Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi 8882121674


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Italian Pages 228 Year 1999

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Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi
 8882121674

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BIBLIOTECA del Centro Novarese di Studi Letterari collana di letteratura italiana dell’800 e ’900

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SAGGI E TESTI

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Giusi Baldissone

GLI OCCHI DELLA LETTERATURA Documento acquistato da () il 2024/02/19.

MITI, FIGURE, GENERI Presentazione di Giorgio Bárberi Squarotti

interlinea

edizioni

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© Novara 1999 interlinea srl edizioni via Pietro Micca 24, 28100 Novara, tel. 0321 612571 www.interlinea.com Stampato in Italia, Nuova Tipografia San Gaudenzio, Novara ISBN 88-8212-167-4 Un ringraziamento affettuoso è dovuto alle persone che in vario modo mi hanno aiutata a realizzare questo libro: Andrea Colombo, Michel David, Pier Giorgio Fossale, Giorgio Simonelli, Tonino Tornitore, Vincenzo Zanotti. A Giorgio Simonelli il libro è anche dedicato, con ostinato amore. In copertina: immagine rielaborata tratta da O. Redon (L’occhio, 1982) su progetto grafico di Elisabetta Fordiani

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SOMMARIO

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Presentazione di Giorgio Bárberi Squarotti

pag.

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I. INTRODUZIONE Sinestesie

»

11

II. FIGURE DEL MITO Gli occhi di Omero Narciso Psiche e Cathérine Orfeo Medusa Edipo L’occhio di Dio, l’occhio su Dio

» » » » » » »

33 39 45 54 61 65 71

III. FIGURE

RETORICHE

»

87

IV. VISIVITÀ DEI GENERI LETTERARI Dante e l’invenzione del poema L’occhio lirico La poesia visiva Occhio al romanzo Visività del testo teatrale

» » » » » »

105 106 120 156 177 190

Conclusioni provvisorie, ovviamente...

» 223

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PRESENTAZIONE

Come, del resto, in ogni altro genere letterario, anche nella critica c’è chi ripete concetti e posizioni già note, si occupa di autori insignificanti e di problemi irrilevanti, resuscita, per farsene vanto e corona, opere che il tempo ha meritatamente relegato fra le mere curiosità di erudizione provinciale; e c’è chi, invece, persegue sempre nuove e fervide prospettive di lettura e di interpretazione di opere, autori, generi letterari, forme dell’invenzione, e ha idee e le espone, è capace di dare una visione diversa rispetto a quelle note del mondo della letteratura, e di dimostrarla con rigore e vastità di letture. Giusi Baldissone appartiene a questa seconda categoria di critici della letteratura, che portano, in ogni loro scritto, un poco più in là del segno fino a quel momento raggiunto la comprensione di quella creazione inesauribile d’altro oltre il mondo della vita e della storia, che la letteratura è. Dopo, le cose non sono più come erano in precedenza. Bisogna prenderne atto: chi non lo fa appartiene alla categoria dei mediocri per i quali la letteratura è soltanto l’occasione di una professione di archivista e catalogatore di parole che sono state destituite dall’incapacità intrinseca di chi le trova, di ogni verità di invenzione fantastica e morale, filosofica e onirica. L’autrice si è occupata, in un libro precedente, del problema dell’oralità come modo di offrire ai destinatari, precisamente designati o genericamente comprensivi di tutti gli hypocrites lecteurs, l’invenzione letteraria; e ha così studiato il diverso modo in cui, nei secoli, il genere “orale” per eccellenza, quale è la novella, si manifesta, in contrapposizione e in intreccio con il genere “scritto” per eccellenza, che è il romanzo. Ora è la volta dello sguardo della scrittura: che è altro problema rispetto a quello del punto di vista, a cui, negli ultimi tempi, Franco Rella si è dedicato. Lo sguardo della letteratura si estende attraverso i secoli e i generi, si incarna in Medusa o nella donna amata, impietra e sublima, è quello stesso di Dio che guarda il mondo e gli uomini che vi si aggirano, o è quello di chi ha avuto in grazia la visione della verità, dall’infima lacuna dell’universo fino a Dio, rende possibile il narrare oppure è la capacità dell’anima che ne rende possibile la prosecuzione della contemplazione anche al di là della morte. Giusi Baldissone chiama a raccolta filosofia e psicologia, teoria della comunicazione e

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PRESENTAZIONE

scienza per descrivere lo sguardo da punti di vista estrinseci rispetto alla letteratura entro cui, tuttavia, è e rimane e ha senso. Le verifiche esteriori non sono altro che i supporti, ben presto definiti, descritti e lasciati addietro, dell’infinita riproposta dello sguardo come tramite e causa della creazione della letteratura. Per questo sono da andare a ricercare i vari e veri protagonisti: Dante e Montale, le avanguardie degli anni sessanta e settanta e il Petrarca, i miti di Omero e di Edipo, quelli di Perseo, di Medusa, e poi la Bibbia, in un dispiegarsi quanto mai animato di scritture, che accoglie anche tradizioni popolari, di vari popoli e tempi, e organizza un coro di voci quanto mai diverse e tuttavia armoniose a definire l’idea dello sguardo come causa della creazione letteraria e, al tempo stesso, oggetto di rappresentazione, secondo un ciclo che si rinnova continuamente. Il libro, per questa vivacissima struttura, che presenta accostamenti, indicazioni di analogie geniali, di contrasti ugualmente significativi, collegamenti di tempo e tradizioni diverse, domina l’antico e il contemporaneo con uguale perspicuità e persuasività, trascorre da illuminazione a commento, da citazione a interpretazione, è l’occasione di una lettura particolarmente avvincente. L’infinita avventura della letteratura è ripercorsa come visione da parte di uno sguardo che, dopo aver costituito il supporto e l’oggetto dell’invenzione, diviene quello del critico, che procede a rivedere e a contemplare ancora una volta i luoghi della scrittura, e si fa carico, allora, di rimetterli sotto gli occhi tanto spesso disattenti dei lettori, perché vi vedano qualche altro aspetto che pure c’è in essi. Il critico si propone come sguardo egli stesso: rilegge con pazienza e con passione i testi, li svela, li pone di nuovo nel circolo della fruizione di Narciso, che si identifica con il suo sguardo che vede altro da sé chi, invece, è lo specchio di sé. La letteratura è lo specchio infinitamente ricontemplabile della trasfigurazione dell’esistente e dell’invenzione di altro nella presenza degli oggetti e delle situazioni anche più comuni. Secondo questa prospettiva il libro di Giusi Baldissone la ripercorre. A un’opera come questa è affidata la durata della critica letteraria. I libri senza idee e capacità d’interpretazione se ne finiscono nei gorghi del Tempo, e nessun uccello salvifico verrà mai a tirarli fuori dall’oblio. GIORGIO BÁRBERI SQUAROTTI

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GLI OCCHI DELLA LETTERATURA

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...a piè del Casentino traversa un’acqua ch’ha nome l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce in Apennino. Là ‘ve il vocabol suo diventa vano, arriva’ io, forato nella gola, fuggendo a piede e ‘nsanguinando il piano. Quivi perdei la vista, e la parola nel nome di Maria finii; e quivi caddi, e rimase la mia carne sola.

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DANTE, Purg., V, 94-102

La vista, la parola: nella fine di Buonconte Dante ha posto la metonimia dell’esistenza umana. Queste due facoltà, operazioni estreme del vivere, si staccano dall’uomo, che cessa di essere tale, divenendo «carne sola». L’iconicità di questa morte violenta, che lascia una scia di sangue sotto i nostri occhi (così come quella di Jacopo, che vide «delle sue vene farsi in terra laco») si disegna come sdoppiata, in un effetto ottico che presenta in sequenza la vista e la visione, l’una dell’uomo, l’altra già del suo fantasma: colui che muore vede il suo sangue, pronuncia le parole estreme, poi, alla visione ormai distaccata di chi è fuori dal mondo, appare quella «carne sola». Delle due facoltà che rappresentano la vita umana, solo quella del vedere travalica i confini e accompagna l’anima, ancora oltre... Alcuni capitoli, qui rielaborati e aggiornati, sono già stati pubblicati nelle sedi seguenti: 1. La vista e la parola. Dante e l’invenzione del poema, in Cantami o Diva: la tradizione del poema, Tirrenia Stampatori, Torino 1992; 2. Occhio al romanzo, in Ascesa e decadenza del romanzo moderno, Tirrenia Stampatori, Torino 1994; 3. L’occhio lirico, in Luoghi e forme della lirica, Tirrenia Stampatori, Torino 1996; 4. La poesia visiva. Una ricognizione fra arte e letteratura, in “Proteo”, Quaderni del Centro Interuniversitario di Teoria e Storia dei Generi Letterari, II, 1996, 2; 5. Visività del testo teatrale, in La letteratura in scena. Il teatro dalle origini all’Ottocento, Tirrenia Stampatori, Torino 1998.

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I. INTRODUZIONE

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Sinestesie Da sempre, le parole hanno dipinto il mondo, più o meglio della pittura stessa (ut pictura...)1 Hanno dipinto non solo il desiderio di vedere ciò che non si vedeva ancora, ma anche ciò che era ed è invisibile fisicamente allo sguardo: dunque non solo la mappa dell’emisfero australe, ma anche angeli, diavoli, fantasmi. Le parole, infinite come il desiderio, si aggregano come gli atomi di Democrito, di Epicuro, poi si disgregano e formano altre realtà. Apparentemente, le loro possibilità sono infinite: possono descrivere l’indescrivibile grazie all’arte retorica che le dota di tutte le figure necessarie alla loro mobilità, alla loro libertà. Esercitano una magia “calamitosa”, in tutti i sensi: non si può evitare di leggerle, l’occhio che le incontra esegue automaticamente la loro volontà.2 Sarebbe interessante, benché arduo, tentare una campionatura degli usi delle figure retoriche almeno nella letteratura e poter avere un riscontro “scientifico” all’impressione che tendano a prevalere quelle che riguardano la vista rispetto, non diciamo al gusto, all’olfatto, al tatto, ma addirittura al suono. Perfino la sinestesia, che è la figura più liberatoria perché consente alla parola di spaziare nel campo di tutti i sensi, si addensa in modo preponderante nel campo dell’occhio, che è quello che appare più “evasivo” rispetto a tutti. Si provi a consultare il Dialogue dans le noir.3 Esistono, dunque, in modo sovrabbondante le visioni, i sogni, le allucinazioni, ma non esistono creazioni fantastiche equivalenti nel campo degli altri sensi, né sul piano quantitativo né su quello qualitativo. La parola, insomma, ha scelto un suo tipo di infinito o, almeno, un veicolo privilegiato per accedervi: quello della vista. Non c’è descrizione dell’“altro mondo” in cui non prevalga lo sguardo, perfino nell’inferno dantesco, che è immerso nel buio, perfino negli aldilà secenteschi indagati dal punto di vista olfattivo e gustativo da Camporesi,4 perché, comunque, le fonti letterarie, da cui lo studioso parte, presentano in primo luogo immagini visive. Non per niente «gli occhi dell’uom cercano morendo / il Sole; e tutti l’ultimo sospiro / mandano i petti alla fuggente luce»:5 vedere, se non è l’ultima sensazione, è certamente l’ultimo desiderio, l’ultima figura retorica: chiudere gli occhi eufemizza il morire; del

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GIUSI BALDISSONE

resto, venire alla luce parafrasa il nascere, almeno nelle parole. Ciò che si inscrive tra quell’aprirsi e chiudersi di occhi non è semplicemente la vita, ma ciò che le parole sono in grado di costituire come vita, attraverso lo strumento dell’occhio e le categorie dello sguardo. Tutto questo, nonostante qualche recente tentativo, in un convegno a Marsiglia un po’ snob, di decretare finalmente la Fin de l’ère de l’Image.6 Sembrerebbe giusto, oltreché scontato, partire da un’osservazione preliminare di questo tipo: le parole orali sono costituite dal suono, quelle scritte da immagini; le prime hanno a che fare con l’udito, le seconde con la vista. Eppure... la vista e la parola sembrano quasi connaturate, perfino nella poesia delle origini nata per il canto e per la musica. Omero, aedo cieco per scelta simbolica, si fa veggente dell’oltretomba e della memoria mitica degli dei, per dare luce a immagini fino allora invisibili e indescrivibili. In tempi più recenti, i trovatori provenzali musicano immagini che disegnano nell’aria il ritratto delle corti feudali e dei loro signori, assai meglio di quanto facesse la pittura del tempo (che, salvo rare eccezioni, come quella riguardante il ciclo di Yvain nel castello di Trento, non si occupava di soggetti laici). Sappiamo che molte di quelle immagini, insieme agli spartiti che le accompagnavano, non sono rimaste solo nell’aria, ma sono arrivate alla scrittura, lasciando degli ambienti e della cultura cortese qualcosa di più vivo e colorito che non il pur ricchissimo «nero su bianco».7 Bertran de Born, nella sua canzone Molto mi piace la lieta stagione di primavera, dipinge la guerra come una festa di colori, dove il rosso del sangue si mescola ai variopinti stendardi, e la voce del poeta ripete: «vedo, vedo». Molto è stato studiato in tempi recenti il tema dell’oralità, non solo nelle forme che attraverso questa si esprimono direttamente, ma anche in quelle che, indirettamente, ne conservano importanti tracce.8 Ebbene, sarebbe altrettanto importante riprendere a fondo anche lo studio della visività, là dove appare indirettamente, come per esempio in alcuni generi letterari. Non si tratta solo di scoprire quanto di pittorico esista in certi prodotti della letteratura,9 ma anche, essenzialmente, ciò che costituisce l’elemento visivo della parola letteraria. Se si tenta un percorso che porti a confrontare la visività della poesia rispetto alla prosa, si è portati a generalizzare l’affermazione oraziana ut pictura poesis, e a privilegiare quest’ultima come ge-

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INTRODUZIONE

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nere visivo per eccellenza, ricordando magari l’importanza degli occhi nella poesia siciliana e stilnovista, fino all’esplosione grafica del futurismo e poi della poesia visiva. È una tentazione, la dimostrazione è sicura, la documentazione è straripante. Ma se si pensa a certe novelle e romanzi pieni di luce, di immagini, di apparizioni, ricordando Nastagio degli Onesti, le novelle di Poe, tutti i romanzi di Verne (in particolare Il raggio verde), Melville e Twain (si pensi al Diario di Eva, in cui Eva inventa il nome delle cose guardandole), fino ad arrivare all’école du regard e al nouveau roman (basti l’esempio di Robbe-Grillet e della Duras), allora la prospettiva di una dimostrazione altrettanto sicura presenta qualche dubbio sull’ipotesi iniziale. In realtà, considerate tutte queste tappe attraverso cui la ricerca potrebbe passare, ci si rende conto che, riguardo a questo problema, non è questione di generi, ma del rapporto che esiste tra la vista e la parola. Così si ritorna daccapo, a considerare l’organizzazione del linguaggio, scritto e parlato, come un’organizzazione prevalentemente visiva. È probabile che la formazione stessa delle figure retoriche avvenga sulla base di una scelta in cui è privilegiata la visività. Potrebbero essere le stesse leggi che regolano la scienza ottica e la psicologia a fornire spiegazioni al fenomeno. Sono leggi di cui hanno ben tenuto conto gli operatori culturali, pubblicitari, politici della “civiltà dell’immagine”, nel momento in cui hanno cominciato a usare la fotografia, il manifesto pubblicitario, il cinema come mezzi di comunicazione di massa, capaci di convincere perché in grado di arrivare prima e con più incisività dall’occhio al cervello, eliminando un processo critico che la parola, invece, consente. Non va dimenticato che gli antichi greci avevano sintetizzato quest’intuizione nelle loro scelte linguistiche: “so” in greco si dice oida, perfetto della radice eid, che indica l’atto di vedere: “so” perché “ho visto”. D’altra parte, la denominazione di pupilla attribuita al forellino attraverso cui la luce penetra nel bulbo oculare deriva dal latino pupilla, che significa “bambolina”: questo perché guardando qualcuno negli occhi gli antichi vedevano la propria immagine ridotta in forma di bambola. Anche nell’antico ebraico eshon ayin, per indicare sempre la pupilla, significa “ometto dell’occhio”. Per questo la memoria visiva è la più persistente ed è per questo che le parole si organizzano per produrla, in un perenne tentativo di ricreare il mondo. Non è un caso che le figure retoriche siano, appunto, figure,10 ossia composizioni che hanno a che fare

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con l’immagine, con ciò che si vede poiché viene plasmato da un artefice e riceve una forma. Qui entra in gioco, etimologicamente, il tatto, ma solo come mezzo, come procedimento: l’esito finale è l’immagine che appare. Le figure, dunque: paragoni, metafore, similitudini, sinestesie ecc. vanno in cerca degli occhi del lettore: quelli materiali e quelli della mente. È sufficiente un rapido sguardo per comprendere il carattere recessivo degli altri sensi nei confronti della vista. Essa predomina nel rapporto con gli oggetti: gli occhi possono toccare, lambire, accarezzare, compiere tutte le funzioni che sono proprie del tatto; ma possono anche mangiare, divorare qualcuno o qualcosa; possono dare ascolto, e intendere; sono in grado di parlare e compiere mille gesti che sembrano competere a tutto il corpo e mille movimenti che affiorano direttamente dall’anima: senso metonimico che rimanda sempre al tutto, l’occhio ha accesso ben oltre i limiti del corpo e può trasgredire ben più di tutti. È il senso dell’eccesso, dell’andare oltre il limite, sia alla lettera che metaforicamente: «Di tutti i sensi, la vista è il senso che più manifestamente è dominato dall’impazienza. Una velleità magica, mai pienamente efficace, mai scoraggiata, accompagna ognuna delle nostre occhiate: afferrare, sfogliare, pietrificare, penetrare. Affascinare, vale a dire far brillare il fuoco dell’occhio in una pupilla immobile».11 Guardare significa sempre poter passare: «Coi piè ristetti e con gli occhi passai», dice Dante al cospetto di Matelda e del suo edenico campo di fiori, separato da loro da un «fiumicello»: gli occhi, dunque, sono sempre più in là del nostro corpo, sono lo spirito, l’idea, l’estasi, l’infinito. Essi esagerano sempre perché, posandosi su ciò che è limitato, chiedono continuamente qualcosa in più e quando arrivano a scorgere il limite estremo lo sfondano: la vista non basta più, subentrano le visioni. È il procedimento descritto da Leopardi nell’Infinito, ma è anche quello di Kant nella Critica del giudizio: la vista che procede sempre più in là porta l’uomo ad armonizzarsi con il Tutto, a naufragare beato nell’infinito, a sentirsi parte integrante del «gran mar de l’essere».12 Non va dimenticato, naturalmente, che ciò che l’occhio cerca è, in definitiva, uno specchio e che ognuno va in cerca della propria identità, perduta nel momento in cui, con la nascita, il trauma del distacco è stato sottolineato dal passaggio dal buio alla luce, dal non vedere al vedere. Nello specchio si cerca alla fin fine se stessi come caos e ambiguità, miscuglio di luce così

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INTRODUZIONE

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accecante da somigliare all’oscurità: la più sublime delle visioni, in questo senso, è il Dio speculare dell’ultimo canto del Paradiso dantesco, in cui la vista affonda per un attimo e poi si perde nell’insostenibile, nell’impossibile, nell’ineffabile. Se si pensa che Dante con gli occhi anticipa il viaggio di Cristoforo Colombo, mandando Ulisse in avanscoperta a raccogliere la punizione per il suo voler vedere troppo, e se si pensa ai vari Orfeo, Narciso, Edipo, Psiche, Medusa, si comprende bene il significato notturno e amniotico di questo voler vedere troppo. Qui l’immensa luce del cielo appare assolutamente identica all’oscurità degli inferi. Là, anche se può sembrare un controsenso, i nostri occhi hanno visioni che creano il rispecchiamento dell’anima. Come possiamo nell’oscurità parlare di ombre, dal momento che, per la coscienza del mondo supero, le ombre provengono soltanto da oggetti fisici che ostacolano la luce? Come possono esserci ombre nell’oscurità? Il problema somiglia molto al tentare di percepire il movimento della propria ombra. Cercare di cogliere un barlume della forma che sta dietro le scene, di sintonizzarsi con quanto d’altro sta accadendo in quella che sembra un’azione naturale o una semplice conversazione, questo significa appunto ‘cercare di vedere ombre nel buio’ [...] la coscienza di questo tipo è riflessiva, non osserva soltanto la realtà fisica che ha sotto gli occhi, e per mezzo degli occhi, ma vede dentro i tremuli modelli che sono interni a quella realtà fisica, e interni anche allo sguardo.13

Ma se l’occhio sa calarsi così in profondità oltre le cose, se sa allontanarsi tanto smisuratamente da noi, esso rappresenta il nostro migliore strumento non solo di conoscenza ma anche di possesso, di dominio dell’universo. Non è un caso che la pittura sia nata come arte magica non di riproduzione ma di convocazione del mondo al cospetto dell’uomo. I bisonti di Lascaux sono tutto un mondo da vincere e da mangiare. Da allora in poi la pittura ha sancito l’onnipotenza dell’occhio nell’universo, ha dato immagini al pensiero affinché esso penetrasse anche là dove la ragione geometrica non poteva, seguendo un suo infallibile esprit de finesse, che l’ha portata a rappresentare anche l’intoccabile, l’inaudibile, l’indicibile: «Il pensiero assume forma d’immagine quando vuol basare la proprie affermazioni sulla vista di un oggetto. In tal caso, tenta di far comparire l’oggetto davanti a sé per vederlo o, meglio, per possederlo. Ma tale tentativo, in cui ogni pensiero rischierebbe del resto di insabbiarsi, è sempre un fallimento: gli oggetti sono affetti da un carattere d’irrealtà».14 Ecco, la pittura rappresenta il superamento di questo fallimento. In essa l’irrealtà è trasformata in una realtà “altra”, che non

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GIUSI BALDISSONE

potrebbe essere agguantata se non attraverso la forma dell’arte che la materializza. I sogni, gli incubi, i fantasmi, le astrazioni e le immagini surreali sono irreali finché la pittura non materializza la loro immagine.15 Le parole non bastano: la distanza che esiste fra le parole e le cose e, nello stesso tempo, la loro nominalistica identità, conferisce alla parola un carattere essenzialmente astratto, sfuggente, mentre Le Tentazioni di Bosch o L’incubo di Füssli visualizzano la realtà del pensiero, che non è irrealtà, ma solo un’altra realtà che altrimenti resterebbe priva di immagini. La pittura, insomma, è in grado di dipingere i fantasmi, ossia non ciò che non esiste, ma ciò che non si tocca, non si sente, non fa rumore e non si può abbracciare: la pittura “vede” oltre la realtà. Nello stesso tempo, offre alla vista una realtà sostitutiva ben più forte della parola: un ritratto, un luogo, un oggetto, una situazione, se dipinti, offrono alla memoria una persistenza e un’emozione che, passando attraverso gli occhi, penetrano nella coscienza ben più a fondo di qualunque altro segno. Si pensi a quale particolarissima sinestesia nella sinestesia sia rappresentata dalle cosiddette “pitture di luce”, le vetrate delle cattedrali medioevali, che contavano sulle variazioni esterne della luce per realizzare in pieno la meraviglia dell’arte.16 O, ancora, alle miniature, prodotti di quell’arte «che alluminar chiamata è in Parisi» (DANTE, Purg., XI, 81), che facevano brillare negli antichi codici (Bibbia, Libro d’Ore, Legenda aurea, ecc.) e nelle pergamene liturgiche la luce dell’oro e dell’argento, mescolata alla polvere delle pietre preziose pestate nel mortaio dall’artista, sempre per realizzare in simboli e sinestesie la presenza del Sole e delle stelle nei tesori cartacei che andava producendo. Anche la fotografia, anche il cinema oggi possiedono in parte questo potere: «Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore», si ripete Roland Barthes con stupore di fronte a una fotografia dell’ultimo fratello di Napoleone, Girolamo,17 e ognuno conosce il brivido di ritrovare in un’immagine fotografica (o anche cinematografica) l’espressione di volti scomparsi, momenti della storia individuale o collettiva che non avrebbero più immagini se non esistessero quelle della macchina che le ha fissate. L’immagine riprodotta soddisfa e sazia forse più della realtà, perché costituisce un aumento di realtà, in quanto aggiunge alla vista la visione: a quel che c’è, quel che si nasconde sotto la superficie; a quel che non c’è, quello che potrebbe esserci.

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INTRODUZIONE

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Le immagini di un quadro, di una fotografia, di un film si fanno mangiare con gli occhi: danno a questa sinestesia la possibilità di realizzarsi. È il cibo dell’anima che viene visualizzato, fissato nel momento in cui si compie la metamorfosi, il passaggio dalla vista alla visione. Uno dei pittori che meglio hanno sorpreso questa metamorfosi è l’Arcimboldo: nei suoi ritratti da mangiare (e da vomitare) la realtà compie sotto i nostri occhi tutti i possibili passaggi, convocando tutte le metafore che possono addensarsi attorno alla vista di un volto umano e la trasformano in visione. «Non solo l’‘arte’, ma anche un sapere traspare dall’esercizio di una tale immaginazione: sorprendere delle metamorfosi (come fece a più riprese Leonardo da Vinci) è un atto di conoscenza: ogni sapere è legato a un ordine classificatorio: allargare o modificare il sapere vuol dire sperimentare, con operazioni audaci, ciò che sovverte le classificazioni alle quali siamo abituati: questa è la funzione nobile della magia, ‘somma della saggezza naturale’ (Pico della Mirandola). Così procede Arcimboldo, dal gioco alla grande retorica, dalla retorica alla magia, dalla magia alla sapienza».18 Ma anche la natura stessa si diverte a volte a parlarci per sinestesie: è noto il fenomeno fisico dei cerchi concentrici sull’acqua, traduzione visiva dei suoni che un sasso lanciato emette man mano che raggiunge le profondità. Era prevedibile che la specie umana, nel processo di evoluzione culturale, affinasse quello dei cinque sensi che si mostrava più utilizzabile ai fini di un progresso nell’acquisizione della sapienza. Era prevedibile che l’occhio dilagasse e che tutte le sue sinestesie cercassero pian piano spazi sempre più ampi di affermazione, brandelli sempre più complessi di realtà. Ovunque oggi predomina la vista, ovunque è l’uomo che guarda: il tatto, l’odorato, il gusto, l’udito sono regrediti nella nostalgia, e soltanto la “nuova storia” ne celebra il revival. L’immagine delle cose, il look, sta sempre più al posto delle cose: i corpi sono più belli, più curati e meglio nutriti, ma evitano il contatto sempre di più: la fretta, la malattia, la libertà consigliano di lasciar parlare gli occhi e via. Le mele sono più belle, ma avvelenate e il resto, si sa, è già letteratura. Questa è la sinestesia oggi più incentivata dai mass-media: la pubblicità che viene riversata nei nostri occhi dallo schermo televisivo presenta appunto immagini che devono apparire appetibili, di cibi perfetti e seducenti, i cui requisiti devono essere in grado di guidare l’occhio oltre il cibo stesso. I colori e gli splendori si sprecano in iperboli di untume e vernici, pur di predisporre l’occhio al-

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la visione preconfezionata che accompagna la vista del cibo. La pubblicità televisiva uccide in questo modo l’immaginazione, suggerendo alla fantasia del telespettatore flussi di memoria artificialmente prodotti. La madeleine ha un suo percorso visionario previsto e codificato, passando anche attraverso Proust con qualche processo di viraggio in seppia. Ogni bastoncino di merluzzo ha il suo bravo mare del Nord, ogni tonno le sue acque incontaminate, mentre le spaghettate oscillano tra vocii sommessi di calda festa esclusiva, nella campagna toscana, e silenzio di maliziose tavole imbandite. L’occhio, paradossalmente, è bloccato proprio da queste immagini che lo spingono a vedere altro e ad andare oltre: è bloccato perché la loro ripetizione finisce per produrre una coazione alla visione, in modo tale che il cibo faccia ricordare, sognare, desiderare soltanto quello che i suoi produttori desiderano. Anche alcune riviste di cucina si stampano più per gli occhi che per il gusto. Già Barthes coglieva questa tendenza esaminando la differenza tra i cibi proposti da “Elle” e quelli proposti dall’“Express”,19 e quella «cucina di sogno» che egli trovava in “Elle” si ritrovava in Italia fino a poco tempo fa nella rivista “Grand Gourmet” e nei suoi piatti estremamente ornamentali, fotografati dall’alto, quindi in una dimensione assoluta, composti da forme e colori rari e preziosi quanto le stoviglie nelle quali erano incorniciati. Le ricette, spesso ineseguibili per la rarità degli ingredienti e l’elaborazione della preparazione, non si facevano neppure leggere, in quanto sopraffatte da immagini abbaglianti di cibi che ci si poteva solo aspettare di trovare già pronti in qualche castello ben restaurato, in qualche suggestiva «cassinetta». Il fine è sempre quello barocco della meraviglia: un fine poetico, in fondo, su cui aleggiano ancora le coreografie gastronomiche del banchetto di Trimalcione. Tutto questo potenziamento e sfruttamento della vista (in funzione subordinata al gusto e all’acquisto) nasce comunque dall’acquisita certezza psicologica (e fisiologica) che effettivamente si mangia prima con gli occhi che con la bocca. Un cibo dall’aspetto ripugnante deve essere travestito di sembianze gradevoli perché faccia nascere il desiderio di mangiarselo: una vetrina sensualmente composta come il paese di Cuccagna o di Bengodi aiuta a sognare sia per quel che si vede, sia per le visioni che stanno oltre le immagini. Si finisce così per proiettare sulle aragoste e sui paté i propri desideri di realizzazione professionale, i propri sogni amorosi degnamente celebrati, tutte le fantasie che pos-

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sono trovare in una cena deliziosa e raffinata un’occasione galeotta o un magico catalizzatore. Entrare e comprare, oppure guardare e passare, sono azioni non necessariamente antitetiche: nel miglior negozio di gastronomia del mondo il cibo è comunque un’offerta estetica per gli occhi, e sono gli occhi che fanno venire l’acquolina in bocca. Le immagini meravigliose del cibo sembrano moltiplicarsi sempre più in una società e in una cultura che non ha tempo per tutto questo. Può accadere di correre a comprare l’ultimo libro di Isabel Allende sui rapporti tra eros e cibo,20 o di leggere con gusto l’ultimo saggio di un teologo piuttosto originale che propone a bibliofili e bibbiofili le sue Parole da mangiare.21 Può accadere che si sogni davanti a un negozio ma che si mangi al bar o al fast-food... I ritmi del lavoro, il culto del corpo e delle diete finiscono spesso per delegare agli occhi una funzione sempre più compensativa, sostitutiva o sublimante. Le patologie oggi più diffuse tra le giovani donne sono bulimia e anoressia. Del resto, nessuno sogna più mangiate pantagrueliche o paradisi dove il cibo sia il premio di contrappasso per l’astinenza. Sono sogni passati al terzo mondo e volentieri parodiati dalla letteratura (primo dei contemporanei, Marinetti con Le roi Bombance) o direttamente assunti come metafora di valore psicoanalitico e/o sociologico dal cinema degli ultimi anni (La grande bouffe di Ferreri, Il fascino discreto della borghesia di Buñuel, Il pranzo di Babette di Axel, Fanny e Alexander di Bergman, per citare i più famosi). Chi può più abbuffarsi davvero con tanta ironia che circonda il cibo da ogni parte? L’Arcimboldo è veramente l’emblema di quest’ironia che rende tutti impotenti di fronte al cibo (e molti ristoranti in giro per il mondo portano masochisticamente il suo nome). Per mangiare, oggi, bisogna farlo con un minimo di senso ludico e di sorriso tra le labbra: sommo disprezzo aleggiava fino a poco tempo fa intorno alla defunta grande cuisine e intorno all’ambiguo, elaborato tripudio di forme secentesche, da dimenticare, si credeva, per sempre. Oggi le feste alla moda nei templi più esclusivi della “cultura materiale” possono riproporre la meraviglia più visiva che gustativa di qualche quaille en sarcophage. L’occhio andava in cerca di perfezione e l’ha trovata nell’illusione di apparenze perfette. Le seducenti nature morte del Cinquecento e del Seicento sono scese dai quadri per entrare nelle vetrine. E gli uomini nuovi, che sono «forti e magri», si accontentano di mangiarle con gli occhi. Ma anche gli altri sensi non se la cavano meglio.

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Se proviamo a chiederci che fine ha fatto il tatto, possiamo risponderci con una definizione assai malinconica: esso si riduce a un desiderio di fantasmi. Toccare la matrigna terra comporta oggi qualche rischio: significa sporcarsi, contaminarsi, avvelenarsi. Il suolo è cosparso di cesio, diossina, atrazina, pesticidi vari e residui organici infetti, dai quali è bene proteggersi. Un antico rito cinese voleva che si deponessero al suolo i neonati, per far loro prendere contatto, in una prova della durata di tre giorni, con la Terra madre, vista come tramite di tutte le relazioni umane e sociali che il bambino avrebbe sviluppato nel corso della vita. Come osserva Marcel Granet,22 anche il morente, come il bambino nascente, subiva la stessa sorte, per congedarsi con lo stesso tramite, per mezzo dello stesso contatto. Sono riti praticati anche presso i popoli mediterranei, di cui gli antropologi hanno studiato simboli e strutture, mentre i poeti, come sempre in anticipo, ne hanno lasciato tracce e testimonianze struggenti: «Non è questo ‘l terren ch’io toccai pria?» (Petrarca), «Né più mai toccherò le sacre sponde» (Foscolo). Toccare è dunque la prima e l’ultima forma di conoscenza e di comunicazione: gli occhi del neonato vedono ancora ombre incerte, quando il suo corpo sente invece il contatto con la persona che lo nutre e lo cura; gli occhi del morente cercano gemendo la «fuggente luce», ma l’immagine svanisce insieme ai suoni, ai gusti e agli odori, mentre l’ultimo legame con la vita è dato dalla sensazione di avere un corpo, che preme un suolo qualsiasi, letto o terra che sia. I Letti di Domenico Gnoli possono ben rappresentare la tattilità di questo intermediario, così come la novella di Maupassant intitolata Il letto. Eppure il tatto nella civiltà contemporanea si trova completamente déplacé, trasferito di sede e metaforizzato nella sua concretezza, alluso per citazioni, ridotto all’astrazione. La superficie corporea non contatta il mondo esterno se non nei pochi luoghi e riti codificati: spiagge per definizione incontaminate, stanze da bagno sempre più raffinate, lettini per massaggi e trattamenti sanitari ed estetici, sale chirurgiche, camere da letto. Sono contatti per lo più privati, appartati, segnati dalla solitudine, individuale o di coppia, relegati in spazi vitali sempre più ridotti. Il tatto è in disuso: non a caso si trova confinato al livello della trasgressione e della cultura alternativa: tocca chi ruba, chi uc-

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cide, ma anche chi propone, o ha proposto, tecniche d’avanguardia per fare teatro (Living Theatre, Grotowski, Barba), per fare arte (tattilismo futurista e pop-art), per partorire (Leboyer). Sono avanguardie già sul viale del tramonto: oggi il teatro della voce e della parola hanno ripreso il sopravvento, mentre tutte le arti e le tecniche visive moltiplicano le loro sostituzioni, dichiarando proprio nel parossismo della rappresentazione che il tatto non è rappresentabile. Il cinema mostra corpi che si toccano, trasferendo il tatto sulla vista, trasformandolo in immagine. Così continua a fare anche la pittura, mentre la musica conserva la “toccata” come un ricordo ancestrale delle dita che premono i tasti, lasciando che la diffusione di cassette e compact-disc cancelli dalla mente dell’ascoltatore la memoria dell’origine tattile. Il tatto, in sostanza, è connesso con il fare: toccare significa fare, oltre che conoscere. Il corpo, come dice Marcel Mauss, è il primo e il più naturale strumento dell’uomo: «Prima delle tecniche basate sugli strumenti, c’è l’insieme delle tecniche del corpo». 23 Essendo il primo, con il progredire della civiltà è destinato ad assumere il carattere di primitivo, cioè originario, antico, superabile e superato. La forma più evoluta di conoscenza e di tecnica tattile è oggi espressa dalla digitalità del computer, per mezzo della quale si può richiamare la somma delle esperienze altrui con un intervento minimo della propria. Prescrizioni e preclusioni hanno accompagnato l’uso del tatto dalle civiltà primitive fino a oggi. Si può dire che questa sia una costante culturale presente diacronicamente in tutte le civiltà. I tabù riguardanti il tatto sono più rigorosi e minacciosi di quelli riguardanti gli altri sensi: il tatto è dotato di una fisicità più ingombrante e imbarazzante. Ecco allora che il contatto può trasformarsi in contagio e contaminazione, trasgressione realizzata. Nella civiltà della vista, anche per i non vedenti, il tatto non rappresenta più in modo adeguato una vista sostitutiva: si sperimentano nuove tecniche, capaci di far passare gli stimoli dall’udito al cervello mediante sinestesia, producendo in tal modo quelle immagini che l’occhio non è in grado di fornire. Il tatto, oggi, è sostanzialmente nostalgia. Si pensi al film dei fratelli Taviani, Good morning, Babilonia: il cinema, che si offre alla vista come prodotto finito tipico della civiltà dell’immagine, è celebrato come fare, tatto e contatto di mani che costruiscono, sen-

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tono e manipolano concretamente oggetti e corpi destinati alla vista di un pubblico privo di contatto. Contatto, oggi, è per definizione semiologica il canale, il mezzo di cui si serve un messaggio per veicolarsi dal mittente al ricevente. È dunque ciò che ha sostituito la madre Terra originale per mettere gli uomini in rapporto sociale gli uni con gli altri. Il telefono, il giornale, la televisione, il cinema fanno contatto invece dei nostri corpi. “Contatto” è il nome di un preservativo. Ma se questo è il tempo della nostalgia, è proprio nella nostalgia che il tatto coglie i suoi trionfi. La civiltà dell’asetticità e dei deodoranti indaga con passione sulla mentalità e la cultura materiale, producendo storie sociali degli odori, storie di cibi, di erbe, di sangue e perfino di merda.24 Volentieri si compiace di contemplare quadri che nel passato offrivano del tatto (e alla vista) immagini in qualche modo scandalose, dall’enigmatica Tempesta di Giorgione (interpretata come un parto da Fornari)25 alle Deposizioni irriverenti e inusuali come quella del Mantegna, dal Bacio di Toulouse-Lautrec ai Letti di Gnoli, dalle orge tattili della Morte di Sardanapalo di Delacroix alle bambine perverse di Balthus. Oggi lo scandalo più straordinario in campo artistico consiste nella produzione di opere virtuali: Fred Forest, nell’ottobre 1996, ha venduto (per 15 800 franchi) il primo quadro virtuale, Parcelle/Réseau, prodotto su Internet, che dunque, nella sua totale immaterialità, è visibile unicamente ai suoi compratori, mediante codice segreto di accesso. Si tratta di una rivoluzione fruitiva: mentre prima la riproduzione su CD ROM non poteva sostituire l’aura benjaminiana dell’originale, ora l’originale è una visione, e caso mai, se sarà riversata su supporti cartacei o d’altro genere, saranno questi a rivestire una funzione succedanea. Ma non è tutto. Anche la letteratura è attraversata da questa nostalgia, anche la critica letteraria. Si impazzisce sul duello fra Tancredi e Clorinda e sull’ambiguo contatto dei loro corpi serrati dal poeta nel recinto della negazione freudiana; si ristudiano Sade e Restif de la Bretonne, si celebra la corporeità di Rabelais e la sensualità di Fielding; si rivaluta il sensismo mentre il progresso scientifico s’incarica di strappare terreno alla psicoanalisi scoprendo le reazioni chimiche connesse a certe psicopatologie. Ma anche la reazione chimica è astrazione: i corpi, e le loro somatizzazioni, si fanno guarire rinunciando sempre più al contatto: le pillole sostituiscono l’analista.

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Il tattilismo futurista rimane una proposta contro corrente: «Mentre gli occhi e le voci si comunicano le loro essenze, i tatti di due individui non si comunicano quasi nulla nei loro urti, intrecci o sfregamenti. Da ciò, la necessità di trasformare la stretta di mano, il bacio e l’accoppiamento in trasmissioni continue del pensiero».26 Ma anche il tattilismo è un prodotto della cultura. Intanto vaghiamo nella civiltà delle immagini come Dante nel suo viaggio oltremondano: i corpi che vediamo sono tutti avvolti da una sorta di Noli me tangere: possiamo tentare di abbracciarli, le braccia ci torneranno al petto. Coltiviamo uno smodato desiderio di fantasmi fin da quando, con l’epoca dei lumi, abbiamo avuto la certezza che non esistono. Spettri, lemuri, revenant, ectoplasmi di ogni provenienza, anche extraterrestre, se apparissero ci garantirebbero che, oltre o extra, esiste un altro mondo. Sarebbero infinitamente rassicuranti, piuttosto che spaventosi. Ma la loro incorporeità rappresenta da sempre la simbolizzazione di un distacco: sono le ombre lunghe del nostro pensiero che, sia pure a malincuore, si sono staccate da noi, facendo a meno di noi. Che l’occhio, con l’andare del tempo, sostituisca anche l’olfatto, è una realtà tanto concreta quanto letteraria. Tutto tende a diventare immagine, dapprima nella scrittura, poi nella rappresentazione visiva vera e propria. L’olfatto è, di tutti gli organi di senso, il più recessivo. Sono spariti dalla nostra cultura gli odori sgradevoli, e questo fa parte di un’evoluzione della civiltà che, dal Settecento in poi, ha introdotto pratiche igieniche mai prima conosciute.27 Ma sono spariti anche gli odori dell’eros e quelli di cucina, l’odore della pelle e quello dell’aglio e delle frittelle. Viviamo nell’era degli snasati.28 Solo i vecchi depressi possono ripiegare sul «prevalere definitivo del passato sul presente» e concepire gli odori come Mnemagoghi.29 Uno dei romanzi più tipici di quest’era è Il profumo di Suskind, storia di un essere diabolico, nato senza odore umano, che passa la vita a fabbricarsi un odore corporeo che lo renda simile agli uomini. Gli uomini (e le donne soprattutto) passano il tempo invece a deodorarsi e a profumarsi, alimentando le ricchezze dei fabbricanti di profumo. Oggi Des Esseintes, nella sua mania di collezionismo, baderebbe più alla preziosità delle forme delle boccette di profumo, che alle essenze che contengono, e le Correspondences di Baudelaire sono già dilagate oltre il magnifico sonetto, hanno invaso le vetri-

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ne dei negozi con i loro colori evocanti e allusivi, così come le Voyelles di Rimbaud hanno riempito giochi polimaterici d’infanzia e monumenti postmoderni alla poesia.30 La poesia futurista è l’ultima ad aver convocato tutti i sensi in simultaneità. Oggi quella d’avanguardia è poesia visiva. Siamo snasati, ma colorati. Anche le rose di serra, sempre più raffinate nei loro colori ricercati, non hanno profumo. In passato la liturgia, la filosofia, la letteratura collegavano il profumo all’anima, alla mente, alle facoltà più alte dell’uomo, e il naso era veicolo verso il sovrannaturale. Ma oggi l’incenso si brucia raramente nelle cerimonie religiose, nessun naso letterario riporterebbe alla mente il senno perduto, raccolto in ampolle, come l’Ariosto fa fare ad Astolfo per Orlando, e nessun Cornelio Agrippa affermerebbe più che «l’anima, figlia e immagine dello stesso Dio, si diletta anch’essa ai profumi e alle fumigazioni».31 Napoleone scriveva a Giuseppina di non lavarsi quando stava per farle visita,32 ma oggi questo è considerato trasgressivo anche dal punto di vista igienico. Non parliamo, poi, dell’«odor di santità», il profumo di fiori e di paradiso che si diceva emanasse dai corpi santi.33 Spariti gli odori, il trionfo dei deodoranti e dei profumi non è avvenuto, tuttavia, sotto il controllo e l’azione del naso, ma tutto, il profumo e l’assenza di odore, è stato portato all’occhio. La pubblicità, con i suoi procedimenti retorici per analogie, paragoni, similitudini, ha associato al non odore e al profumo immagini sempre più intense, numerose, seducenti più del profumo stesso, perché fortemente ammiccanti, fino al punto di sostituirlo. Il profumo stesso oggi è da vedere e da collezionare. Occorre conservarlo più che usarlo, perché viene definito appunto «profumo da collezione»: è quello che offrono i settimanali femminili e le vetrine delle profumerie. I contenitori prevalgono sui contenuti, anche in senso commerciale. E il naso? Sparito anch’esso, salvo che per “sniffare”: dalla Digitale purpurea alla cocaina, passando attraverso il naso di Freud tumefatto dal tumore. Spariti il naso come simbolo e misura del sesso maschile, le Naseidi del Cinque-Seicento, il Naso di Gogol, quello di Pinocchio, quello di Cyrano.34 Sono spariti perché la rinoplastica ha rimosso il problema, rendendolo anacronistico. Una sorte non molto migliore è toccata all’udito e all’orecchio, nonostante l’enfatizzazione musicale della cultura giovanile.

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Tutto procede, anche da questo punto di vista, nella direzione dell’occhio: la civiltà e il progresso fanno degli altri sensi delle facoltà in recessione. La poesia, come si vedrà, nata dall’oralità come puro suono, va alla scrittura e si rende visibile sempre più come immagine.35 Orfeo ne rappresenta l’emblema. Nel passaggio da Omero a Dante (attraversando Strabone e tutti gli scrittori intermedi),36 anche l’esperienza di Ulisse si riduce alla visione del mondo oltre le colonne d’Ercole e delle stelle dell’altro polo, perdendo per strada la voce delle Sirene e tutto il resto. Eco, derisa e umiliata nel suo amore infelice, sembra rappresentare la disperazione di qualcosa di insufficiente, di mancante: un puro suono privo di essenza autonoma, privo di consistenza. Ciò che di magico e primordiale esiste nel suono procede lentamente ma inesorabilmente verso la ragione, la luce, l’«arte di tacere».37 Non ci sono più cetre in grado di risvegliare i morti, flauti magici e pifferai diabolici, perché l’orecchio ha perso a poco a poco il suo carattere simbolico di orifizio sessuale e mentale allo stesso tempo.38 In quest’ultima accezione, in Oriente, sia in Cina che in India, il suono era ritenuto all’origine del cosmo. Se la parola, il verbo (vak) produce l’universo, questo avviene per effetto delle vibrazioni ritmiche del suono primordiale (nada). Tutto ciò che è percepito come suono è potenza divina (una traccia di questa concezione esiste anche nel Vangelo di san Giovanni, dove si dice che «In principio era il Verbo»). La conoscenza primordiale era dunque non una visione ma una percezione uditiva («luce auricolare» è definita nel Trattato del Fiore d’Oro). Si troverebbe una traccia di questa comunicazione primordiale anche nella cultura occidentale, nei testi patristici in cui si dice che la Madonna concepì attraverso l’orecchio.39 Chi ascolta suoni inaudibili lo fa, come Brahma, con l’«occhio del cuore»; esistono numerose tecniche indù di percezione del suono interiore, paragonato a quello della campana, della conchiglia. Questo tipo di ascolto si riscontra anche in certe pratiche musulmane (dhikr).40 Di questa conoscenza primordiale si perdono progressivamente le tracce e la visione del cuore diventa a poco a poco una percezione visiva. Il «terzo occhio»41 ne può essere testimonianza nell’ambito della cultura orientale, mentre in Occidente le Sirene hanno smesso di cantare da quando Orfeo ha distratto gli Argonauti dal loro canto e Ulisse si è fatto legare all’albero maestro per non essere ammaliato.42

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Le voci primordiali tendono alla sconfitta, la ragione e l’astuzia le vincono e le ricacciano nel mare, elemento primigenio dal quale provengono. Le leggende posteriori sul loro canto ne sottolineano sempre la separazione ineluttabile rispetto al mondo degli uomini (come ad esempio nella fiaba di Andersen). Può sembrare paradossale affermare che nell’evoluzione della civiltà, soprattutto occidentale, si manifesta una perdita di suono: la musica, apparentemente, ha assunto un’importanza straordinaria, ha invaso pratiche e livelli culturali prima inaccessibili. Quando Adone viene iniziato al sapere amoroso nel giardino dei sensi, viene pur educato alla musica; I gioielli indiscreti di Diderot emettono confessioni segrete riprendendo antichi fabliaux43 e riassociando la simbologia sessuale all’immagine dell’orecchio e del suono. Tante poesie, del resto, appaiono più costruite per l’ascolto che per la lettura (si pensi a La pioggia nel pineto dannunziana, ma poi si vada a guardare, sentire, annusare quella antidannunziana del futurista Paolo Buzzi). Del resto, i futuristi hanno ridato dignità alle sensazioni uditive della poesia e dell’arte in genere: pensiamo all’“intonarumori” di Russolo e a tutti gli strumenti creati o rivisitati per ottenere gli effetti sonori più divertenti e rari. La radio, i dischi, i nastri registrati emettono suoni, che diventano a volte protagonisti anche di storie scritte per essere lette: si pensi a Ribes, romanzo di Nico Orengo, o al Fantasma di Mozart di Laura Mancinelli e ai Castelli di rabbia di Baricco. Può sembrare che i suoni siano in grado di sopraffare le visioni, si può credere che ciò che produce rumore possa essere più forte di ciò che appare silenzioso. Invece non è così. La civiltà contemporanea soffre di inquinamento acustico e l’eccesso, in questo caso, genera non uno scatto al livello superiore o uno spostamento come dalla vista alla visione, bensì l’effetto contrario: l’eccesso di suono e di rumore genera sordità, ossia silenzio. È così non solo sul piano psicologico ma anche su quello fisico: gli ultrasuoni non possono essere percepiti, e all’udito non rappresentano che il silenzio. Allora sia l’eccesso di rumore (in fabbrica, in città o in discoteca), che l’eccesso di intensità del suono (ultrasuono) contribuiscono all’ottundimento e all’emarginazione dell’udito nella società contemporanea. D’altronde, come dice Huxley: Le emozioni negative menomano la vista, in parte attraverso un’azione diretta sui sistemi nervoso, ghiandolare e circolatorio, in parte indebolendo l’efficienza della mente. È letteralmente vero che si diventa “ciechi di rabbia”, che la paura fa “ve-

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dere tutto nero” o fa “ballare tutto dinanzi agli occhi”, che l’angoscia può “ottundere” al punto da ridurre la vista e l’udito, con conseguenze pratiche spesso gravi. Né gli effetti di tali emozioni negative sono sempre transitori.44

In compenso, i suoni si trasformano in immagini: la musica viene prodotta in video-clip, i dischi di vinile si trasformano in immagini di modernariato da esibire al Salone della Musica di Torino e da far pagare a caro prezzo perché si possono anche appoggiare come quadri alle pareti, anziché sui giradischi, destinati a sparire a favore di apparecchi per compact-disc. Resta il telefono («la tua voce»?) ma per poco, giacché il videotelefono, come il videocitofono, è in agguato. A cosa tende dunque tutto questo sparire dei sensi, questo farsi assorbire dalla vista? Espressioni come «visione del cuore», «mangiare con gli occhi», «sfiorare con lo sguardo» celebrano la sinestesia come regno della vista, strappando agli altri sensi il terreno che è loro proprio e trasfigurandoli in immagini. Rispondere che la civiltà procede verso una negazione del corpo può essere inadeguato, anche se apparentemente inconfutabile. Sarebbe come riconoscere che il corpo è comunque in progressivo stato di censura, nonostante le varie forme di liberazione prodotte dalla psicoanalisi, dall’esercizio fisico e da tutte le componenti più varie della cultura contemporanea. Perché il corpo tenda a riassumersi nella visione e tutti gli organi di senso nell’occhio, rimane un problema a cui probabilmente possono dare risposta solo varie forme di conoscenza, provenienti da più discipline, considerate “sinotticamente”. Se l’occhio è l’unico degli organi di senso a produrre metamorfosi nel passaggio dal concreto all’astratto, l’unico a produrre “visioni”, occorre cercare risposte a quella domanda anche nel campo delle scienze fisiche.45 Probabilmente il nucleo della spiegazione risiede in una risaputa questione di velocità: mentre gli altri sensi hanno bisogno di un contatto tra mittente e destinatario, tra l’oggetto da percepire e l’organo di percezione (tatto, gusto, olfatto, udito), le immagini alla vista arrivano senza contatto, senza molecole di materia che colpiscano i “terminali” dell’olfatto e le cellule mitrali, senza onde sonore che s’infrangano contro il timpano. Siamo sempre sul modello del “cane di Pavlov”: l’occhio afferra anche senza contatto, anche suo malgrado, anche in astratto. È l’unico a farlo e comunica col nostro cervello più velocemente di tutti gli altri organi di senso. Per questo prevale poi anche nelle scelte mentali e nell’elaborazione del

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linguaggio la vista è il nostro senso dominante. Per questo, forse, gli storici invitano alla cautela e alla distanza nell’esaminare non solo i fatti, ma soprattutto le idee che si manifestano nella storia vicina a noi.46 Se le cose stanno così, gli altri sensi finiscono per manifestarsi nella storia della cultura umana come recessivi, progressivamente messi da parte dall’occhio, che può riassumerli tutti simbolicamente e per sinestesia. Se tutto si trasforma in noi e attorno a noi in vista e visione, un giorno, forse, saremo solo occhi, occhi infinitamente proiettati col desiderio a superare tutti i confini, occhi che indagheranno su tutto e vinceranno anche su di noi: saremo tutt’occhi, a esplorare altri occhi nel silenzio e nell’immutabilità.

1 Cfr. Q. O RAZIO F LACCO , Ars poetica, 361. Già Platone aveva affermato la superiorità della vista, senza farne una trattazione sistematica, nel Timeo, 32-36; 6468; nel Teeteto, 156b; nella Repubblica, V.21, 477c; VII.10, 527d-e. Anche Aristotele, nel trattato sull’Anima e in quello sul Senso, nell’Etica nicomachea e nella Metafisica riserva uno spazio privilegiato alla vista nella conoscenza e nella rappresentazione del mondo: cfr. Aristotle on Mind and the Senses, a cura di G.E.L. Owen, Cambridge 1978; G. ROMEYER-DHERBEY, Voir et toucher. Le problème de la prééminence d’un sens chez Aristotle, in “Revue de Métaphisique et de morale”, XCVI, 1991; T.J. SLAKEY, Aristotle on sense perception, in “Philosophical Rewiew”, LXX, 1961; Aristotle’s De Anima in focus, a cura di M. Durrant, New York 1993. Anche Lucrezio privilegia la vista nella conoscenza: cfr. De rerum natura, IV. Così pure Cicerone, nel De natura deorum, II, 56, 140-141. Tra gli scrittori cristiani, sono fondamentali in questo senso gli interventi di Origene, in Contra Celsum, I, 48 e di Sant’Agostino, nelle Confessioni. Ma si ricordi anche LEONARDO DA VINCI, Trattato della Pittura, Langlois, Parigi 1651, ora in Scritti letterari, Rizzoli, Milano 1979: «La Pittura è una poesia, che si vede e non si sente, e la Poesia è una Pittura, che si sente e non si vede. Adunque queste due Poesie, o vuoi dire due Pitture, hanno scambiato li sensi, per li quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto. Perché, se l’una e l’altra è Pittura, de’ passare al senso comune per il senso più nobile, cioè l’occhio; e se l’una e l’altra è Poesia, esse hanno a passare per il senso meno nobile, cioè l’udito». Per un’interessante panoramica su questo tema, cfr. P. PERILLI, Storia dell’arte italiana in poesia, Sansoni, Firenze 1990. 2 Cfr. M. B ETTINI , La scrittura di Aconzio, in Con i libri, Einaudi, Torino 1998, p. 10: «La scrittura di Aconzio è il seme di tutte le scritture astute, e l’unico modo per sottrarsi alla sua trappola sarebbe quello di non leggerla. Ma è possibile? Anch’io leggo tutto quello che vedo scritto, e credo che in realtà ben pochi riescano a sottrarsi alla fascinazione dei caratteri dell’alfabeto. Non solo a quella provocata dalle scritture astute, concepite al solo scopo di essere lette, ma anche a quella che emana da qualsiasi scrittura». 3 Cfr. il volume miscellaneo Dialogue dans le noir, Stiftung Blindenanstalt, Frankfurt 1994. Ma cfr. anche la mostra itinerante Dialogo nel buio, ideata da Andreas Heinecke, che da alcuni anni in Europa (e nel 1997 anche a Roma) ha proposto la

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sperimentazione delle immagini del mondo in assenza della vista sollecitando, con molta fatica, l’uso di tutti gli altri sensi. 4 Cfr. P. C AMPORESI , La casa dell’eternità, Garzanti, Milano 1987. 5 U. F OSCOLO , I Sepolcri, 121-123; cfr. A. C AROTENUTO , L’eclissi nello sguardo, Bompiani, Milano 1997. 6 Ne dà notizia Ruggero Pierantoni in un articolo (“Il Sole 24 ore”, 14 dicembre 1997) che, sulla scorta di una relazione di Dario Gamboni, parla di una «perfetta iconologia dell’iconoclastia», nella quale comunque, si può ravvisare il «prodotto perverso di una nuova catena di simboli del potere. Le teste dell’Idra di Lerna». 7 F.A. G ALLO , Musica nel castello. Trovatori, libri, oratori nelle corti italiane dal XIII al XV secolo, Il Mulino, Bologna 1992; C. BOLOGNA, Flatus vocis, Il Mulino, Bologna 1992. 8 In particolare, si devono a Walter Ong e a Paul Zumthor gli studi più recenti sull’argomento: del primo cfr. Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuen, London and New York 1982 (trad. it. Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986); del secondo, Introduction à la poésie orale, Seuil, Paris 1983 (trad. it. La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna 1984). 9 P.M. F ORNI , Forme complesse nel Decameron, Olschki, Firenze 1992; E. PAULICELLI, Parola e immagine. Sentieri della scrittura in Leonardo, Marino, Foscolo, Calvino, Cadmo, Firenze 1997. 10 W. D EONNA , Le Symbolisme de l’oeil, Paris 1965; B. G ARCIA H ERNANDEZ , El campo semàntico de “ver” en la lengua latina: Estudio estructural, Salamanca 1976; C. OSSOLA, Figurato e rimosso, Il Mulino, Bologna 1985; G. POZZI, La parola dipinta, Adelphi, Milano 1981; ID., Poesia per gioco, Bologna, Il Mulino, 1984; R. DEBRAY, Vie et mort de l’image. Une histoire du regard en Occident, Gallimard, Paris 1992. 11 J. S TAROBINSKI , L’oeil vivant, Gallimard, Paris 1961 (trad. it. L’occhio vivente. Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, Einaudi, Torino 1975); ID., La relation critique, Gallimard, Paris 1970. 12 D. A LIGHIERI , Paradiso, I, v. 113. 13 J. HILLMAN, The Dream and the Underworld, Harper & Row, New York 1979 (trad. it. Il sogno e il mondo infero, Comunità, Milano 1984). 14 J.P. S ARTRE , L’imaginaire. Psychologie phénoménologique de l’imagination, Gallimard, Paris 1948 (trad. it. Immagine e coscienza, Einaudi, Torino 1969). 15 Cfr. M. H ENRY , Vedere l’invisibile. Saggio su Kandinskij, Guerini e Associati, Milano 1996. 16 Cfr. E. C ASTELNUOVO , Vetrate medievali. Officine tecniche maestri, Einaudi, Torino 1994. 17 R. BARTHES, La chambre claire. Note sur la photographie, Seuil, Paris 1980 (trad. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, p. 9). 18 I D ., L’obvie et l’obtus. Essais critiques III, Seuil, Paris 1982 (trad. it. L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 1985, p. 147). 19 ID., Mythologies, Seuil, Paris 1957 (trad. it. Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974). 20 Cfr. I. A LLENDE , Afrodita, Feltrinelli, Milano 1997. 21 Cfr. R.A. A LVES , Parole da mangiare, Qiqajon, Bose (Biella) 1998. 22 M. GRANET, Etudes sociologiques sur la Chine, P.U.F., Paris 1953 (ora in M. GRANET - M. MAUSS, Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975, pp. 121-176). 23 M. G RANET - M. M AUSS , Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975. 24 D. LAPORTE, Histoire de la merde (Prologue), Ed. Bourgois, 1978; A. CORBIN, Le miasme et la jonquille, Aubien Montaigne, Paris 1982 (trad. it. Storia sociale degli odori: XVIII e XIX sec., Mondadori, Milano 1983); P. CAMPORESI, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Comunità, Milano 1984; ID., Le officine dei sensi, Garzanti, Milano 1985 (e tutti gli altri saggi dello stesso autore).

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25 F. F ORNARI , La “Tempesta” di Giorgione, in Coinema e icona. Nuova proposta per la psicoanalisi dell’arte, Il Saggiatore, Milano 1979, pp. 82-92. 26 F.T. M ARINETTI , Il tattilismo, gennaio 1921. 27 Oltre ad A. C ORBIN , Le miasme..., cfr. G. V IGARELLO , Le propre et le sale. L’hygiène du corps depuis le Moyen Age, Seuil, Paris 1985 (trad. it. Lo sporco e il pulito. L’igiene del corpo dal Medioevo a oggi, Marsilio, Venezia 1987). 28 Cfr. di P. C AMPORESI , oltre a Le officine... e La casa..., L’era degli snasati, in “Corriere della Sera”, 11 agosto 1987 e I balsami di Venere, Garzanti, Milano 1989. Si veda anche M. DETIENNE, Dyonisos mis à mort, Gallimard, Paris 1977 (trad. it. Dioniso e la pantera profumata, Laterza, Roma-Bari 1983). 29 È il titolo del primo racconto delle Storie naturali di Primo Levi, pubblicate con lo pseudonimo di Damiano Malabaila. 30 Si veda appunto il monumento alle Voyelles di Rimbaud e la Maison de la poésie nelle nuove Halles di Parigi. 31 C.H. A GRIPPA , De incertitudine et vanitate scientiarum, 1530. 32 N. BONAPARTE, Lettres d’amour à Joséphine, Fayard, Paris 1981 (trad. it. Lettere d’amore a Giuseppina, Rusconi, Milano 1982). 33 Cfr. ancora P. C AMPORESI , La carne impassibile, Il Saggiatore, Milano 1983. 34 Per la storia del naso, cfr. F.B. M ICHEL , Du nez, Grasset, Paris 1993. Il libro non si limita all’excursus di carattere storico, ma si addentra nell’interpretazione psicologica dell’enfatizzazione letteraria del naso. A questo proposito, sono interessanti, oltre alle analisi dell’ossessione del naso nello scultore Giacometti, nel Pinocchio di Collodi, nel Cyrano di Rostand, nel Naso di Gogol, nel Naso di un notaio di Edmond About, nel Profumo di Suskind, nel racconto di Calvino Il nome, il naso (Sotto il sole giaguaro), le interpretazioni psicoanalitiche applicate allo stesso Freud e al dottor Fliess (autore delle Relazioni fra il naso e gli organi genitali femminili) e quelle applicate all’iperallergico Marcel Proust e alle sue scritture dedicate alla memoria olfattiva. 35 Una recente mostra di pittura, con relativo catalogo, ha ben evidenziato le possibilità che l’attività della vista ha di ricondurre tutti gli altri sensi nel suo campo d’azione: cfr. Immagini del sentire. I cinque sensi nell’arte, Santa Maria della Pietà, Cremona 21 settembre 1996-12 gennaio 1997. 36 M. C ORTI , Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Einaudi, Torino 1993. 37 È questo il titolo di un singolare trattatello del Settecento: cfr. J.A.T. DINOUART, L’art de se taire, principalement en matière de religion, Simon Bénart, Paris 1771 (trad. it. L’arte di tacere, Sellerio, Palermo 1990). 38 Per la prima simbologia, cfr. B. M AUPOIL , La géomancie à l’ancienne cote des Esclaves, Paris 1943, p. 517; R. DE GOURMONT, Le latin mystique. Les poètes de l’antiphonaire et la symbolique au Moyen Age, Paris 1913, p. 315. Per la seconda simbologia, cfr. E. GUENON, L’homme et son devenir selon le Vedanta, Paris 1925; M. KALTENMARK, Le lie-sien tchouan, Pechino 1953. 39 Si soffermano sulla potenza del Verbo soffiato nell’orecchio sia sant’Agostino che Efrem Siro, Zeno da Verona e Gaudenzio di Brescia. Cfr. G. POZZI, Sull’orlo del visibile parlare, Adelphi, Milano 1993; A. APPIANO, Forme dell’immateriale. Angeli, Anime, Mostri. Semiotica, iconologia e psicologia dell’arte, SEI, Torino 1996; L. BOSIO, Annunciazione, Mondadori, Milano 1997. 40 Cfr. A. AVALON , La puissance du serpent, Lyon 1959 (trad. it. Il potere del serpente, Roma 1968); J. DANIELOU, Le Mysthère de l’Avent, Paris 1948 (trad. it. Il mistero dell’avvento, Brescia 1966); M. ELIADE, Le yoga, immortalité et liberté, Paris 1954 (trad. it. Lo yoga, immortalità e libertà, Milano 1973); M. GRIAULE, Le traité de la Fleur d’or du supreme un, Paris 1966; R. GUENON, Aperçus sur l’initiation, Paris 1948; C. VACHOT, La guirlande des Lettres, Lyon 1954.

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T. LOBSANG RAMPA, Il terzo occhio, Mondadori, Milano 1958. F. KAFKA, Il silenzio delle Sirene, in Racconti. 43 Fabliaux, Einaudi, Torino 1987. 44Cfr. A. HUXLEY, The Art of Seeing, Chatto & Windus LTD, London 1943 (trad. it. L’arte di vedere, Adelphi, Milano 1989, p. 136). 45 È appunto ciò che fa da vari anni R UGGERO P IERANTONI , di cui cfr. almeno L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Bollati Boringhieri, Torino 1993; La trottola di Prometeo, Laterza, Roma-Bari 1996; Verità a bassissima definizione. Critica e percezione del quotidiano, Einaudi, Torino 1998. 46 Cfr. C. G INZBURG , Nove riflessioni sulla distanza, Feltrinelli, Milano 1998.

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II. FIGURE DEL MITO

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Gli occhi di Omero La storia della letteratura occidentale parte dalla figura del poeta cieco. È l’aedo, il cantore, colui che fa da mediatore tra la Musa (le Muse) e l’uditorio. Lo scrivere e il leggere non hanno alcuna parte in questa attività. È così sia per Omero che per Esiodo. Le Muse, figlie di Zeus e della Memoria (Mnemosyne), compongono parole o canti mentre danzano e la comunicazione acustica si distende in un certo spazio, per raggiungere un uditorio.1 I poemi omerici sono ancora il frutto di una cultura orale:2 questa è ormai acquisizione critica unanimemente condivisa, anche se è ben lungi dal chiudere definitivamente la cosiddetta questione omerica. Omero (o chi per lui) rappresenta il momento di passaggio in cui la Musa «impara a scrivere», ma ciò che scrive è ancora poco influenzato dalla scrittura stessa e molto dall’oralità. Che cosa c’è, dunque, di visivo in questi prodotti in movimento dalla voce alla scrittura, in cui si aggirano i ciechi aedi intermediari del canto divino? Intanto, la scrittura stessa. Quella greca è la prima scrittura visiva della cultura occidentale, nel senso che visualizza dei suoni: È facile capire perché i sistemi pre-greci non andassero mai oltre la sillaba. Questo ‘pezzo’ di suono linguistico è effettivamente pronunciabile e quindi empiricamente percepibile. Le consonanti sono, a rigore di definizione, ‘mute’, ‘non pronunciabili’ (aphona, aphthonga sono i termini usati da Platone, che egli dice di aver attinto a fonti precedenti). Il sistema greco superò l’empirismo, astraendo gli elementi non pronunciabili, non percepibili contenuti nelle sillabe. Oggi noi chiamiamo questi elementi ‘consonanti’ (sym-phona, termine greco più preciso, che sostituì aphona, perché sono ‘pronunciate insieme con’). La loro creazione enucleò una componente impronunciabile del suono linguistico e le diede un’identità visiva. I greci non ‘aggiunsero’ le vocali (comune malinteso: i segni vocalici erano già comparsi, ad esempio, nel cuneiforme della Mesopotamia e nella Lineare B), bensì inventarono la (pura) consonante. Nel far ciò essi fornirono per la prima volta alla razza umana la rappresentazione visiva di un suono linguistico che era al contempo economica ed esaustiva. Una tavola di elementi atomici che, raggruppandosi in una quantità inesauribile di combinazioni, possono rappresentare con ragionevole precisione qualunque effettivo suono linguistico. L’invenzione fornì anche il primo e ultimo strumento perfettamente costruito per riprodurre tutto l’ambito della precedente oralità.3

Questa particolare caratteristica dell’alfabeto greco spiega la compresenza dell’oralità primaria e della scrittura nei poemi omerici: la Musa di Omero è ancora colei che canta, ma è anche colei che invita a leggere.

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Questi poemi restarono a lungo scritti soltanto nella memoria degli uomini; furono raccolti per iscritto molto tardi e con gran difficoltà. Fu quando la Grecia cominciò ad abbondare di libri e di poesia scritta che tutto il fascino di quella di Omero si fece sentire per comparazione. Gli altri poeti scrivevano, Omero solo aveva cantato.4

L’oralità e la gestualità che si trasformano in scrittura non solo visualizzano il simbolismo del loro linguaggio, ma fanno della scrittura stessa un’espressione visionaria. Tutto si appiattisce, si riduce e si condensa in questa catena di segni, limitati di numero e di forma, illimitati nelle combinazioni. Ma nel momento in cui il gesto, il suono, il corpo, la natura perdono il loro rilievo, la loro materialità (e la loro precarietà), si trasformano in visioni infinitamente moltiplicabili, che dalla vista di semplici grafemi attingono sempre a qualche cosa di più, che non appartiene alla vista ma, esigendo la cooperazione dell’immaginazione, produce una serie di visioni. Colui che legge vede le parole, sì, ma soprattutto le oltrepassa, vede attraverso, esercita una funzione veggente che è, oggi come ai tempi di Omero, l’essenza di ogni comunicazione che abbia come tramite la scrittura. Gli occhi di Omero, ciechi perché simbolo di quella funzione, sono occhi che oltrepassano le soglie, che escono dai confini, che della vista non si contentano più. Se è vero, come afferma Ong, che «il linguaggio ha un carattere profondamente orale» poiché «ovunque esistono esseri umani, essi hanno un linguaggio, e sempre si tratta di lingua parlata e udita, ossia che esiste nel mondo del suono»,5 è anche vero che quando il linguaggio si fa scrittura trasforma la sua oralità in visività: «La penna è la lingua della mente», afferma Cervantes nel Don Chisciotte. Alle origini della scrittura, questa è la grande intuizione degli uomini sulla sua funzione, vedere, parlare, gestire appartengono al livello primario della comunicazione, ma scrivere è un privilegio accessibile non a tutti. Chi scrive vede ciò che gli altri non vedono, esercita il suo sguardo oltre le cose, oltre le apparenze. Chi scrive è cieco, mendico, sradicato dal mondo, dipendente solo dagli dei. Omero non dice di sé altro che questo: «Cantami, o Diva» (Menin àeide zeà). Eppure quel cantare cieco ha creato un mito. Noi vediamo ancora nell’Ottocento «mendico un cieco penetrar negli avelli» (Foscolo) e nel Novecento errare nei Poemi conviviali di Pascoli il vecchio a cui la dea profetizza: «Sarai felice di veder tu solo, / non ciò che il volgo viola con gli occhi, / ma delle cose l’ombra lunga, immensa, / nel tuo segreto pallido tramonto».6

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La tipologia si è consolidata nei secoli, benché nei secoli la famosa questione omerica abbia ricevuto, invece, un approccio più scientifico, più contestualizzato: dunque, in parte, demitizzato. Noi oggi sappiamo, con Milman Parry,7 con Havelock e Ong, che i Greci contemporanei di Omero apprezzavano le frasi fatte, le formule, i clichés perché non solo i poeti, ma l’intero mondo culturale poggiava su un pensiero formulaico (in una cultura orale la conoscenza, una volta acquisita, doveva essere costantemente ripetuta, o si sarebbe persa). Sappiamo con Havelock che all’epoca di Platone i Greci avevano ormai interiorizzato la scrittura e il nuovo modo di immagazzinare il sapere non si basava più su formule mnemoniche, ma sul testo scritto. Per questo Platone escludeva i poeti dalla sua Repubblica, perché il mondo della cultura era ormai regolato dalla scrittura, e la formula e il cliché, amati dai poeti tradizionali, erano ormai fuori moda.8 Sappiamo tutto questo, ma gli occhi di Omero ci guardano ancora. È sufficiente considerare l’importanza della figura del veggente nella poesia simbolista del tardo Ottocento-primo Novecento, per comprendere la persistenza del mito. Il veggente è colui che rischia la cecità e la follia pur di vedere ed esprimere ciò che agli altri non è concesso. È ancora la funzione dantesca della poesia, con il rischio calcolato della perdita della vista e della ragione normale. Ma mentre per Dante il ritorno alla norma era garantito dal crisma divino, per Rimbaud sopravvivere, ritornare non è importante: il poeta veggente giunge all’ignoto! Poiché ha coltivato la sua anima, già ricca, più di qualsiasi altro! Egli giunge all’ignoto, e quand’anche, smarrito, finisse col perdere l’intelligenza delle proprie visioni, le avrà pur viste! Che crepi nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: verranno altri orribili lavoratori; cominceranno dagli orizzonti sui quali l’altro si è abbattuto!9

Per i simbolisti la realtà sta dietro l’apparenza delle cose, al fenomeno basta la vista, ma per il mistero ben più reale che vi si cela occorre la visione. Questo tipo di alternanza vista/visione solo in apparenza genera equilibrio, soddisfazione, saggezza. In realtà, sia in Dante che nel Leopardi, ad esempio, o in Baudelaire, in Pascoli, genera uno stato profondo di angoscia, in cui quell’alternanza si rivela essere un’opposizione insanabile, la rivelazione di un disagio profondo, di una disarmonia psicologica che probabilmente identifica in modo specifico la sindrome psicopatologica del

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poeta: quella che si potrebbe definire, appunto la sindrome di Omero. Un testo significativo da questo punto di vista è Les Aveugles di Baudelaire (Fleurs du Mal, 92):

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Contemples-les, mon ame; ils sont vraiment affreux! Pareils aux mannequins; vaguement ridicules; Terribles, singuliers comme les somnambules; Dardant on ne sait où leurs globes ténébreux. Leurs yeux, d’où la divine étincelle est partie, Comme s’ils regardaient au loin, restent levés Au ciel; on ne les voit jamais vers les pavés Pencher reveusement leur tete appesantie Ils traversent ainsi le noir illimité Ce frère du silence éternel. O cité! Pendant qu’autour de nous tu chantes, ris et beugles, Eprise de plaisir jusqu’à l’atrocité, Vois! je me traine aussi! mais, plus qu’eux hébété, Je dis: Que cherchent-ils au Ciel tous ces aveugles?

