120 94 7MB
Italian Pages 384 [369] Year 1988
G. Arrighetti
A. Barchiesi
G. Cambiano E. Gabba M.T. Luzzatto F. Montanari G. Paduano
R. Pretagostini
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI Problemi
e figure della letteratura greca
NS LA NUOVA
ITALIA SCIENTIFICA
STUDI SUPERIORI NIS / 47 LETTERE
I lettori che desiderano essere informati con regolarità sui volumi pubblicati dalla nostra casa editrice, si possono rivolgere, inviando il loro indirizzo, a La Nuova Italia Scientifica, via Sardegna 50, 00187 Roma, tel. 06 / 4742176/4818417
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI PROBLEMI E FIGURE DELLA LETTERATURA GRECA G. Arrighetti A. Barchiesi G. Cambiano E. Gabba M.T. Luzzatto F. Montanari G. Paduano R. Pretagostini A cura di Franco Montanari
> La Nuova Italia Scientifica
I° edizione - maggio 1988
© copyright by La Nuova Italia Scientifica, Roma Finito di stampare nel maggio 1988 per i tipi delle Arti Grafiche Editoriali S.r.l, Urbino
Pag.
11
Premessa
Franco
13 13
Montanari
L’epica e la poesia didascalica 1.
L’epica greca arcaica 1.1. Il genere epico —
27
2.
Omero.
1.2. Il Ciclo —
1.3. Prima e dopo Omero
I poemi omerici
2.1. Iliade e Odissea — 2.2. “Omero minore”. Le Vite di Omero e l’Agone di Omero e Esiodo — 2.3. Fra mito e storia. I mondo omerico — 2.4. Lingua, stile, dizione, poetica — 2.5. La “fortuna” di Omero e il volto attuale della questione omerica
61
3.
Esiodo e la poesia didascalica 3.1. Il problema del genere — 3.2. Esiodo. La Teogonia e Le opere e i giorni — 3.3. Il Corpus esiodeo
70
4.
Morte e rinascita dell’epica
72
Bibliografia
83
Graziano Arrighetti La lirica
83 84 85 86
1. 2. 3. 4.
I limiti cronologici e il genere letterario Lirica: storia e significato della parola La componente personale e il precedente dell’epica La lirica nel giudizio degli antichi
87
5.
Le circostanze concomitanti
88 90 93 94 96 99
6. 7. 8. 9. 10. 11.
I confronto con l’uomo omerico L’io del poeta La nuova metrica Archiloco Semonide e Ipponatte L’elegia
105 108 110
12. 13. 14.
La lirica eolica La poesia cortigiana: Ibico e Anacreonte La poesia corale
118
Bibliografia
123
Guido Paduano Il teatro
123 124
Premessa
Eschilo (525-456) 2.1. I Persiani — 2.2. L'Orestea — 2.3. 1 Sette Supplici — 2.5. Il Prometeo incatenato
133
a Tebe
— .2.4. Le
Sofocle (496-406) 3.1. L’Elettra — 3.2. L’Aiace — 3.3. L'Antigone — 3.4. Le Trachi-
nie — 3.5. L'Edipo Re — 3.6. Il Filottete — 3.7. L'Edipo a Colono
Euripide (485?-406)
141
4.1. Gli uomini come sono — 4.2. Attività e passività dell’uomo — 4.3. La morte come scelta — 4.4. La struttura policentrica — 4.5. Il crepuscolo degli eroi — 4.6. La lotta per la sopravvivenza — 4.7. La
vittima dell’azione tragica — 4.8. Gli dei di Euripide
Aristofane (4457-3807)
150
5.1. La fantasia egotica — 5.2. La politicità delle commedie — 5.3. Mania e razionalità — 5.4. L’empietä eroica — 5.5. Le pulsioni elementari —
157
5.6. Complicazioni e crisi della struttura
Menandro
(342-293?)
6.1. La commedia gione
Bibliografia
171
Emilio Gabba La storiografia
182 183 184 185 186 186 188
son
171 173 174 175 178 180
Surun-
161
familiare —
6.2. Il ridimensionamento
della ra-
La nuova verità. Polis e riflessione storica Ecateo. Storiografia locale Erodoto La storiografia politica. Tucidide Una nuova metodologia La storiografia del IV secolo. Storia greca. Storia della cultura Il meraviglioso e l’irrazionale nella storiografia La riflessione sulle forme politiche Dicearco. La storiografia erudita Atthis
Gli storici di Alessandro La nuova etnografia. Le scienze
La storiografia drammatica
189 190 193 195
14. 15. 16. 17.
197 198 200
18. 19. 20.
La grecità e l’Occidente. Timeo Roma e la nuova egemonia. Polibio Storici contemporanei di Polibio. Posidonio La storiografia antiromana. Diodoro. Dionigi d’Alicarnasso La storiografia greca e l’Impero Flavio Giuseppe Arriano. Appiano. Cassio Dione
202
Bibliografia
207
Maria Tanja Luzzatto L’oratoria, la retorica e la critica letteraria dalle origini ad Ermogene
207
Le origini 1.1. La Sicilia — 1.2. Quale Techne?
211
L’oratoria attica 2.1. Evoluzione del processo legale — 2.2. Lisia — 2.3. Isocrate — 2.4. I rhetores — 2.5. Demostene
220
La retorica nell’antico Peripato 3.1. La Retorica di Aristotele — 3.2. Il ITepi AéËews di Teofrasto
225
L’etä ellenistica 4.1. Ermagora di Temno — 4.2. La meléte — 4.3. Oratori ellenistici
234
La retorica
a Roma
5.1. Roma centro di studi — 5.2. L’atticismo — augustea
244
5.3. Retori di età
L’età imperiale 6.1. Premessa — 6.2. La seconda sofistica — 6.3. La tecnografia di età imperiale
Bibliografia
257
Giuseppe Cambiano La letteratura filosofica e scientifica
257 260 262 265 268 270 272 274 276 280
Tra prosa e poesia La formazione della letteratura medica e matematica Il dialogo La scuola filosofica e la scrittura Tecniche di argomentazione e repertori del sapere Il trattato scientifico La competizione tra le filosofie ellenistiche L’erudizione filosofica e l’esegesi del passato Le ombre del passato e l’incontro con la retorica Fra tradizioni scientifiche e religiose
284
SER S
NUM
RUND-
251
Bibliografia
289
Roberto Pretagostini La poesia ellenistica
289 292
Caratteri generali Callimaco e la nuova poetica 2.1. Le opere erudite — 2.2. Gli Inni — Giambi — 2.5. L’Ecale — 2.6. Euforione
304
2.3. Gli Aitia —
2.4. I
Teocrito: idilli bucolici, mimi ed epilli 3.1. Gli idilli bucolici — 3.2. I mimi — 3.3. Gli epilli — 3.4. Mosco e Bione — 3.5. Eroda
Apollonio Rodio e la poesia epica. La poesia didascalica
312
4.1. Le Argonautiche — 4.2. Cherilo di laso e Riano — 4.3. La poesia didascalica: Arato — 4.4. Nicandro e i due Oppiano
Poesia del dissenso e poesia di contenuto filosofico
318
5.1. Sotade — 5.2. Cercida
L’elegia
320
6.1. Filita — 6.2. Ermesianatte — 6.3. Fanocle
322
L’epigramma 7.1. Scuola peloponnesiaca e scuola ionico-alessandrina — 7.2. Anite e Nosside — 7.3. Leonida di Taranto — 7.4. Asclepiade — 7.5. Posidippo — 7.6. Scuola fenicia — 7.7. Meleagro — 7.8. L’Antologia Palatina e l’Antologia Planudea
Bibliografia
341
Alessandro Barchiesi Il romanzo
341 343 345 349
“Naufragio sul Nilo”: le vie della conservazione Unitä del genere Il romanzo perduto Influssi formativi
pun
327
4.1. Novellistica — 4.2. Verso Oriente — 4.3. Romanzo misterico —
4.4. Epica — 4.5. Romanzo sofistico — 4.6. Historiae — 4.7. Commedia Nuova
361
Bibliografia
363
Indice degli autori antichi
Premessa xal èyò véxtag xuröv, Moov dba, àeÜkodégois àvôpéov néurwv, YAuxùv xapròv hpevés [...]
[anch'io nettare distillato, dono delle Muse, ai vincitori mando, dolce frutto della mente...] Pindaro, Olimpica VII, vv. 7-8
Né in questo volume né in quello parallelo sulla letteratura latina (che speriamo possa uscire presto ') si deve cercare l’ennesima coppia di manuali sulle due grandi letterature “classiche”. Lo scopo che ci siamo prefissi è piuttosto di proporre una sintesi aggiornata della problematica fondamentale (o almeno ritenuta tale da ognuno degli autori) relativa ai settori ritagliati nei diversi capitoli: non ci si deve dunque aspettare una minuziosa completezza dell’informazione erudita e neppure la preoccupazione di sistematicità ed esaustività voluta da un manuale. L’appendice bibliografica alla fine di ciascun capitolo (più o meno sviluppata a seconda delle scelte e degli orientamenti individuali degli autori) intende sostituire quello che avrebbe potuto essere un apparato di note e rinvii all’interno della trattazione: quest’ultima risulta così di più agile lettura, e chi vuole approfondire o ampliare trova a parte i suggerimenti necessari. Il pubblico di elezione a cui abbiamo pensato è evidentemente quello universitario, ma riteniamo che il carattere generale della trattazione la renda fruibile anche a un pubblico più vasto e meno specialistico. Viene presa in considerazione la letteratura greca antica pagana nell’arco di tempo che va dalle origini al II secolo d.C. circa (a seconda dei capitoli e delle scelte degli autori): non rientrano dunque nella trattazione la letteratura greca tardoantica e quella cristiana dei primi secoli. Basta riflettere un attimo per trovare che si tratta di un'imponente galleria di grandissime personalità e aver voglia di prendersi il gusto di elencarne qualcuna: Omero, Esiodo, Archiloco, Saffo, Alceo, Anacreonte, Pindaro, Bacchilide,
Eschilo,
Sofocle, Euripide,
Aristofane,
Menandro,
Erodoto,
Tucidide, Polibio, Gorgia, Lisia, Isocrate, Demostene, l’Anonimo del Sublime, Ippocrate, i filosofi presocratici, Socrate, Platone, Aristotele, gli stoici, Epicuro, Callimaco, Apollonio Rodio, Teocrito, gli autori dei ro-
manzi greci. alla mente, folla di tutti più o meno
E una volta elencati i maggiori nomi certo senza neanche essere esaurienti, gli altri. Quello che si è voluto offrire, completa di medaglioni degli autori,
che subito vengono subito si pensa alla però, non è una serie disposti cronologica-
! A. Perutelli, P. Fedeli, M. Citroni, G. Paduano, A. La Penna, G. Calboli, G. Mazzoli, A. Barchiesi, Introduzione allo studio della letteratura latina,
in corso di pubblicazione presso La Nuova Italia Scientifica.
a cura di Franco Montanari,
12
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
mente come in ogni manuale, bensi quello che in molti manuali di solito non si trova o rimane in ombra: il materiale è ripensato e presentato come una galleria di problemi, da cui emergano i nodi fondamentali dei quali è necessario avere coscienza e sui quali bisogna riflettere per approfondire lo studio della letteratura greca. Il volume non si presenta dunque con un impianto cronologico: solo per i generi della poesia è stata operata un’incisione temporale, nel senso che i primi tre capitoli trattano della poesia epica, lirica e drammatica dalle origini a tutta l’età classica, mentre uno apposito è dedicato all’insieme della poesia ellenistica; gli altri quattro capitoli invece considerano i loro oggetti (letteratura
filosofica e scientifica; storiografia; oratoria, retorica e critica letteraria; romanzo) unitariamente in tutto l’arco temporale suddetto. Trattandosi di un libro specificamente dedicato al fatto letterario, sarà superfluo dilungarsi in una serie di avvertenze su quello che non vi si deve cercare: per esempio nel capitolo sull’epica gli aspetti archeologici e storico-linguistici avranno uno spazio relativamente limitato; nel capitolo sulla letteratura filosofica l’attenzione è puntata non sui problemi di contenuto filosofico dei pensatori antichi, ma sui generi di scrittura da essi utilizzati in relazione alle concezioni diverse di filosofia che essi presuppongono; il capitolo sulla retorica e l’oratoria cerca di fornire
un'esposizione sintetica e discorsiva che non trascuri i necessari riferimenti tecnici (di cui particolarmente in questo campo non si può fare a
meno), ma non è un manuale di retorica antica; e così via. Dopotutto, l’aver voluto indagare e riflettere sulle questioni essenziali poste dalle letterature antiche greca e latina lo abbiamo inteso come uno stimolo e un invito a leggere o rileggere i testi, a riconsiderarli e ripensarli ancora una volta e sempre. Le radici e le basi della nostra civiltà e del nostro pensiero (che continuiamo pur sempre a chiamare cultura occidentale o europea) stanno nel mondo antico greco e latino, e le radici non si eliminano per quanto l’albero cresca e le foglie si allontanino. Che oggi si assista a un innegabile ritorno di interesse per la cultura antica, interesse realmente ben fondato al di là della moda (malgrado i troppi dilettantismi a cui il mercato cinicamente invita), risulta persino naturale: perché è naturale che nei periodi di crisi (e sa il cielo se oggi il pensiero lo sia, “debole” sotto gli scossoni dell’irrazionale post-moderno) la ragione storica voglia ricercare le proprie radici e i fondamenti del proprio capire. F.M.
Franco
Montanari
L’epica e la poesia didascalica He sings the song they sang to him. I. Rosenberg, The Poet (II)
1. L’epica greca arcaica 1.1. Il genere epico
Una ‘dimensione epica’ appare in ogni cultura, uno ‘spazio epico’ sembra trovarsi nel sistema dei generi di ogni civiltà, se non in tutto l’arco del suo sviluppo, almeno in talune epoche con-aspetti mutevoli. Con facilità si ricordano i mesopotamici Gilgameÿ e Enuma Elis, il Kalevala finnico, il Digenis Akritas bizantino, l’epopea carolingia, l’epica ittita sui miti di Kumarbi e di Ullikummi, quella indiana del Mähabhärata,
lo spagnolo Cid, il Beowulf sassone, i Nibelunghi della tradizione germanica, l’epica serbo-croata negli ultimi decenni sfruttata per ben note comparazioni con Omero, e così via per chissà quanti altri a noi meno noti, per non arrivare a situazioni per noi piuttosto estranee come quella
delle storie feudali giapponesi raccontate nei vari gunki monogatari, come lo Heike monogatari, che monaci girovaghi ciechi declamavano accompagnandosi con uno strumento a corda. E se Gilgames è molto più antico di Omero e risale almeno all’inizio del secondo millennio a.C. (come tradizione scritta, ma assai probabilmente ancora più indietro), talune delle epiche menzionate arrivano viventi fino alla nostra epoca: come quella serbo-croata, o anche se vogliamo il Kalevala, una sorta di epopea nazionale della Finlandia rielaborata nel secolo scorso da Elias Lôhnrot sulla base di canti popolari tramandati oralmente (e sulla quale Domenico Comparetti scrisse un libro in cui dedicò pagine significative a evidenziarne le differenze rispetto all’epica omerica). Tuttavia, probabilmente nessuna di queste epiche è più conosciuta e costantemente presente nella cultura, nessuna ha dato luogo a una tale messe di indagini e conoscenze, nessuna ha generato un tale fiume di letteratura di ogni genere come l’Iliade e l’Odissea, e questo forse anche se estendiamo il
confronto al di là dell’ambito di quella che ancora (nonostante il crescente cosmopolitismo) possiamo chiamare “cultura occidentale”. I fenomeni letterari sopra ricordati hanno elementi in comune, insieme a differenze tutt'altro che trascurabili (Limentani, Infurna 1986, p. 7): Nella riflessione sulla letteratura, la nozione di poesia epica è presente dalla filosofia greca al pensiero contemporaneo, ma con forti discontinuità e mutamenti di significato. Questo si rivela diverso a seconda che il criterio adottato
14
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
per la definizione e la classificazione dei generi abbia preso in esame, ad esempio, il rapporto con la realtà rappresentata, il contesto culturale e letterario, i termini dell’atto di comunicazione,
ecc. Ma, che si tratti di criteri empirici o di
una sorta di proiezione di un genere ritenuto fondamentale a categoria primaria
della disposizione creativa, la permanenza di un certo numero di elementi componenziali sembra consentire di designare concordemente come manifestazioni di “poesia epica” certi testi, o gruppi di testi, pur appartenenti a epoche e culture diverse, e da osservarsi entro il sistema dei generi letterari di queste culture. Questi rilievi si possono ripetere per la lirica e il dramma, le forme appunto che, con l’epica, si sono, dal pensiero antico, venute fissando come la triade dei generi basilari.
Bisogna avere presente il fatto che lo studio e la classificazione dei generi letterari ha sempre (anche se non del tutto coscientemente esplicitata) una duplice valenza, quella descrittiva dell’esistente e quella normativa “progettuale”, e un duplice punto di vista, quello diacronico e quello sincronico. Nessuno sforzo di categorizzazione teorica generale può prescindere dalle differenziazioni storiche, per cui definire “epica”, in diversi periodi storici, fenomeni anche diversi ha una sua legittimità sia per il naturale evolversi/differenziarsi del concetto, sia per la possibile individuazione di tratti comuni (elementi costitutivi) più o meno stabilmente permanenti. Il problema di individuare tratti distintivi e fornirsi di criteri per classificare via via le opere in questo o quel genere è un problema sia teorico che empirico, che di volta in volta deve procedere tenendo conto sia del dato storico diacronico che di quello sistematico sincronico. Normalmente, infatti, si tende a oscillare fra la ricostruzione del sistema definitorio dei generi contemporaneo alle opere prese in considerazione e l’applicazione di un proprio sistema teorico delineato sulla base di categorie attuali: o piuttosto si frammischiano i due criteri, in una cooperazione di sincronia e diacronia di cui riparleremo fra poco. Per fare qualche esempio, oltre alle comparazioni fra i poemi omerici e l’epica serbo-croata (di cui parleremo più ampiamente in seguito), sono state esaminate analogie
stilistiche fra Omero e il Kalevala (come dicevamo sopra), fra Omero e Gilgames, fra Omero e i Nibelunghi, e vi si è ritrovata (al di là delle differenze di tempo e luogo) l’impronta dello stesso genere letterario, l’epica eroica: ma sul piano sistematico si sono viste anche le differenze, come il fatto che nell’epica greca arcaica c'è un più complesso soffermarsi nel descrivere, una maggiore definizione dei personaggi e dei particolari delle singole situazioni, a fronte di una narrazione dei fatti in altre epiche semplificata fino a «una sorta di esposizione di un archetipo» (Havelock 1981, p. 11). Fu un certo consolidarsi e perdurare della semplice tripartizione (anche se con intento descrittivo e senza volontà normativa) in epica, lirica, dramma, che permise di dare alla nozione di epica una portata abbastanza vasta perché nel corso della storia fossero più o meno esplicitamente o concordemente ricondotti ad essa fenomeni letterari anche non omogenei (come addirittura, per fare un esempio, i poemi cavallereschi del Cinquecento, intorno ai quali sorse la ben nota polemica se si dovessero
L’epica e la poesia didascalica
considerare
una
continuazione
dell’antica epica oppure
un genere
15
del
tutto differente in quanto frutto di condizioni culturali completamente mutate). Questo fatto ebbe comunque la funzione di evidenziare affinità ed evoluzioni che contrapponevano pur sempre tutta una “costellazione” di generi e/o sottogeneri — diciamo così — agli altrettanto vasti e differenziati domini della lirica e del dramma. Torneremo su tali questioni nel parlare del problema costituito dalla nozione di “poesia didascalica”, vista comunemente come un sottogenere dell’epica, e anche della poesia eroicomica o parodia dell’epos (che non per nulla si volle far risalire a Omero). La riflessione moderna sui codici e sui generi letterari portò notevoli approfondimenti in diverse direzioni, ma prima di accennarne dobbiamo vederne le radici antiche. “Epica” è esattamente un termine greco antico, che si riallaccia alla parola epos: Enoo significa parola e verso, e quindi il verso per eccellenza per antichità, diffusione e autorità, cioè l’esametro epico; da cui soprattutto al plurale nn = versi epici, poema epico; e anche nelle lingue moderne epos per dire poema o genere epico; e inoltre epopea, dal greco epopoiia = composizione di versi epici, poema epico. Platone nel III libro della Repubblica (392 e - 394 c: uno dei passi più citati e discussi per questi problemi) distingueva la poesia in tre tipi o modalità: puramente narrativa (diegesis) quando è sempre solo il poeta a parlare, che egli esemplifica soprattutto con il ditirambo; mimetica (termine usato qui in un senso particolare, diverso da quello più comune, aristotelico), quando il poeta si nasconde sempre dietro ai personaggi (si immedesima), come nel teatro; mista quando ci sono parti narrate dal poeta e parti (discorsi diretti) in cui egli si nasconde dietro i personaggi, come nell’epica (cfr. infra il capitolo sulla Lirica), nella quale, togliendo le parti del poeta che stanno fra le parti dei personaggi, si ottiene la forma della tragedia (e infatti più avanti, libro X 595 c, Omero è definito da Platone il primo maestro dei poeti tragici).
All’interno di una problematica più ampia e articolata, cioè di una dottrina generale della mimesis che prende in considerazione i mezzi, gli oggetti e i modi dell’imitazione nell’arte poetica, Aristotele nella Poetica riprende di passaggio anche questa prospettiva, laddove (3, 1448 a 20 ss., un passo peraltro assai problematico) ripresenta il paragone fra l’epica (Omero), in cui il poeta un po’ parla per se stesso e un po’ diventa un’altra persona (cfr. 24, 1460 a 5 ss.), e il dramma, in cui sono solo i personaggi a parlare e il poeta non compare. Nella Poetica si tratta della
tragedia (nella parte rimasta: il famoso secondo libro perduto parlava della commedia e del comico) e dell’epica (e dei rapporti fra tragedia e epica), ma non della lirica: e infatti sul piano storico-letterario Aristotele delinea (anche qui con il suddetto precedente platonico) la derivazione per così dire genetica da Omero delle forme drammatiche, cioè la tragedia da Iliade e Odissea, la commedia dal comico Margite (cfr. infra, par. 2.2). L’epica per Aristotele è imitazione di fatti nobili eseguita con la parola: poesia narrativa composta in metro di un solo tipo (l’esametro eroico, che l’esperienza ha mostrato essere il più adatto, tanto che altri
. 16
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
metri non risulterebbero adatti a questo); diversamente dalla tragedia, essa tende a estendere la dimensione del tempo rappresentato (Poetica 5, 1449 b 9 ss.: cfr. 23, 1459 a 17 ss.), ma come la tragedia deve rispondere al requisito fondamentale dell’unitarietà dell’azione. È partendo da questi fondamenti che in seguito invalse la generale tripartizione in epica, dramma, lirica; e molto si è detto, da questi presupposti, sul problema teorico dei generi letterari. Tuttavia va precisato che il fatto che Platone esemplificasse con il ditirambo la modalità narrativa rende impossibile riconoscere nelle sue parole la volontà di de-
finire e delimitare l’insieme della “lirica” come genere in tutti i suoi
aspetti: anzi, ciò che è, e fu inteso in seguito, propriamente come “lirica” qui sembra restare fuori. Articolazioni più precise all’interno di queste tre grandi categorie erano frutto di analisi e classificazioni differenti. Alla dottrina dei generi letterari ci si dedicò con assiduità in età alessandrina, con il duplice scopo da una parte di ordinare sistematicamente la produzione del passato e dall'altra di indicare una normatività, che peraltro valeva soprattutto per le trasgressioni cui veniva sottoposta (cfr. infra, il capitolo sulla Poesia ellenistica). È ben noto quanto a lungo la Poetica sia stata un punto di riferimento e sia durata l’autorità delle teorie aristoteliche, trasformate nel tempo in rigida normatività, con la quale ci si confrontò e su cui si discusse fino all’età romantica nel quadro del persistere della dottrina dell’arte come imitazione (trasmessasi attraverso la cultura latina al Medioevo e poi al Rinascimento, e divaricatasi nell’alternativa fra imitazione della natura o dei modelli, che per l’epica voleva dire sostanzialmente Omero e Virgilio). Le discussioni letterarie e le prese di posizione sui generi nel Rinascimento (come quella già ricordata a proposito del poema cavalleresco, che coinvolgeva lo statuto del genere epico) furono stimolate e approfondite proprio grazie alla Poetica aristotelica, la cui presenza crebbe continuamente dopo la traduzione di Lorenzo Valla nel 1498, l’editio princeps in originale greco presso Aldo Manuzio nel 1508, il testo critico nel 1548 con traduzione latina e importante commento da parte di Francesco Robortello, e poi le successive frequenti ripresentazioni con corredo di traduzioni e commenti in latino e in volgare. Non possiamo certo seguire qui la problematica dei generi, e nemmeno quella specifica dell’epica, che passò dal mondo delle Chansons de geste fino alle trattazioni e polemiche del Rinascimento, e dopo nelle riflessioni dei letterati e filosofi dalla stagione del romanticismo e dello storicismo in poi. Nel corso del tempo e in aree culturali diverse, la nozione generale di epica raggruppò sotto la sua etichetta, come dicevamo, fenomeni numerosi e disparati. Nel giro di volta fra Cinquecento e Seicento, La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e Il paradiso perduto di John Milton appaiono come gli ultimi grandi rappresentanti dell’epica nella letteratura europea, mentre la stupefacente prova del Don Chisciotte apre la stagione del romanzo moderno. Negli ultimi decenni, importanti indagini dedicate alla teoria del racconto (soprattutto quelle neoretoriche e semiologiche) hanno abbondantemente ripreso le basi aristoteliche nell’affrontare il problema teorico
L’epica e la poesia didascalica
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dell’elemento diegetico nelle varie forme narrative: ed è un fatto che in questa prospettiva è la forma del romanzo a presentarsi in rapporto privilegiato con quella dell’epica per la basilare forma narrativa che comporta una mistione di elemento diegetico ed elemento mimetico. D’altra parte, il ruolo e l’influsso dell’epica nel processo di formazione del romanzo antico nella letteratura greca è un fatto, per quanto problematico, innegabile (cfr. infra il capitolo sul Romanzo, par. 4.4). Sono del tutto diversi, naturalmente, i presupposti sulla base dei quali Hegel diede la sua ben nota definizione del romanzo come «moderna epopea borghese», e lo vide in successione storica rispetto all’epica: come pure quelli della relazione/contrapposizione fra epos e romanzo analizzata da G. Lukäcs su radici hegeliane; e della critica di M. Bachtin, che vede il romanzo moderno svincolato da questa linea in certo modo “classica” che lo lega ai generi canonici, per ricondurlo invece ad una diversa tradizione definita “carnascialesca”. Nella considerazione di poeti come Goethe o di filosofi come Hegel continuò ad avere fortuna e funzionalità l’antica triade epica/dramma/lirica, che fossero sentiti come astratte categorie dello spirito oppure come raggruppamenti visti in uno sviluppo storico. In ogni caso questi tre valsero di solito come i generi principali, ai quali riportare in qualche modo i diversi fenomeni. Una linea prospettica che può forse aiutare a misurare il potenziale di innovazione formale della nozione di “teatro epico” in Brecht, con la sua rottura dell’immedesimazione teatrale per una oggettivazione del contenuto in funzione dell’analisi scientifica della realtà.
La condanna crociana, che vedeva nei generi uno pseudo-concetto astratto e intellettualistico, di contro all’unica realtà delle opere e all’unicità spirituale della ‘poesia’, pesò non poco su questa problematica, che peraltro è tornata ampiamente in auge con gli studi moderni di teoria della letteratura. Orientamenti di tendenza più empirica (che si propongono una descrizione dello sviluppo dei generi attraverso il tempo, cosicché una sola linea fatta di continue “modifiche” può andare da Gilgames al Tasso) e orientamenti ispirati a un maggiore rigore sistematico
(che perseguono una categorizzazione astratta capace di esaurire l’insieme-letteratura), e forse più opportunamente combinazioni diverse di queste due tendenze, hanno indagato in varie direzioni: dal rapporto/intersezione fra “modi” enunciativi (come il narrativo o il drammatico) e generi, alla relazione che intercorre fra generi e “archigeneri” (o “concetti d'insieme”). quali la storica triade epica/lirica/dramma, oppure alla connessione fra il piano tematico-contenutistico e il piano formale, tipico della critica di impostazione semiologica, che ha insistito sul concetto del genere come sistema e codice di comunicazione letteraria, nella quale gioca un ruolo importante anche il contesto culturale (e quindi il dato storico-empirico). Non certo indifferenti sono i problemi terminologici, che risentono non solo delle diverse impostazioni teoriche, ma anche delle variazioni storiche e di quelle culturali (comprese le difficoltà poste dalla resa dei termini nelle diverse lingue), per cui la trattazione sui ge-
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neri si presenta in vesti terminologiche molto differenziate, sotto le quali giacciono con ogni evidenza differenze concettuali. Dobbiamo abbandonare qui il discorso sui generi, che ci porterebbe troppo al di fuori dei limiti del nostro argomento, e tornare entro i confini dell’epica. “Poesia epica” o “eroica” vuol dire in sostanza narrazione in versi in forma ampia ed elaborata, racconto di un passato glorioso e grande di guerre e d’avventure, vaste saghe di popoli per lo più legate alle vicende di grandi individui, storie e genealogie di dei e semidei, colossali eventi mitici, teogonie e cosmogonie: comunque l’occasione di uno scontro che prende i connotati di qualcosa di poderoso e decisivo, di un destino supremo. Accanto alla dimensione temporale di un passato dai contorni comunque eroici, un altro tratto caratterizzante è quello della storicità del tema, vera o presunta o semplicemente velata (tendono a sfumare i confini fra mito e storia). E lo iato fra la narrazione poetica e quel passato, che si presenta comunque come storia di eventi reali (‘pretesa storia’ quando il tema in sé non ha nulla di realmente storico), costituisce un vuoto da riempire in qualche modo (la “distanza assoluta” del passato epico) cercando di definire il rapporto fra i due. Aristotele metteva a confronto il poeta epico e lo storico, contrapponendo (Poetica 23, 1459 a 21 ss.) all’esaustiva esposizione storiografica di tutto quanto è accaduto la capacità del poeta di scegliere cosa narrare (capacità precipua del grande Omero, mentre i poeti del Ciclo accumulano troppi fatti), e soprattutto riconoscendo alla poesia la possibilità di rappresentare ciò che può accadere, cioè il “verisimile” che ha una portata “generale” e dà ragione delle cause degli eventi: di contro alla storia, costretta nei limiti dell’accaduto reale, che è individuale e di norma non è in grado di spiegare le cause. La letteratura occidentale comincia dunque con un’epica, una poesia eroica, nella fattispecie quella omerica? Per noi sì, o forse diremmo meglio che la “testualità” occidentale (quella che la nostra cultura presuppone) comincia con l’Iliade e l’Odissea, le opere più antiche che conosciamo. In Homero principium, quindi, e poi via via, prima entro la stessa letteratura greca antica, poi in quella latina a dir solo di Virgilio, poi nelle letterature medievali e moderne, fino — se vogliamo fare un salto molto lontano — all’Ulysses di James Joyce, e ancora e ancora. Ma a dire il vero le cose non sono proprio così semplici: non lo sono per noi, e non lo erano nemmeno per gli antichi, che prima degli studiosi moderni si posero il problema di cosa c’era stato precedentemente (e nelle immediate vicinanze temporali) a quei poemi ed a quel nome — Omero — che era un po’ l’emblema della loro civiltà. L’isolamento iniziale in cui l’Iliade e l’Odissea sembrano comparire al principio nella storia delle nostre letterature comportò sempre, in forme diverse, il problema del contesto e della tradizione precedente (vorremmo dire un problema di codice e di sistema). Con questo ci si pongono le questioni (di cui parleremo fra poco) relative alle più o meno labili testimonianze sulle altre epiche non omeriche nella tradizione antica e negli studi moderni, e di conseguenza anche quelle di cronologia, almeno relativa, fra
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le diverse manifestazioni dell’epica greca arcaica, note o ignote, conservate o perdute. 1.2. Il Ciclo
Gli antichi amarono ordinare talune delle più vaste e ramificate vicende mitiche della loro tradizione culturale in Cicli. Temi come il mito degli Argonauti (un’epica che in Odissea 12, 69 ss. si dimostra ben nota e diffusa), le vicende di Eracle o dei Titani, le più antiche storie degli dei a partire dall’unione del cielo-Urano con la terra-Gea (abbiamo poche notizie di una Titanomachia, ma ritroviamo questi temi nella Teogonia di Esiodo), saghe di popoli e leggende locali (per esempio le vicende di Meleagro
e la caccia al cinghiale calidonio, che l’Iliade mostra di cono-
scere a 9, 527 ss.), o altro ancora erano raccontati in poemi epici più o
meno antichi e più o meno complessi, dei quali abbiamo solo piccoli frammenti o labili tracce. I poeti epici posteriori avrebbero ripreso largamente queste tematiche, in forme più o meno nuove o rinnovate, ma comunque nel solco di una tradizione ‘epica’: dalla Tebaide di Antimaco di Colofone (V-IV sec.), alle Argonautiche di Apollonio Rodio e alle Storie di Eracle di Riano di Creta (entrambi del III secolo a.C.: cfr. infra il capitolo sulla Poesia ellenistica), ai Posthomerica (racconto dei fatti accaduti dopo la fine dell’/liade) di Quinto di. Smirne
(III sec. d.C.?),
per non arrivare fino alle sesquipedali Dionisiache in 48 libri di Nonno di Panopoli (V sec. d.C.). Abbiamo frammenti e testimonianze di numerosi poemi, adespoti o attribuiti a diversi autori e appartenenti a epoche sicuramente differenti. Parleremo in seguito di fenomeni particolari come la poesia eroicomica (cfr. infra, par. 2.2); quella didascalica (cfr. infra, par. 3), i poemi orfici o altro (cfr. infra, par. 4): ora soffermiamoci su quello che propriamente si intende per Ciclo epico. Fra quelli più antichi, ben noto era per esempio il Ciclo tebano che nei poemi Edipodia, Tebaide, Epigoni (di cui restano pochi frammenti) raccontava le vicende di Edipo e dei suoi discendenti, riprese poi (come del resto gran parte dei contenuti epici) da poeti posteriori come Stesicoro (che cantò anche temi del Ciclo troiano) e dagli autori drammatici (soprattutto Sofocle, fra le tragedie conservate): non c’è dubbio che Omero lo conoscesse, e probabilmente vi si fa allusione in Iliade 4, 406. Ma particolarmente famoso e complesso era il Ciclo troiano, che era imperniato sulle vicende connesse alla famosa guerra combattuta per la bellissima Elena intorno a Troia (o Ilio), la città sulla costa nord dell’Asia Minore su cui regnava Priamo. Una fortunata coincidenza ci permette di conoscere un ben disposto arrangiamento del Ciclo troiano in otto poemi, vale a dire: Ciprie, Iliade, Etiopide, Piccola Iliade, Distruzione di Ilio, Ritorni, Odissea,
Telegonia.
Di questi, come si sa, soltanto Iliade e Odissea sono conservati, mentre
degli altri sei non abbiamo che pochi frammenti e un sintetico riassunto del contenuto (grazie soprattutto ai brevi estratti tramandatici della Crestomazia di Proclo). Era così compreso in questa sistemazione tutto
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l’arco di vicende che raccontava i fatti dalla nascita in Troia (dai genitori Priamo e Ecuba) di Paride, fino alla morte di Odisseo, l’ultimo degli eroi della guerra a ritornare a casa. Per la contesa sorta durante il banchetto di nozze di Peleo e Teti a causa della Discordia, Paride giovinetto fu chiamato a esser giudice nella gara di bellezza fra le tre dee Era, Atena e Afrodite: ed a quest’ultima diede la mela simbolo del primato, ricevendone in cambio l’amore di Elena, la bellissima moglie di Menelao re di Sparta. Quando gli amanti Paride ed Elena si furono rifugiati a Troia, Menelao ottenne la solidarietà di numerosi altri re della Grecia e un esercito comandato da Agamennone, fratello di Menelao, mosse guerra alla città di Priamo e, dopo svariate vicende, la cinse d'assedio per nove anni. Qui terminava il contenuto del primo poema, intitolato Ciprie, al quale si allacciava l’/liade, che si chiude con la morte di Ettore. In seguito, l’Etiopide e la Piccola Iliade raccontavano svariati episodi successivi della guerra finché nel poema Distruzione di Ilio si descrivevano le vicende (riprese da Virgilio nell’Eneide) connesse alla caduta della città grazie al celebre stratagemma del cavallo di legno ideato da Odisseo. Seguivano i Ritorni, che comprendevano le peripezie più o meno funeste dei ritorni in patria dei maggiori eroi della guerra, come Diomede, Nestore, Aiace, Neottolemo figlio di Achille, Menelao e Agamennone, assassinato all’arrivo a casa dalla moglie infedele Clitennestra con l’amante Egisto (l’Odissea conosce la vicenda a 1, 35 ss.; 3, 192 e 248 ss.; 4, 514 ss.; il tema è ripreso da Eschilo nell’Orestea). Il più lungo e
avventuroso ritorno a casa, quello di Odisseo, occupava un intero poema, l’Odissea: ma dopo essersi reinsediato a Itaca, pacificate le sanguinose vicende causate dalla sua prolungata assenza, Odisseo doveva seguire quel suo destino che lo voleva eroe di viaggio e avventura (insaziabile di conoscenza nella splendida deformazione-trasfigurazione di Dante nel canto XXVI dell’Inferno). L'ultimo poema infatti, la Telegonia, raccontava le sue ulteriori vicende (aventi per teatro la Tesprozia, una regione dell’Epiro) fino all’ultimo ritorno a Itaca. A queste si riallacciano quelle dell’altro suo figlio (avuto da Circe) Telegono, che arriva a Itaca dopo un viaggio in cerca del padre (evidente il ripetersi dello schema dell’Odissea), viene coinvolto in uno scontro con i locali nel corso del quale uccide Odisseo senza riconoscerlo. Ma il finale riappacificante vede Telegono diventare marito di Penelope e Telemaco di Circe, dopo che la maga ha donato a tutti l'immortalità. L’arrangiamento che in questo modo ci è fornito della materia del Ciclo troiano nell’insieme dei poemi che lo costituiscono, è certamente post-omerico, vale a dire posteriore a Iliade e Odissea. Almeno in parte mostra di conoscerlo già Aristotele nella Poetica (23, 1459 b 1 ss.), dove cita le Ciprie e la Piccola Iliade. Uno scolio e un papiro del I secolo d.C. ci conservano una redazione differente del verso finale dell’/liade, con una prosecuzione. L’ultimo verso dell'Iliade suona: «Così essi rendevano onore alla sepoltura di Ettore domatore di cavalli»; lo scolio tramanda invece: «Così essi rendevano onore alla sepoltura di Ettore; giunse allora l’Amazzone / figlia del magnanimo Ares uccisore di uomini», e il papiro: «Così essi rendevano onore alla sepoltura di Ettore; giunse allora l’A-
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mazzone / figlia di Otrera [la madre], la bella Pentesilea». Si discute e si dubita se abbiamo qui tramandato il modo di collegare organicamente al ma di Omero l’incipit dell’Etiopide oppure semplicemente una redazione differente della fine dell’/liade: comunque stiano le cose sul piano formale e letterale, è chiaro che il verso aggiuntivo introduce il tema con il quale iniziava l’Etiopide (l’arrivo dell’amazzone Pentesilea) e costituisce un esplicito aggancio contenutistico. Anche se tardo, il fenomeno è certo interessante.
C’è evidentemente una tendenza a collegare e unire, giano anche le accezioni diverse che prende il termine (dove la nozione di cerchio vuole comunque implicare tezza): una più limitata che si riferisce al complesso
su cui forse pogdi “Ciclo epico” quella di compiudi un’unica, per
quanto ampia e ramificata, vicenda mitica (sopra abbiamo parlato di Ci-
clo tebano e di Ciclo troiano); oppure quella totalizzante, che comporta l'unificazione di tutto l'insieme delle vicende mitico-eroiche in una enorme circolarità onnicomprensiva a partire dalla nascita del mondo, a quanto pare prendendo le mosse dall’unione del Cielo e della Terra: proprio nel già ricordato riassunto di Proclo infatti (p. 96, 33 Allen, nell’excerptum conservato nella Biblioteca di Fozio) si parla di Ciclo epico che inizia dall'unione del Cielo e della Terra. Sembra di vedere un progressivo affermarsi della suddetta tendenza unificatrice, che mira a una sistematicità sempre più larga (enciclopedica), quasi a voler dare esplicita e materiale evidenza alle connessioni mitiche antichissime del patrimonio culturale greco. Di tutto quello che fu il Ciclo, dei numerosi poemi, la quasi totalità è perduta: rimangono circa 120 versi e alcune informazioni indirette sul contenuto, mentre si salvarono l’/liade e l'Odissea,
i poemi di Omero,
gli unici due ‘sicuramente’ di Omero. Questo fu il verdetto dell’antichità, la selezione decretata dal tempo: e, benché le verifiche e i confronti che possiamo operare siano piuttosto scarsi, che si sia trattato di una selezione di qualità è ad un tempo probabile e confortante. In ogni caso, noi dobbiamo considerare che tutto il Ciclo sia stato formato da un consistente insieme di poesia epica “alla maniera
omerica”,
composto
nel
periodo dell’età arcaica e sistemato probabilmente a più riprese, in genere in poemi più brevi rispetto alla “monumentalità” caratteristica di quelli omerici. Tuttavia, anche se la redazione di questi poemi è da ritenersi generalmente post-omerica, è oggi prevalente l’opinione che l’insieme della materia nelle sue linee generali (diverso è naturalmente il discorso per episodi particolari, elementi accessori, aspetti stilistico-formali e Weltanschauung) sia in realtà più antica e che i due poemi omerici siano stati composti avendo già conoscenza e consapevolezza dell’insieme della vicenda troiana in tutto l’arco del suo sviluppo e delle sue implicazioni. La posteriore organizzazione del Ciclo troiano poggerebbe quindi verosimilmente su una struttura portante costituitasi molto tempo addietro, su un complesso di narrazioni mitiche formatosi assai prima della fissazione in diversi poemi suscettibili di essere tra loro collegati. Numerosi sono stati quindi i tentativi di riconoscere, sia in Omero stesso che in quello che si conosce dei poemi ciclici, le tracce di motivi
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preomerici, che vuol dire capire come in Omero ‘sono stati trasformati contenuti e personaggi preesistenti: svariati tentativi su piani diversi (basati su argomenti formali oppure contenutistici), naturalmente più o meno plausibili, ma che hanno in ogni caso prodotto un rilevante approfondimento delle indagini sulla storia interna dell’epica greca arcaica. È per questa via che si arriva a quell’indirizzo di studi oggi noto come “neoanalisi”. Una volta osservato che la scelta di campo per cui nella guerra Afrodite aiuta i Troiani, mentre Era e Atena parteggiano per i Greci, delinea una situazione che corrisponde perfettamente all’esito del giudizio pronunziato dal troiano Paride, sarà difficile negare che ciò rifletta una consapevole conoscenza degli antefatti. Altrettanto valida è l’osservazione per cui l’Iliade, che narra un singolo episodio della guerra troiana, non si preoccupa di informarci con qualche scrupolo su come e perché essa sia iniziata e offre soltanto allusioni sui modi e le conseguenze della sua conclusione; l'Odissea non mostra nessuna preoccupazione di “presentare” il proprio eroe e le vicende della sua vita fino alla caduta di Troia. Si presuppone dunque un pubblico-destinatario ben al corrente del quadro d’insieme. Per i vari poemi ciclici l’antichità ci ha tramandato attribuzioni ad autori dei quali sappiamo in genere assai poco (taluni sono puri nomi), e che per di più spesso non sono affatto univoche. Per esempio le Ciprie sono talvolta attribuite a Stasino di Cipro, l’Etiopide e la Distruzione di Ilio ad Arctino di Mileto, la Piccola Iliade a Lesche di Mitilene (oppure a Testoride di Focea oppure a Cinetone), i Ritorni ad Agia di Trezene, la Telegonia a Eugammone di Cirene. Evidentemente non erano poche le . incertezze: Aristotele più prudentemente dice «colui che ha scritto le Ciprie e la Piccola Iliade», senza far nomi. Non può far meraviglia che nell’antichità circolassero anche attribuzioni allo stesso Omero di diversi poemi epici (oltre che di altre opere: cfr. infra, par. 2.2), e che ben presto si sia cominciato a discutere su quello che doveva ritenersi veramente suo. Lo storico Erodoto (Storie 2, 117) polemizza con chi ritiene che le Ciprie siano di Omero, basandosi acutamente su una contraddizione di contenuto fra questo poema e l’/liade. Ma il fenomeno non era limitato al Ciclo troiano: entro il Ciclo tebano Pausania ci informa che Callino attribuiva la Tebaide a Omero, ancora Erodoto (4, 32) gli attribuisce gli Epigoni, e nell’Agone di Omero e Esiodo leggiamo che, secondo alcuni, entrambi questi poemi erano di Omero. Una storiella, non si sa quanto antica (probabilmente già nota a Platone) e citata in diverse fonti fra cui anche la Vita di Omero premessa da Proclo ai riassunti del Ciclo, raccontava che Omero aveva composto un poema sulla Distruzione di Ecalia da parte di Eracle e ne aveva poi fatto dono al poeta Creofilo di Samo (di cui sappiamo ben poco altro: cfr. infra a proposito degli Homeridai, p. 71), che lo aveva ospitato: Callimaco (Epigr. VI) si diverte (è un tipico gioco letterario sull’autorevolezza dell’autore) a smascherare la storiella e sostiene che evidentemente Creofilo era l’autore del poema. Ma per esempio nella tradizione erudita rappresentata dalla voce Omero del lessico bizantino di Suida (X
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sec.), nell’elenco delle opere a lui attribuite compare anche la Distruzione di Ecalia.
Sono indizi ben chiari del fatto che fino a tutta l’età arcaica e poi ancora in quella classica si tendeva a riportare a Omero molte cose entro una produzione epica ricca di numerosi poemi su svariati argomenti: ma anche del fatto che almeno qualcuno cominciò prestissimo a porsi il problema di cosa fosse veramente di Omero. Lo prova anche il fatto che arrivando ad Aristotele (che pure cita l’uso di assimilare l’epica omerica a un cerchio, kyklos, evidentemente basato su un’antica attribuzione a Omero di tutto il Ciclo) troviamo una situazione dai contorni assai meglio delimitati: Aristotele infatti riteneva (Poetica 4, 1448 b 28 ss.) che Omero fosse autore solo di Jliade e Odissea (e inoltre del Margite: cfr. infra, pp. 34 ss.), e decretò la loro eccellenza rispetto a tutti gli altri poemi (Poetica 24, 1459 b 16). Questa posizione evidentemente si impose e qualche decennio dopo anche il fondatore dello stoicismo, Zenone di Cizio (fr. 274), si attestò su /liade, Odissea e Margite. E sulla stessa linea si posero i grammatici alessandrini, che sostennero l’opinione secondo cui tutti i poemi ciclici (nel senso più ampio) erano post-omerici: Omero era il più antico e bisognava ben sceverare ciò che è “omerico” da tutto quanto è “non-omerico”, “ciclico” e posteriore. Anzi fra di loro taluni grammatici, detti Chorizontes (cioè “separatori”), attribuivano addirittura i due poemi a due autori diversi, negando a Omero la paternità dell’Odissea: ma l’opinione di questi ultimi non ebbe seguito e per gli antichi Omero rimase in sostanza il poeta dell’Jliade e dell’Odissea (e del Margite). Così si esprime la Vita di Omero che precede gli estratti del Ciclo derivati da Proclo: «Omero scrisse due poemi, l’Iliade e l’Odissea: ma Xenone e Ellanico [cioè i suddetti Chorizontes] gli sottraggono la seconda. Gli antichi tuttavia attribuiscono a lui anche il Ciclo; e inoltre gli aggiungono anche talune opere scherzose, il Margite, la Batraco-miomachia o Miomachia, e poi... capra [?: un titolo irrecuperabile per una corruttela nel testo], Cercopi, ... vuoti [?: altro titolo irrecuperabile]». Si avverte in queste attribuzioni il riferimento a idee tradizionali arcaiche. E ancora in altre fonti (in Suida, nella Vita pseudo-erodotea, in Ateneo) assieme a poemi del Ciclo troiano, compaiono come attribuiti a Omero altri titoli: si parla per esempio di una Foceide, che Omero avrebbe composto presso i Focesi; oppure di altri due poemetti comicoparodistici, intitolati Cercopes e Epicichlides, tutte opere di cui non si sa quasi nulla. 1.3. Prima e dopo Omero
Fuerunt ante Homerum poetae è una frase divenuta quasi proverbiale, estratta da un celebre passo del Brutus (XVIII, 71) di Cicerone: «Nihil est enim simul et inventum et perfectum, nec dubitari debet quin fuerint ante Homerum poetae, quod ex eis carminibus intellegi potest quae apud illum et in Phaeacum et in procorum epulis canuntur». Ci si rendeva conto che la grandezza di Omero presupponeva per forza, anzi pretendeva una tradizione e una storia poetica alle spalle. Tuttavia Éro-
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doto (che sopra abbiamo ricordato per la sua polemica contro l’attribuzione a Omero delle Ciprie) sostiene esplicitamente (Storie 2, 53, e con orgoglio aggiunge: «Sono io che lo affermo») che Omero e Esiodo, collocabili 400 anni prima di lui, sono i poeti più antichi che si conoscano, mentre i poeti che si dice siano vissuti prima di loro in realtà vissero più tardi. Non siamo davvero lontani dalle dichiarazioni di Aristotele, laddove nella Poetica dice (4, 1448 b 28 ss.): «Di nessuno anteriore a Omero possiamo citare un poema simile, anche se è naturale che ce ne siano stati molti: da Omero dunque bisogna iniziare»; e anche altrove (Hist. An. VI 5, 563 a 18; Gen. An. II 1, 734 a 19) egli si mostra quanto meno scettico sull’autenticità di opere attribuite ad antichissime figure di poeti come Orfeo, Museo e così via. Su questa linea si pone tutta la tradizione (ben rappresentata dalla filologia alessandrina, Aristarco e la sua scuola, da Giuseppe Flavio, Contra Apionem 1, 11 s., ecc.) che sottolineava come i poemi omerici siano stati i primi testi della letteratura greca ad essere messi per iscritto e ad essere conservati, mentre nessuna
delle opere prodotte in precedenza si è salvata e nessuna opera si può citare che sia più antica dell’/liade e dell’Odissea. Dunque, prima degli studiosi moderni, già gli antichi si posero non senza inquietudini il problema del preomerico, di cosa c’era stato anteriormente, dato che sempre parve evidente che un risultato così sommo non poteva essere un primo tentativo, ma doveva essere frutto di un’evoluzione. Oggi possiamo renderci ben conto che questo significa portare alla coscienza il bisogno di una storia della letteratura a cui consegue la necessità di cercare gli strumenti intellettuali e le risorse per costruire una simile storia. In effetti, a ben guardare, il problema del prima e del dopo — ma soprattutto del prima — fu sempre quello fon- . damentale che si agitava intorno ai poemi omerici. Un modo in cui gli antichi tentarono di dare un volto al preomerico fu l’applicazione di modelli culturali in loro ben radicati, come quelli della genealogia e della diadoche (successione in serie di maestro e allievo). La genealogia era un’antichissima struttura mentale di organizzazione del tempo mitico e storico, sentita come un modo di ricostruire, dandole un’ossatura portante, la storia più lontana (si pensi alle testimonianze di Acusilao, Ecateo, dello stesso Erodoto, di Ellanico); la diadoche fondò più tardi la propria esemplarità, a quanto pare, sulle successioni dei diversi maestri nelle scuole filosofiche, canonizzate dalla tradizione e da un certo punto in poi consegnate a un apposito genere di tipo biografico (come per esempio le Successioni dei filosofi di Antistene), ma in ambito storico già Ellanico aveva utilizzato come impalcatura cronologica le successioni dei re e degli arconti ateniesi e delle sacerdotesse di Era ad Argo. Non mancano per esempio le testimonianze in cui nell’albero genealogico di Omero troviamo inseriti poeti come Orfeo, Lino, Museo e altri: per Ellanico la stirpe da cui discendeva Omero cominciava con Orfeo, per Gorgia con Museo. Come “maestri” di Omero sono citati vari personaggi e con modalità diverse: per esempio Creofilo di Samo e Testoride di Focea, connessi a poemi talvolta attribuiti a Omero (cfr. supra); oppure persino Aristea di Proconneso, altra semileggendaria figura
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di poeta-taumaturgo. Particolarmente interessante come invenzione è una tradizione, conservata nelle Vite di Omero, che fa di Femio (l’aedo del palazzo di Odisseo a Itaca: Odissea 1, 153 ss.; 17, 262 s.; 22, 330 ss.) il padre putativo ed educatore di Omero, il quale per riconoscenza lo avrebbe menzionato nell’Odissea. All’aedo al quale Agamennone partendo per Troia avrebbe affidato la moglie Clitemnestra (Odissea 3, 267 ss.), una notizia erudita (riferitaci dal peripatetico Demetrio Falereo) dava il nome di Demodoco, originario della Laconia, e di lui si diceva che fosse fratello di Femio: forse c’è qui un processo di identificazione con il più celebre cantore Demodoco della corte dei Feaci (Odissea 8, 43 ss.). Le trovate connessioni di genealogia oppure di successione maestroallievo rispondevano chiaramente all’esigenza di stabilire legami strutturati fra un preomerico avvolto da una nebulosità semileggendaria e l’emergere di una figura come Omero, la cui consistenza e fisionomia storica era malgrado tutto acquisita. Di questo partecipavano naturalmente anche le figure di aedi che Omero stesso rappresenta, altrettanto naturalmente considerati come figure reali, suoi predecessori, e come tali trattati nel fare “storia della letteratura”: emblematica la naturalezza con cui Pausania (1, 2, 3) confronta Omero e Esiodo, che non erano ospitati da un re come cantori di corte, con il Demodoco dei Feaci e l’aedo lacone (Demodoco) di Agamennone, che invece dimoravano presso una reggia. Poeti, critici ed eruditi non mancarono di esprimere frequentemente l’idea che poeti anteriori a Omero erano sicuramente esistiti e la tradizione antica non è avara di nomi. Corrispondentemente si rintraccia anche, soprattutto nello stesso Omero, documentazione su forme letterarie preomeriche: è stata riconosciuta la conoscenza di taluni generi lirici, ma innanzitutto (come dicevamo) Omero ci parla dell’attività e della figura dell’aedo, nella rappresentazione di Demodoco e Femio nell’Odissea: e da queste figure di cantori sono stati tratti elementi per dare concretezza all'immagine di chi compose, quale che ne sia stato il modo, l’Iliade e l'Odissea. A questo aspetto si può collegare il fatto che in Omero, come abbiamo già accennato sopra, è testimoniata la conoscenza di altre epiche: abbiamo ricordato la saga degli Argonauti, la storia di Meleagro, il ciclo tebano, ma possiamo aggiungere ancora la vicenda di Niobe citata in Iliade 24, 602 ss., oppure le non poche allusioni a mitiche lotte fra divinità. E un quadro non certo povero di materia epica che nei poemi omerici appare già conosciuta, e si può ben capire che la discussione sia stata vivace a proposito del modo di rappresentarsi le forme concrete nelle quali questa materia poteva essere contenuta, dando per acquisito che non si tratta di un semplice riferimento al portato antropologico della cultura della stirpe, ma di reali allusioni poetiche “letterarie” (le virgolette sono d’obbligo, naturalmente). I x\.éa &vôg&v, le «glorie degli eroi», è il termine con cui Omero designa il tema del canto di Demodoco (Odissea 8, 73) e del canto con cui Achille adirato si diletta accompagnandosi con
la cetra (Jliade 9, 186 s.). Dobbiamo allora pensare alla più magmatica e fluida tradizione orale fatta di improvvisazioni (performances) continue; oppure a consistenti poemi già in qualche misura (il solo canovaccio più
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o meno dettagliato, o reali e definite serie di versi, ma quanto lunghe?) fissati e trasmessi oralmente; oppure ancora a veri e propri “testi” completi (soggetti a variazioni relativamente lievi), magari già consegnati alla scrittura? Così è naturale che il problema della forma del preomerico si trasformi chiaramente in quello della genesi dei poemi: le questioni intorno alle quali sono fioriti gli studi moderni sulla poesia orale e sulla neo-analisi si raggruppano intorno al problema di fondo di capire il preomerico.
Se fino ad ora abbiamo trattato solo dell’epica, è giusto dire almeno una parola sul fatto che nel testo dei poemi omerici (come accennavamo) si trovano testimonianze, sia esplicitamente terminologiche sia relative alle occasioni del canto, che ci parlano anche della composizione ed esecuzione di forme liriche, che si possono ricondurre all’inno, al threnos, all’imeneo, al peana: dunque erano già noti e coltivati prima di Omero alcuni modi di far poesia, diversi dall’epica, che poi ebbero continuazione in generi della lirica, ed anche questo elemento deve essere tenuto presente nel quadro delle fasi e forme più antiche della poesia greca. I rapporti cronologici fra i due poemi omerici, i vari poemi ciclici, le opere di Esiodo, le altre opere minori attribuite a Omero, soprattutto gli Inni, sono stati oggetto di molte ricerche e discussioni. Gli antichi in genere tendevano a considerare Omero e Esiodo come pressappoco contemporanei: quando si ponevano il problema di chi fosse vissuto prima, era più diffusa l’opinione che vedeva in Omero il più antico, ma non mancava chi riteneva Esiodo precedente. La celebre dichiarazione dell’Anonimo del Sublime (9, 10 ss.) secondo cui l’Odissea fu scritta dopo l’Iliade perché ne presuppone la conoscenza e perché l’Odissea si caratterizza come opera della vecchiaia per la tendenza al raccontare e al favoleggiare, istituiva una cronologia relativa fra i due poemi che gli studi moderni hanno totalmente confermato. In termini di cronologia assoluta, fatte salve le ovvie incertezze, possiamo dire che l’Iliade fu composta nella forma attuale (pressappoco, cioè con le relativamente scarse fluttuazioni, che continuarono fino all’età alessandrina) nel corso dell’VIII secolo a.C., mentre l’Odissea è posteriore di qualche decennio (si può dire convenzionalmente di una generazione) e fu opera di un poeta che conosceva l’Jliade e ne trasse l’ispirazione: questa è oggi la posizione più accettata e accettabile (ed è forse un’ironia della sorte che alla distanza si sia in qualche modo imposta l’opinione dei Chorizontes, cfr. infra, p. 55). Che le opere minori attribuite a Omero siano più o meno posteriori ai poemi, non è in generale oggetto di contestazione. Lo stesso si può dire dei poemi ciclici, prescindendo dal fatto che la loro redazione ultima ebbe certamente predecessori più antichi: l’opinione che colloca la redazione del Ciclo fra VII e VI secolo a.C. appare del tutto ragionevole. Interessante e forse emblematico è il caso della Telegonia, probabilmente il più tardo di questi poemi: nel suo contenuto si riconoscono in effetti motivi recenziori, ma oltre a questo l’autore cui è attribuita, Eugammone di Cirene, è collocato da Eusebio nel VI secolo a.C. Si pensa tuttavia che
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egli abbia utilizzato come fonte un poema più antico intitolato Tesprotide (di cui ci dà notizia Pausania, 8, 12, 5): se la notizia è vera, costituisce un ottimo esempio di quanto dicevamo. Abbiamo dunque diversi motivi per pensare che la produzione epica sia sopravvissuta, nelle sue forme più attardate, almeno fino al VI secolo e oltre. La tradizione rapsodica, alla quale si richiama certamente la notizia relativa agli Homeridai di Chio, dovette costituire l’alveo di questa corrente e dei suoi epigoni. Ma su questo tema, l’epica postomerica e i suoi esiti ultimi fino al dotto recupero alessandrino, proseguiremo nel paragrafo 4. 2. Omero. I poemi omerici 2.1. Iliade e Odissea
Ben lungi dal raccontare tutta la guerra di Troia (Ilio), come potrebbe far credere il titolo, l’Iliade (in 24 libri o canti, circa sedicimila versi) narra soltanto un episodio (intorno al quale comunque si aggregano diversi episodi minori centrati su numerosi personaggi) accaduto alla fine del nono anno di guerra (la collocazione temporale è esplicitata a 2, 134 e 295), con un’azione della durata di circa cinquanta giorni. Il proemio individua il tema centrale del poema nell’ira di Achille, che resta — nonostante la non piccola costellazione di fatti e figure che lo avvolgono — l'argomento e il personaggio principale, il filo conduttore, più o meno emergente, qualche volta in secondo piano, della struttura di un’azione peraltro ampiamente corale. Il suo esito fatale sarà l’uccisione, da parte di Achille stesso, del massimo campione della difesa troiana, Ettore figlio di Priamo e fratello di Paride: evidente prodromo e annuncio della caduta definitiva della città, alla quale l’/liade allude più volte (2, 322 ss.; 12, 10 ss.; 15, 69 ss.), ma dalla quale la fine del poema rimane ancora lontana. Offeso dal comportamento irriguardoso tenuto nei suoi confronti dal capo dell’esercito acheo Agamennone, Achille, il più valente e glorioso degli eroi greci, dopo una furibonda lite davanti all’assemblea, si ritira dalla guerra e chiede soddisfazione alla madre, la dea Teti, per il suo onore violato. Teti ottiene da Zeus che gli eventi diano risarcimento al figlio: il piano del supremo re degli dei e degli uomini è quello di concedere vittoria ai Troiani, piegando i Greci alla sconfitta finché Achille non torni a combattere nel pieno della sua gloria, risollevando le sorti dei suoi compagni. L’attuazione della volontà di Zeus costituirà dunque nella struttura del poema una linea-guida unitaria, scaturita dal tema centrale dell’ira di Achille. Il meccanismo sembra mettersi in moto la notte seguente, quando Zeus invia ad Agamennone un sogno ingannatore con lo scopo di incitarlo a sferrare l'indomani l’attacco decisivo contro Troia, in realtà per mandarlo incontro a una disfatta. Tuttavia lo svolgimento essenziale della trama, così abilmente ed esplicitamente preparato, comincia a questo punto a subire una serie di rinvii e di rallentamenti, che vengono poi per
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così dire scavalcati da riprese con le quali si riannoda il filo dell’azione. Dopo la grande rassegna delle forze in campo rappresentata dal famoso catalogo delle navi achee e degli alleati dei Troiani (nella seconda parte del II libro), la ripresa della battaglia campale viene differita con la proposta di risolvere la guerra per mezzo di un duello fra Paride e Menelao: ma l’occasione finisce nel nulla, perché Paride, in procinto di essere sconfitto, viene salvato dall’intervento di Afrodite e il troiano Pandaro viola la tregua ferendo di freccia Menelao. Si comincia dunque a combattere e seguono fasi alterne (spicca nel libro VI la lunga serie di gesta che portano in primo piano l’eroe acheo Diomede), inframmezzate dal commovente episodio dell’incontro, entro le mura di Troia, di Ettore prima con la madre Ecuba e poi con la moglie Andromaca e il giovane figlio Astianatte. L'episodio ha il sapore di un estremo addio di Ettore apparentemente avviato alla morte in battaglia, morte che invece, per quanto annunciata, è ancora lontana e nell'economia del poema risulta fortemente differita. Dopo una nuova singolar tenzone, questa volta fra Ettore e Aiace, insorge la battaglia; nell'Olimpo Zeus pesa sulla bilancia fatale i destini di morte, vedendo precipitare quello degli Achei: il piano iniziale è così richiamato e l’interruzione delle ostilità per il cadere della notte vede gli Achei in difficoltà, come il piano di Zeus voleva. I capi achei decidono allora di inviare un’ambasceria ad Achille per convincerlo a tornare a combattere con i suoi Mirmidoni: ma l’esito è negativo, Achille persevera nel suo irato e sdegnoso ritiro. All'indomani, la ripresa della battaglia vede gli Achei in gravi difficoltà: feriti molti dei principali condottieri, i Troiani si avvicinano al muro che delimita l'accampamento avversario e protegge le navi, e minacciano di riuscire a incendiarlo e distruggerlo. Achille manda Patroclo a informarsi su chi viene trasportato ferito fuori dalla battaglia, e
così si avvia l’azione di tutta la seconda metà del poema. Sull’Olimpo, Era, la dea nemica dei Troiani, riesce a ingannare Zeus con la seduzione e a distoglierne l’attenzione: Posidone allora scende ad aiutare gli Achei, che sembrano riprendersi; Ettore stesso viene ferito. Ma Zeus si risveglia e ripristina la propria volontà: i Troiani tornano a prevalere, Ettore ristabilito incalza sempre più vicino al muro dell’accampamento acheo e sembra vicino a travolgerlo. E a questo punto (libro XVI) che Patroclo, il compagno e amico fidato di Achille, commosso dalle sorti negative dei compagni, chiede il permesso di rientrare almeno lui in battaglia, vestendo le armi di Achille,
con la speranza di impaurire i Troiani e dar respiro alla propria parte. Ma la ripresa è di breve durata: con l’aiuto di Apollo, dio amico dei Troiani, Ettore uccide Patroclo e si impadronisce delle splendide armi; e gli Achei tornano in grave difficoltà nonostante le strenue difese di Menelao e Aiace. Appresa la notizia della morte del più caro amico, Achille disperato invoca l’aiuto della madre Teti: è lei che chiede a Efesto, il
divino artigiano dio del fuoco, di costruire al figlio le nuove armi meravigliose con le quali Achille, riappacificatosi con Agamennone e deposta l’ira, riprende finalmente a combattere. Dopo lunghe lotte e stragi terrificanti, nelle quali Achille devasta le
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file nemiche portando i suoi a prevalere, i due grandi contendenti si trovano di fronte: nel duello supremo Achille uccide Ettore e fa scempio del cadavere. La disperazione e il pianto dei genitori Priamo ed Ecuba e della moglie Andromaca suggellano la vendetta per la morte di Patroclo e per il dolore di Achille. Compiuti i funerali di Patroclo, cremato sul rogo e celebrato da imponenti giochi funebri, il poema termina con l’umana e toccante sequenza del vecchio Priamo che si umilia a chiedere e, con la pietà di Achille che riesce a placare il proprio furibondo dolore, ottiene la restituzione del corpo del figlio Ettore, del quale si compiono le esequie. Come dicevamo, l’Iliade è insieme il poema di Achille e un poema policentrico e corale: basta pensare non soltanto alle grandi scene di battaglia (in certo modo, se vogliamo, staticamente fotografate all’inizio nella grande rassegna del catalogo degli eserciti del II libro), ma anche a eroi co-protagonisti come innanzitutto Ettore, oltre che Patroclo e Paride, e poi Diomede, Agamennone, Nestore, Odisseo, Aiace, e altri su piani diversi come Priamo, Ecuba, Andromaca. La saga dice che Achille è l’eroe che ha scelto un'esistenza breve e illustre invece di una vita lunga e oscura: questo è il suo destino, la sua scelta che la madre conosce bene. Achille dunque non può andarsene e abbandonare la guerra, non può mancare la prova gloriosa della battaglia che consacra gli eroi: l’ira, che lo tiene fuori dal suo ambito naturale, la guerra, consumatisi i diversi rinvii nei quali trova posto buona parte dell’azione centrale del poema, dovrà essere deposta e permettere il compimento del destino di gloria del figlio di Peleo e Teti, e poi, oltre i limiti dell’Iliade, del fato tragico di Troia. L’Odissea (anch’essa divisa in 24 libri, circa dodicimila versi) è il poema del ritorno a casa di Odisseo (Ulisse), l’ultimo degli eroi di Troia a riguadagnare la patria, il protagonista del ritorno più lungo e avventuroso, ma anche più ricco di fama. Diversamente dalla coralità dell’/liade, qui Odisseo è l’incontrastato e unico protagonista, il solo eroe del poema: benché non manchino altri personaggi importanti e immortali (alcuni direttamente ereditati dall’/liade, come Nestore e Menelao e gli altri eroi incontrati nel regno dei morti: ma poi Circe e Nausicaa, Polifemo e Alcinoo, Telemaco e Penelope, le creature fantastiche incontrate
nei viaggi e le figure della reggia di Itaca, come i Proci o la vecchia nu-
trice Euriclea).
Caratterizzante è l’inizio in medias res. La guerra è finita da dieci anni, gli altri eroi greci sono già tutti felicemente tornati alle loro case o infaustamente periti nel ritorno, mentre il solo Odisseo (che dunque manca da Itaca da venti anni in totale) è ancora trattenuto lontano a causa dell’ostilità di Posidone, adirato con lui per la vicenda di Polifemo (il Ciclope figlio appunto di Posidone). Da otto anni ormai l’eroe è costretto a rimanere nell’isola della ninfa Calipso, dove è pervenuto dopo moltissime avventure, che egli stesso racconterà nella reggia di Alcinoo re dei Feaci: sono i famosi Apologoi dei canti IX-XII, nei quali il protagonista stesso narra tutto quanto gli è accaduto dopo la partenza da
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Troia, vale a dire gli episodi dei Lotofagi, dell’isola dei Ciclopi e di Polifemo, di Eolo, dei Lestrigoni, la sosta presso la maga Circe, la visita al regno dei morti con la profezia di Tiresia (e gli incontri con la madre, Agamennone, Achille, Aiace), le Sirene, Scilla e Cariddi, l’isola del Sole con le vacche sacre uccise per fame, la collera del dio Sole, fino all’ultimo naufragio che lo portò appunto all’isola di Ogigia presso Calipso. Questo vero e proprio flash-back, ottenuto con la tecnica del racconto nel racconto, spezza la linearità del tempo narrativo e mostra una capacità di strutturare la narrazione certamente evoluta rispetto al più semplice sviluppo dell'Iliade: una delle ragioni, insieme alla materia avventurosa e al tema del viaggio e del ritorno, per cui l'Odissea è vista come testo-forma archetipale del romanzo. All’inizio del poema, gli dei a concilio decidono che anche Odisseo deve tornare a casa e che Posidone deve cessare la propria ira nei confronti dell’eroe. Nella casa di Odisseo, i nobili itacesi dilapidano le sue ricchezze e incalzano Penelope perché si risposi e dia all’isola un nuovo re. Il primo motore della vicenda è costituito dal fatto che la dea Atena si reca ad Itaca per esortare il figlio di Odisseo, Telemaco, a por fine alla sua inerzia e compiere un viaggio (che toccherà Pilo, la reggia di Nestore, e Sparta, regno di Menelao) alla ricerca del padre o di sue notizie: è questo il contenuto dei primi quattro libri, che prendono il nome di Telemachia. Il ruolo di Atena lungo tutto il poema, la sua costante presenza a fornire aiuto e sostegno al protagonista nelle peripezie del suo ritorno rappresenta nello svolgersi dei fatti un elemento di grande importanza, coerente eredità della posizione degli dei nell’azione dell’Iliade: sul piano strutturale poi, visto nella macro-economia del racconto, costituisce anche un filo conduttore unitario non trascurabile. Con il quinto libro, un nuovo consiglio degli dei provoca un nuovo inizio dell’azione, che pone il problema del rapporto della Telemachia con il resto del poema. Calipso è costretta a rinunciare al proprio amore e Odisseo può partire da Ogigia su una zattera. Ma le peripezie sono lungi dall’essere terminate: Posidone fa naufragare Odisseo, che a stento riesce a salvarsi e approda all’isola di Scheria, dimora dei Feaci, governati dal re Alcinoo. Dopo il celebre e delicato incontro sulla spiaggia con la giovane figlia del re, Nausicaa, Odisseo (guidato da Atena) arriva al
palazzo ed è accolto nella reggia di Alcinoo. La sera, durante il banchet-
to, il canto dell’aedo Demodoco su temi della vicenda troiana commuove Odisseo: pressato dalle incuriosite domande dei suoi ospiti, l’eroe svela la propria identità e narra (libri IX-XII: Apologoi) le avventure posteriori alla caduta di Troia fino all’arrivo da Calipso, la speranza di ritornare finalmente a Itaca, il nuovo naufragio e l’approdo a Scheria. Grazie all’aiuto dei Feaci e con una loro nave, Odisseo (libro XIII) riesce finalmente ad arrivare a Itaca e, con l'immancabile aiuto di Atena, pianifica la vendetta e la riconquista del proprio regno. Sempre Atena convince Telemaco (che indugia a Sparta) a tornare rapidamente in patria, e così la linea narrativa della Telemachia è accortamente riunita al filo principale del racconto: Odisseo e Telemaco si incontrano nella capanna del porcaro Eumeo, che ha accolto Odisseo sotto le mentite
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spoglie di un mendico, per volontà di Atena si riconoscono e stabiliscono il loro piano. Sempre in veste di accattone, Odisseo si reca alla reggia (dove il vecchio cane Argo lo riconosce e subito muore), entra e si aggira mendicando fra i Proci festanti e banchettanti, dai quali è fatto oggetto di scherno e di provocazione. Penelope decide di scendere fra i pretendenti e fa balenare la possibilità di decidersi ormai a nuove nozze: vuole poi parlare con lo straniero, che, continuando a nascondersi sotto le mentite spoglie di uno sfortunato mercante cretese, le parla di Odisseo e la prepara al suo ritorno. Scesa la sera, la vecchia nutrice Euriclea, incaricata di lavarlo, riconosce il padrone ma sa essere un’accorta alleata. Gli eventi precipitano, sapientemente incalzanti verso la conclusione fatale. Odisseo e Telemaco allontanano le armi dalla sala; un sogno fa venire a Penelope l’idea della gara dell’arco; con il nuovo giorno, radunatisi di nuovo i Proci nella reggia, Penelope fa la sua proposta: chi riuscirà a tendere l’arco di Odisseo ed a traversare con una freccia gli anelli di dodici asce, l’avrà in sposa e sarà re di Itaca. Quando, dopo che molti altri hanno fallito, lo straniero mendico riesce nella prova, tutto si disvela e Odisseo realizza la terribile vendetta facendo strage dei pretendenti. L’incredula Penelope cessa ogni dubbio dopo che lo straniero mostra di riconoscere il letto nuziale: si è compiuto il ritorno dell’ultimo degli eroi di Troia. Il libro XXIV, infine, mostra le anime dei pretendenti uccisi che scendono all’Ade, l’incontro di Odisseo con il vecchio padre Laerte e la riappacificazione finale degli Itacesi. L’Iliade ci mostra una società in guerra: il fragore delle battaglie fa da cornice all’agire dell’eroe che si conquista la gloria affrontando il nemico; e nelle brevi pause lontano dal bagliore delle armi (l’incontro fra
Ettore e Andromaca, l’ambasceria notturna ad Achille, i giochi funebri per Patroclo, la visita di Priamo a chiedere il corpo di Ettore) è sempre la guerra a dettare lo sfondo, e la dimensione etica dei personaggi, parametro del loro agire, è quella dell’eroismo guerriero e della morte gloriosa piuttosto che una vita oscura. Nell’Odissea la guerra è un ricordo, un passato da cui non si prescinde e che prolunga in tutto i suoi effetti nel presente: ma il presente è la volontà di ritorno sul suolo della patria, fra le mura domestiche a recuperare i legami e gli affetti familiari; ed è l’avventura prolungata, variegata, insistita che rimanda il ritorno e innalza sempre di più la figura dell’eroe che soffre affanni e li supera con la forza e l’astuzia; avventura nella quale gioca un ruolo importante il tema degli amori, il prevalere dell’amore per la sposa Penelope sulle tentazioni diverse della splendida Calipso, dell’affascinante maga Circe, della dolce Nausicaa. | Caratteristica in entrambi i poemi è la duplicità di piani per cui alla rappresentazione del mondo umano fa da contraltare quella del mondo divino, con i suoi molteplici interventi e influssi sull’agire degli uomini. L’immortalità e i poteri sovrannaturali degli dei ne segnano la distanza dagli uomini-eroi: ma a ciò si accompagna una rappresentazione fortemente antropomorfica dei comportamenti della divinità, nella quale le
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valenze e gli esiti letterari e stilistici sono da considerarsi di significato e valore almeno pari a quelli antropologici e religiosi. Nella forma sia dell’Iliade che dell’Odissea due fattori si impongono con evidenza: da una parte il materiale comune dei due edifici, il patrimonio espressivo portato da una lunga tradizione di canti basata sulla dizione formulare e su un consolidato repertorio tematico; dall’altra la grande architettura compositiva che regge in entrambi l'impianto del poema epico monumentale: torneremo su entrambi gli aspetti. Nell’/liade l’episodio dell’ira di Achille, con la sua inevitabile ricomposizione per il ritorno dell’eroe alla guerra, aggrega a sé numerosi episodi che allargano la prospettiva e danno al poema il carattere di rappresentazione del momento decisivo della guerra di Troia: ma abbiamo già messo in evidenza la non trascurata concatenazione che riannoda via via i fili dell’azione, ne ricapitola l'accaduto e ne annuncia il seguito, in un tipico continuo gioco di riprese, preparazioni e ritardi. Soprattutto a partire dal libro XI la connessione degli avvenimenti è serrata e lineare: a seguito del ferimento dei maggiori capi achei, Achille chiama Patroclo per mandarlo a prendere notizie, e questo «fu per lui inizio di rovina» (11, 604);
poi Patroclo otterrà di entrare in battaglia e ucciderà Sar-
pedone (e continuerà a combattere, errore fatale che realizza la volontà e il piano di Zeus: cfr. 16, 684 ss.), Ettore ucciderà Patroclo per vendicare Sarpedone, e allora Achille vendicherà Patroclo uccidendo Ettore (né mancano, magari en passant, i richiami al piano iniziale, come per esempio a 12, 174 si ricorda che Zeus agisce così perché vuole far prevalere Ettore e i Troiani finché Achille è assente). Nell’Odissea il tema conduttore del ritorno in patria di Odisseo con la riconquista del trono, della famiglia e dei beni attraverso l’uccisione dei malvagi pretendenti, si arricchisce facilmente di numerose avventure piene di motivi fiabeschi e folklorici sostenuti dalla struttura del viaggio: l’abile e studiato innesto del racconto nel racconto fornisce all’insieme una solidità strutturale incontrovertibile proprio in quanto meno semplice. Il terzo elemento è costituito dalla Telemachia, il cui filo narrativo lasciato in sospeso torna a convergere con la linea principale fino al riconoscimento del padre da parte del figlio nel libro XVI. Dal libro XIII in poi, dopo i racconti delle passate avventure, l’azione procede lineare e porta a riunire fino all’esito finale i tre temi narrativi: una volta che anche Telemaco è ritornato e si è unito a Odisseo, le avventure per mare approdano al ritorno, alla vendetta e alla riconquista. Se è caratteristico dell’Odissea l’inizio in medias res entro il taglio degli avvenimenti che ne compongono l’azione e dunque all’interno della propria struttura individuale, anche l’/liade inizia in medias res in rapporto al macrocontesto dell’intera vicenda troiana e seleziona un segmento piccolo rispetto all’intero. Questa semplice osservazione non può non richiamare quanto dice Aristotele nella Poetica (23, 1459 a 17 ss.) sull’eccellenza ed esemplarità di Omero (benché essa appaia chiaramente condizionata dal modello della tragedia) in quanto non ha voluto rappresentare tutta la guerra, ma ha saputo selezionare gli avvenimenti e
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scegliere il taglio dell’azione in modo che fosse unitaria e compiuta, diversamente dai poeti del Ciclo, che compongono azioni multiple. 2.2. “Omero minore”. Le Vite di Omero e l’Agone di Omero e Esiodo
Il carattere convenzionale di un’indicazione come quella di “Omero minore” è fin troppo evidente: si rubricano sotto di essa alcune opere non appartenenti al genere epico, che nell’antichità venivano variamente ricondotte a Omero (a prescindere naturalmente da tutti i problemi posti dall’attribuzione di diversi poemi del Ciclo, cfr. supra). Di maggiore importanza, per più ragioni, è senz'altro il corpus degli Inni, che una fortunata circostanza ci ha conservato perché un erudito in
età tardoantica (VI tologia della poesia gli inni di Orfeo, stessa via). Non si
sec. d.C. o più tardi) ebbe l’idea di comporre un’aninnica greca che comprendeva, oltre a quelli omerici, Callimaco, Proclo (salvatisi dunque anch’essi per la sa quando e da chi sia stata messa insieme la raccolta
degli Inni di Omero, che a noi è pervenuta come una silloge di 33 com-
posizioni dedicate agli dei del pantheon ellenico, scritte in esametri nello stile epico, molto differenti fra loro per contenuto e per estensione. Anche il carattere assai disomogeneo della raccolta ne denuncia l’origine abbastanza tarda, e sarà nel giusto chi pensa almeno al IV secolo a.C. o addirittura all’età alessandrina, per di più senza escludere ulteriori inserimenti in tempi diversi. Si suole menzionare, a proposito dei limiti inferiori della cronologia, l’Inno ad Ares (VIII), che difficilmente (come noi lo leggiamo) può essere anteriore al I sec. a.C.: tuttavia l’insieme raccoglie componimenti di età diversa, alcuni senza dubbio di assai rispettabile antichità. Oltre che come Inni (il titolo scelto dall’ignoto autore della raccolta), essi erano conosciuti anche come Proemi: quando ve- . nivano eseguite delle narrazioni epiche, i rapsodi le facevano precedere da un canto, detto “proemio”, in onore di una divinità, tanto più che questo accadeva normalmente in occasione di festività che comportavano, oltre al momento cultuale, copiosi festeggiamenti. Se dunque l’origine del corpus che ci è pervenuto sta in una raccolta di proemi destinati alle recitazioni rapsodiche, questo (insieme alle differenze di epoca) può contribuire a spiegarne il carattere disuguale, dato che forse l’inno per certi aspetti si adattava alle circostanze in cui veniva eseguito. Oltre al resto, essi offrono spesso una fonte di grande importanza per la mitologia e la religione greca arcaica. La struttura completa consta di un esordio laudativo della divinità cui l'inno è dedicato, una parte narrativa di contenuto mitico e un congedo (talvolta in forma di preghiera): molti tuttavia sono composti soltanto da proemio e chiusa, e mancano dell’ampia parte narrativa interposta. I più caratteristici del genere sono i quattro inni maggiori, dedicati a Demetra (II), Apollo (III), Ermes (IV), Afrodite (V), ai quali seguono per importanza ed estensione quelli a Dioniso (VII) e a Pan (XIX); molti degli altri sono meno di dieci versi. I più antichi sembrano
essere l’Inno a Demetra e l’Inno ad Afrodite, di solito collocati ancora nel VII secolo a.C., mentre per l’Inno ad Apollo si propende per il VI
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secolo e per l'Inno a Ermes alcuni scendono fino al V, ma non si può escludere una datazione anteriore; grandi sono le incertezze per gli altri due (l’Inno a Dioniso è stato talvolta ritenuto addirittura il più antico), a parte l’insostenibilità di una datazione posteriore al IV secolo. Le composizioni più antiche non sono dunque lontanissime dall’epoca dei poemi, benché ci sia un generale accordo su una loro collocazione comunque posteriore anche all’Odissea: semmai si discute di priorità soltanto in relazione a qualche parte dei poemi ritenuta, a torto o a ragione, di origine più recente.
In questo quadro cronologico, con definizione efficace scaturita dallo studio linguistico-stilistico, si è parlato di stadio sub-epico della dizione poetica formulare, coinvolgendo in questo anche le opere di Esiodo, e nel complesso anche i poemi del Ciclo nella loro redazione ultima. Il quadro di cronologia relativa che ne risulta, nelle sue linee generali si può considerare largamente accettato e accettabile. In primo luogo forse avremmo dovuto parlare del Margite, l’operetta che più tenacemente e autorevolmente, come abbiamo visto, nell’antichità fu ritenuta autenticamente omerica ma che purtroppo non si è conser-
vata. Si trattava di un poemetto avente per protagonista uno sciocco di nome Margite (nome parlante, da margos = stupido), che combinava sempre guai e incorreva in ripetute disavventure: evidente contraltare dei protagonisti del poema epico, di cui rovescia in comico tutte le valenze eroiche e solenni. È un peccato non poterne sapere di più, perché i motivi di interesse sono molti anche sul piano formale: oltre che per la lingua, per l’alternarsi irregolare di esametri e trimetri giambici, che ha trovato un inatteso parallelo nell’iscrizione della famosa coppa di Ischia (detta “di Nestore”), della seconda metà dell’VIII secolo a.C., che contie-
ne due esametri e un trimetro. Questo potrebbe indurre a una datazione notevolmente alta del poemetto (VII sec. a.C.?), tuttavia difficile da confortare: il VI secolo è stato indicato come cronologia più probabile. L’effetto parodico doveva essere sottolineato dall’ambientazione antieroica e probabilmente “borghese”, unita all’alternanza metrica, con una probabile mistione di elementi linguistici più bassi nella sublimità epica. Potremmo contare su qualche nuova conoscenza se fossimo sicuri dell’attribuzione al Margite di P.Oxy. 2309 (forse della fine del I sec. a.C.), un frammento di 21 versi non ben conservati con alternanza irregolare di esametri e trimetri giambici: sfortunatamente però l’identificazione è tutt’altro che sicura. Ci è pervenuta invece, per di più in numerosi manoscritti che presentano notevoli divergenze di redazione, la Batracomiomachia, un poemetto in esametri (poco più di trecento) che racconta la guerra fra i topi e le rane, scoppiata perché il re delle rane, mentre trasportava sul dorso un topo, vedendo una biscia d’acqua si è immerso facendo annegare il suo ‘passeggero’. L'occasione della guerra e le descrizioni di battaglia, con il riuso di linguaggio e situazioni epiche per un contenuto totalmente comico, definiscono il carattere parodistico dell’insieme, anche se con caratteri differenti rispetto al Margite. Per la sua datazione si è oscillato variamente da una collocazione antica fra VI e V secolo e la piena età
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alessandrina: oggi la critica si è attestata sul I secolo a.C. La sua fama è dovuta anche all’interesse che provò per essa Giacomo Leopardi, che la tradusse e ne compose un seguito col titolo di Paralipomeni della Batracomiomachia. Si delinea dunque un’area di poesia eroicomica, nell’ambito della quale bisogna ricordare anche i due poemetti comico-parodistici intitolati Cercopes e Epicichlides (cfr. supra, p. 23), dei quali non si sa praticamente nulla. Le difficoltà di contestualizzazione di questo genere sono aggravate dal fatto che della poesia parodica greca la gran parte è andata perduta: tradizioni diverse indicavano in Ipponatte (Ateneo 15, 698 b) o in altri poeti ancora più recenti l'inventore della parodia dell’epos. Tuttavia la già ricordata derivazione storico-letteraria, codificata da Aristotele nella Poetica, che vedeva in Omero la genesi di entrambe le forme drammatiche, può forse spiegare tutta questa linea (addensata intorno al più famoso Margite) come operazione piuttosto dotta volta a dare un’immagine concreta nell’ambito “omerico” all’origine della commedia e del comico. Nella più estesa delle Vite di Omero pervenuteci, quella pseudo-erodotea, sono contenuti quindici epigrammi (alcuni dei quali si trovano anche nella voce Omero di Suida e due nell’Agone di Omero e Esiodo) scritti in esametri e attribuiti al poeta, che li avrebbe composti in diverse circostanze della sua esistenza. Per la Vita sono state avanzate datazioni che vanno dal principio dell’età alessandrina fino al II secolo d.C., il che significa che di fatto la collocazione cronologica non è precisabile: gli epigrammi in sé mostrano sicuramente caratteri postomerici, ma sembra
che nulla obblighi a crederli senz’altro prodotti molto tardi (cioè alessan-
drini o ancora più recenti). E chiaro che una qualunque decisione apparirebbe azzardata: probabile è che composizioni poetiche, che una qualche fama più o meno corrente ricollegava al nome di Omero e forse potevano addirittura vantare ascendenti nella tradizione rapsodica, siano state riutilizzate nella confezione di un prodotto biografico-erudito, che a sua volta dava forma a noti racconti sulla vita del poeta. In numerosissimi manoscritti i poemi omerici sono preceduti da alcuni testi in prosa, che fungono in vari modi da introduzione erudita di vario livello alla lettura di Omero e che si usa chiamare Prolegomena. E poiché era di regola che la biografia dell’autore fosse un elemento essenziale per introdurre alla sua opera, è proprio a quest'area che si deve una gran parte della tradizione della Vite di Omero, come pure dei già ricordati estratti della Crestomazia di Proclo (identificabile o con un grammatico del II secolo d.C. oppure con il più famoso neoplatonico del V) contenenti, oltre ai riassunti del Ciclo, anche una Vita di Omero che abbiamo già citato. Queste Vite sono per lo più anonime oppure pseudoepigrafe. Abbastanza brevi sono alcune Vite anonime contenute soltanto nei manoscritti omerici. La più estesa è la già menzionata Vita pseudo-erodotea, tramandata sotto il nome del famoso storico Erodoto (con il quale non ha nulla a che fare): essa è nota anche come fonte principale degli epigrammi attribuiti a Omero, di cui abbiamo appena parlato. Inoltre, due
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versioni differenti di Vita di Omero si trovano all’inizio dell’operetta pseudo-plutarchea De vita et poësi Homeri e una di rispettabile estensione si trova nel lessico di Suida. È questo il luogo in cui parlare anche dell’Agone di Omero e Esiodo, un’operetta basata con ogni evidenza su alcuni versi nei quali Esiodo (Opere, vv. 650-9, cfr. infra, p. 67) racconta di essere andato una volta a Calcide nell’Eubea per prendere parte a gare in onore di Anfidamante e di avere vinto nell’agone poetico. Posteriore deve essere l’idea che il suo avversario in quell’occasione sia stato proprio Omero, che sarebbe risultato sconfitto (comunque alcuni versi attribuiti a Esiodo, fr. 357 M.W., alludono a un’occasione in cui egli stesso e Omero si sarebbero incontrati e avrebbero cantato a Delo: episodio ovviamente diverso da quello dell’Agone, ma di segno simile se non altro per la supposta contemporaneità dei due aedi). La redazione che ci è pervenuta (in un solo manoscritto) è stata scritta certamente nel II secolo d.C. o più tardi (menziona l’imperatore Adriano), ma il nucleo dell’opera risale senza dubbio assai più indietro. Valgono a dimostrarlo due dati incontrovertibili: in primo luogo un frammento (se pur con varianti) è restituito da un papiro del III secolo a.C. (P. Flinders Petrie 25); poi un altro papiro (P. Michigan inv. 2754, del II-III sec. d.C.) conserva la parte finale con la sottoscrizione «Di Alcidamante intorno a Omero»: non si tratta esattamente dell’Agone che ci è pervenuto, ma l’autore è il retore Alcidamante vissuto fra V e IV secolo a.C. Non c’è dubbio, quindi, che un nucleo assai più antico, fondato con ogni probabilità su tradizioni correnti (è stato sostenuto che Alcidamante abbia inventato completamente,
ma la cosa non sembra probabile), sia stato tramandato con diversi e successivi rimaneggiamenti, incanalato in una tradizione retorica e biografico-erudita. 2.3. Fra mito e storia. Il mondo omerico
Il secondo millennio a.C., nel pieno dell’età del bronzo, è il periodo che vede l’insediarsi dei Greci nel mondo egeo. Popolazioni provenienti dal Centro-Europa e parlanti una lingua indo-europea, che si trasformerà a contatto con gli elementi indigeni preesistenti (dunque non-greci, storicamente definiti “Egei” e adombrati nelle semi-mitiche tradizioni posteriori relative ai Pelasgi), attraverso la penisola balcanica entrarono nell’attuale Grecia probabilmente intorno al 2000 a.C. (alla fine dell’Antico Elladico), più o meno mentre nell’interno dell’Asia Minore si insediavano gli Ittiti. Durante la prima metà del secondo millennio nell’isola di Creta fiorì la grande civiltà minoica testimoniata dagli splendidi palazzi. E pressappoco intorno alla metà del millennio (quando dal Medio Elladico si passa al Tardo Elladico e il nuovo elemento etnico in Grecia si afferma in modo decisivo) che sul continente greco, prima caratterizzato da un livello di sviluppo piuttosto basso, anche sotto l’influenza di un intensificato rapporto con l’assai più evoluta Creta, si manifesta con sempre maggiore consistenza un elevarsi del tenore economico-sociale, fino a dar vita a quella che oggi è detta civiltà micenea (convenzional-
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mente, perché a Micene, nel Peloponneso, furono fatti i primi importanti ritrovamenti), che crescerà fino a conquistare anche la stessa Creta, la cui grande civiltà palaziale era entrata in crisi verso la metà del XV secolo a.C. Una differenza importante (massime dal nostro punto di vista) è costituita dal fatto che per la media età del bronzo nell’area del mondo egeo abbiamo testimonianza scritta in misura relativamente scarsa e per di più non ancora decifrata (le poche iscrizioni in cretese geroglifico e in Lineare A), mentre per la seconda parte del millennio consistenti documenti scritti sono stati ritrovati e decifrati (Lineare B, un adattamento della Lineare A alla lingua greca). Si può affermare che, facendo seguito al ritrovamento di Troia, fu la scoperta e lo studio del mondo miceneo nei suoi vari aspetti a fondare, con conseguenze di vasta portata ancora largamente in corso, la problematica del rapporto fra i poemi omerici e la storia, la questione dello sfondo storico reale (e realistico) del mondo descritto da Omero: in una parola a stimolare il gusto e la voglia di comprendere i legami con la realtà storica che sta in qualche (quale?) modo dietro la poesia d’argomento mitico. In senso moderno, il rapporto di Omero con la storia, se così vogliamo dire, iniziò quando il mercante tedesco Heinrich Schliemann, complessa figura di dilettante innamorato della poesia omerica e pieno di fede nella sua veridicità, decise di tentare di ritrovare i luoghi dei poemi, e riuscì nel suo intento. Egli scavò prima a Itaca (nel 1868) e poi in Asia Minore (a partire dal 1870), dove ritrovò il sito della città di Troia a Hissarlik, una collina a pochi chilometri dai Dardanelli, anche se quella che egli credette essere la Troia di Priamo si rivelò in seguito assai più antica. In realtà scavi e stratigrafie successive, con datazioni più attendibili, hanno mostrato che la Troia “omerica” va identificata con lo strato Vlla, e risulta invero un centro fortificato di proporzioni
e ric-
chezza assai minori rispetto agli splendori epici: essa fu costruita intorno al 1300 a.C., dopo che un terremoto aveva abbattuto la ben più florida città precedente (Troia VI), e fu distrutta forse una cinquantina o poco più di anni dopo da un violento incendio. Poi Schliemann scavò anche a Micene (nel 1876), l’omerico regno di Agamennone (Iliade 2, 569 ss.; Odissea 3, 304 s.), e a Tirinto (nel 1884). Iniziò così, mentre imponenti rovine di una fiorente civiltà venivano via via alla luce e prendeva consistenza l’immagine di quella che fu detta la civiltà micenea, la ormai lunga storia dell'archeologia omerica, tuttora irta di problemi assai vivi: qui possiamo soltanto accennare molto in breve e genericamente al quadro che ne risulta, nei limiti essenziali per il nostro discorso. Dopo quelli indagati nelle prime campagne di scavo, altri siti micenei di grande importanza sono stati ritrovati, sia sul suolo greco che a Creta e in altre isole, e oggi il quadro geografico della Grecia micenea è molto ricco e complesso. Di particolare importanza furono i ritrovamenti delle tavolette in argilla, registrazioni contabili degli archivi di palazzo, scritte nella cosiddetta Lineare B, o miceneo, con estensione all’ambito lingui-
stico della denominazione archeologica. Le tavolette vennero alla luce soprattutto a Cnosso (scavi di A. Evans dal 1900 in poi) e a Pilo (scavi di C.W. Blegen dal 1939, e poi di A.J. Wace e altri) e anche nella stessa
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Micene. Si è discusso molto sulla datazione di questi reperti: la primitiva collocazione delle tavolette di Cnosso nel XV secolo a.C. è stata fortemente criticata, e si pensa piuttosto che anche queste siano del XIII secolo come quelle trovate sul continente (Pilo e Micene). Esse appartengono dunque al periodo tardomiceneo, ma la lingua che documentano deve ovviamente essere più antica. Dapprima nessuno pensò che si trattasse di greco: la decifrazione si deve principalmente a un geniale architetto inglese, Michael Ventris, che, utilizzando anche osservazioni di altri e servendosi di un metodo statistico-combinatorio di analisi dei testi, con l’aiuto di John Chadwick, nel 1952 dimostrò che si trattava di un dialetto greco molto arcaico rispetto a quelli noti. La prima pubblicazione di questi risultati nel 1953 segnò la seconda tappa storica nella scoperta della civiltà micenea e nell’archeologia omerica. Si offriva agli studiosi una duplice evidenza, archeologica e linguistica: entrambe comunque ben presto si rivelarono altamente problematiche. Sul piano storico-linguistico, molti problemi rimangono soprattutto per quanto riguarda il rapporto fra il miceneo e la lingua greca documentata nel millennio successivo. Le discussioni sono aperte su come il miceneo debba essere considerato: si tratta di una più antica forma di uno dei dialetti poi ben attestati nel primo millennio, e in questo caso con quale dei dialetti storici c'è un rapporto privilegiato di derivazione (per esempio le isoglosse con l’arcadico-cipriota sono state oggetto di maggiore o minore valorizzazione)? Altrimenti, si è visto nel miceneo una forma di “greco meridionale”, dal quale sarebbero derivati i gruppi ionico-attico e arcadico-cipriota (contrapposto a un “greco settentriona-
le”, antenato del gruppo eolico e del gruppo dei cosiddetti dialetti di Nord-Ovest). Oppure abbiamo i resti di un dialetto diverso, che non ebbe continuazione? Si trattava forse, invece, di una sorta di più antica lingua comune, e in questo caso magari coesistente con (o conglobante) supposte pre-forme dei dialetti del primo millennio? Interpretabile forse come una omogenea lingua di corte, una lingua tecnica degli scribi per gli archivi? E la lingua micenea era unitaria oppure aveva già al suo interno differenziazioni dialettali di un qualche tipo? Sono riconoscibili due varianti nelle tavolette, e ci sono elementi per parlare di un miceneo più conservativo e uno più innovativo? In ogni caso, non bisogna dimenticare la considerazione che la decifrazione della Lineare B ha portato quanto meno un importante risultato, ormai definitivamente acquisito e sul quale non c’è più discussione: ha cioè dimostrato che i Micenei erano Greci e che nella seconda metà del secondo millennio a.C. la lingua parlata nella Grecia continentale e in Creta era greco. Nella conoscenza comune quindi, rispetto a quanto si sapeva prima, gli inizi della storia linguistica della Grecia si trovano spostati all’indietro di molti secoli e la lingua greca gode di una documentazione che si distende continuativamente per un arco di tempo più lungo di quello di ogni altra lingua indo-europea. La questione riguarda elettivamente la linguistica e la storia della lingua: ci tocca nella misura in cui interessa il rapporto fra miceneo e lingua omerica, e ancora più da vicino laddove arriva al problema della possibile continuità di forme poetiche, su cui torneremo fra poco.
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Sul piano archeologico, l’evidenza (oltre che delle tavolette stesse e della pratica degli archivi palaziali) delle grandi rovine dei palazzi e delle necropoli a Micene, Tirinto, Pilo, Argo, Orchomenos e in molti altri siti
(anche in Creta), la ricostruibile realtà di una struttura sociale ed economica, nonché di uno sviluppo di civiltà per un certo periodo assai avanzato, la ricchezza e l'evoluzione di manufatti spesso splendidi, hanno posto e pongono naturalmente il problema del rapporto fra il mondo miceneo e i secoli seguenti, attraverso il cosiddetto “Medioevo ellenico” fino all’età in cui si colloca l’allestimento e la redazione definitiva dei poemi (diciamo I’VIII secolo a.C.). Nel periodo di massimo fulgore, i Micenei si erano espansi considerevolmente per il Mediterraneo (in quella che viene detta la prima colonizzazione greca): oltre che in Creta, abbondantemente in tutta la fascia costiera dell'Asia Minore e nelle isole dell’Egeo, e anche verso Occidente con empori commerciali sul mare. La caduta della civiltà micenea (avvenuta grosso modo, a seconda dei luoghi, nell’arco del XII secolo, e anche dell’XI se consideriamo il cosiddetto periodo sub-miceneo) pone da sempre un interrogativo sulle cause che la provocarono: interrogativo che si connette anche a quell’altro dibattutissimo problema della storia più antica del mondo greco che è l’invasione dorica. La teoria tradizionale contempla due o tre ondate successive di parlanti greco, che avrebbero invaso la Grecia delineandone via via le differenziazioni dialettali con la dislocazione dei diversi gruppi: l’ultima sarebbe stata appunto l’invasione dei Dori, il cui arrivo avrebbe abbattuto la civiltà micenea dando inizio al cosiddetto “Medioevo ellenico” (inizio dell’età del ferro del primo millennio a.C.). In alternativa è stata invece sostenuta la teoria di un’unica invasione (intorno al 2000 a.C.), con una generale continuità di sviluppo (entro la quale i dialetti storici proverrebbero sostanzialmente da evoluzioni geograficamente differenziate) caratterizzata da una fortissima decadenza a partire dal XII secolo, causa del venir meno della civiltà micenea. D'altra parte, se i segni di distruzione violenta dei centri micenei possono imputarsi a cause naturali (per esempio sismiche), resta il fatto che i palazzi, diversamente che in precedenza, non furono più ricostruiti, segno comunque di un cambiamento assai forte. Il punto interrogativo si impone nella singolare contraddizione per cui l’invasione dorica è un evento ben ricordato letterariamente ma pressoché privo di evidenza archeologica. Non è certo questa la sede per soffermarsi su simili questioni. Basterà dire (rinviando poi a specifiche trattazioni storico-archeologiche) che la caduta dei regni micenei, con la distruzione dei palazzi e la sparizione di una cultura già notevolmente sviluppata, si colloca in ogni modo nell’ambito di quell’ampio movimento di popolazioni che fra il secolo XII e il XII interessò le regioni del bacino orientale del Mediterraneo e ne mutò sensibilmente l’assetto etnico-politico, segnando con le sue conseguenze la cesura fra l’età del bronzo e l’età del ferro. In quel periodo i Frigi (premuti dai Traci, a loro volta spinti a sud dagli Illiri) si insediarono nell’Anatolia occidentale, in Asia Minore cadde il regno ittita (che si era sviluppato pressappoco negli stessi secoli dei regni micenei), l’Egitto fu a più riprese minacciato dalle invasioni dei “popoli del mare”, i Fili-
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stei si insediarono nella Palestina, scontri e sommovimenti diversi interessarono un’area molto vasta, ed è qui che, secondo la teoria tradizionale, trova posto anche l'invasione dorica. In questo contesto, potrebbe trovare una plausibile collocazione storica anche la distruzione violenta (se fu tale) di Troia VIla: tuttavia le opinioni sulla storicità (e di quale tipo) della guerra di Troia sono tutt’altro che univoche, come vedremo fra poco. L’insieme della documentazione linguistica e archeologica ha dunque portato alla conoscenza il mondo miceneo e guadagnato un buon mezzo millennio alla storia della civiltà greca, ponendo anche, così, il problema della continuità fra il mondo miceneo e la ripresa culturale in Grecia dopo il Medioevo ellenico. Dal punto di vista dell’omeristica (per questi aspetti legata alle problematiche storico-archeologiche) possiamo dire che la questione si è focalizzata in due modi, peraltro naturalmente connessi: uno è lo sforzo di capire se la documentazione linguistica autorizzi l'ipotesi di una continuità anche letteraria, per rendersi conto di quale profondità possiamo attribuire alla tradizione poetica anteriore che ha generato e nutrito Omero; l’altro è il tentativo di definire quale sia lo sfondo storico reale dei poemi omerici e di datare in qualche modo gli elementi che vi sono rappresentati, in una parola di chiarire il rapporto fra Omero e la storia. In entrambi i casi, i comprensibili entusiasmi iniziali (quando di fatto ci si illuse che i reperti micenei nel loro insieme, materiali archeologici e documenti scritti, e i poemi omerici si lasciassero agevolmente confrontare e si spiegassero a vicenda, e addirittura cooperassero in accordo a fornire l’immagine più antica della Grecia) hanno lasciato il posto oggi a valutazioni più sfumate e più caute, ovviamente più motivate e approfondite grazie alla messe di indagini che la micenologia stessa ha portato, tanto che si è potuto dire persino che, almeno per l’omeristica, sono più i problemi creatisi che quelli risolti: il paradosso svela l’importanza di queste ricerche, il valore più grande dell’indagine e della ragione storica essendo pur sempre il porre problemi. Per quanto riguarda il primo punto, si può dire che l’acquisizione per cui la lingua greca risulta documentata a partire da molti secoli prima di Omero e gli inizi della storia linguistica della Grecia si possono far risalire almeno alla metà del secondo millennio, induce forse naturalmente a chiedersi se un'analoga profondità storico-tradizionale non la si possa sostenere anche per l’uso letterario della lingua, cioè per la poesia. In altre parole, se si può parlare di una qualche forma di poesia o addirittura proprio
di epica micenea,
con la quale l’epica omerica
intrattenga un
rapporto di concreta e formale continuità e da cui in sostanza derivi direttamente. Enfatizzando il dato linguistico ed alcuni elementi lessicali, a sostenere l’ipotesi di una simile continuità sono stati chiamati in causa e valorizzati altri due fattori: da una parte la presenza in Omero di elementi della civiltà micenea (di cui parleremo fra poco), dall’altra l’alta antichità dell’elemento mitologico greco in quanto contenuto proprio dell’epica. Tuttavia, si è potuto anche opporre a questo l’intraducibilità in lingua micenea delle formule della dizione omerica, il che di fatto difficilmente può conciliarsi con una continuità della dizione formalizzata,
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compresi gli aspetti metrici (teoria dell’origine micenea dell’esametro epico). Non vi sono elementi sufficienti per far corrispondere una simile continuità poetico-letteraria alla continuità linguistica, e a questo riguardo, a meno che non intervenga altra e diversa documentazione, l’origine delle forme poetiche greche nell'aspetto poi continuato in età arcaica e classica sembra da porsi dopo la caduta della civiltà micenea (il che non vuol dire escludere ogni elemento e tipo di continuità, come vedremo). E questo forse il momento di ricordare un altro fattore, quello della scrittura. L’arretramento conseguente alla caduta complessiva della civiltà micenea provocò anche la scomparsa dell’uso della scrittura, che fu reintrodotta sul suolo greco solo qualche secolo dopo, cioè fra IX e VIII secolo, con l’adattamento alla lingua greca dell’alfabeto fenicio. D'altra parte, allo stato attuale della nostra documentazione, sembra difficile credere che nel mondo miceneo la scrittura fosse usata anche a scopi letterari: per sostenere questa possibilità sono stati invocati paralleli con i testi epici ittiti scritti su tavolette nel II millennio, ma il confronto è in realtà unilaterale perché nella Grecia micenea non si è trovato nulla di
simile, bensì solo l’uso della scrittura per scopi amministrativi. Bisogna comunque dire che questo aspetto tocca il problema omerico solo nel suo esito terminale e solo in quanto ci dice che al tempo della confezione dei poemi nella forma attuale la tecnologia scrittoria in Grecia era già stata reintrodotta da qualche tempo. La poesia precedente, e con ogni probabilità anche quella micenea (che ci sarà stata senz’altro, come in ogni società esistono forme “letterarie”), deve essere stata composta e tramandata oralmente. Per quanto riguarda lo sfondo storico, la prima questione è quella della storicità della guerra di Troia. Le cronologie antiche collocavano la caduta di Troia nel 1184 (Eratostene e Apollodoro), nel 1209 (la cronografia del Marmor Parium), intorno al 1250 (Erodoto) o prima ancora (Duride di Samo): la datazione della distruzione di Troia Vlla (cfr. supra) parrebbe oscillare fra il dar ragione a Erodoto oppure al Marmor Parium, collocando comunque l’evento fra il 1250 e il 1200. I più fiduciosi nella tradizione vi vedono dunque un evento della storia tardomicenea e ritengono che una spedizione di Micenei coalizzati (gli Achei di Omero) abbia compiuto l’impresa (ovviamente poi ingrandita e trasfigurata dalla tradizione epica in una sorta di colossale scontro fra Grecia e Oriente, fra Greci e barbari) per la conquista di luoghi strategicamente ed economicamente importanti. Ma scetticismi autorevoli (M.I. Finley) hanno posto l’accento sulle debolezze della ricostruzione: di fatto — si dice — non ci sono prove conclusive che l’incendio di Troia Villa sia dovuto a un attacco nemico e non ad altre cause, e soprattutto non c’è alcuna prova che la città sia stata distrutta in seguito a un assedio operato da una coalizione di Micenei provenienti dal continente greco (a non voler cercare conferma di altri elementi “omerici” della spedizione); effettivamente l’antica Troia era in quel sito e lo strato VIla è quello “omerico”, ma non siamo certi che ci sia stata davvero “la grande guerra
di Troia”, bensì senz’altro numerosi scontri e scorrerie a scopo di saccheggio, com’era abituale in quella società là come altrove. D'altra parte
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c'è anche poi chi ammette l’episodio della distruzione bellica della città in una circostanza particolarmente significativa, ma preferisce vedervi un occasionale scontro di gruppi di genti nella zona per effetto dei movimenti di popolazioni in quel periodo, saccheggio operato da “invasori” in movimento da Nord a Sud sulla direttrice dell’Asia Minore. È fin troppo evidente che i dubbi restano moltissimi e le più grandi cautele sono d’obbligo nel trarre conclusioni: ma sembra sbagliato anche esagerare nello scetticismo, nel senso che alla fin fine non si può negare che tutto sommato ci sono pure delle concordanze fra i ritrovamenti archeologici e i dati ricavabili da Omero (tra l’altro, nonostante le disomogeneità, non sono poche le corrispondenze geografiche fra i principali luoghi omerici e i principali centri micenei, senza peraltro arrivare a dire che la geografia omerica coincide con quella evidenziata archeologicamente), per cui una qualche storicità di fondo, per quanto lontana dalla (facilmente spiegabile) trasfigurazione epica, è stata recuperata e la poesia omerica è stata effettivamente sottratta alla dimensione della pura invenzione mitica e fantastica. Resta il problema appunto della trasfigurazione letteraria e la misura della distanza fra mondo poetico e mondo reale: ma in questa impostazione lo studioso di letteratura gioca meglio dello storico, avvezzo com'è a considerare il fatto letterario ben lontano dal rispecchiare la realtà presente o passata, bensì frutto piuttosto di convenzioni formali e basato su un proprio codice specifico, per cui la letteratura prima di tutto parla letteratura (e storia delle forme letterarie), e solo attraverso mediazioni parla storia (nel senso di storia politico-sociale ed evenemenziale). L’utilizzazione dei poemi omerici come documento deve dunque tener conto del fatto che essi non sono resoconti storici: ma d’altra parte neppure devono essere liquidate con eccessivo ipercriticismo le corrispondenze e consonanze che reperti e documenti mostrino con la poesia. Altro è per esempio valorizzare il fatto che i più importanti luoghi omerici come Troia, Micene, Argo, Pilo e altri (malgrado la scarsità dei ritrovamenti in Itaca) abbiano dato considerevoli reperti micenei (in fin dei conti i ritrovamenti furono iniziati sulla base delle indicazioni omeriche), altro è l'ambizione di identificare con meticolosa precisione geografica i luoghi delle peregrinazioni di Odisseo anche nei loro aspetti più fantastici (mentre si potranno ammettere corrispondenze con siti di frequentazione micenea nel Mediterraneo). Qual è dunque lo sfondo storico-sociale e materiale dei poemi omerici? Oggi nessuno più pensa che essi riflettano davvero il mondo miceneo, e ci si chiede piuttosto in quali rapporti stiano con esso: ma anche qui naturalmente le posizioni degli studiosi sono molto divergenti. Se da una parte si sottolineano con vigore le corrispondenze fra Omero e i reperti micenei, supponendo che una corposa e solida tradizione ininterrotta abbia ben conservato così a lungo l’immagine di almeno cinque secoli prima, dall’altra si tende a sostenere che tali corrispondenze si mostrano incerte e labili mentre il mondo omerico rivelerebbe piuttosto i tratti del Medioevo ellenico, nel quale l’epica avrebbe avuto la sua gestazione.
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Cominciamo col dire che non si può dubitare che nell’Jliade e nell’Odissea vi sia un nucleo miceneo: un certo numero di elementi in questo senso sono già emersi e non stiamo a ripeterli, altri si possono addurre. È famoso il caso dell’elmo di cuoio ornato di zanne di cinghiale (Iliade, 10, 260 ss.), un vero oggetto miceneo menzionato in quello che tutti ritengono il libro iliadico di origine più recente. Il campo delle armi offre buoni esempi: il grande scudo che copre tutto il corpo («come una torre», tipico di Aiace: cfr. Iliade 7, 219; 11, 485; 17, 128; ma riconoscibile anche altrove) è soltanto miceneo più antico e poi scomparve, mentre alla fine dell’età micenea comparve il più piccolo scudo rotondo, che restò in uso; in Omero l’arco, diffuso in età micenea, è presente ma ha carattere eccezionale. Emblematico, e sempre citato, è il carro da battaglia, tipico del combattente miceneo: Omero lo conosce, ma non ne sa descrivere l’uso e gli eroi lo adoperano solo come mezzo di trasporto per poi combattere a piedi (e una volta Nestore, Iliade 4, 303 ss., riferisce agli “antichi” pratiche di combattimento dal carro). Il metallo più spesso citato come materia prima è il bronzo, normalmente usato per armi e utensili in età micenea: il ferro compare raramente, eppure molte armi sono tipiche dell’età del ferro e sono state costruite quando il bronzo era ormai desueto. I palazzi degli eroi omerici corrispondono bene nella pianta a quelli micenei, ma numerosi altri elementi dell’abitazione sono più tardi: ed è difficile decidere cosa pensare delle corrispondenze notate fra alcuni movimenti di Telemaco presso Nestore nel terzo libro dell'Odissea e la topografia del palazzo miceneo scavato a Pilo. Si è ritenuto che la famosa coppa di Nestore (Iliade 11, 632 ss.) fosse un autentico oggetto miceneo, anche se poi è stato affacciato qualche dubbio. Stridente è il caso della sepoltura: i Micenei usavano l’inumazione (ricordiamo le grandi tombe a tholos per i potentati di Micene), mentre in Omero per i cadaveri degli eroi si usa la cremazione, tipica dal Medioevo in poi. inutile moltiplicare gli esempi: non c’è dubbio che nell’ambito antiquario, cioè per quanto riguarda i vari aspetti della vita materiale, gli
oggetti e le costumanze, esista un elemento miceneo per nulla trascurabile, anche se frammischiato con quello più tardo e spesso deformato. Una considerazione a parte merita l’aspetto religioso e mitologico, di solito fortemente conservatore. Credo non vi sia dubbio che la religione omerica nel suo complesso e per non pochi elementi specifici affondi le sue radici nell’età micenea, anche se questo ambito è forse il più irto di
enigmi. L’origine micenea dell’apparato mitologico greco e la continuità ininterrotta della tradizione religiosa sono state autorevolmente indagate e sostenute vedendo un rapporto così organico fra mito e epica da connettere direttamente all’antichità della mitologia l’antichità dell’epica (Nilsson): non si può ammettere un rapporto talmente stretto che leghi le due cose in uno sviluppo unico (cicli mitici possono certamente vivere al di fuori della poesia eroica, in altri generi letterari e in altri ambienti),
ma si può spiegare così la conservazione e la riutilizzazione di temi narrativi trasmessisi
con
una
continuità
Omero. La contiguità fra mondo divino
anche
assai lunga,
da
Micene
a
e mondo umano, fra dei ed eroi è
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tipica della rappresentazione epica; nei poemi omerici la compresenza di dei e uomini è continua, esseri divini sono dovunque in azione, interferiscono e interagiscono nelle vicende terrene, che guardano dall’alto, dalla loro sede sull’Olimpo: favore o avversione, ostilità o aiuto sono i rapporti che li legano ai mortali. Anche se gli dei non sono onnipotenti, e affiora in modo non risolto l’idea di un Fato che sta al di sopra di Zeus, c'è un divario incolmabile fra questi esseri immortali, beati e dotati di poteri sovrannaturali, e gli uomini mortali, limitati e sofferenti, “eroici” di fronte alla morte: la religione omerica sembra muoversi fra tale divario e la tendenza a colmare lo iato con una visione del tutto antropomorfica della divinità, spesso soggetta alle stesse passioni e agli stessi difetti umani, nonché con la rappresentazione di un rapporto molto stretto fra dei e uomini nella vita quotidiana degli eroi. Caratteristico è che azioni appartenenti alla sfera intellettuale e morale, come pure accadimenti attribuibili a impulsi umani o al caso, siano riportati all’azione diretta e concreta degli dei: un dio favorevole fa sì che un guerriero non venga ferito mortalmente deviando un colpo nemico, Atena trattiene Achille dallo sfoderare la spada per colpire Agamennone (Iliade 1, 193 ss.), e così via. Così spesso alla motivazione umana dell’agire si accompagna quella divina, un’azione è insieme scelta dell’uomo e realizzazione della volontà
del dio (emblematico Iliade 16, 684 ss.: Patroclo commette un errore fatale continuando a combattere, ma così si realizza la volontà di Zeus,
che corrisponde al piano enunciato all’inizio del poema). L’interpretazione della società descritta nei poemi soffre di incertezze simili a quelle di cui si è detto fin qui, nel dubbio fra una rappresentazione sostanzialmente micenea e una prevalentemente del Medioevo ellenico. Si riconoscono nel mondo dell’Odissea tratti più recenti che nell’Iliade, ma ci si chiede — nel realismo oggettivo, tipico dello stile epico, che caratterizza lo sfondo della narrazione — quanto della proiezione nel passato corrisponda effettivamente al lontano passato miceneo e quanto ad epoche più recenti fino all’età contemporanea alla fissazione dei poemi. Per esempio nella struttura politica sembrano confluire e coesistere tratti della monarchia micenea ed elementi posteriori di un regime nel quale l’aristocrazia ha acquistato un peso maggiore. I poteri del re Agamennone, comandante dell’esercito, non sembrano avere una sanzione formale e appaiono condizionati dall’assemblea e dagli altri capi, fra i quali per esempio Achille non sente certo il problema di obbedirgli ma anzi ne mette chiaramente in discussione l’autorità. Odisseo, re di Itaca, deve combattere duramente contro i nobili che tentano di sostituirsi a lui grazie alla sua prolungata assenza, il che significa che la sua monarchia non è ereditaria ma basata sulla forza e in equilibrio precario. Si tratta quindi di conflitti di autorità all’interno dello strato alto della popolazione, costituito dall’insieme dei nobili ai quali appartiene anche una figura di sovrano che talora appare piuttosto come un primus inter pares (all’interno di una sorta di non ben definito Consiglio): e questo accade sia nella società in guerra descritta dall’/liade, sia nella società in pace descritta dall’Odissea, ed anche di riflesso nella rappresentazione della società degli dei, con il suo sovrano Zeus attor-
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niato dalle altre divinità del pantheon ellenico e impegnato con esse in conflitti molto umani. In ogni caso, l’orizzonte dell’uomo omerico è ancora ben lontano da quello dello Stato, anche inteso come città-Stato, vale a dire la polis classica: è piuttosto quello di una piccola comunità entro la quale la classe cui egli appartiene (e la famiglia con il suo portato genealogico) è l’unico parametro che lo identifica e gli assegna un ruolo (cfr. infra il capitolo sulla Lirica). La classe aristocratica ha un aspetto militare (prevalente nell’Iliade,
quando è organizzata in esercito) e uno di ceto possidente, le cui ricchezze sono fatte di terra, bestiame, servi, utensili e armi di metallo, in parte patrimonio familiare e in parte bottino di guerra. Lo strato più basso è costituito da persone che possono vivere autonomamente e persone completamente dipendenti, coltivatori e allevatori, anche piccoli proprietari; a loro si affianca un ceto artigianale di lavoratori del metallo e del legno, medici, indovini e anche aedi che allietano con il loro canto i banchetti dei palazzi signorili; l'elemento mercantile compare nella più recente Odissea. L’epica omerica ha reminiscenze lontane della Grecia micenea, racconta un passato che trasfigura in eroico, nel quale realtà storica e mito non si distinguono bene e men che meno si oppongono, i loro contorni sfumano: in modo più diretto essa è figlia della Grecia post-micenea, che arriva ormai senza tagli traumatici di civiltà al mondo della Grecia arcaica e classica. La tradizione orale che sta dietro Omero è lunga, ma non si può postulare una formale e totale continuità dal XV all’VIII secolo a.C., malgrado i risultati raggiunti dalle indagini sulle caratteristiche tradizionali della poesia orale (cfr. infra, pp. 48 ss.): se è irragionevole pensare a una rottura completa, dovrebbe apparire saggia una posizione moderata fra questi due estremi. Una posizione moderata che forse è la più difficile da esprimere: conservazione di elementi della vita materiale, ricordi archeologici, sopravvivenze linguistiche e forse anche relitti espressivi poi riadattati, assai probabilmente memorie tematiche, tutti questi fattori devono aver lasciato in Omero, superando i secoli del Medioevo ellenico, un’eredità micenea, per così dire, screziata e desultoria. Ma quello rappresentato in Omero è un mondo poetico, artificiale, che non ha nel suo insieme corrispondenza storica e non è mai esistito come
tale (non ci si può stupire se la topografia ricostruibile dall’Iliade non corrisponde al territorio di Hissarlik; e la forsennata ricerca dell’esatto itinerario di Odisseo giustifica ancora la sarcastica battuta di Eratostene, che uno potrà dire dove Odisseo ha messo piede quando troverà il cuoiaio che ha cucito l’otre dei venti), un mondo che il poeta idealizza e trasfigura in un passato dalle dimensioni dilatate. Il complesso dell’immagine culturale è artificiale, come artificiale è la lingua: la commistione di elementi offre una stretta analogia con la natura mista della lingua (cfr. il paragrafo seguente). Sono entrambi aspetti del carattere “tradizionale” della poesia, nel senso di risultato di una lunga tradizione che vive inglobata nel prodotto ultimo. Ai risultati della micenologia ci si è rivolti, con maggiori o minori illusioni e fiducia, per guardare dietro le spalle di Omero, illuminare gli
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stadi di civiltà lungo i quali ha avuto gestazione e sviluppo la poesia epica che ha prodotto i poemi omerici, comprendere il suo background culturale per interpretarne i contenuti: e i risultati ci sono stati, e sono
oggi possesso delle nostre conoscenze, molti per chi crede di più, pochi per chi crede di meno, certo numerosi problemi capaci di stimolare studi e riflessioni. Tenuto conto delle forti mediazioni poetiche (cui abbiamo fatto più volte riferimento o allusione), non poche informazioni sono utilizzabili nell’analisi letteraria e nello studio della genesi dei poemi: sfortunatamente però la micenologia in sé è stata ed è del tutto silente nel campo della storia delle forme letterarie, per cui non ci ha detto molto sull’annosa questione del modo in cui i poemi omerici hanno raggiunto la forma attuale. Per molti aspetti la teoria orale (di cui parleremo fra poco) è, sul versante delle forme letterarie, il contraltare della micenologia: un altro modo, da un punto di vista differente, per cercare di dare un volto al preomerico. 2.4. Lingua, stile, dizione, poetica
Che la lingua omerica fosse una mistione di diversi dialetti lo dicevano già gli antichi, fra i quali si segnalano quegli eruditi che vi trovavano elementi di tutti i dialetti greci (compreso il dorico, che invece è assente), mentre altri parlavano di una forma di ionico precedente a quella del posteriore uso letterario: nell’età moderna lo studio scientifico di essa cominciò nei primi decenni dell'Ottocento, grazie soprattutto alle analisi dei dialetti greci e ai progressi della storia della lingua, che furono compiuti da allora. Nella lingua omerica come noi la leggiamo, la facies prevalente è quella ionica, dovuta al fatto che l’epica, nelle sue fasi più recenti e vicine alla fissazione dei poemi, fu coltivata soprattutto nelle fiorenti città ioniche. A questa si frammischia un consistente portato di dialetto eolico, ritenuto testimonianza di uno strato linguistico più arcaico rispetto allo ionismo prevalente; e un gruppo più piccolo ma assai interessante
di elementi
(soprattutto lessicali)
dell’arcadico-cipriota
(il
più antico dei dialetti greci testimoniati e per questo da alcuni ritenuto il più vicino al miceneo: ma cfr. supra, p. 38). Infine, la presenza di un certo numero di atticismi è stata interpretata (Wackernagel) come prova che il testo dei poemi omerici conobbe una redazione attica (pisistratica, cfr. infra, pp. 48 e 54). Non possiamo qui indugiare a lungo in trattazioni strettamente linguistiche. Diciamo intanto che questa commistione e compresenza dialettale non ha mai potuto essere effettivamente spiegata postulando diverse redazioni dei poemi convincentemente ricostruibili e succedutesi storicamente: prima una redazione achea o eolica, poi una “traduzione” nell’attuale prevalente facies ionica, infine un’atticizzazione più recente. Resta da spiegare, anche in relazione alle questioni storiche di cui abbiamo già parlato, l’assenza totale di elementi riconducibili al gruppo dei dialetti dorici. La commistione degli elementi dialettali, uniti
a una co-
spicua serie di forme peculiari della lingua epica e non riconducibili a un qualche dialetto, è talmente organica che, mentre si operano stratigrafie
L’epica e la poesia didascalica
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linguistiche, si scopre che forme più arcaiche (magari con vocalismi addirittura micenei) possono trovarsi usate nello stesso verso accanto a forme sicuramente recenti e quindi rivelarsi arcaismi intenzionali che si sono conservati; che una forma eolica e una ionica nello stesso verso non si possono ridurre entrambe né all’uno né all’altro dei due dialetti, per cui la realtà della lingua di fatto non è il passare dall’una all’altra facies dialettale bensì proprio la mistione stessa. Esattamente la nozione di “lingua mista” sta alla base del concetto di lingua artificiale: una lingua cioè che non è mai esistita in nessuna comunità di parlanti, che procede per uno sviluppo interno peculiare inglobando via via nuovi elementi in una polimorfia che clamorosamente viola ogni principio di economia linguistica. Essa si sviluppò per lunghi secoli, passando per fasi diverse, incorporando di volta in volta (come un grande fiume nel suo corso) nuovi elementi senza perdere del tutto quelli vecchi e creando sempre un più complesso impasto: e così, essendosi fissati in precedenza i contenuti mitico-narrativi e la dizione epica avendo preso le vie della Ionia, si spiega anche il fatto che la sua evoluzione abbia potuto mantenersi del tutto immune da contaminazioni con l'elemento dorico (mentre nella rappresentazione dello sfondo storico e materiale nuovi elementi continuarono a entrare fino all’epoca della redazione dei poemi). In una parola una lingua letteraria che si lascia plasmare e si adatta prima di tutto alle necessità del metro entro il quale vive. Metro a causa del quale, nella versione che noi conosciamo grazie ai poemi omerici, questa lingua può tollerare per esempio di avere differenti forme di genitivi e dativi di nomi e aggettivi, differenti forme di pronomi personali equivalenti per il senso ma diverse metricamente e comode nella composizione: e sempre per le stesse ragioni sentire o non sentire la presenza del digamma, usare o non usare l’aumento nei tempi storici dei verbi, e altro ancora. Questo metro così potente è l’esametro dattilico, diventato poi il verso per eccellenza della poesia epica. Esso è costituito dalla successione di sei piedi dattili (sostituibili con uno spondeo), l’ultimo dei quali manca dell’ultima sillaba, e ammette al suo interno talune pause (dette cesure o dieresi) che lo dividono in elementi costitutivi chiamati cola. Si tratta di un verso specificamente usato per la recitazione (non cantato come i versi lirici), che veniva eseguita accompagnando la serie di esametri con il sostegno ritmato di uno strumento a corda. Se questa è la forma metrica più antica a noi nota della letteratura greca, è altrettanto vero che essa compare nella dizione omerica già perfettamente evoluta e quin-
di avendo alle sue spalle una storia e una tradizione già cospicue, il che non ha mancato di stimolare indagini copiose sul problema della sua origine, problema tuttora aperto e oggetto di discussioni accese. L’artificialità della lingua in questa solidale unione con il metro corrisponde all’artificialità dello sfondo storico-sociale e del mondo materiale: entrambi gli elementi concorrono (per una volta in accordo) a parlarci di una lunga tradizione, nel corso della quale la poesia epica ha dato forma alla propria immagine peculiare. A questa tradizione, cioè al preomerico, si è cercato per secoli di dare un volto e di capirne meccanismi e
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
modi di evoluzione: nell’ultimo mezzo secolo circa di critica omerica sono stati gli studi sulla poesia orale che hanno indagato questa problematica più a fondo e con i risultati più interessanti. Per vero dire, la genesi orale dell’epica greca arcaica è una questione piuttosto vecchia. Una notizia ripetuta in diversi autori antichi ci parla di una redazione dei poemi omerici preparata nell’Atene del VI secolo a.C. per volontà del tiranno Pisistrato (e per le esigenze della recitazione di Omero alle feste Panatenee), e spesso l’episodio è stato inteso come la prima fissazione per iscritto di una poesia prima tramandata oralmente e affidata alla memoria: idea che in talunte fonti erudite antiche si ritrova anche senza una menzione esplicita della redazione pisistratica. L’opinione che la scrittura nel mondo greco si fosse diffusa relativamente tardi, rispetto ai tempi in cui l’epica era vivente e produttiva, tornò nella cultura settecentesca (Giambattista Vico, Robert Wood) e fornì ai famosi Prolegomena (1795) di F.A. Wolf uno dei capisaldi per sostenere la tarda fissazione dei testi omerici sulla base di canti rapsodici prima tramandati oralmente: la conseguente negazione di una genesi unitaria dei poemi aprì la strada all’analisi ottocentesca (cfr. infra, pp. 56 ss.). Dati per acquisiti e valutati tutti questi precedenti antichi e moderni, come pure i non pochi studi che misero in luce il carattere artificiale e condizionato dalla metrica della lingua omerica rilevandone anche diverse ripetitività formulari, la moderna teoria della composizione orale dell’epica greca arcaica segnò comunque una novità sostanziale sia per i suoi presupposti che per le sue conseguenze e implicazioni: essa fu dovuta all’opera dell'americano Milman Parry, che pubblicò i suoi studi so-
lo negli anni dal 1928 al 1936 a causa della sua precoce scomparsa. Parry prese le mosse dall’analisi delle formule nome+epiteto degli dei e degli eroi e di alcuni altri gruppi e nessi formulari, e approdò alla definizione del mezzo di composizione dell’epica greca arcaica: la formula, intesa come espressione regolarmente impiegata nelle stesse condizioni metriche per esprimere una certa idea essenziale; e il sistema formulare, caratterizzato (tendenzialmente) da economia (per un’idea essenziale in una data condizione metrica si ha una sola formula) ed esaustività (esiste una formula per ogni condizione metrica e per ogni idea essenziale), cosicché l’aedo non deve scegliere né pud restare senza risorse — condizioni che si danno allo stadio ottimale, quando la tradizione si & giä canonizzata e non & ancora iniziata la sua dissoluzione. Cosi l’osservazione e descrizione di uno stile assurgeva a sintomo specifico e importante del fatto che l’epica greca arcaica era composta e tramandata oralmente, grazie alle possibilitä infinite che questo mezzo offriva agli aedi di comporre improvvisando ogni volta canti ad un tempo tradizionali e nuovi in ogni loro performance. Formulata la teoria, Parry ne cercö conferma anche sul piano della comparazione contemporanea, e trovö il confronto utilizzabile nei canti
serbocroati composti, tastorie analfabeti nel (gli sviluppi sul piano dicati al genere della
improvvisando con una tecnica formulare, da cancontesto di una società sufficientemente primitiva comparativo saranno costituiti dai molti studi depoesia eroica composta e tramandata oralmente in
L’epica e la poesia didascalica
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diverse civiltà e all'analisi delle culture orali). Nel 1934 Parry registrò la performance di un cantore, che riuscì a comporre un poema relativamente costruito e di lunghezza confrontabile con quella omerica, e ritenne di aver provato definitivamente in ogni aspetto che i poemi omerici erano nati come
una composizione
orale all’interno di una
tradizione in cui
ogni canto è improvvisazione basata su un patrimonio espressivo comune, è ad un tempo nuovo e vecchio, tradizionale e originale: l’antica questione omerica sembrava superata (cfr. infra, p. 59 s.). L’opera di Parry fu continuata dal suo seguace più vicino, A.B. Lord, che incrementò e pubblicò la raccolta dei Serbo-Croatian Heroic Songs e soprattutto diede alle stampe nel 1960 un volume dal titolo The Singer of Tales, dopo il quale si può dire che la teoria orale (da allora la “ParryLord theory”) cominciò a essere presa in considerazione con una certa ampiezza nel mondo degli studiosi nei suoi due aspetti, quello che riguarda l’analisi del testo omerico in sé e quello che riguarda il problema della sua genesi. Iniziarono così le discussioni, le correzioni e gli approfondimenti, che continuano tuttora: la teoria che era stata formulata poneva in realtà diversi problemi, ciascuno dei quali comporterebbe un lungo esame, e che non mancarono di stimolare diverse risposte teoriche (naturalmente con grandi disaccordi e crisi d’identità). In realtà, fu messo presto in crisi lo stesso concetto fondamentale e originario di Parry, quello dell’oralità come improvvisazione totalmente estemporanea. Il valore della comparazione di Omero con l’epica vivente serbo-croata (come anche di altre successive comparazioni) mostrò considerevoli limiti, laddove si evidenziarono delle differenze tutt'altro che trascurabili. Sul piano diacronico il problema più immediato fu ed è costituito dal rapporto fra l’epica orale nella sua fase creativa di composizioni estemporanee e la fissazione di un testo suscettibile di trasmettersi praticamente immutato: come e con quali mutamenti si passò dalla prima all’ultima fase, quella scritta; quando dai meno estesi canti improvvisati si passò a concepire il poema monumentale? Un risultato delle ricerche oralistiche era che, quando il poeta orale impara a usare la tecnologia scrittoria, questo comporta modifiche radicali nel suo procedere ed egli perde le sue doti di improvvisatore-creatore. Lord avanzò allora la teoria dei testi dettati da un poeta genuinamente orale a uno scriba, ma non ottenne molti consensi. Altri studiosi (soprattutto G.S. Kirk) tentarono di descrivere in altri termini le fasi del ciclo vitale della tradizione epica: dopo una fase originaria (addirittura micenea), si avrebbe la fase creativa, aedica, nella quale ogni canto è improvvisato e nuovo per quanto tradizionale, fase in grado di dare anche il poema monumentale, opera di un cantore particolarmente capace e geniale; segue una fase rapsodica riproduttiva, nella quale si recitano testi composti oralmente e poi memorizzati: la memoria non serve più per rendere disponibile il mezzo compositivo ma trattiene il risultato, che può essere riprodotto; infine la
fase “degenerativa”, che è quella dei cantori che recitano testi altrui già fissati e tramandati anche per iscritto, (come lo Ione del dialogo platonico o quelli che eseguivano i testi omerici alle Panatenee). Le analisi linguistiche promosse da A. Hoekstra mostrarono possibi-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
li evoluzioni interne della dizione formulare di tipo appunto storico-linguistico, sforzandosi di descriverne le trasformazioni da un ricostruibile stadio pre-omerico (prototipi formulari) a uno sub-epico della poesia orale posteriore ai poemi e testimoniato per esempio negli Inni più antichi (e chiamando in causa anche il Ciclo ed Esiodo). I procedimenti e i risultati non sono certo esenti da dubbi, ma resta l’acquisizione del concetto di evoluzione interna della dizione formulare, che porta a recuperare elementi tradizionali vedendone le loro mutazioni linguistiche, ed a cooperare quindi alla definizione di ciò che è da considerarsi “tradizionale”. Sul piano sincronico, di fronte alla rigida definizione parryana di formula e di sistema formulare e alle sue analisi iniziali, si posero soprattutto due ordini di problemi collegati: cosa si deve intendere per formula e quanto dell’insieme dei versi omerici è formulare. Le osservazioni (iniziate da J.B. Hainsworth) sulla flessibilità e sulla variabilità di impiego del materiale formulare (spostamenti nel verso, ampliamenti, riduzioni, flessioni) allargarono le possibilità di analisi della dizione omerica. Ma quale tipo di ripetizione è richiesta e quante ricorrenze per parlare di formula? Formulare finisce col diventare semplicemente sinonimo di ripetuto? Che fare allora di espressioni uniche (testimoniate una sola volta nell’epica che abbiamo), ma che rientrano chiaramente in un sistema? Nelle difficoltà di definire la formula, si arrivò (M.N. Nagler) a una concezione basata sulla linguistica generativa, per cui la formula sarebbe una forma fonico-ritmica e sintattica astratta, realizzantesi in allomorfi diversi per significante e significato. Qual è dunque l’estensione del patrimonio formulare tradizionale in Omero? Il discorso composto oralmente si caratterizza per essere formulare e ripetitivo in quantità maggiore e in modo estraneo al discorso scritto: per sostenere che Omero è frutto di composizione orale, quanta parte dei suoi versi dobbiamo provare che sia formulare? E a quale tipo di uso di tale mezzo di comunicazione dobbiamo pensare? All’interno di una poesia effettivamente orale creativa, quante e quali possibilità ha ogni aedo, in occasione della sua performance, di personalizzare e individualizzare la dizione tradizionale con interventi voluti, riusi riflessi e soluzioni ricercate? Nel frattempo un’altra linea era venuta a confluire con quella oralistica parryana. Nel 1933 il tedesco W. Arend pubblicò il suo libro sulle “scene tipiche” in Omero, che fu recensito da Parry nel 1936. Arend analizzò le ricorrenze di scene come l’arrivo, il sacrificio e pasto, il viaggio per mare e per terra, l'armamento e l’abbigliamento, l’assemblea, il giuramento e altre, e mostrò il ripetersi di uno schema strutturale fatto di elementi essenziali e necessari espressi in forme grosso modo costanti: nelle singole situazioni cambiano più o meno i particolari ma si ripete il modello essenziale. La presenza e l’uso regolare di questo repertorio di
modelli nello stile compositivo omerico è visto come frutto di una tradi-
zione poetica. E nata così per oggetto diversi aspetti caica, tali da comportare ma con risultati di grande
una corrente di studi sul “tipico” che ha avuto delle forme del contenuto dell’epica greca aruna varietà concettuale talvolta sconcertante, interesse nell’analisi dei testi. Importante è il
L’epica e la poesia didascalica
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fatto che questo indirizzo si sia unito e fuso con l’elemento nuovo introdotto da Parry nei suoi ultimi lavori, costituito dall’accento posto sui
“temi” della poesia orale, intesi come ripetizioni di elementi di contenuto tradizionali: anche questa componente fu consolidata da Lord in The Singer of Tales e poi sviluppata ampiamente nella critica successiva. La composizione per temi, le scene tipiche, strutture e modelli formali di maggiore portata ed estensione: tutti questi elementi rientrano nella considerazione di una, per così dire, formularità dei contenuti che va da minimi dettagli ad ampie sequenze e a strutture formali di vario tipo, e che in molta critica più recente si è fusa con lo studio della dizione in una considerazione più globale dello stile dell’epica greca arcaica, il cui codice espressivo appare caratterizzato (come langue poetica) da una forte rigidezza di base delle convenzioni formali, sia sul piano dei significati che su quello dei significanti. Se si prescinde dai disaccordi sulle questioni teoriche e dall’irrisolto problema della genesi dei poemi omerici (sfere nelle quali si rischia di avere una fastidiosa sensazione di impasse), bisogna dire che il risultato della messe di studi prodotti su questa linea è di grande importanza principalmente per quello che ha portato nella conoscenza della dizione e delle strutture compositive omeriche e per tutti i risultati che ha dato nell’analisi letteraria dei poemi, la cui comprensione ha registrato un grande progresso. Sul versante dei contenuti, lo sviluppo dei grandi temi del racconto (per esempio: la battaglia, l’aristia di un eroe) è sostanziato da una serie di motivi (per esempio: il duello, la mutilazione dell’ucciso ecc.), che ritornano regolarmente;
tali motivi sono a loro volta costituiti da una
costellazione paradigmatica di dettagli (per esempio: il lancio dell’asta, la corazza trapassata, un tipo di ferita ecc.) che si ripetono con diversi gradi di tipizzazione fino alla forma-standard riprodotta identica in più luoghi. Diversi motivi possono ripresentarsi più volte in una stessa sequenza, una scena o un gruppo di scene; lo stesso motivo può ricorrere più volte e questo porta alla ripetizione di un dettaglio isolato, di gruppi di dettagli più o meno collegati, della struttura essenziale (composta da una serie di elementi disposti in una successione fissa) di una scena o di un gruppo di scene: strutture più o meno lunghe e complesse di contenuti narrativi
si
ripetono.
