Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all'età ellenistica: scritti in onore di Bruno Gentili 9788880110149, 8880110144, 9788880110156, 8880110152

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Italian Pages [1325] Year 1993

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Table of contents :
1. OMERO E POESIA EPICA
INDICE GENERALE
2. LIRICA TARDO-ARCAICA E CLASSICA
3. LETTERATURA ELLENISTICA
INDICI
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Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all'età ellenistica: scritti in onore di Bruno Gentili
 9788880110149, 8880110144, 9788880110156, 8880110152

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TRADIZIONEE INNOVAZIONE NELLACULTURAGRECA ' ELLENISTICA DA OMEROALL'ETA

ra· GRUPPQEDITORIALE INTERNAZIONALE• • ROMA

TRADIZIONEE INNOVAZIONENELLACULTURAGRECA DA OMEROALL'ETÀELLENISTICA

COMITATOPROMOTOREE ORGANIZZATORE

PAOLA ANGELI BERNARDINI

AGOSTINO MASARACCHIA

GIOVANNI CERRI

GIUSEPPE MOREW

G1ov ANNI CoMOTl'I

CARLO PRATO

ITALOGALLO

ROBERTO f>RETAGOSTINI

GIUSEPPE GIANGRANDE

G. AURELIO PRIVITERA

PIETRO GIANNINI

LUIGI ENRICO Rossi

JEAN IRIGOIN

CHARLES SEGAL

PIETRO JANNI

GREGORIO SERRAO

fRANçOIS

FRANCO S1m

LAsSERRE

HERWJG MAEHLER

MASSIMO VETTA

TRADIZIONE E INNOVAZIONE NELLA CULTURA GRECA DA OMERO ALL'ETÀ ELLENISTICA SCRI'ITI IN ONORE DI BRUNO GENTILI I

a cura di ROBERTO PRETAGOSTINI

GRUPPOEDITORIALEINTERNAZIONALEµa in Tucidide e in Gorgia

865

M. VALLOZZA, Ilonuì..(a: storia di un termine in Isocrate

877

A. MASARACCHIA, Per l'interpretazione Repubblica

887

G. RICCIARDELUAPICELLA,Ancora sul cpù..aV'&QD.ot,µvf}oooitE OÈirouQLOOç lù.xijç è attestato 7 volte nell'Iliade e mai altrove nell'epica greca arcaica. Anche se non ci sono argomenti stringenti per considerare il verso come formulare esterno\ in ogni caso la ripetizione dimostra che l'autore dell'Iliade voleva che lo si sentisse come qualcosa di tipico. Ma il discorso non si può arrestare a questa constatazione. Merita infatti di essere notato che 5 volte su 7 il verso è attribuito a Ettore (6, 112; 8, 174; 11, 287; 15, 487; 17, 185), mentre una volta è detto da Aiace (15, 734) e una volta da Patroclo (16, 270). È degno di nota anche che le prime 4 attestazioni nel poema sono tutte di Ettore, e che i passi relativi sono collegati tra di loro non solo dalla ripetizione del verso tipico ma anche da altre corrispondenze. Il collegamento tra le prime due attestazioni è rafforzato infatti da 6, 110 "'.EX'tO>Q OÈTQWEOOLV béxÀ.E'to µaxQÒVaOoaç 8, 172. Il collegamento tra la seconda e la terza attestazione è rafforzato da 8, 173 TQEç xaì AUXLOL xaì t1aQbavoLOYXLµaxT)'tQ( = 11, 286. E in tutti e due i casi si tratta della constatazione da parte di Ettore di un evento favorevole, con il coinvolgimento di Zeus: cfr. 8, 175 s. µot 1tQ(>q>QO>V XQ'tÉVE'UCJE KQOV(O>V / v(XT)'V xaì µtya xuooç ~ 11, 288 s. tµoì Oȵty' roxoç loooxE/ ZEùç KQOV(OT)ç (nel primo dei due casi che ci sia stato un intervento diretto di Zeus è detto anche dal poeta stesso: cfr. 8, 170 s. ). Il collegamento infine tra la terza e la quarta attestazione è rafforzato da 11, 285 TQO>ot'tExaì AuxwtoLv bÉXÀ.E'toµaxQè,vaOoaç = 15, 485 (e in più si ha 15,486 = 11,286 = 8, 173). E anche nel caso del

=

1

Uso le espressioni di fonnularità interna e di fonnularità esterna come ho chiarito nei miei lavori 'Nel laboratorio di Omero 1-11',Riv.filol. class. 114, 1986, pp. 257-285; 114, 1986, pp. 385-410 (e cfr. anche 'Fonnularità interna e paragoni nell"'lliade" ', ibid. 115, 1987, pp. 257-287). Certo una formula esterna deve considerarsi il nesso 6ovelboç lù..xi;;in fine di verso: 21 X Il. (compresi i casi del verso che qui si tratta), l X Od.

V. Di Benedetto

4

XV si tratta di Ettore che si accorge di un evento favorevole alla parte troiana (si noti in particolare 11, 284• "E-x:tooQ b' roç tv6t)o(E) ~ 15, 484• "EX'tO>Q b' roç dbEV)e anche nel XV l'evento è attribuito da Ettore a Zeus: cfr. 15, 488 s. MiyàQ toovòqrftaì..µoimv/ itvbQV TQWELÀL, µvfioacrf}e6è itotJQLOOç lù..xf)çfosse arrivato al poeta dell'Iliade da una tradizione a lui anteriore (il che però è non impossibile, ma è difficile da dimostrare), il fatto che esso si associasse a contesti particolari che in vario modo hanno elementi di corrispondenza tra di loro dimostra che il verso era stato fatto proprio dal poeta dell'Iliade ed era diventato portatore di fenomeni di formularità interna. E un fenomeno di formularità interna deve essere considerata la tendenziale associazione del verso alla figura di Ettore: è impensabile che nel patrimonio cosiddetto rapsodico oltre al verso si tramandasse anche l'istruzione di associarlo tendenzialmente a un particolare personaggio.

5

Questo (e anche l'osservazione relativaall'allontanarsi di Ettore dal campo di battaglia)vale ovviamente solo per i passi in cui si utilizza il verso àvéQEçfon, cpO..Ol, µ""aaofk bè itouQLOOç;à).xijç;. Nell'Iliade il verso ..toc; (8, 177)7. Ma, al di là del patrimonio formulare, come si estrinsecano la versatilità e la scaltrezza di Ulisse, come si caratterizzano nel racconto degli aedi 8 ? È la stoltezza degli altri che, si è detto, esalta narrativamene per contrasto la caratterizzazione di Ulisse uomo accorto9 • Possiamo a tutta prima distinguere due livelli: l'uso diretto dell'inganno e l'onnipresente sospetto per un possibile inganno altrui. Ulisse è portato solitamente a diffidare di quanto gli si dice. Così non crede immediatamente alla libertà annunciatagli da Calipso (5, 358 ou 1tro1tdooµ'); sospetta, a differenza dei compagni, l'inganno di u1tɵELva,ò"ioo.µevoc; M>..ovdvat) 10 ; mette alla Circe (10, 257 tyò.>v e lo stato prova la fedeltà di Eumeo (14, 459 e 15, 304 1tELQT1't(twv); 11 • ... 1tELQTli}-ijVaL) d'animo di Laerte (24, 240 XEQ'toµ(OLc;

7

In relazione a questo comportamento è anche in parte la massima di Ulisse ... àtitM.OV. (209-210): c'icpQ(l)V s Gli epiteti, si sa, preesistono e rappresentano l'iconografia tradizionale dell'eroe; caratterizzano dunque l'orizzonte d'attesa del pubblico che conosce gli eroi già

prima del canto dell'aedo. Da questo punto di vista possiamo dire che tutti o quasi gli epiteti omerici sono dei fossili. Al riguardo riman11:onofondamentali le pa,rine di M. Pany (The Making of Ho-rie Vene, The Collected Papers o/ M. P ., ed. by A. Pany, Oxford 1971, p. 171 ss. ), che, con autentica sensibilità alla poesia, giunge a chiedersi se l'epiteto fisso possa oggi trovare convincente traduzione. Meno convincenti i più recenti approcci tesi invece a scoprire un vero uso semantico testuale (e non solo contestuale) dell'epiteto; cfr. p. e. P. Vivante, The Epitheu in Ho-r. A Stud'Y in Poeti.e Valuu, New Haven-London 1982. 9 Il riconoscimento più importante è ovviamente quello di Atena (13, 291-298: XE~--bt(xAoffl>ç ... c'ipunoç; ... ~u).fi xal µuitoun); a questo si può aggiungere cppovtw.ta yE bitvorovn xEÀ.EUELç (17. l'autoelof!;io di Ulisse ad Eumeo: yLyY(OO)(W, 193). "Non stolto" Ulisse è definito da lno (5,342), da Penelope (17, 586) etc.; mentre tale lo ritengono i veri stolti: la serva concubina di Eurimaco (18, 327) e Antinoo (21, 288). 10 In questo preceduto da Euriloco (231-232 = 256-257). 11 proprio nel mettere alla prova che Penelope si rivela pari a lui: 23, 114 e 181.

t

Pius Ulixes

13

Ma veramente all'altezza dei suoi epiteti Ulisse si dimostra quando egli stesso usa l'inganno. La manifestazione più chiara, si può dire esemplare, della sua scaltrezza si ha nell'episodio del Ciclope. Episodio ben noto, ma che val la pena ripercorrere seppur sommariamente perché in esso le marche di astuzia e di stoltezza svolgono una funzione significativa, alternandosi e intrecciandosi in una sintassi narrativa singolarmente compatta. Il racconto si apre con quella che dovrebbe essere una delle consuete connotazioni di astuzia di Ulisse e si rivela invece di segno opposto: Ulisse non dà retta (qoù 3ttit6µ11v 9, 228) ai timori dei compagni e si avventura nella grotta. Alla prima richiesta del Ciclope, l'eroe risponde veridicamente, invocandone ospitalità. La risposta di Polifemo è pronta: "Sei stolto" (VT)3ttoc; 273) se credi nell'ospitalità dei Ciclopi. Non soltanto il mostro tratta da sciocco Ulisse, tenta egli stesso di essere astuto: vuol procurarsi notizie della nave dei forestieri mettendoli alla prova (Qab(nmv 361). E quindi Ulisse a beffarlo: Oùnc; lµo( y' 6voµa (366). Quando il Ciclope sarà accecato si lamenterà invano. La mattina seguente un nuovo stratagemma per uscire dalla grotta. (420). xaV'tac; bè Ulisse ne rivendica la paternità: q ~'IJÀ.E'UOV MÀ.Ouc; xat µijnv u. L'espressione µd(xQT)tOV (y{i)..a) si oppone simmetricamente ad fxXQTJtOVy{J)..a. Il senso della scena e la funzione del "latte puro" sono sufficientemente chiari. Polifemo ingurgitava alla cieca: senza dividere carne e ossa, senza abbinarelatte e miele. Era un segnale prezioso: ora Odisseo sa che Polifemo avrebbe bevuto puro anche il vino di lsmaro, quando glielo avrebbe offerto. A questa stessa conclusione egli sarebbe certo giunto vedendo Polifemo bere puro non il latte, ma il vino della sua terra: ma allora sarebbe diventato grottesco paragonarlo a un leone. Ad Omero importava rappresentare il Ciclope come una fiera: e le fiere non bevono vino! La prima sera il Ciclope, dopo il pasto, era piombato in un sonno profondo. Subito Odisseo, da guerriero, pensa di ucciderlo con la spada: ma nessuno sarebbe stato capace di togliere dall'ingresso il macigno (IX 299-305). Per la prima volta si accorge che nel mondo in cui è penetrato dopo Capo Malea le armi non servono. Dei due modi consentiti al guerriero per vincere, il duello o l'agguato, le armi o l'inganno, gli resta solo il secondo 23 • Egli non ha ancora un piano: ne escogita subito uno appena il Ciclope, la mattina dopo, lascia l'antro. Ora egli sa che Polifemo ripete sempre le stesse azioni. La sera prima (a) aveva chiuso l'ingresso, (b) munto le bestie, (c) spinto i lattanti sotto le madri, (d) cagliato il latte, (e) acceso il fuoco, (0 divorato due uomini. La mattina dopo, con ordine leggermente diverso, (e) ha acceso il fuoco, (b) munto le bestie, (c) spinto i lattanti sotto le madri, (f) divorato due uomini, (a) aperto l'ingresso. Polifemo era come una bestia: ma proprio le bestie sono ordinate e abitudinarie. Su questo aspetto l'autore insiste: dentro l'antro gli agnelli e i capretti erano divisi secondo la specie e l'età; il formaggio dentro le ceste era disposto in modo perfetto; Polifemo compiva ogni azione se-

