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Italian Pages 240 Year 2015
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Lettere
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Emanuele Zinato Letteratura come storiografia?
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Mappe e figure della mutazione italiana
Quodlibet
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Prima edizione: marzo 2015 © 2015 Quodlibet Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa a cura di pde Promozione srl presso lo stabilimento di Legodigit srl - Lavis (tn) isbn 978-88-7462-697-7
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Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari dell’Università degli Studi di Padova.
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Indice
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9 Introduzione: letteratura come storiografia?
17 Laboratori e strumenti 19 41 55 79 91
i. «Mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «Officina», tra storia e prefigurazione ii. L’esperienza del «Menabò» iii. Il lavoro non è (solo) un tema letterario: la letteratura come antropologia economica iv. Ritorno del represso e storia letteraria: Francesco Orlando teorico “controtempo” v. Figure animali nella narrativa italiana del secondo Novecento: Sciascia, Primo Levi, Calvino, Volponi, Morante
107 Autori e opere 109 119 133 149 165 179 193 201
vi. Goffredo Parise a New York: gli oggetti della mutazione vii. Sesterzo energetico. Scrittura e denaro in Paolo Volponi viii. L’«Angue Nemico»: note su Paesaggio con serpente di Franco Fortini ix. Primo Levi poeta-scienziato: figure dello straniamento e tentazioni del non-senso x. Ibridazione fra generi e prefigurazione poetico-saggistica nella scrittura di Leonardo Sciascia xi. Angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in Aracoeli di Elsa Morante xii. L’inconscio in polvere degli italiani: Luigi Di Ruscio xiii. Il saggismo lirico di Eraldo Affinati
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indice
xiv. Emigrazione: lo spazio intersoggettivo nella poesia di Eugenio De Signoribus xv. L’asimmetria e l’attrazione. Pittura e chimica dei sentimenti ne L’amore normale di Alessandra Sarchi
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232 Nota ai testi 233 Indice dei nomi
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A Darietta
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Introduzione: letteratura come storiografia?
Non come sono andate le cose, ma come sono andate per i muratori: a questo vogliono parare le Domande di un lettore operaio. La scienza non può dargli una risposta: si occupa di potenze, nazioni, popoli, alleanze, gruppi d’interesse, non mai di uomini. Uomini che sono vissuti prima di noi, li incontriamo solo nella letteratura. H. M. Enzensberger, Letteratura come storiografia1
1. Le parole-chiave presenti nel titolo e nel sottotitolo di questo libro, e rese in qualche misura provocatorie dalla forma interrogativa, necessitano di una spiegazione. Letteratura come storiografia è il titolo di un saggio di Enzensberger che uscì nel luglio 1966 sul «Menabò-Gulliver», la leggendaria rivista europea coordinata da Francesco Leonetti e diretta da Elio Vittorini e da Italo Calvino. Da Vittorini, già ammalato, fu progettato un numero tutto tedesco affidato appunto a Enzensberger: il nono fascicolo, corredato di campioni testuali del Gruppo 47, da Walser a Kluge, da Weiss a Johnson. Il saggio di Enzensberger, che lo introduce, delinea una ricostruzione originale della letteratura tedesca del dopoguerra e un’ipotesi teorica fondata sulla differenza fra storiografia (un testo di Golo Mann) e letteratura (una pagina di Berlin Alexanderplatz di Döblin). Entrambi i testi cercano di fare il punto su quanto è accaduto a Berlino nell’anno 1928, ma lo storiografo guarda ai dati sull’incremento della disoccupazione, lo scrittore presenta invece il punto di vista soggettivo di un passante nella metropoli, con le drogherie, le vetrine e il profumo di trippa. La letteratura, scrive Enzensberger, custodisce «nella penombra delle opere» le «tracce dei dimenticati». 1
«Il menabò», 9, luglio 1966, p. 14.
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letteratura come storiografia?
Negli anni cruciali del «boom» economico (avvenuto in Germania quasi un decennio prima che da noi), con il progetto del «Menabò-Gulliver» si cerca forse per l’ultima volta di «superare la separatezza del lavoro intellettuale senza rinunciare alla specificità della produzione artistica»2. È davvero, questa (che aveva caratterizzato a esempio il sodalizio di «Officina»), un’esperienza inattingibile nel nostro presente omologato e “senza trauma”? Forse non è così se, come scriveva Franco Fortini, la sola storia che conti davvero, la sola veramente traumatica, è quella cui dobbiamo la nostra nascita. E noi siamo, nella quasi totalità, figli e nipoti della mutazione: da ciò la necessità di interrogare le scritture del secondo Novecento. Mutazione è un concetto di origine genetica, variamente utilizzato come metafora per definire la trasformazione antropologica degli italiani durante l’irruzione della cultura dei consumi3. Se le migrazioni interne, la motorizzazione, la paleotelevisione, l’espansione dei consumi, la scolarizzazione di massa, hanno avuto luogo già negli anni del boom, tra 1958 e 1963, esse deflagrano come contraddizioni e divengono “inconscio politico” nel quindicennio successivo. È la soglia, cruciale e inesplorata, che Giulio Bollati, riferendosi agli scrittori che l’hanno attraversata, ha chiamato «landa sconosciuta della modernizzazione»: In Volponi la modernità industriale si interiorizza in un misterioso impulso all’unicità di pensiero, senso e materia; Pasolini si cala – come un Baudelaire intenerito – negli inferni urbani e suburbani indotti da quella; Calvino la traduce in ingegnose ed evasive metafore scientifiche. […] Per questi scrittori la società non è un dato, ma un’ipotesi. Scrittori che hanno continuato in proprio il lavoro che la sinistra (quella comunista in primo luogo) ha lasciato a mezzo col risultato di aprire la strada a una concezione del mondo come «dato», e non come una continua, responsabile «costruzione» umana; aprendo quindi la strada a un neoliberismo di fatto, molto prima che spuntassero all’orizzonte i teorici del neoliberismo e del neocontrattualismo4. 2 Giovanna Gronda, Premessa in Id., Per conoscere Vittorini, Mondadori, Milano 1979, p. 9. 3 Cfr. Eugenio Montale, Mutazioni (1949), in Id., Auto da fé, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 86-89; Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990; Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango, Roma 2006 e Alfonso Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007. 4 Giulio Bollati, L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983, pp. 195-207.
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introduzione: letteratura come storiografia?
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Come la “mutazione” italiana interagisca con la nozione, oggi per molti già desueta, di “postmoderno” è una questione aperta. Il dibattito, ricostruito da Monica Jansen5, ha messo in luce posizioni assai diverse: a esempio, negli anni Novanta, quelle di Remo Ceserani e di Romano Luperini. Il primo, convinto che la svolta che caratterizza i processi culturali e il sensorio umano della contemporaneità sia epocale, il secondo propenso viceversa a considerare il postmoderno una fase interna al moderno. Credo che l’epoca del dopo, con i suoi connotati (citazionismo, intreccio ammiccante e irriverente di materiali alti e massmediatici), e i suoi postulati (fine della Storia e delle Grandi Narrazioni), presupponesse un “superamento” della modernità che era invece l’estremizzazione dei suoi presupposti. A ben guardare, la stessa proposta del sociologo polacco-inglese Zygmunt Bauman di descrivere i fenomeni postmoderni con la metafora della Liquid Modernity6 si fonda infatti su una delle più famose figure marxiane del moderno nella sua epoca classica: «Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria»7. Dunque mi sembra convincente, per definire il contemporaneo, il ricorso alla categoria di ipermodernità, elaborata in Francia e ripresa in Italia in un recente libro di Raffaele Donnarumma: la mutazione, di cui siamo figli, si può intendere anche e soprattutto come accelerazione, ipercinetica e compulsiva, dei processi socioeconomici e culturali più tipici del moderno8. 2. Tutti i saggi riuniti in questo volume riguardano autori, testi, esperienze e problemi dal “miracolo” agli “anni Zero” e riprendono l’idea di letteratura come forma simbolica che, nella modernità, ha avuto la possibilità di accedere a sfere dell’esistenza e dell’esperien5
Monica Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia, Cesati, Firenze 2002. Zygmunt Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2003. 7 Karl Marx, Friedrich Engels, Manifesto del partito comunista, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 87. La metafora marxiana ha suggerito il titolo del libro di Marshall Berman All That Is Solid Melts into Air. The Experience of Modernity (Simon & Schuster, New York 1982), tradotto in Italia col titolo di L’esperienza della modernità, il Mulino, Bologna 1985 e ripubblicato nel 2012 col titolo Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. 8 Raffaele Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, il Mulino, Bologna 2014, pp. 101-108. 6
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letteratura come storiografia?
za cui la storiografia non ha accesso9. Questi requisiti del resto non sono propri solo del romanzo e non sono evaporati con l’accelerazione della modernità: anche il saggio10, ibrido di tensione oggettiva e invenzione soggettiva, il reportage e la poesia dialogica, plurivoca e narrativa del secondo Novecento11, si sono assunti un compito analogo. Nell’epica della coscienza, dell’interiorità e della percezione soggettiva, risorse specifiche della letteratura del Novecento, il non contemporaneo può riaffiorare come contemporaneo, come ha scritto Ernst Bloch in Eredità del nostro tempo (1935) per spiegare le zone di arretratezza psicosociale sulle quali l’ideologia nazista faceva leva. E, più in generale, se si può ancora ipotizzare una qualche specificità del testo letterario, questo – con Francesco Orlando – si può intendere come un discorso la cui figuralità permette il ritorno del represso: compresenza di modelli del mondo tra loro contrari, in equilibrio dinamico, drammatico e conflittuale. Le opere letterarie, proprio in quanto costruite di contraddizioni e di significati opposti, sono abitate da più voci e da più punti di vista, sono dunque necessariamente aporetiche e ambigue e, in un’epoca come la nostra di “pensiero unico”, rappresentano una risorsa di plurivocità e di alterità. Il libro è bipartito: la prima sezione comprende due laboratori culturali del secondo Novecento (le riviste «Officina» e «Il Menabò») la cui eredità considero ancora vitale e trasmissibile, e alcuni strumenti teorici e metodologici fra cui spicca la critica tematica e, dunque, una prospettiva di lettura antropologica e interdisciplinare in grado di mettere in contrappunto le opere e il mondo. Se tematizzare può essere un modo nuovo per storicizzare12, individuando non solo le costanti ma anche le varianti e le cesure, le due tematiche maggiormente presenti in questi saggi, il corpo e il lavoro, sono intese appunto in quanto temi e motivi e non come archetipi: piuttosto che rappresentare il luogo della separatezza rispetto alla storia, la corporeità si pone come sottosuolo delle relazioni sociali, punto di transito dei gesti appresi, dei ruoli contraddittori, del ritorcersi dell’io nell’as9
Cfr. Guido Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, Bologna 2011. Alfonso Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Marsilio, Venezia 2002. 11 Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005. 12 Cfr. Sergio Zatti, Sulla critica tematica: appunti, riflessioni, esempi, «Allegoria», 52-53, gennaio-agosto 2006, p. 7 e Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata 2013, pp. 109-118. 10
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introduzione: letteratura come storiografia?
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similazione della maschera pubblica. Oltre che porre in scena forze libidiche, insomma, il corpo nelle rappresentazioni letterarie (specie nelle epoche di più rapida mutazione) ha sempre qualcosa a che fare con la riproduzione materiale dell’esistenza. La seconda sezione interroga alcuni maestri del secondo Novecento, che continuano a scrivere nel cuore degli anni Ottanta (Parise, Fortini, Volponi, Morante, Sciascia, Primo Levi) e quattro scrittori degli anni Zero (Affinati, De Signoribus, Di Ruscio, Sarchi) in qualche modo capaci di raccogliere dai maestri tradizione ed eredità. Tutti i testi presi in esame sono a loro modo ambiguamente reattivi nei confronti della mutazione: la indagano nei modi indocili, pluriprospettici e diagnostici con cui le opere letterarie sanno rispondere alle ulcerazioni della storia. Goffredo Parise, raggiunto a New York nel 1975 dalla notizia dell’assassinio di Pasolini, in alcuni articoli pubblicati sul «Corriere della sera» avverte il fascino e l’allarme della modernizzazione italiana intesa come un “cataclisma” inevitabile, dopo il quale solo alcuni vivranno, come «i pesci […] che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati». Analogamente, la scrittura corporale di Paolo Volponi, sia poetica che narrativa, sembra sottendere una paradossale euforia “monetaria”, sospesa tra invettiva e apologia: e, in una contraddittoria formazione di compromesso fra torti e ragioni, perfino il suo romanzo più allegorico, Le mosche del capitale (1989), sembra “cantare” l’epica grottesca e terribile della mutazione, la forza vittoriosa e travolgente del neoliberismo. Nonostante l’esplicita dichiarazione autoriale, i versi di Paesaggio con serpente (1984), forse la più rilevante fra le raccolte poetiche di Fortini, ci dicono che se il canto-incanto della letteratura non può “uccidere il serpente”, può forse esorcizzarlo con la sua cerimoniale ritualità. Proprio come accade nella coeva poesia “ilozoica”, epigrammatica e didattica di Primo Levi, affollata di figure animali (Ad ora incerta, 1984), nei versi di Fortini l’idillio è impossibile, l’individuo non è che un luogo biologico attraversato, nella sua labile durata, dalle forze storico-sociali, e il «dente della storia» morde e recide non meno di quello della natura. Leonardo Sciascia, naturalmente predisposto a raffigurare stoicamente la violenza del Potere, sembra dagli anni Settanta in poi lo
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letteratura come storiografia?
scrittore più capace di precorrere le ibridazioni fra saggismo e narrazione che s’imporranno negli anni Zero allestendo lucide allegorie di un preciso contesto. Si pensi agli enigmatici omicidi politici nel museo d’arte de Il Contesto (1971) o alla fasulla pista eversiva dei «figli dell’ottantanove» in Il Cavaliere e la morte (1988): negli stessi anni in cui in Italia nel teatrino dei media si faceva largo uso dello spettacolo macabro del terrorismo, il sapere critico diveniva inconcepibile e la democrazia diventava teleplebiscitaria. Il romanzo incandescente e terminale di Elsa Morante, Aracoeli (1982), racconta un’apocalisse corporea non solo individuale, la perdita dell’Eden materno di Emanuele, ma collettiva, sostanziata storicamente, fra guerra di Spagna e miracolo economico: si narra in prima persona, in parziale sintonia con le diagnosi di Pasolini, il modo in cui il corpo percepisce e patisce lo scandalo storico del mondo “infetto” di rabbia di annientamento piccolo-borghese. Con i testi degli anni Zero, il posizionamento dello scrittore nel campo della mutazione italiana si complica: se la scrittura diviene più marcatamente ibrida, la rappresentazione diviene globale a comprendere in via orizzontale le figure dell’esule e del migrante e, verticalmente, l’esplorazione antropologica delle emozioni. In Cristi polverizzati (2009), l’espatriato marchigiano Luigi Di Ruscio, con una furiosa e comica vitalità linguistica e utopica, narra dal suo esilio norvegese una radicale situazione biologica calata in un preciso orizzonte temporale e sociale: il “dispatrio”, il lavoro in fabbrica, la memoria degli anni Cinquanta. Mediante il ricorso alla microstoria e all’apologo, i versi di Eugenio De Signoribus (Poesie 1976-2007) sembrano dirci che ogni ricognizione poetica è vana in termini puramente soggettivi: la voce diviene plurale, ingloba la dialogicità di più enunciatori estranei alla cittadella blindata dell’Occidente, secondo una tipologia discorsiva teatrale e diegetica. Eraldo Affinati (in sintonia con una tendenza delle scritture italiane variamente descritta come “ritorno al reale”) si pone a sua volta ne La città dei ragazzi (2008) con forme narrative contaminate, fra saggismo, autobiografia e diario, alcuni fra i massimi problemi del nostro presente: l’incontro coi migranti, la responsabilità dell’insegnamento, il problema dell’eredità culturale e della paternità. Infine, Alessandra Sarchi (L’amore normale, 2014), alle varianti della mutazione preferisce opporre le costanti biochimiche e psichiche dell’esperienza amorosa, sottraendo l’esplorazione dei sentimenti al
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introduzione: letteratura come storiografia?
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tritacarne del “rosa” seriale e immettendola in un organismo narrativo finzionale, debitore di modelli principalmente visivi e decisamente plurivoco. 3. La domanda del titolo, dunque, vuole alludere alla più ampia questione dei rapporti fra scritture d’invenzione e scritture veridiche. È legittimo, ad esempio, «leggere un testo che vuole comunicare nell’ordine del ragionamento come se quest’ultimo potesse venire alterato dalle tensioni letterarie interne alla scrittura»? O, viceversa, una poesia alla stregua di un’argomentazione filosofico-politica? No, se ciò equivale a intendere il mondo delle scritture, per intero, come se fosse finzione, letteratura. Questa indistinzione, diffusa nella teoria nordamericana dell’ultimo trentennio, corrisponde a un atteggiamento cinico o scettico del critico letterario, «tagliato fuori dai centri della elaborazione extraletteraria del sapere» e persuaso, a un tempo, che l’«ordine del vero» sia controllato da specializzazioni inattingibili e «che tutto l’arco del sapere non rigorosamente specialistico possa essere trasferito nell’ordine dell’immaginario»13. Sì, se con l’ammettere zone ibride di “letterarietà” anche in testi a prevalente statuto argomentativo, si privilegiano il nucleo conflittuale correlato, in ogni tipologia discorsiva, alla densità figurale e la forza – intrinsecamente contraddittoria e soggettiva – dell’immaginazione. L’antico problema del rapporto fra storia e letteratura14 è del resto più volte riaffiorato nell’età moderna e contemporanea: si tratta di una relazione complessa, le cui difficoltà sono segnalate dalla stessa ambiguità semantica del termine storia (racconto/ricostruzione veridica o frutto dell’immaginazione?). Oggi, in ogni campo disciplinare (storia, diritto, filosofia, scienze) il discorso sembra articolarsi di preferenza secondo modalità narrative. In questa prospettiva spicca la prospettiva di Hayden White che, con il suo concetto di Metastoria (1973), sembra incline a considerare la storiografia come retorica e narrazione. Inoltre, un rafforzamento della visione universalmente “narrativa”, in base alla quale ogni disciplina è modellata come 13 Franco Fortini, Prosa scientifica come narrativa, in Id., Breve Secondo Novecento, Manni, Lecce 1996, p. 77. 14 Cfr. Lidia De Federicis, Letteratura e storia, Laterza, Roma-Bari 1998.
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letteratura come storiografia?
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storytelling, è più di recente venuto dai fortunati approcci cognitivisti che tendono a fornire una base fisio-biologica alla teoria della ricezione e a estendere il modello narrativo a ogni forma di conoscenza15. Se l’opinione corrente è dunque che la letteratura e la storiografia (così come i saperi giuridici, medici, economici) abbiano una comune base narrativa, gli scrittori, tuttavia, non sembrano essere sempre di questo stesso parere: José Saramago, a esempio, proprio come Enzensberger, in nome dei diritti della “zona scura”, ha opposto lo storiografo al romanziere sostenendo che la funzione dello scrittore consiste nel «guardare la storia in ogni angolo, raccontarla da tutti i punti di vista»: Direi che la Storia, così come la scrive o […] così come la fa lo storico, è prima di tutto libro, non più che il primo libro […]. Resterà tuttavia sempre una grande zona oscura, ed è lì, a mio parere, che il romanziere ha il suo campo di lavoro16.
Forse la letteratura può essere considerata come quella forma paradossale di storiografia e di ricostruzione che si prende la libertà di riconfigurare, manipolare, rovesciare, vanificare i dati ufficiali e che custodisce «nella penombra delle opere» sia la voce dei vincitori che le «tracce dei dimenticati»: proprio in quanto discorso pluralistico e irriducibile all’unità. E come «ginnastica della coscienza», «simulazione di esperienze», «esercizio delle facoltà svincolato da costrizioni esterne e quindi relativamente libero»17, ci è ancora necessaria in un’epoca in cui la rapidità liquida e ipercinetica della mutazione abbaglia, colonizza e intorpidisce la coscienza.
15 Cfr. Alberto Casadei, Poetiche della creatività. Letteratura e scienza della mente, Bruno Mondadori, Milano 2011. 16 José Saramago, História e ficção, «Jornal de Letras, Artes e Ideias», IX, 1989, p. 20. 17 Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti, Quodlibet, Macerata 2013, p. 18.
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i. «Mi ricordo questo futuro»1: l’attualità di «Officina», tra storia e prefigurazione
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1. Sei sodales divisi e attardati? «Officina», il Fascicolo bimestrale di poesia che uscì a Bologna dal 1955 al 1959 in due serie, è una rivista leggendaria del Novecento italiano. Il suo mito è già inscritto nell’atto di nascita, fra dilettantismo e mondanità, fra periferia e centro: il gruppo dei tre giovani del liceo Galvani (Roversi, Pasolini, Leonetti) che durante la guerra aveva progettato quasi per gioco la rivista «Eredi», moltiplicatosi per due con la cooptazione di Scalia, Fortini e Romanò, era riuscito a ritrovarsi e a dar vita a un’esperienza capace di ospitare grandi autori come Gadda, Calvino o Ungaretti. Gli ingredienti della leggenda sono del resto molteplici: la ruvida veste artigianale finanziata da Roversi e dalla sua libreria antiquaria Palmaverde, il rinvio nel titolo a Roberto Longhi, le memorabili polemiche in prosa e in versi con il prospettivismo comunista o con la nascente neoavanguardia, la brusca fine da Bompiani (come se l’habitat della rivista non potesse essere quello della grande editoria), gli scontri in redazione (l’unica a proposito della quale la critica impieghi il termine sodales) intuibili fin dal sorriso enigmatico che Pasolini rivolge a Fortini in alcune celebri foto redazionali2. Ciò che più colpisce, tuttavia, tra le diverse narrazioni che della rivista sono state prodotte dopo la sua chiusura dai sodales stessi e dai 1 Roberto Roversi, Mi ricordo questo futuro, in Gian Carlo Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi, Torino 1975, p. 478. 2 Le foto sono consultabili in Libri. Fogli che bruciano. Le edizioni della Libreria Antiquaria Palmaverde di Roberto Roversi, 1948-2005, mostra documentaria visitabile online dal sito della Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna: http://badigit.comune. bologna.it/mostre/palmaverde/index.html.
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letteratura come storiografia?
loro critici più consanguinei, è l’insinuarsi e il prevalere, in contrasto con il “mito”, di un diffuso sminuimento o delusione. Una retorica amaramente liquidatoria sembra governare ad esempio il discorso di Pasolini, il più autorevole fra gli officineschi, già all’altezza del 1960:
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[…] «Officina», è stata inutile. Non si è capito di questo movimento di idee che quello che si voleva capire, o non capire, col sostanziale distacco con cui si assiste a un’impresa sportiva3.
Più complesse, come si dirà più avanti, sono le testimonianze dei sei redattori raccolte da Gian Carlo Ferretti nell’Appendice II: dichiarazioni inedite 1973-74 del suo volume4. A orientare la riconfigurazione dell’esperienza nel senso del bilancio critico e autocritico è lo stesso Ferretti che, nel suo importante saggio introduttivo, per dare un nome alla più condivisa fra le manchevolezze della rivista, impiega a più riprese il termine «letterarietà» che, negli anni Settanta, godeva di vasta fortuna metodologica: Si può dire, semmai, che l’apertura a nuove metodologie e discipline da una parte, e un’istanza polemico-politica più diretta dall’altra, mettono in crisi – nonostante tutto – la vecchia letterarietà officinesca, che aveva costituito un cemento sufficiente a garantire l’unità di un gruppo piuttosto eterogeneo e lo sviluppo di una rivista abbastanza eclettica; mettono in crisi, cioè, soltanto l’aspetto più vistoso dell’autonomia culturale tradizionale […]5.
La pervasività del mercato delle lettere da un lato e l’agguerrita vocazione all’aggiornamento del Gruppo 63 dall’altro, avrebbero insomma inevitabilmente finito con l’accantonare un’idea «vecchia» di forma e di stile precedente la «letterarietà» “nuova”, fondata sulla linguistica strutturale e destinata a fornire per due decenni il modello alla teoria e alla critica. 3 Pier Paolo Pasolini, La reazione stilistica, «Ulisse», 38, XIII, settembre 1960; ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, 2 voll., a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Cesare Segre, cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, Milano 1999, vol. II, p. 2292. 4 Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., pp. 461487. Il volume di Ferretti, comprensivo di un ampio saggio introduttivo, di un’antologia della rivista, di testi inediti e di testimonianze, costituisce a tutt’oggi la base per ogni studio su «Officina». Più di recente è stata pubblicata una ristampa anastatica: Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, presentazione di Roberto Roversi, Pendragon, Bologna 2004. 5 Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 120.
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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Altrettanto sintetica, e analogamente bipartita tra un “prima” e un “dopo”, è la liquidazione affettuosa di Volponi che, “dal margine”, fu presente alle prime riunioni redazionali e il cui tragitto creativo, a partire dal poemetto narrativo La paura fino ad alcune lasse ritmiche de Le mosche del capitale, si può considerare tra i risultati più alti dell’ibridazione officinesca fra verso e prosa. Egli infatti suggerì a Ferretti di intitolare il suo lavoro Officina prima dell’industria proprio per sottolineare, con quel “prima”, un insanabile “ritardo”: Officina prima dell’industria suggerii: che voleva anche dire Officina ancora come fatto artigianale, con un rapporto d’amore esclusivo e assorbente per il lavoro, il mestiere. […] Il gruppo di Officina era di cultura pre-industriale e venato fortemente di contrasti ideologici: lo teneva insieme l’esigenza letteraria, nemmeno un preciso, unitario disegno del modo di fare letteratura. Officina è stata l’ultima rivista importante di convergenza e mediazione letteraria, l’ultima del primato della letteratura, anche se già i nuovi risultati mordevano proprio su tale base6.
Le più significative sistemazioni storiografiche, infine, incentrate sui conflitti del campo intellettuale e sulla storia delle ideologie e delle poetiche di cui le riviste sono i luoghi di elaborazione, tendono analogamente a segnalare un attardarsi del gruppo dei sodales intorno al concetto “tradizionale” di autonomia della cultura, nei limiti della querelle vittoriniana con Togliatti, in un’epoca in cui, a partire dal “miracolo”, in luogo dell’“autonomia” sarebbero subentrate «la settorializzazione specialistica indotta dalla divisione sociale del lavoro»7, la precarizzazione degli intellettuali, esplosa con il ’68, e più in avanti la trasformazione di tutta la cultura in intrattenimento e marketing: Sul piano letterario i redattori di «Officina» proponevano in sostanza una ennesima forma di “impegno”, aperto a innovazioni sperimentali e affidato alle autonome risorse intellettuali (invece che al vincolo precettistico di una 6 Paolo Volponi, Officina prima dell’industria, «Belfagor», 6, XXX, 30 novembre 1975, pp. 723-724. Si tratta del testo, rielaborato, di un intervento nel dibattito tenutosi alla Casa della Cultura di Milano, la sera del 15 luglio 1975, in occasione della pubblicazione del volume di Ferretti. Alla discussione parteciparono, oltre a Ferretti e a Volponi, Fortini, Guido Guglielmi e Leonetti. 7 Romano Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, 2 voll., Loescher, Torino 1981, vol. II, p. 725.
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poetica normativa) di scrittori capaci di utilizzare tutti i risultati delle scienze moderne (anche se queste poi venivano identificate prevalentemente nella critica stilistica di Spitzer o del nostro Contini); ma non riescono mai a definire radicalmente i termini del rapporto intellettuale-società8.
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In questo quadro, il tentativo di «Officina» di lasciarsi alle spalle gli imperativi categorici del dopoguerra senza rinunciare a porsi in situazione il problema della forma, viene rappresentato come il fallimento ingenuo e generoso di chi, muovendosi nella direzione giusta ma senza strumenti aggiornati, venga inesorabilmente travolto: Di contro sta il rischio, da affrontare con decisione: e Officina […] l’avrebbe, dal suo versante, pagato generosamente, in misura anche eccessiva, oscillando fra un umanesimo difensivo, benché tutt’altro che allineato con il Novecento italiano, e una persistente retorica, una letterarietà insistita e un’attitudine problematica, senza sottrarsi a fraintendimenti e mitizzazioni che finiranno per offuscarne la viva e sicuramente autentica carica sperimentale protesa verso un rinnovamento espressivo9.
2. Laboratorio dello sliricamento: rivisitando il canone «Officina» viene dunque rubricata come un’impresa “anni Cinquanta”, rilevante per la “lotta su due fronti” (neorealismo ed ermetismo), ma al contempo attardata rispetto all’orizzonte del decennio successivo, repentinamente mutato, e segnato da neoavanguardia, strutturalismo e contestazione. A quasi sessant’anni di distanza, tuttavia, una rilettura del laboratorio officinesco, tra storicizzazione e attualizzazione, dovrebbe verificare nel campo di forze del presente (segnato dalle discussioni sulla crisi della critica, sul deperire del postmodernismo, sul ritorno al reale, sulla pluralità della parola poetica e sul riaffiorare della questione dello stile) la portata della sua eredità e il senso delle sue parole-chiave maggiori: a partire da “sperimentalismo” e da “nuovo impegno”. Non è un caso ad esempio che, fra i titoli provvisori progettati per «Officina», vi siano «Laboratorio» e «Secondo Novecento»10. Questi cartellini segnaletici, proprio perché “scartati”, potrebbero essere altrettanti lemmiguida per una riflessione attualizzante. 8
Ivi, pp. 402-403. Niva Lorenzini, Il presente della poesia, il Mulino, Bologna 1991, p. 31. 10 Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 8. 9
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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Innanzitutto, va riconosciuta l’importanza della rivista nell’ambito della riflessione sulle poetiche che, nel Novecento, da Antonio Banfi11 e da Luciano Anceschi12 in poi, ha un significato spiccatamente fenomenologico e antidealistico13. Se, nel secondo Novecento, i tanti ragionamenti sulla letteratura non riescono a comporre una costellazione stabile di poetiche e di movimenti (gli -ismi), su tale sfondo problematico si stagliano però almeno quattro sistemi di poetica: il neorealismo, lo sperimentalismo di «Officina», il Gruppo 63 e il Gruppo 9314. Fra queste quattro proposte, quella di «Officina» si qualifica come la più ricca, complessa e densa di futuro: perché intimamente dialettica e non solo antinomica. In estrema sintesi, lungo l’operato laboratoristico della rivista: 1) il crocianesimo è criticato non sulla base di un aggiornamento scientista dei metodi (come sarà in seguito nel Gruppo 63) ma di un rinnovato asse De Sanctis-Gramsci e di una rilettura del canone italiano; 2) il realismo è inteso in senso non prescrittivo ma auerbachiano come dato di stile, nella ricerca di una “impurità” (definita da Ferretti come poetica del «dentro-fuori»); 3) le contraddizioni fra individuo e società, in un’epoca avvertita come traumatica, irrompono nello spazio della riflessione teorica e trovano cittadinanza in una poesia caratterizzata in senso antilirico, plurivoco e ibrido. A dimostrazione della presenza di una sotterranea “funzione” officinesca di lunga durata, si può esaminare la testimonianza di un poeta della generazione successiva, reduce della fine traumatica dei movimenti, che legge ed “eredita” l’antologia della rivista nei primi anni Ottanta e che sembra smentire la precedente dolorosa confessione pasoliniana di inutilità: La poesia di Pasolini, Roversi, Fortini, la prosa e la letteratura critica di Officina, soprattutto le analisi storiche di Romanò, che legavano i testi e gli autori 11 Gli scritti di Antonio Banfi sull’argomento, risalenti agli anni Trenta, sono compresi, con gli altri scritti di estetica, nel volume V delle Opere, Edizione a cura del Comitato Scientifico dell’Istituto Antonio Banfi, diretta da Livio Sichirollo dell’Istituto A. Banfi, Reggio Emilia 1987. 12 Cfr. Luciano Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia, Marsilio, Venezia 1990. 13 Cfr. Pietro Cataldi, Le idee della letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994, pp. 9-14. 14 Paolo Giovannetti, Modi della poesia italiana contemporanea. Forme e tecniche dal 1950 a oggi, Carocci, Roma 2005, p. 30.
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tra Otto e Novecento al contesto della società e della cultura italiane, criticandone la logica separatezza estetica, mi sembrarono di una efficacia incredibile. La crisi della politica ne veniva illuminata, in profondo, senza rifiuti formalistici, ma neppure senza indulgenze plenarie. C’era qualcosa che poteva capire la storia e interrogarla, oltre ogni idea di autonomia delle forme, a contatto con le idee del secolo, con le speranze e le disperazioni più vere di ogni vivo. Ed era la poesia, come forma di conoscenza, come indipendenza da ogni ideologia prescrittiva e di partito, come esercizio di un realismo ideologico e di pensiero, e proprio nel solco di una nuova concezione marxista ed eretica, come estrema risorsa anche morale dell’individuo anonimo, magari come scandalo della contraddizione e rifiuto delle logiche dominanti, politiche e culturali. Ricerca di realtà, più che tendenza15.
Non a caso, solo dopo la crisi dei movimenti, precipitati nel terrorismo, e la fine dell’avanguardia, “superata” dal marketing, può riaffiorare dagli anni Ottanta e Novanta in poi uno sguardo su «Officina» non più incentrato sull’antinomia vecchio-nuovo. Più in generale, oggi è possibile considerare la rivista bolognese come il luogo in cui, nel dialogo e nel conflitto dei redattori di prima e seconda “ondata”, si mette a punto per la prima volta in Italia l’autocoscienza dello sliricamento, l’esautorazione del valore trascendente della poesia e la valorizzazione di una discorsività inclusiva e prosastica, a un tempo morale e formale, che permetterà a due generazioni di poeti di procedere “dopo la lirica” e con una “voce plurale”16. Di questa riflessione sui nessi fra stile e tradizione, oltre che sui rapporti fra scrittori e politica consiste del resto il “nuovo impegno” officinesco. A oscurarlo, oltre che il radicalizzarsi del dibattito politico, fu il riduzionismo della neoavanguardia che mirò, in una sapiente battaglia di avvicendamento nel campo simbolico e in modo autopromozionale, «ad accelerare (per contaminazione e montaggio) la dissoluzione del discorso lirico»17. In «Officina» si delinea cioè una soluzione del “problema del linguaggio” diversa da quella che diverrà dominante nel successivo decennio, evitando gli eccessi parodici e dissolutori, 15
Gianni D’Elia, L’Officina della poesia, «L’Unità», 31 agosto 2004. Cfr. Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati Boringhieri, Torino 1994 e Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, cit. Queste linee sono anticipate con molta chiarezza dal saggio fortiniano Contro un’idea di lirica moderna apparso sul n. 1 (marzo-aprile 1959) della seconda serie della rivista. 17 Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, cit., p. IX. 16
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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e apprezzabile nelle periferie esterne al Gruppo 63, negli apologhi, diari e saggi in versi o nel dialogismo reticente di Pagliarani, Giudici, Fortini, Sereni e Volponi. Il lavoro della rivista prende dunque le mosse da una reinvenzione della tradizione combinata a un ri-uso sociologicamente eclettico della stilcritica continiana ed europea. Questo proposito programmatico si può desumere dal Compendio descrittivo della rivista, pubblicato nel dicembre 1955 in chiusura del n. 4, che spiega l’articolazione e le finalità delle sezioni interne e dei «temi continui e costanti del lavoro». Ogni fascicolo della prima serie è suddiviso in quattro sezioni: La nostra storia, Testi e allegati, La cultura italiana e Appendice. In particolare, la sezione La nostra storia è dedicata a quello che oggi si direbbe un lavoro di rivisitazione del canone moderno, attraverso saggi memorabili: nel primo fascicolo compare il celebre Pascoli di Pasolini, nel fascicolo 4 l’intervento di Scalia Un paradigma: l’attualità di De Sanctis, nel n. 2 Leonetti rilegge Leopardi, Romanò attualizza nel n. 3 Manzoni e nel n. 7 la Scapigliatura, Scalia presenta Serra nel n. 4 e i Crepuscolari nel n. 8. Il più noto saggio di rivisitazione della tradizione è di certo quello su Pascoli che apre il primo numero di «Officina» e che diverrà centrale nel volume Passione e ideologia: Pasolini, procedendo secondo un modello binario, al contempo psicanalitico e formale, dominante molte sue pagine critiche, rileva in Pascoli la spinta di due forze opposte: un’ossessione psichica tendente alla fissità e all’immobilità e uno sperimentalismo linguistico tendente, al contrario, alla trasformazione. Nella sezione La nostra storia risultano inoltre rilevanti, e in seguito ingiustamente trascurati, anche i saggi di Romanò e di Leonetti. L’affermazione fulminea di Romanò secondo cui la critica deve «rimettere il Manzoni nel giro delle idee contemporanee»18 ha, ad esempio, qualcosa di benjaminiano avant la lettre, sia pure tradotto in un codice gramsciano e storicista. D’altro canto, la rilettura che Leonetti opera del termine “decadentismo” e della rappresentazione del «mondo interiore»19, sdoganandoli dall’ostilità della critica marxista ufficiale, è eclettica, rabdomantica e tale da mettere in dialogo, nell’anno cruciale 1956, Auerbach e Lukács. 18 Angelo Romanò, Manzoni, «Officina», 3, settembre 1955; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 91. 19 Francesco Leonetti, Il decadentismo come problema contemporaneo, «Officina», 6, aprile 1956; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 223.
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«Officina» propone inoltre il recupero delle forme versificate lunghe, narrative e saggistiche e la valorizzazione dei “maestri in ombra” espressionisti e vociani. La rinascita officinesca del genere poemetto, a esempio, risponde al bisogno di una nuova rappresentazione dell’io fondata sull’innaturalità manieristica della voce che racconta. Del resto, nell’area composita della rivista, la tensione fra lo sperimentare di Pasolini e l’esigenza di forma tipica di Fortini allude a due diverse, complementari risposte al problema del ri-uso dei moduli stilistici della tradizione: In altre parole, quello che fin dall’inizio per Pasolini è stato chiamato “manierismo”, intendendo la destrutturazione sintattica, le irregolarità metriche e il costante richiamo a esperienze figurative (Masaccio, Piero, Caravaggio). Una esplosiva, tesa mescolanza tra esperienza della modernità (Proust, ma anche Pascoli) ed esperienze premoderne (Dante, ma anche Tommaseo). Proprio Fortini, che avrebbe insistito sulle “contaminazioni” interne all’espressività di Pasolini, gli faceva notare, in una lettera dell’ottobre 1957, che l’ondulazione ritmica dei suoi poemetti ne comprometteva le premesse costruttive20.
Le divergenze interne, che trovano nelle proposte dei sei redattori di «Officina» una oscillante formazione di compromesso, riguardano i diversi modi di declinare, in un codice poetico e all’esordio della “mutazione”, la tensione tra esterno e interno, fra irriducibilità dell’io e oggettività del reale: l’io poetico officinesco «si identifica con la conoscenza come movimento lacerante […] come continuo processo che non può e non vuole aspirare a una soluzione»21. Si potrebbe supporre che la sperimentazione di «Officina» inauguri ciò che dalla fine degli anni Cinquanta in poi si verifica nelle periferie della lirica e ai confini estremi della poesia soggettiva: Il confine fra il centro e la periferia, proprio come accade nelle città, è sfumato: un testo come Le ceneri di Gramsci, per esempio, può essere letto come un tentativo di resuscitare la narrazione in versi di argomento sociale o anche come un lungo monologo confessorio ed egocentrico essendo di fatto entrambe le cose22.
20
Marco Antonio Bazzocchi, Poesia come racconto, «Poetiche», 2, 2000, p. 240. Walter Siti, Il neorealismo nella poesia italiana 1941-1956, Einaudi, Torino 1980, p. 210. 22 Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005, p. 40. 21
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3. Realismo, prefigurazione, creaturalità: la “responsabilità semantica” «Officina» costituisce l’ambiente più fecondo, irregolare e creativo nella storia della prima ricezione italiana di Mimesis di Auerbach23. L’accoglienza della stilcritica negli anni Cinquanta è, come si sa, contrastata e la pubblicazione in Italia di Mimesis (1956), con l’introduzione di Roncaglia, segue l’antologia spitzeriana del 1954 e la traduzione dei Saggi sul realismo (1950) e de Il marxismo e la critica letteraria (1953) di Lukács. Da un lato Auerbach viene dunque accolto favorevolmente, ma in senso tecnico e stilistico, dai filologi e linguisti più consanguinei alla stilcritica europea (Terracini, Schiaffini, Devoto e Contini), dall’altro viene visto con sospetto dalla critica marxista che già contesta al metodo spitzeriano, a cui Mimesis viene assimilato, di oscillare tra significati consapevoli e inconscia volontà formale dell’opera, fra psicologia individuale e oggettività storica. Questo giudizio limitativo abita anche l’area del marxismo critico, come testimonia il saggio di Cases del 1954 Leo Spitzer e la critica stilistica24. La lettura di Auerbach è viceversa entusiastica presso i sodales officineschi. Lo attesta innanzitutto il fatto che a Scalia venne commissionato, nel febbraio 1959, un Auerbach in Italia: uno scritto che, se compiuto, avrebbe interagito fin dal titolo con il Lukács in Italia di Fortini apparso sulla nuova serie25, con la chiara finalità di rifondare la questione del realismo su modelli difformi tanto dal prescrittivo “realismo socialista” quanto dal “neorealismo” documentario e testimoniale: 23 Sulla presenza di Auerbach in «Officina» si vedano Riccardo Castellana, La teoria letteraria di Eric Auerbach. Una introduzione a Mimesis, Artemide, Roma 2013, pp. 164167 e i contributi al Convegno Mimesis. L’eredità di Auerbach, Atti del XXXV Convegno interuniversitario, Bressanone/Innsbruk 5-8 luglio 2007, a cura di Ivano Paccagnella e Elisa Gregori, Esedra, Padova 2009, in particolare: Silvia De Laude, Pasolini lettore di Mimesis, ivi, pp. 467-481; Lisa Gasparotto, Anna Panicali, Conversazioni su Auerbach e Pasolini, ivi, pp. 483-508. Sulla più generale questione dell’accoglienza italiana di Auerbach, cfr. Giuseppe Nava, La ricezione di Auerbach in Italia negli anni sessanta, in Riccardo Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Erich Auerbach, Artemide, Roma 2009, pp. 177-182. 24 Cfr. Cesare Cases, Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura del Novecento, Einaudi, Torino 1985, pp. 215-254. 25 Cfr. Franco Fortini, Lukács in Italia, «Officina», 2, maggio-giugno 1959; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 77-101.
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Mi sembrerebbe dunque, anzi, benfatto che la seconda sezione del n. 2 portasse, prima di questo scritto, l’Auerbach in Italia che nel prossimo tempo deve scrivere Scalia, discutendone anche con noi. […] Vedo questo quadro come giusto nel programma iniziale: e naturalmente, affrontando un nostro problema sostanziale, si svilupperà: secondo però piani più complessi: e l’Auerbach è uno di questi piani, per la ragione che, se noi cerchiamo una qualche connessione profonda, metodologica e concettuale, tra il motivo di oggettività stilistica e quello storico-sociologico, in Auerbach una soluzione relativa c’è e bisogna anzitutto sviscerarne meriti e limiti26.
Tra i saggi di matrice officinesca di quegli anni probabilmente più che in ogni altro la presenza del modello auerbachiano emerge – fin dal titolo – ne La confusione degli stili27 di Pasolini. Ma anche gli scritti di Leonetti, Scalia e Fortini documentano l’immediata curiosità che l’edizione italiana di Mimesis suscita nella redazione della rivista bolognese. Leonetti legge Auerbach cercando subito di distinguerlo da Spitzer (scrive infatti che Mimesis «è “avventuroso” per l’ortodossia stilistica in Italia»28), e lo utilizza nel tentativo di problematizzare la categoria di “decadentismo”, considerandola, a differenza della vulgata marxista, “vivacissima”, ed esemplificando la sua tesi con una lettura del Tonio Kröger di Mann. Grazie a Mimesis, la letteratura europea del primo Novecento, anziché veicolo di un deteriore «intimismo all’ombra del potere», viene interpretata come un «più largo realismo», una «infinita possibilità» di rappresentazione dei territori interiori dell’umano o, come dirà Debenedetti pochi anni dopo, come un’«epica della coscienza»: A noi pare che ampliando alla sua vera origine il suo valore, e insieme riconoscendolo storiograficamente, si possa liberarsi dalle sue negative soluzioni, e nutrirsi di quanto di ottimo, aperto a interpretare la realtà, e coincidente con il moderno realismo così come svelato dall’Auerbach della “Mimesis” che stiamo ora leggendo nella edizione italiana – fu elaborato da grandi figli della 26 Lettera di Francesco Leonetti a Franco Fortini, Pier Paolo Pasolini e Angelo Romanò del 13 febbraio 1959, in Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., pp. 450-451. 27 Pier Paolo Pasolini, La reazione stilistica, «Ulisse», X, 24-25, autunno-inverno 1956; poi in Id., Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1960; ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. I, pp. 1070-1088. 28 Lettera di Francesco Leonetti a Elio Vittorini, del 7 aprile 1958, in Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 432.
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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borghesia, che da essa ascesero alla zona superborghese: prova che nell’ambito borghese sussistono infinite possibilità29.
In modo analogo, la «interessantissima e diversa» nozione di realismo proposta da Mimesis è messa in rilievo da Fortini in Lukács in Italia e da Scalia in La letteratura di partito, nel secondo numero nuova serie, del maggio-giugno 1959. In sintesi, i termini-chiave che i redattori di «Officina» riprendono da Auerbach e sviluppano originalmente sono tre: «realismo» su cui insiste soprattutto Leonetti, «creaturalità», categoria prediletta da Pasolini, e «figura», concetto risemantizzato da Fortini. Pasolini, nel saggio La confusione degli stili, si interroga sul futuro della letteratura in Italia indicando la via maestra nel realismo «creaturale», vale a dire «del concreto-sensibile e della vita quotidiana» e utilizza ripetutamente le nozioni di creaturalità e di trionfo della corporeità nelle sue letture del film Le notti di Cabiria di Fellini (1957), della Cognizione di Gadda (1963) e di Corporale di Volponi (1974)30. Fortini viceversa, come Cases, intravede nell’attenzione di Auerbach per i tratti basso-corporei della vita quotidiana presenti nel modernismo del Novecento, il rischio vitalistico della supremazia dell’istante sulla durata. Predilige dunque l’Auerbach dantista, ma finisce con l’estendere il concetto di “figura” ben oltre i limiti del Medioevo e lo attualizza impiegandolo nella critica della letteratura contemporanea, quale prefigurazione di un «uso formale della vita»: afferma infatti che «tutta l’arte che ancora ci parla è “figurale”»31. «Officina» è dunque, negli anni Cinquanta, l’ambiente culturale in cui viene posta, per la prima volta in Italia, la questione dell’attualità di Auerbach, sia per quanto riguarda ragioni di metodo che per più generali questioni concernenti la responsabilità, già allora destituita di ogni “mandato”, del lavoro intellettuale32. Non è privo di significato infatti che Scalia, forse il redattore officinesco più incli29 Francesco Leonetti, Il decadentismo come problema contemporaneo, «Officina», 6, aprile 1956; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 222-223. 30 Cfr. Castellana, La teoria letteraria di Eric Auerbach. Una introduzione a Mimesis, cit., pp. 166-167. 31 Franco Fortini, Mimesis, in Id., Saggi ed Epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2003, p. 225. 32 Romano Luperini, Metodo e utopia in Mimesis, in Id., Tramonto e resistenza della critica, Quodlibet, Macerata 2013, p. 89.
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letteratura come storiografia?
ne a tradurre nel codice “scientifico” della linguistica la tensione fra ricerca formale e situazione extratestuale tipica della rivista, parli a più riprese a questo riguardo di «responsabilità semantica»33.
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4. “Compagni di strada”: fra politica e letteratura La cosiddetta “letterarietà” di «Officina» nasconde il tentativo di posizionarsi tra autonomia e impegno in modo diverso da quanto si era delineato nel corso del decennio precedente con la crisi del «Politecnico»: partendo cioè dalla precoce consapevolezza del trauma del “miracolo” e dall’assunzione, in quel contesto mutato, del «fatto letterario come terreno primario su cui vivere le istanze politiche e sociali»34. Sul sesto numero, uscito dopo il XX Congresso del Pcus, Pasolini, apre la polemica contro il «prospettivismo»: Quanto al posizionalismo, per così dire “tattico” dei comunisti, o nella fattispecie della «Unità» o del «Contemporaneo», sarebbe atto da Maramaldo, in questo momento, infierire. La crudezza e la durezza ideologico-tattica di Salinari e di altri era viziata da quello che Lukács – in una intervista concessa a un inviato appunto dell’«Unità» durante i lavori del Congresso del PCUS – chiama prospettivismo. L’ingenua e quasi illetterata (e anche burocratica) coazione teorica derivava dalla convinzione che una letteratura realistica dovesse fondarsi su quel “prospettivismo”: mentre in una società come la nostra non può venire semplicemente rimosso, in nome di una salute vista in prospettiva, anticipata, coatta, lo stato di crisi, di dolore, di divisione35.
La rivendicazione, contro ogni prescrizione politica, della necessaria rappresentazione estetica del «dolore», per Pasolini, divenuto antifascista a partire da Rimbaud36, ha ragioni lontane. Nell’autun33 Gianni Scalia, La letteratura di partito, «Officina», 2, maggio-giugno 1959; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 56. 34 Pier Paolo Pasolini, La posizione, «Officina», 6, aprile 1956; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 248 e in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., vol. I, pp. 623-631. 35 Pasolini, La posizione, in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 249250. 36 «Nell’anno scolastico 1938-39, un insegnante supplente, il giovane poeta Antonio Rinaldi (allievo di Calcaterra e di Longhi), legge in classe Le bateau ivre di Rimbaud aprendo al giovane Pasolini la visione di un nuovo mondo poetico, spalancato sull’appassionante panorama della poesia moderna. È un’autentica folgorazione letteraria e po-
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no del 1949, all’epoca dell’espulsione dal Partito e dopo la denuncia a Casarsa per corruzione di minori e atti osceni, «l’Unità» di Udine scaglia un anatema contro di lui e contro i «vari Gide, Sartre e di altrettanto decadenti poeti e letterati»37. A metà degli anni Cinquanta quella posizione “ufficiale” non era venuta meno: Salinari, sulle pagine del «Contemporaneo», in base a un analogo paradigma estetico e ideologico, stronca Ragazzi di vita accusando il testo e l’autore di «gusto morboso dello sporco»38. Sul settimo numero di «Officina», nel novembre 1956, mentre a Budapest infuria l’insurrezione, Pasolini pubblica una poesia che intende smascherare l’abito mentale dello stalinismo: Una polemica in versi39. Il poemetto in terzine denuncia l’assuefazione «ai necessari atti / che umiliano il cuore e la coscienza», la tendenza alla reticenza e alla dissimulazione (il «voluto tacere» e il «calcolato parlare»), la demolizione caricaturale degli avversari e l’adulazione degli alleati (il «denigrare senza odio» e l’«esaltare senza amore»), la doppiezza dei compromessi e la retorica della propaganda (la «brutalità della prudenza» e la «ipocrisia del clamore»). Alla trasparente accusa contro il tatticismo di partito seguono, nel poemetto, versi più oscuri, dedicati a giudicare con severità altri «compagni di strada» il cui ossessivo «mistico rigore» potrebbe condurre comunque ad «aridità». La parte meno intellegibile del testo, dedicata ai «compagni di strada», provoca un’inattesa risposta di Fortini, che pure condivideva non pochi dei presupposti della polemica antistalinista del ’56, ma che contro Pasolini scrive a sua volta i versi di Al di là della speranza, pubblicati sul numero ottavo di «Officina»40. “Compagni di strada” è un epiteto con cui si alludeva ai marxisti critici e indipendenti in quell’epoca riuniti nella redazione di «Ragiolitica, che spazza via insieme, nel poeta adolescente la cultura accademica e provinciale e il conformismo fascista». Guido Santato, Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Carocci, Roma 2012, p. 17. 37 Cfr. Mariamargherita Scotti, «Una polemica in versi»: Fortini, Pasolini e la crisi del ’56, «Studi storici», 4, 45, ottobre-dicembre 2004, pp. 991-1021. 38 Carlo Salinari, I cinque dello Strega, «Il Contemporaneo», II, 28, 1955, p. 3. 39 Pier Paolo Pasolini, Una polemica in versi, «Officina», 7, novembre 1956; poi in Id., Le ceneri di Gramsci (1957); ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 283-289 e in Id., Tutte le poesie, 2 voll., a cura e con uno scritto di Walter Siti, saggio introduttivo di Fernando Bandini, cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, Milano 2003, vol. I, pp. 850-855. 40 Cfr. Scotti, «Una polemica in versi»: Fortini, Pasolini e la crisi del ’56, cit., pp. 9911021.
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namenti», di cui facevano parte con altri lo stesso Fortini e Roberto Guiducci, e che guardavano ai moti ungheresi non con lo sdegno del Partito ma con l’apprensione e la speranza di chi credeva possibile una rinascita dei consigli operai. Fortini risponde a Pasolini con un vera e propria invettiva, personale e politica: «Ma tu chi sei che di pietà impietosa / dài grazia ai versi dove sono ciechi, / fuor di te, tutti? Nei vicoli biechi / e teneri ti sciogli, dell’afosa / notte di Roma, e poi torni e ti rechi / intatto al verso»41. Per un’interpretazione della contesa, emblematica dell’intera vicenda di «Officina», va considerato il volume Attraverso Pasolini42, messo assieme da Fortini alla fine della sua vita. L’accanito conflitto che oppose i due poeti si deve leggere infatti nel contesto della minacciata presenza dei gruppi intellettuali che, in vario modo, fra 1956 e 1968, hanno riposto nei “destini generali” la possibilità di rendere meno insensata l’esistenza. Illuminante la sezione intitolata Uno scambio di lettere da cui si desume come Fortini riprenda, con il poemetto Al di là della speranza, versi già scritti a replica delle Ceneri di Gramsci: all’ultimo verso delle Ceneri risponde infatti con «La nostra storia non è mai finita» e la «fissazione» rinfacciata all’amico-avversario, vien ora evocata col dantismo «protesi nervi», carico delle valenze di repulsione e sdegno proprie del canto XV43. Se quelle del novembre 1956 erano ore in cui «tutto pareva cospirare a un significato» e tutto era «straordinario e grande»44, grande e generosa è anche la risposta epistolare di Pasolini all’invio dei versi polemici di Al di là della speranza: «Se non hai niente in contrario, uscirà nel prossimo numero di “Officina”. Mi sembra la più bella tua poesia»45. Perché Pasolini reagisce duramente al moralismo con cui Salinari relega Ragazzi di vita nell’ambito dello «sporco» e accetta invece di buon grado di essere rappresentato da Fortini come chi si scioglie nei «vicoli biechi»? L’accoglienza generosa di Al di là della speranza non è un caso isolato: non mancano, nelle lettere, e proprio nei momenti più acuti dello scontro, reciproci toni di affetto che rivelano una 41 Franco Fortini, Al di là della speranza (Risposta a Pasolini), «Officina», 8, gennaio 1957; poi in Id., Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi 1993, pp. 69-73; ora in Officina (112; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 319-323. 42 Fortini, Attraverso Pasolini, cit., 1993. 43 Ivi, p. 71. 44 Ivi, p. 75. 45 Ivi, p. 74.
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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sotterranea ambivalenza: «tu mi sei sempre presente, e magari un pochino incombente»46, «esisti tanto da essere l’ideale destinatario di quasi tutto quello che scrivo»47. Le reiterate negazioni che Fortini scaglia contro Pasolini («Ma va’ senza ritorno, perfetto e cieco»48) opponendo al vitalismo corporale di Pier Paolo la «grinta mortuaria, di ghiaccio-represso»49 sono la spia e il sintomo di una latente reversibilità. Ciò che affratella e rende segretamente solidali i due redattori, e che in fondo accomuna tutta la riflessione politico-culturale di «Officina», è la coscienza della fine del “mandato”. In Fortini il rigore della tensione utopica combatte o esorcizza l’“inesistenza” raggelandola nel «come se», in Pasolini invece il narcisismo che sostiene la passione civile si tramuta in masochismo mortuario e acronico. Entrambi tuttavia intuiscono la fine della vicenda dell’antifascismo resistente e dei suoi ambigui presupposti nati negli anni Trenta, all’epoca del Congresso parigino degli scrittori in difesa della cultura50 e vaporizzati dal “miracolo” del secondo Novecento. Esattamente per questa ragione, nel cuore della polemica, si avverte una sorta di complementarità. Perfino la più radicale negazione lanciata a Pasolini è coraggiosamente smascherata dallo stesso Fortini come «proiezione di una mia scissione, di una mia irrealtà»51. La “letterarietà” officinesca è dunque, a bene vedere, un tentativo di rendere poeticamente dicibile la mutazione. Un trauma non metabolizzato, tale da rendere smemorata e persa un’intera generazione di intellettuali, può trovare probabilmente una sua rappresentazione o ricomposizione solo nella figuralità letteraria. I due divergenti poemetti polemici dei numeri settimo e ottavo hanno infatti un loro punto d’intersezione: Una polemica in versi si conclude con l’immagine di una “innaturale” Festa dell’«Unità», dominata dal contrasto tra la vitalità dei ragazzi delle borgate che, intorno al «palco, vuoto», «si muovono in drappelli / disordinati, in branchi, soli / masticando gomma americana» e un «manovale ubriaco» che «lascia cadere la bandiera, e lento / con le 46
Ivi p. 119. Ivi p. 121. 48 Ivi, p. 37. 49 Ivi, p. 119. 50 Cfr. Sandra Teroni (a cura di), Per la difesa della cultura. Scrittori a Parigi nel 1935, Carocci, Roma 2002. 51 Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 129. 47
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letteratura come storiografia?
lacrime agli occhi, / si ricalca in capo il suo berretto»52. Fortini davanti a questi versi esordisce con «anch’io», riproducendo a sua volta l’immagine di «bandiere rapprese» in una festa dell’«Avanti!» a cui ha assistito a Bologna. Le «belle bandiere» divenute «rapprese» ad opera della mutazione italiana, sono insomma emblema comune dei due poemetti polemici e, solo in apparenza, contrapposti: figura cioè di una storia operaia ridotta, da quella che sarebbe stata poi chiamata “condizione postmoderna”, a sequenze di «tristi corpi» di «un’altra chiusa età»53.
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5. La morte della rivista: una critica futura Le figure e i problemi messi a fuoco negli anni Cinquanta nel laboratorio bolognese alludono dunque, sia pure in modi ingenui e aurorali, a un insieme di questioni di lunga durata, che ci riguardano. Da un lato, per il campo mutato dei rapporti tra letteratura e realtà, si può far ricorso a un’allegoria di origine officinesca: la celebre scena di Uccellacci e uccellini (1966), il film di Pasolini sulla «crisi politica […] del marxismo degli anni Cinquanta»54, in cui il Corvo, con la voce di Leonetti, rivolto a Totò e a Ninetto, prima di essere mangiato dai suoi due picareschi sodali implora «Amici, dove andate? Non mi volete come compagno di strada, eh?» a rappresentare comicamente la fine di un rapporto storico fra intellettuali e popolo. La stessa successiva partecipazione di Leonetti prima alla neoavanguardia e poi a esperienze di tipo neoleninista (il periodico «Che fare») ben sintetizza del resto la matassa di contraddizioni che negli anni Sessanta e Settanta ha contribuito a opacizzare le parole-chiave di «Officina»55. Dall’altro lato, come ha ben argomentato Ferretti, per comprendere la fine di «Officina» non si può che riferirsi alla nascita della neoavanguardia: 52 Pier Paolo Pasolini, Una polemica in versi, in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 289. 53 Franco Fortini, Al di là della speranza (Risposta a Pasolini), in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., p. 319. 54 Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, a cura di Jean Duflot, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 75; ora in Id, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, con un saggio di Piergiorgio Bellocchio, cronologia a cura di Nico Naldini, Mondadori, Milano 1999, p. 1477. 55 Sul tragitto culturale e sulla produzione di Leonetti cfr. Marco Rustioni, Il caso Leonetti. Utopia e arte della deformazione, Pacini, Pisa 2010.
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La sua aggiornatissima letterarietà, il suo dinamismo meramente metodologico, la sua struttura e strategia di gruppo organizzato e aggressivo nei confronti del vecchio establishment letterario (anche se non mancarono certo compromessi tattici con esso) le garantirono il successo, facendo risaltare al tempo stesso i tratti più tradizionali delle riviste e dei sodalizi che l’avevano preceduta, e che si sono richiamati a proposito di Officina56.
In nome dello “svecchiamento antinaturalistico” fu Pasolini, più di Cassola e di Bassani, la testa di turco del Gruppo 63. Per un’interpretazione di questa martellante invettiva culturale, oltre che al Fortini di Verifica dei poteri (per la caducità delle posture avanguardiste nel “nuovo capitalismo” e per la verifica del mandato sociale) si può far riferimento a Bourdieu57 (per la nozione di campo artistico resosi autonomo dal “senso comune” e per i conflitti tra gruppi intellettuali nel mercato dei beni simbolici). Esemplare, a questo proposito, è la testimonianza di Scalia raccolta in appendice nel volume di Ferretti. Scalia ha indicato nel giovane Sanguineti «l’uccisore simbolico» di «Officina» perché la prima avvisaglia dello scontro con la neoavanguardia si ebbe in occasione dell’ospitalità concessa nel 1957 dalla rivista bolognese ad alcune voci più giovani, riunite sotto l’etichetta del neo-sperimentalismo. Sanguineti, pur presente nella Piccola antologia neosperimentale del n. 9-10 del giugno 1957 con alcuni suoi Erotopaegnia, reagisce nel numero successivo con una violenta Polemica in prosa che parodizza la pasoliniana terzina di endecasillabi. La ragione dell’attacco è sia difensiva (Pasolini aveva posto sotto l’etichetta neosperimentalismo i suoi testi con l’esplicito intento didattico di distinguere fra la proposta di «Officina», detta “sperimentale”, e altre forme di ricerca ancora legate sia pure in senso oppositivo al novecentismo, dette “neosperimentali”) che offensiva (funzionale all’occupazione del campo intellettuale da parte dei “novissimi”, assumendo gli stessi concetti-termini officineschi semplificati e estremizzati). La Lettera brevi manu di Scalia, compresa da Ferretti in Appendice II: dichiarazioni inedite 1973-74, è a questo proposito illuminante: L’uccisore simbolico di Officina è in persona nelle pagine stesse della rivista, proprio a metà, nel suo cuore quantitativo. Uno chiamato Sanguineti, 56
Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 110. Pierre Bourdieu, Le regole dell’arte. Genesi e struttura del campo letterario, Il Saggiatore, Milano 2005. 57
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letteratura come storiografia?
conosciuto appena (e reclutato in una “antologia neo-sperimentale” confezionata sulla rivista, da cui, con l’acuità antiveggente, oltre che viscerale, della genialità desolidarizzò), tra l’incomprensione, se ricordo bene, dei destinatari, spedì un giorno la sua versificata Polemica in prosa. Non ci se n’accorse e lì era la prima crepa di Officina, da cui transitò speditivamente, leggera o equipaggiatissima, la nuova avanguardia degli anni ’60. […] Con gli stessi termini, o quasi, impiegati in Officina, distorti e straniati, invisibilmente si disegnava un’altra scena58.
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Vi si narra, inoltre, un aneddoto piuttosto famoso e sintomatico, relativo a una delle riunioni redazionali in una trattoria romana: In una cena romana “da Cencio” lo Zanzotto (presenti Fortini, Pasolini, Leonetti) si lagnava d’aver perso il sonno per colpa di Sanguineti, affermando diabolico il suo Laborintus e degno di punizione se non era «sincera trascrizione di esaurimento nervoso». Hanno il loro fato gli aneddoti. Zanzotto aveva cominciato a sospettare che Sanguineti portava non solo l’oro in bocca del futuro, ma il futuro patologico nella “carne viva” e in lettere come “esaurimento storico”59.
A testimoniare le banalizzazioni delle categorie teoriche messe in circolazione da «Officina», del resto, vi è l’uso improprio del termine “neo-sperimentalismo” quale etichetta della poetica stessa propugnata dalla rivista. In realtà il neo-sperimentalismo, secondo Pasolini, che preferisce la categoria forte a quella prefissoide, «tende a essere epigono alla tradizione stilistica novecentesca», del simbolismo cioè che i sodales intendono fortemente problematizzare: Quel nuovo cartellino di neo-sperimentalismo ha finito con l’essere identificato con una specie di programma poetico di «Officina». Il neo-sperimentalismo […] si definisce come una zona franca, in cui neo-realismo e post-ermetismo coesistono fondendo le loro aree linguistiche: una specie di fondo comune, che, graduandosi, viene a colorare di una tinta che non è più semplicemente neutra un contingente cospicuo della poesia scritta in questi anni. […] Nello “sperimentare” dunque, che riconosciamo nostro (a differenza dell’attuale neo-sperimentalismo) persiste un momento contraddittorio o negativo: ossia un atteggiamento indeciso problematico e drammatico coincidente con quella indipendenza ideologica cui si accennava, che richiede un continuo, doloroso sforzo di mantenersi all’altezza di una attualità non posseduta ideologicamente. […] Ne deriva una, probabilmente imprevista, riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi. […] 58 Gianni Scalia, Lettera brevi manu a un critico di «Officina», in Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., pp. 486-487. 59 Ivi, p. 487.
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Tali modi stilistici tradizionali si rendono mezzi di uno sperimentare che, nella coscienza ideologica, è assolutamente, invece, anti-tradizionalista. […] Lo spirito filologico che ci deriva dalla lezione continiana […] si fa ora strumento di una diversa cultura60.
