contrattuali. Perciò, non bisogna confondere il sindacato di impresa con le organizzazioni di comodo (o «sindacati gialli»), dominate dal management. Il sindacato di impresa è una delle diverse
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forme che può assumere la rappresentanza del lavoro, secondo il contesto economico e sociale in cui si sviluppa. Un ultimo tipo di sindacato, che costituisce un fenomeno degli ultimi decenni, è quello che si può chiamare «conglomerato» o merger union, che individua organizzazioni molto grandi e con una base associativa intersettoriale, frutto di una serie di fusioni e riorganizzazioni nel panorama della rappresentanza del lavoro, realizzate soprattutto in alcuni paesi, come la Germania (ver.di nel 2001) e il Regno Unito (Unison nel 1993, Unite nel 2007 e la National Education Union nel 2017), ma che individuano una tendenza emergente. Le fusioni corrispondono in parte alle trasformazioni economiche, per cui le tradizionali federazioni risultano disallineate rispetto al sistema economico. Si pensi, per esempio, all’impatto di privatizzazioni e liberalizzazioni, che hanno mutato drasticamente le caratteristiche di interi comparti, come quello dell’energia e dei trasporti. Inoltre, in queste scelte pesano questioni organizzative interne e il desiderio di razionalizzare la struttura della rappresentanza sindacale, anche per far fonte all’impatto della riduzione del numero di iscritti. 38.5.3 Il sindacalismo confederale Se si estende l’analisi oltre il primo livello dell’organizzazione sindacale, una forma di aggregazione particolarmente importante è quella confederale, che riunisce tutti i sindacati che appartengono a un’unità territoriale. Ciò avviene tipicamente a livello nazionale, ma esistono anche confederazioni regionali, specie in presenza di un grado rilevante di autonomia politica e istituzionale o di una forte caratterizzazione culturale e linguistica (come nel caso delle confederazioni basca ELA e galiziana CIG in Spagna). Le confederazioni esprimono in modo concreto l’aspirazione a rappresentare tutto il lavoro in un certo paese e sono tanto più importanti quanto più partecipano a forme di regolazione intersettoriale del rapporto di lavoro, sia con la controparte datoriale (come nel caso di accordi quadro sui salari o altri temi contrattuali), sia con il governo (con la concertazione delle politiche economiche e sociali). Nella tipologia dei sindacati la variabile territoriale è spesso implicita. Le organizzazioni locali si trovano spesso all’origine del movimento sindacale, come le camere del lavoro francesi e italiane, ma la dimensione nazionale si afferma progressivamente per ragioni economiche e politiche, in quanto le controparti più importanti sono di solito le associazioni nazionali dei datori di lavoro dei diversi comparti produttivi e i governi, mentre gli strumenti di regolazione principali sono i contratti di categoria e la legislazione. Per motivi organizzativi interni e politico-istituzionali, come il ruolo assunto da regioni e altri enti locali, anche livelli territoriali diversi da quello nazionale possono apparire rilevanti. In effetti, confederazioni nazionali e federazioni di settore hanno di solito proprie strutture territoriali per seguire le questioni locali e l’organizzazione della rappresentanza del lavoro nei vari paesi appare come una matrice che combina i criteri di aggregazione settoriale, occupazionale, confederale e territoriale in forme più o meno complesse.
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38.6 Accanto al sindacato Nei sistemi democratici, l’azione dello stato a sostegno del lavoro può includere la costituzione di strutture di rappresentanza che non facciano riferimento al sindacato, ma all’insieme dei lavoratori e delle lavoratrici. Il caso più tipico è quello dei consigli di impresa, presenti in Germania e altri paesi dell’Europa continentale, come Austria e Paesi Bassi. Non si tratta di una forma alternativa di rappresentanza, in competizione con le organizzazioni sindacali, bensì di strutture complementari. In effetti, la costituzione a livello di impresa e l’assegnazione di diritti di informazione e consultazione e soprattutto di compiti di partecipazione alle decisioni aziendali distinguono nettamente, almeno in principio, questa struttura di rappresentanza dal sindacato di settore impegnato nelle attività negoziali. Alla categoria delle strutture partecipative promosse dalla legislazione appartiene anche la presenza di rappresentanti dei lavoratori negli organi societari delle imprese, prevista in modo ampio in tredici paesi dell’Unione Europea nel 2017 (ETUC e ETUI 2017). La separazione fra sindacato e contrattazione collettiva, da un lato, e consigli di impresa e partecipazione, dall’altro, risponde all’obiettivo di ridurre le interferenze fra questi due distinti processi di regolazione congiunta del rapporto di lavoro, che operano con logiche molto diverse e potenzialmente divergenti. Mentre la contrattazione collettiva funziona senza problemi in una prospettiva di conflitto distributivo fra parti con interessi contrapposti, la partecipazione opera in uno spazio definito da interessi comuni e richiede cooperazione. Se questa è la distinzione di principio, la prassi testimonia una significativa sovrapposizione fra sindacato e consigli di impresa, poiché in molti casi i rappresentanti nelle strutture partecipative sono sindacalisti. Inoltre, negli ultimi anni il decentramento della contrattazione collettiva in Germania, che è spesso considerata il modello di riferimento in questo campo, ha incrementato le attribuzioni contrattuali dei consigli di impresa, riducendo significativamente le distanze con il sindacato e aumentando il coordinamento istituzionale fra questi due attori.
38.7 Prospettive e strategie sindacali A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, il declino del tasso di sindacalizzazione e, più in generale, l’erosione del ruolo della contrattazione collettiva nella regolazione del lavoro sono questioni al centro dell’attenzione degli studiosi e degli attori delle relazioni industriali. Diverse analisi teoriche e molti studi empirici si sono occupati di identificare le cause del possibile declino del ruolo del sindacato, le risposte elaborate per contrastare tale tendenza e le prospettive per il futuro. Le ragioni delle difficoltà del sindacato sono molteplici, come già indicato, e possono essere ricondotte a tre dimensioni: le trasformazioni economiche, con un ruolo importante della globalizzazione; le politiche di riforma, che hanno puntato sulla flessibilità del mercato del lavoro e spesso sulla riduzione delle forme di tutela collettiva del lavoro e della rappresentanza; i cambiamenti sociali e cultura-
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li, che hanno eroso le identità collettive che hanno alimentato a lungo l’esperienza sindacale. Una ricerca realizzata all’inizio degli anni Duemila in cinque paesi (Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti) ha identificato una serie di risposte del sindacato (Frege e Kelly 2004). Il primo tipo di iniziative include le campagne tese a organizzare nuovi segmenti della forza lavoro o luoghi di lavoro poco sindacalizzati, spesso nei servizi e con una presenza significativa di lavoratori e lavoratrici immigrati e con contratti non-standard (strategie di organizing: si veda il Cap. 39). Altre strategie cercano di migliorare l’utilizzo delle risorse interne e di razionalizzare l’azione sindacale (ristrutturazione organizzativa, che comprende le fusioni fra sindacati di cui si è parlato) o di potenziare le capacità di pressione, grazie alla creazione di coalizioni con i movimenti sociali, come quello ambientalista o anti-globalizzazione. Anche la creazione di accordi di partnership con i datori di lavoro a livello nazionale, di settore o di impresa, al fine di affrontare insieme la trasformazione dell’economia e dei mercati, può dare più legittimazione ed efficacia all’azione sindacale. L’azione politica per ottenere riforme legislative favorevoli è un’ulteriore possibilità, mentre la creazione e il rafforzamento dei legami internazionali può consentire di affrontare meglio il problema posto dalle strategie transnazionali delle imprese e di rendere più ampie ed efficaci le campagne di mobilitazione. I risultati della ricerca mostrano l’importanza diffusa dell’azione politica, la cui efficacia dipende però in modo significativo dalla congiuntura in cui si inserisce e, in particolare, dagli orientamenti dei governi in carica. Anche la ristrutturazione organizzativa appare una strategia praticata diffusamente. Alcune specificità, invece, sono presenti in Germania, dove assume un ruolo importante il rafforzamento della partnership con i datori di lavoro, e nei paesi anglosassoni, Regno Unito e Stati Uniti, nei quali risultano particolarmente importanti le strategie di organizing. Negli Stati Uniti, altre forme di innovazione strategica comprendono la costruzione di coalizioni con la società civile e il rafforzamento dei legami internazionali. La variabilità delle risposte nazionali dipende dalla combinazione delle risorse istituzionali presenti nei diversi sistemi nazionali; dalle posizioni e dalle strategie dei datori di lavoro e dei governi, in un quadro di interazione strategica; e dalla capacità di mobilitare le risorse interne al sindacato, per interpretare in modo innovativo i problemi e trovare nuove soluzioni, anche grazie all’azione della leadership sindacale. A distanza di circa un decennio, la ricerca di Richard Hyman e Rebecca Gumbrell-McCormick (2013) continua l’analisi delle risposte del sindacato in questi «tempi difficili». Lo studio riguarda dieci paesi, che gli autori associano a diversi modelli di sindacalismo: i paesi nordici (Danimarca e Svezia), i paesi centroeuropei (Austria, Belgio, Germania e Paesi Bassi), i paesi sudeuropei (Francia e Italia) e i paesi anglofoni (Irlanda e Regno Unito). Le strategie sono simili a quelle già evidenziate da Carola Frege e John Kelly: le strategie di reclutamento, mobilitazione e organizing; le fusioni e le riorganizzazioni interne; i patti sociali e le partnership a diversi livelli; l’azione politica, rivolta in particolare alla costruzione di coalizioni con altri movimenti e a individuare nuovi obiettivi e visioni della società; l’internazionalizzazione dell’azione e delle strategie sindacali. Gli autori mostrano che il sindacato, nei vari
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paesi presi in esame, ha seguito tutte queste strade, in modi e con risultati diversi, ma comunque confermando la propria capacità di rispondere al cambiamento. Il sindacato e le relazioni industriali, indebolite e forse minacciate, rimangono elementi essenziali delle società europee. Tuttavia, questa è la tesi dei due autori, la strada di una piena rivitalizzazione passa per la riaffermazione di alcuni aspetti fondativi del sindacalismo: in primo luogo, l’impegno a promuovere la giustizia sociale (il sindacato come sword of justice), che oggi significa soprattutto organizzare gli outsider e il lavoro non-standard, cercando un bilanciamento non sempre facile con la protezione dei segmenti centrali del mercato del lavoro. In secondo luogo, l’azione politica del sindacato deve ritrovare la capacità di sostenere il progresso sociale, grazie alla costruzione di coalizioni con nuovi soggetti a livello nazionale e internazionale. Ciò potrebbe richiedere di ridurre il coinvolgimento istituzionale, anche nel sistema dell’Unione Europea, per adottare posizioni più critiche e chiedere cambiamenti sostanziali nell’orientamento delle politiche economiche. Infine, la democrazia interna è sia un valore irrinunciabile sia lo strumento principale per consentire il rinnovamento continuo delle posizioni e delle strategie sindacali. Per questo motivo, la democrazia appare una risorsa fondamentale in ogni percorso di rivitalizzazione dell’esperienza sindacale. Al di là delle indicazioni su cosa il sindacato «dovrebbe fare», che rimangono un contributo al dibattito sulle relazioni industriali, queste ricerche confermano la vitalità della rappresentanza del lavoro e le molte trasformazioni che ha intrapreso negli ultimi anni. Il breve sguardo sul movimento sindacale contenuto in questo capitolo consente di affermare che il sindacato non è rimasto ancorato al proprio passato, come spesso si sente dire, ma cerca continuamente di rinnovare la propria capacità di rappresentare e tutelare il lavoro. In questo, non fa che ripetere la sua storia.
Letture di approfondimento Baglioni G. (2014). Un racconto del lavoro salariato, Bologna, il Mulino. Cella G.P. (2014). Persone finte. Paradossi dell’individualismo e soggetti collettivi, Bologna, il Mulino. Cella G.P (2004). Il sindacato, 3a ed., Roma-Bari, Laterza. Frege C., Kelly J. (eds.) (2004). Varieties of Unionism: Strategies for Union Revitalization in a Globalizing Economy, Oxford, Oxford University Press. Hyman R., Gumbrell-McCormick R. (2013). Trade Unions in Western Europe. Hard Times, Hard Choices, Oxford, Oxford University Press. Olson M. (1965). The Logic of Collective Action, Cambridge (MA), Harvard University Press (trad. it. La logica dell’azione collettiva, trad. di S. Sferza, Milano, Feltrinelli, 1983).
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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39 Lavoro autonomo e forme della rappresentanza di Paolo Borghi e Elena Sinibaldi *
39.1 Rappresentare il lavoro autonomo Negli anni Novanta del secolo scorso, in seguito alla terziarizzazione dell’economia e alla diffusione delle tecnologie digitali, il fenomeno del nuovo lavoro indipendente a elevata qualificazione ha conosciuto una forte crescita. Accanto alle professioni liberali, regolate da ordini e/o albi professionali, sono nate le professioni non regolamentate che comprendono al proprio interno profili molto diversi (2 Box 39.1): si va dai dagli informatici ai grafici, ai lavoratori impegnati nell’ambito dell’editoria e della comunicazione, passando per i professionisti dello spettacolo e dell’organizzazione degli eventi, fino ai formatori e consulenti per imprese e la PA. Oltre che per i contenuti dell’attività, questo gruppo professionale presenta un’elevata eterogeneità nei livelli di reddito e nelle condizioni di mercato. Molteplici sono anche le condizioni di lavoro sperimentate tra chi, da un lato, svolge l’attività in piena autonomia e chi, all’opposto, non dispone di un’effettiva indipendenza giuridica, economica e organizzativa (Reyneri 2005). A livello internazionale, si fa riferimento alla categoria utilizzando l’etichetta unificante, ma forzatamente generica, di freelance. Sotto questo concetto-ombrello, infatti, convivono una varietà di status giuridici e inquadramenti fiscali che cambiano nei diversi paesi, in funzione del contesto istituzionale, delle specificità del mercato del lavoro (da ora Mdl) e della normativa giuslavoristica. In Italia, i freelance esercitano l’attività su base individuale attraverso contratti di prestazione d’opera in regime di partita Iva o di collaborazione, mentre in Gran Bretagna essi si registrano come imprese senza dipendenti; negli Stati Uniti, invece, il termine comprende quanti lavorano per progetti con una durata temporanea, dai lavoratori in proprio (self-employed) ai lavoratori tramite agenzia (contingent workers). La variegata composizione del freelancing, trasversale alla netta dicotomia tra impresa e lavoro, ha reso problematica la quantificazione del fenomeno attraverso le rilevazioni statistiche e, al contempo, ne ha oscurato la specificità. Ciò ha avuto forti risvolti sul piano della rappresentanza degli interessi. Di fronte alle domande di tutela della componente professionale del lavoro autonomo, a lungo i sindacati tradizionali hanno risposto riproponendo le strategie e gli strumenti del lavoro dipendente standard. A riguardo, risulta paradigmatico il caso dei paesi mediterranei (Italia, Spagna, *
Questo contributo è frutto di una scrittura a quattro mani in tutte le sue parti: ai meri fini della valutazione attribuiamo i Parr. 39.1 e 39.2 a Elena Sinibaldi e il resto del testo a Paolo Borghi.