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Achille rinfaccia ad Agamennone di non sapere né battersi né andare a un agguato (Horn. Il. I 226 s. mnE ruYt' lç :n:6kf:µovaµa>.a iki>Qtix6ijvmouu Mxovl>' 1.tvm cruv liQLO'tTIEOOLV 'Axaui,v). L'opposizione è tra forza e inganno (Horn. Il. VII sono equivalenti. 142: Licurgo uccide Areithoos MAq,, ou 'tL xQétutyE): Mxoç e l>6ì..oç L'inganno valeva meno della forza, ma era ammesso per equilibrare le parti. Polifemo si consola per non essere stato vinto con la forza, ma con l'inganno (IX 408 MAq, oùl>~ ~(Tjq>LV),

L'aristia di Odisseo nella terra dei Ciclopi

31

condo le regole 24 • Solo dopo aver visto come il Ciclope si comportava, Odisseo progetta il suo piano: il racconto prospetta l'azione come una conseguenza dell'esperienza. Per fuggire dall'antro occorreva che Polifemo togliesse il macigno, ma non li vedesse uscire: occorreva cavargli l'occhio e cauterizzargli la ferita, per non debilitarlo con una emorragia. La spada non era adatta. Una spada incandescente non poteva essere impugnata né da una né da più persone, quante ne occorrevano per contrastare e neutralizzare la reazione violenta del Ciclope. Una lancia con la punta arroventata poteva essere retta da più persone. Nell'antro v'era un gran bastone. Odisseo ne taglia due braccia (IX 325 i>gyuLav, quasi 180 cm.). Lo sgrossa e appuntisce e, per renderlo più duro e tagliente, ne secca la punta sul fuoco. Odisseo costruisce una lancia: è significativo che di solito sui vasi l'arma non sia dipinta come un grosso palo, ma come una lunga asta 25 • Indurire la punta della lancia nel fuoco era una delle tecniche di guerra più antiche: in tempi storici, quando la punta era ormai di metallo, sopravviveva nel rituale e presso alcuni popoli arretrati 26 • Ancora una volta Odisseo agisce da guerriero. Una lancia di 180 cm. era tanto lunga da poter essere retta da più persone e tanto corta da poter essere spinta obliquamente nell'occhio da un uomo che la premesse all'altra estremità 27 • A reggerla bastavano quattro uomini, due per lato: Odisseo li sceglie a sorte tra gli otto super-

24

Polifemo trattava secondo le regole le bestie, ma non gli uomini (l'opposizione egli ignora che gli stranieri si dicano reduci da Troia (S. Besslich, SchweigenVenchweigen-Ubergehen,Heidelberg 1966, p. 33 ss.). 25 Secondo la catalogazione di Fellmann, op. cit. (a n. 6): BL 1 (p. 10 ss.) anfora protoattica (675-650 a.C.); BL 2 (p. 13 s.) cratere argivo (675-650 a.C.); BL 3 (p. 14 s.) cratere di Aristonoto da Cere (650 a.C.); BL 10 (p. 25 s.) hydria da Cere (530-520 a.C.); BL 12 (p. 28 ss.) skyphos a figure nere (500 a.C.); BL 13 (p. 30 ss.) anfora campana a figure nere (500 a.C.). Nei poemi omerici i nomi prevalenti della lancia sono Meu,fyxoç, e (6 x) ;uat6v: è significativo che Odisseo ordini ai compagni di ~m il tronco di ulivo (IX 326). 26 Nel rituale romano (Liv. 132, 12 hasia praewia) e presso Libi e Misi (Herodt. VII 71 e 74, l lr.xov-cloLOL ... bnxavtOLOL):è una tecnica primordiale (vd. W. Burker1, Technikgachichte 34, 4, 1967, pp. 281-299). 27 Alle lunghe lance minoiche (3 m.) furono preferite in età micenea lance più corte (da 1, 7 a 2 m.): vd. O. Hockmann,in H.-G. Buchholz, KriegJWaenII (Archaeol. Hom. I E 2), Gottingen 1980, p. 275 as. Dal ricordo delle lance più antiche derivano è sottolineata: IX 245, 309, 342 xmà µoieav; 352 o'Ò xa-rà µoieav fee;aç):

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G. A. Privitera

stili. Page obietta che non avrebbe dovuto scegliere i quattro aiutanti, ma i due destinati a morire. È un'obiezione sorprendente. Scegliere i due morituri sarebbe stato inutile e ingenuo: indegno di Odisseo. Polifemo avrebbe divorato comunque chi egli voleva: era lui la sorte per i suoi prigionieri. Chi avrebbe potuto costringerlo o convincerlo ad accettare una scelta fatta da altri? Fatta addirittura dai suoi prigionieri? E inoltre Odisseo sarebbe stato costretto lo stesso a sorteggiare i quattro che dovevano reggere il palo con lui: perché restavano ancora sei uomini, dopo aver sorteggiato i due morituri. Certo, per costruire l'azione, esistevano anche altri modi. I quattro avrebbero potuto presentarsi volontariamente o essere scelti da Odisseo. Ma entrambe le soluzioni comportavano dei rischi maggiori: e se a presentarsi fossero stati meno o più di quattro? e se i compagni non avessero accettato la scelta di Odisseo? L'obbedienza al capo nei poemi è flessibile: Odisseo è costretto a cedere più volte ai compagni e in una occasione ammette di non avere la forza di imporsi28 • La soluzione più ovvia per l'autore sarebbe stata di ridurre il numero dei compagni da dodici a dieci: avrebbe potuto eliminare il sorteggio. Se non lo ha eliminato è segno che giudicava il sorteggio non secondario, ma funzionale. Il sorteggio forniva dei segni: i quattro sorteggiati erano gli stessi nota Odisseo- che avrebbe scelto lui stesso 29 • A questa felice evenienza se ne aggiungono, poi, altre due altrettanto felici: il Ciclope la sera spinge nell'antro anche i maschi, che si rivelano indispensabili alla fuga, e divora due uomini diversi dai quattro sorteggiati. Erano tutti segni positivi. Dopo che il Ciclope ha divorato i due uomini, Odisseo gli offre il suo vino (IX 34 7-350): "Su, bevi il vino, Ciclope, dopo aver mangiato la carne umana, perché tu sappia che bevanda è questa che la nostra nave serbava. Te l'avevo portata in offerta, semmai impietosito mi mandassi a casa. Ma tu sei insopportabilmente furioso". Odisseo lo dice esplicitamente: il vino lo aveva portato come un dono ospitale, ma non gli epiteti OOMXOV (21 x) e l.&ClXQOY (5 x) e l'immagine _stupefacente della lancia di Ettore, lunga 11 cubiti (quasi 5 m.) nell'Iliade (VI 319, VIII 494). 28 I compagni non ubbidiscono presso i Ciconi (IX 43 s.) e in Trinaèhia (XII 271 ss., 297 "mi coatringete perché sono solo"). Resistenze di alcuni o di uno si verificano presso i Lotof~ (IX 98) e presso Circe (X 266 ss. ). 29 Giustamente Bona, op. ci.i. (a n. 5) p. 79 n. 33: "per il poeta ciò che conta è proprio questa coincidenza fra la sorte e la volontà dell'eroe".

L'ari.siiadi Odisseo nella terra dei Ciclopi

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lo offre più come tale. Odisseo evita di fingere sentimenti ospitali: se li avesse finti, sarebbe stato un empio, perché l'ospitalità era fondata sulla lealtà. Empio è invece Polifemo, che mangia gli ospiti e concede a Odisseo, come dono ospitale, di morire lo stesso, anche se divorato per ultimo. In tutto l'episodio Odisseo è presentato come un guerriero che tende un agguato a un nemico di gran lunga più forte. Quando al mattino il Ciclope era uscito dall'antro, Odisseo aveva escogitato un piano: non solamente per sopravvivere, ma per punire il Ciclope: "Restai a covare piani funesti - egli dice -, semmai potessi punirlo e Atena me ne desse il vanto" (IX 316-317). La scala dei valori è quella eroica: Odisseo ha come scopo - più della salvezza, che neppure nomina soprattutto la punizione del mostro e la gloria che ne avrebbe avuto 30 • Nei racconti medievali e moderni il motivo del vino è assente. Alcuni - a torto - lo giudicano superfluo: Page lo ritiene dedotto da un racconto diverso 31 • Per capirne la necessità, occorre tener presente che esso svolge due funzioni, una generica di dono e una specifica di farmaco. Odisseo offre al Ciclope il vino, non però come dono ospitale, perché - egli dice - Polifemo non è ospitale: è un rimprovero provocatorio. A Polifemo quel vino piace e, per averne dell'altro, promette a Odisseo il dono ospitale. Ma per darglielo, deve prima conoscerne il nome: Polifemo chiede a Odisseo il nome. È il meccanismo dell'ospitalità: in forma corretta era stato illustrato all'inizio da Alcinoo e da Odisseo (VIII 550 ss.-lX 16 ss.). Alcinoo aveva chiesto: dimmi il tuo nome,