Dunque, lo sperimentalismo di «Officina» presuppone il rigore filologico e stilistico congiunto alla critica linguistica e sociale: una coppia (condensata da Scalia nella formula «responsabilità semantica») estranea alla rete dei concetti con cui la neoavanguardia affrontò negli anni Sessanta, a sua volta, la questione del linguaggio. Non a caso, oltre la cerchia di «Officina», è Sebastiano Timpanaro che mostra di aver compreso lucidamente i termini del problema. In uno scambio epistolare avvenuto nella primavera del 1968 con Romano Luperini in carcere, Timpanaro scrive: Non sarei disposto a sottoscrivere fino in fondo, senza certe cautele e limitazioni, una difesa dell’“avanguardia” che suonasse press’a poco così: «Poiché la realtà sociale tardo-capitalistica è disgregata, disgregato ha da essere anche il modo di rappresentazione di tale realtà». Accolto senza cautela questo principio porta ad accettare come valide opere d’arte, per esempio, musiche consistenti in mere registrazioni su nastro di rumori stradali (come quelle che ho ascoltato mesi fa in un circolo culturale qui a Firenze: dal frastuono assordante degli automezzi di via Cavour, dove ha sede quel circolo, passavi in una sala dove sentivi frastuoni analoghi registrati su nastro, e un critico musicale d’avanguardia ti spiegava che quella era la rappresentazione e la denuncia del caos e della disumanizzazione della società neocapitalistica), o poesie consistenti in sequenze di parole senza senso, o pitture informali ispirate allo stesso principio, ecc.61
Se è vero che la critica è, come per Benjamin, dotata di «debole forza messianica»62, ha anche tra i suoi doveri il compito di mettere in dialogo i vivi con i morti, il passato con il futuro. Quanto alla nascita e alla morte di «Officina», dunque: se Sanguineti ne fu l’uccisore simbolico, è Roversi che tenne a battesimo la rivista nella sua libreria antiquaria. Fu lui a sceglierne il logo posto sul retro di 60 Pier Paolo Pasolini, La libertà stilistica, «Officina», 9-10, giugno1957; poi in Id., Passione e ideologia, cit.; ora in Officina (1-12; n.s. 1-2). Bologna 1955-59, cit., pp. 341345 e in Id, Saggi sulla letteratura e sull’arte, 2 voll., cit., vol. I, pp. 1229-1237. 61 Sebastiano Timpanaro, Lettere a Romano Luperini in carcere, «Belfagor», 398, 2012, p. 194. 62 Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
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copertina: un graffito di un arciere stilizzato, sobriamente elegante nella sua arcaica essenzialità, «simbolo dell’uomo che è all’attacco, che tende»63. Se la celebrazione di Pasolini come mito culturale ha, dopo la sua morte, contribuito ad attribuire solo a lui, prima delle sue diagnosi antropologiche e corsare, la paternità della rivista, va invece riaffermato che si trattò di un’operazione di gruppo, e che la non omogeneità all’interno della redazione fu fattore di ricchezza pluriprospettica. Fra «enciclopedismo famelico» di Leonetti e «moralismo assillante» di Fortini è forse Roversi, con il suo «rivolgersi alla storia che si fa come a un oscuro-luminoso nettare conoscitivo»64, a proporre ciò che di quell’instabile sodalizio può essere praticabile ancora oggi, nell’epoca inaugurata dalla crisi della letterarietà65. È l’autocoscienza di Roversi, insomma, a darci la più fulminea e figurale rappresentazione di questo fragile laboratorio poetico e politico posto sul crinale del secondo Novecento: Completo la solfa dicendo che vivevo accompagnato da una sensazione di frastuono degradante, di polverone ribollente dentro a una geografia di spacchi aperture frane; sentivo o mi pareva che tutto crollasse per cambiare, a causa di un mutamento forsennato; dentro i tonfi mi accorgevo d’essere partecipe e complice di un preordinato sfracello. Crollava, si rovesciava la campagna; la campagna si riempiva di polvere. Si ingozzava la città stravolgendosi; la città si riempiva di polvere. Era tutto un texas, non a causa di guerra che era già lontana; era texas perché squallida frontiera per gli avventurieri per nulla picareschi del miracolo italiano. […] Certamente: i fatti di Ungheria, il primo uomo nello spazio, i grandi muri di una guerra che non si faceva da una parte all’altra, i palazzi abusivi, le fabbriche abusive, le rapide speculazioni, l’arricchimento del nord lo spopolamento del sud e la grande migrazione biblica di quegli anni – magari questi fatti e problemi non ci sono con nome e cognome in «Officina»; ma la rivista è lì a dimostrare che ha fatto da spartiacque, per la sua parte, perché altri li potessero cogliere qualche chilometro a valle con maggiore rapidità e più esattezza66.
Questa memoria accumulativa e ritmica, dall’emblematico titolo Mi ricordo di questo futuro, condensa, mediante il cortocircuito temporale e nelle forme ellittiche di un poemetto in prosa, il trauma psi63
Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 8. Pier Paolo Pasolini, Una rivista polivalente, in Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 472. 65 Costanzo Di Girolamo, Critica della letterarietà, Il Saggiatore, Milano 1978. 66 Roberto Roversi, Mi ricordo questo futuro, in Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, cit., p. 478. 64
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i. «mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «officina»
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cosociale della mutazione italiana («un texas») e i suoi esiti letterari sul piano della «confusione degli stili». Entrambi i grovigli la rivista ci lascia in eredità: il problema di un «impegno postmoderno»67 e la topografia delle forme poetiche contemporanee in cui, a un centro lirico si combinano in modo complementare le periferie antiliriche e in cui perfino il long poem modernista, il monologo drammatico o le forme di straniamento brechtiano si ibridano con l’immediatezza della confessione68. Il “punto d’onore” di questa rivisitazione delle forme sta nel concepire, in un contesto già mutato, l’idea di stile non come fatto puramente letterario ma come premessa di diversi rapporti fra gli uomini. Nel ritorno odierno “al reale” come questione di “codici” e di “convenzione”69, ossia come nesso fra forma e società, ben presente ai “padri” officineschi, ciò attesta come sia oggi pensabile, in dialogo col passato e con i “cocci” paterni, una “critica futura”.
67 Cfr. Pierpaolo Antonello, Dimenticare Pasolini. Intellettuali e impegno nell’Italia contemporanea, Mimesis, Milano 2012. 68 Mazzoni, Sulla poesia moderna, cit., pp. 192-193. 69 Cfr. Francesco Orlando, Codici letterari e referenti di realtà in Auerbach, in Castellana (a cura di), La rappresentazione della realtà. Studi su Eric Auerbach, cit., pp. 17-62 e Carlo Tirinanzi de Medici, Il vero e il convenzionale, Utet, Novara 2012.
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ii. L’esperienza del «Menabò»
1. La premessa al primo fascicolo del «Menabò»1, uscito nel giugno 1959, non firmata ma di chiara impronta vittoriniana, dal punto di vista delle strategie discorsive è un interessante esempio di testualità argomentativa ad alto tasso figurale. Presenta innanzitutto uno stile elencatorio, in cui il decalogo, o il manifesto programmatico, si fanno iterazione, ripetizione ritmica, e utilizza, per veicolare l’argomentazione, una diffusa figuralità per così dire “cartografica”. Il campo metaforico mobilitato è infatti quello della mappa, del tragitto, della posizione. Oggetto di questo transito è naturalmente la letteratura: ci si chiede con insistenza «a che punto ci troviamo», qual’è la situazione della letteratura. L’intento, palese, di «rimettersi in movimento», rinvia implicitamente a una situazione di stasi, di paralisi, di crisi. Diagnosticata la stasi, Vittorini da anatomo-patologo si mette con la sua straordinaria vis polemica a individuarne le cause endogene, pertinenti l’oggetto – la letteratura – e quelle esogene, relative al contesto. Lo stile iterativo tipico della narrativa vittoriniana interessa insomma anche le strutture di questa prosa saggistica: il sintagma e il compiacimento è, ad esempio, ripetuto molte volte e ritmicamente scandito dagli a capo, a denunciare tra le cause immediate della crisi «la mancanza di rigore e di tensione», e tensione, come si sa, è parola-chiave della riflessione dell’ultimo Vittorini. Il primo editoriale del «Menabò» denuncia già, ricorrendo a una serie di immagini, la marginalizzazione della cultura umanistica: gli scrittori sono raffigurati come i «nuovi Arlecchini della commedia 1 Ora in Elio Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di Raffaella Redondi, Einaudi, Torino 2008, pp. 867-869.
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letteratura come storiografia?
sociale di questo nuovo seicento». Si tratta in fondo, e precocemente (siamo ancora negli anni Cinquanta!), dell’odierna questione della crisi della critica e della letteratura, di cui, a partire da Notizie dalla crisi di Segre, si è poi tanto discusso nel dibattito teorico degli ultimi due decenni. Ma sono soprattutto le «cause remote» a stupire per la loro capacità prefigurante. Il saggio di Vittorini si muove infatti dal generale al particolare, dal contesto socioculturale alla testualità letteraria. Fra i fatti extraletterari indica il livellamento dell’esperienza letteraria nell’ambito dilagante della cultura dei consumi, che oggi diremo mediatica (Vittorini scrive «televisione, giornalismo da rotocalco, sanremismo»…) e la “verticale” specializzazione del sapere tecnico-scientifico (che, secondo Vittorini, alla cultura di massa sembra contrapporsi come affascinante e ignoto, in modo «quasi marziano», ma che in verità agisce «in congiuntura» con quella). Si tratta insomma della crescente marginalità della cultura letteraria nell’universo dei saperi specialistici e in quello, speculare, del nascente intrattenimento mediatico. Tra i fatti più specificamente letterari, Vittorini individua inoltre la fine dell’individuo come eroe (potremo dire la stessa crisi del personaggio-uomo diagnosticata da Debenedetti) e il tramonto della dialettica tradizione-avanguardia, i cui sintomi vengono rilevati sia nel tecnicismo «francese» che nella «rivolta a vanvera» della nuova beat generation. Alla lunga denuncia segue una più smilza parte propositiva. Si propugnano infatti: 1) la dimensione planetaria della ricerca: Vittorini propone un sondaggio sovranazionale, comparativo, per temi e problemi, sui «fatti nuovi» («francesi, inglesi, americani, polacchi, spagnoli, tedeschi, jugoslavi, giapponesi, algerini, russi o italiani che siano»); 2) una critica letteraria intesa come ipotesi, ricerca aperta, congettura (connessa alla spiegazione stessa del titolo della nuova rivista: che la parola “menabò” veicoli «un’idea di funzionalità e rapido e allegro di suono» è, come si desume dalle note di Raffaella Redondi, un suggerimento di Calvino). L’editoriale vittoriniano del primo «Menabò», insomma, ci sorprende ancora oggi perché dopo cinquant’anni ne sentiamo attuali i nodi problematici. In fase di preparazione, Vittorini lo fece leggere a Calvino e la risposta fu consenziente, ma Calvino obiettò anche che i bersagli non erano abbastanza nitidi: «la sua forza è attutita dall’al-
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ii. l’esperienza del «menabò»
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lusività, il pubblico e anche gli iniziati si butteranno alla caccia delle interpretazioni»2. È vero: Vittorini non chiarisce chi siano i «nuovi Arlecchini», né esplicita a chi «dei molti o pochi che fanno milizia letteraria» mostrerà la lingua o tenderà la mano ma, proprio grazie all’allusività figurale, manifesta un’insofferenza ad ampio raggio per le metodologie critiche e per le poetiche che in quella vigilia degli anni sessanta erano emergenti, alle quali è stato poi sbrigativamente assimilato: a esempio la “nuova scuola” francese, strutturalista, o la nuova ribellione avanguardista. Vittorini intuisce il sorgere della condizione postmoderna, la dissoluzione dell’estetico nel quotidiano, la crisi sia dell’avanguardismo che del classicismo novecentesco, la situazione dell’immaginario letterario in un universo iperspecializzato. È all’opera dunque, all’esordio dell’esperienza del «Menabò», il vittoriniano «demone dell’anticipazione». Ma in che modo e con quali strumenti Vittorini guarda avanti, come si prefigura ciò che verrà, come vi reagisce? Rileggendo il primo editoriale, credo occorra ridiscutere la vulgata storiografica e interpretativa relativa alla rivista-collana. Quest’ultima è fondata su due assiomi, curiosamente antitetici: 1) la rivista sarebbe riassumibile nella celebre formula “letteratura e industria” (la questione posta dal n. 4), intesa come puro e semplice invito all’adeguamento tematico-contenutistico al nuovo contesto della modernizzazione italiana; 2) il «Menabò» non sarebbe che una periferia di un campo di questioni, poste sotto l’ombrello dell’«aggiornamento» (stavolta) linguistico e formale, anziché contenutistico, che hanno in quegli stessi anni come vero centro il Gruppo 63. Entrambi i luoghi comuni hanno contribuito a oscurare l’importanza del «Menabò» e la sua specificità culturale: mentre il «Politecnico» ha meritato e ottenuto studi di grande rilievo, come quello di Marina Zancan, non è stato così per l’ultima rivista di Vittorini. 2. Dimostrare che la proposta vittoriniana non consisteva nell’appello a un aggiornamento dei “contenuti” o in una versione banalizzata dell’estetica del rispecchiamento, non è difficile. La pars construens del primo «Menabò», a ben guardare, debole nella premessa, è affidata a 2 In Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, cit., pp. 799800, 830 e 869.
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un altro breve scritto di Vittorini contenuto anch’esso nel primo fascicolo: Parlato e metafora, definito da Pautasso «il manifesto della rivista». Prendendo le mosse dal tradizionale dibattito su lingua e dialetto, Vittorini sposta i termini della questione sul terreno della progettazione formale, un terreno che gli consente di tratteggiare una sua teoria della letteratura. La questione del linguaggio nel romanzo non è proponibile per Vittorini semplicemente come scelta fra dialetto e lingua, perché sia nel linguaggio parlato che in quello letterario vi è una tendenza all’irrigidimento in formule fisse, in frasi fatte. Tale tendenza sclerotizzante «si perpetua anche nei dialetti e nei gerghi» che quindi non sono di per sé una garanzia di creatività. È invece compito dello scrittore far metafora, «tradurre in parola ciò che non è già parola», liberare il linguaggio dagli stereotipi, guarirlo da quella che Calvino, molti anni dopo nelle Lezioni americane, chiamerà la peste del linguaggio. Con l’uso estensivo del concetto di “metafora”, Vittorini intende “sperimentazione formale” e “progettazione”. La metafora non è qui la regina delle figure retoriche, cara alle poetiche barocche e simboliste, capace di alterare la trasparenza fra significante e significato: al contrario, «la forza della metafora è appunto una forza di precisazione», la metafora è il mezzo per la «costruzione congetturale dell’oggettività». In Parlato e metafora, Vittorini conferma insomma la sua idea di un realismo non mimetico e la sua concezione dei compiti della letteratura. Già nel dopoguerra fare realismo, tornare alla realtà, per lui – al contrario che per la vulgata neorealista – significava soprattutto dare della realtà una rappresentazione formalmente nuova: vi sono almeno due modi di “tornare alla realtà”. Uno che vi scopre, tornandovi, un aspetto nuovo e ne dà un rappresentazione che non può non risultare anche formalmente nuova. E uno che ne riprende e sviluppa o semplicemente rielabora un aspetto già noto, e insomma già acquisito alla letteratura3.
Come ha scritto Edoardo Esposito, «contenuto e forma sono, per Vittorini, due facce della stessa medaglia»4. Alla fine degli anni Cinquanta, l’importanza del lavoro sulla forma, prima che esser teorizzata con saggi o proposta con sondaggi testuali è praticato nella costruzione stessa dell’oggetto «Menabò», come vera e propria que3
Elio Vittorini, Diario in pubblico, Bompiani, Milano 1970, p. 359. Edoardo Esposito, Poetica e teoria della letteratura nell’ultimo Vittorini, in «ACME», 16, maggio-agosto 1996, p. 125. 4
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stione di metodo. Tra il 1958 e il 1961 prende avvio, promossa da Vittorini, una nuova idea laboratoristica e congetturale della critica letteraria: sono gli anni che vanno dalla gestazione del «Menabò» a quella del «Gulliver», il progetto di rivista internazionale i cui materiali in parte saranno dal «Menabò» ospitati. Secondo Gian Carlo Ferretti, l’istanza sperimentale di Vittorini è una costante che lega il «Politecnico», i Gettoni e il «Menabò»5. Nei Gettoni vi è già, attestata dalla preferenza per gli eccentrici, una convergenza tra ricerca di nuovi autori e preferenza sperimentale. Quando, tra il 1957 e il 1958, Giulio Einaudi e Vittorini si accordano sulla chiusura dei Gettoni e sulla preparazione di una serie di quaderni o di una rivista è Calvino a mediare tra i due6. Nel dialogo tra Calvino e Vittorini prende corpo il riversamento della forma collana nella rivista e la centralità teorica dell’accostamento tra i testi creativi e il discorso critico. Vittorini, il 25 novembre 1957 pensa già a una condirezione di Calvino («ma vorrei che tu ti impegnassi con me apertamente. Cioè: che si dirigesse la faccenda a quattro mani, mettendo fuori tutti e due i nostri nomi») e alla giustapposizione pragmatica di critica e testi letterari («e conducendo tutti e due, a colpi alterni, il discorso critico che ci sarebbe da fare in margine ai testi. Ci stai?»7). Com’è noto, Calvino ha in seguito ridimensionato il proprio ruolo di condirettore affermando «la rivista era pensata e composta da lui»8, ma almeno inizialmente la sua voce fu tutt’altro che secondaria. I tre saggi calviniani sulla rivista (Il mare dell’oggettività, La sfida al labirinto e L’antitesi operaia) sono di certo tra quanto di più impegnativo sia apparso sul «Menabò». Entrambi i direttori sono del parere che il discorso critico debba correre tra i testi, non limitandosi a risvolti o prefazioni, né tanto5
Gian Carlo Ferretti, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino 1992, p. 211. Come dimostra il testo di una lettera del 6 novembre 1957: «La sua proposta sarebbe: chiudere a dicembre la gestione dei “Gettoni”, accordandosi con te per un saldo. Iniziare a gennaio la nuova gestione dei quaderni trimestrali […]. In attesa dell’uscita del primo quaderno (sarà possibile farne uno a primavera?) usciranno gli ultimi “gettoni”». Ora in Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999, pp. 870-871. 7 Lettere inedite di Vittorini 1956-65 consultate da Raffaella Redondi presso Edoardo Esposito, curatore con Carlo Minoia dell’epistolario in corso di stampa per Einaudi. In Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, cit., pp. 799-800. 8 Italo Calvino, Presentazione in Il Menabò (1959-67), Indici ragionati a cura di Donatella Marchi, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1973. 6
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letteratura come storiografia?
meno al contrario a soli saggi critici. È l’accostamento metadisciplinare, il dialogo di creatività letteraria e contrappunto critico a dare dimensione congetturale e ipotetica al criterio di ricerca adottato: inteso come critica della cultura e della società e non solo come critica letteraria.
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Giustapponendo testi letterari, (narrativi, poetici o teatrali) e saggi critici non che trattino dei testi ma del problema o della tendenza che il testo coinvolge 9.
Anna Panicali10 ha notato come questo sistematico montaggio si svolga nel «Menabò» allo stesso modo con cui nel «Politecnico» si associavano grafica, forma visiva e testo scritto. Accostando due sguardi differenti, quello saggistico e quello letterario, su uno stesso nodo problematico, l’ultima rivista di Vittorini esibisce un impianto precocemente dialogico. In questo quadro si comprende come il noto dibattito su letteratura e industria, che prese il via nel 1961 sul quarto fascicolo, non fosse altro che il modo per riproporre, non solo storicizzandolo ma anche risituandolo in modo interdisciplinare, il problema del rapporto “letteratura e realtà”, cioè del nesso problematico fra forma letteraria e oggetti della modernizzazione italiana. L’elemento centrale del famoso editoriale di Vittorini, dal titolo Industria e letteratura, uscito nel settembre 1961, è l’idea di letteratura che viene veicolata, non la semplice denuncia del ritardo della cultura umanistica davanti all’industria o alla tecnologia. La letteratura è concepita come «un mezzo d’indagine», un «filtro di coscienza e di giudizio» della vita reale del paese. Non a caso, il primo fascicolo della rivista si era già aperto con Il calzolaio di Vigevano, il romanzo breve di Mastronardi, scoperto dal maieuta Vittorini, in cui la violenta deformazione formale, la furia ironica e la scelta del dettaglio allegorico (l’oggetto scarpa, la periferica cittadina lombarda) divengono strumenti letterari per una insuperata inchiesta sociale sul nostro “miracolo”. Se il modo non mimetico ma congetturale e interdialogico di concepire i rapporti tra letteratura e realtà porta la riflessione del «Mena9 Intervista di Roberto De Monticelli a Vittorini su «Il Giorno» del 24 febbraio 1959 dal titolo Scrivo libri ma penso ad altro. 10 Cfr. Anna Panicali, Elio Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni, le riviste, l’attività editoriale, Mursia, Milano 1994.
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bò» lontano dalle estetiche del rispecchiamento, l’insistenza sul cortocircuito fra letterario ed extraletterario, fra testo e contesto, consente a Vittorini una precoce critica del concetto di rappresentazione, che trent’anni dopo diverrà egemone nella riflessione critico-teorica postmoderna (a partire dall’orizzonte del Nuovo storicismo americano e degli Studies). Nella Premessa al sesto fascicolo del «Menabò», uscito nel settembre 1963, Vittorini liquida con una certa insofferenza la «solfa» sulla nota questione «industria e letteratura» e pone invece al centro della ricerca la parola-chiave «nessi»: quello che (la questione letteratura e industria) nascondeva era molto semplicemente solo di essere il modo più aggiornato di tornare a porre il problema “letteratura e realtà” che in questi suoi termini generalissimi e metastorici, cioè metafisici, resta da sempre così svisato, e per forza! […] Per intanto possiamo contentarci di riconstatare che la materia della letteratura come disciplina è almeno di stabilire “nessi”. Cioè verificare che ci sono (i nessi). Accorgersene. E istituirli letterariamente. Non ha nessun compito proprio, la letteratura, appena si ripeta che il suo compito sia di rappresentare il mondo; quasi che non ne faccia anche parte, del mondo; quasi cioè ch’essa sia parte solo dell’altro, il cosiddetto altro del vecchio linguaggio diviso tra “catene” e “spirito”, “materia” e “sospiro ardente”, “valle di lagrime” e “paso doble”, “soldato morto” e “bandiera”, “peccato” e “redenzione”, “carne” e “caro ideal”, “elettrodomestici” e “missa est”, “esistere” ed “essere”, “Coca” e “Cola”, eccetera, eccetera.
Esattamente come nel primo editoriale, dove il ragionamento spregiudicatamente dialettico di Vittorini ipotizzava un nesso fra manifestazioni della cultura di massa e lontananza “marziana” della cultura scientifica dalla vita concreta, ora i dualismi idealistici decostruiti con l’arma dell’ironia, e la conseguente vocazione a tagliare gli steccati disciplinari, contaminano i più svariati campi semantici: da quello della cultura dei consumi (elettrodomestici e Coca Cola) a quello della retorica patriottica (bandiera e soldato morto) a quello più ovviamente filosofico (materia e spirito). 3. È stato scritto da molti (ed è più difficile da smentire) che il «Menabò» più del «Verri» “tenne a battesimo” la neoavanguardia italiana. In effetti, nel 1962 il Gruppo 63 non si è ancora costituito e il numero 5 del «Menabò» ospita già i testi di Sanguineti e Filippini e dà voce a Umberto Eco, mentre il fascicolo 8 darà spazio a Manganelli e a
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letteratura come storiografia?
Porta. Renato Barilli, critico della neoavanguardia, ha letto il tragitto dell’ultimo Vittorini come un (sia pur incerto) «oltrepassamento della barriera del naturalismo», e ha salutato l’ospitalità data al Gruppo 63 come una “apertura a sinistra” della rivista einaudiana11. Innanzitutto non è vero che la rivista, prima del quinto numero, sia attestata su posizioni “di retroguardia”. Se il primo e il terzo numero sembrano aprire su questioni care all’eredità neorealista (la narrativa regionale e di guerra e la narrativa meridionale) il secondo fascicolo guarda già in avanti e si lega al sesto, pubblicato nel settembre 1963, promuovendo una ricognizione sulle nuove linee della poesia contemporanea: si tratta di una ricerca esplicitamente diversa da quella coeva della neoavanguardia. I due saggi portanti di tale indagine sono affidati a Fortini nel secondo (Le poesie italiane di questi anni) e a Crovi nel sesto fascicolo (Una linea della ricerca poetica). Se dal saggio fortiniano Vittorini, nell’editoriale, prenderà in parte le distanze, quello di Raffaele Crovi attesta in pieno la “linea” culturale della rivista, essendo Crovi il segretario di redazione. Superare l’identificazione di poesia e lirica – caratteristica dell’interpretazione di Hugo Friedrich – attraverso una pluralità di voci e di generi, non solo riprendeva la linea di «Officina» ma preludeva anche alle odierne interpretazioni che insistono sull’apertura antilirica, narrativa, dialogica della poesia contemporanea12. I fascicoli secondo e sesto cercano insomma di sondare testi poetici che documentano «diversi modi di storicizzare i sentimenti», valorizzando una linea attestata da Blok, Saba, Machado, Dylan Thomas, Brecht, sostanzialmente diversa dalla “poesia pura”. Questa lettura comporta non solo una critica dell’ermetismo ma anche un ridimensionamento della proposta agguerrita dei novissimi, da Crovi denominati «pattuglia della neoavanguardia», dediti «a un semplicistico sovvertimento del linguaggio poetico» che, per Crovi, consiste nell’uso del «lessico come un elemento materico così come alla pittura informale capita d’usare le vernici». Si accoglie in tal modo l’eredità di «Officina», proponendo testi di Leonetti, Volponi, 11 Cfr. Renato Barilli, L’apertura a sinistra del «Menabò», «il Verri», VII, 1962, poi in La barriera del naturalismo, Milano, Mursia 1964. 12 Cfr. Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati Boringhieri, Torino 1994 ed Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005.
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Pagliarani, poi di Majorino, Giudici, Amelia Rosselli. Non a caso, proprio contro il secondo fascicolo si scatena l’attacco della neoavanguardia, con due interventi sul «Verri»: il duro articolo di Barilli sul mare dell’oggettività di Calvino e la stroncatura dell’intero fascicolo da parte di Alfredo Giuliani. Secondo una testimonianza di Crovi, «per Vittorini ogni proposta socio-culturale è destinata a risultare astratta se non si incarna in exempla poetici, in “utopie reali”»13. La lettura vittoriniana del mondo, e la sua non esaurita fiducia nelle possibilità della cultura di cambiarlo, includono in questi anni la dichiarata simpatia per Robbe-Grillet e soprattutto per Uwe Johnson e anche l’interesse per alcune voci della neoavanguardia italiana. Ma, come nota giustamente Leonelli, l’apertura di Vittorini «non fu allora, né in seguito, consenso, anche solo parziale»14 e fu comunque affiancata dall’aperto dissenso dell’altro direttore della rivista, Calvino. Mentre gli adepti del Gruppo 63 legittimano se stessi attraverso un’opera di semplificazione binaria, cercando cioè di scalzare l’ordine intellettuale precedente, riducendo a caricatura ideologica e a vecchiume le parole naturalismo, impegno e realismo, lo «sperimentalismo utopico»15 di Vittorini anziché banalizzare problematizza gli schieramenti, oltrepassa gli steccati, rimescola le carte, non è facilmente etichettabile. A proposito del fascicolo 8, uscito nel giugno 1965, Vittorini scriverà un breve editoriale che prospetta, ancora una volta ironicamente, tanti indici possibili per i testi ospitati: il poemetto di Volponi potrebbe fare caso a sé, i testi dei neoavanguardisti Sanguineti, Filippini, Porta e Manganelli potrebbero costituire un blocco unico, un altro blocco potrebbe comprendere Pagliarani e Amelia Rosselli, un altro i saggi critici di Spinella e di Leonetti. Ma volutamente i testi sono rimescolati e accostati al di là delle rispettive poetiche e Vittorini proclama con forza «non tutto concorda e neppure converge, in questo “Menabò” 8». Perché «l’avanguardia non è per noi un incontro che sospenda ogni altro tentativo (o residuo) di discorso». 13 Raffaele Crovi, Vittorini libertino-illuminista, «Autografo», n.s., 22, febbraio 1991, pp. 127-130. 14 Giuseppe Leonelli, La critica letteraria in Italia (1945-1994), Garzanti, Milano 1994, p. 96. 15 Alberto Asor Rosa, Lo sperimentalismo utopico di Elio Vittorini, in Paolo Maria Sipala, Elena Salibra (a cura di), Vittorini vent’anni dopo, Atti del Convegno internazionale di studi (3-5 aprile 1986), Ediprint, Siracusa 1988, pp. 9-20.
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letteratura come storiografia?
La diversità fra il «Menabò» e il Gruppo 63 si fa ancora più evidente prendendo in esame il dialogo con la coeva letteratura tedesca e utilizzando, per questa comparazione, il concetto di campo letterario desunto da Bourdieu, come è stato fatto con profitto di recente16. Il 1959, anno di uscita del «Menabò», è anche un momento di svolta nella letteratura tedesca del dopoguerra. È l’anno di uscita delle Congetture su Jakob di Johnson e de Il tamburo di latta di Grass: due romanzi che aprono una stagione sperimentale nel modo di rielaborare il passato storico. Non è un caso che il termine congettura sia anche lemma chiave della riflessione dell’ultimo Vittorini, che nel suo intervento al Prix International de Litérature Formentor 1962 – pubblicato sul «Menabò» 5 – esaltò il romanzo di Johnson (interpretato come romanzo delle «verifiche», «approssimazioni operative» e «contestazioni») contro «il ricatto della bella letteratura». Parallelamente, per la neoavanguardia italiana il Gruppo 47 tedesco costituisce un «modello collaudato» un «formidabile meccanismo di accumulazione di capitale simbolico»17. Ed è soprattutto il germanista feltrinelliano Filippini, traduttore di Grass, promotore del Gruppo 63, a divulgare in Italia i nuovi tedeschi, in polemica col principe dei germanisti einaudiani, Cases. Tuttavia, i rapporti tra i due gruppi, al di là delle amicizie personali, saranno nel complesso assai scarsi. Di diversa caratura culturale e assai più robusto è invece il legame che si crea tra i nuovi tedeschi e il «Menabò». Nella primavera del 1961 prendono avvio i contatti per un progetto di rivista internazionale franco-italotedesca. È soprattutto Francesco Leonetti il protagonista italiano di questa vicenda18 che è stata ricostruita puntualmente da Massimo Depaoli in un saggio su «Autografo»19 che tiene conto della documentazione ceduta da Leonetti al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia. Il progetto nasce dallo stesso gruppo di scrittori che nel 1960 avevano firmato il Manifesto dei 121 sulla guerra in Algeria. 16 Cfr. Michele Sisto, Mutamenti del campo letterario italiano 1956-1968. Feltrinelli, Einaudi e la letteratura tedesca contemporanea, «Allegoria», 55, gennaio-giugno 2007, pp. 86-110. 17 Ivi, p. 99. 18 Cfr. Francesco Leonetti, Appunti di lavoro nella preparazione redazionale della rivista «Gulliver» (1961-1963), «Il Ponte», XXIX, 7-8, luglio-agosto 1973, pp. 11721178. 19 Massimo Depaoli, Il viaggio del «Gulliver»: appunti sulla genesi di una rivista internazionale, «Autografo», n.s., febbraio 1991, pp. 45-60.
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Mascolo scrive a Vittorini delineando una rivista di critica totale e di pensiero fatta da scrittori, capace di dar voce a una «comunità genetica» di intellettuali europei, in qualche modo illuminista. Vittorini si rivolge a Leonetti identificando in lui (per l’esperienza precedente di «Officina») la personalità in grado di intessere i contatti in Italia. Fra gli italiani coinvolti non vi sono però i neoavanguardisti ma, oltre ovviamente a Calvino, Pasolini, Fortini e Moravia. Leonetti pubblicherà sul «Menabò-Gulliver» una nota dal titolo Questioni italiane in cui traccia esplicitamente la linea che parte dal «Politecnico» e passa per «Officina» giungendo al «Menabò», una linea che fa propria la battaglia per l’autonomia della cultura e che si pone criticamente nei confronti dell’avanguardia. Nel ’60 la ripresa di “avanguardia,” ha adottato il puro disordine espressivo fino al limite dell’arbitrarietà dichiarata o dell’arte combinatoria […]. Avanguardia può essere allora veramente un motivo generico o di revival.
I temi prospettati per costruire la nuova rivista europea nei primi incontri redazionali (a Zurigo e a Parigi) mordono nella realtà concreta: oltre alla questione algerina, si discutono la modernizzazione industriale, la percezione del tempo nell’epoca dei viaggi spaziali, la costruzione del muro di Berlino. Non è difficile scorgere, in quest’area tematica, da un lato l’anticipazione del dissenso intellettuale che negli anni Sessanta si coagulerà intorno alla guerra in Vietnam e dall’altro la prosecuzione del discorso vittoriniano dal «Politecnico» in poi sui rapporti tra politica e cultura. Dalla documentazione emerge inoltre che la rivista venne progettata, proprio come il «Menabò», come un laboratorio dialogico, che opera attraverso il montaggio e l’accostamento di testi eterogenei. I titoli via via pensati sono a questo proposito rivelatori: Dossier, 1789, EU, Work in Progress, Guernica. Con rinvio dunque alle nozioni di laboratorio aperto, congettura, progetto, ragione illuministica, transdisciplinarità, utopia. La stessa scelta del nome provvisorio della rivista, «Gulliver», proposto da Günter Grass, e approvato da Vittorini e dal gruppo italiano come sinonimo di fiducia nella «ragione tra i mostri» o come emblema della «sproporzione fra il potere e la letteratura», sembra richiamare, col piglio grottesco e straniante di Swift, la sfida specificamente letteraria al magma dei problemi contemporanei. Quando – per le diverse difficoltà editoriali e per i contrasti fra i tedeschi e i francesi – il progetto
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letteratura come storiografia?
naufraga, alcuni materiali verranno ospitati nel n. 7 del «Menabò» uscito nel marzo 1964 e denominato «Gulliver». Per questo numero zero della rivista internazionale, Enzensberger utilizzò la metafora dei rottami residuati da un naufragio ma utili per indicare la rotta ai naviganti futuri. Vittorini, nell’editoriale, preferì invece l’immagine meno catastrofica di una «vetrina».
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Perciò direi che con la prova che qui offriamo, servendoci del «Menabò» come di una vetrina, noi suggeriamo se non altro in quale direzione, e in quale combinazione, si potrebbe oggi svolgere un lavoro comune fra scrittori di più paesi20.
Entrambi gli scrittori pensano comunque a una comunità futura di scrittori europei la cui coscienza critica potrebbe trovar voce in uno strumento operativo come il «Gulliver». Meno di due anni dopo, il 12 febbraio 1966, la morte di Vittorini troncò la vita del «Menabò». La rivista-collana, dopo l’esperienza del «Gulliver», era però destinata ad assumere una dimensione sovranazionale. Da Vittorini, già ammalato, furono progettati due nuovi numeri internazionali: uno affidato a Enzensberger, sul tema «letteratura come storiografia», l’altro sulle nuove ricerche semiotiche e formaliste dei russi. Solo il primo – di cui Vittorini ebbe il tempo di vedere le bozze – fu realizzato prima della chiusura della rivista. Si tratta del nono fascicolo uscito il 5 luglio 1966. La nota redazionale offre informazioni sull’assetto che la rivista avrebbe dovuto assumere, data appunto dall’alternanza di numeri italiani e numeri europei. Nel nono «Menabò», il saggio di Enzensberger Letteratura come storiografia è affiancato da campioni testuali forniti dal Gruppo 47, da Walser a Kluge, da Weiss a Johnson. Il saggio delinea una ricostruzione della letteratura tedesca del dopoguerra e una teoria della letteratura fondata sulla differenza fra testualità storiografica (un testo di Golo Mann) e testualità letteraria (Berlin Alexanderplatz di Döblin ). Entrambi i testi – scrive Enzensberger – cercano di fare il punto su quanto è accaduto a Berlino nell’anno 1928, ma lo storiografo guarda ai dati sull’incremento della disoccupazione, lo scrittore presenta invece il punto di vista di un passante nella metropoli, con le drogherie, le vetrine e il profumo di trippa. La storia – scrive Enzensberger in un testo che potrebbe servire a ridiscutere gli attuali 20
In Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, cit., p. 1037.
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ii. l’esperienza del «menabò»
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orientamenti dei Cultural Studies – si occupa di potenze, di gruppi d’interesse, mai di uomini: «gli uomini che sono vissuti prima di noi li incontriamo solo nella letteratura». La letteratura, a suo avviso, reca dentro di sé, «nella penombra delle opere», le «tracce dei dimenticati». Per concludere: rispetto alla situazione del “boom” economico e della modernizzazione, gli scrittori tedeschi, come Vittorini, intendono mantenere viva, tramite uno sperimentalismo utopico, l’autonomia della letteratura e, insieme, una forte tensione conoscitiva e critica. In questa specifica vocazione della letteratura a creare nessi è racchiusa la voce dell’ultimo Vittorini, la sua eredità teorica. Con il progetto del «Menabò» e del «Gulliver» – per usare una felice espressione di Giovanna Gronda – Vittorini cerca per l’ultima volta di «superare la separatezza del lavoro intellettuale, senza rinunciare alla specificità della produzione artistica»21.
21 Giovanna Gronda (a cura di), Premessa a Per conoscere Vittorini, Milano, Mondadori 1979, p. 9.
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iii. Il lavoro non è (solo) un tema letterario: la letteratura come antropologia economica
1. Questo saggio intorno al concetto di lavoro, parola-chiave di un dizionario materialistico minimo, presuppone che la prospettiva con cui si considera la letteratura sia transdisciplinare e coinvolga i rapporti fra economia e sistema delle forme simboliche istituzionalizzate1. Con ciò si intende raccogliere, in primo luogo, la prospettiva metodologica delineata da Franco Fortini quando sosteneva che il critico, distinto dallo specialista della letteratura, è colui che parla dell’opera confrontando il messaggio letterario con tutti gli altri messaggi che lo attraversano. L’attività di mediazione del critico non si colloca solo fra autore e lettore ma anche fra l’opera e quel che l’opera non è: lo scopo della critica consiste «nell’implicazione di vari ordini di conoscenze in occasione e a proposito della conoscenza di un oggetto letterario»2. La possibilità di una verifica intersoggettiva del significato è, infatti, sempre legata a una qualche irruzione dell’extratesto nella datità testuale. Un siffatto intento, tuttavia, sembra tradursi, ormai, nel gesto comico di chi sfondi una porta spalancata. Proprio per il loro eclettismo e per la loro vocazione interdisciplinare, gli orizzonti teorico-letterari dell’ultimo trentennio appaiono infatti opponibili a quelli della cosiddetta “età d’oro” della teoria, gli anni Sessanta e Settanta. Gli approcci interdisciplinari sono divenuti tendenze egemoni in Inghilterra e negli Stati Uniti, con i movimenti del New Historicism e dei Cultural Studies che, ereditando la lezione della storiografia francese 1 Cfr. Gerald Holton, The Scientific Imagination: Case Studies, Cambridge University Press, Cambridge 1979, trad it., L’immaginazione scientifica, Einaudi, Torino 1983. 2 Cfr. Franco Fortini, Critica letteraria e scienza della letteratura (1970) in Id., Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987, p. 318.
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letteratura come storiografia?
de «Les Annales», hanno considerato i testi letterari come oggetti storici da porre in connessione con la più ampia gamma di discorsi. Il «massimo splendore»3 della teoria letteraria, insomma, sembra coincidere, nell’invenzione postuma della sua storia “gloriosa”, con l’egemonia dello specialismo strutturalista, la sua decadenza, invece, con il culturalismo interdisciplinare degli Studies. Un semplice sguardo agli indici delle tre raccolte di saggi di Ferruccio Rossi-Landi, che risalgono proprio all’arco di tempo che va dal 1965 al 19794, contraddice però questo schema: Dimensioni del lavoro, Schema della riproduzione sociale, Omologia fra produzione linguistica e produzione materiale, Sul denaro linguistico, Società, pensiero, linguaggio… Si tratta degli scritti di un importante studioso di semiotica della seconda metà del Novecento, attento più alla teoria dei segni di Charles Morris che alla semiologia di Roland Barthes: come mai i titoli dei suoi saggi tagliano di traverso così tanti steccati disciplinari? Il fatto è che Rossi-Landi aveva precocemente criticato Saussure e quei linguisti che apertamente o nascostamente ancora neo-idealisti si ostinano […] a considerare sociale il prodotto e individuale il lavoro che lo produce […]
Nel concetto saussuriano di parole, a suo parere, si celava un inganno che occorreva disoccultare. Una parola viene sì rimessa in circolazione dal singolo parlante, ma questa operazione rende individuale il lavoro del singolo parlante solo nel senso in cui è tale anche il lavoro del singolo artigiano od operaio che, riapplicando un dato modello su materiali, con strumenti e in un ambiente che sono sociali, produce quel paio di scarpe o riempie e suggella quella bottiglia di vino. La lavorazione, quella lavorazione, è individuale perché viene considerata individualmente; ma il modello della lavorazione è sociale 5. 3 Antoine Compagnon, Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino 2000, pp. 4-5. 4 Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano 1968; Semiotica e ideologia, Bompiani, Milano 1972; Metodica filosofica e scienza dei segni, Bompiani, Milano 1985. Su Rossi-Landi cfr. Augusto Ponzio, Rossi-Landi e la filosofia del linguaggio, Adriatica, Bari 1988 e l’intero fascicolo monografico della rivista «Athanor», 7, XVI, n.s., 2003 che, col titolo Lavoro immateriale, raccoglie gli Atti del Convegno Internazionale The Relevance of Rossi-Landi’s Semiotics Today, (Bari 14-16 novembre 2002). 5 Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, cit., pp. 67-68.
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Accortosi che il modello saussuriano, facendone un’entità separata, implicava il rischio di ontologizzare il segno, Rossi-Landi ricorre a una teoria metadisciplinare dei segni basata sull’omologia di economia e semiotica. Si serve insomma dell’economia politica per affrontare lo studio del linguaggio. In ciò, egli si muove controcorrente rispetto alle riduzioni del mondo a linguaggio e alla mancata considerazione della natura sociale di quest’ultimo, caratteristiche sia dello strutturalismo che dell’écriture derridiana, ma anche in senso avverso alle letture economiciste e iperpolitiche di Marx, di moda negli anni Settanta. Dalla critica di Marx all’economia politica, Rossi-Landi ricava l’affermazione che il lavoro è la fonte del valore e che tutte le merci hanno una qualità comune: quella di essere un prodotto umano. Analogamente, le parole e i messaggi non esistono in natura ma vengono prodotti dagli uomini. Due insiemi apparentemente separati (produzione materiale e produzione linguistica) sono in tal modo collegati dalla nozione di lavoro. L’impostazione di Rossi-Landi è materialistica, pragmatica e interdisciplinare: supera consapevolmente gli specialismi e si richiama all’unità del sapere. L’elemento omologico rompe le specializzazioni: obbliga a tener conto contemporaneamente di cose diverse, disturba il gioco indipendente delle sottototalità separate, richiama a una totalità più vasta, le cui leggi non sono quelle delle sue parti. In altre parole, il metodo omologico è un metodo antiseparativo e ricostruttivo, come tale sgradito agli specialisti6.
Le suggestioni metadisciplinari, provenienti dall’omologia tra produzione linguistica e produzione materiale istituita da questa teoria del linguaggio e critica dell’agire sociale, possono ancora oggi risultare attuali e feconde, in diverse direzioni. Lo stesso Rossi-Landi, come attesta il suo intervento a un seminario tenuto a Bari nell’aprile del 1985, ha fatto a tempo a veder materializzati nel computer i cortocircuiti tra corpi e merci, segni e denaro, linguaggio e lavoro, di cui si era occupato. Si può salire lungo quello che io ho chiamato “schema omologico della produzione”, fino a un certo punto, dove accade una cosa impressionante, e cioè che le due produzioni confluiscono. 6
Rossi-Landi, Metodica filosofica e scienza dei segni, cit., p. 53.
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Questa è una cosa degli ultimi pochi decenni: perché nella produzione di computer confluiscono un hardware, cioè, nel linguaggio dei tecnici, un corpo materiale, la materia elaborata di cui è costituito un computer, e un software, cioè un programma, un insieme di rapporti logici esprimibili verbalmente7.
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Ha potuto, inoltre, intuire che proprio la sua irriverenza per le recinzioni disciplinari permetteva, assai meglio dell’approccio francese, à la Baudrillard, abbacinato dalla superficie mercificata di tutte le cose, di demitizzare il nuovo sistema degli oggetti. Domandiamoci che cosa possa mai essere un oggetto per conto suo, cioè disciolto da ogni rapporto con l’uomo. Se la domanda è sufficientemente intensa, non potrà non emergere la contraddittorietà di voler parlare di un oggetto supponendo però di non parlarne, e la risposta non potrà che essere questa: “per contro suo” un oggetto è nulla, è qualcosa di morto. Suscitatore delle proprietà dell’oggetto è l’uomo col suo “lavoro vivente”, in quanto con quell’oggetto entra in rapporto. Questo entrare in rapporto comincia con la determinazione dell’oggetto come oggetto, per mezzo della “attività umana sensibile” (Prima Tesi su Fuerbach) […]. Il sistema degli oggetti, dall’uomo prodotti e investiti di proprietà, si stacca e sovrappone all’uomo, dominandolo. Uno dei nuclei più profondi di questa contraddizione è quello descritto nell’analisi marxiana della merce e del lavoro8.
Se dalla produzione di segni in generale si passa a quella più specifica, pertinente il codice letterario, credo si possa utilizzare l’impostazione omologica di Rossi-Landi anche per le intersezioni fra tematica e storia economica, da un lato, e fra temi letterari e semantica testuale dall’altro9. Innanzitutto, si tratta di una medesima impostazione pragmatica: la tematizzazione è un atto interpretativo come un altro, non un processo illimitato. In essa sono ravvisabili due diverse attività: quella dell’au7 Rossi-Landi, Il corpo del testo tra riproduzione sociale ed eccedenza. Dialogo (1985), «Corposcritto», 2, 2002, pp. 18-43. 8 Rossi-Landi, Metodica filosofica e scienza dei segni, cit., pp. 194-195. 9 Cfr. Romano Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 4. Cfr. inoltre Sergio Zatti, Sulla critica tematica: appunti, riflessioni, esempi, «Allegoria», 52-53, gennaio-agosto 2006, Daniele Giglioli, Tema, La Nuova Italia, Firenze 2001 e Alessandro Viti, Tema, Guida, Napoli 2011. Il ritorno alla critica tematica su scala internazionale è stato argomentato da Werner Sollors, The Return of Thematic Criticism, Harvard University Press, Cambridge, Mass.-London 1993. Inoltre, in questi anni, si è andato elaborando il progetto del Dizionario dei temi letterari, a cura di Remo Ceserani, Mario Domenichelli, Pino Fasano, UTET, Torino 2007.
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tore, che privilegia all’interno del proprio materiale testuale alcuni nuclei tematici, e quella del lettore, che può a sua volta scegliere, esaminando l’opera, di esaltare una certa prospettiva tematica a scapito di un’altra10. Ogni interpretazione è, del resto, una costruzione, e non va pertanto confusa con il misticismo ontologico: «il critico materialista accetta l’ermeneutica perché s’identifica nella prospettiva di una civiltà del dialogo che renda possibile un’intesa fra tutti gli uomini»11. In questo caso, la parola-chiave prescelta sottende la seguente tesi o costruzione: che la principale differenza concretamente riscontrabile tra gli animali e gli esseri umani, accanto ai processi linguistici, mnestici e cogitativi, sia il lavoro, categoria dell’antropogenesi e risposta laica dell’uomo ai propri «limiti oscuri». Forse la sola prospettiva materialistica oggi proponibile è infatti quella di chi, guardando alle ipotesi della genetica e dell’etologia, sottolinea nell’animale-uomo la predisposizione non solo all’aggressività ma anche alla cooperazione12. La descrizione in Homo sapiens di una coesistenza fra cecità egotica e solidarismo comunitario smaschera di per sé i pregiudizi indotti sia dagli alibi progressivi che da quelli ultraliberisti. Il lavoro umano, come appropriazione della natura, costituisce forse la principale tra le forme potenziali di cooperazione. Nonostante la divisione e l’asservimento del lavoro, nonostante le contrapposizioni filosofiche fra homo faber e homo ludens, l’uomo è un essere fisicamente costruito in modo da poter sopravvivere solo agendo: verificare questo assunto antropologico vorrebbe essere lo scopo di questo saggio. 2. In un capitolo di Aspetti del romanzo (1927), Sir Edward Morgan Forster, indagando le caratteristiche dell’Homo fictus, vale a dire del personaggio romanzesco, afferma che l’uomo reale, cioè l’Homo sapiens, trascorre la propria vita dedicandosi a cinque azioni fondamentali: nascere, mangiare, dormire, amare, morire. Tali azioni sono variamente messe in rilievo nella trasposizione romanzesca da Homo sapiens al suo cugino di carta, Homo fictus: maggiore attenzione per l’amore e la morte, minore per il sonno e il nutrimento. 10 Cfr. Franco Brioschi, Costanzo Di Girolamo, Massimo Fusillo, Introduzione alla letteratura, Carocci, Roma 2003, pp. 181-192. 11 Romano Luperini, Breviario di critica, Guida, Napoli 2002, p. 133. 12 Cfr. Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto, Bollati Boringhieri, Torino 2007.
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È significativo il fatto che Forster neppure nomini il lavoro. Questa rimozione è, a suo modo, eloquente e costituisce una vera e propria provocazione. Reca in sé un irresistibile invito a chiedersi se in letteratura il lavoro sia davvero un tema non rappresentabile. Le radici classiche e bibliche della cultura dell’Occidente sembrano negare dignità alla lotta per piegare la brutalità della natura a fini umani: l’idea che l’umano inizi dove finisce il regno della necessità è una costante, da Platone al giovane Marx. Il regno della necessità, per altro, è anche una maledizione nella Bibbia e corrisponde alla cacciata di Adamo dall’Eden (Genesi, III, 19). L’omissione di Forster corrisponde insomma a un luogo comune potentemente radicato nella nostra cultura. Per spiegare il misconoscimento del lavoro in letteratura occorrerebbe dunque indagare la genealogia discorsiva del concetto, secondo il metodo applicato da Michel Foucault ai saperi medico-anatomici: individuando cioè l’archeologia delle strutture cognitive, le cesure e i passaggi di paradigma e, soprattutto, la nonlinearità della storia intellettuale. Fino al XVIII secolo la parola lavoro designava la fatica servile, l’attività dei braccianti che producevano i beni di consumo necessari alla vita. Gli artigiani invece che fabbricavano oggetti durevoli non lavoravano ma operavano. I servi potevano essere retribuiti per il loro lavoro; gli artigiani si facevano pagare per la loro opera secondo un tariffario stabilito da quei sindacati professionali che erano le corporazioni e le gilde. Come ha messo in luce Hannah Arendt in Vita activa13, il lavoro non è sempre stato insomma il fondamento della cittadinanza e dell’identità sociale. Nell’antichità, il lavoro necessario a soddisfare i bisogni elementari (a riprodurre le basi materiali) era attività servile che escludeva dalla cittadinanza chi lo svolgeva. Per lavoro oggi noi intendiamo «un’attività remunerata, che si svolge nella sfera pubblica, attraverso la quale si acquista un’identità sociale»14. L’idea moderna di lavoro fa la sua comparsa col capitalismo manifatturiero. Nel moderno si verifica una radicale cesura perché “il tempo diventa denaro” nel senso più pieno dell’espressione: è l’epoca in cui acquista rilevanza, ai fini dell’arricchimento e del potere della classe dominante, l’accorciamento dei tempi di lavoro per unità 13 Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, trad. it. a cura di Sergio Finzi, Bompiani, Milano 1964. 14 André Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 21.
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di prodotto. Se la scarsa dignità del lavoro, segno di asservimento alla necessità, ha una lunga storia nel pensiero occidentale, l’astrazione del lavoro non riguarda dunque la produzione in sé, in ogni epoca, ma lo specifico significato sociale del rapporto di lavoro capitalistico15. A esperire in termini smembranti l’emblema stesso dell’astrazione, ossia la linea di montaggio fordista, è una scrittrice francese dotata di inattuale forza morale, che decise di farsi assumere nel 1935 nelle officine della Renault per meglio comprendere e penetrare la condizione operaia: Simone Weil. Il suo diario riesce a condensare, come poche volte accade nelle scritture della modernità, esperienza concreta e sintesi intellettuale, nel segno della frammentazione Da Ford non c’è che l’1% degli operai che abbiano bisogno d’un apprendistato di più d’una giornata. Questo sistema ha ridotto gli operai allo stato molecolare, per così dire, trasformandoli in una specie di struttura atomica delle fabbriche16.
Un vertiginoso rincaro d’astrazione e di feticizzazione delle cose sembra esser avvenuto nel secondo Novecento postindustriale con l’automazione e con il processo di internazionalizzazione della produzione che caratterizza soprattutto le economie sviluppate del Nord America, dell’Europa occidentale e del Giappone. In quest’epoca, il lavoro diviene “invisibile” perché intere produzioni vengono trasferite in paesi dove i salari sono pagati fino a 35 volte di meno rispetto a quelli dei paesi avanzati. Gli oggetti più comuni, come le auto o l’abbigliamento, sembrano così sorgere tra noi come per magia. È altamente significativo, a tale proposito, che, dal punto di vista discorsivo, dagli anni Ottanta del Novecento in poi, il termine lavoratore sia sempre più spesso sostituito con quello di operatore. Questo cambiamento terminologico coincide con il dominio dell’ideologia della Fine del Lavoro e con l’avvento del lavoro invisibile. Nella fabbrica robotizzata non c’è più rapporto alcuno tra l’operaio e il processo: l’operaio di una raffineria, di un pastificio, di un laminatoio, divenuto operatore, sorveglia il processo e comunica con l’immateriale digitando simboli numerici. Alla fine della giornata l’operatore, in un’ascesi di puro intelletto, ha eliminato ogni corporeità. 15 16
Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 246. Simone Weil, La condizione operaia, SE, Milano 1994, p. 247.
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L’avvento odierno del termine operatore dunque, lungi dall’essere neutrale o innocente, risponde a una precisa operazione ideologica. Sottende l’assimilazione del lavoro degli operatori di sistemi robotizzati a quello degli artigiani di mestieri completi, col pretesto che i primi possiederebbero almeno potenzialmente le chiavi d’accesso a un bagaglio di conoscenze pari a quello dei secondi. Stando ai teorici neoliberisti della qualità totale, le nuove professioni realizzerebbero cioè, in ogni settore della vita lavorativa, l’unità di sapere tecnico e invenzione. A ben guardare i “Nuovi operatori” non sono solo i sorveglianti del processo automatico, ma anche l’esercito precario di formatori/ selezionatori/intrattenitori/addetti al marketing. La parola operatore è utilizzata indifferentemente per l’addetto a un call center, o a un fast food, o a un casello autostradale, o a un punto vendita o a organizzare un “evento” (operatori culturali), e rinvia costantemente a disponibilità di adesione totale alla logica aziendale. Siamo in presenza, infatti, nel contesto della nostra iper-modernità, in cui i prodotti immateriali e le risorse mentali sono diventate materie prime nel circuito produttivo, di un nuovo genere di economia che trasforma in merce l’immaginazione e i desideri profondi. In questo contesto, germinano ovunque i nuovi operatori del “servizio” e del “prodotto”, pubblicitario, educativo, sanitario, postale, bancario, a cui si richiede di intercettare bisogni intimi e potenziali, di mercificare incontri e emozioni, di vendere sogni. 3. A che pro, dunque, in un contesto già di per sé così potentemente simbolico e immateriale, occuparsi del “tema del lavoro” in letteratura? Il fatto è che l’astrazione del lavoro capitalistico, “rappreso” nelle merci, esasperata nell’età postmoderna, ha reso pressoché impronunciabile la questione del significato del lavoro: il rapporto fra il lavoro umano e la riproduzione sociale e fra quest’ultima e la natura, coi suoi «limiti oscuri», è stato del tutto rimosso17. Ogni tema letterario, dal canto suo, «rimanda a una realtà extratestuale» e «porta dunque
17 Cfr. Riccardo Bellofiore, Dalla fine del lavoro al lavoro senza fine. Capitale, lavoro e movimenti all’inizio del nuovo millennio, «L’ospite ingrato», VI, 2003, pp. 182-188. Per un inquadramento complessivo, cfr. Maurice Godelier, Lavoro, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1979, vol. VIII, p. 34.
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con sé una valenza antropologica»18. L’attitudine della letteratura a guardare indietro, la sua vocazione a dar voce al dimenticato o al represso19, può risultare di grande rilievo cognitivo al fine di recuperare la natura “bifronte” dell’atto lavorativo. La rappresentazione letteraria, apparentemente desueta e marginale, può assumere così una sua specifica funzione cognitiva. La letteratura non è infatti solo un sopramondo fantastico: il reale irrompe nelle sue forme e strutture con la sua materialità immediata, e viene metabolizzato nell’atto stesso di esser raffigurato. La critica tematica può divenire così un utile pretesto per una teoria della complementarità dei rapporti tra testo e mondo. Mentre le metodologie strutturaliste riducevano il testo a una serie di contrappunti antinomici, e gli Studies ne fanno un discorso piattamente ideologico, si tratta invece di saper riconoscere nelle opere la compresenza di opposti in seno ad un’unità20. «Il lavoro, dal bricolage dei cosiddetti primitivi fino all’industria è l’insieme di operazioni con cui il servo si difende dalla morte»21: questa affermazione sottende la poco scontata antitesi lavoro-morte (in luogo di quella, di gran lunga più fortunata, di Eros e Thanatos). Fortini vi condensa, in forme aforistiche, la sua lunga meditazione sul pensiero di Lukács. Il lavoro come categoria-chiave dell’antropogenesi e come risposta dell’uomo alla morte è, infatti, il centro di gravità dell’Ontologia dell’essere sociale22, il libro di Lukács che disegna la fenomenologia dell’identità soggettiva perseguita attraverso una ricerca della storia dell’essere sociale. Qui, con il lavoro, l’attività umana spezza la causalità spontanea della natura. Le resistenze e gli ostacoli opposti dalla natura cieca (comprensiva dei limiti oscuri, e della morte) non sono un fattore di freno ma viceversa di stimolo per l’esercizio delle libertà umane. Le azioni più elementari del lavoro 18 Luperini, L’incontro e il caso. Narrazioni moderne e destino dell’uomo occidentale, cit., p. 32. 19 Per la nozione di ritorno del represso in letteratura si fa naturalmente riferimento al ciclo freudiano di Francesco Orlando, ripubblicato sotto il titolo generale di Letteratura, ragione e represso (Francesco Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Torino 1990; Id., Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992; Id., Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1997). 20 Nicolò Pasero, Marx per letterati. Sconvenienti proposte, Meltemi editore, Roma 1998, pp. 82-85. 21 Cfr. Franco Fortini, Opus servile, «Allegoria», 1, 1989. 22 György Lukács, Ontologia dell’essere sociale, 2 voll., trad. it. di Alberto Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976-1981.
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implicano un’attività oggettivante (consistente cioè nel dar vita a un oggetto nuovo rispetto al puro determinismo naturale) e una esteriorizzazione del soggetto che opera: vale a dire abilità, invenzione, stile personale impresso nell’opera. Per Lukács, il reale non include solo la gravezza hegeliana dei rapporti necessari tra fenomeni (il regno delle necessità) ma anche le possibilità latenti: l’atto lavorativo (libero) valorizza ed esplora le latenze del reale23. Tuttavia, quando il lavoro funziona solo per garantire la riproduzione sociale ed esclude l’auto-affermazione dell’identità soggettiva, si ha l’alienazione: come accade nel lavoro schiavile, e in genere in ogni forma di sfruttamento del lavoro altrui. Dal punto di vista antropologico, insomma, Lukács ha messo in evidenza la natura duplice, bifronte, della forma lavoro: esteriorizzazione del soggetto che opera, abilità, invenzione, stile personale impresso nell’opera, conversione in valore umano delle accidentalità sfavorevoli, ma anche – al contempo – alienazione, parcellizzazione, espropriazione, dominio del pratico inerte. Dato lo scarso credito di cui gode ora il pensiero critico, per sfuggire alla parodizzazione dei concetti, interpretando il tema lavorativo nei testi letterari, occorre forse straniare le pratiche discorsive incentrate sul concetto di alienazione, in voga negli anni Sessanta, e quelle euforiche degli odierni teorici della qualità totale, ponendole in cortocircuito con considerazioni lontane: ad esempio, con quelle di Leonardo o di Giambattista Vico. Il primo, negli appunti confluiti nel Trattato della pittura, polemizzò contro la svalutazione dei saperi tecnico-operativi implicita nella tradizionale divisione fra arti meccaniche e arti liberali24; il secondo, nelle Orazioni inaugurali recitate 23 Lukács ricorre a tale proposito all’esempio di Raffaello che, nel corso della propria prassi artistica, ha saputo ricavare gran profitto dalla forma delle finestre dove ha dipinto i suoi affreschi il Parnaso e La liberazione di San Pietro (una accidentalità sfavorevole è stata in tal modo convertita in un valore). 24 «Dicono quella cognizione esser meccanica la quale è partorita dall’esperienza, e quella esser scientifica, che nasse e finisse nella mente, e quella essere semimeccanica che nasse dalla scienzia e finisie nella operazione manuale. Ma a me pare che quelle scienzie sieno vane e piene d’errori le quali non sono nate dall’esperienzia, madre d’ogni certezza, e che non terminano in nota esperienzia, cioè che la loro origine, o mezzo, o fine, non passa per nessun de’ cinque sensi. E se noi dubbitiamo della certezza di ciascuna cosa che passa per li sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubbitare delle cose ribelli ad essi sensi, come dell’esenziade Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende…», in Paola Barocchi (a cura di), Scritti d’arte del Cinquecento, Einaudi, Torino 1977-1979.
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ogni 18 ottobre a partire dal 1699 fino al 1707 e incluse nella Vita, esaltando l’officium in contrapposizione all’otium, considerò il lavoro tra i «fini convenevoli alla natura umana»25. 4. La natura dialettica del lavoro umano, dunque, è oggi rappresentabile più con gli strumenti polisemici e ambivalenti della letteratura che con quelli logico-argomentativi della teoria. Tanto più che, su scala mondiale, parte considerevole della maggiore narrativa attualmente interessata da una sorta di ritorno al realismo26 sembra essere incentrata su rappresentazioni del lavoro. Nella letteratura tedesca, l’incipit di È una lunga storia (1995), il romanzo di Grass sulla riunificazione tedesca, mostra al lavoro i picchi muraioli, i lavoratori extracomunitari assoldati nel 1989 per smantellare il muro di Berlino e trasformarlo in souvenir incellofanati. In quella israeliana, Il responsabile delle risorse umane (2004) di Yehoshua narra la storia di un dirigente di una grande fabbrica di Gerusalemme che produce pane e carta, inviato dal suo padrone in una delle repubbliche ex-sovietiche per accompagnare alla sepoltura il corpo di un’addetta alle pulizie dell’azienda, immigrata con permesso di soggiorno temporaneo e uccisa in un attentato kamikaze. Nella letteratura americana la tensione tra corporeità e automazione, dopo la stagione cyberpunk27 che metteva in scena un futuro biorobotico, viene raffigurata con magistrale realismo da Philip Roth in una sequenza-chiave di Pastorale americana (1998)28. Nel testo, infatti, lo scarto «che conduce a una verosimiglianza tale da rendere la storia credibile a un livello più alto che non quello della mera fiction ben costruita»29 è dato dalle parti relative al lavoro del protagonista, e 25 Giambattista Vico, Le Orazioni inaugurali, I-VI, a cura di Gian Galeazzo Visconti, il Mulino, Bologna 1982. 26 Per la sdrucciolevole nozione di realismo cfr. Federico Bertoni, Realismo e letteratura, Einaudi, Torino 2007. 27 I romanzi più rappresentativi del genere sono Neuromante di William Gibson, La matrice spezzata di Bruce Sterling e nel campo cinematografico il film-culto cyberpunk Blade runner (1982) di Ridley Scott tratto da Il cacciatore di androidi ovvero Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Do Androids Dream of Electric Sheeps?) (1968) di Philip K. Dick. 28 Philip Roth, American Pastoral, Vintage Books, New York 1998, trad. it. Pastorale Americana, Einaudi, Torino 1998. Le citazioni seguenti sono tratte dalla trad. italiana. 29 Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2007, p. 124.