Sul versante dei significanti, la tendenza all’irrigidimento si rileva assai forte anche nella forma dell’espressione: dalla vera e propria formula ripetuta pressoché costantemente e con sede fissa nel verso o con minime variazioni e dinamica interna al verso (flessibilità formulare), ad una ripetitività verbale più approssimativa fino alla semplice assonanza fonica o alla ripetizione della pura struttura sintattica (fenomeni da includere o meno, a seconda delle opinioni, nell’insieme della “formularità”); dal ritornare di interi versi formulari o di sistemi formulari adattabili con facili variazioni (come quello che introduce e organizza i discorsi diretti), alla ripetizione di un gruppo collegato di espressioni (corrispondente a gruppi di dettagli di contenuto), fino alla ripetizione più o meno esatta e completa di un insieme strutturato di espressioni (corrispondente sul versante dei contenuti alla struttura della “scena tipica”).
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Tutti i fenomeni catalogabili come “ripetizioni” tendono all’irrigidimento delle convenzioni. Il persistere di un elemento di contenuto favorisce il fissarsi dell'espressione che ne media l’ingresso nel codice, mentre l’esistenza dell’espressione fissata invita alla ripetizione e conservazione del contenuto che vi è espresso; e lo stesso discorso vale per fenomeni
di maggiore estensione,
come
scene intere o anche strutture
compositive. Una simile tendenza è tanto più significativa quanto più è ampia e interessa reciprocamente le unità piccole e grandi di forma del contenuto e di forma dell’espressione, perché mostra l’alto grado di convenzionalità del codice poetico. Esso costituisce la langue poetica altamente formalizzata e fortemente condizionante entro la quale nasce ogni composizione individuale appartenente al genere, la quale segnerà un certo grado di originalità in rapporto alla tradizione che la nutre. Questa lingua poetica, intesa come unità organica di forme e di contenuti, è il mezzo con cui si è espressa la lunga tradizione vissuta dall’epica greca: essa costituisce sia l’orizzonte creativo del cantore che l'orizzonte delle attese del pubblico. L’intima solidarietà fra l’aedo e il suo uditorio (per cui si è usato il concetto di empatia) è stata vista anche come la garanzia sociale-istituzionale che assicura l’autorità e il persistere della tradizione epica, più volte paragonata a un fiume che ingloba e porta con sé quanto trova nel suo corso, qualcosa perdendo e qualcosa conservando di ogni parte di esso, cosicché i suoi contenuti assumono caratteri e dimensioni eccezionali per spessore diacronico e sistematicità. Su questi concetti si è fondata una
visione
antropologica,
costituitasi
soprattutto a partire dagli
studi di E.A. Havelock, che vuole vedere nell’epica greca arcaica, prodotto specifico di una cultura esclusivamente orale, una sorta di enciclopedia ecumenica, serbatoio e raccolta dell’insieme delle conoscenze e modelli culturali della civiltà entro la quale si è sviluppata e nella quale svolge una fondamentale funzione educativa, in quanto depositaria del sapere della collettività che in essa si riconosce e ad essa ricorre. Le riflessioni estetiche dei poeti precedettero quelle dei teorici e le prime considerazioni sull’arte poetica vennero enunciate non in trattati ma in opere di poesia. Soprattutto gli aedi dell’Odissea (Demodoco alla corte di Alcinoo e Femio a Itaca; ma qualche informazione viene anche dall’Iliade) offrono non pochi elementi per comprendere la poetica omerica, segnatamente a proposito dei temi del canto, dei suoi scopi e delle sue origini. A quanto pare, questi aedi improvvisano e cantano anche temi contemporanei: sono dunque veri aedi orali, che Omero rappresenta proiettati nel suo mondo passato. Vediamo in primo luogo i temi del canto cui si fa riferimento. Per Femio si parla del ritorno degli Achei e delle imprese degli uomini e degli dei (Odissea 1, 337 ss.); a Demodoco, oltre al celebre brano sugli amori di Ares e Afrodite riportato per esteso in Odissea 8, 266 ss., vengono attribuiti la lite fra Achille e Odisseo (Odissea 8, 73 ss.), le vicende degli Achei e in particolare lo stratagemma del cavallo di legno per la presa di Troia (Odissea 8, 489 ss.); Achille, occasionalmente aedo che si
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diletta con la cetra a Iliade 9, 186 ss., canta i xXéa dvögwv, le «glorie degli eroi», termine che Omero usa per i temi del canto di Demodoco a Odissea 8, 73, e che vale meglio di tutti a designare i contenuti dell’epica. Cosi nel proemio dell’/liade la proposizione del tema parla dell’ira funesta di Achille, la contesa con Agamennone e i dolori degli Achei; in quello dell’Odissea delle svariate vicissitudini di Odisseo e del suo ritorno in patria.
La poesia e il canto sono visti come diletto e sollievo dagli affanni, l’aedo reca gioia e allieta gli uditori: così è per Achille nel passo citato, per Femio a Odissea 1, 337 ss., per Demodoco a Odissea 8, 44 s.; inoltre a Odissea 17, 518 ss. di un aedo si dice che canta versi piacevoli per gli uomini che molto desiderano ascoltarlo; e il canto gradevole è ben ordinato e sapiente (Odissea 8, 489; 11, 367 s.) e dotato di belle parole (Odissea 11, 367), perché chi parla con soavità e belle parole reca diletto (Odissea 8, 170 s.). Anche per il canto delle Sirene (Odissea 12, 39 ss. e 184 ss.), mentre si indicano gli stessi temi del mito di Troia, è sottolineata la funzione del dare gioia e dell’affascinare. Interessante è poi che nel passo di Odissea 11, 367 ss. Alcinoo attribuisca la definizione di aedo, i suoi pregi e i temi usuali (i dolori degli Achei), a Odisseo, che nella parte in cui racconta le proprie avventure (il racconto nel racconto degli Apologoi nei libri IX-XII) è evidentemente controfigura del poeta stesso. Inoltre, funzione importante e tipica in una società aristocratica come quella dell’ epica, la poesia propaga e perpetua la fama delle imprese e la gloria imperitura degli eroi, i xÀéa dvöowv, come dicevamo sopra: gli aedi glorificano ciò che cantano (Odissea 1, 337 s.) e la fama è conosciuta dagli uomini (cfr. Iliade 2, 486). L’invocazione alla Musa nel verso iniziale di entrambi i poemi mostra subito la concezione della poesia come proveniente dagli dei. Il rapporto dell’aedo con la divinità che lo ispira e gli concede il dono del canto è poi ribadito a più riprese în entrambi i poemi. Nell’Iliade, accingendosi al grande sforzo del Catalogo dei Greci e dei Troiani (2, 484 ss.), il poeta rinnova la richiesta di assistenza alle Muse che sono dovunque e tutto sanno; e a 12, 176 dice che difficile è raccontare tutto «come un dio».
Nell’Odissea, per esempio, l’epiteto di «divino» dato all’aedo Demodoco è giustificato dal favore tributatogli da un dio che è la Musa (8, 43 s. e 73), e gli aedi sono degni di onore e rispetto perché amati e istruiti dalla Musa e da Apollo (8, 479 ss. e 487 ss.); e l’aedo Femio canta per gli dei e per gli uomini perché un dio gli ha ispirato tutti i canti (22, 345 ss.); e a 17, 518 ss. si dice che i versi dei cantori provengono dagli dei. La poesia procede dunque direttamente dagli dei e questo ne garantisce il valore Tuttavia è stato messo ben in luce (Maehler) come anche in questo il mondo epico non sia unitario e l'Odissea appaia più evoluta dell'Iliade. Si osserva che l’invocazione alla Musa, dopo quella di prammatica del proemio, diversamente dall’/liade non torna più nel corso del poema. Inoltre la maggiore presenza di aedi nell’Odissea e la loro importanza non possono spiegarsi semplicemente con la differenza di ambientazione, ma devono essere sintomo di un maggior interesse per l’arte poetica e di
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una maggiore volontà di riflettere su di essa, come confermano puntualmente le varie dichiarazioni di poetica che vi si trovano. Particolarmente interessante è quella di 22, 345 ss., in cui Femio, assieme all’affermazione per cui un dio gli ha ispirato i canti, definisce se stesso autodidaktos: si è vista qui la dichiarazione di una capacità tecnica autonomamente acquisita, che si distingue dalla Musa senza entrare in contrasto con l’idea dell’origine divina del canto; e sulla stessa linea si collocano i due casi in cui l’aedo canta «come» l’animo o la mente lo inducono a fare (1, 347 e 8, 45).
Si può collegare a questo l’esortazione alla Musa nel proemio (v. 10) a iniziare il racconto «da un punto qualsiasi», come a rivendicare la propria capacità di dominare e organizzare la materia (che è poi la caratteristica strutturale propria dell’Odissea). Non sembrano dunque trascurabili le tracce, nell’Odissea rispetto all’Iliade, di un certo qual iniziale affrancamento dell’aedo nel rapporto di dipendenza totale dalla divinità ispiratrice (quasi annullamento in essa), per cui almeno si affaccia il problema (che troverà il suo esito prima in Esiodo e poi nella lirica) dell’emergere dell’individualitä del poeta. 2.5. La “fortuna” di Omero e
il volto attuale della questione omerica
I poemi omerici ottennero ben presto nel mondo greco un’autorità enorme, di portata veramente panellenica, e furono generalmente usati come testo base e riferimento principale nell'educazione e nell’insegnamento scolastico fino a tutta l’età bizantina: su di essi i ragazzi imparavano a leggere e scrivere, e poi, con l'avanzare degli studi, la grammatica e l’interpretazione dei testi e così via. Si può dire che questo sia da considerarsi un potente fattore culturale unitario della civiltà greca antica, sia sul piano sincronico che su quello diacronico.
Il problema della genesi e della trasmissione di due monumenti lette-
rari come l’/liade e l'Odissea costituisce l’oggetto di ciò che sempre si è chiamato “questione omerica”. Ad un certo punto della storia deve pur essere accaduto qualcosa per cui i poemi presero la loro forma attuale e cominciarono a essere trasmessi come tali. La redazione dei poemi omerici preparata, secondo le notizie antiche, nel VI secolo a.C. ad Atene per volontà di Pisistrato (cfr. supra, pp. 46 e 48), quale che ne sia la validità, può indicare una tappa in questa trasmissione. Tuttavia, un certo grado di instabilità del testo si riscontra ancora in età arcaica e classica e poi fino alla testimonianza dei papiri dell’età tolemaica precedenti al I secolo a.C.: si tratta naturalmente di oscillazioni minime rispetto alla fluidità dell’epica aedica (anche se possono esserne viste in qualche modo come un lontano riflesso), differenze che interessano poche centinaia di versi, considerando l’insieme di quelli cosiddetti addizionali rispetto alla redazione fissatasi nei nostri manoscritti medievali e quelli oggetto dei dubbi e delle discussioni dei filologi alessandrini, di cui troviamo testimonianza in varie fonti erudite. Si dovette appunto all’influsso della filologia alessandrina (incarnata nei grandi editori e commentatori di Omero
—
Zenodoto,
Aristofane
di Bisanzio,
Aristarco,
Didimo,
Ari-
L’epica e la poesia didascalica
stonico, Nicanore, Erodiano e molti altri menti confluirono nelle raccolte di scolî bizantino Eustazio del XII secolo d.C.) stabilita con il numero dei versi che si
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— le cui opere ridotte in frame nei commenti dell’arcivescovo se la redazione dei poemi fu trova nelle edizioni moderne,
trasmessosi praticamente inalterato con i manoscritti bizantini.
Scarsi erano stati i dubbi nell’antichità che Omero fosse realmente esistito e avesse composto l’Iliade e l’Odissea (ed anche qualche altra cosa, cfr. supra, pp. 23 ss. e 33 ss.). L'unica eccezione fu rappresentata da un manipolo, non sappiamo quanto numeroso, di grammatici detti Chorizontes (cioè Separatori: conosciamo solo i nomi di Xenone e Ellanico), che ritenevano che i due poemi fossero di due autori diversi: ma la loro “eresia” era stata fulminata dall’ortodossia unitaria del più grande filologo antico, Aristarco di Samotracia, e non aveva avuto seguito: si può pensare come un’ironia della storia il fatto che oggi prevalga nettamente, anche fra i neo-unitari (cfr. infra, p. 59), proprio l’opinione che i due poemi siano stati composti da poeti diversi a distanza di almeno una generazione.
Nell’età moderna, le vicende che portarono alla riscoperta della classicità fino all’esplosione dell’Umanesimo e del Rinascimento determinarono anche le tappe e i modi della conoscenza di Omero. Mentre nel mondo bizantino, con la continuità della lingua, molte opere della letteratura greca antica (superato non senza danni il salto della decadenza dei secoli VII e VIII d.C.) erano rimaste un possesso stabile, nel mondo occidentale (tranne che in aree dell’Italia meridionale, che vissero una storia propria) l'epoca medioevale aveva comportato fra l’altro la perdita completa della conoscenza del greco. Dante non conosceva direttamente Omero, che ai letterati italiani divenne accessibile dapprima solo con la traduzione in latino fatta dall’esule greco Leonzio Pilato per volontà di Petrarca e Boccaccio, e poi direttamente con l’acquisizione della conoscenza della lingua greca, che dopo Boccaccio cominciò a diffondersi nell’Umanesimo europeo grazie soprattutto all’afflusso in Occidente dei dotti provenienti dalle regioni orientali bizantine. Nella Firenze umanistica, Omero ebbe la sua prima edizione a stampa nel 1488 per le cure del greco Demetrio Chalcondylas. Poi le edizioni si moltiplicarono in una serie infinita, ma per importanza va ricordata almeno quella che Enrico Stephanus (Henri Estienne) incluse nei suoi Poetae Graeci principes heroici carminis (Ginevra 1566), il cui testo ebbe per lungo tempo un’autorevolezza indiscussa, fino al superamento operatosi con le edizioni settecentesche (fra cui vanno ricordate almeno quella di Joshua Barnes, pubblicata a Cambridge nel 1711, e quella della sola Iliade con vasto commento
di Christian
G. Heyne,
Leipzig
1802),
e poi con i copiosi
prodotti dell’età filologica post-wolfiana (cfr. infra). Tuttavia, l'affermarsi della poetica classicistica del Rinascimento non giovò
alla fortuna
di Omero,
essendo
diffuso l’atteggiamento
che op-
poneva una sua supposta rozzezza barbara e primitiva alla perfezione limpida e matura di Virgilio (posizione per esempio teorizzata da Giulio Cesare Scaligero nella sua Poetica del 1561, dove Omero era ritenuto inferiore addirittura a Museo). L’avversione nei confronti di Omero con-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
tinuò durante il Grand Siècle della Rinascenza francese e dominò poi nell'epoca del barocco con la “Querelle des anciens et des modernes”: nel difendere il moderno gusto innovatore contro l’autorità degli antichi modelli, il più antico e autorevole di tutti, cioè appunto Omero, era naturalmente il più attaccato. Questo atteggiamento doveva terminare con
il recupero del senso della storia come criterio di valutazione delle epoche e dei fenomeni che la rappresentano; e anche tra l’altro con il gusto per le società primitive diffuso nel romanticismo. Merita di accennare alle Conjectures académiques ou Dissertation sur l’Iliade di François Hédelin abate d’Aubignac, presentate nel 1664 e pubblicate postume nel 1715, dove si sosteneva che Omero non era mai esistito e i poemi risultavano dall’unione redazionale di più canti, diversi per epoca e autore. Da un altro spessore filosofico, e dalla volontà di ricondurre alla nuova scienza che è la storia le conoscenze sui popoli e le loro vicende, nacquero le considerazioni di Giambattista Vico nella Scienza nuova (libro III: Della discoverta del vero Omero, l’ultima edi-
zione è del 1744): un poeta Omero non è mai esistito, i poemi devono intendersi come opera del popolo greco in un’epoca barbara e primitiva (e quindi da comprendere come tale) e furono a lungo trasmessi oralmente da rapsodi. Una tipica figura di viaggiatore del Settecento inglese, Robert Wood, dopo una serie di peregrinazioni in Grecia, Egeo e vicino Oriente, si convinse che Omero è verace e fededegno, ma, essendo la scrittura poco usata ai suoi tempi, le sue opere si trasmisero oralmente e furono fissate per iscritto solo ai tempi di Pisistrato i in Atene (Essay on the Original Genius of Homer, London 1769, 1775?). In Inghilterra agli inizi del Settecento il genio filologico di Richard Bentley, studiando difficoltà prosodiche e metriche, era pervenuto alla scoperta della presenza operante nella lingua omerica del digamma, un’antica lettera scomparsa nel greco letterario attestato in seguito: non solo la comprensione linguistica faceva un passo decisivo, ma soprattutto emergeva scientificamente il fatto che la lingua di Omero aveva avuto una storia e un’evoluzione, e questa prospettiva svelò in seguito tutta la sua portata. Bentley riteneva che Omero avesse scritto vari canti, che solo molto più tardi sarebbero stati riuniti in lunghi poemi. Alcuni decenni più tardi, un altro evento di grande significato fu la pubblicazione, da parte di Jean Baptiste Caspar d’Ansse de Villoison (Venezia 1788), degli scolì A e B contenuti in due manoscritti veneti: l'importante materiale documentario (soprattutto gli scolî A) forniva copiose notizie sull’opera dei grammatici alessandrini, svelando perduranti incertezze nel testo omerico e fluttuazioni non indifferenti nel numero dei versi. Tutto ciò costituisce l’insieme dei precedenti e mostra l’incubazione nel corso del Settecento dell’opera che si colloca all’inizio della questione omerica nel senso della moderna filologia scientifica: si tratta dei Prolegomena ad Homerum,
sive de operum Homericorum prisca et ge-
nuina forma variisque mutationibus et probabili ratione emendandi, pubblicata a Halle da Friedrich August Wolf nel 1795. Wolf tracciò una storia del testo di Omero fino al II secolo a.C. con lo scopo di dare le ragioni della propria edizione dell’Iliade: descrivendo la genesi dei poe-
L'epica e la poesia didascalica
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mi, egli sostiene che essi non potevano essere opera di un solo uomo e Omero
non è mai esistito come persona storica; canti separati dovuti a
diversi aedi che non possedevano la scrittura sarebbero stati composti e tramandati oralmente con notevoli alterazioni, finché furono riuniti e fissati nel VI secolo (redazione di Pisistrato). Fra i suoi predecessori, Wolf conosce e cita soprattutto d’Aubignac: ma la vera novità del suo libro è costituita dalla grande quantità di materiale documentario filologico sulla storia del testo omerico, che egli profonde grazie alle raccolte messe a disposizione da Villoison. L’opera di Wolf non fece immediatamente una grande impressione, e per esempio in Italia Melchiorre Cesarotti poteva dire che essa in realtà. non conteneva nulla di nuovo rispetto a quanto altri avevano detto prima. In realtà, di fatto Wolf aprì la strada a tutta la lunga storia della critica analitica dell'Ottocento e dei primi del Novecento: per oltre un secolo di critica omerica in effetti fu la tendenza analitica e separatista o pluralista (definizioni estremamente generiche, che cercheremo subito di precisare) a dominare largamente negli studi sulla genesi dei poemi omerici, diventato ormai il problema dei problemi. Per descrivere questo lungo segmento del cammino della critica omerica moderna si possono scegliere tre modi: o una definizione complessiva e generica che permetta, senza approfondimenti, di evitare del tutto ogni ulteriore precisazione; o una più o meno puntigliosa rassegna delle più significative teorie avanzate da numerosi studiosi, con un elenco considerevolmente lungo ed erudito di nomi e titoli; oppure un raggruppamento degli studi in alcune tendenze, così da orientare a sufficienza in una bibliografia soffocante, ponendosi in posizione equilibrata fra la semplificazione eccessiva e l’erudizione troppo ingombrante. Uno dei primi nomi da citare dopo Wolf è quello di Karl Lachmann, che nella prima metà dell'Ottocento formulò la “teoria dei canti sparsi” (Liedertheorie) o “teoria dell’agglutinazione”, secondo la quale l’Iliade e l’Odissea sono del tutto prive di unità essendo nate dalla cucitura piuttosto meccanica di diversi canti singoli; essa tornò in auge ancora nel 1949 grazie agli Einzellieder di G. Jachmann. Diversa, e più feconda nei suoi vari sviluppi, fu la “teoria della compilazione”, che vedeva la genesi dei poemi nell’unione di alcune preesistenti epiche più brevi, concependo poemi epici di minor mole e impegno come predecessori dell’epica monumentale. Ben nota è l’individuazione da parte di A. Kirchoff (1859) dei tre poemi da cui sarebbe risultata l'Odissea, comprendenti rispettivamente la Telemachia, il ritorno di Odisseo, le imprese in Itaca. Poi una gran messe di ricerche si mosse su questa linea, e basterà ricordare i lavori omerici di U. von Wilamowitz-Moellendorff: da singoli canti originari (Einzelgedichte) un processo evolutivo prevedeva prima una fusione organica (diversa dunque nella concezione dalla visione più meccanica dei canti sparsi), operata dagli stessi aedi, in piccoli poemi epici (Kleine Epe), la cui compilazione dava luogo al grande poema. Ancora nella prima metà dell’Ottocento Gottfried Hermann fece studi approfonditi sulla lingua omerica e avanzò l’ipotesi che i poemi
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
fossero risultati da un nucleo originario che avrebbe subito successive espansioni: la “teoria del nucleo” ebbe anch'essa sviluppi copiosi, fino alla sua più semplice e recente formulazione dovuta a P. von der Mühil (1952), secondo cui un originario poema sull’ira di Achille avrebbe subìto diverse aggiunte da parte di un rielaboratore. Non lontana per certi aspetti da questa è la “teoria delle interpolazioni”, secondo cui nell’autentico poema omerico sarebbero stati introdotti, per ragioni e in tempi diversi, gruppi di versi spurî: ma bisogna far bene attenzione al fatto che i presupposti di questa teoria permettono in realtà di considerarla anche come una forma di unitarismo, per quanto ‘critico’. Unitarismo che fino agli anni Trenta del nostro secolo (quando, come vedremo fra poco, ci sarà una svolta importante e su diversi fronti) è poco rappresentato e poco rappresentativo. La descrizione e la suddivisione di queste teorie o tendenze ha in verità non poco di arbitrario: bisognerà intanto avvertire che non sempre è pacifica la collocazione di uno studioso in una piuttosto che nell’altra, essendovi (come è ben comprensibile) elementi di somiglianza e aree di sovrapposizione: inutile e poco pratico sarebbe quindi prodigarsi qui in elenchi di omeristi raggruppati sotto quelle rubriche. Ancora più ovvio è che vi siano disaccordi molto profondi e articolati sull’estensione, i caratteri e il contenuto del nucleo originario, dei singoli canti o delle piccole epiche che costituiscono gli stadi anteriori dei poemi come ci sono pervenuti. La storia della questione omerica è stata a lungo descritta come una sorta di agone fra analitici e unitari: tuttavia una simile distinzione è non solo eccessivamente semplificatoria, ma anche piuttosto superficiale. In realtà, difficilmente si è giunti a negare che una qualche forma di unità ci sia stata in uno degli stadi del processo di formazione dei poemi, e d’altra parte pochi invero hanno pensato che i poemi siano usciti dal primo all’ultimo verso così come sono da un atto creativo unico e autonomo del poeta Omero. Sembra invece più corretto dire che le diverse ipotesi e teorie sulla formazione dei poemi divergono in sostanza sull’analisi
e valutazione del prodotto ultimo, cioè l’Zliade e
l'Odissea come noi le leggiamo, sulla considerazione e sull’interpretazione dei vari fenomeni osservati nel testo (talvolta con sfumature, per cui non ci sarà da stupirsi neppure di trovare in qualche sintesi sulla que-
stione omerica il nome di un illustre “analitico” rubricato come “neouni-
tario” o simili). La questione (posta in termini semplici, le cui articolazioni sono infinite) è dunque se un’unità esteticamente compiuta e valida vada posta all’inizio o alla fine del processo di formazione, oppure anche nel corso di esso: un poema unitario all’origine è stato poi variamente manipolato e inquinato da un raffazzonatore oppure un grande poeta ha creato il poema finale superando nel proprio genio i predecessori a lui noti e in qualche modo riutilizzati? E in entrambi i casi attraverso quali fasi e con quali meccanismi il processo è avvenuto? Le varie teorie pluralistiche, tendenti con diversa intensità a svalutare il risultato finale del processo di formazione dei poemi, prevalsero di gran lunga per tutto l’Ottocento e fino agli anni Trenta del Novecento: in seguito continuarono ancora ad essere autorevolmente coltivate al-
L’epica e la poesia didascalica
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meno fino agli anni Cinquanta, e non mancano reviviscenze attuali (pur in un panorama totalmente diverso da quello delle antiche controversie). Tirando le somme a grandi linee, possiamo dire che si produsse un’enorme quantità di approfondite analisi del testo omerico in tutti i suoi aspetti, sezionandolo tenacemente con lo scopo essenziale di fornire una cronologia relativa fra parti più antiche e parti più recenti, parti nate prima e parti nate dopo (mentre le progressive scoperte dell’archeologia omerica invitavano a una prospettiva storica): si consolidava così l’idea fondamentale di un processo di sviluppo per cui, da stadi precedenti, si era arrivati in un modo o nell’altro a produrre i poemi nella forma pervenutaci. Negli anni Trenta del Novecento si determinò una vera svolta, perché
quello fu il periodo che vide nascere tutti gli orientamenti sviluppati e
consolidati in seguito nella critica omerica più recente. In primo luogo prese forma una reazione unitaria, che insisteva sull’omogeneità di stile e sulla coesione della struttura complessiva dei poemi (i lavori più significativi furono dapprima dedicati all’/liade: ricordiamo solo i nomi di C.M. Bowra e di W. Schadewaldt). Soprattutto fu messa in luce con particolare vigore la grande struttura architettonica che regge l’impianto dell'Iliade (ma analogamente si fece per l'Odissea, sottolineandone i particolari incastri e schemi narrativi): i concetti di “preparazione” e di “ritardo”, i numerosi richiami a distanza, legami e rinvii in avanti e all’indietro, mostrano una volontà costruttiva individuale nella quale si intendeva vedere l’impronta del poeta che riconfigura il dato tradizionale e con mano sovrana governa i fili della struttura del poema monumentale. Questo neo-unitarismo si caratterizzò per tener conto della prospetti-
va fornita dal concetto di tradizione antecedente ai poemi, unitamente alla valutazione del piano strutturale e del disegno unitario come impronta creatrice dell’ultimo autore (non certo raffazzonatore). Dunque un unitarismo non più ‘ingenuo’ (che sarebbe ormai inammissibile e non credibile), al quale ben si collega, divenendone di fatto il volto e l’indirizzo più sviluppato, la corrente denominata “neoanalisi”, termine che in effetti designa appunto un “unitarismo analitico”, che riprende e converte in senso unitario metodi e temi d’indagine derivati dalla critica analitica. La neoanalisi (i cui inizi si pongono negli anni Trenta con i lavori di J. Th. Kakridis e che si sviluppò soprattutto nella critica tedesca) si sforza di studiare i precedenti dei poemi omerici concepiti essenzialmente come “fonti”, cioè veri e propri poemi epici già compiuti e fissati, che il poeta dell’Iliade e quello dell’Odissea conoscono, utilizzano, rimodellano e da cui traggono materiali e ispirazioni. Nello sforzo di ricostruire tali fonti, le informazioni possono venire sia da Omero stesso che da altri testi, tra cui assume naturalmente grande rilievo tutto ciò che si può sapere del Ciclo. Negli anni Trenta infine si colloca anche la nascita della “teoria orale” di Milman Parry, di cui abbiamo già parlato abbondantemente: essa pose il problema della genesi dei poemi in modi del tutto nuovi, e sembrò vanificare i termini tradizionali della questione. In realtà abbiamo già visto che i problemi rinacquero, se pur con altri aspetti e diverse
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
consapevolezze, nel cercare di capire tappe e meccanismi attraverso i quali si arrivò alla fine del processo genetico, cioè alla definitiva fissazione dei poemi e al loro affidamento alla scrittura. La questione del rapporto fra poeta e tradizione orale poneva naturalmente anche quello dell'originalità del poeta, che bisognava cercare di ridefinire con diversi criteri. Così il problema omerico ha comportato, insieme al fatto strettamente genetico, la difficoltà di misurare la possibile incidenza dell’individualità di un aedo rispetto a tutto l’insieme tradizionale che costituisce la sua cultura e il suo bagaglio tecnico-professionale, dunque la delimitazione di ciò che è tradizionale e ciò che è individuale (di una o più individualità?) entro il dettato stesso dei poemi. Un grosso problema ha posto poi il rapporto fra una genesi orale dei poemi e la presenza di una struttura compositiva frutto di sorvegliata volontà architettonica: quest’ultima è apparsa inconciliabile con un’improvvisazione aedica, e sostenibile solo entro il quadro dell’attività di un ta che riflette e compone su un piano deliberato e preordinato. Più accettabile sembra dunque la posizione di coloro che vedono la nascita dei poemi omerici in una fase tarda della tradizione epica orale, quando si utilizza sia la fissazione mnemonica di episodi sia probabilmente anche la scrittura, per cui all’interno dei poemi come noi li leggiamo parti nate in momenti e condizioni diversi sarebbero state composte, ricomposte e rifuse da un grande poeta in un prodotto di inusitato valore, che si conservò. Senza dunque minimamente negare l’esistenza e il significato della lunga tradizione orale che sta alle loro spalle, si definiscono i poemi omerici «testimonianza di poesia orale» (Rossi) e si fa riferimento a una dialettica di oralità e scrittura che li pone tra la fine della poesia orale e gli inizi dell’epica scritta (Dihle). Se vogliamo riassumere sinteticamente quanto abbiamo detto sull’omeristica più recente, dobbiamo dire che al volto attuale della questione omerica contribuiscono tre fattori. Il primo è il quadro fornito dalle scoperte archeologiche, con i diversi aspetti (storici e linguistici) del problematico rapporto di Omero con il mondo miceneo, e inoltre con i secoli del Medioevo ellenico. Il secondo è costituito dalla complessa problematica accesa e stimolata dagli studi sulla poesia orale, con la difficoltà di definire la genesi e il carattere dei poemi entro questo quadro. Il terzo è quello del neo-unitarismo novecentesco, che insiste sulla coesione strutturale dei poemi, e che si è manifestato specialmente nella “neoanalisi”, il cui studio delle “fonti” dei poemi omerici ha dato risultati interessanti soprattutto nell’evidenziare il possibile riuso omerico di motivi e schemi narrativi provenienti da uno o più modelli preesistenti. Questi tre elementi si raggruppano in modo evidente nello sforzo, nell’intenzione e nel gusto di guardare dietro Omero, di scoprire il volto del preomerico che ci sfugge: così se da una parte ragioniamo sulla base della fluidità della poesia orale improvvisata e poi fissata nelle sue varie fasi, dall’altra supponiamo una serie di poemi ben definiti che chiamiamo fonti o modelli. Il tentativo di identificare il volto della tradizione corrisponde allo sforzo di appropriarsi del codice poetico, il
L’epica e la poesia didascalica
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sistema e la langue entro cui situare e capire il prodotto individuale che abbiamo tra le mani. A ben guardare, il rapporto di questo prodotto ultimo,
comunque
sia nato e chiunque ne sia stato l’autore, con la
tradizione che gli sta alle spalle è sempre stato il nocciolo del problema, e già gli antichi si erano interrogati non poco sul ‘prima’ di Omero: la storia della questione omerica ci appare come la storia del tentativo di confrontare Omero con i suoi precedenti, il che vuol dire con la sua cultura, e di immaginare cosa c’era prima dell'Iliade e dell'Odissea, per capire come sono nate.
In realtà, questo è il problema che ci si pone per tutti gli autori, nessun poeta o prosatore viene studiato e interpretato come se nascesse e
vivesse in un deserto, ma sempre all’interno di un sistema o di un codice con il quale intrattiene il suo rapporto dialettico di tradizione-innovazione. Solo che nel caso di Omero questi procedimenti sono del tutto particolari e pongono difficoltà singolari, perché Omero è il ‘primo’ testo che conosciamo, non abbiamo i suoi precedenti, dobbiamo da Omero stesso ricostruire la cultura del poeta Omero. Qui il codice e l'individuo si devono ricavare dalla stessa fonte, sono gli stessi poemi che devono fornirci tradizione e opera individuale, langue e parole, testo e intertesto: analizzando i versi omerici cerchiamo di ricavare il volto di una tradizione, che poi confrontiamo con quegli stessi versi, e così abbiamo il fascino esaltante di penetrare verso l’ignoto e il rischio di un circolo vizioso disarmante. Da sempre (e gli sviluppi moderni lo confermano decisamente) la difficoltà di fondo della questione omerica (non tanto per quel che riguarda la persona del poeta, quanto per il suo aspetto squisitamente letterario e storico-letterario) nella sua più pura astrazione sta in questi termini; ed entro questi termini va considerato il valore dell’imponente messe di ricerche prodottesi. Raggiunta questa coscienza, non bisogna dimenticare, con occhi di storici della civiltà e del pensiero, che la continuità più gravida di conseguenze è quella, che noi possiamo analizzare e studiare a fondo, con ciò che venne in seguito, per tutto quanto Omero significò ininterrottamente nei secoli e millenni di cultura che seguirono. 3. Esiodo e la poesia didascalica 3.1. Il problema del genere
Nel contesto della civiltà letteraria greca arcaica e classica, parlare di “poesia didascalica” richiede almeno una qualche riflessione teorica preliminare. In verità, tutta la poesia aveva lo scopo di ‘insegnare’ e ogni poeta era un maestro e un educatore: in questo senso quindi “didascalica” era di fatto la poesia nel suo complesso. Basterà ricordare la famosa dichiarazione di Erodoto (2, 53) secondo cui Omero ed Esiodo stabilirono per i Greci i fondamenti della loro religione; Senofane diceva che tutti si istruiscono sulla base di Omero
e per questo rimprovera sia lui
che Esiodo per la scandalosa rappresentazione della divinità; i sofisti volevano sostituire il proprio insegnamento a quello tradizionale dei poeti,
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
e Platone intendeva eliminare dallo stato ideale l'educazione fornita dai poeti perché doveva toccare ai filosofi di assolvere questo compito. Non solo Omero e l’epica, dunque, ma la poesia in generale era per i Greci fonte di conoscenza e soprattutto di educazione etica: uno dei passi più chiari e noti è quello di Aristofane (Rane, 1030 ss.), dove sono elencate le cose utili che hanno insegnato Orfeo, Museo, Esiodo e Omero. La pratica di interpretare allegoricamente i poeti greci, testimoniata a partire dal VI secolo a.C. e continuata con impressionante abbondanza e tenacia fino ai pensatori cristiani ed ai bizantini, era intesa a salvare un valore educativo positivo anche laddove i contenuti espliciti potevano essere pericolosi o semplicemente inadeguati. Inoltre, il valore didascalico della poesia non può non essere chiamato in causa pensando alla poesia filosofica, cioè al fatto che alcuni dei più importanti filosofi presocratici (Senofane, Parmenide, Empedocle) utilizzarono il verso per esprimere le proprie dottrine (cfr. infra il capitolo sulla Letteratura filosofica e scientifica). Dopo le riflessioni problematiche operate dai sofisti sull'uso pedagogico della poesia, in sostanza è con Platone che si nega decisamente ai poeti il ruolo predominante avuto fino allora per quanto riguarda la trasmissione di conoscenze e la funzione di educare. Poi la riflessione aristotelica procede ulteriormente, ed è nella Poetica di Aristotele che troviamo il primo chiaro sintomo di distinzione teorica di una poesia “didascalica”. Egli dà una definizione generale della poesia come mimesis, negando che sia il metro l’elemento distintivo; poi osserva che l’uso porta a chiamare poeta chi scrive un’opera in versi su temi di medicina o scienze naturali: ma Omero e Empedocle non hanno nulla in comune se non il verso, per cui è giusto chiamare poeta Omero mentre Empedocle è piuttosto un fisiologo, perché poeta è solo chi realizza la mimesis (Poetica 1, 1447 b 16 ss.). Così la forma letteraria in versi con un contenuto scientifico e dottrinale risulta distinta dalle altre forme poetiche, e
si può dire che se ne registra un’autonomia teorica. Un passo ulteriore possiamo vederlo nel Tractatus Coislinianus de comoedia, un trattatello anonimo nel quale ancora si discute accanitamente in che misura sia confluito materiale aristotelico: lì si trova intanto una divisione della poesia in mimetica e non-mimetica, e quest’ultima è a sua volta divisa in storica e paideutike (cioè istruttiva, educativa, che ha lo scopo di insegnare). Quando nel grammatico latino Diomede (IV sec. d.C.) troviamo un tipo di poesia qualificato con didascalice (esemplificato con le opere filosofiche di Empedocle e Lucrezio, quelle astronomiche di Arato e Cicerone, le Georgiche di Virgilio «et similia»: I, 482 Keil), è chiaro che la distinzione teorica nella classificazione dei generi si è ormai affermata: e dobbiamo ritenere che la codificazione sia avvenuta in età alessandrina, quando la problematica sui generi trovò ampio spazio e l’autoconsapevolezza del genere appare del tutto acquisita (cfr. infra il capitolo sulla Poesia ellenistica). Tutto questo non è infirmato dalla considerazione per cui molto spesso la poesia didascalica era in pratica sussunta nel vasto dominio della poesia epico-esametrica:
L’epica e la poesia didascalica
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in verità una distinzione da Aristotele in poi si ebbe e, a posteriori, Esiodo fu considerato l’iniziatore del genere. 3.2. Esiodo. La Teogonia e Le opere e i giorni
La Teogonia e Le opere e i giorni sono i due poemi sicuramente di Esiodo che ci sono pervenuti completi. A questi è possibile si debba aggiungere come esiodeo il Cafalogo delle donne (o Eoie), che abbiamo in frammenti, ma del quale conosciamo ormai un cospicuo numero di versi grazie soprattutto a ritrovamenti papiracei. La Teogonia (1022 versi) fu scritta per prima. Si apre con un lungo proemio (vv. 1-115) costituito da un articolato inno alle Muse, nel corso del quale si racconta l’episodio in cui Esiodo incontrò le dee sul monte Elicona: in quell’occasione le Muse, con la consegna del ramo d’alloro, istituirono con lui un rapporto privilegiato e gli conferirono un’investitura a poeta strettamente legata al compito-privilegio di dire la verità. Si comincia con una parte cosmogonica, che prende le mosse dal Caos originario e racconta poi le vicende di Urano (il cielo) e Gea (la terra) e della loro numerosa discendenza (i Titani), finché Crono, il più giovane e feroce dei loro figli, evira il padre Urano (dai suoi genitali scagliati nel mare si forma una schiuma da cui nasce Afrodite) e si impadronisce del potere sul mondo (vv. 116-210). Segue una digressione sulla stirpe della Notte (figlia di Caos), dalla quale proviene una discendenza funesta, che termina con Eris, la Discordia, a sua volta madre di una prole negativa (vv. 211-32). Gea si unisce con Ponto (il mare, fratello di Urano) e da loro nascono esseri marini, come le Nereidi, e Ceto e Forcys, che a loro
volta generano le Gorgoni e la ferocissima Echidna, da cui vengono altri esseri mostruosi (vv. 233-336). Abbiamo poi (vv. 337-452) una serie di discendenze di altri Titani, figli di Urano e Gea: sono le coppie Oceano e Teti, Teia e Iperione (genitori di Sole, Luna e Aurora), Euribia e Crio, Febe e Coio (genitori di Ecate, cui è dedicato un particolare inno). Ma la più importante di queste coppie è quella formata da Crono e Rea, che hanno come figlio Zeus (vv. 453-506). Poi l’unione del titano Giapeto con l’oceanina Climene dà alla luce quattro figli, due dei quali sono il malaccorto Epimeteo e l’astuto Prometeo. Esiodo racconta qui il celebre mito (sul quale tornerà in Opere, vv. 47 ss.): Zeus incatena Prometeo e un’aquila gli mangia continuamente il fegato, che ricresce, finché Eracle non la uccide; a Mecone (antico nome di Sicione, nel Peloponneso), in occasione di una contesa fra uomini e dei, Prometeo inganna Zeus con un sacrificio fraudolento, e poi gli sottrae il fuoco, di cui fa dono agli uomini mortali; allora Zeus adirato manda fra gli uomini un male seducente costituito dalla prima donna, Pandora, plasmata da Efesto e adornata da Pallade Atena (vv. 507-616). Con questo la genealogia dei Titani è stata esposta, e a questo punto Esiodo passa a raccontare la guerra fra i Titani e gli dei Olimpi (stirpe di Crono) guidati da Zeus: il lungo brano della Titanomachia si conclude con il trionfo degli Olimpi e l’imprigionamento nel Tartaro dei Titani sconfitti (vv. 617-717), il che dà modo al poeta di introdurre una de-
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scrizione del regno degli inferi con gli esseri che vi abitano (vv. 717819). Il racconto delle battaglie di Zeus riprende con l’episodio della lotta contro l’immane mostro Tifeo (o Tifone), ultimo figlio di Gea (vv. 820-68): avuta ragione anche di lui, Zeus è ormai incontrastato re degli dei e impone il suo ordine nel cosmo assegnando a ciascuno la competenza e l’onore che gli spetta (vv. 881-5). Si completa poi (cominciando da mogli e prole di Zeus) il quadro degli Olimpi, che ormai governano definitivamente il mondo (vv. 886-962); dopo di che si passa, con una nuova invocazione alle Muse, a parlare degli eroi generati dall’unione di una dea con un uomo mortale (vv. 963-1020).
Gli ultimi due versi (vv. 1021-2) presentano ancora l’invocazione alle Muse e annunciano il tema delle discendenze delle donne mortali unitesi a un dio, ma poi il testo pervenutoci attraverso i manoscritti si interrom-
pe: era questo (un papiro, P.Oxy. 2354 del II secolo d.C., lo ha confermato) l’inizio del Catalogo delle donne (o Eoie), che evidentemente in questo punto era collegato direttamente alla Teogonia: torneremo sulla questione nel paragrafo successivo.
Le opere e i giorni (828 versi) contengono alcuni riferimenti alla Teogonia, che permettono in primo luogo di accertare la cronologia relativa fra i due poemi. Nel proemio (qui molto più breve, vv. 1-10) abbiamo inizialmente l’invocazione alle Muse, esortate a cantare Zeus per celebrarne la potenza che interviene sui destini umani e assicura la giustizia (e così si evidenzia, della divinità suprema, l’aspetto che la pone in rapporto con l’uomo). Poi Esiodo si rivolge al fratello Perse, destinatario delle sue parole, per affermare che gli dirà cose vere: annuncia così non tanto il contenuto dell’opera quanto il suo carattere di veridicità, enfatizzato in modo da far eco a quanto nel proemio della Teogonia era espresso con il racconto dell’investitura poetica da parte delle Muse. Si comincia quindi con l’esplicita correzione di un elemento della genealogia divina della Teogonia
(vv. 225 ss.): non una ma due sono le contese, una
Fris buona (potremmo dire “volontà di emulazione”) e una cattiva, che genera discordia (vv. 11-26). Esiodo e il fratello Perse ebbero una lite per la spartizione di un’eredità, e Perse cercò di corrompere i giudici («i re mangiatori di doni») per avere più di quanto gli spettasse, preferendo la via dell’ingiustizia a quella del duro lavoro per procurarsi il sostentamento (vv. 27-41): se questo appare come il motivo occasionale del poema, il tema della contesa presenta la riflessione su quello che il poeta considera evidentemente uno dei più importanti motori dell’agire umano. Segue il racconto (vv. 42-105) del mito di Prometeo e di Pandora. Poiché esso era già stato trattato nella Teogonia (vv. 535 ss.), qui Esiodo accenna appena alla prima parte, per soffermarsi poi maggiormente sul seguito: il furto di quel fuoco che appare connesso ai mezzi di sostentamento per gli uomini, l’invio di Pandora come punizione da parte di Zeus, l'accoglimento della donna da parte dello sciocco Epimeteo e l'apertura del vaso dei mali con le sue conseguenze funeste (ivi compresa «l’aspra fatica»). Nell’insieme, il mito appare ora decisamente volto a dare ragione della necessità per l’uomo di lavorare per vivere e della presenza dei mali nel mondo.
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A questo tema si ricollega evidentemente il mito delle età o delle razze (vv. 106-201): all’originaria stirpe dell’oro seguirono quelle dell’argento, del bronzo, degli eroi, e infine l’attuale età del ferro, nella quale Esiodo vorrebbe non essere vissuto per il peso di fatiche e mali, di malvagità e violenza che la caratterizza, nonostante la presenza anche di beni. Non bisogna interpretare questo mito come l’espressione di una semplice idea di lineare decadenza nella storia del mondo, da un’originaria condizione di felicità perfetta alla totale negatività del presente: ogni razza contiene in sé, accentuati in misura diversa, elementi positivi e negativi, e soprattutto sembra emergere al contrario una linea di sviluppo, si direbbe intellettuale, per cui la perdita della primitiva e incosciente beatitudine corrisponde all’acquisto di una consapevolezza riflessa e capace di scegliere, ed è colpa degli uomini se le loro potenzialità sono volte al male. Il racconto morale dell’usignolo e lo sparviero dice che fra gli animali la forza è l’unica legge (vv. 202-12): ma Perse deve seguire la giustizia e non la violenza, perché chi segue la giustizia è premiato e la città giusta è fiorente in pace, mentre gli ingiusti sono
puniti e la loro città perisce. La giustizia proviene da Zeus, che ne è dispensatore e garante: lo meditino i re e giudichino con rette sentenze, senza iniquità e corruzione; e si ricordi Perse che la legge di Zeus è seguire giustizia e lavorare per avere i mezzi per vivere (vv. 213-92). L'uomo deve lavorare, se vuole avere abbondanza; l’ozio è vergogna, e chi ruba è punito dagli dei: una serie di consigli a Perse, improntati a questi principi ed a regole di accorto buon senso nella vita di ogni giorno (vv. 293-380), precedono l’ampia sezione dedicata al calendario agricolo (vv. 381-617), motivata ancora dal principio per cui chi vuole ricchezza deve aggiungere lavoro a lavoro. Si susseguono così gli ammaestramenti sui lavori da fare in autunno, inverno, primavera, estate, per terminare con la vendemmia in settembre. Segue il brano sulla navigazione (vv. 618-94), nel quale a consigli su quando e come navigare, nel contesto di una dichiarata avversione per un'attività considerata tutt’al più un male necessario, si mischiano l’esplicita dichiarazione di inesperienza e notizie autobiografiche (vv. 633 ss. e 650 ss.: cfr. infra). Segue un altro gruppo di consigli vari, occasionati dal concetto di fare le cose al momento opportuno, e chiusi dall’esortazione ad evitare la cattiva fama (vv. 695-764). L’ultima parte del poema è rappresentata dai Giorni (vv. 765-828), una breve sezione che molti studiosi hanno ritenuto, per il suo carattere assai diverso dal resto, non esiodea e interpolata, e che ha posto comunque vari problemi di interpretazione. Contiene l’elenco dei giorni fausti e infausti per attendere a diverse operazioni o attività della umile e spicciola vita quotidiana, elenco nel quale compare un elemento di religiosità superstiziosa e popolare. La comprensione della struttura dei due poemi ha posto diverse difficoltà e suscitato molti studi: soprattutto per quanto riguarda le Opere è stato problematico individuare il filo conduttore che ne garantisce l’unitarietà senza ricorrere a pesanti interventi di espunzione di parti del testo. Oggi questa tendenza è in declino e una migliore conoscenza dei
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meccanismi della composizione poetica arcaica aiuta a capire lo sviluppo strutturale di una poesia che obbedisce a norme lontane da quelle cui è abituata la nostra sensibilità, e nella quale gioca un ruolo importante per esempio il passaggio da un argomento all’altro per associazione di idee. Un numero impressionante di personaggi e figure divine o semidivine popola i versi della Teogonia, con la chiara ambizione di fornire nome e persona al cosmo intero in ogni suo singolo elemento o manifestazione: dunque un grande sforzo di descrivere unitariamente e globalmente il mondo degli dei e il mondo fisico, che costituisce forse la più evidente novità rispetto alla rappresentazione omerica. Partendo dal Caos originario, lo sviluppo della Teogonia contempla un ampio quadro basato sui rapporti genealogici che si ramificano dalla struttura portante della successione Urano-Crono-Zeus, e arriva all’instaurarsi del regno di Zeus e degli dei Olimpi, cioè in sostanza a giustificare con un vero pensiero teologico l’attuale religione del pantheon greco. Poggia dunque su queste basi il ruolo supremo e fondamentale di Zeus garante della giustizia nelle Opere, dove però il centro d’interesse è diventato chiaramente l’uomo e il suo vivere nel mondo. Benché sia invalsa la considerazione di Esiodo poeta dei contadini, che dà insegnamenti di ogni genere sul lavoro dei campi, sarà ben difficile pensare che il linguaggio poetico tutt'altro che elementare delle Opere dovesse servire davvero come manuale pratico a chi lavorava la terra e compiva attività simili, e che certo sapeva benissimo cosa fare senza ricorrere ad Esiodo. In realtà, la valenza di tutto l'impianto ‘didascalico’ del poema è piuttosto quella etica, volta a dare un fondamento morale alla necessità e virtù del lavoro, nel quadro fondamentale di quella giustizia e di quel vivere retto che sono per il poeta il principio di identificazione dell’uomo. Visti in questa ottica, la Teogonia (anche con il suo eventuale prolungamento nel Catalogo) e le Opere appaiono come un insieme che non si sottrae all’impressione di una significativa innovazione e di un approfondimento decisivo del pensiero, si direbbe (se non ci inganniamo) una riflessione coerente che riesce a connettere organicamente me-
tafisica e fisica (Teogonia) con un’etica (Opere), embrionale “sistema filosofico” espresso ovviamente nelle forme arcaiche anteriori ai primi passi della filosofia propriamente detta. Chi era dunque, e come si presenta, l’uomo che fece questo passo e si pose questi problemi? Come sappiamo, gli antichi solitamente consideravano Omero e Esiodo grosso modo contemporanei, ma talvolta si chiesero anche chi dei due fosse vissuto prima ed in tal caso, benché alcuni considerassero precedente Esiodo, prevaleva l’idea che fosse Omero il più antico. Questa posizione è maggioritaria anche nella critica moderna, che colloca il poeta di Ascra a cavallo fra VIII e VII secolo a.C. e lo considera non molto posteriore alla fissazione dei poemi omerici o tutt'al più parzialmente coevo: tuttavia bisogna dire che anche recentemente è stato sostenuto che la Teogonia sia anteriore ai poemi omerici nella forma in cui ci sono pervenuti, e la questione nel suo complesso non può dirsi superata. L’indizio più attendibile per la datazione assolu-
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ta è fornito dal sincronismo con Amfidamante, personaggio di alto rango morto (secondo Plutarco) nella guerra lelantina, la cui datazione è incerta ma oscilla comunque fra la fine dell’VIII secolo e i primi decenni del VII. Esiodo stesso ci racconta (Opere, vv. 633 ss.) che il padre, lasciata Cyme eolica sulle coste dell’Asia Minore, fuggì la miseria imbarcandosi alla volta del continente greco e si stabilì in Beozia, ad Ascra, «tristo villaggio, d’inverno cattivo, aspro d’estate, piacevole mai», dove il poeta visse: un episodio significativo della sua vita, stimolatore di riflessioni etiche, fu senz’altro la lite col fratello Perse, di cui abbiamo detto sopra come motivo occasionale delle Opere. Ancora nelle Opere (vv. 650 ss.) egli ci informa dell’unica occasione in cui viaggiò per mare, quando si recò a Calcide in Eubea per partecipare alle gare in onore di Amfidamante (la circostanza sulla quale è basato l’Agone di Omero e Esiodo), vinse la gara poetica ed ebbe in premio un tripode, che consacrò alle Muse sull’Elicona, «là dove primamente mi iniziarono all’armoniosa poesia»: è questo un esplicito riferimento all'evento più importante dell’esperienza personale di Esiodo, vale a dire l’incontro con le Muse e l'investitura poetica, che egli racconta nel proemio della Teogonia ed al quale sembra conferire il carattere di acquisizione e segno indelebili per la sua vita. Parlando della persona di Esiodo ci poniamo, come si vede chiaramente, in un ordine di idee del tutto diverso rispetto a quando parlavamo di “Omero”. Possiamo in realtà parlare di un uomo e di un “autore” perché Esiodo è il primo che non solo dice il proprio nome, ma anche parla non poco di se stesso, rompendo in modo definitivo il silenzio dietro cui si nascondeva l’aedo omerico con la sua poesia di carattere anonimo e ‘oggettivo’ (per la posizione di Esiodo fra epica e lirica, cfr. infra il capitolo sulla Lirica). Da questa considerazione possiamo partire per parlare della poetica esiodea e del passo ulteriore compiuto nel processo di acquisizione di autonomia del poeta rispetto alla divinità ispiratrice (cfr. supra, p. 53 s.). L’investitura poetica che Esiodo riceve dalle Muse rientra naturalmente nella tradizione dell’origine divina della poesia, ma il rapporto è diventato personale e individuale: abbiamo qui l’orgogliosa affermazione della propria posizione privilegiata e preminente, del proprio ruolo di poeta ispirato dalla divinità, lui in particolare e non tutti indistintamente solo perché poeti, affinché col suo canto esprima la verità sul mondo divino e fisico, sui principi etici, sulla giustizia che viene da Zeus. Il rapporto privilegiato con la Musa ispiratrice esalta il ruolo del poeta, che assurge individualmente a una posizione autonoma di un valore che prima non aveva. L’affermazione della veridicità della propria poesia è naturalmente per Esiodo un dato essenziale per attribuirsi il compito e la funzione di insegnare. Il progresso compiuto da Esiodo, che trova il suo compimento nella riflessione etica delle Opere, si capisce bene partendo dalla Teogonia e considerando ancora taluni elementi del proemio. Almeno in due occasioni (vv. 55 e 94 ss.) egli fa riferimento alla poesia come diletto, oblio dei mali e consolazione degli affanni, riprendendo con ciò le basi della poetica omerica; e ai vv. 43 ss. i temi del canto delle Muse per
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rallegrare Zeus sono, ben in linea con la tradizione, le storie degli dei e degli uomini (cfr. supra, p. 52 s.). Ma c’è un elemento in più nel programma poetico, costituito appunto dall’esigenza che la poesia sia veritiera: quando le Muse, manifestatesi al poeta, gli dicono: «noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, / ma sappiamo anche, se lo vogliamo, proclamare la verità», è difficile non vedere nel primo caso la dilettevole epica narrativa della tradizione “omerica”, contrapposta alla nuova norma che Esiodo prescrive a se stesso. E nelle Opere sono i temi stessi a cambiare: se il contenuto della Teogonia poteva rientrare nella tradizione delle storie divine, quello dell’altro poema batte strade completamente diverse. Detto tutto questo, il rapporto di Esiodo con la tradizione, nei suoi vari elementi, non può che configurarsi come problematico. Dal punto di vista dei contenuti, alle sue spalle stava in primo luogo la tradizione dell’epica eroica: per esempio, il pantheon esiodeo, e in primo luogo il suo Zeus, non sono in essenza diversi da quelli omerici, nonostante l’ovvia differenza dovuta all’ambizione di raffigurare il mondo divino con sistematica globalità. Oltre a questo, sono stati più o meno valorizzati i rapporti con la cultura del Vicino Oriente, sottolineando le coincidenze affinità con antichissime tradizioni cosmogoniche come il mesopotamico Enuma Elis; e poi, sulla base di comparazioni con altre civiltà, sono stati supposti vari precedenti di letteratura di tipo “sapienzale”, parenetico, didascalico. Non c’è dubbio che tutti questi sforzi di comprensione della ‘cultura’ di cui Esiodo si è nutrito offrono una quantità di considerazioni e di materiali di grande utilità e interesse e di variabile pertinenza, e come tali meritano attenzione in un quadro di interpretazione globale. Non si sfugge comunque al fatto che il confronto più diretto consentitoci e più pertinente rimane quello con l’epica eroica che conosciamo, cioè con i poemi omerici: esso si rivela estremamente fecondo in
quanto permette, come abbiamo visto, di misurare il valore innovatore di Esiodo, i problemi che si pose ed i contorni del suo pensiero; ed anche di trovare una linea interpretativa che si sviluppa nella cultura greca arcaica verso la lirica e la filosofia. Passando infine a considerare i mezzi espressivi, si torna entro il quadro della problematica relativa alla “teoria orale” e all’analisi dello stile formulare, di cui si è già parlato per Omero. La base della dizione esiodea è costituita in sostanza dalla lingua e dal sistema formulare dell’epica omerica: questa constatazione ha posto in primo luogo il problema di una possibile origine orale delle opere di Esiodo, con la prevedibile divergenza di opinioni fra chi ha considerato il poeta di Ascra un poeta genuinamente orale e chi ha pensato che egli componesse servendosi della scrittura. Il nocciolo della questione sembra essere in realtà la valutazione e l’interpretazione non tanto degli elementi in comune fra la dizione omerica e quella esiodea, quanto delle differenze, che ci sono e non sono poche. Esiste una corrente di studi per cui tali differenze — soprattutto le testimonianze nei versi esiodei di un patrimonio di formule prive di paralleli omerici, ma anche gli stessi temi poetici così diversi — dimo-
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strerebbero che Esiodo dipende da un filone di poesia orale continentale, ben distinta e autonoma rispetto all’epica ionica da cui proviene Omero. Per chi invece concepisce la poesia omerica e quella esiodea come appartenenti a un unico filone, si tratta di fare una valutazione in termini di innovazioni esiodee nella dizione formulare: le si potrà vedere come uno sviluppo proprio di questa lingua poetica ancora possibile entro o ai margini di una fase orale (e per questa evoluzione interna dello stile formulare si è parlato di «stadio sub-epico»; cfr. supra, p. 49 e s.), oppure come consapevoli e riflessi sforzi di adattamento di un mezzo nato in funzione di certi contenuti e piegato non senza difficoltà ad esprimere contenuti nuovi, con riusi ed esiti formali per i quali sembra difficile che si potesse fare a meno di scrivere e ripensare. In effetti, anche qui siamo ben lontani dall’aver raggiunto una omogeneità di posizioni e i problemi restano aperti: per esprimere un’opinione, diremo che sembra più plausibile che Esiodo abbia concepito l’insieme dei suoi poemi facendo uso della scrittura, poemi che devono essere stati diffusi fin dall’inizio attraverso una recitazione orale che si basava sulla memorizzazione di un testo fissato. 3.3. Il Corpus esiodeo
Abbiamo già accennato al Catalogo delle donne, che a quanto pare circolava collegato direttamente alla Teogonia. Mentre i casi di unione di una dea con un uomo mortale non erano numerosi (Teogonia, vv. 963-
1020), la mitologia è piena di vicende in cui un dio si unisce con una donna mortale: da qui la notevole estensione del Catalogo, costituito da un grande affresco genealogico che raccontava di tali accoppiamenti e delle loro discendenze, e nel quale trovavano posto molte delle vicende degli eroi del mito. L'esposizione era divisa in sezioni, ciascuna delle quali comprendeva la materia relativa a ogni eroina ed era introdotta da î) oin («o come...»), da cui anche il titolo di °Hoîai (Eoie). Non essendoci accordo fra gli studiosi, rimane del tutto aperto il problema se considerare il Catalogo come autentico oppure spurio. Il fatto che fosse unito alla Teogonia risponde certo a quella tendenza unificatrice e totalizzante, che il Ciclo epico documenta bene, ma non prova niente per quanto ri-
guarda l’autenticità: poteva trattarsi della continuazione voluta dall’auto-
re e più tardi separata da grammatici che lo ritennero un poema a sé, oppure un caso di unificazione secondaria, analogo forse a quello Iliade/Etiopide (cfr. supra, p. 20), motivata dal prestigio assunto da Esiodo come poeta delle genealogie mitiche. Oggi, oltre a non poche testimonianze sui contenuti, se ne conoscono più di mille versi che permettono un’analisi non infondata: non è impossibile che un originario poema genuino sia stato via via interpolato e ampliato grazie alle facilitazioni della struttura catalogica (le parti più recenti vengono datate alla fine del VI secolo). Come esiodeo ci è stato tramandato anche lo Scudo o Scudo di Eracle (480 versi), nel quale si racconta la lotta a seguito della quale Eracle uccise il gigante Cicno, figlio di Ares. I primi 56 versi sono in realtà una
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Eoia (appartenente, secondo una notizia antica, al IV libro del Catalogo), e precisamente quella di Alcmena che, unitasi a Zeus, diventa madre di Eracle: ad essi è bruscamente giustapposto senza motivazione il racconto di Eracle contro Cicno, entro il quale si trova un’ampia descrizione dello scudo di Eracle. Se la prima parte rientra evidentemente nel problema generale del Catalogo, la seconda si pensa che sia senz’altro non esiodea. Del resto, l’autenticità dello Scudo era messa in dubbio già in antico da Aristofane di Bisanzio (mentre il peripatetico Megaclide e Apollonio Rodio lo ritenevano autentico). Poiché Stesicoro lo conosceva, dovrebbe risalire alla prima metà del VI secolo circa. Non sono poche le altre opere tramandate nel Corpus esiodeo e delle quali abbiamo per lo più poche testimonianze ed esigui frammenti. Possiamo per curiosità enumerare alcuni titoli: Precetti di Chirone (anche questa messa in dubbio da Aristofane), Grandi Eoie, Melampodia, Egimio, I Dattili Idei, Le nozze di Keyx,
che e poste anche è che come starco come
Ornithomanteia, opere astronomi-
geografiche. È naturalmente impossibile dire quando furono comqueste e le altre opere che furono variamente riferite a Esiodo, e sapere se e quando fu costituita una vera e propria raccolta: certo molto fu attribuito a Esiodo per l’autorevolezza che egli acquistò poeta didascalico, genealogico e catalogico (è significativo che Aridefinisse “esiodeo” lo stile catalogico e utilizzasse questa categoria criterio distintivo rispetto allo stile omerico).
4. Morte e rinascita dell’epica Trattando di Omero e di Esiodo abbiamo avuto occasione di parlare non solo di /liade e Odissea in un caso, di Teogonia e Le opere e i giorni nell’altro, ma anche di diversi altri poemi, che nella tradizione si sono più o meno attendibilmente e stabilmente aggregati ai due autorevoli nomi con i quali inizia la letteratura greca. L’inventario della poesia esametrica, di cui abbiamo in vario modo notizia dalle fonti antiche, è in effetti molto nutrito se consideriamo le opere adespote, quelle pseudoepigrafe e quelle di poeti di cui sappiamo ben poco. Possiamo brevemente richiamare tutto quanto ruota intorno alla definizione di Ciclo epico; gli Inni omerici e il Margite; diverse opere del Corpus esiodeo; il caso particolare della poesia eroicomica. Un gruppo a parte, sempre nell’ambito della poesia esametrica, è rappresentato dai poemi orfici, la cui età è variabile e comunque di solito difficile da definire: si tratta principalmente di una serie di Teogonie, e poi delle più tarde Argonautiche orfiche e dei Lithika, sulle virtù magiche delle pietre. Oltre a questo, abbiamo testimonianze più o meno consistenti di numerosi altri poemi rapsodici di genere mitologico-narrativo, catalogico, didascalico: ma sarebbe inutile prodigarsi qui in un lungo elenco erudito. Credo sia difficile negare che in queste opere possa essere confluito anche materiale di origine molto antica e che esse rientrino nel solco di una tradizione che risale più indietro, ma nel contempo ritengo più plausibile considerare che tutta questa poesia nella sua redazione ultima sia
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postomerica e postesiodea. La cronologia assoluta e relativa ci indica dunque un periodo che comprende grosso modo i secoli dal VII al V a.C. In quest’arco di tempo si collocano gli Inni omerici più antichi, al VI secolo vengono datati la Telegonia di Eugammone di Cirene, il Margite, le parti più recenti del Catalogo e lo Scudo del Corpus esiodeo. E sempre in quest’arco di tempo si segnalano alcuni nomi di poeti, di cui vale la pena accennare brevemente. Il più antico è Eumelo di Corinto, autore di una storia mitica della sua città, che sembra essere vissuto fra la fine dell'VIII e la prima metà del VII secolo, dunque pressoché contemporaneamente a Esiodo. Più incerti sono i contorni di personaggi come Epimenide, Carcino di Naupatto, Asio; e parimenti problematica è per esempio la figura di Aristea di Proconneso, taumaturgo e poeta, al quale si attribuiva un Epos degli Arimaspi. Siamo meglio informati su Paniassi di Alicarnasso, che scrisse un poema su Eracle e appartiene ormai al V secolo. Quando Aristotele (Poetica 8, 1451 a 19) parla di «tutti quei poeti che composero una Eracleide, una Teseide e poemi simili», evidentemente conosce una produzione diffusa, la cui esistenza è altrimenti confermata. L’epica tradizionale diventò possesso dei rapsodi, cantori professionali che nelle diverse occasioni (festività solenni come le Panatenee, agoni poetici o altro) eseguivano su commissione i diversi canti o rapsodie. Il loro prestigio si basava sul possesso di una tecnica e di una conoscenza la cui autorevolezza era sancita e indiscussa: famosa era la consorteria degli Omeridi di Chio (Homeridai), che vantava una discendenza da Omero stesso e si riteneva evidentemente depositaria della sua eredità. Al loro gruppo vengono talvolta ricondotti i poeti Creofilo e Cinetone spartano, che Ellanico nel V secolo a.C. citava come autore della Piccola Iliade. Anche a proposito di tutta questa produzione si è posto il problema dell’estensione della fase orale della poesia greca arcaica. È noto che gli oralisti più estremi hanno ritenuto che tale fase arrivasse a inglobare anche tutto il Ciclo, gli Inni, Esiodo, addirittura fino alla lirica (magari facendo una più o meno consapevole confusione fra quello che è la vera e propria composizione orale e una naturale trasmissione prevalentemente orale in una società nella quale leggere un libro non è ancora una pratica usitata). Tutto sommato, sembra piuttosto improbabile che una parte consistente di questa poesia rientri nell’alveo della poesia tradizionale composta oralmente, se si considera che l’uso della scrittura sembra già da ammettersi per Esiodo e per la composizione dei poemi omerici nella loro forma attuale (cfr. supra, pp. 60 e 68). Nel V secolo Cherilo di Samo tratta argomenti storici nella forma del poema epico, ma si mostra consapevole che la poesia è ormai cambiata. In effetti, con il V secolo l’età dell’epica sembra definitivamente conclusa, dopo — si direbbe — una lunga agonia. Per certi versi appare curioso perciò un personaggio come Antimaco di Colofone, vissuto a cavallo fra V e IV secolo e apprezzato nientemeno che da Platone. Delle due opere principali che conosciamo di lui, la Tebaide era un poema epico nella maniera tradizionale: se per questo aspetto egli guardava al
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passato, tuttavia per un altro, quello del poeta doctus erudito e filologo, fu un vero precursore dei poeti-filologi dell’età ellenistica, e sembra dunque davvero un personaggio-cerniera.
Mentre nella storia letteraria greca si sviluppava la grande stagione poetica della lirica e del dramma, l’epica parve davvero morta. La rinascita del genere fu in età ellenistica (cfr. infra il capitolo sulla Poesia ellenistica), ma si trattava naturalmente di un’epica diversa.
Bibliografia 1. L’epica greca arcaica 1.1. IL GENERE
EPICO
Non si può dare qui un’ampia bibliografia né sul problema dei generi letterari né sull’epica nel suo complesso: ci limitiamo a qualche opera di portata generale, nella quale si può trovare la bibliografia di riferimento. Per i generi: C. Segre, Generi, in Enciclopedia Einaudi, vol. VI, Torino 1979, pp. 564-85; P. De Meijer, La questione dei generi, in AA.VV., Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. IV, L’interpretazione, Torino 1985, pp. 245-82; e anche, con antolo-
gia di autori italiani, A.M. Pedullà, La teoria dei “generi” nella tradizione italiana, Cosenza 1980; sull’epica: A. Limentani, M. Infurna, L’epica, Bologna 1986, con la bibliografia. Per l’antichità: L.E. Rossi, / generi letterari e le loro leggi scritte e non scritte nelle letterature classiche, in “Bull. Inst. Class. Stud.”, 18, 1971, pp. 69-94; C. Calame, Réflexions sur les genres littéraires en Grèce archaique, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, 17, 1974, pp. 113-28; D. Lanza, Aristote-
le e la poesia: un problema di classificazione, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, n.s. 13, 1983, pp. 51-66. Su Omero e altre epiche: D. Comparetti, Il Kalevala o la poesia tradizionale dei Finni.
Studio storico-critico sulle origini delle grandi epopee nazionali,
in
“Memorie dei Lincei”, s. IV, 8, 1891 (rist. in Poesia e pensiero del mondo antico, Napoli 1944, pp. 278-552); C.M. Bowra, La poesia eroica (1952), trad. it. Firenze 1979; Atti del Convegno La poesia epica e la sua formazione, Accad. Nazionale dei Lincei — Quad. 139, Roma 1970; G.K. Gresseth, The Gilgamesh Epic and Homer, in “Class. Journ.”, 70, 1975, pp. 1-18; B. Fenik, Homer and the Nibelungenlied, Cambridge (Mass.)-London 1986; per la comparazione con
l’epica serbo-croata, cfr. infra, par. 2.4. 1.2. IL CICLO
Homeri Opera, vol. V, ed. T.W. Allen, cit. infra par. 2.1., pp. 93 ss.; Epicorum Graecorum fragmenta, ed. G. Kinkel, Leipzig 1877; F.G. Welcker, Der epische Cyclus oder die homerischen Dichter, Bonn
1865-18822;
E. Bethe, Homer.
Dichtung und Sage, vol. II, Leipzig-Berlin 1922; A. Rzach, Kyklos, in Realencycl., XI, 2, 1922, coll. 2347 ss.; A. Severyns, Le Cycle épique dans l’école d’A-
ristarque, Liège-Paris 1928; W. Kullmann, Die Quellen der Ilias (Troischer Sagenkreis), Wiesbaden 1960; J. Griffin, The Epic Cycle and the Uniqueness of Homer, in “Journ. Hell. Stud.”, 97, 1977, pp. 39 ss: Si veda anche infra la bi-
bliografia generale su Omero e in particolare quella sulla “Neoanalisi”.
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1.3. PRIMA E DOPO OMERO T.W.
Allen,
Homer.
The
Origins
and
the
Transmission,
Oxford
1924;
E.
Diehl, ... Fuerunt ante Homerum poetae, in “Rhein. Mus.”, 89, 1940, pp. 81114; R. Sealey, From Phoemios to Ion, in “Rev. Ét. Gr.”, 70, 1957, pp. 312 ss.; Calame, art. cit. supra, par. 1.1.; AA.VV., I poemi epici rapsodici non omerici e
la tradizione orale, Atti Conv. Venezia 1977, a cura di C. Brillante, M. Cantilena, C.O. Pavese, Padova 1981; F. Montanari, Il grammatico Tolomeo Pindarione, i poemi omerici e la scrittura, in Ricerche di filologia classica, vol. I, Pisa 1981, pp. 97 ss.; A. Gostoli, La figura dell’aedo preomerico nella filologia peripatetica ed ellenistica: Demodoco fra mito e storia, in Scrivere e recitare, a cura
di G. Cerri, Roma 1986, pp. 103 ss. Per la problematica sulla tradizione orale cfr. infra, par. 2.4; cfr. anche infra par. 4. 2. Omero. I poemi omerici 2.1. ILIADE
E ODISSEA
Il complesso degli studi omerici è così sterminato che non si può pretendere di conoscere neppure tutti i titoli di ciò che è stato scritto: più che mai impor-
tante per orientarsi è dunque utilizzare, oltre alle bibliografie (ragionate e non), sia le sintesi sulla storia degli studi e della questione omerica, sia le introduzioni generali a Omero e alla problematica connessa. Presentiamo qui una scelta abbastanza ampia per gli strumenti di base, da cui si può partire: per approfondire nei diversi argomenti si daranno indicazioni bibliografiche settoriali (senza ripe-
tere quelle delle introduzioni generali) infra ai parr. 2.3, 2.4, e 2.5. Rassegne bibliografiche: S.W.F. Hoffmann, Bibliographisches Lexicon der gesamten Literatur der Griechen,
3 voll., Leipzig
1838-45, alla voce Homerus,
of-
fre un quadro bibliografico dalla prima edizione a stampa fino agli inizi dell’Ottocento; la bibliografia dal 1700 ad oggi si trova elencata sistematicamente nelle sezioni su Omero delle seguenti opere: W. Engelmann, E. Preuss, Bibliotheca
Scriptorum Classicorum, Leipzig 1880% (per il periodo dal 1700 al 1878); R. Klussmann,
Bibliotheca Scriptorum
Classicorum Graecorum et Latinorum, Leip-
zig 1909-1913 (per il periodo dal 1878 al 1896); S. Lambrino, Bibliographie de l'antiquité
classique:
1896-1914,
Paris
1951;
J. Marouzeau,
Dix
années
de bi-
bliographie classique: 1914-1924, Paris 1927-28; iniziata dallo stesso Marouzeau, dal 1928 in poi si pubblica “L'année philologique”, che esce in volumi
annuali. Utili anche i Bibliographische Beilage, dal 1925 in poi, della rivista “Gnomon”. Bibliografie ragionate sull’antichità classica si trovavano nel “Bursians Jahresbericht über die Forschritte der classischen Altertumswissenschaft”,
1875-1955: le ultime rassegne omeriche apparvero nel vol. 225 (1930) e nel vol.
239 (1933); questa serie fu continuata da “Lustrum”, dove H.J. Mette ha pubblicato rassegne sulla bibliografia omerica degli anni 1930-1977 (voll. 1, 1956; 11, 1966;
15, 1970; 19, 1976), cui si aggiungono le parti omeriche degli articoli
Greek Archaeology and Literature di T.B.L. Webster (voll. 1, 1956; 11, 1966; 15,
1970). Altre bibliografie omeriche:
schaft” di A. Lesky per gli ripubblicati a parte con il 1952]; 6, 1953; 8, 1955; da E. Dént (21, 1968; 23, e da G. Pasorek
(30,
in “Anzeiger für die Altertumswissen-
anni dal 1951 al 1965 (4, 1951; 5, titolo Die Homerforschung in der 12, 1959; 13, 1960; 17, 1964; 18, 1970; 25, 1972), da O. Panagl e S.
1977);
in “Gymnasium”
di A. Heubeck
1952 [questi due Gegenwart, Wien 1965), proseguita Hiller (29, 1976) (58,
1951;
62,
1955; 63, 1956; 66, 1959; 71, 1964; 76, 1969 con altri; 78, 1971; 89, 1982). Bibliografie speciali: E.R. Haymes, A Bibliography of Studies Relating to Par-
74
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
ry's and Lord’s Oral Theory, Cambridge (Mass.), 1973; J.P. Holoka, Homeric Originality.
A Survey [1928-1971], in “Class. World”, 66, 1973, pp. 257 ss.; Id.,
Homeric Studies 1971-1977, in “Class. World”, 73, 1979, pp. 65 ss; D.W. Packard, T. Meyer, A Bibliography of Homeric Scholarship. Preliminary Edition 1930-1970, Malibu 1974; M. Fantuzzi in Enciclopedia Europea, vol. XII, Milano
1984, pp. 388 ss. Sintesi sugli studi omerici: G. Finsler, Homer, l: Vorfragen. Homerkritik, con
integrazione di E. Tièche, Leipzig-Berlin 1924’; A. Delatte, A. Severyns, Coup
d’oeil sur la question homérique, in “Antiq. Class.”, 2, 1933, pp. 379-414; F.M. Combellack, Contemporary Unitarians and Homeric Originality, in “Amer.
Journ. Philol.”, 71, 1950, pp. 337 ss.; Id., Contemporary Homeric Scholarship: Sound or Fury?, in “Class. Weekly”, 49, 1955, pp. 17 ss.; J.L. Myres, Homer and his Critics, edito con aggiunte da D. Gray, London 1958; M.M. Willcock,
The Present State of Homeric Studies, in “Didaskalos”, 2, 1967, pp. 59 ss.; E.R. Dodds, L.R. Palmer, D. Gray, Homer, in Fifty Years (and twelve) of Classical Scholarship, Oxford 1968, pp. 1 ss.; A. Heubeck, Die Homerische Frage, Darm-
stadt 1974 (basato sulle rassegne di “Gymnasium”, tiene conto della letteratura pressappoco dagli anni Trenta al 1970); Id., Homeric Studies Today: Results and Prospects, in Homer, omerica, Firenze 1979.
ed. Fenik,
1978, cit. infra; G. Broccia, La questione
Introduzioni generali e raccolte di saggi particolarmente significative: P. Cauer, Grundfragen der Homerkritik, Leipzig 1921*; W. Schmidt, O. Stählin, Geschichte der griechischen Literatur, 1, 1, München
1929, pp. 48-324; P. Ma-
zon, P. Chantraine, P. Collart, R. Langumier, Introduction à l’Iliade, Paris 1942;
AA.VV., London
A Companion
to Homer,
edited by A.].B. Wace and F.H. Stubbings,
1962; AA.VV., Introducciôn a Homero, a cura di F. Rodriguez Adrados,
Madrid 1963; AA.VV., The Language and Background of Homer. Some Recent Studies and Controversies, edited by G.S. Kirk, Cambridge 1964; W. Schadewaldt, Von Homers Welt und Werk, Stuttgart 1965“; F. Codino, Introduzione a Omero, Torino
1965
(trad. ted. riveduta, Berlino
1970); A. Lesky, Homeros,
in
Realencycl., Suppl. XI, Stuttgart 1968, coll. 687-846 (pubblicato anche separato); H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 1969, pp. 6 ss.; R. Cantarella, G. Scarpat, Breve introduzione a Omero, Mila-
no-Roma-Napoli
1971®
(di valore limitato); A. Lesky,
Geschichte der grie-
chischen Literatur, Bern-Miinchen 19715, parte terza (trad. della prima ediz., 1957-58: Storia della letteratura greca, Milano 1962, vol. I); La questione omerica, a cura di F. Codino, Roma 1976 (accettabile reading divulgativo); C.M. Bowra, Homer, London
1972; J.B. Hainsworth, Homer, in “G. & R. Surveys 3”,
Oxford 1979? (trad. della prima ediz., 1969, con aggiunte, in Introduzione allo
studio della cultura classica, vol. III, Milano 1975, pp. 597 ss.); L.E. Rossi, / poemi omerici come testimonianza di poesia orale, in Storia e civiltà dei Greci, vol. I, 1, Milano 1978, pp. 73-147; AA.VV., Essays on the Iliad, edited by ]. Wright, Bloomington
1978; AA.VV., Homer.
Tradition and Invention, edited by
B.C. Fenik, Leiden 1978; AA.VV., Homer.
Tradition und Neuerung, hrsg. von ].
Latacz, Darmstadt
(1980), Milano
1979; J. Griffin, Omero
Perspectives actuelles sur l'épopée Homérique,
Paris
1983;
1982; J. De Romilly,
J. Latacz,
Homer,
München-Zürich 1985; J. De Romilly, Homère, Paris 1985, trad. it. Napoli-Roma
1987; AA.VV., Homer.
Die Dichtung und ihre Deutung, hrsg. von J. Latacz,
Darmstadt 1988. | Edizioni e commenti: di uso canonico è la maneggevole edizione Homeri Opera, Oxford Classical Texts (voll. I-Il: Ilias, recogn. D.B. Monro, T.W. Allen, 19205; voll. III-IV: Odyssea, recogn. T.W. Allen, 1917-19?; vol. V: Cyclus, Hymni, Fragmenta,
Vitae, recogn. T.W. Allen, 1912, rist. 1946 con correzioni):
L’epica e la poesia didascalica
75
il testo di Allen è riprodotto a fronte della diffusa traduzione italiana di Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963, con prefazione di F. Codino. Altre edizioni di entrambi i poemi: A. Ludwich, Homeri Ilias, Leipzig 1902-1907, e Homeri Odyssea, Leipzig 1889-91; K.F. Ameis, C. Hentze, P. Cauer, Homers Ilias, ultima ediz. Leipzig-Berlin 1913-32, e Homers Odyssee, ultima ediz. Leipzig-Berlin
1908-20 (con commento). Per la sola Iliade: W. Leaf, The Iliad, London 1900-
1902? (con commento); T.W. Allen, Homeri Ilias (editio maior), voll. I-II, Ox-
ford 1931; P. Mazon, Homère. Iliade (con la collaborazione di P. Chantraine, P. Collart, R. Langumier), voll. I-IV, Paris 1937-47 (con note); M.M. Willcock, The
Iliad of Homer, voll. I-II, London 1978-84 (con commento); del nuovo commento diretto da G.S. Kirk e pubblicato a Cambridge è uscito il primo volume: G.S. Kirk, The Iliad: A Commentary, vol. I: Books 1-4; i prossimi volumi saranno curati da }.B. Hainsworth, R. Janko, M.W. Edwards, N.J. Richardson. Per la sola Odissea: P. von der Miihll, Homeri Odyssea, Basel 1946 (rist. Stuttgart 1962);
W.B. Stanford, The Odyssey of Homer, 2 voll., London 1961-62? (con commento); è stata recentemente completata una nuova edizione con introduzioni e commento in sei volumi: S. West, J.B. Hainsworth, A. Heubeck, A. Hoekstra, J. Russo, M. Fernandez-Galiano, Omero. Odissea, trad. di G.A. Privitera, 6 voll., Fondazione L. Valla, Milano 2.2. OMERO
1981-86.
“MINORE”. LE VITE DI OMERO
E L’AGONE DI OMERO
E ESIODO
L'unica raccolta che comprenda tutti i testi considerati nel paragrafo si trova
in Homeri Opera, vol. V, recogn. T.W. Allen, cit. supra (per Vite e Agone, pp. 184 ss.), un'edizione molto invecchiata ma sostituita solo parzialmente. Inni: la migliore trattazione dei vari problemi si trova nelle parti introduttive e nel commento di F. Càssola, Inni Omerici, Milano 19812; cfr. inoltre T.W.
Allen, W.R. Halliday, E.E. Sikes, The Homeric Hymns, Oxford 19367; A. Hoek-
stra, The Sub-Epic Stage of the Formulaic Tradition. Studies in the Homeric Hymn to Apollo, to Aphrodite and to Demeter, Amsterdam-London 1969; J.A. Notopoulos, The Homeric Hymns as Oral Poetry. A Study of the Post-Homeric Oral Tradition, in “Amer. Journ. Phil.”, 83, 1962, pp. 337 ss.; E. Heitsch, Aphroditehymnos, Aeneas und Homer, Gôttingen 1965; The Homeric Hymn to Deme-
ter, ed. by N.J. Richardson, Oxford 1974; L.H. Lenz, Der homerische Aphroditehymnos und die Aristie des Aineias in der Ilias, Bonn
1975; G. Bona, Inni ome-
rici e poesia greca arcaica, in “Riv. Filol. Istr. Class.”, 106, 1978, pp. 224-48; K. Fôrstel, Untersuchungen zum Homerischen Apollonhymnos, Bochum 1979; R. Janko, The Structure of the Homeric Hymns: a Study in Genre, in “Hermes”, 109, 1981, pp. 9 ss.; Id., Homer, Hesiod and the Hymns. Diachronic Develop-
ment in Epic Diction, Cambridge 1982; M. Cantilena, Ricerche sulla dizione epica. Per uno studio della formularità degli Inni omerici, Roma
1982.
Margite: E. Lobel, Oxyrhynchus Papyri, vol. XXII, nr. 2309, London 1954: sul papiro cfr. K. Latte in “Gnomon”, 55, 1955, p. 492, e J.A. Davison in
“Class. Rev.”, 8, 1958, pp. 13 ss. Inoltre: H. Langerbeck, Margites, in “Harv. St. Class. Ph.”, 63, 1958, pp. 33 ss.; M. Forderer, Zum homerischen Margites, Amsterdam 1960; F. Bossi, Studi sul Margite, Ferrara 1986. Batracomiomachia: A. Ludwich, Die homerische Batrachomachia des Karers
Pigres, nebst Scholien und Paraphrase, Leipzig 1896; H. Wölke, Untersuchungen zur Batrachomyomachie, Meisenheim am Glan 1978; R. Glei, Die Batrachomyomachie. Synoptische Edition und Kommentar, Frankfurt 1984; edizione italiana a cura di M. Fusillo, La battaglia delle rane e dei topi, prefazione di F.
Montanari, Milano 1988.
76
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Epigrammi: G. Markwald, Die homerischen Epigramme. Sprachliche und inhaltliche Untersuchungen, Königstein 1986, con bibliografia. Vite e Agone: Vitae Homeri et Hesiodi, ed. U. von Wilamowitz-Moellendorff, Berlin 1929; F. De Martino, Omero quotidiano. Vite di Omero, nota di C.F.
Russo, Venosa 1984, con ampia bibliografia. Sull’Agone cfr. M. West, in “Class. Quart.”, 17, 1967, pp. 433 ss.; K. Hess, Winterthur 1960; N.]. Richardson, The damas’ Mouseion, in “Class. Quart.”, Niederlage Homers im Dichterwettstreit dei papiri e Alcidamante cfr. anche G. menti, Roma 1982, pp. 38 ss. e 84 ss.
Der Agon zwischen Homer und Hesiod, Contest of Homer and Hesiod and Alci31, 1981, pp. 1 ss.; K. Heldmann, Die mit Hesiod, Göttingen 1982; per il testo Avezzù, Alcidamante. Orazioni e fram-
2.3. FRA MITO E STORIA. IL MONDO OMERICO AA.VV.,
The End of the Early Bronze Age in the Aegean, ed. by G. Cadogan,
Leiden 1986 (partic. A. Morpurgo Davies, The Linguistic Evidence: is there any?, pp. 93 ss.). I primi risultati della decifrazione del miceneo (Lineare B)
furono pubblicati in M. Ventris, J. Chadwick, Evidence for Greek Dialect in the Mycenaean Archives, in “Journ. Hell. Stud.”, 73, 1953, pp. 84-103. Per un orientamento generale, anche bibliografico, si può utilizzare: La civiltà micenea. Guida storica e critica,
a cura di G. Maddoli, Roma-Bari
1977.
j
La bibliografia & vastissima e dobbiamo limitarci a poche indicazioni, parten-
do dalle quali si può agevolmente ampliare. Per gli aspetti linguistici: J. Chadwick, Lineare B: l'enigma della scrittura micenea
(1958), trad. it. Torino
1959;
A. Heubeck, Aus der Welt der frühgriechischen Lineartafeln, Gôttingen 1966; M. Ventris,
J. Chadwick,
Documents
in Mycenaean
Lejeune,
Phonétique
historique du
Mycénien
Greek,
et du
Grec
Cambridge
ancien,
1973?;
Paris
M.
1972;
AA.VV., Dal sillabario miceneo all’alfabeto greco, in “Parola del Passato”, fasc. 166, 1976; AA.VV., Linear B: a 1984 Survey, ed. by A. Morpurgo Davies and Y. Duhoux, Cabay, Louvain-La-Neuve 1985 (partic. A. Morpurgo Davies, Mycenaean and Greek Language, pp. 75 ss.); A. Sacconi, La filologia micenea, in Atti del Congresso “La filologia greca e latina nel secolo XX”, Roma 1984, Pisa 1988, vol. I, pp. 3 ss., con un quadro bibliografico, anche per le raccolte dei testi; si veda anche infra par. 2.4, la bibliografia sulla lingua omerica. Sul problema dell’epica micenea e della continuità, cfr. (contrario) C. Gallavotti, Tradi-
zione micenea e poesia greca arcaica, in Atti 1° Congresso Internazionale di Micenologia, Roma 1968, vol. II, pp. 831 ss., e / documenti micenei e la poesia omerica, in Poesia epica e sua formazione, cit., pp. 79 ss.; (favorevole) M. Durante, Sulla preistoria della tradizione poetica greca. Parte I, Roma 1971.
Per gli aspetti storico-archeologici: H.M. Chadwick, The Heroic Age, Cam-
bridge 1912; H.L. Lorimer, Homer and the Nilsson, Homer and Mycenae, London 1933; ric Iliad, Berkeley 1959; Id., Homer and the 84, 1964, pp. 17 ss.; C.W. Blegen, 7roia e 1964; R.H. Simpson, J.F. Lazenby,
London
Monuments, London 1950; M.P. D.L. Page, History and the HomeTroian War, in “Journ. Hell. St.”, i Troiani (1963), trad. it. Milano
The Catalogue of the Ships in Homer's Iliad,
1970 (con la bibliografia sui problemi storico-archeologici legati al cata-
logo delle navi); T.B.L. Webster, From Mycenae to Homer, London 1958; M.I. Finley, I! mondo di Odisseo (1965?), trad. it. Roma-Bari 1978, con l’aggiunta di
una buona bibliografia di F. Codino, da cui si può partire; Id., The Troian War, in “Journ. Hell. St.”, 84, 1964, pp. I ss. (ripreso nella trad. it. del precedente); AA.VV., Homer’s History. Mycenaean or Dark Age?, ed. by C.G. Thomas, New
York
1970; A.M. Snodgrass,
The Dark Age of Greece, Edinburgh
1971; M.L.
L’epica e la poesia didascalica
77
Finley, La Grecia dalla preistoria all’età arcaica (1970), trad. it. Bari 1977; A. Sacconi, Problemi omerici alla luce dei ritrovamenti archeologici, Roma 1973; ]. Chadwick, Il mondo miceneo (1976), trad. it. Milano 1980. Per l’insieme dei
dati archeologici si può utilizzare la serie Archaeologia Homerica. Die Denkmä-
ler und das frühgriechische Epos, hrsg. von F. Matz und H.G. Buchholz, Göttingen
1967 ss., prevista in 25 fascicoli di diversi autori, di cui 21
guale) già usciti. Per gli aspetti mitico-religiosi:
Origin of Greek Religion, London
M.P. Nilsson,
(di valore dise-
The Mycenaean
1932; Id., The Mynoan-Mycenaean Religion
and its Survival in Greek Religion, München
of Greek Religion, Berlin-New York
19552;
B.C. Dietrich,
The Origins
1974; G.S. Kirk, La natura dei miti greci
(1974), trad. it. Bari 1977; C. Brillante, La leggenda eroica e la civiltà micenea,
Roma
1981. Per la questione dorica: AA.VV., Le origini dei Greci. Dori e mon-
do egeo, a cura di D. Musti, Roma-Bari
1985.
2.4. LINGUA, STILE, DIZIONE, POETICA
I problemi della lingua omerica rientrano naturalmente nella storia della lin-
gua e nella dialettologia greche in generale, che certo non possono essere considerati qui: J. Wackernagel, 1916;
Sprachliche
K. Meister, Die homerische
Untersuchungen
Kunstsprache,
zu Homer,
Leipzig
1921;
Göttingen
A. Meillet, Les
origines indo-européennes des mètres grecques, Paris 1923; Id., Aperçu d’une histoire de la langue grecque, Paris 19557; M. Leumann, Homerische Wörter, Basel 1950; C.J. Ruijgh, L'élément achéen dans la langue épique, Assen Strunk, Die sogenannte Aolismen der homerischen Sprache, Kôln
1957; 1957;
K. P.
Chantraine, Grammaire homérique, vol. I, Paris 19735, vol. II 19632; P. Wathelet, Les traits éoliens dans la langue de l’Epopee grecque, Roma
1970; Durante,
Sulla preistoria, cit.; G.P. Shipp, Studies in the Language of Homer, Cambridge 1972“; E. Risch, Wortbildung der homerischen Sprache, Berlin-New York 1974%; G. Devoto, A. Nocentini, La lingua omerica e il dialetto miceneo, Firenze
19753; M. Negri, Miceneo e lingua omerica, Firenze 1981; C. Brillante, Sul dia-
letto miceneo
e la lingua
epica,
in “Quad.
Urb.
Cult.
Ciass.”,
51,
1986,
pp.
145 ss. Metrica:
H.
Fränkel,
Der
homerische
und
der
kallimachische
Hexameter,
“Gôtting. Nachr.”, 1926, poi ampliato e rifuso in Wege und Formen frühgriechischen Denkens, München 19687, pp. 100 ss.; E.G. O'Neill, in “Yale Class. St.”, 8, 1942,
pp.
Estensione
105 ss.; H.N.
Porter, loc. cit., 12, 1951, pp. 3 ss.; L.E. Rossi,
e valore del ‘colon’ nell’esametro
omerico,
in “Studi
Urbinati”,
39,
1965, pp. 239 ss.; B. Gentili, P. Giannini, Preistoria e formazione dell’esametro, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, 26, 1977, pp. 7 ss.
Teoria orale e formularità: le opere di M. Parry sono raccolte in The Making of Homeric Verse, ed. by A. Parry, Oxford ed. by M. Parry and A.B. Lord, Cambridge
1971; Serbo-Croatian Heroic Songs, 1954; A.B. Lord, The Singer of Ta-
les, Cambridge (Mass.) 1960; Id., Homer as Oral Poet, in “Harv. St. Class. Philol.”, 72, 1968, pp. 1 ss.; G.S. Kirk, The Songs of Homer, Cambridge 1962; Id., Formular Language and Oral Quality, in “Yale Class. St.”, 20, 1966, pp. 155 ss.; J.A. Notopoulos, Homer, Hesiod and the Achaean Heritage of Oral Poetry, in “Hesperia”, 29, 1960, pp. 177 ss.; Id., Studies in Early Greek Oral Poetry, in
“Harv.
St. Class. Philol.”, 68,
1964, pp.
1 ss.; A. Lesky, Mündlichkeit und
Schriftlichkeit im homerischen Epos, 1954, e poi in Id., Gesammelte Schriften, Bern-München 1966, pp. 63 ss.; A. Parry, Have We Homer's Iliad?, in “Yale Class. St.”, 20, 1966, pp. 177 ss.; A. Hoekstra, Homeric Modifications of For-
mulaic Prototypes.
Studies in the Development of Greek Epic Diction, Amster-
78
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
dam 1965; Id., The Sub-Epic Stage of the Formulaic Tradition cit.; Id., Epic Verse before Homer, Amsterdam-Oxford-New York 1981; M.N. Nagler, Towards a Generative
View of the Oral Formula,
in “Trans.
Amer.
Philol. Assoc.”,
98,
1967, pp. 269 ss.; Id., Spontaneity and Tradition. A Study in the Oral Art of Homer, Berkeley-Los Angeles-London 1974; J.B. Hainsworth, The Flexibility of
the Homeric Formula, Oxford 1968; Id., Structure and Content in Epic Formulae: the Question of the Unique Expression, in “Class. Quart.”, 14, 1964, pp.
155 ss.; Id., The Criticism of an Oral Homer, in “Journ. Hell. St.”, 90, 1970, pp. 90 ss.; R. Di Donato, Problemi di tecnica formulare e poesia orale nell’epica greca arcaica, in “Ann. Scuola Norm. Pisa”, 38, 1969, pp. 243 ss.; J. Russo, The Structural Formula in Homeric Verse, in “Yale Class. St.”, 20, 1966, pp. 217 ss.; Id., The Meaning of Oral Poetry, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, 12, 1971, pp. 27 ss.; Id., Cosa comunica Omero e in che modo?
(1976), trad. it. in AA.VV., Arte
e comunicazione nel mondo antico. Guida storica e critica, a cura di E.A. Havelock e J.P. Hershbell, Roma-Bari 1981, pp. 51 ss.; A. Dihle, Homer-Probleme, Opladen
1970;
L.E. Rossi, Wesen
und Werden der homerischen
Formeltechnik,
in “Götting. Gel. Anzeig.”, 223, 1971, pp. 161-74; C.O. Pavese, Tradizioni e generi poetici della Grecia arcaica, Roma 1972; Id., Studi sulla tradizione epica rapsodica, Roma 1974; AA.VV., Oral Literature and the Formula, ed. by B.A. Stolz and R. Shannon, Ann Arbor 1976; M. Fantuzzi, Oralità, scrittura, auralità.
Gli studi sulle tecniche della comunicazione nella Grecia antica (1960-1980), in “Lingua e Stile”, 15, 1980, pp. 593 ss.; R. Janko, Homer, Hesiod and the
Hymns. Diachronic Development in Epic Diction, Cambridge 1982; cfr. anche, fra quanto cit. supra nel par. 2.1, le raccolte Language and Background curata da Kirk (1964), Homer curata da Fenik (1978), e quelle curate da Latacz (1979,
con introduzione sulla teoria orale, e 1988). E.A. Havelock,
Cultura orale e civiltà della scrittura.
Da
Omero
a Platone
(1963), trad. it. con introduzione di B. Gentili, Roma-Bari 1973; Id., Prologue to Greek Literacy, Cincinnati 1973; AA.VV., Arte e comunicazione nel mondo an-
tico, cit.; E.A. Havelock, Dike. La nascita della coscienza (1978) trad. it. RomaBari 1981; Id., La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi (1986), Roma-Bari
1987; J. Russo, B. Simon, Psi-
cologia omerica e tradizione epica orale (1968), trad. it. in “Quad. Urb. Cult. Class.”,
12,
1971, pp. 40 ss.; B. Gentili, Cultura dell’improvviso.
Poesia orale
colta nel Settecento italiano e poesia greca dell'età arcaica e classica, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, 36, 1980, pp. 17 ss. (ripubblicato in AA.VV., Oralità: cultura, letteratura, discorso, a cura di B. Gentili e P. Paioni, Roma
1985, nel quale
si
vedano anche i saggi di A.B. Lord, J. Goody, M. Cantilena, J. Peradotto, P. Pucci); Id., Oralità e scrittura in Grecia,
in AA.VV.,
Oralità,
scrittura,
spettacolo,
Torino 1983, pp. 30 ss. (con un addendum su Oralistica e questione omerica di A. Veneri); Id., Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari
1984; J. Sven-
bro, La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca (1976), trad. it. Torino 1984. In particolare sul “tipico”: W. Arend, Die typischen Scenen bei Homer, Berlin 1933; B. Fenik, Typical Battle Scenes in the Iliad, Wiesbaden
1968;
Id., Stu-
dies in the Odyssey, Wiesbaden 1974; T. Krischer, Formale Konventionen der Homerischen Epik, München 1971; J. Latacz, Kampfparänese, Kampfdarstellung und Kampfwirklichkeit in der Ilias, bei Kallinos und
Tyrtaios, Minchen
1977;
F. Montanari, Un Acheo contro due Troiani. Ripetizione di motivi e modelli formali nel racconto omerico, in “Mater. Discuss.”, 1, 1978, pp. 65-85. Sulle similitudini: H. Fränkel, Die homerischen Gleichnisse, Göttingen, 1973?; W.C. Scott, The Oral Nature of the Homeric Simile, Leiden 1974; C. Moulton, Similes in the Homeric Poems, Gôttingen 1977.
L'epica e la poesia didascalica
79
Per la poetica: W. Schadewaldt, Die Gestalt des Homerischen Sängers (1943), in Homers Welt, cit., pp. 54 ss.; H. Maehler, Die Auffassung des Dichterberufs im frühen
Griechentum
bis zur Zeit Pindars, Göttingen
ster, Antike Epostheorien, Wiesbaden
cit.; G. Arrighetti, Poeti, eruditi, biografi. sulla letteratura, Pisa 1987, Parte I passim. 2.5. LA “FORTUNA”
DI OMERO
1963;
S. Ko-
1970; Svenbro, La parola e il marmo, Momenti
E IL VOLTO ATTUALE
della riflessione dei Greci
DELLA QUESTIONE OMERICA
Per la storia della tradizione del testo cfr.: Cauer, Grundfragen, cit.; A. Ludwich, Die Homervulgata als voralexandrinisch erwiesen, Leipzig 1898; Al-
len, Origins, cit.; Allen, Ilias (ed. maior) cit., vol. I; G.M. Bolling, The External Evidence for Interpolations in Homer, Oxford 1925; Id., The Athetized Lines of the Iliad, Baltimore
1944;
G. Pasquali,
Storia della tradizione e critica
del testo, Firenze 1952”, pp. 201 ss.; M. Van der Valk, Textual Criticism of the Odyssey, Leiden 1949; Id., Researches on the Text and Scholia of the Iliad, 2 voll., Leiden 1963-64; S. West, The Ptolemaic Papyri of Homer, Opladen 1967; M.J. Apthorp, The Manuscript Evidence for Interpolation in Homer, Heidelberg 1980.
Si fa riferimento specifico alle storie della questione omerica, cit. supra nel par. 2.1. Cfr. inoltre R. Pfeiffer, Storia della filologia classica. Dalle origini alla fine dell’età ellenistica (1968), trad. it. Napoli 1973 (per gli studi omerici dei filologi alessandrini); H. Clarke, Homer’s Readers. A Historical Introduction to the Iliad and the Odyssey, London-Toronto 1981; W.J. Verdenius, Homer, the Educator of the Greeks, in “Mededel. Konin. Nederl. Akademie Wetensch.”,
33/5, 1970, pp. 206 ss.; S. Nannini, Omero e il suo pubblico nel pensiero dei commentatori
antichi,
Roma
1986;
F.A. Wolf,
Prolegomena
to Homer,
transl.
introd. not. by A. Grafton, G.W. Most, J.E.G. Zetzel, Princeton 1985; H. Erbse F.A. Wolf e gli scoli all’Iliade, in “Ann. Scuola Norm. Pisa”, n.s. 9, 1979, pp. 39 ss.
Sulla questione della scrittura: H.L. Lorimer, Homer and the Art of Writing: a Sketch of Opinions Between 1713 and 1939, in “Amer. Journ. Arch.”, 52, 1948, pp. 11-23; A. Heubeck, Schrift, in “Archaeologia Homerica”, Kap. X, Göttingen 1979. Sulla redazione di Pisistrato: R. Merkelbach, Die pisistratische
Redaktion
der homerischen
Gedichte,
in “Rhein.
Mus.”,
ss. (rist. in Id., Untersuchungen zur Odyssee, München
95,
1952,
p. 23
19692); J.A. Davison,
Peisistratus and Homer, in “Trans. Amer. Philol. Assoc.”, 86, 1955, pp. 1 ss.; A. Aloni, L'intelligenza di Ipparco. Osservazioni sulla politica dei Pisistratidi,
in “Quad. Storia”, 19, 1984, pp. 109 ss. Neoanalisi: H. Pestalozzi, Die Achilleis als Quelle der Ilias, Zürich 1945; ]. Kakridis, Homeric Researches, Lund 1949; W. Schadewaldt, Einblick in die Erfindung der Ilias. Ilias und Memnonis (1951), in Homers Welt, cit., pp. 155 ss.; Kullmann, Quellen, cit.; G. Schroek, Ilias und Aithiopis, Zürich 1961; Dihle, Homer-Probleme, cit.; F. Montanari, Karl Reinhardt studioso di Omero, in “Ann. Scuola Normale Pisa”, n.s., 5, 1975, pp. 1409-41; W. Kullmann, Oral Poetry and Neoanalysis in Homeric Research, in “Gr. Rom. Byz. Stud.”, 25, 1984, pp. 307-23; M.E. Clark, Neoanalysis: a Bibliographical Review, in
“Class. World”, 79, 1986, pp. 379-94. Iliade (oltre a quanto già citato): E. Bethe, Homer. U.
von
Bowra,
Wilamowitz-Moellendorff,
Tradition
and
Design
Die
Ilias und
I. Ilias, Leipzig 1914;
Homer,
in the Iliad, Oxford
1930;
Berlin
W.
1916;
C.M.
Schadewaldt,
80
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Iliasstudien, Berlin-Darmstadt Hypomnema zur Ilias, Basel
1966 (1938'); P. von 1952; K. Reinhardt, Die
der Mühll, Kritisches Ilias und ihr Dichter,
Göttingen 1961; H. Van Thiel, /liaden und Ilias, Basel-Stuttgart 1982. Odissea (oltre a quanto giä citato): U. von Wilamowitz-Moellendorff, Homerische Untersuchungen, Berlin 1884; Id., Die Heimkehr des Odysseus, Berlin 1927; E. Schwartz, Die Odyssee, München 1924; E. Bethe, Homer. II. Odyssee, Kyklos, Zeitbestimmung, Leipzig 1929°; P. von der Mühll, Odyssee, in Realencycl., Suppl. VII, Stuttgart 1940, coll. 696 ss.; A. Heubeck, Der Odyssee-Dichter und die Ilias, Erlangen 1954; D.L. Page, The Homeric Odyssey, Oxford 1955; E. Delebecque, Télemaque et la structure de l'Odyssée, in “Ann. Fac.
Lettr. Aix-en-Provence”,
Merkelbach, nen.
1958;
G. Bona,
Studi sull’Odissea,
Torino
Untersuchungen zum ersten Buch und zum Phaiakis, Göttingen
Erbse,
1966;
Untersuchungen zur Odyssee, cit.; K. Rüter, Odysseeinterpretatio-
Beiträge
zum
Verständnis
Studien zur Odyssee, Wiesbaden
der
Odyssee,
Berlin
1972;
H.
1969; H.
Eisenberger,
1973.
3. Esiodo e la poesia didascalica 3.1. IL PROBLEMA
DEL GENERE
B. Effe, Dicthung und Lehre. gedichts, München 1977.
Untersuchung zur Typologie des antiken Lehr-
3.2. ESIODO
Edizioni e commenti: A. Rzach, Hesiodi Carmina, Leipzig 1902; P. Mazon, Hesiode, Theogonie. Les travaux et les jours. Le bouclier, Paris 1928; Hesiodi
Theogonia.
Opera et Dies.
Scutum, ed. F. Solmsen, Fragmenta selecta, ed. R.
Merkelbach, M.L. West, Oxford
1970, 1983?; Opere di Esiodo, a cura di A.
Colonna, Torino 1977 (con ampia introd., trad. it. e note). Teogonia: F. Jacoby, Hesiodi Carmina. I. Theogonia, Berlin 1930; M.L. West, Hesiod. Theogony,
Oxford 1966 (con ampia introd. e commento); G. Arrighetti, Esiodo, Teogonia, Milano 1984 (con ampia introduzione, trad. it. e commento). Le opere e i giorni: U. von Wilamowitz-Moellendorff, Hesiodi Erga, Berlin 1928 (con commento); T.A. Sinclair, Hesiod. Works and Days, London 1932; M. Gigante, Esiodo. Erga (antologia con commento), Napoli 1953; A. Colonna, Esiodo. Le
opere e i giorni, Milano
1967 (con introd., trad. it. e note); M.L. West, He-
siod. Works and Days, Oxford 1978 (con ampia introd. e commento); G. Arrighetti, Esiodo. Opere e giorni, Milano 1985 (con ampia introduzione, trad. it. e commento). Introduzioni e raccolte di saggi: G. Setti, Esiodo, Milano 19112; A.R. Burn, The World of Hesiod, New
York
1936; AA.VV., Hésiode et son influence, “En-
tretiens Hardt”, 7, Vandoeuvres-Genève 1962; AA.VV., Hesiod, hrsg. von E. Heitsch, Darmstadt 1966; Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, cit., pp.
ghetti, Milano
104 ss.; AA.VV.,
Esiodo.
Letture critiche, a cura di G. Arri-
1975.
Lingua, stile, formularità, oralità: I. Sellschopp, Stilistische Untersuchungen zu Hesiod, Hamburg 1934; A. Hoekstra, Hésiode et la tradition orale. Contribution à l'étude du style formulaire, in “Mnemos.”, s. IV, 10, 1957, pp. 193 ss. (trad. it. in Esiodo.
Letture critiche cit.); Notopoulos,
Homer,
Hesiod
Krafft, Vergleichende Untersuchungen zu Homer und Hesiod, Gôttingen
cit.; K.
1963;
L’epica e la poesia didascalica
81
H. Troxler, Sprache und Wortschatz Hesiods, Zürich 1964; A. Morpurgo Davies, “Doric” Features in the Language of Hesiod, in “Glotta”, 42, 1964, pp. 138 ss.; E.A. Havelock, Thoughtful Hesiod, in “Yale Class. St.”, 20, 1966, pp. 61
ss. (trad.
it. in Esiodo.
Letture critiche cit.); P.P. Matsen,
Hesiod’s
Works
and Days and Homeric Oral Poetry, Bryn Mawr 1968; Dihle, Homer-Probleme cit. (cap. V, trad. it. in Esiodo. Letture critiche cit.); G.P. Edwards, The Language of Hesiod in its Traditional Context, Oxford 1971; Pavese, Tradizioni e generi poetici, cit.; B. Peabody, The Winged Words. A Study of Ancient Greek Oral Composition as Seen Principally Through Hesiod’s Works and Days, Albany 1975; P. Pucci, Hesiod and the Language of Poetry, Baltimore 1977; R. Janko, Homer, Hesiod and the Hymns, cit.; P. Mureddu, Formula e tradizione nella poesia di Esiodo,
Teogonia:
Roma
Fr. Schwenn,
1983.
Die
Theogonie
Hesiods,
Heidelberg
1934;
G.S.
Kirk, The Structure and Aim of the Theogony, in Hésiode et son influence cit.;
sul proemio cfr. K. Latte, Hesiods Dichterweihe, in “Ant. u. Abend”, 2, 1964, pp. 152 ss. (poi in Id., Kleine Schriften, München 1968, pp. 60 ss.). Le opere e i giorni: F. Mazon, La composition des Travaux et des Jours, in “Rev. Et. Gr.”,
14, 1912, pp. 329 ss.; H. Munding,
Hesiods Erga in ihrem Ver-
hältnis zur Ilias, Frankfurt 1959; W.J. Verdenius, Aufbau und Absicht ga, in Hésiode et son influence cit.; P. Walcot, The Composition of the and Days,in “Rev. Et. Gr.”, 74, 1971, pp. 1 ss. (trad. it. in Esiodo. critiche cit.); W. Nicolai, Hesiods Erga. Beobachtungen zum Aufbau, berg
1964;
H.
Diller,
Die
dichterische
Form
von
Hesiods
Erga,
in
der ErWorks Letture HeidelKleine
Schriften, München 1971, pp. 35 ss.; L. Bona Quaglia, Gli Erga di Esiodo, Torino 1973. Per la poetica: Maehler, Die Auffassung des Dichterberufs, cit.; Koster, An-
tike Epostheorien, cit.; Svenbro, La parola e il marmo, cit.; Arrighetti, Poeti eruditi, biografi, cit.
Per i rapporti con la cultura del Vicino Oriente: P. Walcot, Hesiod and the Near East, Cardiff 1966. Altri aspetti: F. Solmsen, Hesiod and Aeschylus, Ithaca 1949; J.-P. Vernant,
Mito e pensiero presso i Greci (19852), trad. it. Torino
19782; M. Detienne,
Crise agraire et attitude religieuse chez Hésiode, Bruxelles 1963; J. Blusch, Formen und Inhalt von Hesiods individuellen Denken, Bonn 1970; A. Casanova, La famiglia di Pandora, Firenze 1979; R. Mondi, Tradition and Innovation in the Hesiodic Titanomachy, in “Trans. Amer. Philol. Assoc.”, 116, 1986, pp. 25 ss.; Arrighetti, Poeti, eruditi, biografi, cit. 3.3. IL CORPUS ESIODEO
Fragmenta Hesiodea, ed. R. Merkelbach, M.L. West, Oxford
1967 (cfr. an-
che supra, par. 3.2, edizioni); H.J. Mette, Fragmenta Hesiodea, in “Lustrum”, 27, 1985, pp. 5 ss.; Opere di Esiodo, a cura di A. Colonna, cit. supra par.
3.2., edizioni. J. Schwartz, Pseudo-Hesiodea. Recherches sur la composition, la diffusion et la disposition ancienne d’oeuvres attribuées à Hésiode, Leiden 1960; per il Catalogo: M.L. West, The Hesiodic Catalogue of Women. Its Nature, Structure and Origins, Oxford 1985; per lo Scudo: C.F. Russo, Hesiodi Scutum, Firenze
1965.
82
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
4. Morte e rinascita dell’epica
Testi in Epicorum Graecorum fragmenta, ed. G. Kinkel, Leipzig 1877; Epi corum Graecorum fragmenta, ed. M. Davies, Gôttingen 1988; cfr. G.L. Huxley, Greek Epic Poetry from Eumelos to Panyassis, London 1969; Notopoulos, The
Homeric Hymns as Oral Poetry, cit.; I. Lôffler, Die Melampodie. Versuch einer Rekonstruktion des Inhalts, Meisenheim am Glan 1963; Poemi epici rapsodici cit.
In particolare per Paniassi: Panyassis of Halicarnassos.
Text and Commen-
tary, by V.J. Matthews, Leiden 1974; W. MacLeod, Studies on Panyassis: an Heroic Poet of the Fifth Century, in “Phoenix”, 20, 1966, pp. 95 ss. Per i poe-
mi orfici: M.L. West, The Orphic Poems, Oxford 1983. Per Cherilo: Choerili Samii reliquiae, a cura di P. Radici Colace, Roma 1979. Per Antimaco: B. Wyss, Antimachi reliquiae, Berlin 1936; Pfeiffer, Storia della filologia classica cit.
Graziano Arrighetti La lirica
1. I limiti cronologici e il genere letterario C'è un periodo, nella storia della cultura letteraria della Grecia antica, che giustamente viene denominato “l’età della lirica”. Esso si estende per circa un secolo e mezzo, dalla metà del VII alla fine del VI, e i suoi limiti cronologici sono abbastanza nettamente determinati dall’attività di Archiloco, da una parte, e dall’inizio della grande produzione drammatica attica nei primi decenni del V secolo, dall’altra. Con l’inizio della fioritura della produzione teatrale non è che la lirica finisca — basti pensare che nel V secolo sono attivi Simonide, Pindaro, Bacchilide — ma il fatto è che questo secolo è dominato in maniera prepotente dalla supremazia culturale di Atene e di quel genere letterario che più di ogni altro a quella supremazia fu legato e per molti versi la caratterizzò: il dramma (cfr. infra il capitolo sul Teatro). In conseguenza di questo si dovrà tener dunque presente che, anche se “l’età della lirica” finì col VI secolo, la lirica come genere letterario proseguì di una vita rigogliosa ancora per buona parte del V secolo, almeno fino alle ultime odi databili di Pindaro (Pyth. VIII del 446). Con la morte di Pindaro si tacque l’ultima grande voce della lirica. La forma e i contenuti che questa assunse in epoca ellenistica furono tutt'altra cosa (cfr. infra il capitolo sulla Poesia ellenistica). Questa identificazione di un intero periodo della storia culturale greca con un genere letterario non è senza ragione. Infatti nell’evoluzione delle vicende della Grecia arcaica e classica l’identificazione fra cultura letteraria e civiltà in senso lato rappresentò un dato assolutamente indiscusso: per i Greci era soprattutto nelle manifestazioni della letteratura che la civiltà, nel suo complesso, di fatto si esprimeva e prendeva forma.
La lirica dell’epoca arcaica
e tardoarcaica,
poi, in particolare,
prodotto di un periodo della civiltà greca per il quale scarseggiano o mancano del tutto altre fonti di documentazione, di esso rappresenta la testimonianza per eccellenza, anche da un punto di vista più strettamente storico. In conseguenza di ciò, per cercar di capire quello che si potrebbe chiamare il “grado di rappresentatività” della lirica nei confronti del periodo storico di cui fu espressione, è forse opportuno fermarsi a considerare, preliminarmente,
confini del genere.
il concetto di lirica, le caratteristiche e i
84
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
2. Lirica: storia e significato della parola Va detto prima di tutto che il termine “lirica” non fu usato fino all’ellenismo. Il concetto, poi, che noi con questo termine esprimiamo fu ignoto a tutta la cultura greca. Con “lirica” noi intendiamo un genere di poesia nella quale i sentimenti e gli stati d'animo dell’autore sono espressi in maniera particolarmente immediata e diretta. Ma così non era per gli antichi. Da questo punto di vista, si potrebbe dire, tutte le espressioni poetiche per loro erano lirica, tanto che criterio fondamentale della loro maniera di considerare tutte le opere della produzione poetica fu per secoli quello a cui infine fu data formulazione da Aristotele nella Poetica 1448 b 24 con le seguenti parole scritte a proposito delle origini della poesia: «Questa poesia si differenziò secondo l’indole particolare dei diversi poeti: ché quelli che erano di animo più elevato rappresentavano azioni nobili e di nobili personaggi, quelli di animo meno elevato rappresentavano azioni di gente dappoco; e così, da principio, questi composero canti di vituperio, altri inni ed encomi». Il presupposto da cui muove Aristotele è molto chiaro e da un altro punto di vista si può senza esitazioni definirlo un criterio moralistico: chi è di animo elevato fa letteratura dai contenuti buoni, chi non lo è fa il contrario. Se questi aggettivi, rispettivamente semnôteroi e eutelésteroi, si riferissero anche ai valori artistici, cioè alla capacità di fare poesia più o meno bella, è un problema che gli antichi Greci in fondo non sapevano porsi, almeno consapevolmente; ma ciò in questo momento ci interessa meno. La cosa da tener presente è che quella corrispondenza fra le qualità umane ed etiche dell’autore e quelle della sua opera assumeva, nel pensiero degli antichi, differenti gradi di immediatezza a seconda del genere letterario: nella poesia lirica, ad esempio, era considerata assai elevata. Un altro punto che gli antichi avevano poco chiaro era la distinzione dei generi di poesia lirica. Se prendiamo Platone, per esempio, vediamo che si basava sui seguenti criteri: la poesia poteva essere puramente nar-
rativa, come il ditirambo, oppure puramente mimetica, come il dramma, oppure una mescolanza dei due generi, come l’epica (Resp. III 394 b-c). In questa suddivisione la prospettiva si pone dalla parte dell’autore: se egli non compare mai, ma parla ed espone il suo pensiero tramite i suoi personaggi (dramma) si ha la forma mimetica, se invece è sempre presente nella narrazione si ha la forma diegetica (ditirambo); nell’epica invece accade che talora l’autore narri e talora riporti i dialoghi dei suoi personaggi, nascondendosi in certo qual modo dietro di loro, come accade nei drammi (cfr. supra il capitolo sull’Epica e la poesia didascalica). Come si vede bene, anche questa suddivisione presuppone la piena identificazione dell’autore con la sua opera. Per tornare al termine “lirica”, esso comparve in epoca ellenistica, in ambiente erudito, quando si procedette alla fissazione di canoni poetici, e stette a significare “poesia cantata con l’accompagnamento della lira”.
Fra l’altro è da notare che la fortuna dell’aggettivo /yrikés fu dovuta al fatto che venne in qualche modo pienamente assunto dalla lingua latina.
La lirica
85
I Greci, per designare lo stesso genere di poesia, preferivano più comu-
nemente la parola melos, “canto”, termine di più comprensivo ambito semantico e certamente più adatto ad indicare la poesia cantata, la quale non tutta era accompagnata dal suono della lira, ma c’erano poesie accompagnate dal flauto (aulös) oppure da un tipo di cetra chiamata phörminx. Nel confuso empirismo che caratterizzava le classificazioni della lirica, una distinzione gli antichi avevano ben chiara, quella che teneva separata la poesia cantata da un coro da quella a solo, la monodica; nell'ambito di questi due generi le suddivisioni poi erano assai articolate. 3. La componente personale e il precedente dell’epica Gli antichi dunque sembra non distinguessero un genere di poesia diverso dagli altri per la possibilità, che esso permetteva all’autore, di esprimere in maniera più diretta il suo pensiero, non conoscevano cioè quel problema, così difficile e inquietante per noi, del passaggio dalla sorprendente rinuncia da parte dell’aedo omerico a svelare la propria personalità per immergersi completamente nel gran flusso della tradizione, all’affermazione, subito all'indomani dell’epica, del mondo della lirica, con la ripetuta e orgogliosa riaffermazione del proprio io e della propria personalità da parte del poeta. È ben vero, e la circostanza va tenuta presente — almeno più di quanto non si faccia usualmente — che i lirici non sono i primi poeti della letteratura greca che dichiarino la
loro personalità: c’era stato il precedente di Esiodo, di non molto anteriore ai primi fra i lirici di cui conosciamo qualcosa, come Archiloco; ma vedremo subito che il precedente esiodeo spiega solo in parte i caratteri della lirica. Pertanto è opportuno fermarsi un momento a considerare alcune delle novità apportate da Esiodo alla concezione della poesia propria dell’epica e del rapporto dell’autore con quella (cfr. supra il capitolo su L’epica e la poesia didascalica). Esiodo aveva sentito con particolare acutezza il problema della veridicità della poesia, ma questa esigenza non era stato lui a proporla per primo: anche Omero la sente, però intesa come pregio estetico, e quanto
più la poesia appare veritiera, tanto più appare bella e affascinante (cfr. Odissea 8, 479 ss.). In Esiodo invece la veridicità non sembra più così fortemente identificata con la bellezza, ma si tratta soprattutto di un dovere che il poeta, se può, ha il compito di rispettare. Così egli nella Teogonia si impegna a rivelare quale è stata la storia delle vicende cosmiche e divine, ne Le opere quali sono il ruolo e i doveri dell’uomo nel mondo. Orbene, allo scopo di fornire una garanzia della veridicità dei contenuti del suo messaggio, Esiodo — si potrebbe dire — escogita lo strumento rappresentato dal dichiarare in modo aperto la sua persona, proclamando di essa il privilegio di essere entrata in possesso, grazie ad un particolare favore divino, di verità ignote a molti; una persona, quindi, sempre pronta, in certo qual modo, a testimoniare direttamente riguardo a questa garanzia. Pertanto, le dichiarazioni di Esiodo relative alla sua persona
86
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
sembrano avere carattere di precisa e meditata intenzionalità e non no nulla di occasionale. Cid è ben confermato dal fatto che i passi autobiografici, nella poesia, spesso sono chiaramente funzionalizzati a fornire avallo e damento alle verità che intende trasmettere, incominciando con la razione del suo incontro con le Muse
hansua fonnar-
e della sua investitura a poeta,
all’inizio della Teogonia (vv. 22 ss.), quando si appresta a dire cose nuove e diverse riguardo al mondo degli dei. Nelle Opere, poi, il fenomeno assume caratteristiche più significative; infatti gli elementi di carattere personale che il poeta fornisce hanno tono intimo e familiare: la lite col fratello per la spartizione dell’eredità paterna (per es. vv. 34-41), la povertà abbattutasi sulla casa (vv. 633-8); purtuttavia anche in questi casi il gusto per sé di indugiare sull’autobiografia è appena percettibile: quello che Esiodo vuol fare è proporre casi e fatti dai quali trarre motivi di insegnamento la cui plausibilità e attendibilità è garantita dalla persona che in quei casi e fatti ha avuto il ruolo diretto di pars patiens. Ebbene, nella lirica — o almeno in molta parte della lirica che noi conosciamo — sembra di dover escludere un qualunque tipo di funzionalizzazione dell’elemento personale, la cui presenza appare proporsi valida in sé e assumere il ruolo di piena autosufficienza artistica. Alcuni poeti appaiono inclini a parlare di se stessi e dei propri sentimenti e passioni, talora appaiono in preda ad un gusto particolare di esporre, senza tabù né pudori, anche i lati più personali del proprio essere, ma tutto ciò sempre fine a se stesso. E ancor più singolare è che di molti tratti afferenti al dominio del privato questi poeti sembrano prediligere quelli che le convenzioni comuni della Grecia immediatamente anteriori e posteriori a loro consideravano da passare sotto silenzio, all’infuori che in circostanze particolari, come per esempio nella commedia attica del V secolo o nel dramma satiresco. 4. La lirica nel giudizio degli antichi Ben presto anche gli antichi dovettero trovare imbarazzante e difficilmente spiegabile questa componente della lirica arcaica. Un secolo prima che Aristotele nella Poetica distinguesse i poeti antichi nelle due categorie di chi possedeva o no un animo elevato, il grande Crizia, uomo politico e poeta, osservava a proposito di Archiloco (B 44 D.-K.): Se costui non avesse divulgato ai Greci tale fama di sé, noi non avremmo saputo che era figlio di una schiava, Enipò, né che per la povertà e la disperazio-
ne abbandonò Paro e se ne venne a Taso, né che giunto qui si fece tutti nemici e nemmeno che sparlava sia degli amici che dei nemici. Oltre a ciò neppure avremmo saputo che fosse adultero se non l’avessimo appreso da lui, né che fos-
se lascivo e litigioso, e, quel che è il massimo della vergogna, che gettò via lo scudo.
Pindaro, infine, nella seconda Pitica, forse del 475 a.C., in qualche modo anticipando il criterio di giudizio che abbiamo trovato nella Poeti-
La lirica
87
ca di Aristotele, oppone la propria poesia, che ama glorificare le grandi virtù di coloro che canta, a quella del maldicente Archiloco «che ingrassa di odio» (v. 55 s.). In analoga situazione ci troviamo a proposito di Alceo. In non pochi dei frammenti delle sue poesie egli parla del vino e incita al bere come rimedio contro i dispiaceri e gli incomodi del vivere, e non diversi dovevano essere i dati di cui disponevano gli antichi, che pure erano in grado di leggere infinitamente di più del poeta di Lesbo, se a loro risale l’accusa che Alceo fosse troppo procliveal bere. Infine, un altro caso esemplare di testimonianza dello scandalo che
suscitavano certi poeti lirici anche presso gli antichi, è quello di Ipponatte di Efeso. L’opinione che l’antichità nutriva della sua poesia è ben comprovata dalla proibizione che l’imperatore Giuliano, nel suo progetto di restaurazione dell’antica moralità pagana, aveva imposto ai suoi seguaci: non solo dovevano astenersi da atti di lascivia, ma anche dal leggere le opere di coloro che, come Ipponatte, ne avevano scritto. Questi, fin dall’antichità, i termini del problema. I dati a nostra disposizione sono dunque tali da dimostrare che, a poco più di due secoli di distanza (Archiloco lo si colloca alla metà del VII secolo a.C., Crizia visse dal 460 al 403), i Greci stessi, mostrando di scandalizzarsene, rendevano manifesto di non capire quello straordinario momento di libertà spirituale testimoniato dalla lirica arcaica, e noi dobbiamo riconoscere che, nonostante le nostre maggiori capacità di indagine e di ricostruzione storica, e pur liberi dai pregiudizi moralistici degli antichi, ci troviamo in fondo nella stessa situazione. Tutto quello che possiamo fare è constatare una innegabile connessione fra le forme poetiche proprie della lirica e la fondamentale scoperta dell’io che nella lirica è testimoniata, ma come
e perché questa scoperta sia avvenuta e come essa sia da collegare all’espressione lirica non siamo in grado di dirlo con precisione. Si devono tuttavia mettere in luce alcune circostanze di fatto. 5. Le circostanze concomitanti Quel grosso fenomeno etnico, nonché economico e civile, che si chia-
ma seconda colonizzazione e che ebbe l’avvio a partire dal secolo VIII a.C., avrà comportato vistose conseguenze nella maniera in cui l’uomo si sarà trovato ad affrontare personalmente e singolarmente situazioni nuove e difficoltà, tanto da indurlo a ripiegarsi su se stesso con un’attenzione fino a quel momento sconosciuta. I rapporti talora forse amichevoli, il più delle volte ostili con popolazioni locali con le quali il movimento coloniale metteva in contatto i Greci, la necessità di crearsi ex novo un proprio ruolo nelle comunità civili che andavano formandosi o trasformandosi — alcune anche profondamente — con un’inesistente o ben scarsamente operante tradizione che garantisse o stabilisse il ruolo dei singoli, tutto ciò si può pensare che abbia stimolato e messo alla prova i singoli anche al di fuori di schemi fissati e proposti dalla tradizione. Con tutto ciò, beninteso, noi possiamo guadagnare un dato che aiuta
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a capire il sorgere della lirica solo in ambito coloniale. Nella madrepatria altri saranno stati i fattori di ordine sociale ed economico che favorirono il medesimo fenomeno. Si può pensare con qualche plausibilità ai mutamenti che, appunto in ambito sociale ed economico, l’espansione coloniale provocò anche nella Grecia metropolitana. 6. Il confronto con l’uomo omerico
Per capire più chiaramente è forse utile stabilire un confronto con l’uomo omerico. Questi poteva essere se stesso solo nell’ambito del ruolo che la sua collocazione gentilizia, e quindi la sua posizione, che potremmo chiamare sociale, gli assegnavano; altrimenti, come individualità isolata, tale ruolo non poteva mai ricoprirlo pienamente. L’uomo della lirica invece, anche se agisce nell’ambito di un gruppo, ha un valore di per se stesso; il suo pensiero, i suoi sentimenti hanno un significato e un peso di per se stessi, talora proprio perché muovono in senso contrario alla tradizione, ai valori comunemente accettati e approvati. Qualche esempio potrà essere significativo. È stato notato che, fino alla fine del V secolo, i Greci vedono e rappresentano come individuale solo ciò che è fuori della norma, cioè il brutto. La bellezza, che rappresenta la norma, non è mai descritta, è affermata e basta. Tutt’al più, in alcuni casi, si considerano le varie parti del corpo per definirle come particolarmente robuste o gagliarde o possenti. Le cose, come si è detto, vanno diversamente per quanto riguarda ciò che è brutto e deforme, come il personaggio di Tersite in Iliade 2, 212 ss. Preziose testimonianze troviamo anche per quanto riguarda il ruolo delle singole persone: queste ne ricoprono uno in quanto sono inserite in un complesso di dati genealogici, per esempio, per cui assume particolare importanza sapere chi furono e cosa fecero gli antenati, conoscere insomma qual è il contesto della tradizione nel quale ci si aspetta che il singolo operi. Da ciò l’uso, tipico dell’epica, di presentare i singoli per mezzo di una narrazione genealogica che può anche essere ampia ed è proposta secondo leggi e regole note e studiate. Corrispondentemente accade che si assista quasi ad una perdita di identità da parte di chi, per qualunque motivo, venga privato del supporto che il contesto genealogico e sociale in cui era inserito gli forniva. Odisseo, nel libro 11 del poema, scende agli inferi e, fra le altre, incontra l’ombra di Achille. Odisseo dichiara la propria ammirazione nei confronti dell’eroe per la sua morte gloriosa, ma Achille gli risponde con le famose parole nelle quali afferma che preferirebbe essere un servo, ma vivo, piuttosto che il re dei morti (vv. 489-91). Si tratta ovviamente di un discorso assai grave, soprattutto perché fatto da uno che aveva preferito una vita gloriosa seppur breve, ad una più lunga, ma oscura. Di questo apparente sovvertimento di valori che si dà in Achille si possono capire le ragioni quando, alla sua domanda relativamente al padre Peleo e al figlio Neottolemo per sapere se l’uno gode ancora del rispetto e del prestigio di un tempo e se l’altro si è conquistato la gloria in guerra, Odisseo risponde narrando le imprese del
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figlio. La risposta dà gioia ad Achille e sembra placare il suo rimpianto per la vita perduta; a conferma di ciò il suo allontanarsi dal colloquio con Odisseo viene descritto con le stesse parole che Omero usa per l’incedere tipico degli eroi quando percorrono il campo di battaglia: «andava a grandi passi» sul prato asfodelio (v. 539). A questo punto due cose si devono notare: prima di tutto che Achille non solo della gloria del figlio aveva chiesto, ma anche del prestigio del padre; in secondo luogo può parere strano che il rimpianto per la vita perduta possa esser cancellato dalle notizie che Odisseo fornisce su Neottolemo. Che cosa significa tutto ciò? Teniamo presente che Achille pochi versi prima (v. 475 s.) ha definito le ombre dei morti come aphradées, “inconsapevoli”, “prive di sentire”; per cui, a questo punto pare naturale concludere che Achille, grazie alle notizie di Odisseo, riacquista, sia pure parzialmente, la consapevolezza di quel continuum genealogico di rinomanza e di prestigio nel contesto del quale anche la sua gloria e rinomanza può sussistere, e si riappropria in qualche modo della sua personalità; cioè, in altre parole, può tornare a vivere, un fatto che Omero esprime appunto atteggiando il suo andare da morto sul modello di quello dei viventi. Ma non solo i morti possono essere aphradées, “inconsapevoli”. Lo stesso, sempre nell’Odissea, vediamo accadere a Telemaco. Quella parte del poema più strettamente relativa al figlio di Odisseo è stata giustamente definita «educazione di un principe», narra cioè come un giovane, ignaro del proprio lignaggio e del significato che la propria genealogia ha per lui, può acquistare consapevolezza di tutto ciò e può alla fine combattere da prode accanto al padre contro i pretendenti. Da questo punto di vista pedagogico il ruolo che avrebbe dovuto essere ricoperto dal padre, a cui spetta l'educazione del figlio, viene svolto dalla dea Atena che si reca alla reggia di Itaca sotto l’aspetto di Mente. Dopo che la dea ha assicurato (libro 1, 206 ss.) il giovane riguardo a ciò che significa per lui esser figlio di Odisseo — anzi, per prima cosa lo rassicura del fatto che egli è veramente figlio di Odisseo — il comportamento del giovane cambia completamente, e Telemaco, quando nel libro terzo incon-
tra Nestore, gli proclama apertamente la propria paternità, secondo la maniera abituale degli eroi omerici di presentarsi. Alla luce di quanto osservato poco sopra, anche il caso di Telemaco può esser capito: anche lui, privo di un padre che lo renda consapevole del suo ruolo, un padre che è creduto morto senza gloria e che quindi questa gloria non ha potuto lasciare come motivazione di un ruolo e di una posizione da ricoprire, è aphradés, non è nessuno; da ciò il primo atto della dea Atena: parlargli del padre e porgli nella memoria quello che il padre è e che quindi anche lui deve essere. Questo in Omero. Presso i lirici — almeno in buona parte dei monodici — il contesto gentilizio perde questo carattere condizionante nei confronti della possibilità, da parte dei singoli, di affermarsi per il proprio valore intrinseco, anche se è ovvio che le ascendenze, le gesta degli antenati possono costituire ancora una realtà con cui occorre misurarsi; non costituiscono però, ripetiamolo, un elemento così fortemente condizionante.
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Detto questo bisogna tener presente, com’® ovvio, che, anche se la
lirica si caratterizza per questo importante elemento di novità nei con-
fronti della produzione letteraria precedente, ognuno dei poeti che praticò questo genere ebbe modi propri di atteggiarsi nei confronti di questa novità, maniere proprie di servirsene e di adattarla alle proprie esigenze. Indicare nella forma più precisa e documentata questi modi e maniere è in genere un compito difficile e assai delicato. Infatti, questa più libera affermazione della personalità dei singoli nel concreto dell’operare poetico corrisponde a un altro genere di libertà: quello di prendere posizione, in maniera che intende proporsi come autonoma e libera da condizionamenti, nei confronti del mondo e dei problemi che l’esservi comporta, dei valori che l’operarvi impone di assumere. Ciò, ovviamente, è possibile cogliere anche nell’epica, ma lì il singolo — sia esso il poeta o il personaggio che parla per lui — non assume posizioni che siano estranee alle convenzioni del contesto sociale. È il primo Esiodo che apre la strada alla ricerca di modi per esprimere più direttamente il suo animo quando, in evidente contrasto con il conformismo dell’aedo omerico, distingue e oppone se stesso, le sue convinzioni ai valori di altri, quando proclama il suo insegnamento come diverso e capace di rendere diversi. In questo, nonostante gli strumenti espressivi siano ancora quelli usati dall’epos, la sostanza della poesia di Esiodo appartiene molto di più al mondo della lirica che a quello dell’epica. 7. L’io del poeta Tale atteggiamento di distinzione dell’io del poeta nei confronti del mondo circostante rappresenta dunque un tratto che accomuna tutta la lirica, quali che possano essere i gradi di immediatezza e i condizionamenti che i codici espressivi e le regole delle varie specie di lirica impongono. Si tratta, in sostanza, di un’eredità esiodea, come ci siamo sforzati di mettere in chiaro; ma anche di un deciso progresso che questa eredità subisce, un progresso che assume le caratteristiche più vistose negli elementi di genere formale. La lirica non solo porta ad un ulteriore sviluppo l’adattamento della lingua epica alle proprie esigenze, ma adotta forme metriche nuove, varie, sottoponendole a continue rielaborazioni, qua-
si alla ricerca di strutture adeguate ai differenti contenuti. Questo era un passo che Esiodo non aveva compiuto. Questo complesso di fatti, come d’altronde abbiamo ripetutamente detto, rappresenta una novità talmente grande e, nell’esatta determinazione delle sue caratteristiche, talmente ricca di problemi che vale la pena di considerarla ancora un po’, almeno in uno dei suoi aspetti più fortemente caratterizzanti, quello della corrispondenza fra l’io reale e l’io poetico. Si tratta, in altre parole, di cercare un criterio e una misura per capire se e fino a che punto, quando il poeta parla in prima persona, si debba o si possa presumere che fa autobiografia e intende esprimere idee che egli nutre, fatti che ha vissuto, sentimenti che ha provato.