30

Odisseo è simile all'Eracle che aveva affrontato i Giganti (F. Vian, La guerre Paria 1952, p. 193 ss.). Del resto lo ste880 Eracle nella Nekyia (Xl 601-

des ~. 626) paragona al proprio il destino doloroso di Odisseo (618 "porti add0880una misera sorte anche tu"). Va tenuto presente tuttavia che nell'Odis.rea (XXI 25-30) Eracle è l'uccisore dell'ospite lfito ed è anch'egli av6ç, che nell'Iliade compare abbinato a l>eLÀ.6ç (I 293) e ad 6vaì..,uç (XI 390) per indicare un à'VtlQsprovvisto di valore guerriero e, in generale, un uomo da nulla: Oll'tLl>avoimvàvaaaeLçgrida Achille ad Agamennone (I 231). Odisseo dice un nome bifronte, che dal modo come viene pronunziato può significare (a) "nessuno" (oli'tLç) come nell'italiano "quell'uomo non è nessuno" cioè "non ha alcun valore", oppure (b) "nessuno" (ou'tLç)come nell'italiano "nessuno è perfetto" cioè "non esiste un uomo perfetto" 33 • L'inganno ha dunque tre aspetti: (1) Odisseo, per non consegnarsi all'interlocutore, gli dice un nome falso; (2) col nome falso rovescia la realtà e nasconde il proprio valore; (3) comunica al mostro un nome che può suonare come un pronome e negare l'esistenza di Odisseo. La conferma è nella parte finale (IX 475-479 + 502-505). Dopo essere scampato, Odisseo, appena con la nave è abbastanza lontano, grida al Ciclope la verità raddrizzando la prospettiva che per necessità aveva fino allora rovesciato: (1) grida il suo nome ("Odisseo ... figlio di Laerte, che abita ad Itaca"); (2) si proclama "distruttore di rocche" (moì..ut6gfhov) e valoroso ("non certo i compagni di un uomo vigliacco avresti mangiato"); (3) esorta Polifemo a spiegare, a chi lo chiedesse, che ad accecarlo è stato Odisseo (non (){,'tLç, un qualsiasi "Nessuno"). Correzione del nome e affermazione della propria esistenza ( 1 + 3) sono, ovviamente, abbinati: un quarto elemento, fondamentale, è la spiegazione gridata all'inospitale Polifemo che egli è stato punito da Zeus e dagli altri dei per la sua empietà. Il motivo dell'ospitalità viene cosl esplicitamente promosso ad asse etico dell'intero episodio. Suo cardine è l'inganno del nome, conseguente all'offerta del vino: nel momento in cui offre il vino, Odisseo da vittima diventa giustiziere. Ma torniamo indietro, nella caverna. Dopo tre ciotole di vino, PoIn greco lo scarto semantico tra o-b·nçe oii'ti.çè minimo. t grande nell'italiano "la pesca a me non piace", in cui ricorre un fenomeno analogo: dall'apertura di /e/ l'ascoltatore capisce se al parlante non piace il frutto (pèsca) o la cattura dei pesci (pésca). L'ipotesi che Odisseo dica un soprannome (R. Carpenter interpreta "Grandorecchio", Follaak, Fiction and Saga in the Homeric Epica, Berkeley-Los Angeles 1958, p. 140 s.; K. Ziegler richiama l'etrusco Ut(h)-, in Gymnasium69, 1962, p. 396 ss.) è smentita dalla soddisfazione di Odisseo per aver ingannato i Ciclopi col nome ... xat l'ii"tLç è un'endiadi). astutamente inventato (IX 414 6vol.&(l 33

G. A. Privitera

36

lifemo stramazza supino, col capo riverso: una posizione perfetta per infilargli il palo obliquamente nell'occhio. Non bastava però che cadesse nel sonno, come la sera prima. Oltre a forargli il bulbo, occorreva cauterizzargli l'orbita: l'operazione richiedeva del tempo e Polifemo si sarebbe svegliato, appena avesse avvertito la punta rovente del palo contro la palpebra chiusa. Occorreva che stesse immobile. Occorreva un potente anestetico. Odisseo disponeva del vino e "a chi ne beve troppo, il vino diventa violenza, gli lega piedi e mani, lingua e mente con ceppi invisibili", come appunto precisa Esiodo (fr. 239 M.-W.). Il vino non serve a far addormentare il Ciclope, ma a non farlo svegliare subito. Polifemo è fortissimo: ma il vino può più della forza. Lo predica il mito. Nell'Iliade (XVIII 394 ss.) Efesto ricorda come fu accolto da Teti e da Eurinome, quando la madre Hera lo scagliò giù dall'Olimpo. Il btT)y. ~, cod. Vat. 305, VIII, seguito lo racconta Ps. Libanio (IlQOYUµv. p. 38 Foerster). Presso le dee marine Efesto costrul un trono, con lacci invisibili e lo inviò alla madre: Hera vi si sedette, lieta, e rimase prigioniera. In grado di scioglierla era il solo Efesto e gli dei non sapevano come trascinarlo sull'Olimpo: Ares tentò con la forza e falll, Dioniso riusci dopo averlo ubriacato col vino. La storia piacque ad Alceo, che la cantò in un suo inno34 • Appena Polifemo si addormenta, Odisseo tira fuori il palo e lo arroventa sul fuoco. Poiché nei racconti medievali e moderni l'arma è uno spiedo, Page ha pensato che Omero abbia sostituito lo spiedo col palo. A confermarlo sarebbero due particolari: (a) Odisseo tiene l'estremità sul fuoco droç itEQµa(vot'tO, benché fosse verde; (b) lo toglie quando sta per prender fuoco e nota che btEq>aLVE'tO b' alvooç(IX 375380)35.

Non v'è dubbio che l'autore trasferisce al palo delle caratteristiche proprie del metallo: dice che era incandescente e poi aggiunge che quando gli uomini aggredirono Polifemo - lo ruotavano ora a destra ora 34

Aie. fr. 349 V. Cfr. G. A. Privitera, Dioniso in Omero e nella poesia greca

arcaica, Roma 1970, p. 108 a. 35

Page, op. cil. (a n. 5) p. 9 aa. 088erva: (a) "how conscioua our poet waa of the point at isaue"; (b) uno spiedo di metallo può diventare rosso o incandescente, un palo ..will tum black and amoke and moulder". Ma (a) la punta era stata seccata sul fuoco al mattino; (b) anche un pezzo di legno splende se prende fuoco. Dall'eventuale imprecisione dell'autore ai può ricavare che era impreciso, non che modificava un testo diverso: un testo - oltre tutto - tramandato oralmente.

L'arisiia di Odisseo nella terra dei Ciclopi

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a sinistra come un trapano e precisa che sfrigolava nell'orbita come un'ascia o una scure rovente immersa dal fabbro nell'acqua per temprarla (IX 379, 385, 391-393). Ma proprio questa insistenza esclude che nei racconti precedenti ci fosse uno spiedo. Altrimenti Omero lo avrebbe conservato: non lo avrebbe prima sostituito e poi evocato con una metafora e due similitudini. Perché avrebbe dovuto percorrere un cammino cosl tortuoso? Forse per evitare che il Ciclope arrostisse gli uomini allo spiedo? Ma divorarli crudi era altrettanto orribile 36 • t invece più semplice l'altra via. Nel racconto più antico c'era il palo di legno. Al palo antico furono attribuite da Omero le apparenze del metallo rovente, che egli ben conosceva. Più tardi al palo fu sostituito lo spiedo e al primitivo Ciclope che mangiava crude le sue vittime fu sostituito un più evoluto orco cannibale che le mangiava cotte. L'evoluzione antropologica va dal legno al ferro, dal crudo al cotto: non viceversa. A mostrare quanto il vino fosse indispensabile è la durata dell'operazione, che l'autore dilata, scomponendola nei suoi momenti e ampliandola con due similitudini: il palo viene sollevato, ficcato nell'occhio, premuto e ruotato come un trapano; intorno alla sua punta il sangue scorre, la vampa riarde palpebre e ciglia, le radici del bulbo sfrigolano come una scure rovente nell'acqua (IX 382-394). Se non fosse stato immobilizzato dal vino, Polifemo avrebbe reagito subito con violenza. L'operazione è un intervento chirurgico inanestesia totale: il primo di cui abbiamo una descrizione nell'antichità. Lo stesso Polife~o griderà di essere stato accecato perché vinto dal vino otvq>). (IX 454 baµaooaµEVoç;q>QÉVaç; Quando ormai l'operazione è conclusa, Polifemo torna in sé, svelle il palo, lancia un urlo e chiama a gran voce i Ciclopi: i quali, accorsi, gli chiedono se qualcuno(~ µit 'tLç;)l'uccida. Polifemo risponde che un uomo da nulla, una nullità, un Nessuno (OÒ'ttç;)l'uccide. I Ciclopi capiscono male (capiscono ounç;) e concludono che se nessuno (µit 'ttç;) gli fa violenza, allora è pazzo e deve invocare l'aiuto del padre Posidone. Odisseo ascolta e capisce che i Ciclopi hanno frainteso: hanno scambiato OÒ'ttç;con ounç;, cioè con µit 'ttç;,e se ne rallegra (IX 413414 "rise il mio cuore, perché il nome mio e l'astuzia- µ'l'ttç;- perfetta li aveva ingannati"). 36

S. L Schein, 'Odyueus andPolyphemus in the Odyuey', Gr.Rom. Brz. Stud. 11, 1970, p. 73 18;: eolo una rabbia furente potrebbe indurre all'antropofagia e all'omofagia nell'Iliade (IV 34-36, XXII345-347, XXIV203-208).

G. A. Privitera

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Sono due coppie di termini equivalenti: µfl uç; sta a ounç;, come µij'tt.ç;sta a Où'ttç;37 • Il falso nome è prodotto dall'intelligenza: 6voµ' t;wta'tT)oEVtµòv xaì. µijuç; liµuµrov è un'endiadi, "l'astuzia del nome". Sembra l'inganno di un astuto grammatico. Ma sarebbe sbagliato vedervi un motivo antieroico. La scienza di Odisseo non è estranea al mondo epico: è simile alla scienza dell'eroe Palamede, che aveva inventato l'alfabeto, i pesi, le misure, la scacchiera e i dadi, e che a Troia - non a caso - era stato un rivale di Odisseo 38 • Polifemo ode un nome falso, ma verosimile: di nomi con negazione iniziale ne esiste un altro nell'Iliade (III 148 Oùx-aì..tyoov).Invece i Ciclopi non sentono alcun nome: durante il percorso dalla bocca alle orecchie il nome cambia significato e svanisce, ingannando l'udito dei Ciclopi, cosl come il profumato e dolce vino di Ismaro aveva sedotto l'olfatto e il gusto di Polifemo e il palo infuocato ne aveva spento la vista. È la vittoria dell'intelligenza sui sensi, oltre che sulla forza: il mattino dopo Odisseo ingannerà anche il tatto di Polifemo. Al mattino il Ciclope toglie il macigno e siede sulla soglia, con le braccia tese, per catturare i prigionieri che, certo, avrebbero tentato la fuga in mezzo alle bestie. Odisseo sfugge al suo tatto, nascondendo ciascun compagno sotto tre montoni e se stesso sotto l'ariete più grande del gregge. Il Ciclope palpa le groppe e non sospetta che gli uomini sono sotto le bestie: è il solito principio del rovesciamento, uno dei più attivi nell'episodio. Ora diventa chiaro perché era indispensabile la presenza dei maschi nella caverna: nascosti sotto le pecore, i fuggiaschi sarebbero stati scoperti, se Polifemo le avesse munte. Notando che le loro poppe erano piene fino a scoppiare (IX 439-440), l'autore sottolinea questo pericolo. Nel Dolopathos e in altri racconti i prigionieri fuggono sotto una pelle, non sotto una bestia. Ma è uno stratagemma adatto ad ingannare la vista: lo dimostra il caso di Menelao che con tre compagni, per non essere visto da Proteo, si nasconde sotto le pelli delle quattro foche uccise apposta da Eidotea (IV 400-453). Ma la vista di Polifemo era già 37