L’identificazione del disagio avviene in modo molto simile nella poesia L’albatros (Fleurs du Mal, 2) ed è un tema caro a Baudelaire, che compone con implacabile lucidità la propria diagnosi. Il poeta è qualcuno che si muove goffamente, con immensa sofferenza sulla terra, nel contesto sociale, nella norma. Egli è fatto oggetto di scherno per la sua condizione abnorme: come un cieco, si trascina in mezzo agli altri, cercando qualcosa nel cielo; come avviene per l’albatro, le ali, che in cielo lo rendono tanto armoniosamente leggero, sulla terra gli impediscono di camminare agilmente e rendono ridicole le sue movenze. Il poeta è un disadattato, ma solo parzialmente. Egli vive da emarginato tra gli uomini, ma in piena armonia con il tutto, con l’universo, con l’infinito. È la stessa condizione di Dante, di Leopardi, probabilmente di tutti i poeti: se passiamo dal sublime al suo rovescio parodistico, troviamo nei Fabliaux la cecità trattata come manifestazione fisica di una tara morale; così avviene anche in Lazarino del Tormes e si ricordi che il recente romanzo di Saramago, Cecità, la presenta collettivamente, pestilenzialmente, con lo stesso significato.10 Sebastiano Vassalli ha identificato questa condizione in modo particolarmente esemplare nel romanzo La notte della cometa, in cui la storia proposta come modello è quella del poeta folle, Dino Campana. Uomo «meraviglioso e mostruoso»,11 egli è considerato dalle persone comuni un visionario, un matto, un essere scomodo,

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a partire dai suoi genitori, che «si quetarono soltanto quando lo seppero rinchiuso in manicomio, per sempre». Le conclusioni dell’inchiesta di Vassalli costituiscono quasi una diagnosi su

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un uomo che fu considerato dai contemporanei un prodotto anomalo della natura, uno che ‘non aveva compreso nulla di quel che è il vivere comune’: ed era solo un poeta. (Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, ‘primitiva’, ‘barbona’, da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri).12

Non si tratta soltanto dell’interpretazione romantica della funzione del poeta: il cenno alla primitività della poesia ha a che fare più con Freud che con Vico, poiché da quando l’umanità è passata dall’oralità alla scrittura ha respinto, rimosso, le interne pulsioni dell’uomo a “cantare” i propri miti, le proprie favole, le produzioni creative dell’inconscio con cui fino a quel momento aveva condiviso la luce del sole. Pian piano l’uomo ha imparato che la poesia appartiene alle tenebre, proviene dalla notte, e che l’interiorità della psiche va combattuta con la stessa maestria con cui si combattono le belve, tenuta a distanza, diffidata dall’abitare la luce. Il poeta cieco (goffo, ridicolo, pazzo, disadattato, mostruoso) rappresenta davvero il riconoscimento di un passaggio culturale: per guardare nelle tenebre bisogna aver perso la vista del mondo, aver ricevuto in qualche modo le stimmate, la segnatura, un marchio che rende diversi e nello stesso tempo superiori. Al tempo di Platone, nell’età aurea della cultura greca, il poeta è ormai visto come un barbaro, un essere superato, fuori moda, ma non solo perché ripete clichés di cui la civiltà della scrittura non ha più bisogno per memorizzare. La spiegazione più profonda è anche quella più inquietante: i poeti restano a ricordare l’epoca in cui Minosse non aveva ancora rinchiuso il Minotauro e Teseo non l’aveva ancora ucciso, l’epoca in cui i confini tra conscio e inconscio erano ancora molto labili e l’universo era pieno di storie eccessive, trasgressive e senza altra regola che quella del caso e della necessità. I poeti, come spiega ancora Freud nell’Introduzione all’Interpretazione dei sogni, sono stati i primi a intuire i meccanismi della psiche umana, a comprendere che i sogni e le fantasie degli uomini sono altrettanto reali della realtà. Omero rappresenta, in quell’alba della civiltà, la prima intuizione che l’umanità ha riguardo alla funzione psichica della poesia, la prima rappresentazione della psicopatologia di

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un’attività che, da allora, il mondo civile razionale ha sempre trovato un po’ incresciosa. È possibile che debba essere compresa in questa tipologia anche la figura di Cassandra, profetessa di sventure in grado di cantare la storia prima che si compia: così in effetti viene presentata nei Sepolcri dal Foscolo, così è ancora in Christa Wolf, che ne fa l’emblema di un momento «in cui, con l’avvento della società patriarcale e gerarchica, l’espressione letteraria femminile sparisce per millenni».13 Maschio o femmina che sia, ancora oggi, il poeta è cieco, e l’ammirazione che gli viene tributata non è mai dissociata da un senso profondo di disagio, perché rappresenta l’irruzione della parte più profonda della psiche in un contesto regolato dalla ragione e dalla norma sociale. Il disagio del poeta nel mondo ha origine da una forma di disadattamento e nello stesso tempo ne genera altro, sempre più profondo. Questa condizione, se esaminata alla luce delle teorie psicoanalitiche, sembrerebbe generalizzabile a qualunque forma di attività che abbia a che fare con la fantasia.14 L’attività fantastica è un’attività riparatrice delle ferite che la civiltà procura alle pulsioni primitive dell’uomo, dunque ogni attività di questo genere ha origine da un dolore, da un disagio che vanno medicati, controbilanciati. Non solo il poeta, ma l’artista, il letterato, il sognatore, l’uomo, insomma, esprimono così la loro infelicità e soddisfano il loro bisogno di felicità. Eppure l’immagine si è stereotipata nella cecità del poeta. Probabilmente anche oggi, come all’epoca di Platone, viviamo in una zona di confine culturale, una zona dove la coscienza ha esteso enormemente il suo raggio d’azione, una zona in cui la luce ha invaso gran parte delle tenebre psichiche del passato. L’invasione della psicoanalisi, della pratica e dello studio, ma anche della semplice informazione, attraverso i mass-media, ha fatto sì che molte attività fantastiche siano riconosciute e ammesse come pratiche accettabili entro certi limiti perché terapeutiche, necessarie, e si è tornati alla condizione di labilità fra conscio e inconscio come una condizione di igiene mentale, anziché respingerla, come sintomo di commistione tra civiltà e barbarie. Sono dunque entrati nelle nostre pratiche igieniche quotidiane favole, romanzi e ogni genere di letteratura che abbia a che fare con il linguaggio quotidiano senza apparentemente parlare un’altra lingua. Solo la poesia, oggi, parla un’altra lingua: procede per condensazione, per sintesi; ripudia il superfluo, sfronda la grammatica, distilla immagini: porta nel regno del visibile ciò che è nel-

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l’invisibile, a forza di grattare superfici cerca l’essenza delle cose, che continua a essere perturbante e insostenibile. Di nuovo, la visione fa irruzione attraverso le figure retoriche di cui la poesia si nutre e il poeta, accecato, non vede neppure più la superficie delle cose, perché ne cerca l’immagine più profonda. Si pensi a quale deprivazione del poeta alluda Omero quando fa coincidere la definizione del vivere con quella del vedere: «vivere e vedere la luce del sole» (Iliade, XXIV, 558); «vivere e tenere aperti gli occhi sulla terra» (Iliade, I, 88). Il poeta continua a soffrire della sindrome di Omero, ma il paradosso vuole che oggi anche i poeti si moltiplichino. La poesia in libreria non vende, gli editori restringono il più possibile le loro collane di poesia e il mondo non ha mai avuto tanti poeti. Ognuno cerca in se stesso l’aedo che l’umanità ha ripudiato, perché il dilagare della coscienza ha convinto l’uomo a cercarsi dentro di sé, non solo agostinianamente, in interiore homine habitat veritas, ma anche per conoscenza terapeutica, espressiva, creativa, liberatoria. Ognuno è medico di se stesso, ognuno cerca la poesia come visione di sé più profonda e completa. Ma questo bisogno non rende il mondo più poetico, più ricettivo e amico dei poeti: come tanti ciechi che si ignorano l’un l’altro, gli uomini cercano oggi ognuno il proprio cielo, condannati dalla natura stessa della poesia a non socializzare mai fino in fondo tra di loro, a non accettare mai pienamente gli altri ciechi vaganti nella folla.

Narciso Sarà il più cieco e il più veggente dei poeti contemporanei a introdurci negli occhi di Narciso. Jorge Luis Borges rappresenta in modo perfetto, biograficamente e poeticamente, la tipologia omerica nella cultura postmoderna. Della sua cecità Borges ha fatto uno strumento cosciente di ricerca di sé attraverso tutti gli oggetti e i personaggi che hanno costituito la cultura del mondo. Ha costruito specchi capaci di sostituire le immagini che non vedeva più. Ha cercato negli altri poeti e filosofi del passato un lampo, un guizzo di realtà che lo illuminasse almeno in parte, almeno per un attimo. C’è una sua poesia, dedicata a Milton, anche lui divenuto cieco poco dopo i quarant’anni, che lo ritrae perfettamente in questo atteggiamento poetico: Una rosa y Milton15

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De las generaciones de las rosas Que en el fondo del tiempo se han perdido Quiero que una se salve del olvido Una sin marca o signo entre las cosas Que fueron. El destino me depara Este don de nombrar por vez primera Esa flor silenciosa, la postrera Rosa que Milton acercò a su cara, Sin verla. Oh tù bermeja o amarilla O blanca rosa de un jardin borrado, Deja màgicamente tu pasado Inmemorial y en este verso brilla, Oro, sangre o marfil o tenebrosa Como en suas manos, invisible rosa.

Quella rosa, di cui Borges vuole salvare il ricordo attraverso la poesia, è l’ultima che Milton ha tentato di vedere: «Immagino Milton mentre avvicina la rosa al viso, ne odora il profumo, senza essere naturalmente in grado di dire se la rosa fosse bianca, o piuttosto rossa o gialla».16 Quella rosa, referente emotivo di una situazione drammatica comune, diventa il simbolo stesso della poesia di chi è cieco e vede oltre le cose: un passaggio di testimone da un poeta all’altro, che Borges raccoglie dalle mani di Milton e fa brillare nel suo verso. In quel testimone il poeta cerca la propria immagine perduta, e l’immagine stessa del mondo. Si noti che Borges aborrisce gli specchi in sé: un’altra sua poesia, Los espejos, è molto eloquente a questo proposito: Dios ha creado las noches que se arman de sueños y las formas del espejo para que el hombre sienta que es reflejo y vanidad. Por eso nos alarman

Del resto, egli dichiara: «L’immagine dello specchio è legata alle prime paure e ai primi turbamenti della mia infanzia, quando gli specchi mi atterrivano, e soprattutto l’idea di venir ripetuto».17 Anche l’acqua lo atterrisce, quando è speculare, immobile, capace di imitare l’azzurro del cielo. L’orrore dello specchio è presente anche in Musil,18 in Wilde, in parte in Carroll: gli specchi riflettono, ma trasfigurano anche, deformano, invitano a un riconoscimento d’identità che può provocare psicologicamente anche una perdita d’identità.19 Gli specchi che atterriscono Borges sono quelli che coinvolgono la vista come organo di senso. Può darsi che in ciò interferisca la malattia agli occhi, di cui ha sofferto da sempre, anche prima del-

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la completa cecità (che è probabilmente ereditaria nella sua famiglia). È difficile dire se questo atteggiamento dipenda da qualche problema psicologico inerente quello che Lacan definisce stade du miroir, ossia fase narcisistica, oppure se questa fase sia stata essa stessa perturbata dal disturbo alla vista. In ogni caso, se Borges ebbe dei problemi in questa fase per il riconoscimento della propria identità, possiamo dire che nella sua maturità umana e poetica egli risolse il problema semplicemente attuando dei transfert, dall’oggetto fisico come specchio, che richiede la cooperazione degli occhi, all’oggetto simbolico che non rappresenta più un solo concetto, ma è in grado di moltiplicarsi e moltiplicare l’immagine del poeta nel mondo, facendolo sentire in piena armonia con il mondo. Borges non può guardare il cristallo o l’acqua limpida, ma può far brillare la rosa di Milton e l’acqua che scorre di Eraclito, la luna dell’Ariosto e i mille labirinti della storia della cultura umana, di cui ha contribuito in modo determinante all’interpretazione da parte dei contemporanei. Il poeta cieco si è fatto veggente e ha sentito anche lui cantare le Muse. Nello stesso tempo, ha definito per tutti la funzione narcisistica della poesia, che non è quella di far contemplare al singolo poeta la propria immagine, ma quella di cercare specchi nell’universo, che siano tali per tutti gli uomini. Come il Leopardi, anche il cieco poeta postmoderno si sente disadattato nell’ambiente circoscritto in cui vive, ma trova la propria armonia, la propria identità nell’infinito e nella storia della cultura umana vissuta attraverso simboli eletti. Se torniamo indietro, alle origini del mito, scopriremo che Borges rappresenta l’essenza stessa degli occhi di Narciso. Tralasceremo per ora tutto ciò che la psicoanalisi ha detto sul narcisismo.20 Concentriamoci sul mito, che è di origine cretese-micenea: se ne trovano tracce già in Sofocle e Pausania, è ripreso in età alessandrina e la sua espressione più completa si trova nel libro III delle Metamorfosi di Ovidio. Già sul fatto che l’origine sia cretese ci sarebbero molte considerazioni da fare. Creta, come ha dimostrato Kerenyi,21 è la sede di una religione visionaria della natura, di una sorta di misticismo dove l’epifania del divino (la Grande Dea) attraverso la visione avviene nella natura, che sa potenziare in questo luogo più che altrove le capacità della vista umana, anche attraverso l’uso dell’oppio otte-

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nuto dal papavero.22 La religione cretese ha come suo elemento chiave la trascendenza nella natura. Molte epifanie, sia attraverso l’arte (pittura e scultura) che attraverso l’oppio si producono così. Ma anche molte metamorfosi, e quest’origine non va dimenticata, se si vuole comprendere fino in fondo ciò che Ovidio racconta molti secoli più tardi. Figlio di una ninfa e di un fiume, Narciso a quindici anni era superbamente bello, desiderato invano da fanciulli e fanciulle e soprattutto da Eco, una ninfa «quae nec reticere loquenti nec prior ipsa loqui didicit». Eco insegue Narciso per valli e per boschi, fino a quando «in aera sucus / corporis omnis abit; vox tantum atque ossa supersunt: / vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram». La morte di Eco attira una maledizione su Narciso: Nemesi vorrà che anche lui non possa possedere la persona che amerà. Innamoratosi dunque della propria immagine alla fonte, desidera, senza saperlo, se stesso: «Quid videat, nescit, sed quod videt, uritur illo / atque oculos idem, qui decipit, incitat error». Piange Narciso ed Eco gli risponde. Sulle rive di quella fonte si lascia morire, e ancora quando scende agli Inferi continua a contemplarsi nelle acque dello Stige. Ma non viene allestito nessun rogo, nessun feretro per il corpo di Narciso: quando lo cercano, al suo posto trovano un fiore: «Croceum pro corpore florem / inveniunt foliis medium cingentibus albis». Di lì a poco, dice Ovidio, su questa terra arriverà Bacco, accompagnato da «femineae voces et mota insania vino».23 Una versione molto più tarda del mito, ormai trasformato dalla tradizione orale e adattato alle culture che andava attraversando, racconta che Narciso si lasciò cadere nell’acqua, nel tentativo di afferrare la propria immagine e che, dopo la sua morte, venne riportato a riva da alcune donne e si trasformò in un bellissimo mandorlo, che ogni anno produce frutti e «rinnovella amore». È la versione del Novellino, che ha un significato molto particolare anche per quanto riguarda il genere novellistico, a cui il mito è approdato.24 Gli occhi di Narciso sono vittime di un inganno, che rappresenta una vendetta divina poiché Narciso non ha saputo amare altri che se stesso, non ha saputo distogliere lo sguardo da sé. L’eresia dell’amore di sé25 produce morte, perché non si presta alla riproduzione della vita, intesa come bios, vita fenomenica, finita. Ma zoé, la vita infinita, non si lascia mai sconfiggere, e trasforma quella morte in nuova vita, un fiore simbolo di morte a Creta, un albero simbolo di vita in Italia. Che cosa hanno visto gli occhi di Narciso?

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Narciso non sa di amare se stesso, perciò ha visto la propria immagine come altra da sé, non l’ha riconosciuta. Concentrato unicamente su di sé, si conosce così poco da non potersi riconoscere, se messo davanti a sé. Si ama, ma non lo sa. Non può amare nessun altro, e in questa fissazione si lascia morire. In questo egli è l’esatto opposto di Eco, che possiede una voce che rappresenta unicamente un riflesso della voce altrui, e non ha altra consistenza che quella del riflesso: eco sonora, appunto. La vista e la parola nella loro massima impossibilità: questo rappresentano in parallelismo d’immagine Narciso ed Eco col loro fatale destino. La vista e la parola, se uniti, rappresentano simbolicamente la vita: bios. L’impossibilità della loro unione li divide per sempre anche da se stessi come creature autonome. Vedere, parlare: la storia di Eco e di Narciso è contenuta negli occhi ciechi di Tiresia, che conosce in anticipo ciò che avverrà. Il dono della preveggenza gli è stato concesso da Giove, dopo che Giunone l’ha accecato perché Tiresia le ha dato torto su una scherzosa questione: se il piacere d’amore sia più intenso negli uomini o nelle donne. Tiresia, che è stato uomo e donna, dà ragione a Giove, dicendo che le donne provano un piacere più grande. L’avverarsi della sua predizione su Narciso realizza anche la fama di Tiresia, che può gettare la sua maledizione sull’incredulo Penteo, il quale verrà fatto a pezzi per non aver reso omaggio all’arrivo di Bacco. Tiresia vede nel buio: come Omero, come Cassandra. Ogni atto del vedere, del non vedere o del vedere fallace è un dono degli dei. Gli dei si manifestano agli uomini attraverso la vista, ne regolano le visioni, così determinano il corso del loro destino. L’errore di Narciso, di cui egli rimane inconsapevole fin oltre la morte, è stato giustamente assunto, da Freud in poi, come la simbolizzazione di un’impossibilità a uscire da quella fase dello sviluppo psichico definita, appunto, narcisistica. Se non si riesce a distogliere lo sguardo da sé non si può realizzare nessuna relazione oggettuale, non si può amare nessun altro, la personalità non si evolve verso una compiuta maturità. Parallelamente, se nella fase narcisistica non ci si riconosce, non si accetta la propria identità, la fase stessa non si risolve in modo equilibrato. Ma il Narciso originario del mito che cosa ci dice alla lettera? Dice che egli non sa di amare se stesso, e questo è quanto avviene nella psiche di ogni uomo che attraversi o contempli os-

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sessivamente la fase narcisistica. L’evidenziazione di sé come puro inconscio sembra conferire a Narciso un carattere particolare. Narciso è l’inconscio. Il suo vedere fallace significa semplicemente che l’inconscio inganna l’uomo, attraverso un’illusione ottica. Non è possibile riconoscere le immagini del proprio inconscio, interpretarlo correttamente. Dunque Narciso rappresenta col suo inganno ottico l’impossibilità della conoscenza di sé, la fallacia del linguaggio dell’inconscio nei confronti del soggetto. Allora l’interpretazione psicoanalitica del mito può anche insegnare al soggetto la sua “morale della favola”: la fase narcisistica è necessaria, come tutte le altre, nello sviluppo della personalità; su questo amore di sé si modella poi l’amore per gli altri e ogni relazione oggettuale: questo è il fondamento psicologico del comandamento biblico «ama il prossimo tuo come te stesso»; l’amore di sé non deve essere esclusivo e ossessivo: chi non sa distaccarsene non vedrà svilupparsi in modo maturo la propria personalità. Ma la “morale della favola” non basta, perché il mito, alla lettera, ci dice qualcosa di più: il problema della crescita umana è soprattutto un problema di vista, di conoscenza. L’impossibilità di vedere se stessi e di riconoscersi è il problema più grave che l’uomo deve affrontare. La sua adesione alle regole del bios dipende da ciò che egli è in grado di vedere di sé. Se egli non pone come oggetto d’amore prima di tutto se stesso, non potrà modellare l’amore per gli altri su questo; ma se non saprà riconoscersi come oggetto d’amore non saprà neppure distaccarsene per andare incontro alle altre relazioni attraverso cui la vita si afferma. Muore chi non si riconosce. O subisce una metamorfosi, una trasformazione in altra sostanza della natura, che non richiede conoscenza di sé come collaborazione all’esistenza: un fiore, un sasso, un’eco sonora. Eco e Narciso, esistenze degradate, esprimono la pura insensatezza del linguaggio dell’inconscio per il soggetto: suoni e immagini senza corpo, la cui interpretazione si offre agli occhi degli altri, ma è preclusa a loro stessi. Anche in questo caso, sono stati i poeti a offrire il loro sguardo all’inconscio, prima ancora degli psicoanalisti, come riconosce Freud nell’Interpretazione dei sogni. Questo riguarda in primo luogo tutti coloro che hanno tramandato i miti, le fiabe, le grandi storie senza tempo che ancora oggi affascinano l’umanità. Inoltre si deve considerare l’immensa schiera degli scrittori che hanno conferito a quei miti e a quelle fiabe le metamorfosi necessarie alla loro epifania in società e in culture diverse nel tempo e nello spazio.

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Non è il caso di tracciare una mappa degli occhi di Narciso, che tocchi tutta la vasta fenomenologia letteraria e artistica di cui oggi disponiamo:26 potremmo parlare degli specchi di Biancaneve e dello scudo di Rinaldo nel giardino di Armida, degli specchi di Versailles, di Sade e di Laclos, di Gogol e di Kafka, di Dorian Gray e di Vitangelo Moscarda. Anche il narcisismo autosignificante dell’autoritratto potrebbe condurci assai lontano.27 Non è necessario, perché la mappa del visibile che qui si vuole tracciare è ancora più vasta degli occhi di Narciso. Ciò che basta, per ora, è l’aver identificato questo tabù dello sguardo per cui ognuno è destinato a rimanere estraneo a se stesso, e forse a morirne.

Psiche e Cathérine Ma anche l’Altro può rimanere invisibile, soprattutto se si tratta di un dio. La Favola di Amore e Psiche nell’Asino d’oro di Apuleio e gli scritti dei mistici, da Angela da Foligno a Jacopone da Todi, da Teresa d’Avila a Cathérine Pozzi possono offrire la tipologia degli occhi amorosi che non vedono l’oggetto del loro amore. Anche qui, l’elencazione e l’analisi di tutta la fenomenologia letteraria e artistica porterebbero a un discorso enciclopedico, che non è quello che interessa costruire. Per identificare una tipologia, possono invece bastare pochi esempi, con l’analisi approfondita di quelli che, per la completezza e l’importanza dell’espressione, possono essere considerati i modelli. Scegliamo quindi Apuleio per quanto riguarda l’amor profano e Cathérine Pozzi per quello sacro. Su Apuleio occorrono alcune premesse: la favola verrà considerata nel suo puro e semplice livello affabulatorio, scartando le interpretazioni filosofiche, le valenze misteriche ecc. Questo perché l’interpretazione, a proposito di Amore e Psiche, ha sempre finito per scavalcare il livello letterale come se, semplicemente, non esistesse. Questo è un paradosso e indubbiamente la tentazione ermeneutica è molto forte in un racconto così suggestivo perfino nelle nomenclature, ma il paradosso si è verificato: se c’è un racconto che pochi hanno letto al suo primo livello, cioè alla lettera, quello è proprio Amore e Psiche.28 Un’altra premessa riguarda la distinzione tra amor sacro e amor profano fatta sopra. Occorre precisare che sia nel caso di

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Apuleio che in quello della Pozzi siamo in un ambito mistico: l’Altro di cui si parla è un dio. La distinzione dunque ha senso unicamente in quanto Apuleio rappresenta una religione precristiana e la Pozzi quella cristiana. Inoltre, come si vedrà nel corso dell’analisi, il tema della conoscenza dell’Altro non sopporta distinzioni che non siano storiche o convenzionali. Il discorso d’amore e di conoscenza dell’Altro ha, in realtà, una sua omogeneità che accomuna il cosiddetto amor sacro a quello profano. Proviamo dunque per un attimo a dimenticare il mago, il platonico, il demonologo Apuleio e leggiamo la Favola di Amore e Psiche. Psiche è una fanciulla la cui bellezza straordinaria suscita la venerazione degli uomini e l’invidia della dea stessa dell’amore e della bellezza, Venere. Proprio per questo Venere decreta che nessun uomo osi chiedere Psiche in sposa e ne affida al proprio figlio, Amore, la punizione. Ma Amore stesso si innamora di lei. Indotti da un oracolo, i genitori della fanciulla la espongono sulla cima di una montagna, accompagnandola in corteo funebre al matrimonio con un mostro. Amore invece fa trasportare Psiche in un meraviglioso palazzo, dove sarà servita da invisibili servitori di giorno e di notte visitata da lui stesso, con il divieto per la fanciulla di voler vedere lo sposo. Amore e Psiche vivono felici fino al momento in cui ella, impietositasi per il dolore dei genitori e delle sorelle, non chiede di rivedere almeno queste ultime. La loro invidia, cattiva consigliera, la indurrà a cercare di vedere Amore, il quale fuggirà via. Solo dopo aver subito le ire di Venere, in forma di prove estreme da affrontare, Psiche potrà riabbracciare il suo sposo, dopo aver punito le sorelle, fatto pace con Venere e aver celebrato le nozze legittime col permesso di Zeus. In questo racconto, che sembra strutturato a piena conferma delle “funzioni” proppiane, la funzione più forte è certamente quella del divieto di vedere. L’oracolo ha preannunciato l’unione con un mostro, un «feroce, terribile, malvagio drago alato», Psiche è stata accompagnata vestita «come a nozze di morte»: il piacere che il suo sposo le procura è cieco, assoluto, clandestino: riguarda unicamente i due amanti, che si sono persi agli occhi del mondo: sono come morti. Psiche gode di una felicità totale, ma quando per compassione si lascia lei stessa vedere dalle sorelle, nella sua felicità si insinua l’angoscia: e se colui che la visita ogni notte fosse un orribile serpente? L’oracolo così aveva predetto. L’inganno delle so-

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relle induce Psiche a voler infrangere il divieto. Amore, scottato dall’olio della lampada notturna, si risveglia e vola via, non senza aver lasciato per un attimo negli occhi di Psiche l’immagine incandescente della sua bellezza. Psiche si rende conto dell’inganno e vaga disperatamente per il mondo alla ricerca di Amore (e delle sue sorelle da punire). Gli amanti sono ritornati alla luce, sotto il controllo della vista dei parenti (Psiche) e di quella di Venere (Amore). Da una parte e dall’altra ciò che si tende a fare è riportare tutto all’ordine, al limite, a ciò che è codificato nel sociale. Ma ancora un elemento, dopo tante prove ai confini del mondo e poi fino agli Inferi, rimane inconciliabile: l’unione di due società, di due mondi diversi: Psiche è una creatura umana, Amore è un dio. Solo il signore supremo degli dei, Zeus, è in grado di avallare quest’unione e la figlia che ne nascerà sarà la Voluttà. Restando alla lettera della narrazione, sappiamo che il precetto dell’oracolo ordina che Psiche venga consegnata al suo sposo misterioso come se andasse a morire, e che dovrà essere esposta sul monte e abbandonata. A Psiche viene ingiunto di abbandonare il mondo, di sottrarsi al suo sguardo. Preda totale della passione amorosa, sarà rapita consenziente alla famiglia, alla società, agli occhi di tutti. Amore, che la rapisce, si sottrae anche lui, con l’inganno, agli ordini materni, e anche lui si nasconde alla vista degli uomini e degli dei. Per Psiche, umana, sparire alla vista significa morire: il contrario del nascere, che è costituito dal venire alla luce. Subisce una sottrazione di sé, un rapimento che la lascia all’oscuro, che ella stessa non può conoscere né controllare. Il dio che la possiede è pura pulsione erotica: non può essere visto perché la sua forma non è determinata, ponendosi in quella dimensione di vita “altra”, che è rappresentata dall’ebbrezza dei sensi. Psiche non è in grado di sopportare il carico di angoscia che comporta l’idea del sublime accostata a quella del mostruoso, dell’abnorme e bestiale. Non è in grado di accettare l’abisso di piacere e di terrore che le procura la compresenza di quelle due idee. Perciò, istigata dall’inganno delle sorelle, vuole “fare luce”. Ma ciò significa perdere la realtà tenebrosa che era teatro della sua passione. Quando ritroverà il suo sposo, avrà superato prove d’iniziazione regolari, avrà rischiato la morte in mezzo ai boschi, sarà discesa agli Inferi, si sarà addormentata per poi essere risvegliata da Amore, avrà riconosciuto e accettato le regole del mondo, imparando a vivere l’amore secondo le ragioni della maturità e non solo secondo l’istinto cieco della pu-

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bertà. Vedere, distinguere significano separazione, accettazione di regole e controlli, accettazione della vista altrui. A questo punto è certamente affascinante seguire le interpretazioni di Psiche come anima, la farfalla che nell’antichità si diceva fuggisse dal corpo dopo la morte. Oppure vedere in Amore la rappresentazione demonologica di un tentativo d’incontro tra l’immanente e il trascendente, alla luce della dottrina socratico-platonica di cui Apuleio era convinto seguace. O seguire da vicino le interpretazioni psicoanalitiche di Diel, che legge questa favola d’iniziazione in un modo molto diverso da come Bettelheim29 leggerà più tardi La bella addormentata nel bosco, Cappuccetto Rosso, Bella e la bestia, Biancaneve. Oppure, ancora, l’interpretazione junghiana della Von Franz.30 Il palazzo è una produzione onirica, secondo Diel, in cui l’anima si dibatte nel suo puro desiderio del piacere, sfuggendo al controllo della ragione. Per essere integrato nella vita e non essere temuto come mostro, l’Amore deve accettare il controllo della vista, cioè della ragione. Deve farsi spirito, unione di ragione e impulso. Ma questa lezione interpretativa potrebbe portarci, giustamente e in modo affascinante, troppo lontano. Restiamo alla lettera. Psiche non può vedere l’oggetto del suo amore perché questi è un dio. Non a tutte le fanciulle, pur belle, è toccato questo in sorte: non alle sue sorelle, non alle altre fanciulle della città, che la credono Venere in persona e la venerano come tale. La passione amorosa è posta sotto il segno della divinità: privilegio e marchio d’infamia nello stesso tempo, l’amore assoluto rappresenta un’uscita dal mondo, una forma di follia, di perdita di sé e di sottrazione alla vista. Si entra nel mondo della pura visione, dove l’anima può immaginare il suo sposo ma non vederlo, perché egli è puro desiderio e il desiderio è infinito, è una divinità.31 Che tutto questo possa rappresentare una fase della maturazione dello spirito, può darsi; ma è limitativo attribuirvi un significato storico (pubertà, adolescenza ecc.). La condizione descritta da Apuleio, di Amore e Psiche dentro al palazzo prima dell’arrivo delle sorelle, è la condizione stessa della passione amorosa, in qualunque fase dell’esistenza esploda. L’amore è un dio, dio è amore: in questo chiasmo, o mappa biunivoca, sta forse la chiave di ogni religione dell’amore e del misticismo che ne rappresenta la più perfetta realizzazione. In ogni religione la mistica è vista in termini di eccesso, di esagerazione, ai limiti dell’eresia talvolta, più spesso oltre i limiti.

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L’unione totale con l’oggetto amoroso, che è inconoscibile, come inconoscibile e incommensurabile è il desiderio, è il fine ultimo a cui tende la passione amorosa. In questo senso l’amore è un dio perché si pone oltre ogni limite, trascende la natura umana, è infinito. L’unione con l’infinito è la meta dell’anima quando ha percorso fino in fondo la sua iniziazione, quando è giunta alla maturità: discende agli Inferi, sale in cielo fino a perdersi nel caos primigenio, si ritrova e si ricompone nell’armonia del mondo, parte di un tutto in cui può perfettamente integrarsi.32 È la parabola dei miti e dei riti iniziatici primitivi, la stessa descritta dalla Commedia dantesca, dal Paradise Lost miltoniano, dall’Infinito leopardiano. Essa è soprattutto un’avventura della vista: vedere il dio, anche solo per un istante, significa di volta in volta ritrovare se stessi (specchiarsi), conoscere e condividere la scienza assoluta (sofia) e, in ogni caso, produrre delle visioni, ossia immagini che vanno oltre il campo visivo umano. Anche i mistici cristiani, e soprattutto le mistiche, producono visioni di questo tipo. L’Itinerarium mentis in deum porta al centre du mirage, alla visione finale in cui appare l’invisibile e ineffabile luce divina. Non è questa la sede per un discorso diacronico né quella per un’analisi sistematica della fabula mistica, 33 del resto già approfonditamente espressa da molti studiosi in tempi relativamente recenti.34 Ciò che invece può essere interessante ai fini della valutazione prospettica e della parte svolta dall’occhio nella fabula mistica è il confronto ravvicinato di alcuni testi significativi. Innanzi tutto, c’è un testo di Juan de la Cruz, Canciones de l’alma,35 scritto attorno al 1577, che riproduce la stessa situazione descritta nella Favola di Amore e Psiche. Anche in questo caso, non è l’interpretazione allegorica e religiosa che verrà presa in considerazione, ma la pura e semplice lettera del testo. L’unione dell’Amato con l’Amata avviene «En una noche escura»: En la noche dichosa En secreto, que nadie me veis Ni yo miraba cosa, sin otra luz y guia Sino la que en el corazon ardìa, Aquesta me guiaba Mas cierto que la luz del mediodìa, Adonde me esperaba Quien yo bien me sabìa En parte donde nadie parecìa.

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Anche qui, la luce interiore dell’amore sostituisce la vista. Nel momento in cui l’Amata si china per guardare l’Amato, addormentato sul suo petto, tutto svanisce: «Cesò todo». Come in Apuleio, è la notte che fa da teatro all’unione amorosa e, come là, il dissolvimento nel nulla dell’Amato, a livello denotativo, coincide non, come afferma Spitzer,36 con una beatitudine nel nulla, ma con la volontà di vedere, di chinarsi su di lui da parte dell’Amata (che anche qui, forse non a caso, rappresenta l’anima, Psiche stessa). Se poi, da un puro livello denotativo, si passa a identificare le connotazioni possibili di questo sguardo sul vuoto, è chiaro che possiamo parlare non solo di beatitudine nel nulla, ma anche di tutte le interpretazioni psicoanalitiche che di questo «godere del nulla» hanno ormai dato in molti, a partire da Lacan. Ma la lettera, per ora, può bastare, anche perché, volendo risalire alla matrice di questo componimento di Juan de la Cruz, si trova un’altra “lettera” molto interessante: il Cantico dei Cantici. Nella quarta sezione del Cantico, l’amore della sposa viene messo alla prova: è notte, lo sposo bussa alla sua porta, ma quando ella apre, egli sarà scomparso: Aprii al mio diletto / ma il mio diletto se n’era andato... / l’anima mia venne meno / perché era partito. / Lo ricercai, ma non lo ritrovai: / lo richiamai, ma più non mi rispose.

Il topos sembra ormai formato: la presenza della notte come scenario, l’unione beata con lo sposo, infine la sparizione dello sposo stesso, che poi, però, verrà ritrovato, come nella Favola di Amore e Psiche. Che la sparizione dello sposo sia una prova, è evidente anche in Apuleio. La perseveranza e l’amore saranno in grado di far ritornare lo Sposo alla Sposa, come Amore a Psiche. L’isolamento notturno di Amore e Psiche trova un corrispettivo in tante descrizioni di unione mistica, presenti soprattutto nelle scrittrici mistiche del Medioevo cristiano e poi ancora del Cinque-Seicento. Esemplare è la descrizione della notte in Battistina Vernazza (1497-1587): Viene questo onnipotente segnore in mezzo del silenzio e della notte in quella persona, che la Trinità, che fa mansione in lei, l’ha condotta nella divina solitudine per parlare sensibilissimamente al suo cuore [...] Della qual notte e della quale ignoranza l’amatore mirabilmente si pasce, gustando sopramodo che il suo eterno ed unico Amore sia un bene tanto grande che eccede in infinito ogni creato intendimento, sì che da se stesso solo perfettamente è conosciuto. O che notte scura, che te-

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nebra, che caligine, che nuvola! della quale parmi che si possa dire ‘la notte è la mia illuminazione nelle mie delizie’ [...] l’amore ti trasporta, egli ti fa profondare nella cosa amata.37

Ma anche la calata di Amore alla ricerca dell’anima amata è disegnata in uno schizzo, molto simile a quello di Apuleio, da Santa Gertrude, la religiosa estatica del convento di Helft (1256-1303). L’amore risveglia l’anima:

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Orsù, svegliati, o anima! Vuoi tu dormire ancora? Ascolta il messaggio che io ti reco. Al di sopra del cielo abita un Re che desidera possederti. Il suo cuore anela a te, ed egli t’ama fuor di misura. Il tuo amore è così tenero, così fedele, che egli ha lasciato il suo regno ed è sceso a te.38

Altre conferme vengono da Santa Teresa d’Avila: «L’anima è assorta nel proprio godimento, senza intendere quello che gode! Sente che gode d’un bene che contiene in sé tutti i beni, ma la natura d’un tal bene resta per lei un mistero»;39 sono le stesse conferme che possiamo trovare in Meister Eckhart,40 san Ignazio di Loyola,41 san Giovanni della Croce e tutti coloro che descrivono l’unione mistica con Dio, l’estasi, l’amore dell’anima per Dio: da Ildegarda di Bingen42 a Elisabetta di Schonau, da Francesco d’Assisi ad Angela da Foligno,43 da Brigida di Svezia a Maria Maddalena de’ Pazzi,44 da Matilde di Magdeburgo45 a Chiara d’Assisi,46 a Caterina da Siena.47 Anche nei beghinaggi fiamminghi, francesi e renani del secolo XIV, fondati sulla tradizione platonica altomedievale, la dimensione mistica, sempre presente nell’essenza dell’anima, porta lo sguardo totale in Dio e in sé, nel profondo dell’anima come specchio della eterna beatitudine.48 Anche Nicolò Cusano ha teorizzato la visione mistica di Dio in un trattatello di limpida argomentazione.49 Il tema dell’unione mistica, che ha proprio negli occhi il suo punto d’arrivo, è trattato in modo particolarmente significativo nel poema di Cathérine Pozzi, Trés haut amour:50 Très haut amour, s’il se peut que je meure Sans avoir su d’où je vous possédais En quel soleil était votre demeure En quel passé votre temps, en quelle heure Je vous amais Très haut amour qui passez la mémoire, Feu sans foyer dont j’ai fait tout mon jour,

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GIUSI BALDISSONE En quel destin vous traciez mon histoire, En quel sommeil se voyait votre gloire, O mon séjour... Quand je serai pour moi-meme perdue Et divisée à l’abime infini, Infiniment, quand je serai rompue, Quand le présent dont je suis revetue Aura trahi,

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Par l’univers en mille corps brisée, De mille instants non ressemblés encor, De cendre aux cieux jusqu’au néant vannée, Vous referez pour une étrange année Un seul trésor Vous referez mon nom et mon image De mille corps emportés par le jour, Vive unité sans nom et sans visage, Coeur de l’esprit, o centre du mirage Très haut amour.

È senz’altro vero, come spiega De Certeau, che si tratta dell’«Ouverture a una poetica del corpo», ma tutto il componimento pone il corpo nella figura metonimica dello sguardo. Possedere e sapere sono rappresentati fin dall’inizio come visione solare, la passione stessa, come fuoco senza focolare,51 si tramuta in luce nella quale abitare e la gloria dell’apparizione è una visione onirica: «soleil», «jour», «en quel sommeil se voyait votre gloire» costituiscono le parole-chiave della prima parte, giocata sulla memoria. Ma anche la seconda, interamente proiettata sul futuro, dove il corpo va a frantumarsi nell’infinito, come in una caduta di atomi da far ricomporre all’Amato, è tutta strutturata sull’agnizione di due visioni incrociate: da una parte, c’è il corpo frantumato nell’universo, che aspetta di essere raccolto e ricomposto in un nome e in un’immagine; dall’altra c’è l’unità senza nome e senza viso (come in Amore e Psiche!), che rappresenta il centro, il cuore di un «mirage». L’unione amorosa trasforma il molteplice in unità, ma l’unità, pur essendo abitabile, è invisibile. L’Altro è dunque qualcuno a cui è affidata non solo la propria gioia ma anche la propria identità. In questo luogo che non si può guardare, l’identità dell’Amante oscilla tra memoria del passato e desiderio del futuro: il presente è nullo, come una sorta di esilio altrettanto inguardabile, nell’attesa di una frantumazione, di una dispersione che sarà ricomposta soltanto in futuro nel miraggio

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dell’Amato. Il presente costituisce dunque una latenza di immagini, che rende struggente il bisogno di memoria e l’ansia del futuro. Che cosa si nasconde dietro questo poema della musica sapientemente magica, tutta giocata su suoni che si rincorrono? «Je meurs», «demeure», «quelle heure»; «mille corps», «encor», «trésor», «mille corps» il tutto con infinite variazioni in “m”, produce una musica sciamanica, come osserva De Certeau. Innanzi tutto, la lettera: interpretato alla lettera, il poema richiama alla memoria un’esperienza della quale l’autrice ha una nostalgia struggente; non fa menzione della condizione presente e passa, con una béance che si apre tra i verbi al passato e quelli al futuro, a desiderare un’esperienza sconvolgente e nello stesso tempo infinitamente soddisfacente. La disgregazione per potersi ricongiungere, per ritornare all’unità. Alla lettera, insomma, il poema potrebbe rappresentare la condizione di due amanti che vivono un’insopportabile e inesprimibile separazione, che verrà riparata solo con la morte, nell’Aldilà. Alla lettera, potrebbe essere il poema scritto da Eloisa per Abelardo, o da Julie per Saint-Preux, forse anche dall’anonima Monaca Portoghese del XVII secolo.52 Che si tratti di un «très haut amour» non costituisce ostacolo a livello denotativo, giacché spesso l’amour-passion trasforma l’amato in un idolo e alcune lettere di Eloisa lo possono ben testimoniare.53 Allo stesso modo forse si potrebbe interpretare l’atroce amore mistico, che portò Mademoiselle du Tronchay, nata nel 1639 in un avito castello nei pressi di Angers, a trasformarsi in Louise du Néant (Luisa del Nulla) e a vedere il volto di Cristo al fondo dell’abiezione autopunitiva di cui fu protagonista.54 Cathérine Pozzi, a livello connotativo, parla in realtà della sua unione con Dio. Ed è proprio qui che ripete la favola di Amore e Psiche. Anche il suo amore si esprime in forme precluse allo sguardo: nel viaggio mistico, spesso l’accecamento avviene sia per eccesso di tenebra che di luce, come si vede, ad esempio, in Dante. In quella terra della memoria sconosciuta e inguardabile, la perfezione dell’amore è totale. Ma la béance è qualcosa di più spaventoso dell’inguardabile: è il presente come stato di mancanza, di separazione, come probabile regno di ciò che invece è guardabile, ma non appartiene all’amore. Il presente costituisce l’esilio per Cathérine ed è talmente intollerabile da essere indicibile. Solo affrontando prove estreme, come Psiche, affrontando la morte, la disgregazione del corpo, potrà entrare in quel miraggio di luce che la ricomporrà nella sua unità.

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È musica, sì, il poema di Cathérine, ma è soprattutto un incastro di immagini, una ricerca sul visibile e sull’invisibile: un rito, certo, ma compiuto per evocare delle apparizioni. L’analisi che se ne può fare non è completa senza queste apparizioni, che sono il fine stesso della musica, così sapientemente composta da suggerire anche un duetto d’amore tra il moi e il toi: mémoire / histoire. L’amato e l’amante si scambiano i propri volti, le proprie immagini sia nel passato che nel futuro, è lei ad avere un volto, un’immagine (sia pure passata attraverso la disgregazione e poi ricomposta), mentre l’amato si pone unicamente nel regno della visione e si manifesta in sogno, per quanto riguarda il passato, e nel «mirage», per quanto riguarda il futuro. «Vive unité sans nom et sans visage», sarà lui a donare un nome e un volto a lei, come una grande entità speculare, molto simile a quella del Dio di Dante in paradiso. I suoni anche criptici di questa musica sciamanica evocano appunto l’apparizione di questi volti che si cercano, scavalcando un presente che è puro vuoto, mancanza, delirante nostalgia. La perfetta adesione delle immagini nel «mirage» fa sì che di due ne appaia una sola e riafferma in questo modo l’essenza dell’amourpassion, oltreché dell’amore mistico: chi ama riconosce perfettamente se stesso nell’altro, trovando un’armonia che unisce insieme Psiche e Narciso.

Orfeo Solo gli occhi di Orfeo sono destinati a fissare il vuoto. L’immagine che cercano scompare nell’esercizio stesso della loro funzione e quello sguardo in cui l’oggetto si cancella rappresenta forse il segno più espressivo della tragedia. Onomàkluton Orphèn (Orfeo dal nome famoso) appare per la prima volta in un frammento lirico di Ibico, riportato da un grammatico del secolo VI. Omero ed Esiodo non ne parlano. Pindaro (Pitica IV) dice: «Da Apollo giunse poi il maestro di lira, padre / dei canti, Orfeo molto lodato». Nell’Agamennone Eschilo descrive l’incanto della sua voce: «Ogni cosa egli conduceva con la sua voce, in felicità». Ma non ci sono fonti originarie della sua poesia: sotto il suo nome circolarono poemi cosmogonici e cosmologici, di cui restano frammenti che ancora Platone considerava autentici. Ancora più avanti, fra i secoli II e IV, circoleranno testi che verranno

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attribuiti a Orfeo: una novantina di Inni, un Poema sulle pietre e le Argonautiche orfiche.55 Le Georgiche di Virgilio (IV, 453-527) e le Metamorfosi di Ovidio (X, 1-739) presentano nella forma poetica più completa il mito di Orfeo. «Scrivere incomincia con lo sguardo di Orfeo».56 Orfeo può scendere all’Ade per trovare Euridice grazie alla sua arte, che gli apre il regno della notte, il regno delle ombre. Ma lo sguardo che egli porta dalla luce del suo giorno alla notte delle ombre è già di per sé un eccesso che non ammette durata, perché è pura contraddizione. «È inevitabile che Orfeo violi la legge che gli vieta di voltarsi, perché egli l’ha già violata fin dai suoi primi passi verso le ombre... Se egli non l’avesse guardata, non l’avrebbe attratta, e senza dubbio ella non è là, ma nello sguardo egli stesso è assente, non è meno morto di lei, non morto della morte terrena e tranquilla che è riposo e silenzio e fine, ma di quell’altra morte che è morte senza fine, prova dell’assenza di fine».57 L’errore di Orfeo consiste nel desiderio di vedere e possedere, mentre il suo solo destino è quello di cantare Euridice. Nella mitologia greca, Orfeo figura come inventore non solo della musica ma anche della scrittura.58 Attorno al suo canto, che trascina accanto a sé «gli animali del silenzio», nasce la scrittura e si organizza in libri. Esiste tutta una biblioteca di Orfeo, che viene posta addirittura al centro di un dibattito ateniese della metà del secolo IV. Un intellettuale di nome Androzione, discepolo di Isocrate, solleva il problema della falsità dei libri attribuiti a Orfeo sostenendo che gli abitanti della Tracia sono analfabeti e illetterati, perciò di lì non può essere nato qualcuno che sapesse scrivere libri. A parte il fatto che si possano accettare oppure no gli argomenti di Androzione, essi rivelano apertamente che esiste una tradizione che fa di Orfeo l’inventore della scrittura. Non mancano, del resto, testimonianze figurative in tal senso: su un’idria di Palermo (Fondazione I, Mormino, 385) il cantore, in abiti di foggia tracica, appare seduto con la lira in mano e con le Muse accanto, una delle quali gli porge un rotolo di papiro, raffigurante una cassa di libri socchiusa. Da una parte esiste la figura di Orfeo la cui voce comincia prima del verso, è pura musica come magia, creatività originaria che incanta la natura stessa e gli animali e gli uomini che la popolano.

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Quando da questa magia la voce di Orfeo entra nel mondo organizzato degli uomini, si fa verso e scrittura. Esiste quindi la figura di Orfeo organizzatore della comunicazione fra gli uomini. «La magia di Orfeo continua nel brusio della sua biblioteca e i vasi e gli specchi ci parlano della compresenza della voce e dei libri».59 Mentre i misteri eleusini si fanno vedere, contemplare in una sorta di cerimonia-spettacolo, i misteri orfici si fanno leggere. Orfeo, dunque, rappresenta nello stesso tempo la magia originaria del canto poetico e la sua mutilazione (o sdoppiamento) nel momento in cui esso si fa scrittura e perde la musica, perde la dimensione acustica per entrare in quella visiva. È a partire da Orfeo che si realizza la tragedia della poesia come arte separata, mutilata perché dimidiata. Da lui comincia a manifestarsi ut pictura un’arte che era nata per interessare tutti i sensi del corpo e dello spirito: musica, canto, danza e visioni in principio erano insieme. Per comprendere, ancora una volta, ciò che il mito narra alla lettera, dobbiamo consultare Virgilio e Ovidio. Nel libro IV delle Georgiche troviamo la narrazione più intensa dal punto di vista della compresenza di luce e di tenebra: è l’occhio che segue lo snodarsi del racconto e Virgilio sembra affascinato e preoccupato proprio da questa mescolanza di luce e di tenebra. Euridice, per sfuggire ad Aristeo, non vede un serpente nascosto nell’erba alta, sulla riva di un fiume, e muore. Tutta la terra piange gridando la morte di Euridice e Orfeo, il suo sposo, cerca di placare la propria disperazione andando in giro senza posa, giorno e notte, a cantare di Euridice sulla cetra che ha inventato e costruito con le sue stesse mani. Proprio qui, in questa confusione di notte e di giorno, Orfeo varca una soglia proibita ai viventi: Taenarias etiam fauces, alta ostia Ditis, et caligantem nigra formidine lucum ingressus manisque adiit regemque tremendum nesciaque humanis precibus mansuescere corda.

Il canto d’amore e di dolore non ha solo l’effetto di mansuescere, ma anche quello di strappare alle tenebre, costringere a venire alla luce, visualizzare i fantasmi di coloro che sono morti, scomparsi ormai dalla luce e affondati nelle tenebre. L’immagine virgiliana di questo coro muto di morti, che affiorano per ascoltare il canto, è tra le più affascinanti che la poesia antica abbia prodotto:

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At cantu commotae Erebi de sedibus imis umbrae ibant tenues simulacraque luce carentum, quam multa in foliis avium se milia condunt, vesper ubi aut hibernus agit de montibus imber, matres atque viri defunctaque corpora vita magnanimum heroum, pueri innuptaeque puellae impositique rogis iuvenes ante ora parentum...

E il Tartaro segreto stupisce, nel vuoto stanno le Furie incantate, le tre gole di Cerbero spalancate nel silenzio, tutto è immobile in ciò che simboleggia il potere e la minaccia dell’Aldilà, mentre affiorano tutte le creature scomparse, mentre «redditaque Eurydice superas veniebat ad auras / pone sequens». La magia della voce di Orfeo sta trascinando alle sue spalle anche Euridice, purché egli ci creda e non si faccia tentare dal desiderio di guardarla. Ma subita incautum dementia cepit amantem, ignoscenda quidem, scirent si ignoscere manes: restitit Eurydicenque suam iam luce sub ipsa immemor heu, victusque animi respexit.

Per un solo sguardo, Euridice è nuovamente perduta, nuovamente morta. Orfeo ancora continuerà a cantare, ammansendo le tigri e muovendo le querce, ma non vorrà più amare nessuno, cercando i luoghi più deserti e ghiacciati della terra, finché le Baccanti, per punirlo della sua eccessiva attrazione per thanatos e il disprezzo per eros, gli daranno la morte durante un’orgia notturna, sbranandone il corpo e spargendolo per i campi. Anche così dilacerato, «Eurydicen anima fugiente vocabat, / Eurydicen toto referebant flumine ripae». In Virgilio a Orfeo «Nulla Venus, non ulli animum flexere hymenaei». Definitivamente abbandonato da Euridice, Orfeo cade in preda a un «delirio da fine del mondo»,60 dal quale nessuna creatura lo potrà guarire. La punizione che le Baccanti gli infliggono non è che la realizzazione del suo desiderio di morte. Orfeo non potrà più amare, potrà solo piangere e cantare di dolore. Il suo corpo sbranato non farà che moltiplicare sulla terra il nome di Euridice invocato da Orfeo. Ciò che colpisce di più, nel racconto di Virgilio, è veramente il tema della visibilità. L’alternanza di notte e giorno, luce e ombra si presenta in pochi versi con un’intensificazione ossessiva. Il disegno del percorso dei personaggi consiste interamente in un accendersi e in uno spegnersi di luci.

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Dal verso 454 al 527 ecco ciò che il lettore vede: 1.Euridice che fugge, alla luce del giorno, e scompare nella notte. 2. Giorni e notti si alternano infiniti e uguali sulla terra, mentre Orfeo canta la propria disperazione. 3. Orfeo oltrepassa la soglia di Dite, entra cantando nel bosco nero della morte. 4. Dal nero dell’Erebo affiorano simulacri di morti, che da lungo tempo non conoscevano più la luce. La luce invade ora anche il regno dei morti, le cui leggi appaiono sospese, incantate come le Furie. 5. In una scia di luce avanza anche Euridice, ma Orfeo non può guardarla, può solo precederla. 6. Orfeo si volta, e spegne la luce al cui orlo è aggrappata Euridice. 7. Giorno e notte, luce e ombra sono di nuovo nettamente separate, come la terra e l’Erebo, la vita e la morte, Orfeo ed Euridice. Nel quarto e nel quinto movimento si realizza la visione, in una permutazione di immagini e di ruoli tra luce e ombra e nella fusione totale, seppur brevissima, dei due piani della realtà e dell’immaginazione. Il cantore, il poeta ha dunque avuto in premio per la sua arte un dono che a nessun mortale è concesso: inutile dono, poiché la debolezza umana lo disperde, lo vanifica per sempre. Eppure quel dono, quella possibilità durata un istante, che il poeta ha avuto di fare tornare i morti, ha trasmesso nei secoli il suo messaggio di luce. Nel Novecento, noi ritroviamo ancora Orfeo, innominato, ma intensamente virgiliano, nel Large red man reading di Wallace Stevens: There were ghosts that returned to earth to hear his phrases, As he sat there reading, aloud, the great blue tabulae. They were those from the wilderness of stars that had expected more. There were those that returned to hear him read from the poem of life Of the pans above the stove, the pots on the table, the tulips among them. They were those that would have wept to step barefoot into reality, That would have wept and been happy, have shivered in the frost And cried out to feel it again, have run fingers over leaves And against the most coiled thorn, have seized on what was ugly. And laughed, as he sat there reading, from out of the purple tabulae, The outlines of being and its expressings, the syllables of its law: Poesis, poesis, the literal characters, the vatic lines, Whick in those ears and in those thin, those spended hearts, Took on color, took on shape and the size of things as they are And spoke the feeling for them, whick was what they had lacked.61

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Stevens ribalta la direzione della ricerca: in Virgilio è Orfeo che procede verso i morti, portando loro la luce; nel poeta contemporaneo sono i morti, con il loro desiderio di tornare per un attimo in vita, che cercano la luce del poeta. Il centro, l’incontro, la fusione d’immagini nella luce rimangono invariati. Ovidio invece racconta qualcosa di diverso, qualcosa di più. Tutto il libro X e parte dell’XI delle Metamorfosi sono occupati da Orfeo, dalla sua storia e dal contenuto delle storie diffuse dal suo canto. È il cantore, il poeta Orfeo a cui il poeta Ovidio fa ampio spazio nel pieno esercizio delle sue funzioni. In Ovidio prevale la poesis, e più sulla terra che sotto terra. Il prodotto dell’arte di Orfeo è preponderante rispetto al personaggio stesso, anche quantitativamente: del libro X, solo i primi 145 versi sono occupati dalla storia di Orfeo ed Euridice, mentre dal verso 146 fino al 739 sono riportate le innumerevoli storie con cui il cantore intrattiene le belve e gli uccelli del bosco. Altri 66 versi del libro XI costituiscono l’epilogo solo apparentemente tragico, poiché l’ombra di Orfeo, sottoterra, riabbraccia quella di Euridice: Hic modo coniunctis spatiantur passibus ambo: nunc praecedentem sequitur, nunc praevius anteit Eurydicenque suam iam tutus respicit Orpheus.

Un altro elemento compare in Ovidio, assente in Virgilio: nella sua depressione per la perdita di Euridice, l’eros di Orfeo subisce una devianza e, dopo una lunga indifferenza, orienta le sue pulsioni verso i maschi: Omnemque refugerat Orpheus femineam Venerem, seu qod male cesserat illi, sive fidem dederat; multas tamen ardor habebat iungere se vati: multae doluere repulsae. Ille etiam Thracum populis fuit auctor amorem in teneros transferre mares.

È un Orfeo assai più codificato, quasi istituzionalizzato quello che si incontra in Ovidio. Egli: 1) perde la sposa; 2) va a patteggiare con la regina e il re degli abissi la possibilità o di accogliere anche lui nel regno dei morti o di rendergli la sua sposa; 3) timoroso di perdere di nuovo Euridice, si volta ed ella riaffonda nell’abisso; 4) Orfeo piange e canta il suo dolore; 5) racconta storie di eros alle selve e agli animali dei deserti; 6) disdegna le donne e

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inizia ad amare gli uomini; 7) viene ucciso dalle Baccanti; 8) scende all’Ade da morto e si ricongiunge a Euridice. L’andamento fiabesco e la complessità dell’intreccio attribuiscono a Orfeo delle funzioni rituali e delle valenze simboliche più esplicite. Egli è qui un “iniziatore”, non solo nel senso che dà principio al nuovo, a qualcosa che mai prima era stato provato (cantare per “incantare” e per oltrepassare i confini tra la vita e la morte; amare per pederastia) ma egli è iniziatore anche nel senso misterico del termine: il nuovo non viene solo presentato come possibile ma se ne insegna l’arte e il piacere e diventa il segno di un’elezione. Virgilio compone un dramma di disperata malinconia che coinvolge un poeta; Ovidio spiega le ragioni di un culto iniziatico che ha a che fare, come tutti i misteri antichi, con il caos della sessualità e quando Orfeo ha compiuto la sua intera parabola nelle Metamorfosi il lettore lo ritrova simile a un dio. Tra il poeta dell’amore spezzato e il dio del canto amoroso, tra il poeta dello scacco e il dio della gloria poetica esiste una differenza di sguardo, essenzialmente una questione visiva: l’Orfeo virgiliano è qualcuno che ha mescolato per un attimo nei suoi occhi la luce e l’ombra, il sopra e il sotto, l’alqua e l’aldilà, la vista e la visione; l’Orfeo ovidiano ha tenuto ben separati il giorno e la notte, tutto ciò che sta sotto da tutto ciò che sta sopra: il suo andirivieni dall’uno all’altro è sempre stato nettamente marcato e come istituzionalizzato. Ma dove andrà l’anima di Orfeo dopo che il corpo sarà smembrato, moltiplicando il grido di Euridice? Non c’è lieto fine in Virgilio, Orfeo ed Euridice che saltellano felici, sottoterra, non c’è neppure quell’occhio iam tutus, ormai senza paura di perderla nel guardarla, non c’è nulla che rassicuri, perché lo sguardo, in Virgilio, è offuscato, mescolato, turbato, vuoto. L’occhio di Orfeo può riempirsi di visioni e trasmetterle agli altri, ma può anche risucchiarle e annullarle, perdendo tutto per sempre. Quale sguardo di Orfeo è giunto fino a noi? Paradossalmente, la cultura cristiana ha mantenuto ben vivo quello di Ovidio, e ha lasciato all’altra quello di Virgilio. Anche Dante ritiene «assai dolce» la morte, dopo che è stata nel corpo di Beatrice, e organizza poeticamente il suo itinerarium per ricongiungersi a lei nell’aldilà. Ma Virgilio, il precristiano Virgilio ha addensato immagini che abiterebbero bene, oltre che nei versi di Stevens, anche in un quadro di Odilon Redon o di Gustave Moreau, poiché con la sua fabula

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non finita, e indefinita, ha addensato in un lampo l’ambivalenza delle immagini di cui l’uomo si circonda, il suo bisogno di eternità e la sua disperazione. La poesia si moltiplica nell’ambivalenza.

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Medusa Medusa ha la morte negli occhi. Ella esprime «l’orrore terrificante di quel che è assolutamente altro, l’indicibile, l’impensabile, il puro caos: per l’uomo, lo scontro con la morte, quella morte che l’occhio di Medusa impone a tutti coloro che incrociano il suo sguardo, trasformando ogni essere che vive, si muove e vede la luce del sole in una pietra immobile, gelida, ottenebrata».62 Blosyropis e deinòn derkoméne viene definita nell’Iliade la maschera di Medusa, che appare sempre frontalmente e mostruosamente, sull’egida di Atena e sullo scudo di Agamennone, negli occhi di Ettore infuriato. Un grido acuto, inumano, il grido dei morti nell’Ade, accompagna l’apparizione della Gorgone in guerra sia in Pindaro (Pitiche, 12, 6 sgg.) che in Esiodo (V, 234), mentre nell’Odissea le sue «terribili grida» sono assimilate a quelle dei morti. Figura simmetrica a quella di Cerbero, che impedisce ai morti di uscire dall’Ade, Medusa impedisce ai viventi di entrarvi. Ella segna un confine. Per oltrepassarlo, occorre essere o fingersi morti. All’immagine di Medusa è associata quella del flauto, sia in senso visivo che in senso acustico. Atena getta il flauto che sta suonando, nel momento in cui si specchia nelle acque di un fiume e si vede simile a Medusa. Il flauto emana un suono da delirio, da furore orgiastico, che in Euripide è definito tipico della baccante di Ades, della figlia della notte, la Gorgone anguicrinita.63 Un uomo in preda al terrore può assimilarsi a Medusa nei gesti, nel volto, nelle grida: il suo terrore gli fa sentire il suono del flauto, che giunge a lui direttamente dal mondo infernale con la potenza di un demone vendicatore, che torna per opprimerlo col senso di colpa, per spingerlo a espiare o a vendicarsi. Medusa non è oggetto di culto, né per pregarla, né per renderle onore, né per esorcizzarla. Esistono su di lei unicamente racconti mitici e rappresentazioni figurate.64 In queste documentazioni, la chiave di volta della funzione medusea è certamente costituita dall’eroe Perseo, che appare in tutte le narrazioni, da Esiodo a Ferecide, a Nonno e Ovidio. Perseo è il bambino esposto e so-

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pravvissuto, destinato a superare varie prove nel suo percorso iniziatico e infine a uccidere il nonno. Egli infatti è segnato da questa profezia prima ancora di essere concepito dalla madre Danae. Il nonno Acrisio, re di Argo, fa rinchiudere Danae in una camera sotterranea dalle pareti di bronzo, ma Zeus, sotto forma di pioggia d’oro, si unisce alla fanciulla. Dopo la nascita del figlio Perseo, Danae viene chiusa con lui in una cassa di legno e gettata in mare. Le onde spingono questa cassa, senza affondarla, sulle coste dell’isola di Serifo, dove un pescatore salva madre e figlio (si affaccia alla mente la vicenda di madonna Beritola e dei suoi figli, nel Decameron, II, 6). Perseo cresce sull’isola, il cui tiranno insidia la madre. Durante una festa, in cui tutti i giovani dell’isola devono gareggiare in generosità, Perseo si vanta di poter offrire al tiranno la testa di Medusa. Egli parte con l’aiuto di Atena e di Ermes e da qui inizia nella storia il tema ossessivo dell’occhio. Per uccidere Medusa, Perseo deve ottenere dei «mezzi magici» (l’elmo di Ade, la kynée e i calzari alati), che troverà presso le Ninfe. Ma prima dovrà convincere le Graie a insegnargli la strada per raggiungerle: esse possiedono un solo occhio e un solo dente in tre, ma l’occhio rimane sempre spalancato e il dente sempre pronto ad azzannare. Perseo si impossessa dell’occhio e del dente, sorprendendo le Graie mentre se li passano, e in cambio ottiene le informazioni sul cammino da compiere. Ma gli occhi veramente terribili sono quelli di Medusa: per non rimanere pietrificato, Perseo le oppone come specchio il proprio lucente scudo, dopo aver distolto gli occhi da lei: «L’uccisione della Gorgone ha successo, allora, a patto di una completa interruzione della reciprocità dello sguardo fra lei ed il suo uccisore: costui non è oggetto di visione perché è invisibile e non è soggetto di visione perché guarda altrove, non viene visto e non vede (almeno direttamente)».65 In questo modo Medusa, abbagliata e incantata da se stessa, si pietrifica, e Perseo può tagliarle la testa, che poi userà sempre come potente strumento d’aggressione e di difesa, perché quegli occhi saranno ogni volta in grado di operare l’incantesimo. Nel momento in cui Perseo stacca la testa di Medusa, dal suo collo nascono Crisaore e Pegaso, il cavallo alato figlio di Poseidone, colui che aveva violentato Medusa fanciulla nel tempio di Atena. Nascendo, Pegaso vola verso l’Olimpo, portando a Zeus il fulmine. Su questo groviglio di storie, ambientate nell’estremo Occidente, regna sovrano l’occhio.

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«Guardare Medusa negli occhi è trovarsi faccia a faccia con l’aldilà nella sua dimensione di terrore, incrociare lo sguardo con l’occhio che, non cessando di fissarti, è la negazione dello sguardo, accogliere una luce il cui bagliore accecante è quello della notte».66 La frontalità di Medusa implica che si possa soltanto guardare fronteggiandola, in perfetta simmetria, come stabilendo una parità fra umano e divino e, nello stesso tempo, una dualità di cui un termine non è che il riflesso dell’altro. Medusa è una maschera e un’immagine riflessa: Medusa è l’uomo nel momento in cui si specchia nell’aldilà e vi riconosce il proprio fantasma, ciò che è destinato a diventare dopo la morte. Il suono del flauto e l’occhio che incanta sembrano a loro volta riflessi opposti del suono vivificatore della cetra di Orfeo e del venire alla luce da parte dei fantasmi. Solo i morti, nel simbolo di questi miti, possono guardare i viventi, mai viceversa. Ma il fatto che Perseo spicchi la testa di Medusa e la trasformi in un potente deterrente, terrificante mezzo magico per superare ostacoli e sbaragliare nemici, significa che l’incantesimo delle tenebre può essere utilizzato e diretto dall’uomo, dalla sua forza e dalla sua astuzia: Perseo, di fronte al gigante Atlante che lo minaccia, tira fuori l’orrido volto di Medusa (girandosi a sua volta dall’altra parte) «Quantus erat, mons factus Atlas».67 Perseo ha cura del suo mezzo magico: dopo l’avventura della liberazione di Andromeda (che egli si ripromette di fare sua se la salverà con il suo valore) «anguiferumque caput dura ne laedat harena, / mollit humum foliis natasque sub aequore virgas / sternit et imponit Phorcynidos ora Medusae» (e i ramoscelli freschi e vivi, pietrificati da quello sguardo, si trasformano in coralli). Il rapporto di Perseo con Medusa è piuttosto complesso nel racconto di Ovidio. Quando, dopo aver liberato Andromeda, Perseo racconta al padre di lei la propria avventura con Medusa, racconta anche un antefatto che getta una luce più penetrante su questa creatura: le altre due Gorgoni non hanno serpenti al posto dei capelli, perché Medusa un tempo era una creatura meravigliosa, desiderata e contesa, e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei capelli. Poseidone se ne innamorò e la volle possedere in un tempio di Atena, la quale per punizione trasformò i capelli di Medusa in schifosi serpenti, portando poi sul petto l’immagine della Gorgone per atterrire i nemici.

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Altrove, Perseo pietrifica un’intera schiera di nemici che aiutano Fineo, pretendente di Andromeda, e riempie lo spazio circostante di statue: prima di essere anche lui pietrificato, Fineo invita Perseo a mettere via il suo mostro prodigioso, il volto pietrificante della sua Medusa. Quel mostro, insomma, appartiene all’eroe che l’ha vinto e che lo porta sempre con sé; inoltre egli sa del proprio terribile “tesoro” vicende che gli altri ignorano. Perseo incarna il comportamento magico del guerriero arcaico. Erede più avanzata di questo comportamento sarà Atena, la glaukópis, gorgópis, oxuderkés, optillétis, ophtalmítis, narkarà Atena di Democrito, Aristotele, Eliano, Pausania: l’egida di Atena porta come maschera magica quell’effige tremenda. L’egida, la Gorgone, il fuoco abbagliante, la voce potente sono tanti aspetti della magia guerriera posseduta da Atena glaukópis e di cui essa nasconde il segreto nel fiammeggiare del suo sguardo affascinante. Come l’uccello notturno che la segue ovunque, come la civetta (glaúx) che seduce e terrorizza gli altri uccelli con il suo occhio fisso, pieno di fuoco, e le modulazioni del suo canto, Atena trionfa sui nemici con l’occhio e la voce delle sue armi di bronzo, quelle armi il cui splendore viene spesso paragonato dalla tradizione epica alla lucentezza del lampo e il rumore al fragore del tuono. La «voce di bronzo» che fanno udire Atena e il suo protetto, lanciando il loro grido di guerra, non è che il corrispondente, nel mondo dei suoni, dell’«occhio di bronzo», metafora e sinestesia allo stesso tempo (se consideriamo la contiguità cerebrale di vista e udito),68 che fissa impietosamente sui suoi nemici la figlia di Metis, quella che i Greci chiamano «dea dallo sguardo brillante» (glaukópis) e «potenza dell’occhio acuto» (oxuderkés).69 Gli occhi di Medusa, come topos letterario, campeggiano un po’ ovunque attraverso i secoli. Nella letteratura europea in lingua volgare sono destinati sia alla donna fatale, di origine demoniaca (La belle dame sans merci da Alain Chartier nel secolo XV a John Keats nel secolo XIX), sia alla donna-angelo (da Beatrice a Laura, fino alla Clizia montaliana). Ma non sono da escludere la fate impietratrici di tante fiabe popolari sia occidentali che orientali, né le divinità il cui occhio prezioso anche di gemme può fulminare, impietrire, incenerire l’occhio umano che osi fissarlo direttamente: è ciò che può accadere anche a Dante in paradiso se non distoglierà subito il suo sguardo, ed è ciò che in fondo esprime anche Montale nel verso «Muore chi ti riconosce?» (Il ventaglio, in La bufera e altro).

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Ma l’occhio meduseo fa la sua comparsa anche in letterature che difficilmente possono essere state influenzate da quella greca. Nel racconto tradizionale irlandese L’ebbrezza degli ulati lo sguardo di un eroe dell’Ulster, Tricastal, è in grado di uccidere un guerriero, così come in molti racconti di origine celtica si trova il tema dell’occhio paralizzante e fulminante (ad esempio negli episodi mitici di Balor e di Yspaddaden Penkawr).70 L’occhio di Medusa non è che una delle tante forme sincretiche in cui si manifesta l’occhio incantatore, simbolo allo stesso tempo di amore e morte. Non volendo catalogare una serie troppo grande e troppo varia di occhi medusei, ne abbiamo organizzato la disseminazione in varie parti, che riguardano il poema, la poesia lirica, il romanzo. A quelle rimandiamo anche per il colpo di fulmine.