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Abbiamo visto che i Greci delle epoche immediatamente seguenti a quella della lirica non avevano dubbi a proposito del carattere autobiografico dei contenuti poetici e questo rappresenta un presupposto largamente accettato per parte della critica moderna; esistono perd, in proposito, anche dei dubbi che trovano la loro piena giustificazione nel fatto che proprio un ampio settore della produzione lirica — fra l’altro quello che noi conosciamo meglio, cioè la lirica encomiastica corale — conosce un uso abbastanza convenzionale dell’io poetico, un uso della prima persona che si chiama impersonale o generalizzante, proprio perché nasconde l’intento di proporre con particolare vigore dei contenuti ai quali il poeta intende attribuire valore di universalità. E un modulo, quindi, che spiega assai bene la presenza, nei contesti poetici, di esortazioni o ammaestramenti connessi con una particolare partecipazione del poeta ai fatti narrati e alle riflessioni da questi suggerite. Disgraziatamente le conclusioni che sono state tratte relativamente alla presenza della componente personale nella lirica corale non possono essere automaticamente estese anche alla lirica monodica dal momento che, in questa, la forma personale non è usata soltanto per esprimere esortazioni
o ammaestramenti o, anche, riflessioni che abbiano un valore
di universalità o un carattere paradigmatico. Nella poesia monodica l’elemento espresso in forma personale e soggettiva coinvolge spesso persone precise, luoghi determinati, circostanze specifiche, talora a noi noti tramite anche categorie diverse di documentazione, così che appare chiaramente impossibile pensare che sempre e in ogni caso la menzione di queste persone, fatti, circostanze prescinda da una realtà effettiva. Ciò, ovviamente, senza compromettere la possibilità che a questa realtà il poeta dia un carattere di esemplarità. In altre parole dunque, e per riassumere, il rapporto di convenzionalità che si è scoperto esistente nella lirica encomiastica corale fra la forma personale e i contenuti che questa forma trasmette non è lo stesso che viene presupposto fra i medesimi due elementi nella lirica monodica. Vediamo come si presenta, nel concreto, questo problema presso un poeta che, anche da questo punto di vista, è stato oggetto di più attenta considerazione: Archiloco. Nel famoso fr. 5 West il poeta racconta di aver una volta abbandonato il suo scudo in battaglia e commenta il fatto osservando che nulla gli importa di quella perdita dal momento che è riuscito a salvare la vita e potrà sempre procurarsene un altro. Questo testo, insieme al fr. 114 West, nel quale il poeta dichiara di essere indifferente davanti alle qualità esteriori di un condottiero, ma di preferire
chi, anche se non maestoso, sia tuttavia un buon soldato, ha sempre rappresentato il fondamento su cui la critica ha basato l’interpretazione dell'ideale antieroico e antiomerico incarnato da Archiloco. Ebbene, un illustre studioso, K.J. Dover, si è chiesto: «Siamo sicuri che Archiloco in
persona gettò via il suo scudo in battaglia?». Il dubbio in sé è perfettamente legittimo: noi sappiamo infatti che altre volte frammenti del medesimo Archiloco proposti in prima persona, e quindi tali da sembrare narrare fatti accaduti all’autore o esprimere idee e convincimenti suoi, erano invece relativi a personaggi introdotti dal poeta nel suo contesto
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(cfr. per esempio il fr. 19 riguardo al quale Aristotele, Ret. 1418 b 23, che lo cita, ci dà anche il nome del personaggio che lo pronunziava). Di conseguenza, in linea teorica, è perfettamente legittimo il dubbio che questo vanto di aver abbandonato lo scudo fosse pronunziato non dal poeta, ma da un personaggio introdotto nel suo testo. È anche chiaro, però, che al di là del dubbio non si può procedere finché, come si è detto, non si riescono a recuperare i termini precisi dell’eventuale convenzionalità che governa la forma espressiva. In caso contrario possiamo vedere ciò che è suscettibile di accadere. Il primo dei frammenti di Archiloco che compare in tutte le raccolte è quello famoso io sono seguace del dio Enialio (Ares) e conosco l’amabile dono delle Muse
che Ateneo, Deipn. 627 c, che lo cita, fa precedere da queste considerazioni: «Archiloco, che era buon poeta, per prima cosa si vanta della sua partecipazione alle lotte politiche, come seconda rammenta le sue capacità poetiche». Da sempre si sono versati fiumi di inchiostro sul poeta-
soldato Archiloco partendo proprio dal fatto che, fra le novità più importanti della lirica, c'è quella che i poeti non erano più poeti professionali. Ma che fare se anche a proposito di questo frammento si dovesse avanzare il dubbio che Archiloco parli di sé? E come e dove stabilire la linea di demarcazione che distingua quanto è veramente autobiografico da ciò che non lo è? I dubbi che l’io archilocheo suscita sono aumentati ancora da quando nel 1974 è stato pubblicato un nuovo testo papiraceo, il cosiddetto epodo di Colonia, di contenuto non difforme da quelli prediletti dal poeta di Paro. Vi si parla assai realisticamente dell’opera di seduzione nei confronti di una ragazza, con narrazione in prima persona del seduttore. La letteratura critica, come capita in questi casi, è ormai imponente, ma i problemi insoluti rimangono ancora molti, alcuni dei quali, di importanza fondamentale, sono assai sconcertanti; per esempio: la scena si svolge in un prato, all’aria aperta, il che significa che per una ragazza del VII secolo dobbiamo presupporre una libertà di movimento per noi inaudita e inspiegabile. Ancora: l’inizio del componimento è perduto ma è certo che, fra le altre cose, esso doveva contenere le profferte d’amore del seduttore; ebbene, che cosa risponde colei che è oggetto di queste attenzioni? Che se proprio l’innamorato non può trattenersi, po-
trebbe sposare la sorella! Il poeta (o colui che parla) oppone che non vuole sposare la sorella, bensì lei, e detto questo la adagia sui fiori del prato; segue la descrizione di un non del tutto chiaro rapporto sessuale. Ora si deve ammettere che il tutto appare estremamente sconcertante, anche se, com’è ovvio, usiamo questa parola non in senso moralistico,
bensì puramente interpretativo. Non è infatti sufficiente, come da più parti si fa, prendere atto della spregiudicatezza di Archiloco e non scandalizzarsi. Non scandalizzarsi non significa capire, dal momento che di questa spregiudicatezza noi non conosciamo né i presupposti né le motivazioni storico-culturali. Ovviamente, hanno ragione tutti coloro che ri-
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fiutano il facile cliché di un Archiloco poeta scandalistico e libertino, quello, tanto per intendersi, proposto da Crizia e da Aristotele, ma, ripetiamo, l’accettazione della realtà di fatto non equivale a capire e, bisogna riconoscerlo, noi non capiamo. Altra scappatoia che talora viene proposta dinanzi a queste nostre aporie è quella di invocare il carattere estemporaneo di molta poesia lirica e il fatto di essere composta per uditori particolari, costituiti da compagni di milizia (come nel caso di Archiloco) o da ristrette consorterie, per persone cioè nei confronti delle quali si poteva usare un codice particolare che esse erano pienamente in grado di capire. Un po’ come quando, in una riunione di persone dello stesso sesso, ci si può lasciar andare un po’ di più. Ovviamente — a prescindere dalla plausibilità in sé dell’ipotesi (la difficoltà maggiore è data dalla modalità di conservazione di un tipo di letteratura nata sotto il segno e con le caratteristiche dell’effimero) — in questo modo il problema si sposta, non si risolve, e resta la difficoltà costituita dalla nostra ignoranza delle convenzioni che vigevano in tali consorterie o come si voglia chiamarle. Ed è forse appena necessario aggiungere che difficoltà di questo genere non si frappongono soltanto alla comprensione della poesia archilochea. 8. La nuova metrica
Se da un punto di vista dei contenuti le caratteristiche più vistose della lirica sono quelle fin qui esposte, da un punto di vista formale ciò che colpisce è la grande varietà dei metri a fronte dell’uniforme successione degli esametri epici di Omero ed Esiodo. La capacità di variare diventa anzi, da un certo momento in poi, un pregio che il poeta persegue per le proprie composizioni. Noi sappiamo per certo, per esempio,
che né Pindaro né Bacchilide hanno mai composto due epinici nello stesso metro. Diciamo gli epinici perché sono l’unico genere di composizioni dei due di cui possiamo parlare con qualche sufficiente cognizione. È da dire che, pari alla nostra ignoranza dei motivi per cui ad un certo punto irrompe nella poesia la personalità del poeta, è quella relativa all’origine dei metri che i lirici usano e che la tradizione dell’epica ignorava. È opinione abbastanza diffusa che questi metri fossero di origine popolare, allo stesso modo in cui si suppone che, a livello popolare, sia sempre esistita una poesia che potremmo chiamare lirica; testimonianze abbastanza chiare di questa esistenza si trovano nell’epica omerica (cfr. supra il capitolo sull’Epica e la poesia didascalica). L'assunzione a dignità letteraria di tale poesia fu dovuta alla produzione di grandi personalità. Certo è che anche i metri della lirica, qualunque sia stata la loro origine, si presentano a noi, fin dalle più antiche attestazioni letterarie, come strumenti molto raffinati e perfezionati, di alto livello tecnico e validità espressiva. Accade abitualmente che, per comodità, si pubblichino i frammenti dei poeti lirici sulla base proprio delle affinità dei metri, dando un po’ per scontato il presupposto che metri simili fossero usati per dare
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espressione a contenuti simili. I criteri sono in genere i seguenti: componimenti in metro elegiaco, cioè quelli composti in distici, praticamente una piccola strofa costituita da un esametro dattilico e da quello che comunemente si chiama pentametro (formato da due hemiepe, cioè da due componenti, che si susseguono, costituiti dalla prima metà di un esametro fino alla cesura pentemimere); i metri giambici; i metri trocaici; gli epodi, che si presentano nell’alternanza di un verso lungo e di uno più breve. C’erano poi le varie forme di strofe, cioè delle strutture costituite da più versi che si succedevano regolarmente ripetute più volte; queste erano usate per lo più dai poeti eolici, Alceo e Saffo. Di fatto però non sempre noi riusciamo a scorgere precise e costanti differenze fra componimenti scritti in metri diversi, e si ha la sensazione che gli antichi non sentissero le differenze metriche come
rigidamente
corrispondenti a diversità di contenuti o, come minimo, di toni. Noi siamo in grado di dire, per esempio, che in genere il distico elegiaco era destinato a contenuti di carattere parenetico (Callino, Tirteo) o didascalico (Teognide), e che si evitava di usarlo per trattare certi temi come il sesso, il cibo o le invettive violente, per tutti i quali invece si preferiva usare i metri giambici o trocaici. Una sensibile differenza però non è possibile coglierla, almeno per noi, fra certi metri come quelli giambici, trocaici e gli epodi. 9. Archiloco
Di questo poeta si è avuto modo di parlare più di una volta nelle pagine precedenti, e i motivi sono abbastanza semplici a dirsi: Archiloco assomma in sé un’ampia esemplificazione dei problemi che la lirica presenta ed è al contempo la prima personalità di poeta lirico che a noi sia sufficientemente nota. Con Archiloco, inoltre, la lirica si presenta a noi nella pienezza del suo essere e dei suoi caratteri peculiari; con Archiloco assistiamo all’esplodere dell'abbondanza e varietà dei metri; Archiloco è il primo poeta che canta i temi più personali e tratta argomenti a cui l’epica, nella sua pruderie, nemmeno accennava, colui che, apparentemente libero da ogni tabù o ritegno, parla dei suoi sentimenti, delle sue passioni, dei suoi odi e dei suoi amori. In altre parole Archilo-
co, il vero iniziatore dell’età della lirica, assomma in sé più di chiunque altro i tratti caratteristici dell’epoca e del genere letterario. A tutto ciò si aggiunga che Archiloco fu veramente un grande poeta. Siamo in grado ora di elencare i motivi che permettono la sua collocazione cronologica: la menzione di un’eclissi, quella del 6 aprile 648 a.C. e il sincronismo con Gige, re di Lidia (circa 687-652 a.C.), la men-
zione di certi eventi militari che noi conosciamo. Molti dei fatti della sua vita erano narrati da lui stesso (cfr. supra, a proposito di Crizia, pp. 86 s.), altri, più o meno attendibili, erano conservati da una ricca tradizione
biografica, e anche buona parte di questi sarà stata desunta, non si sa con quali fraintendimenti e con quante forzature, dalle sue stesse poesie. A questo proposito è interessante ricordare che l’antichità non assunse
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mai un atteggiamento univoco nei confronti del poeta; non tutti, in altre parole, condividevano i sentimenti di scandalo di Pindaro, Crizia, Aristotele, Giuliano (cfr. supra, p. 87 s.): alla metà del III secolo a.C. risale una lunga epigrafe, ritrovata nel 1949 a Paro, patria di Archiloco, in cui un altrimenti ignoto Mnesiepes narra di aver ricevuto da un oracolo di Apollo l’ordine di innalzare un témenos in onore di alcune divinità e di Archiloco per i suoi meriti di poeta e per le sue benemerenze nei confronti della patria. Alla parte dedicatoria segue un ampio racconto della vita del poeta fondato su citazioni e riferimenti alle sue poesie. L’esistenza del sacrario e dell’iscrizione dimostra come minimo che in epoca ellenistica, caduti certi pregiudizi moralistici, di Archiloco si sapevano apprezzare le qualità poetiche in sé. Meno facile a spiegarsi, ovviamente per mancanza di informazioni, questa particolare venerazione da parte di Mnesiepes. Come si è detto, la personalità di Archiloco fu particolarmente ricca, pronta a farsi coinvolgere profondamente e appassionatamente nei non pochi eventi che la sua vita traversò, eventi che il poeta sembra abbia registrato nelle sue poesie. E ciò sia detto tenendo ben presenti i criteri di cautela che, riguardo a questa componente autobiografica della lirica, abbiamo avuto modo di esporre (cfr. supra pp. 90 ss.). D'altronde è doveroso anche non dimenticare che qualunque possa essere l’attendibilità della componente autobiografica della poesia archilochea, i suoi principi di poetica ne presupponevano la presenza e la nostra valutazione della sua produzione come opera d’arte non può rimanere influenzata né tanto meno condizionata dalla veridicità o meno di tale componente. Nato
nell’isola
di Paro,
Archiloco
aveva,
per
tradizione
familiare,
stretti rapporti con un’altra isola, Taso; un luogo questo che egli non amava, allo stesso modo in cui Esiodo non aveva amato Ascra (sarà casuale?); di Taso Archiloco diceva (fr. 21 West): «sta come la schiena di
un asino, coronata da una foresta selvaggia»; e ancora (fr. 22 West): «il posto non è bello, né desiderabile, né amabile». A Taso comunque dovette trasferirsi, spinto dalla povertà, e si diede alla vita del mercenario, vivendo una vita, come ben si capisce, assai diversa da quella dei guerrieri omerici per i quali la guerra era un mezzo per acquistarsi la gloria. Per Archiloco era invece una maniera per guadagnarsi da vivere, un mestiere da esercitare come qualunque altro, e di tutto ciò i suoi frammenti recano ampia testimonianza.
All’elemento erotico della poesia archilochea abbiamo avuto modo di fare ampi riferimenti; qui varrà solo la pena di aggiungere che l’eros di Archiloco manca completamente di qualunque abbandono, di qualunque tono di tenerezza: per lui l'amore o è forza devastante o è eros puramente fisico. A rendere più rabbioso e meno sereno il suo atteggiamento verso questo sentimento contribuirono certamente i suoi presunti rapporti con Licambe e sua figlia Neobule a causa di una promessa di matrimonio non rispettata da parte del padre della ragazza. Secondo la tradizione, la reazione di Archiloco — che si serviva della poesia come di un’arma — sarebbe stata così violenta da spingere i fedifraghi al suicidio. Ad
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una fase di questo rapporto con Licambe e le sue figliole pare si riferisca anche il problematico epodo di Colonia di cui abbiamo visto. È opportuno infine fermarsi sui mezzi espressivi della poesia archilochea. L’anonimo autore del Sublime (13, 3) definiva Archiloco, insieme ad altri autori, come «omericissimo» e lo studio della sua dizione ha confermato in pieno questo giudizio. Archiloco dipende direttamente dal linguaggio dell’epica ma è anche da dire che nei confronti di questo ha operato un imponente lavoro di adattamento alle esigenze nuove del suo mondo poetico, in ciò portando avanti un processo che era già incominciato con Esiodo e che l’innalzamento a dignità letteraria di forme metriche differenti dall’esametro epico aveva contribuito a far procedere. Tale è l’entità del patrimonio della dizione epica ereditato da Archiloco che qualche studioso ha pensato di sostenere che il suo modo di far poesia fosse sottoposto alle medesime leggi dell’oralità alle quali lo stesso studioso pensava avesse obbedito anche la poesia omerica. Ciò probabilmente non è vero — come probabilmente non è vero il presupposto, cioè che l’epica fosse completamente orale —, ma per quanto riguarda il rapporto di Archiloco e Omero i dati che, si può dire quotidianamente, emergono dalle indagini degli studiosi sono di grande importanza. Si è constatato, per esempio, che la scena di seduzione descritta nell’epodo di Colonia riprende la sua struttura da un’analoga scena omerica, la Diös apâte di Iliade 14, e che il “contrasto” fra la fanciulla e il suo seduttore che occupa i vv. 2-10 del medesimo epodo ha il suo modello in un passo dell’ambasceria ad Achille, in Iliade 9. Questi risultati hanno costretto ad abbandonare l’antica convinzione di impronta romantica, relativa ad un Archiloco che si era creato ex novo gli strumenti per la sua nuova maniera di far poesia. Molto più plausibilmente noi sappiamo ora che le “novità” sono il risultato, sapientemente raggiunto, di una meditata rielaborazione di quanto era tradizionale. 10. Semonide e Ipponatte In prossimità di Archiloco è opportuno collocare questi due poeti per un tratto che li accomuna significativamente al grande poeta di Paro, il fatto di aver praticato quel genere di poesia che si chiama giambico, cioè l’invettiva e la polemica. Semonide lo si dice comunemente di Amorgo (un’isola delle Cicladi) ma forse era nato a Samo; ad Amorgo si deve essere trasferito come colono. Per il resto di lui sappiamo ben poco, ed anche la sua collocazione cronologica (seconda metà del sec. VII a.C.) è probabile, non sicura. Come per Archiloco, anche a proposito di Semonide la tradizione ci conserva il nome di Orodecide come di una persona contro la quale si sarebbero appuntati gli strali polemici del poeta, ma, a differenza di quanto accade per Archiloco, i suoi frammenti non conservano notizia di ciò. Il brano più lungo che noi possediamo delle sue poesie è un frammento di 118 versi di un’invettiva contro le donne (fr. 7 West). Indub-
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biamente saranno state composizioni come questa che hanno fatto sì che il poeta venisse qualificato come giambografo; ma probabilmente non è solo questo il genere poetico che egli coltivò: a lui sono attribuiti anche altri brani (per es. fr. 1 West) improntati al tema, diffuso nella poesia greca arcaica, della pochezza dell’uomo e la fragilità della sua fortuna. Comunque, per tornare al più famoso brano, la tirata contro le donne, si deve dire che non si tratta di grande poesia. Si usa porre questo testo e le idee in esso contenute in rapporto con la posizione che per primo, a quanto sappiamo, appare essere stata assunta da Esiodo nei confronti
del sesso femminile (cfr. Theog. 590 ss.). In realtà le analogie esteriori esistono (per es., il paragonare le donne ad animali) e si usa anche individuare l’origine di questo atteggiamento in modi di pensare e in pregiudizi popolareschi. L’ipotesi è molto facile e trae la sua legittimazione da un complesso di presupposti che si danno comunemente come scontati: che Omero, in cui non compare traccia di misoginia, rispecchia ideali nobili e cavallereschi, che la componente popolaresca nella poesia esiodea è molto forte, che l’atteggiamento antifemminile ha una ricca documentazione come modo comune di pensare anche nella letteratura posteriore. Effettivamente nel brano di Semonide contro le donne una componente popolaresca può essere sostenuta, ma quello che interessa non è la presenza, bensì l’uso che il poeta sa fare di questa componente. Se si guarda bene, presso Semonide, a differenza di Esiodo, tale elemento non appare connesso con un’approfondita meditazione sul mondo e sul posto che l’uomo occupa in quello: tutto resta ad un livello di indubbia piacevolezza ma senza alcuna profondità. In Semonide appaiono sicuramente attraenti e dettati da un arguto senso dell’osservazione il paragone dei vari tipi di donna con differenti animali e la caratterizzazione dei difetti in analogia con l’indole dei differenti animali, ma — forse anche perché
il brano è avulso da un contesto che poteva illuminarne meglio il significato — oltre questo limite sembra che il poeta non proceda. Di ben altro spicco è la personalità di Ipponatte di Efeso e, soprattutto, quel poco che di questo poeta conosciamo offre problemi di interesse assai maggiore. Per certi tratti le vicende poetiche e biografiche di Ipponatte presentano una forte analogia con quelle di Archiloco, del quale fu probabilmente posteriore di un secolo (seconda metà del VI secolo a.C.); ambedue vissero ed operarono nell’area di cultura greca delle co-
lonie dell’est, di ambedue la tradizione conserva memoria di feroci attäcchi polemici; se Archiloco aveva indirizzato i suoi strali contro Licambe e le sue figliole, Ipponatte se la sarebbe presa soprattutto contro due pittori, per altro a noi noti da altre fonti, Bupalo e Atenide di Chio. Infine, sia riguardo ad Archiloco che ad Ipponatte, la tradizione ci conserva un’immagine un po’ come di poeti maledetti, inclini a comporre in tono e su temi non perfettamente castigati. Per quanto riguarda però la fortuna dei due, si deve osservare che, mentre Archiloco, nonostante le avversioni che si era procurate, entrò a far parte del repertorio rapsodico (il che vuol dire che le sue poesie furono assunte in certo qual modo in
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
una specie di canone ufficiale: cfr. Platone, /one 530 d s.), pare che la vera fortuna di Ipponatte sia esplosa solo in età ellenistica e che suoi estimatori fossero i filologi e i poeti ellenistici. Questa valutazione, se ben interpretata, costituisce la prova definitiva di quello che, anche sulla sola base di criteri generali e alla luce del semplice buon senso, appare di per sé plausibile: non è accettabile seguire semplicistici criteri di puro biografismo per cui, se un poeta tratta di certi argomenti scabrosi e in modo aperto e diretto, deve accadere necessariamente che non solo le sue qualità morali, ma anche le capacità poetiche debbano essere adeguate a quei temi. In conseguenza di questi presupposti si è parlato a lungo di Ipponatte come di un poeta rozzo e volgare, un poeta che avrebbe sciupato la bellezza della lingua letteraria tradizionale mescolandovi elementi di origine non greca, parole di lingue microasiatiche usate come strumenti espressivi popolareggianti e volgari. È indubbio che Ipponatte si formò strumenti espressivi nuovi e questo anche per mezzo dell’utilizzazione di elementi non canonizzati dalla tradizione, ma non sarà difficile riconoscere che operazioni come questa,
se artisticamente valide — e il valore alla poesia ipponattea non può esser negato — ben lungi da rivelare rozzezza, rappresentano il risultato di raffinate operazioni di alta capacità letteraria. E tutto questo i poeti alessandrini, a cominciare da Callimaco, spesso alla ricerca programmatica di tutto ciò che era raro, raffinato, ricercato, erano ben in grado di capirlo, per cui si può ben spiegare la fortuna di Ipponatte presso di loro. Fra le novità introdotte da Ipponatte pare debba essere annoverato un tipo di verso giambico che viene comunemente chiamato coliambo o scazonte, costituito da un normale trimetro giambico in cui l’ultimo piede presenta una lunga al posto della breve e il ritmo si muta conseguentemente in trocaico, il che dà al verso un andamento spezzato, appunto zoppicante. Questo verso, anche se non inventato da Ipponatte, fu, per quanto noi siamo documentati, usato da lui per primo; poi, ed è significativo, fu ripreso appunto in epoca ellenistica. I temi della poesia ipponattea riguardano quasi esclusivamente i suoi sentimenti del momento: la povertà, le sue inimicizie, l’amore, un eros descritto a tinte molto forti. Quello che sembra proprio di Ipponatte — almeno per quanto noi sappiamo e che lo distingue da Archiloco — è l'apparente rifiuto ad allargare lo sguardo e l’attenzione al di là del momento, del suo io, dell’esperienza particolare che provoca la sua reazio-
de. E ciò forse spiega anche la mancanza — e si tratta di un altro elemento che lo distingue da Archiloco — di ogni interesse per la politica. Archiloco, oltre alle sue proprie passioni, aveva sentito anche i problemi della sua comunità politica, e dalle vicende vissute e sofferte aveva saputo, per esempio, proporre sagge esortazioni ai suoi concittadini; dai casi suoi personali aveva allargato la riflessione sull’alternarsi delle sorti umane che condizionano la vita dell’uomo (cfr. per esempio frr. 128 e 130 West). Di tutto ciò la tradizione relativa ad Ipponatte non ci ha conservato nulla.
La lirica
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11. L’elegia Con le più antiche attestazioni di questo genere di poesia lirica torniamo al VII secolo a.C., all’epoca di Archiloco. L’elegia, come si è detto, ha una sua forma metrica (esametro dattilico seguito da due hemiepe; l'insieme costituisce il distico elegiaco) ed anche un suo genere di contenuti e quindi di utilizzazione (sebbene né gli uni né l’altro esclusivi), quelli connessi alla parenesi e agli ammaestramenti; e ciò già in Archiloco (cfr. per esempio fr. 13 West). Questo significa, in altre parole, che fra le varie possibilità di espressione diretta della personalità del poeta che la lirica consentiva, l’elegia era particolarmente destinata ad assolvere il compito di strumento dell’opera educativa che la grecità riservò sempre ai poeti.
Il primo elegiaco che noi conosciamo è Callino di Efeso; anch'egli, dunque, appartenente alla grecità dell’est. Contemporaneo di Archiloco, di lui possediamo ben poco, ma per fortuna fra i pochi resti ci è conservato un componimento di circa venti versi (fr. 1 West), quindi di estensione tale da darci un’idea della sua arte. Callino visse da vicino un’esperienza assai importante per tutti i popoli dell’area orientale, l'invasione dei Cimmeri, una popolazione stanziata a nord del Mar Nero che all’inizio dell’VIII secolo si era messa in movimento verso sud-ovest. Una vittima illustre di questa invasione fu il re Gige di Lidia (652 a.C.), per cui, caduto il baluardo della Lidia, i Cimmeri poterono invadere la Ionia. Cadde Magnesia sul fiume Meandro ma Efeso resistette finché una pestilenza scoppiata nell’esercito degli assedianti non li costrinse ad abbandonare l’impresa. Ebbene, il lungo brano poetico di Callino in nostro possesso contiene un’esortazione ai combattenti a resistere contro i nemici. La prima e più chiara impressione che questo suscita è la forte dipendenza dall’epos omerico; e tale dipendenza non solo appare dalla somiglianza del metro elegiaco con l’esametro dell’epica, quindi dal punto di vista formale, ma si assiste anche allo sforzo, da parte del poeta, di adattare alla situazione presente le idee, i pensieri, gli ideali del mondo omerico: per esempio, il richiamo all’ineluttabilità della morte, anche per chi può vantare illustri antenati divini, è un pensiero tipicamente omerico (cfr. Callino vv. 13 ss., /liade 12, 322 ss.) e che avrà fortuna anche presso Stesicoro. Ancora: il concetto espresso ai vv. 20 ss., nei quali si paragona il combattente a una torre, mentre richiama un’immagine omerica usata a proposito di Aiace, rappresenta la prima estensione al di fuori dell’epica di un paragone che avrà grande fortuna, quello per cui i difensori della patria vengono ad assumere il ruolo di baluardi viventi, di vive fortificazioni della città. Dalla grecità dell’est a quella della madrepatria. A Sparta Tirteo, all’incirca contemporaneo di Callino (metà del VII sec. a.C.), cantò in metro elegiaco i fatti della seconda guerra messenica (combattuta intorno al 630 a.C.), provocata dalla ribellione delle popolazioni che abitavano questa parte della Laconia, che appunto diede nome alla guerra, contro il dominio di Sparta. I frammenti delle poesie tirtaiche che a noi sono arrivati contengono esortazioni belliche e parenesi politica. È tradizione
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che anche in epoca assai più tarda i giovani soldati spartani usassero cantare le poesie di Tirteo come canti marziali. La lingua e i mezzi espressivi di cui Tirteo si serve sono quelli dell'epica omerica, segno che, anche in aree di civiltà assai diverse, l’epica omerica rappresentava ormai il sostegno di una koiné culturale la cui accettazione aveva caratteri di universalità. Ciò ha alcuni chiari significati: prima di tutto testimonia del grado di cultura di Sparta arcaica; rappresenta poi una prova della sostanziale unità culturale che, come elemento dell’eredità micenea, caratterizzava ancora la grecità del VII secolo; un fatto, quest’ultimo, non facilmente spiegabile nemmeno per i Greci dei secoli immediatamente seguenti, quando si iniziò la riflessione critica sulla cultura letteraria e non si capiva, alla luce delle divisioni e dei solchi che andarono aprendosi nella storia posteriore della cultura greca, come un poeta dorico potesse rivolgere un messaggio patriottico ai propri concittadini usando la lingua e i mezzi espressivi di un tipo di poesia sostanzialmente ionica. Una conseguenza di ciò fu che si cominciò a discutere della patria di Tirteo: lo si faceva ionico, se non addirittura attico. Qualcosa di simile vedremo che accadde anche al suo contemporaneo Alcmane. Tra i resti delle poesie di Tirteo che ci sono giunti sono notevoli quelli della cosiddetta Eunomia (frr. 1, 2, 4 West), in cui l’antica storia di Sparta veniva narrata nelle sue origini divine in funzione dell’esaltazione dell’ordinamento che reggeva lo Stato, e il medesimo tema delle origini divine di Sparta veniva da lui usato come motivo di orgoglio per i combattenti nell’incitarli alla guerra. Quello che ci è giunto di Tirteo non è molto, ma tuttavia sufficiente per farci un’idea della sua arte, che potremmo definire caratterizzata da una
semplicità
tipicamente
arcaica,
ma
non
certo
rozza.
Tirteo,
per
esempio, si sa servire con perfetta padronanza di quell’artificio che è la composizione anulare, caratteristica tipica della letteratura arcaica; possiede e domina il patrimonio espressivo dell’epica e sa piegarlo alle esigenze della parenesi bellica e patriottica: fra i modelli omerici sa scegliere perfettamente quelli funzionali ai propri scopi: per esempio, la guerra non viene mai presentata come occasione di pura e semplice affermazione di ambizioni e orgogli personali, ma come impegno doveroso di difesa della patria. Tirteo, insomma, è un poeta in perfetta armonia con quell’ideale di vita spartano fatto di totale dedizione alla patria e alle sue tradizioni che rappresentò con alterne vicende, per tutta la storia greca antica, un modello a cui tanti grandi spiriti si rifecero nostalgicamente. Di una generazione circa più giovane (seconda metà del VII sec. a.C.) di Callino, della non lontana Colofone (poco a nord di Efeso, sulla costa dell’Asia Minore) fu Mimnermo, un poeta che, a quanto la tradizione ci consente di dire, ha legato il proprio nome a quello che rap-
presenta il tema per eccellenza dell’elegia, l’amore. In lui nulla sembra
farci ricordare gli scopi parenetici perseguiti da Callino o Tirteo, nulla nemmeno di quella che sarà la tematica prediletta da un altro grande poeta elegiaco, Solone. Gli antichi conoscevano, almeno sembra, due libri di composizioni elegiache di Mimnermo, uno dei quali era intitolato
La lirica
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Nannò dal nome della suonatrice di flauto che il poeta aveva amato; abbiamo poi qualche breve frammento di un componimento elegiaco intitolato Smirneide, a proposito del quale sappiamo con sicurezza soltanto che trattava di eventi relativi alla difesa della città di Smirne contro Gige re di Lidia (circa 680 a.C.), un fatto questo che ha indotto a pensare ad un preciso programma di Mimnermo di sostituire la storia al mito, tema tradizionale della poesia. Più numerosi i frammenti della Nannò. In questi il tema quasi esclusivo è l’amore, a cui si lega il mesto pensiero della brevità della giovinezza e quello della malinconia del vivere quando appunto la giovinezza lascia l’uomo. La cosa notevole non è tanto la presenza di questo tema in un lirico arcaico come Mimnermo (già in Omero, Iliade 6, 146 ss., si trova il paragone delle generazioni umane con le foglie, e Mimnermo ripete lo stesso paragone nel fr. 1 West), bensì l’assenza di qualsiasi correttivo a questa tendenza dolente e pessimistica. Ovviamente, non si vuole rimproverare a Mimnermo quello che in lui non c’è, soltanto si deve osservare, al fine di meglio intendere l'evoluzione letteraria di certi temi costanti nella produzione poetica greca, che Mimnermo rappresenta uno di quei casi in cui un elemento, già presente in Omero ed Esiodo, viene sviluppato e approfondito un po’ unilateralmente salvo poi, nei poeti delle età che seguiranno, trovare una più armonica contemperazione in una visione più completa, e anche complessa, del destino dell’uomo. Ciò diciamo in preparazione di quanto si avrà modo di osservare a proposito della più matura produzione della lirica corale dell’età classica (cfr. infra, pp. 110 ss.). Teognide di Megara è l’ultimo poeta della lirica arcaica che abbia usato il metro elegiaco come unico strumento espressivo, dal momento che anche un altro grande poeta, di non molto anteriore a lui, Solone, se ne servì, ma non in maniera esclusiva come appunto Teognide, e di lui vedremo a parte. Di Teognide si sa ben poco: anche della sua patria si dubita, dal momento che, diversamente dal resto della tradizione che lo fa nativo di Megara, fra Attica e Argolide, a poche diecine di chilometri a ovest di Atene, Platone (Leggi 630 a) indica come sua patria Megara Iblea in Sicilia, colonia fondata nell’ottavo secolo dall’omonima città dell’Attica. La sua cronologia si può collocare, come si è detto, intorno alla metà del VI secolo, come coetaneo più giovane di Solone. Teognide è l’unico dei poeti lirici di cui ci sia giunta tutta l’opera, anzi, come è stato argutamente osservato, abbiamo ‘troppo’ di lui, dal momento che certamente non tutto quello che ci è pervenuto sotto il suo nome gli appartiene. L’opera ci è stata consegnata dalla tradizione divisa in due libri, composti appunto in metro elegiaco, ma mentre per il primo, salvo singole interpolazioni, si è sicuri dell’autenticità, sul secondo si hanno serie e fondate riserve e, nel complesso, si può dire che Teognide è forse l’autore greco della cui opera è proporzionalmente maggiore la parte non autentica a noi pervenuta.
E questo è uno strano destino, dal momento che Teognide è il primo autore a noi noto che usa dichiaratamente a scopo di garanzia contro le falsificazioni quella che comunemente viene chiamata la sphragis, il sigil-
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lo. All’inizio infatti, ai vv. 19-23, egli dice rivolgendosi a Cirno, il destinatario della sua opera: «Cirno, a questi miei carmi, che compongo con sapienza / sia posto un sigillo, così non potranno restare nascosti se qualcuno li ruberà / né alcuno potrà cambiare in peggio quello che c’è di buono, / e si dirà “questi sono i versi di Teognide / di Megara” famoso fra tutti gli uomini». Ci si è chiesto, forse non appropriatamente, in che cosa consistesse il sigillo di cui parla Teognide; è probabile che la presenza in sé del nome rappresentasse il sigillo e che pronunziando quelle parole Teognide intendesse dire che i temi, i contenuti e gli ammaestramenti dei versi erano opera sua e che falsificazioni e alterazioni eventuali potevano essere svelate sulla base del criterio della coerenza. Teognide certamente non poneva mente ad un fatto molto semplice, e cioè che la forma che lui aveva scelto per esporre i suoi pensieri — dei gruppi di versi, talora senza alcun legame che li unisse, ma semplicemente giustapposti come in una serie di massime — favorì nelle epoche seguenti l'inserzione di materiale estraneo e di differente provenienza di cui si voleva raccomandare l’importanza mettendolo sotto il nome di un illustre educatore. E ciò avrà avuto inizio abbastanza presto, quando cioè l’opera dei poeti avrà assunto nella sua pienezza il ruolo di strumento di educazione — secondo il convincimento diffuso per esempio nel V secolo —, e pertanto si sarà sentita l'esigenza, a ragione o a torto non importa, di arricchire l’opera teognidea che questo ruolo educativo si proponeva come programma precipuo e quasi esclusivo. Pertanto Teognide, del ricco complesso di motivi e di temi la cui presenza costituisce — e ancor più costituiva per i Greci — una delle caratteristiche precipue dell’epica omerica e esiodea, riprende e sviluppa la componente più propriamente esiodea della parenesi. Anche lui, come Esiodo nelle Opere nei confronti del fratello, rivolge le sue parole ad un preciso destinatario, Cirno, un giovane che Teognide intende educare a tradizionali ideali aristocratici. Questa dipendenza programmatica da Esiodo è tale che qualche volta si possono riscontrare anche somiglianze di atteggiamenti e di espressioni come, per esempio, la seguente: Esiodo in Opere vv. 293 ss., con trasparente allusione a se stesso, ma struttu-
rando il suo dire in forma generale, aveva esaltato l'uomo che sa dare buoni consigli e nel corso di tutto il poema aveva ripetutamente espresso al fratello il proprio proposito e la propria capacità di dargli utili insegnamenti. Ebbene Teognide, con una ripresa anche formale dei vv. 293 ss, del poema esiodeo, dice a Cirno al v. 27 s.: «A te io, nella mia saggezza,
insegnerò quelle cose che, ancora
fanciullo, ho imparato
da
uomini dabbene». In altre parole Teognide pone se stesso nella tradizione di uomini capaci di insegnare agli altri, all’inizio della quale Esiodo, in certo qual modo, aveva collocato se stesso. Il contenuto dell’insegnamento di Teognide, come si è detto, è di forte impronta aristocratica; un tipo di insegnamento che continuerà, salvo alcuni importanti cambiamenti, nella lirica corale encomiastica del V se-
colo a.C. Teognide dimostra e dichiara un’aperta e dura avversione nei confronti dei mutamenti sociali che la nuova economia monetaria consente e favorisce con l’avvento al potere di nuove classi capaci di insidia-
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re fortemente il potere dell’antica aristocrazia. Ebbene, i lirici corali del V secolo non esprimeranno questa avversione, se non altro per il motivo che, nell’ambito della loro committenza non mancavano gli appartenenti a classi che si fondavano su quel nuovo tipo di potere, di recente formazione, che Teognide avversava, ma con la loro esaltazione della aretà
per nascita, in maniera non dichiarata, ma abbastanza esplicita, continuavano a muoversi nell’ambito di idealità che erano proprie di Teognide. Il contributo importante dato da Teognide alla cultura greca è rappresentato dai frutti del profondo ripensamento a cui sottopose tutto un complesso di concetti e di idee, e dei modi di esprimerli, afferenti all’ambito della vita sociale e della politica. Sostenitore di un ideale arcaico di deciso stampo aristocratico e di difensore di un’etica che si propone di salvaguardare gli antichi valori da ogni commistione, da ogni contatto con i nuovi ideali, i nuovi modi di vivere e di sentire che si vanno affermando, Teognide, nella sua opera pedagogica si trova in certo qual modo indotto, o forse costretto, a ripensare nel loro esatto significato e nel loro valore quei princìpi che difende, allo stesso modo in cui è portato a riflettere su tutto quanto egli avversa e combatte. In conseguenza
di ciò certi termini
e i relativi contenuti,
come
kakös
e
agathös, esthlés e deilös, sono sottoposti a serio ripensamento, ad una rinnovata riflessione assiologica, sulle orme del grande predecessore Esiodo, il quale, anch’egli in una situazione di profondi rivolgimenti sociali, aveva proceduto in modo analogo: ambedue quasi anticipatori del profondo ripensamento a cui la cultura greca sottoporrà se stessa nel corso del V secolo a.C. Della grande cautela che deve essere usata nell’avanzare qualunque ipotesi relativamente alla possibilità di individuare dei rapporti fra le forme metriche della lirica e i contenuti, abbiamo già detto, e non intendiamo attenuare il valore di questo avvertimento. Resta però il fatto che, per quanto riguarda l’ultimo grande lirico che abbia adoperato, oltre agli altri, il metro elegiaco, cioè Solone, forse possiamo sentirci autorizzati a pensare che una certa corrispondenza fra i vari metri e, non tanto i temi,
quanto i toni l’abbia in qualche modo ricercata e ci offra la possibilità di coglierla: egli usò il trocheo e il giambo, che erano stati elevati a dignità letteraria da Archiloco, per esprimere il suo sentire in modo più diretto e immediato; si servì dell’elegia, come Callino e Tirteo, per la sua opera di esortazione e di insegnamento ai concittadini. Va avvertito anche, però, che nel caso di Solone noi siamo molto ben informati delle occasioni, dei
suoi stati d’animo, delle circostanze nelle quali compose le sue opere, per cui più facilmente possiamo capirne i condizionamenti e gli intenti. Comunque di tutto questo vedremo qui di seguito. Solone, nato intorno al 640 a.C., rappresenta la più antica testimonianza della ricezione in Atene del messaggio e dell’eredità lasciati dalla grande tradizione parenetica dell’epica arcaica, cioè da Esiodo. I contatti con la poesia esiodea, la dipendenza di Solone dai modi esiodei di concepire la posizione dell’uomo nel mondo, lo sviluppo dato da Solone al pensiero esiodeo sono ormai dati acquisiti saldamente, ma il tratto che
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caratterizza in modo particolare l’attività di Solone in campo poetico fu la circostanza per cui egli legò in maniera indissolubile la sua poesia alla nascita della democrazia ateniese. Fu sulla base di questa stretta connessione che anche la tradizione, sia pure attraverso il mutare delle prospettive e delle esigenze culturali, considerò sempre Solone, anche come
poeta.
Si è detto poco sopra che delle circostanze che condizionarono la produzione poetica di Solone noi siamo meglio informati di quanto non accada per tutti gli altri lirici. La prima occasione — di cui la tradizione ci ha serbato memoria — che si offrì a Solone di rivolgere il suo messaggio in forma poetica ai concittadini fu, sul finire del VII secolo a.C., la sfortunata guerra fra Atene e Megara per il possesso dell’isola di Salamina. Allo scopo di scuotere i concittadini da un atteggiamento rinunciatario che si concretizzava nella proibizione per chiunque in Atene di parlare di Salamina, Solone, fingendosi pazzo per aggirare la proibizione, si presentò nell’agoré e pronunziò un componimento elegiaco che incitava alla guerra (cfr. Plutarco, Vita di Sol. 8, 1-3). È una cosa assai significativa, ed è stata rimarcata, che all’inizio della sua elegia Solone si rivolga ai concittadini avvertendo che egli parlerà non con un discorso (agorè), come sarebbe stato evidentemente normale, ma con una poesia (fr. 1 West). Questo, che nel contesto del racconto tradizionale parrebbe un espediente di Solone per eludere la legge, rappresenta la prima attestazione di un modo che lo statista prediligerà per rivolgere i suoi messaggi ai concittadini: la forma poetica. E questo tramite di comunicazione divenne nella tradizione talmente caratteristico di Solone che nella Costituzione degli Ateniesi di Aristotele si narra come nel 596 a.C. Atene conferì a Solone l’ufficio di pacificatore (diallaktés) a causa delle esortazioni e dei consigli che egli aveva affidato ad una sua poesia per i concittadini (fr. 4 ss. West). Così del medium rappresentato dalla poesia Solone si servì non solo per difendere la propria opera riformatrice e legislatrice e proclamare la propria devozione allo Stato per aver rifiutato di assumere la tirannide quando tutte le circostanze gli sarebbero state favorevoli, ma — questa volta servendosi del metro particolarmente ©deputato alla parenesi e all'insegnamento, il metro elegiaco — propose, in quello che forse è il brano poetico di lui più noto, il proprio ideale di etica politica e di virtù civiche (fr. 13 West). Nella proposta avanzata da Solone c’è molto delle Opere esiodee, ma è significativo anche che l’elegia si apra con un’invocazione alle Muse della Pieria, le divinità che erano state consacrate da Esiodo in apertura della Teogonia. Alle dee Solone non chiede il dono della poesia, secondo quanto la tradizione suggeriva, bensì la ricchezza, e l’innovazione è sfruttata ampiamente per lunghe considerazioni sull’opportunità di un onesto conseguimento delle ricchezze medesime. Importante è anche il brano che segue immediatamente sul vano e vario affannarsi dell’uomo alla ricerca del modo migliore per procurarsi il benessere, il che permette, fra l’altro, la ripresa del tema iniziale nella tipica struttura anulare. L’impegno etico e civile che anima Solone non è forse uguagliato dalle qualità poetiche, ma se si considera la sua opera da una prospettiva
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più propriamente storico-culturale sarà facile notare in quella il risultato di tutto un processo di maturazione che si veniva effettuando, in partico-
lare in suolo attico, nella poesia lirica tardoarcaica, per cui di valori e principi, di idealità e doveri elaborati all’origine nell’ambito ristretto del privato, vengono meditate l’estensione e l’applicabilità alla complessa realtà civile dell’Atene del VI secolo. E questo resta il merito maggiore di Solone, anche se non di poeta, di pensatore politico e di legislatore. 12. La lirica eolica
Pressappoco nel medesimo periodo in cui, con Solone, la tradizione della lirica si insediava nell’Attica, radicandosi nella realtà ateniese grazie all'impegno etico e civile di costui, si ha, nell’orientale isola di Lesbo, l'affermarsi della lirica eolica con Alceo di Mitilene e Saffo, anch’essa di
Mitilene, o forse di Ereso, ambedue nati non molti decenni dopo la metà del VII secolo. Alla loro produzione poetica è legato il fenomeno dell’ascesa a dignità letteraria di una lingua fortemente improntata alle caratteristiche dialettali eoliche, mentre fino a quel momento i mezzi espressivi di cui la lirica monodica si era servita erano costituiti sostanzialmente dalla lingua omerica, cioè una lingua con prevalente impronta ionica. Ciò rappresenta un dato di fatto incontrovertibile, anche se si discute dell’entità e delle motivazioni di possibili influenze dell’epica eroica sui due poeti. In realtà Alceo e Saffo non sono le prime personalità di area culturale eolica di cui si abbia notizia. Prima di loro Arione e Terpandro — il secondo a noi un po’ meglio meglio noto di quanto non lo sia l’evanescente figura del primo — avevano contribuito decisamente a costituire quella fama poetica di cui l’isola di Lesbo godette ampiamente nell’antichità. A Terpandro poi si facevano risalire innovazioni in campo anche musicale, come quella di aver inventato la lira a sette corde; fra le altre notizie in proposito particolarmente importante è quella di Timoteo di Mileto (fine V-IV sec. a.C.), che nella chiusa dei suoi Persiani si difende dagli attacchi a lui mossi per le sue novità in campo musicale richiamandosi anche al precedente di Terpandro. Terpandro operò in area dorica — fu a lungo a Sparta — e i pochi elementi a nostra disposizione non ci permettono di dire quale fu la lingua letteraria da lui adottata; quindi, a stare alla documentazione che abbiamo, la grande novità dell’assunzione del dialetto eolico a dignità letteraria è legata alla produzione poetica di Alceo e Saffo. È questa, della lirica eolica, una stagione abbastanza breve nella storia della cultura letteraria della grecità, ma di enorme significato e di ampia risonanza. Le
ragioni di ciò consistono certo in buona parte nelle qualità poetiche dei
due, ma anche nelle caratteristiche molto peculiari del mondo che la loro poesia rispecchia e dal quale è fortemente condizionata. Oltre alla lingua, i due ci appaiono accomunati da una caratteristica assai significativa, la stretta connessione della loro produzione poetica con il tiaso o la eteria a cui appartenevano. In conseguenza di ciò, nel caso di Alceo e
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Saffo si pone del codice, a si servivano, misura tutta
tardoarcaica.
in modo ancor più grave il problema delle convenzioni e livello sia ideologico che puramente espressivo, di cui i due un problema che, come abbiamo detto, condiziona in varia la nostra interpretazione della poesia lirica greca arcaica e
.
Cerchiamo di esaminare la difficoltà nei dettagli. E un dato di fatto
che buona parte della poesia di Saffo è diretta a fanciulle che facevano
parte del tiaso di cui la poetessa in certo qual modo — anche se di questo modo ben poco sappiamo — era a capo. Ed è anche un dato di fatto
che questo tipo di poesia ha accenti che a noi suonano inequivocabil-
mente erotici. Si è concluso, fin dall’antichità, che Saffo era legata alle fanciulle che facevano parte del suo tiaso e, forse, queste fra di loro, da
un tipo di amore omosessuale; e così, ancora fin dall'antichità, con maggiore o minore malizia, con maggiore o minore pruderie, si è accettata questa realtà riconoscendo, più o meno esplicitamente, la nostra impossibilità a capirla. E tutto ciò forse è inevitabile. Questo però non significa che non si possano avere dei dubbi, e intendiamo dire quelli che suscita il carattere fortemente convenzionale di tanti tratti della poesia antica, dal momento che, per quel che riguarda l’interpretazione proposta dagli antichi di certi fenomeni di costume, come si è visto all’inizio in linea del tutto generale e in particolare, poi, riguardo ad Archiloco (cfr. supra, pp. 91 ss.), non c’è da fidarsi. Il caso di Archiloco aveva quasi carattere paradigmatico, e non molto differente è quello di Saffo. Non potrebbe valere per Saffo lo stesso ragionamento, o, almeno, gli stessi dubbi? Certo, anche nel caso di Saffo non si può accettare la piena e totale convenzionalità di certa sua poesia, proprio come accadeva per Archiloco: quando il poeta fa allusione a persone, chiamandole col loro nome, quando rammenta luoghi e circostanze, i contemporanei avranno ben potuto controllare il grado di convenzionalità di quanto detto. Per cui, con queste considerazioni, non intendiamo opporre una certezza ad un’altra, solo riconoscere la possibilità che esista qualcosa che ancora non capiamo, vale a dire un criterio sicuro per distinguere il grado di convenzionalità della componente autobiografica nella poesia di Saffo. Ma Saffo non è solo poesia d'amore. C'è una buona parte della pur poca produzione a noi giunta destinata ad accogliere le riflessioni e i pensieri della poetessa su altri temi. In questo ambito è opportuno fermarsi un momento a considerare il fr. 16 L.P. che dimostra in maniera particolarmente significativa le connessioni della poetessa di Lesbo con la tradizione e con le innovazioni proprie della lirica. Si tratta di un componimento che propone con forte chiarezza un principio,
cioè che non
esistono criteri assoluti e generali di bellezza,
ma bello è per ciascuno ciò che egli ama. Ciò, continua la poesia, lo dimostrò bene Elena, che, vinta dall'amore, lasciò il marito panäriston,
i figli e la patria. Analogamente, in questo momento, Saffo ha desiderio e nostalgia di Anattoria, un’amica lontana. L’inizio della poesia è occupato nella prima strofe da quell’artificio retorico, che avrà una grandissima diffusione anche nella lirica corale encomiastica, che si chiama
La lirica
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Priamel: è costituito praticamente da una comparazione strutturata con
nessi paratattici invece che ipotattici e consiste nell’enumerare alcune cose dotate di una certa caratteristica (in questo caso quella di piacere a molti) con le quali viene messo in parallelo ciò su cui il poeta vuole concentrare l’attenzione. Gli elementi della Priamel che vengono posti in parallelo con quello di cui Saffo vuol proclamare la superiorità sono rappresentati da schiere di soldati, di cavalieri, di navi, spettacoli che affascinano i più. Ebbene, si è osservato che la scelta di questi elementi sarà stata influenzata dal fatto che uno Stato grande e il cui esercito era famoso, la Lidia, era vicino a Lesbo; può darsi, ma perché fra tutto quanto la Lidia aveva di ricchezza, di raffinatezza, di costumi che esercitava un’influenza tanto forte sulla cultura di Lesbo, Saffo avrà scelto,
in una poesia in fondo d’amore, elementi guerreschi? C’è da avere il fondato sospetto che sia la tradizione dell’epica omerica che qui viene respinta, così come Archiloco aveva proclamato la sua indifferenza ver-
so un condottiero che avesse le qualità dei guerrieri omerici (cfr. supra, p. 91), e come fra poco vedremo un altro lirico, Ibico, rifiutare ironica-
mente gli argomenti epici come temi di canto perché troppo difficili per lui (cfr. infra, p. 109). Di indubbio interesse sono anche i componimenti di Saffo di carattere religioso. Del tutto particolare si rivela l’atteggiamento della poetessa nei confronti della divinità (cfr. l’inno famoso ad Afrodite, fr. 1), un at-
teggiamento caratterizzato da piena, familiare confidenza: in questa poesia leggiamo che altre volte la dea era venuta, all’invocazione di Saffo, e
sorridendo le aveva chiesto il perché di quell’appello, e aveva esaudito i suoi desideri d’amore; così, anche ora, la dea viene invocata allo stesso scopo. Anche qui lo schema della preghiera è del tutto tradizionale e richiama da vicino alcuni casi analoghi dell’epica omerica: se altre volte mi hai aiutato, fallo ancora; ma, come si è detto, interessante è l’attegfiamento nei confronti della divinità, che rappresenta un tratto particolare di Saffo. Se la poesia di Saffo è, come si è detto, condizionata dalla vita all’in-
terno del suo tiaso, dai rapporti con le fanciulle che ne facevano parte, quella di Alceo è improntata fortemente ai caratteri dell’eteria nobile e guerresca nella quale è fortemente inserito, e la lotta politica, la guerra, le passioni che queste scatenano rappresentano i temi prediletti del poeta. Anche Saffo dovette, ad un certo punto, venire coinvolta nelle lotte politiche della sua isola, dal momento che la tradizione ci parla di un suo periodo di esilio in Sicilia, ma di ben altra misura dovette essere il coinvolgimento di Alceo; nei pur scarsi resti delle sue poesie che ci sono pervenuti, sono talmente numerosi gli accenni e le menzioni a fatti e personaggi coinvolti nelle lotte politiche di Lesbo che di quei frammenti ci serviamo come di fonti storiche insostituibili. Qui però ci interessano di più le caratteristiche letterarie. Per prima cosa quello che di Alceo non sappiamo: la tradizione (Orazio in Carm. I, 32, 3 ss.) ci elenca i temi prediletti della poesia alcaica, e cioè i motivi guerreschi, quelli civili (che nel carme oraziano sono come simbolizzati
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dalla menzione dell’immagine, cara ad Alceo, dello Stato in preda alle lotte intestine paragonato ad una nave in tempesta), simposiali, erotici. Dell’ultima categoria nulla ci è pervenuto, mentre abbiamo resti di inni a divinità (fr. 308 L.P. a Ermes). Anche altre volte la divinità è invocata (cfr. per esempio fr. 129) ma non in contesti innologici, bensì perché voglia vendicare il tradimento perpetrato da antichi compagni di battaglie, proprio in maniera analoga a quella in cui Saffo invocava Afrodite in aiuto contro le pene d’amore, perché volesse persuadere chi a quell’amore riluttava. Un altro elemento che accomuna la poesia di Alceo alle caratteristiche generali della lirica è l’uso del mito come paradigma e mezzo di interpretazione della realtà presente. In un frammento di un carme, recuperato da papiri (Suppl. lyr. Gr. S 262), si parla a lungo del sacrilegio commesso da Aiace di Locri — secondo il racconto dell’/liou Persis (Distruzione di Troia) — contro Cassandra che, al momento della conquista di Troia, si era rifugiata presso il tempio di Atena e che Aiace appunto aveva trascinato via: la narrazione di questi fatti rappresenta probabilmente l’analogo della colpa commessa dai compagni di parte che hanno infranto sacre alleanze. Ad occasioni simposiali sono da ricondurre i non pochi resti di poesie alcaiche che incitano al bere come rimedio contro i fastidi sia del clima (durante l’inverno: fr. 338 L.P., e durante l’estate: fr. 347 L.P.), che come manifestazione di gioia per la morte del nemico, in questo caso Mirsilo (fr. 33 L.P.), l’uomo che, da tiranno, tenne il potere dopo il governo dell’aristocrazia, a cui Alceo apparteneva, e precedette Pittaco, anch’egli oggetto dell’odio del poeta. ,
13. La poesia cortigiana: Ibico e Anacreonte I mutamenti politici e costituzionali che si verificarono in molte città di civiltà greca, sia nell’est che nell’ovest, con la conseguente salita al potere di tiranni — un fenomeno questo che con varia intensità si estese per i secoli VII e VI a.C. — portarono al diffondersi di una figura di poeta che in qualche modo rassomigliava all’aedo omerico, almeno quale ci è descritto per esempio nell’Odissea, cioè un poeta che vive presso i potenti, evidentemente protetto e, forse, mantenuto da questi, nella condizione di poeta cortigiano, legato quindi alle sorti e alle fortune dei patroni. Due di queste figure di poeti ci sono meglio note, Ibico di Reggio e Anacreonte di Teo, nati quindi agli estremi opposti della grecità, ma operanti entrambi nelle regioni orientali, in quanto tutti e due vissero alla corte di Policrate, tiranno di Samo, anche se Anacreonte dopo la morte di quello si trasferì ad Atene, presso Ipparco, il tiranno figlio di Pisistrato. Di ambedue la tradizione ci aveva conservato notizia come di poeti erotici, e forse la cosa non è casuale, in quanto, a giudicare da ciò che ci
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è pervenuto, ambedue rivelarono in questa tematica notevoli qualità poetiche. I motivi del canto sono spesso analoghi: la richiesta d’amore, che talora trova difficoltà ad essere appagata, o perché l’oggetto dei desideri è attratto da altri o perché chi richiede l’amore è ormai vecchio e una discreta malinconia getta la sua ombra su quei desideri. Come per Saffo ed Alceo, anche per questi poeti vale la circostanza che la loro poesia nasceva in ambienti ristretti, il simposio o la corte del tiranno, e a questi era destinata e da questi condizionata, ma la differente posizione del poeta nei confronti dei destinatari fa sentire profondamente la sua influenza: nulla più delle sanguigne e virili passioni che animavano Alceo, comunicate a compagni che le capivano e le condividevano, e nulla nemmeno dello sconvolgente amore di Saffo: qui i sentimenti e le passioni si rivelano attenuati, espressi con indubbia grazia e consumata arte poetica ma, come forse il tipo di uditorio richiedeva, non arrivano mai al fondo, e quel delicato equilibrio fra sincerità e artificio, proprio della grande letteratura, raramente viene raggiunto.
Significativo è a questo proposito uno dei pochi brani poetici di uno dei due, Ibico, che non abbia l’eros come tema esclusivo. Si tratta di un frammento papiraceo, pubblicato nel 1922 (fr. 1 PMG) contenente ampi e significativi resti di un’ode al tiranno Policrate, a cui il poeta si rivolge direttamente nel penultimo verso. Ebbene, dei quarantotto versi conservati ben ventisei sono destinati a contenere l’espressione della recusatio del poeta a cantare temi epici, definiti scherzosamente come troppo difficili per lui. Nella parte immediatamente seguente, assai lacunosa, erano forse elencati alcuni dei più famosi guerrieri della saga troiana per arrivare a parlare della bellezza di Troilo, il figlio giovanetto di Priamo, di nessuna importanza nell’/liade; e l’ode termina assicurando anche a Policrate una fama duratura, grazie alla sua bellezza cantata da Ibico stesso. L’ode, che è stata giudicata spesso assai severamente, è indubbiamente improntata da un tono che potremmo definire frivolo e leggero, ma a ben guardare rivela tracce non trascurabili di riflessione sulla tematica poetica, sul ruolo del poeta, sul rapporto di questo nei confronti del suo patrono. Come Saffo nel fr. 16, anche Ibico rifiuta i temi tradizionali dell’epos — e questa è una circostanza importante — ma a differenza dell’ode di Saffo, nella quale il giudizio su ciò che è bello era demandato ai sentimenti d’amore del singolo, in Ibico ogni carattere di troppo spinto individualismo è assente: è al poeta e alla sua opera che viene rivendicato il diritto di giudicare la bellezza e la dignità per questa ad aspirare ad una fama duratura. Certo, come si è detto, questi importanti concetti, che forse rappresentano anche delle novità — o, almeno, tali sono per noi — vengono espressi in forma leggera, forse secondo quanto le convenzioni di un poeta cortigiano imponevano, ma è solo un’apparenza che vela dei pensieri ben più profondi. Non sapremmo dire se ciò accada anche per Anacreonte, ma per Ibico si ha come l’impressione che la tradizione ci abbia ingiustamente conservato solo un aspetto della sua personalità. |
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14. La poesia corale ‘ In questo paragrafo intendiamo trattare di un nutrito gruppo di poeti: Alcmane, Stesicoro, Simonide, Pindaro, Bacchilide, alcuni fra i quali furono fra i più grandi poeti che la cultura letteraria greca abbia avuto. Anche questa suddivisione, però, come del resto quasi tutte quelle che per comodità si adottano, presenta le sue imperfezioni. Prima di tutto noi possiamo dire con certezza che nessuno di questi poeti ha prodotto soltanto poesia destinata ad essere eseguita da un coro, ma tutti hanno diritto ad essere raggruppati in questa categoria perché a noi sono particolarmente noti per la loro produzione in questo genere; per uno di loro poi, Stesicoro, nonostante la tradizione antica ci informi che questo non era il suo vero nome — si sarebbe chiamato Tisia — ma un soprannome (“colui che ha dato una sistemazione al coro”) derivatogli dall’importanza del suo contributo all'ordinamento della poesia corale, recentemente sono stati avanzati seri dubbi sul fatto che, almeno quelle che fra le composizioni ci sono pervenute di lui, possano esser fatte rientrare nel genere corale; vi si oppone la lunghezza, che tutte presentano come carattere peculiare, che suscita dei dubbi sulla possibilità che queste composizioni potessero essere eseguite da un coro che danzava e cantava contemporaneamente. Si è pensato che si trattasse di testi destinati alla citarodia, vale a dire ad essere cantati da un solo esecutore con accompagnamento musicale. Anche nel caso di Stesicoro, comunque, seguiremo il raggruppamento tradizionale. Questo genere di poesia estende la sua presenza nella letteratura greca per circa due secoli, dalla metà del VII a quella del V a.C., e si dovrà sempre tenere presente la diversità di funzione che assunse via via nel corso del tempo, anche rispetto agli altri generi di produzione letteraria che li accompagnarono: mentre agli inizi, nel VII e nel VI secolo, quella corale si trovò a convivere con tutta la gamma della lirica, a
a poco, nel V secolo, questa rimase praticamente la sola del genere e vide il nascere e l’affermarsi di altre specie di manifestazioni letterarie destinate ad assumere enorme importanza, quelle drammatiche, tragedia e commedia (cfr. infra il capitolo sul Teatro). Si sa che queste forme letterarie assunsero soprattutto in Atene la funzione di occasione per momenti di paidéia collettiva, quando la città intera si radunava e sotto la guida dei suoi poeti drammatici affrontava la riflessione su alcuni dei più importanti aspetti della vita: l’uomo nei problemi posti dal rapporto con se stesso, con gli altri, con la divinità; il rapporto colpa-punizione; il perché e il come della colpa. Ebbene, temi analoghi venivano trattati anche nella poesia corale, ma quale rapporto c’era fra le due forme di espressione letteraria? Quale influenza esercitavano l’una sull’altra? E se un rapporto c’era, si trattava di un rapporto concorrenziale? È un complesso di interrogativi di estrema importanza ai quali però è anche molto difficile poter dare una risposta, dato lo stato della nostra documentazione, dal momento che, se siamo sufficientemente informati sul tipo di problemi che i poeti drammatici del V secolo agitavano, sulla poesia corale contemporanea noi siamo sì benissimo documentati, ma su
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di un solo tipo, quella encomiastica per i vincitori delle gare atletiche, rappresentata dagli epinici di Pindaro e di Bacchilide. Ma noi sappiamo che sia Pindaro che Bacchilide avevano composto altri generi di poesie, i ditirambi, i peani, i parteni ecc., alcuni dei quali destinati ad essere eseguiti in manifestazioni pubbliche della stessa portata delle gare drammatiche, occasioni cioè nelle quali il poeta non era condizionato dalle convenzioni inerenti all'obbligo di cantare per una persona, ma era libero di rivolgersi ad una intera città. Ora è da dire che di questi altri generi di componimenti non è che noi non sappiamo nulla — il secondo dei due volumi dell’edizione Teubner di Pindaro è occupato dai resti, talora cospicui, delle sue poesie che non sono epinici, e di Bacchilide abbiamo ben sei ditirambi, anche se non tutti integri — ma si tratta pur sempre di una documentazione impossibile ad essere paragonata a quella degli epinici, sia per la minor mole sia per la mancanza di notizie erudite che le si riferiscano, e con ciò intendiamo dati relativi alle circostanze precise dell’esecuzione, alla diffusione e alla risonanza che avevano presso il pubblico ecc., tutte carenze dovute unicamente al modo in cui queste opere sono pervenute fino a noi. In linea del tutto generale questo possiamo dire: la differenza più vistosa fra la poesia drammatica del V secolo e la lirica corale dello stesso periodo consiste in quella che potremmo chiamare la maggiore modernità con cui il dramma seppe trattare problemi magari analoghi: segno anche questo dello straordinario sviluppo civile e culturale che caratterizzò l’Atene del V secolo. La poesia corale, tanto per fare un esempio, non ebbe mai sentore che anche le tematiche e i problemi che da sempre erano dell’uomo e del suo vivere nel mondo dovevano essere affrontati nella nuova prospettiva imposta dalle nuove realtà politiche delle cittàStato con la loro complessa realtà di rapporti degli uomini fra loro e di fronte allo Stato. Per capire certi problemi, per suggerire modelli di comportamento non bastavano più gli augusti esempi mitici degli eroi della tradizione; o almeno, non bastavano più nei modi e secondoi parametri in cui la tradizione li aveva conservati e li consegnava alla cultura del V secolo. Per tornare alla lirica corale va detto che essa presentava, in modo particolare, una caratteristica che pure fu propria, in varia misura, di molta della produzione poetica greca, l’occasionalità; veniva cioè composta per occasioni precise, dietro commissione di singoli o di comunità, e queste occasioni erano di regola rappresentate da festività religiose. Tali erano considerate anche le gare atletiche che si svolgevano periodicamente un po’ in tutte le località della Grecia — alcune delle quali assunsero particolare rinomanza, come quelle che si svolgevano ad Olimpia — e in occasione delle quali venivano commissionate ai poeti composizioni in onore dei vincitori delle varie specialità. Anche queste composizioni venivano eseguite in pubblico, stante la grande importanza che si attribuiva alle gare atletiche disputate in circostanze che coinvolgevano le attenzioni e l’orgoglio della città intera a cui l’atleta vincitore apparteneva. Questa caratteristica di marcata ufficialità della poesia corale — assai più accentuata di quella della poesia monodica che al mas-
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simo era destinata a gruppi ristretti di compagni di eteria o di tiaso — comportò come conseguenza assai vistosa l’elaborazione di un complesso codice espressivo, la fissazione di una determinata gamma di temi, ricca e variabile, però entro ben precisi limiti, di modo che fra il poeta destinatore e il pubblico destinatario si presupponeva l’esistenza di una sorta di intesa che permetteva una facile trasmissione e una corrispondentemente facile ricezione del messaggio. Un altro fatto, anch’esso derivato dal carattere ufficiale e pubblico della poesia corale, fu la decisa attenuazione del tono personale del messaggio che il poeta intendeva trasmettere, e ciò anche tenendo presente la possibile convenzionalità dell’“io” della lirica monodica (cfr. supra pp. 90 ss.). Ciò significa che, da un punto di vista puramente formale, accade molto più di rado che il poeta proponga idee e pensieri in modo personale, mentre riguardo ai contenuti si limita in genere a trattare quei temi che facevano parte del comune patrimonio di riflessione e di convincimenti del pubblico destinatario. Infine, come ultima delle convenzioni che più fanno sentire il loro peso, c’è quella per cui tutto il complesso di idee e di ragionamenti, e anche la maniera in cui assume forma, deve essere riconducibile all’occasione per cui la poesia è stata composta. Pertanto, nei limiti ampi, ma ben definiti, di questo complesso di convenzioni e di convenienze, l’abilità artistica del poeta appare consistere nel mettere in rapporto o in connessione fra di loro dei complessi di idee, di immagini che a quelle si riferiscono, di modi di esprimerle, in maniere che a volta a volta appaiano per qualche verso nuove, ma nelle quali però la novità non sia tale da impedire al destinatario di riconoscere la tradizionalità della connessione o del rapporto medesimi. Altra abilità era quella di funzionalizzare questi temi, immagini, mezzi espressivi tradizionali, alle differenti circostanze per le quali le poesie venivano composte. La conseguenza di tutto ciò è che se per noi, per i nostri parametri di giudizio, la libertà del poeta — che siamo abituati a pensare ampia come quella di ogni altro artista — appare fortemente imbrigliata, ci accorgiamo anche che nel concreto dell’operare poetico tali limiti non erano di alcun impedimento al raggiungimento di altissimi risultati artistici. Come si è detto, le circostanze per le quali componimenti poetici del genere corale venivano creati erano di regola di carattere religioso, almeno nell’origine, poi, anche se tale carattere rimaneva ufficialmente come proprio della circostanza o della festività, non ci fu più alcuna preoccupazione troppo seria, da parte del poeta, di stabilire un rapporto preciso fra i contenuti della sua poesia e il dio per cui la festa veniva celebrata. D'altronde riferimenti a miti, a divinità, ai fatti degli eroi antenati erano di regola tema anche delle composizioni in onore di uomini. E, da quanto si può giudicare, la quantità della componente religiosa non variava molto fra poesie eis theoüs, come dicevano gli antichi, e eis anthröpous.
Il primo dei poeti corali che noi conosciamo in una qualche maniera consistente è Alcmane, a proposito del quale però sono incerte sia la
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cronologia che la patria. È sicuro comunque che visse nel VII secolo e che fu attivo soprattutto a Sparta, la quale in quest'epoca era nota per la sua raffinatezza e la sua cultura, ben diversa da quella specie di severa caserma che divenne in epoca classica. Di Alcmane ci interessa particolarmente in questo contesto un grosso
pezzo di una poesia (fr. 1 PMG) trovata in un papiro, che sappiamo essere un partenio, cioè un testo destinato ad essere cantato da un coro di fanciulle. Che tale fosse la composizione del coro lo attesta inequivocabilmente il contenuto della poesia. Questo è il più antico testo poetico corale che ci sia pervenuto e sarebbe di estrema importanza per noi poterlo capire in ogni minimo dettaglio, cosa che, va detto chiaramente, non accade, nonostante la quantità di energie che gli studiosi hanno impiegato a questo scopo. Quello che si può dire di certo è che nel testo si allude a una qualche festività in cui fanciulle della nobiltà spartana avevano una grande parte. Il coro sembra simulare una gara di bellezza fra due di queste fanciulle, Agido e Agesicora (un nome questo che non si capisce se è vero o se significa che chi lo porta ha la funzione di capocoro) che appaiono paragonate ad un certo punto a due cavalle e, forse, anche ad una costellazione, quella delle Pleiadi. Ecco, onestamente si deve dire che il certo non è molto più di questo. Si è visto in questo componimento una forte componente erotica, omosessuale oppure no, e in questa direzione si è cercato di capire molti degli elementi della poesia sulla base di un simbolismo o di allusioni metaforiche relative a tale sfera, ma i risultati non sono sicuri. Quello che possiamo dire con certezza è che compaiono già, in questo componimento, degli artifici che conosciamo assai bene in quanto frequentemente usati nella poesia corale seguente. Per esempio: l’inizio è perduto, ma quanto è rimasto tratta di un mito secondo cui ad un certo punto gli dèi punivano gli uomini per certi loro misfatti; il testo a questo punto suona (vv. 36 ss.): «c’è una vendetta degli dèi. / Beato colui che,
sereno, / trascorre il giorno / senza piangere. Io canto / lo splendore di Agido e lo miro / come il sole [...]». È chiaro che qui abbiamo due sentenze che servono per il passaggio dal mito all’attualità, secondo un procedimento che ben conosciamo, solo che il nesso logico che segna questo passaggio tramite le due sentenze è molto più allentato di quanto non avvenga, per esempio, in Pindaro o in Bacchilide. Si capisce come le parole «beato colui ecc.» si leghino, per contrasto all’idea della punizione degli dèi; le parole «io canto ecc.» espongono un concetto che solo con qualche fatica si capisce che si connette al precedente tramite la funzione di specificare la circostanza precisa per cui il coro può vantarsi di compiere la sua giornata lontano dal pianto, nella gioia di cantare Agido. E evidente dunque che già con Alcmane certe convenzioni del codice di cui si parlava erano stabilite, anche se forse, talora, non abbastanza perfezionate, e ogni sforzo per capire Alcmane andrà fatto nel senso di riuscire a trovare in lui gli elementi simili che ricorrono nella poesia corale posteriore e che noi conosciamo e comprendiamo. Per il rimanente complesso dei frammenti, Alcmane si presenta come un poeta particolarmente raffinato che con grazia e delicatezza tratta te-
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mi consueti nella lirica, come nel frammento in cui la tristezza della vecchiaia assume l’espressione del rimpianto per non poter più danzare con le fanciulle (fr. 26 PMG) o il magnifico “notturno” in cui, per contrasto forse con il dolore di colui a cui le parole si riferiscono (non è detto fosse il poeta), viene descritta la pace del sonno di tutti gli animali (fr. 89 PMG).
Stesicoro di Imera, quindi frutto della grecità occidentale, visse, secondo la tradizione, dal 630 circa al 555 circa a.C., e fu di una generazione più giovane di Alcmane. La nostra conoscenza della sua produzione si è fatta assai più ricca da quando le sabbie egiziane ci hanno restituito ampi frammenti delle sue opere, tutte relative ai grandi cicli mitici: i Nostoi (Ritorni), l’Elena con la connessa Palinodia, la Gerioneide, un grosso frammento di un’opera ignota relativa al ciclo tebano e altro ancora. Queste scoperte ci hanno permesso di capire appieno certi giudizi che su di lui davano gli antichi: quello di Orazio (Carm. IV 9, 8 ss.) sulla serietà e gravità della sua poesia, quello di Quintiliano (X 1, 62) secondo cui avrebbe trasportato nella lirica i temi e i personaggi dell’epica, quello del Sublime (13, 3) che lo annovera fra gli autori “omericissimi”. Ora noi siamo in grado di vedere come, adottando un metro in lui assai vicino alla struttura esametrica — i cosiddetti dattilo-epitriti — e quindi mettendosi nella condizione di utilizzare il materiale espressivo dell’epica, Stesicoro poteva produrre ampie narrazioni che gli permettevano di sottoporre ad attenta riflessione i soggetti mitici tradizionali,
tanto che questo suo carattere riflessivo e meditativo ha permesso non senza ragione di parlare di lui come di un anticipatore in qualche modo del movimento razionalistico che, nella sua pienezza, esplose in Grecia assai più tardi. Quello infatti che caratterizza la poesia stesicorea è una forte e vigile esigenza di arricchire i fatti tradizionali, pur senza apportarvi mutamenti essenziali, di quei dettagli che permettano di capirli come collegati in connessioni logiche. Ciò giustifica e dà ragione del suo gusto per la narrazione distesa, ricca di particolari, del ragionare ampio e argomentato dei suoi personaggi; quest’ultima caratteristica, inoltre, gli conferisce la possibilità di dotare questi personaggi di una profondità e di una ricchezza psicologica assolutamente particolari. Alcuni esempi insigni di questa sua capacità sono rappresentati dal lungo argomentare di Gerione (Suppl. lyr. Gr. S 11 ss.) o da quello di Giocasta che tenta di distogliere Eteocle e Polinice dalla lotta fratricida (PLille 73 e 76). Forse come conseguenza dell’adozione di tutti questi elementi, cioè il gusto di attribuire ai miti uno svolgimento che si muova sul filo della razionalità, unito a quello di approfondire la psicologia dei personaggi (che in fondo sono due manifestazioni della medesima esigenza), si assiste alla piena umanizzazione, se non addirittura eroizzazione, di un mostro come Gerione, un fatto che, pur lasciando intatto il tessuto miti-
co noto, rappresenta una novità di portata eccezionale, segno di una così
controllata padronanza della tradizione da dimostrare di poterla mutare . nella sostanza pur apparendo rispettarla, il che significa rispettare le at-
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tese dell’uditorio con il quale il poeta sempre deve mantenere aperta una comunicazione chiara e perfettamente recepibile. In altre parole Stesicoro rappresenta un esempio insigne di soddisfacimento di quell’esigenza, propria di tutta la lirica, e in particolare di quella corale, di coniugare in modo perfettamente armonico il nuovo col tradizionale. Lo stesso procedimento e gli stessi risultati Stesicoro raggiunge nell’uso della dizione e del patrimonio espressivo dell’epica: il gioco sapiente di continui richiami e di voluti e significativi distacchi da quel patrimonio dimostra che la lezione impartita da Esiodo nel suo rap-
porto col modello dell’epica eroica è stata pienamente assorbita e rivis-
suta: il confronto, il gusto di misurarsi con tale patrimonio, ‘di mostrare come sia suscettibile di essere adattato a nuove esigenze, sono tutti modi di atteggiarsi che ad un tempo rappresentano un atto di omaggio e la riaffermazione continua di proprie, autonome capacità di adattare e di andare oltre. Simonide di Ceo nacque intorno alla metà del VI secolo a.C., fu un longevo (morì nel 468) e vide molti dei cambiamenti che nella cultura greca si verificarono nel V secolo. Della sua opera abbiamo resti esigui, ma abbastanza vari, provenienti da molti dei generi poetici che coltivò. Per noi la conoscenza della sua personalità è filtrata anche attraverso una ricca tradizione aneddotica riguardo alla quale si può nutrire il fondato sospetto che ne abbia in parte deformato i tratti. Combinando con qualche cautela questi dati aneddotici tradizionali con un’interpretazione obbiettiva di quanto di lui ci è rimasto, si ottiene il risultato di riconquistare i lineamenti di una personalità estremamente affascinante, capace di muoversi a suo agio fra le tendenze, i gusti, le novità che dominarono la civiltà greca nel lungo periodo della sua vita, con una disinvoltura che non si umiliò mai ad un semplice adeguamento ma che tutti i fatti, gli eventi, gli uomini, per quanto potenti, seppe dominare con la propria superiorità intellettuale. Era questa superiorità che gli permetteva di conquistarsi la notorietà di poeta di epinici, quindi di un tipo di poesia per sua natura encomiastica, e che nella pratica di esercitarla poteva permettergli di prendersi gioco dei personaggi celebrati, di stabilire un rapporto di franca confidenza con i suoi committenti che non lo vedeva mai nella posizione di poeta cortigiano o adulatore. Accanto a questo aspetto la personalità di Simonide presentava quello di una profonda componente di lucida malinconia, e non è un caso che accanto alla fama di poeta di epinici egli godette anche di quella di poeta di thrénoi, composizioni in onore di morti, e questa dovette essere talmente grande che la città di Atene designò proprio lui a comporre l’encomio per i morti delle Termopili del quale ci sono giunti una diecina di versi (fr. 26 PMG). Un altro insigne documento della sua capacità di lucido dominio del pathos è il famoso lamento di Danae (fr. 38
PMG). Nello svolgimento della cultura letteraria e dei modi in cui questa si esprimeva, Simonide costituisce un caso particolare anche per il fatto che il suo precedente non poteva diventare un modello per gli altri che lo seguirono. Ancor più precisamente si può dire che la sua eredità con-
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sistette nella posizione da lui conquistata per il poeta nella società e nella cultura, non nei modi con cui egli tale risultato aveva conseguito: lo spirito, l’arguzia, il tono disincantato sono doti troppo personali per poter essere trasmesse. La conseguenza fu che i poeti che nello stesso genere vennero dopo di lui, Pindaro e Bacchilide, dovettero, soprattutto il primo, ricostituire da capo le basi su cui fondare il loro ruolo e la loro importanza di poeti. Si è detto, forse non a torto, che nessun poeta ha mai parlato tanto, nelle sue opere, di sé e della sua arte quanto Pindaro; segno che la riflessione era profonda, continua e sofferta. E Bacchilide, anche se non con la medesima intensità, talora quasi drammatica, tuttavia con la medesima serietà, dimostra lo stesso impegno e, cosa significativa, i modi della sua riflessione, i risultati che questa raggiunge non sono sostanzialmente diversi da quelli ai quali giungeva Pindaro. Si trattava di riconquistare, per la poesia, un carattere di sacralità che le era stato peculiare fin da Omero e di cui Simonide, nella sua tendenza a enfatizzare le sue proprie qualità umane, l’aveva in qualche modo privata; si trattava di ritrovare per il poeta un ruolo che lo rendesse degno di una posizione privilegiata nel contesto sociale. Ed ecco che in Pindaro e Bacchilide troviamo restaurato e confermato su nuove basi il principio, che era già stato di Omero e poi ripreso con più approfondita meditazione da Esiodo, secondo cui il poeta intrattiene un rapporto di particolare privilegio con la divinità ispiratrice e che questa comunica solo a lui un messaggio, da trasmettere agli altri uomini, che solo lui sa capire e di cui solo lui sa essere interprete fedele: il poeta insomma diventa “profeta delle Muse”. Ad evitare poi che anche altri poeti presumano di possedere il medesimo privilegio, Pindaro in particolare elabora il principio della sophia phyä, della sapienza per natura, per cui soltanto chi possiede per nascita una certa capacità di sentire e di capire può, se poeta, intendere il messaggio della divinità, e, se destinatario, il messaggio del poeta interprete della
divinità.
E chiaro che questa complessa concezione tende a separare in una cerchia privilegiata il poeta e il suo committente, secondo una visione che non si può non definire decisamente aristocratica, e che ha attirato a Pindaro piuttosto delle antipatie che delle simpatie. Va detto tuttavia che questo è ciò che risulta da un solo tipo di produzione pindarica, quella in onore dei vincitori degli agoni, e quel complesso di idee e di convinzioni trova la sua piena giustificazione e spiegazione ponendo mente alle occasioni per cui tale genere di poesia fu composta. Un quadro più completo (e non sappiamo quanto modificato) potremmo averlo se possedessimo in misura adeguata anche l’altra produzione pindarica e bacchilidea, quella non destinata all’encomio di una persona, ma più in generale alla celebrazione di festività religiose o a rendere omaggio a intere città. Per quanto riguarda le caratteristiche generali di questo genere di poesia, la sua posizione nell’ambito della lirica greca, alcuni tratti di carattere generale balzano agli occhi più immediatamente. Come si è detto, la prima cosa da fare è distinguere gli epinici, che è il genere che noi conosciamo meglio, da altri generi: in pratica, per i limiti della no-
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stra informazione, i ditirambi bacchilidei. L’epinicio è dunque un tipo di composizione destinata a celebrare un vincitore dei giochi atletici 0, più raramente, in altri tipi di gare (la Pitica XII di Pindaro, per esempio, è scritta in onore del vincitore in una gara di flauto), e il poeta prende lo spunto da questa circostanza per inserire nel suo componimento alcuni elementi che non possono mancare, come l’esaltazione dell’importanza della gara vinta e la bravura del vincitore che viene fatta risalire al possesso di qualità (aretaf) che egli possiede per natura e che ha avuto il merito di sviluppare e coltivare per metterle alla prova, magari sottoponendosi a dure fatiche e a grandi spese. Nel contesto di questo elogio personale può inserirsi anche quello per la famiglia e per la patria. Non manca, in genere, il racconto di un fatto mitico che il poeta fa per metterlo in connessione, per analogia o per contrasto, con la gara o con le vicende personali del vincitore oppure della sua famiglia o della sua patria. Questa connessione che il poeta stabilisce rappresenta in genere l’occasione per riflessioni e per ammaestramenti sui grandi problemi della vita dell’uomo. Tali riflessioni rientrano nei canoni della saggezza tradizionale della Grecia arcaica e tardoarcaica: l'opportunità, da parte dell’uomo, di avere consapevolezza dei propri limiti e, conseguentemente, la necessità di non tentare mai di travalicarli; la brevità e il carattere effimero delle gioie e della fortuna dell’uomo, il riconoscimento del potere degli dèi sulle vicende umane. Tutto ciò, come si è detto, appartiene al patrimonio tradizionale di convenzioni della cultura greca; c’è però, negli epinici, un elemento peculiare, ed è la valorizzazione del momento della vittoria del celebrato; in quella circostanza l’uomo può attingere momenti di grandezza e di gioia del tutto particolari, può raggiungere vette di superiorità tali che la sua beatitudine può essere messa a paragone con quella dei grandi personaggi del mito e la sua impresa con le gesta degli eroi. Non manca poi l’autocelebrazione da parte del poeta che, con la sua arte, è il solo in grado di assicurare lunga durata alla gloria del momento nel ricordo degli uomini. Ciò aveva promesso anche Ibico a Policrate, come abbiamo visto, in omaggio alla sua bellezza. Come abbiamo già detto, questo patrimonio di idee non ha in sé nulla di troppo particolare, ed esso compare indifferentemente in Pindaro e in Bacchilide. Quello che varia, nei due poeti, è costituito principalmente dai seguenti elementi: l’intensità con cui viene enfatizzata l’una o l’altra
delle componenti, i modi con cui queste vengono connesse e messe in
rapporto nel corso dell’ode, quella infine che si potrebbe definire la “caratterizzazione drammatica” del contesto poetico, tipica di Pindaro in ogni parte dell’epinicio, contro la maggiore fluidità del comporre bacchilideo. Confrontando con attenzione i due si capisce chiaramente in che cosa consiste quel fenomeno tutto particolare della lirica greca fatto di piena armonia fra l’ossequio alla tradizione, con la vigile ricerca di rimanerle fedeli, e la libertà, da parte del singolo poeta, di utilizzazione della medesima secondo i suoi gusti, gli effetti che intende raggiungere, il tono che intende assuma la sua composizione. Si tratta di un fenomeno alla cui realizzazione si può pensare abbia fortemente contribuito an-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
che il tipo di comunicazione orale secondo il quale la composizione poetica era destinata ad esser conosciuta per la prima volta: il pubblico destinatario, che ascoltava l’esecuzione del canto, nutriva certe “attese” non solo riguardo ai temi che il poeta avrebbe trattato, ma anche riguardo alla maniera di strutturarli e di connetterli nel complesso, e queste non dovevano andare deluse; d’altra parte ciò doveva, e poteva, contemperarsi perfettamente con l'originalità. Pindaro, che fu forse il più grande dei poeti corali e con il quale questo genere raggiunse il grado più alto di perfezione, è anche uno dei lirici che conosciamo meglio, il solo le cui opere la tradizione antica abbia ritenute degne che si conservassero almeno in parte. Nato negli anni intorno al 520 a.C. in Beozia, fu anche lui, come Simonide, poeta su commissione. Come abbiamo detto, noi lo conosciamo meglio come autore di epinici di cui l’antichità ci ha trasmetto quattro libri ordinati secondo gli agoni che celebravano: olimpici, pitici, nemei, istmici. I filologi alessandrini avevano raccolto diciassette libri della sua produzione. Di Bacchilide invece sappiamo molto meno, sia riguardo alla biografia che alla produzione. La sua persona per noi era poco più di un’ombra finché nel 1897 fu pubblicato un grosso papiro che conteneva, interi o frammentari, poco meno di venti suoi componimenti. Era nato nell’isola di Ceo, forse intorno al 510 a.C., ed era nipote del grande Simonide. Alcuni caratteri della poesia simonidea sono riscontrabili anche nella sua; è caratteristico, per esempio, il tono di consapevole mestizia che li accomuna, anche se si deve notare che questa componente, come tutte del resto, in lui non raggiunge l’intensità patetica di Simonide. Egli non ha nemmeno la densità, gli stacchi e le apparenti rotture proprie della maniera pindarica di far poesia, ma tutto in lui, sentimenti, passioni, riflessioni, è caratterizzato da un modo di atteggiarsi più lieve, meno drammatico. A questo proposito, un confronto fra i due poeti è sommamente
istruttivo, facilitato anche dalla frequente comunanza di temi,
atteggiamenti del pensiero e dei modi di esprimerlo, giusta quanto si diceva poco sopra sulla loro dipendenza da una ricca tradizione poetica. Bibliografia Fino ad una certa epoca il testo dei lirici compariva in raccolte che li comprendevano tutti con l’eccezione di Pindaro e Bacchilide. Così si susseguirono le
edizioni curate da Th. Bergk, Poetae Lyrici Graeci, più volte ripubblicate fino all’ultima edizione del 1915 (Lipsia). Al Bergk ne succedettero altre; la più nota è stata l’Anthologia Lyrica Graeca curata da E. Diehl, anch'essa con diverse edizioni e ristampe, l’ultima delle quali è degli anni 1950-54 (Lipsia). Da alcuni decenni però è saggiamente invalsa l’abitudine di pubblicare o sin-
goli poeti o raccolte parziali; fra queste si distinguono: E. Lobel, D. Page, Poetarum Lesbiorum fragmenta, Oxford 1955; D. Page, Sappho and Alcaeus. An Introduction to the Study of Ancient Lesbian Poetry, Oxford 1955 (con traduzione
e commento di un’ampia e significativa scelta dei due poeti eolici); fondamentale l'edizione Sappho et Alcaeus. Fragmenta, edidit E.-M. Voigt, Amsterdam 1971. Utile, per quanto talora imperfetto, D. Page, Poetae melici Graeci. Alcmanis, Stesichori, Ibyci, Anacreontis, Simonidis, Corinnae, poetarum minorum reli-
La lirica
119
quias, carmina popularia et convivialia quaeque adespota feruntur, Oxford 1962
(indicato con la sigla PMG); M.L. West, Iambi et elegi Graeci ante Alexandrum cantati;
vol. I, Archilochus,
Hipponax,
Theognidea;
vol. Il, Callinus,
Mimner-
mus, Semonides, Solon, Tyrtaeus, Minora adespota, Oxford 1971-72. Più recen-
te e assai più progredita dell'edizione di West è Poetae elegiaci. Testimonia et fragmenta, I-II, ediderunt B. Gentili et C. Prato, Leipzig 1979-85. Le recenti accessioni, soprattutto papiracee, sono state pubblicate da D. Page, Supplementum lyricis Graecis.
Poetarum lyricorum Graecorum fragmenta quae recens innotue-
runt, Oxford 1974. Le edizioni singole verranno rammentate oltre. Per una bibliografia generale sulla lirica, relativamente purtroppo ad un numero ristretto di anni, cfr. D.E. Gerber, Studies in Greek Lyric Poetry: 19671975, in “The Classical World”, 70, 1976, pp. 66-157 e 81, 1987, pp. 73-144. Ampie indicazioni bibliografiche sono reperibili anche nelle opere di carattere generale che citiamo subito di seguito. Per le vicende storiche datesi nelle singole aree della cultura greca nelle quali fiorirono le manifestazioni della poesia lirica, cfr. A.R. Burn, The Lyric Age of Greece, London 1960. C.M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide, Firenze 1973 (traduzione italiana dell’originale inglese Greek Lyric Poetry from Al-
cman to Simonides, Oxford 1961), per motivi cronologici, non tiene conto delle ultime accessioni papiracee ed è più che altro di carattere espositivo. Fondamen-
tale, anche se non sempre accettabile in toto, ma pur sempre istruttivo per l’ampia visione dei problemi, resta H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 1976. Per la posizione del poeta nella società del suo tempo cfr. l’equilibrato lavoro di B. Snell, Poesia e società. L’influsso dei poeti sul pensiero e sul comportamento sociale della Grecia antica, Bari 1971 (traduzione dall’originale tedesco Dichtung und Gesellschaft, Hamburg 1965) e l’intelligente, ma poco affidabile, J. Svenbro, La parola e il marmo. Alle origini della poetica greca, Torino 1983 (traduzione dall’originale tesi di laurea La parole et le marbre. Aux origines de la poétique grecque, Lund 1976). Particolarmente in-
teso a focalizzare i rapporti fra il pubblico e i poeti è B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma-Bari
1984. Assai ricco di
informazione A.J. Podlecki, The Early Greek Poets and their Times, Vancouver
1984. Interessato a problemi di poetica e ai modi in cui la cultura greca rifletteva sulla letteratura è G. Arrighetti, Poeti, eruditi e biografi. Momenti della riflessione dei Greci sulla letteratura, Pisa 1987. Una raccolta di passi da opere letterarie contenenti riflessioni di poetica è stata preparata da G. Lanata, Poetica preplatonica, Firenze 1963; i testi sono accompagnati da traduzione e da un informato e appropriato commento. Di carattere più particolare, ma fondata su una scelta felice, è la raccolta di contributi Poeti greci giambici ed elegiaci. Letture critiche, a cura di E. Degani,
Milano 1977 (sono ristampate ricerche su: Archiloco, Semonide, Mimnermo, Ipponatte, Callino, Tirteo, Solone, Teognide). Sul problema, assai importante e non definitivamente risolto, della presenza dell’io del poeta nella lirica, cfr. D. Tsagarakis, Self-Expression in Early Greek Lyric Elegiac and Iambic Poetry, “Palingenesia” XI, Wiesbaden 1977; precedentemente il problema era stato posto da
K.J. Dover, La poesia di Archiloco, in Degani (a cura di), Poeti greci giambici ed elegiaci, cit., pp. 56-76 (trad. italiana dell’originale inglese The Poetry of Archilochus, in Archiloque, “Entretiens sur l’antiquité classique”, X, 1963, Genève
1964). Su Archiloco, un poeta che recentemente ha goduto di un rinnovato interesse, grazie anche ad alcuni importanti ritrovamenti papiracei, cfr. l'edizione Archilochus. Fragmenta, edidit, veterum testimonia collegit I. Tarditi, Roma 1968; C. Gallavotti, Archiloco in “La Parola del Passato”, 4, 1969, pp.
130-53; Th.
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Breitenstein, Hésiode et Archiloque, Odense University Press 1971; C. Miralles, J. Pértulas,
Archilochus
and
Jambic
Poetry,
Roma
1983;
A.
Pippin
Burnett,
Three Arcaic Poets. Archilochus, Alcaeus, Sappho, Cambridge (Mass.)
1983; F.
Bossi, Studi su Archiloco, Bologna 1984. Per l’iscrizione di Mnesiepes cfr. G. Tarditi, La nuova epigrafe archilochea e la tradizione biografica del poeta, in “La Parola del Passato”, 11, 1956, pp. 122-39.
Su Semonide e Ipponatte, oltre la bibliografia finora citata sulla poesia giambica, cfr. Hipponax.
Testimonia et fragmenta, edidit H. Degani, Leipzig 1983; e,
del medesimo, Studi su Ipponatte, Bari 1982.
Per l’elegia è assai utile l'edizione con traduzione e note Lyra Graeca, being the Remains of the Greek Lyric Poets from Eumelus to Timotheus excepting Pindar, ed. and translated by J.M. Edmonds, London-Cambridge (Mass.) 1958-79. Più in particolare, per Tirteo cfr. Tyrtaeus. Fragmenta, edidit, veterum testimo-
nia collegit C. Prato, Roma
1968; quest'opera contiene, oltre alla consueta edi-
zione dei frammenti e alla traduzione, un'importante introduzione e un commen-
to esauriente. Sulla lingua di Tirteo e il suo rapporto con la tradizione dell’epica, cfr. B. Snell, Tyrtaios und die Sprache des Epos, “Hypomnemata” 22, Gôttingen 1969:
sulle condizioni
culturali
di Sparta
arcaica
cfr.
P. Janni,
La
cultura
di
Sparta arcaica. Ricerche I (il solo pubblicato) Roma 1965. Per Teognide cfr. Theognis. Ps.-Pythagoras, Ps.-Phocylides, Chares, Anonymi Aulodia,
Fragmentum teliambicum, edidit D. Young, Leipzig 1961. Assai utili i
commenti: Theognis. Le premier livre, edité avec un commentaire par B.A. Van Groningen, Amsterdam 1966; e per il secondo libro: Theognis. Elegiarum liber secundus, edidit M. Vetta, Roma 1980. Sulla varia problematica teognidea è da vedere la raccolta di saggi di autori vari Theognis of Megara. Poetry and the Polis, edited by TJ. Figueira and G. Nagy, Baltimore and London
1985.
Su Mimnermo cfr. l’importante contributo di G. Pasquali, Mimnermo, in Pagine stravaganti, vol. I, Firenze 1968, pp. 318-26. Su Solone cfr. F. Solmsen, Hesiod and Aeschylus, Ithaca-New York 1949, pp. 103-23, e ancora A. Masaracchia, Solone, Firenze 1958; G. Ferrara, La politica di Solone, Napoli tina, Solone.
1964 (di impostazione prevalentemente storica); A. Mar-
Testimonia veterum, Roma
1968.
La poesia eolica, come si è detto nel testo — soprattutto quella alcaica — interessa anche la ricerca storica; pertanto è utile per prima cosa tener presenti gli studi sulle vicende storiche della grecità dell’est in epoca arcaica, partendo
dal volume del Burn, The Lyric Age of Greece, cit., e C. Gallavotti, Storia e poesia di Lesbo nel VII-VI sec. a.C., Bari 1948. Da vedere anche l’esauriente commento di Page, Sappho and Alcaeus, cit.; e ancora il volume recente di A. Pippin Burnett, Three Archaic Poets. Archilochus, Alcaeus, Sappho, Cambridge (Mass.)
1987. Per questioni generali di metodo relativamente al rapporto fra la poesia
eolica e la tradizione epica, cfr. B. Marzullo, Studi di poesia eolica, Firenze 1975; importante anche il saggio di G. Aurelio Privitera, La rete di Afrodite. Studi su Saffo, Palermo
1974.
Di Ibico importanti studi ha suscitato il frammento dell’ode a Policrate su cui cfr. G.F. Gianotti, Mito ed encomio: il carme di Ibico in onore di Policrate, in
“Rivista di Filologia”, 99, 1971, pp. 401-10 (con riferimenti alla bibliografia antecedente). Per Anacreonte è da consultare Anacreon, edidit B. Gentili, Roma
1958 (l’e-
dizione è accompagnata da un’importante introduzione e da commento). Sulla poesia corale, oltre alle edizioni complessive citate all’inizio di questa
nota bibliografica (Page, Poetae melici Graeci, dove sono pubblicati Alcmane, Stesicoro, Ibico e Simonide, e, sempre di Page, Supplementum lyricis Graecis, dove compaiono soprattutto i nuovi frammenti papiracei di Stesicoro) e all’edi-
La lirica
121
zione di PLille contenente l’importante brano relativo alla saga tebana (cfr. C. Meillier, PLille 76a, b, c, in “Cahiers de Recherche de l’Institut de Papyrologie et
d’Egyptologie de Lille”, 4, 1976, pp. 287 ss.), sono da vedere le edizioni speciali di Pindaro e Bacchilide. Per Pindaro: Pindarus. Pars prior Epinicia, Pars altera Fragmenta, ediderunt B. Snell et H. Maehler, Leipzig 1975, 1980 ®; per edizioni parziali cfr. E. Thummer, Pindar. Die Isthmischen Gedichte, Bdd. I-II, Heidelberg
1968-69;
Pindaro,
Olimpiche, traduzione, commento,
di L. Lehnus, introduzione di U. Albini, Milano
note e lettura critica
1981; Pindaro,
Le Istmiche, a
cura di G. Aurelio Privitera, Milano 1982 (il volume, della collezione “Lorenzo Valla”, è il primo di un’edizione pindarica completa prevista nel piano editoriale);
P. Angeli
Bernardini,
Mito
e attualità nelle odi di Pindaro.
l’Olimpica 9, l'Olimpica 7, Roma
La
Nemea
4,
1983.
Per Bacchilide: Bacchylidis carmina cum fragmentis, ediderunt B. Snell et H. Maehler,
Leipzig
1970; per i commenti è ancora utile R.C. Jebb, Bacchylides.
The Poems and Fragments, Cambridge 1905; e ancora, recentemente: Die Lieder des Bakchylides, erster Teil, Die Siegeslieder, von H. Maehler, Leiden 1982 (è una nuova edizione con introduzione generale e ai singoli epinici, traduzione e
note; si attende la seconda parte dell’opera dedicata ai ditirambi e ai frammenti). Cfr. anche A. Severyns, Bacchylide. Essai biographique, Liège 1933. Alcmane è stato
pubblicato
recentemente
con
introduzione,
commento
e traduzione:
A/-
cman. Fragmenta, edidit, veterum testimonia collegit C. Calame, Roma 1983; Calame è uno studioso benemerito di Alcmane (nell’ed. citata riferimenti ai suoi lavori e a ricerche di studiosi precedenti). Per Stesicoro si ha a disposizione un'edizione italiana recente, purtroppo non sempre accurata, tuttavia utile: P. Lerza, Stesicoro.
Tre studi, frammenti con traduzione a fronte, Genova
1982.
In generale su Pindaro è utile consultare, per l'abbondanza di materiale, C.M. Bowra, Pindar, Oxford 1964, anche se la validità di molte delle posizioni che il
libro assume è assai debole per l’arretratezza dell’impostazione critica (per esempio l’esegesi strettamente biografistica della poesia pindarica, conseguenza di una
diffusa ignoranza del codice poetico della lirica corale). Su Bacchilide manca un lavoro di carattere generale, del tipo di quello che Bowra ha dedicato a Pindaro, utile come si è detto, malgrado tutto; si può consultare con qualche profitto B. Gentili, Bacchilide. Studi, Urbino 1958; A. Pippin Burnett, The Art of Bacchyli-
des, Cambridge (Mass.) and London
1985; Arrighetti, Poeti, eruditi e biografi,
cit., pp. 98-158.
Per problemi generali della poesia corale (rapporto con la tradizione poetica, con i committenti, dei singoli poeti fra loro) cfr. le ricerche già citate di Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, e Arrighetti, Poeti, eruditi e biografi; è da
aggiungere il lavoro dedicato a Pindaro, ma utile anche per gli altri poeti tardoarcaici, di G.F. Gianotti, Per una poetica pindarica, Torino 1975.
Guido
Paduano
Il teatro
1. Premessa
Nel V secolo a.C., che vede l’affermarsi dell’impero ateniese e il suo apogeo, e si chiude con il suo tracollo, si sviluppa una civiltà teatrale, tragica e comica, che è, per la tragedia, esattamente coeva all’egemonia della polis, e aspetto non secondario di essa, mentre la commedia possiede una maggiore duttilità e sopravvive oltre, in forma radicalmente modificata. Dell’enorme produzione drammatica ci è rimasta, come si sa, una parte purtroppo esigua, ma sufficiente a denunciare, oltre l’abbagliante tautologia della propria eccellenza, la capacità di incidere — anche attraverso le mediazioni latine — sulla costituzione di categorie e canoni teatrali mai più in seguito decaduti. Altrettanto noto è l’habitat storico e addirittura fisico di questo teatro che, tranne qualche eccezione, si colloca, nella struttura agonale che lo caratterizza, dentro l’ambito delle feste dionisiache organizzate in Atene — dunque in una cornice politico-religiosa di primaria importanza. E importante è anche, ovviamente, non trascurare nell’esegesi dei testi quanto discende e si spiega dalla loro origine; tuttavia la storia degli studi classici, e più in generale della ricezione del dramma greco, suggerisce una maggiore cautela nei confronti del rischio opposto: che è quello di far derivare dalla matrice dionisiaca un’aura sacrale che immobilizza il testo come rito, disconoscendo la storia nel tempo circolare della religione, e leggendo elementarità primitive laddove è somma esperienza di ideologie e di tecniche. Il rischio derivante dalla matrice politica è di presumere un rispecchiamento forzoso del milieu politicosociale, usandolo per fraintendere il dramma e usando il dramma per fraintendere il milieu stesso. Per il primo punto, credo che non si insisterà mai abbastanza sulla laicità del teatro greco: le sue origini — insigne enigma che qui non si vuole neppure sfiorare — hanno fuor di dubbio a che fare con fattori e strati diversi di cultura religiosa; ma la realizzazione nei codici del genere letterario-teatrale è tutta focalizzata sul comportamento
modi ziale: media eventi
umano,
sui
di recepire eventi straordinari o casi-limite dell’esperienza esistenper la tragedia desunti dall’immenso corpus mitico, per la comliberamente composti o variati dall’inventività dell’autore. In tali l’uomo certo non può non avere per modello, interlocutore e so-
124
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
prattutto limite, il mondo divino, inteso, è opportuno ricordarlo, come sede dei poteri, non anche necessariamente né tanto meno automaticamente come sede dei valori. Ma questo confronto non comporta l’assunzione di categorie dogmatiche: al contrario definisce il campo dialettico in cui si pone il problema che a me pare quello capitale del dramma attico; il problema cioè che può variamente chiamarsi della libertà, o responsabilità o volontà o creatività dell’uomo, diciamo di una sua possibile chance di modificare il reale. Le risposte sono state assai differenti, ma nessuna, io credo, si può collocare fuori da un ambito che è lecito
definire umanistico: il più antico dei tragici, Eschilo, pure capace di comporre nella Prometheia una trilogia tutta di dei, dice nei Persiani (v. 742) che quando l’uomo si precipita al male il dio si fa collaboratore (non più che tanto) di questa sinistra tendenza. E alle divine Nuvole, rimproverate di avere portato alla rovina un pover’uomo sedotto dal miraggio della nuova scienza sofistica, Aristofane fa dire pressappoco lo stesso: «Facciamo sempre così, quando vediamo qualcuno incline al male, finché non lo cacciamo in mezzo ai guai» (Nu. 1458-60). Sul secondo punto, la discriminazione tra tragedia e commedia richiede certo termini più perentori; perché mentre la tragedia al massimo può alludere per analogia ad eventi contemporanei (ma la caccia alle allusioni spesso si rivela fatica inutile e depistamento esegetico), la commedia del V secolo solleva immediatamente i problemi della politica attuale. Quanto peraltro questo “fare politica” sia inscritto nella formalizzazione del codice, può essere forse dedotto dal contrasto fra il costante successo del commediografo Aristofane e il quasi costante insuccesso della politica da lui propugnata sulla scena: piuttosto, l’attualità della commedia ci aiuta meglio a capire l’inattualità della tragedia se nei due processi di drammatizzazione leggiamo altresì due itinerari (opposti e simmetrici) di una simbiosi fra particolare e universale. Per quanto essenziali potessero essere per gli Ateniesi i problemi del governo, della depauperazione, della pace, sulla scena comica acquistavano un respiro ancora più ampio, diventando problemi sulla natura dell’uomo e sull’organizzazione dell’universo. Il cerchio ristretto della polis poteva ambire ad identificarsi con l’orizzonte del pensabile: ecco la grande scommessa lanciata e vinta dalla civiltà periclea. Viceversa, dalla tragedia le vicende eroiche venivano mediate alla comprensibilità del vivere quotidiano, non fosse che attraverso il coro, collettività standard facilmente eguagliabile al pubblico. Senza degradarsi, senza perdere i propri caratteri specifici, il mito diventava modello, verso cui potevano prevalere la vicinanza o lo scarto, ma che in ogni caso obbligava a ripensare se stessi in ogni aspetto, nel dialogo con i propri simili, oltre che nel dialogo interiore. 2. Eschilo (525-456) 2.1.
I Persiani
I Persiani, la più antica tragedia di Eschilo a noi pervenuta a.C.), ci presenta tutti i fattori essenziali dell’universo drammatico
(472 del-
Il teatro
125
l’autore, nonostante una duplice anomalia: tra le tragedie superstiti è la sola che non facesse parte di una trilogia organica (strumento precipuo e distintivo del poeta); e la sola, nell’intero corpus teatrale attico superstite, in cui a farsi mito è la storia contemporanea, nella fattispecie la seconda guerra persiana e la battaglia di Salamina. Aristofane ci dice che l’opera, «che celebrava un’impresa gloriosa» (Ra. 1027), fu accolta con gioia stupefatta dagli Ateniesi; questa pur illustre testimonianza ci ragguaglia solo su quanto sia antico il fraintendimento dei Persiani, che non rappresenta la vittoria greca, e neppure, ponendo la scena tra i nemici, semplicemente la loro sconfitta, bensì il dispiegamento analitico e tormentato di una sofferenza che si mostra capace di rivelare una legge perpetua. La stupefacente operazione che consiste nel calarsi non solo nel mondo, ma nel punto di vista dell’avversario storico, sortisce dunque l’effetto di stabilire una volta per tutte, nella struttura della tragedia, l’arduo privilegio del dolore e altrettanto definitivamente lo connette alla conquista della conoscenza, prima che questo nesso trovasse il suo sigillo nella vertiginosa formula dell’Orestea néder uados (Agam. 177). La comunità dei Persiani è all’inizio avvolta dai segni oscuri del presentimento, poi rischiarata dalla folgore devastante della notizia, e solo con lungo e penoso impegno compenetrata alla fine di quel senso senza il quale la guerra perduta sarebbe nient'altro che una carneficina, gigantesca quanto è gigantesco l’impero piegato (il modulo espressivo che domina la tragedia è proprio quello dell’amplificatio, che inopinatamente rovescia le connotazioni tradizionalmente associate alla grandezza). Una prima risposta all’angoscia prende forma nell’idea di un ôatuwv ostile che ha colpito la nazione con violenza orribile e inspiegabile; poi, a modifica di questa risposta e senza che essa venga mai del tutto esclusa (contraddizioni e ambiguità sono nel messaggio di Eschilo il prezzo pagato all’enorme sforzo speculativo), ne emerge un’altra, che esclude il carattere gratuito della fatalità e avvia una lettura dell’evento comprensibile perché fondata sul rapporto causa-effetto: il disastro è conseguenza di una colpa del gran re Serse; più precisamente di un doppio ordine di deficit: uno conoscitivo (la disponibilità a cadere nell’inganno, la distonia sistematica tra aspettativa ed evento) e uno religioso, per cui Ser-
se ha violato la sacra libertà degli elementi naturali imponendo il giogo all’Ellesponto (e, rideterminazione secondaria della stessa colpa, i suoi soldati hanno profanato i templi greci). Così sul conto della disgraziata spedizione si può esprimere nella forma più semplice e netta il nesso tra colpa (Bois) e pena (&m): «La violenza fiorendo matura le spighe della sventura, e se ne raccoglie la messe del pianto universale» (821-2). Si deve forse anche allo straordinario nitore di questi versi, se la coppia concettuale da essi indicata ha avuto così grande e diciamo pure eccessiva fortuna nell’interpretazione del dramma attico, fino ad essere applicata a molte situazioni non eschilee e non pertinenti, e addirittura ad essere vista come summa definitoria del tragico. | Ma se colpevole è il solo Serse, la sventura si abbatte sulla collettività dei Persiani, che a buon diritto dà il titolo alla tragedia e se ne assume la funzione protagonistica (pure autore dell’evento de quo, Serse non com-
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pare che nella commozione lacerante del finale). Questo squilibrio sarebbe facilmente spiegabile in termini storico-politici, poiché i regimi autocratici identificano la persona del monarca con il corpo statale; ma le indicazioni sistematicamente fornite dalle altre tragedie di Eschilo consigliano di cercare la funzionalità drammatica del tema in altra direzione, perché sempre esse inquadrano la volontà singola dentro la stretta di unità super-personali come il yévos. Con ciò non intendo affatto sostenere, in termini evoluzionistici, che in Eschilo la personalità individuale non è ancora formata: al contrario, solo un’interiorizzazione profonda e compiuta può misurarsi ed essere limitata dai conflitti costitutivi dell’azione tragica. E proprio il rapporto tra uomo e yévog fornisce la lettura corretta dei Persiani, dove pure il nucleo familiare sembrerebbe non poter essere altro che un insignificante termine medio tra l’Uno hegelianamente libero e la vastità innumerevole dei sudditi. Il conflitto autentico che innerva la compagine drammaturgica è un’opposizione tra Dario e Serse, tra padre e figlio. Certo, essa è tutta affidata all’astrattezza delle funzioni e sottratta alle persone, che entrambe vengono caratterizzate dall’assenza: scenica quella di Serse, insieme reale e simbolica quella del morto Dario, evocato dal bisogno di capire e capace di fornire la risposta attesa nei termini che ho appena ricordato. Il re giudica il re, il padre il figlio, il vittorioso lo sconfitto, l’innocente il colpevole. L’antinomia è più significativa in quanto è evidente l’artificiosità (uso questo termine nel senso dei formalisti russi) con cui il poeta l’ha costruita, allontanandosi dalla storia fino a violentarla, a dimenticare le sconfitte patite in prima persona da Dario contro gli Sciti, e ridurre a presagio luttuoso quella parte di storia che rientrava addirittura nella propria biografia: la vittoria di Maratona, di cui, ci dice l’epitafio tradizionale, era più fiero. Non basta ancora; il ruolo di Dario diventa addirittura il luogo geometrico di tutte le possibili istanze autoritarie e, in senso lato, paterne: oltre alla paternità carnale, oltre all’animus iudicandi, oltre all’attendibilità funzionale di questo atteggiamento, che viene per l’appunto assicurata dalla sua immunità dal male, c’è nel re defunto un permanere privilegiato oltre la morte, e sui morti come sui vivi, dell’autorità prima esercitata; e c’è addirittura una crescita di potere per il convergere in esso dei valori propriamente religiosi: Eschilo non ha avuto neppure scrupoli nel contaminare le credenze dei Persiani, che equiparavano i loro re defunti agli dei, con quelle greche che gli permettono di fare di Dario anche l’interprete degli oracoli di Zeus, il padre per eccellenza. Sottoposta a questo giudizio, la condotta di Serse lascia intravvedere la possibilità di unificare le due direttrici negative sulle quali, come ho ‘detto, si è disteso l’itinerario della sua sconfitta. L’empietä verso il mare e le altre forme del divino comporta un’aggressione a un potere che vie-
ne simbolicamente accostato a quello paterno, con tanta più forza in
quanto la colpa viene alla luce solo nelle nelle parole del padre, che è anche un essere divino. La défaillance intellettivo-conoscitiva non fa che riprodurre in forma drammatizzata il topos antropologico della giovinezza cieca e violenta: si
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dice di Serse, con poca o nessuna attenzione alla sua età reale, poiché
l’attenzione è tutta accentrata sul ruolo di figlio, che un animus giovanile (véa poovei, 782) lo ha condotto a rovina. Quest’opposizione generazionale è così forte che per un momentò arriva addirittura a invertire la ferrea relazione di dominio su cui si regge l'impero. Ai vecchi coetanei di Dario viene delegata la funzione di emendare Serse con saggi ammonimenti, in altre parole una funzione repressiva nei confronti del loro re (829-31).
Ma il rapporto padre-figlio non è solo quello tra un giudice e un colpevole, porta anche alla scoperta di una distorsione del yévos nel quale è venuta a mancare la sequenza armonica che vede nel figlio l’alter ego del padre, pronto e capace di ricoprirne le funzioni in un momento che viene stabilito dalla mortalità dell’uomo. Qui la disfatta colpevole di Serse ha richiamato Dario, come condizione necessaria per capire, dal regno dei morti, e con ciò ha riportato alla categoria della filialità chi non ha saputo correttamente gestire la paternità intesa in senso politico, travisando il modello. E neppure il singolo modello di Dario, ma quello canonizzato da una norma dinastica schiacciante: per questo Dario ricorda solennemente, in un passo sospettato. a torto, tutta la serie dei re persiani, che sortisce l’effetto di enfatizzare, isolandola, la devianza infelice (759-86). Si ha nella tragedia una sola accentuazione psicologica dell'inadeguatezza rispetto al modello, allorché si dice che i cattivi consiglieri mettevano sotto gli occhi di Serse l'esempio del padre facendogli per contrasto sentire la propria incapacità ad affermare e allargare l’impero (753-6). Da questa frustrazione Serse è stato distrutto non già per rinuncia alla volontà di potere, ma per l’eccesso opposto, sconfinante nell’assurdo. Il potere del re può rappresentare o al limite identificarsi con quello divino, non pretendere di fare suddite a sé le forze divine: perciò aggiogare il mare — e l’immagine del giogo è spessissimo, anche in questa tragedia, usata a esprimere la costrizione autoritaria — è contradictio in adiecto ancor prima di essere sacrilegio. 2.2. L’Orestea
Che la vasta presenza del male nel mondo abbia la sua radice nella colpa umana, non è idea ovvia; Eschilo lo sapeva così bene da sottolineare al contrario nell’Agamennone l’orgogliosa solitudine della sua Weltanschauung, alla quale si oppone l’opinione vulgata dello b@6vos dewv, l'invidia immotivata degli dei: «C'è tra i mortali un antico detto: la prosperità umana che si leva alta non resta sterile, ma dalla buona fortuna si genera un pianto insaziabile. Ma io ho un pensiero solitario, diverso dagli altri: è l’empietä che produce mali maggiori, simili alla loro matrice; invece, nelle case rette dalla giustizia, il destino produce sempre
bei frutti» (750-62).
Idea non ovvia, dicevo, soprattutto perché l’intrico delle situazioni e la difficoltà del vivere s’incaricano di metterla in crisi, mostrando come dietro la sua inattaccabile semplicità si muovano virtualità ambigue. Ad esempio: se la negatività etica genera il male come punizione, la mano
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che conferisce realtà all'istanza punitiva della giustizia potrà, trovandosi all’interferenza con altre circostanze o valori, essere considerata ingiusta a sua volta, e se ciò accade richiamerà su di sé ulteriore violenza, e così via ad infinitum. È questo il tema centrale dell’Orestea (458 a.C.), unica trilogia conservata, ma è lecito supporre che lo fosse di non poche altre, anzi che il sistema trilogico fosse funzionalizzato al progressivo svelarsi di questa o altre ambiguità, più che avere lo scopo banale di percorrere l'itinerario delle generazioni chiamate in causa dal sistema dei significati. Per quest’ultimo scopo la trilogia non è strumento necessario — abbiamo appena visto come nei Persiani la generazione precedente si inserisca nell’attualità con l’evocazione del morto e il rimando nostalgico al suo regime — e del resto neppure sufficiente nell’Orestea: con un processo che per l’uso del soprannaturale si può abbastanza avvicinare all’evocazione di Dario, la profetessa Cassandra affonda nel passato della casa degli Atridi, a cominciare dall’orribile misfatto per cui Atreo diede da mangiare al fratello Tieste le carni dei figli uccisi. Questo fatto non rientra nella rappresentazione drammatica, la quale ha inizio con la generazione dei figli di Atreo e Tieste, Agamennone ed Egisto, ma ne è un fondamento imprescindibile. Agamennone, il re dei re nel mondo omerico, l’eroe vittorioso eversore di Troia, torna alla sua casa e trova ad attenderlo la sposa e un tappeto di porpora da lei disteso ai suoi piedi, che dovrebbe celebrarne il trionfo, con una nuance di maniera barbarica, ma soprattutto con un’in-
quietante equiparazione agli onori dovuti agli dei. Agamennone esita a calpestarlo proprio per paura dell’invidia degli dei. Ma l’invidia per Eschilo non esiste, e se è vero, come è vero, che la porpora è un’allusione presaga al sangue di Agamennone che sta per essere sparso, ciò non avviene per l’invidia degli dei, ma per l’odio freddo e furente che Clitennestra ha nutrito tanti anni contro di lui, e che al suo arrivo le mette in bocca parole tortuose, significanti tutti rovesciabili non meno della gioia della porpora. E l’odio di Clitennestra fa appello alla giustizia: non è solo un’adultera che ha scelto un uomo al posto di un altro, Egisto per Agamennone; è soprattutto la madre che con la morte del marito ripaga la morte della vergine Ifigenia, sacrificata in Aulide perché la spedizione greca verso Troia potesse partire. Il sacrificio è giudicato anche dal Coro in termini di colpa e di follia, spietatamente (perché spietata è la commovente, analitica ricostruzione dell’episodio). Disapprovandone la scelta, il Coro tuttavia rispetta il tormento che ha suscitato in Agamennone il dilemma tra l’eventualità di tradire la parola data agli alleati, o uccidere la gioia della sua casa. Risulta chiaro che colpa e giustizia non sono termini univoci; chiaro anche al Coro medesimo, che del sacrificio disapprova altresì la causa (scatenare la guerra per una donna, fuggita di sua propria volontà!), e nello stesso momento in cui lealmente manifesta questo pensiero, pure accoglie il trionfatore come tale, «perché l'impresa è stata bene compiuta» (806). Né per questo mutamento d’opinione si può parlare di Realpolitik, poiché d’ora in poi il Coro resterà fermo dalla parte di Agamennone, anche dopo la sua morte, quando sarà molto scomodo restarlo.
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Egisto stesso, il personaggio indubbiamente più screditato — se si pensa a quanto pesantemente viene accentuata la sua subalternità verso Clitennestra — pud fare fondato appello a una vendetta giusta; per essere stato mandato in esilio (cosi come toccherà al figlio di Agamennone, Oreste), ma soprattutto perché la corresponsabilità solidale del yévos fa sì che Agamennone possa venire chiamato a scontare il delitto commesso da suo padre contro Tieste. Anche Cassandra, si è detto, salda così passato e presente, ed anche la stessa Clitennestra, quando dice che dietro il suo volto si nasconde quello del demone vendicatore della prima atrocità (1498-504). In quella che non si può tanto chiamare imparzialità del poeta, quanto piuttosto ostinata esplorazione a fondo di tutte le fila del viluppo, spicca il privilegio semiotico concesso alla gigantesca figura di Clitennestra, che riesce persuasiva in un irripetibile mélange di cinismo e di tenerezza. Ma il sangue da lei versato deve essere ripagato dal suo sangue, la morte data per amore della figlia, dalla morte datale dal figlio, vendicatore del padre. Serbato alla vendetta, Oreste torna a compierla, nelle Coefore, fortificato da un perentorio vaticinio di Apollo. Insieme alla sorella, e alle fedelissime donne che danno il titolo alla tragedia, e rappresentano l’unità della casa-tomba-sacrario gelosamente racchiusa attorno all’odio e alla speranza,
chiede all’indomabile spirito del morto la forza necessaria a
riscattare la sua sventura, e anche la loro: l’esilio, l'umiliazione. Poiché Oreste ripete con tutta evidenza il morto Agamennone, soggetto e oggetto di violenza sono puntualmente invertiti rispetto alla prima tragedia, e su ciò si insiste con la ripresa di moduli drammatici; tocca ora a Clitennestra recepire un discorso ingannatore, sulla presunta morte di Oreste, discorso sulla morte del locutore che arreca morte al destinatario. La vendetta imposta dal dio e voluta dalla concordia del yÉvog si compie, ma il suo spessore è atrocemente oscuro. Prima di uccidere è solo la forza emotiva di Oreste che viene intaccata da un’emotività opposta, esplosiva, allorché Clitennestra scopre il seno al figlio riportandolo al nucleo primario della vita: alle forze che mancano soccorre la presenza di Pilade, muto fino a quel momento, ieratico come l’oracolo che richiama (899-902). Dopo la morte della madre, il dubbio diventa ossessione e prende incontestabile realtà oggettiva nella presenza delle Erinni, i demoni della vendetta. Ma prima ancora di scorgerle Oreste era stato preso nella folle danza (1025) che torna con dignità tematica nelle Eumenidi, e la sua stessa apologia — di fronte a un Coro che non la richiede, che solo aspetta di celebrare l’eroe vittorioso e il ritorno della giustizia — si era piegata al coinvolgimento nel dolore pervasivo che abbraccia tutte le opposizioni interne al yÉvog: «Piango ciò che fu fatto e subito, e tutta la mia stirpe; e da questa vittoria ricevo un’atroce contaminazione» (1016-17). «Voi non le vedete ma io le vedo» (1061): la frase che tanto colpi T.S. Eliot, e dalla quale nacque una delle piü felici prove della tragedia novecentesca, Riunione di famiglia, tocca il nuovo delicato equilibrio tra il singolo e la collettività che lo sostiene ed opprime: Oreste & solo quan-
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do prende coscienza del trapasso dal ruolo di vendicatore a quello di accusato. L'argomento delle Eumenidi è propriamente la compresenza di questi due status, che resta inestricabile anche se si presenta come autaut, come
diatriba giuridica sostenuta da due parti che si combattono
aspramente avendo entrambe dignità divina. Da un lato appunto le arcaiche e austere Erinni, dall’altro gli Olimpi recenti e scaltri: Apollo che difende in Oreste il proprio oracolo, Zeus che ne è l’ispiratore e il garante, e alla fine anche Atena, che siede tra i giudici e risulta determinante per l'assoluzione di Oreste. Questa decisione è infatti presa a parità di suffragi positivi e negativi: il poeta ha dunque scelto una simbologia elementare per stabilire definitivamente che le connotazioni di giustizia e di colpa inerenti al medesimo atto non hanno nessun motivo determinante per prevalere l’una sull’altra. La cosa era del resto già preannunciata e anzi dimostrata dalle argomentazioni delle due parti, che, fortissime in positivo, proprio perciò risultavano inefficaci nella confutazione reciproca. Quando le Erinni dicono e ripetono che la colpa di Clitennestra è meno grave perché non ha ucciso un consanguineo (212, 605) forse fanno appello a un tabù antropologico autentico, ma certo superato già nella civiltà omerica e comunque insostenibile accanto allo stasimo delle Coefore che a quello di Clitennestra accostava i più orrendi misfatti; quando Apollo e poi Atena dicono che la vita di un eroe conta più di quella di una donna miserabile (625-30, 739-40), non offendono solo la nostra coscienza di lettori o spettatori “evoluti”, ma prima di tutto la sensibilità del pubblico ateniese che aveva visto il seno di Clitennestra e l’angoscia del medesimo Oreste. Peggio, in difesa del suo protetto Apollo ricorre a due argomenti sostanzialmente incompatibili: contro il tentativo di sminuire il delitto di Clitennestra in quanto compiuto su di un non consanguineo, esalta il valore supremo dell'amore e del vincolo coniugale (213-16); ma per sminuire a sua volta il valore della maternità lacerata non esita a degradare il matrimonio a tetra pratica di fecondazione (658-61). Ancora più illuminante, perché all'apparenza ineccepibile, è la prima risposta che le Erinni danno alle accuse rivolte da Oreste alla madre: «Ma tu vivi, e lei ora è prosciolta dal suo omicidio» (603). Dietro il principio etico-giuridico per cui la morte estingue il delitto si cela propriamente il principio ordinatore della catena ad infinitum cui accennavo prima. Esso consiste infatti nel leggere la storia non come un continuum,
ma
come
un
insieme
di segmenti
polarizzati
sull’antitesi
colpa-pena, e tenuti insieme solo perché il secondo termine di uno coincide col primo termine del successivo. Ciò è logicamente impossibile e lo è anche esistenzialmente: si pensi alla stanchezza di Clitennestra quando nel finale dell’Agamennone chiede ad Egisto che non si compia altro male (1654). Più tardi di quanto vorrebbe Clitennestra, ma la catena si spezza, lasciando un delitto impunito anche se non giustificato dalla metà dei giudici, mentre le Erinni sconfitte vengono risarcite con uno specialissimo culto nell’Attica. Una soluzione di compromesso, certo: è da sperare che la psicoanalisi freudiana abbia tolto agli occhi di
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tutti ogni carattere spregiativo a questa locuzione, indicando in essa il solo modo di esistere. 2.3. 1 Sette a Tebe
Le altre tragedie di Eschilo, che in certo senso sono dei macroscopici frammenti, vanno giudicate con grande cautela. Una sola di esse, i Sette a Tebe, sarebbe in grado di fornire una ‘soluzione’, essendo l’ultimo dramma della trilogia a cui apparteneva; dico sarebbe perché noi leggiamo uno strano e sicuramente spurio finale dove anziché sciogliere i conflitti se ne apre uno nuovo: il rifiuto che Antigone oppone al divieto di seppellire Polinice, indebita inferenza dell’Antigone sofoclea (cfr. infra, pp. 136-7). Due cose però possono considerarsi certe: la prima è che la trilogia non si chiude con la conciliazione, ma con l’annientamento reciproco delle due parti contrastanti; a conferma di quanto prima detto, questo è il solo altro possibile modo di interrompere la catena d’orrore. La seconda è che il personaggio di Eteocle è quello in cui convivono con più limpida disperazione la volontà individuale e la costrizione del y£vos; con un atto imperioso, regale, provvido, Eteocle dispone le difese di Tebe, che risulteranno vittoriose; ma parte del suo ordinato piano di battaglia è la propria contrapposizione al fratello che reclama il regno, quello scontro sulla settima porta che inutilmente viene pregato di evitare, e che non realizza più solo i doveri del capo ma anche la maledizione del padre Edipo, avallata dalla divinità. 2.4. Le Supplici
Per le altre due tragedie, le Supplici e il Prometeo incatenato, possiamo solo ispirarci a criteri di verosimiglianza e di analogia e concludere che esse avevano con ogni probabilità una soluzione conciliante paragonabile a quella dell’Orestea. Le Supplici, dramma iniziale della trilogia delle Danaidi, scavalca addirittura l’individuo per un autentico protagonismo collettivo (familiare); tra le figlie di Danao che fuggono l’imposizione del matrimonio con i loro cugini, i figli di Egitto, solo nelle tragedie per noi perdute si staccherà un’individualitä trasgressiva del volere comune: Ipermestra si rifiuterà di uccidere il proprio marito nella notte di nozze. Rispetto a questa situazione, astrattamente ricostruibile, quella rappresentata nella tragedia superstite presenta, con un processo che ormai non ci sorprende, un’immagine ben diversa: l’identificazione emotiva dello spettatore è tutta convogliata sull’innocenza minacciata dalla brutale violenza, lo stupro è equiparato al cannibalismo (226). E insieme alle vergini, la simpatia va al re di Argo che le accoglie, Pelasgo, il quale vive un dilemma non meno angoscioso di quello di Agamennone per Ifigenia: o violare la legge divina che considera il supplice sacro; 0, proprio come Agamennone, insanguinare il mondo a causa di donne. Ma nel finale della tragedia uno strano coro, alternativo a quello delle Danaidi
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(da chi sia formato è questione controversa e in questa sede irrilevante), mette in dubbio il diritto al rifiuto delle nozze ed esalta il potere di Afrodite. Certamente si tratta di una transizione problematizzante non lontana,
in questo suo carattere, dal esercitate su Oreste erano, spostamento dell’orizzonte Supplici induce a ripensare più complessa, dalla quale
finale delle Coefore, ma mentre le pressioni nella loro contraddittorietà, chiarissime, lo assiologico che si ha nell’ultima scena delle il comportamento femminile in una forma emergono un’urgente dimensione circostan-
ziale, ma anche una che non esiterei a chiamare filogenetica. Intendo di-
re che la famosa questione della misandria (le Danaidi si ribellano a questo matrimonio o al matrimonio tout court?) non è suscettibile di una risposta univoca, e non a caso le indicazioni testuali sono al riguardo difficili. Il dramma è un'azione limitata nel tempo e nello spazio, e in quest'ambito le Danaidi giustificano la ripulsa con la brutalità dell’aggressione (anche direttamente e persuasivamente rappresentata) di cui sono vittime; ma che insieme la loro trepidazione richiami il rischio universale della vergine di fronte all’eros, di questo sono certo, e non riesco a leggere i più intensi passi delle Supplici senza pensare alla paura di Brunilde svegliata nel Siegfried, e alla nostalgia soave di un segreto ancora per l’ultima volta presente che vibra indimenticabile nel cosiddetto Friedensmotiv. 2.5. Il Prometeo incatenato
Esprimendosi in modo che la necessaria brevità rende forzatamente grossolano, possiamo dire che lo scontro fra gli Olimpi e la generazione precedente dei Titani, che è struttura formale nelle Eumenidi, è struttura tematica nel Prometeo incatenato. Pure in questa trilogia si attuava un
compromesso, a partire da un comportamento del protagonista soggetto ad opposti giudizi, che hanno entrambi presunzioni fondate: da un lato Prometeo è il benefattore (degli dei e degli uomini) ingiustamente colpito, dall’altro il ribelle all’ordine sovrano universale. Più mi importa ricordare, a proposito di quello che abbiamo chiamato umanesimo, come questa tragedia di soli dei sia stata possibile solo introducendo nella rappresentazione divina le connotazioni di dolore e debolezza proprie degli uomini. Né penso, come è troppo facile, al solo Prometeo, dio sofferente al quale l’immortalità nutre l’orgoglio ma allarga altresì smisuratamente le prospettive d’angoscia; penso soprattutto a Zeus, minacciato dalla superiorità conoscitiva di Prometeo e da ciò che
essa gli cela: il pericolo delle nozze con Teti, da cui nascerebbe il figlio destinato a spodestarlo come Zeus ha fatto con il padre Crono e Crono con Urano. Quando Zeus possiederà il segreto di Prometeo potrà non avere questo figlio, il che significa che fonderà un vero potere divino, non più ancorato alla successione, non più condizionato dal tempo, ma assoluto. Però all’alba di questo assoluto, il solo in grado di avallare il
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sistema globale dei valori, trepidano ancora i fantasmi del divenire, della precarietà. 3. Sofocle (496-406) 3.1. L’Elettra
La scelta d’età romana (e poi anche quella bizantina, ancora più restrittiva) ha salvato l’Elettra di Sofocle, che copre il medesimo spazio drammatico delle Coefore: disponiamo quindi di un comodissimo strumento per misurare la distanza che intercorre tra Eschilo e Sofocle. L’indicazione offerta dal titolo, quando, come in questo caso e come spesso (non sempre!), denuncia il protagonismo effettivo, è già eloquente al proposito. In quell’Elettra che nelle Coefore era solo una voce nella grande polifonia del yévos offeso, Sofocle convoglia tutte le pulsioni che porteranno a vendicare Agamennone; la tragedia è fondamentalmente un’indagine sull’esperienza del singolo in ciò che più gli è peculiare: la funzione protagonistica infatti non comporta solo predominio quantitativo sugli altri personaggi ma radicale diversità da loro e a fortiori dalla normalità del vivere, che sulla scena è mediata dal Coro. Tutti e due questi scarti sono espressi con chiarezza palmare: «Non a te sola, figlia mia, è apparso il dolore, e in questo tu sei diversa dai tuoi congiunti,
dalle persone del tuo stesso sangue. Pensa a come vivono Ifianassa e Crisotemide, e vive senza dolore la sua giovinezza Oreste, che un giorno la nobile Micene accoglierà quando, successore dei suoi avi, verrà in questa terra col favore di Zeus» (153-63). Si badi bene che la differenza rispetto al yévos non comporta un conflitto, neppure di opinioni, ma istituisce una distanza che viene insieme percorsa dall’ammirazione e dallo sgomento. Al Coro, che pure tra tutti i cori sofoclei è quello più capace di identificazione simpatetica col protagonista, non risulta comprensibile la macerazione furente e devota di Elettra nel ricordo del padre, il suo rivivere eternamente nel pianto la notte dell’assassinio, il rimprovero vivente per i colpevoli che costituisce tutto il suo essere. Anche Crisotemide e il Coro ritengono giusta e si augurano la vendetta, ma si rassegnano alla tradizionale impotenza femminile e all’ancor più che tradizionale, tautologico timore dei potenti. Quanto ad Oreste, la vendetta è destinato a compierla, come si dice in questo stesso passo, ma Sofocle ha sapientemente ritardato il riconoscimento dei due fratelli, che nelle Coefore era precocissimo, dando loro la possibilità di riunirsi in appassionata concordia solo quando l’organizzazione drammaturgica ha compiutamente stabilito il privilegio di Elettra, ed anzi la falsa notizia della morte di Oreste ha trasformato il pianto in una decisione pragmatica: compiere da sola — giacché Crisotemide si sottrae — il dovere del quale il giovane redivivo sarà poi non più che semplice esecutore. In questo nuovo modello di azione tragica, dove una personalità idiosincratica si confronta con il mondo che le resta in ogni caso estraneo, quale posto ha la responsabilità creativa dell’uomo? Credo che si debba
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rispondere, per tutto il corpus superstite di Sofocle, che essa investe sempre il tutto e il nulla. La differenza che il personaggio centrale esprime nei confronti degli altri uomini presenti sulla scena e nell’orchestra, e degli altri uomini in generale, è sempre orientata, nel circuito comunicativo dell’espressione teatrale, secondo due vettori, uno discendente ed uno ascendente: per il primo, l’eroe appare come una personalità enormemente carica di valori (gli uomini come dovrebbero essere, secondo un’antica contrapposizione ad Euripide; in termini freudiani, l’ideale dell’io). AI centro di questa qualificazione sta proprio la capacità di creare da sé la propria esperienza e di essere refrattario di fronte a qualunque intervento che ne minacci l’autonomia. Nel contempo il vettore ascendente individua nel protagonista il reietto colpito nel modo più crudele, defraudato della speranza di felicità che è in ogni uomo; e al fondo della sua angoscia sta l’espropriazione del potere decisionale, il vedersi vivere in balia degli eventi. Elettra è particolarmente adatta a esemplificare questa dialettica perché in lei le manifestazioni dell’essere eroico e dell’essere desolato non si alternano né si contrappongono ma si sovrappongono in un’unica dimensione; la sofferenza è anche un’arma contro i nemici (355-6), il buco nero dell’assenza (del padre, del fratello) è anche sorgente di energia, come mostra il fatto che, quando l’assenza è radicalizzata nella presunta morte di Oreste, è radicalizzata anche la volontà attiva. Ma se il dolore è accettato come norma di vita, richiesto come un
diritto, interiorizzato fino a coincidere con l’intera persona, non per que-
sto cessa di essere «una dura, durissima necessità» (221), una costrizione alla rinuncia che fa balenare i fantasmi della giovinezza trascorsa inutilmente e delle nozze impossibili, mentre obbliga «quando si è in mezzo al male, a fare del male»
(308-9). Quest'ultimo è l’unico cenno di una
problematizzazione del matricidio; e anche a chi non abbia presente l’ossessione eschilea delle Erinni, il finale trionfante dell’Elettra può suscitare sorpresa, e ha suscitato scandalo in molti che si sono affrettati a cercare testimonianze di una negatività etica dell’eroina tracciando un assurdo parallelo con Clitennestra. Ma poiché per tutti gli altri eroi sofoclei sono state affacciate ipotesi di colpevolezza altrettanto infondate (tranne che per Aiace), sarà piuttosto doveroso riconoscere che per Sofocle il grandioso nesso eschileo tra colpa e pena aveva perso ogni peso e rilievo. 3.2. L’Aiace
La presenza del tema della colpa nell’Aiace è, in assenza di dati certi, l’unico argomento persuasivo per una cronologia alta della tragedia, in
cui peraltro esso non occupa affatto il ruolo essenziale. Secondo l’indovi-
no Calcante la sventura di Aiace, che, sconfitto da Odisseo nella contesa per le armi di Achille, è diventato pazzo e ha ucciso animali scambiandoli per i suoi nemici, e al risveglio dalla pazzia si trova disonorato, è dovuto alla sua empietà verso Atena di cui ha rifiutato l’aiuto où xar’ àv®&owrov ppovv. Questa spiegazione arriva tardi, quando già attorno alla
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figura di Aiace si è creata un’identificazione potente e immune da riserve etiche, e resta isolata anche nel prosieguo della tragedia. È diventata giustamente famosa la frase di Welcker secondo il quale Aiace riempie molto più la tragedia per quello che è che non per gli errori commessi. Ne propongo una generalizzazione che suoni così: a Sofocle non interessa mai la causa degli eventi luttuosi che sono la matrice della tragedia; essa sviluppa un linguaggio simile e coerente sia che dipendano da un comportamento umano o ne prescindano totalmente, come avviene per Edipo, parricida e incestuoso senza saperlo nell’Edipo Re, guidato nell’esilio alla meta divina nell’Edipo a Colono; o per Filottete, ridotto a un’orribile vita eremitale per il morso di una vipera. E anche nel caso che la matrice sia da cercare nel comportamento umano, non comporta forti differenze che esso sia considerato giusto, come in Elettra o Antigone, colpevole come in Aiace, o fuori dal dominio etico come nell’Eracle delle Trachinie, che, suscitando la gelosia della moglie, provoca il tragico errore per cui essa gli invia come filtro d’amore una trappola mortale. Resta costante, invece, la focalizzazione sulla reattività umana, il mo-
do ambivalente di possedere il dolore e di esserne posseduti. Per Aiace, l’antinomia si dispiega nella duplice immagine che viene concepita sul
suo conto nell’autocoscienza e nella coscienza della comunità a cui ap-
partiene. É appena il caso di ricordare che nel mondo greco, arcaico e classico, il giudizio della comunità non si limita ad essere introiettato ma assume valore ontologico, è parte sostanziale e decisiva della personalità. Questo fenomeno, che viene usualmente indicato col termine di “civiltà
di vergogna”, ha tanta più efficacia in un ambito che si richiama in maniera esplicita all’epos omerico, dal quale viene estratta la memoria delle maggiori aristie di Aiace. La dimensione tragica consiste appunto nella feroce opposizione tra le due immagini, che la civiltà di vergogna vorrebbe identiche. Per se stesso, anche nel momento
più nero, di fronte alle
carogne degli animali, Aiace resta il più grande dei Greci che vennero a Troia dopo il solo Achille — più che un limite, questa precisazione è un modo di situare l’eccellenza rapportandola a un canone. Rispetto agli altri, è proprio l’eccellenza il nucleo della diversità dell’eroe; lo si vede bene quando, dopo la sua morte, essa viene ancora aggredita dalla presunzione di Agamennone, che vorrebbe ridurla a normalità («Dove è andato, dove è stato che non ci fossi anch’io?», 1237), e difesa da Teucro e implicitamente anche da Odisseo. Ma l’inatteso riconoscimento dell’avversario è funzionale solo a rendere gli onori dovuti a un cadavere. Nello spazio drammatico che precede quest’esito, il mondo greco ha proiettato Aiace, in conseguenza della notte folle, all’estremo opposto della gerarchia sociale: è diventato il nemico pubblico, consegnato all’esecrazione e forse alla lapidazione. Quando volge sul mondo lo sguardo ritornato limpido, si sente stretto nel cerchio di un’ostilità universale. E che questo suo essere alternativo al mondo non sia circostanziato ma
strutturale, ce lo mostra la famosa Trugrede, o discorso ingannatore, dal quale le persone care ad Aiace si persuadono che l’eroe cerchi la libertà dal dolore nella conciliazione. In effetti nella Trugrede Aiace enuncia le leggi che governano il mon-
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do, dai grandi movimenti astronomici alla dinamica delle relazioni interpersonali, e sono ispirate alla flessibilità e alla variazione; le enuncia con tale forza conoscitiva che può venire scambiata per conversione, laddove invece si dichiara, come l’uomo sartriano delle Mani sporche, «non recuperabile». Niente può modificare la sua sostanza eroica: il senso profondo, non moralistico, dell’atto irriguardoso verso Atena è una dichiarazione di autosufficienza che non va scambiata con l’autismo patologico: Aiace è pazzo per un breve intervallo e perché posseduto da una forza estranea. Ma se niente modifica lui, niente, in un mondo guidato da norme altre, può essere oggetto della sua azione; le ipotesi di riscatto (andare contro Troia da solo!) si vanificano e resta la sola prospettiva che l'autosufficienza si riduca all’atto che identifica soggetto e oggetto, ed è il suicidio.