Podlecki, art. cii. (a n. 17) p. 129 ss. A. Kleingunther, IlPQTOl: EYPETIU:, Philologw Suppi. 26, 1, 1933, p. 78 ss. La prima menzione è nelle Ciprie (frr. 29 e 30 Bemabé): a Palamede alcune invenzioni furono attribuite in tempi posteriori. Qui interessa che la tradizione epica più antica, certo anteriore alle Ciprie,abbinasse guerra e scienza in una stessa persona: cfr. G. Zografou-Lyra, O MY80l: TOY fIAAAMH~H rrHN APXAIA EMHNIKH fP AMMA TEIA, Diss. Giannina 1987, pp. 253-286. 38

L'aristia di Odisseo nella terra dei Ciclopi

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spenta! Chi specula su presunte incongruenze del racconto omerico, per provare che deriva male da racconti precedenti, dovrebbe esamina- . re quanto siano concepiti e redatti peggio i racconti medievali e moderni. Appena salvi, Odisseo e i compagni spingono sulle navi le greggi, si imbarcano e salpano. Arrivati a una distanza canonica (IX 4 73 "quanto basta per sentire chi grida") Odisseo urla al Ciclope, dopo aver rivendicato il proprio valore, che è stato Zeus a punirlo per mano sua. Il Ciclope lancia un macigno, la nave rincula, i compagni scongiurano Odisseo di tacere. Arrivati a una distanza doppia Odisseo rivela il nome, il padre e la patria. Allora Polifemo ricorda l'antica profezia che gli annunziava tutto ciò che s'era appena compiuto, e aggiunge: "Ma io ho sempre aspettato che arrivasse qui un uomo grande e bello, vestito di grande vigore: invece uno che è piccolo, da nulla e debole, ora mi ha orbato dell'occhio, dopo avermi vinto col vino" (IX 513-516). Polifemo non riconosce il valore di Odisseo, continua a considerarlo un uomo da nulla (OÙ'ttl>av6ç),si dichiara vinto dal vino. Non capisce che l'intelligenza può più della forza e pensa che Posidone possa guarirlo. Odisseo l'irride: avrebbe voluto spedirlo tra i morti, così come il dio certamente non lo guarirà. Il nome, che prima sembrava solo un mezzo per sfuggire ai Ciclopi, diventa alla fine il perno dell'intero episodio: Odisseo si salva tacendolo e si perde svelandolo. L'importanza del nome è illustrata due volte: in positivo e in negativo. Ma il nome, come s'è visto, è collegato strettamente col vino. Giunto sull'isoletta, Odisseo sacrifica l'ariete. Ma Zeus aveva rifiutato l'offerta: è una deduzione retrospettiva, che Odisseo fa davanti ai Feaci, considerando quanto per dieci anni aveva sofferto. E così l'avventura alla.fine viene iscritta in una cornice religiosa e finisce nel nome di Zeus. Era inevitabile che gli studiosi, accanto ali' evidente colpa e castigo di Polifemo, cercassero una colpa di Odisseo che ne spiegasse il doloroso destino. Ma nell'assetto definitivo del poema Odisseo appare incolpevole 39 • Posidone gli impedisce di raggiungere Itaca per vendica39

"lm lntum ist Odysseus freilich nicht, indem er 'frevelt' - sottilizza Reinhardt, op. cit. (a n. 15) p. 68 s. - ... aber doch, indem er triumphiert, indem er seinen dopo la vittoria è nonnale nell'Iliade (Eisenberger, op. cit. a Sieg geniesst". Ma l'roxoç n. 19, p. 141). Del resto, dopo la preghiera di suo figlio, Posidone non punisce e bei HoTMr, Leipzig 1950, p. 57, neppure agisce: come nota J. lrmscher, ~rzom "die Tat wird unter einem moralischen Aspekt ilberhaupt nicht gesehen".

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re Polifemo: Zeus pennette che questo avvenga, per compiacere Posidone. Basterà che Atena intervenga, mentre Posidone è assente, perché Odisseo possa finalmente tornare: la prospettiva è quella di una faida. Per evitare la vendetta, sarebbe bastato a Odisseo tacere il nome: l'unica sua colpa è di averlo detto. Ma questa non è una colpa: è un'imprudenza. Odisseo è imprudente quando sbarcando intuisce il pericolo, ma non desiste; quando non dà ascolto ai compagni e resta nell'antro; quando grida al Ciclope il nome proprio, della patria e del padre. La domanda giusta è dunque un'altra: cosa spinge il prudentissimo Odisseo, all'inizio e alla fine dell'episodio, a comportarsi con tanta imprudenza? In entrambi i casi la risposta è la stessa: il suo ethos guerriero. t merito di R. Schroter avere individuato i tratti formali dell'ari40 stia ricorrenti nell'epica • La Kyklopeia ne presenta parecchi: preparazione dell'arma; esortazione all'impresa; favore di un dio; azione con doppia similitudine; reazione dell'avversario quasi vinto; prelievo del bottino dopo la vittoria; vanto per la vittoria riportata 41 • Che Odisseo attribuisca prima a Zeus e poi a se stesso la vittoria non è contraddittorio, ma complementare: a vincere è stato lui, ma con l'aiuto di Zeus, protettore di ospiti e supplici (IX 475-479 + 502-505). L'impresa non ha solo l'aspetto formale dell'aristia: ha il valore e il significato dell'aristia. L'azione di Odisseo è un'azione gloriosa di guerra. Egli si trova nella stessa condizione di chi stringe d'assedio una città: si trova nella necessità di superare una soglia vietata. Polifemo aveva chiuso l'antro con un masso che solo lui era capace di togliere: occorreva creare una situazione, per cui Polifemo aprisse lui stesso il suo antro e non vedesse gli Achei che ne uscivano. Odisseo acceca il Ciclope e supera la soglia vietata nascosto sotto il ventre di un ariete. R. Schriiter, D~ Ari.stieauGrundformlwmeri.scherDichlung und der Fre~rmord, Diu. Marburg 1950. 41 Eisenberger, op. cii. (a n. 19) pp. 136-141, che amplia le osservazioni di Schriiter, op. cii. a n. 40, p. 94 u.: (a) Odisseo pensa di punire Polifemo e averne il vanto (IX 317): l'espreuione è riferita alla gloria in battaglia in Il. VII 154, cfr. VII 81, XVI 725; (b) la preparazione del palo, che esalta le capacità artigianali dell'eroe, è una &wmo1ta (come in Il. XVIII 468-617: Efesto fabbrica le anni di Achille); (c) durante l'azione ricoJTOnomolti motivi tipici dell'ari.stia: "Rilstung, Pariinese, Ermutigung durch eine Gottheit ... Situation des 'Beinahe' •.. GegenangrifI ... "; (d) il nemico vinto, anziché delle armi, è spogliato delle greggi (m,Miv è un motivo dell'ari.stia: Schriiter, p. 107 a.); (e) Odiaseo grida al Ciclope il suo vanto (IX 475 u.): numerosi i paralleli iliadici (Schriiter, p. 106 s. ). 40

L'aristia di Odisseo nella terra dei Ciclopi

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Ma è proprio lo stesso stratagemma che aveva usato a Troia. Dopo dieci anni gli Achei non erano stati capaci di entrare a Troia, di espugnarla. Occorreva creare una situazione, per cui i Troiani aprisseroessi stessi la loro città e non vedesserogli Achei che vi entravano. Odisseo penetra nella cerchia vietata nascosto dentro il ventre del cavallo di legno costruito da Epeo con l'aiuto di Atena. Come allora aveva reso ciechi i Troiani, così ora acceca il Ciclope: anziché passare oltre la soglia vietata dentro il ventre di un cavallo finto, passa nascosto sotto il ventre di un ariete vivo. Odisseo riutilizza lo stratagemma sperimentato a Troia. La sua è un'azione di guerra, di eroismo e di gloria, applicata ad una situazione rovesciata: a Troia doveva entrare nella città, nella terra dei Ciclopi deve wcire dalla caverna. Lo schema è però identico. Da una parte è Odisseo con un pugno di uomini che aggredisce nel sonno il Ciclope, come allora aveva aggredito (nel sonno) i Troiani42 : in entrambi i casi la forza dell'avversario è immane e per sconfiggerla occorre l'astuzia, concepita come un coefficiente sostitutivo della forza mancante. Collegati con quello dell'astuzia sono altri due motivi: la vittoria del debole sul forte, riconosciuta dallo stesso Polifemo, e il trionfo del singolo eroe su molti avversari, ottenuta con l'inganno del nome. L'inganno del nome non è necessario per neutralizzare i Ciclopi: per tenerli lontani dall'antro di Polifemo, bastava inventare che abitavano troppo lontano, o che erano troppo selvatici, o che c'era una violenta tempesta quando Polifemo li chiama a gran voce. Necessari sono invece i Ciclopi: per rendere possibile l'inganno del nome. Poiché nei racconti moderni l'accecamento dell'orco (A) e l'inganno del nome (E) sono materia di racconti diversi, Page ha supposto che la seconda azione (E) fu inserita nella prima (A) dall'autore della Kyklopeia. Egli però non spiega il motivo di questo presunto inserimento. In realtà le due azioni, separatamente, sono monche: la prima (A) senza la seconda (E) è incompleta; la seconda (E) senza la prima (A) è senza senso. Le due azioni sono inseparabili. Nell'accecamento + fuga (A) Odisseo concepisce il piano, ma non 42

Troia fu presa in una notte di luna piena, secondo la Piccola Iliade (fr. 9 Bem&W)e i Troiani furono aggrediti nel sonno (come precisa Apollodoro, Epil. 5, 20-21; cfr. Verg. Aen. II 250-267, e specialmente 265 ùwadunt urbem somno vinoqw Mpultam,che riprende Ennio, Ann. 292 Vahlen, vino domili somnoqw &epulti). Per espugnare Troia il vino non era indispensabile: ma vino e sonno erano ormai un binomio.

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lo esegue da solo: a costruire il palo e a ficcarlo nell'occhio del Ciclope lo aiutano i compagni. Poiché occorre una foru che egli e i compagni. non posseggono, Odisseo supplisce col vino. A Polifemo riesce facile • svalutare la sua impresa. Questo Odisseo - egli dice - è pur sempre una nullità: non mi ha vinto con la foru, ma col vino (IX 513-516). Invece col falso nome (E) Odisseo vince tutti i Ciclopi da solo e alla mancanza di forza supplisce con la sua intelligenza. È un particolare importantissimo. Secondo la concezione eroica, l'uomo di valore per manifestare la sua aristia doveva agire da solo. Tutte le a.risti.edell'Iliade sono azioni gloriose che l'eroe compie da solo. Secoli dopo, Pindaro esalterà questo requisito fino all'inverosimile, celebrando Peleo "che prese lolco da solo, senza esercito", (Nem. III 34 oç xat 'IaoÀ.XÒV Elu µovoç avE\I O'tQ(l'tLctç) e proclamando che Eurito impose ad Eracle di "andare solo, senza compagni armati" (fr. 169 a, 45 s. S.-M. µovov avE\Iauµµ.ax(aç iµev).