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in particolare dall’incipit del capitolo quarto, in cui il protagonista, lo Svedese, crede di trasmettere a una laureanda le glorie tecnico-produttive della propria conceria e non sa di parlare a una giovane terrorista che come Merry, la figlia latitante, vede nella sua fabbrica solo il luogo dell’odiato sfruttamento capitalista. L’intero quarto capitolo di Pastorale americana, inoltre, è incentrato sul tema dello smascheramento delle illusioni, sapientemente realizzato tramite l’artificio dell’intrusione: personaggi-vettori di contraddizioni insanabili, penetrando gli interni simbolici, professionali e famigliari dello Svedese, contaminano e corrodono ineluttabilmente l’ideologia della way of life dei ceti medi. Lo choc della guerra del Vietnam penetra nel salotto felice di casa Levov via video e la visione del monaco suicida in fiamme cambia il destino di Merry da balbuziente fanciulla in fiore a reietta e ricercata («Il monaco entrò in casa loro e vi rimase», p. 167). Rita Cohen, la pallida e cinica emissaria del gruppo terrorista, penetra nella fabbrica di guanti, cittadella dello Svedese, e spazza via di colpo il suo sogno di trasmettere i valori produttivi su cui aveva fondato l’esistenza. È vero, dunque, che qui si contrappongono frontalmente «l’epica del lavoro, dell’arrampicata sociale dell’emigrato, dell’abilità artigianale e dell’audacia imprenditoriale» e il «caos che la insidia, ne minaccia la ragione e la medesima sensatezza»30. Ma, grazie alla polisemia della testualità letteraria, il trattamento del tema del lavoro squaderna tutta l’ambivalenza connaturata all’operare umano: realizzazione a partire dalla forma bruta della natura di confortevoli manufatti, sapienza e fatica operativa, invenzione e reificazione. Il processo lavorativo narrato è planetario e, per certi versi, faustiano: le pelli dei piccoli montoni equatoriali africani da più di due secoli attraversano l’oceano e giungono via mare a Boston per venir poi lavorate nelle concerie e trasformate da abili guantai e tagliatori e, alla fine del processo, a ogni guanto viene data la propria specifica forma infilando la pelle su mani d’ottone scaldate dal vapore. Gli operosi valori di Seymour Levov tuttavia crollano di colpo davanti alla maliziosa inchiesta della sedicente studentessa («Gli altri sentono il fascino dell’industria guantaria come lo sente lei, signor Levov? Lei ha una vera passione per questo posto e per tutti i processi. Immagino sia questo a renderla un uomo felice», p. 140). 30
Luperini, L’incontro e il caso, cit., p. 312.
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Lo Svedese cerca un estremo appiglio concettuale per resistere all’insidiosa spirale di insensatezza che lo stringe (la bomba e l’omicidio di cui è responsabile la figlia: «non lasciarmi solo con quest’orribile enigma…», p. 141). E sembra trovarlo in un’archeologia del lavoro, nel nesso antropologico fra conquista della posizione eretta e movimento libero della mano, quali strutture profonde dell’umano, come viene suggerito dalla ricerca paleontologica31: Le scimmie, i gorilla, hanno il cervello, e anche noi abbiamo il cervello, ma loro non hanno questa cosa, il pollice. Non hanno il pollice opponibile come noi. Il dito interno della mano dell’uomo, questo potrebbe essere il carattere distintivo tra noi e il resto degli animali. E il guanto protegge questo dito interno. Il guanto da donna, il guanto del saldatore, il guanto di gomma, il guanto da baseball, eccetera. È la radice dell’umanità, questo pollice opponibile. Ci mette in grado di fabbricare arnesi, costruire città e via dicendo. Più del cervello. Forse ci sono degli altri animali che, in proporzione al corpo, hanno il cervello più grande del nostro. Non so. Ma la mano è una cosa complicata. Si muove. Non esistono altre parti del corpo coperte, in un essere umano, che abbiano una struttura mobile così complessa… (pp. 141-142)
La rilevanza dell’operatività manuale nel testo di Roth assume insomma connotati ambigui, caratterizzati a un tempo da forza cognitiva e da tratti perturbanti. Non a caso, tutta la prima parte del capitolo è dominata dalla centralità della mano, dettaglio corporeo propriamente umano, operativo e creativo, ma anche feticisticamente e mostruosamente isolato: la piccolissima mano di Rita Cohen (p. 134), su cui lo Svedese deciderà di modellare un guanto esemplare ma che, poche pagine dopo, in una camera d’albergo, sarà strumento di seduzione e di ricatto sessuale («Doveva aver infilato la mano dentro, la sua mano doveva essere sparita dentro di lei», p. 159); la grande mano sapiente del vecchio tagliatore, incallita dal lavoro con le forbici pesanti (p. 136), le mani d’ottone per dar forma al pellame, che appaiono come «pericolosamente calde» e «bellissime mani amputate che galleggiavano nello spazio come le anime dei defunti» (p. 132). Nel 1986, all’inizio della fase in cui produrrà alcuni dei romanzi più rilevanti degli ultimi vent’anni, in una conversazione con Primo Levi, Roth aveva sottolineato nei testi del suo interlocutore l’impor31
Cfr. André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino 1977.
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tanza del tema dell’operatività umana sulla materia32: non credo sia dunque del tutto azzardato ipotizzare un’influenza della scrittura di Levi, in cui la questione del lavoro umano è posta al cospetto del più radicale dei laboratori sociali, sul trattamento antropologico del mito della laboriosità, smentito ma, al contempo, affermato in Pastorale americana. 5. È Darwin, amatissimo da Levi, che in l’Origine dell’uomo formula la teoria secondo la quale la liberazione della mano da funzioni di pura locomozione ha provocato in Homo sapiens il trionfo del cervello. Ma locomozione bipede e abilità manuale sono già nella riflessione dei Greci, da Anassagora a Galeno, proprietà esclusive dell’uomo, che ne rendono possibile il primato sugli altri esseri viventi, e l’atomista Democrito già definiva l’uomo un essere ricco di talento, che nella sua attività utilizza in sinergia le mani, la ragione e la duttilità della mente33. Nell’opera di Primo Levi questa valorizzazione del lavoro viene costantemente raffrontata alla sua più radicale negazione: il lavoro coatto nei campi di annientamento. In Se questo è un uomo, nel Lager, gli italiani di formazione liceale, avvocati o dottori, vengono derisi e soprannominati «due mani sinistre», cioè goffi nel lavoro, incapaci di maneggiare adeguatamente una pala, e incapaci al contempo di parlare una sola parola di tedesco o di polacco o di Yiddish. Tutti i libri di Levi contengono una critica della secolare pretesa umanistica, astratta, libresca, della superiorità delle arti liberali su quelle meccaniche, dell’ozio contemplativo sul lavoro reso servile. Questo motivo ricorrente si sviluppa soprattutto ne La chiave a stella (1978), scritto come dichiara l’autore in «disaccordo con una tesi estremistica che il lavoro è il grande nemico». È l’ideologia del “rifiuto del lavoro” a vantaggio delle macchine desideranti e del principio del piacere, che circolò in tutta la Nietzsche-Renaissance e nei movimenti 32 Philip Roth, A Man Saved by His Skills, «The New York Times Book Review», October 12, 1986, trad. it., Salvarsi dall’inferno come Robinson, ne «La Stampa», 26 novembre 1986 ora in Primo Levi, Conversazioni e interviste (1963-1987), a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, pp. 84-93. 33 Cfr. Oddone Longo, Scienza, Mito, Natura. La nascita della Biologia in Grecia, Bompiani, Milano 2006, p. 101.
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iii. il lavoro non è (solo) un tema letterario
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giovanili intorno al ’77 e fu all’origine della deriva decostruzionistica e della ricezione banalizzata di Deleuze, Guattari, Foucault. La chiave a stella non a caso avrebbe dovuto intitolarsi manzonianamente Vile meccanico.
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Accanto alla retorica ufficiale che esalta strumentalmente il lavoro ce n’è un’altra cinica e stupida che dipinge il lavoro come un’espressione puramente servile dell’uomo34.
In particolare, la suprema riflessione dello Svedese sulla mano darwiniana come radice dell’umano, sembra tratta da Roth da una analoga pagina de La chiave a stella e l’amore per il lavoro ben fatto di Faussone è, come per lo Svedese, sapienza dei trucchi e degli stratagemmi necessari per trasformare la materia. Le avevo davanti agli occhi, le mani di Faussone: lunghe, solide e veloci, molto più espressive del suo viso […] Mi avevano richiamato alla mente lontane letture darwiniane, sulla mano artefice che, fabbricando strumenti e curvando la materia, ha tratto dal torpore il cervello umano, e che ancora lo guida e stimola e tira come fa il cane con il padrone cieco35.
La chiave a stella è la storia di Tino Faussone, montatore e collaudatore piemontese che gira il mondo (tra Arabia Saudita, India e Urss) per costruire tralicci, ponti sospesi, trivelle petrolifere, gru. È un romanzo scandito in capitoli-racconto che possono funzionare anche come storie singole. Il gergo lavorativo presta le parole-chiave al testo, a partire dal titolo: in particolare collaudo, malizia, messa in opera, lavoro ben fatto. La malizia è una qualità latente della materia, una sfida che la natura oppone a chi vi opera per trasformarla: occorre scoprire la malizia insita in ogni lavoro, saggiarne cioè con abilità di mente e di mano, con pazienza e con astuzia, le intime necessità. L’opera, sia metallica o chimica o di narrazione, è il risultato del lavoro. Il lavoro (sia di chi monta tralicci o monta molecole o anche di chi costruisce storie) comporta il «misurarsi con la materia». Il denominatore comune è la sfida, la fatica, e il piacere che l’opera dà, vale a dire il lavoro ben fatto. Come in Conrad, in Levi, 34 Alfredo Cattabiani, Quando un operaio specializzato diventa un personaggio letterario, intervista a Primo Levi, «Il Tempo», 21 gennaio 1979. 35 Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi, Torino 1978 ora in Id., Opere, 2 voll., a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. I, p. 1089.
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grazie al lavoro, ci si misura con gli elementi. Non a caso, La chiave a stella termina con una citazione da Tifone. La materia-mater, la madre nemica, la matrice, impone all’operatore una partita tra due avversari del tutto disuguali. La materia è vecchia come il mondo, sorniona, solenne e ostile come una Sfinge e il lavoro secondo Levi serve a comprendere, accogliendo questa sfida, la materialità dell’universo e quella di noi stessi. Esemplare è il passo in cui Faussone spiega la sua passione per il lavoro ben fatto e il suo interlocutore argomenta la sua idea del lavoro. «Sa, non è per il padrone. A me del padrone non me ne fa mica tanto, basta che mi paghi quello ch’è giusto e che coi montaggi mi lasci fare alla mia maniera. No, è per via del lavoro: metter su una macchina come quella, lavorarci dietro con le mani e con la testa per dei giorni, vederla crescere così, alta e dritta, forte e sottile come un albero, e che poi non cammini, è una pena: è come una donna incinta che le nasca un figlio storto o deficiente, non so se rendo l’idea». La rendeva, l’idea. Nell’ascoltare Faussone si andava coagulando dentro di me un abbozzo di ipotesi, che non ho ulteriormente elaborato e che sottopongo qui al lettore: il termine “libertà” ha notoriamente molti sensi, ma forse il tipo di libertà più accessibile, più goduto e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo36.
Quest’epica lavorativa in Levi è dunque assai più complicata rispetto a quella celebrata dalla retorica produttiva e progressista. Come ben vide Claude Lévi-Strauss, La chiave a stella è il libro di un «grande etnografo»37. Analogamente, in un racconto della raccolta Vizio di forma dal titolo Il fabbro di se stesso, dedicato a Italo Calvino, Levi, attraverso la voce di un uomo dotato di smisurata memoria genetica, ripercorre tutto il processo evolutivo della materia vivente, a partire dagli organismi acquatici, per passare agli uccelli, ai rettili e ai mammiferi, fino alla “nascita” delle mani. Ancora una volta la mano è l’organo che, permettendo la sfida con l’avversario smisurato, determina il solco che separa i primati dall’uomo. 6. La tematizzazione del lavoro in letteratura, alludendo a uno sfondo antropologico, può dunque fornire strumenti per problema36 37
Levi, Opere, cit., vol. I, pp. 1073-1074. Ivi, p. XCI.
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tizzare i pregiudizi e i luoghi comuni postmodernisti. Ad esempio, la nuova retorica della creative class che sembra funzionare di recente, nella sociologia dei processi lavorativi, come maquillage univocamente ideologico per mascherare la crisi dei ceti medi e la precarizzazione dei lavoratori della conoscenza con parole d’ordine euforizzanti: celebrando cioè le magnifiche sorti del talento, della tolleranza e dell’ingegno dispiegate nel postmoderno dal design, dalla moda e dall’architettura38. Alcuni dei percorsi disciplinari che sono approdati, dalla fine degli anni Ottanta in poi, a teorizzare l’avvento di una nuova epoca, hanno messo a fuoco la profonda alterazione del lavoro culturale nel «nuovo paradigma produttivo che si può chiamare postfordista»39. Tuttavia, la fine dell’intellettuale legislatore40 grazie alle capacità prefiguranti proprie delle migliori opere letterarie, era già stata annunciata a inizio del Novecento da Luigi Pirandello in uno dei suoi capolavori, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore in cui, nei primi due capitoli di tipo “filosofico”, Serafino affronta la questione delle macchine. Il protagonista è perfettamente consapevole di appartenere a un nuovo tipo di lavoratore legato all’industria dello spettacolo («E io – modestamente – sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago») il cui compito non è la produzione di beni materiali ma di sogni, immagini, merci immateriali («Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare. Io non opero nulla»). Anche qui, è il dettaglio corporeo propriamente umano a emblematizzare la reificazione del gesto lavorativo e la perdita dell’aura: l’operatore è ridotto nella sua professione «a una mano che gira una manovella». Nel secondo Novecento italiano, tradizionalmente, a proposito del tema del lavoro industriale si fa riferimento a un dibattito circoscritto, quello su Industria e letteratura promosso da Elio Vittorini sul «Mena38 Per la fortunata nozione di creative class, cfr. Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano 2003; per un’opposta concezione critica dei processi in corso nel lavoro intellettuale, cfr. Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, Milano 2007. 39 Cfr. Marco Revelli, Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo, in Pietro Ingrao, Rossana Rossanda, Appuntamenti di fine secolo, Manifestolibri, Roma 1995 e Aldo Bonomi, Il distretto del piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2000. 40 Cfr. Zygmunt Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 219-221.
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bò» 4, nel 1961. Negli immediati dintorni del fascicolo monografico della rivista di Vittorini furono pubblicate una serie di opere che, con scelte stilistiche molto diverse (dalla mimesi neorealista al grottesco espressionista), raffiguravano la fenomenologia del miracolo e della modernizzazione: la trilogia dedicata a Vigevano da Lucio Mastronardi; due romanzi di Ottieri (Tempi stretti, 1957 e Donnarumma all’assalto, 1959); le fiabe-racconto di Calvino Marcovaldo ovvero le stagioni in città pubblicate nel 1963 ma scritte nel decennio precedente; La speculazione edilizia, La nuvola di smog, La giornata d’uno scrutatore, concepiti da Calvino come un trittico nel 1955 e portati a termine tra il 1957 e il 1963; i libri di Bianciardi Il lavoro culturale (1957), L’integrazione (1960) e La vita agra (1962). Tra tutte le opere uscite durante il “miracolo” economico, tuttavia, forse solo i testi di Meneghello e di Volponi, per certi aspetti paradossali rispetto al dibattito promosso dal «Menabò», hanno saputo rappresentare, pur in forme assai diverse, la natura dialettica del lavoro umano. Libera nos a Malo (1963), autobiografia, saggio, racconto, pastiche plurilinguistico di Luigi Meneghello, è in primo luogo un libro antropologico: si compone d’una moltitudine di aneddoti e la narrazione ha il dinamismo dell’associazione di idee, capace di restituire la felice molteplicità delle esperienze popolari della microcomunità maladense. Il testo inizia con un ritorno al paese natale, Malo, nella provincia vicentina, in una sera di temporale, in una casa contadina. In apertura di libro il narratore, appena tornato dal lungo espatrio inglese, viene messo a dormire nella camera grande, la stessa dove è nato. Questo tuffo nelle radici comporta la resurrezione del tempo infantile perduto, che si configura innanzitutto come felice, torrenziale eversione linguistica. Nel libro, la vitalità ludica e lo scongiuro ritmico e arcaico dell’espressione dialettale, entrano in conflitto con le lingue ufficiali del potere: la retorica patriottica fascista e i precetti clericali. Tuttavia nel 1963, data in cui il testo è composto, l’Italia sta vivendo il suo miracolo, e anche Malo sta mutando: vi è un diffuso senso di fine e di sospensione: «Il cromo scaccia il legno, i finti marmi la pietra, il neon le lampadine; i bagni entrano nelle case, le cucinette moderne soppiantano le vecchie cucine, verranno i termosifoni, i frigoriferi, i tappeti»41. 41
Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Bur, Milano 2007, p. 87.
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La parlata nativa e infantile, ricostruita con ironia e perizia filologica, costituisce un nocciolo di materia primordiale ormai in via di erosione. La celebrazione dei processi vitali termina così nell’incertezza e nel vuoto della carta. Solo un aspetto della vita collettiva resiste più dell’incantamento e dello sberleffo ludico-corporeo al non senso e al moto della modernizzazione. Oltre all’ordine millenario della fatica contadina, legata ai bisogni primari, al corpo, alla fame e alla morte, esiste una facoltà più alta, più propriamente umana, per definire la quale l’espatriato ricorre non al dialetto ma a concettitermini del latino e dell’inglese. Gli aspetti del lavoro di cui ho parlato finora riguardano soprattutto ciò che Hannah Arendt nel suo bellissimo saggio sul lavoro umano chiama “labour” e distingue da “work”. È il lavoro-fatica, il tribulare del dialetto, che caratterizza soprattutto le società contadine, e si svolge sotto il segno della necessità: sono tipicamente i lavori della campagna, i lavoro domestici, i lavori servili, tutto ciò che ha a che fare col sostentamento della vita fisiologica, secondo il ritmo delle stagioni, del giorno e della notte, del nascere, del crescere, del nutrirsi. È quel lavoro che bisogna fare semplicemente perché si mangia, perché si consuma, perché si vegeta; il lavoro che bisogna rifare ogni giorno, ogni mese, ogni anno: la condanna e la schiavitù primaria dell’uomo. Questo è il tipico labour, ma qualunque altra attività può diventare mero labour quando si sia costretti a compierla in condizioni e con ritmo analogo, e così accadeva in paese. […] Non ricordo se ne parli la Arendt, ma la virtù che corrisponde a questo aspetto del lavoro è ovviamente la pazienza, la laboriosità, la voglia e la forza di lavorare molto. Questa virtù era riconosciuta presso di noi: “È un lavoratore” è un’espressione di alta lode per mio padre, e vuol dire proprio questo: è uno che si consuma a lavorare, che non si ferma mai. Ma non è l’espressione più alta di lode che mio padre usa a proposito di lavoro. La lode massima è: “È bravo, è un bravo operaio”, e per operaio intende non tanto l’operaio industriale, quanto chiunque faccia “opere” (che è la traduzione esatta di “work”), l’artigiano, colui che la Arendt chiama homo faber. Qui la virtù somma è l’abilità tecnica, la virtus dell’artefice. Perché, noi non eravamo una società rurale, eravamo un paese, con le sue arti, il suo work creativo, fatto di abilità e non solo di pazienza. Per questo ci sentivamo parte di un mondo: la Arendt sostiene con ammirevole lucidezza che il “mondo” solido e reale, in quanto distinto dalla caduca e illusoria “natura”, si produce quando l’artigiano interpone tra noi e la natura le cose che fa: res da cui reale42.
42
Meneghello, Libera nos a malo, cit., pp. 102-103.
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Anche Memoriale (1962), il romanzo d’esordio di Paolo Volponi, letto per lo più superficialmente come documento dell’alienazione industriale, ha saputo mettere in scena, nel cuore di una fabbrica, il rapporto elementare dell’uomo con le cose e la dialettica del lavoro: l’animazione destruente del reale, di matrice psicotica, del protagonista, l’operaio-contadino folle e visionario Albino Saluggia, rinvia sempre al suo contrario, alla possibilità utopica di redenzione, di conciliazione dell’uomo con gli oggetti, grazie al lavoro liberato. Memoriale non è un romanzo documentaristico: sul versante delle forme dell’espressione, la scrittura con cui Volponi racconta la modernizzazione italiana è poetico-romanzesca, data dall’immissione di fitte colate di poesia entro l’universo narrativo. In Volponi, l’attività lavorativa – grazie a questa trasfigurazione poetica – è colta nella sua duplicità dialettica. Il lavoro non è oggetto di rifiuto preventivo: la stessa fabbrica è «bella», e il gesto lavorativo, l’attività manuale dell’homo faber alla macchina è fondamentale per l’identità di un io fragile e costantemente minacciato dall’invasione degli oggetti e degli sguardi altrui. Il rumore della fresatrice mi tirava nella lotta e più la sentivo mordere più m’infervoravo nel lavoro. Il suo rumore, i suoi tagli, mi convincevano aspramente di saper lavorare; davano alle mie mani una forza che non avevano mai avuto, anche se mi ero accorto che le mie mani più che guidarla erano trascinate dalla macchina. […] Perché tutti non amavano questo lavoro, e molti addirittura lavoravano e vivevano nella fabbrica dimenticando questo frutto del loro lavoro, dimenticando l’esistenza dell’ultima porta della fabbrica? 43
Alla Fine degli anni Ottanta, Volponi pubblicherà del resto Le mosche del capitale, vera e propria opera-mondo sulla realtà del lavoro contemporaneo. Con una serie di espedienti costruttivi (soprattutto il montaggio di generi diversi: il dialogo, l’operetta morale, il poema epico, la favola allegorica) vi si narra l’epica degradata dell’ulteriore “modernizzazione”: la fine del lavoro industriale, sia dirigenziale che operaio, e la fine delle mediazioni. Nel testo prendono la parola gli oggetti aziendali, la scrivania, la poltrona, la penna, la valigetta presidenziale e, soprattutto, il computer. Il terminale, nuovo oggetto-emblema del lavoro elettronico, parla con 43 Paolo Volponi, Memoriale, in Id., Romanzi e prose, 3 voll., a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2002, vol. I, pp. 45-47.
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la luna e dialoga con i ficus e li accusa d’esser desueti perché veri e perfino vivi. Due modalità lavorative vengono dunque, allegoricamente, poste a confronto:
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Non servite alle automazioni, alle joint ventures, ai contratti; non influite sui costi né sui programmi. Siete ancora proiettati sulla trattativa, sulle mediazioni secondo le infiltrazioni politico-sociali e anche sentimentali. Non siete nemmeno patrimoniali, convertibili, frazionabili e non potete agganciarvi alla velocità del capitalismo odierno e favorire la sua assoluta astrazione. Siete ancora veri, perfino vivi44.
Incluso nel testo, vi è il Poemetto di un dirigente che si finge scritto dal protagonista Saraccini sul verso di un progetto di riforma aziendale. Il bisogno di verità del lavoro traspare nei versi, in filigrana, dalla stessa serie battente di negazioni: Il lavoro non è più vero per gli uomini proprio perché gli uomini non sono più veri per ciò che è vero lavoro oggi – solo luce lampo suono altrui – passaggio di radiazioni – traforo catodico, sgabello, schermo, afono pulsante, telefono, scheda, semaforo…45
Non diversamente che per Meneghello e per Volponi, sia pure con accezione più apocalittica e angosciata, anche per Pasolini, negli anni Settanta, la “modernizzazione” italiana è rappresentabile a partire dai mutamenti avvenuti nel rapporto tra gli oggetti e il lavoro umano. Nelle Lettere luterane, trattato pedagogico incompiuto, scritto in forma di lettere indirizzate a un giovane napoletano immaginario, Gennariello, si disegna una svolta irreversibile, una “Fine del mondo” che separa senza rimedio la generazione dello scrittore da quella del suo più giovane interlocutore, educato da oggetti senza storia, senza segni di mano umana. Quindi, nell’ambito del linguaggio delle cose, è un vero abisso che ci divide: ossia uno dei più profondi salti di generazione che la storia ricordi. […] Tu mi dirai: le cose sempre cambiano. “O munno cagna”. È vero. Il mondo ha eterni, inesauribili cambiamenti. Ogni qualche millennio, però, succede la fine del 44 45
Paolo Volponi, Le mosche del capitale, in Id., Romanzi e prose, cit., vol. III, p. 202. Ivi, p. 67.
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mondo. E allora il cambiamento è, appunto, totale. Ed è una fine del mondo che è accaduta tra me, cinquantenne, e te, quindicenne. Fino al Cinquanta, fino ai primi anni Sessanta è stato così. Le cose erano ancora fatte o confezionate da mani umane: pazienti mani antiche di falegnami, di sarti, di tappezzieri, di maiolicari. Ed erano cose con una destinazione umana, cioè personale. Poi l’artigianato, o il suo spirito, è finito di colpo. Proprio mentre hai cominciato a vivere tu. Non c’è soluzione di continuità ormai, ai miei occhi, tra quelle tazzine e un vasetto46.
7. Negli anni più recenti, un critico ha ipotizzato l’esistenza di una Letteratura italiana postindustriale47: potremo chiederci in effetti se sia emersa una narrativa capace di rappresentare le nuove modalità del lavoro, il mercato globale, i migranti, le delocalizzazioni. Dal decennio Novanta in poi, non sono mancate opere sulla nuova flessibilità e precarietà del lavoro, come quelle di Voltolini, Nata, Lolli, Rea, Nove, Ferracuti48. Si tratta tuttavia di testi per così dire schiacciati su due poli complementari: la pura cronaca e la pura interiorità frammentata. A titolo di esempio, si possono considerare i due casi, opposti quanto a scelte stilistiche e formali, di La dismissione di Ermanno Rea e di Volevo solo dormirle addosso di Massimo Lolli. Rea travasa in una struttura narrativa i materiali di un’inchiesta sul campo. La dismissione appare come un reportage romanzato, dettagliato ed esatto, inventariale. Si racconta una situazione rovesciata rispetto a quella de La chiave a stella: lì il sapere del tecnico specializzato veniva utilizzato in giro per il mondo, qui è la fabbrica che, smantellata grazie all’ultimo sapere complessivo di un tecnico, se ne va in pezzi, un po’ in Thailandia, un po’ in Cina un po’ in India. Analoga 46
Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 35, 43. Filippo La Porta, Albeggia una letteratura postindustriale, in Tirature 2000, Il Saggiatore, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 2000, pp. 97-105. 48 Dario Voltolini, Rincorse, Einaudi, Torino 1994; Sebastiano Nata, Il dipendente, Theoria, Roma 1995; Massimo Lolli, Volevo solo dormirle addosso, Limina, Arezzo 1998; Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano 2002; Angelo Ferracuti, Le risorse umane, Feltrinelli, Milano 2006 e Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese, Einaudi, Torino 2006. Dal romanzo di Lolli, il regista Eugenio Cappuccio ha tratto l’omonimo film presentato al Festival internazionale del cinema di Venezia nel 2005; dal romanzo di Rea, il regista Gianni Amelio ha tratto il film La stella che non c’è, presentato anch’esso al Festival internazionale del cinema di Venezia, nel 2006. 47
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al libro di Levi è la struttura dialogica, la dualità dei narratori: un intervistatore-intellettuale in dialogo con un operaio – intervistato immaginario – Vincenzo Buonocore. Analogo anche il tema dell’etica del lavoro: Buonocore è un manutentore specializzato dell’Ilva, la grande acciaieria di Bagnoli – colui che «massaggia la pancia dell’impianto in panne e un po’ ne gode». L’operaio specializzato, capace di memoria storica e di sapere complessivo, si trova tra le mani l’incarico di dirigere la dismissione e di consegnare l’impianto ai cinesi. Lo fa come Faussone, con furia e scrupolo. L’esecuzione fabbrile, intelligente, puntigliosa del lavoro di smontaggio, è il canto del cigno di un sapere tecnico-scientifico, ormai inutile, desueto, disarticolato. È il “lavoro ben fatto” rivolto paradossalmente contro se stesso: la fabbrica è infatti portata via a pezzi, le torri vengono fatte saltare con la dinamite, al canto cupo dell’Internazionale. In Volevo solo dormirle addosso di Massimo Lolli dominano il flusso di coscienza e il monologo interiore. Il protagonista, Marco Pressi, è un manager di un’azienda informatica, inizialmente addetto alla formazione del personale, chiamato a fare il killer, il “tagliatore di teste”: gli viene infatti dato l’incarico di mettere fuori dall’azienda in tre mesi un terzo dei dipendenti, convincendoli a dimissioni “spontanee”, pena la perdita del proprio stesso lavoro. La voce narrante vive questa condizione in perenne shock, tra iper-sollecitazioni sensoriali dell’alta tecnologia, spostamenti planetari, competizione a oltranza: l’esperienza lavorativa e strategica del management qui assomiglia da vicino all’esperienza della guerra postmoderna, all’insegna dell’euforia distruttiva. Ciò che forse è più degno di nota è il fatto che sia nella cronaca di Rea che nello stream of consciousness di Lolli, il lavoro è rivolto contro se stesso, serve essenzialmente a distruggere lavoro. La rappresentazione del lavoro appare dunque, nella nostra recente letteratura, come una zona liminale, ancora in gestazione nell’immaginario. Il realismo al tempo del reality da un lato sembra debitore della non-fiction, del diario, della cronaca, che funzionano come una sorta di serbatoio per una narrativa ancora in fieri49, 49 Un esempio tra tutti: quello di Gianfranco Bettin, saggista-scrittore, il cui libroinchiesta Petrolkiller, scritto a quattro mani con Maurizio Dianese (Feltrinelli, Milano 2002) è l’esito del montaggio protocollare di documenti e di citazioni letterarie: la storia di centinaia di operai morti di cancro al Petrolchimico di Marghera e in altri siti industriali europei e americani per esposizione al cloruro di vinile.
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dall’altro appare prigioniero del «deserto del reale»50, in cui l’io è obbligatoriamente abbagliato, sottomesso al “sublime isterico” della cultura visuale. Tuttavia, guardando al panorama mondiale, si può notare come alcuni scrittori, anche a partire dalla concretezza del lavoro, si muovano in direzione contraria all’enfatizzazione del momento ludico e virtuale in ogni discorso umano. Si va forse delineando, a partire dalla rappresentazione letteraria e dai suoi effetti di verità, la possibilità di una critica della ragione finzionale51. Analogamente, per la teoria della letteratura, temi e forme possono ridiventare «il linguaggio […] del nostro contatto conoscitivo col mondo dell’uomo»52, contraddendo il pregiudizio maggiormente in voga nel postmodernismo, ossia che la letteratura non parli del mondo. Come forma paradossale di antropologia economica53, la letteratura può viceversa promuovere i cortocircuiti necessari a rappresentare criticamente una società, funzionando come sintesi immaginativa fra i diversi sguardi delle scienze umane. Negli anni in cui «è il sistema stesso in cui si è strutturata la tecnologia televisiva che crea, di trasmettitore in trasmettitore, un mondo “estetico”, un universo surrogato a bassa responsabilità e a bassa coerenza logica»54, la letteratura sta forse mettendo a punto strumenti, temi e forme, per bucare la bolla d’immanenza della post-realtà: la rappresentazione della materialità del lavoro umano è uno di questi strumenti.
50
Slavoj Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002. Cfr. Francesco Muzzioli, Teoria e radicalità. Una rassegna non rassegnata tra le posizioni letterarie attuali, «Moderna», IV, 1, 2002, pp. 29-44. Muzzioli utilizza il libro dello scozzese Stephen Baker, The Fiction of Postmodernuty (Edimburgh University Press, Edimburgh 2000), che rovesciando la più vieta formula Postmodernist Fiction, reintroduce la dimensione critica attribuendo a una certa narrativa (soprattutto Rushdie e De Lillo) elementi di criticità nei confronti della postmodernità come condizione storica e prefigurando una critica della ragione finzionale. 52 Cesare Segre, Tema/motivo, in Id., Avviamento all’analisi del testo letterario, Einaudi, Torino 1985. 53 Cfr. Richard R. Wilk, Economie e culture. Introduzione all’antropologia economica, Bruno Mondadori, Milano 2007. 54 Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006, p. 127. Il primo romanzo della trilogia di Siti, Scuola di nudo (Einaudi, Torino 1994) è, anche, un capolavoro sulla condizione del lavoro intellettuale nelle università italiane. 51
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iv. Ritorno del represso e storia letteraria: Francesco Orlando teorico “controtempo”
1. Non c’è forse miglior “cartina al tornasole” per monitorare lo stato dei rapporti fra teoria e critica che la storiografia letteraria, atto discorsivo «eminentemente ermeneutico» poiché «seleziona, propone e “salva” dall’oblio un determinato patrimonio attribuendogli significato e valore, e dunque un determinato “contenuto di verità”»1. Durante il corso del secolo che ci sta alle spalle, come si sa, a più riprese sono stati avanzati dubbi sulla legittimità della storia letteraria, conseguenza diretta di una delle più robuste asserzioni della teoria letteraria moderna: il postulato dell’autonomia della sfera estetica. Ciò non ha impedito che a questo genere di scrittura critica, nel medesimo arco cronologico, sia appartenuto un assoluto capolavoro: Mimesis di Auerbach. Nella seconda metà del Novecento, comunque, a cavallo fra semiologia e poststrutturalismo, la storia letteraria sembrava definitivamente caduta in disgrazia. René Wellek, in un saggio degli anni Settanta dal titolo The Fall of Literary History2, aveva riassunto il processo di disaffezione iniziato in Europa nel primo Novecento, approdando scetticamente alla negazione di attuabilità pratica della storia letteraria. Un’analoga disgregazione è da tempo in atto nelle nostre scuole e università: i generosi tentativi di costruire storie letterarie per generi, accostando la vicenda dei gruppi intellettuali alla storia della ricezione, sembrano mordere ormai nel vuoto. Il terreno suona cavo: nell’“assedio del presente”3, la memoria è sempre più usurata 1
Romano Luperini, Breviario di critica, Guida, Napoli 2002, p. 100. René Wellek, The Attack on Literature and Other Essays, University of North Carolina Press, Chapell Hill 1982, pp. 64-77. 3 Cfr. Claudio Giunta, L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, il Mulino, Bologna 2008. 2
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letteratura come storiografia?
e la storia letteraria come autocoscienza di una nazione, nel contesto della globalizzazione, sembra divenuta impossibile. Negli ultimi decenni, tuttavia, soprattutto negli Stati Uniti, attraverso i variegati approcci degli Studies e, soprattutto, del New Historicism, si sono affermate tendenze di derivazione nietzschiana e foucaultiana, in cui, all’opposto, una forma ibrida di storiografia culturale è ritornata al centro del discorso mentre la letteratura è stata decostruita in una genealogia di poteri. Ad esempio, l’uscita nel 2009 di un’opera come A New Literary History of America, a cura di Werner Sollors e Greil Marcus4, è un evidente effetto di questo clima culturale che prevede, tra l’altro, una risemantizzazione dello stesso termine Theory: inteso non più come punto d’intersezione fra critica letteraria, semiotica ed estetica ma come area di discussione sempre più eclettica e interdisciplinare. In oltre mille pagine A New Literary History of America narra l’America dalla sua nascita nelle cartografie cinquecentesche sino all’elezione di Barak Obama (rappresentata dalle immagini dell’artista afro-americana Kara Walker). La nuova forma di narrazione storiografica e di critica letteraria che questa recentissima operazione sembra implicare è basata sul catalogo affastellante, sul microsaggismo attualizzante e sugli incroci interculturali. Il libro, accanto alle sezioni dedicate a grandi autori come Emily Dickinson, John Dos Passos o Philip Roth, allinea, con pari dignità e rilevanza testuale, notizie sulla pornostar Linda Lovelace, sull’uragano Katrina e sul film hip hop Wild Style. Si susseguono in tal modo duecento contributi storici, culturali, filmici e letterari, posti in ordine cronologico: alcuni canonici, altri desunti dagli ambiti delle differenze o dalla cultura dei consumi, non solo dunque dalle scuole del “risentimento” (Postcolonial o Queer Studies) ma anche da quelle pop e transmediali (Fashion o Body Studies): le culture sommerse o i jeans Levi’s, l’impatto di Via col Vento o delle canzoni blues di Mamie Singer. Molti dei microsaggi assumono il punto di vista del “rimosso” sociale: quello dei Native Americans a cui viene raffrontata anche la scrittura dei canonici Faulkner e Hawthorne, o quello degli schiavi, i cui racconti fondano il genere della slave narrative. Sia la forma dell’atlante, mappa o catalogo (anche da noi assai praticata: basti pensare, a titolo di esempio, al Romanzo a cura di 4 Greil Marcus, Werner Sollors (a cura di), A New Literary History of America, Harvard University Press, Harvard 2009.
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iv. ritorno del represso e storia letteraria
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Franco Moretti o all’Atlante di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà) che il cortocircuito fra testualità letterarie e altre culture, vale a dire le principali mosse strategiche di questa forma di storiografia letteraria, hanno in sé, a mio parere, grandi potenzialità e gravi rischi. Non solo perché ad un aumento di considerazione dei nessi fra testo e mondo si associa l’impoverimento delle specificità del discorso letterario, dissolto nella babele intraculturale. Anche e soprattutto perché, come in ogni revisione postcoloniale del canone occidentale, la letteratura è vista come una grammatica del potere, occidentale o maschile, come documento di un paradigma ideologico dominante e repressivo. 2. Smascherare le grandi opere della letteratura occidentale, ritenute “sessiste” o “eurocentriche”, non aiuta la critica a risolvere il loro enigma. L’ambiguità di senso rispetto ai discorsi univocamente ideologici, la vocazione a un tempo conservatrice ed eversiva dei grandi testi letterari, la loro plurivocità, capace di dar fiato a ciò che l’ideologia proibisce o nasconde, possono viceversa a buon diritto fornire le basi per un criterio non idealistico di misura del loro valore e per un rapporto non storicistico fra storia e testi. I classici godono di una «serenità solo apparente» e hanno con la nostra epoca un rapporto perturbante, di familiarità e di estraneità. La loro riduzione a catalogo di ideologie dominanti cui contrapporre o accostare i “discorsi” subalterni, può obliarne la specifica carica spettrale trasferendo la memoria storica «interamente nell’inconscio e producendo nevrosi culturali»5. Tanto la proposta di un nuovo nesso fra teoria, critica e storiografia letteraria quanto le obiezioni teoreticamente più interessanti alla tendenza che, identificando il canone con il discorso del dominio, finisce per percepirlo come oggetto da prendere «a cannonate»6, provengono dalla voce di uno dei più importanti teorici della letteratura italiani, il 5
Guido Guglielmi, Letteratura, storia, canoni, «Allegoria», 29-30, 1998, p. 90. Cfr. Remo Ceserani, Cannonate, «Inchiesta-Letteratura», 110, ottobre-dicembre 1995. Ceserani, riprendendo un provocatorio articolo di J. McGann dal titolo Canonade («New Literary History», 25, 1994), ha puntualmente informato i lettori italiani che fin dal 1987 all’università di Stanford gli studenti, al canto «Hey hey, ho ho, Western culture’s got to go», hanno contestato la tradizionale lista obbligatoria dei classici, da Omero a Goethe, accusata di essere monoculturale, eurocentrica e maschilista. 6
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francesista Francesco Orlando, scomparso nel 2010. Orlando, che ha insistito «sull’effetto addirittura conservatore dei Cultural studies»7, senza arroccarsi in difesa dei capolavori dell’Occidente come «presunti momenti universali ed eterni», ha rivendicato il proprio modo, radicalmente alternativo a quello in voga presso gli studi di genere o postcoloniali, di considerare i testi letterari come campi di forze opposte, psichiche e sociali e come sede di uno specifico ritorno del represso, sia nelle forme che nella serie dei contenuti8. La posizione di Orlando non coincide con quella di chi si è arroccato nel fortilizio degli strumenti linguistici e semiotici decretando, negli anni Novanta, la “crisi della critica”9. Eppure, fuori dal perimetro, sia pur vasto, degli allievi e degli amici, questo teorico è noto per lo più come un critico “psicoanalitico”, legato a marxismo, freudismo e strutturalismo, ossia alla tramontata “stagione d’oro” della teoria. E in ciò, come egli ben sapeva, sono annidate ragioni di sminuimento e di incomprensione. Ciò che in futuro la critica e la teoria della letteratura potranno ereditare dalle sue ricerche è soprattutto un modo nuovo, duttile e insieme rigoroso, di porre la questione della storia delle forme e dei temi, momento cruciale dell’interpretazione10. 3. Che nel corpus teorico di Orlando vi fossero strumenti adatti a fondare un’ipotesi storiografica sulle «omologie fra strutture sociali, modelli culturali e temi dell’immaginario» e «fra questi e le strutture linguistiche e retoriche»11, è stato intuito, oltre vent’anni fa, da Remo Ceserani, reduce dalla stesura, con Lidia De Federicis, 7 Francesco Orlando, Teoria della letteratura, letteratura occidentale, alterità e particolarismi, in Ugo Maria Olivieri (a cura di), Un canone per il terzo millennio, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 72. 8 Cfr. Francesco Orlando, L’Altro che è in noi. Arte e nazionalità. Lezione Sapegno 1996, Bollati Boringhieri, Torino 1996. 9 Cfr. Cesare Segre, Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Einaudi, Torino 1993 e Id., Ritorno alla critica, Einaudi, Torino 2001. 10 L’occasione per un ripensamento dell’eredità culturale di Orlando è stata offerta dal ciclo di Sei lezioni a lui dedicate dall’Associazione Sigismondo Malatesta e dall’Università di Napoli «Federico II», e tenute presso la Biblioteca di Ricerca di Area Umanistica dell’Università di Napoli dal 3 marzo al 7 aprile 2011. Ora in Paolo Amalfitano, Antonio Gargano (a cura di), Sei lezioni per Francesco Orlando. Teoria ed ermeneutica della letteratura, Pacini, Pisa 2014. 11 Remo Ceserani, Raccontare la letteratura, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 148.
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iv. ritorno del represso e storia letteraria
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del più innovativo tra i manuali di letteratura pubblicati in Italia: Il materiale e l’immaginario. Le potenzialità storicizzanti del “metodo” di Orlando derivano infatti dall’incrocio dei suoi due modelli essenziali: il Motto di spirito di Freud e Mimesis di Auerbach. La lezione di Mimesis è già attiva nel volume giovanile Infanzia, memoria e storia da Rousseau ai Romantici (1966) che, adottando il metodo dei campioni disposti in una sequenza cronologica, valorizza la novità storica costituita dalla scoperta rousseauiana dell’infanzia come primo esempio della trattazione seria di una materia fino ad allora ritenuta futile ed insignificante, e definisce l’influenza contraddittoria di tale scoperta sul genere memorialistico nei secoli successivi. Il modo in cui Orlando accoglie la lezione di Freud, alla fine degli anni Sessanta, marca la distanza sia dal contenutismo freudiano che dal biografismo. È il periodo dei quattro studi del cosiddetto “ciclo freudiano” (Lettura freudiana della «Phèdre», Per una teoria freudiana della letteratura, Lettura freudiana del «Misanthrope», Illuminismo e retorica freudiana) in cui si propone un’applicazione dell’opera di Freud in chiave retorica e logica, individuando nel libro sul motto di spirito il modello capitale per l’interpretazione dei testi letterari. Freud infatti tratta il motto come una formazione di compromesso fra il rispetto del senso e il piacere di trasgredirlo. Estendendo questo modello a tutto l’ambito delle “figure”, e indicando un tasso di figuralità in tutti i discorsi umani, Orlando avanza una teoria che, facendo consistere l’opera di contraddizioni e di coppie di opposti, legittima una critica capace di valorizzare nei testi soprattutto la compresenza dei contrari in equilibrio dinamico, drammatico e conflittuale e l’ambiguità ideologica. La “teoria freudiana della letteratura” è infatti forse ancora oggi la sola ad avanzare una spiegazione del perché Pascal lasci la parola ai suoi nemici gesuiti, del perché Voltaire ci faccia ascoltare la voce dei fanatici e degli irrazionalisti e del perché Brecht dia spazio al punto di vista dei capitalisti. Problematizzando il concetto di letterarietà, assunto come un dogma nell’epoca del testualismo semiologico e poi ripudiato come un ferro vecchio scientista nel corso della successiva egemonia del Lettore12, la teoria di Orlando tenta di rispondere alla domanda 12 La nozione formalista di “letterarietà” entra nelle spirali di un circolo vizioso non appena si noti come “alterazione” o “scarto” siano variamente presenti in tutti i prodotti verbali. Per la problematizzazione del concetto di “letterarietà”, si fa riferimento a Costanzo
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letteratura come storiografia?
sartriana «che cos’è la letteratura?». Ciò che colpisce, nell’insieme dei lavori di Orlando, è dunque la capacità di coniugare istanze considerate teoreticamente inconciliabili, superando la tradizionale divaricazione fra eteronomia e autonomia, fra le posizioni che si richiamano al contesto storico e quelle che isolano il fenomeno letterario nella sua autosufficienza formale. Nel lavoro critico sulla singola opera, sia essa la Fedra, il Misantropo o il Gattopardo, Orlando impiega quella che lui chiamava la “scomposizione paradigmatica”, vale a dire lo smontaggio e il rimontaggio del testo secondo una logica di affinità e opposizioni privilegiando in particolar modo quelle che presuppongono contraddizioni fra disegno ideologico e forze della scrittura13. Nei lavori di storicizzazione, utilizza invece il metodo dei molteplici campioni testuali in un intreccio di costanti e varianti. I tratti originali della “storiografia” di Orlando sono dunque la scelta dei campioni esemplari, l’amplissimo arco cronologico considerato, la fiducia nella possibilità di storicizzare una costante di lunga durata e, dunque, nel valore di verità della letteratura. Orlando non è infatti solo uno studioso e un teorico: è anche e soprattutto un intellettuale, le cui proposte descrittive e interpretative sono innervate di un acuto bisogno di senso, del tutto immanente e materialistico, nutrite cioè di una scommessa paziente sulla direzione di marcia di Homo sapiens e dei suoi sistemi di simbolizzazione, codificazione e produzione culturale. Illuminismo e retorica freudiana (1982), ad esempio, rilegge la storia della Di Girolamo, Critica della letterarietà, Il Saggiatore, Milano 1978 e a Franco Brioschi, La mappa dell’impero. Problemi di teoria della letteratura, Il Saggiatore, Milano 1983. Un criterio fondato sul “tasso di figuralità” sembra, in questo contesto, costituire una difesa sia dallo scientismo che dalla deriva interpretativa. È quanto ha cercato di fare Stefano Brugnolo, utilizzando la lezione di Orlando, in La letterarietà dei discorsi scientifici. Aspetti figurali e narrativi della prosa di Hegel, Tocqueville, Darwin, Marx, Freud, Bulzoni, Roma 2000. Tale criterio è desumibile dal ciclo freudiano di Orlando, ripubblicato sotto il titolo generale di Letteratura, ragione e represso (Francesco Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Einaudi, Torino 1990; Id., Per una teoria freudiana della letteratura, Einaudi, Torino 1992; Id., Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1997). Lo straripamento della definizione di letteratura dall’alveo tradizionale che ne deriva, con coinvolgimento dei generi della trattatistica filosofica, politica o scientifica, non implica l’enfatizzazione del momento finzionale in ogni discorso umano bensì cerca di evidenziare il nucleo conflittuale correlato, in ogni tipologia discorsiva, alla densità figurale. 13 Cfr. Francesco Orlando, Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale, «L’Asino d’oro», 1, maggio 1990, pp. 122-135.
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cultura letteraria europea fra Sei e Settecento alla luce delle alterne fortune di due antitetiche figure retoriche, la metafora e l’ironia, e copre l’arco cronologico che va dalla nuova scienza galileiana all’età di Montesquieu e di Voltaire, verificando la ricchezza cognitiva dell’ambivalenza letteraria, l’inguaribile vocazione della letteratura, anche di quella “impegnata”, a dare voce al nemico, all’avversario, al vinto nell’atto stesso di negarlo o bandirlo. Il ritorno del superato, studiato da Freud in Das Unheimliche, finisce così per spiegare il riconoscimento letterario di ragioni storiche condannate o cosiddette irrazionali: il processo dell’illuminismo nasconde, insomma, una reversibilità o complementarità indispensabile all’esistenza stessa della letteratura. 4. Nell’ultima fase del lavoro critico e teorico di Orlando, l’ambizione storicizzante emerge con più forza. Fra vecchio e nuovo millennio, egli ha praticato infatti un’articolata ricognizione sul corpo testuale di Mimesis14, con la convinzione della non separabilità di referenti di realtà, da un lato, e codici, dall’altro e ha lavorato su tematiche di lunga diacronia, individuando tre temi nevralgici nei codici letterari dell’occidente, cercando di risalire dalle matrici greco-latine ed ebraico-cristiane, attraverso Medioevo e Rinascimento, fino alla modernità. La prima ricerca, iniziata già negli anni Settanta ma pubblicata in Italia15 negli anni Novanta, e negli Stati Uniti16 e in Francia17 negli “anni Zero”, è la sola giunta a pieno compimento ed è assai nota: si avvale di una documentazione molto ampia, di oltre ottocento testi, e cerca di dar conto della preferenza della letteratura per ciò che è sporco, vecchio, logoro e malfunzionante e del perché questa preferenza, 14 Cfr. Francesco Orlando, I realismi di Auerbach, intervista a cura di Giuseppe Tiné, «Allegoria», 56, luglio-dicembre 2007, pp. 36-51 e Id., Codes littéraires et référents chez Auerbach, in Paolo Tortonese (a cura di), Erich Auerbach. La littérature en perspective, Presses Sorbonne Nouvelle, Paris 2009. 15 Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine reliquie rarità robaccia luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi 1993. 16 Francesco Orlando, Obsolete Objects in the Literary Imagination, Yale University Press, New Haven 2006. 17 Francesco Orlando, Les Objects désuets dans l’imagination littéraire, Editions Classiques Garnier, Paris 2010.
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presente fin dalla classicità, si accentui a dimisura a partire dalla fine del Settecento, nel momento in cui l’economia e la tecnologia si razionalizzano. Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura esce quando storia e senso erano divenute le «due grandi dimensioni […] sotto processo o fuori moda»18; l’intento, del tutto controcorrente, di mostrare come, nell’epoca della modernità trionfante all’insegna della merce, la letteratura occidentale privilegi la rappresentazione di oggetti inutili, logori, scartati, invecchiati e con ciò protesti contro l’ordine della funzionalità borghese e della sua efficienza evocando, per contrasto, altri modi possibili del rapporto fra gli uomini e le cose. Il debito che questa indagine di oltre cinquecento pagine contrae nei confronti della «geniale tesi storico-letteraria sostenuta da Erich Auerbach per l’ambito intero della “rappresentazione della realtà”»19 è dichiarato in esergo. Gli oggetti desueti svela nelle rappresentazioni testuali i segni e i sintomi delle rivoluzioni industriali, sbarazzandosi del dogma teorico dell’autonomia letteraria rispetto al mondo. Il rapporto dell’uomo con le cose qui sta per il rapporto della cultura umana con i referenti di realtà, e la presenza di un’accozzaglia di cose immonde o logore, squallide o nocive a partire dal secondo Settecento, in tanta letteratura coeva al dominio della razionalità capitalistica assume il valore di un esemplare ritorno del represso: si tratta di una vastissima riprova della vocazione della letteratura «a contraddire nel suo spazio immaginario l’ordinamento reale»20. La seconda ricerca, oggetto di numerosi corsi universitari pisani, riguarda i modi e le forme di trattazione letteraria del soprannaturale. Una prima sintesi è confluita in un saggio, intitolato Statuti del soprannaturale nella narrativa, compreso nell’opera collettanea sul Romanzo, diretta da Franco Moretti21. Si basa su una quarantina di esempi e, andando oltre le tesi di Todorov, traccia un ampio quadro della fenomenologia del fantastico in tutti i secoli della narrativa, moderni e premoderni, basandosi su una rigorosa tassonomia e sul diverso dosaggio di “credito” dato al fantastico o, viceversa, di “critica” in senso illuministico. Per ricostruire la genesi della rappresen18
Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, cit., p. 13. Ivi, p. 38. 20 Ivi, p. 10. 21 Francesco Orlando, Statuti del soprannaturale nella narrativa, in Franco Moretti (a cura di), Il romanzo, 5 voll., Einaudi, Torino 2001, vol. I, pp. 195-226. 19
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iv. ritorno del represso e storia letteraria
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tazione del soprannaturale in letteratura, Orlando utilizza i concetti freudiani di negazione e di formazione di compromesso, in base ai quali credulità e incredulità finiscono sempre per vivere in tensione, e mai si escludono, non essendoci critica illuministica senza residui mitici e non essendoci credito che escluda del tutto il dubbio. La terza ricerca è ancora del tutto inedita e riguarda il tema del marito tradito. È stata l’oggetto di un intervento al Convegno L’adulterio nel romanzo, che ha avuto luogo, a cura di Loretta Innocenti, Paolo Amalfitano e Franco Fiorentino, a Sant’Arcangelo di Romagna nell’ambito dei colloqui dell’Associazione Sigismondo Malatesta il 30 e 31 maggio 2008 (gli Atti del quale sono in corso di stampa per Bulzoni). La relazione di Orlando, dal titolo Triangolo dell’adulterio, complesso di Edipo e separazione degli stili, ha messo in rilievo, con numerosi campioni testuali, come l’antichità classica conosca l’idea del disonore legato al marito tradito ma non l’aspetto del ridicolo. Fra le carte di Orlando, tuttavia22, vi sono moltissime altre pagine che danno conto di un progetto culturale ambizioso, diretto a passare in rassegna la storia letteraria occidentale per concludere che la derisione per il marito “cornuto” sorge solo a partire dai secoli del basso Medioevo, con un’intersezione complementare, spiegabile con il ricorso a Freud, fra mistero della Trinità e enigma delle corna, e sia dunque del tutto connaturata alla cultura cristiana. 5. Se si confrontano queste tre ipotesi critiche e teoriche con quelle implicite nella struttura pulviscolare di A New Literary History of America, risulta palese come, al contrario che in quell’opera incentrata sulle prospettive del Nuovo storicismo e degli Studi postcoloniali, nella prospettiva di Orlando storia e senso riacquistino la loro dignità interpretativa, oltre ogni vecchio storicismo dogmatico e controcorrente rispetto alle nuove “tuttologie” dei Cultural Studies. La proposta di Orlando è nettamente “controtempo”: condotta con le armi discorsive del raffinato polemista, in nome di una battaglia intellettuale contro le mode correnti. Non si tratta tuttavia di un’azione di retroguardia, sorretta da nostalgia o da risentimento. In L’intimità e la storia, ad esempio, egli difende strenuamente non tanto la “maestà imperitu22
Come è emerso nelle giornate napoletane dall’intervento di Sergio Zatti.
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letteratura come storiografia?
ra del Testo”23 quanto la categoria di mediazione connessa al lavoro del critico e prende le distanze dall’orizzonte ideologico del decostruzionismo. L’asserzione che la «fuga dall’individualità dei testi» non è incomparabile a quella dall’«individualità delle persone umane», infatti, allude polemicamente alla moda filosofica della “distruzione del soggetto” che a fine secolo ha proclamato l’illusorietà di tutte le categorie progettuali24. In Illuminismo e retorica freudiana ridimensiona Foucault che, preoccupato assai meno di storicizzare che di «produrre erudizione pittoresca», trascura del tutto il simbolismo medievale cristiano trattando con troppa disinvoltura il “principio di somiglianza”. Al celeberrimo maître à penser de Le parole e le cose oppone, ancora una volta, l’autore di Mimesis: «per esempio l’interpretazione tipologico-figurale della storia, di cui Foucault non fa parola, è al centro dell’interesse in tante pagine fra le più geniali di Auerbach»25. A più riprese, infine, è intervenuto per confutare le teorie del rovesciamento carnevalesco e del dialogo, i due più fortunati tra i concetti di Bachtin: all’idea della letteratura come puro luogo del riso, dello sberleffo e della corporeità o come platea in cui ascoltare alternativamente più voci che relativizzano l’idea di verità, Orlando oppone «una relativizzazione storicizzata o storicizzante; che contrapponga, quali approcci alla verità in conflitto fra loro, espressioni di tradizione e d’innovazione, perché no di conservazione e di progresso, fra le quali può poi restare infinitamente complessa la distribuzione delle ragioni e dei torti»26. La teoria postcoloniale e quella imagologica tendono a ricondurre all’“orientalismo”, cioè a un insieme di stereotipi culturali, l’immagine dell’Altro presente in letteratura, facendo del romanzo europeo fra Otto e Novecento una consenziente “figura” del dominio imperialistico; specularmente, le suggestioni carnevalesche di Bachtin considerano la letteratura come del tutto eversiva nei confronti delle logiche dominanti. Viceversa, le pazienti classificazioni di Orlando, l’esprit de géométrie a cui egli ha sempre subordinato il saggismo comparativo fino a costringere la propria scrittura critica 23
Cfr. Segre, Ritorno alla critica, cit., p. 86 Francesco Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Einaudi, Torino 1996, p. 8. 25 Orlando, Illuminismo e retorica freudiana, cit., p. 74. 26 Francesco Orlando, Prefazione a Emanuele Zinato, Il vero in maschera: dialogismi galileiani, Liguori, Napoli 2003, p. 3. 24
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iv. ritorno del represso e storia letteraria
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nella gabbia dell’astrazione (Dodici regole per la costruzione di un paradigma testuale; Dodici categorie da non distinguere troppo…), sono finalizzati a fondare un principio di conoscibilità della natura intrinsecamente contraddittoria dell’opera letteraria, sia essa concepita in epoca illuministica o nel contesto del tardo imperialismo27. Una delle ragioni delle tiepide accoglienze tributate alla teoria di Orlando nei decenni che ci stanno alle spalle è di certo la complessità della sua scrittura, la fatica che questa richiede al lettore: in un’epoca di divulgazione spettacolare e di affabilità programmata, questo teorico della letteratura, esemplarmente chiaro e affascinante nelle lezioni orali, è risultato rigorosamente astratto, fino al limite dell’aridità logico-matematica, nelle sue pagine scritte. Se la scrittura critica, accanto alla vicenda intellettuale, ha una propria dimensione stilistica, se le idee della critica non sono cioè separabili dalle forme28, è possibile sostenere che Orlando ha adottato uno stile dimostrativo, euristico, fondato su tassonomie e su biforcazioni binarie e bilanciate espressamente per evitare che la sua ipotesi ermeneutica centrale, quella che attribuisce alla contraddizione un ruolo specifico «in quanto motore di testualità»29, potesse restare al grado superficiale dell’intuizione e della brillante divagazione: così ogni sua pagina si assume l’onere dell’astrazione logica, nella convinzione che questa sia «il male minore» e costituisca il solo metodo di lavoro intellettuale che permetta il procedere del sapere umano, seguendo in ciò una lezione che viene dall’illuminismo. Tuttavia, al contrario di quanto accadeva alle applicazioni “scientiste” dello strutturalismo, non si limita mai a ridurre il testo a un gioco di contrappunti antinomici e sincronici ma costruisce sempre modelli dinamici, adatti a riconoscere nelle opere le ragioni storiche della mobile compresenza di opposti in seno ad un’unità. 27 A questo proposito è da segnalare la ricerca di Stefano Brugnolo che, applicando la prospettiva teorica e storiografica di Orlando alla rapprentazione dello spazio liminare nella letteratura tardo coloniale, giunge a rovesciare la prospettiva foucaultiana di Said per concludere che «i grandi testi del tardo imperialismo costituiscono sempre uno specchio rovesciato dell’ideologia colonialista, e ciò anche quando gli autori che li hanno scritti di fatto la condividevano». Stefano Brugnolo, Andare oltre la linea. Su alcuni motivi della letteratura tardo coloniale, in Sergio Zatti (a cura di), L’eroe e l’ostacolo. Forme dell’avventura nella narrativa occidentale, Bulzoni, Roma 2010, p. 193. 28 Cfr. Emanuele Zinato, Le idee e le forme. La critica letteraria in Italia dal 1900 ai nostri giorni, Carocci, Roma 2010. 29 Cfr. Nicolò Pasero, Marx per letterati. Sconvenienti proposte, Meltemi, Roma 1998, p. 57.
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letteratura come storiografia?
Non sfugge come una simile proposta ermeneutica e storiografica intercetti almeno un paio delle sette proposizioni con cui ora Yves Citton (e, si noti, a sua volta facendo ricorso a una sorta di scala tassonomica) argomenta il nesso conflittuale fra competenza letteraria ed egemonia culturale: a partire da Rabelais, da Cyrano e da Diderot, «fin dal suo emergere, la modernità ha controbilanciato le pretese filosofiche di una propria egemonia con pratiche letterarie in grado di sventarne le trappole e di rivelarne le imposture»; e ancora «la postura letteraria, in epoca moderna, insiste nel mettersi nella posizione di un servitore nell’atto di eludere le vane pretese del proprio padrone di turno»30. Questo perché la “teoria freudiana della letteratura”, a sua volta, presuppone una “competenza” critico-teorica intimamente “politica”, avendo a che fare con la lotta contro la morte: a patto, tuttavia, di riconoscere che, come i motti di spirito, la letteratura è «probabilmente sempre due volte tendenziosa» e che l’ideologia vi può entrare «con piena validità estetica solo in forma di ritorno del represso»31. «Orlando ci ha insegnato a concepire la letteratura come un archivio, in gran parte inesplorato, della psiche umana e della realtà profonda che in essa si riflette»32: Nel lungo poema tramandato come classico per millenni, o in una frase pronunciata una volta in privato e che nessuno registra, ringraziamo lo stesso tipo di discorso: quello che reca istituzionalmente in sé – anche quando scaturisce dalle circostanze di realtà più soffocanti – non soltanto una illuminazione di verità ma anche un barlume di festa. Esso può molto aiutare gli uomini affinché, con le parole di Freud che sono contento di citare una seconda volta, «connettano a tal punto la loro vita a quella degli altri, riescano a identificarsi con gli altri così intimamente, che l’accorciamento della durata vitale propria risulti sormontabile». Se questo in particolare è vero, il piacere procurato dalla letteratura ha una utilità ben più durevole per gli uomini che non le scappatoie infide del lapsus, le difese penose del sintomo e gli appagamenti allucinatori del sogno33.
30 Yves Citton, La compétence littéraire: apprendre à (dé)jouer la maitrise, trad. it. di Isabella Mattazzi, «il Verri», 45, febbraio 2011, pp. 34-35. 31 Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., p. 72. 32 Franco Marcoaldi, Letteratura e omosessualità, «la Repubblica», 2 marzo 2010. 33 Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, cit., p. 89.
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v. Figure animali nella narrativa italiana del secondo Novecento: Sciascia, Primo Levi, Calvino, Volponi, Morante
L’animale è la bestia umana. Rinvia a quel pessimismo biologico e storico di cui Fortini parla nella premessa di Insistenze. Le cieche pulsioni lo spingono, insieme, al piacere e alla crudeltà. Ma il morso con cui l’animale uccide la bestiola lo contamina: resterà contagiato dal veleno che già contamina il sangue della sua vittima. Il piccolo dramma ecologico non è che uno spunto: poco più della lettera materiale di una parabola o di un exemplum1.
1. Le allegorie animali attraversano tutta la tradizione classica e cristiana: dai cinque libri delle Fabulae di Fedro che imitano, in senari, le numerose raccolte in greco, ai bestiari medievali che annettono exempla favolistici, fino a Kafka, a Orwell e a Coetzee. I connotati animaleschi sono, da sempre, la corporeità minacciata, l’astuzia aggressiva o difensiva, gli appetiti e gli istinti: possono esercitare dunque una grande utilità nella pratica argomentativa ma, al contempo, possono immettere nei testi temi e motivi antropologici e simbolici2. Sul piano dei generi letterari e delle strategie retoriche, le presenze animali possono conservare in tal modo, anche in epoca moderna, tracce delle funzioni specifiche che l’exemplum assolveva nella predicazione e nei sermoni della tradizione medievale cristiana: la brevità e veridicità, la retorica pedagogica della persuasione, la finalità didattica e morale3. Ma, a differenza che in quella tradizione, nella lette1 Romano Luperini, La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 109. 2 Cfr. Gian Paolo Caprettini, Animali, persone, cose in Id., Simboli al bivio, Sellerio, Palermo 1992, pp. 131-144. 3 Cfr. Jacques Le Goff, Claude Brémond, Jean-Claude Schmitt, L’“exemplum”, Bre-
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letteratura come storiografia?
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ratura novecentesca l’apparizione della bestia è sospesa tra allegoria e simbolo: può essere dunque, oltre che saggistica e didattica, anche animistica, sacrificale, oniroide e “totemica”. Intendendo la critica come esercizio dialettico, ossia come investigazione delle antitesi o delle dissociazioni operanti all’interno dei testi, cercherò di mettere in luce il dialogo e il conflitto tra bestiario allegorico e mito animale ossessivo nelle rappresentazioni animali dei testi di Sciascia, Primo Levi, Calvino, Volponi, Morante, qui dislocati lungo una sorta di scala graduata: da un massimo di mentalismo e allegorismo a un massimo di corporalità analogica. 2. Leonardo Sciascia esordisce nel 1950 con delle favole animali. Si tratta di Favole della dittatura, una riscrittura dell’antecedente classico, Fedro, alla luce della dittatura fascista appena deposta. Vi domina la figura di pensiero della personificazione: lupi e agnelli, cani e conigli, maiali e topi, serpenti e rospi popolano un universo feroce e straziato4. Dal punto di vista narratologico, le Favole della dittatura sono caratterizzate dalla totale assenza della voce autoriale e di qualsiasi forma di commento conclusivo sentenzioso. Senza le mediazioni del narratore, e senza la clausola finale, la scrittura si riduce a nuda registrazione del sopruso, della pulsione alla crudeltà. Anziché rimemorare storicamente la dittatura fascista, come accadrà di lì a poco in Breve cronaca del regime, Sciascia illustra freddamente, una per pagina, una costellazione di microsituazioni che alludono, sovrastoricamente, alla condizione umana tutta intera. In prossimità di una tale “antropologia pessimistica” è più forte il lavorio stilistico. Alcune favole sono veri e propri poemetti in prosa, strutturati ritmicamente: C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: «Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a crusca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i melloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire pols, Tournhoult (Belgium) 1996, pp. 36-37. 4 Sulle Favole della dittatura cfr. Pier Paolo Pasolini, Favole della dittatura (1951) ora in Antonio Motta (a cura di), Leonardo Sciascia: la verità, l’aspra verità, Lacaita, Manduria 1985, pp. 269-271; Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 29; Fabio Moliterni, La nera scrittura. Saggi su Leorardo Sciascia, Graphis, Bari 2007, pp. 84-106.