3.3. L’Antigone Prima che in Elettra, già in Antigone (442 a.C.) il poeta aveva formalizzato l’opposizione tra eroe e uomo comune servendosi del confronto tra due sorelle; ad Antigone, che contro l’editto di Creonte rivendica il diritto di seppellire il fratello Polinice, Ismene anticipa le obiezioni di Crisotemide, che si riassumono nell’accondiscendenza al potere. La ribellione di Antigone si fonda su un terreno ideologico più saldo, perché a precisare la superiorità degli affetti e dei doveri etico-religiosi sulle manifestazioni dell’autorità essa è costretta dal fatto che il dominio di Creonte non è, come quello di Egisto e Clitennestra, ingiusto dalle origini: legittimamente fondato, si perverte nell’atto empio che dà origine alla tragedia e si rivela tirannico nel chiedere un’obbedienza formale, assoluta «su ciò che è giusto e ciò che non lo è» (667). Nei confronti di questa richiesta, quella di Antigone è una deviazione morbosa; ma la voce del popolo riconosce in lei l'eroina degna del premio più alto. Queste due opinioni, estremi del pendolo che conosciamo, sono state collocate da Sofocle con una strategia sapientissima; Antigone non sente mai le lodi, e il sostegno unico dei regimi autoritari, la paura, le mette di fronte il Coro più miope tra quelli di Sofocle, capace solo della più sterile compassione.
Ma la peculiarità più profonda dell’eroina non sta nel conflitto politico e non la oppone a Creonte, ma a tutti gli uomini in ciò che più hanno in comune: il principio di conservazione o narcisismo originario. Antigone dice: «il mio cuore è morto da tempo, ed è rivolto solo al bene dei morti» (559-60). Non infatti all'amore di Emone, figlio di Creonte, che dopo aver dato voce alle istanze della ragione politica solo nel tentativo di salvarla, sarà contagiato dalla tensione di lei verso il buio; non a quello di Ismene che per lei, viva, osa il rischio di sfidare Creonte, come non aveva osato per Polinice morto, ma da Antigone viene, sia pure con doloroso affetto, scacciata. Quando
Creonte le rinfaccia beffardamente
di
adorare soltanto il dio dell’oltretomba (777-80), non sa quale enorme forza sia in questa “stranezza” e come si abbatterà su di lui provocando, a catena, la morte di suo figlio e poi della moglie. Ma al solito, anche
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quale dolcissima debolezza. Portata alla morte che è oggetto della sua scelta, Antigone precede di nuovo Elettra, e rimpiange le nozze e l’adolescenza perduta. Sta in questa rinuncia straziata la misura della sua volontà e del suo destino. 3.4. Le Trachinie
Protagonista delle Trachinie è Eracle: occorre precisarlo per l’assenza apparente della struttura centrale che nelle altre tragedie emerge chiara (anche nell’ Antigone, dove la valorizzazione politica di Creonte, compiuta sulla scia di Hegel e già erronea per suo conto, ha provocato un fraintendimento delle gerarchie semiotiche; ma le sciagure di Creonte fanno parte della vicenda tragica di Antigone, cui offrono, con un terribile de facto, il riconoscimento prima mancato). Deianira, involon-
taria causa della morte dell’eroe, attira su di sé l’attenzione per una lunga parte della tragedia, che affettuosamente indaga la sua trepidazione e poi la sua angoscia di donna abbandonata. Ma Deianira è sempre esclusivamente oggetto; a partire dalla rievocazione di un passato emblematico, quando è stata oggetto della gigantesca disputa tra Eracle e il fiume Acheloo, è ora oggetto del rifiuto di Eracle innamoratosi di Iole, e due volte oggetto d’inganno: la prima da parte del compagno di Eracle, Lica, che per pietà le ha nascosto il nuovo amore dell’eroe, la seconda quando agisce a distanza la frode di Nesso, che le ha dato uno strumento di morte anziché d’amore. Quel che più conta, il suo subire non ha niente di straordinario, è inscritto nella forma più dimessa della subordinazione femminile. L’unica scelta, quella del suicidio, è tenuta in sordina non tanto dal silenzio in cui viene operata — che è anzi un modulo insistito di rilievo — ma dell’organizzazione semiotica del dramma, che a quel punto, e già dal racconto del figlio Illo, ha spostato la focalizzazione su Eracle. L’uomo
di eccellenza
straordinaria,
il migliore
di tutti
(177;
non
credo a nessuna delle tante interpretazioni che vedono ironia in questo apprezzamento), l’uomo dalla spaventosa forza fisica, è piagato da un dolore incontrollabile che lo precipita al polo opposto della sua virilità vittoriosa, in una condizione di impotenza descritta come femminilità metaforica (1075). Ma basta che venga chiarita la causa della sofferenza e l’eroe torna ad assumere una dimensione attiva: alla prostrazione tiene dietro la capacità sovrumana di gestire la propria fine e ciò che essa lascia dietro di sé. Le ultime volontà di Eracle, soprattutto l’ordine al figlio Illo di sposare Iole, suonano strane e sono eseguite sul puro fondamento del principio di autorità; ma proprio così la mancanza d’integrazione con il proprio entourage porta a compimento il processo di isolamento del protagonista. Credo che di esso faccia parte (e ne costituisca la più vasta figura) anche la composizione a dittico che attraverso la sequenza rappresenta l’impossibilità di un incontro tra Eracle e Deianira; attraverso la patetica tenerezza della donna rappresenta il silenzio attorno all’eroe.
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3.5. L’Edipo Re Che Edipo nell’Edipo Re sia in qualche modo “doppio”, lo si è forse da sempre intuito; e non a caso il fenomeno dell’ironia tragica, che comporta per un solo significante la presenza di due significati opposti, è stato discusso in relazione quasi esclusiva con questa tragedia. Ascoltiamo da Tiresia uno statuto implacabile della duplicità: «Quest'uomo che tu vai cercando con le tue minacce e i tuoi bandi, l’uccisore di Laio, quest'uomo è qui: lo credono tutti straniero, ma ben presto apparirà essere un Tebano e non avrà motivo di rallegrarsi della sua sorte. Ora vede e non vedrà più; ora è ricco e diventerà mendico, e dovrà tastare col bastone una terra straniera. Si vedrà che egli è insieme padre e fratello dei suoi figli, figlio e marito insieme della donna che gli ha dato la vita; rivale ed assassino di suo padre» (449-60). Con sintetica angoscia dice il protagonista di Oidipus und die Sphinx di Hofmannsthal: «Ich bin ein Kônig und ein Ungeheuer/in einem Leib» (“Sono un re e un mostro in un corpo solo”). Capire l’Edipo Re non è possibile senza capire quale tipo di rapporto intercorra tra le due figure di re-padre della patria e reietto parricida e incestuoso. Certo, questo rapporto si può sintetizzare, come è stato felicemente fatto, nella dicotomia apparenza/realtà, ma davvero non ci sono legami più sottili, collusioni? Senza dubbio non ha luogo la collusione freudiana, vale a dire quel tipo di esegesi che, avanzata dapprima da Freud nell’Interpretazione dei sogni con cautela metodica pari alla sua genialità, è diventata negli scritti successivi e dei discepoli sbrigativa e schematica, e considera la tragedia come il luogo di un desiderio parricida e incestuoso. È facile ribattere che parricidio e incesto vengono compiuti solo a patto di restare estranei alla volontà di Edipo (alla sua intera personalità, non solo alla sua coscienza), e l’angoscia a cui approda non è il senso di colpa autopunitivo che nella dialettica freudiana è la controparte necessaria del desiderio, ma solo la consapevolezza dell’'impurità sacrale e sociale. Ritengo però dimostrabile che non per ciò può dirsi che la tragedia non abbia nulla a che fare con il “complesso di Edipo”; a mio parere invece intrattiene con esso un rapporto di opposizione speculare. E cioè: quanto nella situazione universale descritta da Freud è desiderio infantile, filialità angosciosa e ribelle, è nella situazione sofoclea situato a costituire una rigida barriera coattiva, espressione di un divino che mai si potrà identificare con l’inconscio perché mai come in questa età (ha mostrato Dodds) è stato così vertiginosamente lontano dagli uomini. Viceversa, ciò che per Freud inibisce il desiderio, la ragione adulta, è propriamente la modalità espressa da Edipo in scena e oggetto di un desiderio perfettamente consapevole. Edipo desidera non violare i due tabù {naturalmente rispetto ai due presunti genitori), e solidale a questo desiderio è la lucida e compatta costruzione di un mondo dove alla sua persona sono associate le valenze autoritarie: Edipo, appunto re, padre in senso politico (téxva, rivolto ai Tebani, è l’incipit del dramma), giudice che condanna il colpevole ignoto, che è destinato a identificarsi con lui.
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Con Laio, invece, Edipo vuole consciamente identificarsi nelle funzioni
del dominio. Ritiene doveroso, anche se non ci fosse l’oracolo che impone di farlo per sanare la pestilenza in Tebe, vendicare il re ucciso, crede di poter essere oggetto di aggressione da parte dei medesimi nemici di Laio, ha in comune con lui il regno, la donna (sentiti, sullo stesso piano, come oggetti di possesso), perciò dunque «si batte per lui come per suo padre» (264-5). Questa filialità mimetica addita contemporaneamente, nel punto culminante dell’ironia tragica, la filialità biologica che è, nei fatti, perversa concorrenzialità, usurpazione violenta. I fatti, cioè il principio di realtà; questo è il solo codice trasgredito dai desideri leciti di Edipo, e il principio di realtà si esprime nella geniale soluzione drammaturgica dell’anteriorità: quando Edipo manifesta la sua natura, essa è ridotta a desiderio frustrato dal già accaduto ed irrecuperabile. Occorre ancora spendere qualche parola per la facoltà che costituisce il patrimonio peculiare di Edipo: la ragione. Essa rientra pleno iure nell’universo delle valenze autoritarie sia per sé che per il fatto che ad essa Edipo deve il trono; nell’eccellenza conoscitiva del loro re i Tebani ripongono tutte le speranze; e ad essa non è venuto meno: si esercita nell’acutezza politica che gli fa vedere la possibilità del complotto, saldando insieme elementi vari con la rapidità splendente che lo contraddistingue. Che l’analisi sia sbagliata, non è già motivo per irridere alla défaillance conoscitiva dell’eroe ma solo per constatare, ancora una volta, l’urto annichilante tra il soggetto e il principio di realtà. E l’istanza conoscitiva non abbandona Edipo anche quando gli si spalancano le porte dell’abisso: mentre tutti, da Tiresia a Giocasta, lo pregano di abbandonare la ricerca, va fino in fondo a scoprire il suo spaventoso doppio. Quando il pastore dice «Ahimè, sto per dire la parola tremenda», Edipo gli risponde con quello che nonostante tutto è ancora un dominio eroico sull’orrore: «E io per sentirla. Ma sentirla bisogna» (1169-70). 3.6. Il Filottete
Il tardo Filottete (408) ha in comune con l’Aiace l’ispirazione omerica; in senso anzi più preciso perché all'argomento fondamentale dell’Zliade, l’ira di Achille, si avvicina il concreto sviluppo dell’azione: Filottete, abbandonato dai Greci a Lemno perché la ferita al piede rende insopportabile la sua vicinanza, si rifiuta di tornare a Troia quando viene richiamato perché un oracolo ha indicato come necessario alla vittoria l’arco che ha avuto in eredità di Eracle. Il rifiuto persiste, più volte ripetuto, fino a quando Eracle in persona non interviene a convincerlo e dunque, più ancora forse di Aiace, Filottete porta ad estremo rigore la caratteristica eroica dell’irremovibilità. Nei confronti di Achille lo differenzia ovviamente la dimensione tragica, anche in questo caso imperniata sulla bipolarità. Filottete è definito, come Aiace, da un’eccellenza idiosincratica che, come capitava ad Aiace, subisce e supera un’aggressione normalizzante. Odisseo dichiara che non c’è bisogno di Filottete ma solo del suo arco che altri, magari lui stesso, possono maneggiare
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altrettanto bene (1055-9). Ma questo, che non ingiustamente viene chiamato “bluff”, non convince, e nella fattispecie non convince il suo giovane compagno, Neottolemo figlio di Achille, il quale, in conseguenza di una profonda crisi psichica, solidarizza con Filottete e gli restituisce l’arco che era riuscito a sottrargli, obbedendo a suggerimenti astuti. Quell’arco è l’oggettivazione dell’aristia e si rivela inseparabile dalla persona. Accanto all’aristfa, ecco la desolazione infelice, che Sofocle ha ingigantito aggiungendo alla selvaggia violenza del dolore fisico la solitudine del deserto (sia Eschilo che Euripide facevano Lemno abitata). Ma Filottete ha acquisito una conoscenza della malattia che gli fa prevedere la durata degli accessi e in qualche modo dunque li controlla; l’eremitaggio ha suscitato l’inventivitä, portandolo a ripercorrere, prima di Robinson Crousoe, la ricostruzione dei fondamenti della civiltà umana. Soprattutto, di questa situazione infelice si può dire che viene scelta,
preferita a un’autentica alternativa, la quale gli offre, oltre al rimedio ai
suoi mali, la guarigione e la reintegrazione tra i compagni, la gloria di essere il vincitore di Troia. A tutto è disposto a rinunciare pur di evitare il contatto con l’umanità che considera corrotta. Si può vedere in ciò l'intensità cieca dell’odio (secondo l’esegesi colpevolizzante che neppure in questo caso è mancata) o il valore dei princìpi che non possono venire subordinati alle circostanze, proprio al contrario di quanto afferma Odisseo (1049-51). Ma si propenda per un’interpretazione in bonam o in malam partem, è innegabile che da quella stessa disgrazia di cui altri non tollerano neppure la vista, Filottete non si lascia ricattare. Fiorisce nella tragedia, esplorata con grande delicatezza, l’amicizia con Neottolemo, figura tanto appassionatamente indagata che ha suscitato qualche dubbio sulla funzione protagonistica. Dubbi eccessivi; l’evidente affinità che lega Filottete e il figlio di Achille, opponendoli entrambi al mimetico Odisseo, è attraversata dalla differenza più profonda, definitoria dell’esperienza tragica, che è appunto il dolore. Il problema si pone in termini diversi. Nelle tragedie più antiche non si metteva in dubbio che la diversità del protagonista comportasse anche la dimensione esistenziale della solitudine; nelle più recenti (oltre che nel Filottete, nell’Elettra, che ritrova alla fine la concordia vibrante dei fratelli), si affaccia l’ipotesi che questa associazione non sia necessaria, in altre parole
che la diversità possa venire accettata all’interno di confortanti vincoli sociali; ipotesi che viene esaltata dall’Edipo a Colono. 3.7. L’Edipo a Colono
Tema della tragedia è la ricerca della vera patria per l’eroe che, avendo assorbito dentro di sé, con la definitiva scoperta della propria innocenza, il conflitto tra re e mostro, rimane segnato tuttavia dalle con-
traddizioni tra la purità interiore e la contaminazione. Mentre alla scoperta del suo tragico passato desiderava l'emarginazione da Tebe come un altro sostituto simbolico della morte (dopo l’accecamento), essa non gli è stata data allora in dono, ma successivamente imposta; eccolo dunque errare nella miseria, nell’infelicità. Ma ecco anche che, come per
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Elettra, le manifestazioni del dolore non sono distinguibili da quelle dell’odio: una potente forza distruttiva nei confronti dell’ambiente familiare che lo ha espulso, la quale a sua volta si converte in potente forza protettiva nei confronti di Atene salvatrice. E poiché ora gli dei amano Edipo (tanto immotivatamente quanto prima lo hanno odiato), ecco che le sue volizioni, positive e negative, arriveranno a compimento facendone il genius loci dell’Attica, attraverso una trasfigurazione che ribalta il senso delle mutazioni polari enunciate da Tiresia nell’Edipo Re: il cieco diviene la guida di tutti. A ricordare il nesso sofocleo inscindibile tra dolore e trionfo resta il pianto di Antigone e una sua frase stupita e stupenda: «Ma c’è una nostalgia anche della sventura» (1697). 4. Euripide (485?-406) 4.1. Gli uomini come sono
Euripide, ovvero gli uomini come sono, secondo l’antinomia già ricordata. O meglio, come dice Browning, «il nostro Euripide, l’umano,/ con le sue gocce di lacrime calde,/e il suo toccare le cose comuni,/ finché giungevano alte, a toccare le sfere». La distanza tra il mito e l’attualità, più che accorciarsi, si brucia nel corto circuito di una partecipazione osmotica, promiscua; non si può vivere il mito tragico se non decodificandolo come pertinenza quotidiana. Forse è utile fare subito un esempio. Nessuno chiamerebbe “donna comune” una Medea che uccide i propri figli per vendicare il suo amore tradito; e la struttura di Medea (431) potrebbe anche dirsi sofoclea per la centralità di un personaggio gigantesco, e più precisamente avvicinarsi all’ Aiace per la stessa scelta di uno strumento espressivo e scenico privilegiato, una sequenza di monologhi a reggere il peso della significazione, riducendo quasi a tessuto connettivo le altre parti. Eppure Medea, che fa ciò che nessuna donna comune farebbe, lo fa anche in nome di infelicità e diritti che non toccano lei sola: nella sua specificità, porta il peso di diverse situazioni collettive che interferiscono in lei, la subordinazione femminile, lo sradicamento dello straniero, l'emarginazione dell’intellettuale. Questo fenomeno comporta conseguenze assai più vaste dell’attualizzazione spicciola nella politica contemporanea (è verissimo che quando Andromaca nella tragedia omonima esprime il suo rancore contro il re di Sparta, Menelao, esprime anche il rancore di una città impegnata contro Sparta in una lotta mortale; ma ho già detto quanto sia pericoloso generalizzare queste equivalenze). Invece, rifiutare la lontananza del passato significa rifiutare la sua incommensurabilità, impedire che una sua qualunque dimensione si sottragga all’esercizio dell’indagine critica che il poeta ha maturato nella sua autentica vocazione all’ideologia e nella sua familiarità con la cultura filosofica e scientifica: è quello che tante volte è stato chiamato il ‘razionalismo’ di Euripide, e che Aristofane, purtroppo seguito da molti altri, degradava a cavillo accademico e a jeu de massacre dei valori. Ma lo sguardo che impietosamente penetra certezze e tabù rimettendoli in discussione non è l’una né l’altra cosa, non fosse
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altro perché la ragione mette in discussione anche se stessa, e insieme alle radici del mondo tocca le proprie doloranti radici. Bene ha detto B. Snell che nessun greco è stato infelice quanto Euripide per l’acutezza del proprio intelletto; e in Medea, come già detto, e nell’Antiope che pur-
troppo abbiamo perduto, ma dove si confrontavano i modelli della vita
pratica e della vita contemplativa, quest’angoscia è fatta esplicita. L’indagine da vicino sulla realtà non può che riconoscerne la categoria dominante, che è il compromesso, non quale grandiosa soluzione conciliatoria come in Eschilo, ma quale assunzione contemporanea di dati contrastanti. Continuando a usare come termine di confronto la felice circostanza che di tutti e tre i tragici possediamo il trattamento della saga degli Atridi nella sua fase culminante, diremo che Euripide può condannare senza mezzi termini il matricidio eppure serbare per Elettra comprensione profonda e tenerezza. Può anche scoprire nel ruolo istituzionale del vilain possibilità di identificazione; Euristeo, persecutore degli Eraclidi nella tragedia omonima, nella sconfitta e nella morte trova modo di illuminare la sua malvagità alla luce dell'angoscia e della paura sofferta. Può scoprire che l’equilibrio tra ragione e passione nell’uomo è assai diverso da quello che le Weltanschauungen idealizzanti codificheranno in Platone come dominio sull’emotività (donde quello che è stato chiamato l’irrazionalismo di Euripide); può — ed è la sua conquista più coraggiosa — mettere a nudo la banalità che ha parte in ogni gesto umano, nelle ferocie abissali e negli slanci sublimi, ed è l’alternativa esegetica dell’evento, il rischio che incombe sull’eccezionalità degli eroi: Eracle, che ha sterminato la sua famiglia sotto l’impulso della pazzia, è preso da un immenso e grandioso desiderio di morte, ma, una volta convinto dall’amico Teseo a restare in vita, si preoccupa che sia fissato il compenso per la sua ultima fatica, facendo balenare per un attimo l’immagine mercenaria che è oggetto dell’acre humour di Dürrenmatt. Ma il confronto può riuscire fuorviante perché qui non c’è nessuna dissacrazione; si constata semplicemente che l’uomo è anche questo, e l’eroe è uomo. Mensura rerum secondo Protagora, e centro dell’universo: questa tragedia non può non tornare a discutere il problema della causa degli eventi, e discuterla in termini assai lontani dalle convinzioni insieme problematiche e universali di Eschilo. 4.2. Attività e passività dell’uomo
Alla domanda «quale ruolo ha l’uomo nella vicenda tragica, soggetto o oggetto, creatore o vittima?», la sperimentazione scientifica risponde
con una pluralità di modelli afferenti a varie forme di presenza creativa o passiva: noAAoi uoppai tv dauuoviwv, cioè «molte sono le forme dei destini umani», è quasi un ritornello che si ripete in chiusura di alcune tragedie. E a seconda di come uomini diversi, in cui diversamente si mescolano forza e fragilità, incrociano i loro cammini tra loro e con l’imponderabile, si hanno modi diversi di fare teatro. In questo rapido resoconto, che rischia di riuscire più insufficiente che per Eschilo e Sofocle (perché nel caso di Euripide la sua fortuna
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presso i posteri e la sorte ci hanno lasciato una assai più larga testimonianza), sarà utile inquadrare la fenomenologia tragica tra due estremi che mi sembrano chiaramente delineati: due tragedie in cui la stessa azione — un essere umano che uccide i propri figli — nasce in modi opposti. Da Medea, come esito di un dibattito interiore articolato, capace di sviscerare le ragioni che impongono e quelle che ostacolano l’atto sanguinoso. Da Eracle, per l’irruzione subitanea in lui di una forza allotria e incontrollabile, mossa dall’ostilità divina. Da un lato quindi il senso della vita racchiuso nel dialogo con se stessa, dall’altro l’assenza di
senso che capovolge e vanifica un’azione che pare felicemente conclusa: i figli di Eracle hanno già corso un pericolo mortale, quello di essere uccisi dal tiranno Lico, e proprio il ritorno improvviso del padre li ha liberati, appena prima che la sua mente fosse ottenebrata. Da un lato l’onnipotenza del singolo (per cui si è parlato non impropriamente di rivoluzione copernicana) che si affida a un pensiero e ad una parola inventivi: ho già detto che i monologhi interiori costituiscono tutte e sole le parti determinanti di Medea. Dall’altro, la voce di Eracle è debole e occultata: lo svolgersi allucinante della pazzia è documentato dal racconto epico che solo attraverso occasionali drammatizzazioni di secondo grado fa sentire un parlato grottesco. Rinsavito, Eracle pronunzia un discorso non meno lucido di quelli di Medea, che mette in luce come potenza e impotenza dell’uomo abbiano per comune orizzonte l’infelicità. È questo il solo limite alla potenza, mentre la consapevolezza è il solo limite all’impotenza. Nell’intervallo tra queste due situazioni si collocano tutte le altre, secondo una sequenza scalare, a cui — è bene precisarlo — non è possibile far corrispondere un'evoluzione cronologica. Però sicuramente nell’ultima parte della carriera di Euripide sono irrecuperabili le grandi ipotesi di creatività che avevano dominato quella che per noi è la sua prima ase. 4.3. La morte come scelta
L’Alcesti (438) è anch’essa affermazione incondizionata di una volontà femminile; sacrificando la sua vita per salvare quella di Admeto, Alcesti precede Medea nella capacità di determinare univocamente l’esistenza del partner; qui in senso benefico, ma le analogie tra le due tragedie si fanno maggiori se si pensa che la distruttività di Medea è la controparte di un beneficio che non ha ricevuto la charis dovuta. Peculiarità preziosa di Alcesti è invece la trasformazione del sacrificio in un rapporto perpetuo, che sfida la morte e ne contesta il carattere irrevocabile attraverso la volontà concorde delle due persone, prima che attraverso il miracolo. E uno spazio immenso di autonomia ha anche Fedra, autentica protagonista della tragedia che s'intitola Ippolito (428); spazio tanto più sorprendente in quanto fin dall’inizio si sa che il suo amore per il figliastro è il frutto della volontà nemica di Afrodite. Ma anche di fronte a un condizionamento irrimediabile, resta compito del-
l’uomo metterlo a confronto con le altre forze agenti nella vita. In que-
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sto caso l’amore intrattiene con il principio etico una dialettica serrata che esalta entrambe le forze in gioco, e pur assegnando la vittoria alla repressione segna altresì a vantaggio dell’eros un privilegio semiotico che si risolve in una evidente richiesta di identificazione emotiva. Lo stesso fatto che la passione possa rivelarsi (in una scena indimenticabile, cui Racine, che per il resto ha innovato moltissimo, si è tenuto assai stretto) è storicamente un evento capitale, se è vero che l’ineffabilità è la forma compiuta della repressione, e la sola sicura. Proprio la propalazione della realtà amorosa al destinatario, fatta imprudentemente dalla nutrice, conduce Fedra a morire per salvare il proprio onore e, per lo stesso scopo, a calunniare la persona amata trascinandola nello stesso destino. La morte volontaria, che è la scelta per antonomasia, comportando il superamento del maggiore ostacolo, quello narcisistico, può tuttavia subire una fortissima limitazione al suo carattere autonomo, allorché dal processo riflessivo risulta che quella che si sceglie è una via obbligata, e
dall'esterno, non, come nell’Aiace di Sofocle, dalla natura del proprio
essere. Si avrà allora non una rinuncia alla decisionalità, ma una sorta di decisionalità minore che si esprime nei vari modi in cui è possibile accogliere l’obbligo dentro di sé: così Polissena nell’Ecuba è immolata dai Greci sulla tomba di Achille, ma vuole morire libera, senza che nessuno la tocchi, e, prima ancora, rifiuta di continuare a effondere inutili preghiere. Cassandra nelle Troiane (415) accetta la morte (perché lo sguardo lungimirante le consente di vedere che andare in Grecia al seguito di Agamennone è per lei la morte) e generalizza, in un discorso teorico, il valore del come si muore: i Troiani dando la vita per la loro patria, i Greci per uno scopo ingiusto e in una catena di orrori. Meneceo nelle Fenicie si sacrifica perché il suo sangue è indispensabile alla vittoria tebana contro i Sette, Macaria negli Eraclidi perché per sconfiggere i loro persecutori è indispensabile il sangue di una vergine; entrambi esaminano le chances di rifiutare l’ordine divino, solo per scoprire al di là di questo eventuale gesto una vita insostenibile, vuota d’onore e di affetti. Ciò peraltro determina un orgoglioso soprassalto di autonomia; Meneceo inganna il padre che gli ha predisposto la via della fuga, Macaria rifiuta un sorteggio tra le figlie di Eracle proprio perché la corona di salvatrice risponda non al caso, ma a un preciso volere. 4.4. La struttura policentrica
La riduzione di creatività che investe questi atti eroici è solidale ad una riduzione della preponderanza semiotica del singolo. Se già di Fedra si è potuto disconoscere il protagonismo, dei personaggi che ho nominati dopo di lei in nessun modo si può sostenere che siano i protagonisti della tragedia cui appartengono. L’Ecuba è sì la tragedia di Polissena, ma investe anche la vendetta che Ecuba si prende per l’uccisione dell’altro suo figlio Polidoro da parte dell’ospite avido e traditore Polimestore, una vendetta scandagliata con precisione nel progetto e attuata con limpida ferocia; affermazione di sé non inferiore a quella di Medea, se non ap-
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punto per il ridimensionamento causato dal non occupare l’intero spazio drammaturgico. Le Troiane sono la tragedia di Cassandra, ma anche del piccolo Astianatte barbaramente ucciso dai Greci, e della tenerezza nostalgica che lascia dietro a sé; nonché della discussione appassionata e lucida che investe la colpa di Elena. Gli Eraclidi, come le Supplici, hanno il loro nucleo nel mito di Atene protettrice degli oppressi, e nelle ambiguità che questo ruolo, indagato senza concessioni al patriottismo acritico, può suscitare. E se nonostante le ambiguità in ambedue queste tragedie si può parlare comunque di “guerra giusta”, le Fenicie sono il resoconto gelido di una guerra ingiusta, dove il dibattito può sempre fondarsi sui torti dell'avversario, mai sulle proprie ragioni: dei due maledetti figli di Edipo, Eteocle è un prevaricatore che non rispetta il patto di regnare a turno, Polinice un sacrilego che per riconquistarla viola la terra materna. Sono solo esempi che mostrano come la tragedia a struttura centrale sia in Euripide l’eccezione e non la regola; predomina una concezione policentrica dell'organismo drammatico e un’idea del tragico come interazione fra comportamenti, e di conseguenza il posto decisivo che nella Medea spettava al monologo spetta per lo più all’agone dialettico,
dove,
come
nel
monologo,
si affrontano
due
forze,
ma
il
campo di tensione che esse stabiliscono si sposta dall’interiorità al macrocontesto dei rapporti interpersonali, quando non anche politici, interistituzionali. Di per sé l’agone non è necessariamente un momento recessivo del-
l’individualità dominante (lo mostra bene la commedia di Aristofane, dove ne è anzi il momento esaltativo), perché se è vero che essa viene limitata dal semplice fatto di avere a che fare con un’alteritä che ha istanze proprie, ha anche a sua disposizione lo strumento per spostarla, ridurla, assimilarla: la parola, a cui i sofisti e Gorgia in particolare attribuivano l’onnipotenza. Euripide non condivide però questa idolatria; né sul piano dei valori (si trovano in lui occasionali lodi della retorica, ma una massiccia testimonianza del principio che le belle parole non coprono le azioni turpi, ne sono semmai un’aggravante); e ancor meno sul piano dei fatti: il poeta si mostra ben consapevole che la parola non è in grado di sovvertire i reali rapporti di potere, rispetto ai quali può perfino risultare autolesionistica; nell’Andromaca (186-90) si dice che chi detiene il dominio non è scalfito dalla limpidezza delle argomentazioni contrarie alla sua tesi, ne è imbestialito. Ma anche la retorica che al di là delle definizioni assolute, volta per volta, si sottragga a queste ipoteche, vale a dire la retorica vincente in nome di una causa giusta, non s'impegna mai senza rischi nell’agone. Al bilanciamento delle strutture formali corrisponde quasi sempre un effet-
tivo equilibrio di forze e di dignità. Ciò avviene perché, ancora una volta, più l’investigazione del reale scende nel profondo, e più rivela sfaccettature e nessi complicati. Così avviene che nessun eroe è tanto puro che la ragione anche maligna del suo nemico non possa in qualche misura macchiarlo; nessun argomento così forte da superare l’argomento avverso senza pagare tributi pesanti.
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Un esempio solo: nelle Supplici il personaggio mitico più caro agli Ateniesi, Teseo, sostiene la causa delle madri dei caduti argivi nella guerra dei Sette, che chiedono la sepoltura dei loro figli, negata dai Tebani; gli sta di fronte appunto il rappresentante dei Tebani, personaggio marcato da chiari segnali negativi anche al di là della causa empia che difende; eppure trova modo di seminare incertezze sulla limpidità del comportamento di Atene, riportandolo a quell’interventismo imperialistico (polypragmosyne) che spesso gli Ateniesi si sentivano rimproverare nel dibattito internazionale, ed era certo oggetto anche di distonie interne;
più ancora, acquista attendibilità piena allorché descrive gli orrori della guerra come originati dalla follia umana. Se questa era, come la tradizione alessandrina ci assicura — e come in fondo non abbiamo ragione di negare — una tragedia encomiastica, ecco che l’esempio diventa sufficiente a spiegare come l’irriducibile spirito critico del poeta trovasse tra i suoi concittadini enorme interesse, ma mai tranquillo consenso; e a spiegare, dunque, gli insuccessi della sua carriera. 4.5. Il crepuscolo degli eroi
Il dialogo di Euripide è insieme piano e teso, specchio di relazioni orizzontali che hanno ridotto se non annullato le gerarchie. Questo punto investivano due accuse complementari di Aristofane: l’aver tolto la dignità aulica agli eroi del mito e l’aver creato una sorta di democrazia scenica dove avevano diritto di parola anche le persone più umili. Stracci, miseria, e degrado fisico, che Aristofane attribuisce all’eroe di Euripide, ben difficilmente potrebbero essere considerati sua peculiarità esclusiva da chi avesse assistito al Filottete, ma il poeta comico ha probabilmente colto con esattezza la diversa Stimmung psichica con cui si portavano stracci e ferite: Filottete, ben lungi dall’essere umiliato, ne faceva il monumento della propria incrollabilità (cfr. supra, pp. 139-40). Di Euripide noi non possediamo il Telefo, cioè il dramma su cui a questo riguardo Aristofane insisteva ossessivamente, ma possiamo ricavare indicazioni bastanti dal Menelao dell’E/ena (412), che approda lacero e misero alle spiagge d’Egitto, e constatare in lui un avvilimento dimesso, una complicità con la propria miseria, che accetta di vedere relegato il passato eroico tra le memorie ineffettuali, e nel presente si piega ad un codice anti-eroico per il quale neppure il sacro dovere dell’ospitalità è
più incondizionato, ma messo in subordine alle disponibilità finanziarie.
Perduto il modello dell’umanità luminosa (dice Aristofane), la classe dirigente di Atene si adeguava a questa miseria strisciante, e ne traeva pretesto per sottrarsi ai doveri inerenti alla sua dignità (Ra. 1065-6). D'altro canto, la classe subalterna poteva trarre motivo di emancipazione dalla nuova dignità che le veniva attribuita, per cui, mentre nutrici e servi avevano parte nel linguaggio di Eschilo e Sofocle solo come personaggi protatici, in Euripide un dialogo tra persone socialmente lontane poteva non essere a priori orientato da uno scarto di rilievo e di valori. Nell’Ifigenia in Aulide Menelao e un vecchio servo di Agamennone
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discutono con serrata equivalenza sulla sorte di Ifigenia. La nobiltà non ha più mezzi certi per farsi riconoscere, dice Oreste nell’Elettra. L’influsso della sofistica, che soprattutto in Antifonte arriva a una chiara teorizzazione sull’unità del genere umano, è innegabile; può essere giusto non dare troppo peso “politico” alle affermazioni rivoluzionarie di Euripide, ma è più difficile sminuire il valore immediatamente espresso dalla presenza scenica, che si risolve in una indiscutibile affermazione metalinguistica. Essere soggetti di azione drammatica non è certo ancora essere soggetti storico-politici, ma la conquista della realtà non
è forse uno dei momenti essenziali nell'accesso ai sistemi di comunicazione fra gli uomini e al loro modo di rappresentare la propria immagine? Nessuno più di Aristofane sapeva quanta forza al proposito potesse avere il teatro. 4.6. La lotta per la sopravvivenza
C'è un gruppo di tragedie euripidee dove tutte le energie psichiche dei personaggi sono convogliate all'unico fine di conservare la propria vita, compromessa da circostanze difficili. È il caso delle due tragedie gemelle, Elena e Ifigenia fra i Tauri: nella prima Euripide segue la versione secondo la quale Elena non è mai andata a Troia ma è stata portata in Egitto, dove è prigioniera delle avances amorose del re Teoclimeno. Tornerà in Grecia con Menelao, ingannando il re con una falsa cerimonia religiosa. E allo stesso modo ingannano il re dei Tauri Toante, Ifigenia, sfuggita al sacrificio di Aulide e trasportata in terra barbara a fare la sacerdotessa di sacrifici umani, e Oreste che, mandato a compiere l’ultimo oracolo, rischia di essere a sua volta vittima rituale. L’Oreste contempla uno scioglimento ancora diverso della saga degli Atridi: perseguitato dalle Erinni, Oreste lo è anche dalla giustizia umana, e il suo caso viene dibattuto non nel quadro del conflitto divino, come nelle Eumenidi, ma nel quadro di serrate alternative etico-politiche; condannato insieme ad Elettra e al solidale Pilade, progetta di sfuggire alla morte o almeno di vendicarsi dell’indifferenza di Menelao uccidendo Elena e prendendo come ostaggio la figlia di lei, Ermione: un intervento divino concilia tutto sottraendo Elena e ipotizzando un futuro matrimonio tra Oreste ed Ermione. Che l’obiettivo perseguito sia non più traducibile in termini di quotidianità, ma si identifichi senza residui con il desiderio fondamentale dell’uomo comune, toglie a queste tragedie ogni carattere di scarto, di eccezionalità che sia fondato sull’evento; l’interesse infatti si sposta sugli espedienti necessari a salvarsi: è in queste modalità che si esprime la capacità inventiva dell’uomo, ma ottiene il successo in forme tutt’altro che lineari (caso limite è la caotica serie di colpi di scena nell’Oreste). La pressione delle casualità è assai forte e il tema del riconoscimento inaspettato, che riflette appunto la casualità dei rapporti intersoggettivi, assume dignità emblematica. Tragedia imperniata sull’obiettivo minimale di una sopravvivenza è anche l’/figenia in Aulide, almeno per quella sua larghissima parte in cui
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si svolgono — e richiedono la piena identificazione dello spettatore — i tentativi di sottrarre Ifigenia al sacrificio; poi bruscamente il modello tragico si converte, focalizzandosi sul tema della morte volontaria. Que-
sta contaminazione ha trovato fin da Aristotele critici impietosi; io credo invece che grazie ad essa l’/figenia in Aulide sia l’ultima delle grandi tragedie euripidee che affrontano il tema della capacità deliberativa dell’uomo; ma lo affronta non più come manifestazione di energia psichica, bensì nella sua patologia e debolezza. Il dibattito si svolge tutto sul piano intellettivo e usa i più nobili strumenti espressivi del pensiero, sia il monologo che l’agone; che in un fatto casuale (l’arrivo di Ifigenia alla quale stava mandando l’ordine di non venire) Agamennone riconosca l’inevitabile, indica solo la fragilità del suo sistema volitivo e meditativo, che si è già svolto in una serie affannosa di ripensamenti perché di per sé l’arrivo di Ifigenia non chiude le porte alla possibilità di salvezza, per cui si batterà indomabilmente Clitennestra. Ma tranne il volere nucleare e irriducibile della maternità, anche i percorsi mentali degli altri personaggi sono travagliati e distonici: Mene-
lao, che riceve e restituisce al fratello l’accusa di far prevalere il privato
sul pubblico, rappresenta al vivo le ragioni della guerra, ma l’affetto familiare per Agamennone ha ragione ad un certo punto in lui sull’affetto vendicativo per Elena; proprio allora però Agamennone è convinto di non poter più salvare sua figlia e la resipiscenza di Menelao adempie di fatto la crudele funzione di collaudare la certezza disperata. Achille passa da un primo atteggiamento di impazienza guerriera al ruolo di difensore di Ifigenia, che non abbandona neppure quando, col mutamento più sconcertante, Ifigenia stessa, dopo avere esercitato col massimo patetismo la mozione degli affetti, ha ‘deciso’ di morire: la sua virtù entusiasma il giovane eroe che ora vorrebbe autentico il matrimonio con lei, che è l’esca con la quale Ifigenia è stata attirata in Aulide. La volontà autodistruttiva di Ifigenia ha naturalmente la meglio, ma non può fondarsi sulla giusta causa che avallava in casi analoghi i sacrifici volontari, perché troppe volte la ‘causa’ della guerra contro Troia è stata, nel dramma, detta (e direi dimostrata) non giusta. Si sente piuttosto in lei un entusiasmo indotto, una specie di contagio da quella che nelle Supplici è chiamata «follia di guerra» e che nasconde dietro il razzismo (tautologico come tutti i razzismi) la fragilità delle proprie motivazioni. Insomma, nell’/figenia in Aulide la facoltà decisionale non è esplicitamente negata, ma come smontata in frammenti che non rispettano il principio di non contraddizione; la sua inconsistenza emerge altrettanto chiara come nei modelli che, invece, esplicitamente la negano, e di cui ho già additato il vertice nell’Eracle. 4.7. La vittima dell’azione tragica
Data la natura prevalentemente policentrica del dramma euripideo, troviamo nuclei tragici fondati sull’oggettualità dell’uomo anche all’interno di tragedie più antiche e più sbilanciate verso la posizione opposta: il caso più evidente è quello dell’[ppolito, dove accanto alla superba sog-
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gettività di Fedra, il giovane Ippolito vive la sua tragedia di vittima incolpevole di uno scontro tra le forze divine, senza che il suo comportamento giustifichi un nessun modo (che non sia ironico-antifrastico) la sua sorte. Eracle e Ippolito sono distrutti dagli dei per le loro virtù, e come in Eracle uno psicologismo antistorico ha voluto vedere una predisposizione alla follia, così in Ippolito una psicanalizzazione indebita ha trascritto la sua castità in nevrosi; in nessuno dei due casi il testo consente di affidare all’uomo anche solo una partecipazione complice al piano divino. C'è, invece, questa complicità nelle Baccanti, e ne rende ancora più enigmatica la struttura. A prima vista, è una tragedia duplicemente arcaizzante: perché indaga la storia sacra e perché la indaga secondo un modello basilare eschileo. L'uomo, il re di Tebe, Penteo, commette colpa di empietà disconoscendo il dio, e il dio lo punisce in maniera atroce facendolo sbranare dalle Menadi (tra cui la sua stessa madre!) sul monte; ma prima facendogli credere che andando sul monte a spiare i riti misterici delle donne riporterà la pace in Tebe. Più atroce è il fatto che questo inganno si mescola a tratti di ritualità corretta che farebbero pensare a una conversione di Penteo, e peraltro portano alla sua rovina; in
altre parole, lo strazio della carne avviene solo quando è compiuta la devastazione psichica, che non è una follia subitanea come quella di Eracle, bensì un dominio progressivo del dio che incide nell’umanità tratti morbosi, in modo che le intenzioni si capovolgano nei fatti. Quest'ultimo risultato può darsi anche senza che una volontà onnisciente e spietata guidi i passi dell’uomo. Nello Zone due persone ferite nelle aspirazioni affettive compiono atti che frustrerebbero per sempre quelle aspirazioni. Creusa, avuto da Apollo un bambino che le è stato sottratto, cerca di avvelenare il giovane che crede figlio illegittimo del marito Xuto (ed è stato Apollo a far credere che così fosse), mentre non è altri che suo figlio; e Ione a sua volta va assai vicino ad uccidere la madre che crede matrigna. Il dio che agisce è stavolta benigno, ma impacciato. Il dilemma empio che Anfitrione nell’Eracle (347) osa applicare a Zeus («o ti manca la saggezza, o la giustizia»), per l’Apollo dell’/one andrebbe senz’altro risolto nel primo senso, e del resto “stolto” è definito senza mezzi termini l’oracolo delfico sul dovere matricida di Oreste. 4.8. Gli dei di Euripide
In ogni caso, ambedue i corni del dilemma dovevano essere d’allarme per un pubblico che vedeva aggredite le certezze tranquillizzanti, e una fede che, se anche non profonda, assolveva le funzioni di architrave del sistema assiologico; e per questo pubblico, ancora una volta parla Aristofane accusando Euripide di non credere all’esistenza degli dei. Per quel che ne sappiamo, alla professione di ateismo Euripide arrivò una volta sola, nel Bellerofonte (e lo stato frammentario di questa testimonianza deve indurre alla più grande cautela); in un numero molto maggiore di occasioni la ricerca sul divino, che in Euripide, a differenza che
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in Sofocle, si compie come fondamento necessario della ricerca sulla vita umana, approda al dubbio. Nell’Ecuba (488-98) Taltibio si chiede se di fronte allo spettacolo della vecchia e incolpevole regina, passata dalla gloria alla polvere sordida, si possa parlare di una provvidenza divina; nell’ Elettra (737-42) si mette in dubbio la leggenda che le antiche atrocità familiari abbiano potuto provocare sconvolgimenti astronomici. Sarà il caso, la Tyche (astrazione ormai matura per la divinizzazione ellenistica) a reggere le sorti universali? Forse ciò che chiamiamo Zeus non è un'entità personale, ma una forza gigantesca del cosmo o dell’umanitä stessa? Sono, anche in Euripide, domande, e in un coro dell’Elena il poeta, col tono stanco del razionalista deluso, dichiara la sua incapacità a rispondere. L'uomo pensante, si senta creatore o creatura, manifesta la sua solitudine nel mondo attraverso il metalinguaggio come attraverso la rappresentazione: hanno perso comunque credito le strutture di mediazione religiosa; se Euripide attacca frequentemente la mantica non è soltanto perché l’oracolo di Delfi teneva notoriamente un atteggiamento
sfavorevole ad Atene nella guerra. 5. Aristofane (4452-3807?) 5.1. La fantasia egotica
Può essere vantaggioso utilizzare come punto di riferimento l’interpretazione che è stata data della commedia antica come rovesciamento della tragedia: una fantasia d’angoscia rovesciata in fantasia d’onnipotenza; essa è in grado di spiegare non interamente tutte le commedie, ma senza dubbio la maggior parte delle funzioni significative che hanno spazio in esse. Anzitutto, la rigorosa centralizzazione della strutture, che rende la gerarchia semiotica della commedia singolarmente vicina a quella della tragedia sofoclea; tutto ciò che avviene passa attraverso una singola personalità straripante, che funzionalizza a sé le altre presenze sceniche. Non fanno eccezione autentica gli Uccelli, dove due Ateniesi nauseati della loro città vanno a fondare una città utopica (ma Evelpide diventa ben presto evanescente, semplice “spalla” di Pistetero), né i Cavalieri, dove la rabbia contro il demagogo Cleone, capo della fazione invisa ad Aristofane, ha all’inizio una strutturazione corale, ma poi evoca da sé un individuo, il Salsicciaio, capace di tenere testa al nemico. L’unità protagonistica è invece effettivamente violata nello svolgimento del Pluto, dove, in modo simmetrico rispetto agli Uccelli, è una sola persona, Cremilo, a formulare l’ipotesi della commedia (restituire la
vista alla divinità della ricchezza, proponendo una distribuzione etica della ricchezza stessa), ma poi il compimento si attua attraverso lo sdoppiamento in due persone, Cremilo e il suo servo Carione. Il problema non si pone in questi termini nelle due commedie di poetica, la Tesmoforiazuse e le Rane: nella prima abbiamo un protagonista, Mnesiloco, congiunto di Euripide, che si insinua travestito da donna nella festa delle Tesmoforie per difendere il poeta accusato di misoginia, è fatto prigioniero e con ogni sforzo cerca di recuperare la libertà; questa tematica
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gioca a nascondere piuttosto che ad esaltare l’individualità, e la mimesi rappresentata si lascia guidare dalla mimesi parodica della poesia. Nelle Rane il personaggio centrale è Dioniso che scende nell’Ade per riportare tra i vivi Euripide, di cui è ammiratore; ma come all’amore per Euripide si sovrappone il dibattito sulla funzione sociale della cultura (che farà riportare in vita Eschilo!), così al dio si sovrappone una voce d’autore, che con maggiore solennità dichiara i propri intenti didattici, e a questo scopo è disposto a rinunciare alla funzione dell’eroe comico, cui è affidata nelle altre commedie la “politica”, vale a dire il compito di confrontarsi con il mondo. 5.2. La politicità delle commedie
Politiche, queste commedie lo sono tutte, e anche quando investono il campo della formazione culturale; lo sono anche, e fortemente, gli Uccelli, spesso visti come una pièce evasiva: ma giustappunto il rifiuto globale dell’attualità, che assorbe in un solo gesto le aggressioni dettagliate, è atteggiamento politico, e dei più rilevanti. Il modello comico più frequente mette in tensione la figura centrale con il sistema o regime in cui vive e fa scaturire l’azione dell’insopportabilità di esso. Ha luogo dunque uno scontro tra un soggetto di potere, identificato nel governo dei demagoghi e caricato di ogni possibile valenza negativa, e un oggetto identificato nella parte cosciente e ribelle del popolo ateniese e incarnato nel protagonista, cui viene riconosciuta la capacità di invertire i rapporti di dominio. Nella sua forma più semplice troviamo questo modello nei Cavalieri, dove il regime è aggredito per il solo fatto di essere tale, nella sua formalità assoluta. E già dai Cavalieri
risulta chiara la necessità di una precisazione; l’impulso ribelle, per quanto investa violentemente l’attualità, non è rivoluzionario, è restaurativo. Quando la vittoria è stata ottenuta (con l’amarissimo espediente di essere più malvagio e spregevole dell’avversario), il vecchio che porta il nome simbolico del popolo, Demo, si presenta sulla scena ringiovanito, eguale ai tempi della gloria ateniese mitica e dell’incorruttibilità, i tempi eschilei di Maratona. È questo passato che per Aristofane costituisce il canone assiologico e il punto di riferimento di ogni speranza; ed è questa volontà di potere ancorata a virtù nostalgiche che lo spettatore è chiamato a condividere. Rivolto al passato è anche l’obiettivo delle tre commedie ‘pacifiste’: Gli Acarnesi,
La Pace,
Lisistrata —
scritte in tempi diversi sotto una
costante angoscia di guerra — non propugnano per l’appunto un’ideologia pacifista fondata in positivo, ma chiedono violentemente il ritorno allo status quo ante, lo stato di pace turbato da motivi che vengono denunciati con rigore sarcastico e che stanno costando alla collettività ateniese lo strazio della qualità di vita, dalle immediate esigenze alimentari alla negazione perversa del desiderio amoroso. Lo stesso orientamento è denunciato dal fatto che l’eroe comico è quasi sempre un vecchio, dal Diceopoli degli Acarnesi al Cremilo del Pluto; in quest’ultima commedia
la metafora della cecità rimanda a un
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tempo aureo (stavolta del tutto leggendario) in cui ricchezza ed eticità erano solidali. Ma due commedie, gli Uccelli e le Ecclesiazuse, sono costrette ad avanzare ipotesi realmente nuove. Costrette dalla loro stessa radicalità, prospettano entrambe un presente non solo deteriorato, ma esaurito nelle sue possibilità di rigenerazione. Così gli Uccelli si richiamano anch’essi a una favola antica — che nasconde il substrato culturale del teriomorfismo — ma assumono i loro principi regolativi da un universo che non rinnega solo l’Atene degradata bensì nientemeno che il modello umano: ad esso si contrappongono le norme che regolano un modello animale, costituito dalla libertà che gli uccelli visualizzano con aerea delicatezza, e più concretamente anche dall’abolizione dei divieti, tabù, in genere dei valori consolidati: non vale, soprattutto, il principio di autorità che subordina il figlio al padre, e più latamente, il mondo agli dei. Nelle Ecclesiazuse l’ordine politico ha dichiarato la sua bancarotta, e . nella disperazione non gli resta che affidarsi al solo mezzo che non sia mai stato tentato, ed è la sconfessione del suo primo ed elementare cardine: l’egemonia maschile. Ma ambedue le commedie contengono, accanto a una potente carica alternativa, un’istanza di normalizzazione che la neutralizza: semplicissima e preventiva nelle Ecclesiazuse, dove le donne fondano il proprio diritto a governare sulla loro esperita e indefettibile tendenza conservatrice; analitica, tortuosa e deviante negli Uccelli, dove per varie peripezie si arriva a ritrattare forma e sostanza del “manifesto” rivoluzionario. Nella nuova città il giovane parricida, che si presenta come al suo ovvio luogo di elezione, viene respinto con un esempio sempre tratto dal mondo animale (la pietas erga parentes delle cicogne), ma orientato secondo i precetti tradizionali; gli dei sono sì umiliati e costretti alla fame, ma nell'accordo che si raggiunge alla fine non verranno ‘sostituiti’ dagli uccelli, secondo il programma originario, bensì potranno utilizzarli come strumento del loro tradizionale dominio sugli uomini. Nella nuova città dove ci si era rifugiati ripudiando le lotte politiche e la violenza — e nel linguaggio degli uccelli la caccia è naturalmente la forma iperbolica, cannibalesca della violenza — tutto finisce in un banchetto dove si mangiano le carni di uccelli oppositori del regime, e del programma altro non resta che lo scheletro strutturale: il soddisfacimento della singola volontà di potenza. 5.3. Mania e razionalità
La lotta politica è rappresentata sulla scena come impresa eroica, sottolineando le condizioni di estrema difficoltà da cui muove; per definizione l’eroe parte dalla mancanza di potere, ma questo dato negativo sovente insiste su rappresentazioni fortemente patetiche della classe sociale a cui generalmente appartiene: quella cioè dei piccoli proprietari terrieri, immiseriti dalla guerra e obbligati dall’equivalenza tra potere politico e potere economico all’espropriazione della cosiddetta ‘sovranità popola-
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re’. Ancora più problematico si presenta l’agire per chi ha assunto nella storia un ruolo inveterato di subalternità, e cioè per la donna. L’insieme di queste difficoltà contribuisce a far sì che alla tirannide scenica del protagonista si accompagni — e si ripensa ancora a Sofocle
— un isolamento che non di rado viene fatto pesare come devianza. Co-
me “pazze” parevano Antigone ed Elettra, così lo sembrano Trigeo, il protagonista della Pace che progetta di salire al cielo su di un gigantesco scarafaggio per chiedere conto a Zeus della sua gestione del mondo; Pistetero quando sostiene che agli uccelli spetta il potere universale; Cremilo quando segue senza una ragione apparente un vecchio cieco. E anche dove la qualificazione maniacale non è esplicitamente usata, essa può risultare chiarissima dai comportamenti, come nel Diceopoli degli Acarnesi che nell'assemblea non fa altro che battere ossessivamente sul tasto della pace: e farà lui solo, con gesto surreale, la pace separata con l’impero nemico. Gli Acarnesi sono l’unica commedia in cui all’individualismo nell’iniziativa corrisponda l’individualismo nel successo (vale a dire l'egoismo, mitigato peraltro da una eccezione significativa: l’unguento portatore di pace è da Diceopoli negato a tutti, tranne che alla donna che non vuole vedere il marito partire per la guerra; la tematica di Lisistrata è già qui in nuce). Negli Uccelli a un egotismo rigoroso si arriva quando, come ho detto prima, gli ideali della comunità si rivelano irrealizzabili. Negli altri casi l’eroe affronta da solo l’ideazione del benessere comune perfino quando — è il caso un po’ paradossale della Lisistrata — non solo gli obiettivi, ma anche i mezzi per raggiungerli, nella fattispecie lo sciopero sessuale, si inscrivono necessariamente in un comportamento collettivo. Pure anche Lisistrata ha elaborato da sola, nelle notti insonni, un progetto che alle sue compagne sembra terrificante, e le serve molta fatica a far sì che le altre la seguano, e, soprattutto, perseverino. Diciamo semplicemente che il progetto comico, risoluto a modificare profondamente la realtà, trova prevedibili ostacoli nel principio di realtà, espresso non solo dalle forze ostili predominanti, ma anche e soprattutto dalla acquiescenza delle vittime. Nasce da ciò un caratteristico movimento della drammaturgia, che deve mediare la solitudine iniziale e il trionfo-consenso finale; ciò avviene principalmente attraverso l’arte del convincimento, e si realizza in un luogo anche formalmente deputato che è l’agone: in esso si spiegano le ragioni di ciò che era apparso devianza e si affermano contro gli argomenti avversari. Tranne che nel Pluto, sul quale al proposito varrà la pena di ritornare, l’esito dell’agone è determinante per la struttura drammatica fungendo di fatto da chiave di volta per il passaggio da una fase preparatoria a una fase “dimostrativa”, nella quale l’idea che si è imposta viene goduta e assaporata nel benessere che concede e assai spesso nello scorno del nemico sconfitto. Aristofane dunque, che spesso dichiara la propria ostilità alla nuova cultura
idolatrica della parola, e spesso la converte in un anti-intellettualismo
rabbioso, pure affida al discorso e al pensiero il ruolo di strumenti essenziali per compiere la fantasia di potenza. Negare il principio di realtà non vuol dunque dire negare la ragione. Certo, la parola raziocinante non è la sola ad assumersi il peso della
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significazione comica; per l’esito psicologico che la commedia si prefigge, per il riso, voglio dire, è decisivo un altro tipo di parola, che non dimostra ma illumina, non alletta ma inchioda. Con inesausta violenza l'aggressione verbale si riversa sul nemico, fino ad avere estratto dalla sostanza linguistica ogni possibile materiale derisorio. Si attua così quella semplice forma di comico che consiste nel constatare la diversità e l’inferiorità dell’altro (con la furia della rivalsa, perché l’altro è dotato di potere, come sappiamo), e investirla con un'aggressione che non si esaurisce nel confronto diretto, ma si esprime istituzionalmente attraverso un triangolo che interpone un terzo tra aggressore e aggredito, secondo il meccanismo studiato da Freud. È assolutamente chiaro che nella commedia di Aristofane questo ruolo di terza persona è assolto dallo spettatore, mentre l’aggressore molto spesso viene personalizzato, allorché, come nelle parabasi, il poeta esce allo scoperto. Essendo il comico di Aristofane formato, o per lo meno giudicabile, sulla sola base linguistica, non ci sorprenderà constatare come il gioco verbale si disponga secondo quelle che Freud chiamerà le tecniche formative del Witz o motto di spirito; e soprattutto sulla totale o parziale assimilabilità fonica di termini semanticamente lontani, tra i quali scatta repentinamente un corto circuito che attribuisce al suono valore ontologico, secondo il piacere infantile di trattare le parole come fossero cose. Anche quella che Freud chiama tendenza, cioè nella fattispecie 1’“ostilità”, è ovviamente ritrovabile; ma su di essa è doverosa una precisazione. Come si sa, il Witz è una delle manifestazioni compromissorie dell’inconscio, attraverso le quali la violenza della pulsione può essere veicolata e canalizzata senza esprimersi direttamente. Questi suoi limiti sembrano mal adattarsi ad Aristofane, in quanto la lotta politica da lui rappresentata è senza quartiere, e contro i demagoghi non paiono davvero essere utili le riserve dettate dalle norme della società viennese, su
cui Freud costruiva la sua teoria del Witz. E in effetti, c’è nel poeta comico il Witz accanto al suo superamento; molte volte il motto di spirito viene “spiegato”, in modo da lasciar liberamente fuoriuscire tutto l’odio, colpendo cioè lo stesso bersaglio due volte, di cui solo la prima, quella witzig, fa ridere, mentre l’altra si propone come linciaggio (e invito al linciaggio) consapevole. Come se una maschera fosse imposta solo per essere poi strappata con gesto più clamoroso. 5.4. L’empietà eroica
Ma le strutture politiche non sono il limite estremo a cui si arresta la pulsione; ben povera onnipotenza sarebbe quella che si accontentasse di ciò e non mettesse in atto l’aspirazione ateniese, cui già ho accennato, a identificare lo spazio della città con il cosmo. Accade così che, suscitando lo sbigottimento di tutti coloro ai quali il reazionario Aristofane, difensore dei valori arcaici e delle tradizioni, sembra incapace di un gesto empio, si fa viva nell’eroe comico l’istanza di mettersi, al di là dei suoi
padroni, al posto del padre e padrone universale. Così avviene propriamente negli Uccelli dove, con allegoria trasparente, Pistetero toglie a
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Zeus Basileia, cioè il principio stesso del dominio, e la sposa in una ierogamia solenne, massimo esempio di quella conclusione matrimoniale che la commedia eredita da substrati antropologici antichissimi e che trasmetterà, con più costanza di ogni altro tema, alle culture teatrali successive. Chi da questo trionfo universale è stato sconcertato al punto da leggere gli Uccelli come una commedia ‘ironica’, dove cioè l’idea comica rappresenta non la proiezione di desideri che si vogliono condivisi dal pubblico, ma un idolo polemico, dovrebbe fare i conti con quella “prova generale” di ierogamia e di trionfo cosmico che è la Pace, dove il protagonista, empio fin dall’inizio nella sua problematica ascesa al cielo, corona il suo successo sposando Opora, dea-personificazione del benessere; e la Pace è forse la commedia che presenta il desiderio più ampiamente e letteralmente condivisibile, tanto da coincidere con la maturità dei tempi e celebrare una pace effettiva, se anche di durata e senso molto meno efficace di quanto Aristofane sperasse. Ancora nel Pluto si riprende alla lettera, con forti analogie rispetto agli Uccelli, il tema dell’esautorazione degli dei, per tacere di sporadici accenni nello stesso senso che si presentano in altre commedie. Naturalmente, posto che le aggressioni al potere politico e al potere degli dei siano parallele manifestazioni di una rivolta ‘edipica’ contro il principio autoritario, ben altro è il tipo di solidarietà richiesto: nel primo caso è tanto consapevole da porsi anche, brechtianamente, fuori dell’illusione scenica; nel secondo è un appello al desiderio infinito che è in ogni uomo, e un sostanziale riconoscimento del divino, il quale viene rovesciato in una surrealtà carnascialesca, limitata al tempo drammaturgico, come è limitato il rovesciamento dei rapporti gerarchici nei Saturnali romani. 5.5. Le pulsioni elementari
Per quanto ampio sia il desiderio, rimane sempre strettamente connesso a caratterizzazioni che noi, da un’altra civiltà, chiameremmo regressive, e che comunque
si rifanno al nucleo libidico immediato
del
soggetto umano. Il desiderio alimentare è una forma mitica che il disagio storico, permanente nell’Atene di Aristofane, ci aiuta a capire, ma che conquista una prepotente autonomia di spazi espressivi. Negli Acarnesi l’intero assunto politico viene compiuto, non già simboleggiato, nel grande banchetto che si oppone specularmente alla contemporanea sofferenza e privazione del soldato che ama la guerra; in altre commedie, senZ’esserne propriamente il centro, l’immagine del cibo indica sempre una delle direttrici libidiche più importanti. Al confronto, molto minore spazio ha il bisogno sessuale, che si colloca allo stesso livello di elementare narcisismo, tranne che nella Lisistrata, dove è indagato a fondo nell'aspetto propriamente relazionale, visto come modello costitutivo di una vera società civile e rispettato delicatamente nella sua specificità.
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5.6. Complicazioni e crisi della struttura
Per un’idea anche sommaria del teatro di Aristofane occorre avvertire che non basta fondarsi, come ho fatto finora, e con molte approssimazioni, sulle invarianti, ma occorre tenere presente la straordinaria capacità della fantasia comica di porci di fronte a trasformazioni della struttura di base. Qui accenno solo alla “variante” più macroscopica che interessa il rapporto tra la funzione protagonistica e l'ideologia. È certo prevalente, tanto da poter essere considerato normativo, il modello che fa del protagonista anche il portatore dell'ideologia politica ribelle, ma nelle Vespe questa associazione è spezzata nelle due figure il cui contrasto forma l’azione comica: il vecchio Filocleone che ha per desiderio ossessivo quello di esercitare la funzione di giudice popolare, e suo figlio Bdelicleone che considera questa una mania perniciosa e cerca di guarirla in vari modi, finché riesce ad avere la meglio su di lui nell’agone inducendolo ad accontentarsi di mimare burlescamente la prassi giudiziaria in casa. Ora non c’è nessun dubbio che Aristofane giudicasse l’amministrazione della giustizia in Atene negli stessi durissimi termini in cui la giudica Bdelicleone, vale a dire come arma ricattatoria dei potenti sui cittadini poveri, che per amore del compenso concesso al giudice potevano essere piegati nella direzione voluta; questo giudizio è espresso o alluso molte volte nelle altre commedie, ed è un Leitmotiv ricorrente quasi quanto quello della pace. Ancor meno però si può negare che il vecchio attiri su di sé simpatia irresistibile, oltre a occupare in piena evidenza il centro semiotico della rappresentazione. Essa si evolverà dunque nell’analizzare forme e cause di questo strano ritrovarsi dalla parte del torto dell’eroe comico, e arriverà a negargli responsabilità politica, confermandogli solidarietà emotiva, attraverso un processo che demistifica il presunto potere e vede anche in lui una vittima del potere reale. Diventerà allora anche facile gratificare (in altro modo) le spinte libidiche che lo animano, e, alla fine della commedia, l'aggressività espletata nel mestiere si converte in un paradossale ringiovanimento, coronata da un tripudio di sesso e di danza. Nelle Nuvole l’eroe comico è il vecchio Strepsiade, che per sottrarsi ai debiti si affida alla scienza di Socrate (come si sa, grossolanamente confusa con quella dei cosmologi e dei sofisti, sulla base del comune
odio di Aristofane per tutto ciò che minacciava le certezze a lui care),
ma ne viene deluso e, in un sinistro finale, brucia la casa del filosofo. E in questo finale che l’eroe riceve piena identificazione ideologica; prima lo si vedeva sbagliare con un compatimento riscattato in parte proprio dalla sua resistenza a capire la nuova cultura. Ricordare queste due commedie ‘anomale’ può essere utile a capire come il compito aristofanesco non si esaurisca nella già citata formula dell’odio politico che unisce autore e spettatore contro il nemico; perché non solo del nemico si ride, ma spesso dell’eroe comico medesimo e neppure soltanto nei casi citati di identificazione parziale o scissa. Anche degli eroi trionfanti si ride per l'improvviso affiorare in loro di discorsi che appaiono autolesionistici: per quanto esuberante possa essere la sog-
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gettività egocentrica, il principio di realtà entra a tratti a costituire il controcanto amaro della fantasia di potenza, e l'amarezza si sviluppa in riso. Esso non è più la trascrizione di superiorità-diversità, ma un amalgama dialettico di alienazione e appropriazione che si può illustrare con la duplice definizione di Freud: se il comico consiste nell’affermazione «x non è come me», suggerisce contemporaneamente l’idea «x è com’ero io da bambino», distacco dunque e recupero insieme delle pulsioni totali. Ben diversamente fanno i conti con il principio di realtà le due ultime commedie, le Ecclesiazuse e il Pluto, e in particolar modo il Pluto,
confermando così l’impressione dello svolgersi storico della commedia verso una crisi dell’onnipotenza onirica parallela al tracollo dell’impero, e quindi dell’insieme assiologico totalizzante della polis. Nelle Ecclesiazuse le donne si appropriano del governo della città e la trasformano in una comunità di eguali dove tutto è messo in comune; ma dopo che la loro leader Prassagora ha sostenuto vittoriosamente l’agone, un secondo confronto ne mette in crisi l’esito: tra il cittadino ossequiente alla nuova legislazione e quello cinico e profittatore che della mutazione accetta solo i vantaggi, è quest’ultimo ad avere chiaramente la meglio. Per di più il principio comunitario applicato ai rapporti sessuali sembra proporre un progressus ad infinitum verso la sgradevolezza. Questi germi contraddittori, ancora marginali nella penultima commedia, si spostano al centro dell’ultima. Il progetto comico già prima citato, quello di assimilare la ricchezza alla giustizia, non supera il vaglio razionale. Già in partenza è indebolito da una sorta di petizione di principio dalla quale risulta chiaro che non si può parlare di uomini giusti o ingiusti in assoluto, perché è proprio il loro status economico a renderli tali, e dunque quando nessuno avrà interesse ad essere ingiusto, il progetto si deve convertire in una ricchezza generalizzata: nell’agone la Povertà (altra personificazione e personaggio allegorico) ha buon gioco a dimostrare che la ricchezza generalizzata porterebbe a un micidiale stallo della produzione e dunque al peggioramento delle condizioni di vita. Vincitrice sul piano intellettuale, tuttavia la Povertà viene cacciata e si celebra un ultimo, improbabile trionfo. L'uomo che ha preso coscienza della sua incapacità a cambiare il mondo, con questo “nonostante tutto” afferma comunque il suo irriducibile bisogno di cambiarlo, e questo bisogno divide, come non avrebbe potuto dividere l’onnipotenza, con i suoi simili (nella fattispecie, il prototipo dei servi investiti di un ruolo decisivo, Carione). 6. Menandro (342-293?) 6.1. La commedia familiare
Circa sessant'anni dopo la morte di Aristofane, nel 321 esordisce il più famoso poeta della “Commedia Nuova” e il solo di cui possiamo giudicare con qualche cognizione di causa, Menandro. Questi sessant’anni comprendono una trasformazione epocale del mondo operata dalle con-
quiste di Alessandro Magno e dal conseguente enorme allargamento del-
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l’orizzonte culturale in quella che si chiama “civiltà ellenistica” (cfr. infra, il capitolo sulla Poesia ellenistica). Sul piano specifico del genere, i due poeti sono addirittura separati dallo spazio di esistenza di un sottogenere, quella “Commedia di mezzo” di cui non sappiamo quasi nulla. Pure, una stretta consequenzialità sembra accostare il messaggio del Pluto a quello delle commedie menandree: se il grande piano innovativo poggia su basi razionali inconsistenti occorrerà rinunciare ai grandi piani, e il soggetto agente sulla scena avrà di fronte a sé compiti più modesti, inscritti in una vita privata e familiare, non nell’articolazione della collettività politica — anche perché la collettività in questione non può più eguagliarsi al mondo, ora che è stata scoperta e introiettata una sconcertante vastità. Non c’è dunque più bisogno che il Coro la rappresenti sulla scena, e in effetti gli interventi del Coro si riducono a intermezzi extra comoediam, ma se ciò avviene è anche perché al Coro è venuta meno la funzione di mediare l’eroe straordinario all'umanità; non c'è spazio per tale mediazione perché l’uomo di Menandro è semplicemente né più né meno che l’uomo comune: «uno dei tanti», come dice di sé il giovane amoroso della Samia, Moschione. Uno dei tanti, prima di tutto, sulla scena. Talvolta si lascia individuare una figura centrale su cui si riannodano i fili tematici e strutturali, ma in forma enormemente meno serrata: protagonista della Perikeiromene è Polemone, il soldato geloso che, credutosi tradito dalla sua donna per via di un equivoco, commette un atto di violenza di cui si pente con commovente lealtà; però il fatto decisivo, l’agnizione tra Glicera e il padre Pateco, è solo conseguenza del comportamento di Polemone e a questa scena autenticamente patetica egli resta estraneo.
Il Dyskolos conferisce focalizzazione privilegiata al vecchio bisbetico Cnemone, ossessionato dalla volontà di evitare la presenza degli altri uomini, ma contemporaneamente tratta con interesse autonomo la vicenda
del giovane Sostrato, appartenente a una classe sociale elevata, che si è innamorato della figlia del bisbetico; la otterrà non da lui, ma dal suo figliastro Gorgia, di cui guadagna la stima accettando per amore una fatica fisica, mentre a sua volta Gorgia si era guadagnata la stima e il pentimento di Cnemone, salvandolo quando il vecchio cade in un pozzo. Ugualmente nella Samia spicca il personaggio di Demea, che anche lui si crede tradito dalla sua donna, Criside, e per di più con il proprio figlio adottivo Moschione; ma la donna ha per generosità finto che fosse suo il figlio che Moschione ha avuto dalla ragazza che deve sposare, e questo matrimonio, ostacolato solo dall’equivoco e dalla patologica timidezza dell’amoroso, attira su di sé una cospicua parte dell’attenzione. Già da questi accenni sporadici si sarà capito che il fine a cui tende l’azione drammatica si è sostanzialmente ridotto al tema monocorde del matrimonio, accompagnato o no da una variante portatrice di ancor minore novità, che è il rinsaldamento di unioni preesistenti e periclitanti. A un contenuto ideologico che si sviluppa in ambito non più politico, ma etico-caratterologico, Menandro non ha rinunciato: nell’Aspis, una splendida commedia di cui possediamo meno della metà, si attacca a fondo l’avarizia del vecchio Smicrine, che, desiderando impadronirsi dell’eredi-
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tà di una sua nipote orfana — la quale pare avere perduto anche il fratello, suo legittimo tutore —, vuole sposarla lui stesso, strappandola a un innamorato fedele; la legge ateniese lo permette, ma i personaggi con cui lo spettatore è chiamato a identificarsi esprimono tutto il loro disgusto. Perikeiromene e Samia aggrediscono, ma con partecipe comprensione, il vizio della gelosia; gli Epitrepontes sono una vibrata protesta contro l’intolleranza del conformismo: Carisio abbandona la moglie Panfila perché questa ha partorito un figlio fuori del matrimonio, per una violenza che ha subito da quello che ritiene uno sconosciuto; ma il bam-
bino esposto ha con sé un anello di Carisio, che viene riconosciuto dal suo servo Onesimo. Il giovane ha così modo di constatare quanta ingiustizia vi sia nel rimproverare ad altri una colpa da cui non ci si può sentire esenti, e a questo suo meditato ravvedimento è premio la scoperta che la ragazza da lui stuprata è per l’appunto la moglie. Niente potrebbe far meglio capire che l'ideologia non implica più il riso violento di Aristofane quanto piuttosto un sorriso sottile e complice sulle debolezze umane, perché la tolleranza che è nei suoi contenuti è anche nelle forme: un dialogo sereno ha preso il posto delle contrapposizioni implacabili. Per rendersene conto basta prestare una qualche attenzione al solo conflitto che nell’ambito tematico di queste commedie possa dirsi conflitto di potere, vale a dire il confronto generazionale tra padre e figlio. La Samia presenta una situazione impregnata di edipismo, visto che Demea crede a quella variante ammorbidita del mito di Edipo che abbiamo trovato nell’Ippolito euripideo e che consiste nella relazione amorosa tra matrigna e figliastro; ma questo cupo fantasma si dissolve con sollievo tangibile, e resta tra padre e figlio una comunanza affettuosa e piena di delicatezze (per riguardo a Moschione Demea ha esitato prima di dare spazio alla sua passione per Criside, e anche quando sospetta di essere orribilmente oltraggiato non vuole nuocere all’onorabilità del giovane). Nelle altre commedie di cui è possibile rintracciare la linea tematica, il rapporto autoritario non si pone tanto tra padre e figlio quanto tra l’amoroso e il padre, o il x6çtos, della ragazza. La forza repressiva di questa paternità simbolica è potenzialmente grandissima in quanto sta in essa la possibilità di vietare al giovane maschio il piacere sessuale, ma nei fatti si presenta sempre indebolita, spesso attraverso lo sdoppiamento in due persone. Nell’Aspis sono i due zii dell’ereditiera a dividersi il ruolo paterno: Smicrine, che ne assume la veste repressiva, è screditato dall’avarizia e
dall’implicita rinuncia all’affetto paterno che si manifesta nella volontà di
sposare lui stesso la ragazza; mentre il fratello di lui Cherestrato, che ha del padre le ansie e le preoccupazioni benevole, non ha nessun potere, ma al contrario un’affranta impotenza. Nel Dyskolos la funzione paterna nell’organizzazione del matrimonio viene delegata da Cnemone a Gorgia, de facto ben prima che esplicitamente, e per ben due volte si accenna a un blando rovesciamento del rapporto padre-figlio. Gorgia fa intender ragione a Cnemone e altrettanto fa Sostrato con suo padre Callippide, che si rifiuta di raddoppiare i matrimoni concedendo sua figlia al medesimo Gorgia. Nella
Perikeiromene l’autorità che il padre si trova ad avere sul partner della
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figlia emerge solo alla fine, perché solo alla fine Pateco si scopre padre di Glicera, mentre prima era intervenuto nella vicenda da amico somministrando comprensione e saggezza. Le pretese autoritarie del padre della ragazza nella Samia e del suocero di Carisio negli Epitrepontes svaniscono
nel ridicolo, sempre blando, della loro ineffettualità: motivata nel primo caso dalla superiore saggezza di Demea, nel secondo dalla ferrea fedeltà
coniugale di Panfila. Se dunque si riduce a collaborazione anche il contrasto generazionale — e altrettanto accade ad altri rapporti tradizionalmente squilibrati, come quelli fra uomo e donna e fra servo e padrone — è facile intendere che non ci si può sentire soli né devianti. Per lo meno, non lo si resta. Il protagonista del Dyskolos è indubbiamente il più vicino ai personaggi aristofaneschi proprio per la potente caratterizzazione della sua mania, che è la più grave e la sola possibile che si concepisca in questo universo di valori: ed è appunto la solitudine volontaria; ma mentre il maniaco aristofanesco usciva dall’isolamento modificando il mondo e inglobandolo nella sua volontà, l’unico maniaco menandreo ne esce convertito da un’amabile violen-
za, insomma, oggetto e non soggetto. 6.2. Il ridimensionamento della ragione
La dimensione prevalente è quella di un quieto raziocinio, che si rafforza nel mutuo consenso, e al quale è pur affidato il compito di affrontare il mondo, avendo per obiettivo l'equilibrio o il riequilibrio della propria vita privata; di difendere dunque il diritto a una silenziosa felicità. Dice Sostrato nel Dyskolos a commento del felice scioglimento della sua vicenda: «Finché si possiede la ragione, non bisogna mai disperare di nulla» (860-1). Ma in che cosa la “ragione” è stata artefice dello scioglimento del Dyskolos? Per Sostrato le difficoltà erano riposte nell’approccio a un futuro suocero impossibile; per superarle si è pensato (e per di più con cattive intenzioni, da parte del servo di Gorgia, Davo) a una finzione per cui il
ricco Sostrato si presenta come contadino e così potrà guadagnarsi le
simpatie di Cnemone; il piano fallisce ma Sostrato riesce perché, come sappiamo, nel frattempo diviene importante accaparrarsi le simpatie di Gorgia. Prima di concludere che dietro la frase di Sostrato ci sia ironia corrispondente al messaggio «gli uomini credono di agire e sono agiti», è meglio prendere atto che per ragione si intende un atteggiamento duttile di fronte alla combinatoria soverchiante degli eventi casuali, affermando la propria volontà e non mancando, per quanto è possibile, l'appuntamento con il xaug66. Anche in altre commedie di Menandro progetti di manipolazione intellettuale sono tanto vividamente presenti quanto non risolutivi per l’azione. Il caso più eclatante, pur nel non ottimo stato di conservazione, si può ricostruire dall’ Aspis. Il servo Davo progetta: poiché il punto debole di Smicrine è l’avarizia, colpiamolo là, e per impedirgli il matrimonio con la nipote ereditiera prospettiamogli un matrimonio con un’altra nipote, ereditiera di una sostanza maggiore. Per questo basterà inscenare (l’espressione allude ad un’esilarante scena di metateatro) la morte di Cherestrato. Benis-
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simo, ma la vicenda viene invece risolta dal ricomparire del fratello della ragazza contesa, suo legittimo xüç1oc. Negli Epitrepontes la putain respectueuse Abrotono finge che il figlio esposto sia suo per non compromettere la vera madre, ma l’iniziativa si risolve in un pericoloso ritardo della conciliazione coniugale, e altrettanto controproducente è la finzione dello stesso genere messa in atto da Criside nella Samia. Nella Perikeiromene \'Ignoranza che recita il prologo allude più a una volontà che ad una casualità; è Glicera che per non far del male al fratello Moschione non gli rivela la propria parentela con lui; dalla quale intenzione deriva un male (che, non
sapendo della parentela, si scatena la gelosia furiosa di Polemone); dal qual
male deriva un bene (che Glicera andandosene di casa con i suoi oggetti permette l’agnizione, e ritrova, prima che un marito, un padre). L'intreccio della Perikeiromene è forse il più istruttivo nel mostrare le distonie tra progetto e realizzazione; ma anche l'apprezzamento degli uomini che non attendono passivamente il gioco della Tyche, e, se non gli eventi, possono determinare le direttrici morali e affettive: in parole più semplici, rendersi degni dello scioglimento felice che la Tyche e il genere teatrale assegnano loro, in qualche modo anticipandolo. Polemone si pente prima di sapere che Glicera non aveva un amante ma un fratello; Carisio negli Epitrepontes fa ammenda prima di sapere che il figlio clandestino della moglie è proprio suo. Detto questo, la simpatia maggiore non va mai allo sforzo intellettuale, ma alle doti di ostinata costanza con lui l’uomo difende i propri sentimenti minacciati. Di fronte al reale, un atteggiamento difensivo al quale più che mai necessita la solidarietà di tutti. Bibliografia Studi complessivi sulla tragedia e/o sulla commedia U. Albini, Interpretazioni teatrali, Firenze, vol. I, 1972; II, 1976; HI, 1982; Id., Viaggio nel teatro classico, Firenze 1987; M.]. Anderson (ed.), Classical Drama and Its Influence, London 1959; P.D. Arnott, An Introduction to the
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(cfr. paragrafo specifico); vol. IV, Sophocles (cfr. paragrafo specifico); il vol. di Euripide è in preparazione. I frammenti delle commedie furono pubblicati da A. Meineke, Fragmenta Comicorum Graecorum, Berlin 1839-1857; seguirono i Comicorum Atticorum Fragmenta, ed. Th. Kock, Leipzig 1880-1888, cui si aggiunsero: Comicorum Graecorum Fragmenta, vol. I, 1, ed. G. Kaibel, Berlin 1899; Supplementum Comicum, ed. J. Demianczuk, Cracoviae
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(Paris
1923
ss., con
trad.
fr.). Sono
ancora incomplete una nuova edizione teubneriana per singole tragedie (A. Gar-
zya, S. Daitz, C. Collard. D. Sansone, W. Biehl, K. Alt, C. Kopff) e una nuova edizione oxoniense (J. Diggle). Commenti alle singole tragedie: per l’Alcesti, L. Weber (Berlin 1930), D.F.W. van Lennep (Leiden 1949), A.M. Dale (Oxford 1954); per la Medea, D.L. Page (Oxford 1938), R. Flacelière (Paris 1970); per
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trad. ingl., London 1924); R. Cantarella (con trad. it., Milano 1949 ss.). Non ancora complete sono le edizioni a cura di H. Sommerstein (Warminster 1982 ss.), G. Mastromarco (Torino 1983, con trad. it.); nonché un’ed. con trad. it. curata da G. Paduano per Rizzoli (Lisistrata, 1981; Tesmoforiazuse, 1983; Ecclesiazuse, 1984; Pluto, 1988). Da segnalare, anche per l'importante apparato di note, la trad. fr. di A. Willems, Paris 1919. I frammenti sono editi da R. Kassel e
C. Austin (Berlin 1984); l’indice da O.J. Todd (Cambridge (Mass.) 1932), le concordanze da M. Dunbar (II ed. rivista da B. Marzullo, Hildesheim 1973); gli scoli da F. Dübner (Paris 1887) e ora parzialmente da W.J.W. Koster (Amsterdam 1980 ss.). Una bibliografia dal 1938 al 1955 è in “Lustrum”, Il, 1957 (a
cura di K.J. Dover). Commenti a singole commedie: per gli Acarnesi, W.J.M. Starkie (London 1909), C.F. Russo (Bari 1953), R.T. Elliott (Hildesheim 1982); per i Cavalieri, R.A. Neil (Hildesheim 1966); per le Nuvole, W.J.M. Starkie (London 1911); K.J. Dover (Oxford 1968); per le Vespe, W.J.M. Starkie (Lon-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
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dedicato il vol. XVI degli Entretiens della Fondation Hardt, Genève 1970, mentre sono altresì da ricordare i volumi miscellanei: Menandrea, Genova 1960, e Menander's Dyskolos als Zeugnis seiner Epoche, Berlin 1965.
Emilio Gabba La storiografia
1. La nuova verità. Polis e riflessione storica
L’etä fra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. è un momento epocale per la storia culturale e spirituale umana. È allora che la già sviluppata indagine dei pensatori ionici sulla natura, sulle cause prime, sulla collocazione dell’uomo venne traducendosi per la prima volta nella vera e propria ricerca storica sul passato dell’umanità. Vari e disparati fattori confluivano negli scopi altissimi di questa nuova attività dello spirito umano, che erano quelli di conservare la memoria dei fatti del passato, anche per il loro valore esemplare, di ricercare e possibilmente di spiegare, o almeno di intendere, le cause degli accadimenti e naturalmente di distinguere il vero dal falso, di accertare il primo e rifiutare il secondo. Nascono, allora, nel lungo svolgimento del pensiero occidentale, non soltanto l’esigenza e la volontà di cercar di conoscere i modi secondo i quali le varie fasi della civiltà umana si erano andate sviluppando, ma anche il riconoscimento che una verità poteva, e doveva, essere criticamente accertata. Proprio perché questa ricerca di una
verità storica appare strettamente connessa con le nuove condizioni della vita politica, vale la pena di notare che lo stesso concetto di Verità viene allora rinnovato rispetto alla sua precedente valenza, che aveva a lungo conservato funzioni e campi d’azione suoi propri. Ricuperare quel primitivo, originario valore (ed è questo un campo d’indagine molto trattato dalla ricerca moderna) significa ricostruire le strutture della mentalità nelle fasi più antiche della civiltà umana e connetterle con lo svolgimento della vita sociale e della politica, ripercorrere gli stadi dell’incivilimento umano. Anche la civiltà greca, come tante altre, è stata agli inizi una civiltà
orale, nella quale la parola aveva spesso, se non sempre, assunto un valore quasi magico e certamente religioso. È il poeta che con la sua parola, a garanzia della quale aveva preliminarmente invocato l’aiuto delle Muse, faceva rivivere, ricreava il passato. Richiamare la memoria degli Dei e degli Eroi significava lodare il passato, che era stato così salvato dall’oblio: la trasmissione di tradizioni cosmogoniche e teogoniche salvava elementi di Verità. Il poeta proclamava la Verità ricordando e lodando il passato. La società aristocratica richiese, poi, una maggiore insistenza sulle imprese e sulle lodi degli Eroi; ma il poeta (la cui funzione
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
si andava lentamente modificando con il mutare della realtà storica) restava il depositario di una Verità, in quanto spettava a lui conservare e tramandare la memoria tradizionale: egli era sempre ispirato e veggente. Pur in un clima profondamente mutato, ancora la più antica storiografia greca connetterà strettamente la storia degli uomini a quella degli Dei, alle loro genealogie e alle varie cosmogonie: per influsso del, e per derivazione dal mondo culturale del Vicino Oriente, e anche per l’accettazione di Omero come fonte storica; lo stesso Ecateo, che vedremo più avanti intento a razionalizzare i miti, supponeva che solo sedici generazioni lo separassero dal mondo e dal tempo degli Dei, laddove i sacerdoti egiziani potevano risalire di ben 345 generazioni senza incontrare né Dei né eroi (Erodoto I 143). Ancora nel I secolo a.C. un teorico della storiografia, Asclepiade di Mirlea, collocava la storia degli Dei nella categoria della storia “vera”. Ma lo storico Diodoro, IV 1, 1-5, di età cesariana, sapeva che la Verità circa il mito eroico (per esempio Eracle) doveva essere accertata con strumenti critici differenti da quelli che si impiegavano per la storia dei fatti umani. Come più avanzato passaggio nella definizione del significato di Verità, si ritrova il re, che della Verità è depositario in quanto sapiente, esperto di mantica e dispensatore di giustizia. La Verità come Memoria, la Memoria come Lode, la Lode come Giustizia rappresentano gli anelli necessari di una catena nel sistema del pensiero religioso arcaico, nel
quale assume un valore determinante la funzione della Parola di colui che proclama la Giustizia. Con la capacità della Persuasione e della Parola che placa ci si avvicina ad un successivo stadio sociale e culturale che è caratterizzato dalla ambiguità della Parola e dal carattere ingannevole della Verità. Del resto, il poeta (Esiodo), con una propria personalità e riflessione autonoma, e con una propria esperienza del contesto sociale, aveva oramai acquisito nuove esigenze nella ricerca della Verità, al di là dell’ispirazione delle Muse che, informate, potevano raccontare cose vere. Egli sa, ora, che esse possono raccontare anche cose false, simili alle vere (Teogonia 27-8). Vi sono tutti i presupposti perché, venuta meno l’antica Verità proclamata dal poeta o dal re, si cerchi di attingere una verità più umana, da ricercarsi negli accadimenti degli uomini. Vi è una nuova sensibilità critica che vuole determinare il vero e il falso: questa distinzione è all’origine della riflessione storiografica. La progressiva acquisizione di democrazia nella vita politica e sociale della polis, con l’instaurarsi e il consolidarsi di regimi nei quali due parti politiche contrapposte si sforzano di superarsi e di prevalere soprattutto con l’arte della Parola, favoriscono una ricerca della verità che deve scaturire da un dibattito critico di tesi opposte, nel quale differenti ragioni devono essere precisamente argomentate. È in questa temperie politica e cultura-
le che nasce, strettamente legata al dibattito per la formazione della decisione politica, la storiografia come ricerca del vero, e non per niente molto presto gli storici teorizzeranno (pur riprendendo e sviluppando un motivo dell’epica) che i discorsi sono fatti della storia, tanto quanto le guerre e le lotte interne della città.
La storiografia
173
2. Ecateo. Storiografia locale
La nuova dimensione civile della storiografia non sostituisce completamente la forte tradizione che collocava il mito divino ed eroico ai princìpi stessi della vita degli uomini. Il rapporto dell’uomo con il mondo divino resterà a lungo importante; si cercherà piuttosto di razionalizzare il mito, di trovare per esso una spiegazione che eviti il più possibile il ricorso al miracoloso. D'altro canto la critica alla rappresentazione tradizionale della divinità era stata un punto centrale nella riflessione filosofica di Senofane (seconda metà del VI sec. a.C.). È questo il programma del primo storico greco, Ecateo di Mileto (FGrHist 1 F 1). Egli è sintomaticamente autore, ad un tempo, di Genealogie e di una Periegesi della Terra, nella quale confluivano, accanto agli interessi tipicamente greci della geografia e dell’etnografia, le più svariate tradizioni locali, legate per lo più ad ambienti templari. Il fattore geografico è determinante nel dare un peculiare carattere a tutta la storiografia greca. Interessi geografici e topografici, e riflessioni sulle conoscenze di luoghi e popoli vari, sono strettamente in dipendenza dai grandi fenomeni di colonizzazione, a cominciare dall’inizio del primo millennio. Due aspetti principali vanno rilevati: un fattore, si direbbe, tecnico connesso ai problemi della navigazione (peripli e letteratura relativa; descrizione di viaggi; delineazione di apparati cartografici), e l'indagine etnografica sulle popolazioni straniere con le quali i coloni venivano in contatto, sui loro modi di vita e sulle loro istituzioni. La valutazione dello straniero traeva con sé la necessità di presentare, quasi per confronto, anche se stessi, e nasceva così uno dei motivi più tipici della storiografia greca, quello appunto etnografico, che nel IV secolo (anche secondo il modello erodoteo) rappresenterà un’apertura universalistica superando lo stretto ambito greco, e che poi, nell’età ellenistica, sarà oggetto di riflessione filosofica e di teorizzazione. L’interesse geografico-etnografico è naturalmente una parte della più generale concezione storica centrata sull’uomo e sulla sua vita, nel con-
testo dei suoi rapporti con la natura. Ed è dalla riflessione sui fattori storico-geografici che derivano agli storici greci alcuni concetti che serviranno come canoni di interpretazione e di valutazione dei fatti umani: come i concetti di emigrazione e di autoctonia, del cambiamento di nome che nuclei coloniali possono subire spostandosi — motivi che comprensibilmente coinvolgevano problemi di indagine sulle origini dei popoli e delle città e, nel mondo coloniale, sui rapporti con eventuali popolazioni indigene. La città è il centro focale della storiografia, come struttura politica e come forma della vita associata che condiziona le mentalità e i modi di vita. Non per niente Erodoto, il padre della storia, che pur dichiarava scopo della sua opera il voler impedire che sparisse la memoria di grandi e gloriose imprese di Greci e di Barbari (e che poneva al centro della sua storiografia lo scontro secolare fra questi due mondi), finiva per dire che egli avrebbe considerato la storia delle città degli uomini, piccole e grandi, e della loro alterna vicenda di ascesa e di decadenza (Erod. I 1 e 5).
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
In certo senso nasce già qui, con Erodoto, la famosa tematica delle “lodi delle città” che, ampiamente diffusa non soltanto nella storiografia ma in tutta la letteratura antica, sarà lasciata in eredità dall’età antica al Medicevo. E poi Tucidide, descrivendo nell’Archeologia della sua Storia le fasi dello sviluppo dell’incivilimento umano in Grecia, fra spostamenti di popolazioni e generali condizioni di insicurezza, porrà la nascita della città, con la sua sicura sedentarietà e le attività umane connesse e con le capacità economiche, come momento culminante di quello sviluppo. In Erodoto la storia delle città è inserita nel quadro grandioso delle guerre greco-persiane, anzi dello scontro fra Oriente e Occidente dai tempi del mito al V secolo. In Tucidide lo scontro delle due città greche al culmine delle loro capacità militari ed economiche raccoglie attorno alla contesa per l’egemonia gli opposti schieramenti delle altre poleis greche, ognuna con le proprie situazioni interne. Accanto a questa grande storiografia, ogni polis solidificava in una propria storiografia locale (la cosiddetta orografia) il suo patrimonio tradizionale divino e umano. Secondo Dionigi d’Alicarnasso (de Thuc. 5 e 7), anzi, la priorità temporale spetterebbe a questo filone storiografico locale, nel quale sarebbero confluite le registrazioni ufficiali cittadine, templari e laiche. La notizia, che presuppone l’esistenza di archivi nelle città greche di età arcaica, e che è stata spesso discussa e rifiutata, sembra ora ricevere una qualche conferma da un'iscrizione di una quasi sconosciuta cittadina cretese, che fra VI e V secolo a.C. ingaggiava uno scriba appunto con lo scopo di registrare (e quindi di ricordare e di trasmettere) dati di interesse pubblico, religioso e civile (cfr. “Kadmos”, 9, 1970, pp. 118-54 per il testo dell’iscrizione). Non è azzardato pensare che questa cronachistica locale seguisse in certo modo modelli fornitigli da un’analoga letteratura, fondata su archivi templari, del mondo vicino-orientale. Quando oggetto di indagine è una città come Atene nascerà addirittura quasi un “genere” letterario a sé stante, quello dell’Atthis. È indicativo che il primo storico locale di Atene sia stato un non Ateniese, Ellanico di Lesbo, verso la fine del V secolo a.C. La sua vastissima attività storiografica, legata sempre ad ambiti locali e regionali o interessata alle fasi mitiche del mondo greco, si lascia ricondurre ad un quadro di storia universale, tenuto insieme da specifiche ricerche di cronologia. La storiografia locale, che continuerà a svilupparsi accanto alla grande storiografia, conoscerà un notevole, ulteriore sviluppo in età ellenistica, anche con carattere di ufficialità, ed andrà intesa anche come aspetto di orgogliosa difesa delle proprie tradizioni storiche di fronte ai differenti orientamenti politici delle monarchie nelle quali le poleis si trovavano inserite. 3. Erodoto
La storiografia erodotea, proprio perché incentrata sullo scontro fra Greci e Barbari, aveva una sua grande finalità politica che trascendeva la
La storiografia
175
storia delle singole poleis e poteva anche finire per configurarsi come storia della libertà greca (e in tal caso identificarsi con la vicenda di Atene: VII 139, anche se, in tal modo, si suscitavano gelosie e ostilità). Tuttavia il metodo narrativo scelto dallo storico (e che consentiva la lettura dell’opera, o di parti di essa, davanti a pubblici differenti, delle cui tendenze e interessi si doveva tener conto) poteva anche favorire, o solleci-
tare, una sorta di disimpegno storiografico, nel senso che lo storico preferiva (e non soltanto nei punti di più caldo contrasto fra versioni divergenti) assumere un atteggiamento di agnosticismo, accettando e giustapponendo le diverse interpretazioni che di molti avvenimenti fornivano le opposte parti in causa (VII 152). Il che non vuol dire che lo storico credesse completamente a queste diverse narrazioni che riflettevano prese di posizioni politiche: in questi casi, e di fatto in tutta l’opera, egli riteneva suo dovere riferire notizie, non avallarle con una sua qualsiasi autorità. La notazione di Erodoto è importante perché egli così implicitamente dimostra di conoscere quanto relativo sia il criterio per determinare la verità e la deformazione della verità; ma egli sa altresì che le pur divergenti versioni sono altrettanti fatti della storia e come tali da riportare. Del resto Erodoto ha distinto con precisione le notizie per le quali egli può recare la propria testimonianza autoptica da quelle che gli sono state riferite o che ha appreso dai discorsi di saggi stranieri e greci; già in queste distinzioni e articolazioni è insito un diverso grado di attendibilità. D'altro canto l’opera è in larga misura composta da logoi etnografici relativi alle varie popolazioni che componevano i dominio del Gran Re (e non solo di quelle): questa tematica rispondeva ad un largo interesse nel mondo greco che risaliva, come si è detto, anche alla componente “coloniale” della mentalità greca e alla sua richiesta di conoscenze e di confronti. La narrazione doveva inevitabilmente ripetere le informazioni assunte in ambienti sacerdotali o da saggi, anche se erano inquadrate in un tipico ripensamento greco, attento alle connessioni fra il mondo greco, con il suo patrimonio mitico, e mondi barbari, e a riconoscere per esempio la priorità della saggezza egiziana nelle fasi di incivilimento della Grecia arcaica. Il motivo è rilevante nella storia della storiografia greca perché attesta fin dagli inizi la volontà di richiamare centripetamente alla Grecia in vario modo, e spesso connettendole nella vasta leggenda della guerra di Troia, le tradizioni indigene dei popoli barbari con i quali si veniva in contatto: il che però finiva per condurre ad una sostanziale incapacità greca di afferrare il significato intrinseco e autentico delle civiltà esterne, anche per mancata appropriazione degli strumenti linguistici. 4. La storiografia politica. Tucidide La narrazione storiografica di Erodoto si rivolgeva ad un pubblico vario e variamente interessato, al quale, nelle diverse occasioni locali e
temporali, era bene richiamare le grandi motivazioni ideali della guerra
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
contro la Persia. Ma non era evidentemente un pubblico impegnato in prima persona nella lotta politica interna delle singole poleis. Per converso questa lotta politica, spesso accesa di toni altamente drammatici, aveva acuito, specialmente in Atene, la capacità di osservazione sulle moti-
vazioni dello scontro fra i diversi gruppi, motivazioni che nel corso della seconda metà del V secolo, con l’affermarsi dell’egemonia marittima di Atene, andavano trascendendo i limiti di ogni singola città e trasferendosi dalla politica interna a quella intercittadina e anche ai rapporti con il mondo non greco. Le ragioni sociali ed economiche che potevano spiegare le condizioni interne della polis ateniese diventavano modelli interpretativi della politica greca del presente e anche, abbastanza naturalmente, strumento per comprendere il passato. Si potevano elaborare principi generali che sembravano reggere la vita associata degli uomini nella sua dimensione politica e che dovevano ritrovarsi lungo tutta la vicenda umana, proprio per la non modificabilità della natura dell’uomo. Atene e la sua vita politica, dalle riforme di Clistene in avanti e specialmente dopo l’azione di Temistocle, di Efialte e di Pericle, rappresentavano un laboratorio ideale per l'elaborazione di una nuova storiografia, essenzialmente politica, in quanto in primo luogo riflessione politica su avvenimenti interni e esterni. (Sparta aveva già suggerito e continuerà per secoli a suggerire piuttosto un modello etico-politico di Stato apparentemente strutturato su saldi principi di ordine sociale, e valido soprattutto per ideali conservatori, anche se nel Settecento illuministico poté assurgere a esempio di società egalitaria! La durata nel tempo delle istituzioni spartane appariva garanzia della loro bontà, laddove il modello ateniese, di fatto, fu limitato temporalmente.) Una storiografia del genere, più problematica che narrativa, doveva essere opera di uomini politici, direttamente inseriti nel dibattito e nello scontro e anzi impegnati in una parte politica. Per Tucidide la riflessione storiografica è essenzialmente un momento politico (come lo sarà poi anche per Sallustio), in quanto egli sa e vuole che la sua opera storica serva ad un lettore, che sarà un altro uomo politico, che dall’esperienza dello storico-uomo politico e dalla sua narrazione potrà trarre insegnamenti e vantaggi per l’inevitabile analogia o somiglianza che gli accadimenti del futuro dovranno presentare con quelli del presente attuale (e quindi con quelli del passato). L'elemento che unifica è l’immutabilità della natura umana (I 22, 4), che si riflette ovviamente anche nell’azione politica e nelle sue motivazioni. Di fatto il ripensamento di Tucidide, proprio per la brevità della fase storica e politica che lo presuppose (il discorso è analogo per le commedie di Aristofane), poté valere più come modello storiografico e di pensiero politico che non come suggerimento di azioni politiche. La guerra fra Atene e Sparta (guerra del Peloponneso) rappresentò per Tucidide il tema ideale per questa sua riflessione, in quanto, da politico e da storico, egli si era reso subito conto del significato epocale dello scontro: le due potenze contrapposte, e attorno alle quali per consonanza ideologico-politica si andò progressivamente raggruppando tutto il mondo greco, erano al culmine delle loro capacità e possibilità militari
La storiografia
177
ed economiche, e rappresentavano due diversi e contrapposti modi di pensare la vita stessa della polis: la forma di governo e i modi dell’esercizio del potere e della formazione della decisione politica erano oramai diventati componenti essenziali delle mentalità civiche e politiche ateniesi e spartane, e quindi fattori decisivi nel momento dello scontro, che ha, anzi, in essi una delle sue vere ragioni. Questa consapevolezza derivava anche, oltre che dalla constatazione delle situazioni reali, da una concezione essenzialmente statica della storia, o meglio dall’idea che si era oramai raggiunto un culmine non superabile. Mentre si potevano descrivere le varie tappe dell’ascesa della polis (e dell’umanitä) fino all’altissimo grado raggiunto, al di là non si sarebbe potuto ulteriormente proseguire, ma al caso decadere. Siamo all’interno di una concezione biologica e ciclica della storia e della politica (la teoria dei cicli nella vita degli Stati e delle costituzioni sarà presentata poi in sede storiografica da
Polibio e la scansione di quei cicli sarà anche collocata nell’evenienza di
grandi fenomeni naturali). E per questa concezione che di regola la storiografia politica finisce sempre per avere il suo momento centrale nella storia contemporanea, immaginata come vertice di uno svolgimento che a questo vertice appunto mirava: lo storico dovrà trascegliere il materiale e la linea interpretativa per dimostrarlo. Nella cosiddetta Archeologia della sua Storia (I 1-23) Tucidide ha descritto le ragioni per cui le due parti in lotta erano veramente al culmine delle loro capacità e lo ha fatto istituendo un confronto con le fasi precedenti della storia greca, ricostruite a loro volta applicando al passato il modello, per lui esemplare, ricavato dalla crescita in potenza di Atene nei cinquant’anni fra la fine delle guerre persiane e l’inizio di quella del Peloponneso. Si è trattato di un lento processo di incivilimento caratterizzato dal progressivo superamento dell’instabilità degli insediamenti fino alla sedentarietà e alla costruzione di città anche costiere fortificate. Dagli spostamenti di popolazioni sempre alla ricerca di terre migliori, dalla liberazione del mare dai pirati che lo infestavano si era passati ad una sempre crescente sicurezza della vita e delle attività economiche, in terra e per mare, alla possibilità di accumulo di mezzi per la costruzione di città e di flotte, alla formazione di potentati in grado di controllare i traffici marittimi e le isole, di crearsi sudditi e di riscuotere tributi e,
infine, alla possibilità di organizzare spedizioni navali con un certo grado di unità, come quella contro Troia. E dopo l’impresa troiana che la Grecia trovò finalmente stabilità di insediamenti e la possibilità di inviare coloni fuori dal territorio originario. Con il dominio del mare, la creazione di flotte, l’instabile sorgere di supremazie, venne a modificarsi la struttura interna delle poleis, che a sua volta causò mutamenti nelle forme istituzionali: dall’antica monarchia si passò alla tirannide, poi alla democrazia; lo sviluppo è parallelo a quello, in continua crescita, della società. Dopo le guerre persiane, nelle quali avevano avuto parte predominante, Atene e Sparta (alla testa di due gruppi di alleati diversamente organizzati sul piano istituzionale e nei loro rapporti con le città dominanti) vennero sempre più a contrapporsi. La continua crescita di Atene in capacità economiche, in dominio navale, nel controllo dei suoi alleati,
178
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
avviatisi a diventare sudditi, rendeva lo scontro con Sparta pressoché inevitabile, al di là delle cause occasionali del conflitto. Tucidide sa bene e teorizza più volte la necessità che una potenza egemone (in questo caso Atene) ha di rafforzare sempre più il proprio controllo sugli alleati e di espandersi in potenza, con il rischio, altrimenti, di perdere tutto: concezione della necessità di espandersi continuamente che ha ogni potenza egemone che, fra III e II secolo a.C., verrà spesso chiamata a spiegare anche l'imperialismo romano. Ne discende quasi una legge storica: il diritto dell’egemone, del più forte, a dominare e a spezzare il più debole riottoso. Tucidide darà rilievo eccezionale a questo tragico motivo dedicandogli nel dialogo dei Meli (V 85-113) un dibattito sofistico, di parti contrapposte, analogo nella forma a quello
dello pseudo-Senofonte nella cosiddetta Costituzione degli Ateniesi (se di dialogo si tratta). Da questa teoria deriva anche, su di un piano più generale, la concezione della storia come di un succedersi di egemonie, in Grecia e poi nel mondo mediterraneo. Il culmine della potenza di Atene, e di riflesso di Sparta, venne raggiunto nell’età di Pericle e le due città contrapposte erano oramai anche spiritualmente su due piani diversi. La mentalità aperta, l’attivismo e l’intraprendenza dei cittadini ateniesi, vantati più volte da Pericle e soprattutto nel famoso epitafio (Tucidide II 35-46), non sono altro che un riflesso della loro partecipazione al governo dello Stato in un regime di libertà e di democrazia: il motivo sarà valorizzato dal pensiero storiografico-politico liberale fra Settecento e Ottocento, non soltanto per una valutazione positiva di Atene. Dunque lo scoppio delle ostilità era più che naturale e si presentava al politicostorico come il maggior evento di tutta la storia greca. 5. Una nuova metodologia Tucidide introduce (I 23, 3), accanto alla riflessione saldamente ancorata alle realtà politiche e militari, un’altra osservazione apparentemente estranea, ma importantissima perché ci dischiude la possibilità di intravedere un altro fattore che opera nella sua concezione della storia. La grandezza della lotta fra Atene e Sparta venne quasi confermata anche dalla singolare coincidenza con grandiosi fenomeni naturali, più frequenti e più rovinosi di quanti la memoria umana avesse conservato il ricordo. La coincidenza cronologica non è per lo storico puramente casuale, anche se il rapporto fra storia umana e storia della natura non è chiaro e non appare spiegato. L’interazione fra uomo e natura era un dato che risaliva alla riflessione filosofica e scientifica; l’influenza dei fattori naturali, come il clima nelle diverse zone di abitabilità della terra, sul carattere degli uomini e sulle loro istituzioni politiche era spesso ammessa e teorizzata (e sarà una concezione ben dura a morire); il significato di un cataclisma naturale come scansione fra periodi di storia umana sarà presto ben noto e, prima ancora di Polibio (VI 5, 5-6), Platone nel Crizia (109d-110b) rifletterà sulle conseguenze culturali di cataclismi naturali e affermerà che i sopravvissuti a tali catastrofi soltanto in un
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secondo tempo, dopo aver ricreato le condizioni indispensabili alla vita, avrebbero ricuperato anche la dimensione storica della loro esistenza e la memoria storica del loro passato. Anche la riflessione tucididea è sintomo di una concezione della storia nella quale i fattori naturali che condizionavano la vita dell’uomo avevano una loro parte, che, se non il politico, almeno lo storico doveva far entrare nel conto per una comprensione globale della stessa politica. D'altro canto lo stesso Tucidide, proprio nelle analisi profonde delle situazioni politiche (e non solo nella descrizione famosa della peste in Atene), impiega concetti e terminologia ricavati dalla scuola medica ip‘ pocratica, onde quelle analisi si presentano con i caratteri di una sintomatologia politica rivolta alla comprensione di lettori politici competenti. . Tucidide aveva piena coscienza (I 22, 4) di fondare così una storiografia nuova rispetto a quella narrativa di Erodoto, dalla quale prendeva le dovute distanze anche con l’eliminare l’elemento meraviglioso del mito e della leggenda (utile solo per ricavarne eventuali indizi per una ricostruzione storica concreta), rinunciando così all’indubbia attrattiva di una lettura piacevole. Il predominio della politica sulla narrazione significava che la trattazione storiografica era limitata nei contenuti ai fatti politico-militari e alla storia interna di una città o Stato. Si richiedeva allo storico politico il massimo di competenza sia perché la trattazione fosse oggettivamente aderente il più possibile al vero, sia perché la spiegazione e interpretazione proposte con la ricerca delle cause fossero valide per i possibili futuri fruitori. L’aderenza al vero, trattandosi di eventi contemporanei di prima grandezza, era garantita dall’attenzione che lo storico doveva porre nella raccolta delle notizie e nell’esposizione dei fatti; quando l’autore non era stato presente di persona egli doveva documentarsi con la maggior esattezza possibile. I principi di metodo enunciati da Tucidide (I 20-2) hanno ottenuto una validità generale e il problema dei discorsi (fatti della storia altrettanto importanti quanto le azioni e anzi tanto più significativi in quanto in essi, quali lo storico li riferisce, è l’attore stesso che interviene) e della loro aderenza alla realtà ha rappresentato da allora in poi un elemento critico decisivo per l’attendibilità della storiografia antica. Ma il passo indicato di Tucidide, con l’esemplificazione degli errori tralatici, ci mostra anche quanto facilmente in una polis così ricca di tradizioni come Atene, e a non grande distanza dai fatti, potesse essersi perduta la memoria precisa di eventi pur importanti o come si perpetuassero per ne-
gligenza notizie imprecise. Naturalmente proprio per la sua impegnata partecipazione agli eventi che narra, lo storico, pur nella ricerca dell’obiettivitä, ha scelto la sua posizione politica e ad essa rimane fedele. Ed è proprio la tensione morale e politica che lo anima che si traduce in una storiografia non facilmente eguagliabile. Il dramma tucidideo consiste però nel fatto che il mondo politico, che aveva legittimato quell’imgno, di lì a non molto sarebbe venuto sfaldandosi in quanto il modello offerto dalla polis ateniese nella seconda metà del V secolo non era già stato più valido per il secolo successivo: il valore pratico dell’insegna-
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mento politico di Tucidide (già limitato dalla difficoltà di un testo troppo conciso, come afferma Dionigi nel de Thuc. 51) inevitabilmente si vanificava al cospetto di una mentalità cittadina mutata. Anche storiograficamente non era facile che Tucidide potesse servire da esempio (se non per quanto riguardava il metodo critico di accertamento dei fatti), appunto per il venir meno di un così appassionato impegno civile. La dimostrazione ad ogni modo di quanto differente fosse presto diventato il criterio di lettura dell’opera tucididea, e di come il pubblico ‘dei lettori fosse differente da quello che lo storico aveva immaginato, sta
nella connessione di contenuto che si venne a stabilire fra la storia di
Erodoto e quella di Tucidide, che nei capitoli della cosiddetta Pentecontaetia (1 89-118) non aveva inteso ricollegarsi allo storico delle guerre persiane, ma spiegare l’emergere della potenza di Atene dopo quelle guerre. Per quanto diverse per tendenza e metodo le opere fossero, esse si trovarono inserite in una sequenza ciclica che divenne tanto più evidente quando autori del IV secolo impresero a scrivere le loro opere dal punto dove quella di Tucidide era giunta. Infine Tucidide divenne parte di un canone degli storici, la cui definizione, secondo H.I. Marrou, si deve alla scuola di Pergamo nel II secolo a.C. 6. La storiografia del IV secolo. Storia greca. Storia della cultura La storiografia che intende completare e continuare Tucidide resta molto al di sotto del modello come tensione e impegno politico e capacità di analisi. La prospettiva, inoltre, tende subito ad ampliarsi ad un contesto greco generale, che in Tucidide era raggruppato attorno ai due centri politici di Atene e di Sparta. Il piuttosto rapido succedersi di egemonie effimere, il sempre più pressante intervento del Gran Re negli affari greci non lasciano individuare una linea storica ed una interpretazione politica precise. L'autore delle cosiddette Elleniche di Ossirinco (forse Cratippo) appare interessato ai meccanismi politico-costituzionali, per esempio della Lega beotica. La personalità di storico di Senofonte è una copia sbiadita di quella di Tucidide, con la cui opera, fra l’altro, i primi due libri delle Elleniche sono connesse da un rapporto molto discusso. Senofonte è però, per altri versi, un personaggio straordinariamente indicativo di mentalità e atteggiamenti nuovi, distinti da una singolare apertura, come mostrano le molte altre sue opere. La frequentazione dell'insegnamento di Socrate e ancor più l’irrequietezza politica tipica degli anni dopo la disfatta di Atene, l’individualismo, la partecipazione attiva e valorosa ad avventure guerresche di tipo mercenario nel regno persiano, il filolaconismo si riflettono in una produzione letteraria e storiografica varia e abbondante nella quale si preannunciano molti di quelli che saranno successivi indirizzi del mondo greco, verso la fine del IV secolo, che si va sganciando dai legami centripeti della polis classica. La biografia romanzata di Ciro idealizza nuove forme di potere politico e rispecchia anche un nuovo spirito di avventura di fronte all’Oriente. D’altro canto, taluni interessi economici (nei Poroi, mentre l’Economico è
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ancora legato alla concezione tradizionale dell’amministrazione e conduzione della famiglia) sembrano assumere valore autonomo e testimoniano una riflessione attenta anche se ai margini di un progetto quasi utopico. La prospettiva panellenica, variamente elaborata da Isocrate in un pluridecennale insegnamento retorico-politico (cfr. infra il capitolo dedicato all’Oratoria, la retorica e la critica letteraria), che privilegiava gli aspetti culturali greci come motivo unificante anche al di là del fattore ‘etnico, nasceva sul progressivo, anche se lento, esaurirsi della polis connessa in ogni sua parte con l’impegno politico totalizzante. Uno spirito
individualistico (che è talora definito come “borghese”) si va affermando, agli inizi non senza gravi rischi nel contrasto fra libertà di coscienza e religiosità tradizionale della città. Vengono meno forme e generi letterari che a quella fase storica classica erano legati, e per esempio la commedia si va indirizzando sempre di più verso gli aspetti personali e individuali della vita (cfr. supra il capitolo sul Teatro). Teofrasto, ad un certo punto, nei suoi Caratteri potrà tipicizzare figure umane della vita comune. Le grandi personalità, che precedentemente erano state spesso già ben delineate ma che apparivano inserite in un contesto collettivo omogeneo e condizionante, vanno ora sempre più assumendo nella storiografia una posizione e un rilievo determinante e autonomo. Come tali esse saranno esaminate nelle loro psicologie, che forniranno indizi per comprendere e spiegare azioni e comportamenti e quindi fatti della storia. È dal IV secolo a.C. che si sviluppa decisamente il genere biografico, una sorta di sottospecie storiografica, in parallelo con la fisiognomica e, in scultura, con la ritrattistica. Nascono così anche nuovi canoni di interpretazione storica. L’esempio migliore di questa allargata prospettiva storiografica è la Storia universale di Eforo (FGrHist 70), che trovava presso Polibio un notevole apprezzamento. La vasta premessa geografica delineava il quadro storico della trattazione che comprendeva mondo greco e barbaro. La temperie è quella dominata dalla pace del Re. La storia della Grecia, distinta nettamente dalle fasi mitiche più antiche, era tracciata nel suo svolgimento più recente come un susseguirsi di egemonie di singole poleis, criticamente motivate, ma che finivano per concludersi con un generale esaurimento. Il motivo delle egemonie che si succedono troverà poi applicazione su scala più vasta con la successione degli imperi, forse anche per influssi orientali, fino alle teorie provvidenzialistiche della storiografia cristiana.
La storia greca finiva per essere giustapposta
ad altri
quadri storici senza un chiaro centro unitario. I rapporti fra Greci e Barbari erano visti in un quadro generale dove i fattori etnografici e culturali avevano particolare rilevanza, il che favoriva anche una rilettura di Erodoto come storia della cultura. In un certo senso l’opera storica di Teopompo (FGrHist 115) precisava e delineava meglio questo indirizzo. Nei Philippikä il centro unificante era oramai riconosciuto nel re di Macedonia e quindi venivano superate le precedenti, più generiche visioni di una Storia Ellenica. La valutazione politica era accompagnata, con un certo qual contrasto, dal
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giudizio morale, che derivava dall’applicazione alla vita del singolo come di intiere comunità del criterio moralistico della corruzione a causa della tryphé, che perd era anche un modo con cui si esprimeva la constatazione di un mutamento sociale ed economico con i suoi riflessi sulla mentalità e sui comportamenti collettivi e di singoli. In realtà questa storiografia, che servirà poi largamente da modello, prendeva in considerazione in una prospettiva generale modi di vita e costumanze greche e barbare, ricercava i primi inventori di molte cose e istituti (aspetto fondamentale per una ricerca che intendeva dar rilievo ai momenti dell’incivilimento umano e agli aspetti della storia culturale), considerava storie di città e forme costituzionali (quindi complessi problemi di origini e di legislazioni) e ordinamenti sociali e civili, e ancora biografie di singole personalità con i vizi e le virtù che le avevano caratterizzate. La tecnica dell’excursus consentiva l’inserzione di digressioni polemiche, per esempio in tono antiateniese e antidemocratico e con un ripensamento critico della politica di Atene nel V secolo. Il quadro storico generale appariva
ad un tempo più complesso, e certamente aveva perduto la linearità essenziale della storiografia politica, ma era anche più rispondente alle ri-
chieste e agli interessi di un pubblico vasto.
E in questa prospettiva che va intesa l’introduzione sempre più frequente e ampia dell’elemento straordinario, meraviglioso e abnorme, che non rispondeva tanto all’esigenza di tener dietro al gusto dei lettori, quanto rappresentava la volontà di non trascurare nessun particolare rilevante per la conoscenza storica, non più ristretta ai soli fatti politici e militari. Di regola questi fenomeni e fatti straordinari, già in certa misura presenti nelle opere storiche di Erodoto e di Ctesia (FGrHist 688), si collocano nel contesto della descrizione di popoli stranieri. Aristotele e Teofrasto li studieranno poi scientificamente come manifestazioni importanti del mondo naturale (cfr. infra il capitolo sulla Letteratura filosofica e scientifica). 7. Il meraviglioso e l’irrazionale nella storiografia Naturalmente la curiosità e il fascino che queste trattazioni suscitavano facilitarono un’operazione di scorporo editoriale di queste sezioni e una loro presentazione autonoma rispetto alla collocazione originaria nel corpo delle opere storiche, che finirà per dare vita al genere della letteratura paradossografica, uno dei non pochi aspetti di quella spinta verso l’irrazionalità che caratterizzò l’età ellenistica e che, nel nostro caso, si
venne combinando curiosamente e pericolosamente con altrettanto forti interessi (e quindi ricerche) per il mondo scientifico. L’erudizione geografica e naturalistica del III secolo a.C. è connessa anche con la scoperta, o la riscoperta, dell'Oriente dopo la spedizione di Alessandro, e con tutto quanto di diverso suggeriva un confronto con il mondo greco. Le spinte irrazionali possono anche apparire come momenti di liberazione
dalle costrizioni della polis classica.
È naturale che questo indirizzo storiografico, nel quale i problemi
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storico-culturali erano per lo meno alla pari con quelli tradizionali della storia politico-militare, ponesse questioni nuove a proposito dell’accerta-
mento del vero, finalità sempre ribadita in ogni storiografia, e soprattutto circa il carattere stesso della verità. Lo storico, in questo caso, anche se politicamente impegnato in una specifica direzione, era sempre meno un uomo politico, attore e testimone ad un tempo dei fatti contemporanei che narrava, e si avviava piuttosto ad essere uno scrittore da tavolino, che raccoglieva e combinava notizie da relazioni, narrazioni e memorie altrui, la cui attendibilità egli non era quasi mai in grado di controllare di persona: ben diverse erano state le inchieste personali di Erodoto nei suoi molti viaggi. La storiografia si avviava ad essere spesso un ripensamento, anche acuto, di dati altrui (specialmente per l’allargarsi della prospettiva storica e delle tematiche da trattare): proprio quell’indirizzo che attirerà poi gli acuti strali della polemica di un Polibio. 8. La riflessione sulle forme politiche Il declino della polis democratica riproponeva ai filosofi, agli storici e ai politici del IV secolo a.C. il problema della stessa forma di governo della città e degli Stati. Era un problema antico, che già in Erodoto era stato oggetto di una singolare discussione, alle origini della monarchia persiana, sulla preferenza da accordare al regime monarchico o a quello oligarchico o a quello democratico. Si erano già venute elaborando teorie secondo le quali le forme istituzionali si dovevano adattare alle diverse indoli dei popoli, e che queste stavano in relazione con le condizioni climatiche proprie della collocazione geografica dei popoli stessi. Tucidide aveva descritto la progressione storica delle popolazioni greche: dalla monarchia antica, con il passaggio importantissimo delle tirannidi, alle democrazie (I 13, 1; 18, 1). I filosofi politici, da Platone ad Aristotele a Teofrasto (cfr. infra il capitolo sulla Letteratura filosofica e scientifica), avevano teorizzato gli stadi degenerativi di ogni singola forma costituzionale e i modi di passaggio da una forma all’altra, fino ad elaborare una vera e propria teoria della circolarità delle costituzioni — che si ritrova in Polibio, nel libro VI — connessa ad un’analoga riflessione sul declino degli Stati, e quindi come aspetto di una più complessa interpretazione
biologica o ciclica della storia umana. Nel caso di Aristotele, e poi anche di Teofrasto, la riflessione filosofico-politica (nella Politica) era l’esito di una minuziosa analisi condotta sulla storia costituzionale delle singole città greche, e anche non greche, che aveva portato alla stesura dell’opera apposita delle Costituzioni (delle quali sopravvive per caso solo quella di Atene). Già da tempo nello studio delle opposte forme costituzionali si era ricercata una via mediana che, evitando gli estremismi e le lotte politiche interne della città, potesse garantire una compartecipazione bilanciata delle varie componenti sociali al governo cittadino. La teoria della “costituzione mista” aveva questa finalità, pratica e anche filosofico-politica, e naturalmente tradiva subito un carattere oligarchico-conservatore. In
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ogni modo rapporti di proporzionalità e mescolanza di elementi costituzionali differenti intendevano amalgamare gruppi sociali diversi. La teoria, applicata ad un’interpretazione tanto di Atene arcaica quanto di Sparta licurgica, tradiva il suo carattere empirico; fu con un discepolo di Aristotele, Dicearco, che la costituzione mista venne pensata come forma politica a sé stante, non come equilibrio precario di forme costituzionali già esistenti. Tuttavia, assuntala implicitamente come modello ideale, Polibio poté poi applicare questa teoria anche all’interpretazione storica e politica dei regimi di Roma e di Cartagine. Era certamente non
facile usare questo modello, sempre ancorato ai modi di vita e alla realtà
culturale della polis, nei confronti di uno Stato territorialmente vasto, ed ancor più ai nuovi regimi monarchici nati sulle rovine dell’impero di Alessandro. Sembra sintomatico che non vi siano segni chiari di una consapevolezza dell’incompatibilità fra il mantenimento delle strutture cittadine autonome e le nuove realtà di Stati territorialmente vasti (l’osservazione vale anche per Polibio e Roma). D'altro canto non è facile pensare che la teoria della costituzione mista abbia rappresentato un modello alternativo al regime monarchico, che ebbe subito anch’esso le sue teorizzazioni giustificative, con successivo impiego storiografico. Piuttosto le numerose costruzioni utopiche di III e II secolo a.C., che immaginano società e Stati ideali ed egalitari di regola ambientati in isole lontane, possono essere intese come una risposta di massima libertà ai tentativi, pratici e teorici, di razionalizzare le forme costituzionali e le strutture politico-economiche delle società nei regni ellenistici. E come tali, nel quadro di quelle interpretazioni storiografiche orientate verso nuovi spazi geografici e verso nuove, straordinarie esperienze umane, esse poterono anche essere recepite in un’opera storica come quella di Diodoro (in età cesariana). 9. Dicearco. La storiografia erudita Lo stesso Dicearco, in un’opera intitolata Vita della Grecia, aveva ricostruito le varie fasi dell’incivilimento umano in Grecia, mettendo a frutto i ripensamenti dei filosofi politici e i dati della storia. Egli distingueva i vari stadi attraverso i quali la società si era venuta sviluppando secondo i modi di sostentamento, e teorizzava il passaggio da un'età primordiale legata alla raccolta dei frutti naturali ad una successiva caratterizzata dalla pastorizia, e infine l'approdo all’agricoltura, alla sedentarietà e alla nascita della città (con le sue costituzioni). I vari passaggi da un’età all’altra erano immaginati violenti e non è detto che il progresso verso forme più avanzate di civiltà venisse giudicato del tutto in modo positivo. L’opera di Dicearco e la sua ricostruzione antropologica daranno, e non soltanto agli storici e ai filosofi antichi, un modello secondo il quale organizzare la protostoria umana. Del resto, tutto questo complesso panorama di una storiografia fortemente interessata ai fatti sociali e culturali convive a fianco delle forme tradizionali dell’indagine storiografica e in primo luogo con una storio-
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grafia locale ora in nuova fioritura (cfr. supra paragrafo 2). Non è infrequente il caso che la grande storiografia la conosca e la usi ai fini propri. Si è già detto come all’interno delle monarchie ellenistiche la storia delle singole città avesse acquistato il significato politico e ideologico di una difesa delle tradizioni locali sommerse in un più vasto e diverso contesto. Con l’età ellenistica la storiografia locale andrà assumendo un marcato aspetto erudito, e svolgerà spesso la funzione di illustrare monumenti, templi, statue, luoghi di culto, iscrizioni, collegando ad essi leggende, fatti storici, interventi miracolosi della divinità. In questi materiali troverà una delle sue principali componenti la letteratura romanzesca antica, quasi una forma minore di storia, nella quale si combinavano anche elementi fantastici ed erotici e che si rivolgeva ad un pubblico comune (cfr. infra il capitolo sul Romanzo). Queste illustrazioni storiche locali assumevano anche un carattere periegetico e turistico-informativo. A fianco delle finalità antiquarie ed erudite si ritrovava anche una tendenza politica più o meno esplicita. Era inevitabile che, per esempio, ancora nel testo della Periegesi della Grecia di Pausania,
alla metà
del II secolo
d.C.,
affiorassero
sentimenti
ab-
bastanza chiaramente antiromani. Questo indirizzo storiografico locale non era soltanto diretto al ricupero del passato più o meno leggendario, talora sfruttato anche per scopo pratico contingente (per esempio dispute confinarie e territoriali fra città vicine). Le annotazioni di storia contemporanea si accumulavano negli archivi cittadini per ricomparire spesso nelle motivazioni delle lunghe iscrizioni onorarie ellenistiche, che riflettono interessi locali e ricordi di avvenimenti di più vasto ambito. 10. Atthis
Quando la storiografia locale riguarda una città come Atene, il suo significato storiografico e politico è naturalmente più vasto: gli scrittori di Atthides (Attidografi) finiscono per rappresentare una categoria a par-
te. Dopo l’opera del non ateniese Ellanico, scritta verso la fine del V secolo (cfr. supra, p. 174), questa storiografia rinasce alla metà del IV secolo (Cleidemo, Androzione, Fanodemo, Melanzio, Demone, Filocoro gli autori più importanti), al momento dello scontro con la Macedonia, quando la democrazia al potere è attaccata dalla pubblicistica isocratea; essa finirà con la fine politica di Atene nel secolo successivo. Più che naturale che in essa si riflettessero i contrasti politici interni e che la storia costituzionale ateniese delle origini e grandi personalità, mitiche o storiche, come Teseo, Draconte, Solone, Clistene o istituzioni come l’Areopago diventassero argomenti di uno scontro che coinvolgeva il passato perché lo ricostruiva secondo le ideologie del presente. Anche se l’Atthis fu in prevalenza opera di storici conservatori di tendenza isocratea, non mancarono tuttavia autori di opposta collocazione: la già ricordata Costituzione degli Ateniesi di Aristotele risente profondamente di questo dibattito politico-storiografico.
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11. Gli storici di Alessandro
La vittoria sull’impero persiano da parte di Alessandro significò una svolta decisiva anche per la storia della cultura greca, e quindi per la storiografia. La grandiosa impresa non tanto rappresentava un momento, quello finale, del secolare conflitto fra Grecia e Persia, quanto piuttosto una vera e propria conquista di sterminati territori, della quale un solo eroe era il vero protagonista. I principali storici contemporanei di Alessandro, oltre a tutto in varia guisa compartecipi dell’impresa, Callistene (FGrHist 124), Tolomeo (FGrHist 138), Aristobulo (FGrHist 139), One-
sicrito (FGrHist 134), sono stati concordi nel porre al centro del grande fatto storico la volontà e la personalità dell’eroe, anche se ognuno di loro, a seconda della propria funzione e della propria preparazione, ha accentuato l’uno o l’altro aspetto dell’azione di Alessandro: tecnico-militare, politico, culturale, religioso. La centralità di Alessandro ha condotto, naturalmente, ad una comune deformazione nelle loro storiografie con assoluto privilegio del punto di vista greco, così come ha reso meno importante e significativo ogni problema di ricerca delle cause storiche dell'intiera azione e delle sue varie fasi, e ha favorito, per contro, una storiografia narrativa (talora con marcato carattere encomiastico), nella quale trovavano posto sia l'atmosfera mistica ed eroica che circondava l’eroe sia la meraviglia suscitata dalla scoperta di mondi nuovi e sconosciuti. Le conseguenze erano abbastanza ovvie: si favoriva uno stile drammatico e un interesse al meraviglioso con facili indulgenze verso il fantastico e l’esagerato (e quindi la menzogna). Più che naturale che ne venisse anche una spinta potente all’inserimento dell’elemento romanzesco e che la stessa impresa di Alessandro desse vita duratura, complessa e continuamente arricchita, ad un romanzo condito con tutte le fantasticherie che l’Oriente poteva offrire. Lo spirito di avventura si traduceva in un rinnovato interesse etnografico, che coinvolgeva ora classi sociali più vaste e interessi pratici molto più ampi che nel passato. Accanto ad opere nuove si ebbero edizioni di vecchi testi etnografici allargate ai nuovi ambiti geografici e aggiornate secondo le recenti conoscenze. 12. La nuova etnografia. Le scienze
L’aprirsi del mondo orientale allo spirito di osservazione greco rappresentò un immenso arricchimento di conoscenze scientifiche, presto inserite nelle sistemazioni e rielaborazioni della scuola peripatetica. La rinascita, già ricordata, degli studi etnografici era dovuta non soltanto all'aumento reale del materiale da studiare (per esempio è solo ora che il mondo greco incomincia a rendersi conto del popolo ebraico, della sua peculiare natura e della sua cultura), ma anche al nuovo approccio, filosofico e teorico, con il quale quel materiale poteva ora essere, e fu, indagato, e ai nuovi interessi religiosi, culturali, scientifici, politici, che sollecitavano
quelle conoscenze.
Nuovi
canoni
interpretativi
poterono
es-
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sere allora elaborati. D’altro canto le monarchie ellenistiche, che vennero ad instaurarsi sulle diverse aree dell’impero di Alessandro, erano interessate a conoscere e a valorizzare la storia e le tradizioni culturali degli ambiti nei quali esercitavano il loro potere (molto più che non, come sopra si è detto, ad occuparsi delle storie delle poleis greche appartenenti ai loro dominî). Le opere storico-etnografiche di Ecateo di Abdera (FGrHist 264) e di Manetone (FGrHist 609), entrambe se pur diversamente dedicate al mondo egiziano, furono probabilmente sollecitate dai re Tolomei, così come lo fu la traduzione greca detta “dei Settanta” della Torah ebraica, secondo una tradizione antica che può considerarsi degna di fede e che ci è conservata nella Lettera di Aristea. Le opere di Berosso Caldeo (Storia di Babilonia: FGrHist 680) e di Megastene (Sull’India: FGrHist 715) furono forse scritte nell’interesse della monarchia seleucidica. Esse tutte sono con ogni probabilità altrettanti momenti di questo nuovo interessamento politico-culturale, tanto più significativo in quanto contatti e scambi fra il mondo greco e le civiltà dell'Oriente avevano già dietro di sé una lunga storia. Questa indagine sul passato era un aspetto non trascurabile di un processo di conoscenza e di razionalizzazione dell’esercizio del potere che i re ellenistici perseguivano e che spiega il loro appoggio alla ricerca scientifica, teorica e applicata. Essa si rivolse fondamentalmente in tre direzioni: le tecniche della guerra (con i presupposti della meccanica e delle esigenze delle costruzioni), l'agricoltura e le scienze geografiche (con le premesse matematiche, fisiche e delle scienze della natura). Queste ultime, come anche la riflessione sulle forme di governo e dell’amministrazione dello Stato, ebbero un naturale riflesso nel campo della storiografia, ed unite all’organizzazione ad opera dei governi di esplorazioni geografiche per mare e per terra (anche con finalità economicocommerciali), con le conseguenti relazioni di viaggi, diedero a storici e militari (Polibio, Posidonio) e a geografi attenti alla funzione politica delle loro opere (Strabone) la consapevolezza dell'importanza dei fattori geografici e ambientali in uno studio concreto dei problemi storici. Un vasto filone storiografico (del quale, in certo senso, Polibio è per noi il rappresentante più cospicuo) andò così acquistando un sempre maggiore aspetto di tecnicismo, anche perché esso era opera di diplomatici e di generali, e si basava su osservazioni concrete e su ragionamenti solidi. Secondo un acuto storico della storiografia greca, Eduard Schwartz, vi è una sorta di connessione ideale che va dall'ammiraglio di Alessandro, Nearco, e da Tolomeo giù giù fino a Cesare, passando appunto per Polibio e per Posidonio. Questa letteratura storica aderente a problematiche concrete, e che risponde alle nuove realtà sociali e politiche, veniva a contrapporsi alle precedenti visioni universalistiche della storia e anche all’evasione verso il fantastico della storia romanzata, anche perché i potenziali utenti erano diversi. D’altro canto la progressiva personalizzazione della storia, che aveva ricevuto un ulteriore forte im-
pulso dal protagonismo di Alessandro, si venne concretando nella memorialistica autobiografica di personaggi politici di rilievo (per esempio
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il re Pirro o l’acheo Arato), o comunque in opere storiche accentrate attorno all’azione e alla personalità di sovrani o di politici eminenti. 13. La storiografia drammatica L’interesse per l’azione degli individui, e quindi per i loro caratteri, modi di vita, particolari personali e privati riflette la mentalità, le esigenze e i gusti di un pubblico nuovo, più aperto ad esperienze esterne e meno politicamente impegnato. Questo pubblico curioso desiderava una narrazione che lo divertisse con racconti coloriti e che gli procurasse un coinvolgimento emozionale negli avvenimenti che gli venivano proposti. Le grandi lotte dell’età di Alessandro e più quelle dei suoi successori erano un campo nel quale una storiografia drammaticamente atteggiata aveva possibilità di esibirsi. Il problema della cosiddetta storiografia tragica o drammatica e delle sue origini è stato a lungo dibattuto. Una teoria famosa, ora quasi completamente abbandonata, era stata proposta da Eduard Schwartz: l’iniziatore di questo indirizzo sarebbe stato Callistene nelle sue Elleniche, che in un programmato tentativo di andare oltre la distinzione aristotelica (Aristotele era suo parente) fra la poesia (la tragedia) che tendeva all’universale, e la storia, situata ad un livello inferiore perché legata al particolare, avrebbe cercato di ristabilire una sorta di eguaglianza fra questi due generi letterari trasferendo nella storia le caratteristiche che Aristotele descriveva per la tragedia e i mezzi impegnati per raggiungere quelle finalità. Al di là del riferimento di questa tendenza narrativa a scuole filosofiche o retoriche (per altri la matrice potrebbe essere stata quella isocratea), erano i nuovi gusti del pubblico che sollecitavano gli autori a ricorrere a nuovi mezzi per creare nei lettori interessamento e divertimento (alla tradizionale finalità della storia, quella politica e morale, si affianca ora quest’altra esigenza di interessare divertendo). La rappresentazione della realtà si deve adeguare al criterio di porre il lettore davanti a quadri vivacemente e visivamente attrattivi e non più solo a trattazioni che facciano pensare e riflettere. La stessa concezione della verità oggettiva subisce un nuovo spostamento. Nella storiografia di Duride di Samo (FGrHist 76) intervenivano con funzione rilevante l'elemento femminile e amoroso, la ricerca dello strano e del curioso;
l’aneddotica sui personaggi insisteva su particolari storicamente irrilevanti, ma tali da rendere la narrazione vivace e piacevole. Il comico e la satira facevano il loro ingresso nella storiografia; il motivo della tryphé nella descrizione di popoli e di individui continuava ad essere importante. E possibile che lo stato frammentario della nostra documentazione, e ancor più le ragioni per cui un certo tipo di frammenti ci è stato conservato, enfatizzino caratteri esteriori di questa storiografia, alla base della
quale stava sempre un fondamento politico o meglio una precisa interpretazione dei problemi della Grecia fino al re Pirro. Un ragionamento analogo vale ancor più per l’opera storica di Filarco (FGrHist 81), che valorizzava l’azione politica e sociale dei re spartani
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riformatori della seconda metà del III secolo a.C. ed era quindi in polemica aperta contro Arato e le sue Memorie. Proprio per queste ragioni politiche egli diventò il bersaglio di una dura polemica di Polibio nel libro II delle sue Storie a proposito della storia acaica (e da questa polemica noi conosciamo i caratteri della storiografia che Polibio combatte, sulla quale ci informano bene anche le vite plutarchee di Agide e di Cleomene). Polibio ebbe agio di spostare sul piano della metodologia storiografica la sua polemica contro Filarco, rimproverando la rappresentazione drammaticamente atteggiata dei fatti per colpire la fantasia e il sentimento dei lettori e coinvolgerli negli avvenimenti sul piano emozionale. Ma è ben chiaro che al di là del pur profondo dissenso sul metodo stava la personale opposizione di Polibio ad una visione politica e storiografica che rivalutava con simpatia e comprensione la politica di ricostruzione licurgica della società spartana e la conseguente spinta espansionistica della Sparta rinnovata ai danni della Lega achea e di Arato che, pur di resistere, non avevano esitato a ricorrere all’intervento mace-
onico. 14. La grecità e l’Occidente. Timeo Già agli inizi del III secolo a.C. ci si avvide che l’asse della storia mondiale (mediterranea) si stava spostando dalla Grecia tradizionale e dal mondo delle monarchie ellenistiche verso Occidente, dove, accanto e di fronte a Cartagine, stava sorgendo la nuova potenza di Roma. Chi si accorse per primo di questo spostamento fu Timeo di Tauromenio, autore di Sikelik4 (FGrHist 566) e in certo senso erede della storiografia siceliota e italiota da sempre interessata ai problemi della colonizzazione. La sua scoperta dell’Occidente è tanto più significativa in quanto egli era storico libresco e operava in Atene dove, verso il 316-312 a.C. si era rifugiato quando Agatocle conquistava la sua città. Piuttosto estraneo al movimento culturale e alla politica dell’Atene del suo tempo, lontano dalle vicende delle monarchie nate dall'impero di Alessandro, sembra che egli sia rimasto saldamente ancorato al mondo tradizionale delle poleis (che aveva ancora una sua validità nella grecità d'Occidente): si può spiegare così il suo demostenismo. La valorizzazione dell’Occidente coinvolgeva, accanto alla grecità, le popolazioni indigene della Sicilia, dell’Italia e delle altre regioni occidentali. Ed è in questa prospettiva che Timeo intuì il significato dell’emergere di Roma, specialmente dopo la sua vittoria su Pirro. Il sincronismo da lui proposto fra le due fondazioni di Cartagine e di Roma (all’800 a.C.), sembra sottintendere un destino comune fra le due città, anche se non si può dire quale egli pensasse che sarebbe stato. Attento ai documenti e alle tradizioni locali che cercò di controllare e che sfruttò largamente, Timeo appariva alla critica astiosa di Polibio come un puro storico erudito e non affidabile per i suoi pretesi numerosi errori, sebbene anche nel caso di Timeo dietro il disaccordo
di metodo si celi la volontà di denigrare un predecessore di merito. L’interesse per la storia di Roma rappresentava un importante dato
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nuovo ed è veramente con Timeo che il mondo greco impara a conoscere la nuova potenza emergente (nel mondo magnogreco, dove Roma si era affacciata prepotentemente nella seconda metà del IV secolo a.C.,
ci si era già occupati della città e della storia delle sue origini). Ora non si trattava più delle incerte conoscenze, che avevano giustificato le scarse menzioni della città nella storiografia precedente; il problema storico e politico che essa rappresentava dominerà dalla fine del III secolo il mondo greco e anche la sua storiografia. E probabilmente anche per l’influenza di Timeo che nasce e si sviluppa in Roma nell’età della seconda guerra punica (221-202 a.C.) una storiografia “locale” in lingua greca, diretta a lettori di Magna Grecia e di Sicilia con l’intento di controbattere la contrapposta storiografia favorevole ad Annibale. 15. Roma e la nuova egemonia. Polibio L’emergere e lo stabilirsi di Roma a potenza egemone del mondo mediterraneo diventò il tema centrale, direttamente o indirettamente, di tutta la storiografia greca dal III secolo a.C. in avanti, subentrando così all’interesse che le conquiste di Alessandro avevano suscitato, così come, nella successione degli imperi egemoni mondiali, quello romano era succeduto all'impero macedonico. Gli Stati monarchici greci non rappresentano più, dopo leronimo di Cardia, motivi ispiratori per una visione storica unitaria della storia greca, anche perché il principio dell’equilibrio politico, che aveva caratterizzato i rapporti stessi fra quegli Stati, non riuscì a diventare un motivo interpretativo unitario in sede storiografica. Il centro unificante delle vicende storiche, intuito da Timeo, è ora appunto Roma. Due storici emergono nel II e nel I secolo a.C.: Polibio e Posidonio. Polibio sa e intende, e quindi più volte ripete, di scrivere storia universale. L’egemonia romana, che egli descriveva nel suo nascere e nel suo imporsi nei cinquant'anni fatali che si erano conclusi con la disfatta del regno macedonico di Perseo a Pidna (167 a.C.), rappresentava, in un grado mai prima raggiunto, l’unità del mondo conosciuto: essa forniva, quindi, il punto centrale per una nuova e vera visione unitaria della storia mondiale (I 2, 1). All’unità che viene fornita, per dire così, dal contenuto che è oggetto della trattazione, si accompagna la capacità della mente dello storico di abbracciare in un ampio sguardo la complessità e la varietà degli avvenimenti del periodo storico e di scorgere la concatenazione delle loro cause (V 32, 4-5). L’intreccio di questi avvenimenti mondiali si connette all’esito della guerra annibalica, quando la battaglia di Zama decise, fra Roma e Cartagine, a chi sarebbe spettata l'egemonia. Questo concetto, già argomento politico percepito dai più avveduti uomini politici greci del tempo (la fine del III secolo), diventa per Polibio, che scrive alla metà del secolo successivo, il motivo interpretativo che unifica, naturalmente con una forte proiezione nel passato, la storia mediterranea dal 218 a.C. in poi, anzi ancor prima: dal 261. Polibio, che anche in questa riflessione fondamentale riprende motivi
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tucididei, non dubitava di una precisa volontà imperialistica romana, da un lato spinta necessariamente inerente ad ogni potere egemonico, dall’altro coincidente con il piano riposto della tyche. L’unità del periodo storico è così riportata ad un motivo umano. Lo storico dovrà allora indagare se, perché e come i mezzi messi in opera per realizzare quel programma siano stati concretamente all’altezza del programma espansionistico stesso. La storiografia è, quindi, di nuovo ancorata ad un grandioso problema contemporaneo, e questo, per essere compreso e descritto, imponeva allo storico stesso una conoscenza concreta e precisa di fattori politici, militari, tecnici, geografici che potevano ritrovarsi soltanto in un uomo politico, che avesse la capacità di valutare personalmente i dati che intervenivano nelle decisioni e nelle realizzazioni politiche,
pratiche.