Col falso nome Odisseo vince tutti i Ciclopi (a) da solo e (b) con la sola intelligenza. L'azione rappresenta il punto più alto della sua natura eroica. A differenza di Achille, di Aiace, di Diomede, campioni della forza, Odisseo appare nell'antro di Polifemo come il campione assoluto dell'intelligenza. L'inganno del nome è il vertice della sua aristia: molti potrebbero ubriacare un gigante, parecchi potrebbero accecarlo ubriaco nel sonno, pochi potrebbero escogitare una fuga sotto il ventre di bestie, ma solo Odisseo poteva vincere tutti i Ciclopi con l'aiuto della sola intelligenza. Odisseo ne è pienamente consapevole. Quando sta per affrontare Scilla e Cariddi, egli ricorda ai compagni, per rincuorarli, questa sua impresa: "questa non è sciagura più grande di quando il Ciclope ci chiuse nella cava spelonca con dura violenza (XQ(l'tE()Tlq>t. fUT)q>Lv): e 'tE VO

ÀOVall'esametro 21. Il quadro, come indicava Aristonico, è spaginato e trasferibile. Omero adotta l'alfabeto di ventiquattro lettere ora stabilito a Mileto, e lo decanta; ma non trascura di dare ai Beoti quel che è dei Beoti, di fare opera di storico.

*** Invisibili sigle ioniche stanno in testa a ognuno dei ventiquattro libri; però una sigla è visibile in apertura del primo libro della seconda parte, il tredicesimo, ma vulgato come XIV, perché Pisistrato immise la postrema Dolonia al decimo posto; con quel N di NÉO'tOQa, è appunto l'unica volta che un libro comincia con il nome di un eroe, e pertanto si distingue; i primi dodici libri sono siglati all'inverso da M(ijvtv): MijvLv, con NÉO'tOQa, è l'unico complemento oggetto ad apertura di libro nei ventiquattro libri. L'undecimo libro della seconda parte - il XXIII e ultimo dell'Ira di Achille- apre con A('frto); una forma verbale a inizio di libro è unica. Tre sigle dunque, alla svolta dell'alfabeto: AMN. L'agone poetico esige l'anonimia, ma il compositore si costruisce molte occasioni per confidenze riservate, dalla propria identità all'isola dove lavora, al matrimonio della figlia con l'amanuense Stasino-Aretino e alle Ciprie in dote, al calendario di Mileto, all'anno solare di 363 giorni, al titolo incorporato Mijvu;; ma 'O..uxçè il titolo di tutta la tetralogia in 42 libri: Ciprie 11, Ira 23, Dolonia 1, Etiopide 5, Distruzione d'Ilio 2. La Dolonia in quest'occasione viene immessa nel circuito ca-

Notizie stilate a Chio vinta l'Olimpiade del 724

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noro, come decimo dell'Ira di Achille e vigesimoprimo della tetralogia Iliade, ed all'esametro 12 indica il tema generale tramite 'U..tofh. E a metà della tetralogia, ecco l'officina dell'avvenire a quella quota beotica "seimila". Diomede-Omero sdegna l'ego e vuole un compagno: "quando due stanno insieme, l'uno pensa per l'altro a come vada per il meglio: ma uno quando è solo, anche se pensa, la sua mente è più corta, e debole è il pensiero" (K 224-226). Nel recinto esclusivo della sua rapsodia Stasino-Aretino fa parlare modernamente un caposquadra. L'Omero solitario delle Ciprie non faceva che marciare e con la memoria raggiungeva ogni terra, ma l' esametro gli usciva dalla bocca ibrido, snaturato (O 82-84). Invece la ben confezionata Ira di Achille, qual Bella Collina, degradava bellamente, di ciglio in ciglio, Y 149-151; in B 811-814 la collina cipria è ispida, scoscesa. Ora a metà, a chi compie la marcia fino alla fine, sarà donato il compagno in persona, l'Aretino dell'ultima notte, la pecora nera, il pernio dell'officina. Mediana, la rapsodia nera misura 573 esametri, i comandanti sono 48, dunque 573 X 48 = 27.504; ossia tutta la tetralogia 27. 540 xilografata, "un dono nobile e senza pari", sarà cantata ovunque: reduce dal telaio della storia Elena-Omero guardava all'avvenire canoro (Z 354-458). Esatto, l'autore dell'Ira dà ogni e fulminante notizia sulle misure. Cito solo i diciotto libri perduti: Ciprie esametri 7038, Etiopide e Distruzione d'Ilio esametri 5025. Il testo dei libri tramandati è pressoché indenne. Gli spiritosi guizzi autobiografici sono dissimulati, ma a un Pindaro, per es., non sfuggirono.

* * * Il quadro con Elena al telaio è il terzo del libro terzo. In tutta l'opera l'autore intesse, nei quadri 1-2-3 di una terzina libraria, una notizia di rilievo. Primi tre libri: A 8-52, quadro secondo: dopo il proemio Crise apre, le mani impedite; parla e ripete quel che era appena stato raccontato. Agamennone replica con pari indolenza; anche il suo intervento è tutto fumo. È lo stile delle Ciprie, citate nel proemio; Criseide-Briseide erano già ciprie. Il segnale ciprio apre, con Tebe-Eezfone, una didascalia dichia-

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ratarnente superllua e detta da un aedo fustigatore delle Ciprreorali, A 366-392. Crise è al centro di un quadro massimamente tipico e primitivo, esametri 66, A 308-317 + 432-487. Lo stile ciprio coinvolge in A esametri 138; le Ciprre, in tutta l'opera, stanno in dieci quadri, 606 esametri (606: analogia con il quadro-guida 66); le Ciprre misurano 7038, ossia 138 X 51.

B 1-83, quadro primo: Zeus insonne chiama Sogno, gli comunica un messaggio in 5 esametri, raccomandando massima precisione. Il messaggio viene ripetuto in sogno ad Agamennone; Agamennone sarà in grado di ripeterlo con ogni esattezza all'assemblea. Grazie alla scrittura, il testo non muta, neanche in sogno, neanche a grande distanza. Il modulo dei cinque esametri si appoggia a cadenze tipiche della tavoletta.

r 121-145,

quadro terzo: Elena tµeQoç(nonché l>µT)QOç, "pegno") prepara il progetto bellico in ventiquattro libri e ventuno canti; una parente la interrompe avvertendo delle novità.

*** NÉQCltro, bie Maxaov, 61tooçfatm 'tabe fQya· µ€(t(l)V61)1taQà VTtUOÌ.po1)itaÀEQÒ)V alt11rov. 6)J.à où 1,1,ÈV v&v nive xaihlµevoç aiito1ta olvov, elç 6 xe &eµà wnQà tum.6xaµoç 'Exaµ116"...

A Taranto, secolo di Archita, un pittore ritrae un efebo imberbe, atletico, non calzato, un petaso chiaro stile Ermes, nella destra uno stilo e nella sinistra una tavoletta. Meraviglioso, l'osservatore prende appunti, di fronte ha Menelao, si vedono Odisseo e molti altri personaggi, Elena con Leda. Al di sopra del capo riccioluto: 8EPl:IT.Al:. Arthur Dale Trendall nel '78: "La presenza di Tersite è meno facile da spiegare, egli non mostra nessuna delle deformità omeriche; sembra prenda appunti per poi malignare". Enrico Paribeni, voce enciclopedica per Ranuccio Bianchi Bandinelli, nel '66: "L'atto di Tersite che legge o incide dei grammata in una tavoletta promette sorprendenti rivelazioni che per ora non sapremmo anticipare". Heinz Munding '59 e Gregory Nagy '79 avevano intuito che il Tersite del secondo libro iliadico doveva essen- un giovane poeta antagonista. Sotto la maschera scim-

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miesca l'oratore bellico Tersite impersona, infatti, il poeta nato a Pithekoussai-Scimmie, il mattatore in erba, l'amanuense che entra in scena e sta memorizzando ancora, ad alta voce, parole su parole. Nell'86 confezionai un misurato avviamento con un'antologia di scritti dal '75 intitolato Formula della/orma agli al.borideU'Occidenle, preparato per ascoltatori in maggioranza matematici, fisici, psicologi: il convegno padovano, guidato da Cesare Musatti e Claudio Villi, ha prodotto degli Atti che possono essere raggiunti scrivendo al corso di Letteratura Greca dell'Università di Padova ovvero all'Istituto italiano di studi filosofici, Napoli, titolo: Forma RappresentazioneStru.Uura, 1989. I Lincei stanno allestendo le mille pagine di Giorgio Buchner e David Ridgway Pithelcowsai I con una mia Nota testuak e ili.adica; i lettori si ricorderanno che la prima edizione del testo pitecusano risale al '55, quando consultai anche Bruno Gentili per il trimetro giambico della prima linea. Oggi, come ho detto ai miei studenti nel marzo scorso, l'autore del testo-cifrario pensò ad un supplemento per evitare il coriambo intenzionale all'inizio; ad un altro supplemento pensò per evitare l'allungamento in iato dell'epiteto in terza linea. Ambedue i supplementi sono anche "politici", pour cause.

Odyssey 19, 440-443, the Boar in the Bush: Formulaic Repetition and Narrative lnnovation Joseph Russo

Ever since Milman Parry's important work emphasizing the powerful force of traditi on in Homeric poetry, there has been a steady stream of dissenting scholarship that continues to insist that this tradition allows the poet far more freedom than Parry envisaged 1• This paper is a small contribution to that ever-growing stream. It is especially fitting that it appears in a volume honoring Bruno Gentili, because his own prodigious scholarship has always emphasized the strong role of tradition in Greek poetry, viewing orality not in the narrow intellectual framework offered by the tenets of strict Parryism, but locating it instead in the creative dynamics of performance. My study will focus on one instance where, in the creative dynamics of narration, the poet of the Odyssey was free to depart from automatic repetition when adapting an existing motif to a new context. The fifth book of Homer's Odyssey closes with a scene in which Odysseus, having barely survived the wreck of his raft and a battering on the rocky coast of Scheria, finds shelter in an enclave fonned from two kinds of olive tree, the familiar elaia intertwined with the phylia, which is regularly undestood to mean a wild olive. These two trees have

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Parry's narrow view of poetic freedom to innovate may be illustrated by a pas• sage from 'Studies in the Epic Technique ofOral Verse-Making. I. Homer and Homeric Style', Harv. Stud. Class. Philol. 41, 1930, p. 146 (= A. Parry, ed., The Makingof Homeric Verse, Oxford 1971, p. 324): "Unlike the poets who wrote, he can put into verse only those ideas which are to be found in the phrases which are on his tongue ... At no time is he seeking words for an idea which has never before found expression.•. ". The scholarship dissenting from this view is too copious to cite, but the reader should note two strong attempts within the American scholarly tradition to rescue Homeric artistry from the crippling embrace of strict Parryism: M. N. Nagler, Spontaneity and Trad.ition:A Study in the OralArt o/Homer, Berkeley-Los Angeles-London 1974, and N. Austin, Archeryat the Darleofthe Moon, Berkeley-Los Angeles-London 1975, esp. Ch. I. The best short critique of Milman Parry's approach remains that of Adam Parry's 'lntroduction' to The Making o/Homeric Vene.