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Francia). Qui l’azione sindacale si è focalizzata sull’area grigia della parasubordinazione (economically dependent self-employed) limitandosi a proporre interventi di regolarizzazione, volti a ricondurre il lavoro in collaborazione nel perimetro di quello subordinato. Le soluzioni elaborate per contrastare l’uso fraudolento dei contratti indipendenti da parte delle imprese hanno dunque riguardato la parte più debole della categoria, identificata con i falsi autonomi. Tali iniziative non sono state accompagnate da proposte di regolazione a favore del gruppo professionale nel suo complesso, che varie organizzazioni sindacali hanno assimilato all’impresa e, pertanto, fuori dal proprio raggio d’azione. In parallelo, l’enfasi posta nel dibattito pubblico sulla forma contrattuale ha lasciato in ombra la questione sociale emergente, incentrata sulla necessità di approntare dispositivi di protezione contro i principali rischi (malattia, infortunio e disoccupazione) per le nuove forme contrattuali (si veda il Cap. 35). A partire dai primi anni Duemila, il vuoto di rappresentanza lasciato dai sindacati tradizionali è stato colmato da esperienze associative che agiscono al di fuori della contrattazione collettiva (Hecksher e Carré 2006; Jenkins 2013; Sullivan 2010; Tapia 2013). In letteratura la vasta gamma di queste formazioni vengono definite in vario modo: Hecksher e Carré (2006, p. 605) parlano di «quasi-union», Jenkins (2013, p. 617) di «pre-union» mentre Sullivan (2010, p. 814) ricorre all’espressione «protounion». Al di là delle diverse denominazioni, queste realtà quasi-sindacali presentano tratti comuni e l’obiettivo principale di aumentare la capacità di voice collettiva dei gruppi non rappresentati. Le quasi-union sono perlopiù costituite da strutture auto-organizzate con un diverso livello di risorse economiche a disposizione, che si configurano come associazioni con una membership liquida: dal sostenitore che partecipa a singole azioni collettive ai soci che pagano una quota annuale1. Per quanto riguarda le strategie, le quasiunion si possono dividere principalmente tra quelle che optano per l’offerta di servizi (servicing) e quelle che puntano sulla visibilità pubblica (advocacy). Anche se molte organizzazioni cercano di combinare questi due orientamenti, la maggior parte di esse può venire identificata piuttosto chiaramente con uno o l’altro (Hecksher e Carré 2006). La fornitura di servizi riguarda, per esempio, le consulenze di tipo fiscale e legale, la formazione, l’informazione aggiornata, l’attività di networking; nell’advocacy vi è, invece, la tutela degli interessi generali perseguita attraverso campagne di mobilitazione o azioni di lobbying sui decisori politici. Una seconda dimensione analitica concerne il target di riferimento, che può essere più o meno eterogeneo per contenuti del lavoro, forma contrattuale e specializzazione settoriale. Combinando queste due dimensioni (advocacy/servicing e omogeneità/eterogeneità), è possibile identificare quattro modelli. Un primo modello è quello tecnico-professionale, che comprende le quasi-union che rivolgono la propria azione a un target definito, il più possibile omogeneo, di lavo1
Le quasi-union si trovano con particolare frequenza in due aree economiche: nei settori ad alta intensità di lavoro, dove viene impiegato personale non qualificato, spesso costituito da immigrati irregolari; nel terziario avanzato, in cui opera la fascia alta della forza lavoro formata da lavoratori con competenze tecniche elevate.
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ratori (per posizione di mercato e/o contenuto professionale) con l’obiettivo di fornire perlopiù servizi del tipo prima elencato, in cambio del pagamento di una quota associativa annuale. È il caso, per esempio, dell’associazione inglese IPSE (Independent Professionals & Self-Employed, www.ipse.co.uk), fondata nel 1999 su iniziativa di un gruppo di professionisti autonomi per dare voce alla protesta dei freelance contro una misura fiscale ritenuta iniqua2. Al momento della sua formazione, l’organizzazione ha predisposto un efficace servizio di assistenza legale a cui ha affiancato, nel corso degli anni, altre forme di consulenza e benefit di carattere individuale. Ciò ha favorito la crescita della base associativa costituita prevalentemente da consulenti aziendali di alto livello che, per le specificità del sistema fiscale inglese, sono inquadrati come imprese individuali con la formula della società a responsabilità limitata (Ltd). Il secondo modello può essere definito identitario: sono qui incluse le associazioni quasi sindacali che si rivolgono a un insieme professionale con caratteristiche omogenee ma, a differenza del caso precedente, basano la propria strategia prevalentemente sull’advocacy in favore dell’intera categoria. In altre parole, tali organizzazioni lanciano campagne sociali per sensibilizzare e raccogliere il consenso su tematiche inerenti gli interessi generali dei freelance. È assimilabile a questo modello l’associazione italiana ACTA (Associazione Consulenti Terziario Avanzato, www.actainrete.it), fondata nel 2004 per rappresentare i professionisti autonomi non iscritti a ordini, che lavorano con Partita Iva nei diversi comparti del terziario avanzato. L’organizzazione ha incentrato la sua azione intorno a due questioni principali: 1) la disparità di trattamento previdenziale dei nuovi lavoratori autonomi rispetto alle altre componenti del lavoro indipendente tradizionale (i professionisti ordinisti da un lato, gli artigiani e commercianti dall’altro), a fronte di un carico contributivo più elevato; 2) il deficit di misure di protezione sociale previste dal sistema di welfare per i nuovi lavoratori autonomi (si veda il Cap. 35). Il terzo modello è quello neo-mutualistico. Esso include le quasi-union che si rivolgono a un target più composito per condizioni di mercato e forme di impiego, interessato ad associarsi per usufruire dei servizi a disposizione dei membri. A differenza di quanto avviene per le strutture del modello tecnico-professionale, in questo caso i servizi offerti sono perlopiù di tipo collettivo e si configurano come strumenti di protezione dai rischi connessi all’invecchiamento e alla malattia. La realtà che più si avvicina a questo tipo è quello della newyorchese Freelancers Union (FU, www.freelancersunion.org), fondata alla fine degli anni Novanta. Dalla sua costituzione, essa ha conosciuto una crescita costante della base sociale determinata dalla capacità di rispondere a una domanda latente in un contesto con un welfare debole. Negli Stati Uniti il sistema sanitario è privato e, fino all’entrata in vigore nel 2014 2
Tale norma, introdotta per smascherare la falsa autonomia tra le pieghe del professionalismo, prevede una serie di accertamenti da parte dell’agenzia delle entrate britannica che penalizzano l’attività dei professionisti sottoposti alle verifiche fiscali, impegnandoli in onerosi contenziosi giudiziari.
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della legge di riforma voluta dal presidente Obama (nota come Obamacare), la maggior parte degli assicurati aveva una polizza pagata dal datore di lavoro. Per sostenere gli indipendenti, costretti a rinunciare alla copertura a causa degli alti premi assicurativi, l’organizzazione ha iniziato a offrire sconti di gruppo per l’acquisto di piani assicurativi «portatili» (i cosiddetti portable benefit), che seguono il lavoratore nella transizione da una commessa a un’altra. Infine, il modello inclusivo riguarda le organizzazioni quasi sindacali che si rivolgono a diverse componenti del lavoro autonomo e distribuiscono vantaggi a favore della categoria nel suo insieme. L’esperienza che si avvicina maggiormente a questo tipo è quella dell’associazione tedesca VGSD (Verband der Gründer und der Selbständigen Deutschland, www.vgsd.de), fondata a Monaco nel 2012 con lo scopo dichiarato di sostenere gli interessi dei lavoratori autonomi, ignorati dalle organizzazioni sindacali e datoriali. A tal fine, VGSD si rivolge ai lavoratori in proprio, ai professionisti indipendenti, con o senza ordine, che svolgono l’attività su base individuale (noti nel contesto europeo con il termine iPros), alle start-up e alle piccole imprese. La mission generale si articola in una serie di micro-obiettivi, che prevedono: l’elaborazione di proposte per l’adozione di un sistema pensionistico flessibile e di un fondo di assicurazione sociale per i piccoli imprenditori e liberi professionisti; l’avvio di campagne di informazioni per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione, poco conosciuta, del nuovo lavoro autonomo.
39.2 Le sfide della rappresentanza Alla fine degli anni Ottanta alcune ricerche pionieristiche (Bianco e Luciano 1982; Butera 1988; Luciano 1989) danno conto di un gruppo sociale in formazione in un’economia che si va sempre più terziarizzando. Si tratta di figure tecniche che fuoriescono dalla grande impresa e intraprendono la libera professione nei settori emergenti (editoria, marketing, ICT), offrendo servizi di consulenza alle organizzazioni pubbliche e private. Circa un decennio dopo, un noto saggio di Bologna e Fumagalli (1997) battezza il carattere di rottura del «lavoro autonomo di seconda generazione»: esso fonda l’autonomia su competenze culturali di tipo tecnico-scientifico e abilità comunicative-relazionali piuttosto che, come per artigiani e commercianti, su basi patrimoniali e proprietarie. Nonostante i caratteri innovativi e i trend di crescita del fenomeno, questa componente professionale rimane ai margini della ricerca sociale. A riguardo, Leighton e McKeown (2015) parleranno del «paradosso» del nuovo lavoro autonomo. Da cosa deriva questo paradosso? Perché la sociologia economica non ha fin da subito colto, nel suo stato nascente, le trasformazioni portate dalla componente professionale all’interno del lavoro autonomo tradizionale? E ancora, perché negli anni recenti un numero crescente di studi si sta focalizzando sul lavoro professionale autonomo (Armano e Murgia 2014; Ranci 2012) e le sue forme di rappresentanza (Cucca e Maestripieri 2012; Mingione et al. 2015a, 2015b; Semenza 2014)? Si proverà a rispondere a queste domande utilizzando come chiave di lettura tre dimensioni analitiche: la rappresentazione, la rappresentatività e la rappresentanza.