Di qui una concezione pragmatica della storia (e quindi un rifiuto aprioristico di altri generi storiografici interessati non a realtà contemporanee, ma a vicende di fondazioni di città e a parentele di popoli o a tradizioni mitiche e genealogiche: IX 1), che portò Polibio a polemizzare vivacemente contro storici libreschi o comunque da lui ritenuti non competenti ad analizzare situazioni politiche e (per esempio) eventi militari. Questa concezione della storia mirava, come già in Tucidide — che torna ad essere modello di pensiero e di analisi politica — a fornire conoscenze concrete ad altri uomini politici, anche se viene da chiedersi chi più, nella Grecia della metà del II secolo, potesse, anche volendolo, applicare praticamente in politica l'insegnamento polibiano: ma lo storico acheo pensava anche ai suoi amici romani. Si rifugge, per contro, da ogni intento di piacere: lo storico, attento alla realtà delle cose, deve anche limitare l’impiego, che oramai era divenuto parte essenziale del meccanismo storiografico, dei discorsi, che devono essere inseriti soltanto nelle occasioni più importanti ed essere naturalmente rispondenti a contenuti reali. Se la polemica contro i predecessori, e i contemporanei, occupa una parte notevole dell’opera polibiana (il frammentario libro XII è in larga misura una discussione critica di questo genere, rivolta per lo più contro Timeo), d’altro canto Polibio ha perfetta consapevolezza della rilevanza politica e storiografica dei fattori geografici della storia (e perciò anche della funzione indispensabile che l’acquisizione di conoscenze geografiche e tecniche ha per uno Stato), e altresì della necessità di entrare a fondo nei meccanismi costituzionali e militari degli Stati che sono protagonisti dello scontro per l'egemonia mondiale, perché è lì che sarà da cercare, e da trovare, la ragione del successo e della disfatta, e quindi anche il diritto a quell’egemonia. È in questa prospettiva che intervengono anche fattori di ordine economico, come già in Tucidide aspetti di un più complesso quadro storico, che non assumono in campo storiografico validità autonoma. Nel libro VI i meccanismi politico-costituzionali dello Stato romano sono esaminati nel loro funzionamento pratico e nell’inte-
ragire delle differenti componenti della società e dello Stato per mostrarne la superiorità su quelli delle complesse, non omogenee e inefficienti monarchie greche (descritte abbastanza chiaramente nel libro V). So-
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prattutto le istituzioni militari e la capacità romana di mettere in campo forze armate in modo pressoché illimitato hanno richiamato l’attenzione e l'ammirazione di un politico che di cose militari se ne intendeva. La superiorità di una milizia cittadina, come era ancora fra III e II secolo quella di Roma, rispetto agli eserciti compositi e mercenari degli Stati greci monarchici, emerge dall'analisi polibiana assolutamente evidente. Poco importa se lo storico abbia anche cercato di inserire questa sua riflessione su dati concreti in una più vasta e artificiale teorizzazione filosofico-politica sulle forme costituzionali e sulla loro circolarità entro una visione ciclica della storia. Questa teorizzazione serviva, in effetti,
allo scopo di confrontare le istituzioni romane con quelle di altri Stati egemoni del passato e del presente (Sparta e Cartagine), prendendo come paradigma quella costituzione mista della quale si sono visti l’origine e il valore puramente teorico. Piuttosto la teoria della circolarità delle forme costituzionali e anche della ciclicità degli Stati nella loro vicenda biologica, che è assunta come punto fisso nella concezione stessa che Polibio ha della storia, serviva anche a mettere in guardia sulla non eternità della stessa egemonia di Roma, che sarebbe stata soggetta anch’essa all’eterna vicenda alla quale erano soggiaciute le potenze egemoniche precedenti. Polibio, ostaggio acheo a Roma dopo Pidna, presto entrato a contatto per l’amicizia di Scipione Emiliano con la classe dirigente romana, e osservatore attento della politica di Roma, delle sue motivazioni e del suo evolversi, e soprattutto spettatore degli eventi drammatici che avevano condotto alle distruzioni di Cartagine e di Corinto (146 a.C.), non aveva fatto fatica ad accorgersi che, secondo un destino comune già alle poleis greche egemoni e anzi necessariamente connesso con ogni egemonia —
come già aveva ammonito Tucidide — anche il dominio romano andava oramai assumendo le più dure connotazioni di un potere imperiale intollerante e repressivo. Ampliando il suo disegno storico dal 167 al 146 a.C., nella prefazione aggiunta al libro III, Polibio poneva a sé e ai suoi lettori il quesito del futuro di questa egemonia, intuendone il destino nei modi dell’esercizio del potere e quindi nella capacità di Roma di instaurare un rapporto nuovo con i sudditi, non soltanto basato sulla forza e sul terrore, ma tale da legittimare, anche su di un piano morale, il suo diritto al comando, creando, se possibile, attorno a sé il consenso. Sarà non facile compito di spiriti illuminati greci, come lo stesso Polibio e più ancora Panezio, quello di educare ai doveri imperiali la classe dirigente romana del tempo, fornendo così anche una base di legittimità all’egemonia romana, al di là delle sole ragioni politico-militari del successo, e dimostrando che quello di Roma era veramente il dominio dei migliori a vantaggio dei sottoposti. Nella narrazione di questo grande processo storico di conquista dell'egemonia mondiale, Roma si scontrava con Cartagine e con le monarchie ellenistiche. Il destino della Grecia vera e propria appariva oramai segnato da una decadenza inarrestabile che Polibio individuava in ragioni interne alla società e alla vita politica greca del tempo. Tuttavia egli aveva una certa quale consapevolezza che gli Stati federali greci (e in
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primo luogo, naturalmente, la sua Lega achea) avevano pur svolto un qualche ruolo, se non altro come superamento di una politica legata alle singole città. L'attenzione posta sulle vicende interne greche, per esempio la lotta fra la Lega achea di Arato e la Sparta di Cleomene, e la conseguente già accennata polemica con lo storico Filarco, superano la semplice manifestazione di patriottismo locale e sembrano indicare un momento nuovo, anche se presto perituro, della vita greca. 16. Storici contemporanei di Polibio. Posidonio
Naturalmente la contemporaneità della storia non sta soltanto nella narrazione di avvenimenti contemporanei allo storico. E l’esperienza del presente che rende contemporaneo anche il passato, qualunque passato, con i suoi problemi. Il genere storiografico delle origini delle città e delle parentele di popoli, che Polibio scartava come inattuale, poteva ben essere animato da impegno politico e lo storico di questo indirizzo poteva ben scorgere nel lontano passato le premesse di problemi del presente. E per esempio il caso di certa storiografia locale erudita degli inizi del II secolo a.C., interessata alla storia arcaica della Troade. Il problema “attuale” era l’origine troiana dei Romani, forte strumento propagandistico della politica romana in Asia. Il presupposto di questa origine era la venuta di Enea e dei suoi in Italia, affermata, se pur con versioni diverse, da alcuni storici, come Egesianatte (FGrHist 45) e Agatocle di Cizico (FGrHist 472), negata da altri, come Demetrio di Scepsi, erudito commentatore del Catalogo dei Troiani dell’Iliade. Il fatto è che il problema storico delle origini di Roma, poco o niente importante fino agli inizi del III secolo a.C., era diventato rilevante con il crescere della posizione internazionale di Roma e poi, nel II secolo, aveva assunto aspetti polemici nel quadro di posizioni antiromane da parte di ambienti greci che bollavano la barbarie originaria di Roma e quindi la sua indegnità all’egemonia. La tematica continuerà ad essere importante almeno fino all’età augustea. Problemi di erudizione e di antiquaria acquistavano nuova vitalità in questi contesti polemici e trovavano (e troveranno) accoglimento in storiografie orientate contro Roma.
Si trattava di una storiografia ben
lontana da quella concretamente pragmatica che Polibio sosteneva; ma è probabile che quest'altro indirizzo, nel quale non mancavano elementi romanzeschi, trovasse una più vasta udienza presso un pubblico non specializzato. Nel mentre l’espansionismo romano andava assumendo dopo Pidna connotati di sempre maggior violenza e brutalità, anche con l’annientamento del vinto (mentre le guerre fra le monarchie ellenistiche di regola finivano sempre con paci di compromesso), come crescevano le già ricordate perplessità di Polibio, così nella storiografia greca il problema della legittimità e del carattere del dominio romano (oramai riconosciuto o ammesso come inevitabile) diventava centrale; e certamente si trattava di un riflesso naturale di atteggiamenti e modi di pensare diffusi. I motivi della cupidigia di potere e di ricchezze soppian-
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tavano oramai nei giudizi su Roma la riconosciuta necessità di espansione di ogni potere egemonico; quei motivi si configuravano come aspetti di una decadenza morale della classe dirigente (già ammessa da Polibio), che inevitabilmente si traducevano in comportamenti arroganti e sfruttatori verso i sottoposti, in generale malgoverno, prodromo a movimenti di rivolta contro Roma. È questo il problema centrale, alla metà del I secolo a.C., della storiografia di Posidonio, continuatore dell’opera di Polibio. Egli non metteva in dubbio la legittimità del dominio romano. Il problema centrale (come già anche per Polibio nella prefazione aggiunta del libro III) era quello dei modi con i quali il potere veniva esercitato da Roma. Come vedremo anche più avanti a proposito della storiografia dell’età imperiale, è comprensibile che l’attenzione fosse posta in primo luogo sull’amministrazione delle province, dove le conseguenze del malgoverno erano più evidenti per uno storico non romano. L'esperienza storica degli anni che andavano dalla caduta di Cartagine (146 a.C.) alla prima guerra civile dimostrava che il funzionamento dello Stato romano si era inceppato, all’interno e all’esterno, a confronto del giudizio positivo espresso da Polibio. Appariva indubbia una decadenza morale e politica della classe dirigente che coinvolgeva l’intiera compagine statale. Le cause erano ritrovate e indicate nella sfera della moralità privata e pubblica: l'avidità di potere e di arricchimento aveva condotto all’annientamento di Cartagine; l’arroganza del potere verso i sottoposti derivava dall’eccesso di benessere e di sicurezza per il venir meno di freni inibitori esterni (la famosa teoria del metus hostilis, che sarà poi accettata anche da Sallustio). Sotto la presentazione moralistica del declino si celava, anche in questo caso, la consapevolezza di profondi cambiamenti nella società e nelle mentalità a seguito della vittoriosa politica di espansione. Posidonio sapeva anche indicare le profonde modifiche sociali ed economiche che la dominazione romana apportava nelle economie provinciali (per esempio nel caso della Sicilia, dove erano state fomite delle guerre servili del II secolo a.C.). Lotte civili, insurrezioni schiavili e proletarie erano le conseguenze di quelle più generali premesse. I dati concreti della realtà storica erano inseriti e spiegati in questo quadro generale, che era ar-
gomentato anche con la riflessione filosofico-politica. Lo sfruttamento delle province ad opera di cavalieri e di governatori corrotti, il dissidio fra Senato e ceto equestre erano aspetti della crisi dello Stato romano. Ma il pessimismo, che avrebbe dovuto necessariamente discendere da questa analisi (e che di fatto sarà caratteristico di tutta la storiografia romana da Sallustio a Livio a Tacito), era riscattato in Posidonio dalla consapevolezza, o dalla speranza, che personalità esemplari e la stessa tradizione di saggezza politica della quale era depositario il Senato, consentivano di immaginare nel futuro un dominio nuovamente giusto e fondato sul consenso dei sudditi. D’altro canto la realtà imperiale di Roma consentiva, ora, alla metà del I secolo a.C., una nuova amplissima apertura sull’Occidente. Posidonio si fece storico-geografo-etnografo di
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questa civiltà che, ad operadi Roma, veniva ora ad un contatto stretto (politico oltre che di semplice conoscenza) con il mondo greco-romano. Nell’area orientale, anche la conquista pompeiana dell’Asia rappresentò l’occasione per una serie di opere di larga informazione su molte popolazioni asiatiche, compresi i Giudei, che Alessandro Polistore (FGrHist 273) venne compilando secondo il sistema del collage antologico di brani di autori precedenti. Attraverso la mediazione di più tardi autori cristiani, che misero a loro volta a frutto il Polistore, conosciamo così frammenti di una storiografia, e di una letteratura, giudaico-ellenistica di III e II secolo a.C., non priva di elementi romanzeschi, e soprattutto interessata a stabilire priorità ebraiche nell’invenzione di strumenti e di elementi caratteristici per l’incivilimento umano. Lo stesso problema della maggior antichità delle civiltà orientali rispetto a quella greca si pose agli studi di cronografia, quando gli schemi cronologici greci furono messi a confronto con quelli elaborati sulle tradizioni indigene dei popoli dell’Oriente (nel I secolo a.C. l’opera di Castore di Rodi assunse notevole rinomanza: FGrHist 250). 17. La storiografia antiromana. Diodoro. Dionigi d’ Alicarnasso Un altro fattore politico che venne ad incidere su alcune posizioni della storiografia nel corso del I secolo a.C. fu la grande guerra mitridatica, che parve (e pare ancora oggi ad alcuni storici) configurarsi come l’ultimo tentativo greco di riacquistare una qualche parvenza di libertà. Le tradizioni e gli argomenti della pubblicistica antiromana del secolo precedente, mai spenti del tutto, riemersero con vigore nelle opere storiche che si ispiravano al grande re del Ponto: caso tipico quello di Metrodoro di Scepsi (FGrHist 184). Non si trattava soltanto di una disputa, pur politicamente impegnata ma limitata all’ambito di storici e di eruditi. I toni antiromani di questa storiografia erano l’eco di prese di posizione culturali, specialmente nel campo dell’eloquenza, che ebbero largo influsso in senso filopopolare sulla vita politica delle città greche d’Asia Minore fino ad Augusto, e per un istante anche nell’Atene filomitridatica presto domata da Silla nell’88 a.C. Il fondamento politico di questa storiografia era quindi vivamente reale e richiedeva risposta adeguata, che venne in età augustea da Dionigi d’Alicarnasso. Lontana apparentemente da questo scontro polemico rimase invece la Biblioteca storica di Diodoro, di Agirio in Sicilia, scritta attorno all’età di Cesare e non pervenutaci integralmente. Si tratta di una sorta di storia universale dalla guerra di Troia in avanti, compilata di regola su buone fonti, ma senza che emerga dalla narrazione di lunghe sequenze di avvenimenti una qualsiasi unità storiografica o un preciso impegno politico del suo autore. Anche nei primi cinque libri dell’opera, che trattano della storia umana prima della guerra troiana, confluiscono materiali diversi per provenienza e impostazione, con larga presenza di racconti mitici e leggendari (sui quali l’autore interviene con intenti razionalizzanti, anche se sa che essi delineano una sorta di verità non paragonabi-
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le a quelli dell’età storica), di vaste descrizioni etnografiche anche di popolazioni non greche, che sono talora arricchite dagli apporti dei testi utopici elaborati qualche secolo prima e qui ora recepiti quasi come elementi di storia culturale. Tutti questi materiali sono inquadrati in una
visione di progresso e di incivilimento dell'umanità nei quali hanno una
specifica funzione grandi re civilizzatori: è sembrato probabile che questa prospettiva recépisca intenzionalmente gli ideali monarchici dell’età cesariana, o almeno ne sia influenzata. L’opera storica di Dionigi d’Alicarnasso, la Storia di Roma arcaica (in venti libri, dei quali sono conservati i primi dieci), che fu pubblicata verso il 7 a.C., è precisamente impegnata sul fronte di una reazione alle tendenze antiromane, politiche e storiografiche, che dall’età mitridatica serpeggiavano nel mondo greco: in età augustea all’esaltazione di Mitridate era succeduta quella dell'impero partico, come unico oppositore all’egemonia mondiale romana, che a Carre nel 53 a.C. aveva inflitto a Roma una disfatta rimasta invendicata. In questo senso antiromano era molto probabilmente orientata l’opera di Timagene (FGrHist 88), troppo imperfettamente conosciuta per poterne dare un giudizio sicuro. Dionigi scrisse la sua opera nell’ambito di una sequenza ciclica delle storie greche di Roma, arrivando fin là dove partiva quella di Polibio, vale a dire fino alla guerra con Pirro (Polibio a sua volta, come si è detto, era stato continuato da Posidonio). Ma metodologia e intenzioni e programma erano dichiaratamente e polemicamente distanti da quelli polibiani,
in quanto già per i contenuti lo storico dell’età arcaica non poteva tratta-
re pragmaticamente il suo materiale, ma doveva occuparsi di problemi di origini di popoli (quello romano e gli altri italici), di fondazioni di città, di genealogie e di parentele: doveva, comunque, fondarsi su tradizioni già letterariamente recepite e ricavare indizi, da elaborare poi storicamente, da fonti disparate; quelli di cui si occupava non erano certamente avvenimenti a lui contemporanei.
Una trattazione del materiale leggendario relativo anche alle fasi pseudostoriche (e comunque anteriori alla fondazione di Roma) e un’analisi dell’etnografia dell’Italia arcaica (da condurre su documentazione erudita e antiquaria greca e latina, che veniva così sollevata a livello di problema storiografico) erano indispensabili per supportare la tesi di fondo di Dionigi, che era quella di un’originaria grecità dei Romani (e quindi ben anteriore al processo di ellenizzazione culturale dei secoli II e II a.C.). Questa tesi era dimostrata, appunto, con un’indagine sulla composizione dell’ethnos romano, che risultava dalla fusione di svariati elementi di provenienza greca. La teoria non era nuova ed anche i primi storici romani avevano riconosciuto la presenza di componenti greche nella Roma delle origini, ma essa veniva qui ripensata e dimostrata in una netta prospettiva politica, che era quella di reagire alle accuse di barbarie rivolte a Roma, e di sostenere, anzi, che proprio la grecità di Roma, con le connesse virtù civili e militari che ne avevano accompagnato l’ascesa, e che la distinguevano fra le altre poleis greche, rappresentava il motivo primo della legittimità del suo dominio mondiale. La storia di Roma nell’età arcaica diventava il teatro sul quale aveva-
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no agito le grandi virtù civili e gli alti ideali della grecità classica (quelli, per intenderci, propugnati dall’eloquenza epidittica di Isocrate). E poiché una delle maggiori prove della capacità politica di Roma era stata per Dionigi la volontà di assimilare i nemici vinti, così quel modello offerto dalla Roma arcaica (ed ancor valido pur dopo le guerre civili) poteva, ora, in età augustea, essere riproposto su scala mondiale. La vittoria romana di Ottaviano ad Azio aveva debellato le forze negative dell’ellenismo asiatico di tendenza popolare e garantito il ricupero dei valori elitari della grecità classica, dell’eloquenza classica, ora appoggiati dalla forza e dalla giustizia di Roma. Questo programma di ricupero classicistico perseguito da Dionigi in Roma con il suo insegnamento letterario e retorico, e consegnato nei suoi opuscoli di critica e di stilistica, trovava nell’opera storica la dimostrazione documentaria, anche come apertura su di una prospettiva futura, nella quale le élites greche avrebbero potuto trovare nell'impero ecumenico una collocazione politica ad alto livello. Qualunque giudizio si possa dare sulla teoria di fondo di Dionigi, che i Romani erano Greci fin dall’origine (e di regola fino a qualche tempo fa dominava l’irrisione), e qualunque sia la valutazione della metodologia di Dionigi (diversissima da quella tucididea-polibiana, ma non senza una sua coerente validità nel tentativo di riprodurre in toto nel loro svolgimento alcuni avvenimenti epocali: di qui i lunghi discorsi che occupano quasi un terzo dell’opera), è sicuro che dietro alla riflessione dello storico stava una profonda consapevolezza dei principali problemi dell’età augustea (della quale Dionigi è, in certo senso, forse migliore rappresentante che non Livio). Egli aveva compreso il nuovo significato, non più solo romano-italico, dell'impero romano e ne aveva tratto le conseguenze, sul piano di una unità culturale che doveva avere al suo centro le grandi idealità morali e civili della grecità classica. 18. La storiografia greca e l'Impero La visione politica che traspare dalla storiografia e dagli opuscoli retorici di Dionigi era largamente in consonanza con l’interpretazione che dell’impero romano davano (e più daranno in seguito) quelle classi alte delle province greco-orientali che erano pronte a riconoscersi e ad inserirsi nella compagine imperiale. La storiografia che esse espressero seppe cogliere fin dal suo inizio questa grande possibilità di coesistenza che l’impero già con Augusto offriva. Nella Vita di Augusto scritta da Nicola Damasceno (FGrHist 90) verso il 25-20 a.C. la grandezza di Augusto, riconosciuta anche dalle manifestazioni di culto offertegli spontaneamente, è pari a quella dell’impero che Roma aveva conquistato con le armi ma che ora si basava sulla persuasione e sulla riconciliazione. Di qui i grandi vantaggi che derivavano alle popolazioni che convivevano entro confini imperiali e anche a quelle esterne. Nicola, autore anche di una Storia universale, perduta, era stato a lungo consigliere ascoltato del re Erode di Giudea: era quindi un politico prima ancora che uno storico.
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Che la pace e la stabilità sociale e politica riposassero sulla saggezza del monarca sarà riconosciuto poco più tardi anche dalla riflessione storica e politica di Filone d’Alessandria, per esempio nella Legatio ad Gaium, e precisamente con riguardo all’ethnos giudaico, almeno durante i regni di Augusto e di Tiberio (tragici avvenimenti di poco successivi convinceranno Flavio Giuseppe che l'impero romano stava, invece, assieme con la forza e il terrore). Questa prospettiva storica, che considerava globalmente l’impero e non privilegiava il suo nucleo centrale romano-italico (come faceva invece, e farà ancora almeno fino a Tacito, la storiografia latina, che era rimasta legata a schemi oramai sorpassati), era attenta soprattutto ai problemi del meccanismo politico-amministrativo del sistema imperiale e al suo funzionamento: in effetti, sotto altra visuale, lo stesso problema che aveva angustiato Polibio dopo il 146 a.C. La missione civilizzatrice di Roma, riconosciuta sempre in età augusteo-tiberiana anche dal geografo-storico Strabone, si misurava appunto nella sua capacità di organizzare l’amministrazione e quindi il benessere delle province: quello che era per Polibio un problema politico, è divenuto ora oggetto di delicati rapporti che intercedevano fra l’imperatore, la corte (ai quali spettava in ultima analisi la decisione), i suoi funzionari che esercitavano il potere, e le classi alte intermedie (senato, ceto equestre, nobiltà locali delle province) e le masse popolari. Quella che era stata un tempo la teoria della costituzione mista si trasformava ora in una riflessione sui limiti dei poteri e delle competenze, sui modi della compartecipazione politica, sull’organizzazione stessa dello Stato. Certamente non mancavano posizioni sostanzialmente agnostiche, come quella di Plutarco che, pur riconoscendo nelle Vite parallele una pari dignità alle storie dei Greci e dei Romani, sollecitava i rampolli delle nobiltà locali delle città greche a non partecipare alla vita politica dell'impero. E tuttavia erano proprio i membri delle classi alte imperiali, : specialmente di quella senatoria, a prospettare e a richiedere quell’armonia fra le parti sociali e politiche che aveva lo scopo di controllare le masse, potenzialmente pericolose, ma anche di far risaltare l’indispensabilità dei ceti intermedi: al vertice stava l’imperatore, saggio e garante. In questo equilibrio e nell’efficienza del sistema amministrativo consisteva la vera libertà per tutti i soggetti dell'impero, che poteva apparire una vera democrazia a livello mondiale: così pensava e teorizzava nel suo Elogio a Roma (del 154 o del 143 d.C.) Elio Aristide, nel quale l’impero romano è raffigurato come un’unica, classica polis. 19. Flavio Giuseppe Un posto a sé ha la posizione di Flavio Giuseppe, uomo
politico
ebreo, che nell’ultimo quarto del I secolo d.C. scrisse in greco la Storia della Guerra Giudaica (vale a dire dell’insurrezione contro Roma, che
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era terminata con la distruzione del Tempio nel 70 d.C. e alla quale egli aveva preso parte con comando di rilievo); le Antichità Giudaiche che, riprendendo esteriormente lo schema di Dionigi, offrivano un vastissimo quadro di tutta la storia del popolo ebraico; il Contra Apionem, una sorta di appendice dell’opera precedente che riprendeva la tematica della priorità e maggior antichità degli Ebrei rispetto ai Greci e anche replicava alle ricorrenti accuse antigiudaiche diffuse in ambito pagano, e un’Autobiografia nella quale difendeva, contro tarde accuse di tradimento, la sua azione di comandante nell’insurrezione del 66-67 d.C. Nella genesi dell’insurrezione egli connette motivi tipicamente giudaici con tematiche di tono polibiano; le ragioni politiche e sociali prevalgono su quelle di carattere religioso. Giuseppe si rendeva conto che il favore di Dio si era ora spostato presso i Romani, contro il quale e contro i quali era quindi vano ribellarsi: la visione dell'impero romano che egli ha, è dominata cupamente dalla forza e dal terrore che tengono quieti i sottoposti. Le Antichità, dirette ad un pubblico che era quello dei gruppi grecofoni delle comunità giudaiche della diaspora, cercavano di mostrare con l’esempio dell’intiera storia del popolo ebraico la possibilità di una tranquilla sopravvivenza degli Ebrei e della loro cultura autonoma entro il contesto dei regimi imperiali pagani, e quindi ora entro l’impero romano. La tecnica storiografica di Giuseppe, derivata anche da quella della storiografia ellenistico-giudaica, inserisce frequentemente nel testo narrativo documenti
o testimonianze
di
fonti,
ed
ebbe
influenza
sulla
storiografia
cristiana, per esempio di Eusebio. Va anche detto che la tematica della priorità giudaica rispetto ai Greci servì ampiamente fra II e III secolo d.C. ai cronografi cristiani, che, come è stato ben detto (Momigliano), seppero trasformare in senso cristiano la scienza ellenistica della cronologia: ulteriori perfezionamenti vennero poi portati da Eusebio. Sulla Storia Ecclesiastica di Eusebio influì anche il metodo della storiografia filosofica greca, intesa come successione di scuole (Momigliano). Naturalmente Eusebio, in una complessa visione unitaria della storia umana che derivava da teorie filosofico-politiche già presenti in Origene, aveva acquistato la certezza (dopo la vittoria costantiniana al Ponte Milvio del 312 d.C.) che la coincidenza temporale dell’impero di Augusto e della venuta del Cristo trovava la sua spiegazione nella volontà di Dio. Questa idea è chiaramente espressa nella Praeparatio Evangelica. Il superamento con la monarchia augustea dei particolarismi statali coincideva con la sconfitta dell’errore politeistico. L'impero era stato voluto dalla provvidenza per la diffusione del cristianesimo. Questo piano provvidenziale continuava a manifestarsi al tempo stesso di Eusebio, con l’impero cristiano di Costantino. E chiaro che Eusebio recepiva e svolgeva in senso cristiano quell’interpretazione universalistica dell’impero romano che aveva avuto la sua origine proprio in età augustea (con
Nicola e Filone), che aveva trovato la sua spiegazione nella riflessione di Dionigi e che stava alla base, come si vedrà, della storiografia pagana del II-HI secolo d.C.
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20. Arriano. Appiano. Cassio Dione Sulla base della riflessione di Elio Aristide (cfr. supra p. 198) si poteva ripensare la storia dell'impero di Roma, così come anche agire concretamente nella vita politica dell'impero. Ne derivava una storiografia di tipo tucidideo-polibiano, vale a dire saldamente ancorata alla realtà contemporanea. Non è casuale che il teorico della storiografia di quell’età (e per noi l’unico rimastoci), Luciano, nel suo Come s’abbia a scrivere la storia, propugnasse un ritorno alla concretezza (lo storico dovrebbe narrare “come sono andate effettivamente le cose”: cap. 39, donde la nota, analoga formula di Karl Ferdinand Ranke). L’operetta, aspramente ironica contro la letteratura storica che era stata occasionata dalla spedizione partica di Lucio Vero, insisteva anche sulla libertà dello storico di fronte ai molti condizionamenti. La lezione delle cose e l’esperienza concreta in differenti campi di attività spinse a scrivere storia Arriano, Appiano e Cassio Dione, per ricordare soltanto quegli storici dei quali, fra Traiano e Severo Alessandro, ci siano pervenute opere. Il primo, originario della Bitinia, nella sua qualità di governatore romano con funzioni di comando in Oriente ebbe occasione di scrivere importanti operette tecniche, di prevalente importanza militare. La Storia Partica, perduta, dovette trattare della guerra condotta con dubbia fortuna da Traiano contro i Parti. Con la Storia di Alessandro egli sembra aver recepito il valore attuale dell’insegnamento dei classici e in particolare della personalità di Alessandro (che si era già prestata da tempo ad una funzione polemica antiromana) quasi come modello per il suo mondo contemporaneo. Sicuramente in Arriano il crescente interesse per il mondo greco, il suo mondo originario, nella seconda parte della sua vita può essere inteso come volontà di valorizzare le tradizioni e anche le energie provinciali greco-orientali, sempre nel riconoscimento della validità dell’impero romano. Il caso di Appiano, un greco di Alessandria e funzionario nell’amministrazione imperiale, è ben indicativo, alla metà del II secolo d.C., di un atteggiamento di completa adesione al regime imperiale, che si traduce in una visione universalistica dell'impero stesso. La prefazione alla sua Storia Romana (organizzata in libri separati secondo sia gli ambiti geografici che erano stati teatro delle conquiste di Roma, sia grandi temi storici, come quello delle guerre civili in cinque libri), dopo una descrizione geografica che indica l’estensione raggiunta dall'impero, prosegue con l’elogio del regime monarchico, che aveva portato ordine e stabilità ai popoli. La successione degli imperi mondiali, la cui teoria Appiano accetta, indicava la superiorità indiscussa di Roma per ampiezza e durata del suo dominio, garanzia anche per il futuro. L’insistenza, a conferma di questo giudizio, sugli aspetti amministrativi dell’impero trovava la miglior prova, con ogni probabilità, nel libro della Storia, purtroppo non pervenutoci, che descriveva l’organizzazione finanziaria e militare dello Stato, esempio unico nella storiografia antica di una trattazione au-
La storiografia
201
tonoma di materie amministrative e dimostrazione di un prevalere degli aspetti tecnici dell’esercizio del potere su quelli politici tradizionali. Nella grande Storia Romana Cassio Dione, anch'egli di origine bitinica, conduceva la narrazione in ben ottanta libri (solo parzialmente pervenutici) dalle origini della città al suo tempo, caratterizzato dai drammatici problemi dell’età severiana e dall’inizio della crisi del III secolo. Originalità di pensiero si ritrova sintomaticamente nelle sezioni che descrivono istituzioni e problemi amministrativi; nella parte dell’opera che considera l’età vicina o contemporanea all’autore si nota chiaramente una più vivace problematicità, che fa piuttosto difetto nell’esposizione delle fasi più antiche della storia, anche per la difficoltà di dominare un gran numero di fonti disparate e di ripensarle in prospettiva unitaria. Discorsi e digressioni consentono, tuttavia, di scorgere la mente dello storico in punti cruciali della storia, per esempio nel momento del passaggio dalla repubblica al dominio di Ottaviano Augusto. I grandi temi di Dione sono la riconosciuta indispensabilità del regime monarchico per le dimensioni territoriali raggiunte dall’impero (e questa concezione è importante, appunto, per la valutazione delle ultime guerre civili); la necessità di una cooperazione stretta e sincera fra l’imperatore e la classe di governo reclutata fra tutte le élites provinciali e quindi di un rispetto, spesso purtroppo venuto meno, da parte del potere verso questa classe dirigente, i senatori soprattutto, sul piano della fiscalità e della politica finanziaria. Queste classi intermedie rappresentano veramente la cerniera fra i vertici lontani dello Stato e le masse. La centralità delle tematiche politico-amministrative si esplica anche nei diretti suggerimenti dello storico, che, per essere stato due volte console e governatore di province, conosceva bene dall’interno il funzionamento dello Stato e delle sue istituzioni. La consapevolezza dei problemi politici che travagliavano al momento l’impero, soprattutto quello della difesa e delle truppe provenienti dalle classi basse, è drammaticamente presente. Cassio Dione sembra ricollegarsi, con senso di pessimismo, alla concezione tucididea che ogni egemonia può continuare a reggersi se riesce a mantenersi reattiva
contro minacce interne e esterne, ma era oramai difficile tradurre la riflessione storica in concreta azione politico-militare. Il dato essenziale di questa storiografia greca di età imperiale, che si ritrova anche nell’opera di Erodiano (dell’età di Filippo l’Arabo) e poi, per esempio, in quella di Dexippo (FGrHist 100), è un’aderenza ai concreti e attuali problemi dello Stato imperiale, secondo l’insegnamento della migliore storiografia pragmatica e l’esperienza di una compartecipazione effettiva alla vita dello Stato. Rimpianti nostalgici e idealizzazioni astratte sono cose del passato. Si consideri che dopo Tacito (del resto fermo alla problematica tipicamente romana dei rapporti fra imperatore e senato, principato e libertà, secondo la tradizione filorepubblicana) la storiografia latina tace di fatto fino al greco Ammiano Marcellino, con l'eccezione della letteratura delle biografie imperiali. Questa esigenza di concretezza degli storici greci è il segno di una consapevolezza politica e di una vitalità culturale nella pars Orientis, che sarà poi altrettanto bene
202
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
dimostrata dalle storie di Zosimo e di Procopio, e che soprattutto pud aiutare a spiegarne la sopravvivenza per un altro millennio. Bibliografia Indicazioni di carattere generale
Delle opere
di numerosissimi
storici greci ci sono
frammenti, che sono raccolti in: Fragmenta Historicorum Graecorum 1841-1870;
(FHG),
pervenuti! soltanto
dei
a cura di C. Müller, Parisiis
Die Fragmente der griechischen Historiker (FGrHist), a cura di F. Jacoby, I, Berlin 1923, 19572 — III C, Leiden 1958 (incompleti: vi sono raccolti i fram-
menti di 856 storici, e commentati quelli di 607 di essi). Tra gli studi sulla storiografia greca in generale, si segnalano: T.S. Brown, The Greek Historians, Lexington-Toronto-London 1973; J.B. Bury, The Ancient Greek Historians (1908), New York 1958; L. Canfora, Il “Ciclo” storico, in
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Maria Tanja Luzzatto L’oratoria, la retorica e la critica letteraria
dalle origini ad Ermogene
1. Le origini
1.1. La Sicilia Aristotele ritenne ‘scopritore’ della retorica Empedocle di Agrigento, ma iniziò il suo repertorio/riassunto delle arti retoriche note sino al suo tempo (Zuvayæyÿ Texv@v) con il siracusano Tisia, discepolo di Corace ed
a sua volta maestro di Gorgia. Nell’intreccio di questi quattro nomi dobbiamo cercare l’origine della retorica come dottrina ed insegnamento. Luogo e tempo di questa nascita furono Agrigento e Siracusa dopo la caduta della tirannide: in ogni tappa della sua storia, come avremo modo di vedere, la retorica ha legato le sue fortune alla prosperità di grandi centri urbani, e nella prima metà del V secolo l’ambiziosa politica di Terone di Agrigento e di Ierone di Siracusa aveva fatto della Sicilia un polo di attrazione del mondo greco. Oltre ai siciliani Epicarmo e Sofrone, troviamo Pindaro, Simonide e Bacchilide alla corte di Ierone, e in quegli stessi anni Eschilo viene a celebrarvi la fondazione di Etna; nel 456-455 muore
a Gela, alleata di Siracusa.
Circa dieci anni più tardi Erodoto,
nativo di Alicarnasso in Asia Minore, prende la cittadinanza della colonia di Turii, fondata da Pericle nel 444, e Lisia, figlio di un ricco siracusano chiamato ad Atene da Pericle, completa in Sicilia la sua educazione (cfr. infra, p. 212). Ma Gorgia, recatosi ad Atene in ambasceria nel 427, resterà per sempre in Grecia; ad Atene insegnano sia Tisia che l’agrigentino Polo, discepolo di Gorgia, e Lisia vi torna definitivamente dopo il 415. Con lo scoppio della guerra del Peloponneso il ruolo della Sicilia appare esaurito.
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EMPEDOCLE E CORACE
Empedocle {nato c. 490) sicuramente non scrisse una Techne ed è perciò difficile capire in quale senso avesse ‘inventato’ la retorica (Diog. Laer. VIII 57). È ormai da abbandonare l’idea che gli artifici stilistici del suo Ilegi pVoewg siano all'origine della prosa gorgiana, né possiamo attribuirgli un’attività tecnica analoga a quella di Corace nel campo giudiziario (così Norden, trad. it., I p. 27); più probabilmente Aristotele, che operava la sua ricostruzione delle origini in chiave storico-sociale, intese
208
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
riferirsi alla parte avuta da Empedocle nella caduta del tiranno Trasideo (nel 472) ed alla sua successiva attività politica (Diog. Laer. VIII 63-65; cfr. Navarre, pp. 9 ss.). Vi è così un parallelismo difficilmente casuale con il ruolo assegnato dalla tradizione a Corace, che approfitta della ripresa dell’attività giudiziaria a Siracusa dopo la caduta di Trasibulo (nel 466), e ritengo che in Empedocle e in Corace abbiano origine, nella visione di Aristotele, i due distinti filoni dell’oratoria politica e del discorso giudiziario. Anche di Corace non sappiamo se avesse scritto una Techne: gli Ateniesi ed Aristotele lo conobbero solo attraverso il discepolo Tisia, cui risale il primo manuale di retorica dell’antichità. 1.2. Quale Techne?
Della retorica prearistotelica non abbiamo che poche e scarne testimonianze, neppure frammenti, e questo ci pone di fronte ad un grosso problema. Che aspetto avevano queste più antiche Technai? Ed in quale rapporto stanno con esse i logoi del V secolo arrivati fino a noi in redazione scritta, cioè l’Elena e il Palamede di Gorgia, le Tetralogie di Antifonte, i discorsi inseriti da Tucidide nelle sue Storie? Di Corace e Tisia gli antichi ricordano la scoperta dell'argomento della verosimiglianza (eixöc: Plat. Phaedr. 273 a-b; Arist. rhet. Il 1402 a 17 ss.): applicando una terminologia più tarda possiamo dire che essi avevano insegnato un topos, un “luogo” con potenzialità argomentativa che non fornisce all’oratore una materia per il suo discorso ma un punto di vista logico (Pernot, p. 263), e che lo avevano illustrato con esempi riferiti ad una accusa di omicidio. Non c’è dubbio che anche le cosiddette declamazioni gorgiane forniscano una topica: quella Techne che Gorgia non pubblicò mai come tale vi si trova incorporata attraverso la successione di indicazioni funzionali che leggiamo ad esempio nel Palamede, $ 4: T16dev dpEwuaı; ti dè no@tovelmw;e$ 22: Tdvr6mov, tòv xp6vOv, TÉTE, Tod, rs («da dove posso
cominciare? cosa dire prima? [...] il luogo, il momento, quando, dove, come»; cfr. Pernot, p. 264 n. 43). Possiamo allora chiederci se analogamente anche Tisia presentasse i suoi argomenti in modo implicito, cioè esclusivamente sotto forma di esempi, come fece Antifonte nelle sue Tetralogie: per uno svolgimento basato sull’eix6g si legga la prima Tetralogia, in particolare AB $ 3 ss. (ed. Caizzi, pp. 95 ss.). Gorgia ed Antifonte hanno in comune, pur fra molte diversità, una scrittura estremamente densa ed artificiosa che sembra ben lontana dalla vivacità e scioltezza del discorso parlato, quale abbiamo ad esempio attestato nei discorsi di Lisia. È perciò lecito dubitare che questi testi riflettano una performance reale, sia pure dotata di un più alto grado di stilizzazione dovuto alla redazione scritta, ed è più verosimile che essi siano da interpretare come frutto di un processo di astrazione che enuclea da una serie di discorsi possibili un discorso-modello con valore esemplare, e che appare di conseguenza come un concentrato di formule. Proprio in questo consisterebbe, secondo l’importante articolo di T. Cole, il primo stadio della creazione della retorica. L’ipotesi, già avanzata da tempo, che le antiche Technai fossero piuttosto esempi che precetti (Hinks, p.
L’oratoria, la retorica e la critica letteraria
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65) viene ripresa con decisione dal Cole, ma inserendola nella più vasta prospettiva del passaggio dall’improvvisazione pura della più antica eloquenza alla nuova civiltà della scrittura: le antiche Technai erano tali non perché spiegavano “come” si dovesse comporre un discorso, ma in quanto proponevano per la prima volta in forma scritta ciò che fino ad allora era stato improvvisazione, fornendo una serie di testi-modelli che riassumevano in sé le possibilità di molte performances orali. Technai dunque equivarrebbe ad esercizi scritti. GORGIA
Questa interpretazione in chiave di esemplarità si applica in effetti molto bene alle “declamazioni” di Gorgia, l’Elena e il Palamede, ed anche alla prosa astrusa del lungo frammento dell’Epitaffio. Ciò è coerente con il metodo di insegnamento che Aristotele esplicitamente attribuisce a Gorgia, consistente nel far imparare a memoria discorsi già pronti (soph. elench. 184 a 2 ss.: «Credevano di insegnare fornendo non un metodo, ma i suoi prodotti»); in questo Gorgia era un sofista, come Protagora, che teneva preparate in iscritto rerum illustrium disputationes (Cic. Brut. 46). A questo punto non si può però dimenticare che Gorgia non scrisse mai una
Techne,
e che Aristotele, nel fare la storia di queste ultime,
menziona invece Tisia, Trasimaco di Calcedone e Teodoro di Bisanzio come le tre tappe fondamentali (soph. elench. 183 b 31 ss.; Tisia sarà stato all’incirca coetaneo di Gorgia, Trasimaco e Teodoro furono attivi negli ultimi tre decenni del V secolo). Gorgia fa parte della storia della prosa greca: la sua difficile e studiatissima oratoria fece enorme impressione sugli Ateniesi al suo primo arrivo nel 427, ma non ci appare come tipica di tutta la più antica retorica. Dopo i suoi diretti discepoli, Polo ed Agatone in particolare, essa non ebbe più imitatori: ben diverso era lo stile di Trasimaco, che insegnava ad Atene già prima dell’arrivo di Gorgia, come altre vie prese Isocrate; per Aristotele Gorgia rappresenta ormai uno stile antiquato, che piace ancora solo agli ignoranti (rhet. III 1404 a 26 s.). Nello stesso passo Aristotele afferma che il suo stile era poetico: la densità e le elaborate simmetrie sono in Gorgia anche frutto della volontà di concorrere con le esibizioni rapsodiche e drammatiche verso le quali era orientato il gusto del pubblico. I TECNOLOGI
Tutto questo ha ben poco a che fare con le tematiche processuali al cui servizio si poneva la nuova dottrina insegnata da Corace e Tisia. Né si può accantonare il grosso problema delle parti del discorso, i u6pua A6yov: quando Trasimaco ed Antifonte scrivono, tra l’altro, raccolte di Proemi, offrono una esemplificazione che presuppone come punto di ri-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
ferimento la suddivisione in proemio, narrazione, prove ed epilogo. Di più, quando Teodoro di Bisanzio propone di affiancare alle prove le «prove aggiuntive» e di tripartire la narrazione (Plat. Phaedr. 266 e; Arist. rhet. III 1414 b 13 ss.) ciò presuppone che lo schema più semplice fosse già acquisito da tempo, anche senza voler prestare fede all’attribuzione delle parti del discorso già a Corace, presente in fonti molto tarde. Non penserei, come afferma il Cole (p. 15), che sia il Fedro platonico a suggerire «per la prima volta la possibilità di un discorso metalinguistico sull’arte di parlare», ma anzi che esso cerchi appunto di contrastare una evoluzione in questo senso già iniziata da tempo. Solo nell’ambito di una precettistica si spiega l’elaborata terminologia critica di cui Socrate offre un ironico campionario nel famoso excursus in Phaedr. 266 e-267 a (ôtynois, nagrüpıa, texurjpra, elxöta, miotwors, Erınlotwaors, ÉÀeyxoc, dneËékeyxos, bnoôfAwors, ragéraivos). Questo è appunto il “metalinguaggio” dei maestri di retorica, e Socrate nella sua critica ripercorre mentalmente le tappe di un’antica Techne, strutturata secondo le varie parti del discorso, dal proemio all’epilogo. Sembra perciò difficile sostenere che le Technai fossero tali esclusivamente perché mettevano per iscritto gli esempi-modelli. Certo non saranno state teoria nel senso della Retorica di Aristotele, ma la disposizione secondo le parti del discorso (la struttura «quantitativa»: cfr. Hamberger e Barwick) non poteva prescindere da una precettistica. La Retorica di Aristotele non conclude un’evoluzione iniziata con l’Elena di Gorgia e proseguita da Isocrate e Platone (così Cole p. 20 n. 34) ma si pone sulla linea dei texvoAoyoüvteg da Tisia a Teodoro. Da una parte c’è la storia dell’eloquenza, quella non scritta (la grande oratoria di Solone, Clistene, Temistocle e Pericle nostalgicamente rievocata da Platone Phaedr. 269 a, 269 e, ed Isocrate Antid. 231-234), che non per questo si identificava con l’improvvisazione pura, e quella scritta di Gorgia, Antifonte, Lisia; dall’altra parte abbiamo invece i “tecnologi” che, per usare l’immagine di Aristotele, si passano l’arte di mano in mano facendola crescere rapidamente (soph. elench. 183 b 29 ss.) e soddisfano all'esigenza pratica di approntare discorsi di difesa e di accusa nei tribunali. Data la perdita delle Technai sarà lecito tentare di ricostruire questa precettistica dai discorsi sopravvissuti del V secolo, secondo l’impostazione del saggio tuttora fondamentale di Navarre, ma senza presumere che anche le Technai si esaurissero nella “retorica latente” che troviamo ad esempio nelle Tetralogie di Antifonte. Le Technai presuppongono certo la civiltà della scrittura, ma in più fanno parte dello sviluppo di una scienza. Sarà allora rischioso affermare che l’antica Techne retorica semplicemente prende atto della prassi oratoria esistente, senza impostare nuovi problemi: nella prospettiva aristotelica, che non siamo nella posizione di rigettare, le Technai si confrontano l'una con l’altra, e non vengono scritte solo in funzione della prassi oratoria, ma anche dello sviluppo di una disciplina. Entra nelle attese degli ascoltatori l'esigenza di una specifica qualità tecnica del discorso
L’oratoria,
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e la serie delle Technai diviene così veicolo di innovazioni continue nel-
l’arte della parola. 2. L’oratoria attica 2.1. Evoluzione del processo legale
Mentre l’insegnamento della techne si diffonde rapidamente e sempre più numerosi sono i precetti scritti nei libri (Plat. Phaedr.
266 d), una
valanga di discorsi si riversa nell’ekklesia e nei dikasteria, pilastri dell’Atene democratica. Abbiamo ogni ragione di pensare che proprio i tribunali siano stati la grande fucina del discorso a regola d’arte, e la ripetitività delle tematiche processuali facilitò l'individuazione di modelli argomentativi e di schemi per l’esposizione. Ma dobbiamo disfarci di qualsiasi analogia con il processo moderno. Il tribunale ateniese non ha né avvocati, né magistrati. Ciascuno deve sostenere personalmente l’accusa o la difesa di fronte ad una giuria che include le funzioni di giudice ed i cui membri non sono scelti secondo la competenza, ma sorteggiati fra tutti i cittadini. Inoltre quello dei tribunali è un grande pubblico: in processi di particolare rilevanza potevano partecipare tutti i 6.000 membri dei dieci dikasteria, ma il numero comunque non scendeva mai sotto qualche centinaio. La difesa soprattutto era difficile e rischiosa in un contesto così poco obiettivo e le antiche rechnai vanno incontro ad una domanda di assistenza sempre più diffusa; nello stesso tempo però esse contribuiscono anche ad innalzare il livello dei requisiti tecnici di un buon discorso. Da questa doppia spinta nasce la figura del logografo, autore a pagamento di discorsi giudiziari. Si può dire che tutto fu messo in moto dalla riforma di Efialte nel 462-1, che espropriò di molti poteri il tribunale ristretto dell’Areopago a favore della giuria di massa dei dikasteria, ma l'evoluzione continuò. L’uso di grandi giurie modifica infatti la tecnica di presentazione del caso: se in una fase più antica si punta soprattutto su quella sottigliezza argomentativa che ancora caratterizza le Tetralogie di Antifonte, è inevitabile che l’aspetto legale tenda gradualmente a passare in secondo piano, e subentri una rappresentazione drammatica ed artistica, consapevole nell’uso di tutti i mezzi letterari, con un ricorso sempre più spinto al pathos ed all’invettiva. La prima attestazione di questo fenomeno sono gli Eleoi di Trasimaco, raccolta di topoi adatti a suscitare la compassione della giuria. E sempre all’interno di questa concezione drammatica viene dato grande spazio alla raffigurazione del carattere dei singoli protagonisti: Lisia, il più grande logografo del V secolo, cattura la simpatia della giuria soprattutto attraverso il ritratto personale dell'imputato. Quando arriviamo alla fine di questa evoluzione, nel processo Sulla corona del 330 che vide contrapposti Demostene ed Eschine (orr. XVIII e III rispettivamente), siamo ormai pienamente immersi in una dimensione altamente spettacolare, che recepisce un’agonalità quasi teatrale e consente di travasare nello spazio del processo un vasto materiale politico ed emotivo che mai
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avrebbe potuto entrare in tale misura in un dibattimento giudiziario più antico. Una tradizione consolidatasi agli inizi della nostra era scelse dieci rappresentanti dell’oratoria attica (il “canone”, cfr. infra, p. 242) da Antifonte, alle cui Tetralogie già si è accennato e che era nato al tempo delle guerre persiane, a Dinarco, che appartiene alla generazione successiva a Demostene. In tutto, un secolo e mezzo di oratoria giudiziaria e politica che accompagna la parabola della potenza ateniese, dalla guerra del Peloponneso alla sconfitta definitiva di Atene da parte dei Macedoni dopo Crannone (nel 322). Ma in realtà solo Lisia, Isocrate, Eschine, Demostene ed Iperide incarnarono l’ideale della perfezione stilistica, che
nessuno mai attribuì all’arcaico Antifonte o all’epigono Dinarco, né a figure minori come Andocide, Iseo, Licurgo. Ragioni di spazio costringono a presentare qui una scelta ancor più ridotta, ma da Lisia, Isocrate e Demostene non si può davvero prescindere, non solo per ciò che essi furono al loro tempo, ma per tutto quello che hanno significato nel dibattito critico-letterario posteriore. Bisogna tuttavia evitare di farsi un’immagine troppo letteraria dell’oratoria attica, come serie di grandi personalità: essa significò anche una vasta produzione di mestiere per gli innumerevoli processi celebrati ad Atene in questo arco di tempo, e nell'assemblea intervennero con successo anche politici dei quali abbiamo poco più del nome e di qualche aneddoto, come Pitea, Aristogitone o quel Demade che un critico come Teofrasto poté addirittura preferire a Demostene (Plu. V. Dem. 10). 2.2. Lisia
È consuetudine dei manuali di letteratura greca trattare Lisia (c. 445380) nell’ambito dell’oratoria del IV secolo, dopo la sofistica, il teatro, la storiografia tucididea e persino dopo Platone, ben più giovane di lui. Viene così scavata un’enorme distanza fra Lisia e le personalità con cui egli si trovò a vivere ed operare nella fervida cultura ateniese dell’ultimo ventennio del V secolo, i sofisti, Gorgia, Socrate, i technolögoi da Tisia a Teodoro. Un’altra conseguenza negativa di questa impostazione è che essa ci fa perdere il significato della polemica nel Fedro di Platone, in cui Lisia è il bersaglio del duplice vigoroso attacco di Socrate alla techne ed alla validità del discorso scritto, due grandi tematiche culturali del V secolo. Proprio grazie al Fedro possiamo individuare, al di là del nitido autore di discorsi giudiziari che praticamente solo è sopravvissuto fino a noi, il protagonista influente e prestigioso dell’antica retorica: l’ Erotico che impegna Socrate e Fedro non è un discorso giudiziario, e di Lisia abbiamo attestate anche orazioni politiche, epidittiche, epistole ed un trattato di retorica. Figlio di quel Cefalo siracusano nella cui ricca casa al Pireo Platone ambienta la sua Repubblica, ardente democratico fuggito durante la tirannia dei Trenta, Lisia è una personalità storica e letteraria a tutto tondo, che ancora attende di essere recuperata come tale. In Platone compare come abilissimo scrittore (Phaedr. 228 a) e sostenitore di una tesi
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paradossale ed immorale: partecipe dunque della concezione sofistica del logos come techne dotata di meccanismi propri ed autonoma rispetto alle massime istanze etiche. E perciò ovvio e legittimo che Platone tragga spunto dal discorso di Lisia per rigettare tutta la tecnologia da Tisia in avanti (266 c ss.) e gli opponga, attraverso la figura di Pericle e l’auspicio formulato per il giovane Isocrate (270 a; 279 a), l’ideale dell’antica oratoria non scritta. IL LOGOGRAFO
Un avversario politico aveva pubblicamente insultato Lisia chiamandolo Aoyoyeägog (Phaedr. 257 c), attività questa cui Lisia si dedicò con successo sul duplice fondamento della concezione della techne cui ho accennato e della sua condizione di meteco. Ma può la trentina di discorsi che ancora leggiamo considerarsi autenticamente lisiana? ed in che misura essi rispecchiano la realtà dei processi per cui furono composti? Sollevando queste domande nella sua opera fondamentale su Lisia K.J. Dover ci lascia con una conclusione molto pessimistica: solo l’or. XII pronunciata da Lisia stesso contro gli assassini del fratello è da considerare autentica, le altre ci restituiscono un materiale manipolato ed alterato da successivi interventi di clienti, lettori e disinvolti librai. Invece un autorevole studioso di logografia attica come il Lavency, pur riconoscendo i rischi insiti nelle edizioni antiche, ritiene che quella a noi arrivata sia la redazione definitiva e originale. Non vi è qui spazio per affrontare un problema tanto spinoso: ma bisogna almeno ricordare che nel caso di un prodotto di artigianato, con le sue leggi e le sue routines, se è difficile mostrarne l’autenticità, è non meno rischioso negarla. Né possiamo rigettare con disinvolta sufficienza quelle qualità di grazia e semplicità che la tradizione antica attribuì a Lisia proprio sul fondamento testuale oggi messo in discussione: dobbiamo credere che l’atticismo romano o le fini analisi stilistiche di Dionigi d’Alicarnasso (cfr. infra, p. 242) siano nate da un prodotto anonimo e rimaneggiato, del tutto privo di dignità letteraria? Sarebbe dar troppo poco credito al giudizio degli antichi, che oltretutto leggevano tanta più oratoria attica di noi. Ritengo che la personalità storica di Lisia tecnologo ed oratore culturalmente e politicamente impegnato, così come la precisa nozione di uno stile lisiano che ritroviamo in tutta la critica antica siano due fondamenti irrinunciabili per una corretta valutazione che non deve fermarsi al logografo, ma recuperare nella sua unità quella che Platone individua come un’importante figura letteraria dell’età di Socrate. LO STILE
Gli studi più recenti ci ricordano comunque che i discorsi di Lisia a noi arrivati non sono letteratura, nel senso creativo che siamo soliti dare a questo termine, osservazione che vale in genere per tutta l’oratoria attica. Anche la famosa ethopoiia è al servizio dell’“avvocato” Lisia, che vuole far vincere la causa al suo cliente, e proprio la destinazione pratica
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lo porta ad esplorare tutte le risorse espressive della normalità quotidiana. Così Lisia riduce al minimo lo stile figurato, frena ogni sovrabbondanza, rifugge dalle metafore e dalle neoconiazioni, segnando la massima distanza dal linguaggio poetico gorgiano o dalla densa e difficile prosa di Tucidide. Tutto ciò è legato anche alla differenza del genere letterario, ma resta il fatto che avremmo un’idea del tutto arbitraria della sperimentazione in corso nella prosa del V secolo se Lisia ci mancasse. Né i pochi frammenti di oratoria non giudiziaria restituiti dalla tradizione indiretta mostrano maggiore ricorso ad espedienti poetici o patetici, ma solo un intensificarsi della concettosità e della struttura antitetica, ben lontana comunque dalle accurate simmetrie di Gorgia. Lo stesso vale per lo stile dell’Erotico ‘citato’ da Platone (Phaedr. 230 e-234 c) la cui tesi paradossale è da intendere come esercizio intellettuale ed estensione più gratificante del meccanismo giuridico di ricerca delle pisteis. Tutte queste opere presuppongono una precisa e ragionata opzione stilistica, che fu del sofista prima che del logografo: anche in questo Lisia è una tipica espressione culturale del V secolo. 2.3. Isocrate
L’opera di Isocrate (436-338), arrivataci quasi per intero, offre una base ideale per ricostruire il dibattito culturale del V e IV secolo, soprattutto grazie alle molteplici polemiche che lo videro impegnato contro Alcidamante, Antistene, Policrate, Platone ed Aristotele: questi rapporti sono al centro dell’ampia monografia di Ch. Eucken, ultimo di una serie di contributi su Isocrate pensatore ed educatore che consentono di collocarlo nella realtà culturale del suo tempo. Ma non altrettanti progressi sono stati compiuti per dare ad Isocrate quel posto nella storia della retorica e dell’eloquenza che nessuno può negargli, ma che resta controverso e problematico (per non parlare poi della tradizione isocratea nei secoli successivi). Per parte sua Isocrate si considerò filosofo, rifiutando il termine rhetor che in effetti non gli si addiceva (dall’oratoria attiva lo tenne lontano un limite fisico, cfr. Philipp. 81, Panath. 9-10, Epist. I 9 e VIII 7) e non volle mai scrivere una Techne (questa è oggi l'opinione prevalente, con buone ragioni, sulla spinosa questione già dibattuta nell’antichità). D'altra parte egli è stato un grande rappresentante del logos che pone al vertice delle realizzazioni dell’uomo civile (Nicocle 5-9), con una lucida consapevolezza della peculiarità del discorso scritto rispetto a quello parlato (in particolare Philipp. 25 ss.) e della composizione in prosa rispetto a quella in poesia (Evagora 9-11, un passo enormemente influente). Il suo discorso scritto, esplicitamente destinato alla circolazione libraria (fatto che consente l’uso caratteristico di autocitazioni da un’opera all’altra), non ha contenuti storici, narrativi, o speculativi, ma ha finalità pratica e politica, cercando di influenzare non solo l’opinione pubblica ateniese, ma anche interlocutori lontani e potenti come Filippo. Questo forte orientamento di Isocrate alla prassi è stato il versante più studiato della sua personalità, soprattutto dal punto di vista storico,
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perché la lunghissima vita portò questo intellettuale, formatosi nell’Atene postpericlea, e che aveva ben conosciuto Socrate, a contatto con le vicende tumultuose dell’espansionismo macedone. LA SCUOLA
Se però lasciamo da parte il problema, che non ci riguarda in questa sede, delle opinioni politiche di Isocrate, osserviamo che questa volontà di incidere sulla realtà, questa costante attività protrettica è alla base della fondazione della scuola, qualche anno prima del 390: è attraverso il preciso modello educativo da lui proposto che Isocrate dà forma al suo impegno civile e lo coniuga con gli studi letterari in un binomio caratteristico che ritroveremo a distanza di secoli (cfr. infra, p. 235). La scuola surroga la Techne mai scritta con un sistema di norme insegnate oralmente e chiaramente riconoscibili come isocratee. Già i sofisti si erano dedicati all'insegnamento, ma in modo occasionale e con una proposta di tipo enciclopedico. Isocrate invece esclude il sapere scientifico ed organizza il suo corso di istruzione secondo un ciclo di tre-quattro anni, ma soprattutto fa della sua scuola un'istituzione radicata nella società. Adesso sono gli allievi ad accorrere numerosi dal maestro e la sua scuola riflette così l'egemonia culturale di Atene. Una rassegna degli scolari di Isocrate i cui nomi sono arrivati sino a noi vede accanto agli Ateniesi, come lo statista Timoteo, gli oratori Iperide e Licurgo e l’attidografo Androzione, un folto gruppo proveniente dall’Asia Minore, come Naucrate, Teodette, Eforo, Filisco, o dalle isole come Teopompo. E le diverse attività cui questi scolari si dedicarono sono la prova che questa non fu una scuola di retorica, ma quanto di più vicino ad una formazione umanisti-
ca di alto livello. LO STILE
Isocrate dava anche una serie di precetti squisitamente tecnici, come l’uso di un lessico normale e solo moderatamente ornato, la cura nell’uso della congiunzioni, nell’evitare iato o iterazione cacofonica della stessa sillaba, la rigorosa successione delle parti del discorso e l’adozione di ritmi chiaramente percepibili, ma evitando metri poetici. Le vaste ambizioni educative si accompagnano dunque ad una precisa proposta formale che è una tappa di grande importanza nella storia della prosa greca. Isocrate abbandona la ricerca stilistica più antica, che aveva privilegiato gli èv6uata (si pensi alla sinonimica di Prodico, agli studi sulle neoconiazioni di Antifonte, alle classificazioni del gorgiano Licimnio) a favore degli èv&uuuarta, elaborati concetti che si servono del periodo come unità sintattica ampia e gerarchica, fondata sulla forma verbale; in una costruzione non meno elaborata, ma meno appariscente, di quella gorgiana. Il suo fu lo stile che maggiormente influenzò la Retorica di Aristotele: dietro il rifiuto dell’antico stile poetico (rhet. III 1404 a 28) come dietro all’ideale della A£Eıg xateotoauuévn, cioè lo stile periodico
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(1409 a 35), c’è soprattutto Isocrate, come dimostrano le dieci citazioni consecutive dal Panegirico in posizione nodale a 1409 b 34-1410 a 17. Immaginare Isocrate ed Aristotele divisi solo da una sprezzante rivalità è sicuramente deduzione superficiale dai coloriti aneddoti della tradizione antica (Cic. de or. III 141; Quint. III 1.14). L’attacco di Cefisodoro, scolaro di Isocrate, prende di mira un Aristotele ancora di stretta osservanza platonica (come si deduce da Euseb. praep. evang. 14.6.9 che cita l’episodio), e fu proprio la tendenza dogmatica e l’ideale trascendente di Platone a rappresentare la massima distanza rispetto all'insegnamento di Isocrate (Eucken, p. 287 s.). Nella fase matura del pensiero aristotelico si deve pensare piuttosto ad una produttiva concorrenza fra le due scuole, che condivisero scelte fondamentali, come la netta separazione fra prosa e poesia e fra ritmo e metro, la propensione per uno stile sobrio, razionale, misurato nell’uso delle metafore, aderente ai fatti ed alieno da ogni eccesso di colore. Perciò la prosa di Isocrate rischia di apparirci compassata e piuttosto fredda: in realtà essa è legata ad un gusto culturale perduto che ha tuttavia tracciato una strada maestra nella prosa d’arte greca. 2.4. I rhetores
Prima di parlare di Demostene è necessario soffermarsi sul termine “retore” il cui significato, dall’antichità alle lingue moderne, si è molto allontanato dall’accezione originaria. Per un ateniese del V e IV secolo ‘rhetor è colui che prende la parola nell’assemblea del popolo, l’ekklesia, per presentare un decreto; indica quindi una funzione politica. La democrazia ateniese non conosce deleghe: ogni cittadino ha il diritto di iniziativa legislativa, cioè di proporre uno pséphisma che può essere votato ed approvato, ma anche contestato da altri in quanto non conforme alle leggi vigenti (yeapñ rapavéuwv). Nel periodo fra il 355 e il 322, quello in cui fu attivo Demostene e che è il meglio documentato, il ritmo di iniziative e controiniziative nell’ekklesia fu frenetico e le modalità di svolgimento spesso tumultuose. Salire sulla tribuna e cercare di convincere un pubblico sempre più fazioso e volubile richiedeva talento, pratica, audacia e non ultimo un adeguato volume di voce; vi era spazio per il retore colto come Demostene, ma anche per il rozzo talento naturale di De-
made. Ci sono due anime nella demegoria attica. Il suo grande precedente, spesso idealizzato, fu l’eloquenza di Pericle, possente ed irresistibile, ma nello stesso tempo saggia e moderata. Subito dopo la sua morte però il demagogo Cleone fece trionfare un diverso costume oratorio, fondato sull’invettiva e la gestualità scomposta (la notazione fondamentale in Arist. Athen. Polit. XXVIII 3, e cfr. Aristoph. Vesp. 596). Ritroviamo in pieno IV secolo la nostalgia per la eukosmia degli antichi retori (Eschine IH 2-4), ma quello che prevale è proprio un dibattito fazioso, che esaspera le passioni e minaccia la stessa libertà di parola. Senza tener conto
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di questo sfondo violento, sul quale si giocano le ultime decisioni vitali della democrazia ateniese, non si può capire Demostene. 2.5. Demostene VERE DEMEGORIE?
Cosa fosse un discorso nell’assemblea ateniese possiamo sapere solo dalle demegorie conservate di Demostene (384-322), maturo prodotto di una ricca tradizione; e come interventi realmente pronunciati esse furono studiate nell’imponente volume dedicato a Demostene da F. Blass. Ma a partire da uno studio di E. Schwartz del 1893 sulla prima Filippica si è pensato che l’alta qualità di questi discorsi non potesse rispecchiare fedelmente ciò che era stato detto alla tribuna. Secondo la nota ed influente formulazione di Wilamowitz essi sarebbero in realtà pamphlets di propaganda politica scritti appositamente in vista della circolazione libraria e quindi diversi dall’oratoria assembleare, che era meno curata e strettamente funzionale all’ordine del giorno. Da ultimo L. Canfora ha ridiscusso questo grosso problema rivendicando la realtà delle demegorie con ottimi argomenti storici e filologici, che non vi è qui spazio per esporre. Ma qualche considerazione ritengo debba essere accennata anche sul piano strettamente stilistico. Dobbiamo veramente pensare che tutta l’oratoria assembleare fosse improvvisata e sommaria, rozzamente pratica come quella di Aristogitone, Pitea
o Demade?
L’alternativa fra improvvisazione e preparazione,
ma ambedue in vista di uno sbocco orale e non scritto, è già ben presente nella cultura ateniese (basti pensare ad un noto opuscolo conservatoci di Alcidamante), e non vi è ragione di credere che un discorso realmente
pronunciato di Demostene non potesse appropriarsi di un alto grado di elaborazione formale, solo perché ciò non sarà riuscito a tutti. È molto significativo che gli avversari politici rinfacciassero a Demostene proprio il molto studio e la cura nel rifinire i discorsi, che essi cercano di screditare come spregiudicato tecnicismo: Pitea, un oratore di parte filomacedone, sentiva nei suoi argomenti «odore di lucerna» (Plu. V. Dem. 8), con allusione alla lunga preparazione notturna in vista dell’assemblea, e lo accusava ancora di essersi «ingollato tutto Iseo ed i suoi trucchi» (Dion. Halic. Iseo 4) riferendosi al cavilloso logografo di cui secondo la tradizione Demostene fu scolaro (e logografo fu a lungo egli stesso: il tirocinio giudiziario non fu certo indifferente alla serrata capacità argomentativa del discorso politico, e la prospettiva suggerita da Dion. Halic. Iseo 13 e 16 meriterebbe di essere ripresa in termini moderni). Infine Eschine dipinge insistentemente l’avversario come un «sofista» (I 175), un astuto maestro di retorica accompagnato da uno stuolo di di-
scepoli (I 173). E tutti costoro hanno di mira precisamente il Demostene politico che sobilla e circuisce il pubblico nell’assemblea, non certo uno scrittore di pamphlets. Solo nell’assemblea vi è il potere decisionale ed il pubblico che a Demostene interessa, e che egli non ha perciò ragione di
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voler raggiungere né con una rielaborazione scritta elevata ad un superiore livello di gusto (secondo un’affermazione di W. Jaeger), né con iniziative di tipo saggistico. Imitazioni scritte di un discorso nell’assemblea ha composto Isocrate (Sulla pace ed Aeropagitico del 355) proprio perché non era in grado di tenerli nella realtà, ed è perfino inutile ricordare quanto siano diversi. Anche la difficoltà che sarebbe costituita dalle frasi che Eschine attribuisce a Demostene (II 10 ss., 21; III 72, 84, 166, 209) e che non si trovano nel nostro corpus può essere eliminata valutando i singoli casi: possono ad esempio derivare da demegorie perdute (Canfora 1979, p. 341) come quelle del periodo successivo a Cheronea, cui si riferiscono sicuramente Eschine III 166 e l’intervento ricordato in Plu. V. Dem. 23.5. L’oratoria demostenica che viene fuori dal sarcasmo di Eschine non è in realtà inconciliabile con quella che abbiamo, una volta che si tenga conto che si tratta di citazioni tendenziose che ritorcono contro l’avversario battute occasionali o concentrano in un’unica citazione, a creare l’effetto di mostruosità, una serie di metafore che Demostene avrà usato diluite lungo tutto il suo discorso (proprio come maligno “centone” ritengo sia da leggere Eschine III 166; per un'analisi del linguaggio metaforico del passo si veda ora l’articolo di M. Vetta). DEMOSTENE
NELLA CRITICA ANTICA
La critica antica non fu incrinata da nessuna delle moderne aporie, e considera Demostene il modello del discorso deliberativo realmente pronunziato nel vivo della lotta politica: questo fu anzi il presupposto della
sua grande fortuna successiva, insieme alla versatilità della sua prosa, caratterizzata da una grande varietà di registri, da passi narrativi molto semplici a brani densi e compressi alla maniera di Tucidide. La versione più matura di questo stile fu considerata dagli antichi l’orazione XVIII In difesa di Ctesifonte, pronunciata nel 330 per il grande processo in cui Eschine sostenne l’accusa (or. III) ed a cui assistette un pubblico «numeroso come non si ricorda a memoria d’uomo» (Eschine III 56): per molti secoli non vi fu greco anche mediamente colto che non avesse letto e riletto questo discorso, e l'evoluzione della prosa d’arte greca deve molto alla canonizzazione di un prodotto oratorio così vivo ed appassionato (cfr. infra, p. 240 e s.). Tralascio qui l’analisi stilistica dei discorsi di Demostene (per la quale rimando a Blass III.1, p. 136 ss. e al saggio di G. Ronnet), ma vorrei sottolineare la parte da esso avuta, oltre che come oggetto di studio, come elemento propulsore della critica antica. Un caso vistoso è costituito dalla dottrina delle figure: se la trattatistica retorica almeno fino a Teofrasto non conosce altri oxuata che quelli gorgiani, mentre a partire dal I secolo a.C. troviamo un ampio repertorio di figure di pensiero e di stile, ciò è da mettere in relazione soprattutto con lo studio di Demostene, che fornisce gran parte dell’esemplificazione. Si tratta di una lettu-
L’oratoria, la retorica e la critica letteraria
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ra scolastica a posteriori, ma è da notare che il grande rivale di Demostene, Eschine, più volte gli attribuisce un ricorso deliberato ad espedienti verbali, fra i quali troviamo una delle figure della trattatistica posteriore, il giuramento (cfr. Eschine III 208). Pur partendo da un’ostilità personale e politica, il biasimo di Eschine è riconducibile a precise teorie retoriche del tempo (averlo messo in luce è merito dell’accurata indagine del Lossau) e costituisce il primo episodio di un lungo dibattito critico. IL SILENZIO DI ARISTOTELE
Il secondo episodio è paradossalmente il silenzio di Aristotele su Demostene (con la possibile eccezione di rhet. III 1407 a 6; si veda anche il malizioso riferimento indiretto in II 1401 b 32). Ciò può essere interpretato come segno di avversione o più semplicemente di indifferenza: invece il Lossau ha cercato di ridimensionare la portata di questo silenzio, rilevando fra l’altro che molte caratteristiche attribuite da Aristotele alla demegoria politica in generale possono avere come sottinteso riferimento proprio Demostene. Qui c’è uno spunto importante che mi pare tuttavia portare ad una conclusione ben diversa da quella del Lossau (che crede ad un attivo interesse per Demostene nell’insegnamento di Aristotele), e cioè che Demostene fosse per Aristotele nulla più che uno di quelli che egli chiama collettivamente àrtixoè ôrogec senza degnarli d’un nome; i politici che giocano la carta dell’incitamento alle passioni e della gestualità sfrenata (rhet. III 1413 b 1 e 21; 1418 a 30) cui si riferisce anche per osservare con pessimismo che essi impressionano l’uditorio mettendolo in subbuglio (Bopußoüvtesg, verbo tecnico per indicare i tumulti nell'assemblea, rhet. III 1408 a 24). Questa riserva è ben coerente con l’ambiguo giudizio di Teofrasto (Plu. V. Dem. 10) e ia netta presa di posizione antidemostenica in Demetrio Falereo. Il punto importante è che non abbiamo a che fare solo con un’avversione per il Demostene politico, ma con una fedeltà ad un diverso ideale di prosa che si vuole, secondo la proposta dell’antico Peripato, sobria e razionale: la più lontana dalla demegoria, che è per Aristotele simile ad una tecnica di ombreggiatura, sommaria a vederla da vicino anche se da lontano fa un grand’effetto (rhet. III 1414 a 8 s.). Una ragionata scelta di gusto orientava Aristotele assai più verso Isocrate che verso Demostene, e ciò lasciò in eredità al Peripato la acuta percezione della diversità del discorso scritto da quello parlato (tappe fondamentali furono Demetrio e Ieronimo). Proprio il Peripato fornì così il materiale per una discussione il cui esito fu un ribaltamento del gusto, con la scelta decisa per lo stile agonistico di Demostene. E qui possiamo concludere questa discussione tornando alla problematica che l’aveva aperta. Per tutta la critica antica, a cominciare da chi ancora aveva potuto sentirlo di persona, Demostene è il rappresentante del discorso parlato in contrapposizione a quello scritto di Isocrate, una prospettiva critica che ha dato
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splendidi frutti nell’opera di Blass e merita di avere un posto anche negli studi attuali. 3. La retorica nell’antico Peripato 3.1. La Retorica di Aristotele
Il primo trattato di retorica giunto sino a noi non è un prodotto degli esordi, ma un grande bilancio finale sulle acquisizioni della techne nel V e IV secolo. Composta dopo la Poetica (che viene citata) durante l’ultimo soggiorno ad Atene, è una delle opere più tarde di Aristotele (cfr. infra, in Bibliografia). Rappresenta quindi il punto d’arrivo di una lunga riflessione iniziata con il platonizzante Gryllos (Quint. II 17.14) e passata attraverso fasi di cui resta traccia nella stratificazione attuale del testo. La presenza di bruschi passaggi ha fatto pensare a successivi ritocchi dello stesso Aristotele, o di suoi scolari, ed ha indotto anche a sospettare l’autenticità di tutta l’opera o solo di parti, come in particolare il terzo libro (questa problematica ha dominato gli studi di fine Ottocento: si veda per tutti l’analisi, fondamentale al di là della tesi sostenuta, di F. Marx). Nessuno comunque ha mai messo in dubbio le caratteristiche aristoteliche della dottrina, e la tendenza attuale è di considerare l’opera autentica ed unitaria. Sicuramente molte difficoltà della Retorica possono essere chiarite tenendo conto, molto più di quanto sia stato fatto finora, del suo carattere
retrospettivo. L’aspetto di appunti in qualche modo slegati riflette il me-
todo di lavoro di chi interviene con precisazioni rispetto ad una conoscenza complessiva della trattatistica precedente che presuppone acquisita dai suoi lettori. Se quasi tutte le notizie sulla techne del V secolo risalgono ad Aristotele, ciò è frutto della sua attitudine scientifica di confronto, che si concretò nella schedatura di tutta la precettistica precedente (la Zuvaywyn texvav: cfr. Cic. de inv. II 6, de or. III 160). L’attacco ai technologoüntes in grande evidenza all’inizio dell’opera (I 1354 b 17 ss., 1355 a 19, 1356 a 11 ss.) è segno della volontà di innovare, ma anche della consapevolezza di inserirsi in una precisa tradizione. Questa attitudine di rimeditazione storica è anche evidente nel grande apparato di citazioni, mentre i trattati più antichi componevano gli esempi ad hoc, metodo ancora seguito dall’unico trattato del IV secolo che abbiamo oltre ad Aristotele, la Rhetorica ad Alexandrum (con la sola eccezione di un passo da Euripide al cap. 18.15, ed. Fuhrmann). Il fenomeno della citazione d’autore comincia a comparire proprio in questo periodo nell’oratoria pubblica (Eschine, Demostene, Licurgo) ed averlo portato all’interno della techne è con tutta probabilità una innovazione di Aristotele che a sua volta costituisce un passo fondamentale verso la nascita di una critica letteraria. La grande trattatistica di età imperiale seguirà per nostra fortuna questo metodo, ma troviamo l’impiego di citazioni d’autore ancora contestato nel I secolo a.C. (rhet. ad Herennium IV 1.1 ss.). Ritengo perciò un grave errore considerare la Retorica un prodotto geniale e solitario, e del tutto insufficiente valutarla
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solo in rapporto all’evoluzione del pensiero logico aristotelico: se sono per noi più evidenti le differenze rispetto a Platone, che abbiamo, ciò non autorizza a trascurare il rapporto con una trattatistica per noi perduta, ma che Aristotele leggeva ancora. LA LEGITTIMITÀ DELLA TECHNE
Entrato nell'Accademia nel 367, Aristotele vi rimase fino alla morte di Platone. La sua indipendenza dal maestro, grande in ogni campo, è così netta in quello della retorica che egli non ha problemi a fare ciò che per Platone sarebbe stato inaudito, scrivere una Techne. Si può dire perciò che con Aristotele è definitivamente chiuso il dibattito del V secolo sulla legittimità della rechne, un punto di vista che nella Retorica non esiste più: subentra invece il gusto dell’indagine senza preconcetti e l’inclinazione a costituire in scienza ogni materiale dato. Anche per un altro verso l’attitudine di Aristotele è moderna. Fino a lui teoria e prassi erano sempre andate insieme: secondo una concezione di tipo artigianale un oratore o un logografo potevano decidere di trasmettere ad altri la loro abilità attraverso l'insegnamento orale o con l'eventuale supporto di una techne scritta. Con Aristotele questa tradizione è rotta: egli non è oratore né vuol far diventare oratori altri. Ciò che gli interessa è fornire strumenti di analisi di un fenomeno visto come risultato di una storia ed oggetto di scienza. Si sente lo straniero di Stagira che, arrivato ad Atene, osserva con curiosità e distacco il fervore
di tribunali ed assemblee in cui non ha parte e registra, classifica, interpreta la grandezza e la decadenza dell’oratoria pubblica. Il gusto dell’osservazione, il confronto continuo con l’oratoria reale pervade tutta l’opera e si concretizza nei ripetuti rimandi all’uso contemporaneo che incontriamo ad esempio in III 1408 a 33, 1413 b 1 e 21, 1415 a 25: essi ci consentono tra l’altro di individuare fenomeni che non sarebbero più deducibili dalle testimonianze letterarie arrivate fino a noi (1409 a 10: «oggi si fa uso di uno stesso tipo di peone sia all’inizio che alla fine di periodo»). 1 TOPOI E L'ENTHYMÉMA
Piuttosto che nei tre libri in cui ci è stata tramandata possiamo considerare la Retorica divisa in due grosse sezioni: quella relativa all’argomentazione (che occupa i primi due libri) ed il terzo libro, suddiviso nei due trattatelli quasi autonomi ITegì A&Eewg e ITepì tAÉEwS. Questo ter-
zo libro ha per oggetto un materiale in larga misura tradizionale, all’interno del quale Aristotele si sforza di sceverare l’essenziale, operando rigorose ed illuminanti semplificazioni rispetto alla quantità di precetti che gravava sulla techne (a questo stato di saturazione allude in soph. elench. 183 b 34). Sia detto per inciso che il carattere tradizionale di questa parte non autorizza a svalutarla: si tratta di una realistica concessione di Aristotele ad un orientamento del gusto e degli interessi ormai irreversibile, ed anche in questo campo, d’altra parte, egli non rinuncia
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ad esplorare la contiguità tra fenomeni espressivi e di pensiero (come
avviene in particolare per le metafore). Dove invece la Retorica deve essere considerata una vera e propria rifondazione è nella teoria dei töpoi e degli enthymémata svolta nei primi due libri. Sull’entimema l’attacco ai trattatisti precedenti è netto: «non dicono nulla sull’entimema, che è la sostanza della prova» (I 1354 a 15). Mettendo al centro con decisione la ricerca di prove Aristotele si riallaccia al metodo euristico che era stato all’origine della techne, controbattendo quella dispersione verso gli effetti patetici, gli abbellimenti verbali, gli espedienti recitativi che egli attribuisce al cattivo gusto ed alla scarsa capacità critica del pubblico (1 1357 a 3, Il 1395 b 2, III 1408 a 23 s., 1415 b 6, 1419 a 18); con la differenza che nella sua concezione della retorica, quale risulta dalla definizione in 1355 b 25 (e dalla premessa in b 10) la persuasione non è più un fine (la retorica medovs Önuuovoyös di Plat. Gorg. 453 a) ma, in modo caratteristico, l’oggetto di una ricerca. Il perno della dimostrazione logica è l’entimema, cioè il corrispettivo nella retorica di ciò che è il sillogismo nella dialettica, un insieme vincolato di premessa (che, nel caso della retorica, può anche non essere rigorosa) e conclusione. La molteplicità degli entimemi è a sua volta ricondotta ad una lista chiusa di “luoghi” (t6poi, rhet. Il 1403 a 16-17) che offre all’oratore la griglia di riferimento per la ricerca degli argomenti; i töpoi diventano così la mediazione fra chi parla e la realtà (Pernot,
p. 260; per la bibliografia precedente: ivi, p. 257 n. 20). Enthymémata e t6poi costituiscono qualcosa che non esisteva assolutamente nella techne precedente, un rigoroso asse argomentativo che consente ad Aristotele di trasferire nella retorica le conquiste del suo sistema logico (si considerino in particolare i Topica) e di fare quindi della retorica una dottrina scientifica, non nei materiali ma nel metodo: senza di ciò non avrebbe avuto legittimità il fatto stesso di scrivere una Techne. Questo passaggio si può dimostrare bene per l’enthyméma, termine che già esisteva: per Isocrate esso è un concetto elaborato e qualificante che l’oratore «riveste» delle parole adatte (Panegyr. 9; Contr. Soph. 16; Evag. 10); la Rhet. ad Alexandrum lo definisce come concetto complesso basato sull’opposizione di contrari (cap. 10.1-2 Fuhrm.); Aristotele compie il passo fondamentale di farne un’argomentazione analoga al sillogismo. Il suo modo di lavorare è tipico: egli parte da qualcosa che esiste nell’oratoria reale, istintivamente avvertito nella sua efficacia («hanno successo con il pubblico soprattutto quelli che usano entimemi» I 1356 b 25), ma solo genericamente identificato nella techne precedente, per definirlo nella sua specificità. Qui sta il senso profondo della lapidaria dichiarazione con cui apre la sua Retorica: à 6ntopıxr) &otıv àvTioTgOROG TT) dLadextix]). L’INFLUENZA DI ARISTOTELE
Dal 335 Aristotele apre ad Atene una propria scuola alla cui guida succede nel 322 Teofrasto: il Liceo inizia così la sua lunga storia come
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istituzione culturale destinata a fornire nei secoli un punto di riferimento determinante non solo per la filosofia, ma anche per la ricerca letteraria. Questo aspetto, che è stato studiato soprattutto in rapporto alla filologia alessandrina, fu non meno importante per la retorica. Già ho accennato al ruolo svolto dall’antico Peripato nel fornire orientamenti critici sui modelli della prosa d’arte (cfr. supra, p. 219) ed un altro caso molto interessante vedremo a proposito di Agatarchide e dell’atticismo (cfr. infra, p. 240). Le molteplici forme di penetrazione del patrimonio di studi del Peripato nella storia della retorica antica attendono ancora una ricognizione esauriente e di grande respiro culturale, ma è importante essere comunque consapevoli del fenomeno. La sconcertante affermazione del Düring, secondo cui la retorica posteriore ignorò Aristotele perché «in balia del sistema di Ermagora» (Aristotele, tr. it., p. 162), implica un fraintendimento dell’uno e dell’altro autore, senza contare che ormai, dopo gli studi di G. Thiele e del Matthes, Ermagora stesso è plausibilmente collegato all’aristotelismo, con una correzione importante rispetto alla precedente tesi stoica. L’influenza del Peripato è rintracciabile in tutto l’arco della riflessione letteraria greca dall’ellenismo in poi: ma il punto di riferimento, com'è logico nell’ambito di un'istituzione culturale che ebbe continuità nei secoli, non fu solo Aristotele, bensì il complesso delle dottrine e dei metodi riconducibili al Peripato, e che si sono andati gradualmente adattando e modificando. È in particolare lo studio dello
stile che viene acquistando, rispetto a quanto constatiamo in Aristotele,
un ruolo sempre maggiore, cambiamento di direzione in cui giocò una parte importante un perduto trattato di Teofrasto. 3.2. Il ITegì A6EEws di Teofrasto
È difficile accostarsi con obiettività a Teofrasto. Per leggere i pochi frammenti del ITegì Aééews bisogna ricorrere alla vecchissima raccolta di M. Schmidt (Halis 1839), o recuperare il materiale teofrasteo (e si può farlo solo tramite l’indice a p. 226 s.) dall’amalgama eterogeneo in cui esso si trova sommerso, fino a divenire irriconoscibile, nell’edizione di A. Mayer (Leipzig 1910). Sul piano dell’interpretazione la rigorosa ricostruzione di J. Stroux del 1912, che ha avuto il merito di inserire con autorevolezza Teofrasto nella storia della retorica antica, non è tuttavia
esente da insidie, quando si pone come obiettivo il recupero, al di là dei testi, di un “sistema” completo. Dopo tanti anni che hanno visto una sola voce di disaccordo (cfr. Grube, in Bibliografia) una riflessione s’impone. LE QUATTRO ARETAI
Il pezzo più importante del “sistema” teofrasteo è costituito dal complesso delle quattro virtù dello stile, AAnviou6s, caprivera, noENOV, xataoxevn, ricavato dallo Stroux da un famoso passo di Cicerone che alla correttezza, chiarezza e senso dell’opportunità aggiunge l’ornatum suave et adfluens «che Teofrasto mette al quarto posto fra i pregi del discorso»
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(orator 79). Ipotizzando che ad ornatum ciceroniano corrispondesse in greco xataoxeuñ (ma si potrebbe pensare con migliori ragioni a x60uog), lo Stroux crea una coincidenza con il sistema stoico delle cinque virtù dello stile (che ha in più la brevità, ouvrouia: cfr. Diog. Laer. VII 59), e può immaginare una evoluzione lineare dall’unica areté presente in Aristotele (la chiarezza, rhet. III 1404 b 1) alle quattro di Teofrasto, le cinque degli stoici, la molteplicità delle virtù accessorie (èrideror) di Dionigi di Alicarnasso, che deriverebbero dalla frantumazione della xataoxevn (pp. 41 e 78 s.), fino a quella tarda imitazione che sarebbero le lö£ou di Ermogene (Stroux, p. 125 s.). Non ci si può tuttavia sottrarre all’impressione che la storia delle aretaf sia stata più complicata. Se la ouvvroula “aggiunta” dagli stoici e la caqnvera di Aristotele e Teofrasto facevano già parte delle virtù della narrazione di Isocrate (Quint. IV 2.31 ed altri) e la coppia ueyalongents xai dé (come giustamente lo Stroux traduce suave et adfluens nel passo ciceroniano) risale a Teodette, scolaro di Isocrate e di Aristotele (Quint. IV 2.63) ed è contestata in rhet. III 1414 a 20, mi pare divenire storicamente più plausibile una diversa evoluzione, in cui l’istanza logica di Aristotele, che vuole individuare un’unica virtù, non è più da collocare all’origine della dottrina ma costituisce una tappa intermedia in una serie di riaggiustamenti che partono dalla techne prearistotelica. La diversità fra virtù dello stile (Aristotele/Teofrasto) e della narrazione (Isocrate/Teodette), fondamentale per chi si ponga nell’ottica di sistemi chiusi e contrapposti, Îo è molto meno in una prospettiva storica, che cerchi di ricostruire il concreto modo di operare dei singoli trattatisti. In questo, come in tanti altri casi, l'evoluzione della retorica non fu lineare. QUALE STILE?
Un altro pezzo importante del sistema di Teofrasto è attestato in Dion. Halic. Isocrate 3: «Tre sono i modi, secondo Teofrasto, per ottenere uno stile elevato, dignitoso, non banale, cioè la scelta delle parole, la loro armoniosa composizione, le figure». Ritenendo che lo stile uéya xai oeuvöv di cui parla Dionigi sia identico al peyadornpernts desunto da Cicerone, lo Stroux può agganciare le due parti del sistema subordinando la tripartizione di Dionigi alla xataoxeuñ. Si apre qui il grosso problema dell’interpretazione delle virtù: dobbiamo cioè interpretarle come alternative fra di loro, o finalizzate ad un ideale stilistico che salvaguardi l’unità postulata da Aristotele? Come la chiarezza di Arist. rhet. III 1404 b 1 è posta al centro di uno spettro di possibilità (b 3 pñte TONELVI]V . . . te dato tò dEtmpa), ritengo molto probabile che le quattro virtù.teofrastee fossero le componenti, scorporate per maggior chiarezza didattica, dello stesso ideale di uno stile né banale né esagerato, ma grave e dignitoso. E allora il uéya xaì oeuvdv xal xepittév non è altro che la trasposizione in termini dionisiani di questo ideale, e non deve essere identificato con la sola xataoxevri. Anche in campo etico Teofrasto si atteneva alla via di mezzo aristotelica, ed un frammento conservato da Stobeo dimostra che egli considera-
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va la peyadonpénera precisamente una ueo6tns (Stob. ecl. II 303 Hense: neoötnta Ghatovelas xai uxporperetac). Analogamente ritengo che nello schema delle quattro virtù la chiarezza e la dignità non siano due poli contrapposti. Leggendo nelle parole di Dionigi una parafrasi della xataoxevt lo Stroux è caduto in quello stesso equivoco in cui altri, che egli giustamente critica, erano caduti nell’interpretare il passo di Dionigi sullo stile di Trasimaco (cfr. infra). Bisognerà dunque capovolgere lo schema dello Stroux, e subordinare le aretaf alla tripartizione dionisiana di Isocr. 3, sempre che essi facessero parte della stessa costruzione (che non è detto: Teofrasto scrisse anche una Techne retorica). Nell’ottica di un ideale stilistico unitario diviene molto più facile coordinare i frammenti teofrastei che ci sono arrivati: la raccomandazione di un uso moderato della metafora, la scelta di un ritmo né troppo marcato né troppo banale, il rifiuto di ogni eccesso nell’uso delle figure. E la grande disputa sulla paternità teofrastea dei tre genera dicendi — il piano, l’elevato e l’intermedio — si chiarisce da sé. Lo stile «medio e misto» la cui origine Teofrasto rintracciava, secondo Dionigi di Alicarnasso (Demostene 3), nell’oratoria di Trasimaco di Calcedone, non può
che identificarsi con questa proposta stilistica unitaria di matrice aristotelica, ed il passo dionisiano non autorizza minimamente ad attribuirgli i genera dicendi (errore in cui non cadde lo Stroux). Lo Hendrickson ha dimostrato in modo a mio avviso inoppugnabile che Teofrasto aveva tutte le ragioni per non considerare lo stile semplice e quello elevato come estremi contrapposti, ma al contrario compresenti nella ueoötng di uno stile perfettamente riuscito. Questa conclusione, rifiutata nella maggioranza degli studi, è invece la sola coerente con tutte le testimonianze sulla dottrina di Teofrasto, che riacquista così il ruolo, a lui anche in altri campi più congeniale, di rielaboratore della dottrina di Aristotele, i cui asciutti schemi egli ripropone con ordinate classificazioni più attente alle esigenze dell’insegnamento scolastico. 4. L’età ellenistica
I tanti giovani provenienti dalle coste dell’Asia Minore e dalle isole antistanti che vengono ad Atene per studiare nella scuola di Isocrate sono il segno tangibile dell’accresciuta domanda di cultura in questa “periferia” molto vitale del mondo greco, e ciò costituisce a sua volta la premessa del successivo trasferirsi della retorica verso Oriente (Cic. Brut. 51). Acquista perciò un valore simbolico la gara bandita dalla regina Artemisia per onorare con un discorso funebre (epitäphios) la memoria del marito Mausolo, morto nel 353, gara che fece accorrere ad Alicarnasso in Caria, tra gli altri, gli isocratei Naucrate, Teopompo e Teodette (mentre i più famosi scultori greci collaboravano al sontuoso fregio del Mausoleo, Plin. Nat. Hist. 36.80). È il primo segnale dell’attrazione inversa che l’Asia e le monarchie illuminate cominciano ad esercitare su Atene nel momento in cui questa, con il consolidarsi del potere macedone, va perdendo l'autonomia politica ed insieme l’egemonia culturale.
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Purtroppo la produzione retorica dei tre secoli che separano Aristotele da Dionigi d’Alicarnasso, nel suo duplice aspetto di insegnamento della techne e di prassi oratoria, è naufragata in modo pressoché totale, e nelle nostre storie letterarie l’ellenismo compare come l’età della poesia e della filologia alessandrina: questa è però un'ottica molto riduttiva, favorita anche dal fatto che Alessandria fu singolarmente povera di attività retorica. Ma nelle città d’Asia i rhetores scrivono una pagina splendida anche se effimera, e la techne viene insegnata sulla base di vecchie e nuove dottrine: la retorica ellenistica si iscrive anch’essa in una storia di continuità e progresso. 4.1. Ermagora di Temno
Una delle perdite maggiori nel vuoto che segue ad Aristotele è costituita dalla Techne aridissima (Tac. dial. 19.3) e fortunatissima scritta nel II secolo a.C. da questo retore d’Asia Minore della cui vita non sappiamo nulla, ma che impresse alla storia della retorica una svolta fondamentale: fecit deinde velut propriam Hermagoras viam, quam plurimi sunt secuti (Quint. II 1.16). Dobbiamo attendere quattro secoli per trovare, con il ITegì or@oewv di Ermogene (cfr. infra, p. 249) un’esposizione in lingua greca della dottrina tipica di Ermagora, ma questo non deve ‘ farci pensare che i plurimi di Quintiliano non fossero anche, e soprattutto, greci. Il fatto è che il sistema ermagoreo, mai archiviato ma costantemente riusato ed aggiornato, presenta tutte le caratteristiche dei prodotti largamente consumati nella scuola, cioè diffusione vastissima con scarsità di citazioni esplicite, e difficoltà a distinguere il sistema originario dalle sue accrezioni successive. Le fonti greche sono tarde (soprattutto i commentatori di Ermogene) ma ad esse suppliscono le fonti latine, fenomeno questo che incontreremo di nuovo per la declamazione (cfr. infra, p. 229): i romani assimilarono con entusiasmo la dottrina per loro nuova e straniera frequentando i più famosi maestri di Asia e di Rodi e ci hanno conservato con particolare fedeltà l’eco delle lezioni sentite. LA DIFFUSIONE DEL SISTEMA
Non mancano tuttavia indizi precisi della diffusione del sistema ermagoreo, anzitutto nella prassi declamatoria (cfr. infra, p. 228 s.), che nelle staseis trovava uno strumento importante e congeniale (Russell, Greek Declam., pp. 40 ss.): una fondamentale testimonianza della declamazione greca come la raccolta di Sopatro (del IV secolo d.C. o più tarda) ordina i singoli pezzi proprio secondo il tipo di stasis. Altri indizi vengono dai commentari grammaticali alla grande oratoria del V e IV secolo composti per la scuola: per tutti i discorsi giudiziari di Demostene viene precisato il tipo di stasis (per un esempio fra tanti si veda lo scolio al primo rigo dell’or. XXI Contro Midia), e quest’esigenza era così sentita che si arrivò ad applicare retroattivamente la lettura secondo le staseis perfino a prodotti antichi come le Tetralogie di Antifonte (dove la cosa si prestava a controversie: cfr. l'argomento a Ba p. 107 ed. Caizzi),
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e le demegorie contenute nelle Storie di Tucidide (Marcellino, Vita di
Tucidide 38).
La redazione a noi pervenuta di questi commenti è tarda ed è perciò naturale che essa adotti la terminologia di Ermogene piuttosto che quella di Ermagora: ma già nel I secolo d.C. leggiamo, sul recto del papiro Brit. Mus. 131, un commento all’inizio della già citata or. XXI di Demostene in termini di staseis (come ha visto il Lossau, pp. 113 ss.), che cita anche Cecilio di Calatte (cfr. infra, p. 242), di cui infatti Quintiliano attesta lo studio delle staseis (II 6.48 = Cecilio fr. 6 ed. Ofenloch). E se ne occupò sicuramente anche Dionigi di Alicarnasso, nonostante il silenzio in proposito nell’opera conservata:
una testimonianza tarda ma sicura-
mente attendibile di Niceforo Basilace del XII secolo parla della sua èmr\oxÿ otéceuv confermando il dato implicito in Quint. III 1.16, che attesta una Techne di Dionigi. In questo campo bisogna essere molto cauti nel trarre deduzioni e silentio: la dottrina ermagorea ha accompagnato l’insegnamento della retorica nei secoli, anche se la particolarità della nostra tradizione tende ad oscurare questo fatto. LA GENESI DELLA DOTTRINA
Ermagora non è isolato: come tutti i grandi maestri si collega a chi lo ha preceduto e segna a sua volta un nuovo cammino. La sua definizione della retorica (Sext. Emp. adv. math. Il 62 = fr. 4 Matthes) presuppone Arist. rhet. I 1355 b 25, e la stessa dottrina delle staseis è ricondotta da Quintiliano (III 6.49) ad un noto passo di Aristotele (rher. III 1416 a 7 ss., 1417 b 23 ss.; su questo cfr. ora Pernot, pp. 264 ss.) e, più problematicamente, all’isocrateo Naucrate (III 6.3). Il fatto stesso di organizzare la Techne non secondo le parti del discorso, bensì secondo i compiti dell’oratore (cioè ebgeors, TéEis, AEEıg, uvijun, Üntöxguong: trovare gli argomenti, disporli, esporli, tenerli a mente e presentarli al pubblico) è frutto della nuova impostazione della Retorica aristotelica. A differenza però di Aristotele lo scopo di Ermagora è strettamente pratico: le molte classificazioni che caratterizzavano il suo manuale non riflettevano un’analisi scientifica dei fenomeni ma la volontà di fornire all’avvocato un metodo preciso in ogni dettaglio, capace di guidarlo passo passo nell’esame della causa (Cic. Brut. 263 dat rationes certas et praecepta dicendi quae [...] habent ordinem et quasdam errare in dicendo non patientis vias). Più facile è fare i nomi di quelli che hanno seguito Ermagora riprendendone il sistema con aggiunte e modifiche: Quintiliano menziona Ateneo, Apollonio Molone, Areo, Cecilio, Teone (III 1.16), ma questa è una pagina della storia della retorica che, nel naufragio dei testi, non siamo più in grado di scrivere. IL SISTEMA DELLE STASEIS
Caratteristica del sistema ermagoreo, in continuità con la più antica concezione della retorica, è la concentrazione sull’inventio. Il campo proprio dell’oratore è il roMtixòv Eftnua, cioè ogni questione che abbia
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rilievo nella vita civile e che pud essere impostata su di un piano generale (ôéois: si deve o no condannare un matricida?) oppure specificando l'insieme delle circostanze (nepiotaoıs) di tempo, luogo, persona ecc. (dnédeos: si deve o no condannare Oreste?). L’oratore deve quindi allenarsi a considerare ogni problema in una prospettiva sia etico-filosofica che giuridica, verificando anzitutto se la causa possa essere discussa con probabilità di successo, oppure sia tale da non consentire di impostare la difesa/accusa (se Oreste dice: «ho ucciso mia madre, ma avevo una giusta ragione per farlo» si dà uno {mua; ma se Oreste dicesse: «non ho alcuna giustificazione per il mio gesto» il caso diventerebbe àovotatov, e non vi è più materia per l’oratore, cfr. Cic. de inv. I 18). Se il caso è “consistente” bisogna determinare quale impostazione abbia la causa,
quale sia cioè la posizione (otéois) che l’avvocato dovrà assumere. Si danno secondo Ermagora quattro possibilità: decidere se il crimine sia stato commesso (el Eotı) o di quale crimine si tratti (té goti) o come si debba valutarlo (xoi6v ti got) o infine se sollevare un'eccezione proce-
durale o di competenza (npög ti Éou). A queste alternative corrispondono le quattro sraseis: oToxaoyös (coniectura), 6006 (finitio), nov6mg (qualitas), uet@myis (translatio). Possiamo riprendere l'esempio dato da Quintiliano per le prime due staseis, le più comuni (Quint..III 6.5): a) Accusa: “lo hai fatto”; Difesa: “non l’ho fatto” = stasis congetturale: “lo ha fatto?” b) Accusa: “hai fatto questo”; Difesa: “non è questo che ho fatto” =
stasis definitoria: “cosa ha fatto?” Questa è naturalmente appena una piccola parte del sistema ermagoreo, molto più complicato: ma non poteva mancare almeno questo cenno ad una terminologia tecnica che per tanti secoli ogni ragazzo greco che avesse raggiunto un’istruzione superiore aveva sulla punta delle dita, e che ha probabilmente creato schemi mentali ed abitudini compositive della cui origine rischiamo di non renderci più conto. 4.2. La meléte
Mehértn, nel significato di “esercizio”, è il termine greco corrispondente al latino declamatio, ed ambedue indicano la pratica scolastica di comporre un discorso giudiziario o deliberativo su temi inventati: lo scopo originario era chiaramente quello di preparare al dibattito reale, ma in mano a conferenzieri di talento e sotto la spinta di un pubblico avido di esibizioni oratorie la meléte diventò ben presto fine a se stessa,
e proprio ad essa molti maestri affidarono il loro prestigio. Questa oratoria fittizia finì così per avere un impatto culturale notevole, alimentando le discussioni, le simpatie e le antipatie che animano la fetta sempre più larga di società che gravita intorno alla scuola di retorica: un mondo che ci è stato conservato, limitatamente al I secolo a.C., nelle Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores di Seneca retore. La declamazione ridiventò così a sua volta il modello di quella oratoria reale cui si era ispirata e questa stessa ricaduta si ebbe sulla letteratura in generale: un
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reciproco influsso è ipotizzabile soprattutto fra la declamazione e la storiografia ellenistica, così incline al sensazionale (si pensi alle critiche di Polibio), ricca di discorsi fittizi e di digressioni romanzesche. Per noi i pochi ma preziosi frammenti di declamazioni greche del I secolo a.C. conservati, spesso in pessime condizioni testuali, in Seneca retore, con il loro gusto epigrammatico della pointe finale, sono l’unica attestazione di una pratica diffusissima che fu l’altra faccia, ormai quasi sconosciuta, della prosa greca. Ricostruirne la storia non è facile. Per le testimonianze greche dobbiamo infatti attendere fino al IV secolo d.C. (Imerio, Libanio, forse Sopatro) o al VI (Coricio di Gaza), ma in parte la lacuna è colmata dalle fonti latine: Seneca retore menziona almeno 36 declamatori greci di età tardorepubblicana ed augustea, quasi tutti di provenienza asiatica. Anche la perdita della declamazione rientra comunque nel più generale naufragio di una produzione che si consumò in fretta e fu via via sostituita con prodotti più aggiornati. Questo fu comunque certamente un tipico aspetto dell’oratoria ellenistica (anche se bisognerà stare attenti a non ridurre tutto all’esibizione declamatoria, immaginando che il meccanismo fantastico della meléte contraddistingua in generale l’eloquenza di questi secoli): non vi è ragione alcuna di contestare le notizie antiche che fanno risalire concordemente la pratica delle melétai alla fine del IV secolo, associandola ai nomi illustri di Demetrio Falereo e di Eschine, l’antagonista di Demostene che, sconfitto nel processo sulla Corona nel 330, lasciò Atene ed aprì una scuola a Rodi (la realtà storica di questo fatto è stata giustamente rivendicata da JF. Kindstrand). È vero che analogie con le melétai si possono trovare in fenomeni molto più antichi (alle Tetralogie di Antifonte pensa Fairweather, pp. 110 ss.), ma il particolare impatto sociale ed il legame con la scuola avvengono con modalità tipicamente ellenistiche. Gli “avvocati” protagonisti della meléte non hanno più davanti a sé la giuria di massa tipica del processo ateniese, ma tribunali in cui complicazioni e cavilli giuridici hanno un ruolo sempre più marcato: il processo si orienta soprattutto verso il diritto privato (omicidi, furti, doveri verso la famiglia) e vi ritroviamo gli stessi personaggi della Commedia Nuova (cfr. supra il capitolo sul Teatro), padri e figli, mariti e mogli e via dicendo, un mondo che nella meléte assume tinte decisamente romanzesche e che il Russell ha gustosamente descritto (Greek Declam., pp. 21 ss.). Un processo che coinvolge tutte le scelte politiche di una generazione, come quello che contrappose Demostene ed Eschine nel 330, appartiene ormai ad un’altra epoca. 4.3. Oratori ellenistici LA PERDITA DEI TESTI
La perdita dei testi dell’oratoria ellenistica si consumò velocemente e non fu la conseguenza di una fatalità, ma della condanna nella scuola di età imperiale. Il classicismo che domina nell’insegnamento ufficiale dal-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
l’età augustea in poi decretò infatti, insieme al ritorno all’oratoria attica del V e IV secolo (cfr. infra, pp. 237 ss.), anche il rigetto dell’eloquenza che si era sviluppata, soprattutto in Asia Minore, nei tre secoli successivi alla morte di Alessandro Magno. In molti casi si trattava comunque di una produzione effimera la cui circolazione libraria sarà stata limitata o nulla: ma svariati testi erano ancora disponibili alle soglie dell’età augustea se Cicerone poteva leggere, ad esempio, i discorsi dei due fratelli di Alabanda (cfr. infra, p. 231) ed il retore ateniese Gorgia, cui egli affidò l'istruzione del figlio ad Atene, nel suo trattato Sulle figure (conservato nell’epitome latina di Rutilio Lupo del I secolo d.C.), poteva fornire una esemplificazione che fotografa ancora una situazione dell’oratoria precedente alla nascita dell’atticismo, dove Demostene ed Iperide si accompagnano ad autori ellenistici per noi sconosciuti o noti solo per infamia (vedremo ora il caso di Egesia). La condanna colpì in uguale misura testi che erano stati scritti per durare, come le molte Storie di quest’età, anch’esse perdute (cfr. supra il capitolo sulla Storiografia). Emblematico è il caso di Egesia, versatile oratore di Magnesia sul Sipilo ed autore di una Storia di Alessandro (fine IV-inizi III secolo) del quale, secondo Dionigi, «fra le tante opere che ha lasciato, non si potrà trovare una sola pagina scritta decentemente» (Dion. Halic. De compos. 18). In conseguenza di giudizi come questo, oltre al brano citato da Dionigi a riprova del suo biasimo, tutto quel che ci rimane sono pochi manierati frammenti (tra i quali quelli relativi alla distruzione di Tebe nel 336 riportati da Agatarchide: cfr. infra, p. 240) che combinano una prosa curiosamente esile con stravaganti metafore ed insistiti parallelismi. Egesia è citato però senza problemi da Gorgia/Ruti-
lio, e piaceva ancora a Varrone (Cic. epist. ad Att. XII 6.2): siamo alla metà del I secolo, e questa è la soglia oltre la quale l’oratoria ellenistica non poté sopravvivere. Non ci stupisce dunque che la ricostruzione dell’oratoria sofistica fatta da Filostrato nel III secolo d.C. (cfr. infra, p. 244) passi da Eschine, la cui funzione di cerniera fra oratoria attica ed ellenistica abbiamo già visto, direttamente a Niceta di Smirne dell’età di Nerone: il salto dell’età ellenistica è sicuramente una conseguenza della denigrazione atticista (così giustamente Kindstrand, contro altre spiegazioni). Alla rapida sparizione dei testi contribuì anche la mancanza di un centro culturale egemone: il grande prestigio di questi retori a livello locale difficilmente bastava a garantirne la sopravvivenza oltre la cerchia che aveva avuto modo di conoscerli personalmente. Le nostre fonti rispecchiano bene questo fenomeno: si tratta infatti della Geografia di Strabone, che utilizza le cronache locali delle città d’Asia, delle rievocazioni fatte da Cicerone e frutto delle sue esperienze di studente nel Mediterraneo orientale, e dei ricordi di Seneca retore, che aveva udito i declamatori greci venuti a Roma. Questo spiega anche il concentrarsi delle notizie nel I secolo, ma non abbiamo ragione di immaginarci in modo diverso i due secoli precedenti.
L'oratoria, la retorica e la critica letteraria GLI STUDI
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MODERNI
All’antica damnatio memoriae corrisponde un diffuso disinteresse negli studi moderni, che negli ultimi tempi si è accentuato. Il Blass individuò la lacuna e proprio da qui iniziò il suo studio dell’oratoria antica, ma il vecchio volume del 1865 non riuscì a suscitare interesse né a modificare l'impostazione delle nostre storie letterarie, che sistematicamente cancellano l’oratoria ellenistica dalla vicenda culturale greca: è una zona vuota colmata solo, sul piano antiquario, dall’eruditissima ricognizione di F. Susemihl del 1892, una base di lavoro preziosa ma non aggiornata e in qualche modo priva di vita. Ciò che ancora manca è un valido supporto di ricerche prosopografiche interpretate in chiave di storia della
cultura (sul modello dello studio di Bowersock sulla seconda sofistica, infra p. 246) ed inserite nella ricostruzione ambientale delle città d’Asia. Perché la retorica ellenistica esiste soprattutto attraverso i suoi protagonisti, e un’affermazione come quella di Norden («non avrebbe senso occuparsi dei singoli rappresentanti di questa moda insensata» tr. it. I p. 159) ne preclude la comprensione. Né questa è aiutata dalle grandi astrazioni, che incasellano ma spiegano poco: una delle ragioni per cui fatichiamo a ritrovare, anche a livello di studi specialistici, l’oratoria ellenistica è che essa viene tutta riassorbita nell’asianesimo e quindi privata del suo spessore storico e sociale per divenire solo il presupposto ideologico della successiva reazione atticista. Ma noi non abbiamo alcuna ragione per adottare l’ottica retrospettiva e denigratoria dei professori di età augustea. LE CARATTERISTICHE
Non si vuole naturalmente negare il fatto che questa oratoria ebbe la sua massima fama nelle città greche d’Asia Minore, ma solo rilevare che questa constatazione non basta a darle una fisionomia. In Cic. de or. II 95 Antonio (riferendosi all’inizio del I secolo) dichiara che «oggi tutta l’Asia imita Menecle di Alabanda e suo fratello Ierocle» e nel Brutus Cicerone descrive la loro eloquenza come languida, elegante ed arguta, ben diversa da quella rapida, impetuosa ed ampollosa che dilagava al tempo del suo viaggio in Asia nel 78 (Brut. 325 genus [...] quale est nunc Asia tota). Possiamo accettare o meno lo schema dei due asianesimi qui proposto da Cicerone, ma resta sicuramente il fatto di una varietà di mode stilistiche. Egesia non fa parte di questa classificazione (e d’altra parte fu di due secoli più antico) ma è un imitatore cosciente di Lisia e di Carisio, l’oratore contemporaneo di Menandro che imitò Lisia a sua volta (Brut. 286). Gli unici oratori ellenistici menzionati per nome da Dionigi di Alicarnasso sono quattro retori di Rodi — Artamene, Aristocle, Filagrio e Apollonio Molone (solo quest’ultimo è conosciuto, cfr. infra, p. 233) — che egli dichiara cattivi imitatori di Iperide (Dinarco 8). Negli stessi anni di Carisio (quindi alla fine del IV secolo) Democare prati-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
cava ad Atene l’imitazione di Demostene, di cui era nipote, e Demostene era ugualmente l’oggetto della fervida ammirazione di un oratore della
Bitinia, Cleocare, agli inizi del III secolo (cfr. Phot. Bibl. cod. 176, 121 b 9 ss., e Herodian. de figuris vol. III p. 97 Spengel), del retore ateniese Menedemo (Cic. de or. I 88) e di Pammene, maestro di M. Bruto (Cic. orator 105). Ci furono dunque filoni diversi nell’oratoria ellenistica, com’è logico per una produzione di tre secoli che non conobbe il cemento di un apparato dottrinale unitario né ebbe un centro culturale egemone. E varie furono anche le forme: l’idea di un’oratoria che si identifica con la meléte e vive un’umbratile esistenza di scuola (in voga fin dal volume di Rohde del 1876 sul romanzo greco, p. 288 s.) si scontra con la realtà attestata di un’oratoria sia giudiziaria (a questa si riferiscono molti degli esempi citati in Gorgia/Rutilio) che politica: nel decennio 90-80 Senocle di Adramittio, una località della Misia, pronuncia nel senato romano la difesa delle città d’Asia dall’accusa di parteggiare per Mitridate (Strab. XIII 614) e numerosi interventi contro Mitridate sono attestati per Diodoro Zonàs di Sardi (Strab. XIII 627). Alla generazione successiva appartiene un grande personaggio come Ibrea di Milasa in Caria, che le doti oratorie promossero dalla sua umile origine fino a diventare il primo cittadino ed influente uomo politico, antagonista di Labieno e dei Parti e poi di Antonio (decennio 40-30). Ibrea compare più volte in Seneca retore come declamatore (controv. I 2.23, II 5.20, VII 4.10 ecc.) e questo è un invito a rimeditare la dialettica fra la divagazione fittizia della meléte e l'esercizio di una vera oratoria politica, che si vorrebbe inconciliabile con essa. La scuola con la sua tradizione, le sue regole, il suo apparato teoricopratico è una realtà di grande spessore sociale nel mondo ellenistico proprio perché ancora orientata alla formazione di personaggi con una rilevante attività pubblica. La declamazione fiorisce accanto all’oratoria reale e ambedue si avvalgono di studi che continuano l’antica tecnologia: Ermagora di Temno, ma anche Pamfilo ed Ateneo dei quali sappiamo pochissimo, scrivono nel II secolo technai che sono anch'esse parte integrante della oratoria ellenistica. Questa varietà di interessi ritroviamo in una delle ultime figure dell’oratoria ellenistica, Potamone di Mitilene, famosissimo declamatore che è anche ambasciatore della propria città presso il senato romano (dove parla nel 45 a.C.) e teorico (scrisse Sul perfetto oratore). Nel 33 partecipa alla gara per scegliere il maestro del futuro imperatore, Tiberio. Siamo ormai alle soglie dell’età augustea e la carriera tipica del retore greco di successo comincia in Asia, ma spesso finisce a Roma.
Anche da questo veloce excursus è venuta emergendo la particolare geografia dell’oratoria ellenistica: l’attività si concentra nelle città d’Asia Minore ed il ruolo di Atene non è esaurito, ma essa è solo un centro fra i tanti; assente è invece Alessandria (cfr. supra, p. 226). Resta ancora da soffermarsi su una località che sembra aver avuto un ruolo speciale.
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LE SCUOLE DI RODI
Fra i centri del Mediterraneo Rodi aveva la più lunga tradizione di scuole e di fiorente vita culturale: già tra la fine del IV secolo e la prima metà del III troviamo quella di Eschine e quelle dei peripatetici Eudemo e Prassifane, poi nella seconda metà del II secolo la famosa scuola di grammatica di Dionisio Trace. Ma una forte ripresa del fenomeno si ebbe soprattutto a partire dalla fine del II secolo, quando Rodi assume una preminenza che ne fa una specie di “università” del Mediterraneo. È molto significativo che i due più brillanti scolari di Menecle, Apollonio Malakés e Apollonio Molone, lascino la Caria e si trasferiscano fra il 120 circa ed il 100 nella grande isola antistante. Analogamente mentre Panezio (c. 185-109), che pure era di Rodi, insegna e soggiorna ad Ate-
ne e Roma, il suo discepolo Posidonio (c. 135-50), che veniva dalla Siria, stabilisce la sua scuola proprio a Rodi. Questo ambiente saturo di iniziative culturali e crocevia di un continuo movimento di studenti e professori favorisce anche il riacutizzarsi dell’antica ostilità fra retorica e filosofia, che ora assume le forme, tipiche di tutta l’età successiva, della concorrenza fra scuole: Apollonio Molone scrisse Contro i filosofi e negli stessi anni Posidonio aveva pronunciato di fronte a Pompeo un attacco Contro Ermagora. La rivalità fu reale, anche se è probabilmente errato drammatizzarne la portata proiettandovi l’ombra della più radicale contestazione platonica, che negava la legittimità stessa della retorica. Nonostante i reciproci attacchi sul piano dottrinario, retorica e filosofia sono sempre più nella realtà sbocchi alternativi degli studi superiori che non si escludono, e non è raro che un giovane acquisisca un buon grado di competenza in ambedue. Per restare alla retorica, vorremmo sapere se al successo delle scuole di Rodi corrispose una proposta culturale con una sua fisionomia precisa. Le fonti latine parlano esplicitamente di un genere di eloquenza rodio a mezza strada fra quello attico e gli eccessi dell’asianesimo (Cic. Brut. 51; Quint. XII 10.18), e possiamo combinare questa caratterizzazione molto astratta con le notizie sul più famoso professore di Rodi, Molone, ostile ad un’eloquenza troppo esuberante (è noto l’effetto che esercitò sul giovane Cicerone, Brut. 316) ed assertore, in una chiave che sembra
classicista, dell'importanza della lettura come «nutrimento dello stile» (Teone Progymn. vol. I p. 61 Spengel). Nell’orientamento colto e moderato che egli impresse al proprio insegnamento possiamo forse vedere una cosciente polemica contro le mode stilistiche dominanti in quegli anni nelle città d’Asia. Fra gli autori greci solo Dionigi d’Alicarnasso parla dell’oratoria rodia, fornendo una notizia molto precisa e senza paralleli negli autori latini, e cioè che i fodLaxoì Örjtoges imitavano Iperide (Dinarco 8). E importante sapere, in vista degli sviluppi successivi, che alcuni maestri dell’isola (fra i quali è menzionato Molone) patrocinavano un modello attico, e la discussione di Iperide come possibile alternativa di Demostene nell’Anonimo del Sublime (c. 34) potrebbe essere l’eco di una tradizione di questo tipo. La schematica triade: stile attico/asiano/rodio potrebbe dunque celare un dato storico e culturale importante.
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
RAPPORTI CON ROMA
Proprio Apollonio Molone pronuncia nell’87 a.C. un discorso nel senato romano come ambasciatore, e per la prima volta in greco (Val. Max. II 2.3; fino ad allora si era fatto uso di interpreti), ma Polibio (XXI 18.1 ss.) ricorda che già dopo la sconfitta di Antioco nel 189 «quasi tutte le città d’Asia [...] inviarono ambascerie a Roma» e fra queste, accolti con grandissimi onori, parlarono in senato il re Eumene di Pergamo ed i Rodii. L’impatto di questa oratoria, che era una novità per i Romani, fu forte, ed inizia così dal II secolo un duplice movimento, di giovani romani verso le scuole d'Asia e di Rodi, e di retori greci verso Roma. L’integrazione culturale e linguistica è ormai acquisita nella società descritta da Seneca retore: figure come Arellio Fusco, nato greco in
qualche città d’Asia, che apre a Roma una scuola di retorica, declama in greco (suas. IV 5) ma anche in latino, e in questa lingua traduce passi riusciti di retori asiani (controv. IX 1.13), oppure L. Cestio Pio, greco di Smirne che latine Romae docuit (Girolamo Cronaca all’anno 13 a.C.; Bornecque, pp. 160 ss.) e in greco non declama mai, o infine Clodio Sabino che declama in greco e in latino nello stesso giorno (controv. IX 3.13), pur non molto importanti se considerate singolarmente, danno però vita tutte assieme ad un mondo greco-romano culturalmente molto coerente in cui la retorica si afferma con prestigio indiscusso. Rhetor ha ormai definitivamente mutato il suo significato originario ed indica il professore di retorica, unico valore che conseguentemente troviamo attestato per il suo calco latino. A Roma questo mondo ritrova, dopo la lunga dispersione nei centri ellenistici, la città egemone e ciò consentirà l’avvio di una intensa, nuova stagione culturale. 5. La retorica a Roma 5.1. Roma
centro di studi
La prima trattatistica retorica che possiamo leggere dopo Aristotele è costituita dagli scritti di Dionigi di Alicarnasso, un retore greco della Caria che conosce molto bene il latino (ant. rom. I 7.2) e lavora a Roma per più di vent'anni (cfr. infra, p. 241 s.). Egli fa parte di un intenso movimento di immigrazione di intellettuali greci nella capitale dell’impero, frutto della convergenza di interessi fra chi ha una professionalità da offrire e la crescente domanda di cultura della società romana. Su questo meccanismo spontaneo si innestano ben presto precise iniziative di politica culturale (Sueton. Caes. 42.2; August. 42.3) che fanno dell’istruzione umanistica secondo il modello greco un’aspirazione sempre più diffusa e costituita in strutture stabili. Il processo giunge a definitiva maturazione con due fondamentali iniziative di Vespasiano: l’esenzione dagli oneri fiscali locali, nel 74 d.C., di tutti i professori di grammatica e retorica, in qualunque città dell’impero risiedano, e successivamente l’istituzione di due cattedre ufficiali di retorica greca e latina a Roma, pagate dallo Stato. La motivazione dell’editto del 74, che ancora possiamo leg-
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gere in un’iscrizione di Pergamo (Fontes iuris Romani antejustiniani vol. I n. 73 ed. S. Riccobono) traduce nel linguaggio della burocrazia, in modo caratteristico ed interessante, l’antico ideale isocrateo con il suo binomio inscindibile di cultura e civiltà. Già Dionigi quasi un secolo prima aveva definito lo studio della letteratura pu\évôpwnov (Sugli antichi oratori Praef. 4) ed è soprattutto questa convinzione etica a spronare l’orgoglioso impegno di maestri ed allievi ed i favori dei principi, in un quadro contrassegnato da grande ottimismo e dalla precisa sensazione di vivere una rinascita culturale. IL MERCATO
LIBRARIO
Questa intensa attività di studio e di scuola non poteva prescindere da un forte incremento nella circolazione di libri. Alessandria in Egitto è rimasta a lungo il centro dove si poteva commissionare un buon esemplare (significativo l’episodio in Sueton. Domit. 20), ma Roma era sicuramente quello dove i libri si commerciavano di più. Anche in questo campo iniziativa privata e pubblica si integrano: la prima biblioteca pubblica fu fondata da Asinio Pollione nel 39 a.C., ma già Cesare ne aveva progettata una (Sueton. Caes. 44.2); altre due biblioteche, una latina ed una greca, sorsero per iniziativa di Augusto (Sueton. August. 29, Dio Cass. 53.1). Accanto a queste strutture continuano a svolgere un ruolo molto importante nello stimolare l’attività di studio dei singoli le tante biblioteche private: già nella tarda età repubblicana è normale prevedere nella costruzione di una villa un ambiente destinato a biblioteca disposto verso est (Vitruv. de arch. VI 4.1) e la lettura privata diviene un’occupazione abituale delle persone colte. Quando l’Anonimo del Sublime (14.2) invita chi si dedica ad un'attività letteraria a chiedersi come giudicherebbero le sue parole, se fossero presenti, Omero o Demostene, ciò che egli evoca è proprio lo spazio della biblioteca, ornato tutt’in giro dei busti dei grandi autori del passato. IL DIBATTITO LETTERARIO
Accanto allo studio sui testi vi è la realtà di un vivace dibattito letterario attestato soprattutto nel ricorso all’epistola, che consente un veloce scambio scritto di opinioni su problemi di attualità: Tacito (dialog. 18.5) ricorda un famoso scambio di lettere fra Cicerone, Bruto e Calvo, e quelle che ci sono arrivate di Dionigi d’Alicarnasso non sono di un genere diverso. Tipica è ad esempio la genesi dell’epistola A Pompeo Gemino, scritta in risposta ad una lettera dello stesso Pompeo che a sua volta esprimeva critiche su opere dionisiane portategli a mano da un comune amico (ad Pomp. 1). Si coglie qui bene l’intreccio di lettura, rapporti personali e scrittura che è il presupposto della fervida attività culturale di età augustea. Di più apprendiamo (ad Pomp. 3) che l’epistola è stata scritta mentre Dionigi stava lavorando al III libro del trattato (perduto) Sulla mimesis; similmente da Tucidide 1 sappiamo che Dionigi aveva interrotto la stesura del Demostene per occuparsi dello storico, e ciò su
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richiesta del suo patrono, lo storico ed avvocato Q. Elio Tuberone, appartenente ad una delle più importanti famiglie romane. L'attività saggistica si adegua prontamente a sollecitazioni contingenti ed esterne e deve esser stata perciò molto veloce: si pensi ancora alla seconda epistola Ad Ammeo che su richiesta del destinatario integra il Tucidide scritto in precedenza con esempi (vol. I p. 421.15 U.-R.), mentre la prima epistola Ad Ammeo confuta la tesi di un filosofo peripatetico sui rapporti fra Demostene e Aristotele quando questa ancora non circolava per iscritto, ma
Dionigi
ne era stato informato
oralmente
da Ammeo
(vol. I p. 257 U.-R.). Anche il Dinarco fu aggiunto come un ripensamento agli Antichi oratori, «vedendo che molti lo ritenevano degno di menzione» (I p. 297.7 U.-R.), quindi su sollecitazione esterna. La natura occasionale e la scrittura veloce di tante opere retoriche di quest’età è tipica di tutto un ambiente e dovrebbe essere tenuta a mente nel valutarle: anche le critiche del Sublime all'omonimo trattatello di Cecilio (cfr. infra, p. 243), letto e commentato dall’autore insieme all’allievo romano Terenziano, sono probabilmente una risposta a Cecilio molto vicina nel tempo. È in questo ambiente che sono andate maturando le nuove tendenze stilistiche e critico-letterarie, ed esso è ben più reale dell’impacciato rimpasto di fonti immaginato da tanti studiosi che non si accorgono di disegnare, proprio per uno dei periodi più fervidi della civiltà greca, lo sfondo storicamente assurdo di un mondo povero di scambi e povero di libri. CIRCOLI LETTERARI
Al contrario, un’opera nuova o un semplice parere circola immediatamente in un mondo di philölogoi molto reattivo: l'immigrazione di tanti intellettuali a Roma dovette imprimere una forte accelerazione al processo di acquisizione di nuove idee, materiali e metodologie. Dobbiamo perciò abbandonare l’idea, cara agli studi di fine Ottocento e ancora dominante nelle nostre storie letterarie, di epigoni che possono solo riprodur-
re, corrompendo o fraintendendo, dottrine più antiche, per sostituirla con la nozione di un ambiente intellettuale greco-romano ancora vivace e produttivo. Il concetto di circolo letterario, l’attenzione cioè ai rapporti interpersonali, è sicuramente utile ed i contributi in questo senso vanno considerati con interesse, ma questa indagine dovrebbe essere orientata alla ricostruzione di un tessuto sociale e di un ambiente di lavoro in tutta la sua varietà, mentre è riduttivo e sbagliato proporsi di identificare in questo modo personaggi anonimi, come l’autore del Sublime. Persone diverse possono infatti avere in comune una stessa opinione, ed anzi questo si sarà verificato di frequente: il confronto tra singoli passi di opere retoriche è importante per ricostruire pezzi di dottrina, ma non può restituirci una personalità. La varietà e la vivacità di un ambiente come quello in cui si muovono i retori greci di età augustea è intuibile solo per difetto, e di essa fanno parte anche figure come quel Q. Elio Tuberone che a pieno titolo entra in una storia della retorica greca, una volta che
si tenga presente l’intreccio di rapporti personali ed attività di studio in
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un mondo in cui l’intellettuale greco è spesso cliente di un patrono romano. 5.2. L’atticismo
Dal punto di vista della storia delle dottrine stilistiche la rinascita culturale di età augustea si identifica con l’atticismo: l’astratto tuttavia è nostro, Dionigi e gli altri critici antichi parlano di oratori attici, un insieme di testi che vengono proposti allo studio e all’imitazione. Questo è l’aspetto positivo, il più durevole, dell’atticismo; ma esso significò anche la reazione contro il modello negativo rappresentato dalla retorica d’Asia «insopportabile nel suo teatrale esibizionismo e senza cultura», la «cortigiana» che si è accaparrata «gli onori e le più alte cariche delle città» (Dion. Halic. Ant. Or. praef. 1). Di questa contrapposizione fra attici ed asiani Cicerone ancora non parla nel De oratore del 55 a.C., ma ha ben presente il problema nel 46, quando scrive il Brutus e l’Orator: in questo intervallo di tempo si colloca la gran voga del modello lisiano proposto da L. Calvo (più vicina al de or., se è giusto porre la morte di Calvo nel 54) ed accanto ad essa esisteva già almeno un’altra corrente, che propugnava l’imitazione di Tucidide (Brut. 287, Or. 30). Circa una ventina di anni più tardi Dionigi, nella prefazione già citata agli Antichi oratori, che è con ogni probabilità la sua prima opera, parla di una ueraßoAN, una salutare inversione di tendenza a lui contemporanea e velocissima (praef. 1-2), grazie alla quale si sta chiudendo la lunga parentesi di decadenza iniziata «a partire dalla morte di Alessandro il Macedone». La visione di Dionigi è netta anche dal punto di vista geografico: se guardando all’indietro l'opposizione è fra Asia ed Attica, nella prospettiva della rinascita culturale il termine di confronto è ormai Roma. A cacciare lo «sciagurato prodotto della Misia, della Frigia e della Caria, venuto fuori senza storia dalle gole dell’Asia» interviene «il potere universale di Roma che costringe tutte le città a rivolgersi verso di lei» (Praef. 1 e 3; si noti che la terminologia è politica). Esiste un gruppo ristretto di testi in cui “attico” si oppone ad “asiano” e di questi Dionigi, Cecilio, Strabone, Seneca retore e Plutarco si riferiscono agli stessi anni, l’ultima età repubblicana e l’età augustea. Ma se a livello delle fonti antiche l’origine dell’atticismo appare semplice e circoscritta, tutta la questione è assai più complessa negli studi moderni. Mi limiterò qui a dare un cenno su tre punti fondamentali: 1) cosa si debba intendere per asianesimo; 2) quando è nata la reazione atticista; 3) l'individuazione del modello demostenico. L’ASIANESIMO
È diffusa negli studi la tendenza a considerare l’asianesimo un fenomeno spontaneo, l’atticismo invece una precisa dottrina: si avrebbe dunque la contrapposizione fra un movimento ed una scuola. Già il Norden aveva sottolineato la continuità dell’asianesimo rispetto all’antica sofistica di Gorgia, Ippia, Alcidamante, in termini di istintiva consonanza,
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vedendovi un'irreversibile decadenza del gusto (ed includendo anche Demetrio Falereo fra i precedenti dell’asianesimo, assunto che è stato giustamente contestato). Il Wilamowitz a sua volta, in un articolo molto famoso, polemico e ricco di spunti (ma non altrettanto nitido nell’impostazione) fa confluire l’asianesimo nella «ininterrotta continuità della prassi di scuola e di vita dall’antica sofistica sino alla nuova ed oltre», cioè dal V secolo a.C. a dopo il II d.C.; a differenza però di Norden formula l’opposizione in termini linguistici, facendo dell’antiasianesimo un piccolo episodio, tutto sommato poco importante, di una grande lotta contro la cuvfera, cioè le consuetudini della lingua viva. L’asianesimo sarebbe esistito in sostanza solo dal punto di vista dei Romani dell’età di Cicerone, che studiarono presso maestri di provenienza asiatica, e come tale non dura più di due generazioni. Proprio qui è uno spunto che merita di essere sviluppato. Se è vero che l’asianesimo non fu una scuola, esso fu però molte scuole, costituitesi al seguito di retori di prestigio che dall'Oriente convergevano ora verso Roma. Il loro metodo di insegnamento puntava soprattutto sull’esercizio declamatorio, ed il modello proposto si identificava con l’oratoria del maestro stesso: un metodo ancora sperimentato dal giovane Cicerone sia in Asia che a Rodi. Non abbiamo invece indizio alcuno che Dionigi o Cecilio declamassero: essi sono stati esplicitamente “professori” la cui attività letteraria si limitò al genere eminentemente libresco della storiografia (le Antichità Romane di Dionigi — cfr. supra il capitolo sulla Storiografia — e la perduta Storia delle guerre servili di Cecilio). Il conflitto fra asianesimo ed atticismo fu dunque sì un episodio, ma non per un errore di prospettiva degli antichi che avrebbero mancato di cogliere la continuità fra la retorica ellenistica (asiana) e quella precedente, bensì perché solo l'immigrazione a Roma di tanti retori di diverse tendenze creò il presupposto storico perché quel conflitto esplodesse. L’antiasianesimo è dunque un aspetto dell’intensa concorrenza fra retori, della volontà di controbattere l’influenza di declamatori di successo,
riproponendo un'istruzione completa ed ancorata alla grande oratoria attica del passato. Ora la prassi declamatoria è un fenomeno retorico, non linguistico, e se avessimo il testo di una brillante conferenza di un oratore asiano del tempo di Dionigi scopriremmo che esso era altrettanto studiato ed artefatto della più sorvegliata prosa atticista: il conflitto non fu dunque tra retorica e lingua viva, ma tra due diverse opzioni retoriche, ambedue lontane da quella parlata quotidiana che gli antichi non considerarono mai un termine di confronto. In questo senso è sviante sottolineare il carattere spontaneo dell’asianesimo, che ci renderebbe incomprensibile una figura come quel Cratone, abbastanza importante da frequentare abitualmente la casa di Augusto, professus asianus, qui bellum cum omnibus atticis gerebat (Sen. controv. X 5.21); e ci si può chiedere se l’etichetta di “asiano” in altri passi di Seneca non individuasse in positivo, e in modo condiviso dai diretti interessati, uno specifico stile declamatorio.