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J. Russo

grown together so 88 to offer a protected inner space insulated from the

bl88t of damp winds, the piercing rays of the hot sun, and the rain. The description of this shelter runs 88 follows (Od. 5, 476-482): 6moùc;6' 6e' um')À.uite: Mµvouc;

t; 6µ6ittv :n:eq,u(I).

The episode has been harshly treated by analysts, who have often regarded it as a late interpolation that would harmonize Odysseus' mild death here with the version in the later Telegoneia 2 • And Odysseus' dismissal of the prophecy in 11, 139-144, to which we shall tum presently, seemed to be one of those places where the sharp-eyed analyst could most clearly pick out the rough seams of badly stitched together pieces of tradition 3 • There is no need lo fight these battles again bere; but the present study will, I hope provide further arguments for the narrative integrity of these passages. In Homer and in most of the folkloristic examples cited by Dorson and Hansen the oar mistaken for another implement belongs to a nautica! context; and to the sailor this mistake is the ultimate sign of othemess, the indication of a way of life totally antithetical to his own. It is, then, the appropriate closure for a hero whose dominant characteristic is "seeing the cities of many men and coming to know their minds" (Od. I, 3)4 • To find a people totally unfamiliar with the sea is the final experience of the alien and unfamiliar. But more important, Od. the joumey of this sea-tossed sufferer (oç µaÀ.a,w;ollà/ ,w;>..ayxihJ, 1, I f.) finds its peaceful end when he reaches a piace where the sea and its ways are unknown. This is the piace for him to "fix the well fashioned oar in the earth" (ya(n, 11, 129 = 23, 276). The gesture is the sign that what awaits him is "death most mild, away from the sea" in peaceful old age (Il, 134-136), the death of a settled king, not an unlucky hero and wanderer5.

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For recent discU88ion and bibliography see Omero, Odissea 111,Libri IX-Xli, ed. Alfred Heubeck, Milano 198.3, ad 11, 100-137 (p. 268 f.) and ad 11, 121-137 (p. 270 f.); also idem, op. cil. VI, LibriXXI-XXIV, 1986, ad 23, 247-288 (p. 315). See also Hansen (1977), p. 32 ff.; John Peradotto, 'Prophecy De,uee Zero: Tiresias and the end of Odyssey', in Oralità: Cultura, Le~ralura, Discorso,Atti del convegno internazionale, eds. Bruno Gentili and G. Paioni, Roma 1985, pp. 429-455, especially 438

O'. 3

See Rhys Carpenter, FolleTak, Fiction aNl Saga in the HomericEpics, Berkeley and Los Angeles 1958, p. 146. 4 Cf. Peradotto (above, n. 2), p. 445 n. 27. 5 Whether é; QÀoç in 11, 134 23, 281 means "coming from the sea" or "removed from the sea" has been discussed since antiquity. Though one cannot exclude the ambiguity inherent in oracular language, the latter is the more probable: see Han-

=

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c. Segai

Viewed in tenns of the v6atoç 88 a whole, this movement away from the sea completes the poem's pattern of escape from the sea or a meeting of sea and land that in one way or another closes off the sea. The most striking example is the framing of the retum by a shipwrecked sailor's rescue to the land, literally by Odysseus in reaching Scheria (5, 390 ff. ), figuratively by Penelope in the simile that describes her joy in recognizing Odysseus in 23, 233-2406. On the verge of his decisive sea-crossing in the Phaeacians' magical ship, the hero is compared in his impatience to a hungry farmer plowing his fields (13, 31-35). When he h88 left behind his wanderings on the sea, that marine world is closed off forever by Poseidon's tuming the Phaeacian ship to stone, blocking their harbor and making them cease from conveying men over the sea (13, 149-184). Their 188taction in the poem, 88 Odysseus' in his remote future, is to appease the angry sea-god Poseidon with sacrifices (13, 181-187; cf. 11, 130-132)7. In his first private interview with Penelope, in disguise, Odysseus brings together the fertility of the sea and of the earth as part of her honor as the queen of a fertile land (19, 112-114). A ship's cable will fasten the doors of the hall to enable him to take complete vengeance on the suitors (21, 391 f.); and he will use the "rope of a dark-prowed ship" to hang the delinquent maidservants (22, 465). The unrecognizability of the snow shovel in the Yukon marks a remote piace and time of desiderated wealth, here associated with the lucky win of S 1,800. In the Odyssey the gain implicit in the unknown oar is of course not the grossly defined lump sum of money discussed by "some of the boys in a saloon", but the peaceful end of a life of wandering and seafaring. In both cases, however, the unfamiliarity of the workaday instruments belongs to an escapist mood, a life easier than the present toilsome existence. lt is characteristic of the sacred background and ritualizing quality of the Homeric poems, however, that Odysseus is told not merely to

sen (1977), pp. 42-48. Fora recent discussion of the oar in relation lo the life-cycle oiJbq,: Homeric Herodepicted in the Odyuey see Thomas M. Falkner, ''Ent Y'IQ(XOI; in T. M. Falkner and Judith de Luce, eds., ism, Old Age,and the End of the Ody:s:sey', OldAge in Greekand latinlileralure, Albany N.Y. 1989, pp. 21-67, especially 49 ff. 6 See my esaay, 'The Phaeacians and the SymbolismofOdysseus' Retum', Arion l, 4, 1962, p. 37 ff., especially 43. 7 For a recent discussion of the many problema in this scene see Peradotto (above, n. 2), p. 446 ff.

Teiresias in the Yukon

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plant the oar in the ground; he is also to perform a sacrifice to Poseidon, the hostile god of the sea (11, 130 f.). lndeed, the oar has sometimes been regarded as a cultic dedication, marking the tale as an aition for shrines of Poseidon in inland places like Arcadia 8 • Teiresias in fact introduces Poseidon in the opening words of his prophecy (11, 101103): 'tÒVbt 'tOLàrrtaliov ih')Éa, q>a(bLµ''ObuooEù). Yet Odysseus himself seems to find little comfort in the remote death of peaceful old age. He seems remarkably indifferent about the end of his life and merely acknowledge his future destiny as "what the gods themselves have spun out" (11, 139), a phrase that suggests an attitude of resignation in a cool and distanced perspective 10 • lnstead he tums back to the question of his mother, whom he saw but refrained from addressing just

8

See Haneen (1977), p. 32 ff. The relation between Homer and folktale has been much rlil!Cuseed.On this episode eee Peradotto (above, n. 2) passim, especially p. 434 ff.; Hansen (1976) and (1977) passim; in generai, Carpenter (above, n. 3) especially p. 18 ff.; D. L. Page, Folkta/a in Homer's Odyssey, Cambridge Mass. 1973; Uvo Hoelscher, 'The Tranaformation from Folk-Tale to Epic', in B. C. Fenik, ed., Homer:Tradition and lrwention, Leiden 1978, pp. 51-67. 10 The tone of distance and generality also characterizes the similar expreseion that Alcinous uees in the books just preceding: 7, 197 f. and 8, 579 f. 9

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before Teiresias' arrivai (11, 84-89). The contrast between Teiresias' distant vision over the whole course of a mortai life and the hero's immediate wish to address the mother whom he left alive years ago in his homeland belongs to the poem's large concem with the nature of mortality, in this case expressed in the different attitudes of a shade in Hades and a living man from the upper world. A different but analogous contr88t occurs when Odysseus h88 in fact accomplished his v6atoç and is reunited with Penelope. When the first wave of joy and weeping is p88t, Odysseus checks Penelope's happiness with a brief allusion to future toils that lie ahead, just 88 the prophet Teiresi88 had told him in Hades (23, 248-255):

tl>yuvm, O'Ùy6.Qxro xétvtrov btì. 1tELQ,otE br) xadflriv Ml,WV·Ai:boç;Etoro, v6atov h«LQOLOLV bL~'lµEVOç; T)b't1,WlaÙ'tq>. ID' lQXEU,À.ÉX'tQOVb' toµEV,yuvm, 6q)Qaxaì. i\bri umcp U1t0yÀ.uxEQq'> 'tOQ1troµd}axmµrittvtEç;.

250

255

Line 253 is a reference back to the opening of Teiresias' speech: v6atov ha(QOtotv bttfiµEVoç itb' lµot aùtét;yt ftrot 'tEÀ.Éouatv liQEI.OV, èì.JtroQTJ 'tOLbttL'ta xaxrov ùrctilu;Lv fata&m.

At this point the dialogue breaks off as Eurynome prepares what is, in essence, a bridal chamber for the reunited couple (23, 289 ff. ). Odysseus had begun this scene witb the foreboding of àµb;QTl'tOç n6voç (23, 249); Penelope, insisting on sbaring that suffering, defuses it with a more optimistic, if still resigned, mood, the promised "hope" of "avoiding woes" (287) 11• This is the proper mood for the pbysical reunion; but it also illustrates the full complementarity of husband and wife in marriage, tbe 6µoq>QOO'U'Vfl whicb Odysseus bimself bad praised as one of its cbief rewards (6, 181-184) 12 • The mucb-enduring wanderer looks tbe future dangers in tbe face and is ready for still more endurance; the long-waiting wife, wbose years of patience bave been sustained by just tbat "bope" (iln0>Q11)of wbicb she bere speaks, takes a more 11

Peradotto (above, n. 2), p. 453 finds "some disappointment, if not bitterness" in Penelope's remark. That may be true, but she does speak of "hope" in a way that Odysseus does not; and her dominant tone, especially by constrast to Odysseus' in 266 f., is optimism: see Heubeck (above, n. 2), ad 286 f. (VI, p. 316): "La risposta di Penelope è breve: il contenuto del racconto non l'ha tanto allarmata, quanto ha piuttosto rafforzato la sua fiducia". lt is perhaps worth noting that ali such explicit expressions of "hope" (Un~) in the poem are made to Odysseus by an encouraging female at a point when he is in uncertainty or crisis: 2, 280 (Athena), 6, 314 f. (Nausicaa), 7, 76 f. (Athena). 12 Fora good discussion of OJAOCPQOOUVTI in the poem see Nonnan Austin, Archery at the Darle of the Moon.:Poetic Problems in Homer's Odyuey, Berkeley and Los Angeles 1975, pp. 181, 188 f., 203 f.

68

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positive view. Once having accepted the disguised beggar as Odysseus, she at once takes on a truly wifely role, supporting him in the face of uncertainty and lightening the burden of the ÒµÉ'tQTl'tOçmSvoç (23, 249) that hitherto he has had to bear alone. Much more could be said of these scenes, and interpreters from antiquity to the present have said much more. But even this brief comparison of folkloristic anecdote and Homeric narrative makes clear how a great poet transfonns folklore and anecdote into those situations of profound human meaning that lead us back to the poem again and agam.