Edipo Ma gli occhi più tragici sono quelli di Edipo. La morte (la peste), l’incesto, il mistero della conoscenza li pongono nel mito e nella storia come l’emblema stesso della tragedia.71 Infuria la peste a Tebe, nel prologo sofocleo, e la peste rappresenta anche la grande occasione e il contesto storico-culturale da cui l’autore muove per la stesura dell’opera: di peste è appena morta gran parte della popolazione ateniese, insieme a Pericle, suo capo, stipata entro le mura della città dopo il disastro della guerra del Peloponneso. Tra la peste di Sofocle in Edipo re e quella di Tucidide nella Guerra del Peloponneso esiste un rapporto di osmosi ideologica, il trauma di un lutto collettivo che dev’essere consegnato alla riflessione dei contemporanei e dei posteri. La peste come enigma, come messaggio incomprensibile degli dei, lancia sul sistema culturale e ideologico di un popolo un problema d’interpretazione, di cui Edipo è l’emblema: depositario di segreti, misteri, enigmi di cui è impastata la sua stessa vita, il re di Tebe sembra tramandare nella finzione teatrale il messaggio e la funzione di Pericle nella storia: quando a Colono, cieco e prossimo alla morte, si addentrerà nel bosco insieme a Teseo, a lui affiderà il segreto della difesa di Atene dai nemici tebani, scomparendo poi nel mistero che è stato la cifra di tutta la sua esistenza. Anche Pericle ha lasciato un monito agli ateniesi, quello di non estendere oltre il

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loro impero (monito inascoltato, come testimonia la tragica spedizione in Sicilia). La peste come enigma, dunque, e l’enigma come sostanza e funzione di un personaggio: Edipo muove da questo, e muove, sostanzialmente, da un problema d’interpretazione, di conoscenza, dunque, alla lettera nella lingua greca, da un problema di vista. Il nome stesso di Edipo, Oidìpous, richiama etimologicamente òida (“io so”). È proprio Sofocle a trattare Edipo come colui che sa, facendogli ripetere continuamente quest’espressione.72 L’altra spiegazione etimologica rimanda a Oidìpous (“con le caviglie legate nell’atto dell’abbandono”): da oidào,“mi gonfio” e poùs,“piede”: “dai piedi gonfi”, spiegazione che sarebbe insita nel verso 1036 della tragedia. Edipo conosce molte cose che agli altri uomini sono oscure (risolve gli enigmi della Sfinge) ma altre, che sembrano invece chiare, gli sfuggono: quelle che si riferiscono all’oracolo legato alla sua nascita. Qui gli occhi e la coscienza di Edipo subiscono un inganno: l’apparenza nasconde la realtà. Muore il buon Polibo, che lo ha amato come un padre e che egli ha evitato come padre per non realizzare la profezia: la doppia notizia, della morte e della falsa paternità, giunge simultaneamente a Edipo, il quale ne è sollevato, senza pensare che l’una contraddice l’altra, e che a maggior ragione dovrà stare in guardia d’ora in poi per decifrare la realtà ed evitare quel compimento. Edipo è anche colui che non vede, che non decifra i segni degli dei e il suo sguardo si dibatte fra tuche e ananche senza attingere all’eidos che è logos. Solo il profeta, Tiresia, potrà aprire i suoi occhi sull’orrore e fargli conoscere la verità. Si noti che è stato Edipo stesso a volerla conoscere, per salvare il suo popolo dalla pestilenza. Edipo è un uomo che non accetta l’oscurità, il mistero, o meglio, non accetta di esserne preda, di esserne uno strumento inconsapevole: non accetta il silenzio degli dei. Egli non cessa di interrogare gli oracoli a questo proposito, per saperne di più e poter agire anziché essere agito. Ma anche quando svela gli enigmi il suo è un falso sapere, perché egli crede di vedere ma non vede, non vede abbastanza, non comprende che esistono altri veli: l’uomo che in vecchiaia è costretto a camminare con tre gambe rappresenta una giusta risposta alla Sfinge, ma anche una metafora del suo destino, quando errerà cieco appoggiandosi ad Antigone. Gli dei sono muti, per Edipo, perché i suoi occhi umani non sanno decifrare ciò che

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vedono. Nell’età del logos e della volontà di sapere gli dei non mescolano più le loro immagini e le loro voci a quelle degli uomini e gli uomini, se vogliono conoscere di più, devono affrontare il paradosso, la tragedia, la perdita di tutto. Ciò che si vede in modo chiaro e distinto ha solo l’apparenza della luce, ma lascia l’uomo solo con i suoi misteri, affondato nelle tenebre, alla ricerca di tracce nel visibile e nell’esprimibile, ossia là dove non sono, o non sono più. Edipo cerca continuamente e continuamente dialoga con tutti, oltre che con se stesso, per trovare il filo dell’esistenza propria e altrui. Eppure gli dei gli mandano messaggi, anche se non appartengono al regno del visibile e del concreto, anche se fanno parte di ciò che solitamente gli uomini non raccontano e preferiscono non ricordare. Essi gli parlano in sogno. Nel sogno gli appare la verità, di cui solo nel penultimo stadio di ricerca si decide a parlare con Giocasta. Quando, all’ultimo stadio, avrà la rivelazione di Tiresia, egli ha già visto dentro di sé ciò che è tanto recalcitrante a riconoscere nelle parole dell’indovino. Ma ai sogni l’umanità ha sempre attribuito la gratificante leggerezza della non appartenenza alla realtà: è Giocasta stessa a consolare l’inquieto Edipo con l’argomentazione più saggia e, insieme, più cieca di tutta la tragedia: tutti gli uomini sognano di unirsi con la propria madre, ma al risveglio sanno distinguere la realtà dal sogno e non ne restano turbati Così il messaggio del sogno di Edipo rimane muto ancora per un poco, né vale il racconto speculare, incrociato al suo, dell’oracolo che Giocasta porta a rassicurazione di Edipo, identico a quello ricevuto dai genitori di quest’ultimo. Edipo nello stesso tempo vuole e non vuole capire, si ostina a cercare le spiegazioni là dove gli dei non possono dargliele, ma poi le rifiuta quando gli appaiono sotto forme non razionali, non chiaramente ed evidentemente spiattellate ai suoi occhi e alla sua mente. Egli, uomo segnato dal mistero, non riconosce al sogno neppure il carattere di mistero, intorno a cui ruota tutta la sua vita. Egli impiega dunque un tempo lunghissimo per giungere alla tragica agnizione di se stesso che svelerà tutti i misteri. Quando vi sarà giunto, l’eccesso di vista e di conoscenza lo porterà ad accecarsi, riducendosi nella stessa condizione del profeta Tiresia. Giustamente qualche studioso ha sollevato dei dubbi sul mero carattere autopunitivo73 del gesto di Edipo: accecandosi egli di-

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strugge, sì, quegli occhi in cui orgogliosamente ha creduto come fonte unica di conoscenza, ma lo fa soprattutto per assimilarsi a Tiresia, alla sua virtù profetica che va oltre l’apparenza istantanea delle cose e attinge alla fonte della verità oltre il tempo e oltre le cose. Edipo come Tiresia, Edipo come Omero: poeti e profeti uniti dalla cecità sull’immanente e dalla veggenza sul trascendente e sul futuro. Edipo, chiudendo gli occhi sul mondo, aguzza il suo sguardo su tutta la realtà che esiste oltre il mondo e dentro l’uomo, diviene consapevole e partecipe dei misteri che hanno marchiato la sua esistenza devastandola e diviene anche innocente, perché solo ora è in grado di sapere, e solo il sapere può creare una discriminazione fra il bene e il male. Non solo, ma nell’evidenziare con la sua menomazione questa discriminante, riscatta in sé l’intera umanità nei confronti degli dei, riscatta l’innocenza di chi non sa, e quando sa, e condivide i misteri con gli dei, non è più uomo neppure lui, ma exemplum assoluto. Sulla simbologia che l’ermeneutica freudiana ha individuato a proposito dell’accecamento di Edipo esiste ormai una cospicua letteratura.74 Che il gesto possa anche significare autocastrazione è sicuramente una metonimia accettabile, nella più ampia categoria dell’autopunizione, che pure non esaurisce tutti i significati del gesto stesso. Né si intende qui liquidare la questione in modo semplicistico, ma soltanto aggiungere qualche considerazione sull’eredità culturale lasciata da quel gesto. Probabilmente quell’eredità va cercata più sulle vie del simbolo che su quelle della metonimia, che vi può essere compresa. Occorre dunque seguire Edipo fino a Colono, fino alle soglie della morte. Qui, avvertito dai fulmini di Zeus, dopo aver respinto e maledetto Polinice e aver proclamato tutto il suo amore per Ismene e Antigone, Edipo sente avvicinarsi l’ora estrema e ricomincia a “vedere”. Egli vede perché sa, ispirato dagli dei, dove si trova il luogo sacro e misterioso in cui dovrà essere sepolto e si trasforma in guida per coloro che lo guidano, in particolare per Teseo, a cui lascerà l’eredità della rivelazione. Nel bosco in cui Edipo è chiamato dalla voce divina solo Teseo potrà osservare fino in fondo ciò che accadrà, ma Teseo verrà visto tenere «una mano innanzi agli occhi / come se un indicibile prodigio / pauroso gli fosse apparso ed egli / reggere a quella vista non avesse / potuto».

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Del padre, Antigone dirà che è partito «nel modo men comune e più bello. / Non Ares, non la furia / dell’onde l’ha preso; / tratto lo han seco le regioni oscure / verso il destino suo misterioso». Invano ella supplicherà Teseo: «Vogliamo vederla / coi nostri occhi, la tomba paterna!» Il patto che Edipo ha stretto con lui è ferreo e la risposta senza repliche: «a me vostro padre ordinò / che nessuno a quel luogo si approssimi / o invochi la sacra sua tomba, / ormai sua dimora in eterno. / Se l’ordine eseguo, il mio regno / sarà immune per sempre dai mali. / Al dio l’ho promesso e al ministro di Zeus, Horco, che tutto comprende».75 Deve sparire ogni traccia di Edipo sulla terra, nessuno vedrà più la sua tomba, né la invocherà. Sarà come se non fosse mai esistito, perché agli occhi di tutti saranno cancellati i segni del suo passaggio e soprattutto agli occhi delle povere figlie nate dall’incesto. Edipo torna dunque là dove la sua vicenda sarebbe dovuta restare: nel sogno. Istituzionalizzato fra pietà e orrore il tabù dell’incesto, Edipo deve sparire ed essere relegato nella sola sfera in cui da ora in poi gli esseri umani potranno accettarlo. Con lui sparisce ogni colpa precedente riguardo al tabù, ma nessuno dovrà più avere davanti agli occhi la sua immagine perché, dopo questa, nessuno sarà più innocente. Tra gli occhi di Edipo e quelli delle figlie si stabilisce una linea di demarcazione che viene consegnata simbolicamente all’umanità: l’innocenza esemplare di Edipo finisce con lui. L’intreccio di Edipo è talmente importante nella storia della cultura occidentale che si trova moltiplicato nei generi letterari più vari e nei contesti sociali più disparati. Le fiabe,76 le leggende agiografiche,77 il teatro78 abbondano di intrecci edipici più o meno manifesti ed è appena il caso di accennare alla vasta ermeneutica che l’accompagna.79 Ma dopo il primo, quello di Sofocle, nessun altro Edipo porta la marchiatura della vista. Soltanto nel primo quel gesto rivolto agli occhi può sopportare l’ambivalenza della punizione e, nello stesso tempo, della veggenza profetica. In tutti gli altri prevale la punizione, prevale la morte. In alcuni tipi fiabeschi l’espiazione può passare per le vie della santità, come nel tipo di Gregorio o nel tipo di Albano80 descritti da Propp, o come San Giuliano in Jacopo da Varagine e in Flaubert, ma degli occhi di Edipo non c’è quasi più traccia.

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Quegli occhi accecati sono all’inizio della storia, all’inizio della società organizzata: una linea di demarcazione tra colpa e innocenza, perché è l’ultima manifestazione della loro ambivalente compresenza. Tra la formazione del tabù dell’incesto e quella del complesso di Edipo, nell’anima dell’uomo (assai prima di Freud) esiste questa vasta zona di incoscienza e, dunque, di innocenza, in cui l’umanità lotta per l’ordine contro il disordine, per la ragione contro l’istinto, per il tabù contro la trasgressione. È una zona, o meglio una distesa cronologica che ha confini vari e incerti, mutevoli nel tempo e nello spazio. Una zona in cui filogenesi e ontogenesi imparano lentamente a compenetrarsi, non senza soprassalti regressivi e vaste eccezioni. Una zona di possibile innocenza, che oggi nella storia non trova più accoglienza, se non in quelle fasce marginali in cui il tempo si è fermato, per qualche ragione sociale e culturale che va comunque a carico dell’altra parte di umanità, quella che nella storia è entrata con piena coscienza di tutti i suoi meccanismi. A quest’ultima e più cospicua parte dell’umanità non restano zone franche, margini d’innocenza. È lei stessa a non potersene più concedere, neppure nella fantasia, nell’arte, nella letteratura. Neppure nel sogno. Edipo non si acceca più, perché ha condiviso una volta per tutte la scienza degli dei e una volta per tutte sa riconoscere la tentazione di violare quel tabù. Quando essa si manifesta, quando egli vi cede anche solo in sogno, o nell’opera che sta scrivendo, non può resistere alla scelta della punizione come soluzione univoca. Edipo sceglie la morte o la santità: punizione o espiazione, ma mai più nulla che possa accrescere la conoscenza dell’animo suo e del suo destino, poiché quella conoscenza, una volta acquisita dal primo, è stata trasmessa in eredità agli altri uomini e si è trasformata in colpa. Ecco dunque Giuliano, Amleto, Dmitrij e Smerdiakov (i fratelli Karamazov) e tutti i figli letterari di Edipo alla ricerca di quella colpa non più fuori ma dentro di sé. In Sofocle l’eroe aspetta da Tiresia la rivelazione e collabora attivamente perché dall’esterno il messaggio onirico venga spiegato con chiarezza. Nei personaggi successivi la ricerca della verità sarà ambigua e oscillante, sempre indecisa, perché in realtà essa è già depositata in partenza, come un’oscura eredità, dentro l’anima dei personaggi stessi. Anche questi sono, a loro modo, degli accecati, ma lo sono, appunto, per eredità: i loro occhi non vedono perché non vogliono vedere, in un processo di rimozione che arriva alla seconda metà

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del Novecento in modo sempre più raffinato e sempre più trionfante, tant’è vero che i nodi principali dell’intreccio edipico (uccisione del genitore dello stesso sesso, unione con quello di sesso opposto) tenderanno sempre più a mascherarsi, a nascondersi dietro altri segni, altri simboli. Quelli dell’Edipo postsofocleo sono occhi che non vogliono vedere ciò che sanno già. Alfieri che mette in scena il desiderio di Mirra e Dostojevskij che affronta direttamente il parricidio costituiscono in fondo delle eccezioni. Edipo tiene gli occhi chiusi sulle profondità della propria anima fino a quando, con le rivelazioni della psicoanalisi (e con la loro reale divulgazione più di mezzo secolo dopo), non viene costretto all’autoanalisi, impossessandosi lentamente di ciò che gli dei attraverso Tiresia avevano rivelato al primo Edipo. Il trionfo della psicoanalisi in quest’ultimo scorcio di Novecento ha fatto riaprire gli occhi di Edipo, inaugurando una sorta di terzo tempo nella sua storia. Dopo quello dell’innocenza e quello della rimozione arriva quello della terapia. È il tempo di Proust, di Joyce, di Kafka, di Svevo. Il tempo di Moravia e Pasolini, di Caproni e della Morante, di Marguerite Youcenar e della Duras, il tempo di coloro che sanno: il tempo della psicoanalisi. Edipo ed Elettra (anche se l’espressione freudiana è contestabile per molti aspetti) hanno ora gli occhi ben aperti, anche troppo aperti, anche in modo ossessivo e narcisistico, fissi su quel loro problema finalmente scoperto, affascinante perché consente non solo di conoscere se stessi ma anche di trovare le necessarie attenuanti nella condivisione di traumi e complessi che sono di tutta l’umanità. La psicoanalisi ha concesso a Edipo di riaprire gli occhi perché gli ha fornito nuove prove d’innocenza nella “colpevolezza” comune: è uno stadio dell’evoluzione psichica, si può riconoscerlo, parlarne fa stare meglio, l’innocenza coincide ormai con la terapia. L’occhio di Dio è diventato l’occhio di Freud.

L’occhio di Dio, l’occhio su Dio L’occhio biblico di Dio disegna il “grande codice” della cultura religiosa monoteistica in Occidente. È un occhio che vede tutto, ovunque, dunque sa e può tutto. Nel Vangelo questa funzione di onnipotenza visiva si fa soprattutto Verbo, mescolandosi agli uomini.

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Nella Bibbia no: è un occhio che campeggia nell’universo, se parla lo fa solo per manifestare ciò che ha visto e per impartire ordini agli uomini.81 È un occhio prevalentemente inquisitorio, incalzante, smascheratore, punitivo. È l’occhio che sorprende Eva e Caino, l’occhio che incide le tavole della legge e apre il mar Rosso alla fuga degli ebrei: è un occhio non metonimico ma assoluto, perché coincide interamente con ogni funzione divina, un occhio che è voce, gesto, tutto: è l’unico senso di Dio. Ancora nel secolo IX Dhuoda, nell’impartire precetti al figlio, definisce Dio come «Colui che tutto vede» (e l’uomo come colui che non può alzare gli occhi verso ciò che è puro. Il peccatore è definito come «cieco»).82 Non a caso la massoneria lo assumerà a significare la divinità somma e assoluta: dovendo simbolizzare, non ci sarà altra scelta all’infuori dell’occhio. Quell’occhio si installerà profondamente e definitivamente nella cultura occidentale, trasformandosi, sì, a poco a poco in una figura più benevola e paterna nel passaggio cristiano, ma sostanzialmente senza perdere la propria funzione di controllo e dominio visivo. È esemplare di questa concezione dello sguardo un libro di Jeremy Bentham, il Panopticon, scritto nel 1791, a proposito di un carcere di forma circolare, da progettare in modo tale che da ogni suo punto di ispezione si vedesse perfettamente in tutti gli interni.83 L’onnipotenza dell’occhio di Dio coincide o si sostituisce in questo caso con quella dell’occhio del potere: da qui al Castello di Kafka e al 1984 di Orwell la storia prosegue. Il Dio dell’Antico Testamento non è visibile: nessuno può vederlo e restare in vita.84 La Bibbia è piena di visioni, ma Dio non coincide con le cose che concede di vedere: neppure il roseto ardente di Mosè può essere giudicato un’autentica teofania (Esodo, 3, 6) poiché l’immagine divina rimane celata. Per contro, si manifesta quella sorta di trappola visiva che è rappresentata dall’idolatria, come nel caso del vitello d’oro (Esodo, 32): il desiderio di Dio da parte dell’uomo crea immagini sostitutive, false. Lo stesso desiderio crea l’attesa, l’implorazione che il volto di Dio si riveli all’uomo: «Non nascondere il tuo volto al tuo servo!» (Salmi, 69, 18); «Illumina il tuo volto, e saremo salvati!» (Salmi, 80, 4, 8, 20). Nel libro dei Numeri Dio dichiara: «A bocca a bocca io parlo con Mosè, in modo diretto e non per enigmi: egli guarda la figura del Signore» (12, 8). Ma nell’Esodo, ancora, alla richiesta di Mosè di vedere in

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faccia Dio la replica è chiara: «Tu non puoi vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo». E poi: «Quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mia mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (33, 18-23). Nella Bibbia Dio non si vede, ma parla. Solo quando il Verbo si farà carne diventerà visibile, dunque non nell’Antico, bensì nel Nuovo Testamento. Ciò che caratterizza quel passaggio dal punto di vista dell’occhio è la trasformazione della relazione uomo-Dio da prevalentemente univoca in progressivamente biunivoca. Mentre nell’Antico Testamento è Dio che guarda l’uomo e il mondo con l’immensità del suo occhio, nei Vangeli, soprattutto nell’Apocalisse di san Giovanni e, in seguito, nelle varie Legenda agiografiche si assiste al progressivo svilupparsi dello sguardo dell’uomo sulla divinità: dapprima egli la contempla conservando il suo occhio umano, esercitandolo, insomma, a riconoscere la divinità di Gesù Cristo nell’osservazione del suo percorso sulla terra, poi, dalla morte e resurrezione di Cristo, si incomincia a parlare (e a scrivere) di visioni, che aprono l’occhio umano alla possibilità di andare oltre, di penetrare nei misteri dell’aldilà cristiano, di entrare a condividere con Dio la dimensione dell’eterno, dell’assoluto. Non sono tanto gli evangelisti a descrivere il volto di Cristo: lo nominano sette volte: cinque passi, in Luca e Matteo, riguardano la passione, due, negli stessi, la trasfigurazione, in cui la descrizione indugia maggiormente.85 Il volto di Cristo è comunque presente, è storicamente dato nella narrazione, gli altri personaggi evangelici possono contemplarlo. Si noti poi che nei Vangeli anche lo sguardo di Gesù è uno sguardo storico e reciproco.86 Sia che si manifesti come theàomai (notare, guardare con attenzione), sia, più normalmente, come orào (guardare) o come blèpo (fissare lo sguardo), si materializza in un incrocio di sguardi che producono effetti immediati: reazioni interiori, miracoli, decisioni profonde, vocazioni. È fondamentale, all’origine di questo processo in cui l’uomo e la divinità si guardano reciprocamente, l’Apocalisse di san Giovanni, la quale nel Prologo si dichiara «Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio, per istruire i suoi servi sulle cose che devono ben presto accadere, ha fatto conoscere per mezzo del suo Angelo al proprio servo Giovanni, il quale attesta come parola di Dio e testimonianza di Gesù Cristo, tutto quello che ha veduto».

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Da questo momento in poi la visione è il dono di Dio agli uomini eletti, una corrispondenza di sguardi tra terra e cielo che avrà tutta una serie di rituali, di luoghi, tempi e passaggi che pian piano si codificheranno nella storia della religione e della cultura. La visione di san Giovanni avviene nell’isolamento e nel silenzio, in condizioni di totale concentrazione e dedizione alla testimonianza cristiana:

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Io, Giovanni, [...] mi trovai relegato nell’isola chiamata Patmos, a causa del Vangelo di Dio e della testimonianza che rendevo a Gesù. Or, ecco, fui rapito in estasi nel giorno del Signore e udii dietro a me una voce potente, come di una tromba, che diceva: «Quello che vedi scrivilo in un libro, e mandalo alle sette Chiese...»

Le visioni sono dunque rivelazioni, non solo da parte di Dio all’eletto, ma anche da parte di questi alle comunità di credenti: visioni da condividere, messaggi da diffondere, intorno a cui costruire altri messaggi, sistemi, ideologie. L’occhio biblico di Dio era solitario, ma dall’Apocalisse in poi gli occhi si moltiplicano: la divinità, condivisa perché avvistata, si diffonde negli occhi degli uomini, l’invisibile diventa visibile, pronunciabile, alla portata di chi saprà disporre la sua anima al dono che Dio ha concesso. Periodicamente, il tema della conoscenza universale attraverserà la religione come tema visivo, di illuminazione: nel 1668 Jan Amos Komensky (Comenio) pubblicherà ad Amsterdam un compendio dei suoi ideali pansofici, quella Via lucis in cui si consiglia al cristiano come raggiungere la luce universale vincendo le tenebre della confusione umana.87 La Via lucis cerca l’unità del sapere, che è anche unità di lingua e di cultura umana, direttamente contemplando il volto di Dio, un Dio osservato perfino con occhio scientifico, essenzialmente costituito di luce, della quale si studia fisicamente la trasmissione (si pensi a Dante, ma anche a Galileo). Si pensi anche che questa tematica della luce che deve portare a una visione comunitaria del sapere in Dio è già presente nei manoscritti del Mar Morto, opera di un gruppo di monaci di Qumràn, allontanatisi dall’ebraismo ufficiale, simili agli Esseni che si contrapponevano ai Farisei e ai Sadducei. Ancora più indietro nel tempo, si pensi al grandioso prodotto sincretistico rappresentato dal Corpus Hermeticum, diciassette trattati anonimi, frutto di rivelazione diretta del dio Ermete, che propongono l’azione umana e la devozione come base per meritare la conoscenza universale, lo sguar-

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do totale nel volto del dio. Ermete Trismegisto, tre volte grande, raccoglieva le istanze mistiche e filosofiche dell’Oriente e della Grecia antica (da Pitagora a Platone, a Plotino), per consegnarle ancora molti secoli dopo a un Rinascimento percorso da inquietudini sotterranee, contrapposte all’equilibrio del suo volto esemplare: Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, Giordano Bruno tornarono a interrogare il Corpus Hermeticum, cercandovi ognuno la propria «via della luce».88 E nella stessa epoca un grande mistico umanista come Juan de Valdès compone il suo Alfabeto cristiano guardando da un lato alla devotio moderna che ha il suo modello nel De imitatione Christi, dall’altro all’esempio mistico-sociale dei beghinaggi, secondo cui Dio appariva come conoscibile soltanto in Cristo, il cui volto rassicurante garantiva il possesso della scienza e dell’amore.89 Non va dimenticato, del resto, che il tema della conoscenza universale come tema visivo era già ben presente nella cultura greca, soprattutto in Aristotele, il cui Dio è forma per eccellenza, luminoso, immobile, fuori dal tempo e dallo spazio; ma anche negli Stoici, per i quali invece Dio sta nelle cose, come un corpo fluido, divisibile, dotato della natura del fuoco, che riempie di sé tutte le strade, tutte le piazze degli uomini e il mare con tutti i suoi porti.90 Dalla paurosa immagine primordiale della Bibbia, che sembra raffigurare il rapporto di Dio con l’uomo come un immenso occhio91 che campeggia su qualche raro orecchio in ascolto, si passa a questa moltiplicazione evangelica, apocalittica, agiografica di occhi che si guardano reciprocamente e continuamente si cercano nel tentativo di conoscersi e di parlarsi. Da qui nasce l’itinerarium mentis in deum, l’estasi mistica, la visione di Dio, dei santi, dell’oltretomba cristiano: tutte le figure dello sguardo in Dio di cui la letteratura, religiosa e laica, è ricolma. Sappiamo che il problema è stato fonte di dispute teologiche fondamentali all’interno della Chiesa cristiana: gli esiti del secondo Concilio di Nicea, celebrato dal 4 settembre al 13 ottobre 787, hanno segnato tutta la storia della cultura occidentale, ponendo fine, almeno ufficialmente, al divieto di rappresentare in immagini visibili il volto di Cristo e dei santi. L’arte per molti secoli è stata essenzialmente arte sacra, ma si pensi a che cosa sarebbe potuto accadere se l’imperatore bizantino Leone III e il figlio Costantino V fossero riusciti a far trionfare l’iconoclastia e l’iconofobia. Interpretare alla lettera la Bibbia, e in particolare il Deuteronomio (4, 12) in cui

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si dice che sul Sinai «udivate il suono delle parole, ma non ne vedevate la figura; vi era soltanto una voce», ma anche leggere in modo fondamentalista alcuni testi sacri giudaici e musulmani di antica tradizione, avrebbe portato l’umanità a una sorta di cecità dello spirito, avrebbe instaurato un nuovo, pesante divieto sulla cultura umana: il divieto di vedere l’invisibile.92 Certo quel Concilio non chiuse per sempre il dibattito all’interno del Cristianesimo, tant’è vero che fra l’813 e l’843 si ebbe una recrudescenza dell’iconoclastia e, molto più avanti nei secoli, anche la Riforma protestante riprese quel dibattito piegandolo verso una puritana sobrietà espressiva.93 Se poi dalla presenza dell’occhio e della vista come relazione tra Dio e uomo (relazione dapprima univoca, poi biunivoca) passiamo a esaminarne la funzione all’interno dei testi sacri citati, notiamo una ricca e interessante fenomenologia. Il serpente della tentazione spiega a Eva, a proposito del frutto proibito: Il Signore sa che qualora ne mangiaste, si aprirebbero gli occhi vostri e diventereste come Dio, acquistando la conoscenza del bene e del male.

Eva, intanto, ha osservato che il frutto dell’albero è buono a mangiarsi, piacevole all’occhio e desiderabile per avere la conoscenza del bene e del male. Dopo la trasgressione, anche da parte di Adamo, ecco quello che succede: «Si aprirono allora gli occhi di tutt’e due e si avvidero che erano nudi» (Genesi, 3). Gli occhi sembrano decisamente i protagonisti di tutta la sequenza tentazione-trasgressione-punizione. Si noti che Dio impedirà ad Adamo ed Eva di continuare a nutrirsi di quel frutto, perché altrimenti, dopo aver imparato a distinguere il bene dal male, imparerebbero anche a vivere in eterno: così i cherubini, con le loro spade fiammeggianti, saranno i guardiani dell’Eden, ormai deserto di creature umane. Da quello sguardo, da quel sapere colpevole della prima coppia umana, nasce anche la possibilità della sua riproduzione, manifestando anche qui il legame simbolico con la vista-sapere: la Bibbia parla dell’unione carnale come di “conoscenza” (Genesi, 4, 1). Si ricordi, poi, che dopo il diluvio universale il patto di alleanza che Dio stringerà con Noè, per tutti gli uomini ormai riscattati, sarà siglato dall’arcobaleno: «L’arcobaleno sarà nelle nubi ed io, guardandolo, mi ricorderò del patto perpetuo fra Dio e ogni esse-

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re vivente» (Genesi, 9-16). Ma è un fragile patto: l’occhio vigile di Dio, sospettoso di tutti i maneggi umani per tentare di uguagliarlo, distruggerà la torre di Babele, confondendo i linguaggi in modo che gli uomini fra loro non si capiscano più (Genesi, 11, 5). Sono archetipi presenti in varie mitologie, in varie religioni non solo monoteiste. Nella Bibbia non sono assenti sogni e visioni degli uomini, che sono i segni attraverso cui Dio si manifesta loro. Abramo riceve una visione divina che gli profetizza la nascita di un figlio (Genesi, 15, 1) e a lui e a Sara, sua moglie, apparirà il Signore accompagnato da due Angeli (Genesi, 18). Più avanti, Giuseppe interpreterà i sogni divini del faraone (Genesi, 41) come messaggi inviati da Dio. Gli esempi sono sicuramente numerosi. Ciò che va osservato, tuttavia, è che l’apparizione divina attraverso sogni e visioni non ha nulla di umano nella Bibbia, poiché rappresentano l’unico mezzo che Dio ha per manifestare il suo volere, profetizzare un destino che rappresenta la sua volontà e indurre l’uomo a seguire il percorso che è stato voluto alla luce di quel destino. In genere, poi, queste apparizioni non tendono ad accrescere il sapere dell’uomo, a fargli condividere una porzione di eternità, a intensificare il suo sguardo sull’aldilà («il regno di Dio»): l’uomo non partecipa se non come esecutore cieco del disegno divino, poiché il Dio biblico pone all’origine di tutto (nella Genesi) il divieto di sapere, di vedere, di distinguere. Forse anche per questo nessun mistico ebraico è mai riuscito a sostenere la possibilità per l’uomo di raggiungere l’unione totale con Dio, a parte, forse, Abulafia nell’interpretazione di Moshe Idel.94 Se riflettiamo invece sul Dio evangelico, troviamo non soltanto una figura “paterna”, ma anche una divinità che ha scelto di rendersi visibile attraverso la permanenza fra gli uomini, che ha concesso la rivelazione di sé nella storia degli uomini, lasciando poi due doni fondamentali: la conoscenza del bene e del male e l’accesso alla visione celeste. Il primo dono segna di nuovo una grande linea etica di demarcazione, come gli occhi di Edipo: se fino alla crocifissione di Cristo gli uomini possono essere perdonati «perché non sanno quello che fanno», da quel momento in poi nessuno potrà più dirsi innocente, perché la rivelazione cristiana ha di nuovo portato l’umanità a un accrescimento di sapere, alla coscienza del bene e del male. Il Dio evangelico è dunque un Dio che non vuole allontanare

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più nessuno dall’albero della scienza, anzi, è un Dio che simbolizza in altro modo, più visibile e storico, il frutto che, lungi dal proibire, offre agli uomini perché se ne cibino interamente: quel frutto è suo figlio, è se stesso e gli uomini che mangeranno quella carne e berranno quel sangue torneranno simbolicamente a rinnovare il senso del cannibalismo primordiale: cibarsi delle carni dell’ucciso per acquistarne la forza e testimoniargli rispetto e amore. Il Dio evangelico si offre dunque in pasto agli uomini perché progrediscano nel loro cammino verso la luce. Del resto, il Vangelo di Matteo asserisce che la luce del corpo è l’occhio. Ma l’accesso al regno della luce viene anche donato in altra forma: chi avrà l’occhio puro sarà in grado di vedere quel regno prima ancora di morire. Le visioni che Dio concederà da ora in poi agli uomini costituiranno un incremento della sua capacità di vedere, un incremento di conoscenza. San Giovanni non sarà solo colui che dovrà eseguire la volontà divina, inviando le lettere alle sette chiese, ma Dio gli farà anche vedere il destino futuro dell’umanità fino alla fine del mondo, in una serie di visioni articolate in modo simbolico: nella seconda parte, l’apostolo Giovanni descrive la sua visione dei sette sigilli, delle sette trombe, dei sette segni e dei sette calici, poi la lotta tra Cristo e il demonio, infine il giudizio finale con la gloria dei santi in paradiso. Egli vede ed è incaricato di scrivere. Tutti, certo, devono rivelare ciò che hanno visto. Anche Maria Maddalena, nel Vangelo, dovrà condividere la sua gioia di aver visto Gesù risorto, comunicandola agli altri. L’uomo è sempre strumento di rivelazione, ma così è anche Gesù, dunque tutto è condiviso ormai tra Dio e gli uomini. In più, gli uomini con le loro visioni hanno accesso al regno di Dio: ora sanno molto di più. Dalla Maddalena agli apostoli (si pensi a Tommaso l’incredulo, al quale Gesù concede una prova supplementare, personalizzata), da san Giovanni a san Pietro, a tutto lo stuolo dei santi successivi, le cui visioni sono scritte in tutti i vari leggendari, più o meno approvati dalla Chiesa, è un proliferare di sguardi su Dio e il regno dei cieli, un moltiplicarsi di immagini dell’aldilà. Queste immagini sono certamente da contestualizzare e raccontano una ricca storia trasversale di mutamenti culturali, che danno rappresentazioni diverse, nel tempo e nello spazio, alle figure della divinità stessa, agli angeli, al paradiso95 e vedono a poco a poco nascere, dalle visioni di san Patrizio, di san Brandano, di san Bernardo (fino al laico Dante) anche l’immagine del purgatorio.96

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Non sembri blasfemo allineare a questo punto, accanto all’occhio di Dio, anche quello di Satana, che pure è fatto oggetto di rimozione da parte dei testi sacri, e non sembra aver lasciato autonomamente tracce scritte della propria rivelazione.97 Nella Bibbia (Sap., II) si dice «La morte entrò nel mondo per l’invidia del diavolo» e il tema dell’occhio e dello sguardo impronta quel passo biblico, spiegando il ragionamento diabolico in questi termini: «tendiamo agguati al giusto, perché ci è molesto... È per noi un continuo rimprovero ai nostri sentimenti, e la sola sua vista ci torna gravosa... Così ragionano, e sbagliano, accecati dalla loro malizia...» Ma, sempre nei Salmi, c’è anche una sorta di sfida, di gara, fra gli occhi di Dio e quelli di Satana: quelli di quest’ultimo «spiano l’infelice» che vogliono tentare e gli tendono agguati, ma gli occhi di Dio vedono di più. Nel Salmo 11: Gli occhi suoi stan fissi sul mondo, / i suoi sguardi scrutano i mortali. / Scruta il Signore i giusti e i tracotanti. / L’anima sua detesta chi fa il male.

Questa sorta di sfida degli sguardi tra Dio e Satana, tra il bene e il male ricorrerà poi in un lungo percorso non solo teologico, ma anche letterario: dal «Caron dimonio con occhi di bragia» dantesco98 (e non si dimentichi che Lucifero è colui che «contra ‘l suo fattore alzò le ciglia»)99 fino al Satana di Milton nel Paradiso perduto, i cui occhi sembrano non avere altra funzione che quella di esprimere ogni piacere,100 agli occhi delle «belle dame sans merci», con tutte le tipologie diaboliche legate alla donna fatale.101 Gli occhi di Satana sono sparsi nel mondo alla stessa stregua degli occhi di Dio: producono cultura, arte, letteratura. Come gli occhi di Dio, anch’essi donano all’uomo le loro visioni, incubi, allucinazioni. Campeggiano nel caos (come quelli del Satana di Milton) o nelle tenebre della notte (come quelli che occupano i deliri del Tasso), si insediano nei corpi femminili costruendo con luci magnetiche le tipologie della strega, della maga, della donna fatale (Carmen, di Mérimée, confessa di essere una strega), ma non disdegnano corpi animali, come quello tradizionale del serpente e del drago, passando per il gatto che appare come una presenza enigmatica già nella cultura egiziana e poi viene caricato di valenze diaboliche, soprattutto se nero (cfr. Il gatto nero di Poe). Gli occhi di Satana sono occhi magnetici, capaci di perdere l’anima dell’uomo anche solo con uno sguardo, anche solo con un «col-

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po di fulmine».102 Gli effetti sono devastanti, ma la passione amorosa, come sappiamo, confina con quella mistica, in una confusione babelica di linguaggi e di sentimenti in cui le visioni si moltiplicano da un estremo all’altro. Le tipologie che la letteratura e l’arte assumono e plasmano da queste mitologie sono così ricche e varie che il moltiplicarsi degli sguardi tra loro crea, spesso non a caso, un senso di vertigine.103

1 Così le descrive ESIODO nella Teogonia, vv. 7-14, 39-43, 68-70. Ma si veda anche PLATONE, Fedro, 245a, 4-5; Ione, 533d-534e; Cratilo, 428c, 116d. Cfr. L. M. NAPOLITANO VALDITARA, Lo sguardo nel buio. Metafore visive e forme greco-antiche della razionalità, Laterza, Roma-Bari 1994; L. BOTTANI, Malinconoia ed epoché, Mercurio, Vercelli 1995. Si ricordi anche M. MERLEAU-PONTY, Senso e non senso, Il Saggiatore, Milano 1974; G. BATAILLE, Storia dell’occhio, Gremese, Roma 1991. 2 E. A. H AVELOCK , The Muse Learns to Write. Reflections on Orality and Literacy from Antiquity to the Present, Yale Univ. Press, New Haven and London 1986 (trad. it. La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Laterza, Roma-Bari 1987). 3 Ibi, pp. 76-77. 4 J.J. R OUSSEAU , Essai sur l’origine des langues où il est parlé de la mélodie et de l’imitation musicale (trad. it. Saggio sull’origine delle lingue. Dove si parla della melodia e dell’imitazione musicale, Einaudi, Torino 1989, p. 44). 5 Cfr. W. O NG , Oralità e scrittura..., p. 25. 6 G. PASCOLI , Il cieco di Chio, in Poemi conviviali. Per il tema dell’accecamento-illuminazione dei poeti, cfr. L. M. NAPOLITANO VALDITARA, Lo sguardo nel buio..., pp. 13-19. 7 M. PARRY , Studies in the epic Technique of Oral Verse-Making, I, Homer and the Homeric Style, “HSCP”, 41, 1930, pp. 73-147; ID., Studies in the Epic Technique of Oral Verse-Making, II, The Homeric Language as the Language of an Oral Poetry, “HSCP”, 43, 1932, pp. 1-50. 8 Sulla questione omerica, cfr. W. O NG , Oralità e scrittura..., p. 25. 9 A. R IMBAUD , Lettera del veggente, 1871. 10 J. S ARAMAGO , Ensaio sobre a Cegueira, Saramago & Editorial Caminho SARL, Lisboa 1995 (trad. it. Cecità, Einaudi, Torino 1996). 11 S. VASSALLI , La notte della cometa, Einaudi, Torino 1990, p. 239. 12 Ibi, p. 9. 13 Cfr. C. W OLF , Kassandra, Aufbau-Verlag, Berlin und Weimar 1983 (trad. it. Cassandra, Edizioni e/o, Roma 1990). 14 S. F REUD , Il poeta e la fantasia, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969, vol. I, pp. 47-59. 15 J. L. B ORGES , Tutte le opere, Mondadori, Milano 1984-85, 2 voll., pp. 78-79. 16 Cfr. R. B URGIN , Conversazioni con Borges, Milano 1971, p. 36. 17 Ibidem. 18 Cfr. L’uomo senza qualità: «L’uomo uso a sorvegliare nello specchio il proprio vestire non è capace di agire con tranquilla serenità. Perché lo specchio, creato in origine per la gioia... è diventato uno strumento di paura, come l’orologio». 19 A parte tutte le analisi freudiane e lacaniane sullo stadio dello specchio in psicoanalisi, cfr. J. BALTRUSAITIS, Le miroir: révélations, science-fiction et fallacies, Seuil,

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Paris 1979 (trad. it. Lo specchio. Rivelazioni, inganni e science-fiction, Adelphi, Milano 1981). Per le implicazioni pedagogiche, cfr. M. GENNARI, L’educazione estetica, Bompiani, Milano 1994. 20 Può bastare una bibliografia essenziale: per l’analisi del narcisismo, S. FREUD, Il narcisismo (Zur Einfuhrung des Narzissmus, 1914) e Il disagio della civiltà (1930), in Tutte le opere, Boringhieri, Torino 1988; N. O. BROWN, Live against Death, Wesleyan Univ., 1959 (trad. it. La vita contro la morte, Il Saggiatore, Milano 1968); J. LACAN, Le stade du miroir comme formateur de la fonction du Je telle qu’elle nous est revelée dans l’expérience psychanalytique, in Ecrits, Seuil, Paris 1966, pp. 92-100. 21 K. KERENYI, Dionysos. Urbild des unzerstorbaren Lebens, Albert Langen-Georg Muller Verlag, Munchen-Wien 1976 (trad. it. Dioniso, Adelphi, Milano 1992). 22 ID., Die Mythologie der Griechen, Rhein-Verlag, Zurich 1951 (trad. it. Gli dei della Grecia, Il Saggiatore, Milano 1962 e 1994). 23 O VIDIO , Metamorfosi, III, 339-536. 24 Cfr. G. B ALDISSONE , Le voci della novella. Storia di una scrittura da ascolto, Olschki, Firenze 1992, pp. 7-26. Per il mito di Narciso nella letteratura cfr. L. VINGE, The Narcissus Theme in Western Literature, Lund, 1967; ID., The Five Senses. Studies in a Literary Tradition, Lund, 1975. 25 P. Z WEIG , The Heresy of self-love. A study of subversive Individualism, Princeton Univ. Press, 19802 (trad. it. L’eresia dell’amore di sé. Storia dell’individualismo sovversivo nella cultura occidentale, Feltrinelli, Milano 1984). 26 Su questo, comunque, sarà utile consultare il Catalogo di qualche recente mostra: per esempio, cfr. Lo specchio e il doppio. Dallo stagno di Narciso allo schermo televisivo, Fabbri, Milano 1987 (Torino, 24 giugno-11 ottobre 1987). 27 Cfr. almeno A. B OATTO , Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Roma-Bari 1997; F. RELIA, Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, Feltrinelli, Milano 1998. 28 Anche questi pochi, tuttavia, in una sorta di “iperletteralizzazione” del testo, hanno rischiato di scavalcarlo. Cfr. D. GAGLIARDI, Spirito e forma nel romanzo di Apuleio, in “Le parole e le idee”, 1964, ora in Da Petronio a Reposiano, Napoli 1967, pp. 60 e ss.; P. JUNGHANS, Die Erzahlungstechnik von Apuleins Metam. und ihren Vorlage, in “Philologhus” suppl. Band XXIV, 1, 1932; L. ZURLI, Il modello attanziale di una novella apuleiana, in Atti del Convegno Internazionale di Letterature Classiche e Narratologia, Università di Perugia, 1981, pp. 397-410. Occorre citare, inoltre, fra le interpretazioni simboliche, almeno quella di P. DIEL, Le symbolisme dans la mythologie grecque, Prefazione di G. Bachelard, Paris 1952 e 1966. Tra le interpretazioni più vicine alla lettera del racconto, va invece segnalata quella antropologica che si trova in V. J. PROPP, Istoriceskie Korni volsebnoj skazki, Leningrad 1946, cap. IV (trad. it. Le radici storiche dei racconti di fate, Boringhieri, Torino 19815) ripresa e sviluppata nelle analogie fra Amore e Psiche e le fiabe siciliane in I. C ALVINO , Introduzione a Fiabe italiane, a cura di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 1993, pp. 5-53. 29 B. B ETTELHEIM , The Uses of Enchantment. The Meaning and Importance of Fairy Tales, Alfred A. Knopf, New York 1976 (trad. it. Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, Feltrinelli, Milano 1977). 30 Cfr. M. L. V ON F RANZ , L’Asino d’oro, Bollati Boringhieri, Torino 1997. 31 Cfr. G. L EOPARDI , Zibaldone de’ miei pensieri, Mondadori, Milano 1997. 32 Cfr. J. CAMPBELL , The hero with a thousand faces, Pantheon Books Inc., New York 1953 (trad. it. L’eroe dai mille volti, Feltrinelli, Milano 1984). 33 Cfr. M. D E C ERTEAU , La Fable mystique, XVI-XVII siècle, Gallimard, Paris 1982 (trad. it. Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, Il Mulino, Bologna 1987); ID., Il parlare angelico. Figure per una poetica della lingua, Il Mulino, Bologna 1989.

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34 Cfr. almeno E. ZOLLA, I mistici dell’Occidente, Garzanti, Milano 1963 (poi Rizzoli, 1976-80, indi Adelphi, 1997, 2 voll.); ID., Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992; P. DINZELBACHER - D. R. BAUER, Movimento religioso e mistica femminile nel Medioevo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993; G. EPINEY - BURGARD - E. ZUM BRUNN, Le poetesse di Dio, Mursia, Milano 1994; K. RUH, Storia della mistica occidentale, Vita e Pensiero, Milano 1995; B. MC GINN, Storia della mistica cristiana in Occidente, Marietti, Genova 1998; Dizionario di mistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998. Per quanto riguarda specificamente lo sguardo mistico è fondamentale A. DE SANTIS, Metamorfosi dello sguardo. Il vedere fra mistica, filosofia ed arte, Studia Anselmiana, Roma 1996; L. IRIGARAY, Il respiro delle donne, Il Saggiatore, Milano 1997; M. BALDINI, Parole dell’estasi, San Paolo, Milano 1997. 35 J. D E L A C RUZ , Poesie, Einaudi, Torino 1974; I D ., Cantico spirituale, Rizzoli, Milano 1991; ID., Fiamma d’amore viva, a cura di Cesare Greppi, Es, Milano 1993. Tutte le opere di san Giovanni della Croce si possono leggere nell’edizione italiana a cura di Padre Ferdinando di Santa Maria O.C.D., Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1985. Cfr. J. ORCIBAL, Saint Jean de la Croix et les mysthiques rhéno-flamands, Paris 1966; V. G. DE LA CONCHA, Filologìa y mìstica: San Juan de la Cruz, Llama de amor viva, Real Academia Espanola, Madrid 1992; R. ROSSI, Giovanni della Croce. Solitudine e creatività, Editori Riuniti, Roma 1993. Sulla mistica di ambito renano-fiammingo, cfr. anche HADEWIJCH, Lettere. Dio amore e amante, a cura di Rocco Berardi, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993. 36 L. S PITZER , Three Poems on Ecstasy, in Essais on English and American Literature, Princeton Univ. Press, 1962, pp. 142-153. 37 B. V ERNAZZA , Congregazione del divino Uno, XIV, in I Mistici, a cura di A. Levasti, Bemporad, Firenze 1925, I, p. 263. Cfr. l’edizione recente dell’ultima opera di A. LEVASTI, I grandi mistici, Nardini, Fiesole 1993. 38 S ANTA G ERTRUDE , Esercizi spirituali, III, in I Mistici, p. 130. 39 S ANTA T ERESA D’ AVILA , Storia della propria vita, XVIII, in I Mistici, p. 114. 40 Cfr. MEISTER ECKHART, Deutsche Predigten und Traktate, Carl Hanser Verlag, Munchen 1963 (trad. it. Trattati e prediche, Rusconi, Milano 1982); ID., La nobiltà dello spirito, Piemme, Casale Monferrato 1996; ID., La nascita eterna, antologia di scritti a cura di G. Faggin, Neri Pozza, Vicenza, 1996. Cfr. K. R UH , Meister Eckhart, Morcelliana, Brescia 1989; A. DE SANTIS, Metamorfosi dello sguardo..., pp. 45-112. 41 Cfr. I GNAZIO D I L OYOLA , Esercizi spirituali, in Gli scritti, a cura di M. Gioia, UTET, Torino 1977. 42 ILDEGARDA DI BINGEN, Scivias (1147), Liber vitae meritorum (1158-1161), Liber divinorum operum (1163-1174). Cfr. R. PERNOUD, Storia e visioni di Santa Ildegarda, Piemme, Casale Monferrato 1996. 43 Cfr. A. D A F OLIGNO , Memoriale, in Il Cristo, Fondazione Valla-Mondadori, Milano 1986, IV vol.; ID., Il libro dell’esperienza, a cura di Giovanni Pozzi, Adelphi, Milano 1991. 44 Cfr. M.M. D È PAZZI , Le parole dell’estasi, a cura di Giovanni Pozzi, Adelphi, Milano 1984. 45 Cfr. M. VON MAGDEBURG, La luce fluente della divinità, Giunti, Firenze 1991. 46 Cfr. C. D’ ASSISI , La segreta dolcezza, Interlinea, Novara 1997. 47 Cfr. C. MILITELLO, Il volto femminile della storia, Piemme, Casale Monferrato 1996. 48 Cfr. J. VAN RUUSBROEC, Lo specchio dell’eterna beatitudine, Figlie di san Paolo, Milano 1994. 49 Cfr. N. CUSANO, De Visione Dei, in Scritti filosofici, Zanichelli, Bologna 1980, 2 voll. Per l’approfondimento del tema in Cusano, cfr. A. DE SANTIS, Metamorfosi dello sguardo..., pp. 113-167.

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50 Una breve analisi del poema si trova in appendice a M. DE C ERTEAU , Fabula mistica..., pp. 401-405. 51 Per l’immagine del fuoco come parola mistica, cfr. P SEUDO D IONIGI L’AREOPAGITA, Gerarchia celeste. Teologia mistica. Lettere, a cura di Salvatore Lilla, Città nuova editrice, Roma 1986, pp. 79 e ss. Cfr. anche J. GUITTON, Jean-Jacques Antier, “Poteri misteriosi della fede”, Piemme, Casale Monferrato 1994. 52 Cfr. M. A LCOFORADO (?), Lettres Portugaises, Barbin, Paris 1669 (trad. it. Lettere di una monaca portoghese, Marsilio, Venezia 1991). 53 Cfr. in partic. la Lettera IV di Eloisa ad Abelardo. 54 Cfr. L. DU NEANT, Il trionfo delle umiliazioni. Lettere, a cura di M. Bergamo, Marsilio, Venezia 1994. Un approfondimento importante su queste tematiche si trova anche nelle altre opere di Mino Bergamo, La scienza dei santi (1984) e Anatomia dell’anima (1991). 55 Cfr. La prière. Les Hymnes d’Orphée, a cura di P. Charvet, Nil éditions (diffusion Seuil), Paris 1995. 56 M. B LANCHOT , L’espace littéraire, Gallimard, Paris 1955 (trad. it. Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, p. 151). 57 Ibi., p. 148. 58 M. D ETIENNE , L’écriture d’Orphée, Gallimard, Paris 1989 (trad. it. La scrittura di Orfeo, Laterza, Roma-Bari 1990). Ma può essere utile consultare i testi più recenti sulla storia della scrittura: G.R. CARDONA, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino 1981; ID., Storia universale della scrittura, Mondadori, Milano 1986; A. PETRUCCI, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Einaudi, Torino 1980 e 1986; ID., Scrivere e no, Editori Riuniti, Roma 1988; A. PETRUCCI - C. ROMEO, Scriptores in urbibus. Alfabetismo e cultura scritta nell’Italia altomedioevale, Il Mulino, Bologna 1993; La memoria del sapere, a cura di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1988; Les savoirs de l’écriture. En Grèce ancienne, a cura di M. Detienne, Presse Universitaires, Lille 1988; A. GAUR, La scrittura, Dedalo, Bari 1997. 59 Ibi, p. 110. 60 Per la definizione cfr. E. D E M ARTINO , La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977. 61 Traduzione: Grande uomo rosso che legge: «C’erano spettri tornati sulla terra per sentire le sue frasi, / lui seduto che leggeva ad alta voce le grandi tabulae azzurre. / Erano quelli del deserto delle stelle che avevano atteso di più. / C’era chi tornava per sentirlo leggere del poema della vita, / della pentola sulla stufa, la brocca sul tavolo, i tulipani. / Erano quelli che avrebbero pianto pur di rientrare scalzi nella realtà, / avrebbero pianto di gioia, tremato di freddo nel gelo, / e gridato pur di sentirlo ancora, avrebbero accarezzato con le dita le foglie, / le spine più acuminate, si sarebbero afferrati al brutto, / e riso, mentre lui seduto leggeva, dalle tabulae di porpora, / i lineamenti dell’essere, le sue espressioni, le sillabe della sua legge: / Poesis, poesis, le lettere, i caratteri, i versi ispirati, / che in quegli occhi e in quei cuori sottili, esauriti, / prendevano forma, colore, e la misura delle cose che sono, / e dicevano per loro l’emozione, che era ciò che era loro mancato». Cfr. W. STEVENS, The Auroras of Autumn, A. A. Knopf Inc., 1950 (trad. it. Aurore d’autunno, Garzanti, Milano 1992). 62 J. P. V ERNANT , La mort dans les yeux, Hachette, Paris 1985 (trad. it. La morte negli occhi. Figure dell’Altro nell’antica Grecia, Il Mulino, Bologna 1987); R. CAILLOIS, L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Cortina, Milano 1998. La Gorgone Medusa, figlia mortale di Forcide, bellissima e dotata di una capigliatura straordinaria, fu violentata da Poseidone in un tempio consacrato ad Atena, che la punì trasformando i suoi capelli in serpenti. Lo sguardo di Medusa pietrificava chi la circondava. Perseo riuscì a ucciderla, avvicinandola nel sonno e facendola rispecchiare nel proprio scudo: dal collo di Medusa uscirono serpenti e, secondo

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Ovidio (Metamorfosi, IV, 615-661 e 770-803) Pegaso, cavallo alato. Perseo pietrificò numerosi nemici usando la testa di Medusa, di cui poi fece dono ad Atena. La rappresentazione iconografica della Gorgone è infatti tradizionalmente presentata come scudo di Atena. Nell’età moderna è famosa la testa di Medusa di Leonardo (perduta), descritta dal Vasari nel 1568, quella del Caravaggio, quella di Rubens. 63 Cfr. E URIPIDE , Eracle, 1119 e 884-895. 64 Figure apparentate a Medusa si possono considerare le Praxidikai, le dee-teste, documentate ampiamente in Pausania. Cfr. J. P. VERNANT, La mort dans les yeux..., pp. 69-76. 65 L. M. N APOLITANO VALDITARA , Lo sguardo nel buio..., p. 63. 66 J. P. V ERNANT , La mort dans les yeux..., p. 83. Cfr. anche P. C ITATI , La luce della notte, Mondadori, Milano 1996. Si noti che la frontalità è anche una caratteristica plastica dell’arte egizia. Le grandi statue dei faraoni si presentano ieraticamente in posizione frontale, né gli artisti che le hanno plasmate ne hanno previsto una rifinitura posteriore, giacché l’occhio divino del faraone defunto deve dominare coloro che lo accostano: cfr. A. HAUSER, Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, Beck, Munchen 1951 (trad. it. Storia sociale dell’arte, Einaudi, Torino 1956, 2 voll.), I, pp. 59-63. 67 O VIDIO , Metamorfosi, IV, 655-662. 68 Cfr., più avanti, gli studi di T. Tornitore sulla sinestesia come patologia oftalmica. 69 M. D ETIENNE - J. P. V ERNANT , Les ruses de l’intélligence. La Mètis des Grecs, Flammarion, Paris 1974 (trad. it. Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 136-137). 70 Cfr. “Celticum”, suppl. ann. a “Ogam-Tradition Celtique”, Rennes 1948. 71 G. S ERRA , Edipo e la peste, Marsilio, Venezia 1994. 72 Cfr. P. V IDAL N AQUET , Edipo ad Atene, in J. P. V ERNANT - P. V IDAL N AQUET , Mythe et tragédie deux, Editions La Découverte, Paris 1986 (trad. it. Mito e tragedia due. Da Edipo a Dioniso, Einaudi, Torino 1991, pp. 135-159). 73 D. DELCORNO, Il buio di Edipo nascose la luce, in “Il Sole 24 ore”, 11 dicembre 1994; ID., Edipo cieco di sapienza, in “Il Sole 24 ore”, 22 gennaio 1995. 74 A partire, ovviamente, da Freud. Cfr. L. M. NAPOLITANO VALDITARA, Lo sguardo nel buio..., pp. 17-19. Ma si veda anche A. CAVARERO, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 67-73. 75 Le traduzioni sono di Domenico Ricci. 76 V. J. PROPP, Edipo alla luce del folclore. Quattro studi di etnografia storico-strutturale, Einaudi, Torino 1975. 77 J. DA VARAGINE, Le serpi in seno. Santi e birbanti della Legenda aurea dal Medioevo alla Controriforma, a cura di G. Baldissone e F. Portinari, Serra e Riva, Milano 1986; ID., Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Einaudi, Torino 1995. 78 S. F REUD , Edipo e Amleto, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Boringhieri, Torino 1969. 79 L’iniziatore di quest’ermeneutica letteraria di carattere psicoanalitico è proprio Freud, nei saggi citati. L’identificazione (o la contestazione) di Edipo da parte della critica letteraria prolifera negli anni sessanta, passando attraverso le ricerche di N. O. Brown, L. Fiedler, C. Mauron e la psicocritica, per subire un attacco e un contributo determinante da parte di J. Lacan e dei lacaniani, fino a Deleuze e Guattari. Un apporto metodologico importante, in Italia, è quello di F. Orlando e M. Lavagetto. 80 Cfr. Leggenda de misier Sento Alban, a cura di E. Burgio, Marsilio, Venezia 1995. 81 Cfr. J. B RIEND , Dio nella Scrittura, Borla, Roma 1995. 82 Cfr. DHUODA, Educare nel Medioevo. Per la formazione di mio figlio, Jaca Book, Milano 1984, p. 117.

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DEL MITO

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83 Cfr. anche M. F OUCAULT , Surveiller et punir, Gallimard, Paris 1975 (trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976); ID., La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 (trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978); D. LYON, Bentham’s Panopticon, in “Queen’s Quarterly”, 98, 3, 1991; ID., The Electronic Eye. The Rise of Surveillance Society, 1994 (trad. it. L’occhio elettronico. Privacy e filosofia della sorveglianza, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 87-116). 84 Cfr. B. CHENU, Tracce del volto, Edizioni Qiqajon, Magnano, Comunità di Bose 1996, pp. 35-42; A. BOURLOT, Parola immagine simbolo. Ascolto e visione nella comunicazione biblica, San Paolo, Milano 1997, pp. 23-56. 85 Cfr. per il volto della passione Lc 9, 51: «Gesù indurì la sua faccia per prendere la strada di Gerusalemme»; Lc 9, 53: «perché la sua faccia era diretta a Gerusalemme»; Mt 26, 39: «cade con la faccia a terra»; Mt 14, 65: «si misero a coprirgli la faccia»; Mt 26, 67: «gli sputarono in faccia». Per il volto della trasfigurazione Lc 9, 29: «Mentre pregava, l’aspetto del suo volto divenne altro»; Mt 17, 2: «egli fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto risplendette come il sole». 86 Si è notato nelle concordanze evangeliche che lo sguardo di Gesù viene descritto per ben settantanove volte: cfr. B. CHENU, Tracce del volto..., p. 66. 87 Cfr. J.A. K OMENSKY , Via lucis (trad. it. C OMENIO , La via della luce, Edizioni del Cerro, 1993; 88 Cfr. E RMETE T RISMEGISTO , La pupilla del mondo, a cura di C. Poltronieri, Marsilio, Venezia 1994. 89 Cfr. J. DE VALDES, Alfabeto cristiano, a cura di M. Firpo, Einaudi, Torino 1994. Valdès venne respinto dalla Riforma luterana e condannato dalla Controriforma. Le sue opere furono poste nell’Indice dei libri proibiti. Un suo discepolo, Bernardini Ochino, dovette fuggire a Ginevra, ma anche i calvinisti lo respinsero e finì presso i fratelli Moravi, anch’essi legati all’umanesimo mistico. Un suo discepolo, il Carnesecchi, finì sul rogo a Firenze. 90 Cfr. C. D IANO , Forma ed evento, Marsilio, Venezia 1993. 91 Va ricordato che la figura dell’occhio è una delle grandi figure sincretistiche, presenti cioè in molte culture, religiose e non, fin dall’antichità: in Egitto è connessa al mito del sole, grande figura presente anche in tutte le utopie. Cfr. G. BALDISSONE, La simbologia del sole nei progetti di utopia, in I mondi impossibili. L’Utopia, a cura di G. Bárberi Squarotti, Tirrenia Stampatori, Torino 1990. 92 Cfr. Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’Immagine, a cura di L. Russo, Aesthetica, Palermo 1997: si tratta degli Atti del Concilio di Nicea, pubblicati per la prima volta integralmente. 93 Questi eccessi iconoclasti della Riforma sono rievocati nel romanzo di HENRICH STANGERUP, Fratello Jacob, tradotto in Italia da Iperborea, Milano 1993. 94 Cfr. M. IDEL, L’esperienza mistica di Abraham Abulafia, Jaca Book, Milano 1993. 95 Cfr. J. CAMPBELL, Le maschere di Dio, Bompiani, Milano 1962; C. MCDANNELL - B. L ANG , Storia del paradiso, Garzanti, Milano 1992; P. A. B ERNHEIM - G. STAVRIDES, Paradis Paradis, Plon, Paris 1991 (trad. it. Paradiso Paradisi, Einaudi, Torino 1994). 96 Cfr. almeno J. L E G OFF , La naissance du Purgatoire, Paris 1981 (trad. it. La nascita del Purgatorio, Einaudi, Torino 1982); J. DELUMEAU, Storia del paradiso terrestre. Il giardino delle delizie, Il Mulino, Bologna 1994. 97 S. P ETROSINO , Visione e desiderio, Jaca Book, Milano 1992, pp. 69-101; A. G IALLONGO , L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel Medioevo, Dedalo, Bari 1995. 98 Cfr. D. A LIGHIERI , Inferno, III, 109. 99 Ibi., XXXIV, 35. 100 S. P ETROSINO , Visione e desiderio, p. 78; G. M ATHIS , Analyse stylisthique du Paradis perdu de John Milton, Univ. de Provence, Aix-en-Provence 1987, 4 voll.

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101 Cfr. almeno M. PRAZ, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Sansoni, Firenze 1976; G. SCARAFFIA, La donna fatale, Sellerio, Palermo 1987. 102 J. R OUSSET , Leurs yeux se rencontrèrent, José Corti, Paris 1983. 103 Cfr. PLATONE, Fedro, 250 D. Ma si veda anche L. M. NAPOLITANO VALDITARA, Lo sguardo nel buio..., p. 71: «La nascita dell’amore in un soggetto è giustificata in connessione alla visione prenatale dell’idea, in particolare dell’idea di bellezza: dopo la caduta nel corpo e nel sensibile, l’anima, quando si trova dinanzi ad un’immagine della bellezza contemplata allora (e dimenticata), si smarrisce e s’innamora di quell’immagine, senza capire che, tendendo all’immagine, essa aspira all’idea».

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III. FIGURE RETORICHE

Nei cataloghi della memoria (meglio se elettronica) si può raccogliere un numero infinito di immagini visive e visionarie, che hanno dettato nei secoli le figure retoriche della letteratura. Ma i repertori, reali o virtuali, possono soltanto rassicurarci quantitativamente sulla dimostrabilità e verificabilità della nostra ipotesi di dominanza visiva.1 Se ci addentriamo in quell’ordinata foresta di figure, non possiamo farlo soltanto per essere rassicurati, ma anche per tentare di comprendere qualcuna delle funzioni affidate alla vista nell’ambito del linguaggio letterario. Qui si impongono delle scelte, che possono essere complesse e molteplici, ma possono anche risolversi, per le domande che ci poniamo, in una sola: la scelta, cioè, di quelle figure che nella letteratura si sono imposte per la loro forza e la loro bellezza espressiva, che sono state ripetute e imitate non solo dai letterati ma anche dagli esponenti di altri linguaggi artistici per il loro valore esemplare. Può essere significativo citare il caso del Museo d’Arte Contemporanea di Helsinki, aperto nel maggio 1998, che l’architetto Steven Holl ha progettato come una struttura incrociata, significativamente denominata Kiasma: in questo caso, il linguaggio architettonico è in grado di evidenziare ed esaltare la funzione eminentemente visiva della figura retorica del chiasmo. Sono questi exempla, per così dire, del linguaggio retorico-letterario che vale la pena di interrogare, se si vuole comprendere la parte esercitata dall’occhio in tutta questa organizzazione retorica della letteratura.2 Non è possibile essere esaustivi in un’indagine di questo genere: sarà sufficiente tracciare un percorso, seguire le fortune di un’immagine e porci qualche interrogativo a suo riguardo. Si potrebbe cominciare con la più usata, consciamente e inconsciamente, tra le figure retoriche: la metafora. Si tratta di un paragone accorciato, ci spiega la normativa: due immagini vengono accostate fino al punto da far coincidere l’una con l’altra, senza ricorrere a congiunzioni: è come una magia, un’apparizione, una metamorfosi, in cui una cosa è talmente simile a un’altra da diventare effettivamente l’altra. Così i capelli di Laura sono d’oro, così sono di perla, avorio e molte altre pietre pre-

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ziose la fronte, le guance, le mani, le braccia, il seno di tutte le donne canoniche dei poeti fino al Novecento. Si noti che la metafora elabora materiali preziosi sia per la tipologia della donna angelicata e superiore che per quella della donna fatale, sensuale e diabolica, per la quale si profondono tesori di giada, ambra, carbonchio, ebano e rubino, oltre ai soliti zaffiri e lapislazzuli che si accendono di bagliori meno limpidamente celesti: basti per tutti l’esempio dei ritratti decadenti, dalla Salomè di Huysmans a quella di Wilde, senza dimenticare le donne di Poe, passando per tutti i ritratti analizzati da Praz, Scaraffia, Bettini.3 Uno sfavillare di materiali preziosi accompagna il ritratto femminile, abbagliando l’occhio del lettore con uno scrigno pieno di metafore. Ma anche il regno vegetale si presta a questo scopo, offrendosi all’abuso di immagini floreali che diventano canoniche, quali quelle della rosa, del giglio e della viola. Sono scelte dettate in parte da un altro canone, quello della letteratura religiosa, su cui quella laica per molto tempo si modella, trovando pronto un linguaggio già codificato e utilizzabile in varie forme: la donna come la Madonna per la tipologia alta, la donna come il diavolo per quella bassa, con molti rovesciamenti di canone nei ritratti parodistici.4 Anche il ritratto di Cristo ha un suo canone metaforico, che nei secoli costituisce il modello per tutti i ritratti agiografici:5 la metafora-simbolo più ricorrente è quella del sole (e della luce), impiegata anche nel linguaggio politico per designare l’istituzione ecclesiastica (la famosa teoria del Sole e della Luna, di Bonifacio VIII, a cui Dante e Marsilio da Padova contrapponevano quella dei due Soli). Beatrice e Laura, dunque, per via di metafora, incastonano pietre preziose e stendono un «pioggia di fior» su tutti i ritratti femminili delle loro simili, alte muse della letteratura, passando per Angelica e Clorinda, Nice, Teresa, Silvia, Elena Muti ed Ermione. Ma anche Alcina, Armida, Matilda e Carmen, Morella e Ligeia non sono da meno, senza dimenticare le tipologie parodistiche, dalla laurenziana Nencia da Barberino fino alla signorina Felicita gozzaniana. È normale, si può osservare, che un oggetto prettamente visivo, come un ritratto, venga espresso con immagini visive. È normale anche per il paesaggio e gli ambienti in genere, i cui singoli elementi vengono metaforizzati in forme prevalentemente visive, sebbene siano presenti in essi anche suoni e odori.

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RETORICHE

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La montagna è una “scala”, più o meno ardua, verso il cielo, e riunisce nella metafora sia l’immagine della torre di Babele che quella del paradiso terrestre-purgatorio, da san Brandano a Dante, fino al Gorisankar di Marinetti. Il cielo, sempre dantescamente, è un cristallo o uno zaffiro, oppure un mare di luce. Solo il mare talora è una mandria di armenti infuriati, mentre la terra è grembo o voragine profonda, il fiume nastro o serpente che si snoda, il lago uno specchio, le colline e le dune un mare di erba o di sabbia, le città draghi o piovre dai mille tentacoli (Verhaeren). Può bastare: non vogliamo formare repertori, ma porci delle domande sulla loro possibile esistenza. I paesaggi, fermi o in movimento, interagenti o no con i personaggi, sono lì da immaginare, da guardare con gli occhi della mente più che da ascoltare, toccare, odorare, gustare (tranne quelli fiabeschi, di marzapane, confetti o salsicce: i paesi di Cuccagna). Ma la metafora è in grado di visualizzare anche concetti astratti, idee, principi: la metafora è la negazione dell’astratto, perché, per la sua stessa funzione, rende visibile l’invisibile. Ecco il “cuore”, o “nodo” del problema. La metafora non è solo l’essenza della poesia, perché consente di sintetizzare e creare immagini, ponendo in relazione l’anima dell’uomo con l’anima del mondo, ma l’essenza stessa della comunicazione, perché nulla si può trasmettere se non attraverso l’identificazione di immagini diverse: rendere uguale il diverso costituisce il processo elementare della conoscenza e della comunicazione. La natura sarebbe condannata al silenzio se la poesia non cercasse metafore per avvicinarla alla nostra conoscenza.6 Il fatto sorprendente è appunto questo: che ciò avvenga attraverso il senso privilegiato della vista, che l’identificazione si realizzi attraverso immagini e che in immagini finiscano per trasformarsi anche suoni, odori, gesti, sapori. È vero che nello stesso modo procedono tutte le figure retoriche d’immagine e, come la metafora, anche l’analogia, il paragone, la similitudine, la sinestesia,7 il simbolo,8 l’allegoria,9 la metonimia visualizzano agli occhi della mente luoghi e concetti oscuri, sconosciuti o astratti, per portarli alla chiarezza, all’evidenza. Ma, in quanto paragone accorciato e affermazione immediata dell’identità, la metafora possiede una forza evidenziatrice superiore a tutte le altre figure retoriche, anche perché dotata in larga misura di pulsioni inconsce, che nelle altre la norma grammaticale tende a ridurre. Non a caso, i primi tentativi dell’analisi “psicocritica” della lette-

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ratura sono stati indirizzati alla ricerca di «metafore ossessive».10 E non a caso nel Rinascimento molti studiosi, scienziati, artisti hanno impiegato la metafora del teatro in senso scenografico-visivo per designare la memoria umana: si va dal Teatro della memoria di Giulio Camillo a quello di Raimondo Lullo e di Pierre de la Ramée (Pietro Ramo), dai Sigilli di Giordano Bruno al Teatro di memoria di Robert Fludd. Oggi, poi, illustri studiosi del sistema nervoso centrale attribuiscono la formazione della metafora all’emisfero destro del cervello umano, in stretta connessione con la creatività visiva, che ha sede appunto in quell’emisfero.11 La creazione spontanea di metafore nell’uso sia comunicativo che espressivo porta la lingua, sia nella pratica quotidiana che in quella letteraria, a produrre immagini che rendono più chiaro, più evidente, più seducente il pensiero da esse veicolato. Ogni atto di parola tende a cercare la vista per affermarsi. In particolare, tende a far uscire dalla mente il pensiero astratto e, appoggiandolo a immagini che lo rendono più chiaro e comprensibile, lo fanno poi tornare alla mente, marcato dal segno della vista, che lo rende più consistente nella memoria. In questo percorso, la metafora opera in modo più “primitivo” perché rappresenta la più spontanea delle figure retoriche, in quanto prodotto immediato dell’attività fantastica, fantasma essa stessa, uscito dall’inconscio con un atto minimo di riflessione razionale. Nelle altre figure retoriche, la ricerca dei nessi congiuntivi e della strutturazione della sintassi induce il parlante e lo scrittore a riflettere sui rapporti di somiglianza e di identità che vuole stabilire, mentre la metafora afferma la pura forza dell’associazione spontanea di idee. In questo senso, è più immediata perfino dell’analogia, nonostante tutte le teorizzazioni di Marinetti e dei futuristi, perché la formazione di analogie richiede comunque un atto cosciente di riflessione e di scelta, mentre le metafore, che sorgono dalla pulsione stessa di comunicare e di esprimere, sono soggette ad atti minimi di repressione perché tendono a comporsi non solo in unità singole di figure, ma anche in reti, come ha dimostrato appunto la psicocritica, e in miti personali che altro non sono che macro-immagini, grandi fantasmi metaforici che emergono dalle tendenze dominanti nelle singole figure retoriche. Se dalla metafora ci spostiamo a esaminare figure retoriche analoghe nella funzione, cioè tutte legate alla costituzione di accostamenti in grado di dimostrare nessi di somiglianza o identità, possiamo notare che sia nel paragone che nella similitudine e nell’analogia esi-

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RETORICHE

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stono atti minimi di riflessione cosciente sui nessi, rappresentati dalle congiunzioni o da un tratto d’interpunzione, che sottolineano la presenza, comunque, di due immagini espressamente citate, dunque selezionate entrambe attraverso un procedimento cosciente. Ciò che costituisce effettivamente la differenza, da questo punto di vista, è il fatto che nella metafora, invece, una delle due immagini, ossia quella letterale, referenziale, è taciuta, latente, talora inavvertita dallo stesso parlante e perfino da chi scrive. L’immagine che costituisce, per così dire, il secondo termine di paragone, è sempre la più forte, al punto da superare e cancellare l’altra. Mentre paragoni, similitudini, analogie, spiattellando ben chiari i due termini confrontati, consentono reazioni, riflessioni, valutazioni sull’efficacia, l’opportunità, l’espressività del loro accostamento, la metafora ghermisce il destinatario in un atto di fruizione immediato, quasi autoritario, suscitando l’adesione e il consenso. Gli argomenti di paragone sono “quasi logici”: «Essi sono spesso presentati come constatazioni di fatto, mentre il rapporto dichiarato di uguaglianza o di differenza spesso non è che una pretesa dell’oratore».12 Chi legge i versi «Al cor gentil rempaira sempre Amore / come l’ausello in selva a la verdura» di Guinizzelli è portato dalla duplicazione delle immagini, sottolineata a specchio dalla scansione perfetta dei due versi in primo e secondo termine di paragone, a considerare quanto pertinente sia l’accostamento, quanto espressivo sia l’uso del verbo “rempaira”, che non significa semplicemente “stare”, ma riparare, nascondersi, dimorare nel profondo, nella gentilezza del cuore. E la palpitante mobilità e segretezza di quell’immagine dell’“ausello”, nascosto nel verde del bosco, non visibile immediatamente, invita ancora una volta l’occhio ad andare oltre, a penetrare fin nel profondo, a immaginare. La lentezza della figura retorica nel suo snodarsi dalla congiunzione consente un ritmo di pacata riflessione. La metafora è ben più incalzante, esigente e, talora, insidiosa perché ricca di tranelli. Un caso davvero esemplare è quello di Montale. Nella sua elencazione di oggetti Montale ha spesso l’aria di pretendere di essere preso alla lettera. Così, in effetti, lo legge Franco Croce, quasi come lo legge Angelo Jacomuzzi:13 L’elencazione ellittica [...] ci appare un dato significativo proprio perché, mentre è tipico di una poetica che affida le sue suggestioni all’iniziativa e alla prosecuzione lirica del lettore, assume invece in Montale una diversa destinazione: mira, cancellando l’alone evocatorio delle vibrazioni soggettive, a una perentoria presentazione dell’oggetto.