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Per quanto riguarda la rappresentazione, nella letteratura sociologica si ritrovano molteplici immagini che hanno restituito una fotografia parziale del nuovo lavoro indipendente. Negli anni a cavallo tra il XX e il XXI secolo, i nuovi professionisti sono stati identificati con il gruppo sociale dei knowledge workers (Barley e Kunda 2004; Castells e Himanen 2006; Drucker 1994): i lavoratori dipendenti e autonomi, la cui elevata specializzazione si combina con l’uso di tecnologie digitali avanzate. Questo gruppo non costituisce un insieme omogeneo, in quanto racchiude al suo interno professioni diverse per livello di responsabilità, remunerazione e grado di autonomia. Secondo alcuni studiosi (Butera et al. 2008) ne fanno parte scienziati, manager, imprenditori, professionisti e tecnici di ogni settore con un grado medio-alto d’istruzione; altri (Formenti 2008), invece, adoperando un criterio più selettivo, includono nel lavoro cognitivo solo le professioni web based. L’elemento che accomuna questo insieme è il possesso di un elevato livello di istruzione e un solido percorso formativo che, secondo Drucker (1994), è un requisito necessario per affrontare l’eventuale instabilità lavorativa. Una declinazione più elitaria di knowledge worker fa riferimento al contenuto creativo della prestazione che rimanda a quell’insieme di professionisti impegnati in attività di servizi culturali (editoria, cinema software, audiovisivo), definiti da Florida (2002) «creative class». La classe creativa è rappresentata da molteplici figure quali start-upper, imprenditori, manager, ricercatori, professionisti, tecnici e artisti (Florida e Tinagli 2005). L’appartenenza alla creative class non si basa sulla certificazione del livello di istruzione né sulla posizione occupazionale quanto piuttosto sul possesso di expertise, stili di vita e modi di pensare simili. Queste similitudini sono determinate principalmente dalla loro funzione all’interno di quella che è stata denominata new economy, in cui valori come l’autonomia e l’auto-realizzazione, mutuati da subculture di matrice anticonformista e bohèmien, diventano poi elementi centrali del modello economico (Ross 2003; si veda anche il Cap. 2 di questo manuale). Opposta all’immagine dell’élite creativa, associata all’auto-imprenditorialità e alla combinazione nel lavoro di passione, inclinazioni soggettive e competenze personali, è la figura del lavoratore non standard o atipico. L’atipicità si definisce per differenza rispetto al rapporto dipendente di durata indeterminata e a tempo pieno, che nel corso del Novecento ha conquistato diritti e tutele sociali (Regalia 2009). La locuzione rivela una connotazione negativa che rimanda a una condizione lavorativa di vulnerabilità, tanto più grave quando è subita e duratura. Vengono ricompresi in questo insieme figure professionali molto diverse, che spaziano dalle professioni tecniche, intellettuali e anche impiegatizie, ai lavori di vendita e manuali non qualificati. In crescita dagli anni Duemila nei diversi paesi europei, la letteratura e la giurisprudenza identificano gli elementi della semi-autonomia e parasubordinazione nel rapporto esclusivo con un committente e nella presenza di vincoli organizzativi e professionali (Addabbo e Borghi 2001; Altieri 2006; Böheim e Muehlberger 2009; Fellini 2012; Pedersini 2002; Supiot 1999). La diffusione di immagini tanto diversificate si può mettere in relazione con l’eterogeneità interna del nuovo lavoro autonomo e anche con elementi di auto-rappresentazione identitaria della categoria. A tale proposito, alcune indagini (Consorzio
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Aaster 2011; Bologna e Banfi 2011; Ranci 2012) hanno rilevato che il carattere identitario dei nuovi autonomi si fonda più sull’appartenenza alla comunità professionale di riferimento che sulla posizione formale del lavoro: un designer tende a identificarsi più con altri designer – che svolgono un lavoro simile nei contenuti – che con un traduttore o un qualsiasi altro professionista, con cui condivide la forma contrattuale. La mancata percezione da parte dei nuovi indipendenti di un’identità collettiva legata alla dimensione dell’autonomia limita la capacità dei nuovi autonomi di presentarsi nello spazio pubblico come un soggetto sociale legato da una comunanza di interessi. Pur molto diverse, le varie immagini però sono accomunate da una dimensione comune: il rischio (Armano 2010). Questo elemento si configura sempre più come il prodotto della crescente individualizzazione della condizione lavorativa (Sennet 1998) e della mancata adozione di adeguate misure di protezione di welfare (Berton, Richiardi e Sacchi 2009). In tale prospettiva, parliamo di rappresentatività del nuovo lavoro autonomo: la situazione dei freelance appare generalizzabile all’intero universo lavorativo. Nella società fordista, l’esposizione al rischio riguardava due categorie sociali collocate ai poli opposti della stratificazione: al vertice, gli imprenditori; al fondo, i gruppi marginali che vivono al di fuori delle regole istituzionalizzate. Nella vita dell’imprenditore il rischio rappresentava, e rappresenta, una condizione normale: la ragione del profitto deriva proprio dal fatto di assumersi l’onere di investire in modo innovativo le risorse in opportunità rischiose (Negri 2006). Il lavoratore salariato, invece, era esente dal rischio, essendo implicito nel funzionamento del sistema un meccanismo di delega alle organizzazioni, sia dei rischi sia delle responsabilità (Rullani 2004). Il dipendente, infatti, era garantito da un Mdl modellato sulla grande impresa che assicurava la quasi piena occupazione a tempo indeterminato e un salario congruo per provvedere ai fabbisogni personali e delle famiglie. Questo tipo di Mdl si combinava con un modello di welfare basato sulla figura del maschio adulto capofamiglia, il male breadwinner (si veda il Cap. 32). Il sistema di protezione sociale tutelava dunque il capofamiglia, attraverso la tutela del posto di lavoro. L’avvento della nuova organizzazione postfordista con le sue esigenze di flessibilità mette in crisi i due pilastri (Mdl e stato sociale) su cui si era fondata la sicurezza nella società industriale. Nel nuovo modello la flessibilità viene individuata, infatti, come il criterio fondamentale nella costruzione di nuove regole dei rapporti di impiego che, per diverse dimensioni, si allontano dal modello standard. Nelle economie avanzate, con la diffusione delle forme di impiego atipiche, il rischio inizia così a salire la scala sociale dal basso verso l’alto, con forti ripercussioni per chi è collocato nel «mezzo», configurandosi sempre più come una condizione normale (Negri 2006). Alla luce di queste considerazioni, possiamo collocare il tema della rappresentanza. I tentativi che i sindacati sperimentano per aggregare i frammentati interessi di questo gruppo professionale sono rappresentativi di nuove logiche per rispondere alla domanda dei «lavoratori mobili del XXI secolo» (Cella 2003, p. 12), caratterizzati da una debole identità ed estranei alla mobilitazione basata sull’azione collettiva. A riguardo, la letteratura sulla rivitalizzazione del sindacato (Crouch 2012; Frege e Kelly 2004; Osterman 2006) suggerisce che per invertire la tendenza al declino sindacale e includere i gruppi portatori di nuovi interessi è necessario puntare su più linee di
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azione che facciano leva su differenti incentivi selettivi (Olson 1982). In concreto, per i sindacati ciò si traduce nella necessità di portare avanti un processo di cambiamento sia a livello organizzativo sia strategico. Nelle pratiche internazionali, il riorientamento organizzativo si è realizzato attraverso la formazione di centri-servizi che, con l’offerta di consulenze individuali, siano in grado di attirare i lavoratori difficilmente raggiungibili mediante altri canali. In Italia l’esperienza più nota è quella di NIdiL (Nuove identità di lavoro), la federazione rivolta alle forme contrattuali atipiche costituita alla fine degli anni Novanta dalla CGIL. La struttura si è caratterizzata per una certa debolezza operativa, derivante da un’impostazione organizzativa che raggruppa i lavoratori a partire dalla forma contrattuale non standard e non in relazione al settore di appartenenza (Ballarino 2005). Nel 2012, la percentuale di tesserati a NIdiL sul totale degli iscritti alla CGIL risultava pari all’1,2 per cento (Ambra 2013). La scarsa rappresentatività categoriale si è riflessa in una disponibilità limitata di risorse e in un basso grado di autonomia decisionale. La ridefinizione degli approcci strategici, invece, ha guardato soprattutto ai modelli di organizing. Tali tecniche mirano a estendere la sindacalizzazione a segmenti storicamente non organizzati della forza lavoro, attivando la partecipazione dei lavoratori in campagne di mobilitazione all’interno di un’azienda, in un settore o in un territorio. Le iniziative sperimentate finora nel contesto internazionale hanno coinvolto perlopiù i settori ad alta intensità di lavoro e bassa qualificazione, dove si concentra la manodopera straniera (Burawoy 2008; Coppola 2012; Dorigatti 2012; Heery e Adler 2004; Savage 2006). Come anticipato nel precedente paragrafo, le iniziative dei sindacati a favore degli atipici non sono riuscite a cogliere le specificità dei diversi gruppi di lavoratori e a formulare delle soluzioni efficaci per tutelare la componente autonoma, che pertanto ha dato vita ad associazioni auto-organizzate. Con poche eccezioni, come quella del sindacato tedesco ver.di, l’azione sindacale ha faticato a combinare le innovazioni organizzative con quelle strategiche e a far prevalere la «logica dell’influenza» sulla «logica della membership» (Zan 1988, p. 33), così da esprimere una rappresentanza generale degli interessi del lavoro piuttosto che una rappresentanza rivolta alla cerchia dei propri iscritti.
39.3 Due esempi di ricerche 39.3.1 I professionisti indipendenti (iPros) europei Le condizioni lavorative e di vita dei professionisti indipendenti in Europa sono piuttosto variegate perché sono legate alle condizioni specifiche dei diversi mercati del lavoro e ai costi della vita nei diversi territori. Analogamente le legislazioni nazionali definiscono diversi confini, limiti e possibilità sia per le attività professionali sia per l’accesso ai sistemi di welfare. La frammentazione delle organizzazioni di rappresentanza rispecchia queste specificità professionali, territoriali e nazionali. Dai primi anni Duemila il fenomeno del nuovo lavoro indipendente entra nel dibattito pubblico
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anche grazie al lavoro di informazione e pressione esercitato dalle quasi-union sorte nei diversi paesi. Di recente sono stati realizzati i primi studi comparativi sui nuovi professionisti autonomi europei. Vale la pena citare le analisi di Rapelli (2012) e la ricerca commissionata dal network europeo delle organizzazioni di freelance EFIP a Leighton e Brown3. Obiettivo della ricerca è approfondire le condizioni di vita e di lavoro degli independent professionals (iPros) in Europa, nonché il più ampio contesto professionale a cui fanno riferimento, prendendo in considerazione anche le cornici regolative che definiscono limiti e possibilità di azione degli iPros. Con questo termine si identificano i professionisti indipendenti, con e senza albo, che svolgono la loro attività di tipo intellettuale senza personale alle dipendenze. L’elemento dirimente di tale definizione è il carattere individuale della prestazione, a prescindere dalla differenza tra professioni regolamentate e non. La ricerca, condotta tra il giugno 2012 e maggio 2013, presenta inoltre un prospetto quantitativo della presenza degli iPros nei diversi paesi europei e un focus su nove di questi paesi. La parte qualitativa dell’indagine ha previsto 87 interviste in profondità a rappresentanti di organizzazioni professionali, rappresentanti sindacali, accademici, membri di istituzioni e politici esperti in tema di lavoro, professionisti indipendenti. I risultati della ricerca dimostrano come i nuovi assetti produttivi richiedano la presenza di lavoratori indipendenti orientati non alla competizione, bensì alla collaborazione e alla condivisione di strategie complessive fra le diverse professionalità coinvolte nella gestione di attività imprenditoriali, di consulenza e di coordinamento. In questo quadro l’importanza numerica dei professionisti indipendenti sta crescendo in tutta Europa, nonostante gli effetti negativi della crisi economico-finanziaria scoppiata nel 2007. La ricerca rivela inoltre come in tutta Europa manchino ancora adeguate misure di inclusione nei sistemi di welfare e sufficienti misure di supporto in fase di avvio delle attività professionali, con significative ricadute negative sullo sviluppo delle carriere professionali. 39.3.2 Le nuove generazioni di professionisti indipendenti milanesi L’indagine sulle dinamiche lavorative dei professionisti indipendenti e sui loro bisogni di rappresentanza è stata realizzata da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Milano Bicocca 4. Gli obiettivi erano essenzialmente due: esplorare i cambiamenti dell’offerta di rappresentanza rivolta ai lavoratori nonstandard a elevata qualificazione; indagare la domanda di rappresentanza, espres-
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I risultati della ricerca sono presentati nel rapporto Future Working: The Rise of Europe’s Independent Professionals (iPros) (Leighton 2013). 4 La ricerca è stata realizzata nell’ambito del progetto PRIN «Nuovi soggetti del lavoro e forme di rappresentanza» a cui hanno partecipato diverse università italiane. L’unità di ricerca di Milano Bicocca si è proposta di indagare le trasformazioni del lavoro e i nuovi rischi sociali per i giovani lavoratori indipendenti del territorio milanese.
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sa o latente, dei lavoratori e le strategie adottate per risolvere problemi e difficoltà professionali. Lo studio, realizzato tra il 2012 e 2013, ha previsto una prima fase di mappatura delle organizzazioni impegnate nella rappresentanza dei professionisti indipendenti e la successiva selezione di 16 strutture per un approfondimento qualitativo, attraverso interviste ai dirigenti mirate a comprendere approcci, strategie e dibattito interno. Nella seconda fase della ricerca sono state realizzate 72 interviste in profondità a giovani professionisti indipendenti ordinisti e non di diversi ambiti professionali (architettura, design, giornalismo e comunicazione, creativo, giuridico, psicologico). I risultati della ricerca rivelano una difficoltà oggettiva vissuta dalle organizzazioni, vecchie e nuove, a colmare la distanza con i giovani professionisti indipendenti, spesso concentrati sulla carriera e scarsamente propensi all’azione collettiva. Tali difficoltà sono dovute sia all’estrema frammentazione dei settori produttivi e delle quotidianità lavorative, sia alle nuove condizioni professionali in cui mobilità, flessibilità e connettività permanente generano una sovrapposizione tra tempi di vita e di lavoro. La ricerca rivela inoltre come la diffusa percezione di inadeguatezza delle organizzazioni tradizionali, in primo luogo sindacati e ordini professionali, sia stato lo stimolo per la nascita di nuove associazioni, con struttura leggera, orizzontale e basata sul lavoro volontario degli iscritti. L’azione delle nuove organizzazioni ha stimolato il dibattito pubblico sulla condizione dei freelance con azioni simboliche, campagne di informazione e attività di lobby. Nell’ambito delle nuove organizzazioni, in anni più recenti, è cresciuta la consapevolezza dell’importanza dei servizi (consulenza fiscale e legale, supporto alla carriera, spazi di coworking) come strumento strategico per fornire risposte ai bisogni concreti dei nuovi professionisti indipendenti, per fidelizzarli e stimolare la partecipazione attiva nelle attività associative. Sul fronte dei bisogni di rappresentanza emergono, invece, due aspetti solo apparentemente contraddittori: da un lato, i bisogni di rappresentanza sono strettamente legati ai contesti professionali, presentano un alto grado di frammentazione e la tendenza a una visione corporativa della rappresentanza; dall’altro, invece, c’è un bisogno trasversale di inclusione strutturata nel sistema di tutele welfaristiche. Il difficile lavoro delle organizzazioni consiste nel ricomporre la frammentazione di bisogni e prospettive per aggregare i lavoratori su una base minima condivisa, sviluppando proposte coerenti ed efficaci. Dalla ricerca emerge un quadro composito delle condizioni e delle carriere professionali. Accanto a un gruppo ristretto di professionisti affermati vi sono, infatti, coloro che faticano a ottenere un pieno riconoscimento della propria professionalità sia in termini economici sia sociali. Sembrano piuttosto diffusi i casi di carriere discontinue, disomogenee rispetto al percorso di studio e limitate rispetto alle prospettive di miglioramento anche in quei settori professionali che nel passato garantivano buone possibilità di affermazione. Un ruolo fondamentale è giocato dalle reti familiari e sociali nel compensare gli effetti negativi dovuti ai nuovi assetti del sistema produttivo e ai fattori frenanti connessi alla crisi economica internazionale. In molti casi, infatti, i supporti familiari permettono di mantenere il fragile equilibrio necessario a rimanere nel circuito lavorativo, mentre chi dispone di reti sociali più solide riesce ad accedere a opportunità professionali più interessanti. In alcuni casi
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le reti sociali contribuiscono a mantenere e riprodurre la fragilità e le debolezze dei percorsi professionali, in un quadro complessivo che vede un arretramento dell’esigibilità dei diritti dei nuovi lavoratori autonomi e un sistema di tutele insufficiente.