Addendum: Since the submission of this essay, I have discovered that the anecdote from the New York Times has been collected by William F. Hansen, 'Odysseus and the Oar: A Folkloric Approach', in Lowell Edmunds, ed., Approachesto GreekMyth, Baltimore 1990, pp. 241-272, on p. 261. Our interpretations and concems, however, are quite different.

Le aporie di arete dall'epica a Platone Antonio Capizzi

La radice ari in protoindoeuropeo doveva significare qualcosa come "nostro", "del nostro popolo" 1: non a caso il Rgveda, che esprime la mentalità degli invasori nomadi in India, parla di "colore arya" (III 34, 9) o di "colore nostro" (I 104, 2) con lo stesso significato. L'isoglossa, una volta che i guerrieri "arii" venuti dalle terre aride hanno sottomesso gli agricoltori sedentari preindoeuropei, diventando in ogni luogo la classe dominante 2 , finisce per indicare in maggioranza la "superiorità" dei nobili discendenti dagli invasori: nel Rgveda (X 49, 3) il "nome arya" è protetto da lndra e Agni; i Medi del tempo di Erodoto (VII 62, 1) ricordavano di essersi chiamati un tempo "Arii", e "lamento ario" era detto, come attesta Eschilo 3 , un canto funebre proveniente dai Medi Cissii; Airyana in avestico e 'AgLavo( in greco4 erano denominati gli abitanti dell'altopiano persiano orientale detto da Strabone (XV 2, 1, 720) 'AQLOVTI(da cui "lran" 5), mentre popoli "non arii" (ltvagLaxaL) erano ricordati da Greci e Persiani nella Media settentrionale 6 ; nell'Avesta venivano spesso contrapposte le stirpi arie (airyao dainvalw) a quelle non arie (anairyao dainvalw), e Dario volle definirsi "ario di stirpe aria" mentre i Sassanidi si dichiaravano "re dei popoli arii e non

1

E. Benveniate, Le vocabulaire tks ùutilutioru indo-europhnnes, Paria 1969 (cito dalla trad. it. Il vocabolario tklk istiluzioni ind«uropee I, Torino 1976, pp. 282-286). 2 Rinvio per questo al mio volume L'uomD a ~ ~. Firenze 1988, pp. 171174. 3 Choeph.423 (XOl'J&ÒV •A()LOV). 4 Diodor. Il 37, 6, cfr. I 94; Aelian. Nat. anim. XVI 16. 5 T. Giorgi, 'L'origine degli indoeuropei', Rivista d'Italia 1914, p. 56.588. alla p. 575 n. I. 6 R. Stobe, 'I regni degli indoeuropei in Asia e i popoli dell'Asia centrale', in ID, a cura di J. Pflugk, Milano 1924, p. 321 88., alle pp. AA. VV. , Storia r.uawe13ale 397-398.

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A. Capizzi

arii" 7 ; • AQLOLerano detti certi abitanti della Battriana 8 e •AQLClXaLaltri stanziati tra il Caspio e il lago di Aral 9 (da cui forse il nome "Alani", i cui discendenti, gli Osseti del Caucaso, chiamano se stessi Jr e il loro paese /ron) 10 ; ari era il nobile armeno, aire il padrone di terre irlandese 11 (è stato sospettato che il nome stesso dell'Irlanda significhi, come Iran, "paese degli Arii") 12 ; arimanni erano detti dai Longobardi i guerrieri scelti dipendenti solo dal re e possessori di terre ereditarie. Non può dunque sollevare meraviglia alcuna che in greco lxQL-sia prefisso di superiorità, che lxQLO"toç; sia il nobile 13 e lxQE't'tll'eccellenza 14 : "primeggiare sempre ed essere superiore agli altri" 15 • L'eccellenza dell'arete sembrerebbe, alle origini epiche della morale greca, un emergere dell'eroe sulla massa nel combattimento: per Ettore l' arete del temuto Diomede verrà misurata il giorno dopo sul reggere o meno l'urto della sua lancia (/l. VIII 535); con la loro a. i Danai spezzano le file nemiche (Il. XI 90); ldomeneo chiarisce al fido Merione che l'a. si mostra in un agguato e cioè in un'impresa militare particolarmente impegnativa per la quale debbono essere scelti gli aristoi (Il. XIII 275-277); infine Achille, sfidando Ettore all'ormai inevitabile ultimo cimento, cosl lo ammonisce: "ricorda ogni a.: ora devi essere il più possibile forte guerriero e coraggioso combattente (alxµfl'tT)V... xal itaQouÀ.f1 eccellendo egli -fiµh 1t6baç -fibè del padre Copreo xavto(aç ixQE'tClç, µaxeoi>aL, / xat v6ov, Il. XV 642-643). Il v6oç, o meglio il OO>q>QOVELV, diventa l'ixQE'tT) µey(O'tT) in un sapiente pur estimatore al 22 massimo grado del polemos come Eraclito (fr. 112); e in Tucidide si fanno esempi più specifici delle due aretai omeriche, quella bellica ricordata nei discorsi dei Corciresi (I 33, 2), dei Corinzi (I 69, 1), dei Plateesi (III 58, 1) e degli Ateniesi ai Melii (V 105, 4), e quella saggia: dare più che ricevere nell'Epitafio di Pericle (Il 40, 4), accordarsi moderatamente col nemico per gli ambasciatori di Sparta ad Atene (IV 19, ... tç CÌÀ.À.f1À.0Uç) secondo quelli di Mitilene 2), lealtà reciproca (lxQE'tfl (lii 10, l; anche in Tucidide [II 45, 2] c'è un'a. delle donne, ma affine alla virilità, consistendo essa nell'essere forti in caso di vedovanza). Gorgia,maestro del xatQ6ç, riprende l'uno o l'altro significato a seconda dell'occasione: nell'Epitqfio 23 a. significa valore in guerra, nell'Elena è il x6aµ.oç (la correttezza) dell'azione, come la sapienza per l'anima e la verità per il discorso 24 •

18

Pyùi. IV 186-187; fr. 69a, 15 Sn. -Maehl., su cui B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Roma-Bari 19892, pp. 178-179. 19 I 176, l; VIII 92, l; IX 40. 20 Od. II 205-206; IV 725. 21 Il. I 258. Cfr. Capizzi, /oc. cit. 22 Heracl. frr. 53, 67, 80. Per la centralità di questo concetto in Eraclito si veda Cesidia Tullio, 'Eraclito: polemica e polemos', in AA.VV., Forme tkl saperenei presocratici, Roma 1987, pp. 95-ll3. 23 Gorg. fr. 6 D.-K. su cui G. Tortora, 'Il senso del xaLQ6çin Gorgia', in AA.VV., Gorgia e la sofistica. Atti del Convegno internazionale (Lentini-Catania, 12-15 dic. 1983), Acireale 1986, p. 537 88., alle pp. 552-553. Sulle aretai come oggetto degli encomi si veda Gentili, op. cit. p. 148. 24 Gorg. Hel. I. Si vedano in proposito: G. Casertano, 'I dadi di Zeus sono sempre truccati. Considerazioni sulla parola, l'occhio e le paBBioninell"'Elena" di Gorgia', Discorsi2, 1982, p. 7 88., allap. 18; 'L'amour entre logos et pathos. Quelques considérations sur l'"Hélène" de Gorgias', in AA.VV., Position tk la soplwtiqut!. Colloqut!tk Cmsy, Paria 1986, p. 211 88., alla p. 212; Tortora, art. cit. p. 552.

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A. Capizzi

I passi elencati rivelano, da Omero a Gorgia, non un'aporia ma una distinzione: le due aretai, e cioè l'àvbQd.a dominante nell'Iliade e primeggiante in Eraclito, sono appropriate a due diverse la CpQOCl'UVT} funzioni e appartengono dunque a due diversi generi di persone. Già Polidamante asserisce con estrema chiarezza: Ettore, tu sei incapace di lasciarti convincere dai discorsi assennati. Una volta che un dio ti ha dato le capacità guerriere in sommo grado, per questo pretendi anche di essere superiore agli altri in consiglio: ma non potrai prenderti tutte le cose insieme. A uno il dio ha dato l'arte della guerra, a un altro quella della danza, a un terzo la cetra e il canto; e c'è poi quello nel cui cuore Zeus ampiotonante mette una buona mente, di cui molti uomini godono e che molti ne ha salvati ma che egli solo conosce fino in fondo25 •

A Ettore e a Polidamante corrispondono in Eraclito i soldati che sacrificano la vita per la gloria26 e i governanti che cercano di capire a fondo la legge27 ; in Tucidide gli intrepidi combattenti e i moderati ambasciatori; in Gorgia i caduti in battaglia e i sapienti oratori: ma la distribuzione delle aretai per gruppo e funzione non cambia di molto. E tuttavia tra il mitizzare ionico di Omero e di Eraclito e il logo attico di Gorgia e di Tucidide è passato l'elemento destabilizzante: la tragedia, il mondo in cui le diverse aretai non si guardano da opposti e ben delimitati territori, ma entrano in conflitto, obbligando i protagonisti a scelte laceranti 28 • Andreia e sophrosyne si affrontano duramente assai presto, già nei Sette a Tebe, nel conflitto tra Eteocle e le fanciulle tebane costituenti il coro29 : il primo rimprovera aspramente le seconde per la loro paura (Sept. 182-186), le chiama "pecore insopportabili"

25

Il. XIII 726-734. Cfr. A. Capizzi, La repubblica cmmica, Roma 1982, p. 206

26

Heracl. frr. 24, 25, 29, 62, 63. Cfr. A. Capizzi, Eracliw e la "ua leggenda,

88.

Roma 1979, pp. 55-56. 27

34

88. 28

Heracl. frr. 33, 35, 41, 44, 47, 49, 108, 112, 114, 116. Cfr. Eraclilo, cii. p.

Rimando, per questa lettura della tragedia,al mio già citato L'uomo a due anirM, pp. 255-278. 29 lvi, p. 259. Si vedano anche: A. J. Podlecki, 'The Character of Eteocles in Aeschylus' Septem', Tra,u. Am. Philol. Au. 95, 1964, pp. 283-299; Z. Pètre, 'Thèmes dominants et attitudes politiques dans les Sept contre Thèbes d'Eschyle', Studii Cla,.,ice 13, 1971, pp. 15-28.