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Quasi come Edoardo Sanguineti, che vede negli oggetti montaliani il «significativo occultamento... di una poetica dietro i suoi puri segni e i suoi puri simboli».14 E certamente in quest’operazione si legge anche l’esaurimento dell’esperienza simbolista.15 Ma si può interpretare tutto questo anche in modo ben diverso16 o addirittura opposto.17 Contini vede l’«ingorgo di oggetti» delle descrizioni poetiche montaliane come «una lotta drammatica del poeta con l’oggetto: per trovare, quasi, una giustificazione al vedere, un vero delirio di nominare» le cose, che corrisponde «a una velleità di esercitare la conoscenza del mondo». Ma quando da questa fase descrittiva il poeta passa a quella assertiva, con i suoi miti-topi (l’ora del meriggio, per esempio), si scopre che la realtà è un «mondo magico», ossia un mondo che «ridesta puntualmente il passato», ma «per opera di magia». La lettura di Contini trasgredisce, per così dire, alle ingiunzioni di Montale stesso su come vadano interpretati i suoi versi, quando, ad esempio, allinea, tra i fantasmi che salvano, l’«odore dei limoni», per concludere che Il nucleo della lirica di Montale è pertanto un’immagine tipica, un’immagine essenzialmente non irrelata: sia pure poi di difficile o disperata interpretazione; nell’alone poetico di quell’immagine è involto il possibile significato, tutto il travaglio esegetico.

È Contini stesso a portarci fuori dalla lettera nell’esegesi montaliana. E fuori dalla lettera gli “oggetti” montaliani sono metafore e simboli. La «maglia rotta nella rete», l’«anello che non tiene», il «punto morto del mondo», il «malchiuso portone» da cui è possibile spiare il «giallo dei limoni» (e “giallo” è emblematicamente il colore rivelatore, metafora e simbolo anch’esso, nello stesso tempo), altro non sono che oggetti metaforizzati. L’immagine che propongono ne cela un’altra, più segreta, ossessiva, che ricorre e si compone sempre nelle stesse forme.18 Ma la metafora è così rapida nella sua comunicazione, e così abile talora nella sua apparente “irrelazione”, da prendersi gioco del lettore, portandolo a spasso tra «pozzanghere mezzo disseccate» e «gorielli di melma» con l’intimazione di non guardare attraverso quegli oggetti, di non andare oltre. Quello di Montale è forse un caso limite. Ma non diversamente la metafora si camuffa e si impone nel parlato della comunicazione quotidiana. Ciascuno di noi ne produce, involontariamente e senza averne immediata coscienza, un numero enorme, e ciascu-

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no è in grado di riconoscere i propri paragoni, le similitudini ecc. ma fatica non poco ad ammettere la metamorfosi del pensiero primario in metafora. In tutta questa organizzazione retorica del discorso la pulsione naturale che si cela come essenza della comunicazione è quella di trasformare il pensiero astratto in oggetti concreti. Questo è essenzialmente ciò che possiamo fare per esprimere le operazioni della nostra mente: portarle alla luce mettendole in relazione con gli oggetti visibili del mondo.19 In questo risiede anche la possibilità di comunicare, creando un accordo sul significato degli oggetti stessi. Non molto diverso, dal punto di vista dell’organizzazione visiva, è il ruolo della metonimia, e della sineddoche in particolare, anche se l’accostamento di immagini, nella metonimia, è meno ardito, meno creativo che nella metafora, perché non propone nuove relazioni tra di esse, ma «sposta l’occhio», semplicemente, tra immagini, concetti, parole che sono già in relazione fra loro. 20 Certamente si può affermare con Barilli, in linea con la grande rivoluzione culturale del linguaggio operata da Freud e da Saussure, che la metafora si pone lungo un asse verticale, mentre la metonimia si pone lungo un asse orizzontale: l’associazione che queste figure operano a livello di immagini, sia che si ponga sull’asse paradigmatico, sia su quello sintagmatico, costringe sempre l’argomentazione a una messa a fuoco visiva, per exempla, che, se implica un forte richiamo anche fonico, lo fa in una sorta di messa in scena d’immagini, che implicano visivamente e per se stesse l’efficacia dell’argomentazione. Barilli afferma: Già in Freud si delinea l’accentramento dello smisurato repertorio delle figure retoriche attorno ai due poli della metafora e della metonimia [...] Quasi negli stessi anni Ferdinand de Saussure (1857-1913) dà ad essi il nome rispettivo, che poi resterà stabilmente acquisito, di asse paradigmatico e di asse sintagmatico [...] Ma Freud fa qualcosa di più, rilancia, attraverso lo studio dei motti di spirito, tutto un complesso di figure tra il grammaticale e il retorico, che spesso violano il corpo fisico della parola [...] dando luogo a pratiche, per così dire, intraverbali, che dovranno essere prese sempre più in considerazione ai nostri giorni [...] Inoltre viene offerta una motivazione forte (la logica della libido) per giustificare le associazioni semantiche più azzardose (quelle che Marinetti ricondurrà all’“immaginazione senza fili”), senza per questo ricadere nel buio dell’immotivazione cosiddetta irrazionale o gratuita.21

Su questo meccanismo è fondato anche il simbolo, con un più accentuato e connaturato marchio grafico-visivo. Il simbolo, per sua natura, mette insieme l’astratto con il concreto, presentandosi co-

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me l’esito già compiuto di una convenzione, di uno statuto ben preciso. Súmbolon da sumbállo (gettare con, mettere insieme):

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Nella dialettica di significante e significato che caratterizza il segno questa ricongiunzione appare sempre incompleta, differita; ogni volta che il significato viene interpretato, e cioè viene tradotto in un altro segno, si scopre qualcosa di più e il rinvio, anziché ricomporsi si divarica, si acuisce... Nel simbolo, al contrario, c’è l’idea di un rinvio che in qualche modo trova il proprio termine: una ricongiunzione con l’origine.22

In molte teorie, fa sempre osservare Eco, semiotico e simbolico sono concetti che si identificano. Così è nello strutturalismo di Lévi-Strauss23 e nella psicoanalisi lacaniana,24 nonostante per Freud la simbolica sia l’insieme dei simboli onirici a significazione costante («C’è in Freud, sottolinea Eco, il tentativo di costituire un codice dei simboli»). Va notato che anche Jung analizza i grandi simboli culturali e religiosi della tradizione, trasformandoli in archetipi, ma non arriva a un tentativo di codificazione sistematica, pur riprendendo in modo visivamente significativo i simboli, in particolare, della tradizione alchemica.25 I suoi discepoli, comunque, come Szasz, nell’abbattere con logica consequenzialità il mito della psicoterapia, si impegnano a dimostrare ciò che Freud aveva appena abbozzato: che la psicoterapia è retorica, riprendendo il concetto platonico della retorica come arte di «dirigere le anime» (Fedro, XLIII, 26a e LIV, 27b).26 Semiotico e simbolico sono termini intercambiabili anche nella Filosofia delle forme simboliche di Ernst Cassirer 27e nella Rivoluzione del linguaggio poetico di Julia Kristeva.28 Per la storia dell’arte, invece, spesso il concetto di simbolo è intercambiabile con quello di allegoria.29 Occorre ancora tornare a Eco per chiarire, almeno per quanto riguarda la letteratura, il senso autonomo del simbolo, come «Una tra le varie strategie poetiche possibili». Le basi del simbolismo poetico possono essere metafisiche, come avviene ancora nelle Correspondances di Baudelaire: la natura è un tempio in cui viventi colonne si lasciano talvolta sfuggire confuse parole: l’uomo vi passa, attraverso foreste di simboli che lo guardano con occhi famigliari [...] Ma questa metafisica non ha nulla a che vedere con quelle di molti simbolismi mistici. Gatti o albatros, i simboli di Baudelaire sono privati, nel senso che non rinviano a un codice o a un sistema di archetipi. Diventano simboli solo nel contesto poetico. Mallarmé lo dirà in modo più ‘secolare’: esiste una tecnica della suggestione, che talora contestualizza proprio eliminando il contesto, isolando la parola sulla pagina bianca. Se nel simbolismo delle origini potevano rimanere echi di un simbolismo mistico, il modo simbolico si instaura nella sua forma più pura e secolare, nella poesia contemporanea col correlativo oggettivo eliotiano [...] Correlativo oggettivo rimane per molti versi un ter-

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mine sinonimo di epifania, così come il procedimento è esemplificato e teorizzato in Joyce. In ogni caso si tratta di presentare un evento, un oggetto, un fatto che, nel contesto in cui appare, si riveli in qualche modo fuori posto, per chi non si pieghi alla logica simbolica.30

I simboli astronomici, cartografici, chimici, religiosi ecc., ma anche quelli genericamente culturali sono elementi grafico-visivi facilmente riconoscibili all’interno di un sistema. L’associazione dei due termini qui è obbligata perché pattuita per convenzione: il simbolo ha come sua caratteristica quella di non essere mai completamente arbitrario, di non essere mai vuoto, perché implica un legame naturale tra significante e significato.31 Anche per questo la sua visività è inoppugnabile in tutti i settori che si sono elencati, dato che in essi predomina l’elemento grafico, iconico.32 Se prendiamo in considerazione il campo della letteratura, simboli e allegorie vi hanno costituito una presenza massiccia fin dalle origini. Proprio per questo, anche la critica letteraria specificamente indirizzata allo studio di queste figure retoriche è ormai infinita. Non si tratta certo di ripercorrerla o di sintetizzarla. Ciò che può essere utile considerare è, invece, il momento in cui il simbolo è stato assunto come forma caratterizzante e dominante da una scuola letteraria europea alla fine dell’Ottocento. L’analisi del Simbolismo come scuola impone una riflessione teorica (tecnico-linguistica, estetico-filosofica ecc.) sul simbolo stesso. Certamente non sono mancate importanti riflessioni teoriche in passato, ma Mallarmé e il suo gruppo, e prima ancora Baudelaire, costituiscono un capolinea particolarmente significativo. Per essi il simbolo coincide con il mondo, la natura è una foresta di simboli ma, si badi, l’altra faccia del simbolo rimane praticamente inconoscibile, un sorta di noumeno kantiano che può solo essere evocato attraverso la magia di immagini, suoni, profumi, sensazioni che hanno un potere indefinito sulla realtà. La realtà, che è sempre sotto la superficie delle cose, oltre il fenomeno, non è mai conoscibile interamente e in modo definitorio. Ciò significa che col Simbolismo si spezza il legame obbligato tra significante e significato di cui parlerà Saussure, perché la magia evocativa delle parole fa affiorare solamente la sensazione del mistero, ancora più profondo, che avvolge la realtà. Spezzando ogni legame naturale tra significante e significato il Simbolismo, soprattutto con Mallarmé, ma anche con Rimbaud, sia pure non necessariamente, va verso l’oscurità, il mistero, l’ermetismo. Non vuole comunicare, ma

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puramente e semplicemente esprimere. I simboli di cui questa poesia va in cerca non sono certo più quelli di Dante, tutti decodificabili nel sistema culturale dell’epoca, ma sono quelli che il poeta lancia, come sospesi nel vuoto, astratti dalla realtà perché essi stessi realtà. Ma proprio quest’operazione di astrazione potenzia al massimo la visione nel riconoscere la superficie limitata delle cose, che sono soltanto simboli della vera realtà, avvolta nel mistero, il poeta si fa visionario, veggente, e con lui il suo lettore, di cui egli non va in cerca, se non in una relazione di totale complicità. Paradossalmente, proprio sulla scia di questa visionarietà, in superficie si coinvolgono tutti i sensi (si pensi all’importanza dei profumi e dei suoni, tra i poeti simbolisti), ma in realtà poi si manifesta la necessità di ricorrere a figure retoriche della vista perché la magia si compia: metafore, paragoni, sinestesie. Esemplari sono naturalmente Correspondences di Baudelaire, Voyelles di Rimbaud,33 Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui di Mallarmé. Ma in genere tutti i componimenti di questa tendenza, adoperando il simbolo non più in senso tecnico-letterario e quindi restrittivo, ma in senso filosofico molto più vastamente teorizzato, utilizzano le altre figure come strumenti dentro un contenitore.34 È appena il caso di accennare, poi, all’allegoria, non perché essa non si manifesti attraverso immagini visive, ma perché lo fa in un modo ancora più rigidamente codificato del simbolo. Ascoltiamo ancora Umberto Eco: Cosa accade [...] con l’allegoria? Diversamente dalla metafora, e in analogia col modo simbolico, il destinatario può decidere di intenderla letteralmente. Dante potrebbe benissimo voler dire davvero che stava viaggiando per una foresta e che vi ha incontrato tre fiere; o che ha visto una processione con ventiquattro vegliardi. Come il modo simbolico, l’allegoria suggerisce al massimo l’idea che ci sia, in quel testo, uno spreco rappresentativo. Salvo che mentre nei casi di modo simbolico qualcosa appare, nel testo, per durarvi un tempo brevissimo, l’allegoria è sistematica e si realizza su di una vasta porzione testuale. Nella sua invadenza pirotecnica, inoltre, essa mette in gioco immagini già viste da qualche altra parte. Di fronte alla allegoria [...] gioca un immediato richiamo a codici iconografici già noti. La decisione di interpretarla nasce di solito dal fatto che questi iconogrammi appaiono evidentemente legati l’uno all’altro da una logica già resaci familiare dal tesoro dell’intertestualità. L’allegoria rinvia a delle sceneggiature, a dei frames intertestuali che già conosciamo. Il modo simbolico mette invece in gioco qualcosa che non era stato ancora codificato.35

In questa sorta di bolla di cristallo rappresentata dalla dimensione simbolica generale, tutto ciò che si muove crea e invita a cercare nel mistero nuove immagini, assecondando l’avvertenza

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simbolista che nulla può essere preso alla lettera, ma tutto invita ad andare oltre, a vedere attraverso. La sinestesia favorisce e intensifica queste operazioni. Anzitutto, va detto che la sinestesia esiste anche, scientificamente, in campo medico-oculistico, dove viene in particolare definita come «audizione colorata».36 L’autore che Tornitore cita come fonte più autorevole è il Lussana,37 il quale afferma che la proporzione fisica suoni/colori ha un equivalente fisiologico nella contiguità e sintonia fra i centri cerebrali della vista e dell’udito. I malati di «discromestesia» vedono mentalmente le lettere colorate (e Rimbaud poteva aver sentito parlare di questa teoria da vari medici francesi della prima metà dell’Ottocento: Marcé, Cornaz, Perroud, infine Chabalier).38 Ma secondo l’italiano Lussana39 il fatto morboso non fa altro che rendere manifesto ciò che normalmente è latente sotto la corteccia cerebrale: la contiguità dei centri sonori e luminosi. Siamo in ambito culturale positivista e da qui all’estensione di queste teorie scientifiche al campo morale ed estetico il passo è breve. In questo modo vengono spiegate anche certe corrispondenze baudelairiane e scapigliate fra le varie arti con il suffragio di certe conferme biografiche, provenienti da pittori-musicisti-poeti, in cui l’eclettismo sembra la conferma di un dato fisiologico. Gli psicologi della Gestalt hanno provato a chiedere alla gente di collegare elenchi di parole prive di senso a forme e colori; hanno scoperto che esiste una chiara corrispondenza fra certi suoni e certe forme. La cosa stupefacente è che i risultati sono gli stessi con individui degli Stati Uniti, dell’Inghilterra, della penisola di Mahali o del lago Tanganica. Anche le persone affette da gravi forme di sinestesia tendono a reagire in maniera prevedibile. Uno studio su duemila individui con questo disturbo, provenienti da diverse culture, ha rivelato notevoli corrispondenze nei colori associati ai suoni.40

È un dato di fatto che anche la medicina odierna confermi la sinestesia come una sindrome patologica regolarmente contemplata e descritta, al punto che anche i dizionari non specialistici, come lo Zingarelli, la registrano prima di tutto come termine tecnico di carattere medico-scientifico. A parte la patologia, poi, occorre notare che gli psicologi sperimentali attualmente contraddicono le teorie di Piaget sulla separatezza dei canali sensoriali, che portano all’imitazione e alla organizzazione dei simboli e del linguaggio. Oggi si pensa infatti che il neonato, in epoca molto precoce, mostri una capacità “transmodale” di trasferire una informazione sensoriale da un canale all’altro: per esempio, può trasferire un’esperienza tat-

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tile in una visiva, o stimoli uditivi in immagini spaziali. Questa capacità permette al neonato di costruirsi immagini personali del mondo ed è alla base dell’imitazione e del successivo processo di trasformazione delle rappresentazioni.41 La figura retorica omonima, dunque, sembra essere il corollario linguistico-letterario di una realtà fisiologica e psicologica.42 Questo conferisce ancora oggi un sostegno scientifico non solo all’ipotesi di uno sconfinamento dell’occhio nel campo di altri sensi, ma anche a tutto il meccanismo di funzionamento della poesia, della letteratura stessa. Se vista e udito sono cerebralmente così contigui, la sovrabbondanza della vista nelle figure retoriche e soprattutto in certi generi letterari si spiegherebbe con un problema di ritmi e suoni, di parole che vanno mescolandosi in modo armonico con le immagini, vista e visione, occhi del corpo e della mente. Così si spiegherebbe l’origine della poesia lirica e della scrittura e della musica allo stesso tempo, rappresentate nel mito di Orfeo. Così l’origine della tragedia e del dramma in generale come composizione di parole ritmate come canti e accompagnate da musica, come si descrive nel Gorgia di Platone e nella Poetica di Aristotele. Perfino il dialogo socratico, nella sua forma drammatica e versificata, viene definito da Aristotele “mimo”.43 Probabilmente alle origini tutte le componenti si affacciavano simultaneamente e fu questa simultaneità, forse, che il Futurismo cercò di ricostituire nel Novecento con la ricerca di un linguaggio d’avanguardia. Eppure anche nelle opere futuriste prevale l’elemento visivo.44 In tempi non solo recenti, la sinestesia è stata studiata filosoficamente come problema epistemologico. George Berkeley, nel 1709, constatava che abbiamo la tendenza naturale a trasformare gli oggetti della vista in oggetti meglio conosciuti tramite il tatto. La teoria rimanda non solo a John Locke, ma anche ai classici greci e latini, come Lucrezio (De rerum natura, IV, 231-232). Negli anni venti del Novecento, Constantin Brancusi creò un’opera plastica che denominò Scultura per ciechi: essa venne esposta per la prima volta chiusa in un sacco con due fori, affinché lo spettatore ne percepisse la forma attraverso il tatto.45 Nell’esame complessivo delle figure retoriche, probabilmente solo la sineddoche può in parte correggere la sensazione di invasione che le immagini visive producono: la sineddoche ammette il concreto per l’astratto (ma anche viceversa), l’effetto per la causa ecc. Ma se consideriamo il chiasmo e l’ipallage ci rendiamo conto che

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sono figure a disposizione visiva e dobbiamo ricorrere al climax per trovare una figura di ragionamento non sempre appoggiata al concreto (anche se, poi, lo schema a cui rimanda è un grafico, quello della parabola ascendente o discendente, o meglio ancora della scala, con tutti i suoi gradini, operante per sillogismi in gradazione concatenata).46 Perfino il razionale e sonoro enjambement può avere, soprattutto se ossessivamente impiegato, un effetto visivo molto palese: si pensi a La leggenda delle stelle (1904) di Corazzini, «frantumato da una serie di enjambements che vanificano con violenza inaudita la tradizionale partizione strofica, legando tra loro non solo le quartine e le terzine, ma anche la seconda quartina e la prima terzina, mentre lo stesso endecasillabo è franto da una paratassi marcatissima e soprattutto dall’uso protratto dell’enjambement».47 Anche l’ossimoro appare come una figura di ragionamento: l’«acutamente folle», catalogato da Aristotele come espressione concisa e antitetica, matrice vera di tutte le figure retoriche, (Rhetorica, 2, 1401 a 5), ha la funzione di assumere e di enunciare come dato di fatto la contraddizione stessa (un po’ come l’antifrasi e il paradosso), che invece l’antitesi tende a porre in modo conflittuale e problematico. 48 Risultato di contraddizione fra due termini vicini (“oscuro chiarore”, “neve infuocata”, “sole nero”), è tra le figure retoriche più discusse, poiché molti studiosi le negano un grado zero, dunque il valore stesso di figura. Ciò che più conta, nell’analisi che si sta conducendo, è il risultato poetico di ciò che si suole chiamare ossimoro: alcune forme si sono pressoché codificate, passando da un testo letterario all’altro in un gioco intertestuale ormai secolare: tra tutte, forse la più ripetuta è quella del “sole nero” della malinconia, diventato, soprattutto dopo l’uso di Nerval,49 anche una sorta di simbolo (quello, appunto, della malinconia).50 Ma anche, in una dimensione non strettamente letteraria, benché posta in apertura del canto XXXIII del Paradiso dantesco, «vergine madre», divenuta nello stesso tempo mistero teologico, ossimoro laico, semplice constatazione “realistica”, a seconda delle scelte culturali e religiose che si compiono. Si può osservare una certa inclinazione verso questa curiosa figura nei poeti del Seicento e qui occorre osservare che in qualche caso sinestesia e ossimoro si apparentano talora ingegnosamente: si pensi al verso dell’Artale su Maria Maddalena, «Prodigio tal non rimirò natura: / bagnar coi soli e rasciugar coi fiumi». Certamente l’ossimoro opera sempre un’astrazione, proprio perché la sua negazione blocca ogni processo

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di riproduzione “realistica” dell’oggetto: nel momento in cui si evoca o si descrive qualcosa, gli si attribuisce una caratteristica dal contrasto così assoluto da spostarla nell’ambito di ciò che non esiste se non nel pensiero. Ancora più nettamente della sinestesia, sposta l’occhio in modo talmente vertiginoso da non consentire alcuna vista, ma soltanto una visione astratta. Mentre dunque la sinestesia, come abbiamo osservato, tende a portare tutte le sensazioni nell’ambito dell’occhio, incrementando prevalentemente la vista, l’ossimoro si colloca comunque soltanto sul piano della visione. Come ha notato Cellier,51 l’ossimoro rappresenta veramente la coincidentia oppositorum, in cui l’antitesi è negata e la contraddizione pienamente assunta. Non vogliamo estendere oltre questo breve percorso tra le figure retoriche: si può ancora accennare al fatto che molte figure sintattiche, come il chiasmo e l’ipallage, che non sembrano evocare direttamente immagini, disegnano una grafica particolare sulla pagina agli occhi del lettore, costringendolo a un attimo di riflessione nel comporre il mosaico sintattico che l’autore ha voluto sconvolgere o comunque disporre in modo inconsueto. Ciò che si può provvisoriamente indurre, dopo queste osservazioni, è una considerazione, ancora tutta da verificare alla prova più ravvicinata dei testi, organizzati nei loro modi e generi più significativi: se nelle figure retoriche la vista e la visione hanno uno spazio tanto importante, in ogni discorso letterario la sovrabbondanza di figure retoriche può significare sovrabbondanza di ambiti visivi, probabilmente in misura variabile, a seconda dei generi e delle qualità espressive. Ci si potrebbe aspettare, insomma, che il linguaggio poetico, più denso di figure, si trovi collocato in un paesaggio più visivo di ogni altro genere. È un’ipotesi seducente, che occorre verificare prima di giungere a conclusioni troppo affrettate.

1 Una guida molto utile alla scelta e all’interpretazione di questo tipo di repertorio può essere il libro di L. BOLZONI, La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Einaudi, Torino 1995, sia per la ricchezza bibliografica, sia per l’analisi raffinata e approfondita delle fonti. 2 Cfr. R. W ELLEK - A. WARREN , Teoria della letteratura e metodologia dello studio letterario, Il Mulino, Bologna 1956. 3 M. P RAZ , La carne, la morte, il diavolo...; G. S CARAFFIA , La donna fatale...; M. BETTINI, Il ritratto dell’amante, Einaudi, Torino 1992. Ma cfr. anche G. POZZI, Sull’orlo del visibile...

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4 Per tutte le simbologie floreali e animali riguardanti la figura della Madonna cfr. l’opera citata di L. BOSIO, Annunciazione, pp. 115-129, 241-242. 5 Cfr. L. D E L EON , De los nombres de Cristo, 1583 (trad. it. I nomi di Cristo, Einaudi, Torino 1997). Luis De Leon fu monaco agostiniano, mistico e poeta, raffinato umanista. Nel 1571 fu denunciato al tribunale dell’Inquisizione per aver messo in dubbio l’attendibilità della Vulgata e per aver tradotto in spagnolo il Cantico dei Cantici. Fu in prigione per cinque anni, poi ulteriormente perseguitato dall’Inquisizione, che cercò di impedirgli di dedicarsi all’insegnamento. Le sue poesie, di ispirazione classica, non hanno il trasporto mistico di quelle di Juan De La Cruz o di Santa Teresa, ma sono considerate tra i pochi esempi di sobrietà espressiva, contrapposte all’intellettualismo concettistico di Quevedo e agli eccessi verbali del culteranesimo di Gòngora e dei suoi seguaci. 6 Cfr. A. PRETE, Prosodia della natura. Frammenti di una Fisica poetica, Feltrinelli, Milano 1993; L. M. NAPOLITANO VALDITARA, Lo sguardo nel buio...; H. BLUMENBERG, Paradigmen zu einen Metaphorologie, Bonn 1960 (trad. it. Paradigmi per una metaforologia, Il Mulino, Bologna 1969). Va notato che anche il pensiero scientifico si è sempre organizzato in metafore: cfr. A.I. MILLER, Immagini e metafore nel pensiero scientifico, Theoria, Roma 1994. 7 Fra le arti le sinestesie sono le figure retoriche più frequentate: cfr. L. R ITTER SANTINI, Le immagini incrociate, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 7-8: «‘Leggere è vedere’: i due termini messi a confronto sembrano così vicini da far credere a una metafora riservata, ancor più ‘pudica’, si direbbe, del ‘leggere è tradurre’; diventa più ardita e si fa audace se agli occhi si attribuisce non solo la facoltà di decifrare otticamente lettere e segni, ma il potere di evocare e comporre nella memoria le loro denotazioni visive... Le dispute gerarchiche fra le arti sorelle tramandavano al primo romanticismo il desiderio di superare i recinti delle riserve osando le trasposizioni compositive che obbedivano ancora al codice poetologico del ‘ricercare’ le equivalenze sinestesiche: la lirica contemplazione in versi di eventi mitici o religiosi deve possedere la medesima chiarezza e intensità del disegno o del colore, come il suono d’organo la stessa simmetrica armonia architettonica di una cattedrale». 8 Per la simbologia mariana, di carattere floreale e vegetale, cfr. L. B OSIO , Annunciazione, pp. 115-129, 241-242. Ma si vedano anche i bestiari medievali, tutti del secolo XIII, in cui, in particolare, la lince, l’aquila, il gatto rappresentano la vista: T. CANTIMPRATENSE, Liber de naturis rerum (IV, 1, 194); V. DE BEAUVAIS, Speculum naturale (XIX, 106); R. DE FOURNIVAL, Bestiaire d’amours. Libellus de natura animalium (trad. it. Le proprietà degli animali, Costa & Nolan, Genova 1983) e Il Fisiologo (opera anonima del secolo II, scritta in greco, che ebbe grande diffusione nel Medioevo), Adelphi, Milano 1982. 9 Nell’allegoria il predominio della vista è codificato sia in letteratura che in pittura: cfr. A. FLETSCHER, Allegoria: teoria di un modo simbolico, Lerici, Roma 1968; M. PRAZ, Mnemosine. Parallelo tra la letteratura e le arti visive, Mondadori, Milano 1971; A. PINELLI, La bella maniera, Torino, Einaudi 1993. Esemplari possono essere le Allegorie dei cinque sensi di Hendrich Goltzius, in cui la vista è il fulcro della composizione, ma anche di Gérard de Lairesse, di Carlo Cignani, di Angelo Caroselli, di Todeschini, di Giuseppe Maria Mitelli ecc.: cfr. Immagini del sentire. I cinque sensi nell’arte, Leonardo Arte, Milano 1996, pp. 264-290. Nell’ambito religioso, l’interpretazione allegorica della Bibbia risale a Filone di Alessandria di cui cfr. Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Rusconi, Milano 1994. 10 C. MAURON, Des métaphores obsédantes au mythe personnel, Corti, Paris 1963 (trad. it. Dalle metafore ossessive al mito personale, Il Saggiatore, Milano 1966); G. BALDISSONE, Il male di scrivere. L’inconscio e Montale, Einaudi, Torino 1979. 11 Cfr. F. A. YATES , The Art of Memory, Routledge & Kegan Paul Ltd, London 1966 (trad. it. L’arte della memoria. Con uno scritto di Ernst H. Gombrich, Einaudi,

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Torino 1972); P. ZAMBELLI, L’apprendista stregone. Astrologia, cabala e arte lulliana in Pico della Mirandola e seguaci, Marsilio, Venezia 1995; L. BOLZONI, La stanza della memoria... Per i rapporti tra visione, metafora e cervello, cfr. L. MAFFEI, La visione. Dalla neurofisiologia alla psicologia, Mondadori, Milano 1980. 12 Cfr. C. PERELMAN - L. OLBRECHTS-TYTECA, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, P.U.F., Paris 1958 (trad. it. Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Einaudi, Torino 1989, p. 255). 13 A. JACOMUZZI, Sulla poesia di Montale, Cappelli, Bologna 1968, pp. 13-25; ID., La poesia di Montale, Einaudi, Torino 1981. 14 E. SANGUINETI, Da Gozzano a Montale, in Tra liberty e crepuscolarismo, Mursia, Milano 1961. 15 L. ROSIELLO, Le sinestesie nell’opera poetica di Montale, in “Rendiconti”, maggio 1963, p. 9; ID., Struttura e funzioni della lingua, Vallecchi, Firenze 1965, pp. 45-114. 16 G. C ONTINI , Una lunga fedeltà, Einaudi, Torino 1974, pp. 5-45. 17 G. B ALDISSONE , Il male di scrivere... 18 I D ., Le Muse di Montale, Interlinea, Novara 1996. 19 Questo è in fondo il significato essenziale dell’affermazione aristotelica secondo cui la poesia, o meglio l’arte in genere è “mimesis” (compresi i dialoghi socratici): cfr. ARISTOTELE, Poetica, I, 2. 20 Cfr. R. G IACOMELLI , Lingua e inconscio, Edizioni CUSL, Milano 1996, p. 73. Si veda anche S. VEGETTI FINZI, Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 1995; I colori della vita, Atti del Convegno Internazionale (Torino, 27-28 agosto 1995), Editrice La Stampa, Torino 1996; G. S IAS , Inventario di psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1997; E. ROUDINESCO - M. PLON, Dictionnaire de la psychanalyse, Fayard, Paris 1997. 21 Cfr. R. BARILLI, Corso di retorica. L’arte della persuasione da Aristotele ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1995, p. 179. 22 Cfr. U. ECO, Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, p. 199. 23 Cfr. C. L EVI -S TRAUSS , Introduction à l’oeuvre de Marcel Mauss, in M. M AUSS , Sociologie et anthropologie, P.U.F., Paris 1950 (trad. it. Teoria generale della magia, Einaudi, Torino 1965, p. XXIV: «Ogni cultura può essere considerata come un insieme di sistemi simbolici in cui, al primo posto, si collocano il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione»). Si veda anche Atharveda. Il Veda delle formule magiche, a cura di P. Rossi, Mimesis, Milano 1994; Eraclito. Fuoco non fuoco, Mimesis, Milano 1994. Per quanto riguarda la chimica, o meglio l’alchimia, è interessante considerare il fatto che in passato esistevano sequenze di raffigurazioni simboliche per designare i singoli elementi, a volte senza neppure una spiegazione o una didascalia, come nel caso del Mutus Liber, stampato a La Rochelle nel 1677, in cui le immagini simboliche devono parlare, per convenzione, da sole: per esempio, il mercurio viene rappresentato da un pesce o da un serpente, per indicarne la natura fluida e sfuggente, la “materia prima” da un drago o un batrace, in quanto elemento legato alla terra, l’oro è rappresentato da un re, dal sole o da Cristo in gloria. Questo modo simbolico domina la scienza alchemica e chimica fino al Settecento, quando con Lavoisier e la sua Nomenclature chimique si inaugura la chimica moderna. 24 Cfr. J. L ACAN , Le séminaire de Jacques Lacan. Les écrits techniques de Freud (1953-54), Seuil, Paris 1975 (trad. it. Il Seminario, Libro I, Einaudi, Torino 1978, p. 100: «Nel rapporto dell’immaginario e del reale e nella costituzione del mondo così come ne risulta, tutto dipende dalla posizione del soggetto. E la posizione del soggetto... è caratterizzata essenzialmente dal suo posto nel mondo simbolico, altrimenti detto, nel mondo della parola»). 25 Cfr. almeno C.G. J UNG , Psicologia e alchimia (1944), Psicologia del transfert (1946) e Psicologia e religione (1940).

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26 Cfr. T. SZASZ, The Myth of Psycotherapy. Mental Healing as Religion, Rhetoric, and Repression, Anchor Press/Doubleday, Garden City, New York 1978 (trad. it. Il mito della psicoterapia. La cura della mente come religione, retorica e repressione, Feltrinelli, Milano 1981). 27 Cfr. E. CASSIRER, Philosophie der symbolischen Formen, I, Die Sprache, Bruno Cassirer, Berlin 1923 (trad. it. Filosofia delle forme simboliche, La Nuova Italia, Firenze 1961). 28 Cfr. J. KRISTEVA, Semeiotiché. Recherches pour une sémanalyse, Seuil, Paris 1969 (trad. it. Semeiotiché, Feltrinelli, Milano 1978). 29 Cfr. almeno R. GILLES, Il simbolismo nell’arte religiosa, Edizioni Arkeios, Roma 1994. 30 Cfr. U. ECO, Semiotica e filosofia..., pp. 242-243; ID., Le poetiche di Joyce. Dalla “Summa” al “Finnegans Wake”, Bompiani, Milano 1966. 31 Cfr. F. D E S AUSSURE , Cours de linguistique générale, 1906-1911, Payot, Paris 1962. 32 Cfr. V. M ELCHIORRE , L’immaginazione simbolica, Il Mulino, Bologna 1972. 33 Cfr. almeno R. ETIEMBLE, Le sonnet des Voyelles. De l’audition colorée à la vision érotique, Paris 1968; L. SCHRADER, Sinne und Sinnesverknupfungen. Studien un Materialien zur Bewertung der Sinne in der italianischen, spanischen un franzosischen Literatur, Heidelberg 1969; T. TORNITORE, Storia delle sinestesie. Le origini dell’audizione colorata, Editrice Universitaria, Genova 1986; ID., Scambi di sensi. Preistorie delle sinestesie (secc. XV-XVII), Centro Scientifico Torinese, Torino 1988. Ma si veda anche G. BERKELEY, Teoria della visione, Guerini e Associati, Milano 1995. 34 Cfr. J. B AUDRILLARD , L’échange symbolique et la mort, Gallimard, Paris 1976 (trad. it. Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 1979); R. ALLEAU, La scienza dei simboli, Sansoni, Firenze 1983; G. LANGELLA, Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, Edizioni Studium, Roma 1997. 35 Cfr. U. E CO , Semiotica e filosofia..., p. 251. 36 Cfr. T. T ORNITORE , Storia delle sinestesie..., pp. 6-45; I D ., Seminari di letteratura italiana, Unicopli, Milano 1990; G. CANTONI, La percezione musicale sinestetica e altri racconti, Istituto di Sinestetica, Udine 1996. 37 Cfr. F. L USSANA , Fisiologia dei colori, 1873. 38 Cfr. T. T ORNITORE , Storia delle sinestesie..., pp. 18-45. 39 Cfr. F. LUSSANA, Sull’udizione colorata, in “Gazzetta medica italiana. Provincie venete”, XXXIX, 29 settembre 1883. 40 Cfr. D. ACKERMAN, A Natural Hystory of the Senses, Randon House Inc., 1990 (trad. it. Storia naturale dei sensi, Frassinelli, Milano 1992, p. 314). 41 Cfr. M. M ANCIA , Nello sguardo di Narciso, Laterza, Bari 1990. 42 Si pensi allo sviluppo particolarmente acuto di altri sensi nei casi di acromatopsia, descritti in O. SACKS, The island of the colour-blind, 1996 (trad. it. L’isola dei senza colore, Adelphi, Milano 1997). Cfr. anche Fisiologia e psicologia delle sensazioni, La Nuova Italia Scientifica, Firenze 1995. 43 Cfr. C. F ORNO , Il “piacevole labirinto” del dialogo: teorizzazioni, sviluppo del genere, situazione attuale degli studi, in “Proteo”, I, 1, Tirrenia Stampatori, Torino 1995. 44 Cfr. G. B ALDISSONE , Filippo Tommaso Marinetti, Mursia, Milano 1986. 45 Cfr. L. K ONECNY , I cinque sensi da Aristotele a Constantin Brancusi, in Immagini del sentire..., p. 45; vedi anche G. REVESZ, Psychology and Art of the Blind, London-New York-Toronto 1950. 46 Cfr. G. R. CARDONA, Introduzione all’etnolinguistica, Il Mulino, Bologna 1976, p. 232; B. MORTARA GARAVELLI, Trattato di retorica, Il Mulino, Bologna 1993; G. L. BECCARIA, Trattato di retorica, metrica, stilistica, Einaudi, Torino 1995.

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47 Cfr. C. M ARAZZINI , Revisione ed eversione metrica. Appunti sul sonetto nel Novecento, in “Metrica”, II, pp. 196-197. 48 Cfr. L. C ELLIER , D’une rhétorique profonde: Baudelaire et l’oxymoron, in “Cahiers internationaux de symbolisme”, 8, 1965, pp. 3-14; GRUPPO µ, Rhétorique générale, Larousse, Paris 1970 (trad. it. Retorica generale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano 1976, pp. 183-185); A. P LEBE - P. EMANUELE, Manuale di retorica, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 143-149. 49 Cfr. G. D E N ERVAL , El Desdichado, “Le Mousquetaire”, 10 dicembre 1853, ora in Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1952. 50 Cfr. J. K RISTEVA , Soleil noir. Dépression et mélancolie, Gallimard, Paris 1987 (trad. it. Sole nero. Depressione e malinconia, Feltrinelli, Milano 1988). 51 Cfr. L. C ELLIER , D’une rhétorique profonde..., pp. 3-14.

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IV. VISIVITÀ DEI GENERI LETTERARI

Vedere, parlare: sono le due funzioni con le quali Dante fa coincidere la maggior parte delle azioni che costituiscono il suo viaggio oltremondano, le immagini in cui sintetizza, metonimicamente, la vita stessa: «Quindi perdei la vista e la parola; / nel nome di Maria fini’, e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola» (Purg., 100-102). Parlare, vedere diventano anche le principali tangenti lungo le quali il poeta stabilisce i suoi punti di fuga (dal mondo, da sé), per avventurarsi in un progetto sull’altro mondo. Le due operazioni essenziali che costituiscono la vita dell’uomo in questo mondo diventano così modelli per andare oltre, costruendo simmetricamente l’Altro, come oggetto del proprio desiderio. La letteratura, come linguaggio che costruisce un “altro mondo”, si è incanalata attraverso i tempi in generi, la cui specificità ha ottenuto nei secoli vari riconoscimenti e studi mirati (si pensi alla grande ricognizione cinquecentesca) e altrettanto varie e autorevoli contestazioni (si ricordi il tramonto dei generi letterari decretato dagli strutturalisti e dai semiologi a partire dagli anni sessanta del Novecento), per approdare infine a un rinnovato interesse specifico sulla loro identità negli ultimi vent’anni (si considerino, ad esempio, le ricerche guidate da Bárberi Squarotti con gli studiosi del suo gruppo torinese). In ogni caso, la presenza e la persistenza di alcuni generi si è riaffermata superando tutte queste prove e pretendendo un riconoscimento basato, appunto, sulla propria riconoscibilità. Così, per esempio, dai vari sperimentalismi di avanguardie, neoavanguardie e post-neoavanguardie si sono riaffermati, sia nell’ambito della produzione creativa che in quello della ricerca critica, il romanzo e la novella, il teatro, la poesia lirica, il poema. È necessario prendere atto di questo ritorno, di questa riaffermazione e, nella prospettiva di questo tipo d’indagine, prendere atto che dei cinque generi sopra elencati almeno quattro appartengono prevalentemente all’area della vista e della visione. Prenderli in considerazione significa indagare sulle modalità di sviluppo di quell’area per quanto concerne la peculiarità stessa dei generi, in una ricerca che non vuole essere esaustivamente specifica proprio per quanto li riguarda, ma vuole individuare in essi una sorta di esemplarità visiva, in grado di riprodursi all’infinito.

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Dante e l’invenzione del poema «La storia della letteratura europea ha inizio con i poemi di Omero e di Esiodo»: è la più semplice, la più immediata delle osservazioni che, sulla scorta di Havelock,1 sembra necessario presentare dovendo ricostruire le avventure del poema nella nostra civiltà. Poi viene Virgilio, poi Dante. Ecco, una prima discriminante, di nuovo la più semplice ed essenziale, si pone fra i poemi che possono contare su una tradizione letteraria e quelli che, nella loro forma scritta, vanno a costituire degli archetipi. Le Muse imparano veramente a scrivere con Omero ed Esiodo e sono le autrici dei loro poemi, mentre i poeti svolgono un ruolo di esecutori più che di autori, si pongono, nella loro cecità veggente, come mediatori tra le Muse stesse e l’uditorio.2 Ma già Dante potrà dire a Virgilio: «Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore» (Inf., I, 85): il «volume» del maestro, cercato con «lungo studio» e «grande amore», è quello che lo ha aiutato a formare «lo bello stilo», che gli ha fatto e gli farà «onore». La Commedia, dunque, si presenta già a buon punto sul cammino della scrittura nella forma del poema: talmente a buon punto, da potersi concedere un’avventura in più, che è quella di esprimersi in una lingua nuova, tutta da inventare; ma talmente a buon punto, anche, da poter costituire una summa di tutte le avventure che l’hanno preceduta. Questa prima osservazione porta anche necessariamente a formulare un giudizio discriminante riguardo a uno dei grandi motori, per così dire, del poema di tutti i tempi, cioè la memoria. Dante e Omero ne fanno un uso essenziale, ma profondamente diverso. Omero presenta alla scrittura il prodotto di una memoria che per la propria conservazione e tradizione si è avvalsa di tecniche specifiche, servendosi dei ritmi e degli schemi propri dell’oralità.3 Dante, invece, oltre a ricevere e citare copiosamente una memoria scritta, la trasforma in un’entità filosofica, psicologica e semiologica che conferisce al poema delle caratteristiche completamente diverse. La memoria dantesca rappresenta la condizione della scrittura, il suo limite e la sua eventualità, la sua inadeguatezza e, nello stesso tempo, l’unico punto di riferimento che essa può cercare nella sua qualità di fantasma. La coscienza, che Dante ha, della distanza fra la scrittura e l’esperienza intellettuale si concentra tutta sulla memoria come ostacolo e come marchio di tutto ciò che è umano.

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Il poema, questo splendido ossimoro del narrare poetico, rappresenta il cammino dell’uomo sul tracciato della memoria: contiene in sé tutte le tracce dei poemi che l’hanno preceduto e in parte conosce il percorso che rimane da compiere, ma la sua disperazione è rappresentata dal presente, quello in cui il poeta è solo con la propria memoria e interrogandola sa già di essere comunque uno sconfitto. La memoria, dunque, rappresenta l’inferno del poeta, il suo fragile agitarsi alla ricerca di parole che saranno sempre lontane dal vero, il suo inquieto accorgersi che il mondo non si può rifare e rimane perciò inimitabile. Comprendere su quali fili di ragnatela il poeta traccia il suo viaggio verso la memoria, verso la luce, verso la ricomposizione del mondo costituisce un’emozione anche di lettura: chi scrive e chi legge sono separati da una memoria la cui storia risulta ormai perfino eccessiva e che detta la condizione di una nuova ma forse definitiva complicità: il poeta ignora ma il lettore sa che non ci sono state (e non ci saranno) «migliori voci» a pregare «perché Cirra risponda» (Par., I, 35-36). Il primo livello del viaggio dantesco è quello iniziatico. Poema, come sappiamo, è anche una metafora, che indica qualcosa di molto complesso, travagliato e nello stesso tempo sublime. A volte la metafora si ritaglia altre metafore più specifiche, più particolari: un’odissea, per esempio, che è pure antonomasia, oppure una commedia, divina, umana, bestiale ecc. Una metafora perché i poemi sono le prime grandi immagini della memoria culturale dei popoli: più grandi dei miti, più delle fiabe e delle legendae agiografiche, più delle novelle. I poemi contengono tutto questo e poi qualcosa in più: le cronache, i proverbi, il teatro e il romanzo prendono forma di poema prima di separarsi e cercare ognuno la propria strada. La metafora, allora, parte dalla prima espressione della cultura riguardo alla condizione della vita umana: la raffigurazione degli ostacoli, dei rischi e delle sventure che l’uomo deve affrontare durante le varie tappe della sua organizzazione sociale fino all’acquisizione di strumenti, di conoscenze che rendono possibile la vita personale e sociale. Il poema dantesco, dunque, è prima di tutto una metafora dell’iniziazione, un viaggio iniziatico dei più arcaici e tradizionali, che

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chiede in più un crisma poetico per andare oltre, per compiersi fino in fondo e in modo proficuo. Gli antichi riti d’iniziazione, che costituiscono già l’ossatura dei poemi primari come l’Odissea, vengono tutti raccolti e metaforizzati nel poema dantesco. L’eroe, di solito non solo, ma coadiuvato da un gruppo, discende agli inferi, poi viene immesso nel caos primigenio e infine trasportato in cielo, o sublimato, nel momento in cui acquisisce, per sé e per tutti, una nuova forza e un nuovo sapere, da rivelare alla comunità. L’esperienza dell’altro mondo, o degli inferi, lo porta sempre a varcare una soglia, a trasgredire un divieto, a violare un tabù: è la sfida della vita che entra nella morte, l’esperienza del perdersi per ritrovarsi, del morire per rinascere: è il labirinto, il passaggio delle colonne d’Ercole, lo sguardo di Medusa, la ricerca del paradiso terrestre, lo smarrimento nel bosco, ecc. Nella Divina Commedia è presente tutto questo, in una forma che già ne racconta anche la storia e la filosofia: Dante si smarrisce in una selva, rischia di perdersi per sempre, il filo della ragione virgiliana e della grazia divina gli tracciano il percorso, ed eccolo entrare nel labirinto infernale, vivo fra i morti, a violare il tabù non solo della comunicazione fra questi e il regno dei vivi, ma anche del passaggio corporeo da un regno all’altro, attraverso quelle colonne d’Ercole che furono fatali per Ulisse. Il viaggio iniziatico parte con il crisma della buona fortuna, voluta da Dio per intercessione amorosa, perciò è un viaggio in cui la memoria fa parte della missione: in cambio del buon ritorno il poeta deve ricordare, e scrivere per ricordare, lasciare le tracce, come il filo d’Arianna e i sassolini di Hansel: quelle tracce rappresentano il poema, la storia di un’iniziazione riuscita, la filosofia del buon ritorno. Nel comporre il poema dell’iniziazione, Dante non ha solo davanti, come “grandi codici”, l’Odissea, l’Eneide, la Bibbia: ha anche il Vangelo e l’Apocalisse di San Giovanni, ossia “poemi” di una cultura più avanzata, rispetto a quella classica, che ha dato nuovi significati e nuove espressioni alla situazione dell’iniziazione. Scendere agli inferi per poi salire in cielo prevede ora una gratificazione che i riti antichi non avevano: la rinascita è una resurrezione ed è eterna. Chi torna a vivere dopo questo percorso non morirà più. Ma perché il viaggio iniziatico di Dante dovrebbe concludersi felicemente, se quello di Ulisse è finito in tragedia? Che cos’è questa sorta di marchiatura che il poeta, come Enea e come San Paolo, può ottenere, senza che il suo “volo” diventi folle?

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L’elemento discriminante non può essere quello della fede, come ripetono invece spesso i chiosatori, più o meno scolastici, del testo. Non può esserlo neppure in nome di quella sensibilità precristiana che veniva attribuita a Virgilio nel Medioevo. Enea e San Paolo non hanno in comune la fede, non più di quanto potesse averla un Ulisse eventualmente deformato da qualche specchio in più. Se Dante avesse voluto tirare in qualche modo il suo personaggio sul versante dell’interpretazione apodittica, avrebbe potuto facilmente trasformarlo in un eroe positivamente marchiato nella storia del progresso umano. Invece no: la positività di Ulisse viene lasciata tutta a una dimensione psicologica, quindi trasgressiva, mentre la realtà esterna inghiotte quella piccola nave buttata anzitempo sulla rotta di Cristoforo Colombo. Allora la storia di Ulisse è la storia di Dante ripetuta e metaforizzata con una differenza, data non dal fatto che Ulisse s’inabissa in vista di quella «montagna bruna» su cui Dante invece riuscirà a salire, ma dal fatto che l’Ulisse dantesco compie il suo ultimo viaggio sulla terra, e i luoghi e le costellazioni sui quali si posa il suo sguardo sono gli stessi che il suo corpo visita prima di essere inghiottito dal mare. Dante descrive lo scacco di un viaggio fatto per scoprire i confini della Terra, e lo fa nella stessa posizione da cui dirà nel paradiso terrestre: «coi pié ristetti e con gli occhi passai» (Purg., XXVIII, 34), cioè nella posizione di chi sogna, immagina, desidera, ma nello stesso tempo si autocensura e si angoscia perché quello, nella realtà storica del suo tempo, è l’unico viaggio in cui l’intelletto non può appressarsi all’oggetto del suo desiderio: l’unico, anche, in cui la memoria non avrebbe problemi, dovendo descrivere la realtà. La realtà vietata è dunque ciò che unisce e nello stesso tempo separa Ulisse e Dante, Ulisse ed Enea, Ulisse e San Paolo. Enea si era mosso entro spazi conosciuti e delimitati, così come l’Ulisse omerico: da Troia all’Italia, da Troia a Itaca, il viaggio simbolizzava, sì, l’avventura dell’iniziazione, ma entro confini reali e simbolici previsti dal rito. L’invenzione che Dante fa di un Ulisse simbolo della volontà di sapere, di esplorare, di rischiare è ciò che stacca Ulisse dagli altri eroi iniziatici, e ne segna la sconfitta. Ma è proprio da qui che prende le mosse il poema: da quella distanza intollerabile fra l’Ulisse di Dante e Dante stesso. Restare fermi coi piedi e andare oltre con la vista (e con la visione) è l’unico modo per colmare la distanza, sia pure solo fantasticamente. Di qui la conferma quasi ossessiva di aver com-

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piuto quel viaggio da vivo, con il corpo, e ritornandone vivo, perché l’Ulisse omerico ed Enea hanno percorso mari già battuti, e San Paolo vive l’esperienza di un aldilà che non ha ponti e legami con l’aldiqua, un’esperienza di pura fede, che non si compie né andando per mare né cercando i confini del mondo. Ma l’Ulisse dantesco, e Dante stesso, cercano un’esperienza che fa orrore nella sua primarietà pulsionale, cioè muoversi per scoprire dove finisce il mondo, dove può anche aprirsi il baratro in cui la vita precipita nella morte, dove conoscere i termini dello spazio umano può anche voler dire perdere quello spazio per sempre.4 È lo stesso orrore di cui si troverà ancora traccia nel Diario di bordo di Cristoforo Colombo, l’orrore del primo uomo sulla terra e del bambino appena nato, quello di Robinson Crusoe e del primo uomo sulla Luna: l’orrore di non sapere e di voler sapere, rischiando tutto. È nella dimensione di quest’orrore che nasce il poema, cioè il racconto di qualcosa che ha a che fare con la scoperta del mondo e di se stessi nel mondo, dove la visione della poesia colma e nello stesso tempo denuncia un vuoto di conoscenza ormai intollerabile. Dante ha soprattutto il desiderio della terra, di misurarla tutta con gli occhi di quel desiderio, comprendendovi anche i cieli che l’avvolgono. Non è un caso che egli sia il primo a descrivere con tanta cura il regno intermedio, quel purgatorio così terreno alla cui nascita contribuisce in modo determinante nella storia della cultura religiosa. Il suo purgatorio si trova nell’emisfero australe, in mezzo al mare, montagna altissima che ospita sulla cima il paradiso terrestre, a lungo cercato da San Brandano e “visto” nel pozzo da San Patrizio. Quella cima tocca il primo cielo, a cui si arriva nella stessa condizione di incoscienza che ha fatto smarrire nella selva oscura: la luce accecante ha lo stesso effetto del buio. La descrizione che Dante fa del purgatorio non è solo segno di una nuova coscienza morale, più saggiamente incline a non separare nettamente il male dal bene, ma anche di una nuova mentalità, attraversata da desideri e inquietudini rispetto alla conoscenza del mondo. Così il poema, che nel passato raccontava avventure di eroi, guerrieri ed esploratori, smarriti in labirinti che la forza e l’astuzia potevano superare, racconta ora il desiderio di qualcosa in più, di accedere a un sapere che non sconvolga la mente e non condanni a un’altra perdita come quella edenica. Andare oltre, restando qui, rappresenta la nuova tendenza, il nuovo spazio del poema, che Dante inaugura in tutti i sensi, descrivendo, inventando, immagi-

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nando, sognando, e creando anche la lingua per dire tutto questo. Il poema, con lui, si inscrive tutto dentro questo vuoto di sapere che l’uomo ormai sente, e rielabora tutto ciò che la tradizione gli consegna soltanto per trasformarlo in un’immensa metafora del vuoto, e del desiderio che vi si affaccia. In questo senso, il primo poema interamente ambientato nell’aldilà, interamente abitato da una popolazione di morti, si presenta anche come un grande viaggio nell’aldiqua, secondo le modalità di un vero e proprio pellegrinaggio. È una data storica a inscriverlo precisamente e ritualmente in questa categoria di viaggio: l’anno 1300, anno del Giubileo, quindi di grandi indulgenze per chi affronta i riti prescritti, tra cui, appunto, quello del pellegrinaggio. Nell’attribuire questa caratteristica rituale al suo poema Dante esprime delle precise intenzioni: la sua “commedia”, componimento che parte aristotelicamente dal dolore per arrivare a un fine gioioso, tende a una meta spirituale di profonda gratificazione, passando attraverso tappe che possono anche far soffrire, in vista della purificazione (e del ritorno “a casa”). Il pellegrinaggio segue sostanzialmente lo stesso percorso del viaggio iniziatico, dal caos alla luce, per poter tornare a testimoniare ciò che si è visto, ciò che si è compiuto. Ma il poema, così come Dante lo conduce lungo la via del pellegrinaggio, compie dei passaggi che lo rinnovano profondamente. Il pellegrinaggio rappresenta la versione cristiana del viaggio di peregrinazione, deriva, naufragio e vagabondaggio: il viaggio che, nei nostoi come l’Odissea e nelle fughe di rifondazione come l’Eneide, culminava con il ritorno a casa, o con la fondazione di una nuova casa, famiglia, patria. Non ci sono forze ostili nel pellegrinaggio, non ci sono antagonisti che non siano interni allo spirito, perciò gli exempla e i monumenta di cui Dante va in cerca rappresentano le tappe rituali di un percorso senza ostacoli, guidato e in qualche modo organizzato. Virgilio e Beatrice conducono il poeta in una sorta di visita guidata, al riparo da rischi di ogni genere. Dante non è né Enea né San Paolo, ma gli viene spiegato fin dall’inizio che anche lui può compiere quel viaggio, che esso costituirà la condizione della sua salute e che da Beatrice, da Santa Lucia, dalla Madonna, da Dio tutto è stato predisposto e organizzato perché egli non possa riceverne che benessere e salute, seguendo la guida. Come in una delle tante e cir-

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costanziate Guide del pellegrino che circolavano nel Medioevo, Dante compie tappa dopo tappa un viaggio ancora più sicuro di un pellegrinaggio, interamente affidato alle mani di un “famoso saggio” e della sua donna amata e santa. Con la Commedia, il poema narra ancora di un viaggio, ma di quello tipico degli antichi poemi rimangono ormai soltanto la meta, le tappe intermedie, i rituali. Con la scomparsa dell’antagonista, scompare anche, in una certa misura, il protagonista. Dante non è il vero protagonista del suo viaggio, in cui tutto sembra previsto, sicuro; egli non soffre in prima persona, ma piange per una commozione di riflesso, non ha passioni, se non riflesse, non agisce ma è agito. Sono spesso i personaggi da lui incontrati a narrare storie in cui appaiono come veri protagonisti, attivi almeno nella memoria e nella ricostruzione storica, attivi anche nei confronti di Dante, a cui spesso si rivolgono prima di essere interpellati, chiedono di essere riconosciuti e poi ricordati. È come se il poeta e Virgilio, il poeta e Beatrice si tenessero in cornice, ai margini degli eventi, delle storie e dei loro protagonisti, perché anche questo fa parte di un rito: un rito in cui occorre soltanto essere testimoni, prestare occhi e sensi tutti quanti, spirito e corpo a un’esperienza che va unicamente patita, da cui occorre farsi attraversare per poi archiviarla e passare oltre. Con questa struttura di pellegrinaggio Dante conferisce al poema una caratteristica completamente nuova rispetto ai poemi che l’hanno preceduto: quella dell’eroe passivo, che patisce e non agisce. Ulisse ed Enea hanno affrontato tempeste e battaglie, maghe e passioni a volte fatali: hanno ucciso, curato, amato, sofferto, esultato per una realtà nel cui spazio si muovevano da protagonisti, senza che lo sguardo del poeta lo invadesse. Dante nella Commedia è poeta ed eroe nello stesso tempo, ma il suo sguardo gela l’avventura e disattiva le sue stesse azioni. Dal suo margine, dall’orlo dell’abisso come dalla periferia dei cieli, è lui che guarda, è lui che descrive in prima persona ma la materia del suo canto è più importante e più attiva di lui, che deliberatamente si presenta come un vaso che deve essere colmato, un corpo che deve essere alleggerito, un’anima che deve essere confortata, illuminata, purificata, cioè come un elemento interamente attraversato dal segno della debolezza, dell’inettitudine, della fragilità. È come se lui stesso togliesse peso alla propria presenza in quel viaggio, sottolineandola non come quella di un visitatore, ma come quella di uno spettatore: l’im-

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portante è aver visto, aver sentito, essere passato attraverso quei luoghi e aver compiuto i riti di passaggio. Il poema di pellegrinaggio accentua dunque in modo ancora più categorico l’imperativo della conoscenza, che è presente anche nel livello iniziatico-fiabesco. Il conoscere per aver visto è la vera meta di questo pellegrinaggio in forma di poema: siamo alla stasi di cui si diceva, ben fermi sui piedi anche se pronti a passare con gli occhi. Il poema cristiano incomincia a rimpiangere il poema pagano d’azione, dove la conoscenza nasceva dall’esperienza, dove l’immobilità, quando c’era, era qualcosa di imposto, come quando Ulisse voleva udire legato il canto delle Sirene. Dante attraversa l’aldilà interamente legato all’albero maestro della navicella del suo ingegno, perché il suo viaggio si pone oltre e dopo ogni trasgressione, nella dimensione morale dell’espiazione, in vista della quale occorre che tutto sia predisposto, organizzato senza rischi, senza tentazioni. Il poema dell’uomo che guarda è frutto tipico della cultura del senso di colpa, dell’espiazione, della stasi dopo l’azione, della meditazione dopo lo smarrimento, che pure è azione nel suo errare, allontanarsi dalla meta anziché conquistarla. Guardare e non toccare, camminare con gli occhi anziché con i piedi: l’itinerario del nuovo poema occidentale è mistico e porta fuori dal mondo anziché nel mondo. Ciò comporta anche qualche timore per la ragione umana, che infatti prega di poter rientrare, alla fine, per evitare il rischio della follia. Il nuovo poema segue anche le vie dell’Itinerarium mentis in deum, e su queste affina i suoi strumenti di conoscenza. Non importa qui stabilire se il poema dantesco rientri interamente o solo parzialmente nella tipologia della “visione”,5 quanto l’osservare che la questione che il poema pone più frequentemente dall’inizio alla fine, intensificandola appassionatamente proprio alla fine, è una questione di sguardi. L’occhio è al centro di tutto. Come in ogni itinerario mistico, anche qui la comunione con il divino è raggiunta mediante pratiche ascetiche, riti di purificazione che progressivamente portano il corpo in una condizione di leggerezza, di distanza infinita dal mondo e dagli istinti che conducono verso il basso. Il corpo sale fino a trovare Dio. Nell’estasi finale non si trovano, però, le espressioni appassionate, sensuali, perfino laceranti, che coinvolgono tutti i sensi di chi vive l’esperienza del divino: un solo senso domina su tutti, quello della vista. La fun-

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zione del vedere è la chiave di tutto il poema e il passaggio dalla vista alla visione ne rappresenta il meccanismo fondamentale. Ovviamente è sotteso a questo tutto il patrimonio culturale che, da Platone a San Paolo, a Sant’Agostino ha tramandato a Dante un sapere profondamente consapevole di tutta la simbologia a riguardo. Non è qui il caso di addentrarci troppo nelle specifiche relazioni tra la concezione dantesca e quella degli scrittori che l’hanno preceduta:6 ciò che importa rilevare, ai fini di una considerazione sui particolari meccanismi simbolici che muovono il poema nella dimensione dell’occhio, è il fatto, appunto, che questa dimensione conferisce al poema la sua caratteristica più peculiare e originale. È sufficiente considerarne in breve il funzionamento, per rendersene conto. La prima immagine con cui si apre il poema è quella dell’oscurità: la selva, che simboleggia il male, l’istintualità senza ragione, produce smarrimento soprattutto perché non lascia vedere e fa perdere la «diritta via». Ma la condizione in cui Dante si trova davanti al Sole, al cospetto di Dio, cioè in presenza della massima luce, è molto simile: l’estrema oscurità e l’estrema luce producono lo stesso effetto, la confusione totale dell’occhio, che non riesce a vedere e si smarrisce. La condizione che Dante descrive in questi due poli estremi della vista sembra identica a quella della nascita, in cui l’uomo passa dall’oscurità prenatale alla luce, per lui accecante, del mondo. Venire alla luce produce, come primo effetto, quello di non vedere niente. Non è un caso che Dante ricorra, come mediatrice di sguardi, alla figura materna di Beatrice. Colei «il cui bell’occhio tutto vede» s’incarica di guidarlo soltanto con la forza dello sguardo, che si fa sempre più luminoso nel sostenere quello di Dio e quello di Dante insieme, in modo da far adattare l’occhio umano del poeta al dilagare della luce divina, fino al punto estremo in cui egli potrà guardare per un attimo direttamente Dio. In quell’istante l’estasi mistica realizzerà la congiunzione con Dio nei termini, sorprendenti e nello stesso tempo psichicamente elementari, di una visione che è agnizione, ricomposizione d’identità, conoscenza suprema. L’esperienza estrema è quella del vedere al massimo grado, e il contenuto di questa funzione è rappresentato da uno specchio. L’uomo riconosce la propria immagine in Dio, si riflette e si ritrova nel momento in cui non vede altro che se stesso, ossia il Nulla, un Dio che non ha contenuto e non ha forma, che non sia quella di chi si specchia in Lui.

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Appoggiandosi a Beatrice, Dante ha realizzato la propria rinascita, ritrovando se stesso, la propria identità perduta, come in certi riti iniziatici che vedono nell’«apertura degli occhi» il momento essenziale della conquista della conoscenza. L’occhio, dunque, l’organo di senso più eccessivo che il corpo possieda, tende ad andare sempre oltre, a guardare di più. Il desiderio di sconfinamento accende continuamente la visione, ossia tutto ciò che si può immaginare esista al di là della vista. È un meccanismo che il «pensiero poetante» di Leopardi7 tradurrà in termini precisi nell’Infinito. Ciò che è veramente infinito, e appare veramente e profondamente già in Dante, è il desiderio che l’uomo ha di vedere di più, di acquisire con lo sguardo un potere totale di conoscenza, che non sia più relativa ma assoluta. L’occhio non si accontenta mai della sua parte: «Difficilmente lo sguardo si attiene alla pura constatazione delle apparenze, essendo nella sua stessa natura esigere di più».8 Il poema di Dante rappresenta proprio questo viaggio nell’eccesso che è insito nel funzionamento dell’occhio umano. L’unione mistica con il divino esprime in fondo l’utopia che anima il desiderio dell’eccesso. L’impulso ad andare oltre si appaga soltanto nel momento in cui, divorati gli spazi intermedi, trova l’ostacolo che lo può soddisfare e nello stesso tempo bloccare definitivamente, ossia un rimbalzo d’immagine, lo specchio smisurato del desiderio stesso. Del resto, poi, «la totalità divina desiderata si esprime nella voce mite, modesta, dell’acqua, della neve, del raggio di luce. L’esperienza del limitato è già in sé l’universo».9 Come è pure vero che l’Itinerarium del mistico rimane un viaggio senza fine: «È mistico colui o colei che non può fermare il cammino e, con la certezza di ciò che gli/le manca, di ogni luogo e oggetto sa che non è questo, che qui non si può risiedere né contentarsi di quello. Il desiderio crea un eccesso. Eccede, passa e perde i luoghi. Fa andare più lontano, altrove. Non abita da nessuna parte... Continua dunque a camminare, a tracciarsi in silenzio, a scriversi».10 Con la Commedia dantesca, dunque, il poema traccia davvero dei percorsi mai trovati prima dal genere. È notte: tutti riposano ma il poeta, unico fra tutti gli esseri viventi, si accinge a un viaggio che assomiglia a una guerra, un viaggio notturno. Il fatto che il suo percorso passi per il centro e giunga

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dall’altra parte della terra, per poi raggiungere il cielo, o il fatto che il tempo scorra e, in purgatorio per esempio, il sole nasca e tramonti, non modificano sostanzialmente la dimensione notturna della visione. È il poeta stesso a stabilirlo fin da principio (Inf., II, 1-6) ed è necessario credergli, se si vuole comprendere anche fino in fondo il significato di quell’assenza di controllo da parte della ragione, che determina confusione, smarrimento, atmosfere indeterminate, di carattere onirico. Nel sonno la ragione allenta il suo dominio e i paesaggi del sogno assomigliano a realtà mescolate fra loro. Il poeta mette in scena le visioni del suo sogno con la coscienza che, inseguite a occhi aperti o chiusi, esse lo stanno portando lontano, molto lontano, con il rischio di uscire non solo fuori dal mondo, ma fuori di sé. Nello stesso tempo, come ogni uomo che sogna, egli viaggia sempre più in profondo dentro di sé: ciò che lo ossessiona è il problema del ritorno, non vuole fallire come Ulisse, non vuole impazzire e nello stesso tempo vuole ricordare. Ciò che Dante tenta con questo poema è ben di più che la scrittura di un libro di visioni o di un manuale di sogni secondo tradizioni culturali ormai antichissime. Dante si rende conto che il sogno e la visione hanno a che fare con la realtà più della realtà stessa, più della veglia, più della vista, più della ragione, e che bisogna rischiare di impazzire se si vuole sapere di più, bisogna andare oltre i confini, ossia cercarsi fino a rischiare di perdersi. Quel labirinto infernale, custodito da Minosse e abitato dal Minotauro, rappresenta la mente dell’uomo, la sua anima o psiche, l’inafferrabile verità del nostro errare nel mondo. Il mondo infero è psiche: «Quando usiamo l’espressione mondo infero, inferi, ci riferiamo a una prospettiva del tutto psichica, dove tutto il nostro modo di essere è stato desostanzializzato, sbarazzato della vita naturale, ed è tuttavia, in ogni forma, in ogni senso e in ogni misura, l’esatta replica della vita naturale».11 Il sonno e la morte si equivalgono e i poeti, molto prima degli psicologi, hanno intuito che dormire vuol dire «entrare nel regno della morte, forse anche sognare ed essere ricolmi della psiche».12 La prospettiva onirica del viaggio dantesco rappresenta un’altra grande novità per il poema, che con Omero e Virgilio era sceso soltanto episodicamente agli inferi, mentre con Dante s’installa totalmente nella dimensione della psiche. Lo smarrimento iniziale di cui il poeta parla rappresenta una per-

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dita d’identità, una confusione psicologica, uno stato di alterazione di cui il “viaggio” raccontato nel poema costituirà una sorta di diario di guarigione: dalla «selva oscura» alla «candida rosa» la ricomposizione dell’Io, il ritrovamento dell’identità lascerà le sue tracce nella stesura del poema.13 La figura femminile che consentirà questo passaggio rappresenta la molteplicità di tutte le funzioni femminili, nella visione tradizionale, sincretica e secolare dell’archetipo: Beatrice, come summa di ruoli materni e amorosi è il perno intermedio di una trinità femminile che procede da Matelda (sostituibile con Santa Lucia), passa attraverso Beatrice, appunto, fino a trovare il supremo compimento nella Madonna. Nel mistero di questa trinità femminile il poeta s’immergerà per rendere il proprio occhio più chiaro e più forte, fino al punto da incontrare il Dio-specchio che lo restituirà alla propria identità perduta. «Vergine Madre, figlia del tuo figlio»: è un mistero ancora più profondo di quello della trinità maschile, il nodo dal quale l’uomo parte con la nascita per farvi ritorno con la morte, che non è altro che una metamorfosi, cioè una resurrezione. La novità che, comunque, appare più importante nel poema dantesco rispetto a quelli che l’hanno preceduto è quella linguistica. L’invenzione di una lingua apposita, per esprimere «cose non dette mai», conferisce alla Commedia il suo carattere particolarmente avventuroso di sperimentazione poetica. Qui veramente si presenta la poesia come poièin, artigianato della parola che costruisce una realtà nel momento in cui trova il modo di esprimerla. La lingua volgare toscana diventa, in questa gran fabbrica di poesia, il primo prodotto artistico di una nuova cultura. Questo è il più grande viaggio che il poema abbia mai compiuto: mentre Omero e Virgilio avevano usufruito di una lingua che era già arrivata a un’espressione letteraria matura, Dante se ne costruisce una, strada facendo, adattando uno strumento fino ad allora capace solo di parlare d’amore e di temi “degradati” al livello popolare. Il poeta che guida il poeta rende espliciti la consegna di una tradizione e nello stesso tempo il germoglio dell’invenzione, che lega i più grandi poemi occidentali l’uno all’altro: l’Eneide raccoglie l’eredità di un poema scritto in un’altra lingua, così come la Commedia fa nei confronti dell’Eneide.