39.4 Il lavoro autonomo: le problematiche emergenti Le organizzazioni impegnate nella rappresentanza dei lavoratori e in modo particolare quelle che operano nel settore terziario si trovano ad affrontare quotidianamente cambiamenti e sfide che impongono di aggiornare e ridefinire analisi, strategie e proposte. Uno dei fronti più complessi, per dimensione, articolazione interna e rapidità evolutiva, è quello dell’economia delle piattaforme. Sotto questa etichetta si raccoglie una variegata schiera di attività imprenditoriali dai fatturati milionari che erogano servizi attraverso piattaforme online. L’economia delle piattaforme, elemento fra i più dinamici dell’economia globale, nasce e si sviluppa a seguito della rivoluzione digitale e della contestuale diffusione capillare di reti di connessione; alla sua base vi è l’impiego massiccio di formule algoritmiche in grado di organizzare, gestire e valutare flussi di informazioni che regolano le relazioni fra gli utenti delle piattaforme, il commercio di beni e servizi, l’intermediazione di lavoro. I modelli economici che regolano le piattaforme impongono un orizzonte di azione globale, l’unico in grado di garantire solide economie di scala e potenti effetti di rete (Armstrong 2006; Parker e Van Alstyne 2005) in base a cui il valore della piattaforma può cresce al crescere del numero di utenti. Gli ingenti costi di implementazione necessari per operare su scala planetaria alimentano la formazione di oligopoli (poche aziende di grandi dimensioni) e monopoli. Innovazione continua e rapidità evolutiva connotano l’economia delle piattaforme, che nell’ultimo decennio ha contribuito a ridefinire in modo significativo modi di produzione e di relazione, alimentando quella che alcuni studiosi definiscono terza globalizzazione (Breznitz e Zysman 2013). Gli effetti prodotti dall’economia delle piattaforme esercitano una forte influenza anche sulle regole del Mdl. Sono numerosi i casi di piattaforme di intermediazione del lavoro che agevolano l’incontro fra committenti e lavoratori autonomi specializzati (per esempio, traduttori, informatici, designer, architetti) o lavoratori autonomi non specializzati (per esempio, bikers per le consegne a domicilio, dogsitter); in questo secondo caso si fa spesso riferimento alla cosiddetta gig economy, l’economia dei lavoretti. Da un lato le piattaforme di intermediazione costituiscono una rilevante innovazione di mercato che favorisce l’incontro di domanda e offerta abbattendo le barriere fisiche. Dall’altro sollecitano tutti i soggetti (sindacati, quasi-union, associazioni e network di professionisti) che ambiscono a sviluppare un’offerta strutturata di rappresentanza per i lavoratori, in gran parte autonomi, che operano in questi contesti. Appare rilevante sottolineare come i timori legati alle tendenze oligopolistiche dell’economia delle piattaforme e i rischi di svalutazione del lavoro generati da logiche commerciali fondate sulla concorrenza senza regole hanno sollecitato numerose reazioni nel mondo dell’attivismo digitale. Il dibattito statunitense ed europeo,
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alimentato da studiosi come Trebor Scholtz (2013) e Michel Bauwens (Bauwens e Kostakis 2014; Bauwens e Lievens 2015), guarda con crescente interesse alle numerose esperienze di cooperativismo di piattaforma (platform cooperativism) e al cosiddetto mutualismo 2.0. Le motivazioni che sostengono queste forme di attivismo imprenditoriale riguardano il bisogno di redistribuire più equamente il valore prodotto tra capitale e lavoro e quello di contrastare la crescente esternalizzazione del rischio d’impresa sui lavoratori, fornendo una cornice partecipativa e di governance democratica in grado di favorire percorsi professionali sostenibili e auto-determinati. Esistono diverse sperimentazioni nell’ambito del cooperativismo di piattaforma, alcune delle quali sono state elaborate a partire dalle forme classiche della tradizione cooperativa adattate ai nuovi contesti, prevedendo forme di coinvolgimento e responsabilizzazione di tutti i soggetti coinvolti. È questo il caso delle cooperative multistakeholder in cui la proprietà è distribuita e bilanciata fra i diversi soggetti che la compongono (freelancer, investitori, clienti, collaboratori). Interessanti esperienze di cooperativismo e mutualismo sono presenti anche in contesti tradizionali e si rivolgono a una vasta gamma di nuovi lavoratori autonomi. Nel contesto europeo l’esperienza di SMart (http://smart-eu.org/) è una delle più rilevanti poiché ha saputo rivolgersi a un’utenza numerosa, diversificata e internazionale riuscendo ad adattarsi ai diversi contesti culturali e legislativi nazionali. Nata in Belgio nel 1998 come rete di organizzazioni non profit coordinate da una fondazione, oggi è presente in forma di cooperativa in nove paesi europei (Belgio, Francia, Spagna, Svezia, Ungheria, Austria, Italia, Germania, Olanda) dove raccoglie più di 90.000 soci, incluse associazioni e imprese, che operano nei settori artistici, creativi, dell’informazione e della formazione (attori, musicisti, traduttori, blogger, scrittori, autori televisivi, editor, copy, giornalisti, fotografi). SMart offre servizi di gestione amministrativa e di supporto alla carriera professionale attraverso attività di formazione, di networking, di ricerca fondi, oltre alla consulenza fiscale, legale e contrattuale. L’adesione alla cooperativa, inoltre, prevede l’accesso a un fondo di garanzia mutualistico che permette ai soci lavoratori di essere pagati regolarmente alla scadenza dei contratti stipulati con i committenti, lasciando l’incombenza del recupero crediti alla cooperativa stessa, in cambio di una percentuale sui guadagni realizzati. La proposta elaborata da SMart mira a tutelare diverse tipologie di nuovi lavoratori autonomi garantendo loro indipendenza e libertà nelle scelte professionali. Inoltre, le logiche aggregative, laddove si realizzano in forma sostanziale, permettono di sviluppare attività strutturate di lobby nei confronti delle istituzioni e di pressione nei confronti dei soggetti di mercato eccessivamente orientati allo sfruttamento dei nuovi lavoratori autonomi. Cooperativismo e nuovo mutualismo rappresentano una parziale ma importante risposta di rappresentanza ai nuovi bisogni dei lavoratori autonomi e, se adeguatamente sostenuti anche da politiche pubbliche, potrebbero contribuire in maniera sostanziale alla regolazione di mercati che fino a oggi hanno visto uno sviluppo rapido e autoregolato. Vi sono tuttavia altre criticità e bisogni per cui le nuove organizzazioni della rappresentanza e quelle tradizionali devono ancora trovare una risposta. In primo luogo, se guardiamo alle dinamiche che caratterizzano una buona parte dell’economia
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delle piattaforme, vanno trovate forme di tutela per lavoratori che vivono in parti diverse del mondo ma competono per lo stesso incarico professionale. Per fare un esempio concreto, appare evidente come le condizioni e gli standard di vita di un designer che vive negli USA siano sensibilmente diversi da quelli di uno che vive in India. Quale dovrebbe essere, quindi, il giusto compenso per uno stesso servizio erogabile da punti diversi del mondo? Non esiste una risposta univoca poiché un compenso ritenuto insufficiente per alcuni potrebbe rappresentare un ottimo guadagno per altri. Di fronte a questa contraddizione alcune organizzazioni stanno promuovendo campagne di informazione e sensibilizzazione per sostenere l’identità professionale dei lavoratori delle piattaforme e favorire la trasparenza dei mercati in cui operano. Un esempio rilevante in tal senso è rappresentato dall’osservatorio online FairCrowdWork Watch promosso dal sindacato tedesco IG-Metall (www.faircrowdwork.org). Un secondo aspetto rilevante in tema di rappresentanza riguarda la capacità di azione e negoziazione delle organizzazioni. La frammentazione dei contesti professionali in cui sono maggiormente presenti i nuovi lavoratori autonomi, unitamente alla rarefazione degli spazi di lavoro (dall’azienda, al coworking, fino agli spazi domestici e informali come i bar e gli spazi pubblici dotati di accesso alla rete), rende oggettivamente più difficile il processo di aggregazione dei lavoratori e la sedimentazione di istanze collettive. A complicare la situazione si aggiunge una propensione alla mobilità, anche internazionale, dei nuovi lavoratori autonomi. In questo senso l’esistenza di cornici legislative nazionali complica, quando non ostacola del tutto, l’esigibilità di diritti professionali, fiscali, previdenziali. Se poi consideriamo l’intermediazione di domanda e offerta di lavoro delle piattaforme online, va riconosciuta un’oggettiva sproporzione fra raggio d’azione delle piattaforme, che operano su scala globale, e la possibilità di azione delle organizzazioni che tutelano i nuovi lavoratori autonomi: le normative nazionali infatti definiscono diversi standard di tutela e la loro elusione è difficilmente controllabile e sanzionabile. Una terza criticità endemica fra i nuovi lavoratori autonomi riguarda la certezza dei pagamenti. Se le forme di mutualismo sopra descritte hanno cercato di fornire soluzioni in tal senso, va riconosciuto che per moltissimi lavoratori autonomi il rischio di mancato o ritardato pagamento costituisce un problema sostanziale. Ancora una volta, la situazione è più critica per il lavoro online mediato dalle piattaforme. Il cliente può decidere se il servizio erogato è adeguato alle sue richieste e in caso negativo può scegliere di non pagare il servizio riassegnando l’incarico ad altri. Il funzionamento corretto di questo sistema quindi richiede equilibrio e correttezza da entrambe le parti, committente ed erogatore del servizio; tuttavia il margine discrezionale nel valutare la qualità dei servizi erogati rimane, in alcuni casi, piuttosto elevato. Per queste ragioni, fin dalla creazione delle prime piattaforme si assiste a fenomeni rilevanti di auto-organizzazione dei lavoratori. è il caso di Turkoptikon (https:// turkopticon.ucsd.edu; si veda anche Silberman e Irani 2016), un sito web e un’estensione del browser ideati dai lavoratori della piattaforma online Amazon Mechanical Turk (https://www.mturk.com/mturk/welcome), per valutare i criteri di retribuzione, la velocità di pagamento, la corretta valutazione da parte dei committenti e la loro reputazione.
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Letture di approfondimento Bologna S., Banfi D. (2011). Vita da freelance, Milano, Feltrinelli. Heckscher C., Carré F. (2006). «Strength in networks: Employment rights organizations and the problem of coordination», British Journal of Industrial Relations, 44(4), pp. 605-28. Ranci C. (a cura di) (2012). Partite Iva. Il lavoro autonomo nella crisi italiana, Bologna, il Mulino.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i Box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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40 Rappresentanza del lavoro e relazioni industriali a livello europeo di Bruno Cattero
40.1 Le relazioni industriali «in Europa» vs «a livello europeo» Se si considera la rappresentanza del lavoro su scala europea, occorre distinguere due prospettive: la prima focalizza la rappresentanza e le relazioni industriali «in Europa», la seconda «a livello europeo». Benché non manchino come vedremo delle forti interrelazioni, l’oggetto di ricerca è diverso: nel primo caso è costituito dai sistemi nazionali di relazioni industriali indagati in chiave comparata, nel secondo invece dalla costruzione e dallo sviluppo di relazioni industriali transnazionali interne al processo di integrazione europea. Il capitolo si concentra sulla seconda prospettiva, quella transnazionale comunitaria. Alcune considerazioni iniziali su rappresentanza e relazioni industriali «in Europa» sono tuttavia utili allo scopo. 40.1.1 Le relazioni industriali in Europa I sistemi di relazioni industriali (2 Box 40.1) degli stati membri dell’Unione Europea, se considerati nel loro insieme come caratteristica istituzionale della macro-regione geografica «Europa», presentano senza dubbio alcuni tratti comuni che possiamo aggettivare come «europei», primo fra tutti il contratto collettivo di settore (multi employer bargaining), che rappresenta «lo strumento fondamentale delle relazioni industriali pluraliste di stampo europeo» (Cella 2012, p. 30). L’unica eccezione è la Gran Bretagna, dove prevale la contrattazione a livello di impresa. Se comparati tra loro, tuttavia, emerge una forte eterogeneità in riferimento a tutte le componenti dei sistemi di relazioni industriali: i metodi (legge e contrattazione collettiva) sono diversamente combinati e articolati nei vari paesi; la partecipazione dei lavoratori a livello d’impresa (consiglio di amministrazione o di sorveglianza) non è diffusa dappertutto e, dove è presente, è regolata in modo diverso (2 Fig. 40.D1); la rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale è strutturata in alcuni paesi secondo il modello del «canale unico» (solamente sindacale), in altri secondo il doppio canale (uno di tipo associativo, ossia la rappresentanza dei lavoratori iscritti al sindacato, l’altro di tipo elettivo, con un organo di rappresentanza di tutti i dipendenti); in questo secondo caso, le funzioni dei due organi di rappresentanza variano da paese a paese. Ma non mancano le forme ibride come quella italiana, in cui la rappresentanza è sindacale (RSU), ma eletta da tutti i lavoratori, per quanto soltanto su liste
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sindacali (2 Fig. 40.D2). Anche il conflitto è diversamente regolamentato da paese a paese, rispetto sia alla titolarità del diritto di sciopero (in alcuni paesi, come l’Italia, è un diritto individuale, in altri un diritto riservato al sindacato) sia alle tipologie ammesse (per esempio, lo sciopero generale e/o politico non è ammesso dappertutto), così come assai diversificata è l’intensità del conflitto (dimensione o partecipazione, durata, frequenza). Se infine si guarda agli attori, il sindacalismo europeo è altrettanto variegato: oltre alla peculiarità britannica, dove prevale il sindacalismo di mestiere, esistono situazioni nazionali con un sindacato unico, altre con più sindacati divisi e in concorrenza più o meno intensa tra loro; nell’uno e nell’altro caso si sono spesso aggiunti negli ultimi due-tre decenni sindacati autonomi in alcuni comparti del pubblico impiego e dei servizi (su stili di sindacalismo e tipi di sindacato si veda il Cap. 38). Questa eterogeneità così accentuata è frutto di percorsi istituzionali nazionali iniziati con l’industrializzazione, influenzati dalla struttura economica e produttiva dei singoli paesi così come dalla loro storia politica e culturale; percorsi che si sono sedimentati – non senza fratture e mutamenti – nel corso del Novecento, dando vita a configurazioni con diversi tassi di istituzionalizzazione e stabilità. All’interno di ognuna di queste configurazioni si sono sviluppate e a loro volta sedimentate logiche e modalità di azione sindacale differenziate, non soltanto perché i sindacati sono diversi tra loro, ma anche e soprattutto perché sono diversi le risorse e i vincoli che caratterizzano i rispettivi assetti istituzionali, così come i contesti economico-produttivi e politici in cui agiscono le organizzazioni di rappresentanza del lavoro. D’altro canto la ricerca comparativa ha messo in luce come alcuni sistemi di relazioni industriali siano meno dissimili tra loro che rispetto ad altri. Una prima distinzione, più generale, è quella tra modelli di relazioni industriali «pluraliste» e «neocorporative» (2 Box 40.2). A partire da questa prima dicotomia sono state elaborate tipologie dei modelli di relazioni industriali in Europa; quella più articolata, proposta all’interno di una vasta ricerca pluriennale sui sindacati in Europa (Ebbinghaus e Visser 2000), individua quattro tipi, due interni al modello neo-corporativo (il «corporativismo nordico» e il «partenariato sociale» o corporativismo continentale) e due interni al modello pluralista (il «pluralismo anglosassone» e l’«antagonismo latino») (2 Tab. 40.D1). Lo stesso Visser, peraltro, avvertiva riguardo al limite intrinseco a tali tipologie: «possono dare l’impressione di troppa invarianza nel tempo e di troppa omogeneità all’interno di ogni paese» (Visser 1996, p. 27). In effetti i singoli sistemi di relazioni industriali erano già allora soggetti a dinamiche di erosione e pressioni trasformative generate dalla crisi e dal cambiamento del modello produttivo fordista (passaggio dalla grande impresa di produzione di massa a sistemi produttivi interaziendali, decentrati e reticolari), su cui le relazioni industriali si erano strutturate. La globalizzazione dell’economia (e al suo interno la costruzione del mercato unico in Europa) ha tuttavia accelerato sensibilmente quell’erosione perché ha dissolto via via i confini entro cui vigevano le regole del gioco dei singoli sistemi di relazioni industriali e imposto uno spazio sovranazionale; al suo interno le imprese, sempre meno condizionate dalle istituzioni politiche e sociali nazionali, possono giocare secondo