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LA NASCITA DELL’ATTICISMO
L’unica cesura nella continuità della prassi oratoria si sarebbe avuta con l’atticismo di età augustea: «il falso classicismo che frena lo sviluppo e soffoca la vita» (Wilamowitz, p. 29), il «decrepito potere della fede nell’autorità che [...] finì col privare la vita spirituale dei Greci della sua primavera» (Norden tr. it. I, p. 163). Quest’invettiva antiatticista della grande filologia tedesca di fine Ottocento ha lasciato un segno difficile da cancellare, e la tendenza a liquidare come freddo prodotto d’imitazione una delle più vitali stagioni letterarie della grecità è ancora incredibilmente diffusa. Al di là dell’enfasi, c'è un nocciolo di verità nell’impostazione di Wilamowitz da cui conviene ripartire: il fenomeno dell’atticismo ha una doppia delimitazione, geografica e storica, in quanto reazione che trionfa a Roma in età augustea. Questo è anche il punto di vista di Dionigi che, trasferitosi a Roma dalla natia Caria permeata di tendenze asiane, era in una posizione privilegiata per rendersene conto. Ed atticismo significa essenzialmente recupero del patrimonio letterario classico nel quadro dell’ambizioso ideale educativo della routtxù puiooopia (su cui Dionigi aveva scritto un’opera ora perduta). Come abbiamo visto, proprio questo modello educativo finirà per imporsi, anche per l’intervento dello Stato: la /nstitutio oratoria di Quintiliano, il primo detentore della cattedra di retorica latina a Roma, ne è il monumento. La specificità del contesto culturale romano di quegli anni è stata tuttavia ritenuta da molti studiosi insufficiente a spiegare l’origine dell’atticismo, che si è voluta far rimontare almeno al II secolo a.C. (così già Norden, tr. it. I p. 161). Si è ritenuto che dietro l’atticismo retorico stiano le tendenze normative dell’analogia grammaticale, la cui importanza passerebbe anche attraverso l’adesione di Cesare (sul cui ruolo già aveva insistito Wilamowitz), come pure l’influsso di Partenio e dell’ideale callimacheo del \entév sui poetae novi romani che furono anche atticisti,
come Calvo (Bowersock, p. 63). Ma è subito evidente che se questi precedenti sono plausibili per oratori come Calvo, Calidio e Bruto, il discorso è però molto diverso per Dionigi, nelle cui opere l’istanza purista ha altrettanto poco spazio che in quelle di Cicerone. Lo stesso vale per la supposta concatenazione fra l’avversione peripatetica al pathos, il Aenrtöv callimacheo e l’atticismo delineata dal Wehrli, p. 30 ss., a fronte della linea che da Gorgia porterebbe all’asianesimo. Ma la storia letteraria greca mal si lascia ricondurre a dicotomie così nette, che accomuna-
no pericolosamente fenomeni culturali tanto diversi e distanti nel tempo (in particolare, non vi è nessuna affinità tra Callimaco e la poetica del Peripato). Precedenti all’atticismo sono stati cercati anche sul terreno più strettamente retorico: a parte l’accenno di Norden ad Ermagora, del tutto fuorviante se solo si pensi al ruolo delle staseis nella meléte, che dei retori asiani fu l'occupazione principale, è da ricordare l’insistenza di Wilamowitz su Apollodoro di Pergamo come possibile fondatore del movimento, soprattutto attraverso l’opera dei suoi scolari M. Calidio e Cecilio di Calatte. Quest'ultimo ebbe certamente un ruolo importante, ma che
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Apollodoro fosse suo maestro è un’invenzione, né l’ipotesi diventa più plausibile per il fatto che Cesare scelse Apollodoro come maestro di Augusto: l’atticismo non fu un’operazione di vertice. La rigidità del sistema
retorico di Apollodoro non ha di per sé affinità alcuna con l’atticismo ed
è molto rischioso lavorare su supposte consonanze spirituali. E quindi più che giustificato esprimere scetticismo sulla ricerca di un fondatore e
non resta allora che tornare a vedere l’atticismo, nella prospettiva suggerita da un protagonista come Dionigi, in termini di volontà di rinascita culturale da parte di un folto gruppo di intellettuali greci e romani, in un contesto ambientale favorevole, e sotto l’effetto coagulante della lotta contro i metodi dei retori asiani. Resta invece aperto il discorso non sui fondatori ma sui materiali di cui la reazione atticista si è appropriata, ed in questo senso è da riconsiderare il brano contro Egesia del peripatetico Agatarchide (prima metà del II secolo a.C.) riportato da Fozio Bibl. cod. 250, 445 b 39 ss. Le sue critiche sono esplicitamente di ordine storiografico, e solo in subordine stilistico: da questo punto di vista, anzi, egli ammette che Egesia ha raggiunto il suo scopo (Fozio Bibl. 446 a 19 s.) e non si pronuncia sulla sua prosa manierata se non per rilevare che essa è inappropriata in un contesto drammatico come quello della distruzione di Tebe, che Egesia sta descrivendo.
Questa
critica parte a mio
avviso
dalla dottrina
di Teo-
frasto, di cui Dionigi (Lisia 14) attesta l'analogo biasimo per un passo di Lisia, dove il pathos è distrutto dalla troppa ricercatezza. Abbiamo quindi in Agatarchide un'interessante discussione della resa di un topos storiografico, condotta in termini teofrastei e non distante nella sua fina-
lità dalle critiche di Polibio contro Filarco (2.56.7 ss.). Il Peripato è stato sicuramente parte cospicua del bagaglio culturale dei critici di età augustea, ma sono stati loro ad orientare elementi critici elaborati in precedenza verso un'istanza stilistica che aveva le sue ragioni nel dibattito culturale del tempo e che in Aristotele, Teofrasto, Agatarchide non esisteva come tale. Anche la categoria aristotelica dello yuyg6v, che colpiva Gorgia ed Alcidamante (rher. 1405 b 35 ss.), diventa antiasiana, ciò che non era in origine, quando anche l’asianesimo fu inserito in una storia letteraria ‘in negativo’ che incluse, oltre a Gorgia, perfino Eschilo (costruzione che ritengo debba essere attribuita a Cecilio, cfr. infra la Bibliografia). IL MODELLO
DEMOSTENICO
Cicerone combatté con vigore l’identificazione dello stile attico con l’oratoria esile ed ancora acerba del V secolo, a favore dell’eloquenza matura e piena di Demostene, che precede immediatamente la decadenza. Non c’è dubbio che il fatto culturale più importante ed il maggior merito
di un Dionigi
o dell’Anonimo
del Sublime
fu l’aver condiviso
questo ideale, come fece anche Cecilio, la cui opera ruota tutta attorno a Demostene, il più citato nei frammenti, che egli confrontò, proprio nella sua veste di massimo oratore greco, con Cicerone. La felice scelta del modello è un frutto dell’atticismo destinato a durare fino a tutta l’età
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bizantina, e se anche per noi Demostene è l’oratore per eccellenza, siamo in ciò eredi di quella proposta antica. Ma nel momento in cui tale scelta fu fatta, essa non
era per niente ovvia
(anche
se ad Atene
lo
studio di Demostene era sempre proseguito, cfr. supra p. 232): ben lo dimostrano le ripetute synkriseis di Demostene con Isocrate, Tucidide, Platone (Dionigi), con Eschine e Cicerone (Cecilio), con Iperide (Sublime), cioè con i possibili modelli concorrenti che ebbero anch'essi la loro più limitata fortuna. La felice scelta di Demostene come modello principale dà a tutto il movimento classicista di età augustea un ampio respiro ed una vitalità che è rivelatrice della mentalità nient’affatto pedante e delle vaste ambizioni letterarie di chi l’ha compiuta. Essa significa un’opzione per la derv6mg, una oratoria forte che vuole incidere sulla realtà, ricca di emozioni e molto versatile, capace quindi di farsi prodotto letterario completo; un ideale in cui ogni età potrà travasare le proprie aspirazioni morali, civili, artistiche come non sarebbe stato possibile nei limiti del modello lisiano o della prosa compassata di Isocrate. Se a questo punto si torna alla distinzione di due classicismi fatta da Wilamowitz, quello produttivo dell’aemulatio (GnAog) e quello morto della uiunoıs, che sarebbe specifico della retorica di età augustea, si vede subito come essa sia inaccettabile: è proprio Dionigi, in un illuminante excursus nel Dinarco (7-8), a distinguere fra imitazione meccanica e lunga familiarità con il modello, fra l’inimitabile grazia degli originali e l’innaturale rigidità delle copie (e la sua perduta opera Sulla mimesis si apriva significativamente con le due distinte definizioni di piunows e CñAos). Sicuramente vi è sempre stato un “falso classicismo”: non però quello dei retori di età augustea, ma precisamente quello contro cui Dionigi, Cecilio, l’Anonimo del Sublime già combatterono. 5.3. Retori di età augustea DIONIGI DI ALICARNASSO
A Dionigi si è fatto riferimento più volte nei paragrafi precedenti: la sua personalità non è infatti separabile dall'ambiente romano in cui lavorò (dal 30 fino almeno al 7 a.C.) traendone materiali e stimoli per una riflessione già chiaramente orientata verso il classicismo ed il modello demostenico, ma ancora aperta e problematica. La saggistica che di lui ci è arrivata, opera minore rispetto sia alle Antichità romane cui egli affidò la sua fama, sia rispetto ai trattati di retorica (i soli noti a Quintiliano III 1.16, e IX 3.89), attesta, fuori da ogni ambizione di sistematicità (cfr. supra, p. 236) un metodo critico-letterario in formazione, alla confluenza tra retorica, grammatica e krisis dei testi, che non può essere valutato fuori di questa chiave. Va ascritto a merito degli studiosi di storia l’aver restituito a Dionigi una plausibile collocazione sociale e culturale (penso soprattutto ai contributi di Gabba e Bowersock, cfr. infra la Bibliografia, parr. 5.1. e 5.3) che subentra, con ben altro spessore e produttività, alla figura del graeculus meschino e poco intelligente lasciataci in eredità da una filologia tanto prestigiosa, quanto incline al pregiu-
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dizio. In questa mutata prospettiva il retore Dionigi non è più l’epigono senza personalità propria, ma si ricongiunge in unità allo storico e all’intellettuale: da qui può ripartire una rilettura degli scritti che ne riscopra l'occasione, i metodi ed i materiali. Al centro dei suoi interessi vi è la fisionomia stilistica dell’autore antico, il suo xapaxtrje, che è per Dionigi premessa della mimesis e della creatività dei moderni: egli ne fa perciò l’oggetto di una verifica continua, attraverso il confronto (Demostene con Tucidide, con Lisia, con
Isocrate o Platone), la scomposizione del testo secondo categorie oggettive (scelta delle parole, sintassi, ritmo, disposizione degli argomenti ecc.) e l'apporto di strumenti d’indagine diversi, come la biografia o lo studio dell’autenticità delle opere. La varietà dei punti di vista è evidente già in una delle prime opere come il Lisia, e consentirà a Dionigi di intraprendere ricerche nuove e difficili come quella sulla oév@eors övonätwv: anche qui, in modo caratteristico, retorica, grammatica, ritmica si integrano nello sforzo di definire, a partire dal singolo fonema su fino ad un intero passo di Omero o Demostene, il meccanismo che consente ai suoni di trasformarsi in emozioni, il punto di contatto tra forma e contenuto ed infine tra autore ed “ascoltatore”. E qui come negli altri scritti di Dionigi dominano le lunghe citazioni di testi antichi, attraverso le quali il patrimonio letterario greco irrompe entro la retorica, dilatandone gli interessi verso quella che noi chiameremmo critica letteraria. Non succederà più di trovare in un testo di retorica un’intera ode di Saffo, come fanno Dionigi (II. ovvd. ôvou. 23) e il Sublime (10.2). Nel loro molteplice significato di strumento di verifica, proposta di imitazione e oggetto di godimento estetico, sono proprio queste ampie citazioni a rivelarci il critico intelligente che lavorò in un centro ricco di libri e di risorse. CECILIO DI CALATTE
Dobbiamo rimpiangere come particolarmente grave la perdita di questo critico, collega più giovane di Dionigi (ep. ad Pomp. 3), di origine servile e di fede giudaica, che Plutarco criticherà per il suo eccessivo anticonformismo (V. Demost. 3). Ritroviamo nei suoi frammenti le caratteristiche tipiche della retorica di età augustea, ma con una tendenza più spiccata di quanto abbiamo visto in Dionigi all’innovazione, alla sistematicità ed alla combinazione di materiali diversi. Suo fu il trattato Sulle figure più influente, grazie alla completezza delle liste e alla ricchezza degli esempi, rinnovati in senso classicista e con una predilezione per Demostene; e nello scritto sul yagaxme dei dieci oratori (prima attestazione del cosiddetto “canone”) egli ampliava la base testuale della mimesis rispetto alla scelta dionisiana di sei oratori (Ant. or. praef. 4), inserendo materiale documentario nuovo (come i decreti attici, fr. 102 Of.) e discussioni biografiche (fr. 126-126a Of., su Eschine) o filologiche (fr. 136, contro Dionigi), oppure sfruttando la dottrina delle figure per una valutazione storica di uno stile arcaico (fr. 103, su Antifonte). La synkrisis, strumento privilegiato della critica anche in Dionigi, sceglie
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strade inedite come il confronto tra lingue diverse (Demostene/Cicerone) o reinterpreta in chiave stilistica opposizioni storiche reali (quella fra Demostene ed Eschine nel processo Sulla corona, o fra Platone e Lisia nel Fedro). Ma dal nostro punto di vista la notorietà maggiore è venuta a Cecilio da un’operetta minore, il IIsgi üyous cui polemicamente risponde il Sublime a noi arrivato: anche in questo caso è da registrare la felice individuazione di una categoria stilistica che non esiste come tale in Dionigi ed è rivelatrice di un’interessante evoluzione del gusto verso lo stile elevato, una iniziativa di Cecilio di cui l’Anonimo è pronto a riconoscergli il merito (Subl. 1.2). La polemica fra i due deve essere recuperata, fuori dalla sterile opposizione fra un critico geniale ed un retore ottuso cui si è voluto ridurla (in particolare da parte di Mutschmann e Rostagni, ma è impostazione diffusa), come testimonianza della vivace riflessione sullo stile di questa età: senza mai perdere di vista, accanto alla splendida replica a noi pervenuta, il critico dotto ed acuto che seppe provocarla. L’ANONIMO DEL SUBLIME
La discussione di questo famoso opuscolo nel contesto della retorica di età augustea non presume sicurezza sulla sua datazione (che una somma di indizi consente comunque di porre nel I secolo d.C.), ma vuole sottolinearne i legami, sul piano della terminologia, della scelta dell’argomento, dei metodi, con Dionigi e con Cecilio. Il Sublime non ci è arrivato per una sua particolare qualità, ma probabilmente in grazia soprattutto del suo destinatario romano, nella cui famiglia l’operetta è sopravvissuta (la suggestiva ipotesi in Bowersock, p. 71), e niente può essere più arbitrario che negarne o ignorarne l'appartenenza ad una specifica tradizione retorica (operazione che passa anche attraverso traduzioni suggestive ma imprecise dei termini tecnici). Questo d’altra parte non autorizza a leggere nella polemica fra l’Anonimo e Cecilio l’eco della controversia di tutt'altra natura fra la scuola di Apollodoro di Pergamo e di Teodoro di Gadara (influenti maestri rispettivamente di Augusto e Tiberio), uno spunto infelice che si fonda esclusivamente su una interpretazione estremamente forzata di Quintil. IX 1.12 e Sublime 3.5 che risale a Wilamowitz. La drammatizzazione del conflitto fra le due scuole, cui contribuirono, con generalizzazioni via via più rischiose, Schanz, Mutschmann e Rostagni, costituisce una delle pagine più tendenziose ed immetodiche degli studi di retorica antica (e a livello divulgativo il teodorismo del Sublime è ancora una certezza). Alla tendenza ad appiattire il Sublime su di un’eccellenza sterile e senza storia, o ad iscriverlo in grandi conflitti spirituali tutti da verificare, bisogna contrapporre un'indagine sul suo retroterra culturale, recuperandone il margine di originalità insieme allo spessore, non meno interessante, di tradizione (strumenti di lavoro da questo punto di vista sono il commento di Russell e le analisi di Biihler). Tutta l’operetta è percorsa da un discreto ma evidente tessuto precettistico, come mostrano la cura nelle definizioni, nelle classificazioni e nei passaggi da una
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sezione all’altra, e la messa in guardia contro gli errori (ad esempio, 3.15, e 29.1), o sulle differenze tra poesia e prosa (3.1, 15.2, 15.8, 30.2).
Rispetto all'approccio molto teorico di Cecilio, l’Anonimo si dimostra
più retore e maestro (e lo dice egli stesso, 1.1): lo hypsos è per lui soprattutto un ideale da riprodurre, inserendosi idealmente nella successione di grandi autori che già lo hanno realizzato. Perciò le grandi aspirazioni come quella alla fama presso i posteri (14.3), all’immenso e al divino (35.2), ad una elevata coscienza morale (44.8), danno le coordinate ideologiche di un'attività letteraria che deve però avere validità sul piano tecnico: lo slancio non è mai romantico, ed ogni improvvisazione poco amata. L’Anonimo preferisce sì la grandezza di Sofocle, pur non esente da qualche difetto, alla corretta mediocrità di Ione di Chio (33.5), ma predilige anche il faticoso impegno di Euripide, privo di un naturale talento per il sublime, all’irruenza indisciplinata di Eschilo (15.3, 15.5-6) ed è in questo (come anche Quintil. X 1.66) già più severamente censorio di Dionigi (de imit. fr. VI.2). Egli condivide dunque l’ideale di tutta l’antica retorica: originalità nel solco di una tradizione ammirata e venerata, creazione sempre attenta ai mezzi tecnici impiegati. À guidare il cammino verso lo hypsos vi sono le tantissime citazioni dai grandi poeti, storici, oratori del passato, minutamente descritte o addensate l’una sull’altra o infine proposte in brevi intensi flash, che conferiscono all’operetta un ritmo impareggiabile. Molto di questo materiale è convenzionale, ma la combinazione è unica: riscoprirne la storia significa ritrovare non solo l’eccellenza di un’opera, ma di tutta una ricca tradizione. 6. L’età imperiale 6.1. Premessa
Fra gli autori dei primi due secoli della nostra era a noi arrivati pochi interessano una storia dell’oratoria greca: troviamo Dione di Prusa (40/50-post 112) nel I secolo, nel II Luciano (115/125-post 180) ed Elio Aristide (117-post 181). Ma di questi nessuno è veramente tipico di quel circuito di oratoria militante che caratterizza l’età dai Flavi agli Antonini, e di cui solo possiamo ritrovare memoria nelle Vite dei Sofisti di Filostrato (della prima metà del III secolo, abbreviato VS). Dalle Vite proviene anche la denominazione di “seconda sofistica”, orgogliosa rivendicazione dell’importanza di un movimento che rinnova a secoli di distanza i fasti della “prima” sofistica (quella di Gorgia, Ippia ecc.). Dione compare in questa rassegna fra i «filosofi che ebbero fama di sofisti», distinti come tali dai sofisti veri e propri (VS I 492); lo stesso vale per Favorino (c. 80-150) di cui ci è arrivato fortunosamente qualche scritto (a lui vanno attribuite le orazioni 37 e 64 del corpus dioneo, e larga parte del suo Ileoì guys è stata ritrovata su un papiro). Luciano non compare affatto, mentre di Aristide è ripetutamente sottolineato l’anomalo rifiuto dell’improvvisazione, che era il cuore dell’arte sofistica. Dei due grandi personaggi che dominano la rassegna filostratea, Polemone (c. 88-144) ed
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Erode Attico (101-177/9), ci è arrivata invece appena qualche pagina nell'antologia di declamazioni antiche e “moderne” conservata in un famoso codice del British Museum (Crippsianus A: ma nel caso del IIeoi moàitetas di Erode l’attribuzione è contestata). Esiste dunque un vistoso sfasamento tra l’immagine di questa letteratura che viene fuori dalla peculiare scelta della nostra tradizione (per di più ulteriormente sbilanciata verso il polo filosofico ed erudito dalla presenza dell’enorme corpus plutarcheo) ed il quadro brillante di Filostrato, popolato di grandi personaggi con posti prestigiosi nella società e nella politica dell’impero, la cui principale espressione letteraria è la meléte (cfr. supra, p. 228). L’unilateralità della nostra tradizione non autorizza però a mettere in dubbio la realtà del fenomeno descritto da Filostrato, ma deve anzi indurre a correggere una visione che rischierebbe altrimenti di essere infedele. Ancora una volta, come già abbiamo visto per l’età ellenistica, siamo in grado di riscoprire, al di là del naufragio dei testi, la continuità di una prassi oratoria che percorre la cultura e la società greca con ininterrotto prestigio. DIONE
Le grandi orazioni pronunciate nell’arco di quarant'anni da Dione di Prusa (in Bitinia) sono una preziosa eccezione nel panorama letterario:
esse sole consentono di ‘riascoltare’ un’eloquenza destinata a grandi uditorii, come le assemblee cittadine (or. 31), il popolo riunito nei teatri (orr. 32-34), la panégyris di Olimpia (or. 12, del 97 d.C.) o di farsi un’idea concreta dell’oratoria politica, legata alle rivalità tra città vicine ed alle tensioni locali (orr. 38-51). Dione si colloca quindi nella tradizione antica di una oratoria civilmente impegnata: il filo ideologico è dato dalla proposta di ôuévora, la concordia politica in cui si riflette (secondo una concezione di tipo stoico) l'armonia cosmica. Questa integrazione di Dione come uomo di cultura nell’impero romano è giustamente il perno su cui, sia pure con metodi ed esiti diversi, poggiano le due monografie che hanno rinnovato gli studi su questo autore (Jones 1978 e Desideri,
cfr. infra la Bibliografia). In questa sede mi preme soprattutto sottolineare, sul versante letterario, l’esigenza di rimeditare il “sofistico” dioneo, che nel ponderoso studio del von Arnim del 1898 compariva solo come limite negativo. Si tratta cioè di arrivare a definire questa tecnica oratoria non per sottrazione, interpretandola come il residuo non filosofico della cultura dionea, ma in positivo come linguaggio d’arte fondato su una opzione di stile semplice, piacevolmente incline alle digressioni, ancorato a precisi modelli (Platone, Senofonte ed i socratici in primo luogo) e suscettibile a sua volta di esemplarità (Filostrato conosce come tipico lo stile dioneo, cfr. VS I 492, 539 e soprattutto II 620). 6.2. La seconda sofistica
Nella sua rassegna Filostrato concentra l’attenzione sul sofista come grande personaggio pubblico: il virtuosismo oratorio non interessa in
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quanto fatto di competenza tecnica (è da ricordare a questo proposito la differenza tra sophistés e rhétor), ma nella sua dimensione spettacolare, come fonte di successo e popolarità. Questo costituisce a sua volta il presupposto di immunità, privilegi di ogni genere, e soprattutto di cariche culturali e politiche che portano il sofista ai livelli più alti dell’amministrazione imperiale, e non di rado ad una familiarità diretta con il princeps. Vista con gli occhi di Filostrato la sofistica è dunque un aspetto della storia sociale dell'impero e recuperando questa prospettiva, integrata con tutta la documentazione di cui la moderna ricerca storica può disporre, il Bowersock ha potuto tracciare magistralmente il quadro di questo movimento. Ciò che soprattutto emerge è la continua e facile convertibilità fra prestigio culturale e ruolo politico, ed in questo senso ritengo che lo studio del Bowersock costringa a rimeditare anche la valutazione stilistico-letteraria della sofistica. Una serie di studi tedeschi dell’ultimo ventennio del secolo scorso ha infatti proposto un'immagine del fenomeno in cui il risvolto storico-sociale (e quindi, in sostanza, il quadro filostrateo) compare solo come marginale nota di colore, mentre tutto è ricondotto alle grandi contrapposizioni linguistiche ed ideologiche che già conosciamo: asianesimo ed atticismo, lingua viva e lingua morta, stile moderno ed antico. Nel corso di una lunga e celebre querelle da Rohde a Wilamowitz i sofisti sono stati di volta in volta classificati come atticisti, o (neo)asiani, o un misto delle due cose, divisi in moderati ed estremisti,
ma in fondo la prospettiva non cambiava ed il giudizio finale su questa letteratura era sempre lo stesso: un «piacevole passatempo» di letterati frivoli che si trastullano con una lingua di sei secoli prima ormai comprensibile solo a loro, tagliati fuori dalla vera vita del loro tempo che tradiscono per rifugiarsi negli scenari irreali della meléte, ambientata nell’Atene del V e IV secolo. Ignari delle nuove forze emergenti nella storia, come il cristianesimo e la pressione dei barbari ai confini dell’impero, questi intellettuali ripudiano perfino la lingua della gente (Volkssprache), unico possibile strumento di una «letteratura nazionale veramente viva» (Schmid, Atticismus I Praef. p. VI). Ci troviamo dunque di fronte a due visioni inconciliabili: da una parte la rigorosa ricostruzione storica di Bowersock restituisce una figura di intellettuale di successo, ben integrato nelle strutture del proprio tempo, sullo sfondo di una fase di grande prosperità, coesione interna dell’impero ed equilibrio fra la capitale e le province, dall’altra vengono delineati invece i rappresentanti di una società che si illude, perdendosi in un sottile gioco di irrealtà ed alienazione mentre è già nella morsa della decadenza. Ma va detto subito che i fondamenti linguistici di quest’ultima impostazione sono inaccettabili: il concetto romantico di Volkssprache non è infatti rapportabile alle categorie antiche (dobbiamo intenderlo come lingua scritta o parlata? lingua d’uso o lingua d’arte? la conversazione di una persona colta o di un ignorante?) e gli indicatori linguistici prescelti (come la percentuale di ottativi) del tutto inadeguati. Quanto poi all’equazione fra asianesimo e lingua viva, atticismo e lingua morta, abbiamo già visto che essa è priva di fondamento. Una plausibile inter-
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pretazione letteraria del movimento descritto da Filostrato dovrà invece organicamente collegarsi al complesso di dati storici, geografici e politici della ricostruzione di Bowersock. Il sofista si muove in un mondo di intense e dinamiche relazioni: lo splendore di città come Smirne ed Efeso non è in opposizione provinciale a Roma, ma in costante collegamento con essa, e la presenza di espliciti riferimenti alla capitale dell’impero (come avviene ad esempio nel discorso A Roma di Elio Aristide) è secondaria rispetto ad una realtà ovvia di continuo interscambio. Vista su questo sfondo la meléte, la conferenza-spettacolo del sofista che con i suoi temi convenzionali è alla portata dell’applauso di uditori di ogni parte dell’impero, non sarà più da interpretare come segno di distacco dalla realtà, ma come mezzo per l’elaborazione di uno stile oratorio di successo secondo standard di gusto unificati: è anche attraverso il prestigio dei sofisti che la società antica scopre le possibilità di una comunicazione di massa che coinvolge in uno stesso circuito popolo, principi ed intellettuali, la capitale dell'impero e le singole municipalità. Questa è, nonostante tutto, un’oratoria in scala con la nuova grande oikouméne che si viene formando. LUCIANO
La definizione di Luciano come sofista è nell’uso corrente, ma la sua carriera e le forme della sua attività letteraria sono da questo punto di vista decisamente atipiche. Sia gli esordi come avvocato ad Antiochia che la combinazione di dialogo filosofico e commedia, cui si dedicò nella maturità, implicano una performance diversa dalla meléte improvvisata del sofista di grido: in particolare, nel caso del dialogo, si trattava di una recita-lettura frutto di un talento più incline a quelli che Filostrato avrebbe chiamato phrontismata, composizioni preparate per iscritto. L’originale architettura delle operette di Luciano, la nitidissima sintassi che dissimula in un effetto di semplicità un lessico insospettabilmente ricco, sono il risultato di una tecnica consumata in cui cultura retorica, lettura dei classici, e un sofisticato gioco di variatio si sedimentano con cura non improvvisata. La valutazione di questa tecnica da parte degli studiosi ha conosciuto oscillazioni vistose, perché Luciano è un autore che scatena antipatie o simpatie: dall’ipotesi di un saccheggio sistematico di fonti precedenti (in particolare il cinico Menippo di Gadara del III secolo a.C.), con cui Luciano avrebbe colmato il vuoto di ispirazione, si è passati a quella di un raffinato gioco di l'art pour l'art, infinita serie di variazioni, combinazioni, trasposizioni di un materiale in fondo irrilevante imprestato dalla retorica, che Luciano avrebbe in tal modo sublimato in un atto creativo. Ma, come più realisticamente hanno dimostrato studi recenti (e da ultimo il bel volume
di C.P. Jones,
1986), anche questo
codice espressivo è in funzione di un messaggio, e la società contemporanea affiora continuamente nell’ironia mirata e tagliente di un osservatore che la frequentò tutta la vita, a contatto, anche se non alla pari, con i suoi più illustri protagonisti.
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
ARISTIDE
Con Aristide siamo sicuri di trovarci di fronte ad un grande dell’oratoria del II secolo, allievo dei più prestigiosi maestri del tempo, Erode Attico e Aristocle di Pergamo, e del grammatico Alessandro di Cotieo che fu chiamato a Roma per provvedere all’educazione del futuro imperatore, Marco Aurelio. Sicuramente Aristide fu uno studente d’eccezione, ma in lui possiamo anche misurare gli elevati standard raggiunti dall’insegnamento retorico. La radicale diversità di scelte espressive sia rispetto ad un contemporaneo come Luciano, sia fra opera e opera dello stesso corpus aristideo, mostra anche quanto grande fosse il margine di iniziativa personale nel quadro delle convenzioni retoriche e compositive pur da tutti condivise. Aristide rifiutò esplicitamente l’improvvisazione sofistica, e dunque neppure la sua opera riesce ad essere tipica del più importante movimento oratorio del suo tempo (questa è un’avvertenza per noi), ma Filostrato lo accoglie comunque fra i grandi sofisti, sottolineando come egli riuscisse a compensare quel talento che gli mancava con una straordinaria capacità di elaborazione formale ed una meticolosa imitazione degli antichi. Questa akrfbeia è tanto reale che solo Aristide rispetta la legge ritmica di Demostene (cioè la decisa tendenza ad evitare la successione di più di due sillabe brevi) scoperta dal Blass, ma mai esplicitamente individuata dagli antichi: egli vi si adegua per una istintiva consonanza con un modello assiduamente studiato. Anche lo studio di Pernot sulle due melétai dal titolo Siciliane (orazioni 5-6 LenzBehr) conferma puntualmente l'immersione totale nei classici, una qualità che i contemporanei avvertivano con molta più facilità di noi, e che spiega la paziente attesa di un Marco Aurelio per udire Aristide declamare. Ma tutto ciò, sia permesso aggiungere, è frutto di una scelta di alta cultura e non fa parte di un “sogno” greco, in cui la frequentazione assidua del passato avrebbe assolto ad un ruolo compensatorio e consolatorio rispetto alla soggezione politica a Roma: l’exploit letterario narrato da Filostrato (VS II 583) accomuna Aristide e l’imperatore-spettatore fuori da ogni anche latente conflittualità. 6.3. La tecnografia di età imperiale
Per comprendere il carattere della trattatistica retorica di questo periodo bisogna tener conto della nuova funzione sociale che il maestro di retorica si trova ad assumere. La sua attività è ufficialmente riconosciuta (cfr. supra, p. 234) e fornisce una capacità professionale con prospettive concrete di fama e successo (significativo Luciano, Somnium 9 ss.). Perciò mai vi fu tanta richiesta di insegnamento retorico, mai tanti maestri e tanti allievi. La lunga e ininterrotta tradizione di studi che la techne aveva dietro di sé si innesta su questo meccanismo di diffusione e di adeguamento ad esigenze istituzionali determinando un bisogno di materiali predisposti per un regolare cursus di insegnamento, e spingendo verso l’assestamento terminologico e normativo. E molto probabile che maestri di particolare prestigio, come i titolari delle cattedre di retorica di Atene e di Roma, abbiano svolto un ruolo importante nel fissare standard di
L’oratoria, la retorica e la critica letteraria
249
insegnamento: vorremmo ad esempio sapere di più dell’attività di un Lolliano di Efeso (metà del II secolo, cfr. Filostrato VS I 526 s.), rhetor ad Atene e autore di trattati ancora circolanti in età bizantina. Abbiamo per fortuna, ed è un’acquisizione fondamentale anche per la retorica greca, la Institutio oratoria di Quintiliano, titolare della cattedra di retorica (latina) a Roma: essa ci presenta quel ciclo di istruzione completo entro il quale possiamo idealmente reinserire il poco che ci è arrivato in lingua greca, gli Esercizi preparatori (progymnäsmata), le Technai, i trattati Sulle figure e Sui tropi, spesso di incerta datazione, che coprono segmenti parziali di quel processo di apprendimento. A differenza di quel che spesso accade nel caso di Quintiliano, non possiamo tuttavia leggere queste opere come attestazioni anche di critica letteraria; si tratta infatti in larga misura dell’esito finale di una produzione di scuola, depauperata in un lungo processo di riscritture e semplificazioni. Inoltre non poco di questo materiale ci è arrivato sotto forma di riassunti: è il caso dell’importante trattato Sulle figure di Alessandro di Numenio (metà del II sec.) e della preziosa discussione sulle parti del discorso conservata dal cosiddetto Anonimo Segueriano. Cosicché quello che abbiamo è appena lo schema su cui poi si inseriva, con ben altra vivacità e problematicità, la lezione di un maestro di talento. ERMOGENE
L’unica opera integrale e di ampio respiro che ci consente di cogliere il livello raggiunto dalla tecnografia di età imperiale è quell’insieme coordinato di trattati attribuiti ad Ermogene di Tarso (161-c. 240), cioè Progymnasmata,
Sulle staseis, Sull’invenzione,
Sulle idee che costituiro-
no, nei secoli seguenti, un punto di riferimento canonico, «il manuale fra le mani di tutti» (Suida). Non esistono dubbi sull’autenticità almeno dei trattati Sulle staseis e Sulle idee, rigorosa sistemazione scientifica (Ermogene usa significativamente il termine epistéme) delle due parti fondamentali dell’insegnamento retorico, inventio ed elocutio. In Ermogene la finalizzazione alla prassi declamatoria è esplicita: possiamo veramente leggerlo come il complemento, sul piano speculativo, di una oratoria raffinata in cui si combinavano ferree convenzioni, innovazione e arte della variatio. Era un equilibrio difficile da mantenere ed Ermogene propone la sua dottrina come ispirazione e guida per il futuro declamatore, ma anche come argine contro l’esibizionismo ad effetto e le degenerazioni della sofistica contemporanea (si veda la polemica contro la falsa dein6tes in Idee II 9, p. 377 Rabe). Quel che caratterizza la “scienza” dello stile come insegnata da Ermogene è il duplice meccanismo della astrazione e della combinazione. Nella forma (idéa) Ermogene vede una potenzialità stilistica che è gerarchicamente superiore e distinta dalle sue singole realizzazioni: le ‘idee’ di Chiarezza, Grandiosità, Bellezza ecc., una volta definite con la massima precisione, possono essere ricreate dall’oratore seguendo il metodo
specificato per ciascuna di esse, secondo tappe successive (contenuto, lessico, figure di parola e di pensiero, cola e ritmo). Ermogene riassorbe
250
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
così in un'articolazione della materia completamente diversa le distinzioni tradizionali nei tre stili dell’elocurio (grande, tenue, intermedio) o nelle aretai del discorso, distinzioni che nel suo trattato non sono più operative: e sostituisce una rete di riferimento il cui intento è di coprire tutte le possibilità. È subito evidente la grande distanza concettuale rispetto alla ricerca stilistica di Dionigi (ed Ermogene ne è ben consapevole: «per non dar sempre contro a Dionigi, che sullo stile ha scritto con qualche risultato», /dee I 12, p. 311.8 R.) che prendeva forma proprio sulla lettura di un testo con realtà storica e filologica e non arrivava mai ad un sistema chiuso ed esaustivo. Ermogene afferma esplicitamente (e con una venatura polemica evidente) di non voler parlare di Demostene, ma di forme stilistiche nella loro
essenza (aùtò Exaotov xaŸ’aët6, Idee I 1, p.215.3R.)eciò puressendoegli stesso un grandissimo ammiratore di Demostene e quindi conscio di una circolarità: per cui l’antico oratore è eccellente in quanto si adegua ad una “forma” ideale, la quale a sua volta è realizzata al meglio da Demostene (/dee II 10, p. 381.2 ss. R.). Il significato della distinzione è sul piano logico. Questa dottrina dello stile viene così a sancire un distacco della retorica rispetto sia alla grammatiké, cioè la filologia e l’esegesi dei testi, che rispetto al metodo sincritico (per cui la qualità di un autore risulta dal confronto con un altro: il metodo dominante in Dionigi). Alla proposta del corpus dell’oratoria attica e di un optimum stilistico che scaturisce dalla lettura continua dei testi (Dionigi), subentra una visione parcellizzata delle qualità dello stile, appunto le idéai di Chiarezza, Grandiosità ecc. che possono realizzarsi compiutamente anche in segmenti brevissimi di testo, sia di prosa che di
poesia. Perciò non servono più, e non le ritroviamo in Ermogene, estese citazioni d’autore. L’astrazione consente di individuare gli elementi primi (stoicheia) e quindi di passare alla combinazione (mixis) di forme stilistiche. La deinétes, il vertice dell’arte oratoria, significa appunto la capacità di usare tutte le forme e si risolve in una digiorm più:s. Con esito speculativo e
pratico di sorprendente modernità Ermogene fa della retorica un’arte combinatoria, e qui cogliamo un totale cambio di prospettiva rispetto alla tradizione delle aretai. La rubricazione dei fenomeni stilistici sotto le sette idee fondamentali (più quelle subordinate), il postulato della risoluzione senza residui del testo nelle idéai, il fatto che queste come griglia di riferimento siano sovraordinate alle singole creazioni letterarie, fa pensare che Ermogene per le sue idéai si sia ispirato piuttosto alla tecnica dei topoi: egli può così sostituire alla empiria dell’insegnamento tradizionale (la Euretgia yuan e la &\oyos terBi contestate proprio all’inizio dell’opera, p. 213.15 R.) una conoscenza scientifica (&riotiun xal yvoors, p. 214.4) che guida l’oratore con sicurezza nelle sue scelte, anche se poco provvisto di talento naturale. Questo modo di concepire l’atto compositivo come applicazione di elementi combinati è perfettamente analogo al sistema delle staseis ermogeniane, che offrono appunto liste di topoi previsti in combinazione.
Ermogene scrive i suoi trattati due secoli dopo Dionigi e quattro secoli dopo Ermagora: una lunga tradizione preme dietro di lui, e più di
L'oratoria, la retorica e la critica letteraria
251
una volta possiamo trovarne l’eco fra le righe della sua scrittura pur così rigorosa e asettica. Ma si comprende poco di quest’autore facendone un epigono: egli segna al contrario un momento di innovazione, e funge da cerniera con la tradizione degli studi retorici successivi. La storia ha sancito questo ruolo, e il testo di Ermogene si prolungherà, attraverso una ininterrotta opera di esegesi, in un millennio di retorica bizantina. Bibliografia Mi limito qui ad alcune segnalazioni essenziali, che privilegiano ove possibile i lavori più recenti e, in coerenza con l’impostazione data al testo, quelli di taglio storico-letterario. Questa appendice vuole soprattutto costituire un complemento alle questioni discusse nel corso dei singoli paragrafi: i lavori qui indicati forniscono comunque a loro volta una ulteriore ampia bibliografia specialistica. Retorica
Opere generali: fondamentali per la storia della retorica greca e romana i tre volumi coordinati di G. Kennedy, The Art of Persuasion in Greece (dalle origini all’ellenismo; abbrev. APG); The Art of Rhetoric in the Roman World 300 B.C.-
A.D. 300 (abbrev. ARRW); Greek Rhetoric under Christian Emperors, pubblicati a Princeton (1963, 1972, 1983): classica esposizione per autori, molto ampia e chiara con ricco apparato bibliografico. Del tutto inadeguati invece gli excursus disponibili in lingua italiana: B. Riposati, Problemi di retorica antica, in AA.VV., Introduzione alla filologia classica, Milano 1951, pp. 657 ss. (soprattutto carente nella parte storica) e A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milano 1961 (rist. Bari 1988). Una descrizione del sistema retorico antico in J. Martin, Antike Rhetorik. Technik und Methode, München 1974, che eredita dalla precedente classica esposizione di R. Volkmann (Leipzig 1885) il taglio sincronico. Per rin-
tracciare alcune attestazioni dei termini tecnici ancora indispensabile il vetusto Lexicon technologiae Graecorum rhetoricae di J.C.T. Ernesti, Lipsiae 1795 (rist.
Hildesheim 1962); un prontuario terminologico e normativo allargato anche al Medioevo e all’età moderna in H. Lausberg, Elementi di retorica, trad. it. di L. Ritter Santini, Bologna
1969 (la versione più completa in due voll. solo nell’ed.
tedesca, Miinchen 1960). Uno studio eccellente su di un settore difficile e molto importante
è L. Pernot,
Lieu
et lieu commun
dans
la rhétorique
antique,
in
“Bull. Ass. G. Budé”, 3, 1986, pp. 253 ss. Sulla retorica e l’organizzazione scolastica: D.L. Clark, Rhetoric in Graeco-roman Education, New York 1957. Edizioni: una raccolta dei testi prebizantini, ordinata per generi, in Rhetores Graeci, ed. L. Spengel, 3 voll., Lipsiae 1853 (il vol. I rivisto da C. Hammer, Lipsiae 1894); è disponibile una ristampa (Frankfurt 1966). Per le edizioni dei singoli autori cfr. infra. Sta uscendo una riedizione con trad. inglese e commento dei Progymnasmata (pubblicato il vol. I The Chreia in Ancient Rhetoric, a cura
di R.F. Hock, E.N. O’Neil, Atlanta 1986). Una antologia di testi in trad. inglese a cura di T.W. Benson, M.H. Prosser, Readings in Classical Rhetoric, Bloomington 1972. Oratoria
Opere generali: tuttora fondamentale F. Blass, Die attische Beredsamkeit, 4 voll., Leipzig 1887-1898, una impostazione “descrittiva” ad alto livello in splen-
252
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
dida e produttiva simbiosi con la critica stilistica antica; più ambiziosa ed ideologica, e perciò da leggere con cautela, la celebre Antike Kunstprosa di E. Norden, Leipzig 1898, 1915°, ora disponibile nella trad. it. di B. Heinemann Campana (La prosa d'arte antica, 2 voll., Roma 1986, con ampia Nota di aggiornamento di G. Calboli nel vol. II, pp. 971 ss.) da cui cito. Utile per i dati ma decisamente scolastica G. Barabino, L'eloquenza greca, in AA.VV., Introduzione allo studio
della cultura classica, Milano
1972, pp. 513 ss. Non ho potuto consultare R.
Weil, L. Pernot, L'éloquence et la rhétorique grecques, in Actes XI Congr. G. Bude, Paris 1985, | pp. 13 ss.
Ass.
Edizioni: oltre alle edizioni dei singoli autori, ancora prezioso per i minori e gli scolii J.G. Baiter, H. Sauppe, Oratores Attici, 2 voll., Zürich 1838-50. Molto utile Minor Greek Orators nella Loeb Class. Libr., ed. K.J. Maidment, J.O. Burtt, 2 voll., Cambridge (Mass.) 1941-54, con ristampe. È stata inaugurata una nuova
collana con trad. inglese e commento (Greek Orators: uscito il vol. I Antiphon and Lysias, a cura
di M. Edwards e S. Usher, Warminster 1985).
Critica letteraria
I manuali disponibili sono in lingua inglese: J.W.H. Atkins, Literary Criticism in Antiquity, 2 voll., Cambridge 1934 (rist. London 1952); G.M.A. Grube, The Greek
and
Roman
Critics,
London
1968;
più
moderno
ed
impostato
per
problemi D.A. Russell, Criticism in Antiquity, Berkeley and Los Angeles 1981. Un'ampia antologia di testi in trad. inglese a cura di D.A. Russell, M. Winterbottom, Ancient Literary Criticism. The Principal Texts in New Translation, Oxford 1972.
Da segnalare in generale per tutti gli autori menzionati nel corso del testo le nitide schede bio-bibliografiche in appendice alla recente edizione della Cambridge History of Classical Literature, vol. I, Greek Literature, Cambridge 1985.
1. Le origini Le testimonianze ed i frr. della techne prearistotelica in L. Radermacher, Ar-
tium scriptores, Wien 1951. Sulle origini fondamentale per una veduta d’insieme il bel saggio di O. Navarre, Essai sur la rhétorique grecque avant Aristote, Paris 1900, cui si aggiunga Kennedy, APG, pp. 52 ss. I dettagli tecnico-ricostruttivi in P. Hamberger, Die rednerische Disposition in der alten Techne Rhetorike, Paderborn 1914. Citati nel corso del paragrafo anche D.A.G. Hinks, Tisias and Corax and the Invention of Rhetoric, in “Class. Quart.”, 34, 1940, pp. 61 ss.; K. Barwick, Die Gliederung der rhetorischen Techne, in “Hermes”,
57, 1922, pp. 1 ss.,
in ptc. 11 ss.; T. Cole, Le origini della retorica, in “Quad. Urb. Cult. Class.”, n.s., 23, 1986, pp. 7 ss. Molto discussa la questione dello stile gorgiano: un am-
pio ed approfondito ragguaglio in Calboli, Nota di aggiornamento, cit., pp. 998 ss. L'ipotesi (di H. Diels) della dipendenza stilistica da Empedocle è discussa in
Norden vol. I, p. 27.
2. L’oratoria attica
2.1. Per gli aspetti legali ottimo A.R.W. Harrison, The Law of Athens, 2 voll., Oxford 1968, 1971; sul processo spunti suggestivi in S. Humphreys, The Evolution of Legal Process in Ancient Attica, in Tria Corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como 1983, pp. 229 ss. Per gli aspetti letterari dell’oratoria attica Kennedy, APG, pp. 125 ss. (in forma più breve al c. 16 della cit. Cambridge
L’oratoria, la retorica e la critica letteraria
253
History of Classical Literature, vol. I, pp. 498 ss.). Con attenzione ai problemi filologici e al profilo istituzionale cfr. L. Canfora, Gli oratori attici, in AA.VV., Storia e civiltà dei Greci, III. 5, Milano 1979, pp. 326 ss. 2.2. Su Lisia logografo eccellente M. Lavency, Aspects de la logographie judiciaire attique, Louvain 1964; molto stimolante sugli aspetti filologici K.]. Dover, Lysias and the Corpus Lysiacum, Berkeley 1968.
2.3. Un’ampia ed aggiornata discussione della cultura di Isocrate in Ch. Eucken, Isokrates, Berlin-New York 1983, con ricca bibliografia. Sulla natura spuria della Techne K. Barwick, Das Problem der Isokrateischen Techne, in “Philologus”, 107, 1963, pp. 43 ss. ristampato nell’utile vol. Zsokrates della serie “Wege der Forschung” (a cura di F. Seck, Darmstadt 1976) dove si potrà anche trovare W. Steidle, Redekunst und Bildung bei Isokrates, in “Hermes”, 80, 1952, pp. 257 ss. Una utile rassegna di studi su Isocrate è stata curata da U. Albini, in “Atene e Roma”, 6, 1961, pp.
193 ss.
2.4. Una discussione sul quadro istituzionale in cui operava il rhetor in L. Spina, 1! cittadino alla tribuna, Napoli 1986; per il funzionamento dell’ekklesia importanti i contributi di M.H. Hansen, in “Gr. Rom. Byz. St.”, 17, 1976, pp. 115 ss.; 25, 1984, pp. 123 ss. (ora in Demography and Democracy, Herning
1986). 2.5. La tesi di Wilamowitz su Demostene in Die griechische Literatur des
Altertums (in AA.VV., Die Kultur der Gegenwart, Berlin 1907), p. 122 s. Importante l’introduzione di L. Canfora al vol. I del Demostene nella collana
“Classici Greci” della UTET, Torino 1974. Sullo stile, oltre al vol. III del Blass, accurate analisi in G. Ronnet, Étude sur le style de Démosthène dans les discours politiques, Paris 1951 (rist. 1971). Per la critica antica sull’oratore vi è l'eccellente M. Lossau, Untersuchungen zur antiken Demosthenesexegese, Bad
Homburg 1964, il cui interesse va oltre lo specifico problema demostenico. Citati nel testo: M. Vetta in “Quad. Urb. Cult. Class.”, 52, 1986, pp. 47 ss. E. Schwartz, in “Festschrift Mommsen”,
Marburg
1893, p. 40.
3. La retorica nell’antico Peripato
3.1. Edizione con commento della Retorica di Aristotele a cura di E.M. Cope, J.S. Sandys in 3 voll., Cambridge 1877; per il libro I cfr. W.M.A. Grimaldi, New York 1980. Per la datazione della Retorica, cfr. Kennedy, APG, p. 84 n. 73; Aristotele, Politique, ed. J. Aubonnet, Paris 1980, LXIX, n. 1; al decennio 360-50 la anticipa I. Düring, Aristoteles, Heidelberg 1966 (trad. it. di P. Donini, Milano 1976, pp. 141 ss.: non convincente). Sul rapporto con i Theodectea F.
Solmsen in Realencyclopädie der Altertumsw., V A 2, col. 1729 s. Il celebre articolo di F. Marx, Aristoteles’ Rhetorik del 1900 è ristampato nell’utile volume miscellaneo Rhetorika edito da R. Stark, Hildesheim 1968. Sull’uso della citazione d'autore H. North in “Traditio”, 8, 1952, pp. 1 ss. La Retorica in rapporto al pensiero logico di Aristotele: F. Solmsen, Die Entwicklung der aristotelischen
Logik und Rhetorik, Berlin 1929. Sui topoi Pernot, cit., con bibliografia precedente (a p. 257 n. 20). Sull’entimema: J. Sprute, Die Enthymemtheorie der ari-
stotelischen Rhetorik, Göttingen 1982. Per l’influsso di A. sulla retorica successiva alcuni materiali nel vecchio O. Angermann, De Aristotele rhetorum auctore,
Lipsiae 1904; in una prospettiva di storia della cultura F. Solmsen, The Aristotelian Tradition in Ancient Rhetoric, in “Am. Journ. Philol.”, 62, 1941, pp. 35 ss. 3.2. Per Teofrasto ed in generale le antiche teorie sullo stile sempre indispen-
sabile J. Stroux, De Theophrasti virtutibus dicendi, Leipzig 1912. L’articolo di G.M.A. Grube in “Am. Journ. Philol.”, 73, 1952, pp. 251 ss. e un riassunto delle sue posizioni in Gr. and Rom.
Critics, cit., pp. 103 ss. Contro l’attribuzione a T.
254
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
dei genera dicendi cfr. G.L. Hendrickson, in “Am. Journ. Philol.”, 25, 1904, pp.
125 ss.; 26, 1905, pp. 249 ss. Cfr. il contributo di D.C. Innes, Theophrastus and the Theory of Style, in AA.VV., Theophrastus of Eresus. On his Life and Work, vol. Il, New Brunswick-Oxford 1985, pp. 251-067. 4. L'età ellenistica
Sulla retorica ad Alessandria cfr. R.W. Smith, The Art of Rhetoric in Alexandria, The Hague 1974. 4.1. Per Ermagora fondamentali l'ampio saggio di D. Matthes su “Lustrum”,
3, 1958, pp. 58 ss. e l'edizione (Leipzig 1962). Per il sistema delle staseis, oltre a R. Nadeau, Classical Systems of Stases in Greek: Hermagoras to Hermogenes, in “Gr. Rom. Byz. St.”, 2, 1959, pp. 53 ss., cfr. il recente volume di L. Calboli Montefusco, La dottrina degli status nella retorica greca e romana, Hildesheim
1986. La testimonianza di Niceforo Basilace è segnalata da M.J. Luzzatto in “Stud. Mediev.”, 27, 1986, p. 180. Sulla struttura della Techne: Barwick, Die Gliederung der rhetorischen Techne, cit.
e Matthes cit., pp. 108 ss. Una vivace
esposizione del sistema delle staseis è ora disponibile nel libro di D.A. Russell, Greek Declamation, Cambridge
1983, pp. 41 ss.
4.2. Sulla meléte cfr. Russell, Greek Declamation, cit., Declamation,
Greek and Latin, in AA.VV.,
e M. Winterbottom,
Rhetorica, Genova
1983, pp. 57 ss.
Per Seneca retore si vedano l’ed. dello stesso Winterbottom nella Loeb Class. Lib., 2 voll., Cambridge
necque,
(Mass.)
1974, i profili dei vari declamatori in H. Bor-
Les déclamations et les déclamateurs d'après Sénèque
1902 e J. Fairweather, Seneca the Elder, Cambridge
le Père,
Lille
1981. Sull’insegnamento di
Eschine a Rodi cfr. J.F. Kindstrand, The Evaluation of Aeschines in Antiquity, Uppsala 1982, pp. 77 ss. e 83 ss.
4.3. Sull’oratoria ellenistica F. Blass, Die griechische Beredsamkeit, 1865, e F. Susemihl,
Geschichte der griechischen
Berlin
Literatur in der Alexandriner-
zeit, Bd. II, Leipzig 1892, cap. 35, pp. 448 ss. Inoltre C.W. Wooten, A Rhetorical and Historical Study of Hellenistic Oratory, Diss. Univ. North Carolina 1972, ed i suoi articoli in “Am. Journ. Philol.”, 95, 1974, pp. 235 ss., e “Rev. Et. Grecq.”, 88, 1975, pp. 94 ss. Su Rodi: F. Portalupi, Sulla corrente rodiese, Torino 1957. Sulle ambascerie greche a Roma cfr. Kennedy, ARRW, pp. 35 ss. 5. La retorica
5.1.
a Roma
Sul mercato
librario si veda ora R.J. Starr,
The Circulation of Literary
Texts in the Roman World, in “Class. Quart.”, 37, 1987, pp. 213 ss. Peri problemi discussi nel corso del paragrafo è importante il vol. XXV degli “Entretiens sur l’antiquité classique” (Fond. Hardt), Le Classicisme à Rome aux I°”
siècles avant et après J.C., Genève 1978, in cui segnalo in particolare i contributi di T. Gelzer, pp. 1 ss.; G.W. Bowersock, pp. 57 ss.; H. Flashar, pp. 79 ss. Per i circoli letterari e le ipotesi sull’autore del Sublime cfr. W. Rhys Roberts su “Class. Quart.”, 14, 1900, p. 439; G.P. Goold in “Trans. and Proc. Am. Philol. Ass.”, 92,
1961, pp.
168 ss.
5.2. Per disponibile mento, cit., libro di K.
inquadrare il complesso problema delle origini dell’atticismo è ora l'ampio ad aggiornato excursus di G. Calboli in Nota di aggiornache riassume e discute le principali teorie. Da consultare anche il bel Heldmann, Antike Theorien über Entwicklung und Verfall der Rede-
kunst, Miinchen 1982. Per la data della morte di Calvo cfr. Bowersock, pp. 60 ss. La discussione dedicata dal Norden all’asianesimo al vol. I, pp. 139 ss., 150 ss. Contro il ruolo da lui assegnato a Demetrio Falereo si vedano Kennedy,
L'oratoria, la retorica e la critica letteraria
255
ARRW, p. 250; Heldmann, pp. 98 ss.; Calboli, pp. 1042 ss. Il famoso articolo di Wilamowitz, Asianismus und Atticismus, in “Hermes”, 35, 1900, pp. 1 ss., è ristampato sia nelle Kleine Schriften (III, pp. 223 ss.) sia in AA.VV., Rhetorika, cit. Sull’analogia grammaticale come presupposto dell’atticismo cfr. A. Dihle, Der Beginn des Attizismus, in “Ant. und. Abend.”, 23, 1977, pp. 162 ss. L’ipote-
si di F. Wehrli in Phyllobolia für P.v.der Mühll, Basel 1946, pp. 30 ss. Contro il ruolo assegnato da Wilamowitz ad Apollodoro di Pergamo e a Cesare cfr. rispet-
tivamente Kennedy, ARRW, p. 338 s. e Gelzer, p. 17 n. 5. Su Agatarchide cfr. Russell, Criticism, cit. pp. 37 e 173 ss. Sullo studio di Demostene ad Atene cfr. L. Radermacher, “Rhein. Mus.”, 54, 1899, pp. 357 ss. 5.3. Per gli Opuscula rhetorica di Dionigi, oltre alla ed. Usener-Radermacher (2 voll., Leipzig 1899-1904, rist. Stuttgart 1965), sono disponibili i due voll. nella Loeb Ciass. Lib. curati da S. Usher, Cambridge (Mass.) 1974-85 e sta uscendo l’ed. nelle Belles Lettres di G. Aujac (pubblicati i voll. I e III, Paris
1978, 1981). Commenti: W. Rhys Roberts, Cambridge 1901 (alle Epistole) e London 1910 (al De compositione); W.K. Pritchett, Berkeley and Los Angeles 1975 (al Tucidide). Non esiste una traduzione moderna in italiano. Buono lo studio complessivo di S.F. Bonner, The Literary Treatises of Dionysius of Hali-
carnassus, Cambridge 1939 (rist. Amsterdam 1969). Importanti i recenti contributi di E. Gabba, S. Usher, A. Hurst nel vol. II. 30.1 dell’ Aufstieg und Niedergang des ròmischen Welt (1982), rispettivamente alle pp. 799 ss., 817 ss., 839
ss. con bibliografia aggiornata. Negativi su Dionigi: Norden vol. I, p. 90; Wilamowitz, As. und Att., cit., p. 51; E. Schwartz e L. Radermacher in Realencyclopädie, V. 1, coll. 934 e 970. I frr. di Cecilio nell’ed. E. Ofenloch, Lipsiae 1907. Non esiste uno studio moderno su questa importante figura: tendenziosi fino ad essere inutilizzabili H. Mutschmann, Tendenz Aufbau und Quellen der Schrift vom Erhabenen, Berlin 1912, e A. Rostagni, Il sublime nella storia dell’estetica antica (del 1933, rist. in Scritti minori, vol. I, Aesthetica, Torino 1955, pp. 447
ss.). Sempre per il rapporto con il Sublime rimando al mio articolo Pseudo Longino e Cecilio di Calatte: a proposito di un giudizio su Eschilo, in “St. It. Filol. Class.”, 53, 1981, pp. 50 ss. Sugli apollodorei e teodorei, oltre a M. Schanz, Die Apollodoreer und die Theodoreer, in “Hermes”, 25, 1890, p. 36, che ha dato il via alla discussione, si veda la posizione (contraria allo Schanz) di G.M.A. Grube, Theodorus of Gadara, in “Am. Journ. Philol.”, 80, 1959, pp. 337 ss.; anche Kennedy, ARRW, p. 364 s. Una rassegna degli studi a cura di D. Marin in “Ann. Fac. Lett. Bari”, 6, 1960, pp. 3 ss. Sul Sublime fondamentali strumenti di
lavoro sono il testo con introduzione e commento di D.A. Russell, Oxford 1964, e lo studio di W. Bühler, Beiträge zur Erklärung der Schrift vom
Gôttingen
Erhabenen,
1964. Classica trad. italiana di A. Rostagni, Milano 1947, rist. con
aggiornamenti di L. Belloni, Milano 1982; una nuova traduzione con commento
a cura di G. Lombardi, Palermo 1987. Legato a impostazioni superate il saggio di G. Martano su Aufstieg u. Niederg., cit., II 32.1 (1984), pp. 364 ss. Una bi-
bliografia è stata curata da D. Marin, Leida 1964 (che include anche quella su Dionigi).
6. L’etä imperiale 6.1. I dubbi sull’attendibilità di Filostrato sono stati espressi da Wilamowitz, KI. Schriften, III, p. 421. In generale sulla letteratura di età imperiale si veda B.P. Reardon,
Courants littéraires grecs des IF et III siècles après J.C., Paris
1971, con dettagliata discussione degli studi precedenti. Su Dione si vedano C.P. Jones, The Roman World of Dio Chrysostom, Cambridge (Mass.) 1978, e P. Desideri, Dione di Prusa. Un intellettuale greco nell'impero romano, Messina-Firen-
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
ze 1978. Per la critica letteraria di Dione rimando al mio Tragedia greca e cul-
tura ellenistica: l'or. LII di Dione di Prusa, Bologna 1983. 6.2. Sulla seconda sofistica fondamentale G.W. Bowersock, Greek Sophists in the Roman Empire, Oxford 1969. Per il testo di Filostrato, oltre all’ed. del Kayser si può consultare il vol. nella Loeb Class. Lib. a cura di W. Cave Wright, Cambridge (Mass.) 1921. I termini della famosa querelle sull’atticismo e la sofistica sono nitidamente riassunti dal Boulanger (cfr. infra), pp. 60 ss., e si veda anche la discussione in Desideri, cit., pp. 524 ss. Ancora utile per alcuni mate-
riali W. Schmid, Der Atticismus, 5 voll., Stuttgart 1887-97. Per la dipendenza di Luciano da Menippo cfr. R. Helm, Lucian und Menipp, Leipzig-Berlin 1906. La tesi della creazione letteraria nel quadro della mimesis retorica è di J. Bompaire, Lucien écrivain. Imitation et création, Paris 1958. Una diversa impostazione che
sottolinea i legami con la società contemporanea in B. Baldwin, Studies in Lu-
cian, Toronto 1973 e C.P. Jones, Culture and Society in Lucian, Cambridge (Mass.) 1986. Accanto alla classica monografia su Aristide di A. Boulanger, Aelius Aristide et la sophistique dans la province d’Asie au IF siècle de notre ère, Paris 1923, è ora da segnalare l'ottima ed. con introd. e comm. di due declama-
zioni a cura di L. Pernot, Les Discours Siciliens d’ Aelius Aristide (orr. 5-6), New York 1981. Per la verifica della legge di Blass in Aristide: D.F. McCabe, The Prose-rhythm of Demosthenes, Harvard
1980.
6.3. In generale cfr. Kennedy, ARRW, pp. 614 ss. e I. Avotins, The Holders of the Chairs of Rhetoric at Athens, in “Harv. St. Class. Philol.”, 79, 1975, pp. 313 ss. Per Lolliano cfr. O. Schissel in “Philologus”, 82, 1927, pp. 181 ss. I trattati sui tropi e le figure sono editi nel III volume di Spengel RA. Gr. Il testo
di Ermogene è citato dall’ed. di H. Rabe, Leipzig 1913 (rist. Stuttgart 1969). Per il trattato sulle Staseis si veda R.E. Nadeau, Hermogenes On Staseis: a Translation with Introduction and Notes, in “Speech Monographs”, 31, 1964, pp. 361
ss. Non esistono traduzioni moderne o sussidi divulgativi per il trattato Sulle idee: una accurata esposizione del sistema in G. Lindberg, Studies in Hermogenes and Eustathios, Lund 1977. Da segnalare anche A.M. Patterson, Hermogenes and the Renaissance.
Seven
Ideas of Style, Princeton
Studies in Byzantine Rhetoric, Thessaloniki
1970, e G.L.
Kustas,
1973. Per la tesi della continuità ri-
spetto al sistema delle aretaf ed il rapporto con Dionigi cfr. D. Hagedorn, Zur Ideenlehre des Hermogenes, Göttingen 1964.
Giuseppe Cambiano La letteratura filosofica e scientifica
1. Tra prosa e poesia Il filosofo antico non fu in primo luogo o soltanto uno scrittore di filosofia. Gran parte della sua attività fu svolta mediante la parola, sotto forma di discussione, insegnamento o predicazione. Ben presto tuttavia
essa trovò uno strumento efficace anche nella scrittura, soprattutto per formulare messaggi duraturi, condurre polemiche e in generale presentare immagini della vita filosofica. Ma non si può dire che un’indagine sistematica sulle relazioni esistenti fra modi di concepire l’attività filosofica e forme letterarie sia stata condotta in maniera esaustiva e non occasionale. Nessuno scritto filosofico antecedente a Platone ci è stato conservato nella sua interezza, ma dai resti e dalle notizie della tradizione sembra possibile trarre qualche indizio sulla loro natura. Intanto è rilevante che il primo filosofo, al quale è attribuita la decisione di affidarsi allo scritto, Anassimandro di Mileto (VI secolo a.C.), scrivesse in prosa e insieme tracciasse la prima carta della terra. Naturalmente ciò non significa che la sua prosa fosse radicalmente lontana dal linguaggio della tradizione poetica o dallo stesso linguaggio parlato. Una forte componente e matrice orale del testo filosofico antico non cessò mai di esistere, sino a Epitteto o Plotino. Ma con Anassimandro la poesia non appare più la sola forma autorizzata per enunciare osservazioni o spiegazioni, ritenute rilevanti, sul mondo naturale o sugli uomini. Attraverso il veicolo della prosa la riflessione può muoversi libera dai vincoli del metro e costruire argomentazioni più duttili. Forse gl’inizi furono contrassegnati da una prevalenza di costruzioni paratattiche o polari e di concise formulazioni gnomiche; ma via via vennero articolandosi strutture e mezzi argomentativi più complessi, dall’uso dell’analogia alla costruzione di vere e proprie sequenze deduttive. La gnome, la sentenza, sarebbe apparsa ad Aristotele l’enunciazione di una massima universale, soprattutto di carattere etico, volta a conferire elevatezza a colui che l’enuncia. Essa si prestava a sottolineare l’universalità che il sapiente intendeva conferire al proprio messaggio. Non è un caso che un carattere gnomico sia reperibile nel linguaggio di Eraclito di Efeso, operante verso il 500 a.C. circa, contrassegnato altresì dall’uso dell’antitesi, dell’invettiva e da una componente oracolare, che conferisce deliberatamente ai termini e agli enunciati un carattere di ambiguità e di
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
inafferrabilità. Le difficoltà di comprensione immediata, che ne scaturivano, contribuivano a accentuare profondità ed eccezionalità del suo discorso, e quindi anche del personaggio che l’enunciava. Naturalmente ciò non deve indurre a concludere affrettatamente che il libro di Eraclito fosse soltanto infarcito di aforismi, enigmi, immagini folgoranti, e non contenesse anche nessi argomentativi. Ma fin dall’inizio Eraclito denunciava l'incapacità dei più, chiusi nel loro mondo privato come nel sonno, di cogliere il /ogos, il discorso-ragione che pure era a tutti comune. Ascoltare il logos significava riconoscere che tutto è uno: questo messaggio, così difficile da intendere, si trovava consegnato nel libro di Eraclito, che secondo la tradizione egli avrebbe deposto nel tempio di Artemide ad Efeso e sarebbe poi stato intitolato Sulla natura. Il libro appariva qui uno strumento di conservazione, più che di divulgazione. D'altra parte, c'è da dubitare che la decifrazione e la comprensione dei segni scritti fosse alla portata di tutti o di molti. Solo verso la fine del V secolo a.C. il libro filosofico sarebbe diventato più accessibile e ‘pubblico’. Il libro di Anassagora, secondo Platone, sareb- . be stato acquistabile a un prezzo abbastanza basso in un luogo pubblico. Ma non si deve pensare che esistesse un vero e proprio commercio librario. Il modo più consueto di pubblicazione rimase pur sempre la lettura pubblica dello scritto. Ancora nel Parmenide Platone rappresenta Zenone di Elea che legge un suo scritto giovanile in difesa delle tesi del maestro Parmenide, il quale gli era stato rubato ed era stato diffuso a sua insaputa. Fin dagl’inizi il filosofo tentava di differenziarsi dalle tradizioni e dalle credenze diffuse, presentandosi come un personaggio d’eccezione. Ciò si accompagnava — come del resto avveniva nella coeva prosa storica, geografica ed etnografica — a un forte senso di proprietà nei confronti dei propri enunciati. Alemeone di Crotone iniziava il suo libro con il proprio nome e Ione di Chio o Diogene di Apollonia, ancora verso la metà del V secolo a.C., con l’enunciazione in prima persona del principio cardine delle loro dottrine. Ma forse già in Anassagora e poi in Democrito il discorso sembrava assumere una maggiore impersonalità, per lasciar parlare le cose stesse e le ragioni che ne rendevano conto in maniera sia sentenziosa, sia argomentata. La prosa divenne progressivamente la forma principale della letteratura filosofica e scientifica, la più adatta a raccogliere osservazioni empiriche e a formulare valutazioni o spiegazioni di esse. Ma sarebbe errato pensare ad un suo netto monopolio iniziale. La stessa prosa inoltre conservava non di rado tracce non irrilevanti di linguaggio poetico. Così è stata messa in rilievo la presenza di forme innodiche nella maniera e negli epiteti con i quali Anassagora descriveva l’intelletto divino dominatore del tutto. Tra il VI e il V secolo a.C. al verso affidarono i loro messaggi Senofane di Colofone, Parmenide di Elea ed Empedocle di Agrigento. La poesia sembrava conservare una particolare attrattiva nell’ambiente della cultura dell’Italia meridionale, se è vero che anche Senofane ebbe rapporti con essa. E si è talora attribuita questa predilezione alla forte im-
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pronta rivelativa che percorre i poemi di Parmenide e di Empedocle e che dovrebbe essere messa in rapporto con la diffusione di misteri e credenze orfiche nell’Italia meridionale. Ma un’impronta rivelativa è anche ravvisabile in Eraclito, che pure scriveva in prosa; mentre non lo è in Senofane, un rapsodo che recitava le proprie composizioni, non quelle di Omero o Esiodo, dai quali pure desumeva il metro. Ma nei loro confronti egli assumeva un forte atteggiamento critico, imputando loro, tra l’altro, la rappresentazione antropomorfica delle divinità, inadeguata a esprimere il divino. Il ricorso al verso non comportava dunque in Senofane il ripristino dei contenuti della tradizione etico-religiosa, ma si col-
legava all’atteggiamento proprio della historia ionica. Non a caso sono centrali in Senofane il riconoscimento dei limiti conoscitivi umani e, insieme, dell'autonomia della ricerca orientata verso il meglio.
Certo, un pathos religioso e una connessione con la tradizione della poesia didascalica sembrano presenti nel poema di Parmenide, soprattutto nel proemio, dov'è esposto il viaggio che la dea gli fa percorrere in direzione della luce. Ma il nucleo della rivelazione della dea sull’essere e sul non essere e sulle opinioni dei mortali è sorretto dalla massiccia immissione di argomentazioni, con un’alta frequenza di «infatti» e «poiché», che hanno la funzione di tracciare solidi legami consequenziali tra i vari momenti del discorso. Proprio questo colloca Parmenide su un’altra via rispetto ai mortali, imbrigliati nelle loro opinioni contraddittorie. E sulla linea di Parmenide si sarebbe posto Empedocle, scrivendo anch’egli in esametri due poemi, che sarebbero poi stati intitolati Sulla natura e Purificazioni. Nei frammenti conservatici del primo sembra prevalente un grandioso affresco sulla costituzione del mondo e degli esseri che lo popolano. Esso è presentato come un insegnamento diretto a un preciso destinatario, Pausania. Nel secondo, invece, domina il problema, che ha suggerito ad alcuni interpreti un rapporto con le pratiche e le credenze sciamanistiche, del destino dell’anima umana e delle sue successive reincarnazioni. Ma in entrambi gli scritti è centrale la figura del filosofo-poeta, come narratore di una vicenda anche personale o enunciatore di un messaggio di verità. Sullo sfondo dei poemi di Empedocle si stagliavano molteplici ombre, da quelle delle indagini naturali e mediche della tradizione ionica a quelle delle cogenti argomentazioni eleatiche, ma anche l’esperienza del sodalizio istituito a Crotone già negli ultimi decenni del VI secolo a.C. da un esule proveniente da Samo, Pitagora. Quasi sicuramente egli non scrisse nulla, ma intorno a sé e al proprio insegnamento, che evocava anche i numeri e i loro rapporti, carichi di valenze simboliche, raccolse
un gruppo di persone sottoposte a una disciplina di formazione intellettuale e morale, venata di ascetismo. La tradizione tenderà a presentare Pitagora come l’assertore dogmatico di una verità indiscutibile e certo nel pitagorismo dovette essere presente una forte componente precettistica. Ma non è da escludere la possibilità di sviluppi nell’ambito delle indagini matematiche e musicali, anche se è difficile comprendere la forma che poterono assumere in un contesto forse esclusivamente orale. Solo verso la metà del V secolo a.C., dopo la cacciata dei pitagorici dall’Italia
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
meridionale, farebbe la propria comparsa un libro pitagorico, quello di Filolao di Crotone, della cui autenticità si è a volte dubitato. Ma è significativo che Filolao, come poi nel secolo successivo Archita di Taranto, scrivesse in prosa, pur provenendo da un ambiente culturale assai impregnato di religiosità come quello pitagorico. Né si deve dimenticare che coloro che verso la metà del V secolo difesero e proseguirono il discorso di Parmenide, Zenone di Elea e Melisso di Samo, ricorsero anch'essi alla prosa abbandonando, per quel che sappiamo, la cornice rivelativa del poema parmenideo e sviluppando argomentazioni complesse di riduzione all’assurdo, forse non sempre facilmente incastrabili nei vincoli
del metro poetico. 2. La formazione della letteratura medica e matematica
Anche con i pitagorici la prosa divenne lo strumento più adeguato per esporre i risultati di ricerche e riflessioni su ambiti musicali, aritmetici, astronomici e geometrici. Ma questi campi non furono un loro dominio esclusivo, perché da tempo erano coltivati anche all’altro polo del mondo greco, nella Ionia. La prima composizione di uno scritto di Elementi di geometria è attribuita a Ippocrate di Chio e risalirebbe alla seconda metà del V secolo a.C. In qualche modo questo scritto avrebbe prefigurato contenuti e struttura dell'omonima opera di Euclide, ossia la costituzione ordinata di una successione di dimostrazioni concernenti le proprietà delle figure più elementari. Ciò comportava anche la costituzione di un linguaggio tecnico per designare figure, parti di esse e loro proprietà, ma anche operazioni e connessioni logiche. Un analogo lavoro linguistico e concettuale è avvertibile nella contemporanea letteratura medica che la tradizione, forse a partire dall’età alessandrina, avrebbe posto sotto il nome del medico più celebre del V secolo, Ippocrate di Cos. Si tratta di una sessantina di scritti in dialetto ionico, assai diversi tra loro nei contenuti e nella forma, anche per il diverso pubblico al quale si rivolgevano. Alcuni erano destinati ad altri medici, ai quali erano comunicate osservazioni, dottrine o precetti (come il celebre Giuramento). Altri invece erano indirizzati a un pubblico colto, non di soli specialisti, interessato a discussioni sulla natura dell’uo-
mo, sulle malattie e le tecniche per affrontarle. Al primo ambito appartengono scritti quali le Epidemie, che hanno la struttura stringata e essenziale di quadri clinici fondati su precise osservazioni empiriche e con la registrazione delle varie fasi della malattia di singoli pazienti. Sulla base della classificazione di tipi di malattie nelle loro sequenze temporali il medico poteva formulare una prognosi del decorso futuro sino alla sua conclusione, valutando accuratamente i dati sintomatici accertabili, dei
quali fornisce un’esposizione il Prognostico. Nei vari scritti eziologici, dietetici e chirurgici è nettamente avvertibile lo sforzo per costituire un lessico anatomico, patologico e terapeutico, in una stretta saldatura di lavoro linguistico e costruzione di apparati teorici e concettuali. Non sempre ciò è sostenuto da osservazioni adeguate, tanto meno da osser-
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vazioni intenzionali effettuate per corroborare asserzioni o teorie generali. Manca altresì, com'è noto, il riferimento a strumenti di misurazione,
per esempio della temperatura; ma il medico tenta allora di elaborare un lessico della frequenza e del grado di probabilità. L’aspetto competitivo della professione medica, che non aveva acquistato lo stato di una disciplina unificata nei contenuti e nelle terapie né sempre otteneva brillanti risultati, il che la esponeva ad attacchi interni e esterni, originava anche sul piano della scrittura una letteratura polemica nella quale avevano gran peso le tecniche argomentative e confutatorie e l’impiego di efficaci strumenti retorici. La polemica poteva assumere due obiettivi: o altre dottrine mediche o pseudo-mediche (come la concezio-
ne magico-religiosa dell’epilessia combattuta nel Morbo sacro), oppure concezioni generali dell’uomo, della malattia e della medicina, elaborate anche fuori dall'ambito medico e discusse anche in dibattiti pubblici. In questa direzione lo scritto teoricamente e metodologicamente più acuto è La medicina antica, che oltre a enunciare la tesi di una derivazione della medicina dalla dietetica, ossia dalle differenziazioni nell’alimentazione,
oppone la variabilità dei casi individuali a ogni pretesa di costruire una teoria generale sulla costituzione dell’uomo e di dedurne conseguenze sul piano terapeutico. Di fronte a ciò nulla testimonia della varietà propria della collezione ippocratica quanto la presenza di scritti decisi nel formulare teorie generali come La natura dell’uomo, che pone le basi della dottrina dei quattro umori, o il Regime, che assegna funzione centrale alle nozioni di caldo e freddo. | Non si può dire che questo vasto corpus di scritti medici abbia meritato dalla storiografia l’attenzione che merita. Eppure è l’unico caso conservatoci di prosa scientifica antecedente a Platone. Solo lentamente si sta mettendo in luce la ricchezza di ‘aspetti che questo corpus contiene, dai processi di formazione di un linguaggio tecnico all’impiego di una logica utens sino all’elaborazione di strumenti concettuali per formulare spiegazioni, come le nozioni di segno o di causa. Soprattutto l’analogia tra diversi ambiti di osservazione (botanico, animale, umano) si configura come un importante strumento euristico ed esplicativo. E sullo sfondo di tutto ciò si colloca una discussione epistemologica, presente a vari livelli, anche nella storiografia e nella filosofia, su tipi e validità degli apparati conoscitivi. Né si deve dimenticare che l’analogia era l’implicito asse portante di una creazione letteraria che aveva la sua matrice in una cultura orale e subalterna e il suo ormai mitico esponente in Esopo. Forse solo alla fine del IV secolo a.C. la favola avrebbe assunto forma scritta. Certo, come
avrebbe detto Aristotele, il nucleo della favola era un
fatto inventato (per buona parte a proposito di animali), ma esso presupponeva che l’ascoltatore fosse in grado di coglierne la parentela con eventi e proprietà del mondo umano. In questo senso la favola poteva caratterizzarsi come un tipo di esempio e dotarsi di una dimensione didascalica. Ma il lavoro linguistico e metodico dei medici e il tipo di letteratura al quale dà luogo s’innesta anche nel clima culturale che si è soliti indicare come età sofistica. Il medico è fondamentalmente un personaggio
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
itinerante da città a città per fornire le proprie prestazioni, proprio come coloro che furono chiamati sofisti. Per procurarsi clienti non basta curare, occorre anche saper tessere discorsi convincenti. E al centro dell’insegnamento di sofisti quali Protagora o Gorgia era la capacità di parlare in maniera persuasiva. È ovvia l’importanza del possesso di queste capacità nelle città greche, soprattutto in quelle democratiche, per imporre decisioni politiche. In questa situazione il successo dei sofisti non era inspiegabile. La loro attività era in gran parte orale, sotto forma d’insegnamento o di epideixis, lettura pubblica ed esibizione sul vivo dell'impiego degli strumenti retorici e stilistici. L’Elena e la Difesa di Palamede ne sono esempi. D'altra parte la mnemotecnica insegnata da Ippia di Elide aveva forse anche lo scopo di garantire il possesso di una enciclopedia orale del sapere. Ma l’attività dei sofisti dette anche luogo alla costruzione di manuali volti a codificare tipi e modelli di discorsi persuasivi. Ciò comportava l’isolamento delle proprietà formali dei discorsi dai loro contenuti specifici e dal loro valore di verità o falsità. L'importanza di questa separazione anche per le future discussioni logico-linguistiche dei filosofi non può essere sottovalutata. Ma i sofisti erano anche attenti alle condizioni di applicabilità e di successo delle varie forme di discorso nei vari contesti e in rapporto a tipi diversi di ascoltatori. Questo senso della variabilità delle situazioni intersoggettive era sovente il correlato di un
atteggiamento critico nei confronti di una tradizione e dei suoi valori, talora anche delle sue credenze religiose. 3. Il dialogo Si conosce poco dell’insegnamento orale dei sofisti, ma assai scarsi sono anche i resti delle loro opere scritte. Deliberatamente, invece, il loro contemporaneo Socrate non scrisse nulla. Ma dalla sua attività si originò una letteratura nella quale il Socrate storico si rifrangeva come in un gioco di molteplici specchi. Perse nella loro integralità le opere di socratici quali Antistene, Euclide di Megara o Aristippo di Cirene, sono sopravvissute invece quelle di Senofonte e Platone. Nessun socratico scrisse una biografia vera e propria di Socrate, ma elementi biografici non erano assenti nei loro scritti. Il loro intento tuttavia non era una descrizione fedele, secondo moderni canoni storiografici, delle vicende e dell’insegnamento di Socrate, ma in primo luogo la difesa della sua figura, nonostante la condanna a morte inflittagli dal tribunale ateniese nel 399 e le successive accuse di cattivo maestro di personaggi inquietanti quali Crizia o Alcibiade, rispolverate dal sofista Policrate verso il 393 nella sua Accusa di Socrate. Dalla letteratura socratica emergeva il ritratto di un nuovo tipo di uomo e di un nuovo genere di vita, la vita filosofica. Forse proprio in relazione a Socrate nasceva la nozione stessa di filosofia. A ben vedere,
si trattava di fare di Socrate non tanto un oggetto di cronaca o di storiografia, quanto un’entità per certi versi atemporale e metastorica e perciò
esemplare. Ma questo atteggiamento apriva al tempo stesso lo spazio per
La letteratura filosofica e scientifica
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uscire dai vincoli di oggettività, che avrebbe potuto imporre un racconto storico, e tentare approfondimenti o sviluppi del nucleo di esemplarità ravvisato da diverse prospettive in Socrate. In questo senso il problema storiografico autentico oggi è di studiare Socrate nella molteplicità di effetti ed esiti letterari e filosofici da lui prodotti, ma evitando l’illusione di poter passare dagli effetti alla causa nel caso di un filosofo che nulla scrisse e che non ebbe cronisti. Nel Socrate di Platone, ma anche di Senofonte, sembra centrale il porre domande ai propri interlocutori sui valori che reggono la vita umana, singola o associata: il coraggio, la giustizia, l'amicizia e così via. Per Platone il presupposto di queste interrogazioni socratiche era la consapevolezza di non sapere. Ma le risposte dei suoi interlocutori, giovani cittadini frequentatori di palestre o illustri generali o celebri sofisti di passaggio, risultavano sempre parziali o contraddittorie. L’unico obiettivo che Socrate sembrava porsi era quindi quello di liberarli dalle false credenze e stimolarli alla ricerca delle vere risposte. Di fronte a questo nuovo modo di concepire l’attività filosofica le forme letterarie tradizionali della poesia o della prosa risultavano inadeguate, proprio perché questa attività non si era solidificata in un insegnamento di contenuti positivi.
Certo la composizione di un’Apologia di Socrate, dov’egli compariva nell’atto di difendersi di fronte ai giudici, aveva alle spalle la tradizione dell’oratoria giudiziaria e sofistica. Sarebbe istruttivo, ad esempio, istituire un parallelo, nella scansione dell’argomentazione, tra l’Apologia di Platone e la Difesa di Palamede scritta da Gorgia. Ma il genere dell’apologia poteva servire soltanto per un momento, anche se determinante, della vicenda di Socrate. Il problema era piuttosto di trovare una forma letteraria capace di mimare dal vivo il rapporto di Socrate con i suoi vari interlocutori: essa fu il dialogo. Già la tradizione antica cercò antecedenti del dialogo fuori della cerchia socratica. Lo scambio di battute tra personaggi nella tragedia o nella commedia era una presenza ovvia. Nella lotta per l’egemonia culturale, intrapresa dalla filosofia, soprattutto con Platone, contro la poesia, poteva essere non inefficace ricorrere a una
forma alternativa di dialogo per trasmettere nuovi contenuti. Ma esempi di dialogo sono reperibili anche in Erodoto o nella drammatica opposizione di argomentazioni tra Meli e Ateniesi in Tucidide, pro o contro la tesi del diritto del più forte. Negli ambienti socratici, e particolarmente in Platone, il dialogo appare la forma di scrittura meno inadeguata per rappresentare e condurre insieme l’indagine filosofica nelle sinuosità del suo percorso di ricerca. Anche la ripresa dell’antica forma del simposio avviene in funzione della costruzione di una cornice scenica a uno sviluppo dialogico, che si articola in Senofonte ancor più che in Platone intorno a più temi. Ed anche il genere dei memorabili (apomnemoneumata), che forse si riallacciavano alle raccolte di detti dei saggi e di cui abbiamo un esempio cospicuo in Senofonte, si organizza come una cucitura di molteplici dialoghi con interlocutori diversi su temi diversi, talora in forma più argomentata, talora con rapide conclusioni sfocianti in apoftegmi o precetti. In Senofonte questi discorsi riprendono probabilmente tematiche af-
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frontate anche da altri socratici e servono a dimostrare le elevate qualità morali di Socrate, cittadino pio e ossequente verso gli dei e le leggi e addirittura verso la divinazione. Tutto ciò era presentato come narrazione di quanto Senofonte aveva visto o udito personalmente o da testimoni oculari dotati di crisma di veridicità. Ma naturalmente dietro questo Socrate spuntava il Senofonte ligio alla tradizione e ai valori dell’agricoltura, della caccia e delle arti militari, che nell’Economico non esitava a formulare precetti, sul modello della manualistica tecnica, a proposito della coltivazione della terra o dell’amministrazione delle proprietà. Non era certo il Socrate inquietante che emerge dalla scrittura platonica, nelle metafore del tafano o della torpedine marina, che esprimono il suo rapporto problematico con la società ateniese. Era da queste prime immagini che sarebbe scaturito il Socrate della Repubblica, che modella radicalmente ex novo una nuova città che ha al suo vertice i filosofi. A questo Platone saldava un'immagine di Socrate attento ai vari campi del sapere, nonostante le sue dichiarazioni nel Fedone di aver abbandonato l'interesse per le ricerche naturalistiche: le metafore della caccia e della via diventano costitutive a rappresentare l’itinerario dell’indagine filosofica. Le nozioni di aporia o di metodo si muovono in questo orizzonte metaforico. Con Platone il dialogo raggiungeva la sua forma letterariamente e filosoficamente più compiuta in stretta connessione con queste immagini
di Socrate. Nel proemio del Teereto egli stesso avrebbe distinto due tipi di dialogo, quello drammatico, consistente nello scambio diretto di battute tra personaggi, come avveniva negli spettacoli teatrali, e quello indiretto, che introduceva la figura di un narratore che riferiva una conversazione. In quest’ultimo caso a volte in alcuni dialoghi il narratore è Socrate stesso, che riferisce una discussione alla quale egli stesso ha preso parte. Naturalmente questa forma narrativa aveva il vantaggio di poter fornire un ritratto dei personaggi e un’ambientazione scenica al dialogo, che ha dato esempi memorabili nel Protagora, con l’ingresso di Socrate e del giovane Ippocrate nella casa del ricco Callia gremita di sofisti come Protagora, Prodico o Ippia, o nel Fedone, con Socrate attorniato in carcere dai discepoli prima di morire a intrattenersi sul problema dell’immortalità dell’anima; o nel Simposio, con quella galleria di personaggi che si succede a pronunciare discorsi sull’amore sino all’irruzione di Alcibiade che tesse un drammatico profilo di Socrate, intes-
suto di odi et amo verso l’aspetto perturbante della filosofia. Ma anche la forma diretta poteva consentire l'emergere sullo sfondo della conversazione di splendidi scenari, come gli esterni lungo le rive dell’Ilisso sotto la calura estiva nel Fedro. Se ci si attiene alla cronologia tradizionale dei dialoghi stabilita mediante le tecniche stilometriche, sarebbero i dialoghi appartenenti alla piena maturità di Platone a privilegiare la forma indiretta; mentre quelli giovanili mostrerebbero preferenza verso la forma diretta, così come i dialoghi più tardi, dal Sofista al Politico, dal Timeo alle Leggi. Ma sarebbe rischioso trarre conclusioni generali da questa sequenza, per esempio ipotizzando che l’assunzione della forma indiretta corrisponderebbe a
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momenti di maggiore ostilità nei confronti della tragedia o della com-. media. Esistono infatti dialoghi in forma indiretta che apparterrebbero all’epoca giovanile, come il Carmide o il Liside, o all’epoca tarda come il Parmenide, e, d’altra parte, dialoghi in forma diretta appartenenti all’epoca centrale, come appunto il Fedro. Più significativa sembra invece la progressiva perdita di centralità della figura di Socrate, che in dialoghi come il Sofista, il Politico e il Timeo lascia ad altri la funzione principale e nelle Leggi addirittura scompare. Naturalmente ciò non implica che nei dialoghi giovanili Platone sia il cronista di Socrate e che solo successivamente enunci tesi proprie. Sotto Socrate si dissimula sempre anche Platone. E non è casuale che, anche quando Socrate non è più il personaggio principale, Platone continui a dissimularsi sotto altri, lo straniero eleate o Timeo. Ciò che Platone attua è una forma indiretta di comunicazione, come un attore sotto la maschera. Ma in questo caso l’attore è anche l’autore. Del resto il sapere per Platone non è qualcosa che si trasmette da un recipiente pieno a uno vuoto, come liquidi che si travasano. Si tratta invece di ridestare potenzialità di sapere sopite negli interlocutori. Forse anche la lettura di un dialogo poteva essere concepita da Platone, proprio per il carattere indiretto e mediato della sua comunicazione, uno strumento funzionante per ridestare alla filosofia. Il mutamento più vistoso nella forma dialogo non è dunque un presunto itinerario di andata e ritorno tra tipo diretto e tipo indiretto. Esso consiste piuttosto nel crescente spazio che, soprattutto nell’ultima fase, viene assumendo l’esposizione continua dei problemi e delle tesi rispetto all'integrazione di domande e risposte. In questo contesto gli interlocutori del protagonista hanno una funzione puramente esornativa, non contribuiscono allo svilupparsi dell’argomentazione e si limitano a brevi battute, quasi solo di assenso. In questo modo il dialogo tende a slittare verso la monografia accentrata intorno a un problema. E questo mutamento formale è parallelo alla complessità crescente degli stessi contenuti filosofici, che raggiungono le punte più elevate proprio nell’ultima produzione platonica. Ma probabilmente esiste anche sullo sfondo il consolidarsi di una prassi scolastica all’interno dell’Accademia, ormai costituita da anni. 4. La scuola filosofica e la scrittura
La scuola è l’ambito in cui si svolse la parte prevalente dell’attività filosofica antica. E l’insegnamento orale e le discussioni ne erano una componente essenziale. La produzione letteraria dei filosofi antichi deve essere considerata su questo sfondo. Da una parte si trattava di rivolgersi anche a un pubblico esterno alla scuola, fornendo immagini convincenti della propria filosofia, in polemica con altre immagini o con forme culturali alternative, come la retorica. Dall'altra occorreva invece predisporre strumenti efficaci per la prassi scolastica. Ciò non comportava necessariamente una separazione netta tra due classi di scritti; scritti diretti a un pubblico esterno potevano naturalmente essere oggetto di lettura e
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discussione anche nella scuola. Ma in questi ultimi pare comunque dominante una dimensione protrettica, di esortazione alla vita filosofica, in
qualche modo erede anche dei discorsi di propaganda dell’età sofistica. Anche ad Antistene era attribuita la composizione di un protrettico. E aspetti protrettici sono presenti in vari dialoghi platonici: un esempio cospicuo è l’Eutidemo. Nel suo Protrettico Aristotele tentava di dimostrare che l’unica attività in grado di garantire la massima felicità era quella teoretica, che aveva il suo fine solo in se stessa. Ma è interessante che quest’opera aristotelica forse non aveva forma dialogica e si presentava sotto forma di lettera indirizzata a Temisone, re di Cipro. Essa era dunque un episodio della competizione della filosofia con la retorica, che già aveva tentato con Isocrate di accaparrarsi il favore dei re di Cipro. In ogni caso la filosofia delle scuole tentava di costruire o di impadronirsi anche di altre forme di comunicazione scritta. Se le Lettere attribuite a Platone, in particolare la settima, sono effettivamente sue, com’è verosimile, anche Platone ricorse in precise circostanze, per giustificare il proprio operato nelle vicende di Siracusa o dare consigli agli amici di Dione, a un mezzo letterario diverso dal dialogo. Anziché dissimularsi sotto la maschera dei protagonisti del dialogo, egli poneva qui al centro se stesso e addirittura il riconoscimento del suo fallimento, conferendo alla lettera un tono prevalentemente autobiografico. Nella Lettera VII non è assente una componente di indagine filosofica, ma essa si accompagna al rifiuto di fornire un compendio scritto, un “sistema” noi diremmo, delle sue dottrine, contro il tentativo in questa direzione compiuto dal tiranno di Siracusa, Dionisio. Questo punto solleva altresì il problema del rapporto tra il modo platonico di concepire l’attività filosofica e il suo ricorso alla scrittura. Com’è noto, nel Fedro soprattutto, Platone conduce una dura critica nei confronti della scrittura che, anziché servire da rimedio per attingere il sapere entro di sé, facilita l’oblio e induce a cercare il sapere fuori di sé. Ma lo scritto ha la fissità di un dipinto, che non può rispondere alle domande che gli sono poste se non ripetendo sempre la medesima risposta. Perché allora Platone scelse anche di scrivere? Nessuna risposta data appare pienamente soddisfacente. Certo Platone viveva ormai in un momento di forte tensione tra cultura scritta e forme di comunicazione orale. Egli sapeva che il suo discorso, assumendo veste scritta, gli sottraeva in linea di principio la scelta dei propri destinatari: lo scritto può andare nelle mani di chiunque. Ma in un clima di forte competizione culturale lo scritto può anche essere un’arma efficace per presentare immagini corrette di sé e polemizzare con orientamenti pedagogici alternativi. Del resto, se l'Accademia e in seguito anche le altre scuole filosofiche ebbero allievi e visitatori provenienti da varie parti del mondo greco e poi romano, ciò dipese forse non solo da una fama orale da esse acquisita, ma anche da una qualche conoscenza della loro produzione scritta. Si è inferito che a Platone la forma dialogica appariva quella meno lontana da una situazione praticata all’interno della scuola, perché essa mimava lo scambio di battute tra soggetti parlanti e la costruzione di sequenze argomentative che si sviluppavano nel tempo.
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Ma l’oralità, che Platone tenta di rappresentare nel dialogo, non è più l’oralità delle performances poetiche, delle rappresentazioni teatrali o dei discorsi retorici o politici. La polemica platonica contro la poesia, condotta soprattutto nella Repubblica ha qui uno dei suoi presupposti. Essa è un corollario della critica alla città storicamente esistente, Atene in particolare, e alle forme di cultura che le sono proprie. Gli argomenti di Platone sono essenzialmente due: la poesia non è uno strumento conoscitivo, non ha campi propri di competenza, e pertanto non può arrogarsi quelle funzioni educative che spettano propriamente alla filosofia; la poesia inoltre fa leva sulle emozioni degli ascoltatori, senza orientarle verso il bene e pertanto in una città giusta dovrebbe essere sottoposta a un rigido controllo. E la critica alla poesia appare solidale con la critica platonica alla retorica, tecnica di persuasione particolarmente efficace sulle emozioni degli ascoltatori, ma indifferente anch’essa verso i contenuti di verità e di falsità dei discorsi. L’oralità che Platone auspica è invece quella della dialettica, che procede per domande e risposte, passa attraverso la confutazione del sapere presunto ed è orientata verso la conoscenza, ma non verso l’imposizione di propri punti di vista. È chiaro che il modello è qui dato dalla comunità filosofica, capace di perpetuare se stessa attraverso questo uso interpersonale della parola. Ma all’interno di una città ingiusta, che trova la sua espressione culturale nei poeti, nei sofisti e nei discorsi lunghi dei tribunali e dell’assemblea, lo scritto filosofico può assumere una funzione antagonistica e critica ed essere un veicolo di esortazione alla filosofia. Nella città giusta della Repubblica, invece, i filosofi non sono rappresentati nell’atto di scrivere; si potrebbe pensare che forse qui la scrittura è inutile. Ma in essa i filosofi continuano a servirsi dei miti. Verso il mito Platone è critico, come verso la scrittura: anch’esso non può essere posto sullo stesso piano dell’argomentazione dialettica. Ma il mito può essere utile sul piano etico-politico e anche nelle pagine dei dialoghi Platone non esita a inserire ampi miti escatologici e cosmologici: lo stesso Timeo appare come un unico grandioso mito. La scrittura non poteva per Platone assorbire in sé l’intera indagine filosofica, né esserne l’espressione più alta. Ma oggi è un problema assai controverso quello dei caratteri che avrebbe assunto il suo insegnamento orale. Alcuni studiosi, in particolare Krämer e Gaiser, hanno avanzato la tesi che i dialoghi avrebbero una dimensione essenzialmente protrettica e aporetica, mentre il vero nucleo dell’insegnamento platonico sarebbe da ravvisare nelle testimonianze degli antichi, a partire dallo stesso Aristotele, sul suo insegnamento orale. Questa interpretazione ha il merito di sottolineare l’importanza di questo insegnamento all’interno dei modi della vita filosofica antica. Meno convincente appare invece la tesi che questo insegnamento avrebbe assunto l’aspetto sistematico di una teoria dei princìpi, con un potente impianto deduttivo. Tenuto conto anche delle forti divergenze dottrinali, sulle idee e su altri punti nodali, tra membri dell’Accademia, sembra più ragionevole non attribuire all’insegnamento orale le qualità desumibili da scritti sistematici, come i posteriori Elementi di Euclide o tardi manuali introduttivi alla filosofia.
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5. Tecniche di argomentazione e repertori del sapere Neppure gli scritti di Aristotele, che, diversamente dalla sua produzione dialogica e diretta anche a un pubblico extrascolastico, ci sono stati conservati, sono i tasselli di un unico imponente mosaico sistematico, come per molti secoli si è immaginato. Sono scritti nati nella scuola e finalizzati ad essa, nei quali il discorso filosofico ha un andamento largamente impersonale e si svolge secondo una dinamica propria, facendo scomparire o mettendo in disparte il soggetto che lo enuncia. In buona parte questi scritti furono composti non tanto per essere letti, quanto per servire da canovaccio alle lezioni o per richiamare i punti essenziali di una lezione svolta, la quale comportava un ampliamento di questi punti, mediante chiarimenti, esemplificazioni, ulteriori argomentazioni. Questo complemento orale è ormai irrimediabilmente sottratto alla nostra lettura. Ma ad esso si collega il fatto che lo stile di questi scritti risulta conciso, asciutto, talora oscuro, con transizioni improvvise o riprese e ripetizioni. Essi potevano d’altronde essere utilizzati più volte e ciò apriva lo spazio per aggiunte successive o modificazioni o correzioni, conferendo a volte a questi scritti l’immagine di terreni stratificati. In ogni caso queste proprietà dovrebbero mettere in guardia dallo scambiare gli scritti aristotelici per manuali o trattati sistematici. A ciò si aggiunge anche il fatto che fu il lavoro editoriale successivo, in particolare l'edizione preparata da Andronico di Rodi nel I secolo a.C., a generare l’immagine di un compatto sistema aristotelico. Andronico infatti raggruppò
come
opere
unitarie,
sotto un unico
titolo e secondo
una successione ritenuta plausibile, più scritti distinti che gli parevano affrontare una tematica comune. In quest'opera di cucitura egli era anche guidato dalla tripartizione della filosofia, che si era ormai imposta in età ellenistica, in logica, fisica ed etica. Questa dimensione di collage appare dominante, secondo buona parte degli studiosi, anche in opere per secoli considerate modelli di sistematicità, come la Metafisica, la Fisica o la Politica. Negli Analitici Posteriori Aristotele costruiva un modello di scienza nel quale ogni campo del sapere risultava ordinato come un insieme di proposizioni dedotte sillogisticamente da una serie di principi. Questo era il modello che doveva essere seguito quando si trattava di organizzare e trasmettere i contenuti di una scienza ormai completa. Ma gli scritti di Aristotele non presentano questa struttura e appaiono piuttosto orientati alla ricerca di risultati e soluzioni nei vari campi del sapere. A questo scopo diventava importante la raccolta e l’organizzazione di dati e osservazioni. Ciò comportava una certa fiducia nello scritto come luogo di deposito di queste raccolte e come strumento capace di costruire ordinamenti e fissare classificazioni, come appare soprattutto negli scritti biologici. Ma per Aristotele tra i punti di partenza per la risoluzione dei problemi o la spiegazione dei fenomeni osservati, dovevano essere incluse anche le opinioni correnti e quelle avanzate da individui particolarmente reputati. Già nell'Accademia platonica la convinzione del carattere non dialettico dello scritto doveva aver condotto a sviluppare la tecni-
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ca della discussione delle tesi avanzate sui vari problemi dalla tradizione filosofica. I Topici di Aristotele contengono ampie analisi anche di questa tecnica, che argomentava dal vivo come avrebbe fatto il sostenitore di una certa tesi se fosse stato presente in carne ed ossa. Era un tentativo di ridare vita a ciò che era consegnato nello scritto, riconducendolo all’oralità. Ma i testi scritti apparivano in questo senso soltanto un punto di partenza per un itinerario che proseguiva oltre. Su questa linea si dispongono anche le ampie discussioni che Aristotele riserva in molti dei suoi scritti alle tesi dei predecessori o di contemporanei. La conoscenza appariva ai suoi occhi una sorta di processo collettivo nel quale erano coinvolti passato e presente: per conoscere ciò che si poteva fondatamente dire di un argomento o come si poteva risolvere un problema, occorreva conoscere che cosa si era detto su quell’argomento o quel problema e discuterlo e saggiarne la consistenza logica. Diventava dunque essenziale anche la costruzione di una biblioteca del sapere o degli errori e partire da essa. Non è un caso che proprio alla scuola di Aristotele sia fatta risalire la costituzione di una vera e propria biblioteca. I discepoli di Aristotele avrebbero proseguito questo lavoro del maestro costruendo un’imponente letteratura di cui affiorano soltanto pochi resti. Eudemo di Rodi avrebbe scritto di storia della matematica e dell'astronomia, Menone di storia della medicina e Teofrasto una rassegna di Opinioni dei fisici. Da tutto ciò si sarebbe sviluppata in età ellenistica una tradizione dossografica nella quale a proposito dei singoli problemi, fisici o etici, erano raggruppate le opinioni di vari personaggi, non necessariamente in successione temporale, che apparivano più significative. Mentre originariamente a ciö doveva forse accompagnarsi una discussione critica delle varie opinioni, in seguito la rassegna delle opinioni fu progressivamente ridotta all’osso, scorporando ogni tesi dal contesto filosofico e argomentativo nel quale compariva. Questi repertori condussero anche alla costruzione di parentele tra autori che originariamente non avevano nulla in comune, e resero sernpre meno necessario il ricorso ai testi originali, contribuendo anzi alla progressiva scomparsa di questi. A questi repertori attinse la riflessione filosofica successiva, che ne costellö i propri scritti, da Cicerone a Plutarco a Sesto Empirico. E da questi estratti da repertori dipende ancora in gran parte la nostra conoscenza di
dottrine delle quali non possediamo le formulazioni originali. Ma nelle varie scuole filosofiche la letteratura dossografica rappresentava uno strumento importante nell’addestramento alla discussione delle varie tesi filosofiche. Essa contribuiva, tra l’altro, alla costituzione di un linguaggio filosofico tendenzialmente unitario per formulare questioni e risolverle. Ben presto questo linguaggio avrebbe ricevuto una forte coloritura stoica. In ogni caso & anche attraverso questo veicolo che avveniva la conoscenza e la discussione reciproca tra le varie scuole filosofiche a partire dall’etä ellenistica. Ma già in ambiente accademico e aristotelico una particolare attenzione era stata riservata all’analisi dei significati dei termini del lessico filosofico, escogitati ex novo o desunti dal linguaggio comune. Su questa
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base si erano costruiti scritti come le Divisioni, che registravano i vari significati dei termini, e quel vero e proprio dizionario della terminologia filosofica rappresentato dal libro V della Metafisica di Aristotele. Per Aristotele era essenziale l'accertamento della molteplicità di significati di termini chiave, quali ad esempio essere o uno, allo scopo di rintracciare un significato primario o “focale”. Egli intendeva così uscire dalle ambiguità del linguaggio oracolare o poetico e in genere metaforico, al quale erano stati sensibili gli antichi fisiologi, ma anche Platone, e liberare la stessa retorica dai legami con le suggestioni magiche teorizzate e praticate da un Gorgia. Ma tutto ciò richiedeva al tempo stesso una riflessione sugli strumenti linguistici e argomentativi del lavoro del filosofo. Non è un caso che l’Organon di Aristotele sia un potente arsenale di analisi di questo tipo e che molti suoi scritti, come quelli zoologici (nonché quelli botanici di Teofrasto), abbiano prodotto e codificato un fortunato linguaggio della descrizione e della classificazione. Anche qui il lavoro linguistico s’imprimeva su un’ampia messe di dati osservativi. Da questa matrice si originò un tipo di letteratura, rappresentata per noi dai Problemi pseudo-aristotelici, repertori enciclopedici di quesiti seguiti dalle soluzioni, sovente desunte da scritti di Aristotele o di Teofrasto. Questo loro carattere li rendeva soggetti a rimaneggiamenti e integrazioni, ovviamente non sempre riconducibili al dettato dell'impostazione aristotelica. 6. Il trattato scientifico
Il modello di scienza che Aristotele descriveva negli Analitici aveva sullo sfondo la svolta che Eudosso di Cnido aveva impresso verso la metà del secolo IV alle indagini geometriche. Allo scopo di formulare una teoria delle proporzioni valida per ogni tipo di grandezze, egli aveva dovuto isolare una serie di principi dai quali dedurre una serie di proposizioni. Questa struttura divenne anche un modello di scrittura e con gli Elementi di Euclide si sarebbe imposta definitivamente. Qui avviene una rigorosa distinzione di sequenze nel discorso: elenco dei principi, enunciato del teorema da dimostrare o del problema da risolvere, dimostrazione o risoluzione accompagnata da una figura, che consente di seguire visivamente i passaggi del ragionamento. Questo schema espositivo e il linguaggio usato in esso divennero la struttura portante del trattato matematico nell’età ellenistica. L’opera di Euclide era riconosciuta come un modello non soltanto per i risultati acquisiti, ma anche per la forma nella quale essi erano esposti. Essa fu fatta propria nel III secolo a.C. sia da Archimede nei suoi scritti di geometria e di idrostatica, sia da Apollonio di Perge nelle Coniche. Ma su questa linea si erano già mossi l’allievo di Aristotele, Aristosseno di Taranto, nei tre libri degli Elementi di armonia, e Autolico di Pitane nei suoi scritti di geometria astronomica. L’accettazione del modello euclideo era collegata alla formazione di una piccola comunità di matematici, operanti non solo in Alessandria, dove i Tolemei avevano costituito un centro di ricerche matematiche,
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astronomiche, mediche, ma anche in altre parti del mondo greco, da Siracusa a Pergamo. Come documentano le lettere premesse da Archimede a propri scritti, questi matematici si inviavano i risultati delle proprie indagini, sovente con la richiesta di un controllo della loro validità. Ciò presupponeva l’esistenza di un criterio comunemente condiviso di validità: il suo nucleo era ravvisabile nella forma del trattato euclideo. Archimede, pur informando di essere talvolta pervenuto alla scoperta di determinati risultati per altra via, riteneva tuttavia necessario esporli nella forma euclidea. La scrittura diventava così il veicolo essenziale per il lavoro della comunità matematica e per il processo di crescita del sapere geometrico. Naturalmente non tutti i campi del sapere furono dominati in età ellenistica da questo tipo di trattato. Così fu per la letteratura medica, che nel III secolo a.C. con Erofilo di Calcedone e Erasistrato di Ceo pervenne ad acquisizioni rilevanti nell’ambito dell’anatomia e della fisiologia. Non è da escludere che i loro scritti avessero una struttura affine a quella di scritti di Galeno, che noi possediamo, in un intreccio di descrizioni, esplicazioni, polemiche. Queste ultime erano escluse dal trattato euclideo. Ma la letteratura medica non era unificata da un modello unitario di sapere e di scrittura. Essa era invece il risultato del lavoro di più scuole, guidate da presupposti teorici diversi e, in ultima analisi, addirittura da concezioni conflittuali della natura e dei compiti della medicina. In questo senso la medicina mostrava maggiori somiglianze con la filosofia, piuttosto che con la matematica. Con la prima essa era anche imparentata per il fatto di non rivolgersi soltanto a yn ristretto pubblico di specialisti. E non di soli specialisti era anche il pubblico dei trattati di meccanica, che spiegavano il funzionamento di macchine destinate ad usi militari e insegnavano a costruirle. Era ovvio che a questo lavoro potessero guardare con interesse i monarchi ellenistici. I problemi tecnologici riguardavano non tanto la trasformazione della materia, ma la costruzione di congegni mediante collegamento di parti. Accanto a queste finalità militari la letteratura meccanica, già con Ctesibio agli inizi del III secolo a.C. e poi con Erone, si poneva anche l’obiettivo di insegnare a costruire congegni stupefacenti, capaci di destare la meraviglia o di mostrare sul vivo il funzionamento di determinati principi teorici. In ogni caso rimaneva fuori dal suo orizzonte il problema di una loro applicazione su vasta scala a processi produttivi. Più complesso è il caso della letteratura astronomica. Anche in essa il modello euclideo confermava la sua centralità con lo scritto Sulle dimensioni e sulle distanze del sole e della luna di Aristarco di Samo, operante nel III secolo a.C., ben noto come sostenitore dell’eliocentrismo. Sulla linea dell’astronomia matematica si sarebbero sviluppate le indagini successive, da Ipparco di Nicea a Tolemeo. Ma è significativo che Ipparco (II secolo a.C.) componesse anche un Commento ai Fenomeni di Arato e di Eudosso. L’astronomia aveva una portata culturale più ampia delle indagini geometriche: essa presentava legami col patrimonio mitico e religioso e, proprio a partire dall’età ellenistica, anche con le credenze e le
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indagini astrologiche. Per certi aspetti, dunque, il mondo degli astri non poteva essere rinchiuso nei confini di un sapere specialistico e appariva accessibile anche a forme letterarie diverse dal trattato di tipo euclideo. Nel III secolo a.C. Eratostene di Cirene raccoglieva nei Catasterismi in prosa una serie di miti sull’origine delle costellazioni e componeva poemi sulle trasformazioni di altri esseri in corpi celesti. E Arato di Soli, operante alla corte macedone di Antigono Gonata, produceva con i Fenomeni un esempio di poesia didascalica nella quale già Callimaco riconosceva la presenza di uno stile elevato di stampo esiodeo. Nei contenuti essa si riallacciava alle indagini di Eudosso, ma nell’intendimento si caricava anche di valenze religiose innalzando nel proemio un inno di lode a Zeus. In tal modo essa veniva aggirandosi in un più ampio orizzonte filosofico, in particolare stoico. Proprio il successore di Zenone alla direzione della Stoa, Cleante di Asso, che aveva mosso un’accusa di empietà all’eliocentrismo di Aristarco, componeva parallelamente un Inno a Zeus, secondo gli stilemi dell'inno cultuale, permeato dalla concezione stoica dell’ordine divino del mondo. 7. La competizione tra le filosofie ellenistiche È difficile formarsi un’idea precisa e articolata dei caratteri assunti dagli scritti filosofici nell’età ellenistica, essendone sopravvissuti pochi resti. Da una parte, soprattutto all’interno dell’Accademia scettica da Arcesilao a Carneade, il collegamento con il non sapere socratico e con il Platone aporetico si traduceva anche nella rinuncia a scrivere. Ma sempre in un orizzonte scettico Timone di Fliunte, operante nel III secolo a.C., ricorreva alla poesia per esporre i contenuti dell’insegnamento di Pirrone di Elide, che a sua volta non aveva scritto nulla, e per dare nei Silli una rappresentazione parodistica e polemica dei filosofi dogmatici. Il costituirsi di più scuole filosofiche generava un clima crescente di competitività. La polemica diventava praticamente una ragione d’essere per l'orientamento scettico, che tendeva a configurarsi come una filosofia parassitaria nei confronti delle filosofie che essa demoliva, impiegandone lo stesso linguaggio. Ma il clima della difesa e dell’attacco caratterizzava anche un indirizzo fortemente strutturato come lo stoicismo. Stando alla tradizione antica, gli scritti di Crisippo si presentavano colmi di citazioni altrui, mobilitate sia per essere confutate, sia per sostenere le proprie tesi, tanto che Crisippo fu definito da Carneade un «parassita di libri». Prima di demolire le tesi altrui, egli argomentava a lungo in favore di esse, sicché sembrava
fornire strumenti ai suoi avversari:
in questo
senso appariva a Plutarco come un polipo che rode i propri tentacoli. Soprattutto la tradizione poetica, non solo Omero e Esiodo, ma anche Tirteo o Euripide, era un territorio al quale attingere a piene mani e da sottoporre a sottili esegesi, forse sulla linea del capostipite Zenone, che aveva composto cinque libri di Problemi omerici, ma con occhio ormai aperto al lavoro degli eruditi di Alessandria. Crisippo indulgeva anche ad esercizi etimologici e ritornava ripetutamente sugli stessi ar-
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gomenti per apportare aggiunte e modifiche. I suoi avversari avrebbero detto che, se si fossero eliminate le citazioni, le opere di Crisippo, numerosissime, sarebbero rimaste vuote. Indirettamente questo conferma il peso che il confronto con tesi e argomentazioni di altri indirizzi rivestiva per la produzione letteraria degli stoici. Essi sarebbero anzi riusciti ad imporre il proprio vocabolario come una sorta di koiné linguistica valida per descrivere i contenuti delle varie filosofie. In regresso appariva invece l’uso della forma dialogica, che per certi versi poteva essere giudicata pericolosamente incline a impostazioni scettiche e comunque, in quanto comunicazione indiretta, refrattaria ad una enunciazione assertoria e senza oscillazioni della verità. E neppure Epicuro fece ricorso al dialogo. Con la sua opera principale, in 37 libri, Sulla natura, della quale rimangono soltanto frammenti papiracei, egli costruiva una sorta di work in progress, senza un piano rigidamente precostituito, ritornando più volte nell’arco di più anni sugli stessi problemi e aggiungendo via via libri che giungevano a trattare non solo di filosofia della natura, ma anche di questioni etiche e gnoseologiche. Per certi versi essa doveva presentare somiglianze con le monografie aristoteliche redatte per la scuola. Dominata da un linguaggio tecnico fortemente codificato e percorsa da sottili argomentazioni e da un ampio periodare, quest’opera non doveva essere di immediata e facile comprensione. Epicuro non poteva affidare ad essa sola il proprio messaggio e, infatti, le affiancò la composizione di Epistole, indirizzate a discepoli, le quali esponevano in forma compendiata i capisaldi della sua dottrina, esposti nella sua opera maggiore. Epicuro attribuiva importanza all’esercizio della memoria: questi compendi consentivano ai principianti di fissarsi in mente gli elementi della sua dottrina e a quelli già avanzati di richiamarli nelle varie circostanze della vita. Un aspetto tipico dell’attività letteraria della scuola epicurea divennero appunto queste esposizioni riassuntive e le raccolte di massime estratte dagli scritti del maestro. Ancora verso la fine del II secolo d.C. Diogene di Enoanda avrebbe fatto incidere in un portico le linee fondamentali del messaggio di salvezza di Epicuro, fissandolo in una sorta di libro indelebile di pietra. Naturalmente nelle epistole e nelle epitomi la dimensione polemica tendeva a scomparire, ma nell’opera maggiore di Epicuro essa non era assente. Anche qui discepoli quali Colote avrebbero seguito il maestro nel mostrare, contro le pretese degli altri indirizzi filosofici, che solo nel giardino di Epicuro era possibile trovare la felicità. Ma la polemica filosofica poteva essere condotta anche mediante l’impiego di altri generi letterari, in particolare della biografia, infarcita di aneddoti e apoftegmi, volti a mostrare l’esemplarità della condotta e degli insegnamenti di un filosofo, ma non di rado anche a denigrarlo. Un orientamento, quest’ultimo, che forse già aveva preso piede con Aristosseno di Taranto, che aveva delineato ritratti in negativo di Socrate e Platone, contrapposti a un’immagine esemplare di Pitagora. In questa stessa direzione si muovevano le accuse di plagio, già inaugurate dall’allievo di Isocrate, Teopompo, che aveva ravvisato il nucleo della maggior parte dei dialoghi plato-
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nici in molti dialoghi composti da altri discepoli di Socrate. Aristosseno stesso avrebbe considerato la Repubblica di Platone un plagio delle Antilogie di Protagora. Filosofare era ormai necessariamente anche combattere con rivali: la circolazione orale e scritta dei temi dell’indagine filosofica era un correlato di questa competizione. In un solo caso si riteneva di dover filosofare fuori di una sede stabile, itinerando per le città e facendo proseliti per strada. I cinici divennero ben presto figure di eccezione nel panorama filosofico, noti per il carattere eccentrico del loro modo di vita, che cercava di prescindere il più possibile dai bisogni indotti dalla vita associata. I loro tentativi di proselitismo utilizzavano in primo luogo forme di predicazione orale, ma non esitavano a ricorrere anche al verso. A Diogene di Sinope e a Cratete di Tebe era attribuita anche la composizione di tragedie, destinate verosimilmente a letture pubbliche più che al teatro. Dal loro insegnamento si generarono raccolte di chreiai, brevi sentenze utili per la guida della condotta. Ma soprattutto essi posero le basi per lo sviluppo della diatriba, che avrebbe goduto notevole fortuna anche in ambiente romano. Intrisa di satira, rapide battute ed espedienti retorici, essa ampliava il tema di una risposta esemplare data a un personaggio reale o immaginario, sino a configurarlo come un vero e proprio dialogo del declamatore con un interlocutore immaginario. Essa si rivelava come un efficace strumento di predicazione e di propaganda anche in ambienti più popolari. 8. L’erudizione filosofica e l’esegesi del passato Nelle filosofie ellenistiche, accanto all’uso polemico si registrava anche un altro uso del libro, come strumento per costruire o consolidare una tradizione e una immagine di scuola. Questa tendenza era particolarmente avvertita nella scuola epicurea, dove il maestro appariva colui che aveva aperto la strada del rischiaramento e del rasserenamento. La necessità di contrapporsi a scuole rivali tendeva a generare un senso di compattezza e chiusura interna. A lungo andare ciò avrebbe condotto a considerare le scuole come luoghi di ortodossia, contrariamente a quanto erano state per Platone, Aristotele e anche per il primo stoicismo. In questo clima la filosofia veniva concepita come un sistema senza falle e la letteratura filosofica si veniva configurando come conservazione ed esegesi del proprio patrimonio sistematico. Si ponevano così le premesse per la nascita del concetto di autorità e per l’attribuzione di essa a insegnamenti e scritti. Un sintomo di questo processo è dato anche dalla letteratura pseudepigrafa, in parte conservata, che comincia a circolare forse già a partire dal II secolo a.C., opera di autori che celano i propri scritti sotto il nome di personaggi evidentemente ormai illustri e autorevoli, come Democrito o Pitagora o Socrate. Naturalmente questa opera-
zione aveva maggiori possibilità di successo quando si ricorreva a nomi di personaggi che nulla avevano scritto o delle cui opere nulla era rimasto.
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Ma la genesi della nozione di tradizione forse non è pienamente pensabile senza il contemporaneo lavoro che l’erudizione alessandrina veniva svolgendo sui testi di poeti e prosatori. Talvolta essa sfiorava anche la letteratura filosofica. A Callimaco è attribuita la redazione di una sorta di vocabolario del linguaggio democriteo. Anche per i testi di alcuni filosofi si venne avvertendo l’esigenza di un’edizione attendibile. Per gli scritti di scuola di Aristotele — che secondo un'antica tradizione erano scomparsi da tempo dalla circolazione anche all’interno del Peripato — fece epoca l’edizione curata da Andronico di Rodi nel I secolo a.C. Ad essa probabilmente risale la veste di trattati completi e dotati di titolo con la quale questi scritti sono pervenuti a noi. Trasillo, l’astronomo di Tiberio, avrebbe ordinato gli scritti di Democrito e di Platone in tetralo-
gie, tentando anche una classificazione dei tipi di dialogo in base alla loro destinazione e alle modalità della discussione condotta in essi. Il lavoro editoriale incontrava inevitabilmente questioni di autenticità. Andronico per esempio non considerava autentico il De interpretatione aristotelico. E anche in seguito particolarmente delicato sarebbe apparso il problema delle Categorie. La disponibilità di testi sicuri diventava essenziale per una pratica scolastica che sempre più si articolava come esplicazione di testi, soprattutto del capostipite della scuola. La forma più elementare dell’esegesi era costituita dalla parafrasi, genere già praticato da Andronico a proposito delle Categorie, ma diffuso anche in età imperiale. Obiettivi più rilevanti si poneva invece il commento, di cui si sono cercate le tracce già nel IV secolo a.C., per esempio nell’esegesi di Eraclito condotta da Antistene. Certo il Timeo platonico doveva essere stato ampiamente discusso sia nell'Accademia, sia nel Peripato. E un commento ad esso è attribuito a Posidonio di Apamea (I secolo a.C.). Su questo sfondo prendeva forma il tipo di commentario continuo, che segue passo passo il testo per dissolverne le oscurità, più che per accertare verità o falsità delle singole tesi. L’esponente più noto di questa impostazione sarebbe stato Alessandro di Afrodisia, operante tra il II e il III secolo d.C., i cui commenti a varie opere di Aristotele sono stati in parte conservati. A questo lavoro, attento talora anche a problemi testuali, Alessandro affiancava la composizione di brevi monografie per risolvere problemi concettuali sollevati dagli scritti aristotelici, allo scopo di spiegare Aristotele in primo luogo mediante Aristotele stesso. Soltanto in epoca più tarda, soprattutto con i commenti di Simplicio alla Fisica e al De coelo, si sarebbe fatto ampio ricorso anche a testi dei presocratici per chiarire le affermazioni di Aristotele. Forse già a partire dal neoplatonico Porfirio invalse la pratica, poi codificata da Proclo, di apporre ai commentari prolegomeni nei quali si illustrava lo scopo del trattato, la sua appartenenza a una delle parti della filosofia, il suo piano compositivo. Per i neoplatonici queste considerazioni si collegavano anche alla sequenza che essi istituivano nel corso degli studi: se lo studio di Aristotele rappresentava una iniziazione ai misteri di primo grado, il culmine dell’iniziazione era costituito dallo studio di Platone. Una buona porzione di questa letteratura tarda è stata conservata e, oltre a fornire strumenti preziosi per la ricostruzione
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storiografica, documenta anche il modificarsi degli interessi nella lettura e nello studio dei testi eminenti della tradizione filosofica. Non è del tutto irrilevante che della Politica aristotelica non ci sia traccia di commenti. Ma la letteratura dei commenti è ancor in gran parte per noi un oggetto incognito, bisognoso di indagini. La funzionalità didattica di essa è ovvia. Ma qui si poneva anche il problema — già chiaro agli stoici — dell’ordine nel quale doveva essere insegnata una filosofia, essendosi ormai consolidata la tripartizione in logica, fisica, etica, e delle modalità con le quali iniziare ad essa i principianti. A tale scopo s’iniziarono a scrivere le Introduzioni alle singole parti della filosofia (già Crisippo per esempio avrebbe composto una /ntroduzione alla logica), oppure a una filosofia nel suo complesso (per esempio a Platone, come nel Didascalico di Alcinoo). La composizione di questo tipo di scritti presupponeva che la filosofia, o la parte di essa alla quale s’intendeva introdurre, fossero ormai campi sostanzialmente consolidati del sapere e pienamente articolati nelle loro parti. Non è escluso che un modello potesse essere suggerito dai manuali delle varie tecniche. In ogni caso era il senso di possedere la totalità di un sapere che consentiva di indulgere a partizioni, classificazioni, definizioni. L’intento sembrava ormai quello di rimanere entro i confini ben tracciati di una filosofia, più che di procedere oltre o fuori di essa. Il problema semmai era quello di provvedere alla sistemazione e al riordinamento interno. Una qualche verità, anche se con una vena retorica, sarebbe risuonata nella ben nota affermazione di Seneca: quae philosophia fuit, facta philologia est. 9. Le ombre del passato e l’incontro con la retorica Rispetto alla perdita pressoché totale della letteratura filosofica ellenistica, i resti dell’età imperiale appaiono straordinariamente ampi. L’aspetto più significativo della produzione dei primi secoli dell’impero è la persistenza dei vecchi indirizzi filosofici. Naturalmente non sempre essi si presentano unitari: ciò è particolarmente evidente nel caso del platonismo, per l’avvenuta divaricazione tra un orientamento scettico e un’impostazione teologizzante, che poteva trovare punti d’incontro con alcuni aspetti dell’aristotelismo e dello stoicismo. Ma di fatto quanto si viene elaborando è concepito in primo luogo come riproposizione o prosecuzione dell’antico o come riscoperta del suo vero volto, magari tradito o sfigurato. Questo atteggiamento produce i suoi effetti anche nell’utilizzazione delle forme di scrittura filosofica. Nella maggior parte dei casi si tratta di riprese, sovente deliberatamente perseguite, di antichi generi, ma rimpolpati da presentazioni parallele, confronti e discussioni polemiche tra i vari orientamenti filosofici. E questa operazione di arricchimento del materiale tematico, che compensa non di rado la povertà argomentativa, era ormai resa possibile dal proliferare della letteratura dossografica ed esegetica. Il contatto con il mondo romano aveva anche contribuito ad accen-
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tuare una concezione della filosofia come guida e terapia dell’anima. Ciò avvenne soprattutto nel I secolo d.C., quando la classe senatoria avvertì una perdita inarrestabile di potere e la filosofia, soprattutto stoica, sembrò fornire un surrogato a questa perdita e gli strumenti per affrontare lutti, esilio, vecchiaia o morte. Un’inevitabile tono predicatorio ed edificante era destinato a percorrere questo tipo di scritti. Proprio in questo
periodo ebbe ampia diffusione il genere delle consolationes. L’ex schiavo Epitteto concepiva la scuola filosofica come una casa di cura dalla quale si doveva uscire migliorati. Egli si opponeva alla riduzione dell’insegnamento filosofico ad una esegesi dei testi della scuola, per esempio di Crisippo. Pur nel solco di una fondamentale adesione allo stoicismo, egli ravvisava modelli di filosofo in Socrate o nel cinico Diogene. E come Socrate, egli propriamente non scrisse. Gli scritti conservati sotto il suo nome furono redatti da Arriano, che era stato suo allievo a Nicopoli e che, dopo la morte del maestro, aveva deciso di pubblicare gli appunti presi durante le lezioni, a causa della circolazione di una sorta di edizione pirata. I quattro libri rimastici delle Diatribe — un titolo che richiamava la tradizione cinica — non manifestano un piano compositivo esplicito e conservano il tono di quotidianità e non sistematicità della conversazione di Epitteto. Arriano intendeva essere per Epitteto quello che Senofonte era stato per Socrate, e una certa parentela di composizione e struttura intercorre fra le Diatribe e i Memorabili. Arriano si uniformava alle tendenze del tempo all’arcaismo letterario. Egli si poneva obiettivi di fedele registrazione dell’insegnamento del maestro, ma non siamo sicuri che non operasse selezioni, anche perché
nelle lezioni Epitteto doveva pure leggere e commentare testi. Arriano metteva in scena Epitteto mentre rispondeva a interlocutori per lo più anonimi o anche a se stesso, in un intrecciarsi di stile diretto e indiretto, con passaggi repentini da toni sublimi e drammatici a un linguaggio familiare, dall’invettiva all’esortazione. In questo tipo di scrittura le componenti retoriche e l’appello alle emozioni erano almeno altrettanto forti di quelle argomentative. La filosofia accentuava in questo modo la sua vocazione pedagogica di messaggio di vita. Il Manuale, invece, redatto anch’esso da Arriano, raccoglieva in brevi massime l’essenziale dell’insegnamento etico di Epitteto e metteva, quindi, letteralmente in mano ai suoi destinatari uno strumento per orientarsi nelle circostanze della vita. Per questo aspetto la sua funzione non era così lontana da quella delle Lettere di Epicuro. Per vari anni Epitteto era vissuto a Roma, avvicinandosi allo stoicismo attraverso l’insegnamento di Musonio Rufo. Ma soprattutto nelle province di lingua greca la filosofia diventava una componente essenziale dell’identità non solo culturale delle élites. Il caso di Plutarco, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., è esemplare da questo punto di vista, anche per la sua capacità di rimettere in circolazione i modelli tradizionali della scrittura filosofica. Se negli scritti più popolari ricorreva anche
allo stile diatribico, alla predica e al consiglio morale, per il suo platoni-
smo di fondo egli privilegiava il genere del dialogo, con ambientazioni sceniche e a volte l'introduzione di miti escatologici, appunto alla manie-
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ra platonica, come negli scritti Sulla tarda punizione divina o Sul volto della luna. Ma spesso l’esposizione continua prendeva il sopravvento rispetto alla successione dialettica di domande e risposte. Il fatto è che in Plutarco era forte l’esigenza di far comparire nel quadro narrativo ed espositivo un ingente materiale antiquario, che proiettava sui tempi ormai lunghi della tradizione filosofica e delle alternative da essa presentate la discussione dei vari problemi. Ciò si accompagnava alla ripresa di un intento polemico verso altri indirizzi, in particolare lo stoicismo e l’epicureismo, soprattutto verso le loro concezioni teologiche. L’indagine sui problemi filosofici era ormai saldamente ancorata a repertori di soluzioni tradizionali e passava attraverso una sorta di tiro incrociato fra posizioni dottrinali già consolidate. Platone diventava l’oggetto privilegiato di un’attivitä esegetica: così nelle Questioni platoniche. Ma anche nello scritto Sulla generazione dell'anima nel Timeo,
che ha
forma di lettera indirizzata ai propri figli, l’esegesi è proiettata sullo sfondo di interpretazioni alternative del dialogo platonico rintracciabili nella tradizione. Meno che mai la filosofia poteva iniziare da zero; filosofare senza leggere e senza libri era un’irrealtà. Anche gli scritti sulla psicologia degli animali si alimentavano dei dati della tradizione, talvolta anche di quella favolistica. Una più forte impronta personale appariva invece nella curvatura religiosa che Plutarco imprimeva al platonismo e che si saldava alla sua funzione di sacerdote a Delfi. Essa si esprimeva in frequenti puntate verso i problemi della teodicea, i misteri egiziani, la demonologia. Era questo platonismo bisognoso di saldarsi a una reviviscenza della tradizione religiosa, questo incontro fra due tradizioni, che tendeva ormai a imporsi e avrebbe celebrato i suoi fasti soprattutto nell’ultimo neoplatonismo. L’appello al passato come fonte di sicurezza e la concezione terapeutica della filosofia si alimentavano ormai di un nuovo rapporto con la retorica, non più conflittuale come ai tempi di Platone. Questo aspetto era particolarmente evidente in Dione di Prusa: nei suoi Discorsi egli mobilitava l’armamentario della propaganda cinica e della forma della diatriba, riproponendo in Socrate e soprattutto in Diogene il cinico il modello del vero filosofo, ma con un linguaggio attento alle risorse della retorica e alla varietà dei suoi destinatari. Lo scrivere era qui saldamente ancorato al parlare in pubblico, che diventava essenziale per questo tipo di filosofo mirante alla costruzione di forme di consenso pubblico e alla costruzione di un progetto di collaborazione delle élites provinciali con il potere centrale. In bilico tra filosofia e retorica si sarebbe mosso nel II secolo d.C. anche Luciano di Samosata. Nel ritratto satirico dei propri tempi egli includeva anche i filosofi, nella loro corsa affannata al guadagno e all’adulazione, sì da confondersi con la figura del parassita. Contro di essi egli ergeva la tradizione fondamentalmente unitaria dei vari filosofi del passato, dalla quale egli attingeva come un’ape dai vari fiori, senza legarsi troppo saldamente a un unico indirizzo. Ciò si accompagnava alla ripresa della forma dialogo, ma spogliata dalle complessità argomentative dell’archetipo platonico, più immersa nelle piccole faccende della quoti-
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dianità discusse da nuovi protagonisti, dei, morti o cortigiane. E, anch’egli sulla scorta di Senofonte, Luciano non esitava a ricorrere al modello dei Memorabili per delineare nella Vita di Demonatte il ritratto di un cinico virtuoso. Rispetto a una filosofia che tendeva a stringersi alla retorica e a parlare ad un più vasto pubblico, assumendo a volte forme spettacolari, può sembrare in contrasto totale l’esercizio di una scrittura filosofica come registrazione di un ripiegamento interiore, tanto più impressionante in quanto trovava espressione nell’opera dell’uomo più pubblico, l’imperatore: i Colloqui con se stesso di Marco Aurelio. Qui l'andamento gnomico e aforistico, anziché pretendere immediatamente all’universalità, si rivolgeva in primo luogo all’autore stesso, richiamandolo incessantemente alla sua miseria e debolezza di particella effimera, ma entro un universo razionale nella sua totalità. Anche Marco Aurelio aveva avuto in primo luogo una formazione retorica sotto la guida di Frontone. E il suo successivo abbandono della retorica per la filosofia non aveva cancellato le tracce dell’insegnamento di Frontone. Sui Colloqui si è costruita la leggenda di uno scritto composto di getto sotto la tenda durante le campagne militari. Ciò ha generato l’impressione di uno scritto spontaneo, scarsamente sorvegliato sul piano letterario. In realtà esso è sapientemente orchestrato nella sua brevità incisiva, colmo di immagini, interrogazioni retoriche, imperativi e parenesi rivolte a se stesso, allo scopo di fornire un'immagine di sé come oggetto di costruzione incessante, lontano dal sogno platonico di realizzare una repubblica ideale. L’interesse per il filosofo più che per la filosofia era rivitalizzato anche dal fatto che per l’impero si aggiravano ormai figure rivali di “uomini divini”, asceti dotati di poteri taumaturgici. Il ritratto di uno di essi, tinto di meraviglioso e delle inquietudini dell’occulto, era dato da Filostrato nella Vita di Apollonio di Tiana, vissuto nel I secolo d.C., che sembrava aver rinnovato il miracolo della nascita di un nuovo Pitagora. E Filostrato era anche autore di due libri di Vite dei sofisti, scritte nei primi decenni del III secolo e dedicate al futuro imperatore Gordiano, le quali coprivano un arco da Gorgia ai suoi tempi facendo ormai dissolvere la distinzione tra filosofia, sofistica e retorica. E ancor più labile sarebbe stata questa distinzione nelle Vite dei filosofi e dei sofisti, composte verso la fine del IV secolo da Eunapio. Ma qui la scena era ormai in gran parte occupata dai neoplatonici e dalle loro esperienze mistiche. Senza puntate verso il presente e anzi con la volontà di rimanere nei limiti dell’antica tradizione filosofica sino al III secolo a.C., erano invece state le Vite e opinioni dei filosofi scritte da Diogene Laerzio probabilmente agli inizi del III secolo d.C. Intrecciando l’uso di materiali biografici con informazioni sui contenuti dottrinali e, nel caso dello stoicismo, una dossografia completa, Diogene costruiva, sulla scorta dello scritto di Sozione sulle Successioni dei filosofi del II secolo a.C., due linee fondamentali della filosofia greca, una ionica e l’altra italica. In buona parte la sua documentazione era già mediata da altre fonti, ma almeno in un caso egli utilizzava materiale diretto, trascrivendo nel libro X tre epistole di Epicuro. Un obiettivo della sua ricostruzione era certo
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la descrizione della filosofia come una peculiarità tipicamente greca, contro ogni tentativo d’individuarne l’origine in Oriente, in Egitto o presso
gli Ebrei. Il riconoscimento del carattere esclusivamente greco della filosofia era comunque più importante che prendere posizione a favore di una determinata filosofia. Diogene poteva dimostrare apprezzamento anche per Epicuro o simpatia per Pirrone. E non si può neppure escludere qualche sua propensione scettica. Del resto lo scetticismo, pur essendo destinato con l’epicureismo a una dura opposizione in ambito cristiano, non aveva cessato di far sentire la sua presenza, anche se più sotterranea dello stoicismo: Cicerone o Plutarco non ne erano stati indenni. Forse verso la fine del II secolo d.C. un medico del quale tutto è praticamente ignoto, Sesto Empirico, compose undici libri raccolti in un’opera complessiva dal titolo Adversus mathematicos. In essa egli demoliva le pretese di scientificità di numerose discipline, dalla grammatica alla retorica, dalla geometria all’aritmetica, dall’astrologia alla musica, e sottoponeva a una serrata confutazione
le filosofie dogmatiche. Nei tre libri degli Schizzi pirroniani la confutazione era preceduta da un sommario di filosofia scettica. Nell’opera di Sesto confluiva il lungo lavoro della tradizione scettica, in primo luogo l’arsenale di argomenti costruiti per demolire la totalità delle dottrine filosofiche mostrandone le divergenze insanabili o le contraddizioni logiche quando convergevano. Di fronte a ciò si apriva l’unica prospettiva sensata della sospensione del giudizio. Ma questa demolizione sistematica diventava possibile soltanto sfruttando ampiamente la letteratura dossografica, che metteva a disposizione il repertorio delle tesi filosofiche raggruppate per temi. Anche lo scetticismo di Sesto si configurava come un modo di scrivere di filosofia attraverso il referente imprescindibile della tradizione filosofica. Era anch'esso un modo di utilizzare gli strumenti scolastici della filosofia, ma per farla esplodere dall’interno. 10. Fra tradizioni scientifiche e religiose Nonostante i dubbi, le riserve e le polemiche dei filosofi, le discipline
fortemente strutturate come la matematica avevano proseguito impertur-
bate per il loro cammino. Nel H secolo d.C. Tolemeo, raccogliendo e ampliando l’eredità di Ipparco, aveva dato con la Syntaxis mathematica — divenuta celebre nel mondo arabo col titolo di Almagesto — un quadro complessivo dei fenomeni celesti e un vasto catalogo di stelle, rivolgendosi a un pubblico di specialisti. Pur continuando a sostenere il primato della forma geometrica, Tolomeo ricorreva ampiamente agli strumenti del calcolo trigonometrico. Ma è significativo che egli non avvertisse alcun contrasto fra questo tipo di libro e la trattazione dei problemi astrologici, condotta anche con l’impiego di coordinate geometriche nel Tetrabiblos. Pur riconoscendo il carattere maggiormente congetturale dell’indagine astrologica, dovuto all’instabilità e mutevolezza dei fenomeni presi in considerazione, Tolemeo non si sentiva esentato dal ricercare anche in essi la presenza di regolarità. Una strada scar-
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samente battuta nella matematica greca, la strada verso il calcolo tracciata piuttosto nella tradizione babilonese, era percorsa da Diofanto nel III secolo d.C. mediante la costruzione di una sorta di quasi-algebra nella sua Aritmetica, della quale ci sono rimasti sei libri. In generale anche la letteratura matematica dell’età imperiale concedeva ormai uno spazio crescente alla conservazione e all’esegesi della propria tradizione. Quest’aspetto è evidente nella Collezione di Pappo, vissuto sotto Diocleziano, la quale è preziosa anche come deposito di notizie su antiche ricerche geometriche, e avrebbe ricevuto un forte im-
pulso dall’interesse dei neoplatonici per le matematiche come vie preparatorie alla dialettica e soprattutto alla teologia. Ciò li avrebbe condotti a : scrivere introduzioni alla geometria e all’aritmetica, lontane dalla forma deduttiva dei trattati di matrice euclidea e attente invece agli aspetti simbolici e mistici dei numeri. Ma li avrebbe anche condotti a commentare gli scritti degli antichi matematici. Esemplare in questa direzione il Commento al I libro degli Elementi di Euclide di Proclo. Eutocio avrebbe commentato anche Archimede e Apollonio. Più articolato è invece il quadro della produzione letteraria dei medici nell’età imperiale. Come si è detto, la medicina non era pervenuta a costituirsi come un sapere unificato, ma aveva conosciuto una condizio-
ne endemica di conflittualità. Naturalmente anche in essa era possibile procedere all’accumulo di un patrimonio osservativo: nella seconda metà del I secolo d.C. Dioscoride raccoglieva nei cinque libri della Materia medica una massa imponente di descrizioni delle proprietà farmacologiche delle piante, probabilmente corredate di illustrazioni, e nell’età antonina Sorano di Efeso avrebbe composto un ampio trattato di Ginecologia. E questi sono soltanto alcuni esempi. Ma la supremazia culturale in ambito medico non poteva essere imposta e assicurata con il solo impiego di modelli teorici medici o di tecniche terapeutiche, sempre in ogni caso insufficienti e sovente fallimentari. Il medico che, come Galeno nel II secolo d.C., perseguiva lucidamente obiettivi di primato e si mostrava attento alle esigenze del pubblico colto di Roma, al quale si rivolgeva con conferenze, dimostrazioni anatomiche e scritti, avvertiva la necessità di agganciare la propria attività alle punte più alte della tradizione non solo medica, ma anche filosofica, in particolare con il platonismo ma anche con l’aristotelismo e alcuni aspetti dello stoicismo. A tale scopo Galeno componeva un gran numero di scritti polemici contro gli erasistratei e altri indirizzi medici, che avevano smarrito il contatto con la vera tradizione medica per lui rappresentata in primo luogo da Ippocrate. E a molti scritti della collezione ippocratica egli dedicava commentari, ponendosi così in sintonia con l’analoga attività esegetica dominante nell’ambito filosofico. Ma soprattutto egli mirava a costruire un’antropologia totale, nella quale confluissero componenti non soltanto mediche, ma filosofiche. Questo aspetto è evidente, per esempio, nel trattato in 17 libri Sull’utilità delle parti, dove la descrizione dei vari organi del corpo umano è inquadrata in una concezione generale della natura, orientata teleologicamente in maniera provvidenziale. La produzione di Galeno fu sterminata; quanto a noi rimane è sol-
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tanto una parte, ma non è stata esplorata adeguatamente nel suo complesso, come pure meriterebbe. La mancanza di un’edizione critica com-
pleta fa qui sentire i suoi effetti negativi. Si dispone ora dell’edizione dei nove libri del De Placitis Hippocratis et Platonis, particolarmente significativo per l’immagine costruita da Galeno della convergenza tra medicina ippocratica e filosofia platonica, lungo le linee di un programma che si compendia nel titolo di un altro breve scritto, Quod optimus medicus philosophus. Era la costruzione di un modello di medico, insieme filosofo e letterato, capace di padroneggiare la molteplicità dei campi del sapere, dall’astronomia alla geometria, ma anche capace di una scrittura che potesse raggiungere non soltanto un pubblico di specialisti e quindi di imporre in una cerchia più vasta il primato di questa nuova figura di medico. Nell’Utilità delle parti Galeno affermava che la natura aveva dato all'uomo la mano soprattutto per scrivere. Non è un caso che egli fosse autore di un’opera singolare, unica nella letteratura antica rimastaci, Sui propri libri, una sorta di ritratto di se stesso attraverso i libri da lui scritti e insieme una vera e propria bibliografia, ordinata per argomento. La filosofia greca si concludeva essenzialmente all'ombra del neoplatonismo. Apparentemente la filosofia di Plotino (205-270) si presenta come un’esegesi perpetua di Platone. Secondo i nostri canoni filologici e storiografici essa può apparire come una cattiva esegesi. In realtà il testo
platonico era punto di partenza per una elaborazione filosofica che non esitava a rivolgersi anche ad Aristotele e allo stoicismo. Nella Vita di Plotino il discepolo Porfirio racconta che il maestro iniziava le sue lezioni con la lettura di commenti di vari autori a Platone o Aristotele; successivamente egli formulava le sue riflessioni in libera successione. Queste presentavano ormai un legame assai allentato con la lettera del testo platonico; tuttavia per Plotino esse erano l’esplicazione di quanto era implicito nel testo, nel senso letterale di un papiro che si srotola per rendere visibili i suoi contenuti. Di fatto l’originalità non era considerata un merito; il filosofare avveniva all'ombra del pensiero altrui, consegnato in uno scritto che richiedeva di essere reso leggibile. Plotino iniziò tardi a scrivere, verso i 51 anni, quando già da una diecina d’anni insegnava a Roma. Egli faceva circolare i suoi scritti nella cerchia degli allievi intimi. Porfirio ci riferisce un elenco di essi in ordine cronologico: da esso emerge che Plotino non procedeva secondo un piano prestabilito e con esigenze di sistematicità, ma affrontava via via questioni che emergevano nel suo insegnamento orale, anche ad opera di domande che gli venivano poste. L'andamento dei suoi scritti riflette quindi il movimento di una riflessione che si dipana da se stessa, come nel flusso dell’oralità, con un tono di improvvisazione, sequenze di proposizioni a volte senza espliciti nessi logici, rapidi scambi di battute con un interlocutore immaginario, ripetizioni, ma anche con l’affiorare di immagini volte a illustrare aspetti difficili da afferrare concettualmente. Dopo la morte del maestro Porfirio, all’inizio del IV secolo d.C., fornì un’edizione complessiva di questi scritti, ma non nell’ordine cronolo-
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gico di composizione, bensì secondo criteri sistematici di contenuto che sottolineavano l’itinerario del filosofo che dalla sua condizione umana si
innalza dal mondo sensibile all’anima, all’intelletto sino all’uno. Porfirio diede un titolo a ciascuno dei 54 scritti di Plotino e li ordinò in sei gruppi, ciascuno di nove scritti (donde il titolo complessivo Enneadi). Non è
da escludere che qui giacessero anche suggestioni derivanti da una concezione simbolica e mistica dei numeri. Ogni scritto tuttavia presupponeva l’intero quadro problematico della filosofia di Plotino, in conformità del resto
con
la nozione
filosofica
della
circolarità
fra tutto
e parti,
sicché ogni parte contiene potenzialmente il tutto. E come già per Platone e Aristotele, si procedeva da un’aporia ai tentativi di risolverla. Lo scritto di Plotino era dunque anche uno specchio dal vivo dell’attività orale entro la scuola e si disponeva sulla falsariga del primato della parola sullo scritto, fatto valere da Platone. Com'è stato detto, la filosofia di Plotino era «una filosofia soprattutto parlata». Sarebbe perciò errato considerare i suoi scritti come forme di propaganda, anche perché i destinatari erano sempre la cerchia ristretta di amici e discepoli e perché Plotino non avvertiva l’esigenza di mediare i contenuti dell’indagine filosofica con i dati della religione pagana tradizionale. Per Plotino la tradizione era eminentemente filosofica. Su una linea di collegamento stretto fra religione ebraica e filosofia greca si era invece mosso già nel I secolo d.C. Filone di Alessandria, con un'imponente produzione esegetica sulla Bibbia, nella quale erano utilizzati anche gli strumenti concettuali e dell’interpretazione allegorica apprestati dalla filosofia greca. Ma in ambito pagano soprattutto i neoplatonici posteriori a Plotino, immersi ormai in un mondo che assisteva al successo crescente del cristianesimo, avrebbero tentato una rivitalizzazione filosofica del paganesimo, ma sempre all’interno di una ristretta minoranza colta. La dimensione erudita rimase una componente essenziale. Porfirio commentò assiduamente Platone e Aristotele e fu soprannominato «biblioteca vivente». Con lui s’imponeva anche un revival pitagorico, strettamente saldato alle prospettive aperte dalla filosofia di Plotino, sia in una Vita di Pitagora, sia nella difesa del vegetarianismo condotta nel De abstinentia. Rispetto a Plotino la tradizione aumentava di dimensioni, poteva essere contrapposta al cristianesimo e collegata anche a forme di religiosità pratica. Anche un passo dell’Odissea poteva essere interpretato allegoricamente in chiave ascetica e mistica, come viaggio dell'anima dal mondo
sensibile al divino, in uno scritto esem-
plare per comprendere le tecniche esegetiche neoplatoniche, l’Antro delle ninfe. Con Giamblico di Calcide (275-330 circa) la figura del filosofo tendeva a confluire in quella del sacerdote e del teurgo, capace di accedere al divino anche mediante pratiche occulte e magiche. Egli riprendeva l'antica forma letteraria del protrettico in uno scritto omonimo, che si riduceva a un centone di passi tratti da dialoghi platonici e dal Protrettico aristotelico, con brevi formule di raccordo. Ma a questo scritto ne erano collegati altri, al centro dei quali erano l’insegnamento pitagorico e una concezione della matematica come propedeutica alla teologia. La
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filosofia stessa appariva ormai dotata di un’origine divina e non rimaneva più rinchiusa nei confini del mondo greco. Nei Misteri egiziani, risalenti probabilmente a Giamblico, era costruito un vero e proprio manuale di iniziazione misterica e cultuale, che ravvisava nell’Egitto la vera fonte della rivelazione divina: un modello di sapere sacerdotale che tuttavia non rinunciava del tutto a procedure tradizionali di scrittura, scandite in un ritmo di aporie e soluzioni. Ancor più legata ai generi tradizionali della scrittura filosofica e alla loro funzionalità rispetto all'insegnamento nella scuola sarebbe apparsa l’opera di Proclo (410-484), con il quale si suole far terminare la filosofia antica. Con numerosi commentari e con l'esposizione a carattere sistematico condotta nella Teologia platonica, che poneva al vertice del pensiero platonico la tematica dell’uno e dei molti affrontata nella seconda parte del Parmenide, Proclo intendeva far emergere la dimensione teologica del platonismo e le sue connessioni con il patrimonio religioso della tradizione pagana. In questo orizzonte teologico egli poteva altresì far confluire sia la struttura del trattato euclideo assiomatico-deduttivo (negli Elementi di teologia), sia l’antica forma dell’inno cultuale. Buona parte dei generi della letteratura filosofica erano così ricuperati e assorbiti, ma rimaneva fuori, pressoché inutilizzata, la forma dialogica, inaugurata dal filosofo che pure per i neoplatonici era il vertice della filosofia greca. Bibliografia Non esiste ancora una storia complessiva delle forme e dei generi impiegati nella letteratura filosofica e scientifica dell’antichità. Per la ricostruzione delle dottrine dei filosofi antichi è ancora fondamentale E. Zeller, Die Philosophie der Griechen
in ihrer geschichtliche Entwicklung,
Leipzig
1892
ss. Dal
1932 è in
corso la pubblicazione, avviata per iniziativa di R. Mondolfo, della traduzione italiana di essa: ne sono già comparsi vari volumi, con ampie discussioni bibliografiche, presso La Nuova Italia di Firenze. L'altra grande opera della storiografia dell’Ottocento è T. Gomperz, Pensatori greci, trad. it., 4 voll., Firenze 1933-
1962, che copre l’arco cronologico sino a Stratone. Ampia bibliografia sino al 1920 è fornita da F. Uberweg, K. Praechter, Grundriss der Geschichte der Philo-
sophie, I, Altertum, Berlin 1926'?. È ora in corso un rifacimento, del quale è uscito il volume su Altere Akademie,
Aristoteles, Peripatos, Basel 1983, redatto
da H.J. Krämer, H. Flashar, F. Wehrli. Interrotta ad Aristotele per la morte dell’autore è rimasta l’opera di W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, 6 voll., Cambridge 1951-81. Ampie esposizioni sono fornite da F. Adorno, La filosofia antica, 2 voll., Milano 1961-5, e G. Reale, Storia della filosofia antica, 5 voll., Milano 1975-1980. Un quadro sintetico delle concezioni antiche della filo-
sofia, della posizione dei filosofi nelle città e poi nell'impero e del loro uso del passato è in G. Cambiano, La filosofia in Grecia e a Roma, Bari 19872. In queste opere sono anche reperibili vaste bibliografie sui singoli pensatori o correnti. Alla storia della filosofia antica sono dedicate alcune riviste, quali “Phronesis”, “Oxford Studies in Ancient Philosophy”, “Elenchos”, “Ancient Philosophy” e “Revue de philosophie ancienne”. Studi classici anche sulla posizione della prima filosofia all’interno della cultura greca sono W. Jiger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, 3 voll., trad.