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Dal greco al latino, all’italiano, non è però soltanto la lingua a mutare come per derivazione, sono anche certe caratteristiche tematiche e formali, che rappresentano, in fondo, i referenti di nuove culture. Nel passaggio, comunque, è come se un tacito accordo fra i poeti governasse la volontà di vincere «di mille secoli il silenzio», passando una sorta di testimone che viene raccolto dal cuore del poema precedente: Enea è l’eroe fuggitivo che Virgilio raccoglie dall’Iliade, Virgilio è addirittura l’autore che Dante raccoglie dall’Eneide e porta nella sua Commedia, insieme a tante citazioni, rimembranze, intertestualità. Il poema dunque vuole la tradizione, nello stesso tempo in cui propone la novità, e Virgilio rappresenta anche questo. Ma Dante si fa guidare da quello che considera il più grande poeta latino soprattutto per una ragione. Il viaggio più difficile che dovrà intraprendere è quello della lingua, quello della poesia e Virgilio è nello stesso tempo il simbolo di tutte le sue difficoltà, la giustificazione di tutti i suoi sforzi e di tutti i suoi metalinguaggi. Egli non si limita, collocandosi nella tradizione, ad assumere uno o più personaggi virgiliani come materia del canto: qua e là si affaccia anche questo, ma è soprattutto l’autore Virgilio che conta, e non come protagonista ma come simbolo della poesia nascente, come fonte di una lingua che deve uscire in «sì largo fiume» (Inf., I, 80) anche per Dante, da consentirgli di dire veramente ciò che nessuno ha detto mai. Scrivere come Dio:14 forse è davvero questa l’ambizione di Dante, che non a caso invoca sempre Dio perché lo aiuti a ricordare, lo aiuti a innalzarsi, lo aiuti a scrivere di Lui. È una scrittura che nasce intorno a Dio, impastata della Sua sostanza, della Sua luce. E l’artefice cerca le parole dichiarando continuamente la sua incapacità, la sua inadeguatezza e invocando continuamente che la materia stessa riesca a imporsi e a creare il proprio linguaggio. Il linguaggio di Dio, come nella Bibbia, deve tuttavia parlare il linguaggio degli uomini, costituire anzi un modello nel tempo e nello spazio, perché gli uomini sappiano poi continuare nel modo migliore: «Poca favilla gran fiamma seconda: / forse di retro a me con miglior voci / si pregherà perché Cirra risponda» (Par., I, 34-36). Tutto il poema di Dante è essenzialmente costruito sullo sguardo e sulla voce, su ciò di cui la conoscenza umana può fare esperienza oltre ogni limite e sulle parole adatte a esprimere il contenuto di quell’esperienza. Poema esasperatamente metalinguistico,

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la Commedia rappresenta tutto l’intreccio di voci che possono arrivare all’uomo attraverso l’udito o piovere nel lago del suo cuore, per parlargli, agostinianamente, in interiore homine. Aristotelico-tolemaico-tomistico nella dottrina che vi è citata, il poema dantesco è invece profondamente platonico nella sua struttura, fondato com’è su dialoghi maieutici tra Dante e le anime dell’aldilà, tra Dante e Beatrice la quale, addirittura, conosce già i dubbi di Dante ma, come una madre, lo esorta a esprimerli, a formulare le sue domande se vuole ottenere delle risposte e conoscere la Verità. Trovare le parole, costruirle, inventarle è l’attività fondamentale di quest’arte maieutica che è la poesia: non a caso, una delle figure più alte (e più paterne) di tutto il poema è Brunetto Latini, a cui l’inferno non toglie dignità perché per Dante, veramente, esiste un paradiso della mente, in cui si trovano insieme tutte le anime che gli hanno insegnato qualcosa, che lo hanno messo in grado, interrogandole, di conoscere una parte di verità, una felicità mentale15 che lega Brunetto Latini a Cacciaguida, Francesca a Piccarda, Pier delle Vigne a Romeo da Villanova. Trovare le parole significa un’esperienza in sé e per sé, quella dell’ispirazione poetica, che Dante rappresenta con forza proprio all’inizio del Paradiso, con la rievocazione dell’albero di Apollo e della leggenda di Marsia: storie crudeli che diventano «segno d’estasi».16 Esaurita infine l’estasi, viene meno anche la parola: «A l’alta fantasia qui mancò possa» (Par., XXXIII, 142); e non c’è più dialogo, scambio, movimento di parole, perché il desiderio del poeta coincide con quello di Dio. Il poema dunque, con Dante, esprime al massimo le sue possibilità e la coscienza stessa di queste. Esso raggiunge la consapevolezza dell’ispirazione poetica per tutto ciò che rappresenta esperienza e fantasia dell’uomo. La poesia può occupare tutto, può creare il mondo ed esserne creata, dimostrando che il tutto si riduce in parola. Ciò che gli altri poemi avevano soltanto in parte considerato la Commedia moltiplica all’infinito, spingendo i suoi viaggi di esplorazione in ogni possibile direzione. Ciò che le altre forme poetiche avevano frammentato in intuizioni liriche, epiche, dottrinali ecc. il poema dantesco unifica in una dimostrazione perfettamente armonica e omogenea dell’universo esterno e interno all’uomo. Ciò che la prosa aveva stemperato in vi-

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stose impalcature logico-formali il poema sintetizza, distillando l’essenza stessa di sofia.17 Dopo la Commedia, ogni poema non potrà che essere di nuovo frammentazione, oppure parodia.

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L’occhio lirico La poesia, che all’origine si canta al suono della lyra, pare in teoria destinata a identificarsi con l’effetto acustico da lei stessa creato. Varia da sempre, come i sentimenti e le emozioni individuali, sembra ritrosa a lasciar identificare altre caratteristiche costanti, che non siano appunto quelle codificate in quel suono come eco dell’anima. Eppure, se in un lampo potessimo immaginare un ponte che va da Pindaro a, supponiamo, Apollinaire, non sarebbe tanto l’orecchio a guidare il nostro “volo”, quanto l’occhio, un occhio che nella storia della poesia lirica tende a dilagare sempre di più.18 Che i Calligrammes di Apollinaire e la poesia visiva del Novecento, passando per Marinetti e i futuristi, segnino il punto d’arrivo di quel volo dalla parte della vista non ci sono dubbi: quegli strani oggetti poetici, con le parole in forma di “cose”, sono lì, sotto i nostri occhi appunto, ed è difficile negare la loro consistenza. Ma essi rappresentano gli eccessi, quindi delle eccezioni. Hanno portato alle estreme possibilità una tendenza, un processo di relazioni segniche e con questo si sono trovati un posto in una tipologia particolare, che ha una sua classificabilità a parte (di cui ci occuperemo). È forse necessario scrivere calligrammi o cercare un effetto tipografico speciale per trovare nella poesia lirica la parte dell’occhio? Certamente questi accorgimenti, o forme particolari, non si chiamano più sonetti o canzoni, e i versi che si distribuiscono sulla pagina seguono un ritmo visivo anziché sonoro. A parte il fatto che tra le forme più antiche e codificate si possono trovare “poesie per l’occhio” come la sestina, occorre riconoscere che anche tra le dita di Saffo nascono immagini, e non solo suoni, che anche lì, cioè fin dalle origini, si manifesta il fare poetico della retorica: ut pictura poesis. Il linguaggio in generale, per la sua natura simbolica, sostitutiva della realtà per necessità di comunicazione, tende a raffigurare, convocare oggetti al cospetto, alla vista, del destinatario. La lingua,

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in particolare, si serve di queste facoltà, per instaurare tra le parole e le cose un rapporto che non implichi un continuo trasporto di oggetti per poter comunicare: sono ben noti a questo proposito gli esempi saussuriani. Ancor più in particolare la poesia e, di più, la poesia lirica, sintetizza, distilla il succo del proprio messaggio producendo immagini, e questo da sempre, anche da quando queste immagini vengono offerte con canti, musiche, danze. È incisa nella memoria visiva di chi l’ha una volta incontrata, a scuola come studente o in biblioteca come studioso, l’immagine di quella «dolce mela» che «rosseggia sull’alto del ramo, / alta sul più alto, e la scordarono i raccoglitori: / no che non la scordarono, ma non riuscirono a raggiungerla», frammento tra i più luminosi attribuiti a Saffo, così come «il giacinto» che «sui monti i pastori / calpestano coi piedi», lasciando «a terra il purpureo fiore»19 (immagine poi ripresa da Catullo). Mentre la poesia personale si può incontrare nella Ionia e nelle isole, va ricordato che, nella Grecia propriamente detta, dalle origini al secolo VII, la poesia è corale e accompagnata da canti, musica e danze: sono canti religiosi o semplicemente commemorativi di luoghi e di feste particolari. Essi segnano le tappe salienti dell’esistenza: la nascita, le nozze, la morte, oppure momenti del lavoro, come la vendemmia e il raccolto, o calamità come la carestia e la peste. Sono documentati in Omero e nei canti infantili di cui abbiamo notizia nella città di Sparta, con cori organizzati a fini educativi. L’origine corale della poesia greca, legata alle cerimonie, richiede ai poeti la conoscenza della musica e della danza, oltre che della metrica. Certo l’apparizione verso il 600 a.C. di Saffo e di Alceo produce una grande novità non solo sull’isola di Lesbo: perché, in sé, lo loro poesia non è né corale né popolare, è di origine locale e molto personale, destinata a una cerchia piuttosto ristretta di persone, ma la fama dei due poeti sconfina ben presto fino a far mutare la funzione stessa della poesia. L’innovazione diviene ancora più evidente con Anacreonte, che non scrive più per pochi amici del suo paese ma cerca interlocutori e protettori ovunque (a Samo, ad Atene, in Tessaglia), contribuendo in modo determinante a fare dell’arte poetica una professione nomade,20 non più direttamente legata a culti e riti locali, ma capace di uno stile cosmopolita e di un linguaggio eterogeneo, composto da molti dialetti. Pian piano, il poeta diventa un artista di professione, e ciò contribuisce a dare maggiore importanza alla scrittura del testo, alle sue raffinatezze espressive.

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Simonide e Pindaro, maestri della lirica corale, mostrano anche al massimo livello quanto possano incidere le capacità individuali sull’arte poetica, poiché soprattutto Pindaro scrive per singoli individui, che cimenta nell’interpretazione delle sue allusioni, dei suoi “voli”, che a noi posteri appaiono un po’ oscuri, quasi come fossero degli idioletti circolanti in un microcosmo abbondantemente oscurato dal tempo. I testi di Pindaro sono più complessi e più ricchi di figure retoriche rispetto ai poeti precedenti della Grecia propriamente detta (non a Saffo, non ad Alceo), proprio perché sul territorio greco la lirica corale assume più tardi che nelle isole e nella Ionia delle caratteristiche personali, sia per quanto riguarda l’autore che per quanto riguarda i destinatari. Quando la lirica greca perde i suoi cori, le musiche e le danze, procede nella ricerca di figure con maggiore intensità visiva e imbocca per sempre la via della sostituzione, della simbolizzazione, divenendo per eccellenza il luogo di una mancanza, che lo sguardo è incaricato di colmare. Rimangono incise, altresì, certe immagini dell’antica lirica indiana, lirica prevalentemente amorosa, che basa l’intera sua consistenza, l’intera sua ragion d’essere, sulla presenza dello sguardo: si possono citare come esempi certi Itinerari erotici, come quello attribuito a Harsadeva («A fatica oltrepassando le cosce, molto a lungo vagando / per la distesa dei fianchi, / immobile alla vita di lei diseguale ondulata dalle tre pieghe, / il mio sguardo come assetato ora passo passo ascendendo / i seni erti, / in attesa senza fine guarda i suoi occhi che versano gocce / di pianto») o come quello di Amaruka, stilnovista nella sua attenzione allo sguardo amoroso: «Con gli occhi malinconici, chini, umidi d’amore, ora socchiusi / come un fiore in boccio, / ora sfrontati, inquieti dalla timidezza, per un attimo / distolti / quasi svelassero la folla di emozioni che si cela in cuore, / dimmi: chi è, bambina, l’uomo felice su cui posi oggi / lo sguardo?»21 L’esercizio dello sguardo nella poesia lirica tende a relegare in una funzione di secondaria importanza quello dell’ascolto, quindi il ritmo, il suono, la musica che pure è stata alle origini la compagna gemella di ogni manifestazione poetica. Questa perdita di udito si registra già al passaggio dalla poesia lirica greca a quella latina, che dall’infinità di metri della prima sceglie un numero tutto sommato esiguo di possibilità, che esercita e codifica soprattutto attraverso la scrittura, tendendo in questa sorta di semplificazione metrica a togliere di torno alla poesia lirica ogni sorta di gestualità,

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mimica, sonorità, teatralità. Ciò è dovuto, probabilmente, al carattere più privato assunto dalla lirica latina rispetto a quella greca, un carattere che la destina a una circolazione più riservata, talora semplicemente da mittente a destinatario, in fruizione segreta, silenziosa, privata. Così è la lirica di Catullo, che non a caso si ispira a Saffo come all’autrice di frammenti lirici quasi esclusivamente di carattere privato. Ma così operano anche Properzio, Ovidio, là dove i loro percorsi tematici e metrici assumono un carattere intimo, familiare, di sfogo o di contemplazione interiore. Il solo Orazio affronta abbondantemente nei suoi quattro libri di Carmi argomenti misti, fra i quali quelli di carattere civile, politico, culturale occupano una parte molto importante. La pubblica lettura di questi testi aveva comunque una portata molto ristretta, la massima vastità in cui poteva circolare era quella della reggia augustea e del cenacolo di Mecenate: un gruppo scelto di fruitori, di autori e di committenti pronti a un’attenzione maggiore al testo che non alle sue sonorità e teatralizzazioni. L’importanza maggiore che si attribuisce alla parola, al testo poetico induce la parola stessa ad aumentare le sue possibilità figurative. Non è un caso che proprio Orazio formuli nella sua Ars poetica quel paragone tra poesia e pittura. In mancanza di elementi esterni, la poesia intensifica le sue possibilità interne di espressione, e va a imitare e sostituire tutto ciò che in principio ne ha accompagnato la nascita. Mentre la lirica greca è essenzialmente una forma corale, popolare di poesia, e il suo mito originario è quello di Orfeo, musico e inventore di scrittura,22 quella latina diventa definitivamente un’espressione individuale e perde il carattere popolare. La tendenza a sviluppare la scrittura, il testo poetico e la sua visività ha nella storia della cultura occidentale un andamento alquanto oscillatorio, non procede linearmente, in costante evoluzione, anche se nei suoi prodotti letterari più raffinati (la poesia visiva del Novecento) sembra di poter constatare che l’evoluzione c’è stata, e piuttosto notevole. In realtà, molti sono stati i momenti in cui la poesia è stata di nuovo circondata da danze, musiche, canti, gesti teatrali, che l’hanno portata a manifestare in simultaneità tutte le potenziali forme espressive. Si pensi alla poesia dei trovatori provenzali, per esempio, che recupera talmente la sostanza musicale del testo poetico da scriverne delle vere e proprie partiture, che sono oggi parzialmente recuperate e studiate.23 Queste poesie portano musica nel ca-

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stello e possono diventare spettacolo, intrattenimento, gioco squisito e talora allusivo, a cui basta il trobar clus per mandare messaggi segreti a una destinataria presente nella corte. Arnault Daniel è maestro in questi giochi. Le sue liriche amorose, sensuali e molto pittoriche nella scelta di paragoni, similitudini, metafore, giocano spesso nel volteggiare intorno a una donna sola, pur scorrazzando con aria beffarda in mezzo a un folto gruppo. Il bel manto azzurro della donna, che avvolge e protegge i baci del poeta, riparandoli dagli occhi indiscreti,24 è qualcosa di più che una bella immagine: è una spia delle tecniche comunicative in questo magnifico teatrino poetico, in cui tutto avviene sotto gli occhi di tutti, ma in cui il messaggio è diversificato, è doppio, perché doppio è il destinatario, pubblico e privato, che lo riceve. E il lume della lampada che scopre e lascia contemplare il bel corpo della Signora, nel segreto della camera, è come un grande occhio indiscreto del lettore che il poeta ammette in quel segreto. La musica che accompagna la poesia dei trovatori è in realtà un residuo dell’origine popolare di quella poesia, che veniva cantata, suonata e ballata molto prima che i trovatori vi si specializzassero, sotto le varie forme di cançon, alba, sirventés, tenson, planh, pastorèla, romança:25 l’esempio del primo trovatore noto (reso noto dal suo rango nella società dell’epoca), cioè Guglielmo IX, rende esplicita, nella vivacità dello stile, l’idea di una poesia che esisteva ben prima di lui: Mais l’histoire ne nous a probablement pas livré les noms des poètes qui l’ont précédé, parce qu’ils n’étaient sans doute que d’humbles chanteurs populaires... Guillaume IX n’a fait qu’imposer à la haute société une poésie dont les pastorelles, ballades, danses et canzos anonymes nous paraissent bien être antérieures aux poèmes des troubadours: en particulier par ce qu’elles présentent de caractéristiques archaïsmes de langue... la poésie d’abord populaire a été ensuite transformée en poésie artistique par des poètes plus doués.26

Questo fenomeno presenterebbe delle caratteristiche che apparenterebbero in qualche modo l’antica lirica greca con quella provenzale. Anche i lirici greci elaboravano in forma più raffinata antiche forme popolari, anch’essi erano “nomadi”, come i trovatori, formavano gruppi specialistici che si spostavano nelle varie regge dell’antica Grecia. Il filo che li lega, pur nelle tante, ovvie differenze storico-culturali, è l’intrecciarsi di espressioni extratestuali con immagini, comunque, fortemente segnate dalla dominanza dello sguardo.

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Come i trovatori provenzali, anche i trovieri dell’Ile de France e i Minnesänger hanno cercato di ridare alla poesia la sua funzione espressiva totale, rivalutandola come comunicazione spettacolare. Ma ormai i testi contano più dei contesti, e il fatto stesso che le figure dei poeti siano identificate, anzi, addirittura raffigurate in miniature che li individuano con precisione storico-culturale, significa che l’autore del testo prevale sulla funzione spettacolare e sul contesto. È esemplare da questo punto di vista quel monumento ai Minnesänger rappresentato dal Manoscritto di Manesse, la più vasta raccolta che ci sia pervenuta della lirica dei trovatori tedeschi fra la metà del Duecento e la metà del Trecento.27 Qui la pittura tenta un percorso inverso, cogliendo la maggior parte di questi cavalieri-poeti nel contesto più tipico dell’esercizio della loro funzione poetica: la guerra, il torneo cavalleresco, la caccia, l’amore. Ut poiesis pictura, dunque. Ma l’inseguimento e l’intreccio tra pittura e poesia è un gioco che si risolve a vantaggio della poesia, ormai, perché la pittura non fa vedere nulla di più, anzi, qualcosa in meno, rispetto alle colorate, ardite immagini della poesia stessa. E ciò vale ormai per tutti, anche per i trovatori provenzali, che per raccontare contesti hanno a disposizione le loro Vidas e le loro Razos, dunque sempre scrittura, più efficace di ogni statica miniatura recante nomi e blasoni ma incapace di riprodurre, all’epoca, i dinamismi ormai sfrenati e raffinatissimi dell’arte poetica. In questo inseguimento tra le arti visive e l’arte della parola lirica, chi vince, perché fa vedere di più, è la poesia, che infatti si diverte talmente in questa gara da cominciare a porre proprio l’occhio al centro di tutto il meccanismo espressivo. Così è nella corte di Federico II di Svevia (figlio di Enrico VI) e poi nella cerchia stilnovista. Non è possibile, in questo breve passaggio, addentrarsi troppo o soffermarsi a lungo: basterà richiamare la teoria d’Amore in seno alla Scuola siciliana, come un sentimento che nasce dal cuore ma è acceso dalla vista (Amor è uno desio che ven da core, di Rinaldo d’Aquino) e tutte le dinamiche dello sguardo su cui si basano i componimenti di Dante e Cavalcanti in seno al Dolce stil novo. Se poi, nell’ambito provenzale, potevano convivere l’amore sensuale di Arnault Daniel e quello senza vista di Jaufré Rudel, la convivenza rappresentava una sorta di dibattito sulla funzione della vista stessa, coscientemente sviluppato poi dai siciliani e dagli stilnovisti. Si tratta di un vero e proprio dibattito poetico, che tocca molto marginalmente, ad esempio, i poeti toscani e settentrionali del

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Duecento, quali Guittone d’Arezzo, Bonagiunta Orbicciani (ma si pensi a Sordello e al suo magnifico frammento: «Ahimé a che mi giovano i miei occhi / se non vedono ciò che io desidero?»),28 mentre forse non è un caso che interessi proprio la poesia lirica là dove si forma un gruppo, sia di autori che di fruitori, capaci di intervenire in merito alle scelte tematiche e formali dei poeti stessi. Quando questo tipo di dibattito riceve una codificazione così autorevole come quella dantesca, la poesia che viene consegnata ai posteri ha ormai un’impronta visiva indelebile. È ancora ampiamente discusso29 se il Petrarca avesse nella sua mirabile biblioteca la opere di Dante, e se i doni e i consigli del Boccaccio in proposito fossero efficaci o finissero per infastidire il poeta aretino. Ma è molto difficile, per i posteri a cui tanto pensoso il Petrarca si rivolge, comprendere la vista e la visione di Laura senza la vista e la visione di Beatrice, le immagini sostituite del Canzoniere senza le epifanie e i sogni della Vita Nova, la ricorrenza stessa degli aggettivi più cari al Petrarca, «chiaro» e «dolce»,30 senza il passaggio di colei che «dà per li occhi una dolcezza al core».31 Tra le famose “dualità”32 riscontrabili nella poesia del Canzoniere occorre aggiungere e sottolineare quella di presenza/assenza, che rappresenta la chiave di tutto il visibile nei testi poetici che parlano dell’amore per Laura. Esemplari da questo punto di vista le due canzoni Chiare, fresche, e dolci acque e Di pensier in pensier, di monte in monte. Canzoni tipiche dell’assenza (ma, del resto, quasi mai il poeta parla della donna direttamente, come se l’avesse davanti agli occhi), la prima è interamente fondata su un meccanismo che fa scattare il flusso di memoria, come in un procedimento micropsicologico, la seconda presenta invece una rinuncia, una fuga, un’assenza che viene colmata dalle immagini sostitutive che la fantasia proietta sugli elementi della natura (sassi, alberi ecc.). In entrambe, la visione sostituisce interamente la vista, non solo, ma in entrambe ciò che fa scattare la visione è un procedimento di intensificazione, moltiplicazione, iperbolizzazione dell’immagine. In Chiare, fresche, e dolci acque il procedimento scatta contemporaneamente al flusso di memoria: dopo la ricognizione degli oggetti reali (“acque”, “ramo”, “erba”, “fior”, “aer”) e una sorta di rituale consacrazione di sé al luogo che li accoglie, il meccanismo si mette in moto, alla lettera, ed ecco che i fiori incominciano a scendere sull’immagine della donna, in forma addirittura di “pioggia”, in un’apoteosi che ha

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una sua durata: quella dell’elencazione delle parti del corpo di Laura su cui si posano: il «grembo», il «lembo» (della veste o del velo), le «trecce» – e poi ancora sulla «terra» e sulle «onde» intorno, a formare una sorta di santuario d’Amore. La perfetta ricognizione micropsicologica stabilisce i suoi parallelismi inconsci. Dolci sono le acque e dolce è nella memoria l’immagine di quella pioggia di fiori. Che l’apparizione dell’immagine nella memoria sia avvenuta in una sorta di trance o di training autogeno è dichiarato perfino dal poeta, che quando si riscuote si trova così «diviso / da l’imagine vera» da non sapere più dove si trova. Ciò accade anche nell’altra canzone, dove la fuga, l’allontanamento in cerca di solitudine sono volontari. Arrivato sulla cima solitaria di un monte, il poeta incomincia a disegnare «co la mente il suo bel viso» nel primo «sasso» che incontra, e poi nel «mirar lei» il procedimento è di nuovo quello della perdita di realtà («obliar me stesso»), fino al punto che «se l’error durasse, altro non cheggio»: ecco di nuovo l’«errore», il «paradiso» della precedente canzone, ma ecco anche l’intensificazione, la moltiplicazione fino all’ossessione: la descrizione iperbolica del contenuto di quell’«errore» («dolce», come l’altro): qui non si parla più di disegno «co la mente», ma di allucinazione: anche se sa che nessuno potrebbe credergli, il poeta afferma d’aver visto Laura viva (e «più volte») nell’acqua, sull’erba, sul tronco di un faggio, su una bianca nube. Questi momenti allucinatori gli costano molte energie psichiche, tant’è che al ritorno nella realtà non ha più forze e si sente «freddo» come una «pietra morta». Il Petrarca, nel Canzoniere, porta a compimento un processo poetico che Dante ha avviato nella Vita Nova e nella Commedia: la poesia come registrazione e visualizzazione di ciò che non si vede: di sogni, allucinazioni, immaginazioni; visioni, insomma, come prodotto della fantasia, della memoria e del desiderio. In questo senso, egli specializza la poesia lirica: mentre in Dante la tecnica della visione soprannaturale ha strutturato le forme espressive del poema, facendogli compiere una svolta determinante per quel genere, nel Petrarca la scelta della lirica come diario intimo, totalmente libero e non programmato (se non a posteriori, dal mezzo del cammino esistenziale fin sulla soglia della morte, come riordinamento, sfoltimento, autocensura)33 consente un abbandono che mette in luce tutte le possibilità moderne della poesia lirica (e non a caso, da questo momento, essa si cristallizza in canone, modello supremo che durerà dal Tasso al Leopardi e oltre).

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I “frammenti” petrarcheschi sono qualcosa in più anche rispetto alle nugae di Catullo: un diario intimo in poesia, in cui cercare per se stessi prima che per altri interlocutori una gratificazione nel pieno senso ludico, fantastico, psicologico del termine. Il gioco della letteratura, nell’ambito lirico, si specializza con il Petrarca su alcuni temi e su alcune forme: il tema amoroso con tutti i derivati,34 e le forme che maggiormente possono procurare gratificazione, che si manifestano in sovrabbondanza come forme pertinenti all’ambito della vista. Già con Dante e con tutti i poeti stilnovisti la centralità dell’occhio ha prodotto dibattiti poetici ed esempi di testi, in cui vista e visione costituiscono il perno dell’attività poetica. Ma nella Vita Nova questo fa parte di un progetto ben programmato e modellato su una parabola cristologica che lo trasforma quasi in una premessa alla Commedia. Nel Canzoniere del Petrarca, invece, la ricerca di se stesso in solitudine, che il poeta compie, lo porta a scoprire tutti i meccanismi attraverso cui il vuoto, l’assenza, la distanza, la solitudine, la mancanza, il desiderio possono essere colmati e soddisfatti dalla poesia. Ed ecco allora che vista e visione moltiplicano le loro possibilità e le loro tecniche sostitutive della realtà: la memoria, la fantasia, l’allucinazione, il sogno, il trompe-l’oeil (si pensi a Movesi ‘l vecchierel) si addensano sulle pagine sparse ogni volta in cui il poeta ha bisogno di evocare intorno a sé la figura amorosa del suo desiderio. Non importa che sia presente, anzi, nella voluttà del suo viver “dolce-amaro” l’autore confessa a se stesso che l’assenza è meglio, perché le immagini che la sua fantasia gli detta sono anche più gratificanti della realtà. La lirica moderna, cosciente della propria funzione riparatrice e gratificante,35 nasce proprio dal Canzoniere, e nasce con la costante certezza che questa funzione risiede nell’atto del vedere, o meglio, nella sostituzione di quell’atto con tutte le operazioni mentali e retoriche consentite dalla fantasia nell’area visiva. Con il Petrarca lirico, metafore, similitudini e paragoni, sinestesie e metonimie si trasferiscono massicciamente nell’ambito visivo. Gli occhi costituiscono veramente il mistero amoroso di tutto il Canzoniere.36 Analizziamo anche le tre canzoni “sorelle” che vengono denominate cantilenae oculorum. Esse segnano, intanto, la centralità degli occhi di Laura nell’esperienza amorosa e poetica del Petrarca. Non va dimenticato che all’origine di questa storia amorosa è un colpo di fulmine: tutto il sonetto n. 3 racconta di questo amore a prima vista da parte unicamente del poeta («e voi armata

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non mostrar pur l’arco»). Ma è un colpo di fulmine che ha a che fare con l’azione impietratrice di Medusa: così spiega il sonetto numero 197.37 Da questo momento egli identifica negli occhi di Laura il mistero amoroso in cui si trova avvolto, al punto tale che compone una trilogia di canzoni interamente e metalinguisticamente concentrate su questo tema. Ogni canzone cita e richiama anche le altre, e le cantilenae sembrano farsi a un certo punto quasi ossessive, come riti magici in cui la ripetizione formulare abbia un preciso significato evocativo. Esse muovono espressamente da una fonte, quella del «desio»: «ma contrastar non posso al gran desio», 71; «onde dì e notte si rinversa / il gran desio per isfogare il petto», 72; «Poi che per mio destino / a dir mi sforza quell’accesa voglia / che m’ha sforzato a sospirar mai sempre, / Amor, ch’a ciò m’invoglia, / sia la mia scorta, e ‘nsignimi ‘l camino, / e col desio le mie rime contempre», 73. Si tratta di un «desio» dal doppio significato: desiderio di Laura e desiderio di parlarne per sfogarsi, quest’ultimo presente già in Dante, nella Vita Nova (Donne ch’avete intelletto d’amore). Ma qui le funzioni poetiche presenti sono assai ricche, a loro volta, di significati secondi: prima di tutto, gli occhi di Laura si negano (si velano, si schermano, si distolgono quasi sempre dall’innamorato), e il desiderio è, in primo luogo, desiderio di vederla, di vedere i suoi occhi. Inoltre il «desio» rappresenta quasi sempre un’assenza, raramente una presenza, perciò anche il desiderio di parlare, sfogare la mente rappresenta una visione, elaborata dalla poesia. L’evocazione dell’assente parte da questo «desio» in tutta la sua complessità di significati e di funzioni e costruisce gesti, formule, riti propiziatori. Questi passano attraverso la descrizione e la lode degli occhi stessi nella loro bellezza, nel loro splendore, nella loro virtù beatificante, secondo la tradizione laica modellata sul parametro religioso già sperimentato dal Dolce stil novo. La descrizione fa rientrare Laura in un’icona taumaturgica, poiché ella è anche la sola a poter sanare con uno sguardo le ferite inferte all’amante: si pensi a quel volgere magico di pupille in Rerum Volgarium Fragmenta 72, 1-9, 46-60; 75, 1-3; 73, 61-75. Nessuna «arte maga» può «saldar la piaga» meglio di quegli occhi. Ma sono gli stessi occhi che quella piaga hanno aperto e riaprono continuamente, sicché gli effetti sono quelli di una sorta di con-

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templazione ipnotica, che paralizza sempre più gli occhi dell’innamorato, anche solo nel desiderio di contemplarli a distanza più ravvicinata: «Così vedess’io fiso / come Amor dolcemente gli governa, / sol un giorno da presso / senza volger già mai rota superna / né pensasse d’altrui né di me stesso, / e ‘l batter gli occhi miei non fosse spesso» (73, 70-75). Nelle tre cantilenae oculorum l’immagine degli occhi di Laura ha qualcosa di onirico e di surreale: ravvicinati e ingranditi fino a spiarne i giochi segreti dei colori e delle forze d’Amore, contemplati, adorati, fissati fino all’ipnosi, fino a non voler più battere le ciglia per distogliersene, essi appaiono smisurati, onnipresenti e onnipotenti come una metonimia assoluta che campeggia nell’universo del poeta, padroneggiandone anche la poesia e consegnandola alla gloria, piena della loro luce. Non sappiamo nulla né del naso, né delle orecchie di Laura, perché sono elementi indecenti per un nobile ritratto,38 ma si può ben dire che Laura sia tutt’occhi, e il poeta con lei.39 Dopo aver attraversato queste tre canzoni dell’urgenza di scrivere, il lettore comprende meglio anche il senso di quei componimenti in cui l’autore rimprovera la donna perché troppo spesso velata, schermata, distratta da lui. Il velo, la mano, lo specchio: tutti oggetti che il poeta vorrebbe allontanare, perché gli rapiscono quello sguardo, o lo rendono così intermittente da lasciarlo in una perenne condizione di angoscia. La donna si vela appunto perché e quando ha conosciuto il desiderio dell’innamorato: «Lassare il velo o per sole o per ombra, / donna, non vi vid’io, / poi che in me conosceste il gran desio, / ch’ogn’altra voglia dentr’al cor mi sgombra» (11, 1-4); «torto mi face il velo / e la man che sì spesso s’atraversa / fra ‘l mio sommo diletto / e gli occhi» (72, 54-58); «il mio adversario, in cui veder solete / gli occhi vostri ch’Amore e ‘l ciel onora, / colle non sue bellezze v’innamora» (45, 1-3). Questi occhi di Laura sono assai simili a quelli di Narciso che, nella sua perfezione e indifferenza per l’amore altrui, può amare soltanto se stesso: «S’a voi fosse sì nota / la divina incredibile bellezza / di ch’io ragiono, come a chi la mira, misurata allegrezza / non avria ‘l cor» (71, 61-65). Il modello è ancora dantesco: «O luce etterna che sola in te sidi, / sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!» (Par., XXXIII, 124-126). Qui forse risiede uno dei nodi più importanti di questa poesia amorosa: Laura è Narciso, il Petrarca è semplicemente Eco, l’essere

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adorante, piangente che insegue vanamente il suo amore oltre il rifiuto, oltre la morte di entrambi. Sarà Eco, tuttavia, a far sentire ancora la sua voce intorno al bel fiore della metamorfosi, così come sarà il poeta a far riecheggiare i suoi versi, la cui gloria è tutta permeata di quell’amore. Non è escluso neppure che il Petrarca sia cosciente di questo ennesimo gioco cripticamente organizzato dentro il suo diario poetico: tanto spesso egli si rivolge alle Metamorfosi di Ovidio come «grande codice» a cui attingere. Basti pensare all’elaborazione della canzone n. 23, alle numerose citazioni di vere e proprie vicende ovidiane (la più ricorrente è, ovviamente, per la simbologia del lauro, quella di Apollo e Dafne, ma molte altre appaiono qua e là). La presenza dello specchio e dell’amore di sé rappresentano una sorta di esplicitazione di tutto il meccanismo. Laura non può amare che se stessa, ogni altro oggetto è indegno del suo amore. Il poeta può unicamente offrirsi come specchio più fedele del cristallo per rimandarle un riflesso della sua bellezza. Ma ella rifiuta questo specchio vivente, per contemplarsi invece nel cristallo. Così lo lascia alla sua funzione di Eco, senza sguardi e senza speranza, a spargere nel mondo i versi del suo dolore. Gli occhi di Laura, pur chiamati dal poeta «Vaghe faville, angeliche, beatrici / de la mia vita» (72, 37-38), non donano affatto la beatitudine, come facevano invece quelli della vera Beatrice: essi trascorrono semplicemente nel mondo senza concedersi e senza impietosirsi, senza saluto né salute, senza nulla donare. La natura in cui questa creatura passa ha una sua sacralità profana (in Chiare, fresche e dolci acque è un tempio d’amore), che nasce dal delirio del poeta, dalla sua «memoria innamorata» (71, 99), ma da nessun gesto suo, da nessuna parola da lei pronunciata. Ciò che davvero resta di lei è l’eco del poeta, la sua immensa costruzione dell’universo con lei al centro, immobile motore del pianto e del canto. Come Narciso si trasforma in fiore, anche Laura si trasforma in alloro, con la cosciente cooperazione del poeta che sa di dovere a lei tutta la sua gloria in lingua volgare. In questo, il narcisismo di Laura si riverbera sul Petrarca stesso: se Laura è l’alloro, la gloria, e la poesia petrarchesca ne è impregnata, allora nel simbolo si realizza finalmente un’unione e un’identità: Laura e Petrarca uniti, identificati nell’alloro. Ma anche, più narcisisticamente per il poeta, se Laura è come Dafne, il poeta è come Apollo, che la insegue e la vede tramutarsi nell’albero della gloria.

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Poiché i giochi nascosti nei suoni di questi sospiri sono davvero tanti, raffinatissimi e quasi tutti coscienti, si può pensare che l’autore abbia in fondo disposto il suo gioco poetico come una caccia al tesoro, in cui di eco in eco egli conduce il suo lettore a trovare le istruzioni sul percorso. È la sua più probabile rivincita, la gratificazione di quel non placato, e di fatto implacabile, bisogno di scrivere: «ond’io più carta vergo» (72, 78). Lo scrivere non placa, non calma, non acqueta: lo ripete continuamente nelle tre cantilenae che parlano del forsennato bisogno di scrivere. Eppure gratifica: procura una riparazione profonda a una ferita profonda, a un bisogno frustrato: insomma, è la poesia, non gli occhi di Laura, a essere dotata di virtù terapeutiche, taumaturgiche, perché proprio con la poesia l’innamorato fa sua la donna che gli sfugge, e diventa un dio. Più degli occhi di Laura, dunque, si muovono con forza gli occhi del poeta. Qui la figura dell’auctor e quella dell’innamorato coincidono. È l’ambizione dell’auctor: questa coincidenza sarà in grado di guarire l’innamorato e di gratificare il poeta consentendogli di raggiungere la gloria. Solo per questa via la vittima si lega indissolubilmente al suo carnefice e questo legame giustifica la continua oscillazione, antinomia, contraddizione del «viver dolce amaro» a cui il poeta non può rinunciare. Ma questo legame delimita e nello stesso tempo rafforza lo sguardo dentro gabbie spaziali che sono psicologiche e stilistiche nello stesso tempo. Si osservi che i componimenti del Canzoniere hanno ben poco a che fare con l’infinito, con la dimensione dell’aldilà e del superamento del limite, e molto invece con lo spazio chiuso, in cui è consentita poca libertà di movimento, in cui il movimento stesso è oscillatorio oppure circolare, e fa tornare sempre allo stesso punto la situazione. È un falso movimento. Che si tratti di error, di allontanamento o di fuga, i passi del poeta ritornano sempre sullo stesso percorso: Solo et pensoso, O cameretta, Di pensier in pensier, Chi è fermato di menar sua vita non sono che alcuni degli esempi più significativi di questa situazione, che può essere descritta, visivamente, con le immagini allegoriche, simboliche, metaforiche dell’autore: l’anima del poeta è come un «cieco legno» che va alla deriva avvistando alternativamente il «porto» e gli «scogli», i quali, più incombenti e probabili del «porto», non lasciano altro scampo che un’affannata preghiera a Dio. Oppure: l’anima cerca la solitudine nella natura e

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si imbatte in una situazione allucinatoria, in cui l’immagine di Laura si moltiplica riprodotta sui sassi e sulle cortecce degli alberi. Ogni sguardo di fuga da parte del poeta è controllato dallo sguardo superiore del dio d’Amore, che non lo abbandona mai. Lo stesso movimento oscillatorio avviene nella «cameretta», in cui il poeta ora si rifugia per sfuggire agli occhi altrui, ora si trova a disagio con se stesso tornando a cercare quella folla che aborriva. Non c’è via di scampo, dal cerchio non si esce. Come può risultare da questa sorta di prigione un rafforzamento, un potenziamento dello sguardo? Se si considera nel suo complesso la tendenza stilistica del Petrarca volgare si può trovare una contestualizzazione ampiamente giustificabile sia nell’ambito della sua poetica che della sua personalità. Per esempio, le scelte lessicali petrarchesche sono, nel loro complesso, più semplici e più ridotte di quelle dei lirici precedenti, Dante compreso. Dante è un inventore della lingua, i suoi neologismi sono a volte aspri e azzardati, ma ricchi, molteplici e fortemente espressivi. Così pure avviene nella lirica stilnovista. Con il Petrarca si assiste invece a una sorta di semplificazione: poche parole, sempre le stesse, con cui giocare nell’ambito di raffinate costruzioni. Chiaro, bello e dolce sono i suoi aggettivi prevalenti: aggettivi di uso comune, ciascuno con una sua lunga storia linguistica e culturale alle spalle (la simbologia della luce in “chiaro”, quella amorosa in “dolce”, ecc.) A questa sorta di semplificazione lessicale, quasi una rinuncia a mezzi più ricchi, vari e complessi, corrisponde una rinuncia anche sul versante metrico: sonetti, canzoni e sestine nella loro forma ormai codificata. Si noti che la scelta della sestina costituisce una sorta di gabbia metrica a cui il poeta si costringe: in essa i versi di strofa in strofa non solo terminano simmetricamente con la stessa rima, ma anche con la stessa parola, perciò il poeta deve costruire per ogni verso nuovi pensieri giocando sempre con gli stessi segni (rime identiche), magari costruendo significati diversi (rime ambigue).40 L’incredibile varietà, complessità, profondità di concetti che riesce a ricavare da questa “gabbia” deriva proprio dal potenziamento dello sguardo, che si diceva. Si noti che la gabbia della sestina funziona anche come iconismo palese: l’occhio del lettore (e l’ascolto del destinatario orale) si devono fissare sulla ricorrenza ossessiva

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delle stesse forme, sia sul piano visivo che su quello sonoro, ricreando in questo modo il disegno anche “fisico”, materiale, di una situazione psichica totalmente e drammaticamente bloccata. Ma la lotta e il trionfo dello sguardo si riscontrano anche nelle gabbie meno costrittive del sonetto e della canzone, dove il poeta potrebbe spaziare variando parole e rime assai più di quanto non faccia. È come se egli rinunciasse a priori alla propria libertà d’invenzione per dimostrare a se stesso che cosa sa fare anche in condizioni di costrizione. O meglio, è come se il chiuso in cui si muove il suo paesaggio psicologico, il limite in cui si dibatte il suo falso movimento trovassero un equivalente perfetto nella scelta complessiva di gabbie stilistiche, entro le quali egli costruisce un fitto reticolo di percorsi interiori, ognuno dei quali rappresenta un nuovo modo di guardare. Si possono considerare come modelli veramente significativi di tutta quest’operazione poetica del Petrarca la sestina Chi è fermato di menar sua vita e la canzone Di pensier in pensier, di monte in monte, già esaminata. La sestina rappresenta una vera e propria gabbia, sia dal punto di vista metrico-stilistico che dal punto di vista semantico. Ciò che il poeta descrive è il paesaggio della sua anima, il movimento vano e continuo del suo dramma personale. Fin dalla prima strofa l’allegoria disegna un quadro completo, sinteticamente pessimistico, di questa situazione senza via d’uscita: Chi è fermato di menar sua vita su per l’onde fallaci e per li scogli scevro da morte con un picciol legno non po’ molto lontan esser dal fine, però sarrebbe da ritrarsi in porto mentre al governo ancor crede la vela.

Con l’allegoria più convenzionale, quella del «picciol legno», che ha campeggiato in tutta la Commedia dantesca, l’autore si chiude ancor di più in un campo dove formalmente e semanticamente tutto è bloccato perché predeterminato. Si tratta di una confessione, la proclamazione di un mea culpa che il Secretum ci conferma essere un topos psicologico e stilistico dell’autore. La dinamica è sempre quella del Secretum: il porto, cioè il bene, la saggezza sono avvistati e riconosciuti, ma il condizionale («sarrebbe da ritrarsi») preannuncia un difetto di volontà.

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Ecco allora che l’occhio del poeta guarda al porto, dove sarebbe bene ritirarsi, ma nella strofa seguente distoglie subito lo sguardo, allettato dalla speranza di Laura (l’aura), convinto che da quella parte sia un «miglior porto», mentre, all’opposto, si trova «in più di mille scogli», «e le cagioni del mio doglioso fine / non pur d’intorno avea, ma dentro al legno». Inizia una deriva, con l’innamorato chiuso dentro questo «cieco legno» che erra, si lascia andare «senza levar occhio a la vela»: espressamente il poeta ci parla della sua cecità, non volontà di guardare, paralisi dell’occhio, a cui non importa più di controllare la rotta e la meta. A metà strofa, però, c’è un intervento divino, che lo costringe a riaprire gli occhi e lo porta, se non in salvo, almeno tanto lontano dagli scogli «ch’almen da lunge m’apparisse il porto». Così la strofa seguente mostra l’innamorato con gli occhi ben aperti verso il bene: «vid’io le insegne di quell’altra vita / et allor sospirai verso ‘l mio fine». Si noti che, per non variare minimamente il paesaggio, il poeta sceglie come similitudine da inserire nell’allegoria la stessa immagine dell’allegoria, quella della nave o legno. Si fa sempre più chiuso, angusto e costrittivo l’ambiente in cui si muove il suo sguardo, che a sua volta è sempre più espressamente nominato, evidenziato, mosso, sia pure senza percorrere spazi molto vasti. La strofa che si presenta subito dopo evidenzia infatti uno sguardo preoccupato e meditativo sul «gran viaggio» che lo separa dal buon «fine», sul «fraile legno», e soprattutto, sul vento delle passioni che soffia ancora troppo forte sulla sua «vela». E poi la disperazione dell’ultima strofa, segnata di nuovo dal condizionale dell’irrealtà: S’io esca vivo de’ dubbiosi scogli et arrive il mio essiglio ad un bel fine, ch’i’ sarei vago di voltar la vela, e l’ancore gittar in qualche porto! Se non ch’i’ardo come acceso legno, sì m’è duro a lassar l’usata vita.

L’ardore della passione rende impossibile uscire da quest’impasse. Con i suoi mezzi, l’innamorato sa di non poter farcela. Lo sguardo si leva allora nel finale a cercare aiuto con la preghiera:

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Signor de la mia fine e de la vita, prima ch’i’ fiacchi il legno tra gli scogli, drizza a buon porto l’affannata vela.

Da quella dinamica oscillatoria, insomma, il poeta non sa trovare una via d’uscita, una soluzione, e l’invocazione di aiuto a Dio appare più come una rinuncia che come un atto di volontà. Il movimento (psicologico, semantico, stilistico) si realizza tutto all’interno di spazi angusti e di percorsi obbligati: si tratta di gabbie formali a cui corrisponde totalmente e perfettamente la situazione di impasse psicologica che racchiudono e descrivono, una situazione tutt’altro che statica all’interno, anzi, tumultuosamente drammatica, e tanto più inquieta, agitata, angosciosa, quanto più descritta senza vie d’uscita. I percorsi costrittivi dal punto di vista formale, lungi dal limitare le possibilità espressive di tale psichismo, lo manifestano in modo coerente ed efficace, ne rappresentano la traduzione poetica più adatta, offrendo anzi un modello di perfezione difficilmente superabile e perciò stesso infinitamente imitabile. Il poeta si rende perfettamente conto del proprio gioco, al punto che anche quando adotta forme metriche più libere, come quelle della canzone, non rinuncia alla propria costrizione, prigionia volontaria entro percorsi limitati, soggiorno obbligato dell’anima e delle parole. La situazione descritta dalla canzone Di pensier in pensier, di monte in monte costituisce ancora una conferma. La grande gabbia in cui il poeta abita sempre nel Canzoniere è quella di un lessico codificato e limitato in cui si muove, appunto, come in un soggiorno obbligato ormai costituito dalla tradizione poetica in lingua volgare. È come se egli, in queste liriche di quotidiane confessioni e memorie interiori, non volesse porsi neppure il problema di trovare nuove parole e nuove forme, ma si accomodasse, come la propria disposizione psicologica lo induce, entro una situazione già consolidata, determinata e accettata come tale. L’accettazione comporta certo molta sofferenza, e una divisione interiore, un apparente contrasto fra la ricchezza della materia e la povertà delle parole, eppure è proprio quella divisione a esprimere perfettamente la condizione di questo poeta, che si è trovato in tutti i percorsi della propria esistenza a dover fare i conti con il proprio io diviso: tra pubblico e privato, alle prese con un ruolo cortigiano dell’intellettuale che egli per primo affronta denunciando le fatiche degli sguardi altrui da sostenere e allo stesso tempo da fuggire; tra ragione e passione, dover essere ed essere; co-

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noscenza del bene, ossia della relatività dell’esistenza e desiderio di abbandono, ossia di assolutizzare le proprie passioni, il principio del piacere. È una situazione per lui familiare e determinante: non potrà mai uscirne, né lo vorrà mai fino in fondo. Tanto vale, dunque, accomodarvisi come nell’unica condizione concessa al prigioniero, ricavando dal poco il molto, dal semplice il complesso, dal chiuso il profondo, l’agitato, l’ossessivo. Lavorare di paradossi e di contrasti diventa allora non il suo limite ma la sua forza, e in quella divisione il suo essere sempre altrove diventa il modello psicologico e formale di ogni attività fantastica che si appoggi all’arte delle parole. Certo i modelli sono utili perché fanno scuola, si possono apprendere e imitare, ma è un fatto che sono anche unici e ingombranti, perché nelle future generazioni di poeti che hanno continuato a giocare con “cuore” e “Amore”, con “chiome”, “piagge”, “augelli” e tutto il bagaglio lessicale da lui definitivamente non solo codificato ma consacrato, soltanto il Tasso e il Leopardi sono poi riusciti a scuotere le sbarre della gabbia con il tumulto di proposte poetiche nuove. Gli altri, pur grandi, si sono spesso lasciati ammaliare da percorsi già tracciati. Le liriche manieristiche del Cinquecento, comprese quelle del Tasso, sono lì a dimostrare l’avvenuta codificazione del percorso che si diceva. Tutte le poesie di Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Gaspara Stampa, Veronica Franco, Luigi Tansillo e Celio Magno parlano in assenza ed evocano presenze attraverso immagini sostitutive. È la «rimozione del reale»41 che dal Petrarca in poi (ma senza esclusione di tutta la lirica romanza e di Dante) contraddistinguerà la poesia lirica. In Vittoria Colonna si riscontrano interi sonetti costruiti mediante versi sparsi del Canzoniere petrarchesco, del resto questo è il modello proposto dal Bembo, seguito da Gaspara Stampa e ampiamente offerto dalla circolazione dei rimari petrarcheschi.42 Questa tendenza a stabilire canoni e modelli investe, come si sa, ogni ambito culturale del Cinquecento. Ma è sintomatico che, per quanto riguarda la poesia lirica, il modello sia costituito proprio dal Canzoniere del Petrarca (e proprio, potremmo aggiungere, dall’opera nei confronti della quale il suo autore aveva provato più timori e incertezze, perfino sull’opportunità di una pubblica circolazione). È sintomatico perché, attraverso il suo diario poetico, il Petrarca ha mostrato in tutte le sue varianti possibili la capacità di sostituzione e di riparazione che la poesia esercita nei confronti del-

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la realtà. Non solo, ma ha mostrato di quali magie è capace la parola poetica nell’evocare un oggetto poetico in assenza dell’oggetto stesso, perciò, poiché l’assenza più lamentata dagli uomini è quella dell’oggetto d’amore, egli ha indicato alla passione e alla sofferenza amorosa un lenimento tra i più efficaci. In questa scoperta ha egli stesso elaborato materiali precedenti, ma riuscendo a trasformarli in un repertorio di complicità formali e semantiche, una sorta di linguaggio cifrato che, se ha le sue origini nei senhal provenzali e i suoi meandri in Dante, Cino, Guido Cavalcanti, certamente possiede dentro di sé la forza, la coscienza, la ricchezza di un discorso che, a coloro che hanno provato la passione amorosa, ha il potere di farsi identificare e di fornire una sorta di segnale di riconoscimento, mezzo di scambio, segno di unione e complicità fra autori e lettori che “per prova” intendono amore. Non è solo l’esigenza cinquecentesca del canone a far scegliere il Petrarca come modello per la poesia lirica: dopo di lui, la poesia che voglia esprimere sentimenti privati, e di privazione, prevalentemente amorosa, non ha altra scelta che imparare da lui. Così farà anche il Tasso, benché nelle sue quasi duemila Rime il modello appaia rispettato in modo più variato, rispetto al Bembo e alle poetesse contemporanee, trovandosi sulla linea più innovativa del Della Casa per quanto riguarda l’esercizio tecnico, metrico in particolare.43 Attraverso quest’esercizio il manierismo del poeta arriva alle soglie del concettismo barocco, ma nel trascolorare dello stile restano immutabili le occasioni, le situazioni, i temi, perfino le parole “tecniche” dei significati più profondi della lirica amorosa: «dolce», «errore», «aura», «van desire», «repentirsi» ecc. Che poi a tutto questo repertorio il Tasso infonda l’originalità della sua sensibilità e della sua arte è indiscutibile, così come è evidente che atmosfere e colori delle Rime sono nettamente diversi da quelli del Canzoniere petrarchesco: la luce dorata di questo è divenuta oscurità lunare, notte dove piangono le stelle (Qual rugiada o qual pianto), e sono mutate ovviamente situazioni e tormenti. Ma il meccanismo funziona ormai come il Petrarca l’ha codificato: l’esercizio della poesia lirica è uno sguardo che fruga nel mondo alla ricerca dell’oggetto amato, perduto, per farlo riapparire. Da questo momento, metamorfosi, evocazioni, sogni, apparizioni, equivoci, allucinazioni, tutto quanto può appartenere all’ambito della visione e sostituire la vista fa la sua irruzione nella poesia lirica.

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Così finisce, in parte, per trovarsi su questa linea petrarchesca anche un antipetrarchista dichiarato come il Marino (che però ammira gli stilnovisti, e il Pontano, il Cariteo, il Tansillo, il Tasso...) La poesia del Marino, sia quella raccolta nella Lira che, soprattutto, quella della Galeria, è poesia di sostituzione. Si obietterà che certi ritratti femminili sono pur testimonianze di uno sguardo diretto alla donna nel momento in cui il poeta la ritrae. E la Donna che si pettina, La bruna pastorella, Madonna che chiede versi di baci, gli Errori di bella chioma, per non citare che alcuni esempi, sembrano occhiate così immediate da poter essere registrate su un biglietto galante piuttosto che raccolte in un libro. Sono occasioni, passaggi di corpi femminili fatti a pezzi dalla penna del poeta, a colpi di metafore e sinestesie. La prima sensazione che lasciano è quella di vertigine, inducendo lo sguardo mentale del lettore a compiere tanti e così rapidi spostamenti da un’immagine all’altra, che quella referenziale diventa subito un puzzle, un’astrazione. Questo fa parte dell’arte straordinaria di un poeta così consapevole della sua professione da usarla come dimostrazione tecnica del repertorio. Ma non è solo la perdita referenziale a sottolineare la lirica del Marino come lirica, anch’essa, della mancanza. La coscienza professionale dell’autore si spinge fino a esplicitare con grande rilievo la funzione “naturale” di questo tipo di poesia, che è una funzione perfettamente coerente con le scoperte psicoanalitiche di tre secoli dopo: la poesia è un’alternativa alla realtà, una contro-realtà, e non è ammessa la compresenza, semplicemente «per la contradizion che nol consente»: è ciò che il Marino spiega in Madonna chiede versi di baci: al poeta che scrive di baci la donna chiede poesie, mentre egli volentieri scambierebbe «baci per versi e con un libro un labro». Anche se il sonetto potrà riuscire galeotto nella sua proposta, e sortirà l’effetto voluto, resterà dimostrata l’affermazione che o si scrive o si bacia, e l’una delle due attività sostituisce l’altra. Quanto poi alle sostituzioni che avvengono nel magnifico «libro figurato» della Galeria, dove tutte le presenze scompaiono (o riappaiono) nei quadri e nelle sculture descritte dal poeta, gli esempi non pongono che l’imbarazzo della scelta. Occorre riflettere che le tecniche espressive della lirica prima manierista, poi barocca, sono le più adatte a esaltare proprio questa funzione sostitutiva. Se l’immagine petrarchesca di Laura era più bella della sua stessa presenza, qui l’immagine dell’immagine è quella che afferma la sua indiscussa superiorità: della Venere di Bernardo Castello il Marino dice: «fatta immortale anco la veggio / più ne la tela tua, /

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che ne la sfera sua». Lo stesso avviene per Medusa, Erodiade, San Giovanni, Maddalena. Ma le tecniche barocche non fanno che accentuare e assecondare una tendenza che viaggia ormai sicura nell’ambito della poesia dei sentimenti e delle occasioni private. L’Illuminismo e il Romanticismo, ad esempio, spazzano via a poco a poco ridondanze tecniche e giochi gratuiti di concetti e di forme. Ma i poeti lirici non annullano distanze se non per farle più possentemente campeggiare sulla pagina sempre più spesso intrisa di pianto. Per quanto riguarda questo discorso, il pensiero corre immediatamente al Leopardi, per la poesia italiana (e a Keats e Shelley per quella inglese, a Lamartine e De Vigny per quella francese, a Heine per quella tedesca: gli esempi sono infiniti). Rimembranze, vagheggiamenti e attese colmano anche tecnicamente nella lirica leopardiana lo spazio dell’assenza, portandola alla sua teorizzazione estrema. L’assenza è la sola condizione perché la poesia, sostituendosi alla realtà, possa espletare la sua funzione gratificante. Siamo di nuovo al Petrarca, ma con una maggiore coscienza e lucidità filosofico-poetica (e con frustrazioni più profonde da riparare). Mentre nel Petrarca, poi, solo la donna e l’amore rappresentavano l’oggetto rimosso e sostituito dalla poesia, nel Leopardi l’intera realtà, l’esistenza stessa entrano a far parte del gioco. Tutti i sillogismi leopardiani conducono la poesia a un bivio tra vista e visione, in cui il lettore non ha scelta: tutto ciò che la vista gli offre è chiuso, limitato, deludente; tutto ciò che porta alla visione è aperto, infinito, gratificante. Se poi il piacere, la felicità possono nascere solo dalla cessazione del dolore o dall’attesa del piacere stesso, attesa e memoria sono le sole condizioni in cui l’uomo può vivere la sua illusione di gioia. Ma attesa e memoria sono anche condizioni di assenza dell’oggetto: di quell’assenza s’impadronisce l’occhio lirico creando le immagini più gratificanti perché il «naufragio» sia «dolce» in quell’immensità. Ma la poesia lirica non esaurisce completamente la sua funzione nel trattare la tematica amorosa in assenza e sostituzione dell’oggetto d’amore. C’è un’altra funzione che, sia pure secondaria, o comprimaria al massimo, ha sempre espresso le sue forme anche direttamente, ma solo come immagine di transfert. Si tratta di quella descrittiva o contemplativa, in cui il poeta proietta se stesso su immagini del mondo esterno: della natura, degli oggetti che lo circondano, della donna, anche, ma contemplandola come una figura che la poesia disegna, rende visibile più a lungo e trasforma quindi in memoria.

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È una funzione in cui possono essere presenti i temi più vari, non solo il tema amoroso, e in cui il poeta si appropria dell’oggetto attraverso lo sguardo poetico e lo consegna a una memoria destinata a durare più dell’esperienza che ne è stata l’occasione. Pensiamo al caso estremo di Dora Markus in Montale. La descrizione di un paesaggio, di una situazione particolare, di un animale, di un oggetto indifferentemente scelto dal mondo esterno è presente in tutta la poesia lirica fin dalle origini e possiede, per la sua stessa natura, una forte componente visiva. Il poeta che descrive ciò che vede, e lo rende visibile per sempre, è un’immagine che richiama Saffo come Orazio, Tasso come Leopardi, Marino come Foscolo. In ogni poeta, anche in quelli che prevalentemente hanno esercitato la funzione evocativa-sostitutiva, si riscontra anche quella descrittiva-contemplativa. In alcuni di essi le funzioni sono così mescolate da far sembrare il meccanismo indistricabile. Basta pensare a Baudelaire e a Pascoli, a D’Annunzio, a Rimbaud, a Mallarmé. Dal momento in cui la poesia imbocca le vie più o meno ufficialmente dichiarate del simbolismo, le due funzioni si intrecciano e comunque la poesia lirica diventa pian piano poesia veggente, la presenza dell’occhio diviene imponente. Certamente la simbolicità del linguaggio, e in particolare di quello poetico, ha consentito sempre alla poesia lirica di fissare con gli occhi della mente un punto che sta oltre l’oggetto apparente del discorso, oltre il referente, oltre l’occasione. Ma il simbolismo conferisce all’autore una coscienza più chiara della polivalenza semiologica delle sue parole e delle sue immagini, e questo gli consente di trasformare ogni oggetto, sia interno o esterno, amoroso o no, sostituito o contemplato, in qualcosa che porta sempre a vedere qualcos’altro, che evoca, allude, suggestiona, effettua una calata nel noumeno, oltre l’apparenza delle cose, oltre il fenomeno. La realtà vive oltre, e in questo senso, allora, inconoscibile attraverso l’esperienza, sfugge, è mancante anche quando si crede di contemplarla nell’istante stesso in cui la si descrive. Tutta la poesia simbolista, e poi quella surrealista, astratta, la poesia contemporanea, insomma, diviene poesia dell’assenza, nella misura in cui la realtà stessa è assente, e occorre scavare sotto i simboli per scoprirla senza poterla afferrare, sentirla senza poterla misurare o conoscere con certezza. Nella perdita ulteriore e definitiva della mimesis, che già non è mai stata molto presente nella poesia lirica, si può vedere il segno distintivo di tutta la poesia contemporanea.

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Quando la poesia moderna si accosta alla realtà – siano cose o uomini – non le tratta descrittivamente, né col calore della familiarità. Le trasferisce nella sfera del non familiare, le estranea, le deforma... Essa prescinde dall’umanità nel senso tradizionale, dall’“esperienza vissuta”, dal sentimento, anzi molte volte perfino dall’Io personale del poeta. Questi non partecipa alla sua rappresentazione come persona privata, bensì come intelligenza poetante, come “operatore” della lingua, come artista che esercita gli atti “metamorfosanti” della sua imperiosa fantasia, ovvero del suo irreale modo di vedere, su una materia qualsiasi, in se stessa povera di significato.44

In questa perdita cosciente, volontaria e definitiva della mimesis, in questa distanza ormai acquisita dall’oggetto, lo sguardo, la vista sopravanza come senso dominante e strumento paradossale di astrazione e di magia. In questo senso il fondatore della lirica contemporanea è Baudelaire con Les Fleurs du Mal (1857), raccolta che ancora sembra avere qualcosa in comune con il Canzoniere del Petrarca (oltre alla costruzione formale del libro a posteriori, con un piano architettonico interno). In questo libro «tutte le indicazioni realistiche hanno un carattere esclusivamente simbolico».45 Correspondences, con le sue «forêts de symboles» è il modello che vale per tutti questi testi. Al rifiuto della realtà come forma espressiva corrisponde il rifiuto e l’orrore della realtà come spazio referenziale in cui si muove il poeta, in un perenne error, inferno dei sensi, disagio della civiltà. Il poeta è l’aveugle, l’albatros, l’aedo cieco, omerico, che vede oltre la realtà, deriso dagli uomini ma capace di spingere il suo sguardo là dove quello degli altri non arriva. È quasi superfluo cercare nel conteggio delle metafore, dei simboli, delle sinestesie la prova della visività, della veggenza come cifra dominante di tutte le Fleurs du Mal: anche là dove serpeggiano profumi e torbidi sapori di vino e d’assenzio, le metamorfosi retoriche fanno scaturire «Un chant plein de lumière» (L’Ame du vin), «un ciel liquide qui parsème / D’étoiles mon coeur!» (Le Serpent qui danse), «Tes yeux sont la citerne où boivent mes ennuis» (Sed non satiata). Perfino nella Chevelure, dominata dai profumi, il poeta riesce a «boire / à grands flots le parfum, le son et la couleur». E in Parfum exotique, respirando il profumo del seno dell’amata, il poeta dice: «Je vois se dérouler des rivages heureux / qu’éblouissent les feux d’un soleil monotone». Tutte le sensazioni si trasformano in immagini visive. Da Baudelaire in avanti, tutti i poeti si lanceranno in questa direzione. La ricerca sinestetica della visività non avrà più limiti né battute d’arresto. Rimbaud giunge ad attribuire colori ai suoni del-

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le vocali, e il suo Bateau ivre romperà gli ormeggi per vedere oltre i limiti della propria esperienza, sia pure concludendo che nel mondo non c’è nulla da vedere più di ciò che si può presentare a un battello di carta, spinto nella pozzanghera dalla mano di un bambino. Non va sottovalutata in questi poeti la moltiplicazione della vista e della visione acquisita artificialmente attraverso l’oppio, l’assenzio, le droghe (come faranno poi i poeti della Beat generation, da Ginzberg a Ferlinghetti, a Kerouac, con esiti anche molto differenziati sia sul piano della produzione “visionaria” che su quello dell’originalità e della qualità espressiva).46 Non a caso una delle più importanti raccolte di Rimbaud si intitola Illuminations, la cui lettura viene definita, in una lettera di Claudel a Rivière «la rivelazione del soprannaturale». Rimbaud è il teorico della poesia come veggenza. Nelle Lettere di un veggente egli scrive che meta della poesia è «giungere nell’Ignoto», «scrutare l’invisibile, udire l’inaudito». Si realizza così una sorta di trascendenza, di estasi mistica, ma senza Muse o divinità capaci di manifestarsi: il poeta «giunge all’ignoto, e anche se, sgomento, finisce col non comprendere più le sue stesse visioni, pure le ha contemplate! Muoia pure nel suo balzo attraverso le cose inaudite e innominabili: altri orribili lavoratori verranno e cominceranno dagli orizzonti dove egli è crollato». Con Rimbaud la realtà viene definitivamente distrutta nella poesia lirica: «La nuova immagine non rinvia più alla realtà, ma costringe lo sguardo a fissare l’atto stesso che l’ha prodotto...: la realtà esiste solo nella lingua».47 Su questa linea si pone anche la poesia di Mallarmé, soprattutto nella seconda fase, dopo il 1870. Poesia fatta da stratificazioni di significato, che si sovrappongono l’uno all’altro, anche questa deforma gradatamente la realtà fino a farla scomparire di fronte all’Assoluto, che coincide con il Nulla. Componimenti come Sainte (1884, redazione definitiva) sono esemplari per il gioco visivo e musicale perfettamente armonizzati, e per l’atmosfera visionaria che riescono a creare nonostante la forte presenza di armonie musicali, perfino nelle scelte lessicali («santal», «Sainte pale»). oppure si pensi a Eventail (1887), che tanto suggestionerà Montale, dove perfino uno specchio interviene a moltiplicare riflessi visionari. E nell’Après - midi d’un faune è l’occhio che apre dei «souvenirs divers» in cui appaiono le ninfe in una felice innocenza primigenia. In Mallarmé non è assente il tema amoroso, che fino al

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Romanticismo ha costituito la più forte presenza tematica della poesia lirica. Ma è un sentimento contemplato in astratto, come un vuoto che va riempito di metafore e di simboli, e spersonalizzato. Si veda O si chère de loin... (1895), con il bacio muto che trasforma la poesia in logos, o La chevelure vol d’une flamme (1887), dove l’immagine della donna non esiste, esiste solo quella capigliatura con tutte le immagini che la magia del poeta è capace di ricavarne, sottraendo al referente ogni sua concretezza. E qui la novità di Mallarmé si sposa a quella del Marino e, ancora, a quella del Petrarca. Da questo momento, comunque, tutti i grandi poeti lirici sono impegnati in questa ricerca di evidenziare la simbolicità e l’astrazione del linguaggio, in particolare di quello lirico, che trova nel veggente e nel visionario l’artista cosciente delle proprie capacità espressive e della propria funzione. È la poesia di Valéry come quella di Maeterlinck, di Jammes come di Verhaeren, di Eluard come di Pascoli. Con questi poeti ormai la poesia lirica si avvicina al proprio paradosso congenito: dire il non detto e l’indicibile, occupare il silenzio con un «envoi tacite d’abstraction», dove la poesia ideale sarebbe quella taciuta, in bianco. Occorre tenere conto dell’evoluzione complessiva della cultura nell’esaminare l’incremento di visibilità che avviene da questo momento in poi nella poesia. Prima di tutto, la pittura ha scoperto nuovi percorsi, ha abbandonato, già con l’Impressionismo, le vie tradizionali, uscendo dal chiuso delle Accademie e cercando «en plein air» la rappresentazione di una realtà che fosse ricostruibile non dalle macchie di colore puro del quadro ma dall’occhio dello spettatore. Da qui in poi tutte le avanguardie pittoriche, anziché riprodurre, cercare la mimesis, cercheranno di vedere “oltre”, sollecitando sempre lo sguardo del fruitore a una cooperazione attiva. D’altra parte, l’invenzione della fotografia e poi del cinema incrementano la visibilità del mondo e anche, subito, la sua immaginazione e visionarietà: da una parte Parigi mai vista prima, dal pallone aerostatico, con l’obiettivo di Nadar; dall’altra, oltre alle Sorties d’usine di Lumière, il Voyage dans la lune di Méliès e fantasie consimili. E prima ancora del cinema, il passaggio intermedio delle varie macchine che dal Sei-Settecento hanno progressivamente consentito all’uomo di vedere di più, in tutti i sensi: scientifico, pittorico, scenografico-teatrale, fotografico, cinematografico. Qui si va dal cannocchiale a tutte le macchine per vedere: aletoscopio, ca-

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leidoscopio, lanterna magica, cromatoscopio, cosmorama, cyclorama, diaphanorama, diorama, fantascopio, kinetoscopio, mondo nuovo ecc., tutte le meraviglie del possibile nel campo dell’occhio, di cui oggi si sta tentando una ricognizione completa.48 Se nella cultura in generale e nelle arti in particolare l’occhio irrompe con tanta forza, è logico che anche la poesia lirica sia travolta a un certo punto da una vera e propria rivoluzione. La prima avanguardia che la travolge è, in questo senso, il Futurismo. Con Marinetti e il suo gruppo la poesia, oltre a esplodere sintatticamente con le parole in libertà, prende forma, si visualizza, si disegna in grafismi sulla pagina, si incide su materiali mai incontrati (latta e fibre di latte), si dipinge sui quadri, diviene quadro, teatro, rappresentazione. Marinetti spinge fino in fondo il paradosso che sarà poi di tutte le avanguardie del Novecento: per rappresentare meglio la realtà, occorre rinunciare al realismo, ossia a tutto ciò che logicamente appare come un’imitazione della realtà. Da qui si aprono le porte al dadaismo, al surrealismo e all’astrattismo in genere. L’immaginazione senza fili dei futuristi consente la libertà assoluta delle immagini. Ciò comporta anche una rivoluzione tipografica e il libro futurista diventa un oggetto provocatorio, fatto di materiali nuovi, sperimentali, disarmonici. Graficamente, la scrittura futurista è disegno, esplosione, calligramma (quelli di Apollinaire sono del 1918). In questo senso, gli esiti poetici più convincenti non sono di Marinetti, ma di coloro che hanno applicato in seguito le sue teorie. La pioggia nel pineto antidannunziana, di Paolo Buzzi, ne è un esempio significativo, come pure la raccolta Conflagrazione, diario visivo della guerra, fatto di collages di giornali e interventi a mano; come pure le opere di Tullio d’Albisola, in collaborazione con Bruno Munari, come L’anguria lirica (1934), stampata col procedimento litografico usato per le scatole dei biscotti. Va precisato, tralasciando gli esempi che sono infiniti, che il famoso principio marinettiano della simultaneità, ossia della compartecipazione di tutti i sensi nella produzione della poesia, si risolve sempre in realtà a favore della vista, perché tutte le realizzazioni sono sostanzialmente eventi animati, eventi teatrali, in cui la vista è proprio l’unico organo di senso di cui non si può fare a meno. Dopo Marinetti niente resterà più come prima nell’arte in generale, e nella poesia in particolare. Apollinaire ed Eluard, Breton, ma anche Picasso e Braque, e poi ancora Ungaretti e Montale, Sanguineti e la neoavanguardia devono qualcosa al futurismo. Dal

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futurismo in avanti si moltiplicano le interferenze tra la poesia e tutte le arti visive, dopo tutte le discussioni sul verso libero le parole in libertà hanno davvero trovato tutte le vie possibili, componendosi in calligrammi, in manifesti scritti e dipinti (si pensi a Liberté j’écris ton nom, di Eluard e Léger), in frammenti di scrittura incrostati sui quadri (Braque), in scritture luminose (Dessins de lumière), scolpite come eventi istantanei sotto gli occhi degli spettatori (Picasso, e poi tutta la poesia visiva contemporanea). Certamente il fenomeno ha illustri predecessori nel passato: William Blake concepiva la poesia soltanto in simultaneità con il disegno, e non solo tradusse in immagini quella dei poeti più amati (per esempio La Divina Commedia), ma arrivò a concepire, come ultima sua opera, un poema di totale integrazione fra immagine e parola, Jerusalem (1810).49 Blake è anche il primo poeta che usi coscientemente il simbolo come immagine psichica, facendolo emergere in parte alla coscienza dalle profondità dell’anima, ma lasciandogli anche i misteriosi caratteri del sogno. Ma soltanto nel Novecento si arriva all’esplosione dello sguardo, vista e visione, nella poesia, e lo scambio sinestetico di pertinenze sensoriali, portato dalle avanguardie, ha consentito il dilagare della lirica verso la sua vocazione di veggenza, di magie visive, allucinazioni, illusioni ottiche, eccessi della volontà di sapere, che coincidono con la volontà di vedere. In questo senso un contributo veramente importante, dopo quello futurista, è dato dal surrealismo. L’irruzione del sogno e della fantasia psichica, dell’immaginario, in scritture destinate a riprodurlo automaticamente rappresenta un esperimento decisivo nella ricerca di vedere l’invisibile, che anima da sempre la poesia: la scrittura automatica dovrebbe dare forma addirittura all’inconscio, portando alle estreme conseguenze ciò che già aveva tentato il simbolismo con la sua magia evocativa. «Il concreto è l’ultimo momento del pensiero, e lo stato del pensiero concreto è la poesia», teorizza Louis Aragòn sul primo numero della “Révolution Surréaliste”. Breton scrive come in trance, insieme a Soupault, autore con lui del primo testo di scrittura automatica, Les champs magnétiques (1919), realizzato cinque anni prima del Manifesto del movimento. Basta, poi, dare un’occhiata ai tredici numeri della rivista “Minotaure”, usciti dal 1933 al 1940, per rendersi conto dello sforzo visivo che poesia e pittura insieme compiono all’interno di quel movimento. E se si legge L’art magique di Andrè Breton,50 scritto in collabora-