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le proprie regole – o imporre quelle apparentemente oggettive del «mercato». Quanto questo processo sia avanzato, e quali effetti dirompenti abbia innescato, lo si può cogliere nelle analisi preoccupate degli ultimi anni a cui rimandiamo (Bordogna 2012; Cella 2012, 2013; Crouch 2012). Qui interessa sottolineare che ragionare per «tipi» o «modelli» ha consentito di ridurre analiticamente la varietà dei sistemi di relazioni industriali, ma non ha cancellato ovviamente l’eterogeneità empirica. Tale eterogeneità ha accompagnato il processo di istituzionalizzazione delle relazioni industriali a livello europeo, condizionandolo in misura non determinante – come vedremo non è l’unico fattore in gioco – ma certo molto significativa. 40.1.2 Evoluzione e realtà delle relazioni industriali a livello europeo Nel paragrafo precedente abbiamo parlato di «sistemi di relazioni industriali» a livello nazionale. È possibile usare la stessa espressione per il livello europeo? La risposta, come vedremo in questo paragrafo, è negativa. Si può parlare di «livello europeo di relazioni industriali». Le ragioni di questa distinzione terminologica risiedono nel Trattato costitutivo dell’Unione Europea e nelle caratteristiche istituzionali degli elementi che vanno a comporre il «livello europeo». Queste, a loro volta, sono il frutto di un processo di istituzionalizzazione lento e tormentato, tuttora in corso. Procedendo per ordine, il Trattato costitutivo dell’Unione Europea, fin dalla sua prima versione (1957), delega alla Commissione Europea e alle altre istituzioni comunitarie competenze nella sfera economica finalizzate all’obiettivo di realizzare il mercato unico, mentre mantiene le competenze e l’autonomia regolatrice in materia sociale negli stati membri, e quindi al livello nazionale. Eventuali interventi comunitari in questo campo avrebbero dovuto rispettare la clausola «nel progresso», ossia orientarsi allo standard più avanzato tra quelli esistenti nei paesi membri dell’Unione (che allora si chiamava Comunità Economica Europea). In ogni caso il Trattato, nelle sue varie versioni, esclude esplicitamente competenze comunitarie in merito al diritto sindacale, alla contrattazione collettiva e al diritto di sciopero. Questa distinzione originaria è uno dei motivi principali della differente velocità dell’integrazione economica rispetto all’integrazione sociale e della loro conseguente «asimmetria», un termine ricorrente in letteratura. Asimmetria che in origine non era percepita come tale o al più era considerata temporanea: come recitava lo stesso Trattato, la costruzione del mercato unico avrebbe favorito lo sviluppo economico in tutti i paesi membri e per questa via avrebbe contribuito a ridurre le distanze tra loro, fino ad annullarle in una convergenza verso l’alto (2 Box 40.3). La storia dell’integrazione sociale – e specificamente delle relazioni industriali a livello europeo – inizia alla fine degli anni Sessanta, con i primi studi sulla «società per azioni europea»: l’obiettivo era quello di pervenire a una nuova forma giuridica transnazionale di società per azioni (societas europaea, d’ora in poi SE), di diritto comunitario, accanto o in sostituzione di quelle di diritto nazionale (in Italia la SpA), in quanto la si riteneva più funzionale al mercato comune in costruzione. In sé, dunque, il progetto non aveva nulla di «sociale», era tutto interno alla sfera dell’integrazione
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economica. Ma immediatamente emerse la questione dei diritti di partecipazione dei lavoratori a livello di impresa e la necessità di trovare una soluzione a livello europeo. Tali diritti erano infatti previsti e regolati negli ordinamenti nazionali di alcuni degli stati membri. La Commissione interpretò alla lettera il vincolo «nel progresso» menzionato poc’anzi e nella sua prima proposta di direttiva (1970) si orientò in modo manifesto al modello più avanzato tra gli stati membri di allora, quello vigente in Germania: la proposta prevedeva da un lato un comitato aziendale europeo competente sulle questioni riguardanti più stabilimenti in diversi paesi e dotato di ampi diritti di informazione e codeterminazione a livelli aziendale, inclusa la possibilità di stipulare contratti collettivi a livello europeo; dall’altro una rappresentanza dei lavoratori nel consiglio di vigilanza della SE, per la quale si prevedeva di conseguenza una struttura di governo «dualistica» e non «monistica» (solo il consiglio di amministrazione). Di lì a poco (1972) la Commissione presentò una proposta di direttiva analoga sul binario parallelo del diritto societario, quello concernente le imprese, con l’obiettivo di armonizzare le regolamentazioni nazionali sulla struttura delle società per azioni. Entrambe le proposte legislative incontrarono l’opposizione diversamente motivata delle parti sociali e dei governi, vennero successivamente modificate e ridiscusse più volte nell’arco di un ventennio senza mai raggiungere un accordo, e furono infine accantonate (Cattero 2011a). Lo stesso accadde con la proposta di direttiva volta ad armonizzare i diritti di informazione e consultazione dei lavoratori negli stati membri: presentata nel 1980, non superò l’opposizione di principio della parte imprenditoriale e fu ritirata nel 1986. La strategia dell’«armonizzazione» – o parificazione «nel progresso» – fu dunque perseguita per oltre vent’anni ma si rivelò un vicolo cieco: fallì completamente e lasciò un’impronta negativa indelebile nella «memoria comunitaria». Il primo embrione di un livello europeo di relazioni industriali – e anche il primo successo nel processo di istituzionalizzazione – sono i comitati aziendali europei (CAE) previsti dall’omonima direttiva del 1994, poi revisionata nel 2009. Il CAE è l’organo di rappresentanza dei lavoratori in imprese con almeno 1000 dipendenti, di cui 150 in almeno due stati membri dell’Unione Europea. Benché il termine richiami le proposte degli anni Settanta, la sostanza è completamente diversa, così come la logica della direttiva. Innanzitutto non è previsto alcun diritto forte di partecipazione decisionale o «codeterminazione» (il termine tedesco), ma soltanto di informazione e consultazione. Quanto ai diritti di negoziazione, la direttiva non li prevede ma nemmeno li esclude. Lo stesso vale per altri aspetti. La direttiva sui CAE rinuncia infatti a fissare prescrizioni sostanziali: come sarà configurato concretamente il CAE nell’impresa X o in quella Y, e quali saranno le sue competenze, è lasciato alla contrattazione fra l’impresa e i rappresentanti dei lavoratori. La direttiva si limita a fissare le procedure per l’iter negoziale e, sul piano sostanziale, a prevedere standard minimi circa la composizione e le competenze del nuovo organo transnazionale da applicarsi nel caso che le parti non trovino un accordo. Con la direttiva sui CAE sono cambiati radicalmente sia il sentiero istituzionale sia la logica regolativa rispetto al vicolo cieco dell’armonizzazione: la direttiva è un atto autonomo comunitario che si aggiunge agli ordinamenti nazionali esistenti, sen-
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za pretesa di modificarli1. Non solo: essa stabilisce come costituire un CAE, ma non come deve essere il CAE, salvo nelle prescrizioni minime contenute nelle norme sussidiarie. Queste sue caratteristiche sono condensate in letteratura con il concetto di «legislazione morbida» (soft law), perché povera di sostanza prescrittiva (hard law). Oggi il numero di CAE costituiti supera il migliaio, che corrisponde a una quota stimata intorno al 40 per cento di tutte le imprese che dovrebbero ricadere nell’ambito di applicazione della direttiva (2 Box 40.4). Il nuovo paradigma regolativo «soft law e contrattazione» caratterizza anche la successiva Direttiva sulla partecipazione nella società per azioni europea, emanata nel 2001 dopo quattro anni di intense discussioni e negoziazioni (anche in campo sindacale). Dei contenuti che caratterizzano le varie bozze degli anni Settanta e Ottanta non c’è più traccia. La direttiva SE si limita a fissare le procedure per la contrattazione tra impresa e rappresentanze dei lavoratori sul modello di partecipazione da adottare, lasciando per il resto la più ampia discrezionalità di scelta nella contrattazione tra le parti (2 Tab. 40.D2). Le norme accessorie in caso di fallimento delle trattative non prevedono in questo caso standard minimi di codeterminazione, validi in ogni caso, ma sono focalizzate sulla salvaguardia dello status quo (cosiddetto principio del «prima/dopo»): entrano in gioco se in una o più imprese partecipanti al processo di costituzione della nuova SE erano in vigore precedentemente forme di partecipazione dei lavoratori negli organi di governo dell’impresa. Viceversa, nel caso in cui (a) la nuova società sia fondata esclusivamente da imprese di paesi in cui non esiste alcuna regolamentazione in merito negli ordinamenti nazionali e (b) non si raggiunga un accordo per via negoziale sulla partecipazione negli organi societari, allora la SE può essere costituita senza strutture di codeterminazione. Secondo i dati aggiornati all’ottobre 2016, il numero di SE operative è 435, di cui ben la metà ha sede in unico paese, la Germania (aspetto su cui torneremo più avanti). Complessivamente, la partecipazione negli organi societari è prevista soltanto in 63 casi (14,5 per cento) (2 Box 40.5). Sul piano degli atti legislativi, la fase più feconda del processo di istituzionalizzazione fu completata infine dall’approvazione della Direttiva sui diritti di informazione e consultazione dei lavoratori (2002), che fino a quel momento erano previsti soltanto in casi specifici (licenziamenti collettivi, trasferimenti di impresa) (2 Box 40.6 e 2 Box 40.7). La portata di questa direttiva non è tuttavia comparabile con le precedenti, in quanto tali diritti erano già previsti in un numero significativo di stati membri dell’Unione, e non di rado con un livello di specificazione maggiore. Il terzo elemento costitutivo delle relazioni industriali a livello europeo è rappresentato dal dialogo sociale, termine prettamente comunitario che designa i rapporti tra le parti sociali e tra queste e le istituzioni europee. Il concetto e la prassi del dialogo sociale furono introdotti e avviati nel 1985 dalla presidenza Delors con gli incontri di Val Duchesse tra Commissione e parti sociali: la Confederazione Europea
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In questo modo fu possibile sfruttare il venir meno del vincolo dell’approvazione unanime da parte del Consiglio, abolito dal Trattato di Maastricht, e superare il veto della Gran Bretagna.
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dei Sindacati (CES) e le organizzazioni europee degli imprenditori privati (UNICE, dal 2007 rinominata BusinessEurope) e pubblici (CEEP) (2 Box 40.8). L’obiettivo della Presidenza Delors, impegnata in un difficile rilancio del processo di integrazione europea, era duplice: da un lato assicurarsi il consenso sindacale alla costruzione del mercato unico, dall’altro uscire dall’impasse in cui era bloccata la strategia dell’armonizzazione promuovendo in prospettiva lo sviluppo di una differenziazione delle fonti regolative (direttive e contratti collettivi). In questa prospettiva il processo di Val Duchesse era finalizzato a incentivare il formarsi di una sfera autonoma di interazione e confronto tra le parti sociali, istituzionalmente riconosciuta e legittimata, che aiutasse a superare l’opposizione di principio da parte imprenditoriale a qualsiasi direttiva in campo sociale e a ogni sviluppo della contrattazione collettiva a livello europeo (come invece chiedeva la CES). I primi anni del dialogo sociale produssero tuttavia soltanto una dozzina di pareri congiunti su temi di carattere generale e, dunque, nessun cambiamento significativo. Il punto di svolta si è avuto con l’Accordo sulla Politica Sociale allegato al Trattato di Maastricht (1992), ispirato, da parte della Commissione, al principio negotiate or we will legislate e che si è concretizzato in uno schema binario di produzione normativa: a fronte dell’intenzione della Commissione di legiferare in materia sociale, le parti sociali, consultate preventivamente, possono scegliere tra cooperare con la Commissione nella fase di elaborazione della direttiva in questione oppure negoziare tra loro direttamente, eventualmente anche soltanto su aspetti parziali. Nel secondo caso la Commissione sospende i suoi lavori per un periodo di tempo prefissato concesso alle parti sociali per raggiungere un accordo. In caso di esito positivo, l’accordo viene fatto proprio dalla stessa Commissione e trasformato in direttiva (o in parte di essa). Il meccanismo legislativo binario ha rappresentato una svolta per un duplice motivo. Da un lato ha rafforzato sensibilmente il ruolo delle parti sociali sul piano istituzionale, delegando loro un’attività di fatto paralegislativa (poi «costituzionalizzata» nel Trattato di Amsterdam del 1997). Dall’altro ha rappresentato un forte incentivo istituzionale allo sviluppo della contrattazione collettiva europea, sintetizzato con la formula della contrattazione «all’ombra della legge» (Bercusson 1992) o «della gerarchia» (Smismans 2008), ovvero della concreta «minaccia» di un’iniziativa legislativa della Commissione, ora oltretutto (un po’) meno condizionata sul piano dei contenuti perché non più soggetta al vincolo dell’approvazione unanime in Consiglio. Il meccanismo «negoziate o legiferiamo» ha modificato significativamente il contesto strategico del fronte imprenditoriale: da quel momento l’opzione di sedersi al tavolo di una trattativa e «co-regolare» direttamente, tanto più dati i rapporti di forza non sfavorevoli, è divenuta un’alternativa in alcuni casi più promettente che non affidarsi alla sola attività di lobbying informale sulla Commissione, dagli esiti più incerti. Sul piano prettamente istituzionale il dialogo sociale ha conosciuto, da allora a oggi, un indubbio sviluppo, cadenzato e strutturato dalle decisioni della Commissione di consolidare il dialogo sociale intersettoriale (o interprofessionale), riguardante l’economia nel suo complesso, e di promuovere (dal 1998) il dialogo sociale settoria-
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le, concernente settori specifici dell’economia. Il tutto è avvenuto con la costituzione di «comitati per il dialogo sociale» ai due livelli (al secondo, quello di settore, si contano al momento 43 comitati), interamente finanziati dalla Commissione che li sostiene anche sul piano organizzativo. A una struttura complessiva per certi versi barocca nel suo intreccio di livelli, tipologie, origine, luoghi e finalità di «dialogo», non ha corrisposto tuttavia una produzione normativa (accordi collettivi) altrettanto ricca (2 Box 40.9).