La letteratura filosofica e scientifica
it., Firenze
1936 ss.; W. Nestle, Vom Mythos zum Logos, Stuttgart
285
19422; B.
Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it., Torino 1963; E.R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, trad. it., Firenze 1959; E.A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone, trad. it., Bari 1973; J.-P.
Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, trad. it., Torino 1970. Sui caratteri dei generi letterari impiegati dai filosofi antichi fornisce ampie informazioni e una ricca bibliografia M. Untersteiner, Problemi di filologia filosofica, Milano 1980. Un rapido quadro è delineato da H. Cherniss, Ancient Forms of Philosophic Discourse, in Selected Papers, Leiden 1977, pp. 14-35. Su-
gli aspetti della produzione filosofica, medica e matematica più antica e sui processi di costituzione di un lessico e di un linguaggio tecnico, cfr., oltre al libro già citato di Snell, H. Fränkel, Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 19622, e Id., Wege und Formen frühgriechischen Denkens, Miinchen 1959?; K. von Fritz, Philosophie und sprachlicher Ausdruck bei Demokrit, Plato und Aristoteles, Darmstadt 1963 (repr.), e Id., Grundprobleme der
Geschichte der antiken Wissenschaft, Berlin-New York 1971; B.A. Van Groningen, La composition littéraire archaîque grecque, Amsterdam 1958; E. Schmalzriedt, Peri physeos. Zur Frühgeschichte der Buchtitel, München 1970; D. Lanza,
Lingua e discorso nell’Atene delle professioni, Napoli 1979; V. Di Benedetto, Il medico e la malattia. La scienza di Ippocrate, Torino 1986. Lo svilupparsi delle tecniche di argomentazione in ambito filosofico e scientifico sino alla scuola di Aristotele è studiato da G.E.R. Lloyd, Polarity and Analogy. Two Types of Argumentation in Early Greek Thought, Cambridge 1966; Id., Magia ragione esperienza. Nascita e forme della scienza greca, trad. it., Torino 1982; Id., Science, Folklore and Ideology. Studies in the Life Sciences ih Ancient Greece, Cambridge 1983. Sullo sfondo occorre tenere presenti Libri editori e pubblico nel mondo antico, a cura di G. Cavallo, Bari 1975, e L.D. Reynolds, N.G. Wil-
son, Copisti e filologi, Padova 1974?.
I filosofi ricorsero anche talora ai generi della biografia e dell’autobiografia: su essi cfr. G. Misch, Geschichte der Autobiographie, vol. I, Bern 19493; A. Dihle, Studien zur griechischen Biographie, Gôttingen 1970? e soprattutto A. Momi-
gliano, Lo sviluppo della biografia greca, trad. it., Torino 1974. Sulle tipologie della letteratura socratica e in particolare sul genere dei Memorabili sono ancora utili gli studi di O. Gigon, Sokrates. Sein Bild in Dichtung und Geschichte, Bern 1947;
Id., Kommentar
zum
ersten Buch
von Xenophons
Memorabilien,
Basel
1953, e Id., Kommentar zum zweiten Buch von Xenophons Memorabilien, Basel 1956. Sull’attenzione al linguaggio nella letteratura socratica e platonica cfr. C.]. Classen, Sprachliche Deutung als Triebkraft platonischen und sokratischen Philosophierens, München 1959. Sul dialogo, sia in generale, sia nello specifico uso platonico cfr. R. Hirzel, Der Dialog, 2 voll., Leipzig 1895; P. Friedländer, Platone, trad. it., Firenze 1979; V. Goldschmidt, Le dialogues de Platon. Structure et
méthode dialectique, Paris 1947; J. Andrieu, Le dialogue antique: structure et présentation, Paris 1954; H. Gundert, Dialog und Dialektik. Zur Struktur des platonischen Dialogs, Amsterdam 1977. Il problema del dialogo è connesso a quello dei rapporti tra insegnamento orale e affermarsi della scrittura: su questo punto, oltre al libro già citato di Havelock e ai saggi raccolti in Oralità scrittura spettacolo, a cura di M. Vegetti, Torino 1983, cfr. K. Gaiser, Protreptik und Paränese bei Platon, Stuttgart 1959, e Id., Platone come scrittore filosofico, Napoli
1984 (con altra bibliografia). Per i rapporti di Platone con la poesia e con il mito cfr., tra le ultime cose, J. Dalfen, Polis und Poiesis. Die Auseinandersetzung mit der Dichtung bei Platon und seinen Zeitgenossen, Miinchen
1974, e L. Brisson,
Platon. Les mots et les mythes, Paris 1982 (con bibl.). Un problema a parte è posto dalle lettere platoniche: su esse cfr. G. Pasquali, Le lettere di Platone, Fi-
286
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
renze 1938, e M. Isnardi Parente, Filosofia e politica nelle lettere di Platone, Napoli 1970. Sulla letteratura protrettica cfr. I. Düring, Aristotle’s Protrepticus. An Attempt at Reconstruction, Göteborg 1961; A.J. Festugiere, Les trois “protreptiques” de Platon, Paris 1973. Sull'attività filosofica all’interno delle scuole di Platone e di Aristotele cfr. H. Cherniss, L'enigma dell’Accademia antica, trad. it., Firenze 1974; J.-P. Lynch, Aristotle's School. A Study of a Greek Educational Institution,
Berkeley-Los Angeles-London 1972; e la raccolta di saggi a cura di C. Natali, La scuola dei filosofi, L'Aquila 1981. Sugli scritti aristotelici sono ancora essenziali W.
Jaeger, Aristotele.
Prime
linee di una storia della sua evoluzione spirituale,
trad. it., Firenze 1935; I. Düring, Aristotele. Esposizione e interpretazione della
sua dottrina, trad. it., Milano 1976; A.H. Chroust, Aristotle. New Light on His Life and on Some of His Lost Works, 2 voll., London 1973. Cfr. anche la raccolta di Articles on Aristotle, 4 voll., a cura di J. Barnes, M. Schofield, R. Sorabji,
London 1975. Sulle polemiche filosofiche cfr. G.E.L. Owen, Philosophical Invective, in Id.,
Logic, Science and Dialectic, Ithaca-New York 1986. Un quadro generale delle filosofie ellenistiche è fornito da A.A. Long, Hellenistic Philosophy, London 1974. Sulla letteratura stoica è sempre importante M. Pohlenz, La Stoa, trad. it., 2 voll., Firenze 1967. Ma manca uno studio complessivo sulle forme letterarie impiegate dagli stoici. Sulla composizione del Peri physeos di Epicuro cfr. l’appendice di G. Arrighetti alla sua edizione di Epicuro, Opere, Torino 19732. Per lo scetticismo cfr. AA.VV., Lo scetticismo antico, 2 voll., Napoli 1981 (con ricca bibliografia). Sul genere della diatriba cfr. J.F. Kindstrand, Bion of Borysthenes. A Collection of the Fragments, Uppsala 1976. Sulla letteratura delle consolazioni cfr. R. Kassel, Untersuchungen zur griechischen und rômischen Konsolationsliteratur, München 1958 e H.T. Johann, Trauer und Trost. Eine quellen- und struk-
turanalytische Untersuchung der philosophischen Trostschriften über den Tod, Miinchen 1968. Sull’erudizione e sulla filologia cfr. in generale R. Pfeiffer, Storia della filologia classica, trad. it. Napoli 1973. Sulla letteratura dossografica, i commentari e i manuali di scuola il punto di partenza è ancora H. Diels, Doxographi Graeci, Berlin 1879. Cfr. ora M. Giusta, Dossografi di etica, 2 voll., Torino 1964-67; W. von Kienle, Die Berichte über die Sukzessionen der Philosophen in der hellenisti-
schen und spätantiken Literatur, Berlin 1961. Sull’esegesi aristotelica cfr. P. Moraux, Der Aristotelismus bei den Griechen, 2 voll., Berlin 1973-1984. Un quadro delle forme letterarie di scuola è anche in P.L. Donini, Le scuole, l’anima, l’impero. La filosofia antica da Antioco a Plotino, Torino 1982. Cfr. ora Storiografia
e dossografia nella filosofia antica, a cura di G. Cambiano, Torino 1986. Sull’opera di Diogene Laerzio cfr. J. Mejer, Diogenes Laertius and His Hellenistic Background, Wiesbaden 1978, e ora M. Gigante in “Elenchos”, VII, 1986. Per un panorama della letteratura scientifica antica cfr. I! sapere degli antichi, a cura di M. Vegetti, Torino 1985. Sulla forma dei trattati è importante M. Fuhrmann, Das systematische Lehrbuch. Ein Beitrag zur Geschichte der Wissen-
schaften in der Antike, Göttingen 1960. Cfr. inoltre L. Edelstein, Ancient Medicine, Baltimore
1967; Antike Medizin, a cura di H. Flashar, Darmstadt
1971;
l'introduzione di M. Vegetti a Galeno, Opere scelte, Torino 1978. Mentre gli scritti matematici richiedono ancora in gran parte di essere esplorati dal punto di vista letterario, per i manuali di tecnologia cfr. A.G. Drachman, The Mechanical Technology of Greek and Roman Antiquity, Copenhagen 1963, e E.W. Marsden, Greek and Roman Artillery. Technical Treatises, Oxford 1971. Sulla presenza di illustrazioni negli antichi libri scientifici cfr. E. Bethe, Buch und Bild im Altertum, Leipzig 1945.
La letteratura filosofica e scientifica
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Per l’incontro con la retorica cfr. in generale G. Kennedy, The Art of Persuasion in Greece, Princeton
1963 e Id., The Art of Rhetoric in the Roman
World,
Princeton 1972. Sui personaggi più significativi dei primi secoli dell’impero cfr. B.L. Hijmans, Askesis. Notes on Epictetus’ Educational System, Assen 1959; P. Desideri, Dione di Prusa, Messina-Firenze 1978 (con vasta bibl.); K. Ziegler, Plutarco, trad. it., Brescia 1965; B.P. Reardon, Courants littéraires grecs des IF et III siècles après J.C., Paris 1971; L. Bompaire, Lucien écrivain, Paris 1958; ].
Dalfen,
Formgeschichtliche
Untersuchungen
zu den
Selbstbetrachtungen
Marc
Aurels, Miinchen 1967, e l’introduzione di G. Cortassa a Marco Aurelio, Scritti, Torino 1984. Sulla letteratura neoplatonica cfr. il panorama generale di R.T. Wallis, Neo-
platonism, London 1972; Die Philosophie des Neuplatonismus, a cura di C. Zintzen, Darmstadt
doeuvres-Genève
1977;
1955;
AA.VV.,
AA.VV.,
Recherches sur la tradition platonicienne,
Les sources
de Plotin,
Van-
Vandoeuvres-Genève
1957; AA.VV., De Jamblique à Proclus, Vandoeuvres-Genève 1975, e vari saggi raccolti in A.J. Festugière, Etudes de philosophie grecque, Paris 1971; J. Coulter, The Literary Microcosm. Theories of Interpretation of the Later Neoplatonists,
Leiden 1976.
Roberto Pretagostini La poesia ellenistica
1. Caratteri generali Con il termine “ellenismo”, usato dal Droysen per designare il complesso periodo storico che inizia con la fine del IV secolo a.C. e da lui inteso come momento di trapasso dalla civiltà greca classica alla civiltà cristiana attraverso la ‘mescolanza’ della vita occidentale e orientale, la
maggioranza degli studiosi intende oggi riferirsi al periodo storico-culturale che va dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla definitiva scomparsa, a seguito della conquista romana (30 a.C.), del regno di Egitto, l’ultimo dei grandi regni nati dalla spartizione dell'impero di Alessandro. La città di Alessandria, fondata nel 332 dal condottiero macedone
sull’estremo braccio sinistro del delta del Nilo e promossa capitale del regno quando Tolomeo I Soter, l’iniziatore della dinastia dei Lagidi, si proclamò re del nuovo regno autonomo di Egitto (305 a.C.), divenne nel giro di pochissimi anni il più importante centro culturale del mondo antico; di qui l’uso di designare anche come “alessandrino” questo periodo storico-culturale. Nell’ambito del complesso architettonico della reggia di Alessandria, Tolomeo I, probabilmente su consiglio dell’aristotelico Demetrio Falereo, fece costruire, negli ultimi anni del suo regno, il Museo, l’edificio che fungeva da sede centrale di tutto il lavoro culturale e scientifico e, al tempo stesso, da residenza privilegiata di poeti, dotti, eruditi e scienziati: oltre a prendervi i pasti in comune, gli intellettuali del tempo avevano modo di dedicarsi in quella sede alle loro diverse attività, liberi dalle preoccupazioni della vita quotidiana, anche grazie all'indennità statale loro assegnata. Al Museo era annessa la famosa Biblioteca, che già al tempo di Tolomeo II Filadelfo (283-246 a.C.), il successore del Soter, raccoglieva quasi 500.000
volumina.
Primo
bibliotecario fu Zenodoto,
cui successero
nell’incarico Apollonio Rodio, Eratostene, Aristofane di Bisanzio, Apollonio l’Eidografo e Aristarco di Samotracia (cfr. P.Oxy. X, 1914, n. 1241). Ma Alessandria, anche se fu il più importante centro culturale nel periodo ellenistico, non fu certo l’unico. Sul modello e in contrapposizione a quanto accadeva nella capitale del regno di Egitto, alcuni dei so-
290
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
vrani dei regni formatisi dopo la morte di Alessandro vollero che anche le loro corti assurgessero al rango di poli culturali, meta ambita da parte dei poeti più prestigiosi del tempo: Antigono Gonata chiamò alla sua corte di Pella in Macedonia il poeta Arato di Soli; Antioco III nominò capo della Biblioteca di Antiochia, capitale del regno di Persia, Euforioe di Calcide; Attalo I ed Eumene II fecero di Pergamo, con la sua biblioteca e la sua scuola, la grande rivale culturale di Alessandria. Del resto la stessa Atene continuò ad essere un centro culturale di primaria importanza, soprattutto nel settore della filosofia: accanto alle tradizionali correnti di pensiero legate all'Accademia (Speusippo, Senocrate, Polemone) e al Peripato (Teofrasto, Stratone di Lampsaco, che, fra l’altro,
fu chiamato da Tolomeo Soter ad Alessandria quale precettore del figlio Tolomeo Filadelfo), vi fondarono le loro scuole Epicuro (a partire dal 306) e Zenone di Cizio (intorno al 300), iniziatori e maestri delle due filosofie più rappresentative di questo periodo, l’epicureismo e lo stoicismo (cfr. supra il capitolo sulla Letteratura filosofica e scientifica). La presenza nella Biblioteca di Alessandria di un patrimonio librario dell'entità cui si è sopra accennato è la conseguenza più macroscopica della radicale trasformazione che, a partire dalla fine del V secolo, si era venuta progressivamente imponendo nel sistema della comunicazione letteraria grazie all’uso sempre più massiccio del ‘libro’, naturalmente nella forma del rotolo papiraceo, e al formarsi di una circolazione libraria che solo con il periodo ellenistico assume, anche se in proporzioni infinita-
mente ridotte, quelle connotazioni e quelle caratteristiche che, ulterior-
mente sviluppate ed esaltate dall’invenzione della stampa, perdureranno poi fino ai nostri giorni. Da un sistema di pubblicazione e di trasmissione orale della cultura, qual è quello ancora imperante nell’Atene del V secolo, si passa gradatamente ad un sistema di composizione e di trasmissione scritta dell’opera letteraria o scientifica. In altri termini la trasmissione del testo non è più affidata alla recitazione o al canto da parte dell’autore o degli esecutori di fronte ad un pubblico più o meno vasto di uditori che lo memorizzava, ma al rotolo di papiro e al mercato librario. Se la caratteristica precipua e fondamentale nel sistema culturale del periodo arcaico e classico è il rapporto diretto e reciprocamente condizionante, per così dire simpatetico, che si instaura tra l’autore della performance e il suo pubblico, nel periodo ellenistico questo rapporto, nella stragrande maggioranza dei casi, non esiste più ed il legame fra l’autore e i suoi lettori è mediato dal nuovo veicolo della comunicazione letteraria rappresentato dal libro. Il definitivo affermarsi del sistema della composizione e della fissazione per iscritto del testo determina una situazione del tutto nuova,
sia sul piano della creazione dell’opera letteraria sia su quello del rapporto con i precedenti letterari. Ormai svincolato dai condizionamenti consci e inconsci che si verificavano nel rapporto diretto con un pubblico di uditori, e che di fatto finivano per privilegiare il rispetto delle tradizioni culturali ormai consolidate, e al tempo stesso ben conscio delle nuove possibilità che sul piano espressivo il sistema della composizione scritta permetteva di rag-
La poesia ellenistica
291
giungere, l’autore alessandrino può realizzare un’opera letteraria che risulta da un lato più meditata ed individualistica e dall’altro più concisa e raffinata, ma soprattutto non tradizionale, attenta al nuovo, si potrebbe
quasi dire sperimentale. D'altra parte anche il rapporto con gli autori del passato, una volta che essi siano definitivamente fissati per iscritto attraverso il lavorio ecdotico e filologico dei poeti-eruditi alessandrini, assume connotazioni tutto affatto diverse: è un rapporto fondato su una rigorosa analisi critica del testo alla ricerca delle sue peculiarità espressive e delle sue valenze artistiche, non tanto con un intento imitativo, ma piuttosto con una volontà di differenziazione e di ricerca di nuovi itinerari poetici sia sul piano dei contenuti sia su quello della forma (Serrao 1977, pp. 171-9). L’aspetto più rilevante di questa tendenza è non solo la trasformazione dei generi letterari tradizionali, ma soprattutto la loro contaminazione o, come si è soliti dire, la loro mistione, al fine di creare
un’opera che risultasse originale e ‘trasgressiva’ rispetto ai canoni del passato (Rossi 1971, pp. 83-6). Del resto un’importante novità si manifesta anche per quanto attiene
al pubblico. Nel periodo arcaico e classico i fruitori del componimento poetico erano, nel caso della lirica corale e del teatro, l’intera polis, cioè
un pubblico composito e soprattutto non selezionato dal punto di vista culturale (basti pensare che ad una rappresentazione teatrale o alla celebrazione di un epinicio assistevano tutti i cittadini), e, nel caso della lirica monodica e della poesia giambica ed elegiaca di ambiente simposiale, una determinata consorteria socio-politica, i cui interessi preminenti non erano certo quelli di carattere culturale; nel periodo ellenistico, invece, il numero dei fruitori si restringe notevolmente e soprattutto diventa molto più omogeneo, fino ad identificarsi con la ristretta cerchia di coloro che vivono ed operano nell’ambito della reggia: il sovrano, i funzionari di corte, i poeti, gli eruditi, gli scienziati, una vera e propria élite socioculturale. Se ne può avere una significativa conferma quando si esamini la lista dei destinatari ricostruibile sulla base di quei componimenti in cui viene indicato il nome di colui al quale il carme è più o meno apertamente dedicato: Callimaco esalta Tolomeo II Filadelfo nell’Inno a Zeus (vv. 85-90) e soprattutto nell’Inno a Delo (vv. 165-90), scrive un carme per le nozze di Tolomeo II Filadelfo con la sorella Arsinoe (fr. 392 Pf.),
uno per l’apoteosi della stessa Arsinoe (fr. 228 Pf.), ed infine la famosa Chioma di Berenice (fr. 110 Pf.) in onore della consorte di Tolomeo III Evergete; Teocrito, da parte sua, dedica l’intero idillio XVII, l’Encomio di Tolomeo, al Filadelfo, oltre ad esaltarne il valore militare nell’idillio XIV (vv. 59-68) e la magnificenza della reggia nell’idillio XV (vv. 7886); nell’idillio XVI tesse l’elogio di un altro potente sovrano, Ierone II
signore di Siracusa; dedica l’idillio VI al poeta Arato, gli idilli XI e XIII al medico e, al tempo stesso, poeta Nicia, la cui moglie Teugenide è la destinataria dell’idillio XXVIII. Ma se si vuole parlare della cultura dell’età ellenistica in tutti i suoi aspetti, non si deve limitare il discorso alla sola cultura legata alle corti. Con il periodo alessandrino si assiste infatti per la prima volta al fenomeno per cui la cultura, che finora era espressione e patrimonio di tutta
292
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
una comunità, si scinde in una cultura ufficiale, dotta, raffinata e scritta,
quella della classe dirigente, e in una cultura popolare, tradizionale e orale, quella del resto della popolazione. Quest’ultima è la cultura delle pubbliche performances — in occasione degli agoni e delle feste civili e religiose — dei cantori, dei recitatori dell’epica tradizionale, e degli attori itineranti (Gentili 1984, pp. 228-9). In questo ambito, particolare attenzione merita il fenomeno dell’evoluzione del teatro: pur essendo ancora vitale il teatro tradizionale rappresentato, per esempio, dalle commedie di Menandro (cfr. supra il capitolo sul Teatro), si assiste al fiorire, per l'influenza delle innovazioni e delle sperimentazioni musicali introdotte a partire dal ditirambo nuovo, di un teatro di intrattenimento,
con fortissime connotazioni espressionistiche e fondato sul mimetismo musicale. Per i virtuosismi melodici presenti nei canti a solo la parte dell’attore presuppone ormai un'abilità tecnica che può essere richiesta solo ad un attore professionista. Anzi, in omaggio all’esasperata spettacolarità di questi recitals l’attore professionista non si limita a cantare solo monodie o sezioni liriche, cioè quelle parti che in tragedia o in commedia erano di norma riservate al canto, ma estende questo tipo di resa anche alle sezioni in trimetri, che tradizionalmente erano destinate alla recitazione (Gentili 1977, pp. 17-22). Nel periodo alessandrino si manifesta dunque per la prima volta un fenomeno che sarà poi una costante delle società posteriori, il fenomeno delle due culture: da un lato la cultura della classe dirigente, innovativa,
raffinata ed elitaria, dall’altro la cultura delle classi subalterne, tradizionale, popolare e ‘di massa’. E se è vero che solo la prima ha avuto un’incidenza fondamentale e determinante sul piano storico-culturale visto in prospettiva diacronica perché, essendo l’unica cultura ufficiale, è quella che si è imposta e si è poi trasmessa informando di sé tutti i secoli successivi, tuttavia non va dimenticato che anche la seconda ha svolto un
ruolo molto importante perché ha permesso la diffusione del patrimonio culturale tradizionale tra la stragrande maggioranza della popolazione. 2. Callimaco e la nuova poetica Il personaggio più rappresentativo della cultura ellenistica fu senz’altro Callimaco, non solo per la sua attività di poeta, ma anche e soprattutto in quanto propugnatore di una nuova poetica, che oltre a trovare dei convinti seguaci già fra i suoi contemporanei — basti citare per tutti Teocrito —, ebbe grande fortuna a Roma presso i poetae novi e gli elegiaci dell’età augustea. Callimaco era nato a Cirene qualche anno prima del 300 a.C. da una famiglia importante — il nonno era stato a capo delle milizie della patria —, ma di non agiate condizioni economiche. Quando era ancora giovane si trasferì ad Alessandria e fece per molti anni il maestro di scuola ad Eleusi, un sobborgo della capitale. Dopo l’ascesa al trono di Tolomeo II Filadelfo (283 a.C.) fu introdotto a corte ed ebbe dal re l’incarico di procedere alla catalogazione dei volumi della Biblioteca, anche se non
La poesia ellenistica
293
svolse mai la funzione di bibliotecario. La sua posizione e il suo prestigio a corte si rafforzarono ulteriormente dopo l’ascesa al trono di Tolomeo III Evergete (246 a.C.), figlio del Filadelfo, che aveva sposato Berenice, figlia di Tolomeo Maga, signore di Cirene, e quindi concittadina del poeta; in onore della nuova regina Callimaco compose nel 245 la Chioma di Berenice; è questa l’ultima data certa nella vita del poeta, la cui morte può essere fissata con una qualche approssimazione intorno al 240 a.C. 2.1. Le opere erudite
Frutto del lavoro di Callimaco nella Biblioteca fu una monumentale opera in 120 volumi, i Pinakes, una sorta di ‘schede’ o ‘indici’ di tutti gli autori in ogni campo della letteratura. Anche se nella Biblioteca avevano già lavorato, in anni precedenti, Zenodoto come primo bibliotecario, Alessandro Etolo e Licofrone come editori l’uno dei testi tragici l’altro di quelli comici, fu Callimaco che trovò un sistema per catalogare tutto il patrimonio librario in essa presente: divise l’intero corpo della letteratura in diverse categorie e all’interno di ciascuna categoria dispose gli autori in ordine alfabetico, corredando ciascun nome con una breve scheda
biografica; in tutti quei casi in cui ciò era possibile (p. es. il teatro), anche i titoli dei singoli autori furono disposti in ordine alfabetico. Per gli autori della poesia lirica, invece, Callimaco trovò altri criteri di catalogazione delle loro opere: per quanto riguarda per esempio gli Epinici, quelli di Pindaro furono raggruppati secondo il luogo della gara, quelli di Simonide secondo il tipo di gara. Oltre ai titoli Callimaco registrò per ciascun componimento l’incipit, cioè il primo verso, o comunque, nel caso di un’opera in prosa, le parole iniziali (Pfeiffer 1973, pp. 211-9). I Pinakes ebbero notevole fortuna e costituirono un punto di riferimento imprescindibile per tutti i lavori storico-letterari successivi, come documenta il fatto che Aristofane di Bisanzio (257-180 a.C.) scrisse un intero volume Sui Pinakes di Callimaco che doveva essere una integrazione e un aggiornamento dell’opera del poeta-erudito. Oltre a questi Pinakes in 120 volumi, Callimaco pubblicò altri due Pinakes specifici, che si distinguono dall’opera generale perché l’uno adotta un criterio cronologico, l’altro linguistico. Nell’Indice e registro dei poeti drammatici in ordine cronologico e dall’inizio Callimaco, basandosi sulle didascaliae di Aristotele, compilò la lista di tutti i vincitori degli agoni tragici e comici a partire dall’anno in cui essi furono introdotti per la prima volta nel programma delle celebrazioni delle Dionisie cittadine e delle Lenee; i frammenti di tre iscrizioni rinvenute a Ro-
ma, che forse occupavano la parete di una grande biblioteca e che riportano l’elenco dei vincitori delle Dionisie e delle Lenee dal 440 al 352 a.C., potrebbero essere una copia di quest'opera di Callimaco. L’altro Pinax particolare doveva essere un elenco di glosse del filosofo Democrito. Ma l’attività di Callimaco quale studioso ed erudito non si limitò solo al monumentale lavoro filologico dei Pinakes. Si dedicò anche ad opere
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di argomento etnico-antiquario, come risulta da titoli quali i Costumi non greci e le Denominazioni etniche diverse, una sorta di onomasticon che molto probabilmente si articolava in varie sezioni dedicate ai pesci, agli uccelli, ai venti, ai mesi dell’anno ecc.; oppure di argomento storicogeografico, come sembrano attestare titoli quali Fondazioni di isole e città e mutamenti di nomi e Sui fiumi del mondo. Entrambi questi interessi debbono aver ispirato l’opera Raccolta di meraviglie in tutta la terra secondo le località, che costituisce il primo esempio di letteratura paradossografica, un genere che ebbe molta fortuna nella cultura della tarda antichità e del Medioevo. Dello scritto Contro Prassifane, che doveva affrontare problemi di critica letteraria, si parlerà più avanti nell’ambito delle considerazioni sulla nuova poetica callimachea. Questo lungo elenco, per altro non completo, delle sue opere in prosa non serve solo a documentare la vastità e la varietà degli interessi del Callimaco dotto erudito, ma ci permette anche di rilevare come molte delle tematiche affrontate in questi lavori scientifici e molti dei materiali in essi raccolti costituiscano il presupposto di tanti luoghi della sua poesia, un fenomeno che evidenzia anche nel particolare la strettissima interazione fra il Callimaco poeta e il Callimaco erudito; per limitarsi ad un solo esempio, basterà citare l'elenco fin troppo minuzioso dei fiumi dell’Arcadia presente ai vv. 18-27 dell’Inno a Zeus, un palese retaggio delle ricerche che avevano portato alla stesura del volume Sui fiumi del mondo. 2.2. Gli Inni
Se si escludono gli Epigrammi, l’unica opera poetica di Callimaco che ci è giunta per intero è il libro degli Inni; la fortunata circostanza si deve all’iniziativa di un anonimo antologista, vissuto non prima del VI secolo d.C. (Pfeiffer 1949, Il, p. LV), che li raccolse in un unico corpus insieme con gli Inni omerici, gli Inni orfici, le Argonautiche orfiche e gli Inni di Proclo. Gli Inni callimachei sono in tutto sei, dedicati rispettivamente a Zeus, ad Apollo, ad Artemide, a Delo, ai lavacri di Pallade,
a Demetra. I
primi quattro inni sono scritti nel tradizionale dialetto ionico, mentre negli ultimi due
(Per i lavacri di Pallade e Inno a Demetra),
Callimaco,
con un’ardita innovazione rispetto alla tradizione innografica, impiega una lingua letteraria con una marcata coloritura dorica. Nell’inno V la rottura della tradizione è perseguita anche sul piano metrico attraverso l’uso del distico elegiaco invece dell’esametro dattilico, che era il metro tipico del genere innodico e che come tale ricorre negli altri cinque inni. La loro datazione non può essere stabilita con assoluta certezza, tuttavia è molto probabile che la composizione degli Inni abbia impegnato Callimaco lungo tutto l’arco della sua esperienza poetica: il più antico, l’Inno a Zeus, fu scritto quasi sicuramente all’inizio del regno di Tolomeo Filadelfo (283 a.C., cfr. vv. 58-59 dove è evidente la giustificazione dell’ascesa al trono del Filadelfo, nonostante fosse più giovane del fratellastro Tolomeo Cerauno), mentre il più recente, l’Inno ad Apollo, se è
La poesia ellenistica
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vera la notizia dello scolio al v. 26 secondo la quale l’espressione &u& Bacon («il mio re») si riferisce a Tolomeo Evergete (Pfeiffer 1949, II, p. 50), è posteriore al 246 a.C., anno della presa di potere di quest’ultimo. La scelta di iniziare dall’Inno a Zeus non è casuale, ma risponde ad una precisa volontà dell’autore; è motivata non tanto dalla considerazione generale e topica (cfr. l’incipit dei Fenomeni di Arato) che bisogna cominciare da Zeus perché è il più importante degli dei (Herter 1931, col. 436), quanto piuttosto da un voluto e circostanziato richiamo (cfr. v. 1 ragà oxovôfor «al momento delle libagioni») all’uso di iniziare il simposio con l’invocazione al padre degli dei (McLennan 1977, p. 26): la cornice di riferimento è dunque quella di un simposio di amici, poeti ed eruditi, in grado di apprezzare in tutti i suoi più reconditi risvolti la difficile poesia callimachea. Nella struttura l’Inno a Zeus (1) ricalca lo schema tradizionale dell’inno cletico: dapprima viene rievocata la nascita del dio sui monti dell’Arcadia con particolare attenzione al prodigio operato da Rea di far sgorgare tutta una serie di fiumi, ruscelli, torrenti da una terra fino ad allora priva di corsi d’acqua, poi si passa all’enumerazione e alla descrizione delle virtù e delle funzioni di Zeus, soprattutto quella di protettore degli uomini che detengono il potere e dei re: di qui lo spunto per un caldo elogio di Tolomeo Filadelfo; l’inno si conclude con il consueto congedo del poeta dalla divinità. Ma all’interno di questo impianto tradizionale Callimaco inserisce due passaggi che risultano particolarmente rivelatori del nuovo atteggiamento critico del poeta alessandrino rispetto a problemi e rispetto a soluzioni che la tradizione poetica precedente aveva o a lungo dibattuti o pacificamente accolte: ai vv. 5-10 il poeta, dopo aver accennato alla disputa se Zeus fosse nato a Creta o in Arcadia, prende decisamente posizione per la seconda ipotesi sulla base della considerazione che i Cretesi sono notoriamente mentitori, come è del resto confermato dal fatto che, a dispetto dell'immortalità di Zeus, sulla loro isola gli hanno costruito perfino una tomba; ai vv. 57-67 gli «antichi aedi» vengono aspramente criticati e censurati come non degni di fede perché avevano cantato che fu grazie ad un sorteggio che Zeus, pur essendo il più giovane dei fratelli, aveva ottenuto la sede più ambita, l'Olimpo; come lo si potrebbe credere? In realtà Zeus divenne il re dei Celesti perché era il più forte. Del tutto analoga la struttura dell’Inno ad Artemide (III) e dell’Inno a Delo (IV). Nel primo al consueto proemio, con cui il poeta manifesta l'intenzione di cantare Artemide, seguono immediatamente la rievocazione del breve dialogo fra la dea bambina e il padre Zeus, da cui emerge quale sarà la specificità della sfera cultuale di Artemide (vv. 6-40), la narrazione del lungo girovagare della dea alla ricerca delle ninfe per il suo corteggio, delle armi e dei cani per la caccia, delle cerve per trainare il suo carro (vv. 41-128), ed infine la descrizione dell’arrivo della dea sull’Olimpo dopo una battuta di caccia (vv. 142-82): in questa scena si inserisce il gustoso e umoristico episodio di Eracle mangione, il quale, manifestamente interessato, consiglia alla dea di dare la caccia non ai cerbiatti e alle lepri, prede di piccola taglia, ma piuttosto ai buoi, gli
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animali domestici per eccellenza, che nel famelico delirio del dio diventano paradossalmente «un grande malanno per gli uomini» (v. 157 àvPpwroroxaxdv péya), con un probabile riferimento al drammatico episodio di Teiodamante (cfr. vv. 160-1 e i frr. 24-5 Pf. degli Aitia). In questa prima parte una segnalazione tutta particolare meritano i vv. 66-9 in cui Callimaco descrive una mamma che per indurre alla quiete la figlia troppo vivace minaccia di chiamare, in funzione di spauracchio, «i Ciclopi o Hermes cosparso di cenere»; l’episodio, per molti aspetti affine a quello dell’idillio XV di Teocrito (v. 40), in cui Prassinoa, per evitare di condurre con sé il figlio, evoca la figura di Mormö, illustra molto efficacemente il gusto della poesia alessandrina per i bozzetti desunti dall’esperienza di tutti i giorni, per i particolari della vita quotidiana. La seconda parte dell’inno (vv. 183-268), che si chiude con il tradizionale saluto alla dea, è costituita dal lungo e particolareggiato elenco dei luoghi privilegiati del culto di Artemide, il che fornisce al poeta l'occasione per tutta una serie di digressioni erudite di carattere religioso, etnografico e storico, per molti versi simili a quelle che contribuiscono a formare l’argomento dei quattro libri degli Aitia. Nell’Inno a Delo (IV) Callimaco celebra l’isola che diede i natali al dio Apollo. La prima parte del componimento è incentrata su un particolare erudito: prima della nascita del dio, l’isola, che allora si chiamava Asteria, non aveva una posizione fissa nel mare come tutte le altre isole, ma vagava libera da un luogo all’altro; solo dopo il parto di Leto, Asteria, che da quel momento fu chiamata Delo, si fermò in un punto preciso del mare Egeo (vv. 1-54). La parte centrale dell’inno è costituita dalla rievocazione del continuo vagabondare di Leto alla ricerca di un luogo dove poter partorire e dal racconto della fuga di terre, città, fiumi ed isole per sottrarsi alla richiesta di assistenza della dea, per timore del-
la punizione di Era che vuole impedire ad ogni costo il parto di Leto (vv. 55-195); l’avvicinarsi della dea a Cos offre al poeta l’occasione per tessere, in modo elegante e quasi scherzoso, l’elogio di Tolomeo II Filadelfo, a cui si è accennato nelle pagine iniziali di questo saggio: Apollo, ancora nel grembo della madre, ma già capace di esercitare l’arte profetica, la prega di non farlo nascere a Cos perché quest’isola è destinata in futuro a dare i natali a un altro dio, appunto Tolomeo Filadelfo, che dominerà il mondo e soffocherà la ribellione dei mercenari Galati del 275 a.C. (vv. 160-90). Alla fine, su consiglio di Apollo, Leto si dirige verso l’isola di Asteria, che sfidando l’ira di Era accetta di buon grado di ospitarla per il parto; la sposa di Zeus, pur adirata, decide di non punire l’isola (vv. 195-259). L'inno si conclude con la celebrazione e l’esaltazione di Asteria/Delo e con il ricordo dei benefici che ottenne per aver favorito la nascita di Apollo (vv. 260-326). L’elemento che sul piano strutturale distingue piuttosto nettamente i tre inni che abbiamo appena esaminato dagli altri tre consiste nel fatto che questi ultimi si immaginano recitati da un qualche personaggio in ‘occasione
di
una
determinata
cerimonia;
in
altri
termini
il poeta,
presupponendo un’occasione ben determinata per la performance dell'inno, vuol creare nel lettore l’illusione di una destinazione non lettera-
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ria dell'inno stesso (Bulloch 1985, pp. 3-13). L'occasione immaginaria per l’Inno ad Apollo (II) è costituita da una riunione di fedeli, di fronte al tempio del dio, in attesa di una sua epifania, probabilmente durante le feste Carnee celebrate a Cirene; quella dell’inno Per i lavacri di Pallade (V) dalla preparazione e dallo svolgimento della cerimonia del bagno rituale della statua di Atena ad Argo; quella dell’Inno a Demetra (VI) dalla processione del xGAatdog (il canestro che contiene gli oggetti sacri del culto di Demetra), un rito che secondo lo scolio a quest’inno (Pfeiffer 1949, II, p. 77) Tolomeo II Filadelfo aveva introdotto ad Alessandria sul modello di quanto avveniva ad Atene in occasione della festa di Demetra. AI di là dell’espediente dell’occasione fittizia (vv. 1-31), per il resto l’impianto strutturale e il contenuto dell’Inno ad Apollo sono quelli consueti della tradizione innodica: il dio è magnificato per la sua ricchezza e la sua bellezza e vengono ricordate le sue molteplici e benemerite attività, non ultima quella di fondatore di città (vv. 32-64), anche di Cirene, la patria di Callimaco, di cui il poeta rievoca con dovizia di particolari la fondazione (vv. 65-96). Dopo un breve accenno a Delfi (vv. 97-104), il poeta sfrutta la parte conclusiva dell’inno in onore del dio della poesia per ribadire, attribuendone la teorizzazione ad Apollo stesso, alcuni punti cardine della sua poetica: l’avversione per il poema molto esteso, perché esso comporta necessariamente banalità, sciatterie e cadute di stile («del fiume assiro grande è la corrente, ma molte / impurità della
terra e molto fango trascina nell’acqua», vv. 108-9), e la predilezione,
invece, per il componimento di piccole dimensioni, curato in tutti i particolari, estremamente raffinato («non da ogni parte a Demetra portano acqua le api, / ma quella che pura e incontaminata sgorga / da una sacra fonte, piccola stilla, limpidezza estrema», vv. 110-2). Un ideale poetico sostanzialmente identico a quello teorizzato nel prologo degli Aitia, come vedremo meglio più avanti. Si è detto che gli ultimi due inni, Per i lavacri di Pallade (V) e l’Inno a Demetra (VI), sul piano formale segnano una significativa frattura rispetto alla tradizione innodica, per la novità dell’uso, in entrambi, di una lingua letteraria con una forte coloritura dorica, e del distico elegiaco in luogo dell’esametro nell’inno Per i lavacri di Pallade. Questo desiderio di rinnovare il genere innodico si ritrova anche sul piano della struttura e dei contenuti. Diversamente da quanto avviene negli inni precedenti, e anche da quanto faranno i più banali continuatori di questa tradizione, del dio non vengono predicate tutte le qualità e tutte le attività né vengono ricordati tutti i luoghi legati al suo culto; il poeta focalizza la sua attenzione su un solo episodio specifico della vastissima saga del dio, episodio che è narrato con estrema cura stilistica e con minuziosa attenzione a tutti i particolari, soprattutto a quelli meno conosciuti. L’inno V, dopo i versi dedicati all’occasione fittizia della cerimonia religiosa ad Argo (vv. 1-56), è tutto focalizzato sul racconto dell’accecamento da parte di Atena del giovane Tiresia, colpevole, pur se involontariamente, di aver ammirato le nudità della dea mentre questa si bagnava nelle acque dell’Ippocrene. Atena per consolare il dolore della madre del
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giovane, la ninfa Cariclò, la sua amica più cara, accenna alla punizione ben più severa di Atteone, che, colpevole anch'egli di aver visto una dea nuda (Artemide), finì sbranato dai suoi stessi cani, e concede allo sventurato Tiresia il dono dell’arte profetica. Nell’inno VI, ai versi relativi all’occasione fittizia della processione ad Alessandria (vv. 1-23), non segue affatto, come pure ci si sarebbe potuto aspettare e come di fatto avviene nel corrispondente inno omerico, la narrazione del girovagare di Demetra alla ricerca della figlia Persefone, ma il racconto di un episodio piuttosto marginale nell’ambito della sfera mitico-religiosa di Demetra,
che tuttavia Callimaco
sceglie come
unico
elemento compositivo del suo inno: la storia del sacrilegio di Erisittone, che per costruirsi una casa in cui offrire banchetti ai suoi amici osa colpire, con l’intenzione di abbatterlo, un pioppo di un bosco consacrato a Demetra, con la successiva descrizione dell’esemplare punizione della dea, che condanna l’empio ad una fame eterna, tale da ridurre in miseria lui e la sua famiglia. Ci siamo soffermati così a lungo sugli /nni perché, essendo questa l’unica opera di Callimaco che ci è giunta per intero ed appartenendo ad un genere letterario ormai da tempo codificato, ci consente di renderci conto con maggior facilità e con maggiore evidenza delle innovazioni che il poeta di Cirene, coerentemente con la poetica di cui si fa portavoce, ha voluto apportare anche al genere innodico. L’inno ha ormai perso qualsiasi reale funzione religiosa; al più, ma sempre nell’ambito fittizio della letterarietà, il poeta cerca di ricostruire l’ambiente del rituale per cui l’inno si immagina scritto e recitato. Quindi non ha più senso conservare la struttura e i contenuti tradizionali: la rievocazione di tutte le vicende di cui la divinità si è resa protagonista, la ‘predicazione’ di tutte le sue virtù, il ricordo di tutti i luoghi legati al suo culto; l’inno diventa invece occasione, come testimoniano chiaramente gli inni V e VI, per raccontare un ben determinato episodio, breve, limitato, meglio se marginale e poco conosciuto, attinente la divinità dedicataria dell’inno. E il tono del racconto si arricchisce di nuove coloriture,
quelle tratte dalla vita di tutti i giorni; basti citare come esempio le giustificazioni, le ‘scuse’ che nell’inno VI i genitori di Erisittone sono costretti ad inventarsi per tentare di spiegare ai vicini e agli amici l’impossibilità del figlio, sempre affaccendato a mangiare, di partecipare a qualsivoglia momento della vita sociale: «colpito da un cinghiale è a letto da nove giorni», «è fuori città», «fu colpito da un disco», «è caduto dal carro», «sta a contare le greggi sull’Otrio» (vv. 81-6). Sono ‘scuse’ che danno all’inno una connotazione quasi borghese. E proprio sulla base di scelte poetiche di questo tipo che anche a proposito di alcuni inni si può parlare di poesia serio-comica, come del resto è stato giustamente fatto per un’altra opera di Callimaco, i Giambi (Serrao 1977, p. 232). 2.3. Gli Aitia
Nessuno degli altri componimenti poetici di Callimaco (eccettuati naturalmente gli Epigrammi) ci è giunto per intero; tuttavia degli Aitia,
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grazie alle numerose e importanti scoperte papiracee dell’inizio di questo secolo e alla magistrale attività filologica di Rudolf Pfeiffer, siamo oggi in grado di ricostruire la struttura e molti dei contenuti. Articolata in quattro libri, l’opera, senza dubbio la più significativa ed originale fra quelle del poeta di Cirene, era scritta in distici elegiaci; in sostanza era una raccolta, priva di un qualsiasi criterio ordinatore, di elegie che, come è detto chiaramente nel titolo, Aitia, le “cause”, aveva-
no come tema comune quello di investigare le origini di usi, costumi, feste, tradizioni, istituzioni, nomi ecc.; l’unico elemento connettivo tra le diverse elegie, limitato però ai primi due libri, era costituito dall’espediente adottato dal poeta di presentare ciascuna elegia come una risposta fornita dalle Muse ad altrettante domande che egli aveva avuto modo di formulare quando da giovane fu trasportato in sogno sull’Elicona, dove gli apparvero appunto le Muse. È sufficiente citare solo alcuni degli argomenti trattati per rendersi conto della loro eterogeneità: dai riti sacrificali di Anafe e di Lindo (frr. 7-23 Pf.) alle fondazioni e ai nomi delle città siciliane (fr. 43 Pf.), dalla favola di Aconzio e Cidippe (frr. 67-75 Pf.) al simulacro ligneo di Era a Samo (fr. 100 Pf.) e all’äncora della nave Argo abbandonata a Cizico (frr. 108-9 Pf.), per finire con la Chioma di Berenice, la leggenda della trasformazione in costellazione celeste di un ricciolo della chioma della regina Berenice, da lei offerto per propiziare il successo del consorte, Tolomeo III Evergete, nella campagna siriana (fr. 110 Pf.). L’espediente del sogno e dell’incontro con le Muse sull’Elicona non è importante solo perché rappresenta l’elemento connettivo di una parte del poema; è particolarmente significativo anche per quanto attiene alla poetica callimachea: richiamando esplicitamente (fr. 2 Pf.) il prologo della Teogonia, in cui Esiodo narrava l’episodio della sua investitura poetica, sempre sull’Elicona, ad opera delle Muse (Theog. 22-34), che in quella occasione avevano esaltato il loro ruolo di ispiratrici della poesia che canta la verità rispetto all’epica tradizionale che canta le menzogne simili alla verità (cfr. supra: L’epica e la poesia didascalica e La lirica), Callimaco vuole instaurare uno stretto parallelo fra la poesia esiodea e la sua poesia, intesa anch’essa come poesia di verità (Serrao 1977, pp. 228-9) e, nello specifico degli Aitia, come ricerca delle vere origini degli usi, costumi, feste, nomi ecc., che costituivano l’oggetto delle diverse elegie. Ma, in tema di poetica callimachea, il luogo in cui essa viene presentata nel modo più completo ed articolato è il cosiddetto ‘prologo dei Telchini’ (fr. 1, 1-40 Pf.). Il poeta lo scrisse quando ormai il peso della vecchiaia gli gravava addosso, come egli dice (fr. 1, 35-6 Pf.), quanto la Sicilia gravava sullo sciagurato Encelado, e decise di anteporlo, quasi fosse il manifesto della sua poetica, come prologo agli Aitia, che nell’edizione definitiva delle sue opere, da lui stesso curata, costituivano il ‘pezzo’ di apertura dell’intera raccolta (Pfeiffer 1949, II, pp. XXXVIXXXVII). Nel prologo Callimaco si scaglia contro gli avversari della sua concezione poetica — da lui chiamati appunto con il nome di Telchini, una
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sorta di demoni malvagi dell’isola di Rodi —, i quali gli rimproveravano di non aver mai composto «un unico poema continuato in molte migliaia di versi» (fr. 1, 3-4 Pf.). Come ha brillantemente dimostrato Gregorio Serrao (1977, p. 223) la posizione critica dei Telchini si rifà sostanzialmente alle teorie aristoteliche: Per Aristotele l’unità, la continuità, la compiutezza e l’estensione erano gli elementi fondamentali nella struttura di qualsiasi opera artistica: ogni parte doveva avere una relazione ben definita con l’opera intera e doveva, a sua volta,
essere mimesi di un'azione unica in se stessa compiuta e di una certa grandezza; tale, cioè, da costituire un tutto organico con un principio, una parte centrale ed una conclusione indissolubilmente connessi tra loro secondo la legge della verosimiglianza o della necessità (Poer. 1450 b, 1459 a).
Una inequivocabile conferma che nel campo della critica letteraria gli avversari di Callimaco erano seguaci delle teorie aristoteliche è fornita dal cosiddetto Scolio Fiorentino (Pfeiffer 1949, I, p. 3), un commentario al prologo degli Aitia che ci ha conservato il nome di alcuni di questi Telchini; fra gli altri, riporta anche il nome del peripatetico Prassifane, lo stesso personaggio a proposito del quale Callimaco aveva scritto un’opera in prosa dal titolo Contro Prassifane. Manca invece il nome di Apollonio Rodio, che pure, come ricorda il lessico Suda (s.v. KodAiuaxos) Callimaco aveva violentemente attaccato nel poemetto intitolato Ibis, di cui purtroppo nulla ci è rimasto. Ai suoi detrattori il poeta di Cirene risponde con orgogliosa sicurezza che certo egli è «autore di carmi di pochi versi» (fr. 1, 9 Pf.), ma ribadisce nel contempo la sua teoria che i componimenti brevi sono di gran lunga preferibili a quelli lunghi, come dimostra d’altra parte anche il confronto tra le opere brevi e le opere lunghe di illustri poeti di un passato più o meno recente, quali Mimnermo e Filita (Pretagostini 1984, pp. 121-36); del resto l’abilità del poeta si giudica non con la pertica persiana (un’unità di misura che presuppone un criterio meramente quantitativo), ma secondo la capacità artistica (cioè secondo un criterio qualitativo) (fr. 1, 17-8 Pf.). Dunque una poesia fondata sulla brevità, ma al tempo stesso, come gli aveva raccomandato Apollo in persona (fr. 1, 24 ss. Pf.), una poesia Àentakén, cioè sottile, fine, raffinata. Fin qui le considerazioni sono in gran parte analoghe a quelle che si ritrovano nel finale dell’/nno ad Apollo, già precedentemente preso in esame. Ma la teorizzazione letteraria contenuta nel prologo dei Telchini presenta un altro elemento di fondamentale importanza: il poeta deve ricercare a tutti i costi l’originalità; ed infatti Apollo nelle sue raccomandazioni così continuava: «Ed inoltre anche questo ti ordino: di calcare le vie che non battono i carri / e di non spingere il cocchio sulle orme degli altri / né per la strada larga, ma per sentieri non percorsi, / anche se lo spingerai per una strada più stretta» (fr. 1, 25-8 Pf.). Per dirla in estrema sintesi, Callimaco auspica una poesia breve, raffinata, originale, concetti ribaditi con estrema efficacia anche nell’epigramma XXVIII, 1-4 Pf. (= A.P. XII, 43): «Odio il poema ciclico, né mi
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piace una via / che porta molti qua e là; / odio anche l’amasio di tutti, né bevo alla fontana pubblica: / disprezzo tutte le cose popolari».
2.4. | Giambi Nell’edizione delle opere di Callimaco, agli Aitia seguiva immediatamente il libro dei Giambi, «il pascolo della Musa pedestre» (Movoéwv netòv ... vou6v), come lo definisce il poeta stesso nell’elegia che fa da epilogo all’ultimo libro degli Aitia (fr. 112, 9 Pf.). Anche il libro dei Giambi, che quasi sicuramente doveva contenere non solo i tredici componimenti in metro prevalentemente giambico, ma anche i successivi quattro carmi in metro lirico (Gallavotti 1946, pp. 916), ci è pervenuto in forma molto lacunosa. Di alcuni dei componimen-
ti siamo in grado di ricostruire il contenuto solo grazie al papiro milanese delle diegeseis (P.Med. 18), che di ciascuna poesia ha conservato il primo verso ed un breve riassunto. I Giambi sono certamente l’opera più originale e più varia fra quelle di Callimaco; in essi, come ha scritto il Dawson con un’immagine particolarmente felice, il poeta tenta di mettere vino nuovo dentro botti vecchie e vino vecchio dentro botti nuove; naturalmente la metafora fa riferimento agli arditi tentativi di nuove combinazioni tra forma e contenuto (Dawson 1950, p. 138). Pur riallacciandosi, almeno formalmente, alla tradizione della poesia giambica arcaica, Callimaco ne sancisce definitivamente la completa evoluzione dei tratti essenziali rinunciando alla categoria del biasimo e alla virulenza degli attacchi personali e focalizzando invece il suo interesse sugli elementi che sono più propri della categoria del serio-comico (Serrao 1977, p. 232). Fra i Giambi si ritrovano, infatti, favole di tipo esopico (Ja. II), carmi d’occasione (Ja. V, un rimprovero ad un maestro di scuola; /a. VI, un propemptikön che offre il destro per una descrizione dello Zeus di Fidia ad Olimpia; La. VII, un epinicio per Policle Egineta, vincitore di una strana gara di corsa, di cui si spiega poi l’aition; la. XII, gli auguri ad un amico per la nascita della figlia), componimenti di carattere eziologico (Za. VII, X, XD. Un cenno particolare meritano i giambi I, IV e XIII. Nel primo il poeta Ipponatte torna dall’Ade portando, quasi programmaticamente, «non il giambo che cantava la contesa con Bupalo» (Ja. I, 34), ma il proponimento di invitare i dotti del tempo a non odiarsi a vicenda; e a sostegno di questa sua raccomandazione narra la storia della coppa di Baticle, che doveva essere consegnata al migliore dei Sette Sapienti; tuttavia nessuno di essi l’accettò, non riconoscendo a se stesso questa supremazia intellettuale, e la inviò invece a quello degli altri che considerava il migliore; così la coppa, dopo aver fatto il giro di tutti e sette i Sapienti, tornò nelle mani del primo che l’aveva avuta, Talete, che la consacrò ad Apollo. Nel giambo IV si racconta la favola, dai toni chiaramente allegorici, della contesa fra il superbo alloro e il modesto ulivo, contesa nella quale interviene ad un certo punto anche un vecchio rovo. Il giambo XIII è tutto incentrato su tematiche di carattere letterario e
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sembra quasi che con esso Callimaco voglia difendere sul piano teorico la scelta della polyeideia, della “varietà” contenutistica e formale che sta alla base del libro dei Giambi; ai critici di chi, come lui, compone i suoi carmi ora in ionico, ora in dorico, ora nella lingua mista, e che, in definitiva, non coltiva un unico genere letterario, il poeta risponde: «chi disse [...] / tu devi comporre pentametri (elegie), tu esametri (poesia epica), / e tu dagli dei hai ottenuto di comporre tragedie?» (/a. XIII, 30-2). E per suffragare questa sua presa di posizione Callimaco cita l'esempio di lone di Chio, un poeta del V secolo che si era impegnato in più generi letterari. In sostanza il libro dei Giambi si presenta come un ‘cocktail’ dai molti ingredienti o, per dirla in termini più consoni all’argomento, come una satura lanx, il piatto votivo che i Romani colmavano di offerte; e proprio per queste caratteristiche esso è stato a ragione considerato il precedente immediato della satira romana arcaica rappresentata da Lucilio (Puelma 1949). D'altra parte nel libro dei Giambi la varietà delle forme metriche non è certo meno cospicua di quella contenutistica; cinque giambi (I-IV, XIII) sono in trimetri giambici scazonti, certamente due (IX, X), e forse un terzo (VIII), in trimetri giambici, uno in trimetri trocaici catalettici (XII), altri tre sono costituiti da strutture epodiche (trimetro scazonte + dimetro giambico,
il V;
trimetro giambico
+
itifallico, il VI e il VID),
mentre l’XI, di cui si è conservato solo il primo verso, presenta una singolarissima pentapodia giambica, da interpretarsi forse, anche alla luce degli altri quattro ‘giambi’ in metro lirico, come reiziano di cinque sillabe + ipodocmio. Ma il gusto per la varietà nell'impiego di forme metriche, in alcuni casi nuove e stravaganti, trova la sua massima espressione nei quattro componimenti in metro lirico che dovevano appartenere anch'essi al libro dei Giambi: il fr. 226 Pf. (Ja. XIV) è in endecasillabi faleci, il fr. 227 Pf. (la. XV, la Pannychis) è costituito dall’asinarteto dimetro giam-
bico +
itifallico, il fr. 228 Pf. (Za. XVI, la Divinizzazione di Arsinoe) è
in archebulei, il fr. 229 Pf. (Za. XVII, il Branchos) in pentametri coriam-
bici catalettici. 2.5. L’Ecale
Anche l’unico componimento di carattere epico scritto da Callimaco, l’Ecale, risente, ed in modo non marginale, delle nuove teorie letterarie
propugnate dal suo autore: non più un poema epico secondo i canoni aristotelici, con il solito linguaggio tradizionale e il consueto repertorio di formule fisse e di lunghe e complesse similitudini, ma un carme di poche centinaia di versi, incentrato su un tema non abituale. Argomento del poema è, infatti, la narrazione di un episodio del tutto particolare e secondario della leggenda eroica di Teseo relativa all’uccisione del toro di Maratona: il racconto delia premurosa ospitalità che, durante un temporale, una vecchietta di nome Ecale offre a Teseo, ac-
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cogliendolo nella sua povera casa. Quando, dopo aver compiuto la sua impresa, l’eroe torna da Ecale per ricompensarla della sua ospitalità, trova che la vecchietta è morta. Il poema si chiude con un finale chiaramente eziologico: l’eroe decide di dare il nome di Ecale ad un demo di nuova fondazione e di consacrare un tempio a Zeus Ecalio. Per meglio rendersi conto di quanto lo stile dell’Ecale sia lontano da quello dell’epos tradizionale è sufficiente la testimonianza offerta dal fr. 260 Pf., in cui, fra l’altro, viene descritto il sorgere del giorno; in luogo del consueto linguaggio formulare del tipo “l’aurora dalle dita di rosa ecc.”, il poeta ha impiegato tutta una serie di notazioni temporali che traggono spunto da altrettanti episodi della vita quotidiana: l’alba è definita come l’ora in cui «le mani dei ladri non sono più in caccia», «l’uomo che attinge l’acqua dal pozzo ripete la sua cantilena», «l’asse stridendo sotto il carro sveglia chi ha la casa sulla strada», «sono uno strazio,
con i loro colpi, gli schiavi dei fabbri» (fr. 260, 64-9 Pf.) (Serrao 1977, p. 228). Callimaco, come la stragrande maggioranza dei poeti ellenistici, fu anche autore di epigrammi, un genere poetico che per le sue caratteristiche formali di brevità e di eleganza stilistica ebbe notevole fortuna in questo periodo; del poeta di Cirene ne restano sessantadue, per la maggior parte di argomento votivo e sepolcrale. Non mancano comunque gli epigrammi erotici indirizzati tutti a giovinetti, né quelli letterari come il già ricordato epigramma XXVIII. 2.6. Euforione
Uno dei più zelanti seguaci della nuova poetica callimachea fu Euforione, nato a Calcide nell’Eubea nel 276 a.C. e chiamato in età avanzata da Antioco III a sovrintendere alla Biblioteca di Antiochia. Nell’ambito della sua vasta produzione letteraria, di cui restano non molti frammenti, degne di nota sono opere come la Mopsopia (un antico nome dell’Atti-
ca), una silloge di leggende attiche; le Chiliadi (in cinque libri), in cui Euforione, dopo essersi scagliato contro chi lo aveva spogliato delle sue ricchezze, mette insieme una serie di oracoli avveratisi nel corso dei secoli; ed infine le Imprecazioni (Arai) o il Ladro del vaso, una serie di maledizioni contro chi gli aveva rubato un vaso. Anche il Trace, di cui un papiro del II secolo d.C. ha conservato alcuni versi (P.S./. XIV, 1957, n. 1390), contiene un’invettiva poetica con esempi mitologici. Né vanno dimenticati alcuni poemetti, come l’Apollodoro, il Filottete, il Giacinto e, soprattutto, il Dioniso. Se ne ricava l’impressione di un poeta erudito e libresco, ricercatore accanito di leggende e di motivi mitici rari e sconosciuti, che, adottando un linguaggio oscuro e zeppo di glosse, porta fino alle estreme conseguenze i principi della nuova poetica callimachea. Comunque notevole fu la fortuna di Euforione: lo presero a modello Catullo e gli altri neoteroi romani, tanto da meritarsi l’epiteto di cantores Euphorionis, coniato con disprezzo da Cicerone (Tusc. III, 45).
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AGLI ALESSANDRINI
3. Teocrito: idilli bucolici, mimi ed epilli
Della vita di Teocrito non si sa molto, anche perché le poche notizie conservate dalle fonti antiche quasi sempre non sono altro che una rielaborazione di dati presenti nelle opere dello stesso Teocrito. È quasi certo comunque che fosse originario di Siracusa: nell’idillio XXVIII, a proposito della conocchia costruita a Siracusa, che viene portata in dono a Teugenide, moglie di Nicia, è detto «tu che sei della mia terra» (v. 16) e nell’idillio XI il Ciclope è definito «il mio conterraneo» (v. 7), con una chiara allusione alla Sicilia. E a Ierone di Siracusa è dedicato l’idillio XVI, un carme encomiastico in esametri, scritto molto probabilmente intorno al 275 a.C. e riconducibile per certi versi alla cosiddetta ‘poesia di accattonaggio’ (Bettelgedicht) (Merkelbach 1952, pp. 312-27), in cui è evidente il proposito del poeta di trovare un mecenate per la sua poesia. Ma ben presto Teocrito dovette trasferirsi ad Alessandria, alla corte di Tolomeo II Filadelfo; a questo sovrano è dedicato l’encomio contenuto nell’idillio XVII, che può essere datato con una certa approssimazione fra il 274 a.C. (cfr. l'elenco dei possedimenti del re, presente ai vv. 8694) e il 270 a.C. (anno della morte della consorte del re, Arsinoe II, che
invece nel carme risulta ancora viva). Ad Alessandria ebbe modo di frequentare gli altri poeti ed eruditi legati alla corte, aderendo con convinzione alle nuove concezioni poetiche elaborate da Callimaco: nei vv. 438 dell’idillio VII, le Talisie, in cui avviene la consacrazione di Teocrito a poeta pastorale ad opera del capraio Licida, quest’ultimo, oltre a riconoscere che Teocrito è «un rampollo di Zeus tutto plasmato sulla verità» (mav En’ ddafela nenkaouévov tx Atòc Épvos) — di nuovo, come in Callimaco, la verità a fondamento della poesia —, ribadisce che gli «è assai odioso il costruttore che tenti di realizzare / una casa alta quanto la vetta dell’Oromedonte, / e gli uccelli delle Muse che, in gara con l’aedo di Chio, / cantando si affaticano invano». Fuori di metafora si rifiuta il poema lungo, di molte migliaia di versi (la casa come l’Oromedonte), cioè il poema ciclico di tipo omerico: di Omero (l’aedo di Chio) si riconosce l’indiscussa e irraggiungibile superiorità, e quindi non bisogna affannarsi a tentare di imitarlo, ma piuttosto cercare itinerari poetici nuovi (p. es. la poesia bucolica) (Serrao 1977, pp. 205-12; cfr. p. 176). Anche in queste ultime considerazioni è evidente la sintonia con la nuova poetica callimachea. Prima o subito dopo gli anni di Alessandria è sicuro che Teocrito soggiornò per un certo periodo a Cos, l’isola sede di una celebre scuola di medicina e patria del poeta Filita; qui molto probabilmente Teocrito conobbe il medico e poeta Nicia, il destinatario di alcuni dei suoi carmi (XI e XIII, mentre il XXVIII è dedicato alla moglie Teugenide); lo conferma la perfetta e minuziosa conoscenza della topografia dell’isola che sta alla base del già citato idillio VII. La vita di Teocrito si svolse dunque fra Siracusa, Alessandria e Cos e va collocata in un arco di tempo che approssimativamente si colloca fra il 310-300 e il 260 a.C. Della sua opera la tradizione manoscritta ci ha conservato complessivamente 30 idilli e 22 epigrammi, a cui vanno aggiunti i resti di un tren-
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tunesimo idillio conservato dal Pap. Antinoae, il frammento di una Berenice, probabilmente un carme in onore della madre di Tolomeo II Filadelfo, tramandato da Ateneo (VII, 284 a), ed infine la Syrinx, uno di quei carmi figurati o technopaegnia in cui il poeta, attraverso la differente estensione dei versi impiegati, cercava virtuosisticamente di riprodurre la forma di un oggetto, nel caso specifico il tipico strumento a fiato dei pastori. Diversamente da Callimaco, Teocrito, secondo la ben nota tesi di Wilamowitz, non raccolse mai tutta la sua produzione poetica in un unico corpus. La prima vera silloge di carmi bucolici, che però non comprendeva solo componimenti di Teocrito, fu quella messa insieme da Artemidoro di Tarso, un grammatico della prima metà del I secolo a.C.; suo figlio Teone, sempre secondo la tesi wilamowitziana, provvide a selezionare i soli carmi attribuibili a Teocrito e li corredò di un commento (Wilamowitz 1906, pp. 102 ss.). Il termine idillio/idilli, con cui si è soliti designare sia i singoli carmi sia l’insieme del corpus teocriteo, non fu certo coniato da Teocrito, né dai suoi primi editori; esso compare più tardi, nei Prolegomena degli scolii teocritei (Wendel 1914, p. 5) e, nella letteratura latina, in un’epistola di Plinio il Giovane (4, 14), ed è impiegato con il valore generico di “componimenti brevi”. Sull’etimologia della parola già i grammatici antichi non erano d’accordo, ma è comunque certo che essa non assunse mai nell’antichità quella connotazione specifica con riferimento alla poesia e, più in generale, alla sfera idillico-pastorale che noi oggi siamo soliti attribuirle. Dei trenta /dilli conservati dalla tradizione manoscritta solo ventidue sono riconosciuti dalla critica moderna come autenticamente teocritei (IVII, X-XVII, XXI, XXIV, XXVI, XXVIII-XXX), mentre gli altri otto vanno attribuiti a più o meno abili imitatori — alcuni quasi contemporanei, altri molto più tardi —
del poeta di Siracusa (VIII, IX, XIX-XXI,
XXIII, XXV, XXVII). 3.1. Gli idilli bucolici
Teocrito è a giusto titolo considerato il creatore della poesia bucolica come genere letterario, nel senso che a lui va attribuito il merito della trasformazione e della promozione di questo tipo di poesia da poesia popolare e folklorica a forma letteraria (Merkelbach 1956, pp. 97-133). In altri termini Teocrito ha tradotto nell’impianto linguistico colto e raffinato tipico di un poeta alessandrino e nella struttura metrica dell’esametro, il verso nobile dell’epos, gli agoni a botta e risposta, i motteggi e i canti bucolici, certo non esametrici, dei pastori siciliani o dell’isola di Cos, operando un connubio nuovo ed originale tra realtà campestre e stilizzazione letteraria (Serrao 1977, pp. 180-1). L’idillio V è quello che più di ogni altro permette di valutare la complessità e l’importanza dell’operazione culturale compiuta da Teocrito, poiché in questo componimento sono più trasparenti e meglio conservati gli elementi e i motivi popolari che sono alla base della avvenuta
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trasposizione letteraria. Tutta la prima parte (vv. 1-79) è un serrato dialogo fra un capraio (Comata) e un pastore (Lacone) fitto di realtà campestri e pastorali durante il quale Lacone sfida Comata ad un agone bucolico con relativa posta in palio; c'è anche un giudice, il boscaiolo Morsone. La letterarizzazione dell’agone bucolico (vv. 80-137) consiste nell’attribuire a ciascun contendente — uno che, come nella realtà, fa da ‘proponente’, l’altro da ‘rispondente’ — una coppia di esametri; dell’agone vero viene però conservata la caratteristica fondamentale, che è quella della precisa rispondenza fra ciascuna coppia di botta e risposta: una rispondenza sia orizzontale, cioè tematica fra battuta del proponente e replica del rispondente, sia verticale, cioè legata al rispetto del principio di non contraddizione di quanto si è detto nelle coppie agonali precedenti (Serrao 1975, pp. 73-109). Proprio per una non osservanza da parte di Lacone di queste regole Morsone fa cessare la gara e assegna la vittoria a Comata (v. 138). Nell'ultima parte del carme (vv. 138-50) c’è il ritorno del momento iniziale dell’idillio con il pagamento della posta e il recupero del quadro bucolico delineato nei versi di apertura. Anche negli altri idilli bucolici (I, III-VII, X, XD la componente rappresentata dai motivi popolari è sempre presente, ma in essi la trasformazione in testo letterario è più radicale: così nell’idillio VI c'è ancora un agone bucolico fra due bovari, Dameta e Dafni, ma manca la vera e propria sfida a botta e risposta, e i due contendenti si limitano a cantare ciascuno un canto sul tema dell’amore di Polifemo per Galatea: il primo canto è di Dameta al quale risponde, sulla tematica da lui proposta, Dafni in persona Polyphemi; inoltre in questo idillio non c’è traccia del terzo personaggio che fa da giudice e del premio pattuito per il vincitore. E nei restanti idilli bucolici il motivo dell’agone viene addirittura meno: nell’idillio VII è vero che i due protagonisti, dopo l’investitura a poeta bucolico di Simichida da parte di Licida, recitano ciascuno un proprio componimento, un propemptikön per l'amato Ageanatte Licida e un canto d’amore Simichida, ma, come è detto esplicitamente dagli stessi can-
tori, i due carmi sono stati elaborati precedentemente e quindi non si configurano affatto come canti agonali. Per certi aspetti analoga è la situazione dell’idillio X, ambientato non nel mondo pastorale, ma in quello agreste; due mietitori, Buceo e Milone, per alleviare la dura fatica del lavoro nei campi, intonano ciascuno un canto; il primo esegue un canto d’amore in onore di Bombica, la fanciulla amata, il secondo il tradizionale canto di lavoro dei mietitori, il Litierse, la cui trasposizione in eleganti esametri è certamente uno degli esempi più significativi dell'adesione di Teocrito ai principi della nuova poetica alessandrina. Il motivo del canto d’amore, questa volta come rimedio alle pene d’amore,
ricompare
nell’idillio XI, in cui il Ciclope attraverso il canto
allevia il dolore procuratogli dalla sua passione, non corrisposta, per Galatea. Ed ancora un motivo popolare, il paraklausithyron (la serenata davanti alla porta della persona amata), sta alla base dell’idillio III; Teocrito, con un’ardita innovazione, ambienta questo tipico momento della
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vita cittadina nella realtà campestre: è un capraio che canta la sua serenata di fronte alla grotta dell’amata Amarillide. Del resto nell’idillio I, che certo non a caso è stato scelto dai primi editori come carme di apertura della silloge teocritea, il pastore Tirsi su invito di un capraio, che gli ha promesso in dono una ricca tazza di legno artisticamente intagliata, intona il canto sui dolori e la morte di Dafni, il motivo più tradizionale e popolare di tutta la poesia bucolica; e il carattere popolareggiante del canto di Tirsi è volutamente sottolineato da Teocrito con l’impiego di un verso che fa da ritornello e che divide gli esametri in tanti brevi gruppi disuguali di versi, quasi fossero altrettante stanze di una vera canzone. Ma quasi a fare da contraltare a questo canto così tradizionale, Teocrito, da vero poeta alessandrino che ama variare i toni, oltre che i temi, inserisce proprio in questo idillio (vv. 2956) un motivo letterario e colto qual è l’ekphrasis, cioè la descrizione minuziosa, precisa e particolareggiata di un oggetto artistico (Friedländer 1912, pp. 1-103), in questo caso la tazza di legno donata dal capraio. Fra i carmi bucolici sicuramente teocritei non resta che accennare all’idillio IV a cui il concitato dialogo, fitto di Realien pastorali, fra Batto e Coridone conferisce l’aspetto di un vero mimo bucolico. Nei carmi bucolici alla sostanziale omogeneità tematica si contrappone una certa varietà del loro aspetto formale; alcuni si presentano infatti sotto forma di veri e propri mimi drammatici, senza alcuna cornice narrativa, con i personaggi che vengono immediatamente presentati, Re
co-
sì dire, sulla scena e dialogano direttamente fra loro (I, III, IV,V, X), altri invece sono in forma narrativa, con una descrizione attenta e realistica del paesaggio in cui l’idillio è ambientato e dei personaggi che ne sono protagonisti — soprattutto VII, ma anche VI e, in parte, XI nella sezione (vv. 7-81) successiva a quella di apertura dell’idillio (vv. 1-6), in cui Teocrito si rivolge direttamente all’amico Nicia con considerazioni sui rimedi alle pene d’amore. Ma Teocrito non si limita a coltivare solo il genere bucolico; come altri poeti alessandrini egli volle impegnarsi anche in altri generi poetici, sempre rivisitati nell'ottica della nuova poetica che mirava al rinnovamento dei generi tradizionali, da perseguirsi magari attraverso la mistione di più generi nello stesso componimento (Rossi 1971, pp. 84-5); così nella sua produzione troviamo carmi che possono essere senz'altro definiti mimi urbani (Il, XIV, XV), carmi encomiastici, come i già ricordati XVI e XVII, brevi componimenti di argomento epico o epilli (XXIV e, almeno in parte, XIII e XXII), un epitalamio fittizio per le nozze di Elena
(XVIII),
tre
carmi
d’amore
per
fanciulli
o paidiké
(XII,
XXIX,
XXX), la già citata poesia dedicatoria di una conocchia, in asclepiadei maggiori e in dialetto eolico (XXVIII). 3.2. 1 mimi
Dei tre mimi, l’idillio II è costituito sostanzialmente da due parti: nella prima (vv. 1-63 e poi 144-66) una fanciulla di nome Simeta prepara incantesimi e filtri magici per riconquistare l’amore di Delfi, l’uomo
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
di cui è innamorata; la preparazione degli incantesimi è, ancora una volta, la trasposizione letteraria di una pratica che nel periodo alessandrino ebbe enorme fortuna e una notevole diffusione tra i ceti popolari, come dimostrano i numerosi papiri magici (Preisendanz 1928-1941): non è un caso che in questo idillio, come accade anche nell’idillio I, Teocrito faccia largo uso del motivo del refrain, elemento ricorrente nella poesia di origine e di ambiente popolare. La seconda parte (vv. 64-143) è invece rappresentata dalla scena notturna della lunga confessione di Simeta alla luna, durante la quale la protagonista rievoca la sua storia d’amore con Delfi a partire dal coup de foudre iniziale. È questa una delle pagine più liriche e appassionate di tutta la poesia ellenistica e, al pari del terzo libro delle Argonautiche di Apollonio, testimonia della nuova attenzione degli autori alessandrini per le vicende d’amore viste e analizzate dal di dentro, con ottica tutta intimista, come passione, tormento interiore dell'individuo, senza quelle connotazioni etico-sociali presenti nella lirica arcaica e tardoarcaica. L’idillio XIV è un dialogo fra due amici, in cui Eschine rivela a Tionico come, attraverso indizi di volta in volta sempre più chiari, si sia potuto render conto che la sua donna, Cinisca, è in realtà innamorata di un altro uomo; una volta scoperta, la donna lo ha abbandonato (vv. 143). L’amico gli consiglia allora, per dimenticarla, di arruolarsi fra i mercenari di Tolomeo Il Filadelfo, il che permette al poeta di tessere un sincero elogio del sovrano (vv. 44-70). L’idillio XV è un mimo ambientato nella città di Alessandria: due donne originarie di Siracusa, Prassinoa e Gorgo, dopo essersi date appuntamento a casa di Prassinoa, si recano alla reggia di Tolomeo II Filadelfo per assistere alla celebrazione degli Adonia, le feste di Adone. Attraverso il loro dialogo fitto e vivace è facile seguire i preparativi fatti, fra reciproci complimenti e piccole malignità sui rispettivi mariti, prima di uscire di casa, le disavventure e gli incontri di cui le donne sono protagoniste per strada e, una volta giunte alla reggia, le loro entusiastiche reazioni dopo aver ammirato la scena che appare di fronte ai loro occhi e dopo aver udito l’inno cantato dalla figlia di Argia in onore di Adone. E proprio questo canto è una significativa testimonianza della sopravvivenza, accanto alla cultura scritta e dotta dei poeti eruditi, di una cultura orale di tipo tradizionale. Dal contesto dell’idillio risulta chiaro, infatti, che il canto della figlia di Argia in onore di Adone è un canto improvvisato, tutto incentrato sulla descrizione della scena che sta di fronte agli occhi della donna-cantore e di tutti i visitatori-uditori. Problematiche e ambienti dei mimi teocritei sono dunque quelli piccolo-borghesi, gli stessi che stanno alla base del teatro menandreo (cfr. supra il capitolo sul Teatro) e dei mimi di Eroda. 3.3. Gli epilli
L’adesione di Teocrito alla nuova poetica callimachea è particolarmente evidente nel modo in cui egli affronta la tematica epica nei suoi cosiddetti “epilli”. La predilezione per il componimento breve, che al
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massimo raggiunga i duecento versi, non viene messa in discussione da questa scelta tematica. Come e anzi più che in Callimaco, l’epos è visto di scorcio, selezionando accuratamente dal complesso di una qualsiasi leggenda epica l’episodio specifico e ben determinato che si vuole cantare. Così nell’idillio XXIV viene narrata la storia dell’uccisione da parte di Eracle, ancora infante, dei due serpenti inviati da Era per divorarlo; nell’idillio XIII, un episodio marginale della saga degli Argonauti, il rapimento di Ila, l’amasio di Eracle, da parte di tre Ninfe, episodio descritto, pur se con particolari e finalità diversi, anche da Apollonio nelle sue Argonautiche (cfr. I, 1172-272); nell’idillio XXII, due momenti della leggenda dei Dioscuri: il pugilato fra Polluce e Amico, cantato anche questo da Apollonio nelle Argonautiche (II, 1-97), e il duello fra Castore e Linceo dopo il ratto delle figlie di Leucippo operato dai Dioscuri. Dal punto di vista contenutistico l’elemento che più colpisce negli epilli è la profonda umanizzazione della figura dell’eroe e, al tempo stesso, l’imborghesimento degli ambienti in cui egli opera e delle situazioni di cui si rende protagonista. A queste esigenze di innovazione rispondono per esempio la scena iniziale dell’idillio XXIV (vv. 1-9), in cui Alcmena, dopo aver lavato e nutrito Eracle ed Ificle, canta loro una dolce ninna-nanna per farli addormentare, o le raccomandazioni che, dopo il grido di paura di Ificle alla vista dei due serpenti, la stessa Alcmena rivolge al marito Anfitrione perché si alzi in fretta senza curarsi di allacciarsi i calzari ai piedi (vv. 35-6); o anche il modo originale in cui nell’idillio XIII viene delineata la figura di Eracle: dell’eroe che tradizionalmente è l’immagine della vigoria fisica e della forza d’animo si mette invece in luce lo status di innamorato del giovane Ila, e soprattutto si descrive il suo folle dolore allorché l’amasio gli viene rapito dalle Ninfe. In questo caso il processo di umanizzazione dell’eroe è così radicale che la storia di Eracle diventa l’exemplum mitico di cui Teocrito si serve per consolare il destinatario del carme, Nicia, per un’analoga delusione d’amore (Pretagostini 1984, pp. 89-103). Altrettanto interessanti risultano i cosiddetti epilli sul piano formale. A ben vedere la denominazione di epilli è una definizione basata solo sul loro contenuto, e quindi è una denominazione sostanzialmente di comodo. In realtà in questi idilli Teocrito ha portato fino alle estreme conseguenze il suo gusto per la già ricordata varietà o polyeideia dei generi letterari, tanto da perseguire una mistione di generi all’interno dello stesso componimento. Il caso più macroscopico è rappresentato dall’idillio XXII: esso ha sostanzialmente la struttura di un inno (v. 1 dpvéopev, cfr. vv. 26 e 135), ma diventa poi una vera narrazione epica (vv. 27-134 e 137-211), narrazione che ai vv. 54-74 si trasforma in un dialogo serrato tra Polluce e Amico, una sticomitia che è elemento connotante la poesia drammatica. Una contaminazione di generi che si ritrova anche nell’idillio XIII, che inizia come un’epistola poetica (vv. 1-15) e continua come un componimento epico; del resto anche l’idillio XXIV, che si presenta come un epillio, doveva fondere più generi, se è degna di fede la notazione marginale conservata nel Pap. Antinoae, da cui si può ricavare che la parte conclusiva del carme, ora perduta, doveva contenere, come è
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usuale nella tradizione innodica, il congedo del poeta con l’invocazione ad Eracle per l’ottenimento della vittoria (Gow 1952, Il, pp. 415 e 436). Poco sopra, per dare un segno del diverso atteggiamento di Callimaco nel trattare il genere epico nell’Ecale, si è accennato alla descrizione del sorgere del giorno presente nel fr. 260 Pf. È stupefacente la consonanza con questo nuovo modo estremamente realistico di indicare una notazione temporale che si registra nella descrizione del tramonto fatta da Teocrito nell’idillio XIII (vv. 12-3): «Né quando i pulcini pigolanti guardano verso il posatoio dove dormire, / mentre la madre sbatte le ali sul palo affumicato»; e la novità risulta tanto più dirompente perché, nel verso che precede, l’alba era stata indicata nel modo tradizionale: «Né quando l’aurora dai bianchi cavalli corre verso la casa di Zeus». Nell’ambito della produzione teocritea una considerazione a parte meritano i tre paidiké rappresentati dagli idilli XII, XXIX e XXX. Il primo, in dialetto ionico, comincia come un paidikôn per poi diventare un vero e proprio aition della gara del bacio che si svolgeva a Megara in ricordo dell’erastes Diocle. Gli altri due, molto più interessanti, scritti in eolico, sono la traduzione letteraria in senso alessandrino della lirica pederotica arcaica di carattere simposiale. Il riferimento alla lirica eolica è evocato, oltre che dal dialetto, anche dal metro: l’idillio XXIX è in pentametri eolici, il XXX in asclepiadei maggiori, come l’idillio XXVIII. Dal punto di vista linguistico, se si eccettuano gli idilli XII, XXII, XXVII-XXX, tutti gli altri presentano una forte coloritura dorica, probabile retaggio del dialetto della patria del poeta, con l’ovvia conseguenza che Teocrito, pur stemperandolo con molti epicismi, impiega il dorico persino negli epilli, con la sola esclusione dell’idillio XXII in cui, nel rispetto della tradizione, i dorismi sono evitati. Si è insistito molto sulla particolare predilezione di Teocrito per la varietà degli elementi contenutistici e dell'aspetto formale dei suoi carmi. Proprio alla luce di questo dato di fatto riveste una notevole importanza l’aver potuto stabilire che, quasi a bilanciare tanta varietà, dal punto di vista strutturale i componimenti teocritei, sia che si tratti di idilli bucolici o di epilli, sia che si tratti di carmi encomiastici o di mimi, sono sostanzialmente riconducibili ad un unico modulo compositivo fisso: la stragrande maggioranza degli idilli, infatti, è costituita da due elementi compositivi che quasi sempre sono disposti in maniera tale che l’uno racchiuda al suo interno l’altro, secondo quella che si potrebbe definire una struttura ‘a cornice’ (Pretagostini 1984, pp. 11-30). La fortuna della poesia teocritea è documentata dall’alto numero di imitatori, più o meno abili, la cui produzione confluì, almeno in parte, nel corpus teocriteo. Fra questi componimenti una menzione particolare meritano gli idilli VIII e IX, entrambi di argomento bucolico. L’analisi di questi carmi, specialmente dell’idillio VIII, documenta in modo molto evidente come la poesia bucolica, che in Teocrito presuppone una visione della campagna estremamente realistica, basata su un rapporto diretto, non mediato con la natura, diventa progressivamente poesia di maniera, con connotazioni false e stereotipate, in cui il mondo agreste è
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concepito sempre come rappresentazione di immutabile serenità e letizia (Rossi 1971 b, pp. 5-25). 3.4. Mosco e Bione
A questa tradizione poetica appartengono anche Mosco e Bione. Il primo, nativo di Siracusa, sarebbe stato discepolo di Aristarco (circa 150
a.C.); fra le opere che la tradizione ci ha tramandato sotto il suo nome, la più significativa, oltre a tre brevi carmi bucolici, è senza dubbio l’epillio intitolato Europa, nel quale si narra il rapimento della figlia di Fenice da parte di Zeus trasformatosi in toro; di gusto tipicamente alessandrino è la lunga e particolareggiata descrizione (ekphrasis) del canestro d’oro di Europa e delle scene in esso raffigurate (vv. 44-61). Con Bione di Smirne, vissuto intorno alla fine del I secolo a.C., si completa il panorama degli epigoni della poesia teocritea. Il suo Epitafio di Adone si ispira chiaramente al canto di Tirsi per la morte di Dafni dell’idillio I di Teocrito, sia per l’impiego del refrain, sia per la ricerca di un pathos caldo e ad effetto. 3.5. Eroda
Poco sopra, nel contesto di alcune considerazioni sui temi e l’ambiente dei tre mimi di Teocrito, si è accennato ad Eroda e ai suoi Mimiambi. Di questo autore non si sapeva praticamente quasi nulla fino alla pubblicazione nel 1891 da parte del Kenyon di un papiro contenente sette suoi componimenti interi e un ottavo molto lacunoso. Poiché due mimiambi (II e IV) sono ambientati a Cos, si è supposto che Eroda sia nato, o comunque abbia soggiornato, in quest’isola; sempre sulla base di alcuni riferimenti interni alle sue opere, si suole collocare la sua attività poetica intorno alla metà del III secolo a.C. I Mimiambi sono componimenti brevi, che in genere non superano il centinaio di versi, scritti in una lingua letteraria con una forte impronta
ionica e in un metro, il trimetro giambico scazonte o coliambo, che è un chiaro segnale della volontà del poeta di riallacciarsi alla tradizione della poesia giambica di Ipponatte. Il loro contenuto è molto vario. Nel primo una scaltra mezzana, Gillide, approfittando della lunga assenza del marito dell’onesta Metriche, cerca di convincerla ad accettare le attenzioni di
un suo spasimante; il secondo è in sostanza un lungo monologo dell’avido lenone Battaro davanti ai giudici, per ottenere la condanna del ricco Talete al pagamento di una grossa multa per aver assaltato il suo bordello; nel terzo Metrotime, la madre di un ragazzo ignorante e sfaticato, chiede a Lamprisco, il maestro di scuola, di impartire una severa punizione al suo figliolo, richiesta che viene prontamente esaudita; il quarto prende spunto, come l’idillio XV di Teocrito, dalla visita di due donne ad un edificio pubblico, in questo caso l’Asklepieion di Cos, per descrivere attraverso i loro commenti le opere d’arte che si trovano nel tempio; il quinto è incentrato sulla figura di Bitinna, una donna che, adirata per il tradimento dello schiavo Gastrone di cui si è infatuata, in
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un primo momento vorrebbe infliggergli una punizione esemplare, ma poi alla fine si rabbonisce; nel sesto due amiche, Coritto e Metro, nel corso di una conversazione piccante, si scambiano notizie e commenti su un fallo di cuoio; protagonista del settimo è il calzolaio Cerdone, che con una lunga e scaltra contrattazione cerca di vendere al miglior prezzo la sua merce. Come si vede, i personaggi e l’ambiente dei Mimiambi di Eroda provengono dal mondo piccolo-borghese, ma è un’ipotesi forse troppo semplicistica pensare che questo mondo piccolo-borghese sia anche il destinatario di questi componimenti, ipotesi che si fonda sul presupposto che i Mimiambi fossero scritti per essere rappresentati sulla scena. Al contrario la loro struttura così poco ‘drammatica’, la lingua letteraria, i numerosi riferimenti culturali fanno pensare che essi fossero destinati alla lettura o, al massimo, ad una recitazione, quasi in forma di oratorio, riservata ad un pubblico dotto e selezionato, come del resto doveva avvenire per i mimi di Teocrito. In sostanza Eroda trasfonde la realtà quotidiana di un mondo piccolo-borghese in una dimensione letteraria fruibile da un pubblico d'élite. 4. Apollonio Rodio e la poesia epica. La poesia didascalica Se Callimaco e, in qualche misura, Teocrito possono essere considerati gli alfieri della poetica del nuovo stile, Apollonio Rodio può essere senz'altro ritenuto il vessillifero del ritorno, anche se in forme e modi rinnovati, all’epica tradizionale, o per meglio dire al tipo di epica teorizzato da Aristotele. Apollonio era nato ad Alessandria qualche anno dopo il 300 a.C. L’unica notizia certa della sua vita è quella, attestata dal già citato P. Oxy. 1241 che riporta i nomi dei primi bibliotecari, che egli fu bibliotecario dopo Zenodoto e prima di Eratostene. In quanto bibliotecario gli fu affidato intorno al 260 a.C. l’incarico di sovrintendere all’educazione del principe ereditario Tolomeo III Evergete, nato nel 280 circa. Dopo alcuni anni, probabilmente nel 246 a.C., cioè dopo la salita al trono dell’Evergete, dovette lasciare l’incarico di bibliotecario ad Eratostene e si
ritirò definitivamente nell’isola di Rodi, donde l’appellativo di Rodio. Molto più incerte, anche perché a volte contraddittorie, le notizie for-
nite dalle due Vite e dal lessico Suda, relative ai suoi rapporti con Callimaco e alla composizione della sua opera più importante, le Argonauti-
che,
la
cui
stesura
e definitiva
redazione,
anche
per
le notevoli
dimensioni del poema (5835 versi), dovette impegnarlo per molti anni. È comunque sicuro che egli lavorasse al poema già negli anni di Alessandria e che delle parti più significative del suo lavoro tenesse pubbliche letture di fronte ai poeti e agli eruditi del Museo. Di questa prima redazione relativa ad una parte dell’opera è rimasta traccia negli scolii antichi che nel commento a sei passi del primo libro (vv. 285-6; 516-20; 543;
726-7;
788-9; 801-4) danno notizia di un testo diverso da quello
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tràdito, attribuendolo ad una proekdosis o “edizione preliminare” del poema (Fantuzzi 1983, pp. 146-61). D'altra parte è sufficientemente provato che alcuni poeti alessandrini, per esempio Teocrito nell’idillio XIII con l’episodio del rapimento di Ila e nell’idillio XXII con il pugilato tra Polluce ed Amico, riprendono con spirito di confronto zelotico tematiche che Apollonio aveva già trattate nei primi due libri del suo poema e di cui essi erano venuti a conoscenza proprio durante queste pubbliche letture. Forse anche a seguito dell’insuccesso di queste letture e del contrasto con Callimaco il poeta decise di ritirarsi a Rodi, dove attese ad una rielaborazione e alla stesura definitiva delle Argonautiche. Destituita di fondamento è invece la notizia di un suo ritorno, in età avanzata, ad Alessandria, dove avrebbe riassunto l’incarico di bibliotecario; l’origine di questa notizia, chiaramente inattendibile, va individuata nel fatto che fra i bibliotecari successori di Eratostene figura un altro Apollonio, l’Eidografo. 4.1. Le Argonautiche
Fra le opere che in qualche modo si contrappongono al programma tico di Callimaco, le Argonautiche sono l’unico ampio poema epico del primo ellenismo che la tradizione ci ha conservato per intero. L’adesione del suo autore alle teorie aristoteliche sull’epica (cfr. supra il capitolo sull’Epica e la poesia didascalica) traspare già dalla struttura e dall'impianto dell’opera. Secondo i canoni aristotelici, le Argonautiche possono essere considerate un poema ciclico nel senso letterale del termine: l’impresa degli Argonauti comincia a lolco e, dopo quattro libri in cui la narrazione delle loro peripezie spazia attraverso gran parte del mondo allora conosciuto, trova la sua conclusione di nuovo a Iolco. La stessa articolazione di tutta l’opera in quattro libri, dei quali il più breve (il secondo) è di 1285 versi, il più lungo (il quarto) è di 1781 versi, sembra essere l’attuazione pratica del dettato aristotelico (Poet. 1459 b 17 ss.) secondo cui la lunghezza ideale di un poema epico è simile a quella complessiva delle tragedie che sono ammesse ad un’unica audizione, cioè una tetralogia (Serrao 1977, pp. 238-9). Dunque un ritorno all’epica tradizionale (poema ciclico, unitario), ma rivisitata per quanto riguarda le dimensioni e la struttura dell’opera alla luce della grande esperienza del dramma del V secolo. Argomento del poema è la spedizione degli Argonauti, sotto la guida di Giasone, alla conquista del vello d’oro, un mito antichissimo che aveva contribuito alla formazione di un filone epico già noto al tempo dei poemi omerici (cfr. Od. XII, vv. 69-72). I primi due libri sono dedicati al racconto del viaggio di andata da Iolco alla Colchide; nel terzo vengono descritti, secondo una tecnica narrativa che si muove su due linee
di sviluppo parallele, l’insorgere nel cuore di Medea dell’amore per Giasone, con il relativo conflitto interiore tra la fedeltà alla famiglia e la passione per l’eroe venuto da lontano, e contemporaneamente le imprese che porteranno alla conquista del vello; il quarto libro è riservato alla
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fuga degli Argonauti dalla Colchide e al loro ritorno a Iolco lungo un percorso diverso da quello seguito nel viaggio di andata, inseguiti per gran parte del viaggio da una schiera di Colchi desiderosi di vendetta. Quasi a sottolineare i tre diversi momenti della storia — viaggio di andata, innamoramento di Medea con contemporanea conquista del vello, ritorno degli Argonauti — Apollonio fa precedere i libri primo, terzo e quarto da altrettanti proemi dedicati rispettivamente ad Apollo, ad Erato, Musa della poesia amorosa, ed infine alle Muse. Questo, per grandi linee, lo sviluppo tematico dell’opera. Ma per una migliore comprensione dello spirito e del disegno poetico che la animano sarà bene soffermarsi su alcuni passi specifici. L'intenzione del poeta di riallacciarsi alla grande tradizione epica affiora già nella parte iniziale del primo libro: il lungo catalogo degli Argonauti che parteciperanno alla spedizione (I, vv. 23-228) vuole essere la riproposizione di uno dei temi topici dell’epos, presente naturalmente anche in Omero, il modello per eccellenza per Apollonio, con il catalogo delle navi nel secondo libro dell'Iliade. Ma al tempo stesso la funzione del catalogo degli Argonauti è anche quella di trasmettere al lettore la sensazione che le Argonautiche sono un poema corale, un poema di gruppo, in cui, certo, c'è un eroe che fa da guida, Giasone, ma egli è un primus inter pares, non sovrasta per virtù e valore i compagni, come accade per esempio nell’Iliade con Achille e nell’Odissea con Odisseo. Questa chiave di lettura è ribadita dall’episodio del rapimento di Ila (I, vv. 1172-272) che, per le conseguenze che esso comporta (I, vv. 1273-362), è forse il più significativo di tutto il primo libro. Eracle, nel tentativo di ritrovare Ila, rapito da una ninfa, di fatto abbandona i suoi compagni e questo nell'economia del poema rappresenta l’espediente escogitato da Apollonio per eliminare dalla spedizione Eracle, il prototipo dell’eroe epico tradizionale, a tutto vantaggio del personaggio Giasone che nel corso del poema si presenta con le caratteristiche dell’antieroe, naturalmente inteso nel senso tradizionale del termine; un protagonista che per riuscire nell'impresa deve ricorrere all’aiuto di una donna (Medea) e agli strumenti di cui ella è maestra, la magia e l’inganno, aiuto che risulta determinante in due momenti chiave dell’intera vicenda, la
conquista del vello e l’uccisione di Apsirto, capo di uno dei gruppi dei Colchi inseguitori (IV, vv. 338-481) (Paduano 1986, pp. 11-3). Con Giasone, Apollonio delinea dunque la figura dell’anti-eroe epico o meglio del nuovo eroe dell’epica ellenistica, la cui migliore qualità non si manifesta nell’arte della guerra o dell’esercizio fisico, cioè nella pratica dell’agire, ma piuttosto nell’arte della parola, cioè nella pratica del persuadere o dell’ingannare: si spiega così la dimensione per così dire ‘drammatica’ con cui Apollonio, soprattutto nei passaggi cruciali dello sviluppo narrativo, connota la sua nuova epica, attraverso un più vasto impiego ed una sostanziale rifunzionalizzazione del discorso diretto. Dunque anche nell’epica apolloniana è presente, pur se in modi e con strumenti diversi, quel fenomeno di umanizzazione dei personaggi e delle situazioni, che già abbiamo riscontrato in quei componimenti di Callimaco e di Teocrito che in qualche misura sono riconducibili al genere
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epico. Ma l’umanizzazione dei personaggi non si manifesta solo in riferimento a Giasone; essa è ancora più evidente nella caratterizzazione della figura di Medea, la vera protagonista del terzo libro, che tanto risente del precedente costituito dall’omonima tragedia euripidea. Apollonio impiega versi tra i più belli e più umani della letteratura ellenistica per delineare la sua vicenda, che è sostanzialmente la storia tutta interiore della drammatica e sofferta evoluzione dalla dimensione di fanciulla particolarmente legata alla sua famiglia a quella di donna pronta all’inganno e persino al delitto per difendere l’uomo di cui si è innamorata e i suoi interessi. Questa evoluzione è analizzata dal poeta in tutte le sue fasi, dai primi turbamenti alla vista dell’eroe fino all’abbandono, senza più resistenze, ai disegni e alla volontà di Giasone, attraverso angosciosi momenti di dubbio, di vero tormento sulla giustezza di questa evoluzione interiore, stati d’animo che si materializzano e si precisano soprattutto nei tre fondamentali monologhi di Medea (III, vv. 464 ss., 636 ss., 761 ss.) (Paduano 1972, pp. 11-59). Questo processo di allontanamento dagli ideali e dalle atmosfere dell’epica tradizionale non investe solo gli eroi, ma anche gli dei. Basti pensare alla scena in cui Afrodite cerca di convincere il piccolo Eros a servirsi del suo arco e dei suoi dardi per colpire la figlia di Eeta e farla così innamorare di Giasone (III, vv. 111-55). Sembra uno spaccato della vita di tutti i giorni: il dio fanciullo è appena uscito vincitore da un’accanita partita a dadi con Ganimede e solo dopo che la madre gli ha promesso un bel giocattolo sembra disposto a prendere in considerazione la sua pressante richiesta; non manca neppure un capriccio, perché Eros, come tutti i bambini, è impaziente: non si accontenta di una promessa, il dono lo vuole subito. Afrodite deve ricorrere ad un giuramento per riuscire a convincerlo. Un episodio per molti versi analogo a quelli, già ricordati, della bambina talmente vivace da costringere la mamma a minacciare, in funzione di spauracchio, l'intervento dei Ciclopi o di Hermes cosparso di cenere nell’Inno ad Artemide di Callimaco (vv. 66-9), o del figlioletto di Prassinoa che continua a fare i capricci per poter uscire, nonostante la madre accenni ad un possibile incontro con Mormö, il corrispettivo del nostro “Babau”, nell’idillio XV di Teocrito (v. 40). Dunque nell’interesse per i particolari della vita quotidiana Apollonio non è meno alessandrino di Callimaco o di Teocrito. Del resto che Apollonio è figlio del suo tempo, che cioè è espressione autentica, non meno di altri suoi contemporanei, dell’ambiente e della cultura alessandrina risulta chiaro dal tema che egli ha scelto come elemento compositivo primario della sua opera: il viaggio attraverso terre lontane e in parte sconosciute. Questo gli consente, soprattutto nei primi due libri e nel quarto, una serie continua di digressioni geografiche, antropologiche, mitologiche in cui l’autore può dimostrare tutta la sua cultura e il suo sapere di poeta erudito. Paradossalmente le Argonautiche, per larga parte del poema, non sembrano differire molto da una sequela di aitia; l’originalità dell'operazione compiuta da Apollonio sta nell’averli legati insieme l’uno all’altro in maniera organica per mezzo di un filo conduttore rap-
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presentato appunto dall’elemento narrativo di base del poema, il viaggio degli Argonauti. Anche sul piano della lingua e dello stile il modello primo di Apollonio è Omero: dei poemi omerici si riproducono fedelmente alcune preziosità linguistiche, quali gli hapax e i dis legomena, le parole che in essi comparivano una o due volte; largo spazio è riservato all’uso del linguaggio tradizionale dell’epica e alle similitudini. Ma proprio riguardo a questi due elementi va rilevato il modo nuovo con cui Apollonio li ha impiegati. Per esempio, nell’ambito del linguaggio tradizionale dell’epica, egli assume un atteggiamento totalmente diverso rispetto al linguaggio formulare omerico: nelle Argonautiche la formula è sempre artisticamente variata, tanto che ne risulta snaturata l’essenza stessa del concetto di formula (Fantuzzi 1988, cap. 1). E per quanto riguarda le similitudini, è vero che esse sono molto numerose nel corso di tutto il poema e che nella maggioranza dei casi sono lunghe, complesse, articolate come le similitudini omeriche, ma è anche vero che sono molto più minuziose, più dettagliate, più ricche di particolari eruditi: se il fine della similitudine omerica è quello di coinvolgere e di affascinare il vasto ed indifferenziato pubblico della performance orale, quello della similitudine apolloniana è di interessare e di piacere ad un ristretto pubblico di uditori o di lettori colti. È sufficiente richiamare, a questo proposito, la similitudine creata dal poeta per meglio esprimere l’agitazione prodottasi nel cuore di Medea al momento di decidere se aiutare o no Giasone, consegnan-
dogli i filtri per superare la prova impostagli da Eeta (Ill, vv. 755-60): il cuore della fanciulla è paragonato a un raggio di sole che, riflettendosi nell'acqua da poco versata in un catino, si agita e tremola per tutta la stanza, proprio in virtù del movimento dell’acqua; nessuna parola è superflua, ma tutte concorrono a delineare con estrema precisione il quadro: Apollonio specifica che l’acqua è stata versata da poco perché è allora che l’acqua ondeggia e con i suoi vortici produce l’effetto del movimento del raggio di sole riflesso. Una similitudine che per il suo carattere ‘scientifico’ sembra risentire delle quotidiane occasioni di incontro tra poeti-eruditi e scienziati all’interno del Museo. . Anche il metro & quello tradizionale dell’epica, l’esametro, ma impie-
gato in modo piü severo di quanto non fosse nei poemi omerici, senza peraltro raggiungere la raffinatezza e la perfezione stilistica dell’esametro callimacheo (Fränkel 1960, pp. 100-56). Delle altre opere poetiche di Apollonio nulla ci & giunto, se non poche notizie e scarsissimi frammenti; sappiamo che scrisse una serie di componimenti in esametri sulla fondazione di varie città: Alessandria, Naucrati, Rodi e, forse, Lesbo.
Molto interessante dovette essere la sua attivitä di erudito, di cui purtroppo non sappiamo quasi nulla: uno scolio omerico (Schol. A ad Il. XIII, 657) ci ha tramandato il titolo (Contro Zenodoto) di un suo saggio
in cui forse criticava l’edizione omerica curata dal suo predecessore nell'ufficio di bibliotecario, e Ateneo (X, 451 d) ricorda una sua opera su Archiloco.
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4.2. Cherilo di laso e Riano
Oltre ad Apollonio, in questa prima fase della letteratura ellenistica numerosi furono i cultori della poesia epica, i quali trassero ispirazione per le loro opere sia dal repertorio mitico sia da avvenimenti storici più o meno recenti. Tra i tanti sarà sufficiente ricordare Cherilo di Iaso, autore di un adulatorio poema epico sulle gesta di Alessandro Magno, giudicato severamente da Orazio (Epist. II, 1, 233), e soprattutto Riano, originario dell’isola di Creta e vissuto nella seconda metà del III secolo a.C., che compose un poema dal titolo Herakleia, in quattordici libri, sulle imprese dell'omonimo eroe e una serie di componimenti che trattavano la storia di varie regioni della Grecia: Thessalikä, Achaiké, Eliaké, Messeniakä. Quest'ultima opera è stata una delle fonti per il quarto libro della Periegesi di Pausania. 4.3. La poesia didascalica: Arato
Insieme alla poesia epica, un filone particolarmente coltivato dagli autori ellenistici fu quello della poesia didascalica, il cui creatore era considerato già dagli antichi Esiodo, un poeta che, come abbiamo visto, godette in questo periodo di una notevole fortuna. Il rappresentante più prestigioso di questo genere fu Arato di Soli, che dopo un soggiorno giovanile ad Atene, dove aderì allo stoicismo, fu chiamato a Pella da Antigono Gonata, re di Macedonia (277-239 a.C.), di cui celebrò le nozze con Fila in un perduto Inno a Pan. Oltre ad alcuni epicedi per la morte di amici e ad una raccolta di poesie brevi dal titolo Kata leptön, di cui non ci è rimasto nulla, Arato scrisse, su sollecitazione del sovrano, i Fenomeni, un poemetto di 1154 esametri, che in sostanza è costituito da due parti: al proemio in forma di inno a Zeus unico e sommo, che ha tutte le caratteristiche della divinità universale degli stoici (vv. 1-18), seguono prima la descrizione delle costellazioni celesti e dei circoli in cui è diviso il cielo (vv. 19-732), poi l’analisi dei segni premonitori di variazioni meteorologiche, i cosiddetti Prognostica (vv. 733-1154). Lo stile dell’opera risulta elegante e raffinato, ma la materia, che ricalca teorie dell’astronomo Eudosso di Cnido, è trattata in maniera arida e senza entusiasmo. Tuttavia il poemetto di Arato godette di un’enorme fortuna presso i Greci e i Romani: Callimaco nell’epigramma XXVII Pf. (=A.P. IX, 507) ne sottolineò con ammirazione il carattere esiodeo; Varrone Atacino, Cicerone, Germanico ed Avieno ne proposero una versione, o comunque una rielaborazione, in lingua latina. 4.4. Nicandro e i due Oppiano
AI filone della poesia didascalica è riconducibile anche Nicandro di Colofone, la cui attività poetica va collocata intorno alla metà del II secolo a.C. La sua produzione letteraria è molto vasta e comprende poemi epici
(Thebaiké,
Oitaikd,
Sikelia,
Europia),
poemi
didascalici
(Geor-
giche, con un’appendice — ma forse è un’opera autonoma — sulla Apicultura; Prognostiké in versi; Raccolte di cure) e, soprattutto, le Meta-
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morfosi in cinque libri, una raccolta di leggende mitiche che prevedevano una trasformazione, legate in qualche modo l’una all’altra, forse alla maniera degli Aitia; tutte queste opere sono andate perdute. A noi restano solo due poemetti didascalici: i Theriaké, rimedi contro i morsi di animali velenosi, e gli Alexiphärmaka, preparati che servono da contravveleni. Mettendo in versi una materia siffatta, desunta dall’opera di uno
specialista in veleni, Apollodoro, vissuto tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C., Nicandro
si prefiggeva un fine eminentemente
pratico,
quello di dare consigli utili ai suoi lettori; ne consegue che l’argomento è trattato con molta cura e con un linguaggio in cui abbondano termini scientifici e glosse rare, ma lo stile è piatto. Non più che un cenno meritano i due Oppiano, il primo di Anazarbo in Cilicia, la cui cronologia è incerta fra l’età di Marco Aurelio e quella di Settimio Severo e di Caracalla, il secondo di Apamea di Siria, vissuto
certamente sotto Caracalla. Oppiano di Anazarbo è autore di un poema sulla pesca (Halieutik4) in cinque libri, in cui illustra, non senza un certo colorito poetico, le varie specie di pesci, le loro abitudini, i loro amori, nonché i diversi tipi di pesca; di gusto tipicamente ellenistico è, nel quinto libro, la lunga digressione sui delfini, che contiene l’episodio della tenera amicizia tra un fanciullo e un delfino, amicizia la cui triste e drammatica fine suscita una sincera commozione (V, vv. 458-518). Meno interessante è l’opera dell’altro Oppiano, un mediocre poema sulla caccia (Kynegetikd) in quattro libri. 5. Poesia del dissenso e poesia di contenuto filosofico Si è molto insistito in queste pagine sull’atteggiamento di sostanziale, in alcuni casi entusiastico, consenso che poeti come Callimaco e Teocrito assunsero nei confronti della nuova dinastia dei Lagidi, che prima con Tolomeo I Soter, poi con Tolomeo II Filadelfo si era insediata nel neocostituito regno di Egitto; tanto che a giusto titolo si può usare per questi poeti l’espressione di poeti cortigiani (Griffiths 1979). Il loro non fu solo un consenso generico e ‘di maniera’; in certe circostanze, come per esempio in occasione del matrimonio incestuoso fra Tolomeo II Filadelfo e la sorella Arsinoe II (276-275 a.C.), fu un consenso qualificante e determinante, in quanto mirò a legittimare sul piano mitico-religioso (cfr. Teocrito, /dillio XVII, vv. 128-34) una scelta controversa, che, pur aven-
do importanti motivazioni politiche, quali il rafforzamento della nuova dinastia anche attraverso il riconoscimento e l’accettazione di un fatto di costume ben radicato nel mondo egizio soprattutto a livello di casa regnante, poteva senza dubbio risultare offensiva ed inammissibile per quel settore dei sudditi greci che più si sentiva legato ai valori storicoculturali del mondo greco. 5.1. Sotade
Ma fra i poeti-eruditi che vivevano all’interno del Museo il consenso nei confronti del sovrano non fu sempre generalizzato; in alcuni casi il
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dibattito fra posizioni contrapposte dovette essere piuttosto vivace, fino ad arrivare a clamorose manifestazioni di dissenso, come quella di cui si rese protagonista Sotade di Maronea, vissuto al tempo dei due Tolomei, I e II, proprio a proposito dell’avvenimento or ora ricordato. Sulla base della testimonianza di Ateneo (XIV, 620 e-621 a) è legittimo supporre che egli abbia composto un intero carme in cui con un linguaggio oltraggioso e sarcastico ‘celebrava’ come empie le nozze incestuose fra i due fratelli regali; del componimento si sono conservati due frammenti (1 e 16 Powell) (Pretagostini 1984, pp. 139-47), il primo dei quali costituito da un verso particolarmente scurrile e pungente. Il poeta pagò con la vita il suo mordace dissenso: per ordine del re, un suo stratego lo rinchiuse vivo in una cassa di piombo e lo gettò in mare, punendolo con una fine che è emblematica della condanna al silenzio eterno. Questa manifestazione di dissenso è tanto più significativa se si considera che per altri aspetti Sotade è un tipico rappresentante, in negativo, di quello stesso ambiente culturale i cui massimi esponenti furono Callimaco, Teocrito e Apollonio; basti pensare che una delle sue opere più significative, l’Iliade (frr. 4a e, forse, 4b Powell), consisteva nella riscrittura in versi sotadei, cioè in tetrametri ionici a maiore, degli esametri dell'Iliade ome-
rica, un’operazione da freddo letterato. Non sono invece certamente da attribuire a Sotade una serie di frammenti in sotadei, tramandati da Stobeo, dai contenuti filosofici o dida-
scalici, scritti in una lingua e in uno stile molto diversi da quelli dei frammenti sicuramente sotadici. 5.2. Cercida
Del resto opere poetiche che cantavano i motivi topici dell’etica propugnata dalle nuove filosofie ellenistiche, soprattutto dalla stoica e dalla cinica, non sono affatto rare nel periodo alessandrino. L’esempio forse più significativo di questo genere di poesia è rappresentato dai Meliambi di Cercida di Megalopoli, attivo nella seconda metà del III secolo a.C. Particolarmente interessante è il fatto che, per trattare queste tematiche filosofeggianti o più genericamente moralistiche, tipiche della diatriba cinica e riconducibili in qualche misura al genere serio-comico, Cercida ha impiegato nei suoi componimenti un ritmo, quello dei kat’enoplion-epitriti, che nel periodo arcaico connotava la grande lirica corale, cioè il genere encomiastico o eulogistico. Anche in questo caso si assiste al fenomeno, già notato in precedenza, della diversa destinazione di un determinato elemento formale, quale può essere il ritmo, rispetto al genere poetico cui tradizionalmente faceva riferimento. Non meraviglia che in questo processo di trasformazione mutino anche le caratteristiche legate alla performance di quel ritmo: così i kat’enoplion-epitriti da versi lirici, come erano in arcaico, diventano nei Meliambi di Cercida versi destinati alla recitazione (Gerhard 1921, col. 301).
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6.
L’elegia
Parlando dell’attività poetica di Callimaco ci si è soffermati a lungo sui suoi quattro libri di elegie, gli Aitia. Ma Callimaco non fu l’unico autore dell’età alessandrina a comporre elegie: l’elegia godette infatti in questo periodo di una rinnovata fortuna. Rispetto a quella arcaica e tardoarcaica, in cui trovavano spazio tematiche molteplici e svariate, quali la parenesi bellica, le problematiche etico-politiche, la celebrazione dell’amore e delle gioie del simposio, oltre naturalmente al lamento trenodico (Gentili 1984, pp. 41-5), l’elegia ellenistica sembra, invece, caratterizzata da un intento prevalentemente narrativo, basato su temi ‘oggettivi’, quali i miti, le leggende, le antiche tradizioni, e finalizzato o all’individuazione dell’origine e alla spiegazione di comportamenti, costumi, rituali ancora in uso al tempo del poeta, come accade appunto negli Aitia (Degani 1977, p. 303), o alla costituzione di lunghi cataloghi di storie d’amore dedicati alla donna amata, come è il caso della Leonzio di Ermesianatte, molto probabilmente strutturata sull’esempio della Lide di Antimaco di Colofone (inizio IV secolo a.C.), l’opera, non apprezzata da Callimaco (fr. 398 Pf.), in cui il poeta per lenire il dolore per la perdita della donna amata (Lide), cantava in un unico, lungo componimento tutta una serie di saghe incentrate sugli amori infelici degli eroi mitici: da quella degli Argonauti (frr. 4-8; 10-16 Gent.-Pr.), a quelle di Bellerofonte (fr. 9 Gent.-Pr.) e di Edipo (fr. 3 Gent.-Pr.) (Serrao 1979, pp. 91-8). 6.1. Filita
Molto probabilmente al modello della Lide di Antimaco si ispirò anche Filita per la sua Bittide, una raccolta di elegie dedicate alla moglie e di cui purtroppo non ci è rimasto alcun frammento. Nato nell’isola di Cos, Filita visse al tempo di Alessandro e di Tolomeo I Soter, che lo chiamò ad Alessandria per affidargli l'educazione del figlio Tolomeo II Filadelfo; negli ultimi anni della sua vita il poeta tornò a Cos, dove in-
torno a lui si formò un circolo di poeti. Secondo la tradizione antica egli fu il maestro di Zenodoto, il futuro bibliotecario, di Teocrito e di Ermesianatte. Filita fu il primo dei grandi poeti-eruditi alessandrini: anch’egli, infatti, si dedicò oltre che alla poesia ad un’intensa attività di filologo e di grammatico, come testimoniano le sue Ataktoi glossai (Glosse miscellanee), un glossario, privo di un ordinamento sistematico,
di parole rare e difficili, di termini tecnici e di vocaboli omerici. Delle sue opere in versi si sono conservati alcuni titoli e pochi frammenti: l’Hermes (frr. 5-9 Powell), un poemetto in esametri, in cui si narra l’amore di Odisseo per Polimela, la figlia di Eolo, re dei venti; la Demetra (frr. 1-4 Powell) in distici elegiaci, che canta le peregrinazioni della dea alla ricerca della figlia. Ancora in metro elegiaco sono i Paignia (Carmi giocosi), di cui ci restano due brevi componimenti (fr. 10-11 Powell), il primo dei quali, se è giusta l’interpretazione che si suole darne, rappresenta un’importantissima anticipazione di alcuni dei tratti fondamentali della nuova poetica callimachea: «Non prenderà me, ricavata
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da un ontano / — afferma chi parla, probabilmente una tavoletta per scrivere — un rozzo contadino sceso dai monti, levando la sua zappa; / ma chi è esperto nell’arte dei versi e conosce, dopo lunghe fatiche, / la via di ogni tipo di racconto». Del resto anche dai pochi frammenti affiora l’immagine di un poeta di grande erudizione e raffinatezza formale. 6.2. Ermesianatte
Suo allievo fu, come si è detto, Ermesianatte di Colofone (prima metà del III secolo a.C.), autore della già citata Leonzio, un’opera in distici elegiaci in tre libri, il cui titolo è identico al nome della donna amata dal poeta. Il suo contenuto può essere ricostruito, almeno per grandi linee, da alcuni frammenti e dai precisi excerpta presenti nelle opere di Partenio (Erot. Path. 5; 22) e di Antonino Liberale (Mer. 39); è una serie di vicende amorose tutte infelici, il cui scopo era molto probabilmente quello di illustrare la potenza di Eros, capace di imporsi a chiunque: ai pastori (Polifemo innamorato di Galatea, fr. 1 Powell) come ai principi (Nanide, figlia di Creso, innamorata di Ciro per cui tradisce il padre e la patria, fr. 6 Powell), ai poeti come ai filosofi (fr. 7 Powell): Omero innamorato di Penelope, Esiodo di una fanciulla di nome Eoia (un manifesto tentativo di spiegare razionalisticamente la formula di transizione ñ oin, «o quale» tipica dei cataloghi esiodei), Alceo e Anacreonte di Saffo, Socrate di Aspasia. Proprio quest’ultimo frammento (dal terzo libro), tramandato da Ateneo (XIII, 597 b) e costituito da ben 98 versi — un lungo catalogo che si rifà chiaramente al precedente rappresentato dalla poesia esiodea —, consente allo studioso moderno di farsi un’idea abbastanza precisa di quale fosse la struttura dell’intera opera. Infatti in tre punti del frammento (vv. 49, 73, 75) il poeta si inserisce all’interno della narrazione rivolgendosi direttamente in seconda persona ad un interlocutore di cui non si conosce il nome, ma che senza dubbio è una donna (cfr. v. 73 viyvéoxeis dlovoa); non sembra azzardata l’ipotesi che si tratti di Leonzio, la dedicataria dell’opera. Evidentemente la presenza dell’elemento subiettivo, inserito di tanto in tanto nel flusso narrativo rappresentato dalle diverse vicende d’amore, costituisce l’intelaiatura, la struttura portante di tutta l’opera con l’essenziale funzione di rapportare le singole elegie d’amore al tema centrale dell’opera stessa, l’esaltazione della potenza di Eros (Serrao 1979, pp. 93-4). Le elegie, scritte in uno stile elegante e ricercato, contengono notevoli anacronismi e curiose bizzarrie, che trovano però una valida spiegazione se si accetta l’ipotesi secondo cui Ermesianatte ha voluto introdurre nei suoi componimenti una buona dose di scherzoso divertissement intellettuale, capace di stupire e divertire i dotti poeti-eruditi alessandrini. 6.3. Fanocle
La stessa struttura catalogica si ritrova nell’opera di Fanocle, di poco più giovane di Ermesianatte, intitolata Gli amori o i belli, una serie di
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elegie che cantano gli amori di vari personaggi per i bei fanciulli (Orfeo e Kalais, Agamennone e Arginno, Tantalo e Ganimede, Dioniso e Adone). Le storie sono legate l’una all’altra dal nesso ñ &ç, «o come», voluto adattamento della tradizionale formula connettiva esiodea. Particolarmente interessante è il fr. 1 Powell, di 28 versi, in cui si narra la vicenda drammatica e dolorosa di Orfeo innamorato di Kalais, figlio di Borea, e per questo ucciso dalle gelose donne Bistonidi: la testa del cantore, recisa dal corpo e infissa sulla cetra, approda a Lesbo. Tutto l’episodio si presenta come un doppio aition: infatti serve a spiegare da una parte il tatuaggio che le donne tracie portano sulla pelle, retaggio della punizione che i mariti inflissero loro dopo l’uccisione di Orfeo, dall’altra il rigoglioso fiorire della poesia a Lesbo, come conseguenza dell’arrivo nell’isola della testa e della cetra del mitico cantore. Soprattutto nella parte del frammento in cui si canta il vagare sul mare della cetra e del capo di Orfeo, il poeta riesce a creare un’atmosfera di sogno e di armonia, in stridente contrasto con la drammaticità del racconto dell’assassinio perpetrato dalle Bistonidi. 7. L’epigramma AI pari e forse ancor più dell’elegia, la forma letteraria maggiormente coltivata nel periodo ellenistico fu senza dubbio l’epigramma, che i poeti alessandrini promossero definitivamente al rango di genere letterario ridefinendone e ampliandone la destinazione e la funzione originarie. Nato in epoca arcaica come breve iscrizione sepolcrale dal contenuto gnomico e impersonale redatta per lo più in distici elegiaci con finalità eminentemente pratiche e di riflessione etica, l’epigramma divenne progressivamente nel periodo tardoarcaico e classico il veicolo privilegiato dell’espressione sia dei sentimenti strettamente connessi con la figura del defunto — dal dolore e rimpianto per la sua morte, alla lode delle sue virtù militari e civili —, sia della valutazione estetica del monumento funebre. In altri termini l’epigramma perde nel corso dei secoli la sua peculiarità originaria di occasione per ribadire i valori etico-politici della società aristocratica a cui l’estinto apparteneva, per divenire, già in parte con gli epigrammi di Simonide, ma soprattutto con quelli pre-ellenistici . del IV secolo, lo strumento letterario per l’esternazione dei sentimenti
personali del poeta, come accade per esempio negli epigrammi attribuiti a Platone e ad Erinna di Telo (Giangrande 1972, pp. 123-5). I poeti alessandrini svilupparono al massimo questa tendenza; pur conservando in molti casi, in omaggio alla tradizione, la parvenza dell'occasione reale della destinazione funeraria, ampliarono la gamma dei motivi che potevano essere oggetto di canto nell’epigramma: la rappresentazione di quadretti di vita bucolica, l’interesse per i mestieri ‘primitivi’ e popolari, la descrizione di opere d’arte, la polemica letteraria; ma soprattutto l’esaltazione delle due tematiche simposiali per eccellenza, il vino e l’amore, facendo così dell’epigramma ellenistico il diretto
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erede della grande tradizione della lirica monodica arcaica e tardoarcaica (Degani 1977, p. 271). D'altra parte quella che si era venuta imponendo nel corso dei secoli come la caratteristica formale peculiare dell’epigramma, cioè la sua brevità, ben si adattava al nuovo gusto alessandrino per il componimento conciso, ma estremamente raffinato, che nello spazio di pochi versi rivelasse nello stesso tempo la sensibilità poetica, la profonda erudizione e, specialmente nella pointe finale, il non comune senso dello humour del suo autore (Giangrande 1972, p. 125). 7.1. Scuola peloponnesiaca e scuola ionico-alessandrina
Nell'ambito della vasta produzione epigrammatica, a partire dal Reitzenstein si è soliti distinguere, forse con una ripartizione eccessivamente schematica, due ‘scuole’, quella peloponnesiaca e quella ionico-alessandrina (Reitzenstein 1893). La prima, almeno nelle sue linee generali, è caratterizzata dall’attenzione tutta particolare riservata sia al mondo della natura — sempre cantato in chiave idillico-bucolica — e ai sentimenti che essa ispira, sia alle classi sociali più umili: gli artigiani, i contadini, i marinai, i pescatori; la seconda, invece, si distingue per il suo carattere
erotico-simposiale, cioè per l’esaltazione del vino e dell’amore come gli unici elementi in grado di assicurare un’esistenza fondata sulla gioia e il piacere di vivere, valori che nella nuova concezione esistenziale, indivi-
dualistica e disimpegnata, professata dall'uomo alessandrino hanno sostituito gli ideali tradizionali dell'impegno etico-politico. Del resto la distinzione tra le due scuole è riscontrabile anche sul piano formale: gli epigrammisti della scuola peloponnesiaca, soprattutto Leonida, prediligono uno stile ampolloso e ridondante, ottenuto attraverso l’impiego di un’aggettivazione sovrabbondante e di immagini di gusto barocco; quelli della scuola ionico-alessandrina preferiscono, invece, una dizione più controllata, concisa e lineare, priva di ornamenti superflui, spesso finalizzata a dare più risalto alla salacità della pointe di clausola. Non essendo possibile in questa sede fornire un panorama completo dell’epigramma ellenistico, la cui fioritura si estende a partire dalla fine del IV secolo fino alla prima metà del I a.C., ci limiteremo a segnalare le figure più significative di ciascuna scuola: per quella peloponnesiaca Anite, Nosside e Leonida; per quella ionico-alessandrina, oltre naturalmente a Callimaco già ampiamente trattato, Asclepiade, Posidippo e Meleagro. | 7.2. Anite e Nosside
Anite, originaria di Tegea in Arcadia, visse tra la fine del IV e l’inizio del III secolo; le si attribuiscono una ventina di epigrammi. Due sono le tematiche principali: gli epitaffi, reali e fittizi, per giovani fanciulle (A.P. VII, 486 e 490) o per animali (A.P. VII, 215, un delfino e A.P. VII, 202,
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un gallo), da cui traspare una delicata e sincera tenerezza nei confronti di chi non è più, e le rapide descrizioni di paesaggi bucolici, come per esempio À.PI. 228: la roccia, la sorgente, il dolce sussurro del vento tra le fronde del luogo quasi irreale in cui il viandante è invitato a riposare e a difendersi dalla calura estiva richiamano da vicino tanti paesaggi teocritei, primo fra tutti quello delineato all’inizio dell’idillio I. Solo in parte analoghi a quelli di Anite i temi trattati da Nosside di Locri Epizefiri, vissuta anch'essa intorno al 300 a.C., di cui ci restano poco più di una decina di carmi. Infatti nell’ambito della sua produzione, accanto a quelli votivi (per esempio A.P. VI, 353; IX, 604), spiccano due epigrammi di argomento letterario (A.P. VII, 718, Saffo; VII, 414, Rintone), uno in cui la poetessa celebra la vittoria dei suoi concittadini sui Bruttii (A.P. VI, 132), nonché un componimento in cui viene entusiasticamente esaltato l’amore come maggiore felicità nella vita (A.P. V, 170). 7.3. Leonida di Taranto
Più complessa la personalità poetica di Leonida, che ancor prima della conquista della natia Taranto da parte dei Romani (272 a.C.) si trasferì in Epiro alla corte di Neottolemo (A.P. VI, 334) e di Pirro, di cui celebrò la vittoria su Macedoni e Galati al comando di Antigono Gonata nel 274 (A.P. VI, 130). In seguito alla morte del suo protettore, Leonida andò esule in varie regioni della Grecia conducendo una vita grama, fatta di stenti, descritta con crudo realismo in molti dei suoi epigrammi (per esempio A.P. VI, 300 e 302, cfr. A.P. VII, 736); morì senza rivedere la patria lontana, come egli stesso presagiva con profondo rimpianto nel suo autoepitaffio (A.P. VII, 715). Leonida, poeta povero, si fece cantore degli umili: del centinaio di suoi epigrammi conservati dalla tradizione, molti hanno per protagonisti gli appartenenti alle classi sociali più basse. Gran parte di essi, infatti, è rappresentata dalle dediche degli arnesi di lavoro da parte di lavoratori giunti al termine della loro attività; altri sono componimenti funerari, come per esempio A.P. VII, 504 e 506 (per due pescatori: Parmi, soffocato dal pesce inghiottito, e Tharsi, divorato a metà da uno squalo), che testimoniano dell’amore del poeta tarantino per il grottesco ed il macabro. Ma le tematiche di Leonida non si limitano a questi argomenti. Una parte non trascurabile della sua produzione è rappresentata da epigrammi di argomento letterario, epitaffi fittizi in onore di poeti, che talvolta rivelano da parte dell’autore un’acuta sensibilità per la critica letteraria, come nel caso di A.P. VII, 408, in cui Ipponatte viene definito «pungente vespa» e «colui che latra», con un’evidente allusione ai versi del Toageiov di Callimaco (fr. 380 Pf.) in cui la metafora della vespa e del cane rabbioso è riservata ad Archiloco. Né si deve dimenticare che Leonida fu uno degli iniziatori della tradizione dei Carmina Priapea: ben tre epigrammi sono dedicati a questo dio (A. P/. 236 e 261; A.P. X, 1); nel-
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l’ultimo di essi Priapo, nell’inusitato ruolo di divinità del porto, annuncia, con l’arrivo della primavera, la ripresa della navigazione. 7.4. Asclepiade
Ben diversa è l’atmosfera della poesia di Asclepiade, il primo esponente, con Callimaco, della scuola ionico-alessandrina. Nato a Samo negli ultimi anni del IV secolo, raccolse intorno a sé un circolo di poeti (Posidippo di Pella, Edilo di Samo ecc.) e fu riconosciuto maestro di poesia, insieme con Filita, da Simichida-Teocrito nelle Talisie (Id. VII, 40). Lo Scolio Fiorentino al prologo degli Aitia (Pfeiffer 1949, I, p. 3) lo annovera, insieme a Posidippo, fra i Telchini, gli avversari della nuova poetica callimachea; la cosa non desta meraviglia, quando si consideri che in un suo epigramma (A.P. IX, 63; cfr. Posidippo, A.P. XII, 168) Asclepiade esalta la Lide di Antimaco, che Callimaco, invece, critica aspramente in uno dei suoi carmi (fr. 398 Pf.). Della sua produzione epigrammatica restano poco più di trenta componimenti a lui sicuramente attribuibili, per lo più incentrati su tematiche erotico-simposiali, tematiche che nel passato avevano sostanziato la lirica monodica di Anacreonte e che Asclepiade trasferisce ora all’epigramma (Giangrande 1968). Dell’amore per le donne belle e per i fanciulli vengono cantati gli aspetti più vari: la delusione per un incontro non avvenuto (A.P. V, 167), l'amarezza per una passione non corrispo-
sta (A.P. V, 145), il senso di futilità di una breve esistenza spesa fra gli amori (A.P. XII, 46), ma anche la celebrazione, quasi blasfema, dell’essere perennemente innamorato (A.P. V, 64), l’invito, rivolto ad una fan-
ciulla, a godere per tempo dei piaceri dell’amore (A.P. V, 85) o quello, rivolto a se stesso, ad annegare nel vino le sofferenze d’amore (A.P. XII, 50); temi sempre trattati con una levità di toni e una semplicità del dettato che sono gli elementi peculiari dello stile e del fascino della poesia di Asclepiade. 7.5. Posidippo
Fedele imitatore della vena poetica di Asclepiade fu Posidippo di Pel-
la, al quale gli Etoli riservarono l’onore della prossenia nel 264-263 a.C.; di lui restano circa trenta epigrammi, ma per alcuni di essi sussiste un problema di attribuzione. I temi, per lo più, sono gli stessi di Asclepiade: amore e simposio, magari trattati con fine variatio rispetto al modello; se il poeta di Samo aveva pregato gli Amori di ucciderlo piuttosto che ferirlo ancora (A.P. XII, 166), Posidippo incita gli Amori a colpirlo perché egli non li teme (A.P. XII, 45), e in A.P.