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zione con Gérard Legrand, ci si rende conto che la rilettura di tutta la storia della cultura umana è stata tentata in chiave onirica, visionaria, magica, dagli scrittori surrealisti: dal complesso megalitico di Stonehenge alle statue dell’isola di Pasqua, dai graffiti di Lascaux e di Altamira alle “macchie” di Victor Hugo, dalla Melanconia di Dürer a Füssli, Blake, Moreau, a Max Klinger, Tanguy, Mirò. Attraverso il surrealismo la poesia lirica rivela una sua vocazione esoterica, che oscuramente serpeggia al suo interno fin dalle origini. Questa è forse la chiave interpretativa di tutta l’esplosione visiva della poesia lirica nel Novecento. Questo spiega in parte il dilagare dell’ermetismo (in senso lato), in tutte le sue espressioni. Il paradosso è ancora di più accentuato: da una parte la poesia cerca un incremento, un eccesso di visione, dall’altra cela i suoi significati e fa dell’oscurità una sorta di principio estetico. Essa si cura di esprimere, e ben poco di comunicare. Non si preoccupa del destinatario, se non attraverso il doppio speculare del poeta. Il “tu” montaliano ne è un esempio importante. Ma certo l’esempio di Montale si spinge ben al di là, e vale la pena di essere considerato a fondo, come modello di poesia astratta, che gioca sulla vista tutte le sue tecniche più raffinate. Esaminiamo Le occasioni, nel cui titolo è racchiusa la definizione dell’ars poetica montaliana, del suo particolare poièin: fabbricare l’oggetto poetico utilizzando l’“occasione” (una fotografia, un nome raro): un oggetto che cade, insomma nel suo campo visivo. L’oggetto, a sua volta, fabbrica la realtà. Il punto di vista e il campo visivo restano quelli di Arsenio e del suo delirio d’immobilità:51 punto di vista di chi guarda da fermo qualcosa che non cessa di muoversi. Negli Ossi era prevalentemente il mare (ma anche Esterina di Falsetto), qui lo spazio si fa astratto, nel campo visivo la vista e la visione compongono i loro oggetti utilizzando lo stesso procedimento di Leopardi nell’Infinito. All’immobilità del punto di vista corrisponde il vuoto, il nulla, la vastità negativa del campo visivo nel cui brulicame quotidiano si spiano lampi, prodigi, occasioni salvifiche. La luce è solare, di solito, in Montale, (si pensi al girasole e ai limoni degli Ossi, a Clizia e alle sue apparizioni e metamorfosi da «demone meridiano»52 in questa nuova raccolta), ma nelle Occasioni si affaccia assiduamente anche la notte. Notturno è il paesaggio del Balcone, di Vecchi versi, Lindau, Cave d’autunno, Altro effetto di luna, Accelerato, Addii,

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fischi nel buio, cenni, tosse, La gondola che scivola, Il fiore che ripete, Oh come là nella corusca, La casa dei doganieri, Bassa marea, Stanze, Costa San Giorgio, Eastbourne, Elegia di Pico Farnese, Notizie dall’Amiata, E tu seguissi le fragili architetture. Già può sorprendere l’allineamento di tante “occasioni” notturne, ma ancora più sorprendente, in questo libro, è il fatto che luce e ombra convivono praticamente sempre, quasi in ogni componimento, come se lo sguardo del poeta fosse proprio diretto a sorprendere quei giochi di luce e a farli reagire tra loro come parte essenziale della sua tecnica di composizione poetica: lo squarcio prodotto dalla luce è, sempre, il lampo del prodigio, il miracolo, l’essenza stessa dell’occasione nel momento in cui si trasforma dal suo valore etimologico, letterale e denotativo al suo valore simbolico, connotativo, filosofico. Occorre ora sottolineare l’importanza del punto di vista nel cogliere e nell’elaborare questi segni: se si percorrono a uno a uno i testi delle Occasioni, un altro allineamento ci sorprenderà per la frequenza delle occorrenze: quello dello sguardo dalla finestra o dal balcone, da un interno verso l’esterno, insomma, con l’immagine bloccata da una sorta di cornice o limite visivo e con lo sguardo del poeta fermo a contemplare paesaggi, persone, animali che si muovono. Il riquadro della finestra segna un punto di vista immobile, il campo visivo è anch’esso immobile, contratto, limitato: così si presentano Il balcone, Vecchi versi, Lindau, Bagni di Lucca, Cave d’autunno, Altro effetto di luna, Verso Capua, Dora Markus II, Lo sai: debbo riperderti e non posso, Brina sui vetri; uniti..., Addii, fischi nel buio, cenni, tosse, La speranza di pure rivederti, Ti libero la fronte dai ghiaccioli, Punta del Mesco, Nuove stanze, Notizie dall’Amiata. Si tratta di situazioni esplicitamente presentate come sguardo da un interno o da un riquadro di finestra: se a tutte queste aggiungiamo quelle in cui implicitamente l’occhio guarda e descrive nella stessa posizione, scopriamo che praticamente tutte Le Occasioni nascono così. Il balcone, posto in limine alle Occasioni (come Godi se il vento ch’entra nel pomario, simmetricamente, negli Ossi di seppia), associa l’idea dell’attesa e dell’assenza a un’oscurità dalla quale la figura femminile ha, lei sola, come sempre, il privilegio di poter scorgere «la vita che dà barlumi». All’ansia e all’attesa inerte del poeta corrisponde questo sguardo della donna, da una «finestra che non s’illumina»: due sguardi nel vuoto, dunque, corrispondenti ma non congiunti, disegnano insistentemente lo spazio: per ben due volte

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l’occhio del poeta trasforma in “nulla” lo spazio che lo divide da lei, ma, mentre il primo “nulla” sembra in grado di avvicinare, il secondo è “arduo”, impercorribile. Anche Vecchi versi descrive la stessa situazione dello sguardo: la bufera che si scatena viene osservata dall’interno, il poeta è in compagnia della madre, dai «vetri schiusi» entra la farfalla notturna, cercando con ossessiva pervicacia il suo destino di morte dentro la lampada. Il punto di vista è certo lo stesso dei due modelli con cui Montale si misura, quello del Lampo pascoliano e quello dell’Acherontia Atropos gozzaniana: un punto di vista immobile da cui si osserva il movimento della natura, in cui l’unico spostamento è quello dall’interno all’esterno, di nuovo con la precisa delimitazione della finestra, e con ambientazione di «oscurità piena». I presagi inquietanti recati dalla farfalla, molto simili a quelli gozzaniani (e anche pascoliani, ma riferiti all’«occhio» che si apre in cielo), sono qui esorcizzati dalla presenza materna. Si arriva poi ai paesaggi contemplati, sempre da una finestra, con l’occhio, per così dire, del turista che recupera il suo distacco. Lindau presenta un altro “notturno”, contrapposto alla “vita” rappresentata dal giorno e dalla rondine dei primi due versi. L’occhio abbraccia, evidentemente dall’alto e dall’interno, il «cerchio della piazza», in cui una «sarabanda» si agita al richiamo («mugghio») dei battelli a ruote, ma si spinge anche fino a spiare «qualche ombra sulle prode vuote». Bagni di Lucca ritraggono uno sguardo che s’affaccia, questa volta, dal ciglio di un torrente, contemplando un crollo di foglie e un passaggio di «greggia nella nebbia / del suo fiato». Cave d’autunno fissa un chiaro di luna, cercando un varco nel cielo più lontano, mentre lo sguardo insiste ancora, in Altro effetto di luna, a cercare i suoni, questa volta, delle immagini. Anche la seconda parte di Dora Markus appare come scena di contemplazione, strutturata praticamente sempre allo stesso modo: l’immagine femminile è presentata dapprima «china sul bordo» (forse di uno stagno), poi trasferita in un interno, «nell’ora che abbuia», e la donna coglie indizi, lampi di verità nel tempo di una «fede feroce», nello spazio di una distanza inquieta: situazione funzionalmente simile a quella del Balcone. Neppure i Mottetti si sottraggono a questa strutturazione fissa di sguardi che non s’incrociano: Lo sai: debbo riperderti e non posso rivela il punto di vista della descrizione, costruita come sempre in elencazione, attraverso un paragone-chiave: «com’unghia ai ve-

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tri», che mostra il solito sguardo dell’osservatore dalla finestra e poi il solito smarrimento nella difficoltà di riconoscere il «segno», il «pegno»: di nuovo l’occhio si perde nel vuoto, nel nulla che questa volta è definito «inferno». La stessa inquadratura, per così dire, apre il mottetto Brina sui vetri; uniti...: la figura femminile ispiratrice, racchiusa dai vetri, è ancora quella di Paola Nicoli, con l’allusione alla sua malattia durante la guerra. Dopo il terzo mottetto si entra nel segno di Clizia: troviamo Addii, fischi nel buio, cenni, tosse, e questa volta la finestra si trasforma negli «sportelli abbassati» del treno, che si porta via l’immagine della donna. Essa riappare, però, in inquadratura fissa, nel mottetto seguente, La speranza di pure rivederti, dove lo «schermo d’immagini» che il poeta interroga, come un vuoto lasciato da Clizia, può far apparire un suo «barbaglio», rappresentato dall’improvviso ritorno alla memoria dei due «sciacalli al guinzaglio». Ancora uno sguardo dal «riquadro» della finestra in Ti libero la fronte dai ghiaccioli caratterizza la visione dell’ombra angelica che è apparsa al poeta, questa volta davvero come effetto di un demone meridiano. Ritorna poi l’inquadratura con «i tuoi rari / gesti e il viso che aggiorna al davanzale» in Punta del Mesco. Ancora in Nuove Stanze lo sguardo parte dall’interno («s’apre la finestra»), e Clizia esercita il «lampo» del suo sguardo, i suoi «occhi d’acciaio» a vincere lo «specchio ustorio / che acceca le pedine». In Notizie dall’Amiata è invece solo il poeta in un interno, una «stanza» dalle «travature tarlate» e concentra il suo sguardo, «a tarda sera», in una sorta di esercizio evocativo, in cui gli oggetti elencati e contemplati «sono il quadro» dove tra poco Clizia irromperà, come da un’icona che schiuda il suo fondo luminoso. La situazione non è molto diversa nei componimenti seguenti, E tu seguissi le fragili architetture, Questa rissa cristiana che non ha. La presenza (sorprendentemente frequente, comunque) di inquadrature precise, delimitate, fisse, non è che un esempio, tecnicamente significativo, del modo in cui i materiali poetici vengono catturati, disposti, fatti reagire. Gli oggetti che Montale cattura nella sua memoria o nella realtà che lo circonda vengono composti e fatti reagire dal suo gesto poetico, astraendoli da contesti e sensi letterali e comuni per immetterli in fondali e contesti totalmente ricreati, ad arte, per la destinazione di un altro senso. Montale agisce come, molto più avanti, Barthes dirà dell’attività strutturalista:53 prende questi simulacri

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della realtà, li scompone per poi ricomporli, ma, quando ricomposti, essi non sono più gli stessi, bensì dei simulacri orientati. Qui certo occorre alla mente anche l’ormai consueta definizione eliotiana di «correlativo oggettivo», consueta anche perché richiamata da Montale stesso a proposito della sua poesia «nuova», quella appunto delle Occasioni.54 Ebbene, Montale si sbagliava su quella teoria eliotiana, apparsa in un articolo del 1919, poi raccolto in The sacred wood (1920), prima silloge degli scritti teorici di Eliot. Ma certo il nostro poeta fa torto a se stesso nel ridurre a quella teoria eliotiana il suo procedere tecnico nelle Occasioni. Montale, in realtà, fa molto di più che non cercare il correlativo oggettivo. Sentiamo Eliot: L’unico modo per esprimere un’emozione in forma d’arte consiste nel trovare un correlativo oggettivo: in altre parole, una serie d’oggetti, una situazione, una catena di eventi che costituiranno la formula di quella particolare emozione, cosicché, quando siano dati i fatti esterni, che devono concludersi in un’esperienza sensibile, l’emozione ne risulti immediatamente evocata.

Ciò che Eliot descrive è il procedere generale di ogni forma artistica, poesia o pittura che sia: riuscire a identificare la serie o catena di eventi e di oggetti nei quali si sintetizza al meglio un’emozione rappresenta lo scopo e il procedimento di ogni poeta, da Dante a Montale incluso, naturalmente. Che Montale si riconoscesse in questo operare poetico è giusto e importante, ma certo non è tutto qui: il discorso eliotiano riguarda l’arte in generale, e caratterizzarne quella di Montale significa banalizzarla e ridurla.55 Ciò che accade nelle Occasioni è invece l’evidenziazione formale del procedimento tipico dell’arte astratta, di ogni tipo di avanguardia. Certo Montale stesso ricuserebbe la definizione di poeta d’avanguardia, eppure i suoi risultati sono lì, sotto gli occhi di tutti. Sicuramente cosciente e incontestabile da Montale stesso è l’uso astratto della storia, a cui si accennava prima, nel caso dei due paesi della Vallarsa e degli «sciacalli». I primi appartengono al quarto dei Mottetti, Lontano, ero con te quando tuo padre, gli altri al sesto, La speranza di pure rivederti. Uno scritto montaliano del 16 febbraio 1950, uscito sul “Corriere della Sera”,56 ridicolizza le interpretazioni di alcuni critici, che hanno scambiato i due paesi della Vallarsa, in cui Montale aveva combattuto, per due personaggi misteriosi e si sono posti assurde domande sui due sciacalli di Modena. Potrà sembrare strano, ma questi ultimi sono oggetto tuttora di dotte indagini storico-geografiche,57 in cui si ricostruisce il

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dato autentico: i due «sciacalli» non sono il frutto dell’immaginazione poetica di Montale, secondo Roncaglia, perché tutti i modenesi potevano vederli, in quegli anni, sotto i portici del Collegio in via Emilia: «Appartenevano al preside Fabbri, il quale prima che a Modena aveva prestato servizio in colonia». Il suo «servo gallonato» non era altro che l’anziano bidello di un istituto tecnico che, in divisa d’ordinanza, usava portare a spasso i due «sciacalli» con aria annoiata. Spiega Montale: «Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine?» Così funziona l’arte di Montale, e qui certo hanno ragione sia Roncaglia che Montale stesso. Ma si può dire di più: così funziona anche nei confronti della figura femminile, che svolge al massimo livello poetico il suo ruolo di “occasione”. Se in questo secondo libro una più chiara coscienza degli strumenti porta l’autore a lavorare, diciamo così, sui dati del reale con perizia e originalità professionali, tra quei dati si allineano tutti i referenti, animati o inanimati che siano: nessuna “cosa” o “persona” vale più in quanto tale, ma in quanto astratta dal contingente e trasposta a significare la propria essenza, la propria capacità di significare ciò che rappresenta in assoluto. Le forme del mondo circostante sono dominate perché divengono strumento di lavoro, parte di una sorta di collezionismo poetico, in cui finiscono per essere raccolte anche le immagini femminili. Emblematiche certo più di tutte le «tre donne di Bobi», Gerti, Liuba e Dora Markus, pura occasione visiva, rapida e limitata nella vista, che si trasforma invece immediatamente in visione. Un rapido sguardo al passaggio di queste muse basterà qui per richiamare l’intero procedimento, già esaminato altrove.58 Le figure storiche, referenziali, passano veramente davanti agli occhi del poeta in modo rapido e puramente emblematico. Gerti Tolazzi, conosciuta nell’ambiente di Bobi Bazlen, era una signora di Graz, che aveva il marito soldato (accenno alle caserme nel Carnevale di Gerti). In una lettera ad Angelo Barile (6 luglio 1932) Montale racconta di un capodanno trascorso con lei e

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altri amici, in cui si celebra il rito nordico del piombo fuso gettato nell’acqua per trarre auspici sul destino di ciascuno. Gerti aleggia poi, trasformata in Dora, nella seconda parte di Dora Markus, e compare in Dall’altra sponda, nel Quaderno di quattro anni. Liuba Blumenthal, grande amica di Bobi, ha lasciato un’unica traccia nella poesia montaliana, ma fortemente significativa dell’emergenza di quegli anni.59 Ancor meno «presente e viva» è Dora Markus, la donna slava di cui Bobi manda all’amico una fotografia tagliata, che conserva l’immagine delle sole gambe, con l’invito: «Falle una poesia» (25 settembre 1928). Montale non ha mai conosciuto quella donna, e la poesia che compone si ispira a lei solo nella prima parte: è storia ormai notissima. Ciò che preme qui sottolineare è il procedimento poetico di Montale: Gerti con il suo rito magico, Liuba che lascia l’Italia in preda alle leggi razziali, Dora Markus emblema di tutte, ebrea come le altre, cifra di un modo assolutamente nuovo e significativo di scrivere, che produce figure poetiche profondamente contestualizzate in un momento feroce della storia, ma astraendole dalla contingenza e dal vissuto personale: Montale le crea, in questo modo, come segni misteriosi di una realtà più vera di quella che appartiene a ciascuna di loro, una realtà di cui il poeta entra a far parte. Ma altrettanto esemplare è il procedimento montaliano nei confronti dell’immagine di Irma Brandeis, Clizia. Il poeta la conobbe nel ’33, quando la giovane americana, studiosa di letteratura italiana, lo andò a trovare al Vieusseux. A Clizia sono dedicati la maggior parte dei Mottetti, molte fra le grandi liriche conclusive delle Occasioni, la maggior parte delle poesie della Bufera, e un buon numero di componimenti successivi.60 Montale incontrò Clizia ben poche volte, nel ’39 rinunciò definitivamente alla fantasia di raggiungerla in America e andò a vivere con Drusilla Tanzi, la Mosca. Nei Due sciacalli al guinzaglio, già citati, il poeta racconta che le poesie del suo «romanzetto autobiografico nascevano di giorno in giorno: Clizia non ne sapeva nulla e forse non le lesse che molti anni dopo; ma talvolta le notizie di lei che giungevano a Mirco fornivano lo spunto di qualche mottetto; e così nuovi epigrammi nascevano e scoccavano come frecce, al di là dei mari, senza che l’interessata ne offrisse, neppure involontariamente, il pretesto». Ciò significa che anche il fantasma femminile più forte, più presente in Montale, produce i suoi effetti

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poetici a partire dal momento in cui è definitivamente assente. Anche Clizia diviene figura poetica in absentia e la sua mancanza fa scaturire quell’infinità del desiderio e della visione, che mette in moto la poesia montaliana. Per l’evocazione, poi, vera e propria convocazione magica al cospetto del poeta, bastano pochi oggetti (occasioni), capaci di accendere un contatto con lei: oggetti privi di significato per gli altri, segni di complicità e parti di un idioletto su cui talora il poeta si diverte, perché gli serve per depistare i critici, e poi riderne compiaciuto. Le donne di Montale sono muse. I loro nomi, una volta svelati, insieme alle loro epifanie storico-biografiche, non contribuiscono a conoscere nulla di più delle poesie che hanno ispirato. Queste muse sono il prodotto di un’arte poetica totalmente astratta, i loro senhal non solo le rappresentano, ma le costituiscono per intero. Ciò vale anche per tutti gli altri referenti. Afferrare al volo le occasioni che passano e farle reagire tra loro, nel laboratorio poetico, non è poi così lontano dagli esperimenti d’arte dadaista: il consiglio di Tzara Per fare una poesia dadaista certo estremizzava il procedimento, ma, con tono più mite, e con apparente costituzione di senso, anche Montale spesso lavora nello stesso modo. In realtà, il senso in Montale tende spesso a una deriva verso il nonsense, motivato da un gran numero di ragioni poetiche: dall’istanza “provenzale” di proteggere e celare i propri referenti alla ritualità magico-evocativa degli oggetti, in un idioletto capace di realizzare in modo del tutto originale alcuni punti-chiave del primo simbolismo francese; dallo stilnovismo parodiato in palinsesto,61 fino a tutti gli inapparenti manierismi, utilizzati con buona miscela di serietà e di ironia, la cui resa più sofisticata può essere rappresentata dall’Elegia di Pico Farnese.62 Nelle Occasioni, insomma, tecnica e cultura, frutto di un apprendistato laborioso e interlocutorio, si mescolano alla ricerca di un linguaggio professionalmente poetico. Un’importante chiave di lettura riguardo a questa scelta linguistica può essere fornita proprio da quella particolare attitudine al gioco dello sguardo, che è stata fin qui esaminata. L’astrazione è il procedimento che lo caratterizza; la raccolta di oggetti, nomi «poco usati», contrariamente a quanto dichiarato nei Limoni, materiali, insomma, che costituiscono una sorta di «pack»63 riconnotato, ha una sua casualità d’incidenza, che potenzia tecnicamente e semanticamente il senso dell’“occasione”. Il poeta ritaglia ciò che

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si presenta nel campo visivo di uno sguardo immobile e lo ricompone, costruendo uno sfondo, che è l’unico elemento a possedere, o a desiderare, una produzione di senso. Su questo sfondo, che è spesso il vuoto, il nulla, la notte ormai sostituita al giorno, perché più suscettibile di lampi e bagliori da scrutare, si proietta e si forma l’unica possibile ipotesi, anche in negativo, sul significato di tutti quegli oggetti della realtà. L’esito, ottenuto mediante un procedimento compositivo totalmente astratto, è quello di una sensazione di perdita della fisicità dagli Ossi alle Occasioni, nonostante l’addensarsi degli oggetti. Grazie a questo procedimento così particolare Montale ha saputo riassumere i risultati più maturi di tutte le avanguardie, con quel fare ludico e bonario che spiazza il lettore senza colpirlo in modo apertamente provocatorio. Questa tecnica montaliana, non si sa se a dispetto o con la complicità di Montale, ha finito per proporsi come imitabile all’infinito (del resto il problema dell’imitabilità coinvolge anche l’astrattismo pittorico). L’occasione visiva come gioco poetico è molto diffusa oggi tra gli eredi di Montale, ed è comunque un segno di vitalità, sia per Montale che per la poesia in generale. In realtà, in un clima culturale di grande ripresa dell’interesse verso la poesia lirica, si assiste al curioso fenomeno editoriale per cui la poesia lirica è diventata una pratica letteraria che moltissimi esercitano, pochi leggono, pochissimi acquistano. Gli editori tendono a non pubblicarne più, a meno che non si tratti di testi classici. La poesia, uscita dal libro con le avanguardie e le neo avanguardie, non è più in grado di rientrarvi, e tende a visualizzarsi in forme più dinamiche, in eventi teatrali, in metamorfosi mass-mediologiche e mass-medianiche. Se si tratti della morte della poesia, o solamente di una sua metamorfosi post-moderna, è ancora presto per dirlo. Certamente, nel recupero dell’evento come scambio diretto di messaggi poetici fra autore e lettore-spettatore, si materializza e si visualizza nella fruizione proprio quest’ultimo, simultaneamente allo scrittore, e in questa visibilità reciproca e quasi primordiale, che la poesia mette in scena, si celebra ulteriormente l’incremento e il trionfo dell’occhio.

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La poesia visiva Esiste, oggi più che mai, un territorio della scrittura in cui la parola convive con l’immagine: è una scrittura che viene definita «verbo-visiva»,64 perché riguarda forme di comunicazione verbale che cercano in qualche modo di “farsi vedere” (nel senso grafico e pittorico del termine) e forme di comunicazione visiva che cercano di “farsi leggere” (nel senso letterario del termine). Questo territorio, per la verità assai fluido, riguarda la cosiddetta poesia visiva, cioè una poesia non lineare, non articolata secondo le normali regole della scrittura, che si è sviluppata particolarmente dalla metà del Novecento in tutto il mondo e che guarda al Futurismo e in genere alle avanguardie del secolo come ai suoi modelli privilegiati, senza dimenticare l’antesignano Jarry e la sua Patafisica. A partire dagli anni sessanta, le definizioni di questo tipo di scrittura si sono moltiplicate: poesia concreta, poesia visuale, poesia visiva, poesia totale, scrittura simbiotica, nuova scrittura, ecc... «È una lunga storia, ormai, quella che sta alle spalle di questa ‘scrittura’, storia in cui si vedono a tratti prevalere tipi di lettura critica che tendono a rifarsi alle originarie matrici letterarie, o viceversa, a integrare il discorso in quello più generale delle arti visive. Il fatto è, appunto, che per molti operatori del settore esiste veramente una matrice letteraria, mentre per altri (e non è una questione né di quantità né di qualità!) il percorso verso questa ‘scrittura’ parte e si sviluppa all’interno della pittura. Ma in entrambi i casi, quando il risultato, per così dire, è raggiunto, si tratta sempre di una ‘scrittura’ nuova, nel senso che la forma di comunicazione estetica gode di una sua precisa autonomia, sia nei confronti della poesia, sia nei confronti della pittura».65 Certamente il dilagare dei mass-media ha favorito in modo massiccio lo sviluppo di queste tendenze, ma non si deve dimenticare che esse si sono manifestate anche in tempi antichi, in forme estremamente raffinate quali i technopaegnia, i carmina figurata,66 i calligrammi e le poesie “in forma di”.67 Dai primi technopaegnia di Simmia di Rodi (secoli IV-III a.C.), a Dosiada di Creta, a Teocrito e altri alessandrini, che idearono componimenti in forma di altare e di zampogna, si arriva ai poeti cristiani, come Porfirio Ottanziano (secolo IV), Venanzio Fortunato (secolo VI), Rabano Mauro (secolo IX), in cui l’aspetto grafico e geometrico è molto accentuato.68 La parola poetica in questo caso cerca nella forma la pie-

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na adesione al significato religioso dell’opera: abbondano in questi poeti i serpentini, gli acrostici, i carmina figurata. Particolarmente elaborate, in quest’ultimo caso, le figurazioni visive di Rabano Mauro, con immagini plurime (animali, angeli, ecc.) e scritture ludiche (palindromi, anagrammi, ecc.) inseriti su una pagina già occupata da una composizione scritta. In realtà, nel corso dei secoli, sono molti gli autori che si sono cimentati con queste forme espressive: una tipologia molto frequentata è quella dei labirinti di scrittura, in cui troviamo esempi autorevoli come i disegni di Leonhard Wagner, monaco umanista di Augusta (1454-1552), Johann Neudorffer il Vecchio, di Norimberga, (1497-1563) maestro di calligrafia; Urban Wyss, poeta svizzero morto nel 1561; Johann Georg Lipp erudito di Luneburg (interessante e singolare un Discorso labirintico in lode della stampa, 1654); Johann Caspar Hiltensperger, poeta di Zurigo (1710-1754) ecc.69 Nel 1532 Francois Rabelais compose vari calligrammi, tra cui uno in forma di bottiglia, contenente un elogio al vino, che dovevano far parte del Gargantua et Pantagruel e che suscitarono polemiche e perplessità. Dal secolo XV al XVII sono abbondanti gli esempi di “sperimentazione” anche della scrittura manuale sovrapposta alla pagina. Nel 1653 il Tiranti compone un testo in forma grafica di labirinto: anche il testo verbale presenta notevole interesse metalinguistico: «Signori miei scolari, studiosi del nobile carattere italiano, io ripresento in questo cuore labirintato un simbolo del mio, avvolto et girato ne’ travagli dello scrivere per vostro servitio. Gli accidenti co’ quali tenta la fortuna sviarmi da questi studi mi rendono quanto più posso accurato in procurare di ch’abbiate voi a fuggire e schivare gli errori nello scrivere e vi porgo nelle mie linee intrecciate e concatenate di molti groppi artificiosi, ornamenti, finimenti fregi delle pagine scritte, non già un geroglifico del nodo gordiano, con lo scioglimento del quale prometteva l’oracolo allo scioglitore il sommo imperio, perché voi come Alessandro il Macedone l’habbiate da sciogliere disfacendolo col taglio della spada, ma con affilato temperino adattarvi la penna [...] possiate anco per mezzo della cancelleresca scrittura pervenire ad honori grandi come a molti accaduto che cancellarono con la sola virtù della penna la memoria delle passate bassezze. Non vi spaventi il titolo di laberinto, perché con affetto no inferiore a quello d’Ariana verso Teseo vi porge nelle righe de’ miei versi il filo [...] perché come lui del minotauro di tutte le difficultà possiate uscirne con vo-

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stra gloria e contento».70 Non va dimenticato poi, come ha ripetutamente dimostrato Pozzi, che nell’ambito di un’iconicità affidata al solo significato alcuni autori, come Marino, hanno disegnato nella scrittura dei veri e propri capolavori, facendo uso anche di iconismi occulti, ossia di figure che s’inscrivono nel testo letterario, le cui forme non sempre sono riconoscibili in un tratto continuo: il massimo teorico di questa presenza iconica nella letteratura è, nel Seicento, il Gaffarell, con le sue Curiosités inouyes, pubblicate ad Amburgo nel 1676. In tempi più recenti, tra i più popolari frequentatori occasionali di calligrammi troviamo Lewis Carroll (in Alice, nel 1875, compare una Coda di sorcio), mentre Guido Gozzano ed Edmondo De Amicis se ne dilettano soprattutto negli epistolari: il primo, con l’amico Carlo Vallini, il secondo, con Emilia Peruzzi. A ridare importanza e, soprattutto, carattere teorico e sistematico a questo tipo di poesia è certamente, dopo alcune notevoli prove di Mallarmé, Apollinaire con i suoi Calligrammes del 1918 (è curioso notare che anche il giovane Ungaretti, in francese, si cimenta con questo tipo di poesia, nella raccolta Derniers Jours). Ma, prima ancora, decisiva è la funzione svolta da Marinetti e dal Futurismo. Si può dire che le varie avanguardie e gli sperimentalismi sorti negli anni cinquanta e sessanta del Novecento si rifanno coscientemente, anche se con motivazioni culturali e ideologiche diverse, alla rivoluzione tipografica futurista e alle invenzioni di Apollinaire. I vari Kolàr (autore del Manifesto della poesia evidente), Dohl, Bremer, Cobbing escono più o meno direttamente da quei modelli, che vanno da Zang Tumb Tumb di Marinetti alle figurazioni di Govoni, a quelle degli altri futuristi come Paolo Buzzi: molti di quei poeti non riuscirono a far stampare come libri le loro raccolte, perché si presentavano come oggetti così difficili e costosi da riprodurre che sarebbero stati più naturalmente destinati a essere messi in mostra. Le opere di Marinetti sono spesso declamatorie, ma il montaggio delle parole e la rivoluzione tipografica tentano addirittura di imitare il cinema come realtà in movimento davanti agli occhi di un lettore-spettatore. Non manca, poi, una poesia “concreta”, incisa su latta o su fibre autarchiche derivate dalle proteine del latte, che stimolano vista e tatto contemporaneamente, come i libri di Marinetti e di Bruno Munari. 71 Anche Paolo Buzzi, dopo aver esordito nel Futurismo con Areoplani (1909) pubblica, fra l’altro, L’ellisse e la spirale (film + parole in li-

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bertà), una sorta di “romanzo” fantascientifico scandito a metraggio, come una pellicola cinematografica, con finale di parole in libertà e libera tipografia, disegni analogici e cifre magiche di allusione esoterica. Corrado Govoni, nelle sue Rarefazioni e parole in libertà usa una grafia infantile e il disegno naïf, ironicamente destinati a costruire ritratti astratti, liriche visive di grande effetto, come quella del Palombaro o quella del Mare, tutta costruita con la lettera “m” a varie dimensioni. Ardengo Soffici, cubofuturista di “Lacerba”, in Bif & Zf + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici (1915), propone poesie visive molto simili a calligrammi. La poesia visiva riceve dal Futurismo un impulso e un incremento decisivo. Va detto che nei primi anni del Novecento molti esperimenti si conducono in genere sulla poesia, oltre che sull’arte, portando entrambe queste forme verso l’astrazione. Se si considera, ad esempio, il poeta tedesco Christian Morgenstern, si possono trovare testi poetici interamente di tipo grafico (con esclusione della parola) già nel 1905. In anni futuristi, ma al di fuori del Futurismo e più vicino al Dadaismo e al Surrealismo, si collocano altri esperimenti in cui il grafismo sembra un codice da decodificare o da programmare: è il caso di Man Ray, che negli anni venti compone anche poesia visiva, a volte presentata come semplice traccia di parole cancellate. Un interessante punto d’incontro fra poesia, fotografia e pittura è costituito anche da alcuni dei suoi Rayographs, fotografie, sempre degli anni venti, senza macchina fotografica, ottenute nella camera oscura con una speciale tecnica di esposizione alla luce che produce diverse tonalità di bianco: la solarizzazione (non a caso lo pseudonimo Man Ray significa “uomo-raggio”). L’abolizione di ogni confine o gerarchia fra le arti porta l’artista a sperimentare ogni mezzo possibile, nella convinzione che l’immagine riesca comunque a produrre e/o a essere significato. Altro personaggio-chiave, da questo punto di vista, è Tristan Tzara, tra i fondatori del movimento Dada. Nelle riunioni del Cabaret Voltaire i suoi interventi sono tutti indirizzati alla difesa della poesia come forza viva autonoma, che può fare a meno del veicolo della scrittura. Nel Manifeste Dada (1918) la sua teoria viene affermata a suon di paradossi: «Ognuno di noi ha commesso degli errori, ma il più grande degli errori è quello d’aver scritto poesie [...] La poesia è necessaria? Io so che coloro che gridano più forte contro di lei so-

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no quelli che senza sapere desiderano per lei e le preparano una confortevole perfezione».72 Ed ecco il consiglio: Per fare una poesia dadaista: «Prendete un giornale. / Prendete un paio di forbici. / Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia. / Ritagliate l’articolo. / Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto. / Agitate dolcemente. / Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nell’ordine con cui le estrarrete. / Copiate coscienziosamente. / La poesia vi rassomiglierà. / Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, incompresa dalla gente volgare».73 Nella collezione Dada, Tzara pubblica varie raccolte poetiche, in cui mette in opera le proprie convinzioni formali: La première aventure céleste de monsieur Antipyrine uscì nel 1916, Vingt-cinq poèmes appaiono nel 1918. Dalla metà degli anni venti, lo scrittore approda alla scrittura surrealista, lasciando esplodere una poesia “latente” attraverso il flusso violento delle immagini che si trovano nella raccolta L’homme approximatif (1930) e in Le papier collé ou le proverbe en peinture (1930). Negli anni quaranta il suo impegno surrealista sceglie la via del marxismo (mentre altri artisti, come Dalì, si schierano a destra, scagliandosi soprattutto contro la guerra e la mentalità borghese). Altra figura centrale in questo passaggio d’avanguardia della poesia, dalla scrittura all’immagine, è certamente André Breton. Importante la sua formazione neuropsichiatrica di base, che lo porta a prestare servizio negli ospedali psichiatrici durante la prima guerra mondiale. Determinante la lettura delle opere di Freud e l’incontro con Apollinaire. Nel 1919 fonda, con Aragon e Soupault, la rivista “Littérature” e inizia esperimenti di scrittura automatica con Les champs magnétiques (1920). L’amicizia con Tzara e i dadaisti, poi con Eluard, Picabia ed Ernst lo porta alla costituzione di una Centrale di Ricerche Surrealiste (1924) e alla pubblicazione dei Manifesti del movimento. Le sue opere creative sembrano prese di posizione contro la letteratura, più che opere vere e proprie di letteratura. L’immaculée conception, scritto con Eluard nel 1930, rappresenta un esperimento di simulazione delle patologie del linguaggio. Ma anche Les vases communiquants, del 1932, L’amour fou, del 1937, e l’Anthologie de l’amour noir, dello stesso anno, contribuiscono a formare una sorta di mito dell’avanguardia come mo-

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to insurrezionale della poesia contro la parola precostituita. L’antologia che Breton stesso ricava nel 1948 dalle sue poesie, Poèmes, traccia in modo lampante l’evoluzione teorica e creativa di questo autore dal Simbolismo al Cubismo, a Dada, al Surrealismo.74 Ma è importante, per cogliere questo tracciato fra arte e poesia, un volumetto rimasto pressoché dimenticato, L’art magique, del 1951,75 che riprende un po’ il discorso iniziato negli anni trenta sulla rivista “Minotaure”: l’arte e la poesia sfuggono alla mimesis naturalistica per rifugiarsi nel simbolico, nel nascosto, nel magico: non a caso, i modelli di Breton sono Füssli, Blake, Moreau, Arcimboldo. Non va dimenticato, d’altra parte, il contributo di tutte le poetiche ed estetiche astrattiste allo sviluppo di una concezione della poesia e del linguaggio come forme distaccate da ogni funzione referenziale: si evolvono in tal senso tutti i movimenti per l’arte e la poesia “concreta”:76 quest’ultima nasce in Brasile con il gruppo di Noigandres, nel ’51 e, più o meno negli stessi anni, Eugen Gomringer lavora alle sue “costellazioni” tra Svizzera e Germania, mentre già nel 1946 in Francia Isidore Isou ha cominciato a parlare di “lettrismo” e di “lettrie”.77 Rimangono queste avanguardie il modello determinante delle neoavanguardie, dal Gruppo 63 fino al Gruppo 70, che si forma a Firenze nel 1973 proclamando la nascita della Poesia visiva. Probabilmente è ancora questo il punto di riferimento del recente Gruppo 93, rifondato da Sanguineti e compagni nel trentennale della costituzione dell’altro. Negli anni in cui in Italia la neoavanguardia si riunisce attorno al Gruppo 63, in Francia si impone l’école du regard, con la teorizzazione dello sguardo distaccato e anonimo come strumento espressivo capace di annullare ogni distanza tra il sé e l’altro da sé. Calvino definisce quell’atteggiamento e quel clima culturale come una «resa incondizionata all’oggettività», avvertendo anche dei pericoli insiti in quell’«annegare nel magma»: «Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando e siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso nel mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste».78 Del resto, il rischio di annegare e soffocare in quel magma nasce, come avverte Zanzotto, non tanto dall’oggetto in sé, quanto dall’«immagine» che l’uomo se ne fa.79 Sempre in Francia, nel 1961, si forma l’ OU . LI . PO (Ouvroir de Littérature

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Potentielle), una sorta di Commissione del Collegio di Patafisica, la “scienza” fondata da Jarry (1873-1907), come ricerca che andasse oltre il simbolismo nella produzione di letteratura non referenziale. Raymond Queneau, nell’ambito della Patafisica, compone Centomila miliardi di poesie (1961), diventato poi un programma per calcolatore elettronico ma elaborato dall’autore senza l’ausilio delle macchine: costruiti come dei millefoglie, i testi presentano dieci sonetti dalle rime identiche, sovrapposti e tagliati a strisce in modo tale che ogni verso di ogni poesia possa combinarsi, per il senso e per la rima, con tutti gli altri, generando una serie infinita di sonetti. Il patafisico inglese Stanley Chapman segue lo stesso principio nel suo Undicimila verbi, cento virgole, omaggio a Guillaume Apollinaire, il cui nome è iscritto in acrostico nelle rime (si tratta anche di una parodia del famoso romanzo erotico Les Onze mille Verges, pubblicato da Apollinaire nel 1907, che a sua volta parodiava, nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine, la Storia di sant’Orsola e delle undicimila Vergini). Del resto, anche a Milano, Beniamino Dal Fabbro fonda il Collegio Patafisico Milanese e pubblica Taoin, in cui parla di lettere che rotolano, si capovolgono, arrancano, appoggiandosi a gambette, zampini, riccioli, codini e ghirigori. Il dibattito sulla nuova poesia, negli anni sessanta, circola sulle riviste letterarie, come “Il menabò” (fondato nel ’59), “Il corpo”, “Che fare”, “Rendiconti”, “Quindici” ecc., e su quelle di stampo più ideologico: “Quaderni rossi”, “Quaderni piacentini”, “Nuovo Impegno”, parallelamente alle francesi “Critique”, “Tel Quel” ecc. Le inchieste sulla poesia, in quegli anni, escono su numeri unici di “Ulisse” (settembre 1960), “aut aut” (gennaio-marzo 1961), “Nuovi Argomenti” (ottobre 1960 e marzo 1962), su inserti del “Verri” (gennaio 1961). In questo dibattito circola in modo prevalente la nozione di “segno”, che si delinea come tema dominante anche in molte altre discipline, prima fra tutte la glottologia, che si concentra sempre più decisamente sulle ricerche semiologiche e strutturaliste. Il Gruppo 63 raccoglie tutte le istanze teoriche e creative della neoavanguardia, promuovendo incontri pubblici, dibattiti, performances.80 La grande ricerca linguistica che si sviluppa in seno allo sperimentalismo poetico, e letterario in genere, parte dalla Francia e vede in Roland Barthes il suo più lucido studioso. Ha radici nel for-

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malismo russo,81 nei circoli strutturalisti di Mosca e di Praga, nella linguistica di De Saussure e va in cerca, invano, del «grado zero della scrittura»82 (invano perché nessuna parola può vivere fuori dalla scrittura). I rischi sono quelli di trasformare la poesia stessa in una sorta di “critica applicata”: «Un’autoreferenzialità a tutto tondo ma non protettiva, miope, da tavolino. Perché intanto, per merito di quel gran discutere, la Poesia, quella in veste maiuscola, non esisteva già più: “merde pour ce mot”, sarebbero pronti a sottoscrivere, con Ponge, i Novissimi».83 In ogni caso, riflettendo proprio sulla “crisi della rappresentazione”, che si presenta al soggetto in quegli anni, è certo che «non esiste mai, in poesia, piana, discorsiva dicibilità di sé e del mondo: ma quando, per le ragioni più varie, si accentua il solco tra parola e cosa, tutto ovviamente si complica. Le difficoltà colpiscono allora sia chi tenta il ricorso alla parodia sia chi esibisce un’identità lacerata senza trovare, a corrisponderle, una parola efficacemente spoglia: né si sottrae al problema, d’altro canto, chi si illude di stabilire un rapporto vitale con l’oggetto limitandosi a riprodurre piattamente l’immagine».84 Questa crisi nel rapporto fra le parole e le cose sembra avere come conseguenza primaria una perdita d’immagine della poesia, a vantaggio del suono e dell’oralità in genere. È un processo che arriva al suo culmine alla fine degli anni sessanta e prosegue ancora decisamente per tutto il decennio seguente: il ritorno della foné esprime un nuovo desiderio di comunicare, optando spesso per il parlato, il gergo, il dialetto e arrivando alla negazione dello specifico letterario, sotto il peso della “verifica storica” incalzante. Non si tratta semplicemente di declamare la poesia, verbalizzando la scrittura, ma di trovare l’oralità connaturata alla formazione del verso e di eseguire la rappresentazione del testo di fronte ad ascoltatori: sono gli anni della poesia sonora, dei libri-partitura di Spatola, delle performances sceniche di Patrizia Vicinelli, che esprimono una tendenza che si diffonde un po’ ovunque.85 Ma Ong86 mette giustamente in luce le potenzialità visive di questo tipo di spettacolarizzazione e non è difficile risalire allo sguardo, anche solo tipografico, che regna in tutti i testi di quegli anni di oralità: basta pensare al Laborintus di Sanguineti, ricco di «riferimenti intenzionali a talune situazioni tecnico-espressive di altre arti, della musica [...] non meno che della pittura».87 Ma vale allo stesso modo l’esempio di Pagliarani, che in tutte le sue raccolte, e particolarmente in Rosso corpo lingua – oro pope/papa scienza

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(1977), si serve di immagini visive (colori, forme geometriche ecc.) per la sua ricerca verbale, sonora. Sempre in questi anni di sperimentazione, possiamo trovare esempi di avanguardia visiva anche in autori che non fanno capo a movimenti o gruppi, come Cesare Zavattini che, dopo aver inserito una lingua immaginaria in un racconto del ’41 (Al caffé), nel 1970 pubblica a Milano un Non libro, in cui sperimenta un metodo di scrittura che tende a diminuire progressivamente la grandezza delle parole, con l’avvertenza: «continuare in diminuendo fino a far perdere alle parole ogni leggibilità e a trasformarle in verminis». Non va dimenticato, comunque, che proprio in quegli anni di esplosione dell’oralità nasce, a Firenze, la poesia visiva. Negli anni del boom economico Firenze e la Toscana sono un po’ emarginate rispetto alle proposte della neoavanguardia. Il Gruppo 70 rappresenta una vera e propria eccezione.88 Uscito dal dibattito culturale animato dalla rivista “Quartiere”, fondata nel 1958 da Giuseppe Zagarrio, Gino Gerola, Sergio Salvi, Lamberto Pignotti, il Gruppo rappresenta una sorta di evoluzione del sottogruppo Protocolli, formatosi all’interno di “Quartiere” su posizioni di avanguardia linguistico-tecnologica. Protocolli s’inserì nella rivista “Letteratura” di Bonsanti:89 Per il gruppo di Pignotti, Salvi, Miccini il discorso poetico deve proporsi come «inesauribile progettazione di schemi culturali, di ipotesi operative», facendo in modo che la comunicazione e il messaggio, impliciti al testo, siano diretti alla propria verifica profonda nelle strutture tecnologiche del neocapitalismo. La poesia visiva è un esito necessario di questa verifica. Il dibattito all’interno del gruppo di Protocolli è molto acceso, al punto che nel primo numero di “Letteratura” del 1964 compaiono due inserti separati: il Dopotutto, di Pignotti e Miccini, e l’Oggidì, di Salvi e Silvio Ramat, che rispecchiano due linee di tendenza, la prima più ideologica, la seconda più formale. Nel maggio 1973 il gruppo di Protocolli, ormai diviso in due, organizza un convegno sul problema della comunicazione nella società tecnologica avanzata e su quello dei rapporti fra le discipline scientifiche (semiologia, cibernetica, informatica) e la sperimentazione poetico-artistica. In seno al Convegno nasce appunto il Gruppo 70. Gli autori di questo Gruppo utilizzano materiali occasionali, preesistenti, in una sorta di recupero funzionale: immagini tratte dai giornali, fotografie, adesivi, scritte pubblicitarie ecc. Anche qui, i poeti visivi devono qualcosa alle ricerche di Braque e di Picasso,

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soprattutto per l’uso della tecnica del collage, che funziona, tuttavia, più come messaggio poetico che pittorico. L’accostamento tra immagine e parola è in rapporto di stretta complementarità e necessità. Lamberto Pignotti è tra i più autorevoli rappresentanti del Gruppo. I suoi collages utilizzano anche immagini fotografiche, riproduzioni di opere d’arte del passato, rielaborazioni e sovrapposizioni di elementi pittorici nuovi su materiali preesistenti, scritte composte da ritagli di giornali ecc.90 Tutto il discorso poetico di Pignotti è sorretto da una teorizzazione che appare anche attraverso le opere creative: esemplare, da questo punto di vista, la composizione intitolata Il signor X, del 1964, in cui le immagini in collage presentano un uomo che si osserva allo specchio, accarezzandosi il viso, compiaciuto delle virtù del suo dopobarba; un altro, distinto e di classe, indossa un vestito firmato, un altro ancora legge il giornale, un altro appare in pigiama nella domestica quotidianità, con abiti e scarpe disposti in ordine perfetto. Ma il significato di tutte queste immagini è affidato al collage di frasi stampate che appare al centro in catena linguistica: «IL SIGNOR X – attacca l’avanguardia – L’UOMO CHE DICE SEMPRE SÌ – ha detto no – NON VUOLE – Si cammina sul filo – GUERRA! – Mobilitazione generale». Sono soluzioni a cui arrivano anche alcuni autori del Gruppo 63: Nanni Balestrini combina, per esempio, vari ritagli di giornali. L’accostamento non crea frasi di senso compiuto e mira a un possibile itinerario babelico, in cui si intersecano, inseguendosi, slogans pubblicitari, linguaggi settoriali, alterazioni tipografiche capaci di stimolare sia attraverso la grafica che la parola. Altre composizioni di Balestrini, che prosegue su questa via sperimentale della poesia visiva, si propongono sia come poesie che come sculture da comporre, con tanto di istruzioni per l’uso: è il caso di Icaro, poesia-scultura da costruire (con istruzioni per il montaggio).91 Altre esperienze di poesia visiva funzionano in realtà come provocazioni: Pagina di Irma Blank (1976) e Pagina scritta di Giancarlo Pavanello (1977)92 presentano tracce illeggibili di pagine scritte, a cui la cooperazione del lettore può sostituire forme e significati di libera scelta. Così anche Vincenzo Accame, fondatore della rivista “Tool” (1965) insieme a Ugo Carrega, presenta la calligrafia come forma tecnica specifica legata alla gestualità della mano, componendo reticolati labirintici ed eleganti di grafismi parzialmente decifrabili, che si organizzano in forme geometriche stilizzate, con l’irruzione del

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senso, qua e là, a ricordare la meraviglia dell’invenzione della parola: «Ogni tanto si intravedono parole leggibili come senso, ma la prevalenza di questo segno imitatorio che rievoca la parola ma non è più la parola. Il significato abbandonato si tenta di recuperarlo attraverso il “senso estetico”, ossia la piacevolezza del segno [...] Sembrerebbe un ritorno “privato” al momento dell’invenzione della parola: Accame conosce l’alfabeto ma lo dimentica nel tentativo di restituire il primo gesto scrivente della mano».93 La stessa operazione si può riconoscere nei testi di Giuseppe Morrocchi. In Carmine Lubrano, invece, la pagina diventa una specie di spazio murale in cui tracciare graffiti, sigle, firme, citazioni letterarie (Rabelais, Proust, Rimbaud, Verlaine), frammenti di giornale, disegni naïf, cancellature, appunti d’agenda, numeri telefonici. L’effetto diaristico di quest’esplosione brulicante raccoglie gli automatismi della scrittura come in una sorta di post-surrealismo: irruzione improvvisa della memoria, frammenti onirici, curiosità intellettuali.94 Anche la macchina da scrivere può divenire oggetto e strumento di sperimentazione visiva: si veda, ad esempio, Campo letterario (1958) di Carlfriedrich Claus in cui la scrittura, afasica, intralciata e nevrotica, sembra impedita nel tracciare (e pronunciare) una parola che esiste solo virtualmente, nella mente dell’autore. Così la macchina riesce a tracciare soltanto vocali, le prime vocali dell’infante che apprende per via orale ma è bloccato da un flusso impronunciabile di parole.95 Per Mary Ellen Solt, la pagina diviene specchio di suoni e immagini, come in Zig Zag, con la lettera z che traccia percorsi simultanei all’occhio e all’orecchio. Nello stesso modo procede Toshihiko Shimizu con le Sei meditazioni del 1969. Talora, i poeti visivi non rifiutano la parola, ma ne ampliano le possibilità inventive attraverso materiali preconfezionati: trasferibili, segni grafici vari, lettere alfabetiche ecc. Interessante, da questo punto di vista, Eraclito di Rosanna Ansani,96 di cui Anceschi sottolinea che «non si tratta di riscrittura, tanto meno di collages, o di un esercizio di ritagli guidati [...] C’è un aspetto della poesia che si fa sulla poesia [...] Rosanna Ansani nel suo Eraclito vive la poesia come proliferazione infinita di possibili [...] come grande Bugia e come teatro nello sfruttamento di ogni possibilità di suono e di senso [...] in un continuo servirsi dei testi di tutte le arti come frammenti e macerie continuamente recuperati e risignificati».97 Su questa linea, Adriano Spatola, oltre ai libri-partitura, costruisce i suoi Zeroglifici, attraverso il puzzle-poem, composizione a incastro

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elaborata con lettere e frammenti di lettere e frasi. Molto simili a questo le composizioni di Luigi Ferro e di Martino Oberto. Un altro movimento che ha svolto importanti ricerche d’avanguardia è quello statunitense di Fluxus. Le sue origini possono essere viste nelle Conferenze Simultanee di John Cage al Black Mountain College del ’52, che rimettono in discussione il rapporto tra artista, galleria e pubblico, riprendendo molti temi tipici delle serate futuriste, dadaiste e del teatro russo post-rivoluzionario. Tra gli eventi significativi vanno segnalati un’azione di Vostell, datata aprile-maggio ’68, realizzata a Norimberga col titolo Hommage à Dürer (che ricorda i Tableaux vivants di Schinkel, a Berlino, nel 1828) e un concerto Fluxus-Arte Totale, In memoria di Adriano Olivetti, di George Maciunas, con Ben Vautier, Ugo Nespolo, Pietropaoli, Gianni-Emilio Simonetti (realizzata al Teatro Stabile di Torino il 27 aprile 1967). Tra il ’58 e il ’64 il movimento si sposta continuamente fra West Coast, New York, Darmstadt, Düsseldorf, Nizza, Madrid, Milano, assumendo la molteplicità di fisionomie che lo caratterizzeranno fino alla fine degli anni sessanta. Nel ’70 si tiene al Kunstverein di Colonia una grande mostra antologica intitolata Happening & Fluxus il cui catalogo raccoglie i materiali significativi prodotti dal movimento nel periodo 1959-1970. È l’ultima manifestazione collettiva del gruppo: «Va ricordato che immagini di cortei, occupazioni, scioperi ricorrono in più opere degli anni ’60, usate per il loro carattere dirompente e contemporaneamente concepite come un dovuto tributo all’attualità. Si possono citare i casi di Michelangelo Pistoletto, Pietro Gallina, Lamberto Pignotti e Ugo Nespolo. Le certezze di Fluxus in materia si spingono “troppo” oltre l’ovvietà; sono eccessivamente convinte per essere “utili” nell’ambito artistico, molto diverse dalle prese di posizione di facciata dei poveristi tanto per citare un caso. Il Vietnam ricorre esplicitamente in alcune azioni Fluxus: Vietnam Party di Otto Mühl e Günther Brus viene presentata a Vienna nell’aprile ’67: Miss Vietnam di Vostell viene presentata a Colonia nel maggio dello stesso anno. Il rapporto tra arte e politica è stretto [...] quindi la denuncia dei crimini americani in Vietnam fa parte integrante delle attività Fluxus».98 La componente musicale, oltre a quella visiva, è particolarmente importante nelle azioni-concerto che il gruppo tiene in Italia tra il 1967 e il 1968. Tra i performers più significativi Nespolo, Simonetti, Sergio Albergoni, Gianni Sassi, Carlo Gaia (con l’aggiunta di Vautier nella tappa torinese), affiancati in qualità di

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autori da Nam June-Paik, Walter Marchetti, La Monte Young, Vostell, Maciunas, Yoko Ono, George Brecht ecc., e dai musicisti Sylvano Bussotti, Luciano Berio, Pietro Grossi, Bruno Maderna e, al Festival di Dusseldorf del ’63, Kristof Penderecki e Gyorgi Ligeti. Questo clima italiano di relazioni fra musica, arte figurativa e poesia è ben rappresentato dalla rivista “Collage”, pubblicata a Palermo dal 1963, con la collaborazione di Mario Diacono, Emilio Villa, Paolo Emilio Carapezza, Sylvano Bussotti, Klaus Konig, Franco Donatoni, Giuseppe Chiari. Alle performances collettive vanno aggiunte le opere dei singoli poeti della beat generation, che hanno una diffusione molto rapida grazie anche alla spettacolarizzazione che gli autori stessi portano in giro per il mondo: è il caso di Allen Ginsberg, che pubblica Howl nel ’56, quasi un manifesto della nuova poesia, ricco di immagini che richiedono immediata rappresentazione, poiché devono essere declamate e visualizzate, come del resto quasi tutte le sue raccolte poetiche successive, fino a Cosmopolitan Greetings: Poems 1986-1992. Lo stesso vale per l’unica raccolta poetica di un altro grande esponente della beat generation, Jack Kerouac, che in Mexico city blues (1956) sperimenta testi poetici come partiture-jazz, da proporre come eventi-spettacolo. Ma forse ancora più significativa è la proposta poetica di Lawrence Ferlinghetti. Nelle poesie di A Coney Island of the mind (1958), Starting from San Francisco (1961), Where is Vietnam? (1965), Tyrannus Nix (1969), a ritmo di jazz si snodano le visioni che richiedono con forza la messa in scena. Terminata l’esperienza Fluxus, gli anni ottanta sono anni di verifica, non solo per la poesia: Il confronto che si impone, larvatamente o con segnali precisi, con intenzionalità palese, è quello di un nuovo rapporto col senso, coll’esperienza, e con la capacità della parola di significarla, raggiungerla, evocarla fissando l’evento, le scadenze del quotidiano e le sue metamorfosi. Un richiamo alla responsabilità, all’eticità della scrittura, dopo anni in cui essa ha mirato prevalentemente al proprio costituirsi o, all’opposto, al proprio disseminarsi. E non sarà allora casuale neppure il recupero, tentato con differenti motivazioni, della forma chiusa, controllata, di una disciplina segnica che costringe il suono in una configurazione spaziale definita, né l’impulso rinnovato a comunicare o, su coordinate ancora diverse, l’attenzione ai dettagli, alle insorgenze minime del reale.99

Nello stesso tempo tutte le comunicazioni ridiventano possibili grazie al potenziamento di forme che la poesia attinge da se stessa, dalla propria storia. Non è parodia, né puro metalinguaggio, né

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riciclaggio sperimentale. È il ritorno alle fonti del linguaggio poetico, usufruendo di tutti i mezzi espressivi possibili, compresi quelli tecnologici: dai rimari, approntati sulla scorta dei trattatisti del Seicento, ma usufruendo di tutti i mezzi elettronici forniti dall’elaboratore,100 apertamente dichiarati, ad esempio, da Patrizia Valduga, alle video-poesie di Mario Sasso, artista multimediale direttamente ispirato a Man Ray per quanto riguarda gli sconfinamenti di linguaggio fra arti diverse.101 Altro esploratore di linguaggi verbo-visivi che discende da Duchamp e da Man Ray è oggi Bruce Nauman.102 L’esempio dei poeti visivi per la mostra a Goito su Sordello è particolarmente significativo: le composizioni vengono create a partire dallo stesso nome del trovatore (come nei testi di Lamberto Pignotti, Giovanna Sandri, Sarenco, Luigi Tola, Giuliano Parenti, Stelio Maria Martini, Giuseppe Chiari, Alberto Cappi, Gianluca Balocco), dalla sua presenza nel canto VI del Purgatorio dantesco (nel testo di Beatrice Pasquali), dai suoi componimenti poetici, tra i quali, a colpire maggiormente gli artisti-poeti, il frammento da Ora che l’estate si rinnova («Ailas, e que m fau miey huelh, / quar no vezon so qu’iue vuelh?»), che dà luogo alle tavole di acquerelli e carta di Roberto Pedrazzoli (La vista è il desiderio), agli smalti su masonite di Ugo Carrega (Il desiderio fa grande la cosa), alla scrittura e collage su carta di Michele Perfetti (“Incipit” per Sordello), alla tecnica mista su carta di William Xerra (Ahimé a che mi giovano i miei occhi se non vedono ciò che io desidero?) Ma, certo, altrettanto emblematici di questa tendenza al recupero delle fonti e al confronto culturale sono le raccolte di Andrea Zanzotto (Gli sguardi i fatti e senhal, 1969), di Jacqueline Risset (Amor di lontano, 1993) e di Giovanni Raboni (Versi guerrieri e amorosi, 1990), tanto per citare alcune tra le forme più intense, più cariche di antiche novità, tra i poeti che non praticano la poesia visiva. Di Zanzotto, peraltro, si registra un breve calligramma, Iodio, apparso su “Strumenti critici” (14 febbraio 1971). Se gli anni presenti sono anni di “divenire della poesia”, certamente molte esperienze viaggiano parallele nella stessa direzione di riappropriazione storico-culturale: è significativo, come evidenziatore di tutte queste esperienze, l’ultimo gruppo nato per la ricerca del linguaggio poetico e la sua diffusione: l’Archivio di Nuova Scrittura di Milano. «L’Archivio della Nuova Scrittura costituisce un punto di arrivo di un lungo periodo che va dal 1965 a

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oggi e le opere raccolte sono dei punti di riferimento di scelte emblematiche dell’epoca in cui ho vissuto, quasi esse fossero i segni di un alfabeto mediante i quali cerco ancora di costruire una qualche proposizione con cui delineare i contorni della nostra società, prescindendo dall’estetico pittorico, perché l’essere di questo alfabeto è mentale e il suo scopo è di comunicare, mediante la simbiosi fra la più vasta gamma di segni possibili senza escludere il ruolo della materia».103 Le ricerche di Giorgio Zanchetti e Vincenzo Accame, pubblicate dall’Archivio,104 indicano un percorso senza soluzione di continuità dalla neoavanguardia alla sperimentazione odierna, anche nel senso di una ricerca intermediale e di una osmosi continua tra suono e immagine nella nuova poesia. A partire dalle teorie e dalle partiture di John Cage, che danno uno spazio importante anche al silenzio come «complemento del suono», Zanchetti osserva che «delle quattro proprietà fondamentali del suono: altezza o frequenza, timbro, intensità e durata, solo quest’ultima è applicabile anche al silenzio [...] Partendo da questo azzeramento acustico è possibile una duplice apertura: verso l’accumulazione di materiali sonori eterogenei da una parte, e verso l’annessione di elementi visivi dall’altra».105 Siamo nuovamente sulle piste dell’«audizione colorata», della sinestesia come strumento privilegiato delle ricerche d’avanguardia. Dalla fine degli anni cinquanta in poi, sia in Europa che negli Stati Uniti, a partire da John Cage e sulla scorta degli esperimenti di Allan Kaprow sullo Happening e di quelli di Dick Higgins (Fluxus) sull’intermedialità,106 si sviluppa una ricerca che supera i limiti delle singole discipline artistiche ed elabora nuovi statuti formali, che fanno uso principalmente della sinestesia come scelta operativa e retorica. Quest’uso era, del resto, già anticipato dal maestro di Cage, Erik Satie, la cui musica era appositamente creata per abbellire lo spazio, anche quando suoni e rumori servivano essenzialmente a colmare il vuoto, organizzandolo come spazio mentale.107 Il lavoro del poeta consiste nell’andare alla ricerca di linguaggi diversi, perché «non è necessario scrivere solo sulla carta. Ci si accorge che qualsiasi supporto può reggere una scrittura e aiutarla a rivelarsi. Nasce così l’idea che tutto è linguaggio e che è l’uso del linguaggio a far poesia, musica, pittura».108 La definizione di Nuova Scrittura, proposta dal poeta visivo Ugo Carrega, viene ripresa a fondo da Vincenzo Accame a partire dagli anni ottanta.109 Si tratta di una scrittura che trova più facilmente

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la via della galleria d’arte che quella del libro, e probabilmente la spiegazione profonda di questo tipo di fruizione e di comunicazione risiede nella definizione stessa del rapporto tra parola e immagine, che Accame traccia in modo esemplare: «Parola e immagine, dopo la scissione avvenuta in tempi remoti, hanno costituito la base di due forme di espressione diverse, anche se i tentativi di avvicinamento non sono mai mancati. Ma la principale scoperta, se così si può dire, della ricerca poetico-visuale recente è stata non tanto quella di riconsiderare e “aggiornare” il rapporto, quanto piuttosto di annullarlo. Parola e immagine, insomma, almeno nei confronti del loro uso espressivo-comunicativo, si equivalgono, se non addirittura si identificano. Quello dell’identificazione è il momento fondamentale in cui si diversificano – nettamente – le attuali ricerche poetico-visuali da tutte le varie forme di figurazione poetica o di poesia figurale tentate in passato, fino alle avanguardie storiche comprese». Certo in questa Nuova Scrittura la parola non sostituisce l’immagine, né viceversa. La storia della parola nella pittura è antichissima e ben poco studiata,110 ma Accame tende a escludere un vero rapporto interattivo fino al Futurismo.111 A partire soprattutto da Marinetti e dalle sue Tavole parolibere la scrittura, la pittura, la musica cominciano a interagire in simultaneità. Il nodo storico, quindi, anche della seconda avanguardia e della Nuova Scrittura va cercato ancora là, nel Futurismo. È là che trova origine anche l’attenzione per l’intermedialità, con lo studio e l’utilizzo anche dei mass-media. Se esaminiamo le teorie della Nuova Scrittura sulla poesia visiva, vi troviamo il compimento perfetto delle teorie futuriste: «Nella tela dipinta il divenire immagine della parola/poesia e il conferire all’immagine una valenza alfabetica realizzano una nuova espressione poetica ed estetica, quasi una scrittura che origina dalle visioni e dalle parole della realtà quotidiana e della società in questo nostro tempo (dal 1960 a oggi). Realtà e società che sono al tempo stesso schermo e cassa di risonanza delle immagini e delle parole che colpiscono con i loro racconti e messaggi l’uomo, spettatore immobile di tutto ciò che, minuto per minuto, avviene nell’intero pianeta. Il cinema, la fotografia, la televisione, il computer, il video registratore, il compact disc e l’alta definizione delle immagini hanno radicalmente cambiato e trasformato la lettura e l’avvicinamento al mondo esterno. Il contesto che ci circonda è costituito da una sovrastruttura di immagini e di parole par-

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late che fanno da trait d’union tra l’evento e lo spettatore. La realtà quotidiana viene mediata, grazie alle nuove tecnologie, da una continua emissione di parole e di immagini che trasformano in spettacolo qualunque evento e/o situazione. L’uomo spettatore è inserito, immerso in un contesto in cui le informazioni visive sono trattate con tecnologie sofisticate, che attribuiscono loro una perfezione quasi virtuale e che costituiscono il supporto per una nuova alfabetizzazione [...] la Nuova scrittura è il tentativo fatto da alcuni artisti di dare una forma estetica e una espressione poetica a questo contesto radicalmente nuovo di linguaggio, attraverso le immagini e le parole mutuate dalla realtà in cui viviamo».112 La Nuova Scrittura si propone anche come continuazione di esperienze precedenti: non a caso l’ANS organizza fin dalla sua fondazione mostre e convegni di poeti-artisti che costituiscono una sorta di modello sia per la neoavanguardia che per la Nuova Scrittura. Importante la presenza di Decio Pignatari e del Gruppo Noigandres, fondatore del Movimento per la Poesia Concreta: nel manifesto Piano pilota per la poesia concreta, del 1958, le idee più importanti sono riprese da Mallarmé, Marinetti, Joyce, Apollinaire e Pound, e vanno certamente nella direzione indicata poi dalla Nuova Scrittura: la poesia è una struttura entro la quale occorre praticare la sintassi analogica e il metodo ideogrammatico di composizione, lo spazio grafico è un agente della struttura e le risorse tipografiche sono elementi costitutivi del componimento poetico. 113 Giustamente il gruppo ANS ospita anche composizioni di pittori, le cui opere si sono nel tempo trasformate in parole, o “oggetti di poesia”, come nel caso di Emilio Villa,114 di Irma Blank, Luca Patella, Franco Vaccari. La poesia visiva è una poesia che va in cerca di comunicazione, più ancora di quella della neoavanguardia, che pure ha liquidato per sempre la contrapposizione esprimere/comunicare, tipica dell’ermetismo, a favore, però, dell’esprimere. La comunicazione di cui può usufrurire questo tipo di poesia è moltiplicata dal fatto stesso di aver spezzato i confini formali tra le arti, perciò si stampa su libri d’artista, su riviste, su saggi di teoria della letteratura e si espone in mostra nelle gallerie d’arte. Il libro d’artista (da non confondere con il catalogo), è esso stesso un oggetto d’arte e di poesia, un unicum irripetibile nel suo valore artistico ancorché riproducibile a stampa.115 Talora una composizione poetico-visiva viene creata ap-

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positamente per un evento grafico-artistico. Un esempio è costituito dalla copertina della rivista “L’immaginazione” (fondata nel 1986 da Piero Manni a Lecce), che ospita a colori la riproduzione di una poesia visiva, espressamente creata per l’occasione. Anche “Anterem” svolge la duplice funzione di esporre e far circolare i testi, e quella di studiarli e discuterli. Compiuto un sommario censimento delle esperienze odierne, ciò che appare ormai chiaro è il fatto che la poesia visiva gode di ottima salute e riesce a comunicare molto più frequentemente e facilmente di quella scritta in modo, diciamo così, tradizionale. Le mostre, le performances, gli happenings e gli spettacoli in genere costituiscono dei canali che la poesia tradizionale ha frequentato raramente, pur potendo, beninteso, praticarli senza difficoltà in collaborazione con esperti delle altre arti.116 La poesia visiva, dunque, meno riservata dell’altra, ha saputo trovarsi canali di comunicazione che ne hanno moltiplicato le possibilità di farsi sia conoscere che incentivare. Se volessimo entrare più analiticamente nella questione dei rapporti fra arte e letteratura nell’ambito della poesia visiva, dovremmo tenere conto di molte diverse tipologie presenti nella stessa. Esistono, insomma, oltre e dentro alle definizioni ormai codificate (calligrammi, carmi figurati ecc.) molti modi di fare poesia visiva, forse non tutti classificabili senza provocare irritazione negli stessi poeti visivi, che nella maggior parte dei casi tengono molto alla commistione e compenetrazione fra varie arti, e giustamente non amano che vengano riidentificati quei confini che essi con molta cura si sono adoperati a nascondere, confondere, annullare. Eppure... eppure accade al lettore cosiddetto “ingenuo” come al “lettore professionale” di distinguere, già a prima vista, almeno due o tre tipologie: per esempio, quella del poeta visivo che scrive un proprio testo originale nell’ambito della rappresentazione poetica andrà distinta da quella in cui quest’ultima consiste nella visualizzazione di un testo altrui, come nel caso della mostra Poeti per Sordello, in cui tutti i poeti visivi si sono cimentati nel trasformare in immagini un unico componimento del trovatore. Nell’ambito, poi, del primo gruppo enunciato, si dovrebbero distinguere coloro che danno importanza alla comunicazione nella scrittura, quindi sostanzialmente alla leggibilità e/o alla comprensibilità del testo, da quelli che usano la scrittura come puro segno grafo-visivo, una sorta di immagine imitativa, parodistica della scrittura stessa, in for-

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ma espressiva solo visiva, priva di leggibilità e/o di senso. Inoltre, molti artisti visivi trasformano l’oggetto poetico in performance, con l’uso di movimenti scenici e musiche; altri si accontentano di far scaturire suoni e musica dall’oggetto; altri ancora presentano i loro messaggi poetici in forma di boite da aprire, leggere, guardare e toccare: alcuni importanti antecedenti si trovano già fra gli artisti delle avanguardie dell’Ottocento, Jarry e i patafisici, poi tra i futuristi e i pittori astratti, non esclusi Duchamp (La boite verte è del ’34), Braque e Picasso. Tra l’altro, alcuni poeti visivi non si limitano alla pittura, ma adoperano anche la scultura, il papier collé ecc., come Balestrini e Pignotti. Se volessimo proseguire, troveremmo ancora un terreno fertile per la classificazione di altre tipologie. Per esempio, non sarebbe fuori tema esaminare il carattere visivo dell’acrostico e dei vari giochi di parole, mentre un campo ancora tutto da esplorare sarebbe quello, a cui Pozzi ha dedicato qualche pagina, degli iconismi latenti nell’ambito dei testi di “pura” letteratura. Resta poi la presenza delle “lingue immaginarie”, che non sempre sono impiegate in chiave fonica ma spesso hanno un’importanza grafica:117 non a caso, tra gli inventori di tali lingue troviamo il poeta visivo Christian Morgenstern e artisti quali Tristan Tzara, Vasilij Kandiskij, Jean Dubuffet, oltre ai letterati come Aristofane, Dante, Teofilo Folengo, Francois Rabelais, Molière, Swift, Marinetti ecc. Rientrerebbe in questa categoria anche la scrittura automatica di André Breton e dei surrealisti. Certamente i letterati sono i più preoccupati nel cercare di distinguere “quanta” letteratura sia presente in queste forme di scritture artistiche.118 Poiché la distribuzione e la circolazione della poesia visiva si realizza prevalentemente attraverso le mostre, i cataloghi e i libri d’arte, gli artisti non si pongono il problema di “quanta” pittura e scultura siano presenti, poiché naturalmente ciò che si caratterizza come visivo deve andare in cerca di una visibilità e la fruizione naturale della poesia visiva non può che avvenire in questo modo. Tant’è vero che non è possibile organizzare un convegno, una conferenza, un seminario sulla poesia visiva senza annettervi un’esposizione dei materiali, dei “testi” di cui si parla. Se ascoltiamo ancora una volta gli artisti in questione, ci rendiamo ben conto che, dal loro punto di vista, il problema non esiste:

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La ricerca poetico-visuale non si oppone, ma semmai si contrappone alla poesia verbo-lineare e alla pittura in egual misura, proprio perché le “comprende” entrambe; ma nel contempo non propone sintesi di linguaggi: propone invece “un” linguaggio, che nasce dall’interazione di elementi diversi, che sono stati finora usati, in modi anche differenti, dalla poesia verbo-lineare, dalla pittura ecc. È come se tutto, nell’ambito dell’espressione, della comunicazione estetica, venisse rapportato, o anche riferito, al segno.119

Sarebbe troppo semplicistico concludere per questo che la poesia visiva non è che una forma sperimentale della pittura, della scultura, delle altre arti, insomma, e che poco ha a che fare con la poesia. Sarebbe semplicistico perché sarebbe come negare significato letterario all’antica poesia greca, che nasceva per essere suonata, cantata, ballata, drammatizzata. Sarebbe come decretare che la poesia non può essere evento, e che la stessa scrittura su una pagina bianca, come siamo stati prevalentemente abituati a fruire la tradizione poetica, non è di per sé un evento: come sappiamo, le invenzioni tipografiche dei futuristi e le concezioni psicoanalitiche dei surrealisti hanno trasformato la pagina bianca su cui si compone la scrittura appunto in un evento. Non ci resta che prendere atto che, se si tratta di avanguardia, sperimentazione, proposta alternativa alla “normale” fruizione, si tratta di avanguardia non solo artistica ma anche letteraria, dunque anche la letteratura dovrà accostarsi con mezzi critici nuovi e adeguati al fenomeno della poesia visiva. Sarà perciò necessario non considerare più solo in blocco i poeti visivi, adottando metodi di analisi e di valutazione comuni a tutti, ma, nell’ambito ovviamente di quella particolare forma poetica che è la poesia visiva, accostarsi a ogni autore considerandolo nella sua individualità e valutare il suo lavoro anche indipendentemente dalla tendenza poetica di cui fa parte. Certamente resta ancora molto da analizzare anche in quello spazio ibrido e celato in cui arte e letteratura si mescolano nella poesia visiva e su questo ci si dovrà interrogare se si vuole comprendere, per esempio, il ruolo dell’occhio in questo settore. Sul piano espressivo, sarebbe interessante indagare se dall’incontro di queste due forme, poesia e arti visive, sia derivato un incremento sia sul piano della vista che su quello della visione. Per ora, mi pare che la poesia visiva non si liberi da una sorta di paradosso: le due forme, quella dell’immagine pittorica e quella della scrittura poetica, anziché potenziarsi, in genere si limitano a vicenda. Mentre pittura e scrittura poetica hanno conquistato, ognuna nel proprio am-

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bito, una ricca e complessa codificazione retorica, si ha l’impressione che al loro incontro manchi proprio la novità di una proposta in tal senso. Allora non basta l’elaborazione di immagini attorno a una parola o a una serie di parole tipograficamente alterate ad aprire l’immaginazione visiva su «interminati spazi». Il citato brano di Sordello sull’inutilità degli occhi crea un’emozione intensa, che le poesie visive e le visualizzazioni a esse connesse riescono a propagare ma mai a sostituire. In questo senso, una delle più belle visualizzazioni è quella di Roberto Pedrazzoli, La vista è il desiderio (1995), che presenta i frammenti della poesia di Sordello come parti di un mosaico dai colori pastello, che paiono incollate sullo sfondo di una luce solare. Si legge nel catalogo una didascalia: «L’occhio: frammenti per un mosaico». L’occhio del cuore, l’occhio della mente, l’occhio dello spirito, il mondo dell’uomo è il suo occhio, la vista è il desiderio, l’occhio è la voglia, l’occhio della conoscenza, l’occhio critico, l’occhio interno, l’occhio esterno, l’occhio magico, l’occhio giudice, l’occhio sensibile. Ebbene, è l’intervento del testo scritto di Sordello e poi del testo scritto di Pedrazzoli a completare, ad approfondire la visione. In questo modo, nell’incontro con il testo scritto, la poesia visiva acquista delle valenze espressive proprio sul piano dell’occhio. Ovviamente non sarà facile arrivare a uno statuto retorico della poesia visiva, perché, giustamente, i poeti visivi lo rifiutano. Nel muoversi in quel terreno ibrido che non si sa se è poesia o arte figurativa il loro privilegio è quello di trasgredire, non sottoponendosi ai linguaggi codificati. Come sappiamo, il poeta non è cosciente di tutte le possibilità ermeneutiche connesse al suo testo: basti pensare alla mirabile rilettura della montaliana A Liuba che parte, nelle Occasioni, da parte di D’Arco Silvio Avalle: l’operazione visiva del semiologo ristruttura i versi montaliani secondo uno schema metrico più consono, più antico, ed ecco profilarsi agli occhi meravigliati, del poeta non meno che del critico, la perfetta forma di una “dipartita”, una particolare forma di ballata medioevale impiegata per saluti e congedi.120 Dal punto di vista... della vista, non si vede ancora un’autonomia espressiva nei prodotti tipici della poesia visiva e, paradosso dei paradossi, mentre le immagini della poesia e quelle delle arti figurative, separate, scatenano l’immaginazione stessa, suggerendo un’esplosione di possibilità visive, quando si uniscono chiudono, limitano, impoveriscono lo sguardo. Probabilmente si tratta sem-

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plicemente di una sorta di gabbia stilistica o generalmente espressiva, da cui gli autori più determinati e capaci sanno come liberarsi, come da certe forme metriche, quali la sestina, si liberò il Petrarca affrontandola come una sfida. Forse, come il Petrarca scavò nella sua “gabbia” traendo agostinianamente in interiore homine sfumature e slittamenti semantici capaci di potenziare l’espressività della sestina, così i poeti visivi possono contare sul potenziamento ludico del loro poiein e da questo sovrappiù di livello giocoso ricavare sconfinamenti dello sguardo e visioni illimitate. Per ora, il fruitore cooperante non può che stare al gioco, lasciandosi condurre verso quella spettacolarizzazione che per l’occhio, comunque, è già una promessa...