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v. figure animali nella narrativa italiana del secondo novecento
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che la tua sia migliore condizione della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli». Il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: «Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura»5.
All’incipit isolato, assoluto e icastico, seguono l’iterazione (l’avverbio in -mente è ripetuto tre volte) e il verbo collocato in posizione finale, quasi a marcare un endecasillabo: quietamente parlamentarono. La vera costante, a cui tende la forza dell’espressione più ancora che quella del contenuto di ciascuna favola, è la fagocitazione del debole da parte del forte. L’ossessione in atto è quella dei corpi straziati dai denti degli aggressori, evidente nelle conclusioni circolari, ripetute e irrevocabili, che funzionano fonicamente da vere e proprie pietre tombali: «E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo», «E gli affondò i denti nel dorso»; «E sentì la faina addentarlo, aguzza e avida, al collo: e succhiare, succhiare». Le apparizioni animali nella scrittura di Sciascia sono una macrocostante. Il primo Sciascia si congiunge all’ultimo6, irradia e dissemina lungo tutte le opere successive figure animali nelle zone di più alta tensione cogitativa, come veicoli di scetticismo e di autocoscienza laica. Ne Il giorno della civetta, per rappresentare il terrore siciliano del sopruso e della violenza, Sciascia fa ad esempio ricorso alla più ricorrente figura del suo bestiario: il cane. Il confidente, che di lì a poco verrà ucciso dai sicari mafiosi, ha in corpo la stessa paura che i fratelli Colasberna provano davanti alla scrittura («mortale inquietudine», «terrore della spietata inquisizione»): La paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato nel cuore. Di quei morsi al fegato che continuamente bruciavano e dell’improvviso doloroso guizzo del cuore, come di un coniglio vivo in bocca al cane, i medici avevano fatto diagnosi, e medicine gli avevano dato da riempire tutto il piano del comò: ma non sapevano niente, i medici, della sua paura7.
5 Leonardo Sciascia, Favole della dittatura, Bardi, Roma 1950; ora in Id., Opere, 3 voll., a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1991, vol. III, pp. 966-967. Da questa edizione sono tratte le successive citazioni dalle opere di Sciascia. 6 Cfr. Nunzio Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia in Id., L’ombra del moderno. Da Leopardi a Sciascia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 135-152. 7 Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, in Id., Opere, cit., vol. I, p. 405.
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letteratura come storiografia?
L’intento didattico, per una volta, qui lascia il posto all’autonomia inquietante dei segni psichici e organici, più robusta, come vedremo, negli ultimi due scrittori di questo breve elenco, e più debole nel sorvegliato e vigile Sciascia. Il corpo stesso della vittima diviene qui infatti lo scenario di uno strazio, i singoli organi si animano come predatori e prede azzannate. L’interiorità psichica sembra dissolta: non ha senso qui parlare di somatizzazione, ma casomai di psichismi che materializzano, in forma di animali, parti della stessa carne corporea. L’ironia gelida sciasciana, mediante la messa in rilievo dell’indifferenza dello sguardo animale, demistifica l’inconsistenza dei luoghi comuni e dei pregiudizi. Ma un sovrasenso mitico-folclorico sembra insidiare il chiaro intento didattico, laico e illuministico dell’autore: l’ululato che attraversa il paese è misterioso e inquietante, non risolto in didattica allegoria. Analogamente, Bellodi, il razionale e civile capitano de Il giorno della civetta, ha visione di «un fitto raduno di uccelli notturni nel chiarchiaro, un cieco sbattere di voli nell’opaca luce dell’ora». E anche la demistificazione delle illusioni razionali e sentimentali del professor Laurana, in A ciscuno il suo, verrà compiuta mediante un’impietosa allegoria animale e notturna. L’intellettuale-detective, fatalmente destinato allo scacco, è paragonato dalla voce di un vecchio oculista cieco a un «atropo testa di morto intorno al lume», insetto notturno che nella fiamma trova la sua fine. L’antropologia pessimistica delle prime Favole è capace di ripresentarsi intatta, in vesti canine, come profezia o incubo diurno, agli occhi vigili dell’ultimo detective-intellettuale sciasciano, ammalato di cancro, il Vice in Il cavaliere e la morte (1989), a passeggio poco prima di morire ammazzato. Giunto nella beatitudine d’un parco cittadino, prova pietà per i bambini capaci ancora di gioia e di fantasia ma destinati a una scuola mortificante, agli automatismi della televisione e del computer, ai sapori spenti dei cibi dei supermercati. Per i bimbi è in agguato un mondo da pollaio, virtuale e privo di memoria: quello in cui, nel teatrino dei media, trova largo spazio l’icona sadomasochista del terrorismo, caricatura grottesca del pensiero rivoluzionario. E vedendo un cane lupo accanto a una carrozzina il Vice è assalito da una visione da apocalisse, di bambini dilaniati da torme di domestici alani impazziti. Un cane, un lupo dall’aspetto bonario e stanco, si era avvinato alla carrozzina in cui un bambino biondo placidamente dormiva. La ragazza che doveva
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custodire il bambino si era distratta a parlare con un soldato. D’impulso andò a mettersi tra la carrozzina e il cane. La ragazza lasciò di parlare col soldato, gli sorrise rassicurante e guardando teneramente il cane disse che era buono, vecchio e affezionato. Si allontanò facendo ora attenzione ai tanti cani che andavano per il parco, gli venne da contarli. Tanti cani, forse più dei tanti bambini. E se gli schiavi si contassero?, si era domandato Seneca. E se si contassero i cani? Tra le sue carte era un giorno affiorato l’orrore di un bambino dilaniato da un alano. Il cane di casa: forse buono, vecchio e affezionato come il lupo della ragazza. Dei tanti bambini che correvano per il parco, dei tanti cani che parevano accompagnarsi ai loro giochi o vigilarli, ricordando quel fatto ebbe una visione da apocalisse. Se la sentì sulla faccia come una vischiosa, immonda ragnatela di immagini: e mosse la mano a cancellarla, ammonendosi a morir meglio8.
3. La scrittura di Primo Levi pullula di animali (batteri, parassiti, ostriche, formiche, ragni, lumache, gabbiani, giraffe, gatti, cani). La figura dominante della “fantascienza” leviana è la mutazione, la metamorfosi, esemplarmente rappresentata da un racconto del 1962 poi raccolto in Storie naturali: Angelica farfalla (una delle tante citazioni dantesche in Levi: Purg. X, 121-126 «… non v’accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l’angelica farfalla»), in cui uno scienziato nazista cerca di sviluppare le potenzialità morfologiche del corpo umano ma anziché ottenere una «angelica farfalla» produce degli avvoltoi. Marco Belpoliti, che ha curato per Einaudi le opere di Primo Levi, è autore di un interessante lemmario: si tratta di una piccola enciclopedia delle apparizioni di animali, veri o fantastici, nella scrittura di Levi, attenta al lato “notturno” dell’immaginazione filosofica di questo autore perennemente vigile9. Vi si apprende, ad esempio, da uno spoglio dell’intera opera dello scrittore piemontese che, tra gli animali, è il cane il più presente. E il cane s’identifica con l’oppressore o con una forma estrema di degradazione, come accade anche in altri testi della letteratura della Shoah. Quando in Se questo è un uomo, si aprono le porte del vagone bestiame con cui Levi e i suoi compagni sono trasferiti da Fòssoli ad Auschwitz, il primo suono che si ode sono «i barbarici latrati» dei tedeschi. Gli ordini incomprensibili, urlati secondo l’uso militaresco prussiano, rinviano a Cerbero che «caninamente latra» nel VI dell’In8 9
Leonardo Sciascia, Il cavaliere e la morte, ora in Id., Opere, cit., vol. III, pp. 461-462. Marco Belpoliti, Animali, in Id., Primo Levi, «Riga», 13, 1997, pp. 157-209.
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ferno. Certo: non si tratta solo di presenza allegorica o immaginaria, giacché i tedeschi usano davvero nel Lager cani lupo addestrati per sbranare gli uomini. Il fatto è che anche il cane in Levi è figura essenzialmente metamorfica. In un capitolo de Il sistema periodico, Levi si paragona direttamente al cane Buck nel Richiamo della foresta, il libro di Jack London. Gli sembra di rivivere l’involuzione-evoluzione del cane vittoriano e darwiniano Buck che viene deportato e diventa ladro e violento nella muta della slitta. Levi e il cane di London vivono entrambi, all’inizio, in un ambiente protetto (la casa borghese di Torino e la grande casa vittoriana) entrambi sono catturati dagli aguzzini con un tranello; entrambi viaggiano forzatamente in treno; entrambi sono brutalizzati all’arrivo e trasformati in belve, Levi ad Auschwitz, Buck nel Klondike. In Se questo è un uomo, del resto, occorre ricordarlo, gli internati sono costretti a lappare la zuppa come cani. Se gli animali tradizionalmente “amici” dell’uomo sono nei testi leviani veicoli di degradazione, non è così per le ostriche, i ragni, le lumache, i parassiti. Descritti con l’accuratezza dell’entomologo, questi esseri minuscoli, apparentemente inerti e quasi minerali o automatici nella loro meccanica elementare, vengono ammirati per l’originalità delle loro invenzioni. In Levi, come ha notato Cesare Cases facendo ricorso alla categoria dell’«ilozoismo»10, l’attività umana viene spesse volte descritta attraverso una lente zoologica o vegetale. Anche l’atto umano può dunque sedimentare, incistarsi, germogliare o putrefarsi. In forza di ciò, piante o animaletti apparentemente insignificanti possono personificarsi e rivelarsi depositari di forza conoscitiva e vitale e dare una lezione alla presunzione degli uomini. Nei dialoghi dello Zoo immaginario, pubblicati negli anni Ottanta sulla rivista naturalistica «Airone», un Giornalista intervista oltre che giraffe, gabbiani e ragni, i microorganismi saprofiti, come la nostra escherichia coli, messi in scena secondo una strategia dialogica disantropomorfizzante ereditata dalle Operette di Leopardi. Ai vostri tubetti di vetro, ascolti il mio consiglio, fate buona guardia. Io personalmente sono di buona indole, ma non posso rispondere delle mie colleghe a cui voi avete cambiato il centralino. State attenti. Se si dovesse scatenare un’epidemia, ne andreste di mezzo voi, ma anche noi che viviamo in pace nei 10 Cesare Cases, L’ordine delle cose, in Ernesto Ferrero (a cura di), Primo Levi: un’antologia della critica, Einaudi, Torino 1997, p. 12.
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v. figure animali nella narrativa italiana del secondo novecento
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vostri pregiati visceri. Non c’è dubbio che alla lunga ci sapremmo adattare a campare anche nell’intestino di uno scarafaggio o di un’ostrica, ma ci vorrebbero tempo e fatica e un buon numero di defunti11.
In un racconto della raccolta Vizio di forma dedicato a Calvino, Il fabbro di se stesso, attraverso la voce di un uomo dotato di smisurata memoria genetica Levi ripercorre il processo evolutivo della materia vivente, a partire dagli organismi acquatici, per passare agli uccelli, ai rettili e ai mammiferi, fino alla “nascita” delle mani. La mano è infatti l’organo che determina la differenza dagli animali, il solco che separa i primati dall’uomo. È Darwin, amatissimo da Levi, che in l’Origine dell’uomo formula la teoria dell’evoluzione secondo la quale la liberazione della mano, da funzioni di pura locomozione a funzioni di operatività, ha provocato in Homo sapiens il trionfo del cervello12. In Levi com’è noto convivono i due mestieri della chimica e della scrittura: attraverso la chimica (soprattutto nel Sistema periodico) egli scopre la ricerca del contatto cosciente con la materia, affrontata «col cervello e con le mani, con la ragione e con la fantasia». Prima che vittima e testimone di Auschwitz, Levi è dunque un poeta-scienziato, naturalmente disposto a darci immagini di agghiacciante potenza per illustrare la struttura e la logica della materia. Il Lager può divenire, in lui, non solo un paradossale, rigoroso esperimento «per stabilire che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo» ma anche figura del caso, del caos e dell’ordine coatto che governano le combustioni stellari o le riproduzioni cellulari. Levi sa bene che una fonte di inconoscibilità e di irrazionalità alberga in ognuno di noi. Per averne conferma, basta leggere le pagine dell’antologia personale La ricerca delle radici: nel suo Darwin «spira una religiosità profonda e seria, la gioia sobria dell’uomo che dal groviglio estrae l’ordine» (p. 1384); nel chimico William Gragg 11 Primo Levi, In diretta dal nostro intestino: l’escherichia coli, «Airone», febbraio 1987, p. 160 ora in Id., Opere, 2 voll., a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. II, pp. 1332-1334. Da questa edizione sono tratte le citazioni dai testi leviani. 12 Il termine mano è frequentissimo nei testi leviani: lo si trova soprattutto nella raccolta Ad ora incerta (in cui ad esempio in Sidereus nuncius Galileo è «uomo dotto ma di mani sagaci») e in La chiave a stella dove numerose sono le riflessioni sulle mani del tecnico specializzato Libertino Faussone. Cfr. il capitolo Il lavoro non è solo un tema letterario nel presente volume.
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«i concetti di forma e misura arrivano molto lontano, verso il mondo minuscolo degli atomi e verso il mondo sterminato degli astri» (p. 1388); ma, al contempo, «la misura di tutte le cose» (p. 1492) finisce per darla una prova di collaudo di un micidiale insetticida: pellicole adesive per eliminare gli scarafaggi, un terrificante testo “tecnicocommerciale” la cui nudità protocollare svela allegoricamente la logica geometrica del massacro. 4. Nel bel mezzo della sua stagione impegnata, Italo Calvino tiene una rubrica sulla terza pagina dell’«Unità» piemontese dedicata agli animali e s’interroga su un’alterità misteriosa e muta, anticipando un motivo che correrà lungo i suoi testi saggistico-narrativi, fino a Palomar13. L’esordio di questa riflessione, incentrata sul motivo dell’alterità naturale e dell’insensatezza umana, riguarda le capre sacrificate nel 1946 durante l’esperimento nucleare americano nell’atollo di Bikini. Vi siete mai chiesti che cos’avranno pensato le capre di Bikini? E i gatti delle case bombardate? E i cani in zona di guerra? E i pesci allo scoppio dei siluri? Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più – stavo per dire – umana? Sì, noi dobbiamo una spiegazione agli animali, se non una riparazione. Loro possono capire quando noi li uccidiamo per mangiarli, quando li mettiamo a tirare un carro, forse anche quando li torturiamo per divertirci nelle corride, o quando li vivisezioniamo per esperimento. Sono cose che succedono più o meno anche tra loro. Ma la guerra?14
Nel Sentiero dei nidi di ragno, scritto nello stesso 1946, il bimbo Pin, come il tozziano Pietro in Con gli occhi chiusi, s’accanisce crudelmente su piccoli animali: spia gli accoppiamenti dei grilli, o infilza aghi di pino nelle verruche del dorso di piccoli rospi, o piscia sopra i formicai guardando la terra porosa sfriggere e sfaldarsi e lo sfangare via di centinaia di formiche rose e nere15. 13 Cfr. Gian Carlo Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista 19451985, Editori Riuniti, Roma 1989. 14 Italo Calvino, Le capre ci guardano, «L’Unità», ed. piemontese, 17 novembre 1946. 15 Italo Calvino, Romanzi e racconti, 3 voll., a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano 1991, vol. I, p. 89. Da questa edizione sono tratte le citazioni dalle opere di Calvino.
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Le bestie nel Sentiero sono veicolo dell’alterità adulta e di quella animale, spiate con ambivalente attrazione e repulsione dallo sguardo infantile e voyeuristico di Pin. Le rane strette in mano danno un contatto viscido, sgusciante, ricordano le donne, così lisce e nude16.
Non a caso, il bambino esploderà nelle tane dei ragni il colpo della pistola che ha sottratto al marinaio tedesco.
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I ragni sotterranei in quel momento rodono vermi o si accoppiano i maschi con le femmine emettendo fili di bava: sono esseri schifosi come gli uomini, e Pin infila la canna della pistola nell’imboccatura della tana con una voglia di ucciderli17.
Nella serie di racconti di cui è protagonista Marcovaldo, scritti tra il 1952 e il 1956, il contadino inurbato rappresenta una versione umana di quell’alterità innocente, trasgressiva e naturale, vista come un’intrusa dentro la normalità industriale e metropolitana. Ma l’innocenza naturale dal protagonista si sposta anche su personaggi animali: è soprattutto il caso del racconto dal titolo Il coniglio velenoso (1954) in cui l’animale, in fuga da un laboratorio, porta inoculati nel corpo i germi di un male epidemico. Durante la ripresa della sua collaborazione al «Corriere della sera» nella fase della gestione liberal di Piero Ottone, dal 29 ottobre 1975, e poi su «Repubblica» tra il 1979 e la morte (il 19 settembre 1985), Calvino ricorre alla controfigura disincantata e pensosa del signor Palomar. Anche il signor Palomar, come in La giornata d’uno scrutatore Amerigo garante nel seggo del Cottolengo, s’interroga sul segreto inaccessibile e sull’enigmatica tristezza di alcuni mostri che l’uomo ha rinchiuso nello zoo di Barcellona o nel rettilario di Parigi: il gorilla bianco, le iguane, i coccodrilli. Osservando il gorilla albino mentre, nel suo carcere di vetro, sconsolato e desideroso d’affetto, stringe tra le braccia un copertone pneumatico, Palomar riconosce, come in un gioco di specchi, per successive congetture e approssimazioni, l’identità umana nella diversità biologica: 16 17
Ivi, pp. 13-14. Ivi, p. 24.
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Forse per questo sentiamo così forte la sofferenza che dovrebbe sentire lui a essere tenuto lì per essere guardato come un mostro. Dico dovrebbe, perché forse è un grande vuoto che il gorilla si porta dentro, nell’accettazione del suo ruolo di mostro, e la sofferenza che sente è la sofferenza di quel vuoto. Guardandolo non posso fare a meno di pensare che potremmo essere noi al suo posto, di là del vetro, guardati come mostri da una folla di gorilla e oranghi e scimpanzé e gibboni; e sentiamo insieme la sofferenza che potrebbe riempire quel vuoto e la sofferenza che ogni vuoto di sofferenza provoca, e comprendiamo l’una e l’altra, e il vuoto, contempliamo l’enorme vuoto delle sue ore e ci sembra di sentirlo da sempre abitare le nostre ore. […] solo nell’estraneità dello scimmione albino posso riconoscere qualcosa di ciò che oscuramente portiamo dentro di noi, in mezzo all’irreducibile, sorda evidenza dei fatti che ci circondano18.
Il dilemma è ancora quello tra inesplicabilità innocente della natura (le capre, il coniglio, lo scimmione) e la disumanità del mondo tecnologico (la bomba, i veleni, i vetri asettici dello zoo). Ma anche l’alterità offesa e incolpevole, tema dominante come si vedrà in Elsa Morante, tende, nella scrittura di Calvino, come ogni altra sua antitesi, a esser risolta nei termini della leggerezza mentale e – soprattutto – della levigata, incorporea astrazione semiologica (sono queste come è noto alcune tra le parole-chiave delle postume Lezioni americane). Così come il gorilla albino ha il suo pneumatico che gli serve da supporto fisico per un intenso, straziante discorso senza parole, così io ho quest’immagine d’un gorilla bianco. Tutti rigiriamo tra le mani un vecchio copertone vuoto attraverso il quale vorremmo raggiungere il senso ultimo a cui le parole non giungono19.
Una lettera di Calvino a Franco Fortini del 1971 forse chiarisce in modo definitivo il senso di questo suo approccio “incorporeo” e, insieme, materialistico alle questioni dell’umanità e dell’animalità: Quello che io tento è di uscire da ogni teleologia umanistica vedendo l’uomo come strumento o catalizzatore o anello non so di cosa, di un universoinformazione, d’una storia o antropomorfizzazione della materia, e un mondo senza più esseri umani ma in cui l’uomo si sia realizzato e risolto, un mondo di calcolatori elettronici e farfalle, non mi spaventa anzi mi rassicura20. 18 Italo Calvino, Visita a un gorilla albino, «la Repubblica», 16 maggio 1980, poi in Palomar, col titolo Il gorilla albino, ora in Id., Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 942. 19 Calvino, Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 944. 20 Italo Calvino a Franco Fortini, 5.11.71, in Italo Calvino-Franco Fortini, Lettere scelte 1951-1977, a cura di Giuseppe Nava e Elisabetta Nencini, «L’Ospite Ingrato. Annuario del Centro Studi Franco Fortini», I, 1998, pp. 91-118. Su questa nozione di nulla e
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5. La narrativa di Volponi, etichettata dalla critica come “industriale”, è soprattutto un’abbagliante rappresentazione del corpo umano, del suo inafferrabile dinamismo psichico e biologico. L’animale volponiano è, fin dal romanzo d’esordio, proiezione del corpo umano e delle sue istanze irriducibili. I mali dell’operaio-contadino Albino Saluggia in Memoriale (1962) si materializzano come insetti:
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Allora non conoscevo i miei mali come ora, soprattutto li sentivo e li temevo; oggi sono così chiari in me e dappertutto, che qualsiasi mio gesto è in relazione con essi. Allora cominciai con il sentirli salire sul mio corpo tutt’insieme, come un branco d’insetti che poi scegliessero ciascuno il proprio punto. «Miei mali, – dissi – voi siete il frutto della mia vita difficile. Voi vi accompagnate a me come degli sconosciuti durante un viaggio»21.
Nel 1965 Volponi iniziò la tormentata stesura di Corporale, un romanzo stratificato che, nella sua prima ideazione, aveva come titoli provvisori L’animale, Liberare l’animale o La traccia dell’animale. Doveva essere la fobia psicanalitica di un uomo che teme un’esplosione atomica e che si prepara a diventare una cosa diversa, a mutare anche biologicamente, a risorgere magari con un occhio solo, con la coda, le squame, senza le braccia22.
Dal 1965 al 1974, L’Animale mutò forma e temi e il suo protagonista si sdoppiò. Un’annotazione autografa rende palese, riferendosi esplicitamente alla Morante, l’entità di tale trasformazione: Questo doveva essere un libro sulla paura della bomba H, in 8 anni è diventato un libro sulla paura della società. […] La bomba, ha ragione Elsa, va distrutta con la poesia, come un minuto corporale, il passaggio di una mattina malvagia, di un lavoro inutile23.
di vuoto in Calvino, cfr. Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, il Mulino, Bologna 2007, pp. 109-121 e Andrea Cortellessa, Libri segreti. Autori-critici nel Novecento italiano, Le Lettere, Firenze 2008, pp. 317-340. 21 Paolo Volponi, Romanzi e prose, 3 voll., a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2002, vol. I, pp. 25-26. Da questa edizione sono tratte le citazioni dalle opere di Volponi. 22 Paolo Volponi, Questo pazzo signor Aspri, intervista a cura di Corrado Stajano, «Il Giorno», 21 febbraio 1974. 23 Annotazione autografa compresa tra i materiali elaborativi del romanzo e pubblicata da chi scrive in Volponi, Romanzi e prose, cit., vol. I, p. 1132.
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letteratura come storiografia?
Le tematiche morantiane dell’irrealtà piccolo-borghese, della disintegrazione storica e dell’interezza cosmica di cui è portatrice l’opera d’arte, diventano in Volponi l’epica e la metamorfosi di un corpo in fuga, irriducibile, nel suo delirio, a ogni ordine ricompositivo.
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Io ero appoggiato con la mia schiena aperta contro una montagna di ghiaccio, la mia carne sfriggeva e si allargava il buco della ferita sul quale in fondo era depositata rossa e marrone, violenta, una città solare: quella di un quadro di Max Ernst..
L’animale è dunque in Volponi, come nella Morante, indizio di alterità corporea interiorizzata. In un altro romanzo, gli animali volponiani però si “oggettivano” e diventano protagonisti: il Pianeta irritabile (1978), un’allegoria fantascientifica ambientata in uno scenario postnucleare. I protagonisti, sopravvissuti alla distruzione del loro circo, sono un elefante parlante di nome Roboamo, un babbuino detto Epistola, un’oca, Plan Calcule, e un nano, ultimo rappresentante degli umani, detto Mamerte o Zuppa. L’ossatura concettuale del romanzo si pone controcorrente rispetto agli schemi del progressismo a cui l’ideologia “diurna” dell’autore sembra attenersi: è la ricerca di una verità biologicamente fondata, capace di sopravvivere al pervertimento della ragione strumentale, alla falsificazione artificiale e al suo esito geoclastico e di fondare nuovi rapporti elementari. I frequenti dialoghi fra Mamerte e Roboamo scandiscono le tappe dell’iniziazione del nano all’animalità. Inizialmente l’elefante invita il nano a privarsi della nostalgia. Il nemico da battere infatti è l’attaccamento nei confronti del passato e la brama di possesso. Verso la metà del viaggio, sempre incalzato dall’ironia pedagogica di Roboamo, il nano sembra guardare con sarcasmo misto a nostalgia al suo stato precedente: – Io sono stato un uomo, – concluse Zuppa. – Bel lavoro, – gli rispose Roboamo tra i monconi delle zanne, gialli come il cerchio più rotondo e più giallo intorno al culo di Epistola. […] – Sono più animale di voi! – disse con orgoglio Zuppa a Roboamo. Questi si mise a ridere e concesse: – Va bene, va bene… Guarda solo di non volerlo essere in modo diverso dal nostro24. 24
Paolo Volponi, Il pianeta irritabile, in Id., Romanzi e prose, cit., vol. II, p. 412.
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Soltanto nella solennità rituale della pagina conclusiva, l’apprendistato di Mamerte ha termine e la sua mutazione (l’abbandono dello stato umano) può dirsi conclusa. Le mani con cui poteva forgiare prometeicamente attrezzi e ordigni sono divenute “zoccoli” e anche il suo più intimo oggetto privato, una poesia d’amore della suora di Canton, scritta su un foglio di riso, diventa “pane comune”. Gli animali superstiti mangiano ritualmente il prodotto più raffinato della civiltà: scrittura e poesia. L’autore stesso, a proposito degli strumenti espressivi del Pianeta, ha fatto cenno all’universo dei fumetti. Ma questo universo viene fatto coesistere, e si badi, con funzione non parodistica ma di contrappunto, con una filigrana dantesca e leopardiana. In esergo spicca la citazione dagli appunti di Leopardi, gli Esercizi di memoria («Immortaltà selvaggia»), il cui valore semantico viene sottolineato dalla ripresa in un passaggio del romanzo. Il tono dominante di «dilagante, contagiosa ilarità» con cui nel testo viene contemplata la scomparsa dell’uomo rievoca infatti la dura ironia e il radicale rifiuto dell’antropocentrismo delle Operette morali, mentre il conclusivo segnale cosmico della «caduta della luna di mezzo» rinvia al Frammento XXXVII dei Canti. L’intero impianto del romanzo sembra trarre origine dal rifiuto opposto da Leopardi a una ragione che, appena superi il grado di facoltà «naturale» e animale, è all’origine dei più funesti errori «artifiziali» e «barbarizzanti» (Zib. 421-422, dicembre 1820). Insomma, «l’impianto leopardiano» del libro è capace di far risuonare nell’età postatomica la naturalità tragica e coraggiosa di Lucrezio25. 6. Il punto di snodo nella scrittura di Elsa Morante è collocabile intorno al 1968, anno in cui esce Il mondo salvato dai ragazzini: un libro di svolta che, secondo Guido Paduano26, prelude alla genericità planetaria della Storia e al suo disfacimento in Aracoeli. Una parte del poema è occupata da La serata a Colono, riscrittura della tragedia sofoclea: in un’astanteria di un Lager, ospedale o manico25 Cfr. Pietro Cataldi, La natura e la civiltà. L’impianto leopardiano del “Pianeta irritabile”, «L’immaginazione», 143, dicembre 1997, pp. 15-16. 26 Guido Paduano, La svolta nella produzione di Elsa Morante. Domande e ipotesi di lavoro (e una verifica su Aracoeli), «Studi novecenteschi», 47-48, XXI, giugno-dicembre 1994, pp. 303-319.
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letteratura come storiografia?
mio – tra brande e latrine – si fronteggiano l’apocalisse della Storia (il coro dei pazzi recita: «bisogna trasformarsi tutti in macchine per uccidere»), l’annichilimento corporeo del consapevole Edipo («io volevo/tornare al corpo dove sono nato»), e l’innocenza metastorica e animale di Antigone. Sono già, a ben guardare, i temi de La Storia e si tratta anche del medesimo ideale linguistico: «di affabulazione democratica e di sottomissione umile della lingua alla cosa»27. In virtù di questa «sottomissione umile», nella Storia l’animale diviene rilevantissimo per funzione narrativa. È come se nella Storia e poi in Aracoeli, gli animali della Morante fossero le incarnazioni di quella regressione e di quell’innocenza delineati da Edipo e da Antigone nello spazio concentrazionario della Serata a Colono. La rilettura di Antigone nel romanzo si palesa, oltre che nella figura di Ida, nel personaggio della cagna Bella, su cui il testo de La storia si sofferma a lungo. Bella può comunicare con il pischello Useppe, è la sua compagna di giochi, materna e vigile, e sa confidargli delle storie di lacerata maternità Io, una volta, avevo dei cagnolini […] erano tanti, e uno più bello dell’altro. […] La loro bellezza era infinita, ecco il fatto. Le bellezze infinite non si possono contare. […] Da un momento all’altro, li cercai, e non c’erano più. Di solito, quando se ne vanno, più tardi ritornano, almeno così succedeva alle mie amiche […] ma i miei non tornarono più. Li cercai, li aspettai chi sa quanto, ma non hanno fatto ritorno28.
Useppe stesso, avendo simbolicamente due madri, Ida e la cagna Bella, si colloca sulla frontiera incerta tra mondo umano e mondo animale, capisce il linguaggio delle bestie e non conosce consapevolezza o esercizio razionale, ma solo una sorta di prescienza, d’inerme malinconia e di innocenza assoluta29. Solo il suo sguardo può svelare in anticipo l’orrore nascosto in una scena di apparente normalità (una ventina di vagoni bestiame in partenza alla stazione le cui aperture a grata mostrano di tanto 27 Pier Vincenzo Mengaldo, Spunti per un’analisi linguistica dei romanzi di Elsa Morante, «Studi novecenteschi», 47-48, XXI, giugno-dicembre 1994, p. 11. 28 Elsa Morante, La storia, ora in Id., Opere, 2 voll., a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1990, vol. II, pp. 908-909. Da questa edizione sono le citazioni dalle opere morantiane. 29 Cfr. Concetta D’Angeli, Leggere Elsa Morante, Carocci, Roma 2003, pp. 104-118.
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in tanto «due mani aggrappate»): «C’era, nell’orrore sterminato del suo sguardo, anche una paura, o piuttosto, uno stupore attonito»30. Questa capacità di preveggenza degli occhi di Useppe, che ne determina anche la fragilità e poi la morte sacrificale, è collegata intimamente al mondo animale.
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Nei suoi grandi occhi a mandorla scuri c’era una dolcezza passiva, di una barbarie profondissima e incurabile, che somigliava a una precognizione. Precognizione, invero, non è la parola più adatta, perché la conoscenza ne era esclusa. Piuttosto, la stranezza di quegli occhi ricordava l’idiozia misteriosa degli animali, i quali non con la mente, ma con un senso dei loro corpi vulnerabili “sanno” il passato e il futuro di ogni destino31.
Anche in Aracoeli (1982) sono presenti gli animali. Ma qui, in una costante fusione di fisico, psichico e biologico, il corpo si oggettualizza, e insieme si maschera e si sfigura: «labbra cartacee», «facce metallizzate». I temi della patologia e della corruzione fisica diventano proiezione di una morte collettiva, della pulsione autodistruttiva piccolo borghese, profetizzata dalla scrittrice già nella conferenza del 1965 dal titolo Pro o contro la bomba atomica, ma ora del tutto interiorizzata. L’andirivieni memoriale del protagonista, imperniato sulla «pulsione disperata» della ricerca della madre, pone in cortocircuito l’età della guerra di Spagna (l’altro Manuel, fratello di Aracoeli, ucciso dai franchisti) con gli anni Settanta. Nell’autunno del 1975 – proprio in concomitanza con l’assassinio di Pasolini – l’ombra materna risorge, come una sirena di morte, e spinge il protagonista al disperato viaggio in Andalusìa. Manuele è un «animale sbandato», preda del desiderio di annullamento, senza più alcuna ansia di resurrezione. I manoscritti morantiani testimoniano che nella fase ideativa dell’ultimo disperato romanzo vi era posto ancora per un’equivalente di Bella, il cane bastardello Balletto, affamato e torturato da un gruppo di ragazzini nel collegio piemontese dove Manuele adolescente soggiorna. Ma di Balletto non resta nel testo definitivo che una esile traccia. La disperazione estrema di Manuele adulto assume invece la forma di una preghiera animale di annullamento, fagocitazione e ritorno al ventre materno o catàbasi al regno delle Madri.
30 31
Morante, La storia, cit., p. 544. Ivi, p. 278.
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letteratura come storiografia?
Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte coi loro piccoli nati male, tu rimangiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa32.
I corpi animali e umani contengono così una sapienza antica che cova sotto le strutture della civiltà. Un’alterità irriducibile e ciecamente distruttrice, solennemente rappresentata dall’ultima Morante.
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Di tutte le voragini fra cui ci muoviamo alla cieca, […] nessuna è tanto cupa, e per noi stessi inconciliabile, quanto il nostro proprio corpo […]. Il nostro proprio corpo è straniero a noi stessi quanto gli ammassi stellari o i fondi vulcanici. Nessun dialogo possibile. Nessun alfabeto comune. Non possiamo calarci nella sua fabbrica tenebrosa. E in certe fasi cruciali esso ci lega a sé nello stesso rapporto che lega il forzato alla ruota del suo supplizio33.
7. Schematizzando: in Aracoeli, come in Corporale, l’oggetto perturbante per eccellenza, dunque, è il corpo. Le rappresentazioni animali volponiane e morantiane ricordano il contenzioso fra vita e morte di cui è sede ogni corpo, il conflitto irrisolvibile fra riconoscimento di sé come individuo e disconoscimento del proprio corpo in quanto altro. L’animalità che ci attraversa rinnova nei loro testi le violenze sacrificali delle origini, mantiene il lettore odierno in cortocircuito con un lontano passato mitologico e zoomorfo. I “limiti oscuri” della materia vivente sono presenti però, in modo più sotterraneo, anche nelle rappresentazioni più sorvegliate e controllate dei “bestiari” di Sciascia, Levi e Calvino. Calvino, in particolare, si colloca in una zona intermedia, di compromesso: smaterializza in segni la tradizione illuminista, intenta a riflettere sulla continuità naturale fra l’umano e l’animale, e ne conserva leopardianamente l’invito ad abbandonare ogni illusorio narcisismo sulla centralità dell’uomo. In Sciascia e in Levi, infine, le radici animali faticano a coabitare con le esigenze civili. In questi scrittori – e proprio attraverso figure animali –, l’intento didattico e allegorico entra in collisione con forze estranee al controllo della coscienza. Vittime e carnefici appartengono nei loro testi a un destino di brutalizzazione, di regresso alle radici animali da cui solo un costante sforzo etico ci consente di emergere per tessere la fragilissima rete di convivenza delle comunità civili. 32 33
Morante, Aracoeli, ora in Id., Opere, cit., vol. II, p. 1174. Ivi, pp. 1333, 1353.
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vi. Goffredo Parise a New York: gli oggetti della mutazione
1. I reportages metropolitani di Goffredo Parise si inaugurano negli anni Cinquanta con una sequenza di interventi dedicati a Parigi1, città moderna per antonomasia, per concludersi negli Ottanta con Tokio, icona della città liquida e postmoderna. A metà strada stanno gli scritti newyorkesi di cui mi occuperò brevemente in questo saggio. Nel novembre del 1975 Parise è raggiunto a New York dalla notizia dell’assassinio di Pasolini. Nei tre mesi successivi, realizza otto articoli, pubblicati sul «Correre della sera» e poi riuniti, con un’importante introduzione, in un volumetto dal titolo New York uscito nel 1977 nelle edizioni del Ruzante2: si tratta, nel segno di Pasolini, di uno straordinario sondaggio sulla mutazione italiana (e veneta), vista dalla specola statunitense. Il concetto-termine “mutazione”, di origine biologico-genetica, è stato utilizzato con accezione socioculturale da Montale prima del “boom” economico e poi da Pasolini negli anni Settanta per definire la trasformazione antropologica degli italiani durante l’irruzione della cultura dei consumi. Negli anni più recenti, è impiegato in senso più neutro e descrittivo da critici e scrittori a proposito degli esiti del 1 Cfr. Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi. Con due racconti, Il Poligrafo, Padova 2002. 2 Il reportage è stato successivamente incluso nel secondo tomo delle Opere di Parise pubblicato nel 1989 da Mondadori nella collezione dei «Meridiani» a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello e in Odore d’America, edito sempre da Mondadori nel 1990. In entrambe le edizioni non compare la premessa dell’Autore e l’aggiunta fatta da Parise all’articolo finale, dal titolo La nuova cultura popolare americana. Ora gli otto articoli apparsi sul «Corriere della sera», comprensivi della premessa autoriale, della nota aggiuntiva e delle lettere indirizzate da Parise a Vittorio Bonicelli durante il primo viaggio negli Stati Uniti del 1961 sono disponibili nell’edizione curata da Silvio Perrella per Rizzoli, Milano 2001 col titolo New York.
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letteratura come storiografia?
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postmodernismo3. Anche Parise nell’introduzione a New York vi fa ricorso: parla infatti di un «cataclisma» e di una «selezione» e utilizza le immagini di «quei pesci […] che con enorme spreco di energie e lasciando dietro di sé un numero incalcolabile di vittime, riuscirono a respirare anche quando i mari si erano ritirati» e della «povera scimmia che deambulava a quattro zampe» e che ha dovuto assumere la posizione eretta (pp. 4-5). Il termine compare poi con insistenza nel primo intervento dal titolo Venice. Per spiegare le ragioni del suo lungo soggiorno a New York Parise dice: una di queste (ragioni) è la mutazione accelerata del mercato italiano (e non solo del mercato) avvenuta in questi ultimi anni […]. Sono mutati i rapporti tra gli italiani e la loro terra, il loro Paese […]. E la mutazione continua, l’erosione continua, alcuni caratteri di base del popolo italiano si fondono con quelli degli abitanti dell’America in una strana e a volte comica mescla di culture che non di rado produce mostri. (p. 9)
Sempre nell’introduzione, l’autore cerca inoltre di precisare il genere a cui appartengono questi scritti. Più che di reportages in senso stretto si tratta a suo dire «di qualcosa a metà strada tra la riflessione e la prima reale scoperta di ciò che l’America è diventata in questi ultimi anni per tutta quella parte di globo chiamata “occidentale”» (p. 3) e per gli italiani «specialmente» (p. 4). Dunque, il vero oggetto degli articoli non è New York ma è casomai l’Italia che guarda a NewYork. Questa operazione di spostamento territoriale e di uso onirico-allegorico della città, è autorizzata dall’irresistibile dilagare del modello americano. Dopo una certa data, viaggiare negli Stati Uniti non significa più andare in un altro luogo, ma collocarsi nel punto di massima concentrazione di un processo che è ovunque: «grande selezione, grande spreco, grande numero di vittime; […] e New York è il teatro di tutto questo, la vetrina, la macelleria, l’obitorio e l’istituto di bellezza» e «questo libretto contiene qualche colpo d’occhio su questo teatro» (p. 5). La cesura coincide con gli anni Settanta. Nel 1961, infatti, data del primo viaggio negli Stati uniti e delle lettere americane
3 Cfr. Eugenio Montale, Mutazioni (1949) in Id., Auto da fé, Il Saggiatore, Milano 1966, pp. 86-89; Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990; Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano 2006, Alfonso Berardinelli, Casi critici. Dal postmoderno alla mutazione, Quodlibet, Macerata 2007.
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vi. goffredo parise a new york: gli oggetti della mutazione
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a Vittorio Bonicelli4, secondo Parise quel processo non si era ancora adempiuto. L’esplosione colonizzante della cultura dei consumi, qui chiamata ripetutamente «grande rivoluzione», invece avvenne dopo:
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Di questo avvenimento fondamentale per il nostro Paese […] furono in pochissimi ad accorgersi, pochissimi toccarono con mano, con la mente e il cuore, cioè con la propria stessa vita, la “grande rivoluzione”. Alcuni, come Pasolini, con disperazione e fino all’annientamento della propria persona fisica. Altri, come me, con uno stato d’animo dapprima altrettanto disperato, poi, con l’energia che dà sempre la cultura, ogni giorno di più interlocutorio. (p. 4)
Insomma, l’immaginazione sociologica parisiana prende le mosse da Pasolini: tuttavia, anziché rappresentare la mutazione come genocidio e annientamento preferisce narrarla come enorme e «brutale carica di energia». Questa energia attrae e respinge Parise: da un lato, nella mutazione, egli si colloca infatti dalla parte dei sommersi, come Pasolini Sono uno scrittore, prima di tutto, per di più italiano, e appartengo inesorabilmente alla vecchia cultura, quella in via di sparizione: sono cioè uno di quei pesci destinati all’asfissia e non allo sforzo di creare nuovi organi per assolvere nuove funzioni.
Ma dall’altro prova di continuo a interloquire con la “nuova cultura” affinché qualcosa di sé possa salvarsi: Questo non toglie che anch’io non faccia quello che posso per trasmettermi in qualche modo, felice o disperato non lo so, nella nuova specie. (p. 6)
L’ambivalenza vitalistica (sottesa alla metafora dell’«energia») avvertita nei confronti dell’America e manifestata più volte da Parise – che confessa una sua tentazione di andare a perdersi a New York per esotismo, «con lo stesso sentimento per cui Gauguin o Rimbaud partirono per Tahiti o per l’Africa nera» – sembra autorizzare l’uso 4 Ora comprese nell’edizione Rizzoli a cura di Silvio Perrella col titolo complessivo di Lettere Americane. Si tratta di 10 lettere all’amico Vittorio Bonicelli, giornalista, critico cinematografico, sceneggiatore, produttore e ottimo conoscitore del mondo dello spettacolo. È bene ricordare il motivo che spinge Parise ad affondare questo primo viaggio americano: il produttore Dino De Laurentis gli domanda di cercare e sviluppare un soggetto cinematografico. Così Parise parte in compagnia del regista Pierluigi Polidoro, ma al ritorno dichiara al produttore che non vale la pena fare un film sull’America e il progetto decade.
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dell’imagologia per l’interpretazione di questi reportages, vale a dire dell’analisi, oggi assai praticata, delle immagini mentali, dei cliché individuali e collettivi, messi in atto da una cultura nella costruzione dell’Altro. Alcune immagini o stereotipi dell’alterità statunitense stanno infatti a monte degli scritti newyorkesi. Come ha messo in rilievo Ilaria Crotti5, il testo che più prefigura il rapporto tra Parise e la scrittura del reportage è un racconto visionario e surreale, del tutto sedentario, incentrato sull’impatto degli americani nella provincia veneta: Gli americani a Vicenza riferito al ’56 e uscito presso Scheiwiller nel 1966. Nei luoghi marmorei della basilica palladiana, investiti da luci azzurre e rosa da luna-park, irrompono i militari della SETAF condensati in due visioni complementari e contrapposte: palombari high tech avvolti in tute di gomma gonfiabili e scimmie urlanti e ubriache che si accoltellano sotto i portici. Perché nell’avvertenza Parise dichiara che questo testo narrativo è, tra tutti, allusivamente il più prossimo ai suoi futuri reportages? Probabilmente perché, grazie a una scrittura visionaria e deformante Parise, pur rimanendo a Vicenza, ospite della madre, si pone nella condizione di straniero e guarda la sua cittadina d’origine dal di fuori: gli “umanoidi” americani si caricano di un’alterità sia tecnologica (le tute, la bomba atomica, gli elicotteri) che avventuroso-esotica (la negritudine, l’ukulele, la barbarie), sottolineata dai nomi stessi dei bar provinciali teatro degli avvenimenti (Zanzibar, Mexico, La Bomba). O evidente fin dal primo comparire dell’Altro: era un altissimo negro sorridente, dentro una tuta gonfia di gomma, coperto di armi. Tra le dita lunghe, scure, dalle unghie fosforescenti, stringeva un ukulele con cui si accompagnava in sordina6.
Parise è un intellettuale periferico, proveniente da una dimensione appartata com’era il Veneto poco prima che diventasse Nordest; nella sua scrittura è attiva l’idea che uno sguardo “ingenuo”, extralocato rispetto al luogo d’indagine, purché ricco di lampi figurali, possa produrre una maggiore potenzialità analitica. A quest’altezza egli aveva già attraversato precocemente una soglia metropolitana: a 5 Ilaria Crotti, Goffredo Parise e la scrittura di viaggio, in Id., Tre voci sospette. Buzzati, Piovene, Parise, Mursia, Milano 1994, pp. 153-154. 6 Goffredo Parise, Gli americani a Vicenza e altri racconti 1952-1965, Mondadori, Milano 1987, p. 24.
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vi. goffredo parise a new york: gli oggetti della mutazione
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24 anni, nel 1953, dopo l’esordio de Il ragazzo morto e le comete e La grande vacanza, era arrivato da Vicenza a Milano agli uffici della Garzanti; come scrive Nico Naldini, «se non era pronto a strangolare la città come Rastignac, era pronto a percepire da quale parte soffiasse il vento del successo, almeno quanto Julien Sorel»7. Da questa consapevolezza istintiva delle dinamiche sociali più telluriche prende avvio la favola del dottor Max nel Padrone. 2. Dunque Parise andò a conoscere l’America in due periodi lontani fra loro (1961 e 1975), dopo averla vista arrivare con uno sguardo allucinato nel 1956 nella sua stessa Vicenza sotto forma di soldati “palombari” e/o di barbari. Negli scritti del 1975 su New York – come ha scritto Silvio Perrella – «com’è chiaro che Parise non ama quest’America, è altrettanto chiaro che dell’America c’è una cosa di cui non può fare a meno: la vitalità quasi barbarica. Quella che lui chiama nuova cultura, la cultura degli oggetti e del loro consumo, insieme lo terrorizza e lo attrae»8. Di New York Parise non descrive infatti il sistema territoriale, il paesaggio, la struttura urbana, la verticalità e lo skyline; predilige viceversa i dettagli, i suoni, gli odori, e soprattutto gli oggetti e il rapporto tra natura e artificio. La sua riflessione si articola in particolare sui seguenti aspetti: il vacuum, la way of life, la pornografia, i graffiti. Il primo reportage dal titolo Venice si apre con due divergenti allegorie della diffusione planetaria del modello americano: rispettivamente riguardanti il mito e il consumo. La carcassa di un aereo militare precipitato in Vietnam, che desta la curiosità e il desiderio dei contadini indocinesi per l’alta tecnologia che nasconde, è emblema del mito; i grandi freezers dove conservare illimitatamente buoi fatti a pezzi, acquistati dai contadini italiani, sono icone del consumo. Il consumo che segue il mito in un permanente circuito di energia è rappresentabile nella forma dell’elenco caotico di oggetti desiderati dall’immaginario planetario: «rasoi elettrici, blue jeans, magliette stampate, sessi di plastica, parrucche contro la calvizie…» 7 Nico Naldini, Il nuovo padrone di Milano, in Ilaria Crotti (a cura di), Goffredo Parise, Atti del convegno promosso dall’Istituto per le Lettere, il Teatro e il Melodramma della Fondazione Cini (24-25 maggio 1995), Olschki, Milano 1997, p. 167. 8 Perrella, Introduzione a G. Parise, in Id., New York, cit., p. X.
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(p. 8). NewYork per Parise è la «mente radiante» di questo processo oggettile e feticistico e per questo occorre, a suo parere, conoscerla e scoprirla in modo non convenzionale:
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Di New York si sa tutto, fotografie di New York si vedono dovunque, voli charters vanno e vengono, il cinema fa il resto. Ma i sentimenti degli uomini (così io credo) non sempre stanno alla briglia delle immagini fotografiche o cinematografiche o delle parole degli stewards; spesso anzi si fermano e si concentrano su particolari impossibili da catturare in toto, se non con la parola detta o scritta vecchio rimasuglio artigianale che stenta a morire. (p. 10)
A questo invito a bucare la superficie, segue un elenco di oggetti desueti palesemente oppositivo rispetto a quello relativo al consumo (vecchi catrami, mezza bambola, un letto rotto, un revolver mangiato dalla ruggine), che culmina nella sorprendente, paradossale equivalenza tra Venezia e New York, istituita grazie a una rete di percezioni visive e olfattive. Entrambe le città sono ricondotte a sembianze di oggetti. Come Venezia anche New York in certe ore di luce perpendicolare o radente: si colloca nello spazio e nell’aria tale da apparire un oggetto prismatico e non reale, una sorta di astratto diamante trafitto da bagliori interni, puro oggetto di contemplazione. (p. 11)
Inoltre Il mare, sulla punta di Manhattam, ha lo stesso odore della laguna. (p. 11)
Infine, le due città sono costituite da una babele architettonica originata da un «amalgama umano» e da un «meticciato» dovuto a «gigantismo commerciale»; entrambe nascono da un’isola, ed entrambe mostrano i segni di una decadenza. Il secondo e il terzo testo aprono la piccola serie di ciò che di New York secondo Parise colpisce di più un abitante delle “province” europee: si tratta di qualcosa di ineffabile, impalpabile, esprimibile in forma energetica. È il vacuum, lo spreco e assenza di radici che riempiono l’aria «come l’ozono prima del temporale» (p. 16). Le menti e i cuori di tutti gli americani «vagano errabondi in una sorta di etere storico, carico di energia» alla ricerca di un qualche illusorio pedigree che l’industria si affretta a procurargli. «Quest’energia è l’immensa
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vi. goffredo parise a new york: gli oggetti della mutazione
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forza» dell’America, concentrata nelle grandi città. Non disponendo di mezzi linguistici abilitati a descrivere il vuoto, Parise cerca di cogliere, quali suoi dettagli rappresentativi, alcuni oggetti-enclaves: la Bibbia letta ossessivamente da una coppia di olandesi che gestiscono il motel Blue Sky, nella notte percorsa da camion simili a transatlantici, le ricostruzioni scenografiche di Chinatown e di Little Italy, una statua della Madonna con edere e conchiglie finte, i vecchi Talmud in vendita in un ghetto sotto il ponte di Williamsburg, i centenari in carrozzella in Fifth Avenue, i molti canali televisivi che parlano di Dio «tra cascatelle d’acqua, muschio e praterie» e, infine, (a introdurre lo sfondo mortuario del successivo pezzo dal titolo Pornografia), il ragazzo figlio di emigrati italiani che fa l’imbalsamatore e che viene interrotto nei suoi balli, a ogni morto da lavorare, da un cicalino che porta in cintura: «Di corpo ce n’è uno solo, la gente ci tiene» (p. 27). L’horror vacui è ben apprezzabile nella pornografia estrema, oggetto del quarto reportage newyorkese: registrata magistralmente nell’era pre-internet grazie alla costante propensione di Parise al dettaglio visivo: «filmetti pornografici si possono vedere incollando l’occhio alla lente di una delle molte macchinette installate dentro certi buchi di botteghe alla Quarantaduesima strada» (p. 32). «Bisogna infilare una moneta da venticinque centesimi che dà diritto ad alcuni secondi». In alcune «botteghe o fondachi» (dove il termine fondaco richiama ancora Venezia) vengono venduti film in cui «infelici protagoniste, delle povere indie, vengono realmente decapitate, gli si taglia la testa con il coltello durante l’amplesso. Forse il mercato sta andando a rilento con la finzione, è necessario dargli un po’ di ossigeno con violenza e sesso reali» (p. 32) In altri «fondachi» di questo genere sono in vendita i sessi artificiali, a proposito dei quali Parise scrive: «Quanto amabile sia l’amplesso con un pezzetto di gomma così non mi è dato sapere […] Ma forse il diavolo, cioè quella parte diavolesca del disgraziatissimo uomo americano si accontenta e, nella sua solitudine, trova in ogni caso conforto» (p. 33). Il quinto reportage, non a caso intitolato Selezione naturale, è quello in cui si mettono a fuoco le implicazioni del concetto di mutazione presente in esergo: New York è per Parise «un territorio di osservazione ideale» (p. 39) per rilevare la totale assenza dell’idea di lotta di classe rimpiazzata ovunque dalla darwiniana lotta per la vita. Osservando nelle strade di New York la presenza di dettagli di
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miseria diffusa (l’uomo vestito della sola camicia, con le scarpe senza lacci, o l’uomo che fruga nell’immondizia) Parise pensa che mentre Ho Chi Min sostiene che tutti gli uomini nascono uguali, l’America risponde che «Tutti gli uomini nascono diversi, con diversa carica di energia (e quindi di diritti)»: Sotto questo aspetto l’America è, come noto, il Paese più libero del mondo e quello, in pratica, più vicino alle leggi che regolano i rapporti del mondo della flora e della fauna, cioè della natura. (p. 37)
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Energia e mutazione, nel saggismo di Parise costituiscono in tal modo una coppia cognitiva costante: Essendo l’America un immenso zoo sociale e politico composto di specie nuove, al tempo stesso in via di estinzione e trasformazione: simili a quei pesci, miliardi dei quali, molti miliardi di anni fa, hanno arrancato inutilmente fino alla morte alla ricerca dei mari inghiottiti dai terremoti, centinaia dei quali sono sopravvissuti adattandosi all’ambiente e diventando altre specie. (p. 38)
Il sesto pezzo, dal titolo Consumare consuma, raffigura i newyorkesi come dei consumatori che abbiano subìto una sorta di «lobotomia» (p. 48) con resecazione o asportazione della capacità scelta e della dignità (p. 48). Questa lobotomia si vede innanzitutto nel consumo asettico del cibo: «Gli americani non mangiano assorti e talora cupi nel gusto e nell’ingestione del cibo come fanno i latini, bensì in modo distratto e leggero, tra disperato e spensierato», «si direbbe che per loro mangiare è come masticare chewing gum» (p. 49). Analogamente, nei grandi magazzini la quantità eccessiva di merci si impossessa della capacità di scelta, tanto che i newyorkesi sono attirati da Gucci e da altre firme dell’Italian style che trionferà negli anni Ottanta, proprio perché lì «il compratore si sente in soggezione» ed è disposto a pagare per quella soggezione. Se Parise spiega questa cultura dei consumi con il vuoto e l’assenza di radici tipicamente statunitensi, non sa darsi una spiegazione della parallela diffusione della «corsa ai consumi in Italia» (p. 48). L’ultimo reportage, infine, è forse il più famoso e di certo il più appassionato e riguarda l’attento studio compiuto da Parise sui graffiti di New York: i giovani portoricani, neri e italiani che nei primi anni Settanta di notte segnano per la prima volta con lo spray i vagoni dei subways sono interpretati da Parise come dei franchi tiratori semio-
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tici, capaci di opporre «una lingua gratuita, indecifrabile, priva di significato economico, bella e inutile» (p. 64) ai segni della produzione e del consumo. A suo parere, si tratta della prima cultura nazionalpopolare americana. Parise sembra essere insomma della stessa opinione di Baudrillard9, che a proposito del fenomeno scrive: «la città non è più il poligono politico-industriale che è stata nel XIX secolo, è il poligono dei segni, dei media, del codice. […] Per la prima volta con i graffiti di New York i tracciati urbani e i supporti mobili sono stati utilizzati con tale ampiezza, e con una tale libertà offensiva. Questo deriva da una specie di intuizione rivoluzionaria – e cioè che l’ideologia profonda non funziona più al livello dei significati politici, ma al livello dei significanti»10. Nel 1985 però la street art era già stata ampiamente eletta a serbatoio dalla moda e dal design e proprio grazie alle sue origini trasgressive: Parise sa rivedere a fondo il proprio entusiasmo “situazionista” (in una nota aggiunta sulle bozze di un libro dal titolo Artisti pubblicato da una piccola casa editrice Le parole gelate, e poi da Neri Pozza nel 1994 e inclusa infine da Perrella nell’edizione Rizzoli di New York). Quasi dieci anni di distanza abbiamo alla Biennale di Venezia di quest’anno, la smentita a quanto speravo nel 1975, anno in cui vidi e studiai i graffiti americani. Oggi i “graffitisti”, ovvii manieristi, dimostrano che appunto quell’arte spontanea e popolare […] ha invece i suoi tardi epigoni, i suoi integrati. (p. 65)
3. La rappresentazione parisiana di New York è incentrata come si è visto su dei dettagli: su oggetti, corpi, segni. Il suo comune denominatore tuttavia è la vitalità energetica, distruttiva e barbarica, che manda avanti senza sosta il processo di mutazione. Si tratta di uno sguardo un po’ attardato, di un veneto sulla Grande Mela. Il fatto tuttavia che i reportages newyorkesi si aprano e si chiudano con l’immagine di Venezia può indurre a ipotizzare, a rovescio, che la fuoriuscita dalla periferia produca in filigrana una rappresentazione dello spazio metropolitano ed esotico come cartografia o proiezione 9 Cfr. Francesco Ghelli, Nell’impero dei consumi. Scrittori europei in viaggio negli Stati Uniti 1930-1986, «Allegoria», 58, luglio-dicembre 2008, pp. 143-171. 10 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 2002, p. 94.
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della periferia stessa. I barbari palombari americani a Vicenza nel 1957 forse si possono configurare pertanto come radiografia dei vicentini medesimi, o meglio come profezia di ciò che di essi sarebbe stato vent’anni o trent’anni più tardi. In Parise il centro può sempre rovesciarsi in periferia, e la morte in vita. Si può avanzare una simile ipotesi perché, a ben guardare, il modello di rappresentazione spaziale utilizzato da Parise per New York è lo stesso poi applicato al Veneto quando l’autore, interrato nella sua casa sul Piave a Salgareda come Zanzotto a Pieve di Soligo, scrive: La civiltà veneta a parte la bizzarra e fantastica espressione veneziana e le tante “forme” nelle altre città, come Vicenza, Verona e Padova, non c’era. La “madre terra”, lì dove stavo io era barbara e brutale, ancora un rimasuglio, un resto genetico e somatico delle invasioni nordiche, con facce di unni, di finni, di mongoli, in un impasto talora picassiano di genetiche composite e degenerate o rigenerate nel tempo, dai secoli, di millenni. Ricordavo la mia Vicenza neoclassica, la bellissima Verona romana e romanica, la Padova di Galileo, le città della cultura con alla testa Venezia. Ma qui, sul Piave ero circondato da una cultura assai precedente: la tabula rasa dell’erba e il suo profumo al tempo dello sfalcio, le rane, la luce riflessa dalla laguna non lontana11.
L’intera cultura si fa natura, tabula rasa appunto: in un moto di reversibilità vitale e biologica che allontana in modo stellare Parise da Pasolini conducendolo paradossalmente accanto al Calvino delle Città invisibili. Non solo come Calvino metterà in scena in L’eleganza è frigida un Marco Polo postmoderno, ma nei reportages newyorkesi arriverà a costruire un piccolo calco di Leonia, la città che si monda dei propri rifiuti: La maggior legge del consumo essendo appunto questa: comprare senza usare. Il risultato è che la città di New York, bellissima anche per questo suo ventre mai sazio e sempre pieno, appare in certi giorni fissati e in certe ore della notte un immenso immondezzaio battuto dal vento dove rifiuti e uomini si confondono, prefigurando l’immagine di tutte le città del futuro (p. 52).
11 Goffredo Parise, Veneto “barbaro” di muschi e di nebbie, «Corriere della sera», 1 luglio 1983, ora in Id., Opere, 2 voll., a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, Milano, Mondadori 1987-89, p. 1537.
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vii. Sesterzo energetico. Scrittura e denaro in Paolo Volponi
1. Premessa Quella di Paolo Volponi poeta, scrittore e dirigente industriale, è una scrittura ad alto tasso figurale e, al contempo, a elevato quoziente cogitativo. Ciò è più evidente nei romanzi, davanti ai quali la critica italiana, abituata a giudicare esteticamente invalidante ogni intrusione extraletteraria nel corpo dell’opera, ha reagito con imbarazzo (giudicandoli troppo “sperimentali” o troppo “ideologici”). Elementi della storia politica e industriale italiana sono certo presenti in gran copia in tutto l’universo dei romanzi e delle poesie di Volponi ma subiscono una trasfigurazione immaginativa e una messa in forma estetica. L’adozione di un denominatore comune monetario per un attraversamento dei testi volponiani è in tal modo assai utile a confutare le accuse di contenutismo ideologico e per una verifica delle forme. Non si deve infatti pensare che tra livello stilistico e contenuti di realtà esista un rapporto di mero rispecchiamento. Sul piano metodologico va preliminarmente esibito il favore accordato da chi scrive, alla critica intesa come esercizio dialettico, ossia come investigazione delle dissociazioni operanti all’interno dei testi. Nella scrittura volponiana si cercherà di evidenziare, infatti, il corpo a corpo fra figuralità e intento argomentativo, tanto più radicale quanto maggiore è lo spettro di verità di quelle opere (e il loro valore). Attraversare i testi, poetici e narrativi, di Volponi seguendo la pista tematica della moneta consente insomma una verifica delle ambiguità e delle contraddizioni tra livelli di senso del testo, rappresenta-
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bile (secondo la proposta di Francesco Orlando) come formazione di compromesso fra modelli ideologici e forze della scrittura1.
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2. Figure monetarie nella poesia Prima di diventare un importante dirigente olivettiano e – parallelamente – il narratore “industriale” di Memoriale (1962), Paolo Volponi esordisce come poeta: la poesia sarà il genere che non abbandonerà mai e che praticherà fino agli anni Novanta. Viene del resto assunto da Adriano Olivetti nel 1949 non perché avvocato ma perché poeta e grazie a una lettera di presentazione di Franco Fortini. Se si comparano le prime raccolte alle ultime ci si avvede che la figuralità monetaria abita i versi in modo costante ma, al contempo, assai difforme. Il primo libro rilevante di versi, con cui vince ex aequo con Pasolini il premio Carducci, esce da Vallecchi nel 1955 e ha come titolo L’antica moneta. Il componimento, che dà il titolo all’intera raccolta, è particolarmente interessante ai fini di questo percorso: Antica moneta Precipitosi cieli delle notti di marzo, al cui fiato s’incrina ogni cristallo invernale. Come un’antica moneta La luna dissepolta affiora. Dalla tenera terra i piedi svegliano giovani fiumi e già le vipere compagne 1
Per l’analisi del rapporto contraddittorio fra figuralità e modelli ideologici nel testo si rinvia al ciclo freudiano di Francesco Orlando, ripubblicato sotto il titolo generale di Letteratura, ragione e represso (Francesco Orlando, Due letture freudiane: Fedra e il Misantropo, Torino, Einaudi 1990; Id., Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi 1992; Id., Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Torino, Einaudi 1997). Lo straripamento della definizione di letteratura dall’alveo tradizionale che ne deriva, con coinvolgimento dei generi della trattatistica filosofica, politica o scientifica, non si muove nella direzione della diffusa enfatizzazione del momento finzionale in ogni discorso umano bensì cerca di evidenziare il nucleo conflittuale correlato, in ogni tipologia discorsiva, alla densità figurale.
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vii. sesterzo energetico. scrittura e denaro in paolo volponi
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lasciano i nidi dei tesori nascosti col ventre d’oro.
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Ora le vergini s’aprono negli orti come radici all’acqua con timore dell’uomo che passa, delle dolci api a sciami nelle orecchie. Sortilegi d’olio e di corallo trarrà la zingara con l’orso ballerino. Marzo spenderemo, rotonda moneta, nelle feste dei paesi2.
A dominare questo testo, come gli altri della raccolta, è l’universo naturale e animale appenninico: qui trionfano le vipere, le api, come altrove il ramarro, le averle o la “cugina” volpe. La luna di marzo è assimilata a un’antica moneta dissepolta: la luna e la moneta, come si vedrà, sono figure destinate a lunga durata nell’immaginario poetico e narrativo di Volponi. L’antica moneta segna sul piano metrico-sintattico un primo sviluppo del linguaggio poetico volponiano: il primo, timido abbandono del frammento paratattico e l’adozione, ancora incerta, della misura ipotattica. Intervengono inoltre nuovi spazi poetici: i paesaggi urbani nel melodioso catalogo di Stanze romane che elenca in ritmo di ballata le prostitute della capitale, o quelli rurali e collettivi. Complessivamente, il grembo naturale originario compone nel giovane Volponi una specifica mitologia. Il panismo mostra però difficoltà a stabilire con l’insieme dei dati naturali e animali un rapporto di fusione e di corrispondenza diretta ed è mediato da “dati” collettivi e sociali: le feste paesane, in prossimità delle quali la moneta-luna è socialmente connotata dal verbo “spendere”.