XII, 120 raccoglie la
sfida di Eros, sicuro di non soccombere finché sarà sobrio; ma non manca il lamento per le continue sofferenze d’amore (A.P. V, 211), né, se l’epigramma è davvero di Posidippo, un’amara e disincantata riflessione sull’inutilità della vita (A.P. IX, 359). Accanto a questi, meritano di essere menzionati alcuni epigrammi che descrivono opere d’arte, p. es. l’Alessandro (A.P/. 119) e il Kairös (A. PI. 275), entrambe di Lisippo.
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7.6. Scuola fenicia
Poco sopra, accennando alla divisione fra scuola peloponnesiaca e scuola ionico-alessandrina, si è inserito Meleagro di Gadara (130-80/70 a.C.) in quest’ultima corrente; il che è senz'altro corretto quando si pensi al principale motivo ispiratore dei suoi epigrammi, l’amore. Tuttavia, per quanto riguarda lo stile, sarebbe più giusto considerarlo un esponente della scuola ‘fenicia’, una terza corrente nell’ambito dell’epigrammatica, che si sviluppa fra la seconda metà del II secolo e la prima metà del I a.C. e che è così denominata perché i suoi rappresentanti, a partire da Antipatro di Sidone, provengono tutti da zone orientali del mondo antico. Caratteristica fondamentale della scuola fenicia è il tentativo di trasformare l’epigramma in un genere di poesia che ricerca l’effetto, il pathos esasperato, attraverso l’impiego massiccio della tecnica retorica. Ardite metafore, giochi di parole, allusioni, anafore, interiezioni trovano largo spazio negli epigrammi di Antipatro, che in più di un caso manifestano apertamente il carattere di esercizio versificatorio: ben cinque componimenti sono dedicati ad Anacreonte (o alla sua tomba) (A.P. VII,
23, 26-27, 29-30) e alla vacca di Mirone (A.P. IX, 720-724).
7.7. Meleagro La stessa tendenza si ritrova in Meleagro, come dimostra, fra i tanti, l’epigramma scritto in occasione della morte dell’amata Eliodora (A.P. VII, 476), in cui lo stile affettato e barocco è finalizzato alla rappresentazione di una situazione particolarmente ricca di pathos. Come si è detto, i suoi 130 epigrammi hanno quasi tutti come tema l’amore, cantato nei suoi aspetti più svariati e nei suoi risvolti più reconditi: la gioia di preparare una corona di fiori per l'amata Eliodora (A.P. V, 147), ma anche la rabbia per aver scoperto che la propria donna lo tradisce (A.P. V, 175); l’esaltazione della bellezza di Muisco «sole che offusca le altre stelle» (A.P. XII, 59), ma anche la rassegnazione per le continue ferite inferte dai dardi di Eros (A.P. XII, 48). 7.8. L'Antologia Palatina e l’Antologia Planudes
Meleagro fu autore di una silloge di epigrammi di vari poeti, da lui intitolata Corona perché ogni poeta viene paragonato ad un fiore (A.P. IV, 1). Questa silloge e quelle successive di Filippo di Tessalonica (I sec. d.C.), di Agatia (VI sec. d.C.), di Costantino Cefala (IX-X sec.) hanno costituito i nuclei intorno a cui si è formata verso il 980 d.C. la cosiddetta Antologia Palatina, che prende il nome dalla Biblioteca Palatina di Heidelberg, in cui alla fine del XVI secolo era conservato il manoscritto unico testimone della raccolta. L’Antologia Palatina è formata da circa 3700 epigrammi, divisi in quindici libri: dopo le iscrizioni cristiane (libro 1), la descrizione delle statue del ginnasio Zeuxippo a Costantinopoli (ID e le iscrizioni tratte dai bassorilievi del tempio di Apollonide a Cizico (III), la parte più significativa della Palatina inizia con il IV libro, che
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contiene i proemi di Meleagro, Filippo e Agatia; seguono gli epigrammi erotici (V), dedicatori (VI), sepolcrali (VID), cristiani, di Gregorio di Nazianzo (VIII), epidittici (IX), parenetici (X), simposiali e satirici (XI), pederotici (XII), in metri vari (XIII), oracolari, enigmistici e aritmetici (XIV) ed, infine, miscellanei (XV).
Oltre all’Antologia Palatina esiste un’altra raccolta, quella compilata dal monaco Massimo Planude nel 1299, la cosiddetta Antologia Planudea, che comprende circa 2400 epigrammi divisi in sette libri; di questi componimenti, 388 sono nuovi rispetto a quelli contenuti nell’ Antologia Palatina; nelle moderne edizioni si suole aggiungerli ai quindici libri della Palatina come Appendix Planudea o come libro XVI della Palatina. Bibliografia 1. Caratteri generali R. Bichler, ‘Hellenismus’. Geschichte und Problematik eines Epochenbegriffs, Darmstadt 1983; B. Bravo, Philologie, Histoire, Philosophie de l'Histoire. Etude
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DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
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filol. class.”, 101, 1973, pp. 186-94; Id., Per la ricostruzione del Callimaco di Lilla, in “Prometheus”, 6, 1980, pp. 1-20; P. Benvenuti Falciai, Per l’interpretazione dell’inno VI di Callimaco, in “Prometheus”, 2, 1976, pp. 41-66; Ead., Note per una edizione di Call. Hy. VI, in AA.VV., Studi in onore di A. Barigazzi, 2 voll., Roma 1986, vol. I, pp. 49-62; R. Blum, Kallimachos und die Literaturver-
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330
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
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A New
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in “Antichthon”,
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vero Ap. Rh. Arg. 4.1130 sgg. e Call. Iov. 5 sgg., 32-38, 46-51, in AA.VV., Scritti in onore di S. Pugliatti, 5 voll., Milano 1978, vol. V, pp. 1035-41. Per i frammenti di Euforione, oltre a J.U. Powell, Collectanea Alexandrina,
Oxford 1925, pp. 28-58, e H. Lloyd-Jones, P. Parsons, Supplementum Hellenisticum, Berlin-New York 1983, pp. 196-233, sono disponibili due edizioni specifiche: L.A. de Cuenca, Euforion de Calcis, Madrid 1976; B.A. Van Groningen, Euphorion, Amsterdam 1977. Studi su Euforione: A. Barigazzi,
| Euphorionea,
in “Athenaeum”,
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1948, pp. 34-64; Id., Nuovi frammenti di Euforione, in “Stud. it. filol. class.”, 26, 1952, pp. 149-68; Id., I! Dionysos di Euforione, in AA.VV., Miscellanea A. Rostagni, Torino
1963, pp. 416-54; K. Latte, Der Thrax des Euphorion
(1935),
in Kleine Schriften, München 1968, pp. 562-84; P. Treves, Euforione e la storia ellenistica, Milano 1955; B.A. Van Groningen, La poésie verbale grecque, Amsterdam 1953, pp. 21-56. 3. Teocrito 3.1. EDIZIONI, COMMENTI, LESSICI, TRADUZIONI
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London 19192; C. Gallavotti, Theocritus quique feruntur Bucolici Graeci (1946), Roma 19552; A.S.F. Gow, Theocritus, voll. I-II (1950), Cambridge 1952? (=
Gow 1952); Id., Bucolici Graeci, Oxford 1952; P. Monteil, Théocrite. Idylles II, V, VII, XI, XV, Paris 1968; K.J. Dover, Theocritus. Select Poems, Bristol 1971; H. Beckby, Die griechischen Bukoliker. Theokrit-Moschos-Bion, Meisenheim
1975. Per gli scolii e il lessico di Teocrito si vedano rispettivamente C. Wendel, Scholia in Theocritum vetera, Leipzig 1914 (= Wendel 1914) e J. Rumpel, Lexicon Theocriteum, Leipzig 1879. Utile la traduzione fornita da V. Pisani, Teocrito. Idilli (nuova edizione rivista
da L. Di Gregorio), Roma 1984. 3.2. STUDI
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Frasidamo nelle Talisie di Teocrito, in “Stud. it. filol. class.”, 41, 1969, pp. 5-12; Id., Per l’interpretazione e la datazione del carme IV di Teocrito, in “Riv. filol.
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332
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
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metrica negli Idilli dorici di Teocrito, in “Ann. Sc. Norm. Pisa”, 25, 1956, pp. 48-60; P. Dimitrov, La langue de l'Idylle de Théocrite. Principes, éléments, ex-
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1951, pp. 17-24; A. Hen-
Pear: Parian Invective in Theokritos, in “Zeitschr. Pap. 7-27; A. Heubeck, Einige Überlegungen zu Theokrits Tha23, 1973, pp. 5-15; N. Himmelmann, Über Hirten-Genre Opladen 1980; E.B. Holtsmark, Poetry as Self-Enlightenin “Trans. Am. Philol. Ass.”, 97, 1966, pp. 253-9; H.
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O.
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(Idylle 25), Frankfurt 1982; G. Lanowski, La passion de Daphnis, in “Eos”, 42, 1947, pp. 175-94; F. Lasserre, Aux origines de l’Anthologie: II. Les Thalysies de Théocrite, in “Rhein. Mus.”, 102, 1959, pp. 307-30; S. Lattimore, Battus in Theocritus’ Fourth Idyll, in “Gr. Rom. Byz. Stud.”, 14, 1973, pp. 319-24; G.
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di Teocrito e il governo dei primi Tolemei, in “Rend. Ist. Lomb.”, 109, 1975, pp. 202-9; G. Lohse, Die Kunstauffassung im VII. Idyll Theokrits und das Programm des Kallimachos, in “Hermes”, 94, 1966, pp. 413-25; G. Luck, Zur
Deutung von Theokrits Thalysien, in “Mus. Helv.”, 23, 1966, pp. 186-9; B. Luiselli, Studi sulla poesia bucolica, Cagliari 1967; D.J. Mastronarde, Theocritus’ Idyll 13: Love and the Hero, in “Trans. Am. Philol. Ass.”, 99, 1968, pp. 273-90; K.J. McKay, Theokritos’ Bacchantes Re-examined, in “Antichthon”, 1, 1967, pp.
16-28; C. Meillier, Quelques nouvelles perspectives dans l'étude de Théocrite, in
“Rev. Etud. Gr.”, 94, 1981, pp. 315-37; W. Meincke, Untersuchungen zu den enkomiastischen Gedichten Theokrits, Diss. Kiel 1966; R. Merkelbach, Bettelgedichte (Theokrit, Simonides und Walther von der Vogelweide), in “Rhein. Mus.”, 95, 1952, pp. 312-27 (= Merkelbach 1952); Id., BOYKOAIAZTAI (Der Wettge-
sang der Hirten), in “Rhein. Mus.”, 99, 1956, pp. 97-133 (=Merkelbach 1956); C. Moulton,
Theocritus and the Dioscuri, in “Gr. Rom. Byz. Stud.”,
14, 1973,
pp. 41-7; S. Nicosia, Teocrito e l’arte figurata, Palermo 1968; R.M. Ogilvie, The Song of Thyrsis, in “Journ. Hell. Stud.”, 82, 1962, pp. 106-10; U. Ott, Die Kunst
des
Theokrits
Gegensatzes ‘Thalysien’
und
in
Theokrits
Hirtengedichten,
ihre literarischen
Vorbilder,
Hildesheim in “Rhein.
1969; Mus.”,
Id., 115,
1972, 134-49; B.M. Palumbo Stracca, L’ironia di Teocrito nella polemica letteraria delle Talisie, in “Boll. Class. Accad. Lincei”, n.s. 27, 1979, pp. 69-78; A. Parry, Landscape in Greek Poetry, in “Yale Class. Stud.”, 15, 1957, PP. 1-29; M. Pendergraft, Aratean Echoes in Theocritus, in “Quad. urb. cult. class.”, n.s., 24,
53, 1986, pp. 47-54; G. Perrotta, Poesia ellenistica. Scritti minori, vol. Il, Roma 1978; R. Petroll, Die Ausserungen
Theokrits über seine Person und seine Dich-
334
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
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(Idillio XXIII), in “Giorn. it. filol.”, 23, 1971, pp. 325-46; T.E. Rinkevich, Theokritos’ Fifth Idyll: The Education of Lakon, in “Arethusa”, 10, 1977, pp. 295-305; “Maia”,
A.T. Rist, The Incantatory Sequence in Theocritus' Pharmaceutria, in 27,
1975,
pp.
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Rohde,
Zur Geschichte der Bukolik,
in Id.,
Studien und Interpretationen zur antiken Literatur, Religion und Geschichte, hrsg. von 1. Rohde und B. Kytzler, Berlin 1963, pp. 71-90; T.G. Rosenmeyer, The Green Cabinet. Theocritus and the European Pastoral Lyric, Berkeley 1969; L.E. Rossi, Vittoria e sconfitta nell’agone bucolico letterario, in “Giorn. it. filol.”,
23, 1971, pp. 13-24; Id., Mondo pastorale e poesia bucolica di maniera: l’idillio ottavo del corpus teocriteo, in “Stud. it. filol. class.”, 43, 1971, pp. 5-25 (= Rossi 1971 b); Id., L'Ila di Teocrito: epistola poetica ed epillio, in AA.VV., Studi classici in onore di Q. Cataudella, 2 voll., Catania 1972, vol. II, pp. 279-93; D.M. Schenkeveld, De zevende Idylle van Theocritus, in “Lampas” 4, 1971, pp. 169-88;
G.
Schlatter,
Theokrit
und
Kallimachos,
Diss.
Zürich
1941;
E.A.
Schmidt, Die Leiden des verliebten Daphnis, in “Hermes”, 96, 1968, pp. 53952; Id., Hirtenhierarchie in der antiken Bukolik?, in “Philologus”, 113, 1969, pp. 183-200; Id., Der göttliche Ziegenhirt. Analyse des fünften Idylis als Beitrag zu Theokrits bukolischer Technik, in “Hermes”, 102, 1974, pp. 207-43; Id., Ar-
kadien: Abendland und Antike, in “Antike und Abendland”, 21, 1975, pp. 3657; E.-R. Schwinge, Theokrits ‘Dichterweihe’ (Id. 7), in “Philologus”, 118, 1974,
pp. 40-58; L. Séchan, Les Magiciennes et l'amour chez Théocrite, in “Ann. Fac. Lettr. Aix”, Sér. class., 39, 1965, pp. 67-100; G.A. Seeck, Dichterische Technik in Theokrits ‘Thalysien’ und die Theorie der Hirtendichtung, in AA.VV., Dorema
(H. Diller zum 70. Geburtstag), Athen 1975, pp. 195-209; C. Segal, Poetry and Myth in Ancient Pastoral. Essays on Theocritus and Virgil, Princeton 1981; G. Serrao, Il carme XXV
del corpus teocriteo, Roma
alessandrina I. Studi su Teocrito, Roma
1962; Id., Problemi di poesia
1971; Id., L’idillio V di Teocrito: realtà
campestre e stilizzazione letteraria, in “Quad. urb. cult. class.”, 19, 1975, pp. 73-109 (= Serrao 1975); Id., La poesia bucolica cit. e La poetica del “nuovo stile” cit. (= Serrao 1977); B. Snell, L’Arcadia: scoperta di un paesaggio spirituale, in Id., La cultura greca e le origini del pensiero europeo (1946), trad. it. Torino 1963, pp. 387-418; J. Stern, Theocritus’ Idyll 24, in “Am. Journ. Philol.”, 95,
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Id., Theocritus’ Idyll 14, in “Gr. Rom.
Byz. Stud.”,
16,
1975, pp. 51-8; Id., Theocritus’ Epithalamium for Helen, in “Rev. Belg. Philol.”, 56, 1978, pp. 29-37; K. Strunk, Dorisches und Hyperdorisches, in “Glotta”, 42, 1964, pp. 165-9; M. Treu, Selbstzeugnisse alexandrinischer Dichter, in AA.VV.,
Miscellanea A. Rostagni, Torino 1963, pp. 273-90; M.H.A.L.H. Van der Valk, Theocritus XXVI, in “Antiquité class.”, 34, 1965, pp. 84-96; B.A. Van Gronin-
gen, Quelques problèmes de la poésie bucolique grecque, in “Mnemos.”, 1958,
pp. 293-317;
12,
1959, pp. 24-53;
Id., Les Bacchantes
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de Théocrite, in
AA.VV., Miscellanea A. Rostagni, Torino 1963, pp. 338-49; J. Van Sickle, Poeti-
ca teocritea, in “Quad. urb. cult. class.”, 9, 1970, pp. 67-83; Id., Epic and Bucolic, in “Quad. urb. cult. class.”, 19, 1975, pp. 45-72; Id., Theocritus and the Development of the Conception of Bucolic Genre, in “Ramus”, 5, 1976, pp. 1844; O. Vox, Il contrasto di Batto e Coridone nell’idillio IV di Teocrito, in “Mate-
La poesia ellenistica
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15,
1985, pp.
173-8;
335
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1979; Ead.,
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Stylistic Commentary on Theocritus, Idyll XXIV, Amsterdam 1979; Ead., Essays in Hellenistic Poetry,
Amsterdam
1980;
Ead.,
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1906
(=
Wilamowitz
1906);
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griechischen Technopaegnia (1899), in Kleine Schriften, 5, 1, Berlin 1937, pp. 502-13; F. Williams,
A Theophany in Theocritus, in “Class. Quart.”, 21, 1971,
pp. 137-45; Id., Scenes of Encounter in Homer and Theocritus, in “Mus. Philol. Londin.”, 3, 1978, pp. 219-25; G. Wojaczek, Daphnis. Untersuchungen zur griechischen Bukolik, Meisenheim 1969. Per Mosco, oltre alle già citate edizioni che contengono tutto il corpus dei bucolici greci, si devono tenere presenti: W. Biihler, Die Europa des Moschos, Wiesbaden 1960; J.W. Vaughn, The Megara (Moschus IV), Bern-Stuttgart 1976. Per Bione si rimanda all’edizione con commento di M. Fantuzzi, Bionis Smyrnaei Adonidis Epitaphium, Liverpool 1985, e al saggio dello stesso M. Fantuzzi, Bionis Adonis Epitaphium: Contesto culturale e tipologia testuale, in “Philologus”, 125, 1981, pp. 95-108.
Studi su Mosco e Bione: A. Barigazzi, Sull’epitafio di Bione, in “Maia”, 19, 1967, pp. 363-9; T. Breitenstein, Recherches sur le poème Mégara, Copenhague 1966; J.G. Fucilla, Materials for the History of a Popular Classical Theme, in “Class. Philol.”, 26, 1931, pp. 135-52; C. Gallavotti, Bione di Smirne e il suo Epitafio, in “Boll. Class. Accad. Lincei”, 16, 1968, pp. 65-75; G. Giangrande, On Moschus’ Megara, in “Class. Quart.”, 19, 1969, pp. 181-4; J. Irigoin, L’Eu-
ropé de Moschos,
in “Rev.
Etud.
Gr.”,
76,
1963, pp. 421-7;
R. Schmiel,
schus’ Europa, in “Class. Philol.”, 76, 1981, pp. 261-72. Per i Mimiambi di Eroda: W. Headlam, A.D. Knox, Herodas. and
Fragments,
Cambridge
1922;
G.
Puccioni,
Herodae
Mo-
The Mimes
Mimiambi,
Firenze
1950; J.C. Cunningham, Herodas. Mimiambi, Oxford 1971; traduzione italiana di E. Romagnoli, Eronda e Mimici minori, Bologna 1938. Studi su Eroda: D. Bo, La lingua di Eroda, Torino 1962; G. Giangrande,
Interpretation of Herodas, in “Quad. urb. cult. class.”, 15, 1973, pp. 82-98; G. Mastromarco, Il pubblico di Eronda, Padova 1979; V. Schmidt, Sprachliche Untersuchungen zu Herondas, Berlin 1968. 4. Apollonio Rodio e la poesia epica. La poesia didascalica 4.1. EDIZIONI, COMMENTI,
LESSICI, TRADUZIONI
G.W. Mooney, The Argonautica of Apollonius Rhodius, Dublin 1912; H. Fränkel, Apollonii Rhodii Argonautica, Oxford 1961; F. Vian, Apollonios de Rhodes (con traduzione francese di E. Delage), 3 voll., Paris 1974-1981. Per i singoli libri: A. Ardizzoni, Apollonio Rodio. Le Argonautiche. Libro I, Roma 1967; M.M. Gillies, The Argonautica of Apollonius Rhodius. Book III, Cambridge 1928; A. Ardizzoni, Apollonio Rodio. Le Argonautiche. Libro III, Bari 1958; F. Vian, Apollonios de Rhodes. Argonautiques.
Chant III, Paris 1961;
E. Livrea, Apollonii Rhodii Argonauticon Liber Quartus, Firenze 1973. Per gli scolii e il lessico di Apollonio Rodio si vedano rispettivamente: C. Wendel, Scholia in Apollonium Rhodium vetera, Berlin 1935, e M. Campbell, Index verborum in Apollonium Rhodium, Hildesheim-Zürich-New York 1983.
Utilissima la traduzione di G. Paduano in G. Paduano, M. Fusillo, Apollonio
336
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Rodio. Le Argonautiche, introduzione, traduzione e commento, Milano 1986 (= Paduano 1986). Per una bibliografia ragionata relativa agli anni 1921-1955 si rimanda a H. Herter, in “Bursians Jahresber.”, 285, 1944-1955, pp. 213-410. 4.2. STUDI
J. Adamietz, Jason und Hercules in den Epen des Apollonios Rhodios und
Valerius Flaccus, in “Antike und Abendland”, 16, 1970, pp. 29-38; A. Ardizzoni, Apollonio Rodio, Catania 1930; Id., L’Eracle ‘semnôs’ nel poema di Apollonio,
Catania
1937;
A.
Barigazzi,
Eracle e Tiodamante
in Callimaco
e Apol-
lonio Rodio, in “Prometheus”, 2, 1976, pp. 227-38; J.H. Barkhuizen, The Psychological Characterization of Medea in Apollonius of Rhodes, Argonautica 3, 744-824, in “Acta Classica”, 22, 1979, pp. 33-48; C.R. Beye, Jason as LoveHero in Apollonios’ Argonautika, in “Gr. Rom. Byz. Stud.”, 10, 1969, pp. 3155;
Id.,
Épic
and
Romance
in
the
Argonautica
of Apollonius,
Carbondale-
Edwardsville 1982; K.W. Blumberg, Untersuchungen zur epischen Technik des Apollonios von Rhodos, Diss. Leipzig 1931; Bundy, The “Quarrel between Kal-
limachos and Apollonios” cit.; M. Campbell, Echoes and Imitations of Early Epic in Apollonius Rhodius, Leiden 1981; Id., Studies in the Third Book of Apollonius Rhodius’ Argonautica, Hildesheim-Ziirich-New York 1983; J.F. Carspecken, Apollonius
Rhodius and the Homeric Epic, in “Yale Class. Stud.”,
13,
1952, pp. 33-143; M.G. Ciani, Ripetizione “formulare” in Apollonio Rodio, in “Boll. Ist. Filol. Gr. Padova”, 2, 1975, pp. 191-208; A. Colonna, Poesia alessandrina
epica,
in AA.VV.,
Introduzione
allo studio
della cultura
classica,
vol.
I,
Milano 1972, pp. 107-21; C. Corbato, Riprese callimachee in Apollonio Rodio, Trieste 1955; E. Delage, La géographie dans les Argonautiques d’Apollonios de Rhodes, Paris-Bordeaux 1930; G.E. Duckworth, Foreshadowing and Suspense in the Epics of Homer, Apollonios and Vergil, Princeton 1933; E. Eichgrün, Kal-
limachos und Apollonios Rhodios, Berlin 1961; H. Erbse, Homerscholien und hellenistische Glossare bei Apollonios Rhodios, in “Hermes”, 81, 1953, pp. 16396; Id., Versumstellungen in den Argonautika des Apollonios Rhodios, in
“Rhein. Mus.”, 106, 1963, pp. 229-51; H. Färber, Zur dichterischen Kunst in Apollonios Rhodios’ Argonautica, Berlin 1932; M. Fantuzzi, Varianti d’autore nelle Argonautiche
di Apollonio
Rodio,
in “Antike und Abendland”,
29,
1983,
pp. 146-61 (= Fantuzzi 1983); Id., Ricerche su Apollonio Rodio. Diacronie della dizione epica, Roma
1988 (= Fantuzzi
1988); H. Fränkel, Apollonius Rho-
dius as a Narrator in Argonautica 2, 1-140, in “Trans. Am. Philol. Ass.”, 83, 1952, pp. 144-55; Id., Das Argonautenepos des Apollonios, in “Mus. Helv.”, 14,
1957, pp. 1-19; Id., Einleitung zur kritischen Ausgabe der Argonautika des Apollonios, Göttingen 1964; Id., Noten zu den Argonautika des Apollonios, München 1968; M. Fusillo, 1! tempo delle Argonautiche, Roma 1985; D.M. Gaunt, Argo and the Gods in Apollonius Rhodius, in “Greece and Rome”, 19, 1972, pp. 117-26; E.V. George, Poet and Characters in Apollonius Rhodius' Lemnian Episode, in “Hermes”, 100, 1972, pp. 47-63; G. Giangrande, Zu Sprachgebrauch,
Technik und Text des Apollonios Rhodios, Amsterdam 1973; Id., The Utilization of Homeric Variants by Apollonius Rhodius: a Methodological Canon of Research, in “Quad. urb. cult. class.”, 15, 1973, pp. 73-81; M. Hadas, Apollonius
Called the Rhodian, in “Class. Weekly”, 26, 1932, pp. 41-6 e 49-54; P. Hindel, Beobachtungen
zur epischen
Technik des Apollonios Rhodios, Minchen
1954;
Id., Die Gôtter des Apollonios als Personen, in AA.VV., Miscellanea A. Rostagni, Torino 1963, pp. 363-81; H. Herter, Beiträge zu Apollonios von Rhodos,
in “Rhein. Mus.”, 91, 1942, pp. 226-49; Id., R.E. Suppl.-Bd. XIII, 1973, coll.
La poesia ellenistica
337
15-56, s.v. Apollonios, der Epiker; U. Höfer, Pontosvölker, Ephoros und Apollonios von Rhodos, in “Rhein. Mus.”, 59, 1904, pp. 542-64; A. Hurst, Le retour nocturne des Argonautes, in “Mus. Helv.”, 21, 1964, pp. 232-7; Id., Apollonios de Rhodes, manière et cohérence, Roma 1967; L. Klein, Die Gôttertechnik in
den Argonautika des Apollonios Rhodios, in “Philologus”, 86, 1931, pp. 18-51 e 215-57;
Klein,
Callimachus,
Apollonius
Rhodius
and the Concept
of the “Big
Book”, cit.; Id., Apollonius’ Jason cit.; Köhnken, Apollonios Rhodios und Theokrit, cit.; G. Lawall, Apollonius’ Argonautica: Jason as Anti-Hero, in “Yale Class. Stud.”, chus
19, 1966, pp.
and Apollonius,
119-69;
cit.; D.N.
Lefkowitz,
Levin,
The Quarrel between Callima-
AIIIAAE
IIOP®YPEH,
in “Riv.
filol.
class.”, 98, 1970, pp. 17-36; Id., Apollonius’ Argonautica Re-Examined I. The Neglected First and Second Books, Lugduni Batavorum 1971; E. Livrea, L’épos philologique: Apollonios de Rhodes et quelques homérismes méconnus, in “An-
tiquité class.”, 49, 1980, pp. 146-60; G.R. McLennan, The Employment of the Infinitive in Apollonius Rhodius, in “Quad. urb. cult. class.”, 15, 1973, pp. 4472; F. Mehmel, Virgil und Apollonius Rhodius, Hamburg 1940; G. Paduano, Studi su Apollonio Rodio, Roma 1972 (= Paduano lonius of Rhodes and the Old Geographers, in “Am.
1972); L. Pearson, ApolJourn. Philol.”, 59, 1938,
pp. 443-59; E. Phinney jr., Narrative Unity in the Argonautica, the Medea-Jason Romance, in “Trans. Am. Philol. Ass.”, 98, 1967, pp. 327-41; J. Preininger, Der
Aufbau der Argonautika des Apollonios Rhodios, Wien 1976; A. Rose, Clothing Imagery in Apollonius’s Argonautika, in “Quad. urb. cult. class.”, n.s. 21, 50, 1985, pp. 29-44; L.E. Rossi, La fine alessandrina dell’Odissea e lo Eos ôunoixög di Apollonio Rodio, in “Riv. filol. class.”, 96, 1968, pp.
151-63;
Serrao, La
poetica del “nuovo stile” cit. (= Serrao 1977); H.A. Shapiro, Jason’s Cloak, in “Trans. Am. Philol. Ass.”,
110,
1980, pp. 263-86;
F. Stoessl, Apollonios Rho-
dios, Bern-Leipzig 1941; P. Thierstein, Bau der Szenen in den Argonautika des Apollonios Rhodios, Bern-Frankfurt
AA.VV.,
1971; F. Vian, IHZQN AMHXANESN,
Studi in onore di A. Ardizzoni, Roma
1978, vol. II, pp.
1023-41;
in
F.
Wehrli, Apollonios von Rhodos und Kallimachos, in “Hermes”, 76, 1941, pp. 14-21; R. Wyss, Die Komposition von Apollonios’ Argonautika, Diss. Zürich 1931; G. Zanker, The Love Theme in Apollonius Rhodius’ Argonautica, in “Wien. Stud.”, 13, 1979, pp. 52-75; K. Ziegler, Das hellenistische Epos: ein ver-
gessenes Kapitel griechischer Dichtung, Leipzig 1966”. Per Riano si vedano l’edizione dei frammenti in J.U. Powell, Collectanea Ale-
xandrina, Oxford 1925, pp. 9-21, e la dissertazione di W.R. Misgeld, Rhianos von Bene und das historische Epos im Hellenismus, Diss. Köln 1968. Per Arato si vedano le seguenti edizioni: E. Maass, Arati Phaenomena, Berlin 1893; J. Martin, Arati Phaenomena,
Firenze
1956.
Per gli scolii, J. Martin, Scholia in Aratum Vetera, Stuttgart 1974. Studi su Arato: M. Erren, Die Phainomena des Aratos von Soloi. Untersuchungen zum Sach- und Sinnverständnis, Wiesbaden 1967; M. Fantuzzi, Ex
Atòs doydueoda. Arat. Phaen. 1 e Theocr. XVII 1, in “Materiali e discussioni”, 5, 1980,
pp.
163-72;
W.
Ludwig,
Die
Phainomena
Arats als hellenistische
Di-
chtung, in “Hermes”, 91, 1963, pp. 425-48; J. Martin, Histoire du texte des Phénomènes d’Aratos, Paris 1956; Pendergraft, Aratean Echoes in Theocritus, cit.; A. Ronconi, Arato interprete di Omero (1937), in Id., Filologia e linguistica,
Roma 1968, pp. 45-107.
Per Nicandro si rimanda all’edizione con commento di A.S.F. Gow, A.F. Scholfield, Nicander. The Poems and Poetical Fragments, Cambridge 1953, e, per gli scolii agli Alexipharmaca, a M. Geymonat, Scholia in Nicandri Alexipharmaca, Milano 1974. Studi su Nicandro:
W. Kroll, R.E., Bd. XVII
1, 1936, coll. 250-265, s.v. Ni-
338
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
kand*os (11); G. Pasquali, / due Nicandri, in “Stud. it. filol. class.”, 20, 1913,
pp.
55-111;
H.
Schneider,
Vergleichende
Untersuchungen
zur
sprachlichen
Struktur der beiden erhaltenen Lehrgedichte des Nikander von Kolophon, Wiesbaden 1962; H. White, Studies in the Poetry of Nicander, Amsterdam 1987. Per i due Oppiano si veda l’edizione di A.W. Mair, Oppian, Colluthus, Try-
phiodorus, London
1928, e l'index di A.W. James, Index in Halieutica Oppiani
Cilicis et in Cynegetica Poetae Apameensis, Hildesheim-New York 1970. Relativo al solo Oppiano di Anazarbo è il volume di A.W. James, Studies in the Language of Oppian of Cilicia. An Analysis of the New Formations in the Halieutica, Amsterdam 1970, mentre per Oppiano di Apamea sono disponibili
l'edizione di P. Boudreaux, OITITIANOY KYNHTETIKA. Oppien d’Apamee, La Chasse, Paris 1908, e, per il solo primo libro, il commento di W. Schmitt, Kommentar zum ersten Buch von Pseudo-Oppians Kynegetika, Diss. Miinster 1969. 5. Poesia del dissenso e poesia di contenuto filosofico I frammenti di Sotade sono raccolti in J.U. Powell, Collectanea Alexandrina, Oxford 1925, pp. 238-45. Studi su Sotade: W. Aly, R.E., Bd., III At, 1927, coll. 1207-1209, s.v. Sotades (2); M. Bettini, A proposito dei versi sotadei, greci e romani: con alcuni capitoli di ‘analisi metrica lineare’, in “Materiali e discussioni”, 9, 1982, pp. 59105;
L. Escher, De Sotadis Maronitae reliquiis, Diss. Giessen
1913;
M. Launey,
Etudes d'Histoire Hellénistique, in “Rev. étud. anc.”, 47, 1945, pp. 33-45; Pretagostini, Ricerche sulla poesia alessandrina, cit., (= Pretagostini 1984). Per i frammenti di Cercida si veda Powell, Collectanea Alexandrina, cit., pp. 201-19.
Studi su Cercida: H. v. Arnim, Zu den Gedichten des Kerkidas, in “Wien. Stud.”, 34, vants”,
1912, pp.
1-27; M. Croiset, Kerkidas de Mégalopolis,
“Journ. Sa-
1911, pp. 480-93; G.A. Gerhard, R.E., Bd. XI, 1921, coll. 293-308, s.v.
Kerkidas (2) (= Gerhard 1921); E. Livrea, Studi Cercidei (P. Oxy. 1082), Bonn 1986; A. Pennacini, Cercida e il secondo Cinismo, in “Atti Accad. Sc. Torino”, 90, 1955-1956, pp. 257-83; U. v. Wilamowitz, Kerkidas (1918), in Kleine
Schriften II, Berlin 1941, pp. 128-59. 6. L’elegia
Per Antimaco, oltre alla fondamentale edizione di B. Wyss, Antimachi Colo-
phonii reliquiae, Berlin 1936, limitatamente alla Lyde sono ora disponibili le due edizioni
di M.L.
Oxford
1972, pp. 37-43, e di B. Gentili, C. Prato, Poetarum Elegiacorum Te-
West,
/ambi et Elegi Graeci ante Alexandrum
cantati, vol.
II,
stimonia et Fragmenta, vol. II, Leipzig 1985, pp. 117-24. Studi su Antimaco:
D. Del Corno, Ricerche intorno alla Lyde di Antimaco,
in “Acme”, 15, 1962, pp. 57-95; Serrao, La struttura della Lide di Antimaco e la critica callimachea, cit. (= Serrao
1979).
I frammenti dei poeti elegiaci ellenistici sono raccolti in Powell, Collectanea Alexandrina, cit., pp. 90-6 (Filita), pp. 96-106 (Ermesianatte), pp. 106-9 (Fanocle). Per Filita si veda anche H. Lloyd-Jones, P. Parsons, Supplementum Hellenisticum, Berlin-New York 1983, pp. 318-20, nonché W. Kuchenmiiller, Philetae Coi reliquiae, Diss. Berlin
1928, unica edizione che contenga i frammenti prosa-
stici. Per Ermesianatte esiste anche l’edizione di C. Giarratano, Hermesianactis fragmenta, Milano
1905.
Studi sull’elegia greca in generale: O. Crusius, R.E., Bd. V, 1905, coll. 22602289, s.v. Elegie; E. Degani, L’elegia, in Storia e Civiltà dei Greci, vol. V, tomo
La poesia ellenistica
339
9, Milano 1977, pp. 300-14; G. Pfohl (hrsg.), Die griechische Elegie, Darmstadt 1972. Su Filita: L. Alfonsi, La poesia amorosa di Filita, in “Aegyptus”, 23, 1943, pp. 160-8; W. Crönert, Philitas von Kos, in “Hermes”, 37, 1902, pp. 212-27; J.
Latacz, Das Plappermäulchen aus dem Katalog, in C. Schäublin (hrsg.), Catalepton. Festschrift B. Wyss, Basel 1985, pp. 77-95; G. Morelli, Filita di Cos, in “Maia”, 2, 1949, pp. 1-13. Su Ermesianatte: sen
1907;
O. Ellenberger,
Quaestiones Hermesianacteae,
Serrao, La struttura della Lide di Antimaco
Diss. Gies-
e la critica callimachea,
cit. (= Serrao 1979).
Su Fanocle: L. Alfonsi, Phanoclea, in “Hermes”, 81, 1953, pp. 379-83; Av. Blumenthal, R.E., Bd. XIX 2, 1938, coll. 1781-1783, s.v. Phanokles; G. Morelli,
Fanocle, in “Maia”, 3, 1950, pp. 1-8; J. Stern, Phanocles’ Fragment 1, in “Quad. urb. cult. class.”, n.s., 3, 32, 1979, pp. 135-43. 7. L’epigramma
Edizioni dell’Antologia Palatina e Planudea: F. Diibner, Epigrammatum Anthologia Palatina, 2 voll., Paris 1864-1872; P. Waltz, G. Soury, R. Aubreton, F. Buffière, Anthologie Grecque, 13 voll., Paris 1928 ss. (non sono ancora editi i libri X e XII dell’Ant. Palatina); H. Beckby, Anthologia Graeca, 4 voll., Miin-
chen 1957-58; D.L. Page, Epigrammata Graeca, Oxford 1975 (edizione parziae).
Di epigrammi epigrafici e di tradizione letteraria non traditi nell’Antologia
Palatina
e Planudea:
G.
Kaibel,
Epigrammata
Graeca
ex
lapidibus
conlecta,
Berlin 1878; E. Cougny, Epigrammatum Anthologia Palatina, vol. III (Appendix della edizione della Anthologia curata da F. Diibner), Paris 1890; W. Peek, Grie-
chische Vers-Inschriften I. Grab-Epigramme, Berlin 1955.. Di epigrammi ellenistici tramandati dall’Antologia Palatina e Planudea: Gow, Page, The Greek Anthology cit.; Idd., The Greek Anthology. The Garland of Philip and Some Contemporary Epigrams, 2 voll., Cambridge 1968. Di epigrammi precedenti al 50 d.C. traditi sia dalla Antologia Palatina e Planudea sia da altre fonti e non inclusi nelle due edizioni di Gow-Page: D.L. Page, Further Greek Epigrams, Cambridge 1981. Di singoli autori: D. Geoghegan, Anyte. The Epigrams, Roma 1979; D.L. Page, The Epigrams of Rufinus, Cambridge 1978; G. Viansino, Paolo Silenziario. Epigrammi, Torino 1963. Recentemente è apparso il primo volume delle concordanze dell’Antologia Palatina e Planudea: Anthologia Graeca. A concordance to the Greek Anthology (Anthologia Palatina and Planudea), vol. I, Alfa-Gamma, Amsterdam 1985. Molto bella la traduzione degli epigrammi dell’Antologia di F.M. Pontani, Antologia Palatina, 4 voll., Torino 1978-1981. Studi sull’epigramma: U. Albini, Asclepiade di Samo, in “Parola del Passato”, 16, 1961, pp. 410-25; E. Bignone, L’epigramma greco, Bologna 1921; F.]. Brecht,
Motiv-
und
Typengeschichte
des griechischen
Spottepigramms,
Leipzig
1930; W. Burnikel, Untersuchungen zur Struktur des Witzepigramms bei Lukillios und Martial, Wiesbaden 1980; E. Degani, L’epigramma, in Storia e Civiltà
dei Greci, vol. V, tomo 9, Milano 1977, pp. 266-99 (= Degani 1977); Id., Nosside, in “Giorn. filol. ferrarese”, 4, 1981, pp. 43-52; M.R. Falivene, Il codice di
öfun nella poesia alessandrina (alcuni epigrammi della Antologia Palatina, Callimaco, Teocrito, Filodemo, il Fragmentum Grenfellianum), in “Quad. urb. cult.
class.”, n.s., 8, 37, 1981, pp. 87-104; E. Flores (ed.), Dall’epigramma ellenistico all’elegia romana, Atti del Convegno della Sısac, Napoli 27 novembre 1981, Na-
340
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
poli 1984; M. Gabathuler, Hellenistische Epigramme auf Dichter, Diss. Basel 1937; D.H. Garrison, Mild Frenzy: A Reading of the Hellenistic Love Epigram, Wiesbaden 1978; J. Geffcken, Studien zum griechischen Epigramm, in “Neue Jahrb. klass. Altert.”, 20, 1917, pp. 88-111; B. Gentili, Epigramma ed elegia, in L'épigramme grecque, Entr. Hardt XIV, Vandoeuvres-Genève 1968, pp. 37-90; Giangrande, Sympotic Literature and Epigram, in L'épigramme grecque, cit., pp. 91-177 (= Giangrande 1968); Id., Epigramma ellenistico, in AA.VV., Introduzione allo studio della cultura classica, vol. I, Milano 1972, pp. 123-37 (= Giangrande 1972); Id., Gli epigrammi alessandrini come arte allusiva, in “Quad. urb. cult. class.”, 15, 1973, pp. 7-31; M. Gigante, L’edera di Leonida, Napoli 1971; A.S.F. Gow, The Greek Anthology: Sources and Ascriptions, London 1958; H.
Hommel, Der Ursprung des Epigramms, in “Rhein. Mus.”, 88, 1939, pp. 193206; P. Kägi, Nachwirkungen der älteren griechischen Elegie in den Epigrammen der Anthologie, Diss. Zürich
1917; F. Lasserre, Aux origines de l’Anthologie, in
“Rhein. Mus.”, 102, 1959, pp. 222-47; G. Luck, Die Dichterinnen der griechischen Anthologie, in “Mus. Helv.”, 11, 1954, pp. 170-87; Id., Witz und Sentiment im griechischen Epigramm, in L’épigramme grecque, cit., pp. 387-411; W. Ludwig, Die Kunst der Variation im hellenistischen Liebesepigramm, in L'épigramme grecque, cit., pp. 297-348; S. Mariotti, Il V libro dell’Antologia Palatina, Roma 1966; A. Mattsson, Untersuchungen zur Epigrammsammlung des Agathias, Lund
1942; A. Meschini, La storia del testo, in F.M. Pontani, Antolo-
gia Palatina, vol. I, Torino
1978, pp. XXXI-XLIX;
H. Ouvré, Méléagre de Ga-
dara, Paris 1894; G. Pfohl (ed.), Das Epigramm. Zur Geschichte einer inschriftlichen und literarischen Gattung, Darmstadt 1969; A.E. Raubitschek, Das Denkmal-Epigramm, in L'épigramme grecque, cit., pp. 1-36; R. Reitzenstein, Epigramm
und Skolion, Giessen
1893;
L. Robert, Les épigrammes satiriques de
Lucillius sur les athlètes: parodie et réalités, in L’&pigramme grecque, cit., pp. 179-295;
P. Waltz, De Antipatro Sidonio, Bordeaux
1906; L. Weber, Steinepi-
gramm und Buchepigramm, in “Hermes”, 52, 1917, pp. 536-57; A. Wifstrand, Studien
zur griechischen
Anthologie,
Lund
Dichtung in der Zeit des Kallimachos, cit.
1926;
Wilamowitz,
Hellenistische
Alessandro
Barchiesi
Il romanzo
1. “Naufragio sul Nilo”: le vie della conservazione Un emblema mosaico di età romana (ora conservato in un museo del Galles) rappresenta una barca che sta affondando sul Nilo. I dettagli paesaggistici sono quelli consueti nell’esotismo del genere nilotico (ippopotami, canneti, sabbie), ma c’è qualcosa nei personaggi che supera i cànoni di una generica tipizzazione. Coinvolti nell’imminente naufragio scorgiamo un vecchio dall’apparenza saggia e meditativa, una coppia di giovani (due innamorati?) e un individuo spiritato e buffonesco (un servo?). Tutto il cast raffigurato entrerebbe benissimo in un romanzo greco d’amore — per esempio le Etiopiche di Eliodoro, che mettono in cammino i due giovani amanti, il vecchio saggio accompagnatore, e lo stralunato servo; ma, così com'è, la scena non è attestata nei romanzi che ci restano. In conclusione, il mosaico dev'essere ispirato a una scena da un testo perduto.
Quanti sono i romanzi che abbiamo perduto? E per quali vie se ne sono conservati solo alcuni? Il “naufragio sul Nilo” potrebbe essere un appropriato simbolo per il destino del romanzo antico: se non fosse che, dalla fine dell'Ottocento in poi, l’Egitto ha cominciato a risarcire la nostra curiosità con frequenti scoperte di papiri narrativi. Ancora sul Nilo, il papirologo Ulrich Wilcken trascrisse, mentre navigava verso Alessandria nel 1898, il testo di uno dei primi frammenti di romanzo ‘perduto’. Si farà bene, per quanto segue, a considerare attentamente le diverse modalità nella conservazione dei romanzi. Si hanno, anzitutto, una serie di opere integralmente tramandate per via di tradizione manoscritta: potremmo chiamarli romanzi ‘bizantini’ — perché la loro trasmissione è avvenuta attraverso la cultura libraria bizantina — se non fosse che l’espressione è equivoca, perché esistono anche romanzi più propriamente
bizantini, composti cioè in quel periodo (e, tra l’altro, influenzati dal romanzo greco di età ellenistico-romana). Per intendersi, li si può definire “romanzi d’amore” (l’amore è il loro tema unificante); o anche “romanzi idealizzati”, sottintendendo un'opposizione con altri tipi di narrativa. Alcuni di essi possono anche figurare col nome di “romanzi sofistici”: la loro elaborazione formale denuncia infatti l’influsso del movimento culturale noto come seconda sofistica (II sec. d.C.). I romanzi in questione
sono:
1) Cherea e Calliroe di Caritone. Se ne conoscono anche fram-
342
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
menti papiracei, che hanno contribuito a fissarne la data di composizione: il I secolo d.C., se non addirittura il secolo precedente. Questo collima perfettamente con lo stile di Caritone, che non reca tracce di atticismo e di influsso “sofistico”. 2) Efesiache di Senofonte Efesio: forse II secolo d.C. 3) Dafni e Cloe di Longo: seconda metà del II secolo. 4) Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio: seconda metà del II secolo. 5) Etiopiche di Eliodoro: III o forse IV secolo. Su altri due romanzi abbiamo testimonianze abbastanza ricche, perché ce ne restano sunti di epoca bizantina: sono le Meraviglie al di là di Tule di Antonio Diogene (fine del I sec. d.C.) e le Storie Babilonesi di Giamblico (Il sec.). Una prima conclusione è ovvia: di tutte queste opere i dotti del periodo tardoantico pensarono che meritassero di essere lette e perpetuate, o almeno riferite e riassunte. Ma ne esistevano molte altre simili. I papiri hanno restituito molti frammenti che quadrano perfettamente con il contenuto e lo stile dei romanzi già noti. Spesso si tratta di brevissime porzioni narrative, ma ecco che ritornano coppie di innamorati divisi e travagliati, e le loro peripezie: tentativi di suicidio, naufragi, castità insidiata, sogni premonitori, scambi di persona. Dai papiri sappiamo che, in una fase abbastanza antica del romanzo, gli eroi potevano anche essere personaggi storici. Il frammento più antico che abbiamo riguarda un romanzo composto verso il 100 a.C.: il suo eroe è Nino, il gran re di Assiria. Un altro frammento inscena le avventure del faraone Sesoncosi: il pensiero corre alla fitta produzione storico-romanzesca sulle gesta di Alessandro Magno. Altri frammenti riguardano gli amori di due giovani, Metioco e Partenope, che hanno illustri parentele; Partenope è la figlia di Policrate il tiranno di Samo (VI secolo a.C.) e Metioco (con allegro disprezzo per la cronologia) è il figlio del generale ateniese Milziade, il vincitore di Maratona. I romanzi portano nuova celebrità, e Nino, Metioco e Partenope campeggiano sui mosaici di una villa di età imperiale, ad Antiochia. Questo genere di narrativa era amato per se stesso: i numerosi papiri testimoniano lettori e diffuso gradimento personale, perché certo questi testi non entravano nelle scuole e nelle biblioteche, non formavano cultura e prestigio. Sono le più vere “letture di piacere” del mondo grecoromano. Ma questi testi spesso non piacevano alla cultura ufficiale, e una dura sospettosa selezione li colpì. Abbiamo gli Ephesiaké di Senofonte, ma non i Rhodiakä di Filippo di Anfipoli, su cui un dotto bizantino annota che «è un’opera totalmente sconcia». Quando parliamo di romanzo greco idealizzato dobbiamo sempre ricordare che quello che ci è giunto è frutto di una selezione già orientata. La questione è di particolare interesse per chi studia il romanzo latino: Petronio ed Apuleio si spiegano male senza un fitto retroterra di erotikä greci di cui pochissimo si è salvato. La relativa uniformità e idealizzazione del romanzo greco — un aspetto su cui verterà il prossimo paragrafo — deriva da una scelta assai parziale, di cui spesso possiamo intravedere le motivazioni storicoculturali.
Il romanzo
343
2. Unità del genere Da questo racconto soprattutto, come dal resto delle narrazioni fantastiche simili a questa, si possono ricavare due utilissimi insegnamenti: uno, che l’autore conduce l’ingiusto a pagare comunque il
fio, anche se sembra che la faccia franca infinite volte, l’altro, che si dimostra come molti innocenti,
giunti vicino ad un grande pericolo, spesso si salvano. Fozio
Nessuno dei termini che noi usiamo comunemente per designare la narrativa d’invenzione (fiction, secondo il comodo vocabolo anglosassone) risale più indietro del Medioevo. Il mondo antico non possedeva alcuna espressione tecnica paragonabile alle nostre (“romanzo”, “novella” ecc.), e non ha prodotto nessuno sforzo apprezzabile per incasellare i testi che noi chiameremmo romanzi in una teoria generale della letteratura. Del resto, i letterati antichi hanno poca inclinazione a discutere di generi letterari “bassi”. Ci restano per lo più designazioni generiche, sprezzanti, anche imprecise. A volte si parla in generale di plasmata, “invenzioni, racconti fittizi”, e sembra che la narrativa d’invenzione potesse trovare un suo posticino negli arsenali retorici, dove appunto si praticavano esercitazioni occasionali su temi fittizi. Altre volte prende piede il termine milesia (cfr. infra, par. 4.1), un’etichetta che riguarda in origine solo certi tipi di novella: le milesie sono considerate in genere narrativa “commerciale”, letture quasi inconfessabili per una persona seria. Gli stessi romanzieri, del resto, non si curano di approfondire considerazioni di poetica, motivando ad esempio il loro lavoro con promesse di utilità. Essi sanno, naturalmente, di riuscire dilettevoli: chi non si accontenta di questo (come Fozio, nella citazione che ci serve da motto) è poi costretto a giustificazioni acrobatiche. Pochissimo è noto anche degli autori, e anche questo è sintomatico della (auto-)considerazione in cui il genere era tenuto. Caritone ci comunica almeno il suo nome, la sua attività presso il retore Atenagora, e la sua patria (Afrodisia, in Caria: Char. 1 1). Di Senofonte Efesio sappiamo ancora meno, e sia il nome che l’epiteto potrebbero essere convenzionali. Giamblico pare fosse babilonese, o siriano, e contemporaneo del regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.). Longo è un geniale sconosciuto. Achille Tazio pare essere vissuto ad Alessandria d’Egitto nella seconda metà del II secolo (il cognome forse ricorda il dio egizio Toth). Quanto a Eliodoro (a parte la strana notizia che fosse un vescovo, senz'altro legata alla fortuna della sua opera presso un pubblico cristianizzato), risulta che apparteneva a una famiglia di sacerdoti del dio Sole a Emesa, in Siria; la datazione oscilla fra III secolo (periodo in cui il dio Helios ha grande fortuna anche alla corte imperiale di Roma)-e secolo successivo. Come si sarà intuito, gli autori non parlano che eccezionalmente di se stessi e, soprattutto, hanno poca inclinazione verso allusioni precise,
344
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
databili, alla realtà contemporanea. L’unico nuovo nome portato dai papiri, Lolliano, pone altri problemi: il nome concorderebbe con il ben no-
to Hordeonius Lollianus, un sofista di Efeso che ebbe un notevole ruolo
nella scuola atticista di Atene (prima metà del II secolo). Poiché, con tutta evidenza, questo Lolliano era un serissimo docente di retorica, mentre i Phoinikiké erano, a volere essere gentili, narrativa di consumo, l’identificazione ha fatto difficoltà. Il primo editore di Lolliano, A. Hen-
richs, obietta che difficilmente un ‘cattedratico di Germanistica’ scrive romanzi, ma la questione non sembra, con ciò, risolta '. Un discorso più coerente nasce dalle trame romanzesche che ci sono note. Caritone ci narra come ‘Amore’ portò Cherea e Calliroe alle nozze, e come ‘un dio malevolo’ si manifestò poi nelle trame dei rivali di Cherea. In Senofonte Efesio, invece, Eros stesso ostacola gli amanti: Abrocome, prima di innamorarsi, ha commesso l’errore di inimicarsi questo potente dio. Apollo profetizza che, dopo mille peripezie, e dopo aver raggiunto Iside soccorritrice presso il Nilo, i due sposi troveranno sorte più lieta. Gli eroi di Achille Tazio hanno a che fare, più che altro, con una Fortuna attivissima e perturbatrice. Il racconto è condotto in prima persona, e ciò comporta una certa riduzione dell’apparato divino. (Del tutto isolato, anche in questo aspetto, è il romanzo di Longo: dove lo sviluppo dell’amore incontra ostacoli all’interno dei protagonisti, che devono ancora maturare sino al naturale compimento. Qui le peripezie sono deboli, poco avventurose.) L’ultimo romanziere, Eliodoro, offre una trama impossibile da condensare: sotto il segno del dio Sole, Teagene e Cariclea si conoscono a Delfi e alla fine si sposano a Meroe, nella
lontana terra dei popoli neri. Sembra che tutta l’abilità dei romanzieri vertesse sullo sviluppo degli ostacoli che si interpongono fino alla naturale riunione della coppia innamorata. La trama sta tutta intera nelle peripezie, racchiuse tra un danno iniziale — che produce la separazione degli eroi — e una riconciliazione definitiva. Probabilmente il tipo di trama che è classico a partire da Caritone faticò a prendere piede. Nel romanzo di Nino, che è più antico, la tensione drammatica della trama è, per quanto ne sappiamo, modesta. Nino ama riamato Semiramide, e le famiglie non si oppongono:l’unico problema è che Semiramide non ha ancora i 15 anni obbligatori per le nozze. Ma è probabile che, nel seguito della storia, gli ostacoli si intensificassero: un altro frammento ci mostra Nino impegnato in dure campagne militari. In conclusione, abbiamo qui dei racconti dove la storia d’amore è ossatura fondamentale, e gli ostacoli offrono molteplici possibilità di variazione; ma naturalmente anche a questo livello sono già pronti degli stereotipi che nessun romanziere rinuncia a impiegare. La narrazione ha ! Se l'analogia coi tempi moderni invocata da Henrichs ha
qualche valore, si può far
notare che le case editrici sono assediate da manoscritti di professori universitari; e che
uno dei più popolari narratori fantastici di questo secolo, J. R. Tolkien, era, appunto, professore universitario di Filologia celtica. (È giusto ammettere che lo status sociale degli antichi romanzieri è per noi sfuggente.)
Il romanzo
345
continuo bisogno di fattori imprevisti: rivali, pirati, briganti, naufragi, morti apparenti e altri equivoci sono tra gli ingredienti favoriti. Ancora, è notevolmente unitario il tema d’amore che sta a fondamento di ogni trama. L’amore che lega i protagonisti si configura come fedeltà e quindi, data la continua separazione degli amanti, come castità tenacemente difesa contro ogni pericolo. La castità dei protagonisti è il bene primario che le avventure e gli ostacoli rimettono continuamente in gioco. I narratori possono avere, entro questo quadro, spiccate preferenze individuali, e bisogna guardarsi dall’appiattirli troppo: Eliodoro si segnala per moralismo, e Achille Tazio per inquiete atmosfere erotiche. Ma è chiaro ormai perché (se si pensa, poniamo, a Petronio e Apuleio) è invalso l’uso di chiamare questo genere “romanzo d’amore idealizzato”. I narratori sottopongono l’eros a una severa restrizione, che da un lato può avere motivazioni sociali (in questo modo i loro testi si assicurano un livello superiore a quello della narrativa “satiresca”, e quindi anche un pubblico diverso), ma che è anche un modo unitario di costruzione della trama. La castità di Calliroe non è solo una qualità morale esemplare; è la traccia unificante che impedisce alla storia di dissolversi in costellazione libera di incidenti avventurosi. 3. Il romanzo perduto Considerate in questa prospettiva, molte critiche che i moderni applicano al romanzo greco appaiono francamente poco ragionevoli. Queste narrazioni possono — è legittimo — sembrarci ripetitive o scadenti: ma che senso ha insistere che la psicologia dei personaggi è schematica, poco approfondita, che gli eroi sono umanamente inconsistenti e astratti, o via dicendo? I critici del romanzo greco che praticano anche la narrativa moderna si astengono da questi rilievi. Il romanzo non è necessariamente centrato sulla psicologia, e solo una miope valutazione di certe esperienze del XIX secolo può farlo pensare. Al contrario, il sacrificio della psicologia, più che un difetto, è un particolare modo di costruire le trame romanzesche: romanzi ‘di viaggio’, ‘di avventure’, e simili, hanno generalmente — per chiari motivi di economia diegetica — protagonisti passivi e, se si vuole, poco marcati, astratti. Lo scopo di questi romanzi non è, chiaramente, che noi approfondiamo il carattere di Gil Blas, Tom
Jones o Davide Copperfield, sino a scambiarli per individui reali. Non è colpa dei narratori greci se certi loro critici sembrano aver letto solo Manzoni o Balzac. Se si lasciano da parte questi rimproveri, tra l’altro antistorici, rimane tuttavia, nel romanzo
greco
che abbiamo,
una sensibile lacuna:
la
scarsa curiosità per i dati concreti (mi costringo a questo giro di parole per non usare ‘realismo’, un termine troppo carico di ambiguità). Questa carenza non discende, mi pare, dalla struttura stessa della trama: le poetiche moderne, e la modernissima poetica del Satyricon di Petronio, mostrano bene come lo schema del viaggio avventuroso possa saturarsi di
346
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
descrizioni e di osservazioni concrete 2. Ma i romanzieri rinunciano a questi ‘effetti di reale’ proprio come, all’estremo opposto, rifuggono dall'eccessivo e dal fantastico. È come se il romanzo greco si fosse chiuso in un’esile via mediana, ignorando la possibilità di mille diversioni affascinanti. Ma avvertiamo subito — è questo lo scopo del nostro terzo paragrafo — che queste limitazioni cadono, o almeno mutano forma, se allarghiamo lo sguardo verso i romanzi meno conosciuti (ricostruibili da riassunti, allusioni, indizi frammentari).
Le Meraviglie al di là di Tule furono composte nella seconda metà
del I secolo d.C. da un certo Antonio Diogene: ne abbiamo scarsi frammenti, e un sommario dovuto al patriarca bizantino Fozio. La struttura del romanzo è complicatissima: sono 24 libri di avventure, con numerosi
livelli di narrazione incastrati uno dentro l’altro. Tutto si svolge sulle avventurose rotte del grande Nord, fuori del mondo conosciuto e ben lontano dal tipico scenario “mediterraneo” del romanzo d’amore. Particolare cura viene messa nel proporre testimonianze e pezze d’appoggio su questa realtà inedita; pare che Antonio premettesse ad ogni libro un elenco di fonti utilizzate (proprio come fece, ad altro proposito, Plinio il Vecchio, di cui forse Antonio è un contemporaneo). Inoltre, è tipico dei racconti di viaggi meravigliosi avere una struttura “metadiegetica”: si è notato che, nell’Odissea, quasi tutti gli episodi più fantastici e mirabolanti sono narrati non dal poeta, ma dal protagonista: la narrazione in prima persona contenuta nel racconto principale offre come una presa di distanza e una discarica di responsabilità dal narratore al narratore-personaggio. Su questa via, Antonio si è permesso divertenti esagerazioni: certe parti della storia presuppongono non meno di cinque livelli diegetici inscatolati uno nell’altro. La finzione documentaria su cui si apre il romanzo suona perfino sfacciata (molto più che nel Nome della rosa di U. Eco): l’autore Antonio ritrova uno scritto databile ai tempi di Alessandro Magno; un ufficiale di Alessandro riversava in una lettera alla propria moglie (!) il contenuto dei ventiquattro libri, preso da un manoscritto ritrovato a Tiro; nel manoscritto, un certo Deinias racconta la storia dei suoi viaggi, compresi racconti multipli recepiti da altri viaggiatori. Non siamo poi così lontani dalla beffa aperta della Storia Vera di
Luciano.
È importante notare che nel romanzo non c’è una storia d’amore che motiva viaggi e peripezie, ma invece una storia di viaggio che ha tra i suoi incidenti una storia d’amore. Tutta la motivazione dei viaggi sta nella sete di conoscenza del protagonista Deinias. Questi ha, fra molte altre avventure, un amore con la giovane Dercillide. Dercillide, almeno, può apparire una tipica eroina da romanzo d’amore: viaggia perché è perseguitata da un implacabile nemico, ma il suo compagno nelle peripezie di viaggio è suo fratello: pur se non abbiamo il testo originale di An? E ancora una volta è eccentrica la posizione di Longo, che si segnala per gusto del dettaglio naturalistico, e assenza dello schema ‘di viaggio’.
Il romanzo
347
tonio, sembra chiaro che la storia d’amore ha subito una drastica riduzione rispetto alla formula abituale. A essere allontanati e perseguitati e divisi fra loro non sono più due amanti o due coniugi, ma un fratello e una sorella. Inoltre è evidente dal sommario che il tema della fuga serve da filo conduttore, ma l’interesse prevaricante è fornito dal meraviglioso
e dal fantastico di ogni singolo episodio. È ovvio che Antonio non pone nessuna restrizione di verosimiglianza ai suoi mirabilia, e quindi rompe decisamente con le convenzioni del romanzo d’amore ellenistico. Vorremmo sapere di più sulla città i cui abitanti sono ciechi di giorno e vedenti la notte; e come mai, a un certo punto, i cavalli dei fuggiaschi
cambiavano colore. Ma ci basta aver chiarito l’esistenza di un filone in cui l’istanza del fantastico prendeva il sopravvento sul resto. Sono anche immaginabili, tra romanzo d’amore e romanzo di avventure fantastiche, dei compromessi più equilibrati. Questo sembra essere il caso delle sensazionali Storie Babilonesi di Giamblico, anch’esse note
per frammenti e, soprattutto, grazie al riassunto dell’infaticabile Fozio. Il canovaccio è poco innovativo: due sposi virtuosi sono perseguitati da un crudele tiranno e alla fine (dopo ben 16 o forse addirittura 39 libri) trionfano di ogni ostacolo. La novità del romanzo non è nella struttura narrativa, ma nel materiale. L’Oriente di Giamblico sembra molto meno convenzionale e pallido che le solite ambientazioni, anche esotiche, del romanzo d’amore. Oracoli caldei e magia hanno un forte ruolo nella trama, e incontriamo apparizioni poco quotidiane: i protagonisti avevano a che fare con «lo spettro di un caprone»; entra in scena poi una poco rassicurante compagnia «il mago delle locuste, dei leoni e dei topi», nonché un mago della grandine, uno dei serpenti, uno dei morti, e un mago ventriloquo. C’è poi una quantità di sangue versato da romanzo dell'orrore; i persecutori dei due eroi, i malvagi eunuchi Damas e Sacas, vengono mutilati, in una delle primissime scene, del naso e delle orec-
chie, e attraversano in questa guisa tutto il romanzo. Si può concludere che Giamblico apriva le strutture del romanzo d’amore verso l’esotico e il macabro, e un po’ anche verso il fantastico; meno, sembrerebbe, verso la componente sessuale. \ Ma anche in questa direzione possiamo citare qualche esperimento. E vero che la maggior parte dei frammenti “nuovi” conferma la tendenza di massima: eros idealizzato e castità; ma un paio di recenti scoperte suggeriscono ricette alternative. Per quanto i frammenti lasciano intuire, le Storie Fenicie di Lolliano mostrano finalmente (come segnala nella sua eccellente edizione A. Henrichs) un genuino esempio greco di narrativa “d’intrattenimento”. Abbiamo qui una narrazione in parecchi libri, composta in uno stile concreto e poco elaborato. Nel primo frammento, che cadeva nel primo libro del romanzo, un uomo (forse il protagonista assoluto?) racconta la sua prima esperienza sessuale. Il nome della sua partner, Perside, fa pensare a una servetta compiacente (come Palestra nel Lucio o l’Asino e Fotide in Apuleio); il comportamento dei due amanti, e certi dettagli realistici della scena, sfuggono a precisi confronti con il romanzo “idealizzato”. Il personaggio che racconta, in ogni caso, non sembra avviato a una carriera romanzesca di sorvegliata castità.
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Scene del genere compaiono in posizione di avvio anche nella trama comune alle Metamorfosi apuleiane e al Lucio. Un altro frammento racconta di un viaggio notturno. Il viandante è apostrofato da un fantasma che gli chiede sepoltura, per sé e per una bella fanciulla assassinata. Storie di fantasmi e briganti, intrecciate a racconti di viaggio, ci portano ancora verso Apuleio e (in misura diversa) verso Petronio. I briganti dominano la scena di un terzo, sorprendente frammento. Chi racconta è un loro prigioniero (forse ancora il protagonista principale?). I briganti sembrano organizzati in una setta fanatica, che ci ricorda i thugs: il narratore deve assistere a un’orgia e a un sacrificio umano, e partecipare a un banchetto antropofago. Il testo descrive con cruda ricchezza di dettagli la cottura delle carni umane e le reazioni fisiche dei convitati. La situazione narrativa — trovarsi in balia di fuorilegge nemici della civiltà — è certo tipica anche del romanzo idealizzato, e, se si vuole, traluce ancora l’illustre archetipo di Ulisse e del rivoltante Ciclope; ma il realismo compiaciuto della descrizione non ha paralleli nel romanzo che che ci è familiare. Possiamo ora provare ciò che — guardando soprattutto al Lucio e al romanzo di Apuleio — si era a lungo sospettato: la ricetta del romanzo idealizzato non era l’unica risorsa della narrativa “di consumo”. Considerazioni in parte simili sono suggerite dall’enigmatico frammento oggi noto come “romanzo di lolao” (di cui, però, sarà più conveniente occuparsi trattando del romanzo latino, perché il testo ha immediato rilievo per la questione delle fonti di Petronio). Basterà qui sottolineare che il romanzo latino — con le sorprendenti esperienze artistiche di Petronio e Apuleio — comincia ad apparirci meno isolato. La teoria che vede il Satyricon come risposta parodica al serio e idealizzato romanzo greco si fondava appunto su una contrapposizione troppo assoluta. È certo che Petronio sfruttò in modo del tutto personale i materiali “bassi” della narrativa greca d’intrattenimento; ma non c’è motivo di pensare che conoscesse solo narratori come Caritone, e non anche testi più polimorfi, aperti a materia comica, realistica, o francamente sensazionale e pornografica. In questa prospettiva andranno anche rivisti i confini tradizionali tra romanzo “serio” e novellistica di tipo milesio. Questo genere di brevi narrazioni si caratterizzava più che altro nell’immancabile risata sui vizi della gente: gli uomini sono sciocchi, le donne sempre compiacenti. Per sua natura, il fluido materiale novellistico si prestava ad essere arrangiato anche in narrazioni più lunghe e complicate: collane e collezioni di novelle, organizzate per temi, riunite nel quadro di una conversazione simposiale; intermezzi novellistici da innestare su una trama picaresca, da romanzo “di viaggio”; romanzi contagiati di amoralità “milesia”. Nel vasto bacino della narrativa popolare, fra tardo ellenismo e prima età imperiale, dovettero consumarsi gli incroci più diversi: è possibile che il futuro ci riservi nuove testimonianze per questa zona franca del raccon-
tare.
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4. Influssi formativi Il primo romanzo fu deliberatamente concepito e scritto da un autore individuale: il suo inventore.
Egli lo ideò in un martedì pomeriggio di luglio, o in qualche altro giorno, o mese, dell’anno [...] Ben Edwin Perry
Sarà anche impazienza di uno spirito anticonformista, o per caso manifestazione estrema di un culto tutto americano dell’iniziativa privata: ma la battuta, comunque, viene da uno dei più seri studiosi della narrativa antica, ed esprime un disagio ben motivato. E per la stessa ragione che questo paragrafo non vuole intitolarsi, come poteva venire automatico fino a poco tempo fa, “Origini del romanzo greco”; ancora per questo motivo, scegliamo di trattare per ultima la grande questione che era stata, negli studi tra fine XIX secolo e prima metà del XX, il problema preliminare, il problema per eccellenza. La questione delle origini è stata a lungo tanto più importante, quanto più scadeva l’apprezzamento per i testi del romanzo greco: il cui valore letterario, dopo gli entusiasmi del gusto europeo tra Cinque e Settecento, appariva nel secolo scorso ben poco trascinante. Cresceva però l’impulso della ricerca verso le origini: giocavano in questo i paradigmi scientifici del positivismo; giocava soprattutto la centralità assoluta che questa forma letteraria, in antico piuttosto marginale, aveva ormai conquistato nella cultura contemporanea. L’età di Flaubert e Tolstoi ha ormai cessato di guardare a Eliodoro o ad Achille Tazio come praticabili modelli di arte narrativa, ma il trionfo del moderno romanzo borghese chiedeva anche la ricerca di una lignée storica abbastanza profonda da ricollegare esperienze albeggianti e frammentarie. Molti guardano allora i testi antichi come prodotti occasionali di una dimensione assoluta, il romanzesco, che troverà pieno compimento solo nel mondo moderno, ma che deve anche essere approfondita riconoscendone i fondamenti caratterizzanti, insomma l’origine. Oggi noi consideriamo queste problematiche con un certo distacco. La ricerca di un pedigree per il romanzo antico ha prodotto ipotesi e discussioni di alto livello, ma ha anche finito per riavvolgersi troppo su se stessa; a volte ha anche distolto le cure dei filologi dal concreto lavo-
ro sui testi. Vedremo ora brevemente fin dove le singole linee d’indagine ci possono condurre, e cercheremo di mettere in bilancio tutto ciò che di volta in volta rimane inspiegato, o troppo al margine. È ormai opinione diffusa che, se si pone la questione del romanzo in termini di origine, si avrà sempre un limitato cono di luce che molto abbraccia e molto lascia fuori. Ma è anche vero che quasi tutte le ipotesi genetiche hanno prodotto collegamenti e raffronti di estremo interesse, meglio utilizzabili da chi accetta (nel senso della provocazione di Perry che è il nostro motto iniziale) di non porsi frontalmente, con pericolosa immediatezza, il quesito dell’origine.
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4.1. Novellistica
Ciò che noi chiamiamo novella (o racconto, short story, e via dicendo) nacque certamente prima dei testi che definiamo “romanzi”. Il materiale novellistico è sterminato, e la sua sedimentazione formale è molto instabile. Fin dalla cultura greca di VI-V secolo possiamo seguire una disseminazione di novelle che attraversa testi e generi letterari molto ben distinti:
come
le storie erodotee
o il teatro comico
di Aristofane,
ad
esempio. È chiaro che dobbiamo assumere, come retroscena, un’ampia circolazione orale della novella. Il simposio costituiva una tipica occasione per queste brevi narrazioni di intrattenimento. Possiamo anche documentare a partire almeno dal II secolo a.C., con i Milesiaké di Aristide, una fissazione del materiale novellistico in genere narrativo. Il successo di questa produzione comico-erotica è documentato anche nel mondo romano, a partire dal I secolo quando Sisenna (forse, ma non sicuramente, lo storico) diede una versione latina alle storie di Aristide. Possiamo essere certi del successo popolare di questo filone; Petronio e soprattutto Apuleio vi pagano frequenti omaggi. Ma è diventato usuale, per l'appunto, trattare del filone “milesio” in relazione con il romanzo latino: tanto lo spirito milesio sembra alieno dalla stilizzazione del romanzo d’amore idealizzato. Abbiamo già suggerito (cfr. supra, par. 3) che la realtà doveva essere più flessibile, e che non si dovrebbe più escludere la fioritura in lingua greca di romanzi “comici”. Ma occorre anche avvertire che questa linea di indagine non risolve il problema della genesi del romanzo greco. L'ipotesi che il romanzo nasca in modo lineare dalla novella, magari per sommatoria o per espansione, appare oggi davvero ingenua. Si potrebbe dire con altrettanto diritto che il romanzo patetico di Caritone e il raffinato romanzo retorico di Achille Tazio nascono per separazione, per antitesi, rispetto al genere “milesio”. Il mondo greco, a differenza di quello latino, aveva un pubblico di lettori abbastanza vasto e differenziato da tener vive entrambe queste distinte tradizioni. 4.2. Verso Oriente
Nel 1670 il vescovo francese Pierre Daniel Huet, nel suo pregevole lavoro Traité de l’origine des romans, propose l’affascinante idea che la comparsa del romanzo in lingua greca sia da riconnettere a influssi orientali. Questa indicazione ha cambiato più volte forma nella storia degli studi, ma non è mai stata definitivamente archiviata; ogni nuovo studioso del romanzo deve almeno considerarla nel suo personale orizzonte.
Possiamo anzitutto scartare un primo ordine di connessioni, che appaiono ingenue perché troppo immediate e occasionali. Il fatto che alcuni autori di romanzi pervenutici fossero, personalmente, di origine orientale (Giamblico ed Eliodoro erano a quanto pare siriani), è un dato che impressionava Huet ma che non è pertinente qui: fra l’altro, come ora sappiamo, i testi di Giamblico ed Eliodoro sono fra i più tardi nella serie cronologica. Altrettanto superficiale sarebbe insistere sul fatto che
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alcuni romanzi sembrano avere un forte interesse per l’Oriente come ambientazione e, forse più ancora, un diffuso penchant verso l’Egitto. Questo è esotismo, e non ha a che fare con origini straniere. Le somiglianze tematiche pongono un problema più serio, che ha anche implicazioni di metodo. Sembra inevitabile che periodicamente — da quando la narrativa orientale è patrimonio delle persone colte in Europa — i lettori di Petronio o del romanzo greco siano colti da pungenti sensazioni di déjà vu. Un episodio, qua e là, ricorda le Mille e una notte; una altro, una certa fiaba sanscrita. Si tratta certamente di una caccia affascinante: ma quali conclusioni generali suggerisce? Anzitutto, le situazioni narrative non sono, come piacerebbe pensare a volte, infinite, e possono facilmente avere genesi indipendente: si tratta, notiamolo, di situazioni e motivi ‘atomizzati’, non di forme letterarie o di grandi schemi narrativi. Ma è altrettanto certo che, se si parla di fiction, di narrativa d’intrattenimento, le storie e i motivi viaggiano molto, e viaggiano senza portare su di sé marchi d’origine. Non esiste certo alcuna obiezione di principio alla circolazione di storie fra Oriente ed Occidente. Ma non siamo certi che il senso di marcia fosse verso Occidente. Gli studi sui contatti culturali fra mondo classico e mondo arabo sono ancor oggi piuttosto arretrati, per la scarsità di specialisti ‘a cavallo’ tra i due mondi. Ma recentemente studi filologici sulle Mille e una notte hanno prodotto un’ipotesi degna di nota: le zone di similarità fra narrativa greca e araba esistono, ma si potrebbero meglio spiegare assumendo un influsso da Ovest — un influsso, naturalmente, mediato dalla cultura bizantina. Non possiamo qui esporre i dettagli della ricostruzione, ma è importante che, nel periodo bizantino, si può concretamente evidenziare una circolazione di testi scritti che avrebbe fatto da supporto materiale a questi processi di integrazione. Intorno al IX-X secolo, paesi arabi quali l’Iraq o l’Egitto avrebbero avuto facile accesso a testi greci, ellenistici e bizantini: e anche la pratica della traduzione è ampiamente testimoniata. Parallelo, e più nitido, corre un filo che collega la tradizione del romanzo greco alla letteratura copta; via via, non fu difficile islamizzare o cristianizzare i referenti ideologici di canovacci che mantenevano la loro validità come testi d’intrattenimento. Come si vede, le somiglianze tra romanzo greco e narrativa orientale non bastano a sostenere l’ipotesi che orientale sia la prima origine del genere romanzesco. Anche chi accetta le somiglianze ha difficoltà a spiegare le concrete modalità storiche del contatto di culture che viene a presupporre. L’“importazione” di un genere letterario presuppone contatti e scambi ben più intensi rispetto a una semplice circolazione di “morfemi” narrativi buoni a molti usi. A questa obiezione si sottrae però una recente e meditata versione dell’ipotesi orientaleggiante. I sostenitori di questa nuova ipotesi genetica puntano il dito verso una situazione geograficamente e storicamente determinata, dove in ef-
fetti si realizzò un prolungato e intenso contatto fra culture diverse. Questa zona di contatto è, naturalmente, l’Egitto ellenistico-romano, tra II secolo a.C. e prima età imperiale. Si è notato da tempo che l’uso della prosa è la principale novità che caratterizza il romanzo greco ri-
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spetto ad altri generi preesistenti di fiction; ora, è un fatto che già molti secoli prima la cultura egiziana praticava narrazioni in prosa che possiamo tranquillamente definire romanzesche. Abbiamo ora un frammento di romanzo greco il cui eroe è un faraone e, ciò che più importa, frammenti di narrativa greca (risalenti almeno al II secolo a.C.) che presuppongono originali scritti in demotico. 'È chiaro che, negli strati bassi e popolari della letteratura, la traduzione da originali demotici era una pratica non rara. Si può auspicare che specialisti in grado di affrontare la complessa documentazione bilingue ci offrano nuovo materiale comparativo. (Personalmente, non credo che questa ipotesi abbia un raggio di applicazione sufficientemente forte. Essa non spiega affatto la fioritura di una narrativa colta, o almeno di medio livello, negli ambienti greci dell’Asia Minore; un fenomeno che ha troppa continuità con la cultura greca classica — ad esempio con la storiografia: cfr. infra, par. 4.6. — per dipendere da scaturigini alessandrine.) 4.3. Romanzo misterico
Ma la più conosciuta fra le teorie ‘orientaleggianti’ sulla genesi del romanzo presuppone una diversa linea d’attacco; e insiste non sulla circolazione di narrativa, per così dire, “di consumo”, ma su una disseminazione di archetipi religiosi, che alludono a una profonda saggezza nascosta. Questi archetipi si radicherebbero nel mito — il grande mito egizio di Iside e Osiride, soprattutto — e nel culto, nella pratica dei culti misterici nutriti di religiosità orientale. I due principali esponenti di questa tendenza, Karl Kerényi e Reinhold Merkelbach, ne hanno dato versioni solo apparentemente solidali fra loro: Kerényi nel suo saggio giovanile Die griechisch-orientalische Romanliteratur in religionsgeschichtlicher Beleuchtung (1927), Merkelbach soprattutto nel volume del 1962 Roman und Mysterium in der Antike. Merkelbach è un filologo che si occupa, con una metodologia del tutto tradizionale, di testimonianze connesse ai culti orientali nel mondo classico; Kerényi era invece un eccentrico nel panorama della filologia classica, e i suoi interlocutori privilegiati furono piuttosto Nietzsche, Jung e Thomas Mann. Kerényi leggeva la storia del romanzo in un’amplissima prospettiva storica e meta-storica; il romanzo rielabora archetipi del mito e della religione e progressivamente li de-mitizza, li ‘imborghesisce’, li secolarizza. Il lavorio dei primi romanzieri greci, in parte consapevole e in parte no (su questo punto Kerényi non è sempre limpido), avrebbe dunque smontato e rimontato in nuovi contesti dei materiali di origine mitico-religiosa: come il mito di Iside e Osiride, che sembra riproporsi, con inquietante regolarità, come falsariga o piuttosto scena primaria delle storie narrate nel romanzo greco. Come quasi tutti gli studiosi del romanzo, Kerényi è partito dall’apparente monotonia degli intrecci e delle situazioni; e ha proposto di vedere dietro queste ricorrenze la traccia di scene archetipali. Morti apparenti, salvezze impreviste, naufragi, crocifissioni, e altro ancora, sono materiali simbolici da spiegare, audacemente, con un
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rinvio alle “chiavi” della cultura religiosa. Ma non per questo si tratta di “romanzi a chiave”, volutamente cifrati. Le singole interpretazioni che questo itinerario promuove possono essere discutibili: ma non si può negare l’utilità di uno studio “per archetipi” della letteratura narrativa. Ignorando limiti di tempo e spazio, si sono potuti scrivere con questo metodo libri affascinanti quale ad esempio La scrittura secolare. Studio sulla struttura del romance di Northrop Frye (che lavora su archetipi ‘ostinati’, con affermazioni del tipo: «Il sacrificio umano, di solito quello di una vergine, è sorprendentemente persistente quale episodio cruciale del romance»). Solo che queste analisi, per loro natura, non pretendono di avere anche una validità storico-filologica. E questo fu appunto l’errore di Kerényi nei suoi primi studi: egli credeva di fondare sulla Demythisierung nuove proposte di cronologia assoluta e relativa dei romanzi greci, tali da battere in precisione quelle di Rohde (per il cui metodo cfr. par. 4.5). Al contrario, questo metodo si rinchiuse sempre più in una ipotetica preistoria del romanzo, dove le poetiche dei singoli autori non avevano più vera importanza, e lo stesso problema delle origini risultava imprendibile. Le accoglienze del mondo filologico furono in genere scoraggianti. Accomiatiamoci da Kerényi, che finì col perseguire la sua vera vocazione di ‘antropologo del profondo’, e trovò notevole consolazione nella vicinanza di Thomas Mann: la tetralogia “mitologica” di Mann Giuseppe e i suoi fratelli convinse Kerényi che la storia del romanzo aveva fatto ormai un pieno giro su se stessa, e che dalla crisi della società borghese albeggiava ormai una sorta di “ri-mitizzazione”. Con comprensibile emozione egli leggeva nel Giovane Giuseppe ermetiche allusioni come questa: «Chi potrà dire dove le storie abbiano la loro patria originaria: lassù O quaggiù?». Aggiungiamo solo che Kerényi salutò con una certa freddezza (dal suo punto di vista non immotivata) la comparsa del saggio Roman und Mysterium, che pure sembrava dare nuova lena alla problematica delle origini religiose. Il richiamo ai culti misterici non era in effetti una novità assoluta. Si era già notato che romanzi e culti misterici fiorirono, genericamente parlando, nello stesso periodo; e che potevano fare appello allo stesso tipo di pubblico. Kerényi dava di questo accostamento una versione un po’ ambigua: certi romanzi, argomentava, se letti con gli occhi di un fedele di Iside, potevano apparire del tutto simbolici. Merkelbach compì un deciso affondo, e affermò chiaramente che buona parte dei romanzi antichi erano, in effetti, veri e propri “romanzi a chiave”. Non solo Apuleio, ma anche Senofonte Efesio e Achille Tazio esaltano i poteri di Iside; Giamblico era un adepto di Mitra, Longo dei misteri dionisiaci; Eliodoro è con tutta evidenza un predicatore di sincretistici culti solari. Merkelbach procede così a identificare negli stereotipi del romanzo precise allusioni ai culti misterici. Dato che di questi ultimi, per vari motivi, non sappiamo molto, ecco ricomparire il riferimento kerényano al mito di Iside e Osiride, che sarebbe alla base di parecchie varianti, sia narrative, sia culturali. L'ipotesi di Merkelbach ha il chiaro merito di richiamare la nostra
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attenzione sull’importanza dell’elemento religioso nel romanzo antico. In molti romanzi, la presenza del divino nell'azione è decisiva. Inoltre, lo stesso grande schema separazione-pericoli-salvezza e riunione acquisterebbe nuova pregnanza su un fondale di aspettative mistico-religiose. Ma a questo punto le obiezioni si fanno radicali *. Le scene tipiche del romanzo (naufragi, sacrifici umani, morti apparenti ecc.) fanno parte degli arsenali narrativi più perpetui e universali: come possiamo dedurne una sorta di criptologia? Quanto ai misteri, sappiamo pochissimo della loro strutturazione: l’obbligo al silenzio era infatti parte costitutiva del loro funzionamento interno. Perciò il codice segreto su cui i romanzi sarebbero fondati ci è accessibile quasi solo attraverso i romanzi stessi (e questo è pericoloso); inoltre, e qui tocchiamo il dubbio più profondo, il senso dell’operazione “a chiave” ci sfugge totalmente. Se è vero che i misteri escludevano qualsiasi tipo di propaganda e di evangelizzazione, ne risulta che i romanzi greci sarebbero romanzi a chiave destinati a non essere capiti. Ben diverso è il caso della cultura cristiana, che aveva come suo programma la propaganda della fede, e che non a caso adottò molto rapidamente gli schemi e le strutture espressive del romanzo. (Come è noto, molta letteratura popolare sulle vite dei martiri e dei santi è basata su palinsesti di romanzo precristiano.) Infine, il riferimento misterico finirebbe per omologare troppo testi che il buon senso del lettore comune sente diversi, legati a strati cronologici, sociali e culturali ben distinti. Ci sono romanzi statici, neo-classici, che perpetuano la religione tradizionale della Grecia classica, con la pallida Artemide e l’oracolo di Apollo; e poi una storia come quella di Eliodoro, che precipita con delirante dinamismo i suoi eroi da Delfi attraverso il Mediterraneo sino alle radici del culto del dio Sole nelle cittàsantuario del Sudan. Possiamo assimilare certe strutture narrative che accomunano i romanzi, ma non pensare che tutte queste opere — nonché, poniamo, le Metamorfosi di Apuleio — siano nate da una comune temperie ideale e religiosa. 4.4 Epica
È del tutto naturale pensare che il genere epico — cioè in particolare l’epica eroica, la poesia della grande tradizione omerica — abbia avuto profondi effetti sulla formazione di una narrativa romanzesca (cfr. supra il capitolo sull’Epica e poesia didascalica). La legittimità di questo rapporto non è contestata quasi da nessuno: i problemi nascono quando si cerca di precisarlo meglio. 3 Il determinismo storico-religioso di Merkelbach ha dato spunto in effetti a polemiche piuttosto feroci, e l'apparire di nuovi testi frammentari come i Phoinikiké o il “Romanzo di Iolao” ha aggiunto nuovi ambigui terreni di scontro. Gli scettici continuano a obiettare, con ingeneroso sarcasmo, che anche il teatro di Richard Wagner è pieno di stereotipi simbolici (eros, morte e risurrezione; luce e tenebra ecc.), ma che non per questo dobbiamo vederlo come espressione di culti segreti bavaresi del XIX secolo.
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Il fatto è che l’epica ha esercitato influssi su quasi tutti i generi letterari dell’antichità greco-romana: storiografia e tragedia, lirica corale, elegia, poesia comica, si sono tutti nutriti al banchetto di Omero. Rispetto agli altri generi, il romanzo può vantare un preciso titolo di affinità: il contenuto del romanzo è fiction, narrativa di invenzione che poi il narratore potrà, a suo talento e in rapporto con i gusti del pubblico, presentare a un diverso livello di veridicità. Non diverso, nel sistema letterario di età classica, è l’operare del poeta epico, anche se quest’ultimo è molto più condizionato dalla tradizione — che gli fornisce ad esempio i nomi dei suoi personaggi principali, e molto altro in più — e la narrazione epica tende a presentarsi sotto l’ambigua garanzia delle Muse. Questa somiglianza di fondo tra epos e romanzo sembra additare una continuità, che è anche continuità di bisogni: in forme diverse, epos e romanzo risponderebbero a un’esigenza di narratività, di fabulazione, che è profondamente sentita nel pubblico. Se poi si pensa che il declino dell’epica coincide grosso modo con la fase di ascesa del romanzo — diciamo cioè, ancora più grosso modo, la tarda età ellenistica (II-I secolo a.C.) — ecco pronte le coordinate di un’operazione di storiografia letteraria: il romanzo è la “nuova epica” adattata ai tempi in cui la narrazione di gesta eroiche non corrisponde più ai bisogni del pubblico; un genere narrativo che nasce appunto dalla degradazione dell’epica. Costruzioni di questo tipo sono tranquillizzanti per chi deve insegnare in poco tempo, per ampi scorci, la storia letteraria, ma possono anche ingenerare confusione. Un nuovo genere può sostituire certe funzioni di un altro nell’equilibrio complessivo del sistema culturale, senza che però tra vecchio e nuovo sussista un rapporto di filiazione diretta. Dire che il romanzo antico sia figlio o erede dell’epica è perciò un’affermazione non del tutto bugiarda, ma in ogni caso pericolosissima. Le cose cambiano se si guarda a eredità più concrete: tecniche e materiali del narrare. Da questo punto di vista sono possibili interessanti comparazioni. Prima che il romanzo dia segno di sé, l’epos già sperimenta quelle tecniche che renderanno possibile anche la narrazione romanzesca: il racconto eterodiegetico (in cui il narratore non partecipa all’azione narrata) e quello omodiegetico (il tipo, ad esempio, degli apologoi di Odisseo in Odissea 9-12), con tutte le gradazioni anche sottili che queste strategie comportano (distanza, punto di vista, ironia, manipolazioni del tempo e molto ancora). E chiaro che i romanzieri, soprattutto i primi romanzieri, avranno imparato moltissimo su testi come l'Odissea. E utile distinguere, almeno a grandi linee, diverse modalità di rapporti imitativi. L'Odissea poteva offrire, da un lato, come una riserva di materiali, di situazioni tipiche e riproducibili. Situazioni assai generiche — naufragi e prigionia, ad esempio — o più dense e specifiche: un eroe che circola in incognito, e che molti credono morto, è una situazione narrativa che sembra fatta apposta per i nuovi arsenali del romanzo. Queste situazioni portano con sé effetti narrativi, di tensione, di partecipazione, di ironia, che saranno preziosi nel romanzo almeno quanto lo erano nell’epica. Ma un testo come l’Odissea poteva offrire un telaio ancora più ampio e universalmente riutilizzabile. Sappiamo bene come è costruita
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l'Odissea: vicende ‘a casa’, senza l’eroe del racconto (i primi quattro libri, la cosiddetta Telemachia); vicende ‘fuori’, di cui l’eroe è protagonista e in parte anche narratore (libri 5-12); quindi, per l’altra metà del poema ‘vicende a casa” in cui l’eroe torna come prepotente figura centrale. Per tutta la struttura narrativa, un grande arco di tensione allontana e poi ricongiunge tra loro una coppia di sposi, Odisseo e Penelope, sinché alla fine (è questo, se non proprio la fine, almeno il fine, il telos a cui tende tutta la storia) essi saranno riuniti a riformare una regolare famiglia. Abbiamo visto che importanza ha questo schema di separazione-riunione per il romanzo greco: sarebbe troppo poco dire che è una situazione tipica, ricorrente; è piuttosto un grande schema formativo, su cui singoli episodi variabili e in sé conclusi possono poi andare a innestarsi (proprio come, in Omero, l'avventura del Ciclope o la storia della ferita di Odisseo). Possiamo essere certi che la popolarità e l’efficacia di questo schema narrativo devono molto all’Odissea; con un lieve ritocco (a essere impedito e differito è ora il matrimonio della coppia, non la riunificazione) si arriva recta via sino ai Promessi sposi. Naturalmente, l’Odissea non è tutta in questa storia: ma ogni trasformazione, se non è copiatura, seleziona e impoverisce il proprio modello. C'è un ultimo aspetto da non trascurare: l’epica offrì al romanzo non solo contenuti e schemi della materia narrativa, ma anche modi di raccontarla, di metterla in forma: potremmo dire che non fu solo un repertorio lessicale, ma anche una sintassi. Seguire questo aspetto ci costringerebbe a un’analisi troppo dettagliata. È più urgente far notare che tra epos e romanzo rimane un largo spazio differenziale, non facile da mediare. L’epica possiede un vasto apparato di convenzioni che il romanzo ignora: l’uso dell’esametro, lo stile tradizionale, l’elevatezza e la restrizione del contenuto (imprese eroiche, apparato mitologico, presenza delle divinità). Non sarebbe prudente immaginare dei concreti anelli di congiunzione: è ingenuo pensare che epiche romanzesche e romanzi epicheggianti abbiano mediato e reso quasi insensibile il trapasso. Si può solo far notare qualche sintomo. Il più celebre epos del periodo alessandrino, le Argonautiche di Apollonio Rodio, dà effettivamente spazio a un gusto che noi definiremmo romanzesco: nel poema circola amore, magia, e una gran varietà di avventure di viaggio. D’altra parte, uno dei più antichi romanzieri a noi noti, Caritone, ha una rilevante passione per le citazioni omeriche. Ma è un sintomo di collegamento che non va sovrainterpretato. Caritone scrive in un linguaggio senza pretese, piuttosto piatto, e non è così folle da pretendersi ‘erede’ di Omero; le citazioni omeriche spiccano nelle sue pagine per contrasto, come richiami di un modello traslato. È probabile che Caritone sentisse che la sua storia (cioè, proprio nel senso che dicevamo prima, le peripezie dei due coniugi separati) doveva facilmente ricordare l’Odissea; un testo che Caritone non vuole né parodiare (il romanzo non è comico o bassamente realistico, e i personaggi sono del resto figure del passato, di ottimo rango e di
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esemplare serietà), né ingenuamente continuare: si tratta solo di citazione e di omaggio *, che significa una distanza incolmabile. 4.5. Romanzo sofistico
Merita un posto a sé la teoria sostenuta alla fine del secolo scorso da Erwin Rohde: una spiegazione delle origini del romanzo tanto dotta e acuta che il suo tramonto, di cui vedremo tra breve le ragioni, ha proiet-
tato un certo disincanto su tutta la problematica “genetica”. (L’opera di Rohde, del resto, non ha perso ugualmente la sua utilità negli studi: è un tesoro di osservazioni e di confronti che orientano su molti lati poco esplorati della letteratura ellenistica.) Rohde si è distinto per aver proposto non tanto un genere quanto piuttosto un luogo formativo del romanzo: questo luogo dell’origine sarebbe stato l’ambiente della scuola di retorica. Con questo, Rohde si assicura d’incanto un bel vantaggio su ipotesi concorrenti, talmente distratte verso i problemi concreti di produzione e diffusione culturale da apparire, al confronto, quasi metafisiche. Qui davvero tocchiamo con mano un periodo storico ben preciso con la sua temperie culturale (la fioritura della seconda sofistica nel II secolo d.C.) e i suoi ambienti di produzione, e connessi canali di diffusione: l’insegnamento delle scuole di retorica, il gusto letterario atticista, la costruzione di storie immaginarie, quasi modelli-giocattolo su cui si esercitava la creatività e la sottigliezza del retore. Ed ecco, anche, me-
glio spiegate le particolarità letterarie di certi autori, il loro gusto per ambientazioni rétro e per uno stile a coloritura atticista. Senza negare gli influssi formativi di generi più antichi, tra cui soprattutto l’epica e l’elegia erotico-narrativa, Rohde metteva in luce con una mossa brillante il luogo di fusione in cui una giusta temperatura intellettuale produsse la nuova sintesi.
Una proposta così concreta e verificabile era, scientificamente parlando, gioco leale; ma così, fatalmente, fu anche più facile smontare le visi-
bili fondamenta dell’ipotesi. Gli ultimissimi anni del secolo affiancarono alla ricostruzione di Rohde, appena uscita, una nuova —
senso imbarazzante — documentazione. riversava
papiri
di
romanzi
mai
visti
e in un certo
L’Egitto, come abbiamo visto, prima;
e
un
significativo
spostamento di cronologia (cfr. supra, par. 1) fece slittare verso l’alto anche la datazione del già noto Caritone. La somma dei nuovi indizi suggeriva una notevole fioritura del romanzo già nel I secolo d.C. e probabilmente anche prima; e lo stile di quei testi non si armonizzava con il modello del romanzo “retorico” e “sofistico” di Erwin Rohde. Rimane gran merito di Rohde aver mostrato quante ramificazioni di temi ‘romanzeschi’ percorrano la cultura di età alessandrina, preparando il terreno al nuovo filone narrativo. Si pensi al gusto per narrazioni d’amore in forma di elegia, così tipico della tarda poesia alessandrina: in * Del tutto diversi sono i problemi suscitati dal Satyricon di Petronio nei suoi rapporti con l’epica.
358
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
questa tendenza rientravano anche dei veri e propri “temari” in prosa, raccolte di scheletriche narrazioni o insomma sceneggiature. Uno ne compose notoriamente, a uso dei letterati neoterici di Roma, il poeta greco Partenio di Nicea: le figure del mito sono colte in tormenti d’amore, intrighi e peripezie sensazionali. Senza più cercare una singola fonte o derivazione del romanzo, dobbiamo comunque accettare queste sceneggiature in prosa come una novità e un sintomo importante, giusto ai primordi del romanzo d’amore. 4.6. Historise
Il declino della spiegazione di Rohde fu affrettato da un’ipotesi concorrente, legata soprattutto a un insigne studioso di storia antica, Eduard Schwartz. Schwartz vedeva proprio nella storiografia il terreno di coltura decisivo. Gli elementi di continuità sono in effetti cospicui, e il collegamento si è arricchito, anche dopo l’intervento di Schwartz, di qualche anello mancante. Bisogna partire, naturalmente, da ciò che il genere storiografico rappresentava nella cultura antica: a parte autori per pochi eletti e che pochissimi davvero leggevano — come Tucidide — il genere è dominato da esigenze di intrattenimento e di fascino narrativo, che gli stessi storiografi non hanno alcuno scrupolo a teorizzare. Di qui, fra l’altro, la grande cura retorica per i discorsi, le lunghe scene ad effetto, certe curiosità etnografiche e naturalistiche, interessi per il patetico, il macabro, il leggendario e il sensazionale, il prevalere delle descrizioni sulle analisi. Più si insiste su questi pedali, più la narrativa di finzione sembra vicina, quasi un’altra applicazione della stessa ricetta. Altri indizi più minuti vengono dalla questione dei titoli: la gran parte dei romanzi che abbiamo possiedono delle forme di titolo esattamente parallele a quelle tipiche della storiografia, specie della storiografia locale. Nel tradurre, siamo noi a introdurre lé nostre distinzioni: così rendiamo un titolo storico, Sikeliké, con ‘Storia della Sicilia’,
e uno di romanzo, Phoinikiké ad esempio,
con ‘Storie fenicie’ ovvero ‘Le Fenicie’. (Secondo molti anche il titolo petroniano Satyrica contiene un riferimento a questo modulo tradizionale.) In alcuni casi, se i testi sono altrimenti ignoti, il genere rappresentato dal titolo è per noi del tutto indecidibile. Affine alla storiografia, ma di compasso più ridotto, è una produzione in prosa che tocca le vicende di privati cittadini: cronache templari e sacerdotali possono registrare casi notevoli e peripezie curiose avvenute in certi luoghi; le aretalogie, di cui possediamo varianti notevolmente diverse,
potevano
abbracciare
confessioni
autobiografiche
e rivelazioni
private. Più in generale, lo stesso sviluppo della biografia letteraria e dell'autobiografia abituava il pubblico a narrazioni in prosa legate alle vicende di un singolo protagonista e non sempre, certo, limitate alla facciata ‘pubblica’ degli eventi. Lo spazio di ciò che un antico poteva concepire come historia è insomma tanto ampio e prensile che il romanzo non ci appare più un fenomeno isolato. Abbiamo ora frammenti di romanzo — gli ‘anelli mancanti’ cui accennavamo poco fa — che calano
Il romanzo
359
personaggi indubbiamente storici, da storiografia illustre, come Nino, Semiramide, il faraone Sesoncosi, in tipiche situazioni da romanzo d’amore: e queste opere sono probabilmente tra la più antica narrativa romanzesca che ci sia testimoniata. Traguardata a questo livello, la distinzione fra historiae e romanzo rischia di diventare poco più di un affare terminologico. Quanto dista dal romanzo di Nino un’opera ‘storica’ di grande popolarità quale la Ciropedia di Senofonte? Ma il fatto è che la strada maestra del romanzo non sembra passare di qui. Una caratteristica non certo secondaria dei romanzi che abbiamo è che i protagonisti non sono personaggi storici, anche se possono essere, e spesso sono, persone di qualità e di rango. E la struttura narrativa tipica del romanzo non si spiega guardando alla prosa storica, biografica, cronachistica: è una struttura, un’economia narrativa che può restare quasi inalterata se mutano nomi e qualifiche dei personaggi. Qui poggia, come abbiamo visto, il nesso tra romanzo ed epica, e anche, come vedremo subito, tra il romanzo e un certo tipo di produzione teatrale. 4.7. Commedia Nuova
Sarà ormai chiaro, a questo punto, perché vogliamo occuparci di influssi formativi più che di ‘origini’ del romanzo: si è visto quanto restino parziali le singole spiegazioni di carattere genetico. Ma dev'essere altrettanto chiaro che non si può proporre meccanicamente una ricetta ‘mista’: sarebbe assurdo sostenere che i primi romanzieri hanno “preso” il tema d’amore dall’elegia, il telaio narrativo e lo schema del viaggio dall'Odissea, e inframezzato il tutto con materiali novellistici. Un compromesso fra tutte le spiegazioni è probabilmente la più brutta delle spiegazioni. Ma se parliamo di influssi, possiamo spingere il nostro interesse fino a un genere ancora più remoto di altri: non è in prosa, e neppure nar-
rativo; e difficilmente qualche autore di romanzo può averlo direttamente praticato. Torniamo, per l’ultima volta, al grande schema narrativo ‘odissiaco’: separazione-viaggi e peripezie-ricongiungimento finale. Abbiamo visto che la parentela con l’epica, sino a un certo punto, ‘tiene’. Ma si è intanto omessa una notevole differenza, di qualità più che costante in tutti i romanzi che abbiamo. Si tratta dei protagonisti e del loro destino: più esattamente, del rapporto che lega i protagonisti, l’azione del romanzo, e lo sviluppo del destino. Il grande spazio che hanno in Omero gli interventi divini sembra giocare a sfavore dell’individuo e della sua capacità di modificare il corso degli eventi: spesso il mondo della poesia arcaica greca può apparire soverchiato dall’apparato divino. In ogni caso, Penelope e Odisseo hanno buonissime ragioni, alla fine, per ringraziare la dea Atena: è lei che ha mosso tutto e questa divinità, non a caso, è il personaggio che ha l’ultima parola nel poema. Ma l’epos omerico rimane pur sempre narrazione di gesta: chi potrebbe negare la creatività autonoma, la combattività di
360
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
fronte al destino, l’energia mentale di personaggi come Odisseo e in certa misura anche Penelope? Per contrasto, i protagonisti tipici del romanzo greco ci appaiono segnati da profonda passività. Hanno deciso poco o nulla, se non di amarsi e di essere fedeli; il destino li sballotta tra mille avversità, e ogni volta la fortuna li libera (con un guizzo regolare e un po’ meccanico, come i diavoletti nella bottiglia). Questi eroi si dibattono e meditano, ma senza grandi risultati: spesso un tentativo di fuga fa precipitare in situazioni impreviste e ancora peggiori; altrettanto inatteso arriva poi il miglioramento della sorte. Sotto l’imperio di una Tyche astratta e capricciosa, i vari Anzia e Abrocome vivono avventure, ma non compiono gesta. Di questa Tyche sappiamo che è la più vera e sentita divinità della cultura ellenistica. Il suo correlato narrativo è appunto la passività dell’eroe: una qualità che ha un aspetto morale — perché implica un mondo vasto e incontrollabile, in cui l’iniziativa dell’individuo si smarrisce — e un aspetto funzionale: una certa passività dell’eroe è elemento funzionale di costruzione delle trame. Ci sono tipi di narrativa, antichi e moderni:
la milesia e il romanzo
picaresco,
Tom
Jones
o Amerika
o la
Storia Vera, in cui l’eroe ha soprattutto il compito di subire lo scorrimento delle avventure che gli precipitano incontro. Del resto in età ellenistica (cfr. supra il capitolo sulla Poesia ellenistica) anche l’epica, con Apollonio Rodio (III sec. a.C.), comincia a esibire un eroe stranamente inattivo e bloccato, per lo più dipendente dagli altri: Giasone, in questo senso, somiglia pochissimo a Odisseo. Questi ‘eroi che subiscono’ sono insomma un vero segno dei tempi: chi subisce e fa resistenza potrà essere il casto eroe di un romanzo greco idealizzato; ma se la passività diventa complice, disponibile, curiosa e amorale, ecco aperta la via pica-
resca di avventurieri come Encolpio o Lucio.
E probabile che la “Commedia Nuova” ateniese abbia contribuito molto a queste atmosfere (cfr. supra il capitolo sul Teatro). Questo genere di commedia sperimenta il dominio della Tyche nella cerchia ristretta di famiglie borghesi; c’è poco spazio per i sapori forti della narrativa sensazionale. Ma una somiglianza di fondo rimane. Il canovaccio più tipico della commedia vuole che, alla fine, sia riunito e premiato l’amore di due giovani. Ma prima, lungo traversie, peripezie e ritardi che danno sostanza all’azione scenica, questi eroi, gli innamorati, hanno ben poca iniziativa. Una combinazione
di eventi, su cui i protagonisti hanno po-
chissimo gioco libero, li toglierà dai guai. Prima della liberazione finale, capita spesso che si viva ‘fuori posto’: c'è chi, per non voluta somiglianza, viene scambiato per un altro, chi invece camuffa la propria identità; trovatelli e trovatelle hanno perso qualsiasi contatto con le loro vere origini; mercanti e viaggiatori non sanno bene cosa li aspetta dopo lunga assenza; persone libere, in balia al destino, sono state vendute come schiave; e qualcuno creduto morto ritorna, dopo prematuri necrologi. Sembra che in questi normalissimi scenari di città le persone soffrano una crisi, spesso una perdita di identità o di ruolo. Insicurezza,
spiazzamento,
equivoco;
finte
morti
e
false
nascite,
scambi di persona e mutamenti di classe sociale: sono sensazioni e situa-
Il romanzo
361
zioni che il romanzo riprende solo per sperimentarle su una scala diversa. Fuori dagli stretti orizzonti della città greca tradizionale, il romanzo proietta i suoi eroi sulle rotte del grande mondo ellenistico: come se volesse adeguare insicurezze e sorprese all’aprirsi di un nuovo orizzonte cosmopolita. La ragazza che vi ha affascinato alla festa di Apollo delfico può non essere la figlia del vicino di casa ma più romanzescamente — lo mostra Eliodoro — la figlia perduta dei re d’Etiopia. Bibliografia Orientamenti generali
Una collezione affidabile di testi romanzeschi in italiano è quella curata, con ampia significativa introduzione, da Q. Cataudella, // romanzo antico greco e latino, Firenze 1973 (non comprende testi ‘di confine’, cristiani e bizantini, e frammenti di romanzo classico apparsi più di recente); cfr. adesso anche i volumi di vari autori Storie d'amore antiche, Bari 1987, con introduzione di L. Can-
fora, e Storie d’avventura antiche, Bari 1987. Come introduzione generale si può vivamente consigliare T. Higg, The Novel in Antiquity, Oxford 1983 (una guida lucida e approfondita, con bibliografia sistemata criticamente); inoltre, N. Holzberg, Der antike Roman, München 1986, e ultimamente in italiano 1! romanzo greco. Guida storica e critica, a cura di P. Janni, Roma-Bari 1987 (raccolta di
saggi con introduzione generale). Complementi alla trattazione
1. Per il “Naufragio sul Nilo” cfr. H. Whitehouse, Shipwreck on the Nile: A Greek Novel on a ‘Lost’ Roman Mosaic?, in “Amer. Journ. Arch.”, 89, 1985, pp. 129 ss. Collezioni di testi frammentari sono: B. Lavagnini, Eroticorum Graecorum fragmenta papyracea, Leipzig 1922; F. Zimmermann,
Griechische Roman-
Papyri und verwandte Texte, Heidelberg 1936 (su questi testi cfr. soprattutto R.M. Rattenbury, Romance: Traces of Lost Greek Novels, in J.U. Powell (ed.), New Chapters in the History of Greek Literature, Oxford 1933, pp. 211 ss.). Per il romanzo di Sesoncosi cfr. soprattutto S. West in The Oxyrhynchus Papyri, vol. 47,
London
1980
(n.
3319);
per
‘Metioco
e
Partenope’,
H.
Maehler,
in
“Zeitschr. Pap. Ep.”, 23, 1976, pp. 1 ss. La trattazione generale di Hägg è aggiornata a tutte le scoperte degli anni più recenti. Cfr. anche D. Del Corno, La letteratura popolare nei papiri, in Proceedings XIV Intern. Congress of Papyrolo-
gists, London 1975, pp. 79 ss. 2. Opere di riferimento generale sono B.E. Perry, The Ancient Romances, Berkeley-Los Angeles 1967; B.P. Reardon, Courants littéraires grecs des IF et IIF siècles après J.C., Paris 1971; BE. Reardon (ed.), Erotica Antiqua, Bangor 1977. 3. Per Lolliano & fondamentale l’edizione di A. Henrichs, Die Phoinikika des Lollianos, Bonn 1972; nella bibliografia successiva si segnala J.J. Winkler, Lollia-
nus and the Desperadoes, in “Journ. Hell. Stud.”, 100, 1980, pp. 155 ss. Sulla narrativa comica cfr. p.es. G. Anderson, Studies in Lucian’s Comic Fiction, Leien 1976.
4.1. Il legame storico fra novella e romanzo è trattato (in una prospettiva oggi superata) da O. Schissel von Fleschenberg, Entwicklungsgeschichte des griechischen Romanes im Altertum, Halle 1913. I testi novellistici sono comodamen-
362
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
te raccolti, con importante introduzione storica, da Q. Cataudella, La novella greca, Napoli 1957. Cfr. anche F. Wehrli, Einheit und Vorgesthichte der griechisch-römischen
Romanliteratur,
in “Mus.
Helv.”, 22,
1965, pp.
133 ss., e so-
prattutto S. Trenkner, The Greek Novella, Cambridge 1958. 4.2. Tra le varie ‘agnizioni’ che suggeriscono fonti orientali per il romanzo antico si può segnalare p. es. F. Dornseiff, Petron und 1001 Nacht, in “Symb. Osl.”, 18, 1938, pp. 50 ss. Oggi la teoria dell’influsso da Oriente è stata riproposta con notevole audacia da G. Anderson, Ancient Fiction, London-Sydney-Totowa 1984. L’influsso greco sulla narrativa arabica è stato analizzato soprattutto dall'arabista G.E. von Grunebaum, di cui cfr. soprattutto {slam and Medieval Hellenism, London 1976. La questione è stata riesaminata con novità di risultati da T. Higg, The Oriental Reception of Greek Novels, in “Symb. Osl.”, 61, 1986,
pp. 99 sgg. L'impulso ‘egiziano’ è stato argomentato da J.W.B. Barns, in Akten des VIII intern. Kongr. für Papyrologie, Wien 1956, pp. 29 ss.; cfr. anche Reardon, Courants cit., pp. 327 ss. 4.3. Di K. Kerényi, Die griechisch-orientalische Romanliteratur, dopo la prima ediz., Tübingen 1927, esiste una seconda, Darmstadt 1962, con postfazione e aggiornamenti dell'autore. Il carteggio con Mann è tradotto in italiano col titolo Romanzo e mitologia, Milano 1954. Dopo il suo libro Roman und Mysterium in der Antike, Miinchen-Berlin 1962, Merkelbach ha pubblicato altri interventi nello stesso senso (cfr. p. es., sul ‘Romanzo di lolao’, in “Zeitschr. Pap. Epigr.”, 11, 1973, pp. 81 ss.). Della cultura misterica nel romanzo di Apuleio torniamo ad occuparci in AA.VV., Introduzione allo studio della letteratura latina, in preparazione per La Nuova Italia Scientifica (lì anche indicazioni sul Lucio e questioni connesse).
4.4. Sulla continuità epos-romanzo cfr. soprattutto Perry, The Ancient Romances, cit., pp. 44 ss. Per una comparazione delle tecniche narrative (il terreno d’indagine più fruttuoso) cfr. soprattutto T. Hägg, Narrative Technique in Ancient Greek Romances, Stockhoim 1971. Sulle citazioni omeriche di Caritone cfr. C.W. Mueller, Chariton von Aphrodisias und die Theorie des Romans in der Antike, in “Antike und Abendland”, 22, 1976, pp. 115 ss. 4.5. E. Rohde, Der griechische Roman und seine Vorlaüfer, apparve nel 1876; dalla 3* ed. in poi con addenda di W. Schmid (1914); dalla 4° anche di
K. Kerényi (1960); si ha ora la 5°, Darmstadt 1974. Cfr. anche G. Giangrande, On the Origins of the Greek Romance: the Birth of a Literary Form, in “Eranos”, 60, 1962, pp. 132 ss. Tuttora utili gli studi complessivi di A. Calderini, introduzione a Caritone, Le avventure di Cherea e Calliroe, Torino
1913, pp.
1 ss.; B.
Lavagnini, Studi sul romanzo greco, Messina-Firenze 1950. Sul clima culturale della seconda sofistica cfr. G.W. Bowersock, Greek Sophists in the Roman Empire, London 1969. 4.6. Da vedere soprattutto E. Schwartz, Fünf Vorträge über den griechischen Roman,
1896); Berlin
1943?; inoltre, M. Braun, History and Romance
in Grae-
co-Oriental Literature, Oxford 1938; F.R. Adrados, The “Life of Aesop” and the Origins of Novel in Antiquity, in “Quad. urb. cult. class.”, 30, 1979, pp. 93 ss. 4.7. Dei rapporti tra romanzo e Néa si occupa specificamente C. Corbato, in “Quad. Triest. Teatro Ant.”, 1, 1968, pp. 5 ss. Un meditato confronto è sviluppato da B.P. Reardon, The Greek Novel, in “Phoenix”, 23, 1969, pp. 291 ss.
Indice degli autori antichi
Achille 353
Tazio
(II
d.C.),
342-5,
350,
a.C.), 19, 71-2, 320, 325
Acusilao di Argo (V a.C.), 24 Agatarchide di Cnido (prima metà II a.C.), 223, 230, 240 Agatia (VI d.C.), 326-7
Agatocle di Cizico (III a.C.), 193 Agatone (seconda metà V a.C.), 209 Agia di Trezene (III a.C.?), 22
Agone
Antimaco di Colofone (prima metà IV
di Omero
e Esiodo
(II d.C.),
22, 35-6 Alceo (VII-VI a.C.), 87, 94, 105, 1078, 321 Alcidamante (IV a.C.), 36, 214, 217, 237, 240 Alcinoo (II d.C.), 276 Alcmane (VII a.C.), 100, 110, 112-4 Alcmeone di Crotone (VI-V a.C.), 258 Alessandro di Afrodisia (II-III d.C.), 275 Alessandro di Cotieo (II d.C.), 248 Alessandro di Numenio (II d.C.), 249 Alessandro Etolo (III a.C.), 293 Alessandro Polistore (I a.C.), 195 Ammiano Marcellino (330 ca.-400 ca. d.C.), 201 Anacreonte (VI a.C.), 108-9, 321, 325-6 Anassagora (V a.C.), 258 Anassimandro (prima metà VI a.C.), 257 Andocide (seconda metà V a.C.), 212 Andronico di Rodi (I a.C.), 268, 275 Androzione (IV a.C.), 185, 215
Anite di Tegea (IV-III a.C.), 323-4 Anonimo del Sublime (I d.C.), 26, 96, 114, 233, 235-6, 240-4
Anonimo Segueriano (III d.C.?), 249 Antifonte (V a.C.), 226, 229, 242
146, 208-12, 215,
Antipatro di Sidone (II a.C. ca.), 326 Antistene (V-IV a.C.), 24, 214, 266, 275 Antonino Liberale (VI d.C.), 321 Antonio Diogene (fine I d.C.), 346-7 Apollodoro (IV-III a.C.), 318
262, 342,
Apollodoro di Atene (II a.C.), 41 Apollodoro di Pergamo (I a.C.), 240, 243 Apollonio di Perge (HI a.C.), 270, 281
Apollonio l’Eidografo (fine III a. C.), 289, 313
Apollonio
Malakòs
(seconda
metà
II
a.C.), 233
Apollonio Molone (prima metà I a.C.), 227, 231, 233-4
Apollonio 289, 360
Rodio
300,
(III a.C.),
308-9,
312-7,
19, 319,
70, 356,
Appiano (II d.C.), 199-200 Apuleio (II d.C.), 342, 345, 347-8, 350, 353 Arato di Sicione (III a.C.), 187-9, 192 Arato di Soli (310 ca.-240 a.C.), 62, 272, 290-1, 295, 317 Arcesilao di Pitane (III a.C.), 272 Archiloco (VII a.C.), 83, 85-7, 91-9, 103, 106-7, 316, 324 Archimede (2877-212 a.C.), 270-1, 281 Archita di Taranto (prima metà IV a.C.), 260 Arctino di Mileto (VII a.C.?), 22 Arellio Fusco (seconda metà I a.C.), 234
Areo (I a.C.), 227 Arione (VII-VI a.C.), 105
364
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Aristarco
di
Samo
(prima
metà
III
a.C.), 271-2
Aristarco di Samotracia
(215 ca.-144
Berosso Caldeo (III a.C.), 187 Bione (fine | a.C.), 311 Bruto (I a.C.), 232, 235, 239
ca. a.C.), 24, 54-5, 70, 289, 311
Aristea di Proconneso
(VI a.C.?), 24, Calidio (I a.C.), 239 Callimaco (320 ca.-240 ca. a.C.), 22, 33, 98, 239, 272, 275, 291-305, 309-10, 312-5, 317-20, 323-5 Callino (VII a.C.), 22, 94, 99-100, 103 Callistene di Olinto (IV a.C.), 186, 188 Calvo (I a.C.), 235, 237, 239
71
Aristea, lettera di (Il a.C.), 187 Aristide di Mileto (II a.C.), 350
Aristippo di Cirene (435 ca.-post 366 a.C.), 262 Aristobulo di Cassandrea 186 Aristocle (I a.C.), 231
(IV
a.C.),
Carcino
Aristocle di Pergamo (II d.C.), 248 149-57,
159-60,
176,
Aristofane di Bisanzio (265 ca.-190 ca. a.C.), 54, 70, 289, 293 Aristogitone (IV a.C.), 212, 217 Aristonico (I a.C.-I d.C.), 54-5 Aristosseno di Taranto (IV a.C.), 270, 273-4
Aristotele (384-322 a.C.),
15, 18, 20,
22-4, 32, 35, 62-3, 71, 84, 86, 92-3, 95, 104, 148, 182-3, 185, 188, 20710, 214-6, 219-27, 234, 236, 240, 247, 257, 261, 266-72, 274-5, 281-3, 293, 300, 312
Arriano
di Nicomedia
(II d.C.),
Cercida di Megalopoli (Ill a.C.), 319
199-
Artamene (II-I a.C), 231
di Tarso
(prima
metà
I
a.C.), 305
Asclepiade di Mirlea (I a.C.), 172
_
Asclepiade di Samo (IV-III a.C.), 323, 325
Asinio Pollione (76 a.C.-4 d.C.), 235 Asio di Samo (VII-VI a.C.), 71 Atenagora (II d.C.), 343 Ateneo di Naucrati (II-III d.C.), 23,
a.C.?),
Cesare (100-44 a.C.), 187
200, 277
Artemidoro
(VII-VI
71 Carisio (fine IV a.C.), 231 Caritone di Afrodisia (I o II d.C.), 341, 343-4, 348, 350, 356 Carneade (Il a.C.), 272 Cassio Dione (I-II! d.C.), 200-1 Castore di Rodi (I a.C.), 195 Catullo (84-47 a.C.), 303 Cecilio di Calatte (I a.C.-I d.C.), 227, 236-44 Cefisodoro (IV a.C.), 216
Aristofane (445?-380? a.C.), 62, 124-5, 141, 145-7, 216, 350
di Naupatto
Cestio Pio L. (seconda metà I a.C.), 234 Cherilo di laso (IV a.C.), 317 Cherilo di Samo (V a.C.), 71 Chorizontes, 23, 26, 55 Cicerone (106-43 a.C.), 23, 62, 209, 216, 220, 223-5, 227-8, 230-3, 235, 237-9, 241, 243, 269, 280, 303, 317 “Ciclo epico”, 19-27, 33-5, 50, 59, 69-71 Cinetone spartano (VII o VI a.C.?), 22, 71 cinici, 274, 277, 279 Cleante di Asso (fine IV-II a.C.), 272 Cleidemo di Atene (IV a.C.). 185
35, 305, 316, 319, 321
Ateneo retore (II a.C.), 227, 232
Cleocare
attidografi, 185
a.C.), 232 Cleone (seconda metà V a.C.), 216 Clodio Sabino {seconda metà I a.C.), 234 Colote (IV-III a.C.), 273 Corace (prima metà V a.C.), 207-10 Coricio di Gaza (VI d.C.), 229 Costantino Cefala (IX-X d.C.), 326
Autolico
di
Pitane
(seconda
metà
IV
a.C.), 270 Avieno (IV d.C.), 317
Bacchilide (fine VI-V a.C.), 83, 92-3, 110-1, 113, 116-8, 207 Batracomiomachia, cfr. “Omero minore”
di
Costituzione
Mirlea
degli
metà V a.C.), 178
(prima
Ateniesi
metà
III
(seconda
Indice degli autori antichi
Cratete di Tebe (IV-III a.C.), 274 Cratippo (V-IV a.C.?), 180 Cratone (seconda metà I a.C.), 238 Creofilo di Samo (VI a.C.?), 22, 24, 71 Crisippo di Soli (III a.C.), 272, 276-7 Crizia (460-403 a.C.), 86-7, 93-4 Ctesia di Cnido (V-IV a.C.), 182 Ctesibio (III a.C.), 271 Demade (IV a.C.), 212, 216-7 Demetrio di Scepsi (II a.C.), 193 Demetrio Falereo (IV-HI a.C.), 219, 229, 238, 289 Democare
25,
(metà IV-275 ca. a.C.), 231
Democrito (V a.C.), 258, 274-5, 293 Demone (IV-II a.C.), 185 Demostene (384-322 a.C.),
211-2,
236,
d.C.),
a.C.), 180 Empedocle (V a.C.), 62, 207-8, 258-9 Epicarmo (prima metà V a.C.), 207 Epicuro (341-270), 273-4, 277-8, 280-1, 290
Epimenide (VI a.C.), 71 Epitteto (I d.C.), 257, 277 Eraclito (VI-V a.C.), 257-9, 275 Eratostene di Cirene (III a.C.), 41, 45, 272, 289, 312-3 Erinna di Telo (IV a.C.), 322 (II a.C.),
Ermesianatte
Diogene di Apollonia (V a.C.), 258 Diogene di Enoanda (Il d.C.), 273
Diogene di Sinope (IV a.C.), 274, 278 Diogene Laerzio (III d.C.), 207-8, 224, 279-80
Diomede grammatico (IV d.C.), 62 Dione Cassio (fine Il-prima metà III d.C.), 235
(40/50-post.
181
223,
226-8,
232,
239, 250
Diodoro Siculo (I a.C.), 172, 184, 195 Diodoro Zonàs (H-I a.C.), 232 Diofanto (III d.C.), 281
Prusa
(117-post
Elleniche di Ossirinco (prima metà IV
Ermagora
Dinarco (metà IV-290 ca. a.C.), 212
di
Aristide
198-9, 244, 246-8 Eliodoro (III o IV d.C.), 341-5, 350, 353-4, 361 Ellanico di Lesbo (V a.C.), 24, 71, 174, 185 Ellanico grammatico (HI-H a.C.), cfr. Chorizontes
Erasistrato (III a.C.), 271, 281
216-20, 227, 229-30, 232-3, 240-3, 248, 250 Dexippo (III d.C.), 201 Dicearco (IV a.C.), 183-4 Didimo (I a.C.-I d.C.), 54
Dione
Elio
365
112
d.C.), 244-5, 278
Dionigi di Alicarnasso (seconda metà I a.C.), 174, 179, 195-9, 213, 217, 224-7, 230-1, 233-44, 250 Dionisio Trace (II a.C.), 233
Dioscoride (seconda metà I d.C.), 281 Duride di Samo (IV-IH a.C.), 188
(prima
metà
III
a.C.),
320-1 Ermogene (161-240 ca. d.C.), 224, 227, 249-51 Eroda (III a.C.), 308, 311-2 Erode Attico (101-177/9 d.C.), 245, 248 Erodiano grammatico (II d.C.), 55 Erodiano retore (?), 232 Erodiano storico (II-III d.C.), 201 Erodoto (485 ca.-425 ca. a.C.), 22-4, 35, 41, 61, 173-5, 179-83, 207, 263, 350 Erofilo (III a.C.), 271 Erone (I d.C.), 271
Eschilo (525 ca.-456 a.C.), 20, 12434, 140, 142, 146, 149, 151, 207, 240, 244 Eschine (IV a.C.), 211-2, 216, 218-20, 229-30, 233, 241-3 Esiodo (VIII-VI a.C.), 19, 24-6, 36, 50, 54, 61-71, 85-6, 90, 93, 96-7, 101-4, 115-6, 172, 259, 272, 299, 317, 321
Ecateo di Abdera (seconda metà IV-Ill a.C.), 187 Ecateo di Mileto (VI-V a.C.), 24, 172-3 Edilo di Samo (III a.C.), 325
Eforo (IV a.C.), 181, 215 Egesia (IV-III a.C.), 230-1, 240
Egesianatte (II a.C.), 193
Esopo (VII-VI a.C.), 261 Euclide di Alessandria (III a.C.), 260, 267, 270-2, 281, 284 Euclide di Megara (V-IV a.C.), 262 Eudemo di Rodi (IV-III a.C.), 233, 269 Eudosso di Cnido (IV a.C.), 270, 272, 317
366
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Euforione (Ill a.C.), 290, 303
Eugammone di Cirene (VI a.C.?), 22, 27,71 Eumelo di Corinto (fine VIII-VII a.C.?), 71 Eunapio di Sardi (IV-V d.C.), 279 Euripide (485 ca.-406 a.C.), 134, 51, 159, 220, 244, 272
Eusebio
di Cesarea
(265
140-
ca.-339
ca.
Ibrea di Milasa (I a.C.), 232 lerocle di Alabanda (inizio
1 a.C.),
230-1
Ieronimo di Cardia (IV a.C.), 190 leronimo di Rodi (III a.C.), 219 Imerio (IV d.C.), 229 Inni omerici, cfr. “Omero minore” lone di Chio (V a.C.), 244, 258, 302 Iperide (390-322 a.C.), 212, 215, 230-1, 233, 241
d.C.), 26, 199, 216
Eustazio di Tessalonica (XII d.C.), 55 Eutocio (VI d.C.), 281
Ipparco di Nicea (Il a.C.), 271, 280 Ippia di Elide (seconda metà V a.C.), 237, 244, 262, 264
Ippocrate di Chio (V a.C.), 260 Ippocrate di Cos (V a.C.), 260-1, 281-2
Fanocle (III a.C.), 321-2 Fanodemo (IV a.C.), 185
Ipponatte
Favorino (80 ca.-150 ca. d.C.), 244
Filagrio (II-I a.C.?), 231 Filarco (III a.C.), 188-9, 192, 240 Filippo di Amfipoli (IV d.C.?), 342 Filisco (IV a.C.), 215 Filita di Cos (IV a.C.), 300, 304, 320-1, 325 Filocoro (IV a.C.), 185 Filolao di Crotone (V a.C.), 260 Filone Alessandrino (I a.C.-1 d.C.), 197, 199, 283 Filostrato (II-HI d.C.), 230, 244-9, 279 Fozio (IX d.C.), 21, 232, 240, 343, 346-7 Frontone (II d.C.), 279 Galeno (Il d.C.), 271, 281-2 Germanico (I a.C.-I d.C.), 317 Giamblico (275-330 ca. d.C.), 283-4, 342-3, 347, 350, 353 Girolamo (IV d.C.), 234 Giuliano Imperatore (331-363 d.C.), 95 ‘ Giuseppe Flavio (I d.C.), 24, 197-9 Gorgia di Atene (seconda metà I a.C.), 230, 232 ‘.
di
Lentini
(480
ca.-375
ca.
a.C.), 24, 145, 207-10, 212, 214, 237, 239-40, 244, 262-3, 270, 279 Gregorio di Nazianzo (329/30-390/91 d.C.), 327
Ibico (VI a.C.), 107-9, 117
a.C.),
87,
96-8,
301,
Iseo (prima metà IV a.C.), 212, 217
Filippo di Tessalonica (I d.C.), 326-7
Gorgia
(VI
311, 324 Isocrate (436-338 a.C.), 180, 196, 209-10, 212-6, 218-9, 224-5, 241-2, 266, 273
185, 222,
Leonida di Taranto (III a.C.), 323-4 Lesche di Mitilene (VII a.C.?), 22 Libanio (IV d.C.), 229 Licimnio (V-IV a.C.), 215 Licofrone (III a.C.), 293 Licurgo (inizio IV-324 a.C.), 212, 215, 220 Lino, 24
Lisia (445 ca.-380 ca. a.C.), 207-8, 210-4, 231, 240, 242-3 Livio (59 a.C.-17 d.C.), 194, 197 Lolliano Ordeonio di Efeso (II d.C.), 249, 344, 347, 354 n
Longo (seconda metà II d.C.), 342-4, 346 n, 353 Luciano (115/125-post 180 d.C.), 199, 244, 247-8, 278-9, 346-8, 360 Lucilio (180-103 a.C.), 302 Lucrezio (96-53 a.C.), 62
Manetone (III a.C.), 187 Marcellino (V-VI d.C.), 227 Marco Aurelio (121-180 d.C.), 279 Margite, cfr. “Omero minore” Marmor Parium, 41 Megaclide (IV a.C.), 70 Megastene (IV-III a.C.), 187
Melanzio (IV a.C.), 185 Meleagro (I a.C.), 323, 326-7
Indice degli autori antichi Melisso di Samo (V a.C.), 260 Menandro (342-293 ca. a.C.), 231, 292
157-61,
Menecle di Alabanda (inizio II a.C.), 229, 231, 233 Menedemo (I a.C.), 232
Menippo di Gadara (III a.C.), 247 Menone (IV-III a.C.?), 269
Metrodoro di Scepsi (I-I a.C.), 195 Mimnermo
(VI a.C.), 100, 300
Mnesiepes (III a.C.), 95 Mosco (II a.C.), 311 Museo, 24, 55, 62
Musonio Rufo (I d.C.), 277
Pausania 317
(II
d.C.),
22,
25,
367
27,
185,
Pericle, oratoria di (490 ca.-429 a.C.), 210, 213, 216 Petronio (2-66 d.C.), 342, 345, 348, 350-1, 357n, 358 Pindaro (520 ca.-440 ca. a.C.), 83, 86-7, 93, 95, 110-1, 113, 116-8, 207, 293 Pirrone di Elide (360-271 a.C.), 272, 280 Pitagora (VI a.C.), 259-60, 273-4, 279, 283-4 Pitea (seconda metà IV a.C.), 212, 217
Naucrate (IV a.C.), 215, 225, 227 Nearco (seconda metà IV a.C.), 187 neoplatonici, 275, 279, 282-4 Nicandro (II a.C.), 317-8
Nicanore (II d.C.), 55 Niceforo Basilace (XII d.C.), 227 Niceta di Smirne (I d.C.), 230 Nicola Damasceno (I a.C.), 197, 199
Nonno di Panopoli (V d.C.?), 19 Nosside (300 ca. a.C.), 323-4
Planude, Massimo (1255 ca.-1305), 327 Platone (428-348 a.C.), 15-6, 22, 62, 71, 84, 98, 101, 178, 183, 208, 210-4, 216, 221-2, 241-3, 245, 257-8, 262-7, 273-9, 281-4, 322 Plinio il Giovane (61-112 d.C.), 305 Plinio il Vecchio (23 ca.-79 d.C.), 225, 346 Plotino (205-270 d.C.), 257, 282-3 Plutarco (40 ca.-120 ca. d.C.), 64, 104, 198, 212, 217-8, 237, 242, 269, 272, 277-8, 280
Omero (VIII a.C.?), 13-62, 66-71, 85, 89, 93, 96-7, 101, 116, 128, 130, 135, 139, 172, 235, 242, 259, 272, 304, 314, 316, 321, 346, 355-6, 359-60 “Omero minore”, 23, 26, 33-5, 50, 70-1 Omero, Vite di, 22-5, 35-6 Onesicrito (IV a.C.), 186
Oppiano
di Anazarbo
(II-IIl d.C.?),
318
Oppiano di Apamea
(inizio HI d.C.),
318
Polemone Ateniese (IV a.C.), 290 Polemone di Laodicea (88 ca.-144 d.C.), 244
Polibio (220 ca.-post 120 a.C.), 177-8, 181,
183,
187-94,
196,
198,
229,
234, 240 Policrate di Atene (metà V-370 a.C.), 214, 262 Polo (seconda metà V a.C.), 207, 209 Porfirio di Tiro (234 ca.-305 d.C.), 275, 282-3
Posidippo di Pella (III a.C.), 323, 325 Posidonio (135 ca.-50 a.C.), 187, 190, 193-4, 196, 233, 275 Potamone (I a.C.), 232
Orazio (65-8 a.C.), 107, 114, 317
Orfeo, 24, 33, 62, 70, 259 Origene (185-254 d.C.), 199
Prassifane (III a.C.), 233, 300
Proclo (?), 19, 21-3, 33, 35 Proclo (V a.C.), 275, 281, 284, 294 Pamfilo (Il a.C.), 232 Pammene (I a.C.), 232
Procopio di Cesarea (VI d.C.), 202
Panezio (185 ca.-109 a.C.), 192, 233 Paniassi di Alicarnasso (V a.C.), 71
Protagora (V 264, 274
Pappo (IH-IV d.C.), 281
Pseudo-Longino, cfr. Anonimo del Su-
Parmenide (V a.C.), 62, 258-60 Partenio di Nicea (I a.C.), 239,
blime Pseudo-Senofonte,
358
Prodico di Ceo (V a.C.), 215, 264
321,
degli Ateniesi
a.C.),
142,
cfr.
209,
262,
Costituzione
368
DA OMERO AGLI ALESSANDRINI
Quintiliano (I d.C.), 114, 216, 224, 226-8, 233, 239, 241,
220, 244,
Solone (640 ca.-post 561 a.C.), 100-1,
103-5, 210 Sopatro (IV d.C.), 226, 229
249
Quinto di Smirne (IV d.C.), 19
Sorano di Efeso (II d.C.), 281 Sotade (III a.C.), 318-9
Rhetorica ad Alexandrum (seconda metà IV a.C.), 220, 222 Rhetorica ad Herennium (inizio | a.C.), 220 Riano di Creta (IH a.C.), 19, 317 Rintone (HI a.C.), 324 Romanzo di lolao, 348, 354 n
Speusippo (IV a.C.), 290
Sozione (II a.C.), 279
Romanzo di Metioco e Partenope (?), 342 Romanzo di Nino (Il-l a.C.), 344, 359 Romanzo di Sesoncosi (?), 342 Rutilio Lupo (I d.C.), 230, 232
342,
Stasino di Cipro (VIII o VII a.C.?), 22 Stesicoro (630 ca.-555 ca. a.C.), 19, 70, 99, 110, 114-5 Stobeo (V d.C.), 224, 319 stoici, 224, 272-4, 276-80 storici di Alessandro, 185-6 Strabone (I a.C.-I d.C.), 187, 198, 230, 232, 237 Stratone di Lampsaco (ill a.C.), 290 Suda, cfr. Suida Suida (X d.C.), 22-3, 35-6, 249, 312 Svetonio (I-Ii d.C.), 234-5
Saffo (VII-VI a.C.), 94, 105-9, 242, 321, 324 Sallustio (86-35 a.C.), 176, 194 scettici, 272, 276, 280 Semonide di Amorgo (VII-VI a.C.), 96-7 Seneca (5-65 d.C.), 276
Tacito (I-II d.C.), 194, 198, 201, 226, 235 Talete (VI a.C.), 301 Techne prearistotelica, 208-11, 213, 219-21 Temistocle (V a.C.), 210
Seneca
Teocrito (300 ca.-270 ca. a.C.), 291-2,
retore
(seconda
metà
I a.C.),
228-30, 232, 234, 237-8 Senocle di Adramittio (II-I a.C.), 232 Senocrate (IV a.C.), 290
Senofane (VI a.C.), 62, 173, 258-9 Senofonte (428 ca.-354 ca. a.C.), 180, 245, 262-4, 277, 279, 359 Senofonte Efesio (II d.C.?), 341-4, 353 Sesto Empirico (seconda metà II d.C.), 227, 269-70 “Settanta”, 187 Simonide di Ceo (metà VI-468 ca. a.C.), 83, 110, 115-6, 118, 207, 293, 322
Simplicio (III d.C.), 275 215,
262-5, 273-4, 277-8, 321 sofisti, 145, 209, 215, 261-3, 266, 279 sofistica, seconda, 231, 245-6, 341, 357 Sofocle (496-406 a.C.), 19, 31, 13342, 144, 146, 149-50,
a.C.), 243
Teofrasto (371-287 a.C.), 181-3, 212, 218-9, 222-5, 240, 269-70, 290
Teognide (VI a.C.), 94, 101-3 Teone (I d.C.), 227, 233, 305
Teopompo
(seconda
metà
IV
a.C.),
181, 215, 225, 273 Terpandro (VII a.C.), 105 Tesprotide, 27 Testoride di Focea (?), 22, 24
Sisenna (118 ca.-67 a.C.), 350 Socrate (469-399 a.C.), 180,
Sofrone (V a.C.), 207
296, 304-15, 318-20, 325 Teodette (IV a.C.), 215, 224-5 Teodoro di Bisanzio (seconda metà V a.C.), 210, 212 Teodoro di Gadara (seconda metà I
153, 244
Timagene (I a.C.), 196 Timeo di Tauromenio (IV-IIl a.C.), 189-91 Timone di Fliunte (IV-III a.C.), 272 Timoteo (V-IV a.C.), 105 Tirteo (VII a.C.), 94, 99-100, 103, 272 Tisia (V a.C.), 207-10, 212-3 Tolemeo, Claudio (II d.C.), 271, 280
Indice degli autori antichi Tolomeo 186-7
I Soter
(367/6-283/2
a.C.),
Tractatus de comoedia, 62 Trasillo (I d.C.), 275 Trasimaco di Calcedone (seconda metà V a.C.), 209, 211, 225 Tuberone Q. Elio (I a.C.), 236 Tucidide (ante 454-post 404), 174-80, 183, 191-2, 208, 214, 237, 241-2, 263, 358
218,
Valerio Massimo (I d.C.), 234 Varrone (116-27 a.C.), 230 Varrone Atacino (82-35 a.C.), 317
Virgilio (70-19 a.C.), 62 Vitruvio (I a.C.), 235 Xenone
grammatico
16,
369
18, 20, 56,
(III-II a.C.),
cfr.
Chorizontes
227,
Zenodoto (330 ca.-260 ca.), 54, 289, 293, 312, 316, 320 Zenone di Cizio (335-263 a.C.), 23, 272, 290 Zenone di Elea (V a.C.), 258, 260 Zosimo (V-VI d.C.), 202