Occhio al romanzo Come la novella trova le sue origini naturali nell’oralità, così il romanzo è figlio della scrittura. Solo le storie che non si chiudono rapidamente in un’unità di fruizione possono abitare il tempo in modo continuativo, prolungato, differito, interrotto e poi ripreso, in un’evoluzione che assomiglia e si mescola alla vita del fruitore. Solo il romanzo può concedersi queste libertà, in quanto scrittura. Certamente queste osservazioni diventano più evidenti con la nascita del romanzo cosiddetto moderno, dal Seicento in avanti, quando non solo i percorsi formali della novella e del romanzo si biforcano nettamente, ma l’imponente flusso del romanzo tende a mandare in crisi il genere novellistico stesso, travolto dalle infinite possibilità che la diffusione della stampa concede alla parola scritta e alla dilatazione della fabula.121 Tuttavia, anche in una situazione più “primitiva”, il rapporto tra il racconto mitico-fiabesco, di origine orale, e una più prolungata narrazione di tipo affabulatorio, articolata e complessa nel suo sviluppo dialogico, si propone decisamente come un rapporto tra oralità e scrittura. Può sembrare un’osservazione elementare, ma concretamente è pur necessario partire da questo dato di fatto: ciò che nasce dalla voce, e attraverso la voce si mantiene nella memoria, può occupare un tempo e uno spazio che solo virtualmente, e ritualmente, sono prolungabili all’infinito, ma in sostanza e in realtà, giocando sulla ripetizione e sulla simmetria, manifestano limiti precisi, che sono segnati dall’attenzione e dalla memoria umana, oltreché dalla pre-

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senza fisica di un tempo e di uno spazio, necessariamente limitati: verba volant. Per fermare le parole, occorre mandarle a memoria, ripetere, riprodurre, trasmettere forme non troppo impegnative dell’immaginario. Da Havelock a Ong, a Zumthor e a Petrucci, queste osservazioni sono passate attraverso una serie di studi approfonditi e sempre più numerosi che le hanno ormai rese patrimonio comune. La scrittura, invece, ha ampliato e trasformato lo spazio e il tempo della fabula, offrendole un’elaborazione così raffinata e complessa da non richiedere più fisicamente la collaborazione dell’uomo per la sua conservazione e trasmissione. Il romanzo, quindi, anche quello antico, è la testimonianza di un progresso nell’utilizzazione della scrittura, da parte di società che si rivelano in anticipo sulle altre, sia rispetto all’evoluzione della civiltà materiale che di quella dello spirito. Se è vero che le lontane origini del romanzo vanno cercate in alcune manifestazioni delle letterature orientali (assiro-babilonese, aramaica, egizia, araba, come l’Ahiqar del secolo VI a.C.), che sono poi anche l’espressione delle prime scoperte in fatto di scrittura, il fenomeno risulta sufficientemente chiaro.122 Il romanzo, dunque, come prodotto raffinato di cultura, ne rappresenta anche un frutto tardivo. Le sue parentele con generi anteriori, il poema epico, per esempio, o la novella antica, sono oggi molto discusse, e le recenti acquisizioni critiche sono ormai orientate più verso una definizione di specificità che verso un riscontro di evoluzione da altri generi. Al di là, comunque, delle considerazioni storiche, che pure sono importanti, o di quelle sociologiche, psicologiche, semiologiche, rimane alla base la semplice osservazione di quel fenomeno spazio-temporale che si diceva, e che attraversa a priori tutti i livelli di quelle considerazioni. La narrazione di lunghe storie complesse, inglobanti diversi enunciatari e diversi linguaggi, capaci di moltiplicarsi in un’attività di scrittura e di lettura protratta nel tempo e nello spazio, è prerogativa tipica della scrittura. In questo senso il romanzo è davvero qualcosa di originale, che assomiglia solo da lontano alle forme narrative che l’hanno preceduto, e non più di quanto un albero può assomigliare al proprio seme. Oggi la parola-chiave con cui la semiologia identifica la peculiarità del genere è “polifonia”.123 Ma rimane, in fondo, una parola generica, com’era un tempo quella di “affresco”. Un romanzo può anche non risultare affatto polifonico, può essere prevalentemen-

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te monofonico come l’Ulisse di Joyce, e rimanere un romanzo. Possono confluirvi le tecniche più legate all’oralità, come il dialogo, l’orazione, il monologo, più o meno interiore, così come quelle più legate alla scrittura, come la descrizione, la digressione teorica, il messaggio epistolare: in un romanzo può prevalere l’oralità, in un altro la scrittura, ma il genere non rimane caratterizzato se non da quell’invadenza della scrittura pagina dopo pagina e giorno dopo giorno, che trasforma ogni voce in un segno scritto da leggere a tappe e intervalli, da abbandonare e poi riprendere, da rimeditare e poi tirare avanti fino alla parola fine. È la scrittura, con i suoi eccessi creativi, a produrre il romanzo, e questo romanzo, che sia Ulisse o Guerra e pace, Don Chisciotte o Candido, risulterà comunque caratterizzato dal desiderio della scrittura di andare oltre, di proseguire senza limiti, che non siano quelli legati all’economia del discorso narrativo. Certo questo implica spesso molteplicità, ricchezza d’intreccio, pluralità di voci e vicende, ma non necessariamente. Di norma, implica anche l’impiego della prosa piuttosto che della poesia, ma non necessariamente, tanto è vero che i romanzi medievali sono scritti in poesia. Ciò che invece appare sempre più chiaramente come una necessità è il fatto che abbandonarsi all’eccesso di quella scrittura significa per il lettore cercare la solitudine e il silenzio anziché la lettura ad alta voce e in pubblico, per la quale era più indicata l’affabile e moderata novella. Tutti i meandri del romanzesco sono più facilmente percorribili dagli occhi che dalla voce e trovano più adeguata e profonda risonanza nell’interiorità della mente che non in quella di un salotto o di una stalla. In questo modo la scrittura in eccesso si fa più esigente e il rispecchiamento quasi omeopatico offerto attraversa l’immaginario in modo più lento e profondo, attraversa le notti e le fantasie oniriche, influenza la personalità conscia e inconscia del lettore in modo assai più incisivo di qualsiasi breve racconto. Don Chisciotte ed Emma Bovary devono la loro personalità alla lettura di romanzi; ma non solo a loro, in quanto personaggi da romanzo, tocca questa sorte, bensì anche a tutti coloro di cui essi sono simbolo, i lettori che nella realtà sono disposti ad assorbire quello stesso nutrimento (o veleno), in dosi quasi omeopatiche. Una novella interrompe il corso normale del tempo, e nella brevità della sua fruizione non ammette altro attorno a sé; il romanzo si lascia assorbire, si mescola al tempo e alla vita, si lascia ab-

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bandonare e riprendere, e intanto entra a far parte della vita stessa. Tutto ciò è possibile solo grazie al rapporto in cui la memoria del lettore entra con la scrittura: liberata dalla necessità rituale, la memoria si fa selettiva e, più o meno consapevolmente, va in cerca delle sue ossessioni, dei suoi rispecchiamenti più intensi e profondi: ritorna sulle parole, contempla la scrittura, riattraversa il libro nel senso che più le piace e ogni volta che le piace. La scrittura si fa rileggere, immutabile e piena, ogni volta capace di fornire conferme, e ulteriori scoperte. La voce non è ripetibile, mai allo stesso modo, e in una novella ciò che si ricorda è il nucleo narrativo, l’avvenimento, la curiosità del fatto. Così le novelle intrattengono, divertono, colpiscono, educano anche; ma i romanzi seducono, influenzano, fanno compagnia, creano il desiderio di altri romanzi. Il romanzo costituisce, insomma, un’avventura, che si prolunga nel tempo grazie alle possibilità della scrittura. Ma se, nel suo percorso dal mittente al destinatario, il messaggio si allunga, si distende, si ramifica indefinitamente nel tempo e nello spazio, può accadere che alla fine non trovi più, ad attenderlo, lo stesso destinatario. Può accadere che coloro i quali trovavano soddisfazione culturale e morale nel compiere un rito di gruppo, che consisteva nell’ascoltare, e poi ripetere a voce, una breve e intensa recitazione epica, una breve e curiosa storiella, ora non possano reggere con altrettanta gratificazione e motivazione una narrazione a puntate, di quelle che non finiscono mai. Nel Novellino, una novella di puro metalinguaggio, la LXXXIX, si beffa appunto di chi racconta storie che non vengono mai meno. Una brigata riunita a tavola o attorno a un camino, o in pellegrinaggio, o dentro una stalla, non vuol certo sentire storie di cui non si sa come vanno a finire, o che divagano oltre i limiti consentiti dall’intrattenimento orale. Storie così funzionano meglio per la lettura privata e silenziosa e, nello stesso tempo in cui gli scrittori si accorgono di questo, si scelgono anche, oltre ai destinatari, dei percorsi più particolari da far seguire alle storie stesse. Queste si avventurano nel privato affrontando una lettura che instaura un rapporto di confidenza, di complicità, di immedesimazione prolungata tra scrittore e lettore. Lo scrittore sa di non parlare più in pubblico e parla dunque sottovoce, raccontando cose che possono essere oggetto di una comunicazione più intima e profonda.

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Destinatari e interlocutori diventano sempre più le donne e i poeti, e ciò ha una ragione anche sociale, che spiega l’esistenza di spazi e tempi privati, sia in termini concreti che psicologici, in cui fare posto al nuovo tipo di lettura. L’esistenza di questi spazi, del resto, è già intuita e chiaramente enunciata dal Boccaccio, che non a caso è anche il primo a intuire le possibilità del “romanzesco”, in un contesto novellistico che, da una parte, fissa certi canoni orali di stretta pertinenza della novella, dall’altra approfitta della scrittura per dilagare oltre i termini, producendo novelle che sono quasi abbozzi di romanzo (per esempio, quella di Alatiel). Non si vuole qui riprendere la questione, un po’ troppo perentoria, se il romanzo derivi o no dalla novella, che merita risposte talmente articolate da non lasciar chiudere mai definitivamente la questione. Ciò che interessa esaminare è invece quello spazio e quel tempo interiore nel quale l’immaginario romanzesco dello scrittore e dei suoi lettori si cercano, si mescolano nel rispecchiamento, si uniscono in un legame, che costituisce ancora oggi il segreto della grandezza di certi narratori. Pian piano, le storie che si raccontano nei libri non assomigliano più soltanto alla storia collettiva, materiale o simbolica, di una comunità, di un popolo, di un gruppo sociale, ma assumono contorni più incerti e stravaganti, presentando situazioni d’eccezione, soffermandosi sui sentimenti, sulle emozioni, sulle reazioni dei singoli di fronte al destino e alla storia. Il progresso della scrittura fa sbocciare e dilagare altri generi, ramificando in modo sempre più complesso la possibilità di registrazione e tradizione, e producendo in modo sempre più intenso e organizzato la “memoria del sapere”. Le storie romanzesche si staccano da quelle delle cronache e della storiografia, da quelle dell’epica classica e da quelle della mitologia, per narrare vicende singolari, private, in cui l’individuo anonimo, che può però rappresentare tutti gli uomini, si riconosce come protagonista. Non sono più dei, eroi, imperatori a dominare il racconto, ma è l’individuo, con i suoi problemi e le sue passioni private, a diventarne protagonista. Sociologia, psicologia, semiologia del romanzo si sono abbondantemente esercitate nell’analisi del fenomeno nell’ambito della cultura medievale, moderna e contemporanea, mentre per quanto riguarda l’antichità ne risulta perfino incerta ancora la definizione: si può davvero parlare di un romanzo antico? Nel cercare di dare una risposta a questa domanda, occorre tenere presente un’osser-

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vazione preliminare: nessuno dei generi, che sembrano oggi più o meno discutibilmente riconoscibili, si presenta in origine nella sua forma pura, il caos è all’origine di tutte le cose, nel mondo creato come nel mondo pensato. Dunque la poesia è in origine canto, musica, danza e altro ancora; la storiografia è annalistica, cronaca, racconto misto di storia e d’invenzione; il poema epico è mito, storiografia, canto lirico, racconto, romanzo. Si tratta di semplificazioni, certo, che valgono unicamente come figure, come le acque manzoniane di un grande fiume, in cui non si possono più distinguere gli affluenti. Quando si considera il mondo antico, queste figure vanno tenute presenti. Allora nella mescolanza originaria si possono distinguere degli addensamenti, delle tendenze che pian piano si differenziano, si manifestano con delle caratteristiche sempre più autonome, formano dei percorsi che per qualche tempo sembra possibile identificare e codificare. Dopo, molto spesso, la raffinata coscienza del gioco letterario le porta di nuovo a mescolarsi, a camuffarsi volontariamente per tentare nuove esperienze formali, maniere e manierismi di conservazione o d’avanguardia. Tuttavia le tendenze fondamentali, pure o mescolate, arrivano sempre a farsi riconoscere come una tipologia che ha le sue caratteristiche in qualche modo identificabili. Tra queste caratteristiche, per quanto riguarda non solo il romanzo moderno ma anche il romanzo antico, ne risaltano alcune che appaiono essenziali proprio per l’identificazione e che la permettono solo se si trovano raggruppate insieme: l’abbondanza della scrittura, il carattere privato di ciò che si narra, la vicenda ricca d’invenzione. Può sembrare elementare, ma dopo tante sottili e importanti analisi sul farsi e il disfarsi dei generi letterari, l’unione di quelle tre componenti sembra essere rimasta intatta al fondo di tutte le analisi, come una sorta di segno d’identità capace, paradossalmente, di individuare come romanzo sia un componimento antico che uno post-moderno. Nel più antico come nel più recente dei caos, il volto del romanzo si lascia distinguere anche quando non è solo, o anche quando si nasconde dietro una maschera. Nel caos delle origini sembra che frammenti di romanzi ellenistici affiorino già nel secolo I a.C., in racconti d’amore che solo più tardi la Seconda Sofistica fonderà con quelli di viaggio e d’avventura, rendendoli più complessi e anche più “misteriosi”. Il miste-

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ro, del resto, anche in senso religioso, rappresenta un’importante ipotesi di modello romanzesco, secondo quella sorta di Ur-test che è dato dal mito di Iside e Osiride. Ma i frammenti portano solo congetture, mentre molto più tardi, tra la fine del secolo I e l’inizio del II, si trova un grande testo completo già riconoscibile come romanzo: Le avventure di Chérea e Callìroe di Caritone di Afrodisia. La fabula verrà ripetuta da molti altri romanzi, segno del successo e della forza del genere stesso: due giovani fidanzati vanno incontro alle più complicate avventure che impediscono le loro nozze; si mantengono fedeli l’uno all’altra, superando difficoltà che li separano sempre nel momento in cui credono di ricongiungersi; infine si ritrovano e celebrano le nozze, con festeggiamenti e gioia di tutti. I nodi formali della narrazione passano attraverso naufragi, ratti di pirati, morti apparenti, violazioni di sepolcri, equivoci, astuzie, processi in tribunale, interventi meravigliosi, viaggi in paesi lontani, vendite come schiavi, battaglie, colpi del destino. Certo lo scrivano Caritone non arriva per primo a tanta ricchezza narrativa e forse il suo romanzo in otto libri rappresenta l’abile assemblaggio di materiali narrativi precedenti, soprattutto di origine novellistica e di età ellenistica. Ciò che risulta è, tuttavia, un prodotto in qualche modo perfetto, fruibile e imitabile in quanto romanzo. Lo stile è semplice ma non esente da raffinatezze, come dimostra la ricerca di clausole metriche: ciò che interessa allo scrittore è la narrazione del “fatto”. Su questa fabula narrata in modo essenziale, e mantenuta sostanzialmente intatta, si innesta poco più avanti la dimensione psicologica, con Gli amori di Dafne e Cloe di Longo Sofista, storia di due fanciulli precursori di Paul et Virginie, cresciuti fra i greggi e gli armenti, che si innamorano e, dopo una separazione forzata, si ritrovano. Ecco, a queste due fabulae corrispondono sostanzialmente anche il Satyricon di Petronio e Le Metamorfosi di Apuleio, che tra i romanzi antichi sono certo i più noti e anche i più raffinati nell’intreccio. Essi sono in un certo senso già dei palympsestes rispetto ai precedenti, cioè parodie, anche serissime, di tutta la produzione narrativa che li ha preceduti. “Quasi come” il romanzo di Caritone, quello di Petronio presenta una coppia in difficoltà e in viaggio, tra peripezie e incontri di ogni genere. La coppia è composta, però, da due giovani uomini, Encolpio e Ascilto, che si contendono un giovane efebo incostante, Gitone. Allo stesso modo, forse con maggiore

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ricchezza simbolica e filosofica, il romanzo di Apuleio presenta l’avventura di Lucio, che subisce avventure paurose e meravigliose fino a quando non riacquista la sua vera identità con l’apparizione di Iside, ai cui misteri si farà iniziare. Ogni storia presenta il suo caos di modelli da cui la parodia estrae il filo del discorso narrativo e ogni storia sembra uscita da quel caos come da un torrente di lava che tutto travolge e stravolge, ricoprendolo della sua sostanza, camuffandolo con la sua forma. Che si riconoscano o no i modelli delle fabulae milesiae e quelli della satura menippea, il carattere complesso e articolato delle opere si trasforma in qualcosa in più, rispetto ai modelli stessi, qualcosa che, se non ha ancora la forma che poi sarà riconosciuta tipica del romanzo, se ne avvia alla ricerca, tende, per quel poco o tanto che è dato giudicare dai frammenti rimasti, a compiere quella profonda, formale, sostanziale metamorfosi che la scrittura dell’immaginario ormai consente appieno rispetto alla sua espressione orale: la produzione di un lungo testo creativo su argomenti di carattere prevalentemente privato. Questo certo non esclude la presenza della storia, della religione, dell’etica, della filosofia in generale, ma la direzione del racconto diventa un’altra, diventa quella dell’interiorità dell’individuo, che ha a che fare con la storia, con la religione ecc. Man mano che il romanzo assume caratteristiche più sicuramente peculiari, questo diventa un elemento costante, che manca, per esempio, alla tragedia: il punto di vista del romanzo è sempre quello del singolo e del “dentro”, piuttosto che della collettività e del “fuori”. Anche quando sarà romanzo storico o puro romanzo d’avventura senza ambizioni introspettive, che l’io narrante coincida o no con quello dell’autore, il romanzo presenterà sempre come punto di vista principale quello di chi, come soggetto, si confronta con una realtà esterna che accetta o rifiuta, che lo accetta o che lo stritola, che passa comunque sulla sua pelle e nella sua mente lasciando un marchio, che è anche quello che dà corpo e struttura alla vicenda formale. La matrona di Efeso, il banchetto di Trimalcione, la favola di Amore e Psiche possono anche essere dei racconti nel racconto e come tali costituire lunghe divagazioni rispetto alla vicenda e al punto di vista dei protagonisti, ma ciò che rimane da constatare è che chi ha scritto il Satyricon e, più ancora, chi ha scritto Le Metamorfosi non intendeva comporre una raccolta di novelle ma proprio ciò che ha di fatto composto, ossia una vicenda composita, che tutto com-

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prende e tutto stravolge, non solo alla luce prospettica del soggetto o dei soggetti protagonisti, ma anche a quella della parodia, del voler rifare, cioè, qualcosa che è già stato fatto ma deformandolo secondo quella luce prospettica. Le Metamorfosi di Apuleio, che ci sono pervenute assai più integralmente del Satyricon di Petronio, sono qui a testimoniare che in quel calderone parodico in cui s’impasta la vicenda di Lucio, o l’asino, non si volevano legare insieme semplicemente delle novelle o delle favole, perché altrimenti l’autore avrebbe appunto agito così, riducendo in cornice la vera e propria vicenda di metamorfosi di Lucio ed espandendo al massimo la raccolta delle storie. Né Apuleio voleva semplicemente narrare una parabola filosofico-religiosa, perché non avrebbe avuto difficoltà a trovare parabole sul mito di Iside e Osiride, a cui ispirarsi anche per puri e seri intenti di parodia. Ciò che Apuleio vuole raccontare è una lunga storia simbolica a cui sia concesso il piacere di ogni tipo di digressione, sperimentare quanto si può narrare nel momento in cui del mito filosofico-religioso si appropria non un filosofo o un sacerdote ma un uomo qualsiasi, Lucio, appunto, interessato a vivere fino in fondo la sua avventura nel mistero dell’anima e delle sue trasformazioni a contatto con varie esperienze. Le Metamorfosi dunque sono davvero un romanzo, così come lo sono tutti gli altri testi antichi citati fin qui. Il punto di vista del singolo diviene a poco a poco un elemento caratterizzante del romanzo. Il genere può anche sparire per qualche tempo dalla storia letteraria dell’Occidente, per varie ragioni che riguardano grandi trasformazioni storico-culturali, ma quando riappare non perde quella componente. Dal romanzo antico a quello moderno, diciamo del Sei-Settecento, si produce un grande vuoto che coinvolge non il romanzesco in sé ma la forma che lo convoglia e il pubblico che ne fruisce. Dalla trasformazione delle lingue, dei popoli e delle società esce nel Trecento la novella in volgare, non il romanzo, e la novella riceve a metà del secolo un suo “grande codice”, il Decameron, che costituirà un modello così forte e moltiplicabile da determinare il destino della narrazione europea in prosa per almeno due secoli. A far rinascere il romanzo sul finire del Seicento sarà l’affermazione della stampa e la sua capacità di trasformare perfino i generi letterari. Solo grazie alla stampa si potranno differenziare sostanzialmente novella e romanzo, salvando entrambi.

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È da questo momento che il romanzo si consegna alla cultura moderna come un genere fatto essenzialmente per l’occhio. Come la novella è fatta per essere ascoltata, così il romanzo è scritto per essere letto. Esso non si presta facilmente a una lettura ad alta voce, se non in casi particolari in cui il lettore non possa leggere da sé. L’eccesso di scrittura che il romanzo può permettersi grazie alla stampa fa sì che lo scrittore abusi dello spazio e del tempo che gli sono concessi, dilati e moltiplichi la scrittura, divaghi, approfondisca, chieda più tempo e più spazio per rimanere con il suo lettore più a lungo che può. Non c’è un equivalente nel campo dei lettori di novelle, poiché la novella esige una breve attenzione totale da parte del lettore, si consuma al massimo in poche ore e non incide in profondità. Se il lettore di romanzi legge in silenzio e solitudine, gli occhi sono il veicolo privilegiato di questo genere letterario. Quest’affermazione non riguarda solo la lettura dell’enunciato e la fisicità referenziale dell’atto di leggere. Essa riguarda profondamente il tipo di fruizione richiesto dal romanzo e ha a che fare con l’attività psichica del lettore. Ciò che passa attraverso gli occhi in lettura silenziosa è in grado di produrre attività fantastica profonda e si imprime in modo più duraturo nella memoria. L’occhio, di tutti gli organi di senso, è quello che determina maggiormente le percezioni su cui si basa la conoscenza ed è quello che imprime immagini destinate a durare più a lungo nella psiche. Questi sono dati acquisiti ormai non solo dalle scienze ottiche ma anche dalle attuali ricerche della psicologia. Per questo l’occhio è anche il più trasgressivo ed eccessivo di tutti i sensi, perché non si accontenta mai del limite ma tende a oltrepassarlo, a immaginare leopardianamente che cosa c’è dietro «l’ultimo orizzonte». Dalla vista, insomma, passa continuamente alla visione. Il romanzo è in grado di produrre visioni, cioè attività fantastiche connesse con la vista a livello immaginario. È solo grazie a questo tipo di attività che noi non solo possiamo innamorarci di Fabrizio Del Dongo, ma avere anche l’impressione di conoscere pietra su pietra di quella Parma romanzesca di Stendhal, che è in realtà il risultato di un fantastico “montaggio” di architetture romane e parmensi, di ambienti che potevano esserci ma forse anche no (si veda la famosa questione dell’esistenza della “certosa”), di cronache in cui non si sa se la torre Farnese sia più morava o parmense (l’ombra dello Spielberg), e se le vicende stesse siano quelle della re-

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staurazione austriaca in Italia o quelle delle cronache romane del Cinquecento, di cui Stendhal era ghiotto lettore e trascrittore.124 Solo grazie alla visione che il romanzo innesca il lettore può “vedere” con tanto profondo risalto la Parma di Stendhal, più reale di quella esistente, perché disegnata per giorni e giorni di lettura, direttamente nella sua anima, dallo stesso autore. Nessun paesaggio novellistico può costituirsi così come una realtà psichica di lettura. Ma c’è di più. Soltanto nel genere romanzesco poteva installarsi una sperimentazione formale basata sull’occhio, come succede ad esempio con il nouveau roman. Alain Robbe Grillet, Michel Butor, Nathalie Sarraute, Marguerite Duras hanno prodotto in questo campo dei modelli che sono in grado perfettamente di rappresentare il genere nella sua specificità visiva e visionaria. E sufficiente analizzare, ad esempio, un romanzo della Duras per avere un’idea complessiva della specificità del genere su questo particolare terreno. Esemplare può essere, da questo punto di vista, Le ravissement de Lol V. Stein del l964.125 È noto che l’école du regard, nel realizzare questo tipo di romanzo sperimentale che assomiglia molto alla sceneggiatura di un film, intende porre l’occhio dello scrittore in una dimensione esterna, distaccata, anche quando le vicende narrate sono autobiografiche. In questo libro la Duras pone addirittura al centro della vicenda, come evento scatenante, un “colpo di fulmine”, un colpo d’occhio così travolgente da dividere due persone, causando la follia della protagonista. Dunque non solo la scrittura è composta di colpi d’occhio, descritti e modificati a seconda del punto di vista di coloro che narrano come si sono svolti i fatti, ma i fatti stessi sono costituiti da qualcosa che ha a che fare essenzialmente con la vista. Lol è rapita a se stessa, esce dal mondo per una «ferita dello sguardo»: il suo promesso sposo è stato a sua volta rapito, durante un ballo, dagli occhi di una donna sconosciuta. Fissare il vuoto diventa da quel momento l’attività principale di Lol: non una vera catatonia, ma una sorta di scollamento, un non esserci, una mancanza del cuore, che si risolverà soltanto quando ella stessa ripeterà la stessa scena dello sguardo su un’altra coppia di amanti, rapendo a sé l’uomo di un’altra. L’intero romanzo appare al lettore come la sceneggiatura cinematografica di un caso di psicoanalisi. Il lettore-spettatore, però, nonostante i ripetuti tentativi di straniamento effettuati dall’autrice nei suoi confronti, non può non immedesimarsi, ossia non prestare il suo occhio allo snodarsi delle scene: coinvolto attraverso lo

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sguardo, ciò che vede non lo lascia indifferente, perché sollecita continuamente la sua fantasia su ciò che non vede, che può accadere o può essere accaduto, o forse accadrà. Proprio il meccanismo “oggettivante” del nouveau roman lo costringe ad allineare anche il suo occhio a quelli dei personaggi che narrano il loro modo di vedere le cose, a divenire personaggio egli stesso, guardando come uno spettatore e nello stesso tempo fantasticando per trovare anche la sua visione del problema. Solo il romanzo può consentire un meccanismo cooperativo di questo genere, perché solo il romanzo lascia al lettore il tempo psicologico della reazione, facendo in modo che dalla vista-lettura passi alla visione-immaginazione. Un romanzo può così fingersi cinema, sceneggiatura, immagine che scorre davanti agli occhi, ma ha, rispetto al cinema, un più profondo rispetto del destinatario: perché l’immagine cinematografica, direttamente presentata agli occhi, e in movimento, non lascia il tempo di reagire, di riflettere, in quanto coinvolge solo emotivamente. Per poter effettuare un minimo di straniamento, occorre una sorta di meccanismo brechtiano alla Godard che provochi una reazione razionale cosciente nello spettatore. Ebbene, il romanzo, invece, rispetta i tempi di reazione, si offre allo sguardo con maggiore delicatezza, consentendo un’ampia libertà di reazione perché le immagini non sono imposte in modo perentorio ma suggerite e poi lasciate alla fantasia del lettore perché le componga a modo suo. In ogni caso, egli non può sottrarsi a questo gioco cooperativo, se non rinunciando a leggere il romanzo, nel caso che non gli piaccia. Se legge, egli non può rinunciare a fabbricare immagini, a portarle dentro di sé per qualche tempo, spesso ben oltre la durata del tempo reale di lettura, poiché un romanzo apprezzato profondamente si deposita, appunto, nel profondo, ed evoca un’attività continua nell’immaginario. Ben consapevole di questo rapporto spazio-temporale appare, per esempio, Italo Calvino in tutta la sua narrativa, soprattutto in Se una notte d’inverno un viaggiatore, ma anche in quello che può essere considerato il suo personale “manifesto” visivo della scrittura romanzesca, Palomar.126 Nessun romanzo, neppure il più “oggettivo” nella tecnica espressiva, si sottrae a questo meccanismo. Neppure I Malavoglia. È impossibile sottrarsi alla sua produzione di immagini, impossibile distogliere lo sguardo, se non rinunciando a leggerlo. Come il lettore di una novella offre il suo ascolto a misura spazio-temporale del testo, così il lettore di un romanzo offre il suo sguardo.

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Da questo punto di vista, ciò che il romanzo propone è sempre qualcosa di personale, di privato che ha a che fare con l’individuo e non con un gruppo, anche quando si tratta di un romanzo sociale, impegnato ecc. Il romanzo non ha il carattere socievole della novella, non ha origine da una comunicazione orale che, trasmessa da singoli o da un lettore ad alta voce a un gruppo, traccia comunque un ampio spazio collettivo di interferenza nella sua struttura stessa. Il romanzo si dà come avventura privata di scrittura-lettura, in cui il filo che tiene unito lo scrittore al lettore è qualcosa che, se il romanzo beninteso funziona, li riguarda entrambi. Il lettore è portato ad abitare nel romanzo e a stabilirvi una sua mappa dell’immaginazione, lasciandosi guidare dalle parole dello scrittore. Nella novella accade il contrario. La presenza del lettore, che è in realtà un ascoltatore, condiziona lo scrittore a scrivere un testo che sia a misura di ascolto. Il rapporto di forza risulta capovolto. Colui che ascolta determina la struttura, lo spazio, il tempo della narrazione. Colui che legge, guarda e immagina è determinato dallo scrittore, è guidato alla costruzione di immagini che riguardano la narrazione: perciò spazio, tempo, caratteristiche fondamentali di quelle immagini sono suggerite da chi scrive. La visione del lettore rappresenta unicamente uno spazio di reazione psicologica. Dunque le immagini di Aci Trezza, di Parma e di Macondo rappresentano una mappa geografico-fantastica tracciata dagli scrittori con la cooperazione dei lettori, così come quelle che riguardano le caratteristiche dei personaggi, le loro azioni, lo spazio in cui si muovono. La risposta fruitiva del romanzo è sempre una risposta individuale, la proiezione di sé effettuata dal lettore si svolge secondo un meccanismo vista-visione che implica un’intima adesione da parte del lettore stesso. Il romanzo, del resto, è anche l’unico genere letterario a possedere una mappa.127 Siano luoghi geografici identificabili o paesaggi della mente, essi hanno una consistenza che li fa esistere in modo autonomo non come guide turistiche ma come luoghi dell’anima. È sempre Psiche al centro di tutto, una sorta di fabbrica delle visioni che corrono in soccorso dell’uomo, là dove la vista cerca di oltrepassare i limiti. Le città dei romanzi sono nello stesso tempo città invisibili e città visionarie. È banale osservare che Londra, Parma, Parigi, in quanto città reali, sono assai diverse da come Dickens, Stendhal, Hugo le hanno descritte. Ed è banale anche aggiungere che c’è un’enorme dif-

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ferenza tra la Londra di Dickens e quella di De Amicis e quella di Defoe ecc. Ma queste osservazioni di diversità non nascono solo dall’evidente metamorfosi fantastica che ogni luogo subisce nel passare attraverso la descrizione romanzesca, bensì anche dal risultato di una doppia produzione di immagini a riguardo. In sostanza, la Parma de La Certosa e la Parigi de I Miserabili non sono solo il risultato del lavoro dello scrittore ma anche di quello del lettore. Dal doppio sguardo dell’autore e del lettore, incrociato su Parigi, esce l’immagine letteraria di Parigi, ed è solo il romanzo a consentire questo laborioso e prolungato intrecciarsi di sguardi su una città, a far esistere una città, indipendentemente dalla sua realtà concreta. Se in futuro le modalità di lettura torneranno a modificarsi, occorrerà tenere conto di quali saranno le possibili conseguenze in relazione a questa particolare fruizione a cui il romanzo si presta. La lettura di un romanzo al computer, o addirittura in ipertesto o in realtà virtuale potrebbe espandere all’infinito le possibilità dell’occhio e dell’immaginazione visiva riguardo al romanzo. Si potrebbe costruire un universo di mondi possibili richiamando in ipertesto tutte le immagini letterarie di una città, oppure convocarlo in realtà virtuale dando ulteriore incremento all’immedesimazione del lettore e alle sue produzioni immaginarie. Non è detto che questo giovi al romanzo e alla sua fruizione, ma certo modificherebbe la solitudine del lettore, ne materializzerebbe lo sdoppiamento, lo sguardo, le facoltà di scelta e lo metterebbe nelle condizioni di uno scienziato che opera in laboratorio, con un’équipe di tecnici. Solo il romanzo avrebbe il materiale necessario a simili costruzioni, a simili innovazioni, e solo la fruizione tipica del romanzo le consentirebbe.

Visività del testo teatrale Nel presentare questo discorso “visivo” sul teatro, intendiamo volutamente sorvolare sulle questioni accademiche che si sono protratte ancora per tutto il Novecento sui rapporti fra testo scritto e rappresentazione. Citiamo Crovi: Il teatro si scrive con il corpo: il testo drammaturgico viene, prima ancora che incarnato, integrato dall’attore. E non solo gli attori, ma anche il regista e gli spettatori concorrono a trasformare in racconto attivo le didascalie di scena e i dialoghi.

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Il testo teatrale è un pre-testo per ricreare la vita: quindi, chi scrive di teatro non può non tenere conto che quel che viene detto trova sostanza scenica integrandosi con i gesti e le tensioni di chi recita.128

Un’aggiornata e sintetica bibliografia potrà rimandare al problema, per chi volesse entrare nel merito.129 Ci sono molti e vari modi, attraverso cui un testo teatrale manifesta la sua volontà di farsi spettacolo. Sostanzialmente, essi possono essere raggruppati in due tipologie: una, per così dire, esterna al testo e una interna. La prima raggruppa tutti quei riferimenti, sistemi di relazioni culturali che sono in qualche modo impliciti, e che hanno bisogno di un’attenta ricostruzione di fonti e di contesti per essere compresi ed esplicitati nel modo più esauriente e più stimolante possibile. La seconda si annida all’interno del testo stesso, è più esplicita dell’altra e si può individuare sostanzialmente in due diversi spazi dell’opera teatrale: quello dei dialoghi, prologhi, canzoni, cori ecc. e quello delle didascalie. Certamente, se volessimo entrare più tecnicamente nella struttura del testo teatrale, converrebbe distinguere in questa tipologia esplicita delle categorie più articolate e individuarne la diversa funzione: per esempio, non sempre prologhi e canzoni sono presenti ma, là dove si trovano manifestano spesso, rispetto ai dialoghi, una maggiore propensione a dare esplicite indicazioni per la messa in scena. Qui però è interessante soprattutto definire una distinzione fra due diversi spazi del testo teatrale, quello “parlante”, in cui vari tipi di personaggi portano comunque il loro discorso sulla scena, e quello “muto”, in cui è l’autore a rivolgersi direttamente agli eventuali registi, drammaturghi, attori e, in ultima analisi, lettori, per organizzare i movimenti, i gesti, le espressioni che serviranno a fare del testo di letteratura teatrale uno spettacolo vero e proprio. L’importanza della visualizzazione nella traduzione scenica di un testo teatrale è talmente ovvia che non ha bisogno di dimostrazioni ma, caso mai, di osservazioni in margine e di qualche esempio significativo. Per quanto riguarda la prima tipologia, quella esterna al testo ma che richiede di essere portata dentro, almeno come rappresentazione, occorre osservare, innanzi tutto, che nel passaggio dal testo di pura letteratura teatrale alla messa in scena si possono produrre un numero pressoché infinito di varianti interpretative, ten-

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denti a sottolineare un aspetto piuttosto che un altro e a sfruttare la “teatralità” dell’opera in modo che la creatività dell’autore e quella del regista interagiscano nel rispetto della reciproca libertà espressiva. Tale passaggio è particolarmente influenzato dal contesto culturale nel quale si realizza la traduzione scenica, dalle scuole di regia e di recitazione, dall’orientamento della ricerca espressiva in un particolare momento e contesto storico, ecc. Non è possibile qui entrare nel merito di quelle ricerche espressive: certamente le interpretazioni drammatiche delle avanguardie “occidentali” negli anni Sessanta e Settanta hanno proposto vari tipi di linguaggio, talora accentuando a fini di sperimentazione una sola componente della rappresentazione: è il caso del Living Theatre, di Jerzi Grotowski, di Eugenio Barba, di Tadeusz Kantor, di Carmelo Bene.130 Proprio quest’ultimo, ad esempio, ha offerto una vasta gamma di interpretazioni anche monoespressive: si pensi al Manfred di Byron, semplicemente letto, al teatro alla Scala di Milano nel 1980, con il regista-attore solo davanti al microfono, e un “occhio di bue” praticamente fisso. La scelta della voce come unico elemento della recitazione fu ripetuta da Bene anche più tardi, con un Otello nel 1985131 e poi ancora con un Adelchi, in cui l’attore si muoveva pochissimo su una scena immobile. Erano gli anni di ricerca sul “teatro della voce”, ma Carmelo Bene realizzò anche due rappresentazioni dell’Amleto, di cui l’ultima quasi unicamente visiva, con scenografie tratte dalla scultura e dalla pittura del Seicento. Grotowski, del resto, e spesso anche Julian Beck con il Living Theatre, rinunciavano alla voce per dare la più grande importanza all’espressività dei corpi, preparati atleticamente a performance anche impegnative sul piano fisico, secondo le teorie del teatro povero, che sono espresse anche negli scritti teorici.132 Un testo teatrale, di qualunque epoca e cultura, si presta sempre a molteplici possibilità di rappresentazione: basta pensare al mirabile paradosso realizzato nel 1993 da Thierry Salmon sul testo delle Troiane di Euripide: la drammaturgia di Renata Molinari, in lingua greca originale, rigorosa a livello testuale ma scandita come una partitura sinfonica, mise in risalto soprattutto la presenza scenica di un popolo di sole donne che, attraverso rapidi movimenti, in coro o singoli, e modulazioni sapienti delle voci e della mimica corporea toglieva ogni importanza all’incomprensibile significato della lingua, ridotta a pura foné e resa in chiave espressiva anziché comunicativa.

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Il testo teatrale, fra tutti i generi letterari, è quello più soggetto alla mutevolezza legata all’evoluzione delle culture e del sapere, poiché è quello che, più di tutti, necessita della cooperazione, anche fisica (la presenza, lo sguardo almeno) dei propri destinatari, degli spettatori. Lo spectator, colui che guarda, è anche colui che aiuta il testo, nel tempo, a completarsi e ad arricchirsi.133 In questo senso il testo originario, scritto dall’autore, diviene immediatamente un Ur-test, una sorta di “grande codice” primitivo a cui le varie rappresentazioni si rivolgono per aiutarlo a venire alla luce. Il regista, il drammaturgo e gli spettatori sono parti essenziali del teatro, assai più che non il lettore di poesie o di romanzi, a cui pure è richiesta una «cooperazione».134 Una via di mezzo, in questo campo cooperativo, è rappresentata dal lettore-ascoltatore di novelle, a causa delle potenzialità drammaturgiche e dell’oralità del genere novellistico.135 Su questo piano, ancor prima dell’avvento di Brecht136 e del teatro brechtiano in genere, e prima anche di Artaud,137 un autore italiano ha prodotto dei testi esemplari come «opere aperte»,138 destinate esplicitamente alla cooperazione interattiva degli spettatori, dei registi e degli attori.139 Si tratta di Luigi Pirandello. Il grande dilemma per Pirandello autore teatrale consiste nel conciliare l’intervento dell’attore con la creazione dello scrittore. Solo apparentemente questo dilemma si risolverà con la creazione di una compagnia teatrale, avente come autore e regista lo stesso Pirandello. In realtà, lo scrittore di teatro è destinato sempre a vedersi sdoppiare, moltiplicare la propria opera in tutte quelle che vorranno realizzare gli attori, gli scenografi, i costumisti ecc. Una moltiplicazione di questo tipo è ben radicata nelle concezioni filosofiche pirandelliane e lo sdoppiamento inizia fin dalle origini. I personaggi nascono dalla creatività più profonda, inconscia, dell’autore, poi vanno incontro alla realizzazione, all’espressione drammatica che la parte più cosciente dello scrittore organizza, finendo spesso per essere snaturati, quando non addirittura rifiutati. L’immagine, nel teatro pirandelliano, è più forte della parola. Nessuna disquisizione sulle differenze tra realtà e verità, tra avere ed essere forma, tra vita e arte sarà tanto efficace quanto le famose maschere, descritte nelle didascalie dei Sei Personaggi, che con i loro affannosi movimenti vanno alla ricerca di un unico scopo drammaturgico: quello di unificare ciò che è diviso, fino a far coincidere ciascun Personaggio con ciascun Attore e, soprattutto, la fi-

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gura del capocomico con quella dell’autore. La parola dà perfino fastidio, perché definisce, squadra, schematizza: nella «stanza della tortura»140 non a caso la lotta più aspra si scatena proprio per l’accaparramento della parola più autentica e definitiva, capace di affermare “una” verità. Eppure né il Padre né la Figliastra, nei Sei Personaggi, né la signora Frola né il signor Ponza, nel Così è (se vi pare), né altri personaggi altrove arrivano mai a impossessarsi di questa parola capace di verità definitive. Rimane in ogni finale pirandelliano la penosa leggerezza di una parola che ciascuno porta con sé come una croce: un floscio ornamento, una caratteristica insignificante e transitoria, che non serve a comunicare se non con chi è già convinto: uno strumento di martirio, riappeso al muro dopo ogni seduta. Nella trilogia metateatrale (Sei Personaggi in cerca d’autore, Ciascuno a suo modo, Questa sera si recita a soggetto), Pirandello sembra giungere a soluzioni d’avanguardia per quanto riguarda il linguaggio teatrale, partendo proprio dalla crisi di quel linguaggio stesso. In questi drammi si avverte un’eco futurista: i personaggi-maschere ricordano i fantocci del secondo atto di Poupées Electriques di Marinetti, inoltre sappiamo che Pirandello stesso, agli esordi, come capocomico mise in scena drammi futuristi. L’avanguardia è dunque servita a porre in discussione i rapporti tra pubblico e scena, tra autore e attore, tra autore e pubblico: è servita ad attivare un meccanismo di cooperazione senza il quale non esiste teatro moderno. Anche se in questo teatro pirandelliano il meccanismo è ancora finzione e nulla è improvvisato e realmente aperto alla recita a soggetto, lo schema che ne finge la possibilità ne instaura comunque la presenza eventuale, la propone come possibile. 141 Essendo poi i Sei personaggi un’opera di metalinguaggio, Pirandello se ne serve per una «dimostrazione teorica in piena regola». Se già nella vita si è costretti a recitare una parte, che ci viene attribuita dalla percezione altrui, a maggior ragione ciò accade nell’arte, che è come condannata all’eternità, a ripetere gesti e forme che non potranno più modificarsi una volta entrati nel testo. Quando un autore ha già incontrato ripetutamente il suo pubblico, trasformandosi egli stesso in una di quelle “maschere nude” che affrontano la percezione altrui, inevitabilmente si diventa prigionieri di un meccanismo: dalla fantasia dell’autore escono personaggi già compiuti, autonomi o forse automi: sono sue creature, anche se rifiutati portano il suo stampo, gli assomigliano e si assomigliano tra loro: se

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è così, si può arrivare diritti all’idea che le opere possano scriversi da sé. La commedia dell’arte rappresenta la metafora di questa scoperta per Pirandello: in una sorta di gabbia comunicativa che si crea fra autore e pubblico, la vera novità che quest’ultimo cerca in teatro è rappresentata dall’attore. Forse non a caso autori come D’Annunzio e Pirandello scrivono intere opere su misura per le loro grandi attrici, la Duse e la Abba. E se l’attrice, sulla scena, diventa la vera autrice del dramma, ecco che l’autore, dopo aver dato alla luce le sue creature, sembra limitarsi a controllare che non lo tradiscano, che non compiano troppe trasgressioni: lo strumento di cui può disporre per questo è un uso sempre più fitto delle didascalie. In questo modo l’autore ripara nei panni del regista. Ma in realtà è probabilmente il testo teatrale nella sua più autentica natura di genere mutante a proporsi sempre come evocazione di fantasmi da consegnare, metaforicamente, alla tradizione. Più dei generi consegnati alla definitività della scrittura, la letteratura teatrale chiede di essere contestualizzata e “attualizzata” in termini d’immediata visibilità. La sua comunicazione deve agire simultaneamente in varie direzioni culturali e fornire allo spettatore, nello stesso tempo, l’informazione del suo hic et nunc e della sua storia culturale. Sia che il regista e gli attori abbiano scelto la cosiddetta fedeltà al testo, sia che lo abbiano interpretato in chiave di ricerca, ciò che deve essere “visto” dallo spettatore è il senso dell’evoluzione culturale che giustifica la tradizione di quel testo nei secoli. Questo è un elemento a cui Pirandello forse non ha pensato, nella sua ricerca di uscire dalla gabbia comunicativa propria del teatro: un mutamento, in termini di accrescimento di sapere, di adattamento al destinatario, dato dalla tradizione di un testo teatrale mediante le sue realizzazioni spettacolari. Dovendo esaminare degli esempi, si è costretti a restringere la scelta e ad analizzare in profondità qualche caso, in grado di fornire dei modelli. Se, supponiamo, alle prime rappresentazioni della Mandragola del Machiavelli, nel 1520 circa, o a quella dell’Aminta del Tasso nel 1573, potevano bastare luoghi, scenografie, costumi, gesti prescritti e registicamente controllati dagli autori stessi, oggi, per la traduzione scenica di quelle opere occorre qualcosa di più e di diverso, anche nel caso che si desideri un’operazione puramente e rigorosamente filologica. Per fare un esempio: poche sono le commedie così ben situate dal loro autore, spazialmente e geograficamente,

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come La Mandragola che nel Prologo indica perfino una via (via dell’Amore), di cui si scorge l’ingresso dalla piazza in cui è ambientata (II, 1). Così Giorgio Inglese142 riesce perfino a congetturare che fra Timoteo possa essere non un frate servita, come la tradizione critica ha sempre ipotizzato, ma un domenicano, perché quella via a Firenze esisteva ed esiste veramente, e congiunge via Faenza alla piazza “vecchia” di Santa Maria Novella (oggi Piazza dell’Unità). Santa Maria Novella era sede, appunto, dei domenicani conventuali. In sostanza, ciò che per l’autore e i suoi contemporanei era assolutamente scontato, e anzi così precisato da non poter dar luogo a equivoci circa l’ambientazione, per noi oggi è divenuto così complesso per le diverse argomentazioni critiche, da rendere la volontà di fedeltà assoluta al testo quasi una pignoleria, che forse non avrà mai riscontri definitivi sul piano della documentazione: e se il Machiavelli avesse semplicemente cercato un artificio scenico, con le due case di Nicia e di Callimaco a fronteggiarsi avendo al centro la chiesa e il convento di fra Timoteo? Inoltre, poiché secondo l’ipotesi di Luigi Foscolo Benedetto, oggi accolta da tutti, l’opera fu composta dopo l’allontanamento da Firenze (1512), come testimonia l’amarezza del Prologo, sarà più fedele al testo e al contesto continuare ad ambientarla in quella piazza semplicemente, oppure lavorare sul metalinguaggio scenografico e incastonare quella piazza in una cornice, in cui Firenze appaia come una sorta di visione, emanata magari da un semplice interno rustico, simile a quello dell’Albergaccio di San Casciano nel quale l’autore doveva trovarsi, e neppure tanto rivestito di panni curiali? Ma forse sarebbe anche importante che la scenografia ci raccontasse la storia delle prime rappresentazioni di quella commedia non destinata al teatro di corte: il carnevale del 1519 sembra lo sfondo più accreditato del debutto, e poi l’Urbe, a lungo desiderata, per allietare papa Leone X, un altro Medici da gratificare. Così sarebbe altrettanto importante che oggi lo spettatore potesse cogliere, con un sol colpo d’occhio, non solo il testo dell’Aminta, quale fu scritto dal Tasso, ma anche la sintesi di ciò che il Tasso stesso ha rappresentato presso i letterati nei secoli successivi, passando eventualmente per Leopardi e Goethe (e perché non citare la regia del Torquato Tasso di Goethe, che Peter Stein curò a Brema nel 1969, con l’interpretazione di Bruno Ganz?) E ancora: a chi oggi rappresenta La Mandragola (l’ultima è quella di Mario Missiroli, con Paolo Bonacelli, nel 1996) si chiede cer-

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tamente di tener conto di tutto ciò che dopo il Cinquecento si è scoperto negli studi storici, letterari, scientifici, a proposito di quell’età, perché l’evoluzione del sapere accresce anche il sapere dei testi e intorno ai testi. Così, nel rappresentare oggi quella commedia occorrerebbe tener presenti, dunque rendere visibili, facendoli “uscire” dal testo, alcuni elementi rimasti a lungo impliciti o non immediatamente visibili. Della scenografia nell’insieme s’è detto. Ma sarebbe interessante riempire quella scenografia di altre immagini, capaci di rendere l’idea del contesto culturale in cui il Machiavelli costruisce questa sorta di beffa che è anche denuncia di una superstizione. Si tratta di un contesto nel quale i poteri magici delle erbe sembrano, in certi ambienti colti, momentaneamente sospesi, a favore di uno studio sempre più accurato di quelli scientifici. Proviamo dunque ad ambientare la nostra Mandragola in una specie di erbario. Le erbe e le loro proprietà sia terapeutiche che gastronomiche furono studiate, per esempio, dal Platina nel trattato De honesta voluptate et valetudine del 1467,143 da Leonardo e da Botticelli con interesse sia botanico che artistico. La Primavera del Botticelli costituisce nella ricca parte non figurativa un erbario fitto e scientificamente riprodotto. Tre secoli prima, l’uso di erbe a scopo scientifico e terapeutico era considerato con molto sospetto, prerogativa di donne che avevano commercio con il diavolo o di eremiti ed esseri asociali che vivevano ai margini delle comunità. Un secolo dopo, questo atteggiamento culturale si troverà pienamente ripristinato dalla cultura della Controriforma, cultura di confine e di paura, che sceglierà di distogliere lo sguardo diretto dalla natura. Nel Cinquecento, i letterati come il Machiavelli, gli artisti e gli scienziati che fondano il loro metodo sulla esperienza possono permettersi di ridere dell’uso superstizioso delle erbe, e beffarsi dei cialtroni che le propagandano.144 L’erbario che occorre costruire come sfondo alla nostra Mandragola è un erbario pre-linneiano, asistematico, in cui si potrebbero ritagliare, a mo’ di ipertesto, varie finestre. Alcune di queste finestre potrebbero essere boccacciane e aprirsi sulla salvia venefica (per la presenza della «botta» – rospo – nelle radici), della novella di Simona e Pasquino (Decameron, IV, 7), e forse anche sul basilico amoroso e metonimico di Lisabetta da Messina (IV, 5), e così via, mentre alle “finestre” di fronte si può affacciare tutta la trattatistica cinquecentesca in materia e qualche aggiornamento di prospettiva suggerito, ad esempio, da Piero Camporesi.145

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Non si dimentichi, poi, che la mandragola è una pianta delle Solanacee, come la patata (che infatti, se germoglia, produce veleno, in minima quantità), ma anche come lo stramonio (Datura stramonium o erba del diavolo):146 le radici di tutte le Solanacee sviluppano veleni che sono anche delle droghe e possono in parte spiegare le origini delle superstizioni a loro riguardo. Una serie di “finestre” in più si aprono dunque sul nostro scenario, visibilmente più ricco e sfumato di quanto il testo, a una prima lettura, sembra indicare. Sono finestre intermedie, ben più numerose e piene di contraddizioni, che appartengono alla cosiddetta “magia naturale”. Come scrive il Walker, 147 «la magia del Rinascimento è sempre sul punto di risolversi in arte, in scienza, in psicoterapia, in religione». Questa tendenza troverà conferma ancora nella cultura posteriore al Machiavelli: si pensi a Bernardino Telesio, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, o anche all’impronta lasciata nella cultura del primo Cinquecento dalle traduzioni in latino delle opere di Platone e dei neoplatonici, a opera di Marsilio Ficino. I quattordici trattati del Corpus hermeticum (che Ficino tradusse fra il 1463 e il 1464) ebbero una grande circolazione manoscritta, seguita da sedici edizioni stampate fra il 1471 e la fine del Cinquecento. Quei testi, che risalgono al secolo II, furono attribuiti dal Ficino e dagli studiosi di tutto il Cinquecento a Ermete Trismegisto, leggendario fondatore della religione egizia, contemporaneo di Mosè e maestro remoto di Pitagora e di Platone. A questi testi, e alla visione del mondo teorizzata dal Ficino nella Theologia platonica (1482), è legata la rinascita della magia nel tardo Quattrocento e nel Cinquecento (e poi la persistenza dell’ermetismo nella cultura europea del Seicento).148 Nel momento in cui Machiavelli scrive La Mandragola il panorama scientifico e filosofico europeo, e italiano in particolare, è ancora molto mescolato a quello magico-alchemico-astrologico. L’opera De occulta philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa, che costituisce la prima teorizzazione stampata della magia naturale, è del 1510. Quest’opera, diffusissima nel Rinascimento, valse la fama stereotipata di negromante al suo autore, al punto da trasformarlo nella caricatura di Herr Trippa nel Gargantua di Rabelais (III, 25), nel modello del diabolico Doctor Faustus di Marlowe (espressamente dichiarato), mentre il monologo di apertura del Faust di Goethe rappresenta una sintesi dell’altra opera famosa di Agrippa, De vanitate scientiarum. Non si vuole qui esaminare tutta la trattatistica tra scienza, magia

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e religione dal Quattro al Cinquecento, ma soltanto ricordare quanto mosso e sfumato sia lo scenario della cultura della natura nel Cinquecento mentre il Machiavelli compone La Mandragola. In particolare, sia ancora concessa un’occhiata a questo tipo di cultura per quanto riguarda il sesso e il concepimento.149 Basta dare uno sguardo al capitolo V di Le medicine partenenti alle infermità delle donne, scritte per M. Giovanni Marinello, per rendersi conto che ancora nel 1563 la terra creta, i diamanti tritati e pestati, la pelle di biscia e altre simili sostanze vengono annoverate fra i rimedi terapeutici della sterilità e dell’aborto. Se cercavamo “erbari” come scenari per una nostra ipotesi di rappresentazione della commedia machiavelliana, non abbiamo dunque che l’imbarazzo della scelta, ma occorre tenere conto delle infinite sfumature fra scienza, magia, superstizione. Si potrebbe osservare che un testo nato come genere teatrale ha questa possibilità in più, rispetto alla fruizione degli altri generi letterari: la sua visualizzazione fa parte della drammatizzazione e dunque, per statuto, il testo teatrale è il genere che più vistosamente richiede di essere completato attraverso la sua messa in opera, che funziona pienamente solo nel momento in cui appare agli occhi degli spettatori. È chiaro che ciò non esclude che qualsiasi altro genere letterario possa essere trasformato in teatro: la novella, ad esempio, è pronta per questa trasformazione già quasi spontaneamente. Ma questo implica un passaggio intermedio, da un genere all’altro, e la drammaturgia riassume in questo caso due operazioni distinte È chiaro altresì che esistono testi teatrali nati più per essere letti che rappresentati (così si suol dire, ad esempio, dell’Adelchi e del Conte di Carmagnola), ed è altrettanto chiaro che alcune operazioni di ricerca sulla messa in scena hanno potuto scarnificare al massimo la scenografia e tutto il piano del visibile teatrale, riducendo anche presenze e gesti all’essenziale (si pensi al Manfred di Carmelo Bene). Nell’operazione di riduzione si può arrivare fino a togliere tutto: il teatro radiofonico lo fa, a eccezione delle voci e dei rumori. Ma si tratta di una cosciente rinuncia, determinata o dal mezzo (come quello radiofonico) o dall’esigenza di ricerca espressiva, che volontariamente e spesso provocatoriamente opera tagli per proporre un linguaggio che sviluppa ed esalta solo alcune delle proprie potenzialità. Se, al contrario, volessimo operare la scelta opposta, tutti gli elementi del contesto cooperano per la migliore affermazione teatrale del testo. Quel fra Timoteo, ad esempio, che pare uscito dal

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Decameron,150 apparirebbe ben incastonato in una farmacia di monastero, intento a distillare erbe e succhi fra il magico e il terapeutico, magari con qualche richiamo al fraticello di Romeo e Giulietta (Luigi Da Porto scrisse la sua Historia circa negli anni della Mandragola, anche se l’opera di Shakespeare è di fine Cinquecento), e certamente la fantasia di uno scenografo non avrebbe che l’imbarazzo della scelta se dovesse richiamare anche qualche tipologia ripetuta in tempi più vicini a noi, fino ad arrivare a Laura Mancinelli e Umberto Eco. Qualche abile tocco scenico potrebbe poi rimandare Callimaco e il suo servitore, nonché Lucrezia, alle loro origini tipologiche terenziane,151 senza però dimenticare che Lucrezia (nomen omen) arriva da una tipologia più sfumatamente allusiva, ossia dalla “storia” romana delle origini (Machiavelli commentatore della Prima Decade di Tito Livio).152 Un’altra parentela, e non soltanto onomastica, dovrebbe essere ricordata a proposito della Lucrezia protagonista della novella in latino Storia di due amanti153 (1443) di Enea Silvio Piccolomini, dove non solo il personaggio è descritto con caratteristiche simili a quelle della Lucrezia machiavelliana, ma anche la situazione sociale descritta non è molto diversa, essendo anche questa sposata con un uomo ricco ma indegno. Per quanto riguarda, invece, il personaggio più plautino della commedia, cioè messer Nicia, dal linguaggio sboccato e grossolano, forse un’accurata lettura-sovrapposizione di tipo filologico potrebbe riservare qualche sorpresa interessante, finendo per far combaciare il personaggio con un certo ritratto del Machiavelli stesso, quello, certamente, che si autodefinisce ingaglioffito nella lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, ma anche (ed ecco la sorpresa dell’esempio diretto), quello delle Lettere. È in corso la pubblicazione degli Opera omnia del Machiavelli presso l’editore Salerno, tra cui anche quella delle Lettere (ve ne sono di inedite), ma per questa verifica sarebbe sufficiente l’edizione Feltrinelli del 1961 a cura di Franco Gaeta. In questa, oltre a trovare importanti documenti sulle rappresentazioni della Mandragola, si trovano alcune lettere agli amici, il cui linguaggio, ancora più sboccato di quello di Nicia, ha dato non pochi grattacapi agli studiosi che si sono provati a darne ragione. Senza voler qui citarne un florilegio, si può osservare che proprio le possibilità visive che il teatro offre sul testo consentono un confronto fra questi due linguaggi, quello di Nicia e quello del Machiavelli “familiare” e goliardico, consentendo

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allo spettatore di riconoscere nel personaggio più squalificato della commedia proprio l’autore stesso che lo ha concepito. Del resto Nicia, nella sua ingenuità, richiama anche certi personaggi decameroniani, oggetto di burle a non finire: si pensi a Calandrino (VIII, 3; VIII, 6; IX, 3) e alla sua elitropia, a cui la mandragola, in definitiva, assomiglia nella funzione svolta all’interno della commedia. È chiaro a questo punto, per tutti i riferimenti obbligati che una lettura con allestimento scenico della Mandragola comporta, che un’altra grande cornice scenografica abbraccia l’intera opera, e che un regista di genio potrebbe trovare il modo di allestire con garbata, misurata, ironica leggerezza: è quella costituita dal Decameron, in cui La Mandragola sembra quasi inscritta. Non si tratta di pedanteria nella ricerca delle fonti, né di cercare l’esaustività delle citazioni: ciò che potrebbe visualizzare in modo lieve e raffinato il legame con l’opera del Boccaccio potrebbe essere anche soltanto qualche riferimento alla situazione di partenza da cui si snoda tutta la vicenda. In sostanza, sia l’opera del Machiavelli che le novelle II, 9 e VII, 7 del Decameron partono da una sorta di scommessa, da un patto fra uomini in assenza della donna: la scommessa della tentazione e seduzione di una donna virtuosa e bella, la cui fama di integrità inattaccabile stuzzica alla dimostrazione del contrario. La novella II, 9 del Boccaccio rappresenta in realtà una vicenda tragica, di cui la donna è vittima incolpevole perché beffata con equivoci, mentre l’altra protagonista risponde astutamente con una beffa alla beffa: in entrambi i casi, sono donne perfettamente in grado di dominare le vicende, coerenti con se stesse. Nel caso della Mandragola, Lucrezia viene meno sia all’omen che le compete, sia alle caratteristiche di onestà e di bontà attribuite inizialmente al suo personaggio. A parte la considerazione del diverso atteggiamento da parte del Boccaccio e da parte del Machiavelli nei confronti delle donne, diverso atteggiamento di cui le loro opere costituiscono chiara testimonianza, si tenga conto che Lucrezia nasce in un contesto culturalmente, politicamente ed eticamente considerato degradato dall’autore, rispetto ai tempi antichi, e la sua vicenda non può che rispecchiare questo degrado. Allo stesso modo il vulgo del Principe non può essere governato che da una figura come quella descritta nel trattato, lasciando al ricordo della repubblica romana l’esistenza di un vero popolo di cittadini.

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Con questa Lucrezia un po’ degradata, né buona né cattiva, Callimaco, l’ingannatore, finisce per essere sincero: nato per scommessa, il suo sentimento si è sviluppato autenticamente e merita una spiegazione, un chiarimento nei confronti della vittima: anche nella circostanza e nell’ubicazione di questa spiegazione la commedia rientra nella cornice decameroniana che si diceva, precisamente nella novella III, 6: Ricciardo inganna Catella in un “bagno”, fingendosi il marito; sul principio della commedia, anche Callimaco pensa di far condurre Lucrezia ai bagni, perché in quei luoghi è più facile trovare l’occasione per sedurla (I, 1, 120). Possiamo fermarci qui nelle ipotesi per una visualizzazione teatrale del testo machiavelliano. Ciò che colpisce particolarmente, quando ci si addentra in queste ipotesi di fruizione scenica, è, da una parte, la mutevolezza delle possibilità di rappresentazione, che rispecchia certamente in modo problematico le possibilità culturali del contesto in cui si realizza. Dall’altra parte si consideri l’assoluta necessità, per questo genere letterario, di rappresentarsi se vuole compiere fino in fondo il proprio iter di comunicazione e se vuole, nello stesso tempo, realizzare pienamente anche le proprie potenzialità testuali. Il teatro, in gran parte, è il suo spettatore e ogni sua rappresentazione lo realizza come testo, mettendone in luce aspetti che in altri luoghi e in altri tempi non erano apparsi. Così il regista Mario Missiroli ha realizzato, a partire dagli anni settanta, una sua Mandragola ben diversa da quella che si propone in quest’ipotesi di “commedia da fare”, e così sarà sempre per ogni rappresentazione che porti a nuova luce le possibilità di un testo teatrale. Esiste, per contro, una sorta di “volontà di rappresentazione” che il testo teatrale esercita di per sé, quasi in modo conativo nei confronti della rappresentazione stessa e del regista che deve realizzarla. Questa “volontà di rappresentazione” è data, da una parte, da tutti i residui di una drammatizzazione originaria, là dove il testo letterario si rifaccia a un precedente testo folclorico, già messo in scena e tramandato nel suo canovaccio essenziale da una tradizione popolare; d’altra parte, una precisa volontà di rappresentazione esiste comunque, in un testo nato come letteratura teatrale, là dove si fanno riferimenti, impliciti o espliciti, ai modi della rappresentazione. È il testo stesso, insomma, a dare alcune indicazioni sulla propria rappresentabilità, e non solo attraverso le didascalie, quando sono presenti, ma anche attraverso il tessuto di parole che ne costituiscono i dialoghi.