2 Paolo Volponi, Poesie 1946-1994, a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2001, p. 57.
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Dopo tre decenni, Volponi, divenuto un grande narratore, mostra nei suoi versi maturi i segni di una radicale mutazione, attestata dalle due ultime raccolte Con testo a fronte (1986) e Nel silenzio campale (1990). Con testo a fronte (1986) comprende poemetti che, nel loro insieme, presentano alcune costanti. Il fondamento di ogni corporeità presente nei poemetti maturi è la contaminazione economica, elettronica e finanziaria del mondo biochimico, animale e naturale. Ne risultano trasformati i due motivi ricorrenti e originari della liricità volponiana: le proiezioni figurali del regno animale e la costante notturna, astrale e lunare. La contaminazione interessa in primo luogo il mondo animale. Ad esempio, nel poemetto Detto dei passeri, gli uccelli, nell’universale boscosa agonia, sono divenuti «alati capi prezzolati»3, mentre l’intero mondo zoologico è attraversato senza scampo né schermo dalla metafisica dell’oggi, vale a dire dalla riduzione del pianeta alle sembianze di un’azienda: «Falco è solo un nome topografico / di altura o di antico borgo, / falco è un dirigente accanito e pronto»; «aquila è nel linguaggio industriale / l’imprenditore il presidente il capo». Averle, capinere, verzolini sono «in gabbia o in cella frigorifera / nel menù dei ristoranti di lusso / o nelle contropartite commerciali con i paesi dell’est»4. Come gli uccelli, divenuti merce culinaria o risucchiati nei reattori degli aerei ai margini infuocati delle piste, anche l’intelligenza lavorativa viene smaterializzata nei tempi e negli spazi del comando capitalistico sul lavoro. Dal canto suo, l’immagine della luna, che apre e chiude la raccolta Con testo a fronte, è ridotta a emblema surreale della colonizzazione globale: il suo colore è «un’impossibile tinta / sia naturale che artificiale»5, la sua faccia stolta si specchia in un lago dove l’acqua è chimicamente mutata. Della luna, infine, in Vista sull’anno parallelo, non rimane che un meccanico riflesso sui vetri dell’auto presidenziale: «in un vetro che contiene la macchina della luna / sotto, dentro la fabbrica e la piazza / fino all’orizzonte che s’imbruna»6. Il ricorso all’accumulo caotico e alle adiacenze foniche, con consapevole ricorso al metro degli esordi poetici del volgare, la lassa mo3
Ivi, p. 315. Ivi, p. 316. 5 Ivi, p. 196. 6 Ivi, p. 368. 4
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vii. sesterzo energetico. scrittura e denaro in paolo volponi
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norima, è tale da fare di Con testo a fronte un’interminabile catena omofona, pulsante e orante.
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Con testo a fronte Arriva qualcuno dal raggio sul verso del giorno che parla a voce alta, perso dentro l’abbaglio: certo ormai di un immerso fruttuoso duemila, immenso universo spaziale, pietra, libro, sesterzo energetico, valore esteso, riconverso nel tutto mercantile, stretto e sommerso canale, fiamma, seme, puro e terso liquore, propellente, sublime del perverso passato e dolore, sul bagliore everso a torto: tempo, terra, giorno: diverso per sicuro, esatto, generoso, mai avverso il futuro, storico, nuovo, mai riemerso7.
Le coazioni del suono obbligano al disturbo delle sottototalità separate, e rinviano a una totalità più vasta di cui la figura più eloquente è il «sesterzo / energetico», che mette in cortocircuito valore del capitale e combustione – a un tempo dunque vitale e incendiaria: l’antica moneta, dunque, è ora smaterializzata nella mercificazione globale. Per comprendere la fonicità gestuale di questi versi e i campi semantici che vengono accostati e fatti interagire tra loro, è indispensabile partire da una critica della separazione fra modalità di funzionamento della sfera psichica e immaginativa e organizzazione liquida e flessibile dei processi finanziari e produttivi tardomoderni. L’ultima raccolta (Nel silenzio campale, 1990), epica, archeologica e cosmica, fin dal titolo8 tende al poema. Dichiara l’autore in un’intervista all’«Unità», del 1990. Vorrei poesie in terza persona o al plurale, con la capacità di riuscire a percepire la voce esterna degli altri e delle cose: di tanti segnali o rumori o sussulti o richiami. […] Magari riuscissi a fare una poesia epica con vari soggetti, con tante voci, tirando giù tanti cieli9. 7
Ivi, p. 269. «Nel silenzio campale vuol dire pressappoco “dopo la battaglia”, stare un po’ a lato, a guardare i resti fumanti, i caduti… Un silenzio che rassomiglia a un lamento funebre…». Paolo Volponi, E io ritorno ai Sessanta, intervista a cura di Michele Gulinucci, «L’Espresso», 4 novembre 1990. 9 Paolo Volponi, intervista a cura di Francesco Muzzioli, «L’Unità», 27 ottobre 1990. 8
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letteratura come storiografia?
L’intonazione degli ultimi poemetti ha il sigillo, a un tempo funebre e ilare, degli antichi poeti ellenistici10. Volponi avverte con sgomento il carattere maestoso e terribile di un mondo finanziario che padroneggia gli uomini e le cose con la stessa cecità automatica delle forze che operano nelle combustioni stellari. Ad essere posta in scena, sontuosamente e solennemente, è dunque, l’epica degradata della colonizzazione finanziaria. In Nel silenzio campale, come in Meteo di Zanzotto, nel paesaggio planetario che si sfalda prevale uno sguardo immoto, alto sopra le macerie: «uno smaltimento riflessivo della combustione umorale»11 e, soprattutto, una residuale fierezza del locutore. Rilevantissima, a questo proposito, la risemantizzazione delle figure animali entro una tematica classica, equestre e museale, ne Il cavallo di Atene. «Dico ai miei figli / cercate di leggere Parmenide per capire / come riuscire a tenersi e a scendere / e anche Callimaco, Senofonte, Alceo; / Freud mi pare che non c’entri»12: l’ultimo Volponi scolpisce l’oggetto della propria rappresentazione con concretezza plastica, utilizzando cognitivamente le proprie epifanie trasformate in miti pagani di intensa tragicità13. Nella mercificazione planetaria, di cui l’autore è 10 Non a caso, qui agisce il recupero del Pascoli epico e conviviale. Nel testo di apertura, L’attesa, la gamma lessicale rivela la presenza de Il ciocco («Una grande sfera» e «alla velocità del carro stellare»). In quello di chiusura, Le cose di Mao, «giunge l’eco di un altro poemetto che aveva a protagonista un altro grande giunto anche lui al proprio limite storico, Alexandros» (cfr. Romano Luperini, Attualità di Volponi, «L’immaginazione», 143, dicembre 1991). 11 Filippo Bettini, Introduzione a Paolo Volponi, Nel silenzio campale, Manni, Lecce 1990, p. 15. 12 Volponi, Poesie 1946-1994, cit., p. 389. 13 Esemplari, a tale proposito la tragedia de Il lanciatore di giavellotto (1981) e due racconti brevi (o poemetti in prosa) coevi alle ultime poesie: Talete e Nerone (1987). Talete descrive con oltranza plastica e pittorica l’antico sapiente intento a divorare se stesso. Il filosofo con cui convenzionalmente si fa iniziare la vicenda del pensiero razionale non può che staccare lentamente brani del proprio corpo, dividerli e consumarli, illuminato dalla luce. Attorno a lui, intanto, gli uomini degli eserciti praticano, nel più buio scatenamento pulsionale, il cannibalismo. La contrapposizione fra autofagocitazione del saggio e cannibalismo dei soldati è una complessa allegoria di una catastrofe della ragione. La dominante della luce e la solennità rituale dei gesti ne fanno una figura estrema di consapevolezza, di oggettivazione terminale del dolore. Talete, mentre taglia, divide e consuma pezzi del proprio corpo è un emblema sacrificale, si contrappone alla barbarie che lo attornia, invoca un’eredità trasmissibile, uno spossessamento di sé non privo di un crudo spiraglio di speranza. Cfr. Paolo Volponi, Termini, con una stampa calcografica di Renato Bruscaglia, Editrice Flaminia, Pesaro 1987, ora in Id., Del naturale e dell’artificiale, a cura di Emanuele Zinato, Il lavoro editoriale, Ancona 1999, pp. 191-195.
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precoce testimone grazie alla propria esperienza aziendale, all’Olivetti e poi alla Fiat, lo stato vivo del mondo e perfino le scissioni della mente sono un segno di resistenza, sia pur marginale e “irritata”. Un pianeta artificiale, funzionante, equilibrato, con principi, leggi, convinzioni, esposizioni, raggi, proporzioni, ombre intonate e intoccabili zone, foreste vergini, vulcani, deserti, abissi, del tutto nuovi, noti alla sola invenzione. Un pianeta costruito e programmato, e anche pianificato nella sua organicità e funzionalità. Vivente, irritabile, manovrabile, percorribile, adattabile, etc., etc. un pianeta senza moneta, senza mandati né prezzi; senza costi, senza banche14.
I valori finanziari, i prezzi e il “sesterzo energetico”, dunque, sono dichiaratamente posti al bando: un pianeta utopico non può che essere senza moneta. L’accumulo caotico qui è veicolo non solo di furore critico-negativo ma soprattutto di un’utopica, prensile totalità e comunità a venire: si prefigura un pianeta in cui natura e invenzione scientifico-poetica non siano più divergenti o nemici, e ciò implica il rigetto di tutti gli emblemi del capitalismo finanziario: moneta / mandati / costi / banche. 3. L’esordio narrativo Passando ora dalla poesia alla prosa, si può rilevare come un analogo tragitto, dalla vitalità simbolica al rifiuto allegorico del dettaglio “monetario”, sembri marcare la vicenda dei testi narrativi. Per le occorrenze iniziali del denaro, della moneta, dell’oro nei romanzi nel primo tempo della scrittura di Volponi è rilevante la vicenda del giovane Guido Corsalini, protagonista del primo romanzo pensato dall’autore, composto subito dopo Memoriale e pubblicato solo nel 1991: La strada per Roma (archiviato per tre decenni in un cassetto con il titolo provvisorio di Repubblica borghese). 14
Volponi, Poesie 1946-1994, cit., p. 390.
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letteratura come storiografia?
Si tratta di un “romanzo di formazione” ambientato nel dopoguerra e prima del “miracolo”, fra Urbino e Roma. Il testo è incentrato su due fra quelli che Weinrich, in Moneta e parola15, definirebbe campi metaforici: figure di esuberanza vitale, ricchezza, “sensualità vagante” e figure di morte, statica infecondità e ripugnanza. L’educazione erotica e politica del giovane protagonista procede nel senso di una trasformazione dall’incerta vitalità iniziale a un’adesione coraggiosa e incondizionata al valore di scambio. È estremamente significativo come nel linguaggio del romanzo, lirico e visionario, si compenetrino vitalità finanziaria e vitalità sensuale. Il cuore di questo campo metaforico è nelle mirabili pagine dedicate alla storia d’amore con Letizia, conquista sentimentale e insieme sociale. In questo rapporto d’amore il seme di Guido, con una metafora aurea, è presentato, con attrazione e tenerezza, dal punto di vista sapiente e libertino della ragazza, come denaro: Non le riusciva nemmeno di dirgli che poteva amarla fino alla fine, senza ogni volta ritrarsi e abbandonarle la moneta, un sacchettino d’oro sul ventre o sulle cosce. Non le faceva schifo, anzi poteva anche piacerle quel gruzzoletto splendente e vivo che sbocciava sulla sua pelle, ma le rincresceva di perdere lui, la sua lotta completa16.
Se il seme di Guido è rappresentato come gruzzoletto aureo, il seme di Urbino – che prima di tutto è quello paterno – ha sembianze mortuarie e infeconde e induce nel protagonista la paura della morte e della contaminazione. Non solo le mani del padre ancora vivo, tozzianamente, sono fissate in zoomate e dettagli perturbanti, ma il corpo morto del padre genera nel figlio «un senso di schifo» come «una benda infetta»17, gli abiti paterni gli sembrano «caldi, vivi come un organo appena tagliato» e il cappotto del morto gli ricorda le «spoglie di Urbino»18. La forza, a un tempo modernizzatrice e sensuale, che fa schizzare via Guido dal grembo “infetto” urbinate verso l’avventura della 15 Harald Weinrich, Moneta e parola in Id., Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, il Mulino, Bologna 1976, pp. 39 sgg. 16 P. Volponi, La strada per Roma, in Id., Romanzi e prose, 3 voll., a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino 2003, vol. III, pp. 453-454. 17 Ivi, pp. 453-454. 18 Ivi, p. 486.
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vii. sesterzo energetico. scrittura e denaro in paolo volponi
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capitale è dunque «il cavallo della ricchezza»19. Nel rovello politico dei dialoghi dei giovani nella nebbiosa Urbino, infatti, chi resta ha la precisa sensazione di rimanere in un luogo sterile «dove tutto morirà del tutto»20. Solo Guido, nelle cui vele soffia la forza della bellezza e del denaro, parte per Roma, e attraverso un sottile gioco di «mistificazione» e «indifferenza» che ha il suo modello nell’apprendistato sessuale, si sbarazza della confusa ansia morale e (un po’ come Zeno alla fine della Coscienza) impara a praticare «l’accanita abilità delle regole economiche»21:
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Quando Guido vedeva una casa sperduta, segno di miseria e fatica […] toccava le sue tasche e confidava che da lì sarebbero scaturiti la ricchezza per tutti, la redenzione e un ordine nuovo22.
Parallelamente, l’amore che ruba alla bibliotecaria romana fa tutt’uno con l’idea della ricchezza che lo guida nelle letture in quella stessa biblioteca, «sul plusvalore, sul capitale, sul reddito, sul guadagno»23, intervallando gli incontri e il lavoro in banca con soste al bar «bevendo una birra tutta d’oro»24. E durante le visite al bordello romano, sente consolidato il proprio coraggio per via «della confidenza ormai raggiunta con la ragazza sui meriti e le possibilità del suo corpo e sui calcoli fatti insieme per la ricchezza»25. La strada per Roma, nella ricostruzione della totalità concreta del mondo premoderno urbinate in via di dissoluzione per l’irrompere del miracolo economico, pur configurandosi in parte come testo autobiografico o autofinzionale, mostra una dissociazione fra punto di vista del personaggio e punto di vista del narratore: l’educazione di Guido sfocia in un’adesione vitalistica al valore del denaro e il narratore ne svela i giochi consolatori, la falsa coscienza, l’adattabilità interessata. Ma, al contempo, il narratore sembra in parte condividere lo schema corporeo e vitale del suo protagonista, il ribrezzo per ciò che nella società chiusa e mummificata di Urbino è ormai morente, e 19
Ivi, p. 701. Ivi, p. 680. 21 Ivi, p. 682. 22 Ivi, p. 676. 23 Ivi, p. 679. 24 Ivi, p. 686. 25 Ivi, p. 636. 20
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soprattutto l’attrazione per il vitalismo aureo e per il motto liberale e radicale di Dewey, letto a Roma da Guido, che in qualche modo chiude il romanzo: «Una società che è mobile, che è ricca di canali distributori dei cambiamenti che hanno luogo dappertutto, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità»26.
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4. Il pianeta irritabile Se dai primi anni Sessanta (in cui Volponi è dirigente dell’Olivetti) ci spostiamo ai tardi Settanta e Ottanta (in cui l’autore, a un passo da diventare amministratore delegato, è estromesso dall’industria italiana sempre più “postindustriale”, e sempre più disposta ai tagli e alla finanziarizzazione), i romanzi di Volponi sembrano invocare con furore – come i poemetti – la messa al bando della Moneta. I materiali elaborativi mostrano come nell’officina dell’autore il progetto del Pianeta irritabile, il romanzo fantascientifico sulla consunzione nucleare del mondo del 1978, coesista con il primo nucleo ideativo delle Mosche del capitale, uscito solo nel 1989. Nel Pianeta irritabile il paesaggio marchigiano del 2293, come il resto del mondo è del tutto mutato per le numerose guerre atomiche. Il pianeta è una favola allegorica animale suddivisa in diciotto capitoli non numerati, a loro volta composti di blocchi testuali minori separati dal bianco tipografico. Le esplosioni nucleari inferte dalla civiltà umana hanno sovvertito ogni equilibrio ecologico e perfino gli astri appaiono impazziti e in cielo compaiono contemporaneamente tre lune. La narrazione è eterodiegetica: nell’incipit un narratore scandisce, mediante il tempo presente e le insistite anafore («adesso» ripetuto ritmicamente), la solenne descrizione di uno scenario apocalittico e primordiale. Sotto un diluvio incessante di acqua mista a petrolio, sabbia o madreperla, quattro paia di occhi hanno trovato riparo in una caverna aperta nel tronco di uno smisurato leccio. Si tratta di un elefante parlante di nome Roboamo, di un babbuino amadriade detto Epistola, dell’oca Plan Calcule e del nano Mamerte, sopravvissuti alla distruzione del loro circo. Il Foglia e l’Alpe della Luna, come ogni altro riferimento 26
Ivi, p. 694.
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marchigiano riconoscibile, sono dissolti. I verbi inerenti il paesaggio sono indici di suprema instabilità: «allargarsi», «sciogliersi», «abbassarsi», «precipitare», «ruotare», «sparire». A scandire il cammino verso il «regno» intuito d’istinto dalla scimmia Epistola, sono piuttosto le «prove decisive» che il gruppo deve sostenere «prima che diventi accessibile una Terra Promessa», tra cui spicca il conclusivo scontro con il Governatore Moneta. La decisione di battezzare con questo nome monetario il Nemico assoluto, ultimo responsabile delle guerre nucleari prolungamento di quelle economiche, è presa collettivamente e festosamente dal piccolo gruppo battagliero: – Che nome gli daresti? – A chi? – Al governatore, non alla banca. – Macello, Macello. – Macello va bene, può andar bene: ma a rifletterci il nome giusto è Moneta. Moneta è tutto. Molto più completo di macello, Rovina, Catena, ecc. ecc. Il governatore è Moneta. E come una moneta, allo sbarco, rotolerà. – Moneta sia! Così lo chiameremo! Per poco, perché presto dovremo spenderla. No! No, spenderla, – precisò Roboamo, – fonderla!… Liquefarla!27
Come ha ben visto Giovanni Raboni, «capovolgendo totalmente il messaggio “storico” della fantascienza, Volponi non vuole ammonire o mettere in guardia i suoi lettori contro le conseguenze della dissipazione ecologica e il fatale approssimarsi della catastrofe; al contrario, sembra assaporarne in anticipo le delizie, abbandonandosi coi sensi e la fantasia a una sorta di dilagante, contagiosa ilarità»28. Il riso qui è scatenato dal gioco linguistico operato intorno al campo semantico della coniazione monetaria, che vira dallo scambio (spenderla) alla fusione (liquefarla), e che prelude all’uccisione del Governatore, alla liquidazione definitiva del potere tecnologico ed economico degli umani. Dopo che nello scontro finale la scimmia Epistola ha trovato la morte insieme al Nemico Moneta, i tre sopravvissuti possono infatti rimettersi in marcia e inaugurare una nuova, egualitaria comunità solidale. 27 28
Ivi, p. 676. Giovanni Raboni, Tre lune appese sul disastro, «Tuttolibri», 27 maggio 1978.
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L’ossatura ideologica del romanzo è tuttavia bifida e ambivalente: la ricerca di una verità biologicamente fondata, capace di sopravvivere al pervertimento della ragione strumentale e al suo esito geoclastico e di fondare nuovi rapporti sociali elementari, si connota anche come regressione all’immediatezza animale (in esergo spicca non a caso una citazione dagli esercizi di memoria di Leopardi: Immortaltà selvaggia).
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5. Le mosche del capitale Lo statuto dell’ambivalenza connota anche il più invettivale e sperimentale fra i romanzi di Volponi, quello che fin dal titolo allude ai manager asserviti che, come un nugolo di mosche, vorticano intorno allo sterco-capitale. La direzione di marcia della figuralità monetaria di Volponi, dall’ambiguo entusiasmo vitalistico degli anni del boom al rigetto polemico, ilare e irato dei tardi anni Settanta e Ottanta, infatti, è complicata da contraddizioni e da difformi livelli di senso. Ciò appare evidente proprio nell’ultimo romanzo, Le mosche del capitale (1989) in cui il protagonista, Bruto Saraccini è estrema proiezione autofinzionale dell’autore, e il testo è allegoria del dominio oligarchico di un nuovo ordine finanziario, che annulla l’idea di industria come progresso o bene pubblico, privatizza i profitti mentre socializza i costi della propria immateriale voracità. L’incipit, memorabile, studiato da Mengaldo nel suo volume sulla storia della lingua italiana del Novecento, presenta il sonno universale della città industriale in cui il solo a vegliare è il valore del capitale: La grande città industriale riempie la notte di febbraio senza luna, tre ore prima dell’alba. Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie dei quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radiocomunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol. […]
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Il midollo spinale dei nastri crepita, memoria e calcolo, come nel sonno il sangue circola, l’inconscio dilaga, il sogno si versa, il cervello si alimenta di nuovi scatti per i pensieri di domani. Già al primo risveglio sul lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce spinto dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del capitale. Mai un istante, anche nelle più cupe notti, cessa di crescere e prevalere; si sposta si assesta recupera forze distribuisce risorse immagina e progetta nuove strategie delinea nuovi organi e nuove facoltà29.
In una delle sequenze lunari o cosmiche delle Mosche, vere e proprie operette morali incastonate nel testo, dove i ficus o la luna possono dialogare col calcolatore o osservare in modo straniante le vicende umane («Ah come conosco gli umani di quel pianeta che bruciando produce l’energia necessaria al loro volo»30), una voce esterna al mondo e postumana proclama solennemente l’avvenuta colonizzazione globale, la fine di ogni enclave residua. Prima di tutto sbugiarda e smentisce chi si ostina a sognare un universo non neoliberista: Ma c’è ancora qualcuno che potrebbe sostenere: non più libertà d’iniziativa, non impresa di rischio e di innovazione, non competitività né mercato […] Snaturato perfino l’oro. Ridotta la moneta a non significare più niente, nient’altro che la sua patacca rotonda31.
L’ideale degli animali del Pianeta irritabile, quello di un mondo elementare, senza finanza né moneta, viene accantonato per sempre come perdente, desueto, non compatibile con i convulsi processi di mutazione. Sono invece questi processi a essere cantati secondo una retorica epico-allegorica, benché, in parte, parodica: Silenzi plastificati. Crepita l’acido cristallino del dominio oligarchico assoluto, narcisistico quanto cinico. Le sue figure sono singolari, altere e preziose, compiaciute e controllate, intelligenti, esatte nei rispettivi posti. Il deposito è filtrato dal pensiero scaldato, dal calore ossigenato, dai desideri illuminati, dal fulgore del successo; è l’universo, l’unico, il solo dell’esistenza e del futuro. Le sue vicende e i suoi moti sono la storia; il suo equilibrio è la natura, la sua salute è la verità, il suo corso la realtà, la sua direzione la ragione, il suo peso la materia, i suoi organi la scienza, il suo sangue l’umanità. La mente e i sentimenti di questo universo sono i loro, di coloro che lo colmano e lo saziano. 29 Paolo Volponi, Le mosche del capitale, ora in Id., Romanzi e prose, cit., vol. III, pp. 7-8. 30 Ivi, p. 182. 31 Ivi, p. 186.
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Altro universo non c’è, nemmeno sottostante e affondato. Nessun altro mondo, nemmeno tra i satelliti spenti degli spazi, né tra le meteoriti attirate da una delle tante orbite32.
Tanto nella raffigurazione epica iniziale del sonno della città industriale e della veglia del valore quanto in questa visione cosmica e plastificata, la voce che celebra la Grandiosità e l’Orrore di una colonizzazione globale non è quella dell’autore. Si potrebbe dire che, in prima istanza, il testo si regga sulla retorica dell’ironia, che preveda dunque il rovesciamento antifrastico. In tal caso, tutte le lodi alla cosmica grandiosità del dominio capitalistico potrebbero essere lette come altrettante condanne senza appello. Tuttavia, poiché ogni negazione sottende freudianamente un’affermazione, sotto il velo dell’ironia probabilmente abita un’istanza di senso ancora più profonda, un represso più sottile e negato. Infatti, nel testo delle Mosche del capitale, ogni residuo arroccamento ideologico e critico, alternativo al dominio neoliberista e all’automatismo dei mercati, è rappresentato come superficiale (il dirigente keynesiano Saraccini è definito «coglione», la voce dei ficus è velleitaria) o irrimediabilmente sconfitto (l’operaio comunista Técraso espulso e incarcerato). È invece la voce che veicola e annuncia l’avvenuto dominio oligarchico del capitale immateriale, a qualificarsi come assoluta, totale, sontuosa, vittoriosa (quella del terminale, o quella della luna, appunto). Proprio come accadeva nella giovanile Strada per Roma, vitalità corporea e potenza economica non costituiscono dunque dei poli opposti ma abitano invece un medesimo campo semantico. Non a caso, l’universo colonizzato dal capitale nelle Mosche (e dei poemetti più tardi) viene spesso rappresentato come uno smisurato corpo-mondo, dai movimenti automatici, dotato di ghiandole, arterie e vene entro cui incessantemente scorre il valore. La figuralità e la scrittura di Volponi, sia poetica che narrativa, sembrano dunque sottendere un senso paradossalmente apologetico, a dispetto della sua ideologia prima olivettiana e keynesiana e poi marxista. E, in una contraddittoria formazione di compromesso fra torti e ragioni, attestare l’epica della mutazione e della globalizzazione, la forza vittoriosa e travolgente del neoliberismo nel secondo Novecento, modello unico di pensiero e di rapporti infraumani di fine millennio, almeno fino alla Grande Crisi attuale. 32
Ivi, pp. 181-182.
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viii. L’«Angue Nemico»: note su Paesaggio con serpente di Franco Fortini
1. Questioni di metodo L’oggetto del mio intervento è una proposta di lettura della raccolta Paesaggio con serpente. Versi 1973-19831 che ne metta in luce alcune costanti figurali e ne sveli – come insegna a fare Fortini stesso – la «tensione fra quel che è detto e quel che è taciuto»2. Mi servirò di alcuni materiali autografi, non separerò i testi poetici da quelli saggistici coevi e, infine, sceglierò di isolare e di esaltare, all’interno della raccolta, sei o sette testi, esemplari quanto a forza strutturante, a presenza di costanti tematiche e formali e a impegno cogitativo. Anticipando le conclusioni, si tratta di L’ordine e il disordine, I lampi della magnolia, Stammhein, Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto, Da Shakespeare, Il nido e Settembre 1968.
2. La genesi della struttura, l’incipit e «le fiere pressioni del contesto» Paesaggio riunisce 62 componimenti e si articola in otto sezioni: Il vero che è passato, Circostanze, Versi per la fine dell’anno, Otto recitativi, Exultet, Di seconda intenzione, Il nido, Una obbedienza. Questa struttura generale della raccolta è stata oggetto di un’elaborazione sofferta, come testimonia l’importante corrispondenza cus1 Franco Fortini, Paesaggio con serpente. Versi 1973-1983, Einaudi, Torino 1984. Si citerà da qui in poi da questa edizione. 2 Franco Fortini, Nuovi saggi italiani, 2 voll., Garzanti, Milano 1987, vol. II, p. 47.
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letteratura come storiografia?
todita nell’Archivio del Centro Studi Franco Fortini3. Inizialmente Fortini sembra intenzionato a seguire uno schema
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che in sostanza ripete quello di Questo muro. Sommariamente: versi d’occasione indirizzati a qualcuno (un “interlocutore”), versi privatissimi (“a se stesso”), versi esplicitamente “politici” e pubblici (“Le circostanze”), versi, in senso positivo, “manieristici”, con una parte di declamato e “recitato”4.
In seguito, sopprime la sezione «Versi a se stesso» e riduce la sezione «Circostanze», con conseguente rarefazione dell’immediatezza politica. A beneficiare del ridimensionamento è Ospite ingrato II, in preparazione negli stessi mesi, che accoglie i testi di taglio più epigrammatico. All’interno della nuova raccolta acquista invece maggior vigore in rapporto alle altre sezioni “dimagrite”, la zona di “intenzione seconda” o “manieristica”. Nell’epistolario di Fortini, nel corso del 1983, si manifestano a più riprese incertezze e insoddisfazioni relative alla legittimità stessa del nuovo libro di versi. I dubbi vengono confessati a Mengaldo, in un serrato dialogo a più riprese, spesso aperto dalla formula «eccomi ad affliggerti»: La natura centrifuga di questa, come delle altre mie raccolte, rende pressoché impossibile fabbricare quel tanto di romanzo e di autobiografia lirica che fa un “libro” […]. Ti confesso che non so, davvero non so, se metta conto fare questo libro. Esso è probabilmente un libro di versi come un altro, nulla di meglio o di peggio; con l’aggravante dell’età5.
La cogitazione fortiniana sulla struttura della raccolta, oltre che reattiva nei confronti delle affermazioni epistolari dell’amico, risente indirettamente delle «fiere pressioni del contesto». Di quei giorni del 1983 è il dirty job dei marines a Grenada, con i corpi dei nemici strascicati per i piedi, anticipazione di pratiche di esportazione della democrazia occidentale destinate a ingigantirsi nei due decenni suc3 Si fa riferimento ai seguenti carteggi custoditi presso l’Archivio del Centro Fortini dell’Università di Siena: «Franco Fortini a Pier Vincenzo Mengaldo. 21 lettere 19731994»; «Pier Vincenzo Mengaldo a Franco Fortini. 63 lettere 1968-1994»; e, a proposito di Una obbedienza, al carteggio «Franco Fortini a Giorgio Devoto. 9 lettere 1979-1988». 4 Lettera di Fortini a Mengaldo datata «mercoledì 14». La minuta conservata presso l’Archivio senese è priva di mese e di anno. Si tratta quasi certamente del 1983. 5 Lettera di Fortini a Mengaldo datata «Milano, 4 ottobre 1983».
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viii. l’«angue nemico»: note su paesaggio con serpente
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cessivi. In ottobre, Fortini intervenne a questo proposito sul «Corriere» con un articolo che a vent’anni di distanza abbaglia per la luce che lancia sul presente:
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Mie concittadine, una scelta vi è lasciata. Salvo imprevisti, i vostri figli o trascineranno con la faccia a terra i corpi dei propri coetanei o a quel medesimo modo saranno trascinati. Da gente che parli la loro stessa lingua o un’altra non importa. E non solo per le occorrenze atroci delle battaglie quando gli uomini si imbestiano: ma perché per far sopravvivere l’impero uno o dieci o cinquantanni bisogna atterrire l’avversario e i suoi parenti […]6. Per le sue posizioni Fortini venne ingiuriato da Ostellino, Bocca e Pampaloni e sulle lettere preparatorie di Paesaggio con serpente vi sono tracce autografe della polemica7. In quello stesso mese, Fortini lavora sulla zona incipitaria, nevralgica, della nuova raccolta. I dubbi maggiori riguardano l’apertura. Mi parrebbe utile una sorta di poesia epigrafe, ma non so quale avrebbe peso sufficiente8.
Il libro alla fine verrà aperto – come si desume già nelle carte – da un indice provvisorio9, dalla nuova sezione «Il vero che è passato», che fin dal titolo è un marcato indizio di cesura storica, e dalla prosa L’ordine e il disordine, proveniente da Questo muro, che contiene la cruciale figura della biscia decapitata, del serpe mozzo: capace, dunque, di porsi in sintonia col titolo generale e di reggere l’apertura della nuova raccolta. L’ordine e il disordine è un testo ad altissima irradiazione intertestuale: chiude Questo muro, apre Paesaggio con serpente, viene ripreso in Non solo oggi10, alla voce Dialettica e, implicitamente, an6 Franco Fortini, Quei morti strascicati a faccia in giù, «Corriere della Sera», 30 ottobre 1983, ora in Id., Insistenze, Garzanti, Milano 1985, pp. 259-261, col titolo Quelli di Grenada. 7 In una delle lettere a Mengaldo si legge la seguente annotazione marginale autografa: «il G. Pampa sul Tempo mi attacca chiamandomi non per nome ma “rinomato collaboratore del Corriere”». Lettera di Fortini a Mengaldo datata «10 novembre 1983». 8 Lettera di Fortini a Mengaldo datata «mercoledì 14». 9 L’indice provvisorio, dattiloscritto con correzioni e integrazioni autografe, è allegato alla lettera di Fortini a Mengaldo datata «10 novembre 1983». 10 Franco Fortini, Non solo oggi. Cinquantanove voci, a cura di Paolo Jachia, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 53.
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letteratura come storiografia?
che in Composita solvantur11 il cui titolo è infatti, come precisa in nota l’autore, «comando e augurio» che «il disordine succeda all’ordine». Si tratta di sette lapidari capoversi. I primi due disegnano una scena di strazio animale che sembra voler coinvolgere tutto il piccolo bestiario fortiniano: «La biscia decapitata», «un animale pesante», un «rospo», le «formiche misere rabbiose» le «lumache malate», «i ricci di notte, a soffi e succhi», il «topo color creta». I successivi terzo e quinto mimano, sia pure in forme contratte, un dialogo, offrendo due spiegazioni, opposte e speculari, della sparizione cruenta degli animali. La prima, affermativa e utopica, indica un cammino di redenzione:
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Non ci sono più, dicono, perché tutto sarà veramente. I rospi arrancano, e la biscia decapitata, verso il Disegno.
L’altra, negativa e nichilistica, addita l’estinguersi inutile della materia vivente: Non ci sono più, invece dicono altri, perché niente sarà. Dopo il mitragliamento, la bestia si strascicò sul ventre fino al fossato. Ai primi decibel del mattino il serpe mozzo ha finito di divincolarsi. Verso il Disordine, il segno dell’inutile, la passione stomachevole.
Il quarto e il sesto capoverso elencano i locutori dell’affermazione e della negazione: si tratta di voci difformi (da un lato i martiri, «le gioie orchestrali», i «desideri», dall’altro gli animali, l’odio, il conflitto generazionale). Eppure, sintomaticamente, l’io lirico-cogitativo figura in entrambe: «Io qualche volta». L’ultimo capoverso, infine, esibisce il prezzo della sintesi ricompositiva fra speranza nel Disegno e certezza del Disordine. Gli imperativi («e tu réggile»; «e tu fissalo») denunciano la volontà strenua di dare fiato, nella sequenza delle disgregazioni, alle ragioni della reversibilità, al dialogo tra vita e morte, tra passato e futuro. La proclamazione ultima, sincopata, è posta non solo sotto il segno della contraddizione («L’uno che in sé si separa e contraddice») ma anche 11 Franco Fortini, Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994. Tratto dall’epigrafe latina del monumento funebre di Francis Bacon nella cappella del Trinity College a Cambridge, il titolo dell’ultima raccolta è infatti, come precisa in nota l’autore, «comando e augurio» che «si dissolva quanto è composto, il disordine succeda all’ordine». L’invocazione della dissoluzione è inoltre bilanciata da una controspinta rigenerativa: «ma anche, com’era nel vetusto precetto alchemico, si dia l’inverso».
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viii. l’«angue nemico»: note su paesaggio con serpente
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dell’implacabile annullamento del soggetto («finché non sia più uno. E poi torni a esserlo, e ti porti via»). L’ordine e il disordine, rattrappito dialogo filosofico e straniata criptocitazione hegeliana12, invoca ed esige, per essere interpretato, l’uso spregiudicato della desueta categoria della dialettica – categoria davvero centrale in Fortini, precoce interprete di Lukács – da assumersi con tutta la sua carica lacerante quale segno della costruzione contraddittoria del reale13. Anche nei testi poetici successivi, come vedremo, si manifesta il prezzo e il peso della dialettica, che a tratti sembra insostenibile, fino a spingere il locutore in una situazione constatativa ambivalente, in un vicolo cieco, capace di divenire ora dormiveglia, ora (auto) irridente contrappunto melodico. Non è infrequente che il soggetto-testimone si annichilisca in un assopimento fetale davanti alle allegorie della condizione umana o alle manifestazioni via via più atroci e paralizzanti dei conflitti. L’unità dialettica dei contrari può scivolare così verso la loro identità, paralizzante e prossima alla logica simmetrica dell’inconscio. Fortini lo sapeva, come ben attesta l’ultima poesia, Mi hanno spiegato14. Veicolo di tale oscillazione, talvolta oniroide, è il moltiplicarsi, nei testi poetici degli anni Settanta in poi, di figure animali: «immagini / di sonno e di custodia», ma anche elemento pre-umano, veterotestamentario, di cieca e assoluta violenza15. In particolare, l’immagine biblica del serpente compare già in un testo del 1937 giocato sul «tropo della metamorfosi»16 e raccolto nella plaquette dei Versi primi e distanti17: Serpente lieto mutata la scorza, porto con me quello che mai saprete. E più di voi sarò, sparendo, amaro.
12 13
Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, trad. it. Feltrinelli, Milano 1978, p. 317. Cfr. Nicolò Pasero, Marx per letterati. Sconvenienti proposte, Meltemi, Roma 1998,
p. 81. 14 Cfr. La poesia reca la data 2 ottobre 1994. Si può leggere in Franco Fortini, Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Einaudi, Torino 1995 e in «L’ospite ingrato», I, 1998, con una nota di Giuseppe Nava, a p. 146. 15 Per un repertorio di tali costanti si rinvia a Emanuele Zinato, Il dente della storia. Figure animali nella poesia di Fortini, «Hortus», 16, 1994, pp. 20-27. 16 Luca Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Manni, Lecce 1999, p. 226. 17 Franco Fortini, Versi primi e distanti, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1987.
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In Paesaggio tuttavia il rettile assume una rilevanza tale da invadere il titolo. Ed è, per così dire, sotto il suo segno che si accresce – rispetto al vero – il peso della citazione, dell’intenzione seconda della poesia fortiniana. Il titolo stesso è infatti mutuato dal capolavoro pittorico di Poussin eseguito intorno al 1648 che, riprodotto in copertina e rievocato in uno dei testi della sezione Di seconda intenzione (Nota su Poussin), agisce da vero e proprio filtro rivelatore per l’intera raccolta.
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3. Vischio e fiele, obbedienza e inesistenza: il presente inattingibile e la dimensione tragica della storia Se L’ospite ingrato II è il libro a cui sono destinati molti pezzi in un primo tempo inseriti in Paesaggio, il principale testo “immissario” è la plaquette Una obbedienza18, che “cede” 16 dei suoi 18 componimenti originariamente ripartiti in 3 sezioni. E il verbo obbedire del titolo compariva anche in uno dei componimenti della terza sezione: Stammheim, migrato in Paesaggio. Anche Stammheim, dedicato alle morti sospette in un carcere tedesco di massima sicurezza di tre accusati di terrorismo, avvenute il 9 maggio 1976, è – come L’ordine e il disordine – un testo dialetticamente bipartito, imploso e avvitato su se stesso dall’inevitabiltà del tritacarne della storia: bloccato tra ragione e torto, ordine e disordine, città invisibile e città visibile. L’“obbedienza” a un dover essere, intrinsecamente finalistico, è entrata in una strettoia distruttiva e autodistruttiva. Qualche anno dopo, la visita ai detenuti nelle carceri speciali convincerà Fortini che, proprio come per gli assai incerti “suicidi” di Stammheim, Fra i giovani della lotta armata c’è stato davvero il peggio e il meglio di quella generazione19.
Il “meglio” e il “peggio”, opposti e speculari: c’è di che far saltare i nervi a quanti in quegli stessi anni predicavano, anche per via giudiziaria, la necessità di stare da una sola parte, con conseguente accusa di “fiancheggiamento”. Per Fortini, tuttavia, la questione è solo in parte legata all’attualità o immediatezza politica: coinvolge 18 Franco Fortini, Una obbedienza, con prefazione di Andrea Zanzotto, San Marco dei Giustiniani, Genova 1980. 19 Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990 p. 74.
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invece più generali questioni antropologiche e contrapposte visioni del mondo. L’intero ceto politico e intellettuale italiano era colpevole a suo avviso di aver rimosso la dimensione tragica dei conflitti, dimensione ben presente alla tradizione cattolica grazie al dogma della natura umana vulnerata dal peccato, ma non ai laici e progressisti.
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La realtà misconosciuta si vendica. Le contraddizioni che non si manifestano si aprono la strada in forme di nevrosi. Se la realtà dei rapporti sociali viene mascherata dalla ideologia, un’altra ideologia vi si contrappone che “dice” quella realtà proprio perché è impotente a modificarla. I comportamenti di scacco (e, in profondo, autopunitivi) posono essere, allora, la rivolta, l’evasione, la devianza, il terrorismo20.
«Nessuno fu più obbediente di loro» è il verso ripetuto due volte nello schema speculare di Stammheim. E obbedienza è parola-chiave sia fortiniana che pasoliniana, ben interna al contesto degli anni Settanta: in Fortini rinvia alla questione cruciale del rapporto tra giovani e adulti, al rifiuto o all’assunzione della maturità, ai padri e all’adolescenza coatta21; in Pasolini invece, per opposizione, all’universo “orrendo” dei nuovi giovani piccolo-borghesi, protagonisti del consumismo e della contestazione22. La plaquette Una obbedienza comprendeva infatti In morte di Pasolini, con la sua terribile negazione e accusa d’inesistenza: «Nulla ti fu mai vero. Non sei mai stato. / I tuoi versi stanno. Tu mostruoso gridi. / Così le membra dello squartato sul palco». Questa poesia viene tuttavia espunta da Paesaggio con serpente, per far posto al nuovo sonetto Per l’ultimo dell’anno 1975 ad Andrea Zanzotto a cui è deputato il compito di «tutt’altra interpretazione» della medesima morte23. Anche Per l’ultimo dell’anno 1975 comprende, implicitamente, la figura topica del serpente. E anche per questo sonetto, come per la più Franco Fortini, Insistenze, cit., pp. 208-9. Cfr. soprattutto i saggi compresi in Fortini, Insistenze, cit. 22 Cfr. Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, p. 100: «Il poliziotto suicida, di nome Vincenzo Rizzi, lui ci credeva ancora veramente. […] Dunque Vincenzo Rizzi era un ragazzo “obbediente”. Cosa, questa, assolutamente originale in un mondo di “disobbedienza”. “Disobbedienza retorica” (quella creata e manovrata dal potere come contraddizione a se stesso e soprattutto come garanzia di modernità, assolutamente necessaria al consumo) e “disobbedienza reale” (quella degli sparuti gruppi rivoluzionari e di una enorme massa di criminali). Io considero dunque screditata la parola “disobbedienza”, mentre penso che debba essere rivalutata la parola “obbedienza”». 23 Cfr. Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. 146. 20 21
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generale struttura della raccolta, la vicenda compositiva, genetica e variantistica fu una vera “tragedia”. Il dialogo a distanza tra Fortini e Mengaldo è a questo proposito illuminante: Per l’ultimo dell’anno. È una tragedia. Credo che mai quattro versi mi abbiano fatto patire tanto. Sono schiavo dell’intriso e non ho uscita. Tenevo all’Esso, impettito e sordo; ma ti concedo. Anche per la sovrimpressione di “vischio” e “fiele” hai ragione. Ma il solo fiele assume valore eccessivo. Bisogna far intendere che l’anno è un serpe, un rospo o simile e che è stato tagliato. Quel che ne cola non è sangue ma siero o fiele o altro liquido. Mi sarebbero andate bene le “fila”, le “righe” le “vene”, ma tutte queste voci sono equivoche, non si può andare verso “pozza” o “goccia”, “gora”, “sgorgo” ben montaliane. Tanto più che è, il mio, sangue, siero, sperma, fiele ecc. già “freddo”. Ma un aggettivo “lungo” (per non dire “nero” e simili) mi pare sbagliato in questa tonalità molto dura e scandita, senza ornati. Propongo Ora nel vischio del suo fiele intriso (Entro le vene del suo fiele intriso Così nel fiele di suoi giorni intriso) Nessuno mi persuade del tutto, ma più di tutti nonostante la “sovrimpressione”, il primo, perché il “vischioso è importante e poi per le ‘i’”24.
Fortini dà al termine vischio un senso ofidico: non per significare l’arbusto parassita e ornamentale, ma la sostanza appiccicosa e, in senso figurato, l’attrazione, l’inganno, l’insidia subdola. Il «vischio» cola dai giorni, o dall’anno «da sé diviso», come da un serpe mozzo che si ritrae nel buio25. Il sonetto esegue una riunione (noi…) fra tre poeti (Fortini, Pasolini e Zanzotto) che hanno creduto non alla poesia come primum, ma come «un dono “in più” superveniens a condizione che il primum fosse il regno di Dio o dell’Uomo»26. A tutti e tre, a uno a uno, e non più al solo Pasolini, è riservato significativamente un futuro d’inesistenza, parola che chiude Per l’ultimo dell’anno 1975. Quella ofidica è, nella poesia fortiniana, figura di violenza storica. Dalla metà degli anni Settanta, nel periodo del terrorismo e della reazione, Fortini si impegna nella «battaglia per la memoria» di quanto era accaduto nel quinquennio ’67-’72. Intanto, l’antico sogno schilleriano 24
Lettera di Fortini a Mengaldo datata «giovedì 10 novembre 1983». Fortini, Attraverso Pasolini, cit., pp. 146-147. 26 Ivi, p. 147, nota 2. 25
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di un’educazione estetica dell’uomo si è trasformato nel «surrealismo di massa» indotto dai media audiovisivi: entro tale fantasmagoria, sciolto ogni finalismo o progetto, transita permanentemente l’idea che bene supremo dell’umanità sia il libero mercato, mentre perdono consistenza altri modi possibili di relazione interumana. Parallelamente, il teatrino mediatico adopera in scena come attore il terrorismo, e diventa insostenibile la verità del serpente, cioè del fondamento violento di ogni vivere civile, che pure era stata ben chiara – come non smetterà di ricordare Fortini fra 1978 e 1991 – a Manzoni. Si mette al bando ogni pensiero di trasformazione delle condizioni esistenti, con divieto implicito di distinguere fra democrazia formale e sostanziale, fra consenso e manipolazione, fra potere e forza, fra coazione e violenza27. Nominando il biblico serpente si dà voce dunque a un rimosso storico, a un represso: il cui veicolo è dato dalla stessa «grandezza del codice classico della misura e dell’equilibrio», largamente utilizzato in Paesaggio28. Un classicismo che, come nota Guido Mazzoni, «ostenta di continuo la propria natuta letteraria» per indicare «una lacerazione»29. Non a caso in Paesaggio è centrale l’idillio paesistico. Il libro, dopo L’ordine e il disordine, si apre con I lampi della magnolia che sembra invitare il lettore a sottrarsi alle pressioni della storia, attraverso la metafora della dolcezza del paesaggio: il «cielo sereno», «la calma delle tegole», «la dedizione / del rivo», «la bella curva dell’oleandro». Si invita a guardare al paesaggio, e non alla storia, perché il presente è diventato inattingibile: l’orizzonte d’attesa è radicalmente cambiato, le figure pubbliche di Guevara, Panzieri, Serantini, non sono più comunitariamente condivisibili. La poesia dedicata alla morte di Serantini viene espunta, e così quella riguardante le occupazioni del ’71, mentre il Che e Panzieri sono assenze spettrali. Diventa invece paradossalmente attuale, nel segno del “manierismo”, una zona storica «tra l’ultimo quarto del Cinque e l’ultimo del Seicento»30: Poussin, Milton, Tasso, Shakespeare, Góngora, Cartesio. 27 Per queste problematiche fortiniane, oltre che alla saggistica di Insistenze e di Extrema ratio, si rinvia a Storia e memoria, «L’Espresso», 13 maggio 1990 e Nel sottoscala del diritto la violenza della ragion di Stato, «il manifesto», 21 giugno 1991. 28 Remo Pagnanelli, Su Paesaggio con serpente, «Marka», 13, dicembre 1984, p. 91. 29 Guido Mazzoni, La legittimazione della poesia, «Allegoria», 21-22, VIII, 1996, p. 38. 30 Lettera di Fortini a Mengaldo datata «mercoledì 14 […]».
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Mi ero poi venuto persuadendo che nella pittura di Poussin, dal luogo comune correlata al nome di Milton, si celasse un discorso grave e nostro, odierno. Guardando i suoi dipinti della National e del Louvre chiedevo alle figure sgraziate e recitanti, a cieli tutti immobilità e minaccia, come ai crepuscoli e mosti delle ottobrate, che cosa volessero dire certi allori virgiliani disseccati tra le eriche e quei congiungimenti freddi di vigna e vischio: certo una nostalgia per qualcosa di presente ma inattingibile31.
Si tratta soprattutto della sezione Di seconda intenzione. Qui è collocata la più chiara dichiarazione di poetica dell’intera raccolta, non priva di figure animali che col serpe hanno ben a che fare (la bestia nata in covo, il mostro goffo) e incentrata sull’estrema difesa della poesia. Questo componimento esplicito tuttavia prende le forme oblique di una imitazione: Da Shakespeare. Vo incontro al mostro goffo che ci annulla e già calpesta il suolo; e un verso muovo non perché eroe ma perché non ho scampo né arma oltre a questa che è di secca ruggine…
Il bisogno di mediazioni letterarie in Paesaggio (imitazioni, traduzioni immaginarie, forme metriche tradizionali) sembra insomma derivare da una corrispondente impossibilità o inservibilità dell’immediatezza politica del messaggio, o perfino da una necessaria dissimulazione. Dicendo quel che non dico. Tacendo. Anche Mentendo. È qui con me e con voi e parla d’altro – la verità32.
Come propone Lenzini – insomma – «il demonio lentissimo su cui indugia lo sguardo nei versi di Nota su Poussin», e più in generale l’intero Seicento pittorico e poetico fortiniano - è «un’allegoria in cui Eros e Thanatos sono chiamati a dire altro da sé»33.
31
Franco Fortini, Premessa a Il ladro di ciliegie, Torino, Einaudi 1982. Franco Fortini, Prima poesia televisiva contro l’estremismo, in Id., Poesie inedite, cit., pp. 13-14. 33 Lenzini, Il poeta di nome Fortini, cit., p. 29. 32
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4. Le polisemie dell’Angue Nemico A questo punto è forse possibile approssimarsi al «punto focale del libro»34, senza esserne schiantati o abbagliati: Il nido, posto dalla struttura stessa della raccolta in massima evidenza, poiché da solo costituisce una intera sezione. Si tratta – come suggerisce Lenzini – di una delle manifestazioni di quella «tendenza al tour de force poematico che è, insieme, lavorìo sulle strutture formali-linguistiche, sfida del pensiero e riflessione metapoetica»: esattamente come La poesia delle rose in Una volta per sempre o Il falso vecchio in Questo muro. Il nido alterna tre strofe in tondo e tre in corsivo. Quelle in tondo esprimono una situazione quotidiana (l’io poetico in stato di veglia, nella notte, mentre dietro il muro della casa dormono i piccoli uccelli). Quelle in corsivo prendono invece le mosse da uno scenario di violenza storica seicentesca: si aprono infatti sulla guerra dei trent’anni – il macello europeo di cui Madre Courage e i suoi figli, il grande dramma antimilitarista di Brecht, descrive il periodo danese: è l’epoca di Cartesio e di Milton, di Bacone e dei giansenisti e della declinante egemonia degli Asburgo e della Spagna. A Praga, leggo, le teste recise dei nobili le chiusero in fregi di aquile e di oro. Da teatri profondi i valorosi umani cantano. Squilli dividono la notte. Voci chiamano altere miserere.
Fortini fa riferimento alla fase boemo-palatina della guerra (16181623): ma si tratta già di una guerra globale, che ha le sembianze di uno scontro religioso. La confessione boema non era che una forma di protestantesimo derivante dalla dottrina di Huss, arricchita di elementi luterani e calvinisti. Gli ispano-asburgici passarono dalla tolleranza all’aggressione e scatenarono una vera e propria crociata contro gli eretici boemi, sconfitti nella battaglia della Montagna Bianca (8 novembre 1620). In Boemia il movimento fu sgominato con numerose condanne capitali («le teste recise dei nobili» chiuse in fregi asburgici, appunto) e il territorio fu pesantemente feudalizzato e cattolicizzato, sotto la guida dei gesuiti. 34 Romano Luperini, La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini, Editori Riuniti, Roma 1986, p. 57.
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Accostati dal montaggio testuale a questo lampo abbagliante di storia europea seicentesca, nelle strofe in tondo, gli «ignoranti esserini» del nido sono inconsapevolmente destinati al macello («l’aria inorridita»), figura di una più generale «strage tra fosse e discariche». In entrambi i tipi di strofe la scansione è martellante (3-4 accenti forti su base endecasillabica). L’anastrofe e l’iperbato segnalano il punto focale del testo collocato, come scrive Luperini, nella seconda strofa in corsivo:
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La illusione ha deserto le scene. Minimi popoli sono bruciati nei dìodi. Nella tua nave paziente accogli, mi dico, le membra, mente pia, spezzate. Fai che sembri il mio un solo essere assopito
Assopimento, forma fanciulla della coscienza e corpo chiuso nel riposo, dell’io poetico, non risultano alla fine opposti ma reversibili, o almeno contigui, rispetto al sonno incosciente dei piccoli uccelli. La condizione della veglia, la forza vigile della ragione, predilette da Fortini, sono qui poste in stallo. È il momento in cui Milton affianca o sostituisce Brecht nelle scelte di traduzione dell’autore. Come Madre Courage di Brecht (secondo un’acutissima lettura di Cesare Cases) anche il personaggio che dice io nel testo poetico fortiniano sembra andare insomma in una direzione diversa da quella che il suo autore avrebbe voluto che andasse. Nel demistificare l’orrore del macello, la resistenza, che Fortini e Brecht pretendono dall’individuo «è una soma troppo grave per lui»35. «Nella tua nave paziente accogli, mi dico, le membra, / mente pia, spezzate» è infatti una delle non infrequenti invocazioni di annullamento o preghiere laiche della poesia di Fortini: «O dèi inesistenti, / proteggete l’idillio, vi prego»; «Fosforo imperiale fanne cenere»; «Quanto lucente la tua inesistenza»36. In E questo è il sonno… componimento che chiude Composita solvantur sarà proprio all’insegna dell’assopimento che verrà svelata la sostanza figurale degli animali fortiniani: come nell’Epistola ai romani «Tutta la creazione… (geme insieme e patisce doglie)», così come i ghiri gentili alzano a un cielo indifferente i loro uncini e ogni 35 Cesare Cases, Nota introduttiva alla edizione dei Capolavori di Brecht, Einaudi, Torino 1963. 36 Cfr. Roberto Bugliani, Poesia e divinità. Di alcuni luoghi nella poesia di Franco Fortini, «Allegoria», 21-22, VIII, 1996, pp. 92-108.
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notte sono vittime della civetta e le vene delle acque sperano in uno sgorgo imprigionate nel granito. Anche in Settembre 1968, la più bella tra le poesie “politiche” della sezione Circostanze di Paesaggio, l’autore utilizza come ne Il nido l’alternarsi di strofe in tondo e in corsivo per separare eventi storico-politici dal momento privato, in cui l’io lirico osserva il paesaggio. Anche qui in corsivo compare Praga, in un elenco che comprende altri fatti della scena sessantottesca mondiale, e che in una primitiva versione coinvolgeva anche l’assassinio di M. L. King e quello di Bob Kennedy37. Non è più dunque la Praga seicentesca, bensì quella dell’invasione sovietica del 21 agosto 1968. Al tempo storico degli eventi del 1968 si contrappone l’eterna ripetività del ciclo naturale (il verbo ripete compare in fatti al primo verso ed è la cifra della poesia: «Quest’anno ne ripete molti altri»), e la coscienza stenta a individuare nei fatti storici un diagramma razionale: domina invece il paesaggio, raffigurato con minuzia coloristica da «iperrealismo barocco»38. La lucreziana processione delle «piume bianche dei cardi», chiude una sequenza di dissipazione cosmica entro cui si rimpiccioliscono e si annullano gli eventi del Sessantotto. Nella versione originaria39 il verso finale Stringo nella tasca una lettera di stamani infatti non c’era. Fortini spiega in una delle lettere a Mengaldo: Pensa che “stringo nella tasca” è stato aggiunto dopo una stampa su di una rivista perché era assolutamnte necessario andare oltre la tonalità “disfattista”40.
La chiusa è dunque – a detta dello stesso autore – un tentativo, messo in opera con uno scatto volontaristico – ben rivelato dal termine «disfattismo» – di tornare al tempo storico, di sfuggire all’inevitabilità del crepuscolo, e all’incantamento del nulla che abitano il paesaggio. Come in Da Shakespeare, anche in Settembre 1968 Fortini sembra dirci «Quello che vedi è sempre stato». Storia e Natura, finiscono insomma per coincidere. 37
Cfr. lettera di Fortini a G. Devoto, datata «9 ottobre 1981». Remo Pagnanelli, Serpente e ladro, «Alfabeta», 82, VIII, marzo 1986, p. 7. 39 Pubblicata in una raccolta in onore degli ottant’anni di Montale (AA.VV., Poeti a Montale, Bozzi, Genova 1977). 40 Lettera di Fortini a Mengaldo datata «Milano 4 ottobre 1983». 38
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Del resto, in un’autobiografia condotta in forma d’intervista, Fortini ha esplicitato il suo giudizio sulla rivolta studentesca di allora
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Furono anni in cui sentivamo imminente una trasformazione catastrofica. […] Oggi lo sappiamo: quel che avveniva ci mascherò in parte tutta l’altra trasformazione compiuta dal capitale tecnologico e finanziario41.
È precisamente nella forcella tra queste due trasfomazioni, la prima illusoria, l’altra reale – e dietro quella maschera, che si colloca Paesaggio con serpente con la sua «verità nera». A partire da Paesaggio, e diversamente che nei saggi, nei testi poetici fortiniani gli animali diventano il veicolo più consistente del dispiegarsi delle pulsioni di morte, dello sguardo sul vuoto. Si veda a titolo d’esempio Stanotte, compresa in Composita solvantur, e oggetto di una magistrale lettura di Luperini. Qui, esattamente come ne L’ordine e il disordine, si pongono in scena l’animale straziato da un altro animale sanguinario e l’agonia di quest’ultimo, avvelenato dalle viscere del primo, in forma di «allegoria vuota»42. Per intendere ciò che vi è di obliquo o non risolto in Paesaggio con serpente, e che proprio in quanto tale ne stabilisce il valore, occorre fare i conti col fatto che la semplice opposizione tra paesaggio e serpente, ordine e disordine, natura e storia non esauriscono le polisemie dell’Angue Nemico: figura manzoniana e biblica di metamorfosi e redenzione, figura della violenza storica ineliminabile ma anche dell’inevitabilità dei limiti oscuri della materia vivente, figura dell’inconscio privato e politico. In Paesaggio come nell’Ognissanti di Manzoni vi è «un paesaggio di alberi e di acque» in cui «l’erba del campo reca nascosta la spiga vitale come, alla fine, recherà nascosto – “latet anguis in herbis” – il Serpente». Contro ogni fedeltà al testo del Genesi […] il Serpente manzoniano sente “sulla testa superba” (notare, come identificazione supplementare, che nell’inno Il Natale, il superbo collo, era quello dell’uomo Adamo) il piede della Vergine […]. Ci pare che questo anacronismo abbia due significati: di sopprimere la dimensione temporale, introducendo una esistenza della Vergine ab 41 Franco Fortini, Fortini: leggere e scrivere, a cura di Paolo Jachia, Nardi, Firenze 1993, p. 63. 42 Cfr. Luperini, Il momento di Fortini, in Id., La lotta mentale, cit., p. 108.
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aeterno o una eterna ripetizione dell’evento, comunque una radicale sottrazione alla storia; e di porre un rapporto diretto, di contiguità, fra il peccato e la redenzione e finalmente, fra la violazione e la purezza43.
Nel dialogo con Santarone sui classici italiani, Fortini rivela come entro la crudeltà erotica delle immagini manzoniane abitino, non meno che nella Colonna infame, i conflitti storici: il sarcasmo, la disperazione politica, lo scatenarsi della reazione, gli arresti dei suoi amici44. Nostante l’esplicita dichiarazione autoriale, i versi ci dicono che il canto-incanto non può “uccidere il serpente”: può forse esorcizzarlo, incantarlo, con la sua cerimoniale ritualità. E che l’individuo non è che un luogo biologico attraversato, nella sua labile durata, dalle forze storico-sociali. Come nella coeva poesia “ilozoica” di Primo Levi45, l’idillio è impossibile e il «dente della storia» morde e recide non meno di quello della natura. È insomma la sostanza seicentesca e manzoniana di Paesaggio, «feroce forza» che «il mondo possiede». La stessa che, ricorda Fortini, compariva nella conclusione dei Promessi sposi meno idillica, e in seguito cassata, in cui faceva capolino la famiglia di Giangiacomo Mora, vittima di tremende torture nei processi agli untori:
43 Franco Fortini, L’Ognissanti e l’animo virginale, in Id., Nuovi saggi italiani, cit., vol. II, pp. 36-55. 44 Cfr. Franco Fortini, Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani, a cura di Donatello Santarone, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 101. 45 In Ad ora incerta, (ora in Primo Levi, Opere, 2 voll., a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, vol. II) per frustrare la boria antropocentrica degli umani, gli animali rivendicano la partecipazione automatica al moto universale di generazione e distruzione. In Aracne (29 ottobre 1981) la femmina del ragno, quasi per elettronica necessità, divora il maschio nel momento stesso di ingravidarsi. «Conforme al progetto impresso / Sul nastro minimo della mia memoria. / Mi siederò nel centro / e aspetterò che un maschio venga, / Sospettoso ma ubriaco di voglia, / A riempirmi ad un tempo / Lo stomaco e la matrice» (p. 562). La stessa cecità crudelmente necessaria, ben presente anche fra gli animali dell’universo poetico fortiniano, governa il tragitto della talpa: «Ora navigo insonne / Impercettibile sotto i prati […] Dove gli occhi non mi servono più» (Vecchia talpa, 22 settembre 1982, p. 566). «Logaritmico», per necessità materiale, è l’amplesso bavoso delle chiocciole (La chiocciola, 7 settembre 1983) «Naviga cauta sicura e segreta, / Tenta la via con occhi telescopici / Graziosa ripugnante logaritmica. / Ecco ha trovato il compagno-compagna, / Ed assapora trepida / Tesa e pulsante fuori dal suo guscio / Timidi incanti di ancipiti amori” (p. 573). Cfr. il capitolo Primo Levi poeta-scienziato: figure dello straniamento e tentazioni del non-senso, in questo volume.
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Non se ne sa nulla. Nessuna memoria ci fu trasmessa di quella stirpe pur degna di tanta pietà. Quel secolo non pensava alla stirpe dei condannati46.
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Aggiunge Fortini: «Mi chiedo se queste parole non valgano anche per noi»47. Risponde adeguatamente a questo capitale quesito una poesia in prosa dedicata alle generazioni spazzate via dalla svolta fra anni Settanta e Ottanta. L’autore è Remo Pagnanelli (1955-1987) giovane e attento interprete fortiniano, la cui monografia, purtroppo postuma48, fu letta da Fortini «con ammirazione e angoscia (né solo per la sua morte ma per il senso di smarrimento di identità che mi prende quando il discorso critico mi rivela quel che non so o non voglio sapere)»49. Bè, non ardono di nessuna giovinezza (gli invisibili), nemmeno nel visibilio. Se li hanno spazzati senza riguardo, per questo vuol dire che lo stesso vivono nella memoria, nella poesia che la memoria resuscita? Non vivono, sono larve nella mente di qualcuno. Se li hanno spazzati via e la loro gioventù non illumina alcun tramonto, non importa…, per qualche reverendo Smith, per qualche metafisico scriba cristiano, essi solleticano il tumulto pesante delle parole. Direbbero, per allentare la rabbia, che lo stesso albergano nei nostri cuori. No, è finita per essi, e nessuno che non sia colpevole pensa alla trovata della poesia50.
46 Alessandro Manzoni, I promessi sposi. Storia della colonna infame, Mondadori, Milano 2009, pp. 702-703. 47 Fortini, Le rose dell’abisso, cit., p. 103. 48 Remo Pagnanelli, Fortini, Transeuropa, Ancona 1988. 49 Lettera di Fortini a Massimo Raffaeli, datata Milano, 19 aprile 1989, pubblicata in Massimo Raffaeli, Appunti su Fortini, Edizioni L’obliquo, Brescia 2000, p. 47. 50 Remo Pagnanelli, Preparativi per la villeggiatura, Amadeus, Montebelluna 1988.
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ix. Primo Levi poeta-scienziato: figure dello straniamento e tentazioni del non-senso
1. Per ogni grande narratore che sia stato “anche” poeta, è difficile sottrarsi al gioco, non sempre produttivo, di scovare nella scrittura maggiore, per tracce, indizi o magari anche per negazioni, gli incunaboli di quella minore. Se, a proposito dei versi di Primo Levi, si vuole partire dal rapporto con la prosa, credo occorra guardare alle forme brevi più che ai romanzi: in particolare, alle short stories dove domina la giustapposizione di motivi autobiografici e di motivi fantascientifici, agli articoli sulle responsabilità dello scienziato e, soprattutto, ai cortocircuiti antologici de La ricerca delle radici. Il denominatore comune istituibile tra queste scritture e le poesie di Ad ora incerta è dato da una certa strategia associativa, di tipo “chimico” e reattivo. Nelle sue quattro raccolte di racconti (Storie naturali, Vizio di forma, Il sistema periodico, Lilìt e altri racconti) Levi sperimenta varie maniere di racconto, «facendole reagire le une sulle altre», Sicché sul realismo delle narrazioni di vita vissuta e di memoria si proietta lo sghimbescio “arbitrario” di quelle di fantasia, ma queste ultime a loro volta traggono dalle prime il loro limite1.