40.2 Le sfide interpretative: «euro-corporativismo» o «neo-volontarismo»? La comparsa dei primi embrioni istituzionali e delle prime evidenze empiriche di relazioni industriali a livello europeo coincide con il progressivo dispiegamento della globalizzazione dell’economia e i suoi effetti erosivi dei confini istituzionali nazionali. La domanda di ricerca chiave in una prospettiva socio-economica può essere formulata allora in termini polanyani (si veda il Cap. 6): le nuove istituzioni a livello europeo contribuiscono – come e in che misura – alla re-embeddedness dell’azione economica nell’Unione Europea e nei singoli stati membri? L’accordo sulla Politica Sociale e la sua successiva valorizzazione nel Trattato di Amsterdam, i primi successi del dialogo sociale (gli accordi quadro europei negli anni Novanta) e la direttiva sui CAE del 1994 sono stati interpretati da alcuni autori come gli albori di un «euro-corporativismo» (Falkner 1998; Knutsen 1997): a sostegno di questa tesi si sottolineava in particolare il ruolo attivo dell’attore pubblico nella legislazione volta a promuovere una sfera autonoma di contrattazione collettiva europea tra le grandi organizzazioni di interessi centralizzate nonché il riconoscimento del ruolo di quelle stesse organizzazioni, che si manifesta anche nelle consultazioni trilaterali del dialogo sociale, riconducibili alla prassi neo-corporativa della «concertazione». La tesi «euro-corporativa» è stata però rigettata proprio dagli esponenti più noti di questo filone interpretativo (Streeck e Schmitter 1991; Streeck 1994, 2000a, 2000b). In primo luogo si è sottolineato che gli attori sociali a livello europeo sono troppo deboli per una concertazione di tipo neo-corporativo. Sul versante sindacale, la confederazione (CES) e le federazioni sindacali sono frenate dall’eterogeneità sia degli interessi delle organizzazioni nazionali affiliate sia dei sistemi in cui operano, che rende difficile e lento trovare il minimo comun denominatore sulle questioni strategiche. Ne deriva un circolo vizioso: la scarsa efficacia organizzativa conferma i sindacati nazionali, che ne sono concausa, nella loro ritrosia a delegare un mandato contrattuale alla CES2 e a supportarla con adeguate risorse, e ciò rende le organizzazioni sindacali europee dipendenti dal supporto finanziario della Commissione, senza il quale non sarebbero in grado di sopravvivere. Ma la dipendenza finanziaria può
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Alcune organizzazioni, formalmente, nemmeno lo possiedono: è il caso della TUC britannica e del DGB in Germania, che a livello nazionale non hanno funzioni contrattuali.
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alimentare, anche solo per inerzia, un certo grado di «seduzione» (Martin 1996) e di «osmosi ideologica»3 rispetto alle politiche europee, indebolendo l’autonomia progettuale e le politiche sindacali. Sul versante datoriale la situazione è ancora peggiore: BusinessEurope è concepita e si concepisce come lobby, la cui logica di azione primaria è quella dell’influenza sulle istituzioni comunitarie, non quella negoziale. Su quest’ultimo terreno il mandato delle organizzazioni nazionali è anzi quello di non contrattare. Questa «passività strategica» (Schäfer e Streeck 2008) è diretta a bloccare ogni sviluppo di relazioni industriali a livello europeo, tanto più in una direzione neo-corporativa. Con associazioni di rappresentanza così deboli, e con il terzo attore – la Commissione – che non è paragonabile a un governo nazionale, interpretare le varie consultazioni nell’ambito del dialogo sociale europeo in termini «concertativi» risulta eccessivo e in ultima analisi fuorviante. L’analisi critica del «livello europeo» non si ferma agli attori, ma riguarda anche le istituzioni. Per Streeck (1997) i comitati aziendali europei non sono «né europei né comitati aziendali». Non sarebbero «europei» perché il binomio regolazione morbida, soltanto procedurale, e contrattazione tra le parti fa sì che ogni CAE rifletta piuttosto il modello di rappresentanza aziendale nazionale della casa madre (home country effect). L’eterogeneità delle relazioni industriali «in Europa» viene riprodotta tale e quale «a livello europeo». Inoltre non sarebbero «comitati aziendali» perché semplice organo di informazione e consultazione, privo di competenze negoziali come è invece la norma nei vari sistemi nazionali. Su questo sfondo, e orfani di una cornice istituzionale europea che includa un livello settoriale di contrattazione collettiva e una chiara distinzione di competenze tra gli attori, i CAE sono da intendersi piuttosto come parte integrante di un approccio regolativo più generale della Commissione orientato al modello pluralista e volontaristico anglosassone: non «euro-corporativismo» ma «neo-volontarismo» (Streeck 1995), complementare all’approccio di integrazione economica solamente «negativa» (Scharpf 1998), cioè volta esclusivamente a rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione del mercato unico. Formulata in questi termini l’analisi appare tuttavia profondamente influenzata da categorie e comparazioni «nazionali» (nel caso specifico, con il modello tedesco) e astrae completamente dal fallimento della lunga fase di armonizzazione – ovvero di «integrazione positiva» – verso un modello «europeo» omogeneo di sistema di relazioni industriali a livello di impresa. Se invece si parte proprio da quel fallimento, allora la direttiva sui CAE – che non ha conseguenze sui sistemi nazionali – può essere considerata in un’ottica transnazionale preferibile all’alternativa «nessuna direttiva», non ultimo perché crea connessioni lasche a livello istituzionale, non invasive rispetto ai sistemi nazionali di rappresentanza e alle relative identità e pratiche negoziali. In quest’ottica l’attenzione non resta focalizzata unicamente sulle «regole del gioco» istituzionali ma si allarga ai «giocatori»: alla volontà, possibilità e capacità dell’attore sindacale di sfruttare questo appiglio istituzionale, per quanto debole, nelle imprese multinazionali, e alle rispettive strategie imprenditoriali (Cattero 2011a).
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L’espressione è di Corinne Gobin (1997), cit. in Nunin (2001), p. 88.
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Ben più problematica appare la direttiva sulla partecipazione nella SE. Qui l’eterogeneità empirica è molto bassa, ma è un effetto derivante sia dai numeri (ancora?) molto modesti sia soprattutto dalla forte concentrazione della sua applicazione nella sola Germania. Il fenomeno non è casuale: la netta prevalenza di imprese «tedesche»4 trova la sua ragione principale nella possibilità per una SE di sottrarsi, almeno parzialmente, ai vincoli della legislazione nazionale sulla codeterminazione. Ciò vale in particolare per le imprese che operano il passaggio alla nuova forma societaria di diritto comunitario prima di oltrepassare le soglie occupazionali rilevanti per le forme di codeterminazione in Germania, rispettivamente 500 e 2000 addetti: nel primo caso la trasformazione in SE consente di eludere l’introduzione della Mitbestimmung, nel secondo di «congelarla» nella sua variante minore5. Inoltre la direttiva europea sulla SE regola le modalità di introduzione della partecipazione dei lavoratori a livello di impresa al momento della costituzione della SE e ne fa oggetto dell’autonomia statutaria dell’impresa stessa. Di per sé la direttiva non impedisce che, in un momento successivo, l’assemblea dei soci possa deliberarne l’abolizione modificando lo statuto. La futura sopravvivenza della Mitbestimmung non è più garantita dalla legge ma soltanto dalle norme contrattate al momento della sua introduzione. Nel caso tedesco la nuova istituzione a livello europeo innesca dunque processi di de-istituzionalizzazione nazionale (Cattero 2009) e alimenta i processi di dis-embedding dell’economia dal contesto socio-istituzionale, anziché contrastarli.
40.3 Due esempi di ricerche La ricerca empirica sulle relazioni industriali a livello europeo si è sviluppata a partire dalla fine degli anni Novanta ed è dunque molto giovane. L’approccio di gran lunga più diffuso è quello qualitativo, basato sulla comparazione di studi di caso generalmente in settori diversi (si veda il Cap. 19). Un altro filone di ricerca è l’analisi sistematica e comparata degli accordi (sui CAE e sulla SE) e/o di ogni altro documento co-firmato dalle parti sociali (tipicamente nell’ambito del dialogo sociale), che a prima vista appare di minore importanza, ma in realtà può fornire evidenze empiriche significative per valutare il livello qualitativo del processo di istituzionalizzazione in corso. Altre ricerche hanno riguardato, tra l’altro, lo sviluppo e le strategie politiche e organizzative di singoli attori collettivi (prevalentemente sul versante sindacale: la CES e le federazioni europee di categoria). Di seguito ci soffermiamo brevemente su due ricerche condotte con un approccio diverso: qualitativo (comparazione di studi di caso sui CAE) e quantitativo (survey sulla rappresentanza degli interessi negli organi di governo dell’impresa).
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Le virgolette sono d’obbligo: in realtà si tratta non più di imprese tedesche, ma di imprese europee con sede in Germania, per alcuni aspetti non più soggette al diritto societario tedesco. 5 Per le imprese con oltre 500 ma meno di 2000 dipendenti, i seggi riservati alla rappresentanza dei lavoratori sono limitati a un terzo dell’organo di sorveglianza.
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40.3.1 Il CAE come veicolo di europeizzazione delle relazioni industriali (ricerca qualitativa) Si tratta in realtà non di una ma di tre ricerche, condotte successivamente nell’arco di cinque anni, dal 1996 al 2000, su costituzione, prassi e (prospettive di) sviluppo dei CAE (Lecher, Nagel e Platzer 1999; Lecher, Platzer e Rüb 2001; Lecher, Platzner e Weiner 2002). Quel che le caratterizza è la stretta connessione tra loro come parte di un programma di ricerca sviluppatosi a partire dalla prima indagine, mentre le due successive consentono sia di ampliare la base empirica sia di riprendere e approfondire aspetti che via via emergono da un «oggetto» e un processo sociale inedito. Considerate insieme rappresentano, a tutt’oggi, il progetto di ricerca non soltanto pionieristico ma anche più ampio e approfondito sui CAE coordinato dallo stesso team di ricercatori. Le domande di ricerca esplicite e quelle che si lasciano riformulare a partire dall’esposizione degli autori sono centrate dapprima sul processo di costituzione dei CAE (quali attori l’hanno guidato? Che ruolo ha svolto il management? Come è stata interpretata la direttiva?) e sulla «vita interna» del nuovo organismo di rappresentanza (quali sono le strutture e i processi comunicativi interni, inclusi quelli con il management, e quelli con gli organi di rappresentanza nazionali e con i rispettivi sindacati? Quali quelli formali e quali quelli informali, e in che rapporto tra loro? Quali sono gli interessi, le percezioni e le aspettative degli attori coinvolti in queste nuove interazioni multilivello?). Nelle ricerche successive l’attenzione si allarga ai bisogni, alle possibilità e alle prospettive di rapporti reticolari, interaziendali, tra CAE di uno stesso settore, e alle politiche organizzative a tal fine da parte dei sindacati nazionali e delle rispettive federazioni europee. L’oggetto di indagine diventa l’evoluzione del CAE da semplice organo di informazione e consultazione a potenziale attore negoziale: sono rintracciabili sentieri di sviluppo in questa direzione su un terreno per gli attori stessi in gran parte inesplorato? Quali dinamiche si innescano tra gli attori ai diversi livelli, nazionali ed europeo? Per trovare risposte empiricamente fondate a queste e altre domande il disegno della ricerca ha previsto complessivamente 23 studi di caso equamente distribuiti in cinque settori (meccanico, chimico, alimentare, credito, assicurazioni) e in quattro paesi (Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia). La metodologia è prettamente qualitativa: gli studi di caso si basano sull’analisi documentale e su interviste in profondità con rappresentanti aziendali, manager, sindacalisti e membri delle associazioni imprenditoriali a livello nazionale ed europeo. La seconda ricerca ha contemplato anche due conferenze con i rappresentanti dei CAE oggetto di studio, nelle quali i risultati della rilevazione empirica sono stati discussi e integrati. La terza ricerca, infine, è stata arricchita con una componente quantitativa (questionario strutturato). In sede interpretativa gli autori hanno elaborato una tipologia di CAE articolata in quattro tipi: «simbolico» (esiste, ma di fatto non operativo), «di servizio» (all’azione di rappresentanza nei singoli paesi), «progettuale» (su singoli temi quali la formazione aziendale) e infine «partecipativo». Funzioni e attività di quest’ultimo tipo possono andare ben oltre quanto previsto dalla direttiva e dalle sue norme sussidiarie, a partire da procedure di consultazione maggiormente formalizzate fino a una vera e propria attività negoziale.
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40.3.2 La partecipazione a livello di impresa in Europa (ricerca quantitativa) La seconda ricerca (Waddington e Conchon 2016) si colloca a cavallo delle due prospettive illustrate all’inizio del capitolo. In senso stretto essa riguarda le relazioni industriali «in Europa» in quanto indaga le modalità di partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori negli organi di governo dell’impresa in tutti i paesi in cui è prevista – con forme, estensione e intensità diverse – via legge o contratto collettivo (sedici stati membri dell’UE e la Norvegia). In senso lato il suo orizzonte è il «livello europeo»; la ricerca ricomprende la partecipazione nelle SE, laddove esiste, con un duplice obiettivo: fornire materiale comparativo di riferimento per la rappresentanza transnazionale nella SE e contemporaneamente arricchire di evidenza empirica un dibattito comunitario sul controllo e il governo dell’impresa (la corporate governance) che resta ideologicamente orientato al solo modello anglosassone e al principio dello shareholder value (su questi temi si veda il Cap. 27). La ricerca è stata condotta tra il 2009 e il 2013 all’interno di un progetto più ampio su Corporate Governance and the Voice of Labour e rappresenta il primo caso di rilevazione empirica rappresentativa sul tema. I ricercatori hanno utilizzato lo strumento della survey con l’invio di un questionario strutturato all’intero universo dei rappresentanti dei lavoratori eletti o nominati nei consigli di sorveglianza o di amministrazione (17.450 in oltre 10.000 imprese). Il tasso di risposta è stato intorno al 24 per cento. Le due domande di ricerca principali concernono la prassi concreta della partecipazione nei diversi contesti istituzionali e la valutazione del proprio grado di influenza sui processi decisionali da parte dei rappresentanti dei lavoratori negli organi di governo dell’impresa. Corrispondentemente il questionario contiene sia domande molto specifiche sulla modalità di esercizio del proprio ruolo (organizzazione delle riunioni; codeterminazione dell’ordine del giorno; priorità; rete di contatti esterna all’organo di rappresentanza e modalità di utilizzo ecc.) sia di autovalutazione del proprio operato e dei margini di azione a disposizione (concezione del proprio ruolo; rapporti con gli azionisti e il management da un lato e, dall’altro, con la rappresentanza aziendale e/o sindacale interna e con i sindacati esterni; possibilità di influenzare le decisioni su temi chiave come, per esempio, le ristrutturazioni ecc.). In sede di valutazione il materiale è stato disaggregato e riordinato in cinque cluster che raggruppano i paesi con assetti istituzionali analoghi o simili e un sesto cluster concernente la SE di diritto comunitario. Complessivamente la ricerca integra così la tradizionale comparazione delle strutture e delle forme della partecipazione con un ricco materiale empirico sulla percezione soggettiva dei rappresentanti lungo il continuum (qui semplificato) «nessuna influenza – influenza – potere» sul processo decisionale concernente il livello strategico dell’impresa.