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Poiché l’esempio che abbiamo approfondito riguardo alla visualizzazione “esterna” e alla messa in scena è quello della Mandragola, sulla Mandragola è bene ritornare per verificare questa sorta di visualizzazione “interna” che il testo racchiude come messaggio per un regista. La struttura stessa dell’opera ne garantisce la mutabilità, tipica di un testo che tende (pretende) all’adattamento spettacolare, nelle varie situazioni presentate dall’hic et nunc. Le canzoni, cinque pervenute in tutto, di cui una «da dirsi innanzi alla commedia» e le altre al termine di ogni atto, tranne il quinto, non risultano in tutte le edizioni e si sa che in alcune rappresentazioni presentavano varianti molto cospicue.154 Queste canzoni, nella loro presenza importante e mutevole, testimoniano di una volontà di rappresentazione che, tenendo conto di circostanze e contesti, non vuole svalutare i testi ma semplicemente rinforzarli di volta in volta con adattamenti più efficaci per il singolo spettacolo. Il Prologo, poi, mentre ci indica la città e il luogo esatto in cui si ambienta la prima rappresentazione della commedia, ci avverte anche che la scena e la scenografia è pronta a mutare del tutto: «un’altra volta sarà Roma o Pisa», e sappiamo che così fu realmente. Questo Prologo, almeno una volta, fu sostituito con un altro «conforme al poco ingegno delli auditori, e nel quale siano più presto dipinti loro» che non l’autore.155 Siamo in presenza di un testo teatrale che mostra già negli elementi che lo compongono una caratteristica “apertura” da opera in cerca dei suoi spettacoli. In assenza di didascalie, sono i componenti della struttura a indicare i possibili modi e spazi della rappresentazione. Sono modi e spazi talmente liberi, da far posto anche alle più varie scenografie: basti pensare che, per quella che fu probabilmente la prima rappresentazione, in casa di Bernardino di Giordano (1520), le scene furono dipinte da Andrea del Sarto e da Bastiano (detto Aristotile) da Sangallo. Le scene, insieme ai costumi e a tutto ciò che costituisce l’elemento fisico della rappresentazione, comportano un alto grado di mutevolezza e gli spunti espliciti che il testo offre in tal senso possono essere molto vari: si pensi per esempio che l’individuazione dell’ordine di appartenenza di fra Timoteo sulla scena della prima rappresentazione era tutta affidata al costume che il personaggio indossava, mentre oggi si è giunti, dopo varie discussioni e ricerche, ad attribuirgli il saio bianconero dei domenicani, dopo aver sco-

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perto l’esistenza a Firenze di Via dell’Amore, che porta dritta a Santa Maria Novella. Possono sembrare questioni oziose perché appartengono al regno dell’effimero teatrale che è, appunto, quello della rappresentazione. Ma è proprio là, dove la letteratura teatrale si fa spettacolo, che il rito giunge a compimento. L’effimero e il mutevole, l’hic et nunc del teatro è proprio costituito dal fatto di rendersi necessario a questo compimento e, per quanto possa apparire aleatorio ogni discorso su queste mutevoli apparenze, occorre sempre tenere ben presente che la vera comunicazione teatrale è costituita dal compimento di questo rito, a cui sono essenziali sia il testo che la concreta rappresentazione. Per questo il testo teatrale urge verso la sua necessità spettacolare, scoppia di potenzialità drammaturgiche, contiene i germi della propria rappresentazione pronti a sprigionarsi. Se il testo della Mandragola dovesse obbedire al Prologo (e non si capisce, in fondo, perché non lo faccia ogni volta che va in scena in una diversa città), molti altri elementi dovrebbero cambiare: la «cupola» che Nicia non perde mai di vista non potrà più essere quella di Santa Maria del Fiore, ma dovrà diventare l’emblema della città in cui è riambientato il testo; così le terme a cui si pensa inizialmente di rivolgersi saranno non più quelle di San Filippo o della Porretta, ma quelle più vicine al luogo dello spettacolo, e Pisa e la «verruca», Livorno e l’Arno come riferimenti geografico-satirici dei gran viaggi di Nicia, dovranno a loro volta adeguarsi. Non risulta che qualche regista abbia mai deciso di obbedire al Prologo in questo modo: l’obbedienza richiede una responsabilità interpretativa troppo grande o, semplicemente, ognuno decide di adeguarsi a una comoda “storicizzazione” del testo, originariamente fiorentino. Occorrerebbe ogni volta l’intervento di un esperto drammaturgo, per adattare, contestualizzare, inventare forse anche, su suggerimento del Machiavelli: così anche gli «otto» di Giustizia, il Mercato Nuovo e quello Vecchio, il convento dei Servi: tutto lo spazio, insomma, sarebbe mutato. Ma poi che ne sarebbe della lingua e del dialetto, del gergo e delle imprecazioni? Mutare tutto, coraggiosamente, traducendo e tradendo il testo in nome di una sorta di fedeltà a oltranza, oppure non muoversi da Firenze e non abboccare all’amo machiavellico buttato lì all’inizio, quasi senza farlo apparire? Come si vede, il discorso ci potrebbe portare lontano. Non si osa quasi pensare a una eventuale ambientazione all’estero, con tra-

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duzione effettiva, ossia adattamento nei termini in cui si diceva. Una vertigine ci coglierebbe se ipotizzassimo di ambientare e rappresentare La Mandragola a Parigi, oppure in luoghi in cui la tradizione della lingua latina non sia stata persistente come in Italia... Eppure l’invenzione del Prologo è opera del Machiavelli, e avrà pur avuto un significato quel rivolgersi al pubblico dicendo: «Vedete l’apparato, / quale or vi si dimostra: / questa è Firenze vostra; / un’altra volta sarà Roma o Pisa: / cosa da smascellarsi per le risa». Può anche darsi che l’ultimo verso citato sia proprio rivolto alle fatiche dell’adattamento e costituisca una sorta di potenziale beffa nella beffa. Un fatto è certo: seguire fino in fondo la volontà di rappresentazione manifestata nel Prologo significa essere costretti a riconoscere la mutevolezza della letteratura teatrale come statuto del genere, essere spinti a una fedeltà ben diversa da quella dell’automatica ripetizione del testo così come è uscito dalle mani dell’autore: significa, insomma, dover lavorare sul testo in modo, per così dire, maieutico, per cercarvi i molteplici sensi di cui è intessuto, le metamorfosi di cui è capace mantenendo la sostanza dei propri discorsi culturali. Un’operazione di questo genere non significa, si badi, una sorta di ritorno al canovaccio della Commedia dell’arte o alla recita a soggetto, ma semplicemente una fruizione non passiva del testo teatrale, fruizione che invece caratterizza quasi tutte le rappresentazioni “classiche” del teatro classico. L’esempio della Mandragola rimane comunque uno dei più significativi nella dimostrazione dei suggerimenti sia impliciti che espliciti per la propria spettacolarizzazione. Non a caso è tra le opere teatrali più ammirate dal Goldoni, anzi, è l’opera che ne desta la vocazione al teatro, prima ancora della lettura di Molière. Forse occorrerebbe riflettere anche sul fatto che la presenza nella struttura della commedia letteraria del Cinquecento di elementi spettacolari tipici della festa di corte (le canzoni, esplicitamente scritte per essere cantate, le musiche, le danze, i costumi di ninfe e pastori) testimonia di una contaminatio ancora in parte da studiare: quella con la commedia dell’arte, che svolge un suo percorso parallelo, nelle rappresentazioni di corte, a quello del teatro più colto, più letterario. La commedia si presta certamente più della tragedia a questo tipo di contaminatio e, probabilmente, questa sua esplicita apertura alla variabilità drammaturgica dipende dalla vicinanza anche tematica e d’intreccio con la commedia dell’arte. Una dimostrazione sta in certe opere di Molière. Ma non è un caso che anche Goldoni,

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poi, nella sua riforma teatrale che liquida in gran parte la commedia dell’arte, tenga conto proprio della lezione più viva di quest’ultima, filtrata da Molière: la possibilità del teatro di ambientarsi concretamente nella realtà culturale, sociale, economica, in paesaggi geograficamente e socialmente definiti, sembra essere la testimonianza di una duplice scelta: da una parte, quella dell’ancoramento a una realtà concreta, in grado di visualizzare la spettacolarizzazione del testo in modo peculiare (Le baruffe chiozzotte, Il campiello certo richiedono come scena le immagini di Chioggia e di Venezia), d’altra parte, sia il Servitore di due padroni, nella sua citazione di maschera, sia Mirandolina, nella sua modernità di personaggio, vanno in cerca di una struttura scenica estremamente aperta, l’uno per l’astrazione del ruolo sociale che finisce per ricoprire, l’altra per le infinite potenzialità di contestualizzazione implicite nel personaggio. Se non bastasse la forza di quest’ultimo (e la sua fortuna scenica in tutte le lingue del mondo), abbiamo il messaggio dell’Autore a chi legge che testimonia di una variazione molto interessante: Deggio avvisarvi, Lettor carissimo, di una piccola mutazione, che alla presente Commedia ho fatto. Fabrizio, il cameriere della Locanda, parlava in veneziano, quando si recitò la prima volta (1753); l’ho fatto allora per comodo del personaggio, solito a favellar da Brighella; ove l’ho convertito in toscano, sendo disdicevole cosa introdurre senza necessità in una Commedia un linguaggio straniero. Ciò ho voluto avvertire, perché non so come la stamperà il Bettinelli; può essere ch’ei si serva di questo mio originale, e Dio lo voglia, perché almeno sarà a dover penneggiato. Ma lo scrupolo ch’ei si è fatto di stampare le cose mie come io le ho abbozzate lo farà trascurare anche questa comodità.

Qui l’intervento dell’autore è davvero illuminante, a testimonianza proprio di ciò che si diceva a proposito del testo della Mandragola e del testo in genere come letteratura teatrale: nella coscienza degli autori quest’ultima non rappresenta mai qualcosa di autonomo e d’intangibile, anzi, qui il Goldoni sorride addirittura bonariamente del suo zelante editore, preoccupato di una scientificità filologica che il testo non pretende e non ama. Ciò che costituisce il vero evento teatrale, il vero compimento del testo, è il momento reale, unico e irripetibile, quindi effimero e mutevole per sua natura, della concreta rappresentazione, la quale deve tener conto di tanti fattori contingenti, come la lingua in cui l’attore è abituato a recitare (dunque, se costui di solito recita nei panni di Brighella, sarà utile lasciargli parlare il veneziano anche in una commedia ambientata in una locanda di Firenze).

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Goldoni è anche molto interessante, dal punto di vista della “volontà di rappresentazione” del testo, nell’uso delle didascalie: sintetiche, ma piuttosto fitte, sembrano in qualche modo costrittive, quasi delle note di regia per quanto riguarda i movimenti e i gesti dei personaggi, mentre si affidano evidentemente alla capacità espressiva dei singoli attori, che di volta in volta recitano le commedie, per quanto riguarda toni di voce, sentimenti, atteggiamenti psicologici, su cui, pure, le indicazioni sono fittissime: «con ira, con sdegno, con cautela, con tenerezza» ecc. rappresentano evidentemente indicazioni più aleatorie e soggettive rispetto a «si allontana, si avvicina, prende un bicchiere di vino» e sono affidate interamente all’arte e alla sensibilità degli attori. In questo senso, Goldoni apre un percorso che sarà poi seguito praticamente da tutti gli autori di testi teatrali, fino allo scoppio del Futurismo e delle avanguardie successive. Molière è ancora lontano da un uso così ricco, complesso e “aperto” delle didascalie: si limita a indicare i movimenti dei personaggi e l’ubicazione degli oggetti in scena, a volte quasi con puntiglio, con un eccesso di pignoleria. Ma non si trova nulla, nelle sue didascalie, che apra il testo all’interpretazione soggettiva e mutevole di uno stato d’animo. Così come non si trova nei testi teatrali di Shakespeare, che fa un uso molto parco, quasi solo strumentale, delle didascalie. In realtà la loro funzione rimane proprio quella essenzialmente tecnica di guida ai movimenti di scena e di manifestazione visiva, rappresentativa, del testo teatrale vero e proprio. Occorrerebbe a questo punto una breve riflessione (e digressione) sul modello antico. Tralasciamo il complesso dibattito filologico sull’inserimento e la tradizione delle didascalie nel passaggio dall’oralità alla scrittura manoscritta e dalla fonte manoscritta alla tradizione delle interpolazioni istrioniche: certo sarebbe importante ricostruire la storia di queste “metamorfosi” testuali, ma la documentazione assai frammentaria, anche per quanto riguarda i manoscritti originali, non consente che congetture. Va sottolineato che, comunque, le interpolazioni degli attori hanno un’enorme importanza nella storia del testo stesso, perché quelli che possiamo definire come archetipi dei primi manoscritti tramandati sono in realtà i copioni usati dagli attori tragici nella seconda metà del secolo V. Le interpolazioni si moltiplicano fino al 330 a.C.156 Solo nell’epoca alessandrina il testo viene recensito e fissato, ma in realtà solo dopo il secolo I a.C. cessano

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le interpolazioni. In ogni caso, c’è un lungo silenzio della tradizione dei manoscritti, in genere dal secolo II al secolo XIV, che lascia spazio ad ampie congetture. Dobbiamo tuttavia almeno accennare all’esistenza di un dibattito scientifico (purtroppo esiguo) sulla questione delle didascalie, interne ed esterne, annesse ai testi teatrali greco-antichi. Da una parte, abbiamo la posizione estrema di chi, come David Bain,157 conclude che le annotazioni a margine pervenute fino a noi sono per lo più aggiunte del lettore e non fanno parte del testo originario, salvo uno sparuto gruppetto di quelle. Dall’altra parte, abbiamo la posizione degli studiosi che invece rilevano e studiano proprio la presenza di queste poche didascalie, potenziali o definite che siano, per metterne in evidenza l’importanza in relazione alla volontà di rappresentazione che si manifesta sia nel testo che nel paratesto. Secondo Taplin e Chancellor158 la parepigrafé o didascalia scenica nel teatro tragico greco e nei drammi satireschi è ben presente, per non parlare del teatro comico, a proposito del quale esiste un’esplicita dichiarazione di Euripide (Oreste, 1384): «qualcuno ritiene che questa sia una didascalia, come succede nei drammi comici». Taplin redige addirittura un elenco delle didascalie più antiche che si possono registrare, opera talvolta dei trascrittori, ma sulla base delle trascrizioni fonetiche d’autore, di suoni emessi dai personaggi: si registrano per le Eumenidi di Eschilo dei «mugolii», per I Pescatori uno «schiocco di lingua» ecc., mentre le indicazioni che riguardano opere di Sofocle e di Euripide sono riferite più al movimento: nel Filottete di Sofocle troviamo un «avanza strisciando», nel Ciclope di Euripide un «canto da dentro». Per quattro di queste didascalie Taplin formula l’ipotesi che siano riconducibili alla mano dell’autore. Un’altra ipotesi è ancora quella classica, fornita da Rutheford,159 secondo cui i tragici greci indicavano tutte le didascalie sceniche di qualche importanza nel testo drammatico: questo secondo Taplin vale anche per la commedia, anche se il rapporto tra testo e spettacolo appare meno vincolante, il che spiegherebbe perché le parepigrafi dei commentatori siano spesso associate alla commedia. Queste due ipotesi sono in apparenza inconciliabili: come possiamo affermare che i drammaturghi non si davano la pena di scrivere le didascalie sceniche, del tutto incuranti degli eventuali lettori, e allo stesso tempo che si preoccupassero di inserire invece le loro direttive nelle parole del testo da recitare? Secondo me la soluzione a questa apparente contraddizione è che lo stretto rapporto tra testo e azione scenica solo accidentalmente tiene conto dei possibili lettori, esso in verità si in-

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dirizzava prevalentemente al pubblico presente nel teatro [...] I drammaturghi greci non scrivevano didascalie nel senso comune del termine, ma ogni volta che un’azione o un effetto scenico si configurava come un elemento importante del dramma, essi lo trasponevano senza possibilità di equivoco nelle parole del testo. E così per qualunque altro elemento significante. Quindi, la ricerca di una risposta per la nostra modesta domanda di storia testuale finisce con il sostanziare un principio fondamentale per l’interpretazione del dramma.

Durante l’età umanistica e poi ancora in modo sistematico durante la ripresa degli studi classici, tra fine Settecento e Ottocento e oltre, i testi del teatro greco si presentano “in compagnia” di didascalie che sono anche il frutto delle varie revisioni e aggiunte accumulate nel corso del tempo, non solo per opera di grammatici e filologi. La necessità di inserire degli elementi sonori o visualizzanti e rappresentativi dei movimenti di scena fa sì che l’invenzione della didascalia, paradossalmente, sia qualcosa di spurio, in molti casi, ma connaturato al testo: esprime un’esigenza irresistibile di fruizione, insomma, non si sa bene se più utile al lettore/spettatore o al regista e agli attori.160 Con la consapevolezza, dunque, che spesso si tratta di un elemento tecnico non originale, ma sviluppatosi nella pratica della rappresentazione, o per le esigenze di “rappresentare” il testo agli occhi del lettore, osserviamo che l’impiego più espressivo e circostanziato si riscontra di solito in Eschilo, l’autore più antico (dunque forse più meritevole di qualche chiosa, di qualche visualizzazione o espressivizzazione in più), mentre sia in Sofocle che in Euripide le didascalie si limitano a una funzione tecnica, marcatamente comunicativa. Le didascalie aggiunte nei secoli conservano anche in questo una certa fedeltà di stile alle più antiche e talora originali: in Eschilo non ci si limita a descrivere la scena, comunicando la disposizione dei personaggi e degli oggetti, i gesti e i movimenti, ma si esprimono perfino i sentimenti, i moti profondi dell’animo, le espressioni che i personaggi devono trovare per rappresentare le varie scene. Così avviene ancora oggi nelle traduzioni curate da Manara Valgimigli, come in quelle di Domenico Ricci: se consideriamo quest’ultimo, si pensi, tanto per citare qualche caso, all’Agamennone nell’Orestea di Eschilo:161 all’inizio del Quarto Episodio, subito dopo il discorso di Clitennestra a Cassandra, la didascalia recita: «Cassandra continua a tacere. Il suo silenzio grava pesantemente sull’animo dei vecchi, che invano le rivolgono dei consigli». Dopo il secondo Coro: «Persiste il silenzio di Cassandra. Clitennestra è esasperata e impaziente di agire».

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All’inizio del Commo, prima che Cassandra parli, troviamo quasi delle note di regia per l’attrice: «Cassandra, rimasta sino a ora sul carro, non ne discende. Assente, immobile, pian piano divien preda dell’estro profetico, a cui adesso non può più sottrarsi; così che, invasata dal nume, in un crescendo continuo, descrive le sue visioni e grida il suo strazio per gli antichi e per i nuovi delitti degli Atridi». In Sofocle, le didascalie che vengono fornite sono scarne, pragmatiche e quasi totalmente prive di accenni a sentimenti ed espressioni del volto in grado di manifestarli. Qualche eccezione rarissima si può segnalare: nell’Elettra, per esempio, alla fine del Quarto Episodio, la fanciulla si rivolge a Oreste e la didascalia indica: «Gli stringe le mani con effusione».162 Per il resto, le funzioni delle didascalie in Sofocle si riducono a dare disposizioni su chi va e chi resta, chi si avvicina e chi si allontana, chi si rivolge a chi, se sottovoce o ad alta voce. Sostanzialmente lo stesso uso si riscontra in Euripide, salvo il fatto che, rispetto a quelle di Sofocle, le sue didascalie presentano un lieve aumento di descrittività, per così dire, fisica, visiva: all’inizio del Prologo del Ciclope troviamo: «Sileno, vecchio panciuto e calvo, uscito dalla grotta, si affatica a nettare l’ingresso e le vicinanze». Più avanti, «Appare improvvisamente Polifemo, gigantesco, con una barba ispida e folta, armato di una clava e seguito da una muta di cani». Nel Primo Episodio di Ippolito è descritta la scena da questa didascalia: «Si apre la porta della reggia e sulla soglia appare Fedra, sorretta dalla nutrice. Subito dopo alcune ancelle apprestano sotto il peristilio prospiciente alla reggia un letticciolo, sul quale viene distesa la regina».163 Le didascalie che vengono fornite in Euripide sono dunque più circostanziate e più visive, ma non arrivano ai consigli di recitazione sulle espressioni degli attori. Lo studioso ha differenziato l’uso della didascalia adattandola alle necessità di visualizzazione del testo, rispondendo in questo modo alle necessità secolari dei fruitori di testi teatrali, lettori o attori e registi che siano. Anche nel teatro romano le didascalie sono opera di grammatici, che si servono delle fonti antiche, sia autentiche, d’autore, sia interpolate dagli attori e non hanno carattere scenico ma puramente chiosastico. Il modello classico viene ripreso e discusso nel Quattro e Cinquecento, ma con più attenzione per Seneca (che non dà spazio alle didascalie) che non per i greci. In ogni caso, le didascalie

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si ritrasformano da interpolazioni di carattere tecnico in elementi del testo. Si ricordi che in quest’epoca il teatro è oggetto di ampio dibattito teorico, anche riguardo alla forma (latina o volgare, in prosa o in versi) in cui deve essere scritto. Non sono gli autori tragici a dare particolare spazio alle didascalie ma, caso mai, autori comici popolareggianti come il Ruzante, che le piega a coloriture utili per la rappresentazione. Con il moltiplicarsi degli studi e delle realizzazioni scenografiche del teatro seicentesco, l’uso delle didascalie si trova quasi compresso, anche perché l’affermazione sempre più sicura del teatro in versi, da una parte, e della commedia dell’arte, dall’altra, fa apparire inutile o difforme l’inserimento di lunghe didascalie che interrompono il ritmo. Con Goldoni (e non con l’Alfieri, per esempio, che addirittura non fa uso di didascalie)164 le cose cambiano proprio in termini di apertura all’interpretazione scenica. Sarà il teatro romantico, poi, a trasformare addirittura le didascalie in una sorta di sintetico commento dell’autore, quasi a rinforzare il significato dei dialoghi e, nello stesso tempo, a suggerire l’espressione agli attori. Uno degli esempi più interessanti, da questo punto di vista, può essere il Don Carlos di Schiller, le cui lunghe e frequenti didascalie, oltre a definire movimenti e gesti, danno indicazioni del tipo: «dopo aver riflettuto qualche istante, con gravità più dolce», «con un sorriso ironico», «vivamente commosso», «con dignitoso orgoglio», per non parlare della frequente occorrenza di lunghi passi come questo: Apre febbrilmente il sigillo e si apparta nell’angolo estremo della sala per leggere la lettera. Nel frattempo entra il duca d’Alba il quale, senza esser visto dal principe, gli passa davanti per recarsi nella camera della regina. Carlo incomincia a tremare violentemente, mentre il suo viso diviene alternativamente pallido, o rosso di emozione. Finita la lettura, sta per qualche tempo senza parola, gli occhi fissi sul foglio. Alla fine si rivolge al paggio.

In questo caso Schiller fa manifestare al suo testo una volontà talmente precisa e quasi autoritaria di rappresentazione che, dal passo in questione, ci aspetteremmo quasi dei consigli all’attore sul modo in cui ottenere il pallore e il rossore del viso. Certamente non tutti i romantici fanno un uso così intenso delle didascalie: in Italia, per esempio, sia il Foscolo che il Manzoni sono molto parchi e si limitano a poche note essenziali, mentre pos-

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siamo trovare in certi “minori”, come Paolo Giacometti (La morte civile, per esempio), una pratica più intensa e aperta. Sorprendentemente, poi, troviamo nel Verga di La lupa una sorta di abuso, ricco di coloriture soggettive, aperte, densamente sfumate: basti, fra i molti, qualche esempio: «voltandosi verso di lei, con occhi scintillanti e con voce vibrata», «aggirandosi desolata per la scena colle mani nei capelli», «investendola, bieca e con voce sorda», «come una belva ferita» ecc... Se vogliamo fare un confronto con un’opera teatrale che viene rappresentata a Pietroburgo nello stesso anno (1896) in cui La lupa va in scena a Torino, ossia Il gabbiano di Cechov, troviamo un uso più moderato in quest’ultimo, che presenta un maggior numero di didascalie di carattere “tecnico”, rispetto a quelle di carattere psicologico. Lo stesso si può dire dello Zio Vanja, delle Tre sorelle, del Giardino dei ciliegi. L’uso della didascalia, insomma, soprattutto da una certa epoca in poi, varia soggettivamente da un autore all’altro ed è sottoposto a varie esigenze e caratteristiche che ne relativizzano la scelta. Del resto, ciò è riscontrabile, sia pure in misura minore, perfino tra gli autori precedenti al Goldoni: Ruzante, ad esempio, inserisce tra le sue didascalie osservazioni quali: «smaniando», «seccato», «scoppiando», «offeso», «candido», che danno una coloritura molto soggettiva all’interpretazione dell’attore. Certamente, da queste osservazioni, condotte in modo rapido, emerge l’importanza di uno studio specifico e approfondito di questa componente del testo teatrale. Solo una teoria e storia della didascalia teatrale potrebbe darci la misura e l’idea della volontà del testo di offrirsi alla vista dello spettatore, con delle caratteristiche suggerite non solo dai dialoghi fra i personaggi, ma anche da precise tecniche che urgono e si ritagliano uno spazio come spazio teatrale di pieno diritto: si tratta di un testo muto, aggirantesi fra un dialogo e l’altro e fra una scena e l’altra, con la pura funzione di organizzazione della visualizzazione del testo stesso. Di questa muta comunicazione circolante nel testo teatrale i primi destinatari sono gli occhi attenti di registi, drammaturghi, attori, che sanno bene di non poter prescindere dai messaggi che l’autore fa passare nel testo attraverso le didascalie: la realizzazione più o meno fedele di quelle indicazioni farà parte integrante della messa in scena.

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Cfr. E. A. HAVELOCK, The Muse Learns..., p. 25). Cfr. Ibi, p. 27: «In diverse e ripetute varianti, le parole che esse compongono vengono descritte in termini orali, come elocuzione o canto eseguito mentre danzano e dispiegato acusticamente per un certo spazio fino a raggiungere un uditorio». 3 Cfr. W. J. O NG , Oralità e scrittura..., pp. 62-63: «In una cultura orale primaria, per risolvere con efficacia il problema di tenere a mente o recuperare un pensiero articolato, è necessario pensare in moduli mnemonici creati apposta per un pronto recupero orale. Il pensiero deve nascere all’interno di moduli bilanciati a grande contenuto ritmico, deve strutturarsi in ripetizioni e antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti ed espressioni formulaiche, in temi standard (l’assemblea, il pasto, il duello, l’aiutante dell’eroe, e così via), in proverbi costantemente uditi da tutti e che sono rammentati con facilità, anch’essi formulati per un facile apprendimento e ricordo, o infine in altre forme a funzione mnemonica. Il pensiero è intrecciato ai sistemi mnemonici, i quali determinano anche la sintassi». 4 Cfr. G. B ÁRBERI S QUAROTTI , Dante, in Storia della civiltà letteraria italiana, I, UTET, Torino 1990, pp. 443-514. 5 Cfr. C. S EGRE , Fuori del mondo, Einaudi, Torino 1990, pp. 20-32. 6 Cfr. almeno M. C OLOMBO , Dai mistici a Dante: il linguaggio dell’ineffabilità, La Nuova Italia, Firenze 1987. 7 L’espressione è in A. P RETE , Il pensiero poetante, Feltrinelli, Milano 1980. 8 Cfr. J. S TAROBINSKI , L’occhio vivente..., pp. 7-8. 9 Cfr. E. FACHINELLI , La mente estatica, Adelphi, Milano 1989, p. 52. 10 Cfr. M. D E C ERTEAU , Fabula mistica..., pp. 404-405. 11 Cfr. J. H ILLMAN , The Dream and the Underworld, p. 49). 12 Ibi, p. 85. 13 Cfr. E. G UIDUBALDI , Dalla “selva oscura” alla “candida rosa”: psicoanalisi di un diario di guarigione freud-junghianamente ricostruibile, in Lectura Dantis mystica, Olschki, Firenze 1969, p. 372, che vede la visio in somniis come «reale cronistoria di una folgorazione mistica che, esauritasi forse in una sola volta quanto a carica soprannaturale, ha poi trovato proprio nel concreto dinamismo della regressione onirica e della trasformazione libidica la via con cui rendersi ulteriormente fecondabile e quindi farsi spiritualmente operante». 14 Cfr. O. L AGERCRANTZ , Fran Helvetet till Paradiset, Wahlstrom & Widstrand, Stockolm 1964 (trad. it. Scrivere come Dio. Dall’inferno al paradiso, Marietti, Casale Monferrato 1983). 15 Cfr. M. C ORTI , La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Einaudi, Torino 1983. 16 Cfr. J. R ISSET , Dante écrivain ou l’Intelletto d’amore, Seuil, Paris 1982 (trad. it. Dante scrittore, Mondadori, Milano 1984, p. 137: «Apollo, presenza divina, soffia nel flauto: ma soffia in realtà direttamente nel corpo di colui che canta, strappandolo, fisicamente, a se stesso. Ormai mondo classico e mondo cristiano non hanno più bisogno di tradursi l’uno nell’altro. Entrambi si dispongono per così dire interamente dinanzi al poeta... Ormai, per scrivere, è necessario aver raggiunto il luogo in cui il reale preme così intensamente sul linguaggio da provocare la proliferazione, la generazione, lo sdoppiamento interno»). Cfr. anche M. OLENDER, Les langues du Paradis, Gallimard, Paris 1990; J. DELUMEAU, Storia del paradiso terrestre. Il giardino delle delizie, Il Mulino, Bologna 1994. 17 Può essere interessante confrontare il sogno di Dante con quello comeniano dell’unità del sapere, della “pansofia”. Cfr. J.A. KOMENSKY, Via lucis... 18 Cfr. G. P OZZI , La parola dipinta...; I D ., Poesia per gioco... 19 Cfr. S AFFO , Frammenti, a cura di E. Cavallini, Guanda, Parma 1986. 20 Cfr. C. M. BOWRA, Ancient Greek Literature, Oxford Univ. Press, London 1962 (trad. it. La letteratura greca, Garzanti, Milano 1962).

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21 Cfr. Tesori della lirica classica indiana, a cura di S. Lienhard - G. Boccali, UTET, Torino 1994, pp. 24, 76. 22 Cfr. C.M. BOWRA, La letteratura greca..., p. 58; Lo spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano - L. Canfora - D. Lanza, Salerno, Roma 1992-1994. 23 Cfr. J. L ARZAC , La musica occitana, Institut d’Estudis Occitans, Tolosa 1970; M. CARRIERES, La musique occitane de 1550 à 1800, Cap et Cap, 1972; F.A. GALLO, La musica nel castello, Il Mulino, Bologna 1992; P. ZUMTHOR, De la circularité du chant, in “Poétique”, I, 1970, pp. 138-139; I D., Langue, texte, énigme, Seuil, Paris 1975 (trad. it. Lingua, testo, enigma, Il melangolo, Genova 1991, pp. 82-98). 24 Cfr. A. DANIEL, Canzoni, a cura di G. Toya, Sansoni, Firenze 1960, pp. 297-313. 25 R. N ELLI - R. L AVAUD , L’oeuvre poétique, in Les troubadours, Desclée de Brouwer “Bibliothèque Européenne”, 1966, t. II. 26 Cfr. M. C AMPROUX , Histoire de la littérature occitane, Payot, Paris 1953. 27 Cfr. l’edizione stampata da Franco Maria Ricci, nel 1991, con la riproduzione delle 138 miniature, opera di quattro pittori anonimi, che ritraggono i poeti, tra cui Enrico VI, figlio del Barbarossa. La traduzione è di M. V. Molinari, con un testo storico-critico di P. Wapnewski e una nota alle miniature di E. M. Velter. 28 Cfr. Poeti del Duecento. Poesia cortese toscana e settentrionale, a cura di G. Contini, Einaudi, Torino 1976; G. D’AREZZO, Canzoniere. I sonetti d’amore del codice laurenziano, in Poeti del Duecento, Einaudi, Torino 1994. 29 Il manoscritto (metà secolo XIV) della Commedia fu donato dal Boccaccio al Petrarca nel 1351. Cfr. G. BILLANOVICH, Petrarca letterato. I: Lo scrittoio del Petrarca, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1947; I D., Nella biblioteca del Petrarca, in “Italia Medievale e Umanistica”, III, 1960; A. PETRUCCI, La scrittura del Petrarca, in Libri scrittura e pubblico nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1979; P. TROVATO, Dante in Petrarca. Per un inventario dei dantismi nei ‘Rerum Vulgarium Fragmenta’, Olschki, Firenze 1979. 30 Cfr. Concordanza delle rime di Francesco Petrarca, a cura di K. Mc Kenzie, Oxford 1912 (trad. it. Bottega d’Erasmo, Torino 1969); ACCADEMIA DELLA CRUSCA, OPERA DEL VOCABOLARIO, Concordanze del Canzoniere di Francesco Petrarca, ILTE, Torino 1971. 31 Cfr. D ANTE , Tanto gentile e tanto onesta pare, v. 8, in Vita Nova. Si veda A. G IALLONGO , L’avventura dello sguardo. Educazione e comunicazione visiva nel Medioevo, Dedalo, Bari 1995. 32 Cfr. D. A LONSO , Saggio di metodi e limiti stilistici, Il Mulino, Bologna 1965, pp. 305-315. 33 Cfr. R. A NTONELLI , Rerum Vulgarium Fragmenta di Francesco Petrarca, in Letteratura Italiana. Le opere, I, Einaudi, Torino 1992, pp. 379-471. 34 Ibi, p. 411. 35 Se siano la repressione e la sofferenza a spingere la poesia lirica su questo percorso è questione ormai pacificamente risolta. È un dato di fatto che la poesia lirica esprima in genere meglio il dolore della gioia. Essa si specializza come riparatrice di una mancanza, magia di sostituzione: non le basta la funzione gratificante generica che già le compete in quanto attività ludico-fantastica, ma si sceglie specificamente un percorso “magico” dove il transfert visivo consente, per la natura stessa della poesia, l’addensarsi di figure retoriche, che su quel percorso diventano prevalentemente dello stesso tipo. 36 Cfr. M. B ETTINI , Il ritratto dell’amante..., p. 5: «Un poeta con un ritratto fra le mani. È una scena consueta. Il ritratto, naturalmente, è quello della donna amata – anzi, della donna amata per eccellenza: Laura. Il poeta lo stringe delicatamente fra le dita, muovendo le labbra in un lungo sussurro. Parla con lei – cioè con lui, il ritratto – in quella lingua un po’ arcana che parlano gli amanti, ovvero i poeti. Inutile dire che si tratta di Francesco Petrarca.

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Non stiamo inventando un pezzetto della sua biografia. Quel ritratto è esistito davvero, e Petrarca lo aveva commissionato al suo amico Simone Martini: il “mio Simone”, Symon noster. Purtroppo non lo possediamo più, il tempo ha inghiottito anche lui, assieme a un liuto e a una Madonna di Giotto. In molti avrebbero desiderato, anzi desidererebbero contemplarlo, e non solo perché l’aveva dipinto Simone Martini. Vedere finalmente la bellezza di Laura, illusione di capire, finalmente, perché». 37 Cfr. J. R OUSSET , Leurs yeux se... 38 Cfr. A. Q UONDAM , Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del Classicismo, Panini, Modena 1991. 39 Cfr. S. A GOSTI , Gli occhi, le chiome, Feltrinelli, Milano 1993. 40 Cfr. G. SICA, Scrivere in versi. Metrica e poesia, Pratiche, Parma 1996, pp. 123124: «Inventando la sua prima sestina, Arnaut Daniel si assumeva pienamente il compito devoto ed etico, diffuso tra i provenzali, di trasformare l’amore in dottrina, compensare il dolore amoroso con la ragione poetica... La sestina si presenta... come un chiuso discorso di geometria combinatoria, radicale espressione del trobar clus: sei strofe di sei versi ciascuna, più la tornada o congedo di tre versi». Si noti che con la sestina si cimenteranno ancora i poeti del Novecento, da D’Annunzio a Ungaretti, da Pasolini a Fortini. 41 Cfr. R. A NTONELLI , Rerum Vulgarium..., pp. 435-438. 42 Cfr. L. B ORSETTO , Narciso ed Eco. Figura e scrittura nella lirica femminile del Cinquecento: esemplificazioni ed appunti, a cura di M. Zancan, in Nel cerchio della luna. Figure di donna in alcuni testi del XVI secolo, Venezia 1983. 43 Cfr. L. C ARETTI , Ariosto e Tasso, Einaudi, Torino 1967, pp. 85-99. 44 Cfr. H. F RIEDRICH , Die Struktur der modernen Lyrik, Rowohlts Deutsche Enzyklopadie, 1956 (trad. it. La lirica moderna, Garzanti, Milano 1961, p. 13). 45 Cfr. E. A UERBACH , Introduzione a C. Baudelaire, I Fiori del Male, Feltrinelli, Milano 1964, p. XVIII. 46 Cfr. A. C ASTOLDI , Il testo drogato, Einaudi, Torino 1994. 47 Cfr. H. F RIEDRICH , Die Struktur..., p. 93. 48 Cfr., Geografia del precinema. Percorsi della visione dalla Camera Oscura alla luce dei Lumière, Grafis Edizioni, Bologna 1994. 49 Il libro, in cinque copie manoscritte e disegnate, di cui una sola completa, è un oggetto unico, di difficile riproducibilità tecnica. Oggi è stampato e tradotto in Italia: cfr. W. BLAKE, Jerusalem, a cura di M. Pagnini, Giunti, Firenze 1994. 50 Il libro, del 1951, è tradotto da Adelphi (Milano 1991). 51 Si ricordi che, benché aggiunta agli Ossi dell’edizione Ribet, Arsenio è tra le prime poesie composte da Montale a Firenze, essendo nata praticamente sulle polverose scrivanie di Bemporad ed essendo stata pubblicata per la prima volta su “Solaria” nel giugno del ’27. 52 Cfr. R. C AILLOIS , Les démons méridiens, 1937 (trad. it. I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, Torino 1988). 53 Cfr. R. B ARTHES , L’activité structuraliste, in Essais critiques. Sur Racine, Seuil, Paris 1963 (trad. it. Saggi critici, Einaudi, Torino 1966). 54 Cfr. E. MONTALE, Intenzioni (Intervista immaginaria), in Sulla poesia..., p. 567: «Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta. Un modo nuovo, non parnassiano, di immergere il lettore in medias res, un totale assorbimento delle intenzioni nei risultati oggettivi. Anche qui, fui mosso dall’istinto non da una teoria (quella eliotiana del “correlativo oggettivo” non credo esistesse ancora, nel ’28, quando il mio Arsenio fu pubblicato nel “Criterion”)». “The Criterion” era la rivista inglese diretta da Eliot, sulla quale Montale fu ospitato. 55 A dire il vero, un incentivo al costante riconoscimento del correlativo oggettivo si trova oggi in E. MONTALE, Le occasioni, a cura di D. Isella. Ma cfr. anche ID.,

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Mottetti, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi 1988, prezioso strumento esegetico senza la “griglia” incombente del correlativo oggettivo. 56 Cfr. ora in I D ., Sulla poesia..., pp. 84-87. 57 Cfr. il saggio di Aurelio Roncaglia nella miscellanea in onore di Cesare Bozzetti, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano 1996. 58 Cfr. G. B ALDISSONE , Le muse... 59 A lei va il merito di aver conservato il carteggio di Bazlen con il poeta, consegnandolo poi a Luciano Foà. 60 Cfr. G. B ALDISSONE , Le muse..., pp. 51-56. 61 Il concetto sarà poi teorizzato in G. GENETTE, Palimpsestes. La littérature au second degré, Seuil, Paris 1982 (trad. it. Palinsesti. Testo e architesto, Pratiche, Parma 1987). 62 Cfr., a proposito della composizione travagliata dell’Elegia, il carteggio con Bobi Bazlen, in particolare la lettera da Firenze del 1° maggio ’39: «Io qui volevo essere Blake-Rossetti, non Lipparini-Carducci. Fin dove avrò sbagliato io?» 63 L’espressione si trova in L’alluvione ha sommerso il pack dei mobili, in Satura. 64 Cfr. L. PIGNOTTI - S. STEFANELLI, La scrittura verbo-visiva, Espresso Strumenti, Milano 1980. Per una ricognizione globale del fenomeno, oltre alle opere che saranno citate in seguito, cfr. almeno: L. PIGNOTTI, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, Lerici, Milano 1968; ID., Fra parola e immagine, Marsilio, Padova 1972; ID., Bi-grafia. Verso una comunicazione verbo-visiva, Ediprint, Firenze 1978; I D ., Figura/Scrittura. L’immagine spaziale, Carte segrete, Roma 1981; ID., Figure Scritture. Su certi segni delle arti e dei mass-media, Campanotto, Udine 1987; L. BALLERINI, La piramide capovolta, Marsilio, Venezia-Padova 1975; M. T. BALBONI, La pratica visuale del linguaggio dalla poesia concreta alla nuova scrittura, La Nuova Foglio, Pollenza 1977; R. B ARILLI , Parlare e scrivere, La Nuova Foglio, Pollenza 1977; M. D. D’AMBROSIO, Bibliografia della poesia italiana d’avanguardia (visiva, visuale, concreta e fonetica), Bulzoni, Roma 1977; V. ACCAME, Il segno poetico. Materiali e riferimenti per una storia della ricerca poetico-visuale e interdisciplinare, Munt Press, SamedanMilano 1977 e Zarathustra-Spirali, Milano 1981; F. CAROLI, Parola-immagine, Fabbri, Milano 1978; G. MAROCCHI, Scrittura visuale, D’Anna, Firenze-Messina 1978; A. SPATOLA, Verso la poesia totale, Rumma, Napoli 1968 e Paravia, Torino 1978; Creatività, gesto, comportamento, Patron, Bologna 1980; U. CARREGA, Scrittura attiva, processi artistici di scrittura, Zanichelli, Bologna 1980; R. BARILLI, Viaggio al termine della parola, Feltrinelli, Milano 1981; L. VETRI, Letteratura e caos, Edizioni del “Verri”, Mantova 1984; Segno e poesia, Centro culturale d’arte Bellora, Milano 1986. 65 Cfr. V. A CCAME , Un resoconto, in Archivio Della Grazia di Nuova Scrittura, ANS, Milano 1989, p. 18. 66 Cfr. G. P OZZI , La parola dipinta...: si tratta del saggio più completo sull’iconismo poetico in tutte le sue forme, sia dal punto di vista storico che da quello teorico. Dello stesso autore cfr. anche Poesia per gioco... 67 Cfr. P. ZUMTHOR, Carmina figurata, in Langue, texte, énigme, Seuil, Paris 1975 (trad. it. Lingua testo enigma, Il Melangolo, Genova 1991). 68 Cfr. V. A CCAME , Il segno poetico... 69 Cfr. H. K ERN , Labirinti, Feltrinelli, Milano 1981. 70 Cfr. G. P OZZI , La parola dipinta..., pp. 17-18. 71 Cfr. F.T. MARINETTI, Il poema del vestito di latte, con disegni di Bruno Munari, Esperia, Milano 1937; B. M UNARI , Libro illeggibile, Milano 1948 e Galleria dell’Obelisco, Roma 1966; ID., Libro illeggibile N. Y. 1, Laterza, Roma-Bari 1968. Sui futuristi italiani e il loro rapporto con la poesia visiva, cfr. M. CALVESI, Le due avanguardie. Dal futurismo alla pop-art, Lerici, Milano 1966; L. SCRIVO, Sintesi del futurismo. Storia e documenti, Bulzoni, Roma 1968; L. CARUSO - S.M. MARTINI, Tavole parolibere futuriste, Liguori, Napoli 1974-1977; L’Italia futurista 1916-1918, a cu-

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ra di M.C. Papini, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1977; G. VIAZZI, I poeti del futurismo 1909-1944, Longanesi, Milano 1978; L. CARUSO, Parole in libertà futuriste, Pistoia 1977; Manifesti e documenti teorici del futurismo 1909-1944, a cura di L. Caruso, Spes-Salimbeni, Firenze 1980; Ricostruzione futurista dell’universo, a cura di E. Crispolti, Catalogo della Mostra alla Mole Antonelliana, Torino 1980; G. BALDISSONE, Filippo Tommaso Marinetti, Mursia, Milano 1986. 72 Cfr. T. T ZARA , Manifeste Dada, in “Dada”, n. 3, Zurich 1918. 73 Cfr. I D ., Manifeste sur l’amour faible et l’amour amer, letto a Parigi il 12 dicembre 1920 alla Galérie Povolozky, poi in “La vie des lettres”, n. 4, Paris 1920. 74 Trad it. Poesie, Einaudi, Torino 1981. 75 Trad. it. L’arte magica, Adelphi, Milano 1991. 76 Cfr. P. G ARNIER , Spatialisme et poésie concrète, Gallimard, Paris 1968. 77 Per la definizione del concetto e del movimento lettrista, cfr. S. R ICALDONE , Dalla lettera al paradiso, in “Creativa”, n. 5, giugno 1985. 78 Cfr. I. CALVINO, Il mare dell’oggettività, in “Il menabò”, n. 2, 1960, ora in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980, p. 39. 79 Cfr. A. Z ANZOTTO , Michaux, il buon combattente, in “Il caffè”, n. 6, giugno 1960, ora in Fantasie di avvicinamento. Le letture di un poeta, Mondadori, Milano 1991, pp. 103-104. 80 Cfr. Gruppo ’63. La nuova letteratura (1964), Gruppo ’63. Critica e teoria (1976), Gruppo ’63. Manuale di poesia sperimentale (1966). 81 Cfr. J. M. G LEIZE , Un métier d’ignorance. Etats de la poésie en France aujourd’hui, Seghers, Paris 1990. 82 Cfr. R. B ARTHES , Le dégré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953 e 1972 (trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982). 83 Cfr. N. L ORENZINI , Il presente della poesia, Il Mulino, Bologna 1991, p. 49; ID., Il laboratorio della poesia, Bulzoni, Roma 1978. Per la teoria della poesia contemporanea, non referenziale, cfr. anche P. GARNIER, Spatialisme et poésie concrète, Gallimard, Paris 1968; J. DERRIDA, L’écriture et la différence, Seuil, Paris 1967 (trad. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971); E. RAIMONDI, Le poetiche della modernità, Garzanti, Milano 1990; C. RUSSELL, Da Rimbaud ai postmoderni. Poeti, profeti e rivoluzionari, Einaudi, Torino 1985; I. VINCENTINI, Colloqui sulla poesia. Le ultime tendenze, ERI, Torino 1991. 84 Cfr. Ibi, p. 61. 85 Cfr. P. Z UMTHOR , Introduction à la poésie orale, Seuil, Paris 1983. 86 Cfr. W. ONG, La presenza della parola, Il Mulino, Bologna 1970; ID., Interfacce della parola, Il Mulino, Bologna 1989. 87 Cfr. E. S ANGUINETI , Poesia informale?, in I Novissimi. Poesie per gli anni ’60, Einaudi, Torino 1972, p. 202. 88 Per l’attività del Gruppo ’70 e lo sperimentalismo poetico in Toscana, cfr. G. ZAGARRIO, Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea (19701980), Mursia, Milano 1983. 89 Cfr. G. L UTI , Firenze e la Toscana, in Letteratura Italiana. Storia e geografia, III, L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989, pp. 544-546. 90 È significativa di questo lavoro poetico-pittorico la composizione Sordello (1995) collage su carta creato per la mostra Sordello da Goito: Poeta. Artisti per Sordello, 28 ottobre 1995-28 gennaio 1996, Goito, di cui cfr. il Catalogo omonimo, con scritti di Mario Artioli, Francesco Bartoli, Enrico Mascelloni, a cura di E. Banali, R. Pedrazzoli, Publi-Paolini, Mantova 1995, pp. 72-73. 91 Cfr. BALESTRINI - VACCARI - VICINELLI, Una colonna un bar una voce, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1994. 92 Cfr. L. P IGNOTTI - S. S TEFANELLI , La scrittura... 93 Cfr. Scrittura attiva, a cura di U. C ARREGA , Zanichelli, Bologna 1980.

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Cfr. C. LUBRANO, Fra-g-ments, Tam Tam Edizioni, Napoli 1986. Cfr. V. ACCAME, Il segno poetico... 96 In “Il Verri”, n. 28, Mantova 1982. 97 La citazione è in E. P ERILLO - C. R AO , Scritture, ovvero testi (pretesti) e mappe, Pagus, Paese (Treviso) 1991, p. 824. 98 Cfr. P. THEA, La modernità per Fluxus, in Milano-poesia, a cura di M. GIUSTI G. SASSI, Milano 1989, p. 147. 99 Cfr. N. L ORENZINI , Il presente della poesia..., p. 184. 100 Primo Levi ne aveva fatto una gustosa parodia nel Versificatore, in D. MALABAILA, Storie naturali, Einaudi, Torino 1966. 101 Cfr. M. S ASSO , Architetture elettroniche. La città-la televisione (Lingotto, Torino 1994), Sedac, Roma 1994. Si veda L. TAIUTI, Arte e Media. Avanguardia e comunicazione di massa, Costa & Nolan, Genova 1996. 102 Cfr. Catalogo della Mostra: B. N AUMAN , Image/Texte 1966-1996, Centre Georges Pompidou, Paris 1998. 103 Cfr. P. D ELLA G RAZIA , L’Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1989, p. 9. Si ricorda che l’Archivio Della Grazia è attualmente il più ricco di documentazione sulla poesia visiva, sia per la presenza di opere che per i documenti e gli studi. 104 Cfr. G. ZANCHETTI, John Cage. Alle radici delle seconde avanguardie, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1993. 105 Cfr. Ibi, pp. 35-37. 106 Cfr. D. H IGGINS , Intermedia, Someting Else Press, New York 1966, poi in Foew & ombwhnw, Someting Else Press, New York 1969. 107 Cfr. E. S ATIE , Ecrits (trad. it. a cura di O. Volta, Adelphi, Milano 1981). 108 Cfr. U. CARREGA, Ricerche Interlinguistiche, manifesto per la mostra Tool: ricerche interlinguistiche, Collegio Cairoli, Pavia 1971, ora in Commentario, Edizioni Morra, Napoli 1975, pp. 135-136. 109 Cfr. V. A CCAME , Il segno poetico...; I D ., Quale segno. Arte scrittura comunicazione, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1993. 110 Cfr. M. BUTOR, Les mots dans la peinture, Skira, 1969 (trad. it. Le parole nella pittura, 1987). 111 Dello stesso parere sono L. BALLERINI, La piramide capovolta... e L. CARUSO, Il gesto poetico, 1968. 112 Cfr. P. D ELLA G RAZIA , Del fare arte: il divenire del linguaggio e la scrittura del pensiero, in Linguaggio/immagine, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1993. 113 Cfr. D. P IGNATARI , Piano pilota per la poesia concreta (1953/1958), in Poesia concreta in Brasile. Augusto de Campos, Haroldo de Campos, Décio Pignatari, a cura di L. De Barros - P. Mattoli, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1991. 114 Cfr. E. V ILLA , Oggetti di poesia, Archivio di Nuova Scrittura, Milano 1994. 115 Cfr. M. M ELOTTI , Il libro d’artista, in Biblioteca: metafore e progetti, a cura di G. Baldissone, Angeli, Milano 1994, pp. 173-183. 116 Per esempio, spettacoli di poesia sono ospitati, a partire dagli anni ottanta, anche al festival di Spoleto e, a partire dal 1996, Edoardo Sanguineti sperimenta la comunicazione della sua poesia attraverso spettacoli con musica rap. 117 Cfr. P. A LBANI - B. B UONARROTI , Aga magéra difùra. Dizionario delle lingue immaginarie, Zanichelli, Bologna 1994. Ma cfr. anche G. BÁRBERI SQUAROTTI, Belo o la Babele dei linguaggi, in “Il Caffè”, n. 7-8, luglio-agosto 1959, pp. 26-34; U. ECO, La ricerca della lingua perfetta, Laterza Fare l’Europa, Roma-Bari 1993. 118 Cfr. P.G. B ELTRAMI , Gli strumenti della poesia. Guida alla metrica italiana, Il Mulino, Bologna 1996, p. 184: «Si tocca qui un problema che non è di metrica, ma di estetica, quello dei limiti della poesia rispetto a ciò che non è poesia; un problema che si ripropone con la poesia in prosa, genere appartenente alla cultura francese (Baudelaire, Rimbaud), per il quale in Italia si possono citare ad esempio i Canti

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orfici di Campana, nei quali poesia in versi e poesia in prosa si alternano. Quello della poesia in prosa non è però in Italia una linea vincente: l’aspetto visivo della versificazione, l’a capo grafico con gli altri fenomeni di organizzazione della pagina, è in effetti l’aspetto più persistente e generale nell’elaborazione della poesia libera. Che poi ciò che si dichiara visivamente ‘verso’ sia (nell’intendimento degli autori, nella ricezione del pubblico) verso, prosa, verso prosastico o prosa ritmica, è questione più complessa, che si pone in modo diverso a seconda degli autori e degli ambienti poetici». 119 Cfr. V. A CCAME , Quale segno..., p. 11. 120 Cfr. D.S. AVALLE, A Liuba che parte, in “Strumenti critici”, 7, 1968, in Analisi funzionalistica di un epigramma montaliano, in R. CREMANTE - M. PAZZAGLIA, La metrica, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 453-458; ora in D.S. AVALLE, Tre saggi su Montale, Einaudi, Torino 1982. 121 Cfr. G. B ALDISSONE , Le voci della novella..., pp. 93-131. 122 Cfr. T. H AGG , The novel in Antiquity, Blahwell, Oxford 1983; P. J ANNI , Il romanzo greco. Guida storica e critica, Laterza, Roma-Bari 1987; La macchina meravigliosa: il romanzo dalle origini al ’700, Tirrenia Stampatori, Torino 1993. 123 Non è il caso di richiamare la sterminata bibliografia esistente sulla teoria del romanzo. Per cenni si possono indicare gli studi più significativi usciti dalle diverse scuole e metodologie critiche: per la critica marxista e sociologica, cfr. G. LUKACS, Teoria del romanzo (trad. it. Sugarco, Milano 1963, poi Garzanti, Milano 1974); M. B ACHTIN , Estetica e romanzo, (trad. it. Einaudi, Torino 1979); L. GOLDMANN, Pour une sociologie du roman, Gallimard, Paris 1964 (trad. it. Per una sociologia del romanzo, Bompiani, Milano 1967). Per la critica semiologica, tenendo conto che in quest’ambito i generi sono stati messi in discussione, cfr. R. BARTHES, Le degré zéro de l’écriture, Seuil, Paris 1953 (trad. it. Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino 1982); L’analyse structurale du récit, in “Communications”, n. 8, 1966 (trad. it. L’analisi strutturale del racconto, Bompiani, Milano 1969); G. GENETTE, Figures, Seuil, Paris 1966 (trad. it. Figure I. Retorica e strutturalismo, Einaudi, Torino 1969); ID., Figures II, Seuil, Paris 1969 (trad. it. Figure II, Einaudi, Torino 1969); ID., Figures III, Seuil, Paris 1972 (trad. it. Figure III. Discorso del racconto, Einaudi, Torino 1976); ID., Nouveau discours du récit, Seuil, Paris 1983 (trad. it. Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987); U. ECO, Opera aperta, Bompiani, Milano 1962. Per la critica psicoanalitica cfr. L.A. FIEDLER, Love and Death in the american Novel, Criterion Books Inc., 1960 (trad. it. Amore e morte nel romanzo americano, Longanesi, Milano 1963). Per una guida critico-didattica cfr. Teorie e realtà del romanzo. Guida storica e critica, a cura di G. Petronio, Laterza, RomaBari 1977. 124 Si veda, a proposito di tutte queste “mescolanze” L. F. BENEDETTO, La Parma di Stendhal, Adelphi, Milano 1992. 125 Trad. it. Il rapimento di Lol V. Stein, Feltrinelli, Milano 1989. 126 Cfr. M. B ELPOLITI , L’occhio di Calvino, Einaudi, Torino 1996. 127 Cfr. F. MORETTI, Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Einaudi, Torino 1997. 128 Cfr. R. C ROVI , Parole incrociate. Guida alla scrittura creativa, Piemme, Casale Monferrato 1995, p. 113. 129 Cfr. C. M ELDOLESI , Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Sansoni, Firenze 1984; P. D. GIOVANELLI, La società teatrale in Italia fra Otto e Novecento, Bulzoni, Roma 1985; M. SCHINO, Il teatro di Eleonora Duse, Il Mulino, Bologna 1992; G. PEDULLÀ, Il teatro italiano nel tempo del fascismo, Il Mulino, Bologna 1994; F. TAVIANI, Uomini di scena, uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 1995. 130 Cfr. F. QUADRI, Il teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca (Stein, Chéreau, Ronconi, Mnouchkine, Gruber, Bene), Einaudi, Torino 1982; ID., Il teatro degli an-

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ni Settanta. Invenzione di un teatro diverso (Kantor, Barba, Foreman, Wilson, Monk, Terayama), Einaudi, Torino 1984. 131 Cfr. C. B ENE , Otello o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano 1981. 132 Cfr. J. G ROTOWSKI , Per un teatro povero, Bulzoni, Roma 1970. 133 Cfr. Come comunica il teatro, Il Formichiere, Milano 1978; M. D E M ARINIS , Semiotica del teatro, Bompiani, Milano 1982; D. FO, Manuale minimo dell’attore, Einaudi, Torino 1987, pp. 64-66, p. 146, pp. 194-203; F. TAVIANI, Uomini di scena, uomini di libro... 134 Cfr. U. E CO , Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano 1979. 135 Cfr. G. B ALDISSONE , Le voci della novella... 136 Cfr. B. B RECHT , Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1968. 137 Cfr. A. A RTAUD , Le Théatre et son double, Gallimard, Paris 1964 (trad. it. Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968). 138 Cfr. U. E CO , Opera aperta, Bompiani, Milano 1962. 139 Cfr. M. C ASTRI , Per un teatro politico (Piscator, Brecht, Artaud), Einaudi, Torino 1973. 140 Cfr. G. MACCHIA, Pirandello o la stanza della tortura, Mondadori, Milano 1982. 141 Cfr. G. B ALDISSONE , Personaggi in cerca d’autore: tre passi sulla scena, in La letteratura in scena. Il teatro del Novecento, Tirrenia Stampatori, Torino 1985, pp. 121-135. 142 Cfr. G. I NGLESE , Mandragola, in Letteratura Italiana. Le opere. I. Dalle origini al Cinquecento, Einaudi, Torino 1992. 143 Cfr. B. P LATINA , Il piacere onesto e la buona salute, a cura di E. Faccioli, Einaudi, Torino 1985. 144 Cfr., per una sintetica ma puntuale storia delle erbe e degli erbari, E. MILANO, In foliis folia. Erbari nelle carte estensi, Il Bulino Edizioni d’arte, Modena 1994 (Catalogo della mostra omonima, Modena 1994). 145 Cfr. almeno Il pane selvaggio, Il Mulino, Bologna 1980; Alimentazione, folclore, società, Pratiche, Parma 1980; Le officine dei sensi, Garzanti, Milano 1985 e, soprattutto per le erbe considerate afrodisiache, I balsami di Venere, Garzanti, Milano 1989. Ma cfr. anche, per la sua curiosa prospettiva, M.I. MACIOTI, Miti e magie delle erbe, Newton Compton Editori, Roma 1994. 146 Cfr. per le nomenclature della cultura popolare G.L. BECCARIA , I nomi del mondo. Santi, demoni, folletti e le parole perdute, Einaudi, Torino 1995. 147 Cfr. D. P. WALKER , Spiritual and Demonic Magie from Ficino to Campanella, London 1958. 148 Cfr. Introduzione a La magia naturale nel Rinascimento, a cura di S. Parigi UTET, Torino 1989; M.I. MACIOTI, Miti e magie... Ma cfr. anche J. G. FRAZER, Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, Boringhieri, Torino 1973. 149 Cfr. D. JACQUART - C. THOMASSET, Sexualité et savoir médical au Moyen Age, P.U.F., Paris 1985; H. S CHIPPERGES , Il giardino della salute. La medicina nel Medioevo, Garzanti, Milano 1988; M. ALIC, L’eredità di Ipazia. Donne nella storia delle scienze dall’antichità all’Ottocento, Editori Riuniti, Roma 1989; G. DUBY - M. PERROT, Storia delle donne. Il Medioevo, a cura di C. Klapisch - Zuber, Laterza, RomaBari 1992; M.L. A LTIERI B IAGI - C. M AZZOTTA - A. C HIANTERA - P. A LTIERI , Medicina per le donne nel Cinquecento, UTET, Torino 1992; E. SHORTER, Storia del corpo femminile, Feltrinelli, Milano 1992; F. BERTINI, Trotula, il medico, in Medioevo al femminile, Laterza, Roma-Bari 1996. 150 Cfr. almeno, per la tipologia del monaco lascivo e fraudolento, le novelle I, 4 (il monaco e l’abate che si colgono a vicenda nello stesso peccato); III, 4 (Don Felice inganna frate Puccio per «darsi buon tempo» con la moglie di lui); III, 8 (un abate toscano somministra «una polvere» a Ferondo, che lo fa credere morto, e «si go-

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VISIVITÀ

DEI GENERI LETTERARI

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de» la moglie di lui, richiamandolo poi in vita e raccontandogli di averlo mandato in purgatorio. La storia richiama quella del Veglio della montagna e del «paradiso degli assassini», già presente nel Milione di Marco Polo e nel Novellino). Si può ancora citare la novella IV, 2 (frate Alberto fa credere a una donna di essere «l’agnolo Gabriello», per approfittare di lei), e la novella IX, 2 (simmetrica alla I, 4, ma con protagoniste femminili: una monaca e la sua badessa). Ma la figura del monaco truffaldino, soprattutto perché abile oratore, capace di qualsiasi dimostrazione, attinge principalmente a quella di Frate Cipolla (VI, 10). 151 Per l’uso dei modelli terenziani e plautini nella commedia del Cinquecento, il canone è fissato soprattutto dalla Cassaria (1508), dai Suppositi (1509) dell’Ariosto, e dalla Calandra del Bibbiena (1513). In quest’ultima, ispirata palesemente anche al Decameron, il personaggio di Calandro ha molte parentele con quello di Nicia della Mandragola. 152 Cfr. E. R AIMONDI , Il teatro del Machiavelli, in Politica e commedia, Il Mulino, Bologna 1972. 153 Cfr. E.S. P ICCOLOMINI , Enee Silij poete Senensis de duobus amantibus Eurialo et Lucretia opusculum ad Marianum Sosinum feliciter incipit, 1443 (trad. it. Storia di due amanti, Sellerio, Palermo 1991). 154 Della commedia esiste un solo manoscritto, il Rediano 129 della Bilblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze, che porta la data 1519 non riferita alla scrittura del testo ma all’occasione sociale, probabilmente il carnevale del 1519, conclusosi Martedì 21 febbraio 1520. L’editio princeps presenta molte discrepanze e interventi non d’autore, per cui si può affermare che tutte le edizioni della Mandragola offrono un testo «più o meno ‘contaminato’: un testo, cioè, che attinge ora dall’una, ora dall’altra fonte le lezioni di volta in volta ritenute dal curatore più adeguate o efficaci» (cfr. G. INGLESE, Mandragola, in Letteratura Italiana..., p. 1012). Resta il fatto che non esiste un’edizione che ricostruisca “scientificamente” la doppia versione della commedia, ossia quella manoscritta e quella della prima edizione. 155 Cfr. F. GUICCIARDINI, Lettera a Niccolò Machiavelli, 26 dicembre 1525. In risposta, il Machiavelli spedì il 3 gennaio 1526 il testo di cinque canzoni «da dirsi innanzi alla commedia e negli intervalli fra un atto e l’altro». Cfr. N. MACHIAVELLI, Lettere a Francesco Vettori e Francesco Guicciardini, a cura di G. Inglese, Milano 1989. 156 Anno in cui furono emanate da Licurgo addirittura delle leggi contro le interpolazioni, per tutelare l’integrità dei testi tragici contro le licenze degli attori. 157 Cfr. D. B AIN , Actors and audience. A study of asides and related convention in greek drama, Oxford 1987. 158 Cfr. G. CHANCELLOR, Le didascalie nel testo, in Il teatro greco nell’età di Pericle, a cura di C. Molinari, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 127-146; O. TAPLIN, La questione delle indicazioni didascaliche, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 147-160. 159 Cfr. W.G. R UTHEFORD , A chapter in the history of annotation, in Scolia Aristophanica, Macmillan, London 1896-1905. 160 Cfr. il brano di E. C. CRAIG, L’Arte del teatro. Primo dialogo: «Lo spettatore – Allora tutte le didascalie in qualunque testo teatrale sono prive di valore? Il regista – Per il lettore, no; ma per il regista e l’attore, sì». Cfr. anche M. DE MARINIS, Semiotica del teatro. L’analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, pp. 24-59. 161 Citiamo dal testo tradotto e curato da Domenico Ricci, Rizzoli, Milano 1950. 162 Edizione 1953. 163 Edizione 1954. 164 Fuori dal testo teatrale, è importante però ricordare il Parere dell’autore su le presenti tragedie, una sorta di commento che può essere molto importante, soprattutto nelle parti tecniche (Invenzione, Sceneggiatura, Stile) per la realizzazione della messa in scena.

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CONCLUSIONI PROVVISORIE, OVVIAMENTE...

Ci sono generi della letteratura che si sono formati intorno alla funzione visiva e che continuano a basare sulla vista e sulla visione la loro possibilità di costituirsi e di comunicare. Tra questi, la poesia campeggia, in tutte le sue forme e generi, per la particolare densità delle figure, per quel suo lavorare di sottrazione, e forse anche perché il tempo stesso della poesia è quello di uno sguardo: istantaneo. La sua essenza è la concentrazione. L’uso concentrato di metafore, sinestesie, simboli, metonimie, analogie, paragoni, similitudini fa sì che l’occhio corra velocemente dal referente a quella figura “altra” che l’ars poetica convoca al suo cospetto. Non c’è tempo neppure per una derealizzazione, per una forma di distacco razionale: nella distinzione brechtiana fra epico e drammatico, il tempo della poesia è sempre drammatico, coinvolgente, impossibile alla razionalizzazione e al rifiuto. Come ogni tempo dell’immagine, manda le sue percezioni alla nostra mente più velocemente di qualsiasi altro tempo, di qualsiasi altro organo di senso: siamo coinvolti dalla poesia prima che ce ne accorgiamo, perché la poesia fa uso prevalente di immagini visive, e queste sono le immagini che impiegano meno tempo a imprimersi nella nostra mente. Possiamo bensì illuminarci d’immenso o prolungare la luce della luna per tutto il tempo del monologo di un pastore errante dell’Asia, ma la durata del testo non coincide con i segmenti che ne costituiscono la percezione, segmenti che rappresentano altrettanti lampi di visioni del mondo e dell’oltremondo, in cui il lettore o ascoltatore non può che aderire in pieno al percorso del poeta. Ben diverso il percorso del romanzo, che si distende in lunghi tracciati e s’impasta con la nostra esistenza, i nostri sonni e i nostri sogni. Ma diverso pure il percorso della novella, il cui tempo è pur sempre quello dell’oralità, di un lettore-ascoltatore che va intrattenuto, o edificato, per la durata della sua capacità umana di attenzione. Si tratta comunque di tempi che lasciano tempo, durante o dopo la fruizione, per riflettere e tornare alla realtà. Forse solo il teatro, che giustamente Artaud paragona alla peste, rapisce i suoi fruitori in un’immedesimazione che Aristotele ha definitivamente codificato fino, e perfino, alla catarsi finale, scioglimento emotivo dal quale partire per riprendere contatto con il reale.

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GIUSI BALDISSONE

Oltre e dentro i generi letterari, sarebbero ancora molto numerosi i temi da affrontare riguardo alla presenza dell’occhio nella letteratura: alcuni topoi visivi costituiscono il perno, o la situazione iniziale, o il compimento di certe scritture letterarie. Occorrerebbe esaminare a fondo il colpo di fulmine, già affrontato da Rousset per il romanzo, il malocchio, l’agnizione, il ritratto dell’amante, completando la ricerca di Bettini, l’occhio colpevole (impossibile dimenticare Thérèse Raquin di Zola) e l’occhio complice; inoltre non si dovrebbero tacere le tecniche letterarie che sull’occhio basano la costruzione di effetti descrittivi e psicologici molto particolari: il punto di vista, ad esempio, tenendo conto di tutte le indagini e applicazioni che questo tema ha suscitato da sempre, in particolare nell’ambito degli studi strutturalisti e semiologici, senza trascurare gli ultimi contributi.1 Certamente sarebbe importante anche tenere conto delle interferenze reciproche fra tutte le arti e la letteratura, inoltre dei rapporti tra la fotografia e quest’ultima (si pensi alle poesie di Ruffilli, interamente costruite sull’immagine fotografica),2 e ancora dei rapporti fra letteratura e cinema, e delle conseguenze non solo visive che la letteratura navigante in Internet trasporta come un’ondata incontenibile. E poi occorrerebbe affrontare temi e immagini letterarie, già tanto studiati, in cui gli occhi giocano ruoli determinanti: quello del sogno, delle visioni e allucinazioni, quello del distacco (morte, abbandono, ecc.)3 Sulle basi scientifiche e psicologiche della dominanza visiva nella nostra cultura è già stato scritto molto e a quegli studi, qui via via citati, si rimanda per un approfondimento. Completata una piccola ricognizione, ci si rende conto che il campo d’indagine e gli strumenti, anziché apparire più certi e definiti, si moltiplicano smisuratamente e, per proseguire la ricerca, richiederebbero il concorso di più discipline. In effetti, ed è proprio ciò che sta avvenendo, senza cedere alla tentazione di un recupero neopositivista, la ricerca scientifica si sta muovendo contemporaneamente nei campi della fisica, della neurobiologia, delle scienze cognitive, del linguaggio, della psicologia, della filosofia, oltre che della letteratura. Contrariamente a ciò che avviene di solito, esse dovrebbero periodicamente convergere, favorendo il reciproco scambio di risultati, perché sul tema dell’occhio sarebbero in grado di operare in sinergia più che su qualsiasi altro tema.

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CONCLUSIONI,

PROVVISORIE OVVIAMENTE ...

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Se il futuro dell’occhio nella nostra cultura sarà davvero quello che oggi si intravede, sarà necessario saperne di più su questo strumento di cui ci stiamo servendo in modo privilegiato, e per definizione assolutamente eccessivo. Per quanto riguarda la letteratura, sembra abbastanza importante il fatto che tutti i generi, nei quali si è organizzata e nei quali ha espresso un’evoluzione, abbiano sviluppato in modo sempre più cospicuo la presenza dell’occhio come vista e come visione. Solo la novella, cristallizzatasi come un genere orale per eccellenza, conserva una dominanza acustica insieme a una pur rilevante gestualità teatrale. Non si vuole per forza concludere che nell’era in cui la tecnologia ha messo a disposizione strumenti visivi più sofisticati sia necessario che i generi della letteratura ne facciano il migliore o il maggiore uso possibile. La poesia visiva, pur con un lungo passato alle spalle, è ancora lungi dall’aver sbaragliato ogni altra forma poetica. D’altro canto, sarebbe bene recuperare alla letteratura, e soprattutto alla poesia, quella sonorità e spettacolarità delle origini, che con l’approdo alla scrittura e con l’evoluzione dei tempi sono andate perdute. Se la poesia, poi, in particolare, incontra oggi tante difficoltà editoriali (che sono difficoltà soprattutto di mercato) si possono presentare modi di fruizione che le restituiscano il suo valore di evento, di comunicazione dell’hic et nunc irriproducibile anche nell’era della massima riproducibilità tecnica: sfruttando la sua vocazione visiva e sonora, mandarla incontro alla sua uscita in pubblico in termini di evento, appunto, happening, reading, spettacolo visivo-sonoro (e perché non tattile-olfattivo-gustativo?) alla maniera dei greci antichi e dei futuristi. Potrebbe essere un modo per restituire alla poesia la sua sacralità e unicità, l’emozione, lo stupore, l’esperienza di un coinvolgimento integrale, di cui il libro a stampa potrà essere soltanto un pallido souvenir, pronto peraltro a rianimarsi ogni volta che qualcuno vorrà riallestire lo spettacolo in altri contesti, per altri destinatari.

1 Per quanto riguarda i saggi più recenti, cfr. M. B ONFANTI , Punto di vista e modi della narrazione nell’Eneide, Giardini, Pisa 1985; P. PUGLIATTI, Lo sguardo nel racconto. Teorie e prassi del punto di vista, Zanichelli, Bologna 1992. 2 Cfr. P. R UFFILLI , Camera oscura, Garzanti, Milano 1992. 3 Cfr. B. C ARUSO , Il distacco degli amanti, Einaudi, Torino 1991; J. K RISTEVA , Sole nero...

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Quivi perdei la vista, e la parola / nel mare di Maria finii; e quivi / caddi, e rimase la mia carne sola

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Biblioteca

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COLLANA DI LETTERATURA ITALIANA DELL’800 E ’900

SAGGI E TESTI 3. Scrittori e città. L’immagine di Novara negli sguardi letterari di sei scrittori dell’ultimo secolo, testi di Marchesa Colombi, Barisoni, Bonfantini, Emanuelli, Graziosi e Vassalli, con saggi di Giuliana Morandini, Raffaele Crovi, Massimo A. Bonfantini, Giancarlo Vigorelli, Ugo Ronfani, Elio Gioanola; introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, a cura di Roberto Cicala, 1993, pp. 184, lire 22 000. 4. Poesia e spiritualità in Clemente Rebora, studi e testimonianze, con saggi introduttivi di Giorgio Bárberi Squarotti, Carlo Carena e Oreste Macrì, a cura di Roberto Cicala e Umberto Muratore, 1993, pp. 232, ill., lire 30 000. 7. Rodari, le parole animate, con le illustrazioni di Altan, Luzzati, Munari, Maulini e altri, una testimonianza di Giulio Einaudi, un saggio introduttivo di Pino Boero, un’intervista a Rodari di Enzo Biagi e schede di didattica e creatività, a cura di Roberto Cicala e Anna Lavatelli, 1993, pp. 224, lire 25 000. 8. Da Petrarca a Gozzano. Ricordo di Carlo Calcaterra (1884-1952), introduzione di Carlo Dionisotti e testi di Ezio Raimondi, Oreste Macrì, Marziano Guglielminetti e altri, a cura di Roberto Cicala e Valerio S. Rossi, in appendice documenti e lettere di Graf, Gozzano, Pasolini e Contini, 19942, pp. 144, lire 30 000. 10. Il canto strozzato. Poesia italiana del Novecento, saggi critici e antologia di testi, a cura di Giuseppe Langella e Enrico Elli, prefazione di Francesco Mattesini, in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano, nuova edizione aggiornata, 1997, pp. 616, lire 45 000. 11. «Con la violenza la pietà». Poesia e Resistenza, antologia dei maggiori poeti italiani con un saggio di Franco Fortini, a cura di Roberto Cicala, 1995, pp. 112, lire 18 000. 12. Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di Lorenzo Còveri, prefazione di Roberto Vecchioni, con un testo di Pier Vittorio Tondelli, saggi di Corti, De Mauro, Mengaldo, Bandini, Sobrero, Renzi e altri, antologia di testi di canzoni, 19982, pp. 240, lire 30 000. 13. GROSSI, ROVANI, BIFFI, Prineide, con un testo di LEONARDO SCIASCIA e una sezione iconografica, a cura di Umberto Gualdoni, introduzione di Ermanno Paccagnini, 1996, pp. 128, lire 18 000. 14. Le muse di Montale. Galleria di occasioni femminili nella poesia montaliana, a cura di Giusi Baldissone, con antologia, 1996, pp. 104, ill., lire 18 000. 16. CARLO CARENA, FRANCO CONTORBIA, MARZIANO GUGLIELMINETTI, Ricordo di Francesco Pastonchi (1874-1953), con un’antologia di testimonianze, una bibliografia, una sezione iconografica e una nota di Benito Mazzi, 1997, pp. 160, lire 30 000. 17. ROBERTO CARNERO, Lo spazio emozionale. Guida alla lettura di Pier Vittorio Tondelli, prefazione di Enrico Palandri, cronologia e bibliografia a cura di Fulvio Panzeri, postfazione di Stefano Zappoli, 1998, pp. 144, ill., lire 30 000. 18. SONIA BERTI, IVONNE MARIANI, Il codice dei colori nella poesia di Montale, con un saggio introduttivo di Donatella Marchi e una nota di Maria Luisa Spaziani, 1998, pp. 112, lire 30 000. 20. GIUSI BALDISSONE, Gli occhi della letteratura. Miti, figure, generi, presentazione di Giorgio Bárberi Squarotti, 1999, pp. 128, lire 40 000. NARRATIVA 1. DANTE GRAZIOSI, Una Topolino amaranto. Ricordi di un medico degli animali, nuova edizione accresciuta con una nota sull’autore, 19922, pp. 216, lire 22 000. 2. LA MARCHESA COLOMBI, Un matrimonio in provincia, prefazione di Giuliana Morandini, 19932, pp. 116, lire 18 000. Anche con schede didattiche. 5. DANTE GRAZIOSI, La terra degli aironi. Cronache di provincia, con una nota di Davide Lajolo, 1993, pp. 160, lire 22 000. 6. DANTE GRAZIOSI, Nando dell’Andromeda. Una romantica saga padana, prefazione di Paolo Taggi, 1993, pp. 206, lire 25 000. Anche con schede didattiche. 9. LA MARCHESA COLOMBI, In risaia. Racconto di Natale, con un testo di Carlo Emilio Gadda e saggi di Silvia Benatti e Cesare Bermani, 1994, pp. 144, lire 22 000. 15. BENITO MAZZI, Nel sole zingaro. Storie di contrabbandieri, 1997, pp. 160, lire 20 000. 19. RENATA ASQUER, Fausta Cialente: la triplice anima, 1998, pp. 112, lire 25 000. INTERLINEA EDIZIONI – COLLANA

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