Nella sua variegata collaborazione a «La stampa», a partire dal 1975, Levi alterna sapientemente articoli, dialoghi, racconti, accostando informazioni occasionali a temi universali, neutralità cronachistica a ironia corrosiva, sicché la cronaca si trasmuta in dato protocollare nudamente straniato, exemplum autoriflessivo e problematico. 1 Pier Vincenzo Mengaldo, Ciò che dobbiamo a Primo Levi, in Id., La tradizione del Novecento, Terza serie, Einaudi, Torino 1991, pp. 302-303.
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letteratura come storiografia?
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Nella Prefazione a La ricerca delle radici, infine, spicca una certa irrelatezza delle giustapposizioni (ad esempio, fra Lucrezio e Belli o Swift, o fra Darwin, Giobbe e Celan) per spiegare la quale Levi ricorre alle associazioni dell’inconscio, e situa nelle «viscere» le «radici» del titolo: più che un repertorio di letture personali si tratterebbe, dunque, di un’opera di denudamento, del lavoro profondo del proprio «straccio di es». Nelle poesie opera la medesima dinamica di montaggio e di combinazione reattiva fra diverse «ricorrenze»2. Nel risvolto di copertina di Ad ora incerta, Levi confessa al lettore la natura coatta-preconscia, oltre che dilettantesca, delle proprie poesie: La poesia è nata certamente prima della prosa. Chi non ha mai scritto versi? Uomo sono. Anch’io, ad intervalli regolari, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta: a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico. In alcuni momenti, la poesia mi è sembrata più idonea della prosa per trasmettere un’idea o un’immagine. Non so dire perché, e non me ne sono mai preoccupato: conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti. Posso solo assicurare l’eventuale lettore che in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale (p. 517)3.
Dobbiamo prendere per buona tale dichiarazione autoriale? I versi di Primo Levi sono davvero la voce della metà non razionale dell’autore? Gli esiti formali sembrerebbero smentire la confessione leviana. Al lettore delle poesie, infatti, balza agli occhi soprattutto il loro impianto didattico, brechtiano, invettivale, epigrammatico: insomma, il loro bassissimo tasso di figuralità. Del resto, a prescindere dal genere 2 Franco Fortini ha individuato le seguenti «ricorrenze» in Ad ora incerta: «quelle dei versi che si riportano direttamente alla esperienza della deportazione, meno di dieci; quella delle meditazioni o moralità sconsolate, mortuarie, crepuscolari o di rassegnato storicismo, anch’esse circa dieci; ma il gruppo più consistente è quello nelle quali ad un personaggio viene prestata la voce, secondo il modulo di Spoon River o si antropomorfizza un animale o un vegetale.» Franco Fortini, L’opera in versi, in Primo Levi, il presente del passato, Giornate internazionali di studio (Regione Piemonte), Franco Angeli, Milano 1991, p. 138. 3 Tutte le citazioni si riferiscono all’edizione di Primo Levi, Opere, 2 voll., a cura di Marco Belpoliti, Einaudi, Torino 1997.
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letterario frequentato, in Levi, l’impulso iniziale è totalmente eteronomo. Anche la poesia – come ha notato Giovanni Raboni – sembra nascere in lui dalla ragione, dalla lettura morale della realtà. A partire dalla poesia più nota, l’epigrafe di Se questo è un uomo dal titolo Shemà, nei versi di Levi non vi è mai la più piccola traccia di orfismo o «l’attesa che – suono a suono, figura a figura – il senso scaturisca in forza di quella razionalità “altra” che è l’inconscio»4. Si tratta viceversa di un caso esemplare di figuralità severamente controllata5, che permette di accostare, dal punto di vista stilistico e retorico, Ad ora incerta «a quella poesia neorealistica che in Italia è riuscita ad avere così di rado degne espressioni»6. Levi dunque, non sembra mai disposto a lasciarsi parlare o agire dagli automatismi dei significanti. Nella sua stessa lingua, trasparente e cristallina, è possibile scorgere casomai l’intento ossessivo di opporre l’autocontrollo formale al caos del Lager7. 2. Cosa ha voluto dunque confessare l’autore al lettore di La ricerca delle radici e di Ad ora incerta, a proposito di es residuale o di altra metà innaturale? Per tentare di chiarirlo, occorre innanzitutto considerare le poesie di Levi nella loro genesi, con l’ausilio delle date di composizione che l’autore puntualmente ha posto in calce a ogni singolo testo. Ad ora incerta è una raccolta che, dalla prima poesia, Crescenzago, datata «febbraio 1943», all’ultima, Scacchi, datata «23 giugno 1984», scandisce un esatto quarantennio. Ai componimenti raccolti in volume dall’autore nel 1984, occorre aggiungere l’appendice postuma, dal titolo Altre poesie, che raccoglie versi scritti fra il settembre 1982 e il gennaio 19878. 4 Giovanni Raboni, Primo Levi un poeta vero ad ora incerta, «Tuttolibri», 17 novembre 1984. 5 Cfr. Walter Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Einaudi, Torino 1980, pp. 21-103. 6 Mengaldo, Ciò che dobbiamo a Primo Levi, cit., p. 306. Fortini avverte nei tre verbi conclusivi di Shemà (vi si sfaccia, vi impedisca, torcano il viso) una eco del Quasimodo del dopoguerra. Cfr. Fortini, L’opera in versi, cit., p. 137. 7 Cfr. Cesare Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole, «L’indice», 10, 1987, pp. 25-31, poi come Introduzione al primo volume delle Opere, cit. 8 Levi, Opere, cit., vol. II, pp. 604-628.
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Nel corpo del Canzoniere9 leviano è possibile intravvedere una vera e propria frattura, a partire dagli anni Settanta, quando, alla dominante memorial-testimoniale avviata dalle poesie del periodo 1945-1949, subentra la riflessione sul collegamento fra le vicende dell’umanità con quella del cosmo. La svolta è doppiamente significativa in quanto interessa simultaneamente il piano dei temi e quello delle forme. Dagli anni Settanta infatti è rinvenibile un lavoro attento, tenace, orgoglioso, sulle specificità della pronuncia, sulle specifiche risorse dell’intonazione e della metrica, un lavoro condotto al di fuori, certo, delle linee di ricerca tipiche e portanti della poesia italiana contemporanea, ma non nell’ignoranza di esse. Un lavoro sottilmente, suggestivamente anacronistico, sorretto da una robusta e affettuosa conoscenza di alcuni grandi autori del passato (da Orazio mettiamo fino a Heine, tradotto da Levi)10.
La cesura è da situare all’altezza di Nel principio, un’epistola in versi indirizzata ai «fratelli umani» e datata «13 agosto 1970», piccolo capolavoro di cosmogonia materialista. I diciannove versi sciolti, endecasillabi perfetti, ipo- o ipermetri, considerano le moderne acquisizioni dell’astrofisica con l’occhio dei «leggendari atomisti dell’antichità», da Democrito a Lucrezio, e contemplano con fissità eroica la massa di materia ed energia originaria, nella sua ossimorica conflagrazione generante. Da quell’unico spasimo tutto è nato: Lo stesso abisso che ci avvolge e sfida, Lo stesso tempo che ci partorisce e travolge, Ogni cosa che ognuno ha pensato, Gli occhi di ogni donna che abbiamo amato. (p. 544)
Qui è all’opera, per la prima volta nei versi leviani, la figura dello straniamento: come nel leopardiano Dialogo d’Ercole e d’Atlante o come nella novella Pallottoline, il più marcato fra gli esempi
9 «Il corpus poetico di Levi può essere paragonato a un canzoniere, a una raccolta, per quanto frammentaria e disomogenea, di versi in cui si depositano le tracce dell’esistenza esteriori e interiori. L’espressione “canzoniere” non rimanda certo alla tradizione aulica italiana, ma piuttosto a quella inaugurata da un autore amato e tradotto da Levi, il poeta tedesco Heinrich Heine, e fatta propria anche da Umberto Saba». Marco Belpoliti, Note ai testi, in Levi, Opere, cit., p. 1547. 10 Raboni, Primo Levi un poeta vero ad ora incerta, cit.
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di leopardismo pirandelliano11, le infime dimensioni degli umani («Stanchi, iracondi, illusi, malati, persi») vengono accostate a quelle, cosmiche, della violenza generatrice della materia stellare («Nostro padre comune e nostro carnefice»). A partire dal 1970, dunque, Shemà cede il passo a Bereshìd12 quale ammonimento-guida dell’intero sistema poetico leviano: alla Shoah si sovrappone il Big Bang dell’astrofisica come strumento di pedagogia negativa. In coincidenza con tale vistoso cambiamento tematico, si intensificano e si specializzano nelle poesie di Levi le figure dello straniamento: personaggi o oggetti “altri”, animati o inanimati, che gettano sul mondo uno sguardo straniato, così da rivelarne aspetti normalmente celati, o fraintesi, o negati. Le vie seguite da Levi per costruire le proprie figure stranianti sono almeno tre: talvolta, senza dislocare altrove la voce dell’io poetico, il locutore utilizza un diverso punto di vista o ricorre all’allegoria e all’emblema; altre volte antropomorfizza un animale o un vegetale; altre volte ancora presta la propria voce a personaggi reali o mitologici, mediante monologhi o dialoghi drammatici. In tutti e tre i casi, «è come se Levi prosatore portasse anche nei versi una esigenza narrativa»13, oltre che saggistica, da capriccio fantastico-filosofico di specie leopardiana. Appartengono al primo gruppo, oltre a Nel principio, Le stelle nere, La bambina di Pompei, I gabbiani di Settimo, Cuore di legno, Schiera bruna, In disarmo, Un ponte, L’opera, in Ad ora incerta; Polvere, Una valle, Agenda, Il disgelo, in Altre poesie. Al secondo gruppo appartengono le favole filosofiche, in cui si dà voce, per via imitativa o parodica, a un animale o vegetale o a un oggetto: Aracne, Vecchia talpa, Agave, Meleagrina, Le chiocciole, L’elefante, Pio, Scacchi, in Ad ora incerta; La mosca e Il dromedario in Altre poesie. 11 Cfr. Gilberto Lonardi, Leopardismo. Tre saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Sansoni, Firenze 1990, pp. 110-114. 12 Shemà significa «ascolta» in ebraico. È la prima parola della preghiera fondamentale dell’ebraismo e il titolo della celebre poesia-invocazione di Levi del 1946, a proposito della memoria del massacro nazista. Bereshìd, tradotto in «Nel principio», è la prima parola della Sacra Scrittura e il titolo dell’invocazione ai «fratelli umani» scritta in versi da Levi il 13 agosto 1970, a proposito di un numero della rivista «Scientific American» dedicato alla teoria del Big Bang. 13 Fortini, L’opera in versi, cit., p. 138.
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letteratura come storiografia?
Nel terzo gruppo prendono la parola imperatori, filosofi e scienziati dell’antichità, ma anche voci anonime, giovani teppisti, un servo, un atleta, i morti: Plinio, Huayna Capac, Autobiogafia, Sidereus nuncius, Dateci, in Ad ora incerta; Casa Galvani, Il decatleta, Canto dei morti invano, Sansone, Delila, in Altre poesie.
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3. Potrà forse risultare di qualche utilità, per la nostra indagine, il prelievo di alcuni dettagli altamente significativi, per carica irradiante, da ciascuna delle tre tipologie (a, b, c) debitrici della svolta degli anni Settanta. a. Nei testi che tendono all’emblematizzazione, vengono utilizzati variamente oggetti stellari, storie esemplari, animali, vegetali o oggetti inanimati. Le stelle nere («30 novembre 1973»), come Nel principio, trae materiali da un articolo dello «Scientific American» ed eleva un monito di nullificazione. Un dodecasillabo isolato vigila i dieci versi che seguono, fungendo da introduzione solenne e perentoria («Nessuno canti più d’amore o di guerra»). L’unica rima (vv. 3-11) segnala una condizione umana del tutto inerme e sgomenta davanti al buio della materia, non lontana dall’explicit memorabile e disperante di A se stesso («l’infinita vanità del tutto»): L’universo ci assedia cieco, violento e strano […] E i cieli si convolgono perpetuamente invano. (p. 546)
La bambina di Pompei (20 novembre 1978) è una epistola rivolta ai potenti della Terra che, con tessere foscoliane14 e leopardiane, commisura la cecità distruttiva dei meccanismi nullificanti della natura a quelli della storia: la fiamma che brucia Anna Frank e la luce che smaterializza la scolara di Hiroshima «assumono nel nostro secolo l’identica fatalità, inesorabile e imponderabile, della lava pompeiana»15. 14
Cfr, v. 18: «La sua cenere muta è stata dispersa dal vento». Massimo Raffaeli (a cura di), Primo Levi, Garzanti scuola, Milano 1998, p. 38. L’antologia di Raffaeli costituisce, al contempo, un utilissimo strumento didattico e un eccellente lavoro ermeneutico. 15
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Così tu rimani tra noi, contorto calco di gesso, Agonia senza fine, terribile testimonianza Di quanto importi agli dèi l’orgoglioso nostro seme. (p. 549)
Ne I gabbiani di Settimo («9 aprile 1979»), la voce narrante resta al poeta, ma lo sguardo è degli uccelli che, abbandonato il mare, scrutano soddisfatti il paesaggio dell’avvenuta apocalisse ecologica e nidificano nella materia metamorfica del “miracolo” economico, «Tra grumi di catrame e lembi di polietilene» (p. 551). Le nuove generazioni ornitologiche, «pingui» (v. 10) e «immemori» (v. 21), sono trasparente figura di quelle umane, morantiani «cuccioli di scarto» accecati e smemorati. In Cuore di legno («10 maggio 1980») il poeta s’identifica in un vecchio ippocastano dei viali torinesi che, come la ginestra sull’arida schiena del vulcano, resiste nello sterile e nocivo scenario metropolitano, custodendo la memoria delle stagioni: Anno per anno, succhia lenti veleni Dal sottosuolo saturo di metano; È abbeverato d’orina di cani, Le rughe del suo sughero sono intasate Dalla polvere settica dei viali; Sotto la scorza pendono crisalidi Morte, che non saranno mai farfalle. Eppure, nel suo tardo cuore di legno Sente e gode il tornare delle stagioni. (p. 554)
Anche gli oggetti inanimati, come gli animali e i vegetali, si prestano in Levi a divenire emblemi. In In disarmo («27 giugno 1982») il figurante (una vecchia nave) è così carico di materialità corporea e antropomorfa che, pur non prendendo direttamente la parola, sembra a un passo dal farlo. La nave diviene figura di inevitabile, straziante, agonia del desueto: Dondola tarda sull’acqua della darsena Viscida, iridescente di petrolio Una vecchia carena, sola fra le molte nuove. Il suo legno è lebbroso, il ferro fulvo di ruggine.
L’imbarcazione invecchiata subisce una duplice aggressione: da parte dell’inesorabile rivincita della natura «ostinata»
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letteratura come storiografia?
Sotto il pelo dell’acqua Vedi alghe molli, e i trapani lentissimi Di teredini e barnaccole ostinate
E da parte della freddezza repressiva di una nuova tecnologia Invece il canapo d’ormeggio è nuovo, Di nàilo giallo e rosso, teso e lucido, caso mai alla vecchia impazzita Venisse fantasia di riprendere il largo. (p. 565)
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Chi si trova nella morsa di natura e cultura, implode e annichilisce Il fasciame urta cupo contro il molo, obeso Come una pancia gravida di nulla. (p. 565)
b. Entro il vasto gruppo di poesie leviane che, come esito della cesura del Settanta, utilizzando la prosopopea, spicca il gruppo omogeneo degli apologhi che danno voce ad animali, vegetali o a oggetti. Questi testi, urgentemente comunicativi e pedagogici, spesso implicano domande retoriche o violente accensioni di rabbia e di sfida rivolte agli umani: Che c’è di strano? Il cielo non mi piaceva, Così ho scelto di vivere solo e al buio. (Vecchia talpa, 22 settembre 1982) È il nostro modo di gridare che Morrò domani. Mi hai capito adesso? (Agave, 10 settembre 1983) Tu, sanguecaldo precipitoso e grosso, Che cosa sai di queste mie membra molli fuori del loro sapore? (Meleagrina, 30 settembre 1983) Perché affrettarsi, quando si è ben difesi? (La chiocciola, 7 dicembre 1983) Scavate: troverere le mie ossa Assurde in questo luogo pieno di neve. (L’elefante, 23 marzo 1984) Pio bove un corno. Pio per costrizione, Pio contro voglia, pio contronatura, Pio per arcadia, pio per eufemismo. (Pio, 18 maggio 1984)
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… Così vorresti, a metà partita, A partita finita, Rivedere le regole del gioco? (Scacchi, 23 giugno 1984) Sono io la padrona qui: La sola libera, sciolta e sana. (La mosca, 31 agosto 1986)
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A che tante querele, liti e guerre? Non avete che da imitarmi. (Il dromedario, 24 novembre 1986)
Per frustrare la boria antropocentrica degli umani, gli animali rivendicano la partecipazione automatica al moto universale di generazione e distruzione. In Aracne («29 ottobre 1981») la femmina del ragno, quasi per elettronica necessità, divora il maschio nel momento stesso di ingravidarsi: Conforme al progetto impresso Sul nastro minimo della mia memoria. Mi siederò nel centro E aspetterò che un maschio venga, Sospettoso ma ubriaco di voglia, A riempirmi ad un tempo Lo stomaco e la matrice. (p. 562)
La stessa cecità crudelmente necessaria, ben presente anche fra gli animali dell’universo poetico fortiniano governa il tragitto della talpa: Ora navigo insonne Impercettibile sotto i prati […] Dove gli occhi non mi servono più. (Vecchia talpa, 22 settembre 1982, p. 566)
«Logaritmico», per necessità materiale, è l’amplesso bavoso delle chiocciole (La chiocciola, «7 settembre 1983») Naviga cauta sicura e segreta, Tenta la via con occhi telescopici Graziosa ripugnante logaritmica. Ecco ha trovato il compagno-compagna, Ed assapora trepida
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letteratura come storiografia?
Tesa e pulsante fuori dal suo guscio Timidi incanti di ancipiti amori. (p. 573)
E le mosche, uniche presenze trionfanti negli interstizi degli ospedali, come macchine chimiche drenano energia da medicinali e da secrezioni (La Mosca, «31 agosto 1986»):
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Traggo alimento Anche dai farmaci gettati, Poiché a me nulla nuoce, Tutto mi nutre, rafforza e giova; Sangue, sanie, cascami di cucina: Trasformo tutto in energia di volo. (p. 626)
c. Nel gruppo di testi in cui viene ceduta la voce a personaggi umani, il medesimo, cieco scenario cosmico di rigenerazione e distruzione viene talvolta esperito “eroicamente” da pensatori e scienziati del passato, come sfida conoscitiva, o come scacco e dissolvimento. In Plinio («23 maggio 1978») prende la parola il grande naturalista dell’antichità, Plinio il Vecchio, sconfitto dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., e in Autobiografia («12 novembre 1980») parla Empedocle: in entrambi i casi è di scena la sublimazione materialistica della morte individuale, come epica dello scioglimento degli atomi del proprio corpo entro i vortici dell’universo, con possibilità di riformare, con le medesime molecole di idrogeno e carbonio, altri corpi viventi. Quando da secoli gli atomi di questo mio vecchio corpo Turbineranno sciolti nei vortici dell’universo O rivivranno in un’aquila, in una fanciulla, in un fiore. (Plinio, p. 548)
In Autobiografia la forma umana sembra compendiare, dialetticamente, tutte le forme della materia precedenti e coesistenti: Fui cicala ubriaca, tarantola astuta e orrenda, E salamandra e scorpione ed unicorno ed aspide. (p. 558)
Galileo Galilei, che parla in prima persona in Sidereus nuncius («11 aprile 1984») è viceversa privo delle garanzie scientifico-poetiche di reintegrazione fornite dall’atomismo antico. È prometeico
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ed eroico, ma la sua rivendicazione orgogliosa e stridula («Ho visto Venere bicorne […] Io Galileo, primo fra gli umani; /Quattro stelle aggirarsi intorno a Giove, / E la Via Lattea scindersi / In legioni infinite di mondi») presuppone una duplice sconfitta: per mano della materia stellare stessa («Io sono stato che ho sfondato il Cielo / Prima che il Sole mi bruciasse gli occhi») e per mano della stupidità degli umani («L’avvoltoio che mi rode ogni sera / ha la faccia di ognuno»). Gli esperimenti di Galvani sulle rane, filtrati attraverso lo sguardo e la voce stranianti di un servo, assumono il sinistro aspetto di pratiche sadiche e insensate: Al mio padrone piacciono le rane: Ogni notte mi manda in riva al Reno, Ma non le dà alla Gegia che le frigga. Invece di curare i suoi malati Le appende alla ringhiera del balcone, Le pela, le tormenta con un chiodo, Passa il giorno a guardare come ballano E scrive delle lettere in latino (Casa Galvani, 3 maggio 1984, p. 606)
Questo gruppo testuale, comprende inoltre voci violente, distruttive e radicalmente negatrici. L’imperatore Inca Huayna Capac, ad esempio, profetizza la distruzione degli invasori occidentali grazie all’oro, da inoculare come un veleno o come un bacillo epidemico L’oro inietterà l’odio nell’altra metà del mondo, Là dove l’intruso tiene in culla i suoi mostri (Huayna Capac, 8 dicembre 1978, p. 550)
La voce di Delila («5 aprile 1985») sembra doppiare quella dell’insetto in Aracne: L’ho addormentato sul mio grembo L’ho accecato e gli ho raso i capelli Sciogliendo la virtù delle sue reni (p. 618)
Il Canto dei morti invano («14 gennaio 1985») che assedia i vivi colpevoli delle guerre, è debitore del Coro di morti leopardiano e del Canto delle crisalidi di Michelstaedter:
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letteratura come storiografia?
Invulnerabili perché già spenti: Noi ridiamo dei vostri missili. […] Se dureranno il danno e la vergogna Vi annegheremo nella vostra putredine. (p. 615)
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La voce tra tutte più irriducibile e negativa è di certo il coro di giovani teppisti in Dateci («30 aprile 1984»), diciannove versi prosastici di varia misura, governati dall’enumerazione caotica e dall’iterazione anaforica, orante, implorante e aggressiva16 Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi, Che ci faccia sentire che esistiamo. Dateci un manganello o una Nagant, Dateci una siringa o una Suzuki, Commiserateci. (p. 579)
4. Una favolosità sapienziale, cosmogonica, vigilata di didattica ironia, situabile fra il De rerum natura di Lucrezio e le Operette leopardiane: questo sembra essere il nucleo “materialista” delle poesie leviane scritte dopo il 1970. L’uso straniante della fantascienza, già sperimentato da Levi nei racconti, dilaga nelle poesie, come accade per altri frequentatori della science fiction nostrana: Sergio Solmi e Paolo Volponi17. Si tratta in fondo dell’applicazione su larga scala «della vecchia e sempre efficace tecnica delle Lettres persanes»18. Lo sguardo straniato permette di sfatare l’ovvio, di dire l’indicibile: è un procedimento retorico aggressivo che Francesco Orlando ha riconosciuto come 16 Il v. 15 di Dateci è stato utilizzato da un romanziere-sociologo contemporaneo come titolo di un romanzo saggio sulla devianza giovanile (Gianfranco Bettin, Qualcosa che brucia, Garzanti, Milano 1989). 17 Di solito, la critica accosta l’attitudine fantascientifica di Levi a quella di Calvino, non fosse che per l’esplicito omaggio leviano alle Cosmicomiche (nel racconto Il fabbro di se stesso). Tuttavia una certa “aria di famiglia”, garantita dal comune leopardismo, circola fra alcune poesie di Solmi riunite in Dal balcone (come Levania o Il lamento del vecchio astronauta) e le poesie cosmiche di Levi. Dantismo e leopardismo, inoltre, sono componenti costitutive anche de Il pianeta irritabile di Paolo Volponi, i cui temi, all’altezza degli anni Settanta e Ottanta, trapassano frequentemente ai poemetti lunari e astrali volponiani (riuniti in Con testo a fronte). 18 Pier Vincenzo Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi, in Id., La tradizione del Novecento, cit., p. 361.
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caratteristico del codice letterario dell’Illuminismo19. In Levi, come ha notato Cases utilizzando la categoria dell’«ilozoismo»20, l’attività umana viene spesse volte descritta attraverso una lente zoologica, o geologica, o vegetale. Anche l’atto umano può dunque sedimentare, incistarsi, germogliare o putrefarsi. In forza di ciò, composti apparentemente inerti possono rivelarsi depositari di forza vitale e dare una lezione alla boria degli uomini autodistruttiva e adialettica. Considerare le vicende degli umani “ilozoisticamente”, tuttavia, comporta un elevato rischio nichilistico, non integrabile da nessun scatto razionale. In Levi la scrittura è governata dall’ossessione della chiarezza, la scienza dall’imperativo morale della responsabilità, la storia dal vaccino della memoria. Tuttavia, in una zona oniroide, ai confini della vigilanza dell’io, il nulla, come un campo di gravità, può esercitare la nausea mortale dell’attrazione. Nelle poesie compaiono infatti numerosi segni e sintomi di tali “limiti oscuri”, condensati in figure di morte fetale, di sterilità, di nonnascita: la disperata gravezza «d’orribili soli morti», le ossimoriche «stelle nere», in cui forza generatrice e carica distruttiva coesistono annientandosi vicendevolmente, le «crisalidi / Morte, che non saranno mai farfalle», l’imbarcazione desueta, enfiata «come una pancia gravida di nulla.» E, del resto, in Levi, «Grumi / Di nulla, sono pure i nostri simili» (Via Cigna, p. 545, «2 febbraio 1973»). Se la «tentazione nichilistica» nei versi in Levi «risale alle meditazioni […] del Lager»21: Meditai la bestemmia insensata Che il mondo era uno sbaglio di Dio, Io uno sbaglio del mondo. (11 febbraio 1946, p. 536)
il «non-senso», nel suo sistema poetico e nella sua visione del mondo, deve aver fatto passi da gigante, dagli anni Settanta in poi, con l’acuirsi ed espandersi molecolare, mercantile e mediatico, dei principi ispiratori di Auschwitz e di Hiroshima. In superficie, si tratta 19
Francesco Orlando, Illuminismo, barocco e retorica freudiana, Einaudi, Torino 1997. Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole, cit., p. 26. 21 Giovanni Tesio, Premesse su Primo Levi poeta, «Studi piemontesi», 1, XIV, marzo 1985, p. 19. 20
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letteratura come storiografia?
di certo di una tentazione respinta, che genera, per reazione o spinta archimedica, un principio attivo di lucidità didattica e responsabilità morale. In profondità, invece, può essere subìta passivamente, e attrarre come una calamita. Le tensioni derivanti da questa dualità irrisolta si rendono manifeste in un punto preciso di Ad ora incerta: Schiera bruna («13 agosto 1980»), una favola animale costruita come sviluppo di un celebre luogo leopardiano (La ginestra, vv. 202-212). Al posto del «picciol pomo», a minacciare «d’un popol di formiche i dolci alberghi», è la ruota del tram torinese, che inevitabilmente cancellerà la «lunga schiera bruna» (v. 5) delle formiche allineate lungo il binario. L’immagine leopardiana subisce tuttavia la distorsione di un calco dantesco22: alla città sepolta dal Vesevo si sovrappongono Soddoma e Gomorra distrutte da Dio per la loro corruzione. Davanti alle file umane che procedono muso contro muso nel fuoco, la voce che ragiona in versi rifiuta di tirare le somme e s’interrompe, dando luogo al solo caso di allusività e reticenza presente nel Canzoniere leviano: Senza curarsi di Non lo voglio scrivere, Non voglio scrivere di questa schiera, Non voglio scrivere di nessuna schiera bruna (p. 557)
Lo spazio bianco e la negazione rivelano la vertigine nullificante, l’impossibilità di governare le conseguenze del cortocircuito fra minaccia permanente della natura e organizzazione concentrazionaria dello sterminio. Prima che vittima e testimone di Auschwitz, Levi è un poeta-scienziato, naturalmente disposto a darci immagini di agghiacciante potenza per illustrare la struttura e la logica della materia. Il Lager può divenire, in lui, non solo un paradossale, rigoroso esperimento «per stabilire che cosa sia essenziale e cosa acquisito nel comportamento dell’animale-uomo»23 ma anche figura del caso, del caos e dell’ordine coatto che governano le combustioni stellari o le riproduzioni cellulari. Nel far ciò, non cede per nulla all’incantamento o al non-senso 22 Cfr. Purgatorio, XXVI, vv. 34-36, dove, come le ombre dei lussuriosi, «così per entro lor schiera bruna / s’ammusa l’una con l’altra formica, / forse ad espiar lor vita e lor fortuna». 23 Primo Levi, Se questo è un uomo, in Id., Opere, cit., p. 83.
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ix. primo levi poeta-scienziato
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fonico o ludico, scrive versi di cristallina chiarezza, adotta un metro e una sintassi sempre più essenziali e una retorica spoglia, martellante, affidata a sole anafore, enumerazioni e personificazioni. Ma è sul piano dei temi e delle strategie associative che finisce per cedere qualcosa alle pulsioni annientatrici dell’inconscio. Nelle avvertenze o confessioni al lettore Levi dunque non mente: nelle poesie “ilozoiche” così come ne La ricerca delle radici, antologia personale costruita con la strategia associativa di un libro di versi, si ascolta davvero la voce della sua altra metà, nel segno di un’ambivalenza. In Darwin «spira una religiosità profonda e seria, la gioia sobria dell’uomo che dal groviglio estrae l’ordine» (p. 1383) ma, al contempo, «Dio creatore di meraviglie e di mostri» schiaccia Giobbe «sotto la sua onnipotenza» (p. 1369); in William Gragg «i concetti di forma e misura arrivano molto lontano, verso il mondo minuscolo degli atomi e verso il mondo sterminato degli astri» (p. 1388) ma, al contempo, «la misura di tutte le cose» finisce per darla la prova di collaudo di pellicole adesive all’attacco degli scarafaggi, un terrificante testo “tecnico-commerciale” la cui nudità protocollare svela la logica geometrica del massacro (p. 1493). Dopo Auschwitz un Doppelgänger, un “pallido compare” (come nella lirica di Heine da lui tradotta – forse non a caso: II 597), deve aver tallonato implacabilmente Levi, soffiandogli all’orecchio quanto sia fragile ogni illuminismo che pretenda circoscrivere il male. E forse la scrittura, col privilegio del suo essere intrisa insieme di conscio e di inconscio, e di varii livelli di coscienza, si è fatta carico di questo sdoppiamento e delle sue profonde ombre, suggerendoci un Levi alquanto più complesso, ambivalente e diciamo pure oscuro di quel che rivelerebbe l’autoritratto costruito dalle meditazioni in pieno giorno della sua razionalità apparentemente infrangibile24.
24
Mengaldo, Lingua e scrittura in Levi, cit., p. 386.
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x. Ibridazioni fra generi e prefigurazione poetico-saggistica nella scrittura di Leonardo Sciascia
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La poesia è […] la realtà innalzata a verità F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante
1. Gli interpreti più avvertiti (a cominciare da Pasolini) hanno evidenziato tre caratteristiche peculiari della scrittura di Leonardo Sciascia: la densità dello stile, l’ibridazione tra generi letterari, l’uso del montaggio e della citazione1. I libri di Sciascia consistono infatti di una materia saggistica che può assumere i modi del racconto, dell’apologo, della cronaca, del documento, senza che venga mai meno la volontà di argomentare, anche attraverso la rappresentazione di fatti “inventati”. Il più schietto risultato di questa sistematica e complessa strategia di contaminazione è forse il testo dedicato a Ettore Majorana, il geniale fisico catanese scomparso misteriosamente nel 1938: uno dei ricercatori (il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna”) che negli anni Trenta lavoravano con Enrico Fermi alla struttura dell’atomo. Dopo aver ricevuto dal fisico Erasmo Recami del materiale inedito, Sciascia pubblica nel 1975 un testo a metà strada fra invenzione saggistico-narrativa e ricostruzione storiografica: La scomparsa di Majorana. Sulla scorta di alcune tracce documentarie, ipotizza che Majorana non si sia suicidato ma si sia rifugiato in un convento: proprio il medesimo in cui è transitato uno dei piloti americani che bombardarono Hiroshima. Sciascia parte dalla convinzione che Majorana avvertisse inconsapevolmente, in forme profetiche, il destino di morte che gravava sulle grandi scoperte della fisica atomica: 1 Cfr. Ricciarda Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, in Id., Pagine vissute. Studi di letteratura italiana del Novecento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, p. 158.
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letteratura come storiografia?
Senza saperlo, senza averne coscienza, come Stendhal Majorana tenta di non fare quel che deve fare, quel che non può non fare. […] Oscuramente sente in ogni cosa che scopre, in ogni cosa che rivela, un avvicinarsi alla morte; e che «la» scoperta, la compiuta rivelazione che la natura di un suo mistero gli assegna, sarà la morte. […] Non uno di coloro che lo conobbero e gli furono vicini, e poi ne scrissero o ne parlarono, lo ricorda altrimenti che «strano». E lo era veramente: stranio, estraneo. E soprattutto all’ambiente di via Panisperna. Laura Fermi dice: «Majorana aveva però un carattere strano: era eccessivamente timido e chiuso in sé. La mattina, nell’andare in tram all’Istituto Fisico, si metteva a pensare con la fronte accigliata. Gli veniva in mente un’idea nuova, o la soluzione di certi risultati sperimentali che erano sembrati incomprensibili: si frugava le tasche, ne estraeva una matita e un pacchetto di sigarette su cui scarabocchiava formule complicate […]». Ma appena gli altri approvavano, se ne entusiasmavano, lo esortavano a pubblicare, Majorana si rinchiudeva, farfugliava che era roba da bambini e che non valeva la pena discorrerne: e appena fumata l’ultima sigaretta […] buttava il pacchetto – e i calcoli, e le teorie – nel cestino. Così finì, pensata e calcolata prima che Heisenberg la pubblicasse, la teoria, che da Heisenberg prese il nome, del nucleo fatto di protoni e neutroni. […] Le ragioni erano profonde, oscure, vitali. S’appartenevano all’istinto di conservazione Doppiamente, possiamo oggi dire, s’appartenevano all’istinto di conservazione: per sé, per la specie umana2.
La lunga citazione permette di apprezzare in vitro tutti i fenomeni maggiori dell’ibridazione e della prefigurazione sciasciane. Si tratta di un testo misto di storia e d’invenzione, che eredita da Manzoni la lezione della Storia della colonna infame. Vi sono infatti fonti documentarie e testimonianze (come quella di Laura Fermi, sul carattere chiuso e timido di Majorana), nuclei narrativi (il breve apologo del pacchetto di sigarette) e lapidarie affermazioni soggettive e argomentative (le ragioni oscure di Majorana connesse «all’istinto di conservazione: per sé e per la specie umana»). È precisamente questa struttura, in cui la finzione e la congettura finiscono per contenere più verità della ricostruzione storica “oggettiva”, il genere di scrittura prediletto da Sciascia: analogamente, ne La strega e il capitano (1986) lo scrittore rielabora la vicenda seicentesca di Caterina Medici, la serva di un potente senatore milanese accusata dal suo padrone di avergli somministrato un filtro magico e mandata al rogo, e ne L’affaire Moro (1978) scritto sulla base delle lettere che Aldo Moro catturato dalle Brigate Rosse compilò prima 2
Leonardo Sciascia, La scomparsa di Majorana, Adelphi, Milano 2004, pp. 35-37.
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x. ibridazione fra generi e memoria poetico-saggistica in sciascia
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di morire, ricostruisce criticamente e polemicamente la vicenda della morte dell’uomo politico democristiano. Come mai, tuttavia, Sciascia dichiara in Nero su nero (1979) che è proprio La scomparsa di Majorana il suo libro preferito, il solo ad avergli dato la certezza che la letteratura «è la più assoluta forma che la verità possa assumere»? Probabilmente perché ne La scomparsa di Majorana si mette in scena più che altrove la premonizione della morte, individuale e collettiva, la facoltà della chiaroveggenza dovuta all’acume critico e all’onestà intellettuale. Come Stendhal poté guardare profeticamente alla società postnapoleonica anche Majorana, appartato e geniale, secondo Sciascia vide più in avanti degli altri, seppe, sia pure inconsapevolmente, che la scienza avrebbe potuto generare la distruzione planetaria. Tutto ciò è fissato e scolpito in un breve aneddoto: mentre si reca in tram all’istituto di ricerca, Majorana, gran fumatore, scarabocchia sul pacchetto di sigarette formule che precedono le scoperte del celebre scienziato Heisenberg. Ma – in apparenza per eccentricità o per timidezza – rifiuta di pubblicarle, appallottola il pacchetto vuoto e lo getta nel cestino. I colleghi stupiti non sanno che dietro a questo gesto inconsapevole vi sono istinti e ragioni vitali: l’istinto di conservazione della specie umana. Il romanzo-inchiesta sciasciano, ricostruendo la realtà in modo prefigurante, si pone con altri mezzi i medesimi problemi affrontati in letteratura da un illustre antecedente: La vita di Galileo di Bertold Brecht3. È opportuno dunque tentare di ricostruire le forme, la genesi e la gestazione, nell’opera complessiva di Sciascia, di questa facoltà chiaroveggente. 2. Il saggismo sciasciano si avvale, nei suoi snodi congetturali, di brevi apologhi e di tessere poetiche non versificate4. Un posto rilevante spetta dunque all’esperienza ritmico-iterativa, solo in apparenza con3 Cfr. Smaranda Bratu Elian, Candido e il Leviatano. Vita e opere di Leonardo Sciascia, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 2009, p. 206. 4 Una campionatura dei fenomeni della sintassi sciasciana ha evidenziato ipèrbati, paronomasie, anadiplosi, endiadi ed ellissi, rarità degli articoli, uso sovrabbondante dell’interpunzione, frammentazione della frase, abbondanza di frasi nominali, strutture chiastiche. Cfr. Anna Bucca, “Fuoco alle polveri”. Brevi note su strutture linguistiche e problemi di traduzione nell’opera di Leonardo Sciascia, «Segno», 209, 1999.
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letteratura come storiografia?
finata alla giovanile raccolta di versi La Sicilia, il suo cuore5 e a ben guardare tipica invece del prosatore, che conserverà sempre, nella sua scrittura ibrida e digressiva, una propensione, tematica e stilistica, alla circolarità. Un rilevante serbatoio di forme e di temi capaci di irradiare un modo specifico di traghettare la poesia verso la prosa, conservandone il nucleo ritmico-evocativo6 è dato dai due libriccini giovanili, rispettivamente del 1950 e del 1952: le Favole della dittatura e le poesie di La Sicilia, il suo cuore. Ad autorizzare una lettura unitaria dei primi due libri di Sciascia è lo stesso autore, nell’atto di riproporre nel 1980 in un’unica edizione francese entrambi i testi7. Ed è lo stesso autore a considerare le proprie favole giovanili, nella loro brevitas, delle poesie8. Pasolini, recensendo le Favole, rilevò la loro latitudine evocativa, fondata sul ritorno di poche invarianti9. Le Favole della dittatura infatti sono una riscrittura di Fedro alla luce della dittatura fascista appena deposta. Vi domina la figura di pensiero della personificazione: lupi e agnelli, cani e conigli, maiali e topi, serpenti e rospi popolano un universo feroce e straziato. I precedenti moderni di questa fulminea aneddotica satirica sono Leopardi coi suoi Paralipomeni, Tozzi di Bestie, Orwell
5
Leonardo Sciascia, La Sicilia, il suo cuore, G. Bardi, Roma 1952. Cfr. Alfonso Berardinelli, La poesia verso la prosa. Controversie sulla lirica moderna, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 7 Testo italiano e traduzione in francese a fronte di Jean-Noël Schifano, Fables de la dictature. La Sicile, son coeur, Pandora, Aix-en-Provence 1980. 8 «Ecco, negli anni ’50 avevo fatto pubblicare a mie spese un libricino di poesie, con favole esopiane, sul fascismo. Una per pagina, si chiamava favole della dittatura, è un libro che non ho neppure io. Un mio amico le ha lette a Pasolini e lui scrisse un articolo che era più lungo del libro stesso. Sì, lì nacque il nostro rapporto». Leonardo Sciascia, La palma va a nord, a cura di Walter Vecellio, Edizioni Quaderni Radicali, Roma 1981. 9 «La dittatura e il servilismo, i due termini complementari contro cui, con valore retroattivo, egli incide le sue tavolette, così isolati, distaccati dal resto degli altri sentimenti umani, echeggiano nel vuoto della pagina, come se fossero irreali, gioco ed esercizio di raffinato evocatore. […] Sciascia condanna, nel ricordo, quei tempi di abiezione, e proprio con un gusto della forma chiusa, fissa, quasi ermetica, insomma: che a quei tempi era proprio uno dei rari modi di passiva resistenza. E qui ripetiamo è l’interesse immediato di questo volumetto […] ma quello che conta è proprio il suo valore di poesia. Molte di queste favole erano la chiusura di brevi liriche, e richiamiamoci pure al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale, o alla lirica popolare (e magari proprio siciliana), tanto per dare al lettore un’idea di questo linguaggio.». La recensione di Pasolini a Favole della dittatura è raccolta ora in Antonio Motta, Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, Lacaita, Manduria 1985, pp. 269-271. 6
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x. ibridazione fra generi e memoria poetico-saggistica in sciascia
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de La fattoria degli animali10. Ma la tradizione poetica favolistica attraversa tutta intera la cultura classica e cristiana: dai cinque libri delle Fabulae di Fedro che imitano, in senari, le numerose raccolte in greco, ai bestiari medievali che annettono exempla favolistici, fino a Kafka, la retorica animalesca è quella della corporeità minacciata, della sopravvivenza, degli appetiti e istinti, ma può esercitare anche una grande utilità, come ricorda Aristotele, nella pratica argomentativa (Retorica, 1393 b)11. Dal punto di vista narratologico, le Favole della dittatura sono caratterizzate dalla totale assenza della voce autoriale e di qualsiasi forma di commento conclusivo sentenzioso. Senza le mediazioni del narratore, e senza la clausola finale, la scrittura si riduce a nuda registrazione della violenza, del sopruso, della pulsione alla crudeltà. Anziché rimemorare storicamente la dittatura fascista, come accadrà di lì a poco in Breve cronaca del regime, Sciascia illustra freddamente, una per pagina, una costellazione di microsituazioni che alludono, sovrastoricamente, alla condizione umana tutta intera, o almeno a quanto della condizione umana si oppone sordamente a ogni barlume di socialità solidale. È proprio in prossimità di una tale «antropologia pessimistica»12 che scattano i fenomeni iterativi. C’era luna grande; e il cane dell’ortolano e il coniglio, divisi dal filo spinato, quietamente parlamentarono. Disse il coniglio: «Gli ortaggi tu non li mangi; il padrone ti tratta a crusca e calci. La notte potresti serenamente dormire, lasciarmi un po’ in pace tra le verdure e i melloni. Che tu mi faccia paura, non vuol dire che la tua sia migliore condizione della mia. Dovremmo riconoscerci fratelli». Il cane lo ascoltava, pigramente disteso, e il muso sulle zampe. E poi: «Quello che tu dici è vero; ma per me non c’è niente che valga il gusto di farti paura»13.
Si tratta di un vero e proprio poemetto in prosa, strutturato ritmicamente: all’incipit isolato, assoluto e icastico, seguono l’iterazione (l’avverbio in -mente è ripetuto tre volte) e il verbo collocato in posizione finale. Il lavorio stilistico, qui come altrove, funziona da scher10
Massimo Onofri, Storia di Sciascia, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 26. Cfr. Gian Paolo Caprettini, Animali, persone, cose in Simboli al bivio, Sellerio, Palermo, 1992, pp. 131-144. 12 Gianni Scalia, Il primo lemma di Leonardo Sciascia, in Motta, Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, cit., p. 155. 13 Leonardo Sciascia, Favole della dittatura, G. Bardi, Roma 1950; ora in Id., Opere, 3 voll., a cura di Claude Ambroise, Bompiani, Milano 1991, vol. III, pp. 966-967. 11
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mo necessario a fissare, senza accecarsi, e a offrire al lettore, senza smarrirlo, lo spettacolo sconcio e disarmante della cecità automatica e violenta del reale. La forza della scrittura poetica è insomma, già nel primo Sciascia, non tanto strumento di denuncia civile quanto nitida e cesellata scultura cognitiva, amigdala di una lotta mentale. La prima favola, come notò Gianni Scalia, «dà il rimo a tutte le altre»14, appellandosi in latino alla facile memoria scolastica per poi tradirla con uno scarto secco: «il superior conosce già le ragioni dell’opposizione possibile dell’inferior e le dissolve in anticipo» Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbo dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo». E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo. (p. 961)
Ancora una volta la ripetizione allude alla circolarità stritolante del moto universale di distruzione. Come nel Leviathan (1651) di Hobbes, l’egoismo individuale qui genera uno stato di guerra di tutti contro tutti. Il dominio, o meglio l’immagine stessa del dominio, uccide in virtù di un sapere e di un controllo già interiorizzati. Manzonianamente: non resta che far torto o patirlo. I testi delle favole si situano sulla frontiera incerta tra poesia e prosa che, come è stato affermato, esiste nella nostra tradizione letteraria «da più di duecento anni a questa parte»15. La vera costante cui tende la forza dell’espressione più ancora che quella del “contenuto” di ciascuna favola, è la fagocitazione del debole da parte del forte. L’ossessione in atto è quella dei corpi straziati dai denti degli aggressori, evidente nelle conclusioni circolari, ripetute e irrevocabili, che funzionano fonicamente da vere e proprie pietre tombali: «E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo», «E gli affondò i denti nel dorso»; «E sentì la faina addentarlo, aguzza e avida, al collo: e succhiare, succhiare». Il primo Sciascia in tal modo si congiunge all’ultimo16, irradia e dissemina lungo tutte le opere successive alcune invarianti: figure 14
Scalia, Il primo lemma di Leonardo Sciascia, cit., p. 155. Cfr. Paolo Giovannetti, Al ritmo dell’ossimoro. Note sulla poesia in prosa italiana, «Allegoria», 28, X, gennaio-aprile 1998, p. 23. 16 Cfr. Nunzio Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, in Id., L’ombra del moderno. Da Leopardi a Sciascia, Salvatore Sciascia, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 135-152 e Fabio Moliterni, La nera scrittura. Saggi su Leonardo Sciascia, Graphis edizioni, Bari 2007, pp. 55-67. 15
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x. ibridazione fra generi e memoria poetico-saggistica in sciascia
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animali e tessere lavorate stilisticamente nelle zone a più alta tensione cogitativa: dilagano ovunque lo scetticismo, l’autocoscienza laica, concentrati e implosi in queste prime prose ritmate. 3. Due anni dopo, le liriche di La Sicilia, il suo cuore risolvono la cecità di questa violenza animale in alcune costanti cromatiche destinate a durare nel sistema sciasciano. La poesia d’apertura, che presta il titolo al libro, svolge nella sua posizione incipitaria un ruolo introduttivo e programmatico. Una serie iterativa e battente di negazioni («Gli antichi a questa luce non risero»; «le ninfe inseguite / qui non si nascosero agli dèi»; «gli alberi / non nutrirono frutti agli eroi») rendono esplicita in esergo la rinuncia alla dimensione insulare elegiaca, nostalgica e mitica, e dunque, in sostanza, l’opposizione alle scelte poetiche dominanti nel conterraneo Quasimodo. All’isola favolosa di Oboe sommerso, Sciascia contrappone un’immagine antimitica e realistica: i «silenziosi uomini neri», la miseria e l’analfabetismo degli zolfatari, i soprusi (cfr. soprattutto Ad un paese lasciato, p. 13). Lungi dall’adottare tuttavia uno stile piattamente antilettarario, Sciascia oppone alle figure mitologiche quasimodiane una propria figuralità, sorvegliata, controllata, nitidamente oggettivata ma non priva di intersezioni metaforiche e di condensazioni. Il dolore, la fatica e la degradazione dovuti alla miseria – temi tipici della poesia neorealista e oggetto di un’importante indagine di Walter Siti17 – danno qui origine a un sistema simbolico governato dalla morte e dalla violenza autodivorante. A smentire l’elegia non è tanto l’orizzonte sociologico degli agglomerati umani e dei loro contorni naturali, quanto una figuralità ossessiva incentrata sui rapporti di distruzione universali: la natura è leopardianamente matrigna e l’uomo è, come nelle Favole, lupo all’altro uomo. È quanto si ricava in prossimità di figuranti animali. Ad esempio, per passare alla zona explicitaria, in Ad un amico, al titolo vistosamente antifrastico seguono due strofette micidiali, chiuse entrambe da emblemi animali (il cane frenetico e la mosca morta) 17 Cfr. Walter Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Einaudi, Torino 1980.
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letteratura come storiografia?
utili a scolpire un’alterità fondata interamente sull’odio istintivo, sulla smemoratezza prelogica, sulla pulsione assassina:
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S’io cerco nelle tue pupille quel che di me ti fa diverso, il tuo sguardo mi tocca d’odio, sfuggendo. In fondo ai tuoi occhi, come un ucciso in un pozzo, la malizia avvelena misere cose che senza memoria nascondi. Così il cane sotterra frenetico l’osso rubato – e all’istante dimentica.
Giuseppe Bonaviri in una sua testimonianza dal titolo Il primo incontro con Leonardo Sciascia18 ci fornisce un’intuizione utile per interpretare le potenzialità ritmiche dello stile del primo Sciascia. Questa costante ha a che fare con la luce, è un «caos dissolutore», un «non so che di pre-albale». Il ricordo di Bonaviri sembra esemplato sul sistema cromatico dominante molte delle poesie, come Ad un paese lasciato o Insonnia Ora, in quest’alba che hanno le case, il paese è come un vascello che salpa: nella sua nitida alberatura per me s’impiglia una vela di morte
In effetti, i lessemi variamente attinenti al campo luminoso sono la vera costante stilistica della prima raccolta poetica di Sciascia. Un loro piccolo campionario mostra le insistenze sulla correlazione tra il campo della luce e il bulbo oculare, e sui figuranti della lama, del gelo: 18 Valga, per esempio, l’avvio del Giorno della civetta: «il paese di qua è ancora in ombra, sommerso nell’ultimo lembo della notte, la piazza è vuota, tranne nell’angolo dove la corriera sta per partire». Quel punto di rottura fra la notte e il giorno, già in fase pre-albare, viene improvvisamente rotto da spari inaspettati che, nel Giorno della civetta, fanno cadere in una sanguigna morte un uomo, un siciliano che dietro si porterà, come in una successiva sequenza filmica, fili diversi ma aggrovigliati di molteplici vite. Questo senso di amaro, di pessimismo di fondo verso un mondo che si ferma proprio quando sta per arrivare la luce, è la tensione prima d’ogni racconto di Sciascia. Il nucleo originatore in sé vive in una coppia di opposti (buio presente-luce che non arriva). Ossia, della logica di una storia umana in contraddizione, resta l’assenza, come se la palingenesi e la volontà dell’uomo di andare verso la luce, rimanga incapsulata, per una improvvisa dissipazione del rapporto bimodale ombra/luce, allo stadio primitivo, da pre-cosmo, da caos dissolutore in Motta, Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, cit., pp. 115-117.
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Gli antichi a questa luce non risero (p. 7) nudità squamosa di luce (p. 7) come una luce di verde e argento che mi chiude nel cuore di uno specchio (p. 30) una rissa leggera che s’incanta di luce (p. 31) la strabica pupilla del sole (p. 33) Una luce radente fa nitido il solco dell’aratro, (p. 33)
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crollerà gelida la luce, (p. 37) Ma improvviso, come una lama, il sole scende (p. 37) La notte frana cieca sulle case (p. 41).
Del resto Sciascia è un fine conoscitore di cose d’arte con spiccata passione per l’acquaforte, è autore di numerosissimi articoli, presentazioni, prefazioni a corredo di cataloghi d’arte e cartelle di grafica19. Le frequenti citazioni di opere d’arte nel corpo della sua scrittura in alcuni casi arrivano – come nel caso dell’opera terminale Il cavaliere e la morte – alla dimensione dell’ekphrasis, della descrizione visiva di un dipinto. L’intento visivo della scrittura sciasciana è dichiarato fin dall’immagine oculare e acronica che apre La Sicilia, il suo cuore: Come Chagall, vorrei cogliere questa terra dentro l’immobile occhio del bue
La scelta sciasciana di precipitare la scrittura nell’immagine è spia di una visione del mondo bloccata, che si muove a spirale e non ammette mai nessuna evoluzione o progressione, come appare chiaro dai versi che chiudono lapidariamente la raccolta 19 Su Sciascia dilettante erudito, amatore di stampe, collaboratore, con Libero De Libero, di «Valbona» (1957-1961), la rivista dell’incisore faentino-urbinate Leonardo Castellani cfr. Francesco Izzo, Come Chagall vorrei cogliere questa terra. Leonardo Sciascia e l’arte. Bibliografia ragionata di una passione in Valentina Fascia (a cura di), La memoria di carta. Bibliografia delle opere di Leonardo Sciascia, Edizioni Otto/Novecento, Milano 1998, pp. 191-213.
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letteratura come storiografia?
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La notte frana cieca sulle case. In lei resta della nostra vita un calco atroce: l’ultimo nostro volto nell’ultima notte del mondo.
4. Le immagini coagulate nelle fiabe e nelle poesie compongono dunque, già all’inizio degli anni Cinquanta, un duraturo sistema di figure “prefiguranti”, incentrate sulla violenza animale e sulla forza cromatica, destinate a ritornare. Un quindicennio dopo, in un passo celebre di A ciascuno il suo, la demistificazione delle illusioni sentimentali del professor Laurana verrà compiuta mediante l’allegoria di un animaletto funebre che nella luce trova la sua fine. L’intellettuale-detective, inoltre, è paragonato a un “atropo testa di morto intorno al lume” dalla voce narrante di un vecchio oculista cieco, in modo da innescare una rete associativa che, come nota Ambroise, sul filo del mito, da Dante conduce a Edipo20. Dal chiarchiaro ne Il giorno della civetta, «enorme spugna, nera di buchi, che veniva inzuppandosi della luce che sulla campagna cresceva» ai dolori mortali e “luminosi” che in Il cavaliere e la morte il cancro infligge al corpo del Vice, il vero centro dell’intero sistema sciasciano è – insieme alla circolarità paralizzante dei figuranti animali – la costante ritmico-tematica della luce, dialetticamente intesa a un tempo come conoscenza e come mortale impotenza (poiché Sciascia sembra precocemente consapevole dello scacco a cui è destinata ogni azione pedagogica nell’era presente, nella crisi della funzione civile dell’intellettuale). Sciascia, utilizzando la costante della luce come bisturi anatomico, insegna a scoprire la minaccia che cova sotto i dettagli della quotidianità. La luce dell’alba intrideva la campagna, pareva sorgere dal verde tenue dei seminati, dalle rocce e dagli alberi madidi: e impercettibilmente salire verso il cielo cieco. Il chiarchiaro di Gràmoli, incongruo ed assurdo nella pianura verdeggiante, pareva una enorme spugna, nera di buchi, che veniva inzuppandosi della luce che sulla campagna cresceva21.
20 21
Claude Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1974, p. 122. Sciascia, Opere, cit., vol. I, p. 414.
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x. ibridazione fra generi e memoria poetico-saggistica in sciascia
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La mattinata era di vitrea luminosità, gelida; e di gelidi aculei nelle ossa, nelle giunture. Ma questi dolori eccentrici, periferici, avevano il potere di attenuare quello centrale e immane; e comunque gliene davano l’illusione22.
I due frammenti della prima e dell’ultima “parodia” giallistica sciasciana (1961 e 1989) mostrano esemplarmente la forte solidarietà fra luminosità mortale e alto tasso figurale. I due campioni testuali si rivelano prose solennemente ritmate: ipèrbati, struttura chiastica, imponenti rimandi sonori. La coppia alliterante «cielo cieco», nella prima citazione, includendo una personificazione di dimensioni cosmiche, è un microdettaglio nel dettaglio in sé esaustivo per l’altissima densità figurale. Come i dolori eccentrici del Vice, anche la scrittura in Sciascia, nella sua figuralità che si addensa in prossimità delle immagini di morte, reclama il potere, leopardianamente illusorio, di attenuare o controllare il dolore più immane. Il bianco abbagliante, si sa, è colore della morte. E Sciascia sa bene che re-petitio è anche re-gressio: si tratta di un movimento all’indietro, di «spostamento e mascheramento»23. 5. Sciascia ha dunque cercato, con la sua scrittura, di trasferire le forze autoriflessive, speculari e distruttive soggiacenti nelle sue strutture iterative in un orizzonte socialmente elaborato. Non è un caso che egli sia stato, ad esempio, il primo a leggere Il Gattopardo come una grande allegoria delle disavventure postmoderne dell’eroe che pensa. In un articolo del 1970 pubblicato sul «Giornale di Sicilia», definisce infatti Il Gattopardo come il romanzo che ha immesso nella letteratura italiana «l’eroe intellettuale»24. 22
Sciascia, Opere, cit., vol. III, p. 451. Gilles Deleuze, Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1971, p. 179. 24 Paolo Squillacioti, Leonardo Sciascia e il Gattopardo, «Galleria», 1, XLIII, gennaio-aprile 1993, p. 74. Questa lettura è poi stata ripresa da altri interpreti: Giovanni Macchia, Le stelle fredde del Gattopardo, in Id., Saggi italiani, Mondadori, Milano 1983, pp. 351-353; Nunzio Zago, I Gattopardi e le Iene. Il messaggio inattuale di Tomasi di Lampedusa, Sellerio, Palermo 1983, p. 40 («Diventa legittimo leggere il romanzo anche come una prolungata metafora della progressiva marginalità sociale dell’intellettuale, se fra l’altro si considera che ne è protagonista, e non certro a caso, un astronomo, insomma una vera figura di scienziato»); Vittorio Spinazzola, La stanchezza dell’ultimo Gattopardo, in Id., Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990, pp. 196-197 («una figura di intellettuale umanista, col suo bagaglio classico di sapienza etico-estetica»); ma soprattutto da Francesco Orlando, in L’intimità e la storia, Einaudi, Torino 1998. 23
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letteratura come storiografia?
Sciascia, naturalmente predisposto fin dalle Favole e dalle poesie giovanili a raffigurare stoicamente la violenza del Potere e la pulsione di morte, sembra dagli anni Settanta in poi lo scrittore capace di allestire le più lucide allegorie di un preciso contesto. Si pensi agli enigmatici omicidi politici nel museo d’arte de Il Contesto o nell’eremo di Zafer in Todo modo o alla fasulla pista terroristica dei «figli dell’ottantanove» in Il Cavaliere e la morte. Negli stessi anni in cui in Italia nel teatrino dei media si faceva largo uso dello spettacolo macabro del terrorismo, il sapere complessivo, da inattuale diveniva via via inconcepibile, nel generale confino della cultura, e segnatamente della letteratura, ai margini della società. Parallelamente, in campo politico, la democrazia diventava teleplebiscitaria e la rappresentatività parlamentare veniva affiancata, e talvolta sostituita, da lobbies e da clan. Insomma: la modalità dominante nella scrittura sciasciana, ibrida di accecamento verticale e orizzontalità argomentativa, resta il sistema luminoso delle prime poesie accompagnato all’antropologia pessimistica delle prime Favole: questa coppia si ripresenta intatta, in vesti animali o cromatiche, come profezia o sogno a occhi aperti, agli occhi vigili dell’ultimo detective-intellettuale, ammalato di cancro, il Vice, a passeggio poco prima di morire ammazzato, nella beatitudine d’un parco. Un cane, un lupo dall’aspetto bonario e stanco, si era avvinato alla carozzina in cui un bambino biondo placidamente dormiva. La ragazza che doveva custodire il bambino si era distratta a parlare con un soldato. D’impulso andò a mettersi tra la carozzina e il cane. La ragazza lasciò di parlare col soldato, gli sorrise rassicurante e guardando teneramente il cane disse che era buono, vecchio e affezionato. Si allontanò facendo ora attenzione ai tanti cani che andavano per il parco, gli venne da contarli. Tanti cani, forse più dei tanti bambini. E se gli schiavi si contassero?, si era domandato Seneca. E se si contassero i cani? Tra le sue carte era un giorno affiorato l’orrore di un bambino dilaniato da un alano. Il cane di casa: forse buono, vecchio e affezionato come il lupo della ragazza. Dei tanti bambini che correvano per il parco, dei tanti cani che parevano accompagnarsi ai loro giochi o vigilarli, ricordando quel fatto ebbe una visione da apocalisse. Se la sentì sulla faccia come una vischiosa, immonda ragnatela di immagini: e mosse la mano a cancellarla, ammonendosi a morir meglio25.
Se la vera costante ritmico-tematica del corpus sciasciano è (come è stato più volte notato) la morte, allora lo scacco di molti dei prota25
Sciascia, Opere, cit., vol. III, pp. 464-465.
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x. ibridazione fra generi e memoria poetico-saggistica in sciascia
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gonisti sciasciani è un modello figurale di strazio nella luce, vettore di uno sguardo coraggiosamente fisso sull’abisso, di disillusa «saggezza della vanità». «Il pudore di sé morti. Come in Montaigne». Queste morti non hanno, come nel loro grande precedente ottocentesco, La morte di Ivan Il’icˇ di Tolstoj, i tratti consolatori di redenzione: intendono ricordare ritmicamente, invece, con la forza laica e mondana della malinconia, la caducità dell’esperienza umana, la dimensione tragica dei conflitti. Con questa medesima forza di stile, Sciascia nel 1975, ibridando i generi, aveva saputo con La scomparsa di Majorana «innalzare la realtà a verità», sfidando l’orgoglio neutrale della scienza e ponendo la letteratura al livello dei problemi dell’era nucleare.
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xi. Angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in Aracoeli di Elsa Morante
1. Che Aracoeli1, il romanzo terminale di Elsa Morante steso a partire dal 1976 e pubblicato nel 1982, possa essere letto come un libro apocalittico, è già stato variamente sostenuto2. Ciò che cercherò di argomentare qui è che l’annientamento nel testo viene gestito e propugnato non in modo disforico ma paradossalmente euforico, come vera e propria desiderata estasi sensoriale. Emanuele, l’io narrante, come vedremo, invoca lapidariamente, verso la fine: E allora, io vorrei che venisse il Sabato della paga finale: dove l’intero firmamento si spegne. (p. 1413)
Il primo indizio che la tragedia narrata dal romanzo sia progettata per suscitare una qualche forma di piacere si trova in un appunto autoriale datato 30 ottobre 1978, segnalato da Concetta D’Angeli, contenuto fra le carte morantiane custodite presso la Biblioteca Nazionale di Roma, davvero sorprendente se scritto a proposito di un romanzo apocalittico: N.B. Per l’eventuale risvolto mettere solo così: avvertenza, questo è un romanzo comico.
1 Elsa Morante, Aracoeli, ora in Id., Opere, 2 voll., a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1990, vol. II. Da qui sono tratte le citazioni. 2 Cfr. Giovanna Rosa, Cattedrali di carta, il Saggiatore, Milano 1995; Marco Antonio Bazzocchi, Aracoeli: il personaggio che si annulla, in Id., Personaggio e romanzo nel Novecento italiano, Bruno Mondadori, Milano 2009, pp. 144-157; Bruno Pischedda, La grande sera del mondo. Romanzi apocalittici nell’Italia del benessere, Aragno, Torino 2004; Angela Di Fazio, Mito della crisi e crisi del mito in Aracoeli di Elsa Morante, «Cuadernos de Filología Italiana», 17, vol. 20, 2013, pp. 17-35.
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letteratura come storiografia?
Dunque, se si tratta del racconto di una fine del mondo, questa in qualche modo dovrebbe produrre il riso. Ma quale apocalisse narra davvero Aracoeli? Le catastrofi nel testo sono di fatto almeno tre, rese omologhe tra loro grazie a potenti isomorfismi, comparazioni, figure di analogia, di condensazione, di equivalenza: la prima è di ordine privato, sensoriale e memoriale; la seconda di ordine collettivo, storico e antropologico; la terza, infine, di tipo stellare, tellurico e cosmico. Fin dal titolo, e dal nome della madre dell’io narrante, il testo racconta una caduta celeste. Ma questa caduta si presenta in primo luogo come rimemorazione da parte del protagonista della fine tragica del proprio privato stato fusionale, edenico e originario. Per Emanuele, come si coglie fin dall’incipit, il piacere, la bellezza sembrano collocate tutte indietro, all’origine, in un “c’era una volta” prima dell’abbruttimento: Dal tempo che ero bello, mi torna all’orecchio una canzoncina speciale delle sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso una mia gemellina in cielo.
«L’inizio della catastrofe»3 coincide invece con il giorno in cui per la prima volta il bambino inforca gli occhiali: Docile alla sua voce, io li inforcai di nuovo: rimbalzando fulmineamente, come stregato, nell’incendio bianco dei troppi bulbi elettrici. […] Gli aspetti del mondo avevano preso, ai miei occhi, una chiarezza e un rilievo inusitati, che me li accusavano come un’unica violenza proteiforme. (p. 1259)
È questo l’annuncio della fine di una felicità simbiotica e precosciente: è la personale apocalisse del venir meno delle nenie di culla e dei baci di saliva materni, l’estinguersi del «tempo che ero bello» in favore della deformità fisica e affettiva che trionferà nel tempo degli «infelici amori» degradanti. Dall’ottico, Manuelito sperimenta infatti il primo inedito rifiuto di sua madre Aracoeli, avvisaglia tangibile della futura cacciata dall’Eden. «Non gli stanno bene», la udii protestare, rivolta all’impiegato che, tutto cerimonioso e soddisfatto, mi aveva appena sistemato gli occhiali sul naso. Nella sua protesta, impigliata fra la timidezza e la passione, fiatava un’autenti3
Rosa, Cattedrali di carta, cit., p. 317.