40.4 Le problematiche emergenti: tra relazioni industriali e «governance» Rispetto alla costruzione di una dimensione sociale del processo di integrazione europea, e al suo interno delle relazioni industriali, si distinguono di norma tre fasi: una
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prima fase (anni Cinquanta e Sessanta) in cui la dimensione sociale è sostanzialmente assente, una seconda fase caratterizzata dai tentativi di «armonizzazione» (anni Settanta e Ottanta) e di avvio del dialogo sociale, e una terza fase caratterizzata dal binomio soft law e contrattazione, che si estende dagli anni Novanta fino al 2004. A metà della decade scorsa inizia una fase di stagnazione, tanto che è la stessa Commissione, con la nuova presidenza Juncker, ad annunciare nel 2015 «un nuovo inizio per il dialogo sociale». Che cosa è successo? Da un lato il dialogo sociale in senso stretto è stato caratterizzato da un’espansione delle strutture (comitati settoriali) senza che a ciò abbia corrisposto un innalzamento della qualità degli esiti, che rimangono in gran parte documenti e pareri comuni non vincolanti. Ai tre accordi quadro intersettoriali degli anni Novanta non ne sono succeduti altri, perché con l’allargamento dell’Unione è diminuita la probabilità di decisioni a maggioranza del Consiglio su materie sociali. Il meccanismo di Maastricht «negoziate o legiferiamo» si è così inceppato e la pressione sulle associazioni imprenditoriali è venuta meno. Il giudizio sui pochi accordi a livello settoriale, «autonomi» o «di seconda generazione» perché stipulati volontariamente dalle parti sociali europee e non sotto la spada di Damocle di un intervento legislativo della Commissione, è controverso. I più critici li ritengono una parodia della contrattazione collettiva («a travesty of the real thing»: Marginson e Sisson 2004) e una duplicazione del «neo-volontarismo», perché alla contrattazione che sostituisce l’hard law sui CAE e la SE si aggiunge ora la rinuncia a regolare tramite direttive in favore di contratti firmati autonomamente dalle parti sociali. Nella maggior parte degli stati membri non vige la clausola erga omnes e quindi i contratti autonomi, a differenza delle direttive europee, non valgono per tutti, anzi: data la diminuzione generalizzata del grado di copertura della contrattazione collettiva in alcuni sistemi nazionali, essi valgono per sempre meno lavoratori. La loro applicazione a livello nazionale dipende inoltre dalla bontà delle relazioni endoassociative, che non è uguale dappertutto e non è soggetta a interventi sanzionatori da parte della Commissione, della Corte di giustizia europea (CGUE) o di autorità nazionali (Schäfer e Leiber 2009). Sul versante gius-sindacale il giudizio da parte di alcuni è invece «almeno in parte» positivo proprio sul terreno procedurale, in quanto si ritiene che tali accordi possano promuovere una «dinamica bottom-up multilivello» che valorizza l’autonomia normativa e favorisce l’europeizzazione dei sistemi interni di relazioni industriali (Giubboni e Peruzzi 2013; Peruzzi 2011). In questa chiave di lettura, pure ricca di stimoli, il concetto di contrattazione collettiva – che la nozione aconflittuale di «dialogo sociale» già rimuove sul piano semantico – sfuma però in quello più vago e sfuggente di governance settoriale. Ma se gli attori sono deboli (Par. 40.2), quale governance ci si deve attendere? Inoltre anche in questa prospettiva pesa il dato empirico dell’assoluta irrilevanza del dialogo sociale nella gestione della crisi economica e finanziaria e nella nuova «governance economica europea», tanto più se si considera che essa, oltre a condizionare i contenuti dello stesso dialogo sociale, arriva a mettere in discussione l’autonomia di contrattazione delle parti sociali in ambito salariale nei singoli stati membri (Erne 2012, 2016). La debolezza degli attori ci conduce alla questione cruciale e irrisolta del diritto di sciopero: è possibile, sul piano empirico, immaginarsi uno sviluppo delle relazioni
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industriali europee – e si può parlare di «relazioni industriali»? – senza scioperi? È immaginabile un reale e autonomo rafforzamento di organizzazioni sindacali europee «disarmate»? La questione dello sciopero è uscita dal limbo in cui era confinata in seguito a due controverse sentenze della CGUE sui casi Viking e Laval nel dicembre 2007 concernenti la legittimità di scioperi nazionali (rispettivamente in Finlandia e in Svezia) per imporre gli standard contrattuali locali in rapporti di lavoro con una dimensione transnazionale (2 Box 40.10). L’oggetto della controversia è il rapporto tra le «libertà fondamentali» del diritto europeo, concepite in termini economici, e il diritto di intraprendere azioni collettive a tutela delle condizioni di lavoro, un diritto sociale ancorato nelle costituzioni e nelle leggi nazionali. In entrambi i casi la CGUE ha affermato la necessità di un «bilanciamento», che nelle due sentenze tuttavia risulta di fatto sbilanciato a danno del diritto di sciopero di cui si limita la legittimità, circoscrivendo al contempo «la praticabilità della contrattazione nei rapporti di lavoro transnazionali» (Treu 2013, p. 46). Le sentenze della CGUE non sono oggetto di rilevanza soltanto per la discussione giuridica (si vedano, tra gli altri, Giubboni 2012; Sciarra 2013): essendo di livello sovraordinato (diritto primario) rispetto alle corti nazionali, tali sentenze incidono sugli ordinamenti dei singoli stati, arricchendoli in positivo o, viceversa, svuotandoli e imponendo una loro modificazione. Esse co-disegnano dunque i confini tra società e mercato, e insieme quelli dell’azione sociale, ma nella prospettiva asimmetrica generata da un ordinamento, quello europeo, che si è sviluppato a partire dal principio delle libertà economiche e in cui le quattro «libertà fondamentali» hanno valore «costituzionale». Su questo sfondo le sentenze Viking e Laval, pur con distinguo e ambiguità interpretative, da un lato confermano l’estensione di opportunità transnazionali per le imprese e, dall’altro, impongono (nuovi) confini all’azione collettiva nazionale, sebbene essa sia formalmente al di fuori delle competenze dell’Unione. La si fa rientrare concettualizzandola come un ostacolo al pieno dispiegamento dei mercati e delle libertà economiche sovraordinate, sulla base – secondo gli autori più critici (Höpner e Schäfer 2007; Scharpf 2010; Seikel 2015) – di un’interpretazione estensiva delle «quattro libertà» del Trattato che, qui come in altri casi, trasforma «questioni essenzialmente politiche in faccende apparentemente tecniche» (Höpner e Schäfer 2007, trad. it. 2007, p. 401) e impone liberalizzazioni di mercato per via giuridica. La principale novità rispetto alle sentenze Viking e Laval è stata l’adozione della Carta dei diritti fondamentali, nella quale si riconosce ora «il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive» (art. 28). Il suo inserimento nel Trattato di Lisbona (art. 6), entrato in vigore nel 2009, ha conferito alla Carta lo stesso valore giuridico dei Trattati. Tra i giuristi si discute intensamente in che misura ciò possa contribuire a ridefinire sostanzialmente il campo interpretativo della CGUE, ma al di là di questo non pochi osservatori stigmatizzano il ruolo di supplenza in cui è costretta la CGUE dall’assenza di iniziative politiche comunitarie volte a definire un quadro giuridico generale per l’esercizio dell’autonomia collettiva a livello transnazionale. D’altro canto aspettative in tal senso appaiono al momento irrealistiche
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sia perché accordi politici (e anche sindacali) in merito non sono all’orizzonte sia – e soprattutto – perché manca l’estensione empirica del fenomeno, tale da rendere politicamente necessario trovare un accordo. L’europeizzazione delle relazioni industriali ha seguito finora un percorso inverso alla storia dei sistemi nazionali, sintetizzato dalla formula structure before action (Turner 1996); una sintesi magistrale non soltanto del percorso, ma anche della debolezza genetica delle relazioni industriali a livello europeo. Ma è improbabile che il passo successivo sarà law before action. Da questo punto di vista il fenomeno emergente più rilevante anche sotto il profilo sociologico sono il diffondersi della contrattazione collettiva transnazionale nelle imprese multinazionali e i suoi esiti, i transnational company agreements. Pur essendo globale, il fenomeno ha una forte dimensione europea: almeno il 40 per cento degli accordi è stato stipulato finora in imprese con sede direzionale in Europa, con un ruolo decisivo da parte dei CAE e delle federazioni sindacali europee (2 Box 40.11). L’attivismo (di una minoranza) dei CAE rimanda all’importanza dell’omonima direttiva, ma si tratta di un processo spontaneo e autonomo, non riconducibile a un disegno istituzionale comunitario. Per ora gli accordi stipulati nel quadro della contrattazione collettiva transnazionale sono più simili a quelli generati nell’ambito del dialogo sociale che non ai contratti collettivi tipici dei sistemi nazionali di relazioni industriali: si tratta di accordi quadro, spesso generali, e monchi sul versante sanzionatorio. Pur con questi limiti, si tratta di un processo che inverte la logica del processo di istituzionalizzazione esclusivamente top-down finora dominante e che ha le sue radici non a caso nella grande impresa, lo stesso «luogo» decisivo per lo sviluppo e il consolidamento dei sistemi nazionali di relazioni industriali nel secolo scorso. «In fondo – scriveva Gian Primo Cella 25 anni fa – se i sistemi nazionali moderni di relazioni industriali sono nati con la contrattazione collettiva, sarà ancora attraverso di essa che sarà praticabile una loro trasformazione in chiave sovranazionale» (Cella 1992, p. 173). In questa prospettiva appare più plausibile attendersi una regolamentazione dello sciopero successiva, e non antecedente, allo sviluppo di una vera e propria contrattazione collettiva transnazionale, scioperi inclusi, nelle grandi imprese operanti in Europa.
Letture di approfondimento Cattero B. (2011). «Tra diritto e identità. La partecipazione dei lavoratori nel modello sociale europeo», Sociologia del lavoro, n. 123, pp. 117-35. Höpner M., Schäfer A. (2007). A New Phase of European Integration: Organized Capitalisms in Post-Ricardian Europe, MPIfG Discussion Paper 07/4, Cologne, Max Planck Institute for the Study of Societies (trad. it. «Una nuova fase dell’integrazione europea: i capitalismi organizzati nell’Europa post-ricardiana», Stato e mercato, n. 81, pp. 377407). Scharpf F.W. (2010). «The asimmetry of European integration, or why the EU cannot be a “social market economy”», Socio-Economic Review, 8(2), pp. 211-50. Streeck W., Schmitter P.C. (1991). «From national corporatism to transnational pluralism: Organised interests in the Single European Market», Politics and Society, 19(2), pp. 133-64.
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40 Rappresentanza del lavoro e relazioni industriali a livello europeo
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Turner L. (1996). «The Europeanisation of labour: Structure before action», European Journal of Industrial Relations, 2(3), pp. 325-44.
Risorse online Risorse integrative sui contenuti di questo capitolo, inclusi i box di approfondimento, la bibliografia completa, il glossario e domande di auto-verifica, sono disponibili online nell’area web dedicata al manuale sul sito dell’editore, http://mybook.egeaonline.it.
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Gli Autori
Filippo Barbera è professore associato di Sociologia Economica presso l’Università di Torino e affiliate presso il Collegio Carlo Alberto. Si occupa di innovazione sociale, sviluppo delle aree marginali e regolazione dell’economia fondamentale. Ivana Pais è professore associato di Sociologia Economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Si occupa di lavoro ed economia digitale. Alberta Andreotti è professore associato di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso l’Università Milano-Bicocca. È segretario e tesoriere del Research Committee 21 in Urban and Regional Research. I suoi interessi di ricerca riguardano le reti sociali e il capitale sociale, lo sviluppo urbano e regionale. Davide Arcidiacono è ricercatore in Sociologia Economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Membro del Research Network SCORAI (Sustainable Consumption Research and Action Initiative) e del gruppo di ricerca internazionale sulla foundational economy. I suoi interessi di ricerca riguardano i modelli di regolazione, l’analisi dei consumi e degli stili di vita, il consumerismo e la sharing economy. Gianluca Argentin è ricercatore presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Si occupa di valutazione controfattuale, soprattutto mediante sperimentazioni controllate in ambito educativo, e di analisi delle politiche per gli insegnanti. Marco Arlotti è ricercatore RTD junior in Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano le politiche sociali, con una particolare attenzione alla dimensione territoriale e multi-livello delle politiche. Maurizio Avola è professore associato di Sociologia Economica e del Lavoro presso l’Università di Catania. È componente del consiglio direttivo della Società Italiana di Sociologia Economica. I suoi interessi scientifici riguardano prevalentemente il mercato del lavoro, lo sviluppo locale, i rapporti tra economia formale e informale. La differenziazione territoriale Nord-Sud che caratterizza l’Italia rappresenta un costante punto di riferimento nel suo percorso di ricerca. Laura Azzolina è professore associato di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso l’Università di Palermo. I suoi interessi di ricerca prevalenti sono relativi ai processi economici in relazione al territorio, alle istituzioni e al loro cambiamento.