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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ca, furente ferocia; e qua, d’un tratto, una percezione strana mi avvertì che non l’occhialaio soltanto era oggetto della sua rabbia; ma anch’io! Fu un avvenimento inaudito e sensazionale, che mi vibrò nei nervi quasi me lo trasmettesse un’antenna di là da un’artide diaccia. (p. 1257)
Da quel momento in poi, Aracoeli cesserà di essere la «mamita» di Emanuele, e acquisirà progressivamente i contrassegni del brutto e del patologico («Apparentemente, s’era imbruttita […] la vedevo farsi pallida, quasi verde, e sturbarsi, o correre via con le mani alla bocca […]. Trasandata, mal pettinata, sempre in vestaglia e ciabatte […] sfiancata e torpida», pp. 1274 sgg.). La demolizione sistematica del mito della bellezza materna è impietosa e accanita e, pur nel segno prevalente del grottesco e del deforme, coinvolgendo una progressiva perdita del controllo sessuale, implica nel protagonista e nel lettore la mobilitazione di piaceri voyeuristici e perturbanti, come nello spiato incontro marino tra Aracoeli e l’«uomo-gatto»: Allarga le gambe e poi le rinserra fra piccoli sussulti, a occhi chiusi, e di nuovo le allarga, e l’uomo-gatto s’appressa allo scoglio e ci si aggrappa a mezzo, affacciandosi col volto fra le gambe slargate di lei. (p. 1346)
Ma si tratta davvero, per il protagonista, solo di un moto di abiezione, di sottrazione, di perdita? Una lettura del romanzo morantiano incentrata sul tema della percezione4 ne mette in risalto, viceversa, aspetti eroici, agonistici. Non è un caso, ad esempio, che proprio nel passaggio cruciale degli occhiali compaia il termine-chiave percezione («una percezione strana mi avvertì che non l’occhialaio soltanto era oggetto della sua rabbia») definita come una vibrazione nei nervi o un’antenna che trasmetta da una lontana zona polare. La fine dell’Eden materno fa acquistare al protagonista «stregato», di pari passo con l’angoscia, un’enorme potenza autocosciente, un “avvertimento” fondato su «organi di senso occulti», primum movens della sua intera recherche: qui non si tratta, infatti, proustianamente, solo della resurrezione della memoria ma di quella, più oscura, profonda e ambivalente, della corporeità. Dal corpo di Emanuele, quale oggetto originario dell’esperienza, abbruttito dal rifiuto materno, e poi dalle miserie sessuali, si estroflettono di con4 Cfr. Emanuele Zinato, Note su spazio, corpo e percezione in Aracoeli di Elsa Morante, «Cuadernos de Filologia Italiana», 20, 2013, pp. 37-48.
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letteratura come storiografia?
tinuo antenne e scandagli, raffinati organi di senso ben più profondi e tellurici di quello della vista corretta dagli occhiali. Non so come gli scienziati spieghino l’esistenza, dentro la nostra materia corporale, di questi organi di senso occulti, senza corpo visibile, e segregati dagli oggetti; ma pure capaci di udire, di vedere, e di ogni sensazione della natura, e anche di altre. Si direbbero forniti di antenne e scandagli. Agiscono in una zona esclusa dallo spazio però di movimento illimitato. E là in quella si avvera (almeno finché noi viviamo) la resurrezione carnale dei corpi. (pp. 1047-1048)
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Grazie a queste invisibili antenne, la ricerca del protagonista à rebours, può spostarsi di continuo da una messa in scena comica della catastrofe a una messa in scena cosmica. 2. La seconda “fine del mondo” narrata in Aracoeli è collettiva, sociale, sostanziata storicamente: si tratta del modo in cui il corpo del protagonista percepisce, patisce, incorpora lo scandalo storico del mondo “infetto” di rabbia di annientamento piccolo-borghese, in parziale sintonia con le diagnosi pasoliniane, già denunciato dalla conferenza morantiana Pro o contro la bomba atomica (1965) e acuito implacabilmente con il procedere della “mutazione”. L’apocalisse storica è segnalata innanzitutto dalla precisa griglia cronologica del testo. Come ha segnalato D’Angeli, la data di nascita di Emanuele, il 4 Novembre 1932, rinvia all’ascesa di Hitler in Germania; nel 1936, quando Aracoeli e il piccolo Manuelito si trasferiscono dalla clandestinità di Totetaco ai Quartieri alti, hanno inizio la guerra di Spagna e la guerra d’Etiopia; nel 1938 in Spagna viene ucciso dai franchisti lo zio Manuel fratello di Aracoeli; nel 1939, quando muore la neonata Carina, sorellina di Emanuele, dando avvio alla degenerazione di Aracoeli, scoppia la seconda guerra mondiale. Quando, infine, nel week-end dei morti del 1975 Emanuele adulto compie il suo viaggio in Spagna alla ricerca delle origini materne, epifenomeno della mutazione antropologica degli italiani, Pasolini è assassinato all’idroscalo di Ostia. Ma, oltre che disporsi in una cronologia che accosta la catabasi del protagonista alla discesa agli inferi bellica, totalitaria e poi consumista dell’Occidente, la degradazione parodica investe anche, mediante apologhi allegorici sapientemente collocati nel testo, gli snodi
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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evenemenziali più rilevanti e celebrati della porzione centrale del Novecento italiano: la Resistenza, la Ricostruzione, il miracolo economico e la mutazione. Nel corpo del testo è incastonato un apologo che può esser letto come una mise en abyme dell’intera vicenda dei rapporti del protagonista con la Storia: quella che Emanuele stesso definisce «la mia comica impresa partigiana»5. Raggiunto nell’autunno del ’44 da vaghe notizie circa la presenza sulle colline di italiani rivoltosi che i Padri al Convento chiamano genericamente «i comunisti», il ragazzino Emanuele in una giornata piovosa fugge e si mette in marcia, baldanzoso e fiducioso, con l’intento di unirsi alle bande e replicare le gesta dello zio antifascista in Spagna. Il lessico però (covi, banda, base, lotta armata), il militarismo grottesco e la situazione fittizia (l’interrogatorio, il processo) attestano palesemente una contaminazione, ben presente in Italia al momento in cui l’autrice è intenta nella stesura, fra l’immaginario partigiano e quello del terrorismo di sinistra. Del resto, l’inedita lettera di Elsa Morante alle Brigate Rosse, scritta nel ’78, durante il sequestro Moro, dimostra come e con che prospettive la scrittrice interagisse con l’attualità italiana degli «anni di piombo». E, non casualmente, nel romanzo appare a un certo punto, all’altezza del ’68, un giovane marxista-leninista sorpreso da Emanuele anni dopo in televisione a fare apologia di «un grosso partito della Mezza Destra Moderata». Il piccolo Emanuele nella sua fuga dal Convento si imbatte in una strana coppia, in parte modellata sull’esempio del gatto e la volpe di Collodi6 due vagabondi, frocetti e ladruncoli, a metà «fra il guitto e il segugio», e li scambia per dirigenti partigiani, denominandoli il Capo e il Vice. I due, per divertirsi sadicamente a sue spese, lo bendano e lo conducono in un covo, per processarlo. L’iniziazione partigiana si perverte così in una farsa, grottesca e tragicomica, in una «recita buffona» e in una serie di equivoci, esaltati dalla condizione di cecità in cui si trova il protagonista. Fino al culmine della condanna a morte, comminata per finta al ragazzino accusato di essere «agente del nemico, spia e traditore», e poi revocata dai due finti partigiani. (p. 1239) 5 Di questa sequenza una parte della critica ha dato un giudizio non positivo: ad esempio Fortini ha scritto che questo episodio poteva essere eliminato (Franco Fortini, Aracoeli (1982), in Id., Nuovi saggi italiani, Garzanti, Milano 1987). 6 Cfr. Stefano Brugnolo, Strane coppie. Antagonismo e parodia dell’uomo qualunque, il Mulino, Bologna 2013.
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letteratura come storiografia?
Emanuele, terrorizzato, si urina addosso e la vergogna e il disonore lo travolgono al punto da sopraffare perfino il suo orrore per la morte imminente. Uno dei due vagabondi, ubriaco, al termine del processo farsesco, lo libera recitandogli dei versi con cui si svela:
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Non siamo soggetti da guerriglia / siamo rampolli d’ottima famiglia […] Niente paura! Male non facciamo! Non siamo TIGRI ma TROIE siamo! Indi, nell’allontanarsi, aggiunse, facendomi con la mano addio: «Troie, sì, PERÒ, Cavalieri». (pp. 1243-1244)
In cosa consiste il “piacere” di questo male subito dal giovanissimo protagonista? A ben guardare, è un piacere che si esercita in due tempi: l’abbassamento grottesco e l’innalzamento cosmico. In un primo momento, in un contesto sadomasochista, la prova tragica di Emanuele è rovesciata in rappresentazione parodica: mentre, ad esempio, il trauma della mancata fucilazione di Dostoevskij, condannato a morte per attività sovversiva nel 1849, pena trasformata in detenzione solo davanti al plotone d’esecuzione, è narrata ne L’Idiota con stile tragico, Morante contamina e degrada la tragedia: i persecutori sono ladruncoli e troie, il loro sozzo rifugio è costellato di brani di conigli rubati, e l’infante eroe non sa nemmeno chi sia il nemico e finisce per pisciarsi addosso. Tuttavia, come accade nelle zone decisive del romanzo, d’improvviso, nel cuore stesso del male parodico irrompe la luce del male cosmico che promana, come un invito alla condizione intrauterina, dall’apocalisse stessa del corpo e della coscienza. La dimensione visionaria e allucinata della scrittura morantiana può trasfigurare questo annientamento: Emanuele infatti, tornato febbricitante al Convento, vive una notte di delirio e di allucinazioni mitiche, «penetra in una sfera liquida, rossastra e calda, dove si poteva – così pare – udire a distanza le voci dei morti» (p. 165). La voce del fantasma dello zio antifascista, in tal modo, lo consola e lo loda, e perfino i due ladruncoli si trasfigurano in eroi omerici: adesso erano due guerrieri bellissimi, armati d’asta e di scudo, che abbracciati insieme come Achille e Patroclo scendevano con calma giù per il bosco. Essi non mi vedevano nemmeno; mentre io dietro a loro, a distanza di due o tre passi, li inseguivo di corsa, ma senza mai raggiungerli, secondo la legge greca della tartaruga, scoperta dal filosofo Zenone. (pp. 1245-1246)
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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Ancora una volta, sono i segreti recettori di Emanuele a captare, proprio come spinta archimedica derivante dalla perdita della simbiosi felice, e nel bisogno spasmodico di ripristinarla, larve e miraggi della sua «brumosa necropoli di esperienze infantili» (p. 1246) da far riemergere, fra annientamento ed estasi sensoriale, in una ricerca simile ma diversa da quella tentata da Proust, nel viaggio interiore che il romanzo sottende. Il medesimo trattamento percettivo e memoriale, prima grottesco e poi cosmico, è all’opera in quelle determinazioni spaziali di Aracoeli, che sottendono l’avvenuta mutazione, il miracolo economico raffigurato in senso pasoliniano, quale genocidio e omologazione. Si tratta in particolare delle sequenze dedicate agli spazi milanesi, aeroportuali e iberici del viaggio verso Almeria, percorsi da Emanuele come da un improbabile turista spaesato. La parola ferie o vacanze a me evoca sempre una squallida tribù festaiola, ebbra di sacchetti di plastica, di cocacola e di radioline frenetiche.
Nel lungo percorso dal nonluogo aeroportuale alla sterile pietraia di El Almendral, Emanuele sperimenta la fine dei viaggi tematizzata da Lévi-Strauss in Tristi tropici (1955)7. Ovunque dominano infatti i segni dell’imbarbarimento culturale, «fracassi», «gazzarre» di altoparlanti, radioline e televisioni. Nei vicoli di Almeria Emanuele è raggiunto, come a Milano, da «uguali clamori», «spezzoni di musiche da strapazzo». E la stessa El Almedral, il luogo natale di Aracoeli, viene immaginata «simile a Sesto San Giovanni». Lo spazio in Aracoeli è tuttavia duplice: alla miserabile realtà edile e antropologica della modernizzazione, che rende ogni provincia urbana d’Europa identica ai sobborghi di Linate, si affianca, come una spalancata voragine di verità, uno spazio cosmogonico, disposto senza soluzione di continuo fra fibre corporali e ammassi celesti. Così, mentre viaggia in aereo o in corriera, Emanuele può dar conto della forma apocalittica dell’universo mettendo in cortocircuito ancora una volta, grazie ai propri occulti recettori, irrealtà e realtà. È significativo, ai fini di questa ipotesi interpretativa, che una tale spazialità stellare sia posta sotto il segno dello specchio, dell’immagine riflessa e della luce. La corriera è luogo di omologazione per eccellenza: 7
Cfr. Pischedda, La grande sera del mondo, cit.
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letteratura come storiografia?
A bordo della corriera mi aspetta […] un altoparlante coi suoi soliti prodotti musicali di stile americano, che dovranno accompagnarci per tutto il viaggio.
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Ciò non di meno, in quello stesso veicolo degradato può avvenire il miracolo di un’epifania negativa, di un’estasi sensoriale stellare e paralizzante Dei viaggiatori della corriera, solo due sono scesi qui a Gergal. […] Mentre li seguo verso l’abitato, una rimembranza titubante (ma senza stupore) mi avverte che questo percorso mi è già noto. Chi sa in quale altra mia biografia, già una volta mi sono avviato in questa direzione, preceduto da questi due vecchi, simili a uccelli nel loro profilo semitico. Può darsi che quell’altra mia biografia sia soltanto immaginaria, un riflesso effimero di questa; ma anche è possibile che questa odierna, invece, sia solo un riflesso dell’altra: la vera. Si dànno, nel campo della luce, simili giochi di specchi. Io, da ragazzo, certe notti, ero in dubbio sulla reale esistenza delle tante miriadi di stelle che ci appaiono in cielo. Secondo me, forse esisteva solo un’unica stella creata in principio; e moltiplicata all’infinito, per i nostri sguardi terrestri, da un gioco di specchi illusorio. Di quella mia cosmogonia infantile, mi si dà, oggi, una variante autobiografica: dove questa esistenza mia presente in realtà non sarebbe che l’ultimo di una serie infinita di riflessi ingannevoli. L’unica vera mia esistenza starebbe alla sorgente, di là degli innumerevoli specchi deformanti che me ne contraffanno la figura, come succede nelle fiere suburbane. (p. 1142)
3. La terza catastrofe, quella stellare, percepita e invocata nel testo, sussume e condensa le altre due. In Aracoeli il corpo e il cosmo sono legati strettamente da rimandi interni, da figure e, soprattutto, da comparazioni: si accostano e sovrappongono il corpo umano e i corpi dell’universo Il nostro corpo […] è straniero a noi stessi quanto gli ammassi stellari o i fondi vulcanici. Nessun dialogo è possibile. Nessun alfabeto comune. Non possiamo calarci nella sua fabbrica tenebrosa. E, in certe fasi cruciali, esso ci lega a sé nello stesso rapporto che lega un forzato alla ruota del suo supplizio. (p. 1353)
Questa stessa vertigine o supplizio cosmico, espressa nella forma iterativa della negazione, è già all’opera, in Elsa Morante, nell’anticipazione in versi de La storia e di Aracoeli: la prima sezione del Mondo salvato dai ragazzini, dal titolo Addio composta in morte di Bill Morrow:
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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Non ci sono che solitudini, dopo il furto dei corpi. Là non esistono indirizzi, né nomi, né ore. Nessun segno per conoscersi. Tutto l’infinito eterno Non è che un cielo vuoto bianco, ruota sonnambula Dove si fugge assenti uno dall’altro alla cieca8.
Va ricordato che il topos dei piaceri dell’apocalisse, come ilarità e godimento distruttivi davanti alla constatazione o prefigurazione della scena panclastica e alla conflagrazione planetaria, nella letteratura italiana del primo Novecento aveva assunto volentieri la forma retorica invettivale: una sorta di canto di benvenuto all’azzeramento e di preghiera o invocazione9 di distruzione universale: ad esempio in Pirandello (il primo dei Quaderni di Serafino Gubbio: «Sarebbe, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fare una volta tanto punto e daccapo»), e in Svevo (la celebre pagina finale della Coscienza: «la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie»). Quella «catastrofe inaudita», a cui l’umanità sembra destinata, più che un monito o una profezia atomica, come ha osservato Lavagetto, è l’augurio che il «mondo salti in aria come una vecchia nave marcia», presente in La joie de vivre (1884) di Zola, opera che Freud raccomandava al paziente del caso clinico dell’uomo dei topi. Immagine che ritorna in De Roberto nell’Imperio (pubblicato postumo nel 1929, ma iniziato nel 1909): e, del resto, il mix di retorica invettivale e piacevole annientamento universale era già il tratto dominante di alcune Operette leopardiane, a partire dal Gallo silvestre. Anche Emanuele, nell’ultimo romanzo morantiano, sembra invocare un simile esito: Io, se fisso il cielo stellato fino in fondo, lo vedo tutto una fornace nera, che schizza braci e faville; e dove tutte le energie da noi spese nella veglia e nel sonno continuano a bruciare, senza mai consumarsi. Là, dentro quella fornace planetaria, si sconta la nostra vita. E allora, io vorrei che venisse il Sabato della paga finale: dove l’intero firmamento si spegne. (p. 1413)
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Elsa Morante, Il mondo salvato dai ragazzini, ora in Id., Opere, cit., vol. II, p. 10. Anche Fortini, in un verso di Se volessi un’altra volta (in Id., Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994), sembra invocare la dissoluzione atomica del mondo: «Grande fosforo imperiale, fanne cenere!». 9
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letteratura come storiografia?
Tuttavia, in Aracoeli, è presente uno specifico piacere della fine, pulsionale ed estetico, che non coincide con l’invettiva: sembra piuttosto implicare ciò che Freud ha chiamato principio di morte. L’apocalisse in Aracoeli è stata connessa alle fonti neotestamentarie e soprattutto all’Apocalisse di Giovanni10, oppure alla fine del mondo studiata dall’ultimo De Martino11 e in particolare all’articolo Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, apparso sulla rivista «Nuovi Argomenti» nel 1964, in cui, come ha messo in luce Angela Di Fazio, è addirittura presente un personaggio femminile omonimo (Cielita). Quel che conta, ai fini del mio discorso, è che si tratta di una vertigine cosmica fondamentalmente piacevole, anche se sostanziata di un piacere mortale. La frequentazione da parte di Elsa Morante del buddismo e delle filosofie orientali12 autorizza a parlare per il protagonista di una ricerca del Nirvana come cessazione del soffio, estinzione, stato di liberazione dai desideri e dalle passioni. In psicoanalisi, come si sa, il termine fu ripreso da Freud (in Al di là del principio di piacere, 1920) per indicare la «tendenza dominante della vita psichica, e forse della vita nervosa in genere, lo sforzo che si esprime nel principio di piacere, sforzo inteso a ridurre, a mantenere costante, a eliminare la tensione interna provocata dagli stimoli». Per Freud (Il problema economico del masochismo, 1924), «il principio del Nirvana esprime la tendenza della pulsione di morte». Come ha intuito per primo Franco Fortini, nell’ultimo romanzo della Morante le «scienze positive dell’anima» ossia la psicoanalisi, si sovrappongono alle «sapienze d’Oriente» fondate sull’indistinzione fra fisico e psichico13. Ed è questa sovrapposizione, questa guerriglia analogica, che in Aracoeli sprigiona a ogni pagina bagliori enigmatici non ricomponibili dalla logica dominante, lo specifico modo adottato da Elsa per combattere la sua conclusiva «splendida battaglia di sganciamento» 10
Cfr. Pischedda, La grande sera del mondo, cit. Ernesto De Martino, Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, «Nuovi Argomenti», 69-71, 1964, pp. 105-141; Id., La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977. 12 Un esempio fra tanti: Bernardo Bertolucci attesta che, già nel 1963, Elsa Morante gli fece dono di La vita di Milarepa (Th. Jefferson Kline, I film di Bernardo Bertolucci. Cinema e psicanalisi, Gremese editore, Roma 1994, p. 174). 13 Fortini, Aracoeli, in Id., Nuovi saggi italiani, cit., p. 244. 11
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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in un periodo in cui la società dello spettacolo sta revocando per sempre il mandato agli scrittori. Nel secondo Novecento, la rappresentazione letteraria della fine del mondo sembra in Italia coincidere con le angosce nucleari ed ecologiche e ancor più con il rifiuto della modernità e della mutazione. Uno studio di Bruno Pischedda, La grande sera del mondo14, fornisce una rassegna di romanzi italiani di argomento apocalittico scritti fra anni Settanta e Ottanta, accomunati da un denominatore comune definito «antimodernismo catastrofico» o «buio disagio neoromantico», in cui la metafora ricorrente è lo scacco e dell’azzeramento dell’esperienza umana. Tra questi, Petrolio di Pier Paolo Pasolini, Dissipatio H.G. di Guido Morselli, Il pianeta irritabile di Volponi e, appunto, Aracoeli di Elsa Morante. Emanuele rappresenta la negazione accanita, impietosa, malevola, della celeste creaturalità di Useppe, è un Useppe andato a male, «mal adulto, già drogato», la cui deformità è fissata dallo specchio di un lercio albergo spagnolo: «un nudo come quelli delle pitture di Bacon»15. Eppure, nel suo viaggio verso El Almendral, è anche un eroe solitario, l’ultimo sciamano che sfida il drago dell’irrealtà16: […] nel montare sull’apparecchio ho conosciuto la sensazione che forse prova lo sciamano entrando nel sonno magico. […] m’ha fasciato una sorta di narcosi, che mi isola dai fenomeni ordinari e dalla gente. Gli altri viaggiatori dell’aereo […] si avviano tutti a destinazioni usuali, calcolate dalla ragione. Io solo salpo verso El Almendral: estrema punta stellare della Genesi. (p. 1061)
Emanuele in tal modo è la voce litaniante che chiede spasmodicamente al fantasma materno una reintegrazione regressiva, un ritorno alle origini e al regno delle madri, una dolce fagocitazione perturbante («Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte con i loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine 14
Pischedda, La grande sera del mondo, cit. Fortini, Aracoeli, in Id., Nuovi saggi italiani, cit., p. 243. 16 Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica, Adelphi, Milano 1987, p. 109. Morante, in Pro e contro la bomba atomica, esprime la sua idea di arte, «il contrario della disintegrazione» (ivi, p. 101), opponendola alla distruzione nucleare: lo scrittore è dunque colui che affronta il drago dell’irrealtà e ne svela le debolezze (ivi, p. 110). Sebbene Morante riferisca questa immagine alla sfera del mito, è presente anche l’archetipo giovanneo della lotta di Michele contro il drago. Cfr. Northrop Frye, Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, Einaudi, Torino 1986, p. 243; Ap 12, 7-9. 15
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letteratura come storiografia?
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pietosa») ma è, al contempo, l’occhio che, a differenza di tutti gli altri, può intuire i nessi che legano la nostra materia corporea a quella stellare: e non solo per via di estinzione energetica, come tentazione del Nirvana, ma anche per via antilogica. È infatti possibile pensare che nella scrittura morantiana agisca una simmetrizzazione tendente all’infinito, una bi-logica che tratta come equivalenti o identici i diversi, i divisi e gli opposti17: per questo (grazie a figure di analogia e di condensazione) le sue opere appaiono sempre al lettore come un abbagliante campo di tensioni, distruttive e ricompositive, destinate a restare, in parte, irrisolte. Può capitarmi, infatti – nel sonno o nella veglia – di avvertirne un segnale impercettibile – quasi un ammicchio di passaggio fra gli incroci dei novemila cieli. Forse, fissando la mia attenzione totale verso i poli invisibili della sorte, io potrei, di riflesso in riflesso, discernere almeno un barlume del mio vero corpo. O insomma intravvedere se a questa macchia informe della mia esistenza attuale, corrisponda, in un punto del cosmo, un qualche segno decifrabile. (p. 1142)
E l’esito, confusivo o simmetrico, in Aracoeli, seppur piacevole sul piano logico o energetico, non è mai consolatorio o rasserenante, perché la retorica discorsiva di Emanuele, in ultima istanza, è sempre quella dello svelamento impietoso, impudico, sia a livello delle segrete pulsioni individuali che a livello della produzione e distruzione che governa le stelle rendendole simili a fornaci nucleari: Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: «sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e questo odore. Vi piaccio? mi volete?» Da Napoleone, a Lenin e a Stalin, all’ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane randagio, questa in realtà è l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi: «vi paio bello? io che a lei parevo il più bello?» […] Nessuno può sfuggire alla condanna della nascita: che in un tempo solo ti strappa dall’utero e ti incolla alla tetta. […] Anche le bestie randagie chiedono, più ancora del cibo, le carezze: viziati essi pure dalla madre che li leccava, cuccioli, e di giorno e di notte, e di sotto e di sopra. Per la sua tetta e la sua lingua, non si richiedevano titoli. Né servivano addobbi, per piacere a lei.
17 Cfr. Ignacio Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 2000.
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xi. angeli perduti: i piaceri dell’apocalisse in aracoeli
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Insomma: in stretto dialogo con la figura di Pasolini da poco ucciso, Elsa Morante costruisce come ultimo suo eroe un angelo perduto18 irriducibile e capace di scandalo perché in grado accanitamente di percepire e restituire implacabilmente al lettore, nominandole nell’oltranza dello stile, di una lavorata figuralità, tutte le forme occulte, innominabili, del piacere e del male.
18 Cfr. Rafael Alberti, nel ’75, invia a Elsa Morante versi per la morte di Pier Paolo Pasolini in cui, proseguendo la sua manipolazione delle figure angeliche, chiama l’amico assassinato Angel perdido («un angel perdido en este inferno sin esperanza del hoy»).
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xii. L’inconscio in polvere degli italiani: Luigi Di Ruscio
1. In Cristi polverizzati1 il lettore è chiamato a condividere mente e corpo di chi scrive, a ripercorrere le sue stesse piroette e sberleffi verbali, a introiettare le sue ossessioni, a ingoiare, insomma, quest’ostia sconsacrata che si chiama Luigi Di Ruscio. Questo è l’intento del testo e del corpo a corpo che esso richiede ai suoi destinatari. E occorre dire che il gioco riesce alla perfezione perché si tratta di condividere non una fiction ma una condizione comune all’intero genere umano: chi dice “io”, con le sue trovate scoppiettanti e i suoi gioiosi paradossi, sembra voler sfuggire a una stretta mortale, non sa e non vuole abituarsi a morire, non accetta l’orrore. L’io rimembrante, infatti, qui è uno Charlot in delirio euforico tra i denti degli ingranaggi: cammino con la massima indifferenza su un tutto pronto ad esplodere […] guardo paralizzato e terrorizzato mentre il sottoscritto tra gli orrori del mondo, inconsapevole com’è, sorride e fischietta. (p. 194) Amavo i sonetti del Belli, il momento in cui il riso è straziante, da Cervantes a Chaplin. (p. 62)
Questa radicale situazione biologica è calata in un preciso orizzonte temporale e sociale. Innanzitutto, la morte è comminata, fin dal primo istante di vita, più che dal destino naturale, attraverso sottili pratiche ideologiche: Io non ho fatto certo domanda per venire al mondo. Appena nato fui considerato responsabile di un peccato atroce commesso all’inizio dei tempi da due tipi abbastanza irresponsabili come Adamo ed Eva. (p. 4) 1 Le pagine fanno riferimento a Luigi Di Ruscio, Cristi polverizzati, Le Lettere, Firenze 2009, ora anche in Id., Romanzi, Feltrinelli, Milano 2014.
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letteratura come storiografia?
Inoltre, la lotta tra la disperata e ilare vitalità del protagonista e l’insieme delle pratiche di dominio, in Cristi polverizzati ha la sua sede elettiva in un concreto scenario periferico, marchigiano, negli anni Cinquanta. Non si tratta insomma di ciò che oggi comunemente si dice un “romanzo” ma piuttosto della vicenda di una fissazione: nel senso che la scrittura vortica su se stessa e le libere associazioni non varcano quasi mai il perimetro stretto degli anni Cinquanta italiani. La struttura del libro è circolare: il cogitare memoriale si apre sullo shock del parto, dell’essere gettati nel mondo («Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo stritolati», «la poesia retrocede verso la prima angoscia», p. 1) e si chiude con la rappresentazione di un varco sbarrato e stritolante («varco le soglie del mondo ed è come se fossi in un campo minato», p. 195) ben raffigurato dalle grate alle finestre degli ospizi per impedire il suicidio dei vecchi. La situazione di chi scrive è quella di chi, espatriato e chiuso in un remoto rifugio domestico, batte cocciutamente sui tasti prima di una vecchia Olivetti poi di una tastiera di computer, per riportare in vita il se stesso infante e adolescente, con lo scopo di resuscitare gli anni dal 1945 al 1957 e un luogo preciso, Fermo, in cui tutto ciò che doveva compiersi si è compiuto: per scrivere tutto questo, tanti anni dopo gli avvenimenti, ho dovuto ignorare tutte le faccende domestiche, non lavo piatti, non lesso un uovo, alla svelta rivedo i compiti di questi disgraziati di figli. (p. 159)
Cristo, preannunciato dal titolo e onnipresente nel testo, assolve una duplice funzione: è emblema di un corpo straziato ed è anche stralunata figura di una resurrezione metacronica. Il titolo rimanda inoltre, nello specifico, all’ingresso in scena di uno dei più desueti e improbabili personaggi dell’Italia precedente il “miracolo” e la mutazione: un crocefissaro meridionale, detto il Moscatritata, che transita con il treno Lecce-Milano per vendere porta a porta nelle metropoli del Nord i suoi cristi finto-antichi «in gesso e anche polverizzati in bronzo» (p. 137). La scrittura si muove a spirale, passando e ripassando per i medesimi punti. I ricordi più remoti riguardano la scuola e gli animali: nel bel mezzo degli «splendori fascisti e imperiali» Luigino osa scrivere un tema sul parto mostruoso di una gatta che, «dopo averli cacati», divora i figli «come fossero teste di pesce» (p. 5). La lingua si ribella alle norme
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xii. l’inconscio in polvere degli italiani: luigi di ruscio
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della grammatica e il tema viene «mitragliato di segni rossi e azzurri» (p. 17). Ma il gattaro, la gattara e gli animali straziati, le lucertole, i girini, il moscodoro, i sorci, gli uccelli implumi, sono diffusi ovunque nel testo: tanto che la stessa Chiesa finisce per esser ribattezzata «Gatta Gattolica» (p. 115). Con l’apologo della gatta divoratrice, il piccolo Di Ruscio narrava già allora, sfidando il maestro, una vicenda materiale di produzione e distruzione universale ben nota alla coscienza popolare ma ignorata e svalutata dalla cultura ufficiale. Per il maestro del regime, destinato a perdersi in Russia, quei ragazzi «sbandati» sono «uno sbaglio, una presenza di mala natura» (p. 6) da colpire con una lunga canna di bambù, senza nemmeno alzarsi dalla cattedra. Accanto alla retorica scolastica, in Cristi polverizzati, esattamente come in Libera nos a Malo di Meneghello (anch’esso un espatriato), l’altro veicolo di acculturazione e dominio è rappresentato dalla Chiesa, che penetra nelle case contadine e nell’inconscio collettivo. In Di Ruscio le idee si risolvono sempre in esperienze e queste ultime in brevi, gustosissimi aneddoti: la nonna, che «vedeva il male ovunque» (p. 9) conduce Luigino alle visite pasquali ai santi sepolcri, l’io rimembrante si trova così in una lunga fila per baciare un crocefisso, steso a terra, i cui piedi sono ormai trasformati in un lago di sputo. Come accade per tutti i simboli dell’inconscio, anche Iddio, nell’esperienza profonda dell’infanzia, si sdoppia nel «dio tenebroso della vendetta, macabro giudice che contava tutte le masturbazioni» (p. 10) e nell’«l’iddio gioioso», abitatore dell’azzurro, capace di «scomparire nel magnifico nulla, nel ventre da cui è sorto» (p. 19). La religione è in tal modo esperienza che suscita pulsioni ambivalenti, sempre divise tra l’irrisione del potere dei papi e delle gerarchie e il sentimento panteistico di un cosmo naturalmente poetico: la madonna del pianto importata da un arcivescovo durante la rivoluzione francese per combattere gli orrori giacobini, la madonna che piange in eterno per i peccati dei rivoluzionari (p. 46) scrissi di una gioia continua, le galassie più lontane viste in una fuga infinita (p. 51)
Perfino il momento supremo della comunione, sbirciato dalla privilegiata postazione del chierichetto, si può così tramutare in una festa della carne, scoppiettante di santità materiale e di intuizioni erotiche:
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Ecco i sessi nei loro umidori, sorrisi, languori, arrossamenti e ci fu quella volta che improvvisamente cadde dalle mani del prete la particola sacra, ecco Cristo con tutta la sua carne e il suo sangue è per terra, il prete allarga le braccia come un santo sbalordito. Da chierichetto mi riguardavo tutte quelle bocchette aperte con le graziose linguette rosse delle ragazzette dove il sacerdote posava delicatamente la particola, la linguetta stretta e prensile che si ritirava velocissima e la bocchetta si rinserrava leggermente indispettita (p. 27)
2. Cristi polverizzati è un prezioso referto clinico e diagnostico sullo stato dell’inconscio collettivo degli italiani, sedimentatosi proprio in quegli anni Cinquanta e oggi pressoché inattingibile perché rimosso e oscurato dalle successive ondate modernizzatrici: gli anni Sessanta, il “miracolo” industriale, i Settanta e gli Ottanta, tra contestazione e avvio del postmodernismo nostrano, il presente, preda del partito-azienda. La sua lettura produce lo stesso effetto di autoriconoscimento identitario un po’ perturbante che si prova talvolta davanti allo specchio. Solo Di Ruscio, espatriato precocemente a Oslo, può oggi rimemorare senza filtri né veli quell’Italia, fra fascismo, resistenza e ricostruzione, senza la quale non si può minimamente comprendere né spiegare l’Italia di oggi. Nel testo circola, del resto, e proprio là dove la voce narrante si sdoppia, facendo appello al «graziosissimo lettore» oppure al «sottoscritto scrivente», l’autocoscienza storiografica e testimoniale dell’operazione in corso: Ma scusami, caro scrivente perché interrompi la narrazione e ti metti a baccagliare con gli storici? Il motivo è semplicissimo, il narratore racconta il particolare, lo storico invece racconta come i fatti sono avvenuti in generale e il generale e il particolare non si combinano mai. I testimoni oculari ne vedono e ne vedranno di tutti i colori, lo storico invece non ha mai visto un cazzo. (p. 34)
Ad esempio, la differenza tra la «Resistenza retorica» e la «resistenza reale» (p. 35) è data dalla figura di un capo coraggioso ma non privo di squallori come Bernardi e dalla superba descrizione dall’interno dei modelli culturali dei partigiani. Chi erano i partigiani dell’insurrezione? Erano quasi tutti giovanissimi e di guerriero avevano visto i film di cowboy per quattro soldi al cinema parrocchiale e sembravano proprio cowboy scatenati quando insorsero, non potevano avere altri modelli che quelli visti durante il periodo fascista e uno dei pochi modelli non fascisti ammessi erano i film del far west. I capi partigiani avevano
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un aspetto più austero, una grossa cintura sulla giacca a doppiopetto, la fodera della rivoltella al fianco e un baschetto nero e il collo della camicia bianchissima appena lavata rivoltata sul collo della giacca scura, avevano qualcosa di austero, roberspierriano, oltre al modello cowboy per i più istruiti ci sarà stato il modello ricavato dalla rivoluzione francese. (p. 34)
La scollatura tra i modelli hollywoodiani penetrati nella cultura popolare e i modelli giacobini dell’élite intellettuale non potrebbe esser meglio fotografata: si tratta, ancora in embrione, di una vicenda che avrà sviluppi impensabili nei decenni successivi. I cambiamenti occorsi tra il 1954 e il 1960 furono, come si sa, enormi: da una condizione di povertà e semplicità in cui il mezzo di trasporto più diffuso era una bicicletta o un paio di scarpe, il paese passò alla situazione in cui televisione e automobili divennero consueti nella vita quotidiana. L’americanizzazione dell’immaginario collettivo fu anche e soprattutto una vicenda semiotica e linguistica che lo sguardo straniante di Di Ruscio coglie all’esordio, nella freschezza stupefacente della sua prima comparsa: Poi mi accorsi che la gente non solo non parlava più in dialetto, ma parlava una lingua stranissima. Ma che stanno dicendo? A cena mi fu rivelato il mistero. C’era la televisione accesa, ecco il Carosello, per la madonna, non sanno più parlare, parlano tutti come il Carosello, il tutto era diventato una stronzata. Ulisse ritorna ed Itaca è sparita e posso ritrovarla qui quando scrivo. (p. 45)
Da dove viene all’io narrante questa ipercoscienza dei mutamenti in atto? Figlio di un muratore, semialfabetizzato, Luigi aveva in casa oltre a Cuore, anche Dei delitti e delle pene, e leggerà per pura ansia poetica, Pavese, Gadda, Montale, Sterne e Cervantes e poi Giordano Bruno, Sarpi, Campanella, Hegel, Croce e Gramsci. Questo vero e proprio miracolo culturale era abbastanza comune nel dopoguerra e oggi non è più nemmeno pensabile a causa del mescolamento dei codici e della penetrazione dei media. Il primum per Di Ruscio è la poesia (in versi e in prosa) come forma di vitalità e come via di fuga, ribellione e sberleffo: in tutto il testo dominano analogie fulminanti, scarti improvvisi, acrobazie tra pensieri e visioni. L’espatrio, la poesia, la vitalità anarchica e ribelle sono gli antidoti che Di Ruscio impiega contro la sclerosi, la banalizzazione e l’appiattimento e che gli permettono di dar voce a una resurrezione: a uscir dal sepolcro non è però il corpo di Cristo ma quello dell’io poetante assieme all’Italia della guerra fredda, anticipazione occulta della nostra condizione attuale.
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Del tutto controcorrente in un’epoca che ha glorificato l’intreccio per predisporre la narrazione a farsi fiction e puro intrattenimento, la scrittura di Di Ruscio non lascia spazio al plot. Eppure il piacere del testo è immediatamente percepibile al lettore. Evidentemente occorre riconoscere che l’intreccio non è il solo veicolo di “godibilità” testuale. Domina invece in Cristi polverizzati la retorica dell’aversio, vale a dire la strategia della digressione permanente. L’argomento principale viene di continuo abbandonato per sviluppare temi concomitanti, per narrare apologhi che hanno la vivacità pirotecnica delle barzellette. La divagazione o digressione, come si sa, è una strategia adatta a differire la conclusione, ideale cioè per creare una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, per attivare una fuga perpetua. Si fugge non solo dai poteri ma anche dalla tirannia del tempo, restituito al presente, qui e ora: Mentre faccio tutte queste divagazioni, sta avvenendo la liberazione del nostro paese (p. 36)
Così accade che in Cristi polverizzati i fatti sembrano registrati in presa diretta mentre Domineddio, la Chiesa, il Partito, i Poeti, la Materia del cosmo, la Vitalità sessuale e corporea, l’Orrore, i Corpi sbranati, diventano puri ritornelli, iterazioni litanianti, cadenze ritmiche. E mentre i segretari delle Camere del lavoro, i dirigenti di Partito, i Poeti ufficiali sono visti con lo stesso sospetto eretico con cui si guarda ai preti o ai maestri scolastici, il corpo gioioso e le pulsioni utopiche restano l’unica bussola per orientarsi, irridere, non arrendersi, sortire dai varchi. La digressione diventa così strategia di ribellione: del resto il verbo latino gradior significa anche oltrepassare, trasgredire. Non si possono contare tutte le volte che la scrittura in Cristi polverizzati, nel procedere, esce di strada o devia, mettendo in cortocircuito gli anni Cinquanta e i decenni successivi: il Vietnam, la Palestina, la Bosnia, il Papa polacco, Berlusconi premono di continuo sul perimetro firmino del dopoguerra e lo complicano e lo travolgono facendone un’allegoria e una prefigurione. Graziosissimo lettore lei capirà io trascrivo questo romanzo memoriale così come umanamente lo ricordo e inaspettatamente nel raccolto degli anni giovanili si introduce il caos dell’ultimo o penultimo anno di questo millennio e per dirvela tutta ora 30 dicembre 1999 (ore 4.10) sto in mutande davanti al computer a rivedere per l’ennesima volta codesto casino di romanzo. (p. 65)
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xii. l’inconscio in polvere degli italiani: luigi di ruscio
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Non è stato compreso a sufficienza che noi italiani siamo nati lì, nelle macerie, nei dogmi della guerra fredda, negli anni Cinquanta dell’americanizzazione e della prima irruzione di consumi e tv, nel secondo dopoguerra in cui si ripeteva in maschera la nostra millenaria vicenda subalterna, cortigiana, inquisitoriale e gesuitica. Non è stato capito abbastanza che il nostro inconscio nazionale è stratificato di «Iddii trini e quattrini, dell’acqua miracolosa di Lourdes, del sangue bollente di San Gennaro» (p. 59).
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L’immaginario collettivo non sarà più occupato dalla speranza rivoluzionaria ma dalla ricomparsa del sacro, la madonna che lacrima il sangue anche quello dei truffatori. (p. 75)
Se così non fosse probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno il recente involgarito dominio vetero-commerciale, con le televisioni che hanno ridotto a offerta pubblicitario-finzionale ogni aspetto della vita associata. Abbiamo tanta fantasia che crediamo anche nell’incredibile, quindi immaginiamo congiure complicatissime, guardate Berlusco come riesce a far credere di essere perseguitato dalla congiura di una giustizia di sinistra e ci metterebbe la mano nel fuoco anche perché il Berlusco si presenta tanto bene e con tante esatte scriminature, non può aver fatto tutto quello di cui viene accusato, ed ecco la fantasia infernale della procura di Milano e la mancanza del diritto per i diritti. (p. 159)
Il crocefissaro Moscatritata che viaggia per l’Italia piazzando cristi in croce polverizzati e “anticati” è dunque un’allegoria. Ci voleva un poeta-operaio indifeso e blasfemo, che scrive lontano dall’Italia, per ricordarci, con una lingua ludica e con la memoria dell’antico fermano della sua infanzia, i nostri segreti delitti e le nostre pene.
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xiii. Il saggismo lirico di Eraldo Affinati
1. La città dei ragazzi1 di Eraldo Affinati è un libro coraggioso e irrisolto che, con il sottotitolo di “romanzo”, contrabbanda, in tempi avversi, una scrittura autobiografica e lirico-saggistica incentrata sulla scomposizione e sul montaggio di tre percorsi paralleli. A dare il titolo al libro è «La Città dei Ragazzi di Roma», una comunità fondata nel 1953 dal sacerdote irlandese John Patrick Carrol-Abbing, basata sul principio dell’autogoverno e nata per provvedere all’educazione di adolescenti abbandonati ed esposti a rischi di devianza. La Fondazione, che per il suo sostegno gode della beneficenza italo-americana, tramite la Boys’ Town of Italy, Inc. di New York, un tempo ospitava i giovani emarginati italiani, numerosissimi negli anni del dopoguerra: «calzoni corti, smorfie precoci, fame scandalosa» (p. 188). Ora, invece, accoglie quasi esclusivamente migranti. Affinati insegna in questa comunità e può disporre in vitro dei documenti di un piccolo laboratorio sociale: nel libro indaga le vite dei suoi allievi maschi, appena sotto la soglia della maggiore età, provenienti soprattutto da Romania, Albania, Marocco e Afghanistan, in dialogo e in conflitto con la sua stessa funzione di docente, con l’istituzione che li ospita, con la cultura di provenienza e con quella di arrivo. L’autore utilizza anche, montate nel corpo del “romanzo”, alcune delle loro scritture: inserti intermittenti di italiano stentato di chi, per necessità, intercetta i nostri gerghi e dialetti ben prima delle strutture della lingua ufficiale. Nel testo compare inoltre, a intervalli, un taccuino del viaggio in Marocco dell’insegnante con due dei suoi studenti, Omar e Faris, alla scoperta delle loro radici. Infine, La città dei ragazzi propone un viaggio mentale, à rebour, 1
Eraldo Affinati, La città dei ragazzi, Mondadori, Milano 2008.
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letteratura come storiografia?
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anch’esso intermittente, per riconoscere l’adolescenza dello stesso io narrante, restituire dignità alla figura paterna e stabilire un dialogo tra generazioni. Il libro si pone in tal modo alcuni fra i massimi problemi del nostro presente: l’incontro coi migranti, la responsabilità dialogica dell’insegnamento, il problema dell’eredità culturale e della paternità. La vetta cui ambisce è, insomma, altissima e forse nessuno dispone oggi del fiato sufficiente per scalarla. 2. Innanzitutto, sembra lontano e inattingibile il modello di riferimento: la Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, il saggio scritto con gli alunni della Scuola di Barbiana, che, coi metodi dell’inchiesta sociale e della verifica dei linguaggi, ha sottoposto alla dura critica del radicalismo evangelico il nostro sistema educativo. Per don Milani, la più grave ingiustizia in una società divisa tra poveri e ricchi è di ordine culturale: come si poteva ben apprezzare a metà del secolo scorso in un piccolo borgo appenninico, i bocciati erano quasi esclusivamente i figli dei contadini. Affinati cita esplicitamente don Milani (p. 79) e ne condivide le premesse di tipo evangelico («quello che succede a te, riguarda anche me», p. 139) ma ne espunge la critica sociale: costante è il riferimento a Tolstoj e a Dostoevskij (p. 21, p. 197) e, in apertura, al gesuita Teilhard de Chardin che cercò di conciliare Darwin e la teologia e fu esiliato in Cina. L’analisi di don Milani era severissima e estremista, rivendicando una reale uguaglianza di possibilità e di prospettive economiche per la maggioranza dei suoi ragazzi condannata alla subordinazione culturale e a uno stentato alfabetismo. I bocciati di Barbiana ponevano problemi universali in forma polemica e eversiva: «primo, tutti sono adatti a tutte le materie»; «secondo, il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». Al posto di Omar e Faris, tra loro solidali nella fuga verso il nuovo eldorado, c’erano Gianni e Pierino del Dottore. Il destino di Gianni era segnato dalla sua nascita, dalle condizioni famigliari di miseria che lo predisponevano al disinteresse verso una scuola progettata per Pierino e che funzionava per riprodurre la distinzione fra incolti e colti, fra subalterni e classe dirigente, «una classe che» – per don Milani – «non ha esitato a scatenare il fascismo il razzismo la guerra, la disoccupazione». Don Milani insegnava pertanto ai suoi allievi a non fidarsi della classe dirigente, di qualunque colore politico questa
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fosse, perché la promessa dell’uguaglianza scritta nella Costituzione veniva svuotata dalla realtà culturale. Il radicalismo di don Milani non solo prefigurò la contestazione del Sessantotto ma influenzò anche la saggistica di Franco Fortini e quella di Pier Paolo Pasolini sui grandi temi dell’educazione e della colonizzazione culturale. Nel frattempo, nel giro di pochi anni, evaporavano sia le culture subalterne che il confine fra la cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale, con l’ibridazione dei valori socio-simbolici e il gioco tra camp e kitsch. Il Pasolini “corsaro” dei primi anni Settanta, testimone del naufragio del progetto egualitario di don Milani, non solo descrisse come un contagio, una colonizzazione devastante, una “Fine del mondo” in senso demartiniano, l’adesione incondizionata dei corpi dei giovani alle icone della cultura dei consumi, dai jeans ai capelli lunghi, ma ne fece anche l’emblema di una insormontabile barriera tra la generazione dei figli e quella dei padri: Il ciclo si è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura dell’opposizione e l’ha fatta propria: con diabolica abilità ne ha fatto pazientemente una moda. […] Concludo amaramente. Le maschere ripugnanti che i giovani si mettono sulla faccia, rendendoli laidi come le vecchie puttane di una ingiusta iconografia, ricreano oggettivamente sulle loro fisionomie ciò che essi solo verbalmente hanno condannato per sempre. Cioè la condanna radicale e indiscriminata che essi hanno pronunciato contro i loro padri – che sono la storia in evoluzione e la cultura precedente – alzando contro di essi una barriera insormontabile, ha finito con l’isolarli, impedendo loro, coi loro padri, un rapporto dialettico. Ora così i capelli lunghi dicono, nel loro inarticolato e ossesso linguaggio di segni non verbali, nella loro teppistica iconicità, le “cose” della televisione o delle reclames dei prodotti, dove è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi: fatto che, oggi, sarebbe scandaloso per il potere. Provo un immenso e sincero dispiacere nel dirlo (anzi una vera e propria disperazione): ma […] la loro libertà di portare i capelli come vogliono non è più difendibile perché non è più libertà. È giunto il momento, piuttosto, di dire ai giovani che il loro modo di acconciarsi è orribile, perché servile e volgare. Anzi, è giunto il momento che essi stessi se ne accorgano, e si liberino da questa loro ansia colpevole di attenersi all’ordine degradante dell’orda2.
Al contrario, i giovani migranti di Affinati, quando lasciano i loro paesi d’origine, ancora prima di acquisire la nuova lingua sanno bene 2 Pier Paolo Pasolini, Il “Discorso” dei capelli, «Corriere della Sera», 7 gennaio 1973, ora in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1990, pp. 10-11.
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qual è il loro obiettivo: «Mi pariaccopavo per mio futuro chi non saro una barboni» (p. 10). Per non diventare barboni, cioè homeless esclusi dai consumi, ancora adolescenti attraversano «come stambecchi» la frontiera che divide il Medioevo dal Postmoderno (p. 21). Lasciano alle spalle, oltre a guerre e devastazioni inaudite («i genitori massacrati», p. 11), i cieli sconfinati, l’immobilità dei rapporti sociali e la miseria, anche se fiera e dignitosa, le discariche, la società patriarcale, la faida, l’assenza di diritti. E intendono fermamente diventare ceto medio e così sopravvivere nel mondo abitato dai lupi guadagnando millecinquecento euro al mese come camerieri o cuochi, benzinai o «portiere nocturno» (p. 33) e acquistare cellulari Nokia (p. 57), magliette Dolce&Gabbana (p. 99), Audi A3 Sportback (p. 27). Il loro sogno consumistico è puro istinto darwiniano di sopravvivenza che li aiuta a tenersi stretti tra i container, sotto le sospensioni di un tir o su una barca di plastica in Adriatico, li spinge a varcare la frontiera in Cappadocia tra le fucilate delle guardie o ad attraversare a piedi lo spazio immenso che divide Roma da Kabul. Affinati, come Teilhard de Chardin, fonde, nella scrittura e nella prassi didattica, darwinismo e creaturalità: fa leggere ai suoi ragazzi Jack London, lo utilizza come metafora cognitiva: Il lupacchiotto, appena si regge in piedi sulle quattro zampe, scatta via nella foresta. E presto si stacca dal gruppo per fondarne uno proprio. (p. 161)
e i suoi allievi, in sintonia, rispondono subito che un lupo «soprattutto deve imparare à non morire!» (p. 79). Il suo compito, alla Città dei Ragazzi, è fare insomma degli ospiti minorenni «gente come noi», con l’auto, il mestiere, la famiglia, la passeggiata al centro commerciale, la passione calcistica, la televisione. In questa gara d’integrazione, acculturazione e apprendimento, tutti i giovani protagonisti (tranne Gigetto, p. 48) sono straordinari autodidatti, ce la mettono tutta, mischiando da subito lo slavo col romanesco, l’arabo al gergo sportivo, il parsi all’inglese (p. 188): al docente-colonizzatore resta poco da fare, forse solo attualizzare Dante (p. 75), Leopardi (p. 174) e Ungaretti (p. 12), l’Illuminismo, la Rivoluzione industriale (p. 24) e il Risorgimento (p. 43), riadattandoli brutalmente al sistema cognitivo e all’orizzonte d’attesa di Hafiz, Mohammed, Abdulali, Ibrahim, Stefan, Nabi, Sharif, Michail e Shafa. In tal modo, nella generale caducità eraclitea di individui e di civiltà che costituisce lo sfondo segreto del libro («Ci perderemo. Tutti, nessuno escluso», p. 171), un
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carattere ereditario minimo della nostra specie può sopravvivere alla mutazione e transitare dall’insegnante-padre agli allievi-figli:
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Questa è acqua che passa. Vita che scorre. Shafa, ad esempio, l’ho già perso. È stato uno dei miei primi alunni: mi accolse, insieme a Stefan, evocando la Divina commedia appresa dagli schemi disegnati alla lavagna da chi mi aveva preceduto. Adesso fa il cameriere in un albergo della capitale, vicino al palazzo dove io sono nato, dietro alle Ferrovie Laziali. Il viale d’asfalto che accompagna il viaggiatore verso il cuore della Città dei Ragazzi, punteggiato di alberi e piante, simile a una galleria verde, fece presto a diventare, nella fantasia di Shafa, costretto nel Limbo essendo lui musulmano, quindi senza battesimo, la selva oscura, simbolo arcano di chissà che errori e traviamenti forse legati al suo passato di combattente al confine eritreo. (p. 75)
Tra padri e figli, la globalizzazione e la migrazione non erigono comunque alcun muro: nonostante Absalam e Moustafà, padri di Omar e di Faris rimasti in Marocco, continuino «a non far niente», a sorseggiare il tè attendendo che gli asini e le donne facciano ritorno a casa, nonostante abbiano lasciato partire i figli quasi bambini verso un paese lontano, non li hanno mai davvero abbandonati e nutrono per loro un «formidabile affetto» e i figli ne portano l’immagine archiviata nel cellulare Ero venuto in Marocco con un’immagine in testa: quella dell’abbandono. Questa idea è di stampo cristiano, implica un Dio-Padre che si lega al Figlio in modo indissolubile e grazie lui governa la terra con amorosa cura. Adesso capisco che la base religiosa islamica postula un’altra concezione. Allah ha manifestato la sua volontà ai profeti, ultimo e primo fra tutti Maometto, senza mai farsi vedere in carne e ossa. Absalam e Moustafà non hanno rinunciato a controllare Omar e Faris, piuttosto li lasciano liberi al volere di Allah, peraltro misterioso e imperscrutabile. Mi spiego così il formidabile affetto mostrato verso i due ragazzi; prima di venire qui, non sarei riuscito a coniugare tale sentimento con la sostanziale assenza di questi padri nella vita di figli che, neppure adolescenti, ancora quasi bambini, prendono il largo, vanno via di casa. (p. 161)
3. La città dei ragazzi è suddiviso in tre parti, incorniciate da un Prologo e da un Epilogo. In apertura e in chiusura spiccano le lettere di Hafiz e di Khaliq al loro «Porof Raldo». L’intero testo è frammentato in una miriade di paragrafi, ma il vero tessuto connettivo dei tre capitoli, sia pure per discontinuità e intermittenze, è il viaggio, non nel Maghreb, ma nella memoria, «verso la sorgente» (p. 196), una meta-
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fora per evocare «il piccolo orfano»: il fantasma paterno e le origini. In La città dei ragazzi il padre dell’io narrante, Fortunato, compare in un primo squarcio di memoria alla guida della sua Cinquecento, fra il traffico degli anni Sessanta. A casa il bimbo lo aspetta e teme l’abbandono. In un’altra intermittenza memoriale, viene rievocata l’infanzia paterna:
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Ironia del destino: si chiamava Fortunato. A dodici anni era rimasto solo al mondo. Lavorava come fattorino al «Popolo di Roma». Dormiva nel magazzino della redazione, sulle vecchie copie accatastate, finché una signora gentile, impietosita dal triste spettacolo, non lo prese con sé, trattenendo la paga per la stanza da lui occupata, in via Emanuele Filiberto, dove oggi abitano arabi e bengalesi. (p. 31)
Fortunato è un orfano e un figlio illegittimo. Da giovane ha praticato il commercio ambulante e, durante la guerra, la borsa nera per sopravvivere. Poi ha trovato nel matrimonio una «tana», ha messo al mondo due figli ed è invecchiato «dentro un gheriglio di aneddoti e ricordi sempre uguali», impermeabile alle domande che gli provengono dal figlio («intorno ai vent’anni cominciai a interrogarlo sul suo passato senza ricavare niente», p. 66). Alla metà degli anni Cinquanta mio padre si era sposato, ponendo fine al nomadismo, aveva messo al mondo due figli e tratto i remi in barca. Io lo vidi sempre così: indecifrabile nella sua semplicità inquietante. Mangiava, guardava la televisione, dormiva, andava al negozio e tornava a casa. Non aveva amici. Era qualunquista in politica. Indifferente dal punto di vista religioso. Non tifava per nessuna squadra. Guidava l’automobile, ma non era un patito del volante. Andava al cinema ogni tanto, senza memorizzare titoli, attori e trama del film. La domenica ci portava i cannoli siciliani, faceva battute, si rendeva simpatico a tutti, ma appena cercavi di approfondire un concetto, scantonava. (pp. 65-66)
La meditazione sulla figura paterna vista dalla specola dell’adolescenza, così importante nell’ultimo Pasolini, è centrale anche dell’altro grande erede della saggistica didattica di don Milani: Franco Fortini. Il giovane sempre incontra ostacoli a ricordare la propria infanzia e adolescenza. […] il tempo della propria vita di ragazzo è sentito come quello di una autenticità preziosa e da preservare ma anche come qualcosa che, alla luce della narrazione, rischia di dissolversi. Gli elementi di quella possibile narrazione (la cronaca famigliare, la “storia” dell’età paterna) vengono così colpiti da antipatia, disvalore, rimozione3. 3 Franco Fortini, Il controllo dell’oblio, in Id., Insistenze, Garzanti, Milano 1985 pp. 131-137.
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Affinati esorcizza con la scrittura questo rischio di “disvalore e rimozione”: parte infatti da un’antipatia per il padre: un naso imponente su una faccia piccola da pappagallino; una vita d’ozio, soprattutto dai quarant’anni in su, fatta di televisione, pasti e sonno; un colloquio tanto affettuoso quanto sterile (p. 148)
per giungere a un integrale recupero.
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Volete oppure no, io dipendo da lui, sono la sua freccia, il suo colpo di biliardo, il suo sì alla vita, dicevo stupefatto a me stesso. (p. 66)
Il viaggio in Marocco è allegoria di questo riconoscimento. Per bocca di un intellettuale arabo, Rachid, il protagonista può infatti «risentire nel deserto marocchino, la sintesi di Totem e tabù» e rammentare con Freud che «il padre, storicamente è Mosé» e che il monoteismo si formò «attraverso la venerazione del padre ucciso» (p. 178). In tal modo, l’ossatura de La città dei ragazzi è data dalla presenza del fantasma paterno, che si materializza spesso, protettivo e autocosciente, tanto profondo e loquace quanto in vita era sembrato superficiale o taciturno: Penso di capire perché il tuo lavoro ti sta piacendo tanto. Aiutando Nabi e Kabil parli con me. Continui a rivolgermi le domande attraverso di loro. Ma non ti accontenti di questo. Pretendi di più. Da figlio, quale sei stato, vorresti diventare mio padre. Restituirmi così quello che io non ho avuto. (p. 142)
Prendersi cura dei ragazzi migranti vuol dire, per l’io narrante, mediante un colloquio in absentia, diventare il padre del proprio padre. In Affinati, i processi più intimi d’intermittenza memoriale avvengono infatti «per interposta persona» (p. 199), sono cioè di natura plurale: se la ricostruzione proustiana del passato origina da un’epifania del tutto privata, per Affinati, come per il suo «compagno segreto» Sebald4, la restituzione della memoria privata passa attraverso un confronto intersoggettivo. È il dialogo con persone o con oggetti-testimoni di cui il narratore è maestro e custode, non il ripiegamento narcisistico del soggetto su di sé, che rivivifica i cortocircuiti memoriali. La resurrezione del passato individuale in La città dei ragazzi è legata a una sorta di patto tra generazioni o di comunità memoriale. 4
Cfr. Anna Baldini, su Winfried Georg Sebald, Emigrati, «Allegoria», 58, 2008, p.
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Più li guardo, più riconosco mio padre dentro di me (p. 148) Da morto mio padre mi restituisce quello che in vita non fu capace di darmi. Adesso sì. Grazie a questi minori non accompagnati, ho la possibilità di ritrovarlo: se non ci fossero stati loro, l’avrei perso per sempre. (p. 150)
La scommessa di resurrezione è, però, sempre insidiata dallo scacco, tallonata dalla caducità: l’ottimistico «Ce la faremo tutti» (p. 184) è affiancato e contraddetto dal «Ci perderemo. Tutti» (p. 171). Aleggia insomma nel libro una minaccia, innominabile, di disfacimento globale.
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Il futuro ci corre incontro come un bufalo infuriato. Dove andremo a nasconderci in prossimità dello schianto? (p. 32)
Forse l’incombere dell’azzeramento prende una sua forma là dove il dubbio che «l’origine» non sia altro che «la fossa biologica dove tutti torneremo» sfiora più duramente il narratore: alla periferia di Rabat, quando i ragazzi mostrano al loro professore un quartiere intero che sorge tra i liquami di una discarica. L’acqua contaminata entra nelle case. L’aria è mefitica. I camion depositano le immondizie senza sosta, perfino a tarda sera. La gente mangia, beve, vive nei rifiuti. Mi sorprendo a considerare le fattezze degli abitanti: collo, naso, gambe, braccia, come se volessi sincerarmi della loro natura umana. Sono arrivato alla sorgente? È questo il punto di partenza che cercavo? La fossa biologica dove tutti torneremo? (p. 196)
4. La scrittura di Affinati concentra dunque tutte le sue risorse in una «lotta per combattere il nulla che ci assedia»5. Il genere letterario da lui prediletto è pseudo-romanzesco, la sua scrittura è divisa fra vocazione lirica e saggismo. Anche Campo del sangue (1997) come La città dei ragazzi è un saggio-diario narrativizzato, incentrato sull’interpretazione etica dei destini umani. Si tratta di due narrazioni autobiografiche di un pellegrinaggio, che recuperano il genere medievale dell’itinerarium mentis, da Venezia verso Auschwitz, da Roma al Marocco. Ma il viandante-scrittore non vuole commemorare: vuole piuttosto creare cortocircuiti ed epifanie fra storia privata e destini generali. 5 Così Affinati a proposito di Tolstoj in Veglia d’armi, Marietti, Genova 1992, p. 61. Cfr. Alberto Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, il Mulino, Bologna 2007, pp. 211-244.
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Sgomenta, in tal modo, il peso delle questioni che la nozione di memoria (storica e personale) in questo libro porta alla luce. Dunque, non deve stupire se lo stile, più dei contenuti e dei temi, qua e là non tiene, rivelando delle contraddizioni. Le crepe e le incrinature formali abbondano perché ne La città dei ragazzi è all’opera una scrittura ad alto tasso figurale: frequenti sono le accensioni liriche, gli accostamenti analogici, le metafore improvvise, le similitudini utilizzate come cortocircuiti per scolpire e condensare il pensiero in immagini che sembrano le norme di un decalogo, i versetti di un codice deontologico, l’elenco delle consapevolezze minime ma irrinunciabili, degli appigli esistenziali, dei punti fermi. Ma, tra figurante e figurato, il nesso è quasi sempre insidiato dall’usura enfatica del luogo comune, come accade ad esempio al campo semantico liquido o marino (il tipo: «L’acqua della nostra vita»), mobilitatissimo. O ai cedimenti estetizzanti, più frequenti nella contemplazione della luce e dei paesaggi “esotici” che nella raffigurazione dei personaggi («nella decrepita nobiltà del tramonto», p. 44; «I raggi sparsi cadono senza ritegno né distinzioni, spade d’oro nel fango», p. 70). I titoletti dei paragrafi, soprattutto, che dovrebbero condensare in un’icona allegorica la prosa che li segue, sono quasi sempre altisonanti e scontati, tanto da sembrare la premessa ad agnizioni e sapienze da feuilleton: L’autorità del sapiente, Il centro del mondo, La promessa mantenuta, Il piccolo orfano, La ferita nascosta, Le vere risposte, Il mistero, I dieci comandamenti, Figli illegittimi, Il colpo di spugna, Figlio mio, Pepite d’oro, Uomini pericolosi, Il settimo cielo, A tu per tu, Le mani vuote, Il buco nel cuore, Uccelli di passo. Di quale difficoltà mentale o aporia cogitativa ci parlano questi segni e sintomi formali? La prosa di Affinati probabilmente ha accolto dalla poesia contemporanea (a esempio, da quella del De Angelis di Distante un padre, 1989) alcune modalità oniriche e visionarie e l’idea che il ricordo sia, prima di tutto, richiamo nel cerchio della comunità («a memoria / ancora una volta ci siamo tutti») e «comunione dei morti con i vivi»6. Tra i prosatori, invece, è Coetzee, con Sebald e con Rigoni Stern, uno dei «compagni segreti» di Affinati7. Ma in La città dei ragazzi 6 Cfr. Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, Einaudi, Torino 2005, p. 304. 7 Cfr. Eraldo Affinati, Compagni segreti, Fandango libri, Roma 2006.