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Fondamenti di sociologia economica
Gabriele Ballarino è professore ordinario di Sociologia Economica presso l’Università di Milano. Si occupa del rapporto tra istruzione, mercato del lavoro e sistema economico dal punto di vista della stratificazione sociale. Davide Barrera è ricercatore in Sociologia presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino e research affiliate presso il Collegio Carlo Alberto. Nella sua attività di ricerca si occupa prevalentemente di reti sociali e problemi di cooperazione, temi sui quali ha condotto diversi esperimenti di laboratorio. Sonia Bertolini è professoressa associata di Sociologia del Lavoro presso l’Università di Torino. Ha partecipato e coordinato numerose ricerche sul tema della flessibilizzazione del mercato del lavoro in Europa, dell’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, dell’insicurezza lavorativa, della transizione all’età adulta e all’autonomia dei giovani, della conciliazione famiglia-lavoro, della genitorialità e della sociologia delle professioni liberali e artistiche. Federico Bianchi è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Brescia, dove collabora al Research Group on Experimental and Computational Sociology (GECS). I suoi interessi di ricerca riguardano le relazioni di scambio economico e sociale e i sistemi di valutazione della ricerca scientifica, applicando prevalentemente l’analisi delle reti e la simulazione computazionale. Paolo Borghi è ricercatore freelance e dottorando in Studi Urbani (URBEUR) presso l’Università Milano-Bicocca. Fa parte del gruppo di ricerca del progetto europeo I-Wire, Independent Workers and Industrial Relations in Europe, coordinato dall’Università di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano le trasformazioni del lavoro, i percorsi di partecipazione e rappresentanza in ambito lavorativo e nei movimenti sociali, i processi di innovazione sociale. Vando Borghi insegna Sociologia dello Sviluppo e Sociologia dell’Organizzazione presso l’Università di Bologna. Esercitati su terreni empirici differenti, i suoi interessi di ricerca ruotano attorno ai temi e ai problemi delle basi sociali del capitalismo e della democrazia. Luigi Burroni è professore associato di Sociologia Economica presso l’Università di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano l’analisi comparata dei modelli di capitalismo e lo studio dei processi di sviluppo locale e regionale. Alessandro Caliandro è lecturer in Branding and Digital Media presso la Middlesex University London. È coordinatore scientifico del Centro Studi Etnografia Digitale dell’Università di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano i metodi digitali e la cultura di consumo. Giovanni Carrosio fa parte del gruppo tecnico a supporto della Strategia Nazionale Aree Interne presso il Dipartimento Politiche di Sviluppo della Presidenza del Consiglio dei Ministri. È stato docente a contratto nelle università di Padova, Trieste e allo IUAV di Venezia. Si occupa di sviluppo locale, coesione territoriale, questioni ambientali e transizione energetica. Bruno Cattero è professore associato di Sociologia Economica e del Lavoro presso l’Università del Piemonte Orientale. È stato ricercatore presso l’Università di Göttingen e assistente presso l’Università di Francoforte sul Meno. I suoi interessi di ricerca riguardano il modello sociale europeo, la corporate governance, il capitalismo finanziario e la digitalizzazione.
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Gli Autori
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Guido Cavalca è ricercatore in Sociologia Economica presso l’Università di Salerno, dove insegna Sociologia dell’Organizzazione. Si occupa di mercato del lavoro, in particolare nuove forme di lavoro e rappresentanza sociale dei «nuovi» professionisti, di disuguaglianze sociali e povertà, economia sociale e solidale e fabbriche recuperate. Joselle Dagnes è ricercatrice post-doc presso l’Università di Torino, dove si occupa di processi di regolazione dell’economia, mercati finanziari e criminalità organizzata. Paola De Vivo insegna Sociologia Economica e Politiche per lo Sviluppo Territoriale presso l’Università di Napoli Federico II. La sua attività scientifica è focalizzata sui temi dell’impresa, dello sviluppo e delle politiche territoriali. Ivana Fellini è ricercatrice in Sociologia dei Processi Economici del Lavoro presso l’Università Milano-Bicocca, dove insegna Sociologia del Lavoro. I suoi interessi di ricerca riguardano i caratteri strutturali e le trasformazioni del mercato del lavoro in prospettiva comparata, con particolare attenzione all’inserimento degli immigrati e al cambiamento dell’occupazione e del lavoro nell’assetto terziario. Simone Gabbriellini è Chief Data Scientist presso DocDelta Inc., start-up statunitense che ha contribuito a co-fondare. Ha conseguito un PhD in Storia e Sociologia della Modernità presso l’Università di Pisa. I suoi interessi di ricerca spaziano dalla comunicazione online alla diffusione di innovazioni, dai modelli predittivi di turnover a quelli di evasione fiscale. Alberto Gherardini è ricercatore post-doc presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze. I suoi principali interessi scientifici riguardano l’innovazione economica, lo sviluppo locale e regionale e, più in generale, la political economy comparata. Lidia Greco è professoressa associata di Sociologia Economica e del Lavoro presso l’Università di Bari. Si occupa prevalentemente di sviluppo economico e industriale, di politiche e di mercato del lavoro e di genere e tecnologie. Rosangela Lodigiani è professore associato di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. È membro del comitato direttivo del Centro di ricerca Welfare, Work, Enterprise, Lifelong Learning (WWELL) – afferente al Dipartimento di Sociologia della stessa università. I suoi interessi di ricerca riguardano le politiche del lavoro e di inclusione sociale attiva, le trasformazioni dei sistemi di welfare in ottica comparata, le innovazioni del welfare territoriale. Moreno Mancosu è post-doc fellow presso il Collegio Carlo Alberto. I suoi principali interessi di ricerca comprendono la metodologia della ricerca sociale, il comportamento politico e i processi di diffusione delle innovazioni. Cecilia Manzo è assegnista di ricerca in Sociologia Economica presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze. Ha svolto diverse attività di ricerca su innovazione, economia collaborativa, digital economy e sviluppo locale.
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Fondamenti di sociologia economica
Mauro Migliavacca è ricercatore in Sociologia Economica presso l’Università di Genova, dove insegna Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro e Diseguaglianze Sociali e Politiche di Welfare. Si occupa di politiche sociali, di analisi della disuguaglianza e di vulnerabilità sociale, con particolare attenzione alle dinamiche che interessano le trasformazioni del mercato del lavoro, la famiglia e la transizione alla vita adulta, a livello italiano ed europeo. Enrica Morlicchio è professore ordinario di Sociologia Economica nel Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Napoli Federico II e annual visiting professor presso l’Università Cattolica di Lovanio. I suoi interessi di ricerca riguardano la povertà urbana, le trasformazioni del Mezzogiorno d’Italia, le forme di rappresentanza di soggetti marginali sul mercato del lavoro. Rosy Musumeci è assegnista di ricerca in Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino, nell’ambito del progetto Except (Horizon 2020). I suoi interessi di ricerca riguardano gli effetti dell’insicurezza lavorativa sulla vita di coppia, la transizione alla genitorialità e all’età adulta, la conciliazione famiglia-lavoro. Nicola Negri è stato professore ordinario di Sociologia Economica presso l’Università di Torino. La sua attività di studio e ricerca ha riguardato temi attinenti la stratificazione sociale, le disuguaglianze, la povertà, le politiche sociali, la teoria sociale applicata. Giorgio Osti insegna Sociologia del Territorio e Sociologia delle Migrazioni presso l’Università di Trieste. Ha promosso reti di ricercatori sui temi dell’ambiente e delle aree fragili. I suoi interessi di ricerca riguardano i processi di sviluppo locale, le relazioni socio-spaziali e più recentemente energia e sistemi di accumulo. Nazareno Panichella è ricercatore in Sociologia Economica all’Università di Milano. Si occupa di migrazioni, istruzione e fertilità dal punto di vista della stratificazione sociale. Emmanuele Pavolini è professore associato di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso l’Università di Macerata. I suoi interessi di ricerca sono prevalentemente orientati allo studio comparato dei sistemi di welfare. È membro del Board di ESPAnet Europa e Italia (The European Network for Social Policy Analysis) ed «esperto nazionale» per l’Italia per il network ESPN della Commissione Europea (European Social Policy Network). Roberto Pedersini insegna Sociologia Economica presso l’Università degli Studi di Milano. I suoi principali interessi di ricerca riguardano la regolazione e le politiche del mercato del lavoro e le relazioni industriali. Fa parte dell’Executive Committee dell’International Labour and Employment Relations Association (ILERA). Antonello Podda è dottore di ricerca in Sociologia Economica. I suoi interessi di ricerca comprendono il capitale sociale, lo sviluppo locale e la valutazione delle politiche pubbliche, soprattutto tramite lo strumento della social network analysis. Giancarlo Provasi ha insegnato nelle università di Trento, Parma e Salerno. Attualmente è professore ordinario di Sociologia dei Processi Economici e del Lavoro presso l’Università
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Gli Autori
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di Brescia. È autore di numerosi contributi sulla teoria dell’azione sociale e sul rapporto tra economia e istituzioni sociali. Francesco Ramella è presidente della Società Italiana di Sociologia Economica (SISEC). Insegna Sociologia dello Sviluppo all’Università di Torino, dove dirige il corso di laurea in Scienze Politiche e Sociali e il master internazionale in Public Policy and Social Change (MAPS) presso il Collegio Carlo Alberto di Moncalieri. Si occupa di temi legati alla sociologia dello sviluppo e dell’innovazione. Roberto Rizza è professore ordinario di Sociologia Economica presso l’Università di Bologna. Coordina il corso di laurea triennale in Sociologia presso la stessa Università, campus di Forlì. I suoi interessi di ricerca riguardano i legami tra mercato del lavoro e politiche del lavoro, il neo-istituzionalismo nella sociologia economica. Sara Romanò è assegnista di ricerca presso l’Università di Torino. I suoi interessi di ricerca riguardano le reti sociali, la disuguaglianza, lo sviluppo e le transizioni al mercato. Enrico Sacco è assegnista di ricerca in Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Napoli Federico II, dove collabora agli insegnamenti di Sociologia Economica e di Politiche per lo Sviluppo Territoriale. I suoi interessi investono il campo della sociologia dello sviluppo, soprattutto in riferimento ai processi di mutamento e modernizzazione sociale. Angelo Salento è professore associato di Sociologia Economica e del Lavoro presso l’Università del Salento. I suoi interessi di ricerca riguardano prevalentemente le trasformazioni della regolazione dell’economia e del lavoro e i processi di finanziarizzazione. Dal 2014 è impegnato in un programma di ricerca internazionale sulle trasformazioni e sulle prospettive dell’economia fondamentale (foundational economy). Federica Santangelo è professore a contratto di Sociologia Economica presso l’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca riguardano le disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro e la violenza contro le donne nelle relazioni di intimità. Marco Santoro è professore ordinario di Sociologia Generale presso l’Università di Bologna. Si occupa di storia delle scienze sociali, storia e sociologia delle idee, produzione e consumo culturale, criminalità organizzata. Laura Sartori è professoressa associata di Sociologia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca riguardano la sociologia del denaro e le monete complementari, la sociologia dei disastri e le strategie di riduzione del rischio, il digital divide e le disuguaglianze digitali, il genere e la partecipazione politica. Gemma Scalise è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Firenze. I suoi interessi di ricerca riguardano le politiche di inclusione, di regolazione del mercato del lavoro, lo studio delle idee di policy e della loro implementazione. Rocco Sciarrone è professore ordinario di Sociologia Economica presso l’Università di Torino, dove è direttore del Laboratorio di Analisi e Ricerca sulla Criminalità Organizzata
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Fondamenti di sociologia economica
(LARCO). Ha svolto numerose ricerche sul fenomeno mafioso, con attenzione al radicamento territoriale, ai processi di espansione in aree non tradizionali e ai rapporti di collusione in ambito economico. Elena Sinibaldi collabora con le società di ricerca Prospettive di Torino e Iris Ricerche di Prato. Ha conseguito un PhD in Istituzioni, Amministrazioni e Politiche Regionali (IAPR) presso l’Università di Pavia. I suoi interessi di ricerca riguardano la rappresentanza del lavoro e le politiche per lo sviluppo locale. Flaminio Squazzoni è professore associato di Sociologia Economica presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università di Brescia. I suoi interessi di ricerca riguardano le norme sociali e il comportamento economico, con un approccio prevalentemente sperimentale e computazionale. Luca Storti è ricercatore in Sociologia Economica presso l’Università di Torino, dove insegna Economia e Istituzioni. Ha svolto ricerche sul tema dell’imprenditorialità, dello sviluppo locale e del fenomeno mafioso, con attenzione ai processi espansivi in aree non tradizionali, nazionali e internazionali, e all’inserimento degli attori mafiosi nell’economia (formalmente) legale.
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Questo manuale è rivolto agli studenti di sociologia economica e a chi si avvicina per la prima volta alla disciplina. Nella prima parte (Gli autori di riferimento) viene illustrata la rilevanza degli autori classici e contemporanei per la comprensione delle dinamiche e dei problemi della società odierna. La seconda parte (La cassetta degli attrezzi) vuole socializzare gli studenti all’importanza dei metodi e delle tecniche di ricerca empirica, mostrando che la sociologia economica è in grado di rispondere in modo scientifico a domande di ricerca teoricamente rilevanti. La terza parte (Temi e percorsi di ricerca) si focalizza su vecchi e nuovi temi della disciplina, con uno sguardo sulle problematiche contemporanee: dal mondo dell’impresa, al mercato del lavoro, al rapporto con la finanza, alle dinamiche di sviluppo locale. Il manuale è corredato da un ampio apparato digitale di risorse didattico-funzionali fruibili online.
Barbera · Pais
Filippo Barbera è professore associato di Sociologia Economica presso l’Università di Torino, dove insegna Sviluppo Locale e Teoria Sociale Applicata, e affiliate presso il Collegio Carlo Alberto (Moncalieri). Tra le sue pubblicazioni recenti: Il capitale quotidiano. Un manifesto per l’economia fondamentale (a cura di, con J. Dagnes, A. Salento e F. Spina, Roma, 2016) e L’isola che c’è. Azione pubblica e microcredito in Sardegna (con A. Podda, Milano, Egea, 2016).
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Ivana Pais è professore associato di Sociologia Economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Si occupa di lavoro ed economia digitale. Tra le sue pubblicazioni recenti: Crowdfunding. La via collaborativa all’imprenditorialità (con P. Peretti e C. Spinelli, Milano, Egea, 2014) e La rete che lavora. Mestieri e professioni nell’era digitale (Milano, Egea, 2012).
a cura di
Barbera Pais
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fondamenti di sociologia
economica Dal XIV secolo alla crisi di inizio XXI
SECONDA EDIZIONE MyBook http//mybook.egeaonline.it MyBook consente l’accesso ai contenuti integrativi testuali e multimediali, alla BookRoom, all’applicazione EasyBook e allo scaffale degli acquisti.
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