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chi dice “io” sembra non poter evitare il paradosso con cui Coetzee chiude il romanzo Vergogna: «si fa l’abitudine a tutto, anche al continuo peggioramento di ciò che già è ai limiti della sopportazione». Il dispaccio è brutale: non si può sprofondare del tutto nel dolore, perché la vita continua. La scelta volontaristica dell’etica, insieme al ripristino dell’autorevolezza paterna, esigono il patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto. Ma invocano anche razionalizzazione del caos, ottimismo, rimozione della disperazione, allontanamento sullo sfondo dell’irriducibile crepitare dei kalashnikov (p. 110). Mentre, ne La via dello zucchero, un grande romanziere egiziano come Nagib Mahfuz rappresentava senza veli ideologici la vita nei vicoli del Cairo, tanto da guadagnarsi una condanna a morte da parte dell’estremismo islamico, per Affinati anche nella «stanza dei tappeti», con le donne escluse, gli occhi dei suoi interlocutori hanno sempre e solo un’«intensità spirituale sconvolgente» (p. 80). Insomma, La città dei ragazzi ripristina il ricordo, la facoltà che per Fortini tra tutte era la più minacciata a partire dalla fine degli anni Settanta. E non è davvero impresa da poco. Viviamo per soprassalti, attraversati da pulsioni memoriali. Come gli ubriachi, siamo tuttavia abbastanza lucidi per eseguire certe sequenze di comportamenti. Parlo di sonnambulismo ma non è una metafora. Il gesto di chi si droga è simbolico di noi tutti, lo sappiamo da un decennio. Chi vuole che non si ricordi (ossia che vuole un mondo di adolescenti e di servi) vuole anche che le esperienze di memoria involontaria e le riemersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici – siano diffuse, incontrastate e quindi impotenti come molecole di un gas decompresso. L’espropriazione del “ricordo”, cioè della tradizione, è il vero esito della colonizzazione; perché di questa, in definitiva, sto parlando. I nostri sonnambuli vivono nella condizione degradata dell’“estetico”. […] Il ricordo invece, nella sua definitività narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di una temporalità non individuale8.
Ma tutto ciò ha un prezzo. L’Eros, al contrario di quanto accade in Vergogna di Coetzee, anch’esso incentrato sulla figura di un insegnante e di un padre, il professor David Lurie, qui non può mai “entrare in scena” e anche la violenza è subito sedata e utopisticamente ricomposta con l’ausilio della voce paterna che vigila costantemente dall’aldilà: 8
Fortini, Il controllo dell’oblio, cit., pp. 131-137.
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Mi credi? Quando hai diviso Omar e Hafiz, pronti ad ammazzarsi per un disguido, io ero vicino a te e, anche se non potevo intervenire, in cuor mio speravo che tu ci riuscissi. (p. 142)
Senza misurarsi fino in fondo con «le cose come sono»9, con la forza devastante delle contraddizioni, anche la «potenza dell’insegnamento» (p. 201), proprio perché autoproclamata, insieme a quella delle analogie e delle metafore, può mordere nel vuoto e perdere la propria efficacia che, quando c’è, è sempre e solo paradossale. Lo sapeva bene Leonardo Sciascia che, un quindicennio prima di don Milani, nel suo mestiere di maestro in una comunità arcaica, sperimentò quotidianamente, come corollario della distanza tragica tra istituzione scolastica e vita, il naufragio dei poteri conferiti alla parola poetica. È il tema impietosamente autoironico, propulsore di Cronache scolastiche, nucleo originario de Le parrocchie di Regalpetra. Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta che veramente li guardi, che veramente veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia […]10.
Lo sapeva anche l’ultimo Pasolini, secondo il quale maestro e allievo, padre e figlio, sembrano tragicamente due estranei e l’insegnamento è, quasi sempre, minato dall’assoluta impotenza. Io potrò cercare di scalfire, o almeno di mettere in dubbio, ciò che ti insegnano genitori, maestri, televisioni, giornali, e soprattutto ragazzi tuoi coetanei. Ma sono assolutamente impotente contro ciò che ti hanno insegnato e ti insegnano le cose. […] Su questo siamo due estranei, che nulla può avvicinare11.
9 Cfr. Giancarlo Gaeta, Le cose come sono. Etica, politica, religione, Libri Scheiwiller, Milano 2008. 10 Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, Adelphi, Milano 1991. 11 Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 35-43.
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xiv. Emigrazione: lo spazio intersoggettivo nella poesia di Eugenio De Signoribus
1. Nei testi poetici di De Signoribus è molto frequente la metafora del transito, della partenza, del viaggio. Una metafora, oltretutto, collocata nelle zone semanticamente più forti delle raccolte. Il volume complessivo Poesie (1976-2007)1 si apre con i versi di Partire: Lasciando il fermo gomito di costa è crespo l’orizzonte e senza approdi fuori da rotte di navigazioni non so dove questo impulso snodi è dato in un’arca che discosta va verso una verità che non sa arcana (p. 11)
In esergo dello stesso volume, l’epigrafe scandisce in soli quattro versi lapidari la dimensione interiore di questo altrove, l’unicità di questo dove e il bisogno acuto di un accompagnamento: accompagnami tu eco dell’interno altrove eco che sempre fu in un unico dove (p. 9)
«Il vivere doloso» (p. 39) è insomma concepito sempre come un «guado tormentoso» (p. 205) e a ogni Partire deve seguire, prima o poi, un ripartire, come annuncia il titolo della poesia che chiude Altre educazioni:
1 Eugenio De Signoribus, Poesie (1976-2007), Garzanti, Milano 2008. Da questo volume sono tratte tutte le citazioni.
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ma io partivo da un cuore offeso, non preso una pista aggrumata sulla rena seguendo e alle spalle Abdera, la nera, scuotendo… (p. 213)
Evocando l’immagine della partenza di Democrito da Abdera, De Signoribus, congedando la sua seconda raccolta, rivela al lettore la vocazione intimamente territoriale e spaziale dei suoi versi, la dimensione geopolitica del suo inconscio poetico. Alludere, fra «lampi» «schianti» e «stridenti suoni di festa» (p. 213), a una città fondata da coloni greci, distrutta dai traci, rifondata dai fuggiaschi all’invasione persiana, inospitale nei confronti di Democrito stesso ritenuto un folle, per poi descrivere quell’antica partenza come emigrazione da un «cuore offeso», costituisce una strategica mossa discorsiva di un evidente autocommento: fra multilingui «ariette bislacche», «frontiere» e «alti bivacchi» (p. 180), la voce di De Signoribus segue costantemente una pista da sé, verso l’altro (p. 221). Questo impulso verso un’arca, questa naturale, dolorosa pulsione odeporica dispone i versi di De Signoribus alla necessaria lacerazione di sé e all’incontro con l’altro senza blindature o schermi protettivi. Il verbo partire, del resto, deriva dal sostantivo latino pars, partis, e contiene in sé l’idea della separazione della parte dal tutto, dell’abbandono o perdita di una condizione per cercarne un’altra, rinnovata. Non stupisce dunque che la prima raccolta, comprensiva dei versi scritti fra il 1976 e il 1985, s’intitoli Case perdute. 2. Viaggio è, nella sua originaria definizione, il viaticum, la scorta di alimenti che si consumano lungo la via: la sineddoche ci indica come il viaggio non riguardi il semplice spostamento di un soggetto da un luogo all’altro ma piuttosto una consunzione, una fagocitante sofferenza. La prima raccolta di De Signoribus dà sembianze edili a transiti localizzati in interni ammobiliati: «scale tentacolari» (p. 95) che non finiscono mai e «muri purulenti», «locatori-traditori» (p. 25), un «letto povero strutturalmente» (p. 20), «scaffali tanti», «porta» e «soffitto» (p. 21). Onnipresente, nella «casa concretamente rumorosa / abitata da oggetti singolarmente / convenzionali» (p. 62), è la «tv fuligginosa» (pp. 22, 47, 79, 80), che rinvia al bianco e nero degli anni Cinquanta e Sessanta: «tutte le visioni del mondo / sono in forma / di nube polverosa» (p. 62). Alcune di queste visioni televisive
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xiv. lo spazio intersoggettivo nella poesia di eugenio de signoribus
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sono volgari e seducenti («una combutta di seni promettenti», p. 62) altre avventurose («come in un film / d’azione dove il fuorilegge (o la comparsa) / è inseguito dagli sceriffi di vari stati», p. 79), ma quei «segnali luminosi» (p. 24) lasciano spesso filtrare un sostrato da incubo: «il percorso dei lividi» (p. 80), «i cadaveri scorrenti» (p. 87), gli «inquilini-aguzzini» (p. 107). Il «buco nero del consistere» (p. 24) e il «verbiloquio contemporaneo» (p. 59), all’altezza degli anni Settanta e dei primi Ottanta, sono aggirati dalla voce poetante non solo in senso linguistico, facendo ricorso alla costante «necessità del lapsus scappatoia» (p. 47) ma anche in senso psicosociale e antropologico: recuperando à rebours l’infanzia e permettendo l’accesso nei versi di una «paterna mente» o «paterna speme» (p. 59 e 61), ci si misura con gli anni Cinquanta e con il “miracolo” italiano. L’approdo interdialogico del viaggio mentale, ancora intramurale, delle prime due raccolte (i versi scritti dal 1976 al 1989) si configura in due sensi: 1) un intreccio di voci cantilenanti, «puerili e ritrose», sussurri di spettri infantili, di fanciulle in fiore, filastrocche ipnotiche, avvertimenti onirici, capaci comunque di decentrare l’io («regine reginelle quanti pegni mi darete / per restare nel castello?» p. 165; «siamo noi, le annegate, ci riconoscete?» p. 168) 2) una rappresentazione plastica e aneddotica di volti desueti e stranianti, micronarrazioni del primo transito nella modernizzazione (in tal senso, ha forte valore contestualizzante una data precisa «era il cinquantasei», p. 175): gli ultimi vecchi di quell’anni luccicanti guardavano le prime televisioni facevano l’occhietto all’annunciatrice di nascosto le tiravano baci dicevano sì con la testa ciuffuta al balenio di denti, della scollatura… (p. 182).
Questi vecchi davanti ai primi video del miracolo, del tutto incapaci di distinguere tra realtà e finzione, sedotti dall’annunciatrice tv, sono i primi veri “migranti” della poesia di De Signoribus: esposti alla primitiva irradiazione mediatica, vergini e ingenui davanti alla colonizzazione, pur senza muoversi da una casa perduta, attraversano la
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frontiera tra Italia arcaica e boom economico come chi arrivi dall’India o dal Maghreb nel cuore di una capitale dell’Europa vittoriana. 3. In Istmi e chiuse (1996) lo scenario di colpo da domestico diviene globale. Già nel titolo tuttavia si conserva e si rafforza l’idea del transito mediante la metafora dell’istmo, la sottile striscia che collega due terre. Sono versi scritti a fine secolo, durante le prime guerre del mondo globalizzato: il Golfo, la Bosnia, la Somalia, la prima Intifada. La prima poesia, dal titolo da, verso è dedicata al moto dall’io al tu, con allusione a una resurrezione diversa da quella evangelica: «io mi muovo sulle mie radici / e sono e vengo a te senza che mi dici / “àlzati”» (p. 221). La situazione iniziale è quella di una voce «mutante», chiusa in un «fortino» (p. 230) attorno cui si distende un’immensa superficie orrenda e desolata («non ha orizzonte la terra dei dintorni», p. 229). Il soggetto poetante parla di sé in terza persona: ha cambiato pelle per sopportarsi, s’è ristretto prudente nel fortino e non apre, smiccia dallo spioncino la sghemba orrenda faccia del mondo (p. 230)
La sezione Belliche di Istmi e chiuse è insieme un’alta, rara invettiva rivolta contro la chirurgia militare del Nuovo Ordine Mondiale e una prefigurazione utopica di redenzione. Il vanto della «civile fortezza occidentale» (p. 241) è il suo «luminìo campale» (p. 246), sono i suoi «cupi gladiatori», i «portatori d’orpelli / lampade fuochi, faville, appelli…» (p. 242). Il cielo «è trapuntato / dallo sguardo fulminato dei bambini…» (p. 245) eppure «esiste» e «cerca i suoi fratelli» una «luce inerme, irredenta luce / che bruci nel mondo inospitale» (p. 246). A un certo punto la clausura ha termine e l’interno fortificato si apre e si trasforma: subentrano «pellegrini» e Spostamenti (p. 251). Per il testimone chiuso nel fortino, la possibilità di rimettersi in viaggio è garantita da un testo in prosa, o semiprosa, inserito nel corpo della raccolta dal titolo eloquente: trapasso di stagione. Ciò che era sembrato a lungo una fortezza, si rivela un piccolo cimitero di campagna, con un’esile cinta muraria. Persa ogni traccia delle porte Scee, un
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cancello aperto lascia allo sguardo una spoglia sequenza di larari. Tutti i pellegrini, che hanno in comune almeno la pietà, sono saliti fin lì in silenzio e ora stanno indecisi tra il dentro e il fuori. (p. 249)
Delle porte fortificate, delle possenti mura troiane del fortino si è persa ogni traccia: ora il luogo è invece un esile cimitero di campagna permeabile a tutti i pellegrini che vi giungono e che hanno in comune la pietà. Come svela la nota d’autore dedicando questo testo a Giovina e Paolo Volponi, lo scenario è quello appenninico di San Cipriano, con il suo mare di colline: in cui sono sepolti Volponi e il figlio Roberto. La cerimonia funebre per il grande poeta-scrittore di Corporale sembra rimettere in gioco allegoricamente l’esperienza plurale e corale, pur dentro l’orrore storico, e il dialogo dei vivi con i morti. Il soggetto poetante può in tal modo alzare lo sguardo, non limitarsi a smicciare il mondo da uno spioncino, parlare di sé in seconda persona, chiamandosi da fuori, mimando una situazione dialogica: alzi lo sguardo oltre il quieto Adriatico e ti investe a centrocampo il camion che si riempie d’umani sacchi issati tirati sull’asfalto e sopra i sassi le facce come palle rimbalzanti spiccàti senza incanti dai monatti… (p. 285)
La visione complessiva restituisce allo sguardo la duplice immagine della guerra e dell’esodo. Giunta alle «stazioni terminali del novecento» (p. 284), «secolo dei secoli» (p. 286), «l’età dei lumi misura le diottrie / e si stropiccia gli occhi» (p. 292) mentre, oltre l’Adriatico, si radono al suolo le città e si praticano le pulizie etniche. L’arrivo sulle nostre piazze dei popoli in fuga dalle guerre e dalle nuove miserie, anziché tradursi nella vulgata maledizione razziale («ego te male dico extra vagante / spèculo ambulante de’ mei òculi», p. 297) è salutato dallo scriba con un’invocazione che è più forte della pietà: è la gioia dello spossessamento, virtù creaturale e sacrificale, come in Francesco d’Assisi. tocca terra, popolo della nave! il timbro è una chiave che stampo su di me… oh acqua, sora acqua, dissolvici in te! (p. 303)
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L’acqua, e segnatamente quella adriatica, da Istmi e chiuse in poi diviene parte integrante del sistema simbolico di De Signoribus: la costa, la secca, la riva, la laguna. Del resto l’istmo prevede un transito tra le acque: grazie all’evocazione del quale, la sezione Voci e figure istmiche apre i versi alla concreta presenza dei migranti. Innanzitutto nella poesia racconto (p. 307) è «l’uomo del battello arenato» a svelare lo statuto plurale della lingua poetica di De Signoribus: comunque parlò – la tua voce è plurale ti anima un piccolo popolo di turbati e innocenti che da soli arrivano alla tua casa o da te cercati con te l’attraversano… (p. 307)
Nella successiva arietta (p. 311), due distici mimano lapidariamente l’avviso posto sulla porta infernale quale condizione comune a chi giunge migrando alle soglie della cittadella occidentale: chi verso qui ripara nel punto più tortuoso e stretto vede il lampo insieme alla lampara e ascolta il grido dell’uno e l’altro ghetto (p. 311)
La lampara adriatica può farsi lampo che, insieme al grido, evoca le armi da fuoco. La traversata nel punto più stretto, analogamente, può concludersi in un ghetto. L’io poetante stesso, essendo plurale, s’identifica in virtù di ripetuti traumi e incubi, in una condizione extra vagante, nomade e angosciosamente sradicata: Come un custode dell’acqua marina mi giro in questa grotta irritrovata dove padrona è l’epoca intestina… un labirinto in cui non basta il filo del verso che per le curve va e la secca sente della saliva alla fine sgomenta della riva… (p. 313)
In forza di questa pluralità della parola, la fragilità impotente dell’esperienza si rovescia in virtù agonistica e il poeta, lo scriba, di-
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viene definitivamente «l’atleta» (p. 333). Può dunque dichiarare, in un decalogo o Memorandum, i propri alti intenti: non cercare «la carta smarrita / ma un varco solidale / un’altra cura della ferita» (p. 339). Non «abbrividire», «ma con la mente che vuole / immaginare un agire / e rema con forza / e a ogni alito o mossa / accosta e sguarda» (p. 340). Il «punto di raduno» per i «non ancora devastati» (p. 342) è concepito come «tratto conviviale» (p. 345), casa comune e luogo di fraternità, nel contesto fisico e psichico delle nuove migrazioni internazionali: dove vegliano assorti inquilini forse sopravvissuti ai sacri macelli o fuoriusciti da territori non loro… o i proiettati dagli stessi vedenti: i se stessi anche di là fratelli incontro ai riemergenti della sera (p. 344)
4. Anche Principio del giorno (1990-1999) esibisce in esergo la condizione del viaggio incompiuto, del partire-ripartire, che secondo un’antica figura, analogizza il moto della scrittura al peregrinare doloroso, la pagina al territorio devastato (le «righe» diventano infatti «roghi e rampe», p. 351). Il rischio del nulla che assedia il foglio è scongiurato se il nulla diviene «culla d’un viaggio» (p. 351), «fine degno» (p. 379). Una volta chiarito il compito dello scriba («il cavo della mano / che serbi per l’umano / la traccia dell’insieme», p. 398), sul panorama mentale e reale può anche salire, senza più generare terrore, «l’alta / altissima marea» (p. 351). Centrale in Principio del giorno è la sezione Confidenze con l’estraneo, rovesciamento del noto monito famigliare rivolto ai bambini di «non dare confidenze agli estranei». La condizione del poeta qui è quella di chi «alla sua pelle / sta come un senzacasa…» (p. 407) e la sua «mente è un’isola che vive / anche persa nelle estreme rive» (p. 422). In tal modo si svela l’intelaiatura corporea del nesso metaforico tra il viaggio attraverso le mura di una casa perduta e il viaggio tra i mari e i continenti: a fare da mediatore è il fatto che il corpo stesso dello scriba è una casa perduta e la sua mente un’isola. Il corpo e il mondo sono del tutto permeabili e non separati. Facendo riferimento al salmo 131, chi scrive può infatti dichiarare «mai vera casa avrò / ne troverò mai sonno / finché non avrà sede / ogni terreno popolo» (p. 423).
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La voce del popolo che non ha sede, per eccellenza, nella nostra contemporaneità è quella arabo-palestinese. In questa sezione è presente una meravigliosa invocazione araba, inseguita e minacciata da allegorici «cani di razza squilibrati da una dieta verbale»: – fi l-àlam, litàsma’, yujad sàwtì àydan – è il suono che oscuro si condensa scalibrando nell’aria marginale il consueto oratorio della sera…
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a quel detto protendo la coscienza dell’ascolto e ne aspetto il rintuono nella noce del collo… con la scienza del suo intraducibile dono… voce inseguita da cani di razza squilibrati per anni da una dieta verbale, fatta di «su, dai azzanna la stazza intrusa del non familiare!» (p. 425)
Il primo verso in arabo è tradotto dall’autore in nota: «nel mondo, ascolta, c’è anche la mia voce». Al suono-dono di questo monito planetario, che inizia come l’ebraico Shemà posto da Primo Levi in esergo a Se questo è un uomo, il poeta «protende la coscienza». Ma è proprio quell’appello o «traccia dell’insieme» a costituire l’obiettivo primo della violenza razzista, alimentata dalla «dieta verbale» dei media. Lo scriba ne è perfettamente consapevole e, ciò nonostante, pensa fissamente a una «svolta vitale» (p. 432), al un’«utopia albale» (p. 431), intesa in primo luogo come «uscita dal sé»: […] mentre il cielo allarga la sua voragine e dei fumi dei popoli s’infuma, da un altro greto o piccola valle o cruna da te uscendo per guardare te (p. 431)
Guardandosi, l’io poetante può continuare a parlare a sé in seconda persona, rivolgendosi alla sua stessa «ombra sottopelle» (p. 467), implorandola di condurlo «fuori da questo assordante silenzio» (p. 467), o può rappresentarsi in terza persona, trasfigurandosi in altro, disponendosi all’altro, a una convivenza:
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egli ammette: non giungo mai in un posto, parto, vedo aprirsi la campagna o il mare, vedo le case farsi più fitte e alte, scendo in una più vasta stazione, guardo intorno, frazione dopo frazione cerco solo il volto, qualcuno mi viene incontro o mi chiama: sono salvo… sono giunto da lui, comincio a vedere il resto, a conviverlo… (p. 469)
Destinatari di questo messaggio e alto compito di convivenza sono i conversi della successiva Ronda (1999-2004): l’immagine di vita monacale (i conversi sono i laici che si prestano ai lavori più umili del monastero, oppure i convertiti a un filo sottile di coscienza e vasta pietà) oppone però, ancora una volta, come nella situazione di partenza, un fuori a un dentro. In luogo del fortino ora sembra esserci un recinto conventuale. Fuori, i popoli sotto il fuoco (p. 500), un mondo di guerre e operazioni di polizia internazionali: «i duci inventano la guerra / che slampa sconcia snulla» (p. 501) e i corpi «correnti da un macello a un asilo» (p. 500). Dentro: un avamposto di «larve stordite» (p. 513). Oltre il rifugio, la Promessa è ancora quella del transito comune: «ti cammino accanto, ci sarò / quando mi perderai di vista» (p. 486). 5. Il romanzo poetico di De Signoribus trova un approdo utopico nella prospettiva d’intesa, di conflitto e di dialogo. Una così alta capacità di proiezione futura e di finalismo trova il suo punto archimedico nella inattuale dimensione sovraindividuale e civile di questi versi. Principio del giorno termina con una figura di ricostruzione: «forse s’assesta all’ultima stagione / il moto della terra inconsolata // quando una calma prima dell’agone / sarà nell’uomo dopo il sonno amaro // si chiederà dell’incubo sognato /se davvero a noi è appartenuto // e forte di quel peso e illuminato //al raggio poserà la nuova pietra» (p. 476). Da lì riprende Memoria del mondo chiuso, una plaquette dedicata ai «popoli inermi e spaventati che si ritrovano a subire le devastanti guerre delle cosiddette superpotenze secondo il costume dei tempi»2. Il tono di queste filastrocche o canzonette po2 Eugenio De Signoribus, Memoria del chiuso mondo, con una nota di A. Cavalletti, Quodlibet, Macerata 2002.
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litiche simula ilarità e contrappunto: solo così è permesso mettere in scena, in versi, l’orrore contemporaneo (il battello carico di profughi albanesi speronato dalla corvetta italiana, i fatti di Genova del 2001, la combustione del «tribale mugiaidino / sotto l’occhio consensuale / del civile occidentale», p. 24). Solo così, specie nella triade «foucaultiana» traversare, punire, occupare, (pp. 35-37) l’irrisione discorsiva, salutare, dei «popolini così cristiani, così liberali», «padroni e padroncini di rampicanti società» (p. 36) può oltrepassare finalmente la barriera dell’odierna censura (quella ultraliberista, del migliore dei modi possibili). In particolare si può considerare traversare, la poesia di De Signoribus dedicata alla strage avvenuta nel Canale d’Otranto il 28 marzo 1997, come il punto d’arrivo del suo lungo “racconto” della migrazione. Il testo è incentrato su un fatto di “cronaca” oggi dimenticato: in un clima pre-elettorale di intolleranza e di propaganda razzista, la corvetta Sibilla della Marina Militare italiana speronò la carretta del mare Kater I Rades in acque internazionali determinando la morte di un centinaio di civili albanesi, in gran parte donne e bambini. Nei versi di De Signoribus, l’Adriatico si configura come una frontiera che divide gli Aldiquà dagli Aldilà, i civili aguzzini, figli pingui e smemorati di migranti, dai tristi pellegrini, dagli occhi bambini, acciaiati e crocefissi dall’incrociatore. traversare una navetta-carretta pullulante di famigliole in fuga dalla fame, strabiccola verso il paese (il Paese) lucciolante oltre il mare…: è, questo, un luogo abitato da popolini così cristiani, così liberali, da temere quei tristi pellegrini come i ladri delle loro botteghe, come gli assassini dei loro figli… Sono essi, gli aldiquà, in gran parte discendenti da tribù di poverini che in numero di milioni migrarono nel vasto mondo…: chi rimanendo inermi o solerti cittadini, chi diventando padroni e padroncini, chi cancri di quelle rampicanti società… Ora, queste smemorate comunità alzano le fronti arrugate, fanno fronte comune, invocano una difesa… Esemplare le ascolta l’incrociatore della fulgente potenza che, arditamente, affianca il guscio di noce e gli acciaia la via…
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Il gorgo che indifferente lo inghiotte si anima dei cento occhi bambini che, calando nel nero, scrutano i molti civili aguzzini, lassù. (In Memoria del chiuso mondo, 2002)
Mediante il ricorso alla microstoria e all’apologo, De Signoribus sembra dirci che ogni ricognizione poetica è vana in termini puramente soggettivi. La storia dell’io e delle sue ulcerazioni dall’infanzia all’età adulta e quella della perdita della familiarità del linguaggio poetico, devono essere perseguite lucidamente, fra trasalimenti e apparizioni, senza illusioni ricompositive. Come si è visto, l’io poetico nei suoi versi non ha infatti una vera consistenza e la voce diviene plurale, ingloba la dialogicità di più enunciatori, secondo una tipologia teatrale e diegetica. De Signoribus racchiude insomma in una gabbia lirica un’intenzione eminentemente narrativa e argomentativa (non casuale a tale proposito è un titolo come «monologo interiore»). Ma tale gabbia (casa o fortezza o convento) tende ad aprirsi in continuazione all’altro, alla pluralità delle voci e al bisogno di narrazione. Le «voci dai muri» attraversano infatti un “io-residenza” fragile fino all’inconsistenza, trapassato da altri enunciati. La combustione della fortezza della propria identità, lungi da proporsi come doloroso ripiegamento, conduce a parlare eroicamente fuori dal perimetro dell’io poetante, in nome di altre ragioni umane. La labilità dell’iocasa anziché gelosamente patita è superbamente invocata come rimedio azzerante, presupposto di qualunque ricomposizione («e ora salga pure l’alta / altissima marea»; «nero signore, fammi scomparire», «che la notte impietosa attraversi i labili muri! / che la veglia sia espiazione e rivolta»): e una tale supplica o grido di azzeramento è d’intensità pari a quello dell’ultimo Fortini («Grande fosforo imperiale, fanne cenere»). Con un salmodiare alto e nobile, o con un «aggiornato lapidario», possono così farsi strada nuove significazione attraverso le attuali tendenze disgreganti: come le parole dell’“estraneo” a cui si deve “confidenza”: «fi l-àlam, li-tàsma’, yùjad sàwtì àydan». La luce dell’alba diviene figura generale, speranza di ricomposizione. Il blochiano «principio-speranza», messo al bando nello scenario di fine secolo, sopravvive come «utopia albale». I portatori di questa luce
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inerme divengono i «senzacasa» (p. 407), i migranti del mondo globalizzato che, spinti dalla disperazione, avanzano sui mari e varcano le frontiere: per loro, «popolo futuro», «non è lontana la verità, anche se annotta». Lo «scriba» può non abdicare alla propria funzione di mediatore, alla ricerca di una «parola salva» o «risanata» perché la voce poetica accetta e anzi invoca la propria frammentazione e si allarga a nuove dimensioni plurivoche e solidali. Fra neologismi, inediti accostamenti sonori e slittamenti di senso, nelle poesie più concettuali ed epigrammatiche si fa strada fra i distici il moltiplicarsi del rimema -ale alternato con -are, omaggio al Leopardi del Canto notturno e, soprattutto, alla rima tematica ossessiva di Paolo Volponi («equatore corporale», p. 386, «certezza ancestrale», p. 481; «vita marginale», p. 398, «mattone mentale», p. 387; «gara orale» e «acqua succursale», p. 402; «aria marginale», p. 425; «utopia albale», p. 431; «tossica materia cerebrale», p. 432, «acqua infernale», p. 501). Del moralista De Signoribus ha dunque l’esigenza di reintegrazione, mai risolvibile entro la dimensione della pura soggettività: al centro pone infatti non tanto la fragilità del soggetto quanto la vulnerabilità inerme di nuove situazioni intersoggettive e forse, più ancora, oltre la lingua, la certezza della consistenza del mondo, dell’esistenza materiale, unico fondamento, come scrisse Simone Weil, di ogni morale: A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione. […] Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: «Qual è dunque il tuo tormento?». E non gli è dato nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceverà la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui. È questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono3.
3
Lettera di Simone Weil a Joë Bousquet, 13 aprile 1942.
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xv. L’asimmetria e l’attrazione. Pittura e chimica dei sentimenti ne L’amore normale di Alessandra Sarchi
1. L’amore normale1 di Alessandra Sarchi è un romanzo che sa guardare, goethianamente, «dietro il sipario» dei sentimenti, spingendosi con coraggio «oltre l’orlo». La vicenda è bipartita: la prima parte consta di 22 capitoletti, la seconda di 17. Ogni capitolo reca nel titolo il nome di uno dei personaggi a cui vien data voce (la coppia principale, Laura e Davide, le figlie Violetta e Bettina, Mia, Fabrizio, Letizia, Giovanna) e solo per tre volte le voci narranti s’incrociano nell’ambito di un medesimo capitolo. È la storia della chimica dell’attrazione, delle tenerezze e delle crudeltà automatiche nelle relazioni amorose: Laura e Davide, sposati, s’innamorano quasi contemporaneamente l’una di Fabrizio, l’altro di Mia. Il transito dalla prima alla seconda parte coincide con la scoperta del tradimento e con il passaggio dalla città a un luogo di vacanza, in cui, con figli e amanti, Laura sfida Davide al gioco dello smascheramento e della verità. Terreno d’elezione del novel moderno, da Laclos a Goethe a Stendhal, l’esplorazione dei sentimenti sembra essere oggi delegata ai tritacarne del “rosa” seriale nella fiction e della saggistica “morbida” della nonfiction. Costellazione necessaria dell’interiorità e primo movens del bisogno di narrazione e simbolizzazione, a guardare al panorama del nostro mercato delle lettere, l’amore sembra cioè uscito dall’orbita della letteratura “che conta”. La saggistica di successo ci avverte dal canto suo, con un pizzico di millenarismo, che nell’ipermodernità l’esperienza d’amore, usurata, è divenuta “liquida” o soggiacente a un irrefrenabile desiderio di intercambiabilità, mentre milioni di donne e uomini cercano identificazioni del loro inesauribi1
Alessandra Sarchi, L’amore normale, Einaudi, Torino 2014.
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le e “solido” esporsi all’Altro nelle liale del nuovo millennio: prima Tamaro, poi Moccia e Volo (solo per citare qualche nome e restare in Italia). Del resto, già Eco nelle Postille del 1983 sentenziava: «Penso all’atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle “ti amo disperatamente”, perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c’è una soluzione. Potrà dire: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente”». Alessandra Sarchi riesce invece, superbamente, nell’opera di disincaglio del tema dalle strettoie recenti, restituendoci controtempo, nella sua terribile profondità, l’esperienza narrativa dell’amore. Per dar conto della grandezza del suo libro occorre di certo saper sortire sia dall’Italia che da ciò che oggi si dice comunemente “letteratura”. Non tanto per esterofilia o rovesciato provincialismo, quanto perché i modelli di questo romanzo non sono italocentrici e nemmeno “letterariocentrici”, quanto piuttosto visivi e biochimici. 2. Le forme linguistiche de L’amore normale sono debitrici di una mutevole gamma di percezioni visive e dell’influsso di alcune opere filmiche e figurative. A partire dal titolo, desunto da un dialogo de Il dramma della gelosia, il film di Ettore Scola (ripreso a p. 18), tutto il testo è strutturalmente ecfrastico. Le due brevi prose-soglia, poste in apertura delle due parti (le sole porzioni testuali in cui la voce è del narratore anziché dei personaggi), ad esempio, utilizzano a piene mani, come sipari aperti, rispettivamente, sulla sequenza milanese e su quella mediterranea, il lessico visivo, percettivo e coloristico: Il nero della notte stava sbiancando, senza essere ancora scaldato dalla luce del sole. I muri delle case e i corpi dei viventi, in attesa del passaggio, erano grigi. Un grigio che in pochi vedono ma che avvolge tutti, a ogni alba del mondo. (p. 7) Da fuori non si vedeva niente, se non la solita facciata liscia che terminava con un muro imbiancato in una via che aveva anche altri colori sulle case, alcune di un azzurro ionico e altre di un verde tenue. (p. 169)
Scolpiti e fissati dai colori, i protagonisti (proprio come il nano, l’oca, la scimmia e l’elefante del Pianeta di Volponi) sono colti nel sonno, tra “i viventi”, in un contesto planetario che irrevocabilmente
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risponde alla cinetica del cosmo. La scrittura di Alessandra Sarchi (come attestano l’incipit del precedente Violazione e alcuni dei racconti raccolti in Segni sottili e clandestini) è incentrata sulla percezione e non limita i suoi effetti alla sfera ottica: per la sua forza performativa, investe viceversa l’intera esperienza emotiva e corporea. I piedi di Laura fuori dalle lenzuola sono «bianchi e infantili» (p. 21), Mia in biblioteca avverte nel corpo «schegge incandescenti» (p. 29), Violetta, la cui gravidanza è decretata dalle «due strisce rosa parallele» del test, vede allo specchio in fondo ai propri occhi «fluttuare un liquido, come se la cornea fosse sdoppiata» (p. 253). È stato Merleau-Ponty a risemantizzare in senso iconico gli elementi linguistici tratti da Saussure utilizzando la pittura di Cézanne come banco di prova per il riuso della linguistica ai fini di una teoria dell’immagine2. In tal modo, l’apparente mancanza di significato del singolo elemento dell’articolazione linguistica si trasforma nella polisemia provvisoriamente significante che l’immagine offre al sensorio dell’interprete: ad esempio, il singolo frammento colorato in una tela formula, per il movimento dello sguardo in situazione, un senso cangiante e provvisorio, cooperando con gli altri frammenti. Una simile fenomenologia della percezione è attiva in L’amore normale che utilizza i dispositivi visivi desunti da almeno tre dipinti: cooperano con l’insieme testuale Penelope e Ulisse di Francesco Primaticcio nella prima parte, la Joie de vivre di Matisse nella seconda e alcuni graffiti neolitici nell’epilogo. Davide osserva Laura contemplare assorta il dipinto di Primaticcio in cui Penelope, dopo l’amore, tace al suo sposo le prove subite durante la sua assenza e si sente «dentro quella scena, sul bordo del loro letto» (p. 132) coinvolta in quel quadro da lei definito «bellissimo e terribile» (p. 134) per ciò che non dice ma sottende: i tradimenti, la solitudine, il dolore. In tal modo, la percezione che Davide ha del quadro «rivela, come una mise en abyme, la vera storia che Sarchi ci sta raccontando»3. Analogamente Joie de vivre di Matisse, il dipinto presente nella seconda parte che Giovanna, la proprietaria della casa al mare dove si trasfe2 Maurice Merleau-Ponty, Le langage indirect et les voix du silence in «Les temps modernes», 80-81, 1952, poi in Signes (Gallimard, NRF, Parigi 1960). La traduzione italiana è in Segni, Il Saggiatore, Milano 1967. 3 Maria Rizzarelli, in http://www.arabeschi.it/alessandra-sarchi-lamore-normale-/, 2014.
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riscono i protagonisti, tenta di riprodurre in una parete della propria camera, pone un insieme di domande non risolte sull’utopia della nudità comunitaria e gioiosa. Giovanna immagina che siano Laura, Davide, Mia, Fabrizio, Violetta e Guido nudi e danzanti come dèi, ma il suo sguardo si posa sulla donna senza testa in primo piano, con un cencio bianco tra le gambe, che assomiglia «a un piccolo fiume»:
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Dov’era finita la testa della donna? Ci ho lavorato con tempere e gessetti per le lumeggiature, da vicino si vede soprattutto quella macchia traslucida che la donna ha sopra il sesso. Mi sono sempre domandata cosa fosse. (p. 214)
Infine, tra le sagome dell’era glaciale sui muri macchiati dalle muffe e dalle infiltrazioni, Laura vede Violetta guardare incantata, tra cavalli e cervi, una donna col ventre gonfio: è incinta come lei. La verità, che fa passare la paura a Violetta, è lì sepolta da diecimila anni, e fa dire a Laura ciò che di solito i genitori non dicono «per attutire l’impatto o la durezza»: L’amore deve averli sorpresi come una forza che non riuscivano a comandare. Dopo un po’ si saranno dati dei divieti, per limitare i danni. Però a noi è rimasta la traccia del conflitto, l’asimmetria che crea l’attrazione, quello sbilanciamento che ti tira fuori da te per desiderare più di tutti l’altro, ciò che è diverso. (p. 286)
3. Grazie al punto di vista e alla voce di Davide, che fa il medico, il filtro cellulare della biochimica e quello animale, delle scienze naturali, s’insinuano nel testo come una bussola, sono utilizzati come reagente per narrare l’automatismo delle pulsioni affettive e sono al centro di un’intera rete di isotopie. L’incontro di Laura con Fabrizio è intimamente connesso alla ferita per l’intervento al seno e non solo i loro primi episodi «da poema cortese» avvengono in «vestaglia e ciabatte», sotto un cedro ospedaliero (p. 18), ma la scoperta di quella cicatrice è ciò che induce Mia a fuggire dal luogo di vacanza (p. 244). Davide, davanti al bancone del prestito bibliotecario, vorrebbe afferrare il polso e il collo di Mia guidato da un profumo: Ferormoni e odori, così le cellule comunicano più in fretta. L’urgenza della vita. […] Le cellule arrivate a un certo punto smettono di moltiplicarsi. Gli organismi complessi pure. Negli individui evoluti non smette il desiderio per la vita o il desiderio, semplicemente. (p. 27)
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L’incontro con Mia, per Davide, è quello con un antigene che anziché disporre il sistema immunitario alla difesa lo attrezza al contagio (p. 88); il papà di Laura a dieci anni ne determina il destino rivelandole ufficialmente, davanti all’enciclopedia Conoscere Fabbri editore, che oltre a coinvolgere il sistema riproduttivo dei mammiferi l’amore procura «un piacere intenso» (p. 104); la scoperta della gravidanza è la stessa, per Violetta, del pellegrinaggio automatico, geometrico e cieco di una fila di formiche negli interstizi delle ceramiche (p. 251); il legame tra genitori e figli, nel sonno, è determinato per contatto e per via ormonale: Quando Violetta e Bettina erano molto piccole mi sdraiavo spesso con loro, leggevamo una favola prima di dormire, oppure parlavamo. All’inizio stavano vicine a me. Mi toccavano un braccio o una gamba, poi quando il sonno arrivava si staccavano, ma a quel punto era difficile per me andarmene dal letto, anche se avevo parecchie cose da fare. Mi aggrappavo a una specie di beatitudine semplice, molto semplice. Ero convinta che emanassero una sostanza magica, che ti fa innamorare e ti tiene attaccata. Davide una volta mi ha spiegato che tutti i cuccioli, e in specie i mammiferi, rilasciano ormoni che colpiscono gli organi olfattivi e inducono pazienza, accudimento, attaccamento. (p. 231)
Sarchi è scrittrice della contaminazione fra le due culture, come Primo Levi. E il fatto che gli umani siano rappresentati come mammiferi chimicamente determinati e la vita come «groviglio di sbagli e caso» (p. 115) non impedisce sguardi assai penetranti sui rapporti sociali: in particolare, è la biblioteca di Mia il luogo delle gerarchie, del lavoro e del precariato. Lì si aprono finestre sul mondo: gruppetti di emarginati «poveri e grassissimi» vi si rifugiano incerti per scaldarsi davanti ai distributori di caffé, e i ritratti della Signora dirigente «bignè avariato» (p. 82) e di Xadia, la ragazza immigrata, sono piccoli squarci “realtipici” sulla contemporaneità (pp. 74-75). 4. La rete dei rimandi e dei modelli letterari de L’amore normale, in larga parte non è italiana. Innanzitutto il rinvio a Coppie di John Updike è confermato, indirettamente, dalla stessa immagine di copertina, Giovane coppia (1959), una splendida foto in bianco e nero del fotografo tedesco Herbert List che ornava la copertina della prima edizione, originale e sessantottesca, di Couples. I modelli della tecnica narrativa plurivocale e la proliferazione dei punti di vista,
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letteratura come storiografia?
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qui utilizzati esemplarmente, sono anglosassoni (Alice Munro che nei suoi racconti non ha paura di raccontare dinamiche di relazione e sentimenti) o israeliani (i grandi romanzi corali di Abram Yehoshua). In Italia, nel Novecento, solo Elsa Morante nel terribile e terminale Aracoeli, ha oltrepassato con coraggio «il bordo» nella rappresentazione spietata delle ragioni dell’amore: Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: «sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e questo odore. Vi piaccio? mi volete?» Da Napoleone, a Lenin e a Stalin, all’ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane randagio, questa in realtà è l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi: «vi paio bello? io che a lei parevo il più bello?» […] Nessuno può sfuggire alla condanna della nascita: che in un tempo solo ti strappa dall’utero e ti incolla alla tetta. […] Anche le bestie randagie chiedono, più ancora del cibo, le carezze: viziati essi pure dalla madre che li leccava, cuccioli, e di giorno e di notte, e di sotto e di sopra. Per la sua tetta e la sua lingua, non si richiedevano titoli. Né servivano addobbi, per piacere a lei4.
Walter Siti, il cui secondo romanzo della trilogia ha per titolo Un dolore normale, sembra l’autore italiano contemporaneo più consapevole dello stato attuale dei sentimenti e della loro rappresentazione letteraria: In questi vent’anni la cultura umanistica è completamente crollata e noi che insegnavamo alle facoltà di lettere non ce ne siamo occupati. E penso che questa sia stata la colpa più grave della nostra generazione. Io credo che fare gli storici dei sentimenti, cioè capire che cosa ne è stato dei sentimenti in questi anni televisivi, mediatici, sia un lavoro fondamentale. Che ne è stato dell’amore? Capirlo diventa un lavoro politico. Ed è un lavoro che si può fare soltanto con il romanzo5.
Il presupposto della sua scrittura, tuttavia, è l’avvenuta mutazione, il mondo dei surrogati, delle protesi, dei reality e della rete che avrebbe eroso e modificato in profondità la sfera dell’esperienza e della corporeità dei sentimenti. L’amore normale sceglie invece l’osservazione quotidiana dei rapporti affettivi, della vita di relazione delle famiglie e delle persone 4 Elsa Morante, Aracoeli, ora in Id., Opere, a cura di Carlo Cecchi e Cesare Garboli, Mondadori, Milano 1990, vol. II. 5 Peppe Fiore, Intervista a Walter Siti, Minima & moralia (blog), 29 luglio 2009.
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xv. l’asimmetria e l’attrazione
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“comuni” e privilegia le costanti sulle varianti. Anche nell’era digitale, nelle relazioni amorose, le determinazioni neuronali e ormonali, la carica eversiva dell’innamoramento e la cornice costrittiva dell’istituzione matrimoniale continuano a collidere tra di loro, tragicamente. L’eros, la malattia e la morte si danno ancora come costanti rappresentabili dell’esperienza drammatica ed effimera degli umani. Nel romanzo di Sarchi, ciò che di “terribile” si rivela nel dipinto di Primaticcio abita, insomma, soprattutto ciò che erroneamente pensiamo siano i “luoghi comuni” sui sentimenti: e questi “luoghi comuni” il romanzo s’incarica di riscattare dalla banalità, immettendoci tutti, come particelle elementari, dentro uno stesso flusso, ineluttabile, segnalato dal ripetersi, all’inizio e alla fine, della locuzione «a ogni alba del mondo» (p. 7). Avevano sviluppato la capacità di contemplarsi, di riconoscere come l’amore e il desiderio siano forze che ci fanno sentire unici. Ma non può durare tanta umana gloria. Presto saranno tornati a preoccuparsi non del perché sono, ma cosa possono essere nelle vite limitate, nei giorni finiti che li aspettano, che ci aspettano a ogni alba del mondo. (p. 217)
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Nota ai testi
Dei 15 saggi qui raccolti due sono ancora inediti (i, xi), gli altri (qui proposti con lievi modifiche) sono usciti dal 2001 al 2014 in varie sedi: il ii in Il demone dell’anticipazione. Cultura, letteratura, editoria in Elio Vittorini (a cura di E. Esposito, Il Saggiatore, Milano 2009); il iii in «Moderna» (X, 2008); il iv in «il Verri» (46, 2011); il v in Per Romano Luperini (a cura di P. Cataldi, Palumbo, Palermo 2010); il vi in La città e l’esperienza del moderno (a cura di M. Barenghi, G. Langella, G. Turchetta, ETS, Pisa 2012); il vii in Letteratura e denaro. Ideologie metafore rappresentazioni (a cura di A. Barbieri e E. Gregori, Esedra, Padova 2014); l’viii in Dieci inverni senza Fortini (a cura di L. Lenzini, Quodibet, Macerata 2006); il ix in «Istmi», (9-10, 2001); il x in Omaggio a Luminitza Beiu-Paladi a cura di I. Tcheoff, Stoccolma, Acta Universitatis Stockholmiensis, 2011; il xii in L. Di Ruscio, Cristi polverizzati (Le Lettere, Firenze 2009); il xiii in I dieci libri dell’anno 2008/2009 (a cura di A. Berardinelli, Libri Scheiwiller, Milano 2009); il xiv in «Nuova corrente» (n. 150, 2012); il n. 15 in «Between» (n. 7, maggio 2014).
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Indice dei nomi
Affinati, Eraldo 13, 14, 201-211 Alberti, Rafael 191n Alceo 124 Alighieri, Dante 26, 174, 204 Amalfitano, Paolo 82n, 87 Ambroise, Claude 93n, 169n, 174, 174n Amelio, Gianni 76n Anassagora 68 Anceschi, Luciano 23, 23n Antonello, Pierpaolo 39n Arendt, Hannah 60, 60n, 73 Aristotele 169 Asor Rosa, Alberto 49n Auerbach, Erich 25, 27, 27n, 28, 29, 79, 83, 86, 88 Bachtin, Michail 88 Bacon, Francis (Francesco Bacone) 136n, 143 Bacon, Francis 189 Baker, Stephen 78n Baldini, Anna 207n Banfi, Antonio 23, 23n Barenghi, Mario 16n, 98n, 101n, 232 Baricco, Alessandro 10n, 110n Barilli, Renato 48, 48n, 49 Bassani, Giorgio 35 Baudelaire, Charles 10 Baudrillard, Jean 58, 117, 117n
Bauman, Zygmunt 11, 11n, 71n Bazzocchi, Marco Antonio 26n, 179n Belli, Giuseppe Giochino 150, 193 Bellofiore, Riccardo 62n Belpoliti, Marco 68n, 69n, 95, 95n, 97n, 147n, 150n, 152n Benjamin, Walter 37, 37n Berardinelli, Alfonso 10n, 12n, 24n, 48n, 110n, 168n, 232 Berlusconi, Silvio 198 Berman, Marshall 11n Bertolucci, Bernardo 188n Bertoni, Federico 65n Bettin, Gianfranco 77n, 160n Bettini, Filippo 124n Bianciardi, Luciano 72 Bloch, Ernst 12 Blok, Aleksandr 48 Bocca, Giorgio 135 Bollati, Giulio 10, 10n Bologna, Sergio 71n Bonaviri, Giuseppe 172 Bonicelli, Vittorio 109n, 111, 111n Bonomi, Aldo 71n Bourdieu, Pierre 35, 35n, 50 Bratu Elian, Smaranda 167n Brecht, Bertolt 48, 83, 143, 144, 167 Brémond, Claude 91n Brioschi, Franco 59n, 84n
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Brugnolo, Stefano 84n, 89n, 183n Bruno, Giordano 197 Bucca, Anna 167n Bugliani, Roberto 144n Callimaco 124 Calvino, Italo 9, 10, 19, 42, 44, 45, 45n, 49, 51, 70, 72, 91, 92, 97, 98n, 99, 100, 100n, 101n, 106, 118, 160n Campanella, Tommaso 197 Cappuccio, Eugenio 76n Caprettini, Gian Paolo 91n, 169n Caravaggio (Michelangelo Merisi) 26 Carrol-Abbing, John Patrick 201 Cartesio (René Descartes) 141, 143 Casadei, Alberto 16n, 65n, 208n Cases, Cesare 27, 27n, 29, 50, 96, 96n, 144, 144n, 151n, 161, 161n Cassola, Carlo 35 Castellana, Riccardo 27n, 29n, 39n Castellani, Leonardo 173n Cataldi, Pietro 23n, 103n, 232 Cattabiani, Alfredo 69n Celan, Paul 150 Cervantes, Miguel de 193, 197 Ceserani, Remo 11, 58n, 81n, 82, 82n Cézanne, Paul 227 Citton, Yves 90, 90n Coetzee, John Maxwell 91, 209, 210 Collodi, Carlo 183 Compagnon, Antoine 56n Conrad, Joseph 69 Contini, Gianfranco 22, 27 Cortellessa, Andrea 101n Croce, Benedetto 197 Crotti, Ilaria 109n, 112, 112n, 113n Crovi, Raffaele 48, 49, 49n D’Elia, Gianni 24n D’Angeli, Concetta 104n, 179, 182 Darwin, Charles 68, 97, 150, 163, 202
indice dei nomi
De Angelis, Milo 209 De Federicis, Lidia 15n, 82 De Laude, Silvia 20n, 27n, 34n De Laurentis, Dino 111n De Libero, Libero 173n De Lillo, Don 78n De Martino, Ernesto 188, 188n De Roberto, Federico 187 De Sanctis, Francesco 23, 165 De Signoribus, Eugenio 13, 14, 213224 Debenedetti, Giacomo 28, 42 Deleuze, Gilles 69, 175n Democrito 68, 152, 214 Depaoli, Massimo 50, 50n Devoto, Giacomo 27, 145 Devoto, Giorgio 134 Dewey, John 128 Di Fazio, Angela 179n, 188 Di Girolamo, Costanzo 38n, 59n, 84n Di Ruscio, Luigi 13, 14, 193-199 Dianese, Maurizio 77n Dick, Philip K. 65n Dickinson, Emily 80 Diderot, Denis 90 Döblin, Alfred 9, 52 Domenichelli, Mario 58n Donnarumma, Raffaele 11, 11n Dos Passos, John 80 Dostoevskij, Fëdor 184, 202 Eco, Umberto 47, 226 Einaudi, Giulio 45 Empedocle 158 Engels, Friedrich 11n Enzensberger, Hans Magnus 9, 16, 52 Ernst, Max 102 Esposito, Edoardo 44, 44n, 45n, 232 Fasano, Pino 58n Faulkner, William 80 Fedro 91, 92, 168, 169 Fellini, Federico 29
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indice dei nomi
Fermi, Enrico 165 Fermi, Laura 166 Ferracuti, Angela 76, 76n Ferretti, Gian Carlo 19n, 20, 20n, 21, 21n, 22n, 23, 28n, 33n, 34, 35, 35n, 36n, 38n, 45, 45n, 98n Filippini, Enrico 47, 49, 50 Fiorentino, Franco 87 Florida, Richard 71n Forster, sir Edward Morgan 59, 60 Fortini, Franco 10, 13, 15n, 19, 21n, 23-38, 48, 51, 55, 55n, 63, 63n, 91, 100, 100n, 120, 133-148, 150n, 151n, 153n, 183n, 187n, 188, 203, 206, 210, 210n, 223, 232 Foucault, Michel 60, 69, 88 Francesco d'Assisi, santo 217 Frank, Anna 154 Freud, Sigmund 83, 85, 87, 90, 124, 187, 188, 207 Friedrich, Hugo 48 Frye, Northorp 189n Fusillo, Massimo 59n Gadda, Carlo Emilio 19, 29, 197 Gaeta, Giancarlo 211n Galeno 68 Galilei, Galileo 118, 158 Galvani, Luigi 159 Gasparotto, Lisa 27n Gauguin, Paul 111 Ghelli, Francesco 117n Gibson, William 65n Gide, André 31 Giglioli, Daniele 58n Giovannetti, Paolo 23n, 170n Giudici, Giovanni 25, 49 Giuliani, Alfredo 49 Giunta, Claudio 79n Godelier, Maurice 62n Goethe, Johann Wolfgang 81n, 225 Góngora, Luis 141 Gorz, André 60n
Gragg, William 97, 163 Gramsci, Antonio 23, 197 Grass, Günter 50, 51, 65 Gronda, Giovanna 10n, 53, 53n Guattari, Félix 69 Guevara, Ernesto 141 Guglielmi, Guido 21n, 81n Guiducci, Roberto 32 Hawthorne, Nathaniel 80 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 137n, 197 Heine, Heinrich 152, 152n, 163 Heisenberg, Werner Karl 166, 167 Ho Chi Min 116 Hobbes, Thomas 170 Holton, Gerald 55n Huss, Jan 143 Huayna Cápac 159 Innocenti, Loretta 87 Izzo, Francesco 173n Janello Volponi, Giovina 217, Jansen, Monica 11, 11n Jervis, Giovanni 59n Johnson, Uwe 9, 49, 50, 52 Kafka, Franz 91, 169 Kennedy, Robert 145 King, Martin Luther 145 Kluge, Alexander 9, 52 La Porta, Filippo 76n Laclos, Pierre 225 Lavagetto, Mario 187 Le Goff, J.acques 91n Lenzini, Luca 29n, 137n, 142, 142n, 143, 232 Leonardo da Vinci 64 Leonelli, Giuseppe 49, 49n Leonetti Francesco 9, 19, 21n, 25, 25n, 28, 28n, 29, 29n, 34, 34n, 36, 38, 48-51
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236
Leopardi, Giacomo 25, 96, 103, 130, 168, 204, 224 Leroi-Gourhan, André 67n Levi, Primo 13, 67-70, 76, 91, 92, 95-97, 106, 147, 147n, 149-163, 220, 229 Lévi-Strauss, Claude 70, 185 List, Herbert 229 Lolli, Massimo 76, 76n, 77 Lonardi, Gilberto 153n London, Jack 96, 204 Longhi, Roberto 19, 30 Longo, Oddone 68n Lorenzini, Niva 22n Lovelace, Linda 80 Lucrezio 103, 150, 152, 160 Lukács, György 25, 27, 30, 63, 63n, 64, 64n, 137 Luperini, Romano 11, 12n, 21n, 29n, 37, 58n, 59n, 63n, 66n, 79n, 91n, 124n, 143n, 144, 146, 146n Luzzatto, Sergio 81 Macchia, Giovanni 175n Machado, Antonio 48 Mahfuz, Nagib 210 Majorana, Ettore 165, 166, 167 Majorino, Giancarlo 49 Manganelli, Giorgio 47, 49 Mangoni, Luisa 45n Mann, Golo 9, 52 Mann, Thomas 28 Manzoni, Alessandro 25, 141, 146, 148n, 166 Marcus, Greil 80, 80n Marx, Karl 11n, 57, 60, 61n Masaccio (Giovanni di Mone Cassai) 26 Mastronardi, Lucio 46, 72 Matisse, Henri 227 Matte Blanco, Ignacio 190n Mazzoni, Guido 12n, 26n, 39n, 141, 141n Medici, Caterina 166
indice dei nomi
Meneghello, Luigi 72, 72n, 73n, 75, 195 Mengaldo, Pier Vincenzo 104n, 130, 134, 134n, 135n, 137n, 140, 140n, 141n, 145, 145n, 149n, 151n, 160n, 163n Merleau-Ponty, Maurice 227, 227n Michelstaedter, Carlo 159 Milani, don Lorenzo 202, 203, 206, 211 Milton, John 141-144 Moccia, Federico 226 Moliterni, Fabio 92n, 170n Montaigne, Michel 177 Montale, Eugenio 10n, 109, 110n, 145n, 197 Montesquieu, Charles-Louis 85 Morante, Elsa 13, 14, 91, 92, 100106, 179-191, 230, 230n Moravia, Alberto 51 Moretti, Franco 81, 86, 86n Moro, Aldo 166, 183 Morris, Charles 56 Morrow, Bill 186 Morselli, Guido 189 Motta, Antonio 92n, 168n, 169n, 172n Munro, Alice 230 Muzzioli, Francesco 78n, 123n Naldini, Nico 20n, 31n, 34n, 113, 113n Nava, Giuseppe 27n, 100n, 137n Nove, Aldo 76n Obama, Barack 80 Olivetti, Adriano 120 Omero 81n Onofri, Massimo 92n, 169n Orazio 152 Orlando, Francesco 12, 39n, 63n, 79, 82-90, 120, 120n, 160, 161n, 176n Orwell, George 91, 168
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Ostellino, Piero 135 Ottieri, Ottiero 72 Ottone, Piero 99 Paduano, Guido 103, 103n Pagliarani, Elio 25, 49 Pagnanelli, Remo 141n, 145n, 148, 148n Pampaloni, Geno 135 Panicali, Anna 27n, 46, 46n Panzieri, Raniero 141 Parise, Goffredo 13, 109-118 Parmenide 124 Pascal, Blaise 83 Pascoli, Giovanni 25, 26, 124n Pasero, Nicolò 63n, 89n, 137n Pasolini, Pier Paolo 10, 10n, 13, 14, 19, 20, 20n, 23, 25, 26, 28-38, 51, 75, 76n, 92n, 105, 109-111, 118, 120, 139-140, 165, 168, 168n, 182, 189, 191, 203, 203n, 206, 211, 211n Pautasso, Sergio 44 Pavese, Cesare 197 Pedullà, Gabriele 81 Perrella, Silvio 109n, 111n, 113, 113n, 117 Piero Della Francesca 26 Pirandello, Luigi 71, 187 Pischedda, Bruno 179n, 185n, 188n, 189, 189n Platone 60 Polidoro, Pierluigi 111n Polo, Marco 118 Ponzio, Augusto 56n Porta, Antonio 48, 49 Poussin, Nicolas 138, 141, 142 Primaticcio, Francesco 227, 231 Proust, Marcel 26, 185 Quasimodo, Salvatore 151n, 171 Rabelais, François 90 Raboni, Giovanni 129, 129n, 151, 151n, 152n
237
Raffaeli, Massimo 148n, 154n Rea, Ermanno 76, 76n, 77 Recami, Erasmo 165 Redondi, Raffaella 41n, 42, 45n Revelli, Marco 71n Ricorda, Ricciarda 165n Rigoni Stern, Mario 209 Rimbaud, Arthur 30, 30n, 111 Rinaldi, Antonio 30n Rizzarelli, Maria 227n Robbe-Grillet, Alain 49 Romanò, Angelo 19, 23, 25, 25n, 28n Roncaglia, Aurelio 27 Rosa, Giovanna 179n, 180n Rossanda, Rossana 71n Rosselli, Amelia 49 Rossi-Landi, Ferruccio 56-58 Roth, Philip 65, 65n, 67, 68n, 69, 80 Roversi, Roberto 19, 19n, 20n, 23, 37, 38, 38n Rushdie, Salman 78n Rustioni, Marco 34n Salinari, Carlo 30, 31, 31n, 32 Sanguineti, Edoardo 35-37, 47, 49 Santato, Guido 31n Santarone, Donatello 147, 147n Sanzio, Raffaello 64n Saramago, José 16, 16n Sarchi, Alessandra 13, 14, 225-231. Sarpi, Paolo 197 Sartre, Jean-Paul 31 Saussure, Ferdinand de 56, 227 Scalia, Gianni 19, 25, 27, 28, 29, 30n, 35-37, 169n, 170, 170n Schiaffini, Alfredo 27 Schmitt, Jean-Claude 91n Sciascia, Leonardo 13, 91-95, 106, 165-177, 211, 211n Scola, Ettore 226 Scott, Ridley 65n Scotti, Mariamargherita 31n Sebald, Winfried 207, 207n, 209 Segre, Cesare 20n, 42, 78n, 82n, 88n Senofonte 124
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Serantini, Franco 141 Sereni, Vittorio 25 Serra, Renato 25 Shakespeare, William 141 Sisto, Michele 50n Siti, Walter 20n, 26n, 31n, 34n, 78n, 151n, 171, 171n, 230, 230n Sollors, Werner 58n, 80, 80n Solmi, Sergio 160, 160n Spinazzola, Vittorio 175n Spinella, Mario 49 Spitzer, Leo 22, 28 Squillacioti, Paolo 175n Stendhal (Marie-Henry Beyle) 166167, 225 Sterling, Bruce 65n Sterne, Laurence 197 Svevo, Italo 187 Swift, Jonathan 51, 150 Tamaro, Susanna 226 Tasso, Torquato 141 Teilhard de Chardin, Pierre 202, 204 Teroni, Sandra 33n Terracini, Umberto 27 Tesio, Giovanni 161n Testa, Enrico 12n, 24n, 48n, 209n Thomas, Dylan 48 Timpanaro, Sebastiano 37, 37n Tirinanzi de Medici, Carlo 39n Todorov, Cvetan 86 Togliatti, Palmiro 21 Tolstoj, Lev 177, 202, 208n Tommaseo, Niccolò 26 Totò (Antonio De Curtis) 34 Tozzi, Federigo 168
indice dei nomi
Ungaretti, Giuseppe 19, 204 Updike, John 229 Vico, Giambattista 64, 65n Viti, Alessandro 58n Vittorini, Elio 9, 28n, 41-53, 71-72 Volo, Fabio 226 Volponi, Paolo 10, 13, 21, 21n, 25, 29, 48-49, 72, 74, 74n, 75, 75n, 91-92, 101, 102, 102n, 119-132, 160, 160n, 189, 217, 224, 226 Volponi, Roberto 217 Voltaire (François-Marie Arouet) 83, 85 Voltolini, Dario 76, 76n Walker, Kara 80 Walser, Robert 9, 52 Weil, Simone 61, 61n, 224, 224n Weinrich, Harald 126, 126n Weiss, Peter 9, 52 Wellek, René 79, 79n White, Hayden 15 Wilk, Richard 78n Yehoshua, Abraham 65, 230 Zago, Nunzio 93n, 170n, 175n Zancan, Marina 43 Zanzotto, Andrea 36, 118, 124, 138n, 140 Zatti, Sergio 12n, 58n, 87n, 89n Zinato, Emanuele 74n, 88n, 89n, 101n, 121n, 124n, 126n, 137n, 181n Žižek, Slavoj 78n Zola, Émile 187
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Quodlibet Studio
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lettere Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Marco Rispoli, Parole in guerra. Heinrich Heine e la polemica Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano Wilson Saba, Il punto fosforoso. Antonin Artaud e la cultura eterna Paolo Petruzzi, Leopardi e il Cristianesimo. Dall’Apologetica al Nichilismo Filippo Davoli, Guido Garufi (a cura di), In quel punto entra il vento. La poesia di Remo Pagnanelli nell’ascolto di oggi Christoph König, Strettoie. Peter Szondi e la letteratura Vito Santoro, L’odore della vita. Studi su Goffredo Parise Alejandro Patat, Patria e psiche. Saggio su Ippolito Nievo Antonio Tricomi, La Repubblica delle Lettere. Generazioni, scrittori, società nell’Italia contemporanea Claudia Pozzana, La poesia pensante. Inchieste sulla poesia cinese contemporanea Vito Santoro (a cura di), Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero Enio Sartori, Tra bosco e non bosco. Ragioni poetiche e gesti stilistici ne Il Galateo in Bosco di Andrea Zanzotto Angela Borghesi, Genealogie. Saggisti e interpreti del Novecento Francesco Fiorentino (a cura di), Figure e forme della memoria culturale Maurizio Pirro, Come corda troppo tesa. Stile e ideologia in Stefan George Vito Santoro, Calvino e il cinema Giulio Iacoli, La dignità di un mondo buffo. Intorno all’opera di Gianni Celati Massimo Rizzante (a cura di), Scuola del mondo. Nove saggi sul romanzo del xx secolo
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Alessio Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno Andrea Rondini, Anche il cielo brucia. Primo Levi e il giornalismo Irene Fantappiè, Karl Kraus e Shakespeare. Recitare, citare, tradurre Camilla Miglio, La terra del morso. L’Italia ctonia di Ingeborg Bachmann Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini Annelisa Alleva, Lo spettacolo della memoria. Saggi e ricordi Mario Barenghi, Cosa possiamo fare con il fuoco? Letteratura e altri ambienti Romano Luperini, Tramonto e resistenza della critica Susanna Spero, L’invenzione di una forma. Poetica dei generi nell’opera di Samuel Beckett Marcella Biasi, Potenza della lirica. La filosofia della poesia moderna e il paradigma Celan Matteo Marchesini, Da Pascoli a Busi. Letterati e letteratura in Italia Paola Laura Gorla, Sei diversioni nel Chisciotte Davide Colussi, Paolo Zublena (a cura di), Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure Fabrizio Scrivano, Diario e narrazione Barbara Ronchetti, Caleidoscopio russo. Studi di letteratura contemporanea Eloisa Morra, Un allegro fischiettare nelle tenebre. Ritratto di Toti Scialoja Paolo Amalfitano, L’armonia di Babele. Varietà dell’esperienza e polifonia delle forme nel romanzo inglese Emanuele Zinato, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana
lettere. ultracontemporanea
Matteo Majorano (a cura di), Nuove solitudini. Mutamenti delle relazioni nell’ultima narrativa francese Matteo Majorano (a cura di), Il ritorno dei sentimenti Marinella Termite, Le sentiment végétal. Feuillages d’extrême contemporain Gianfranco Rubino e Dominique Viart (a cura di), Le roman français contemporain face à l’Histoire Gianfranco Rubino (a cura di), Le Sujet et l’Histoire dans le roman français contemporain
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