Le aporie di arete dall'epica a Platone

73

(181), le invita (come Ettore più dolcemente faceva con Andromaca, Il. VI 490-493) a restarsene a casa lasciando ai maschi la battaglia (Sept. 230-232), insiste perché smettano le loro grida di terrore (236-252); le donne cantano una lunga protesta contro la guerra (287-368) e invitano poi Eteocle ad ascoltarle anche se non le ama (712), a curarsi più della vita che del coraggio (698-699), ad accettare anche una vittoria inglo. riosa (716), ma si sentono rispondere da lui che un simile discorso non può interessare "un maschio oplita" (6vbQ' OXÀ.t'tl)V,717). I personaggi tragici credono in due morali opposte, ma, lungi dal trovare il punto intermedio, ne accettano l'inconciliabilità e la soffrono fino alla catastrofe: è qui appunto che la "divisione dei poteri" in materia di a. si trasforma in "aporia delle aretai"'. Platone, portavoce di quel circolo socratico che (come Nietzsche vide acutamente) produsse una filosofia antitetica alla tragedia, si dedicò ben presto al superamento dell'aporia: già nel giovanile Trasimaco 30 vediamo ripresa la tradizione che, partendo da Omero (Od. VIII 329) e da Esiodo (Op. 287-291), passando perTeognide (335-336) e sfociando in Gorgia (Palam. 16) e Prodico (fr. 1 D.-K.), contrappone un'a. senza specificazioni a xa')«)fl)ç, xax(a, xaxà lgya (in Prodico Arete e Kakia, appunto le due parole che il Trasimaco contrappone, vengono addirittura personificate in due figure allegoriche femminili tra le quali Eracle dovrà scegliere). Traspare con una certa evidenza che al nobile e filospartano Platone 31 la sophrosynedelle donne tebane dice assai poco e che il suo cuore è dominato dall'ammirazione per l' andreia oplitica di Eteocle, per quell'avb{)Òç OQE'tT) che nel Protagora (325A) è collocata alla base della stabilità politica e che dialoghi imperniati sulla gloria militare come il Lachete (189B) e il Menesseno (241CD; 243C) chiaramente sottintendono allorché nominano l' a.: ma la sua ragione non può accantonare l'aporia, alla quale i dialoghi giovanili tentano di sfuggire insistendo sul tema dell'unicità dell'a. di cui le particolari aretai sono solo parti 32 ("quale fortuna sembra mi sia toccata, Menone, se cercando una sola virtù ne ho trovato, grazie a te, uno sciame!", Men. 72A). In realtà il numero delle "parti" dell' a. si accresce non tanto per suddivisione dell'a. unica, quanto piuttosto per ipotizzazione di caratteristiche

30

Rup. 348C; 353C. Su questa contrapposizione e sul suo significato si veda

E. A. Havelock, Diu. La nascila tkUa coscienza, Roma-Bari 1981, p. 383. 31 Si veda in proposito il mio Platonl! Ml .suoll!mpo, Roma 1984, pp. 19-31. 32

Pro,. 329C-333B; Men. 72A-758.

A. Capizzi

74

inscindibili da tale unicità: nell'Apologia(18A) e nel Menone (78D) l'a. sembra inseparabile dalla giustizia, nel Fedone (69B) dalla phronesis; ed ecco pronte le quattro "parti" dell'unica a. che la Repubblica distribuisce alle "parti" dell'anima e dello Stato. E tuttavia, come Hans Joachim Krame~ ha messo in evidenza con un'accurata analisi, l'aporia di base, e cioè il conflitto tra an.dreiae sophrosyne, si fa di nuovo potentemente sentire nella conclusione del Politico: le due aretai sono intrinsecamente nemiche, perché chi è troppo ardimentoso tende a diventare tracotante e chi è eccessivamente temperato sfiora facilmente l'ignavia (305E-308B); la conoscenza di che cosa sia bello, giusto, buono e di che cosa non lo sia è di origine divina (309C), e la maggioranza degli esseri umani ne è priva se il politico non la immette nelle loro menti attraverso una corretta educazione (309D); una àvbgda "'1JX'Isarà desiderosa di giustizia se adeguatamente educata, ferina se lasciata a se stessa, mentre una xooµ(a qrooLçsi rivelerà saggia nel primo caso e stolta nel secondo (309E); "e per questo dicemmo che questo è il nesso più divino delle parti della virtù naturale dissimili e portate verso opposte direzioni" (310A); educazione e natura dovranno puntellarsi a vicenda, nel senso che il politico, per avere a disposizione soggetti educabili, favorirà matrimoni tra persone aventi per natura aretai opposte e dissuaderà quelli tra aretai consimili (310C-311C). Il discorso ritorna nelle Leggi,(962C-964C); ed è allora evidente che la sintesi della Repubblica si è rivelata provvisoria, che il valore guerresco dell'Iliade e la cautela dell'Odissea non sono riusciti a fondersi in un'a. senza differenze. Su questo punto lo spirito tragico attico è rimasto fermo sulle sue posizioni, e il suo nemico socratico ha dovuto ripiegare dall'unità etica al compromesso pedagogico: un compromesso che toccherà il suo apice, etico e pedagogico insieme, con la teoria dell' a. come medium ampiamente svolta da Aristotele. Ma la nozione di a. soffre di una seconda incertezza destinata, come la prima, a evolvere in aporia platonica: l'oscillazione tra carattere innato e carattere acquisito. Omero, più saldamente agganciato al concetto indoeuropeo di ari come "superiorità naturale", opta sempre per il dono divino: come gli dei sono superiori ai mortali perché mag'tLµT) 'tE ~(T) 'tE (Il. IX 498), cosi per le stesse tre giori sono in essi ilQE't'Tl

33

'Arete' bei Platon und Ari.state~. Heidelberg 1959, pp. 148-154.

Le aporie di arete dall'epica a Platone

75

caratteristiche, il ~CJI.À.MEQOç34 Menelao è superiore al figlio di ~CJLÀEUçAntiloco35 ; 0disseo, dotato secondo Penelope "di tutte le aretai tra i Danai" 36 , augura ad Alcinoo che le stesse aretai gli dei le concedano in dono ai Feaci (Od. XIII 45-46); ma nell'Odissea è presente anche il processo inverso, la consapevolezza cioè che gli dei non si limitano a dare l' a. ma sono anche capaci di toglierla, come a Penelope (XVIII 250-251) o all'uomo libero che diventa schiavo37 • Innata o concessa dagli dei è indubbiamente l'a. dei piedi già osservata in Perifete (Il. XV 642) e ripresa da Tirteo (fr. 9, 2 Gent.-Pr.), quella delle ginocchia menzionata da Odisseo ad Anfinomo (Od. XVIII 132-133), quella delle mani e dei piedi insieme riferita da Pindaro (Pyth. X 23) ai vincitori degli agoni; tale a. intesa come superiorità fisica si estende ovviamente fuori della sfera umana, e cioè ai cavalli dai piedi veloci38 o a terreni particolarmente fertili 39 • Radicalmente opposto è il concetto di a. presente nelle Opere e gwmi di Esiodo, secondo il quale l' a. si conquista con l'ardua fatica (287-291) che conduce alla ricchezza (313): il concetto esiodeo prenderà un netto sopravvento su quello omerico, una volta che solo Simonide40 continua a considerare l'a. dono divino, mentre Teognide insiste sulla difficoltà di raggiungerla (335336) mediante azioni sagge (29-30), Pindaro ritiene che la si vinca nelle gare41 , Senofane (negatore accanito delle eccellenze agonistiche) 42 parla di "tensione" ('t6voç) attorno ad essa (fr. 1, 20 Gent.-Pr.), Sofocle la concede a Eracle come premio di fatiche e affanni (Philoct. 1420), Euripide nega che la si ottenga con amori smodati (Med. 627-630) e constata la dissennatezza di coloro che se la procurano (x'tc:ioite)"con guerra e con lance di forte tronco" (Hel. 1151-1153), Democrito parla di "educazione ali' a." più efficace con lo strumento della persuasione che con quelli della legge e della costrizione (fr. 181 D.-K.). L'accezione ormai dominante trovò la sua più agevole colloca34

35 36 37 38

39 40

41 42

Cfr. Il. X 239-240, su cui Capizzi, La repubblica cosmica, cil. p. 200. Il. XXIII 578, su cui Capizzi, L'uomo a due anime, cil. p. 186. Od. IV 725, su cui Havelock, Dik, cil. p. 184. Od. XVII 322-323, su cui Capizzi, L'uomo a due anime, cil. p. 185. Il. XX 411; XXIII 276; 374-375; Herod. III 88, 3. Herod. IV 198, l; VII 5, 3. Fr. 541 P. su cui Gentili, Poesia e pubblico, cil. pp. 85-87. 01. VII 89 (cfr. II 53); Nem. V 52-53. Fr. 2 Gent.-Pr. su cui Gentili, op. cil. pp. 97-98.

A. Capizzi

76

zione nella paideia dei sofisti: in Prodico (fr. 1 D.-K.), che riecheggia certamente sia Esiodo che Sofocle, l'A . personificata spiega a Eracle il duro prezzo che chi la sceglie dovrà pagare; in Gorgia (Palam. 20) Palamede ricorda la propria fatica per arrivare a vivere bt' àQE't'fl:ma xaì.àQE'rijçbLbaaxaÀ.oç43 soprattutto Protagora si dichiara JtaLbE'UaEooç specificando che l'arete da lui insegnata è politica 44 • Platone non ignora certamente l'accezione tecnica e professionale della parola 45 , ma è irresistibilmente attratto, da buon aristocratico, 46 dalla (J)'UO'tÉQOlOlV

OTIJeLx&dç btl yijç ... 8 •

Questo monumento poetico dell'oplita ci è giunto sotto il nome del più spartano dei poeti, ma sappiamo bene che esso riflette una valutazione e un'immagine ben radicate nell'animo di tutti i Greci, per lunghi secoli. Per il combattente in mare, le cose stanno in maniera alquanto diversa, e non sapremmo indicare un degno contraltare ai versi di Tirteo9 • Vogliamo invece rileggere due passi di prosa, da opere assai famose della letteratura greca, ma destinate ad assumere in questo contesto un colorito e un'allusività che forse ci sono finora sfuggiti. I capitoli 11 e 12 del IV libro di Tucidide sono pieni di azione e di drammaticità. Nel colmo della crisi di Sfacteria, gli Spartani comandati 7 Per esempio. si veda Tucidide VIII 24, 2: [gli Ateniesi] dxov... btLfxxtaç twv 6Jd.LtWV b( xataÀ.OyOU lrvayxaatouç. 8 Tirteo, fr. 7, 31 s. Gent.-Pr. 9 La grandiosa descrizione della battaglia di Salamina nei Persiani (v. 353 ss.) sembra un unicumnel suo genere. per cui non mancano le spiegazioni. Qui il patriottismo ateniese pesa più che mai, e la tragedia era una celebrazione cittadina.

Marinai e guerrieri, da Omero ali' età ellenistica

83

da Brasida cercano di sbarcare sul lembo di terra peloponnesiaca occupato dagli Ateniesi. Lo scontro è violento e prende forme inconsuete. Tucidide stesso conclude il passo con una riflessione quasi divertita sulla paradossalità della situazione: i padroni del mare sono schierati a terra a piè fermo, e respingono i dominatori dei campi di battaglia terrestri, costretti a puntare tutto su una rischiosa operazione navale! Brasida, che è al comando di una triere, nota incertezza ed esitazione negli altri trierarchi e xufJEQ'Yii'tatdavanti alla difficoltà di andare a terra su un tratto di costa sfavorevole per natura. Indignato, comanda allora a gran voce che si sbarchi a tutti i costi, senza preoccuparsi di fracassare le navi, davanti al pericolo che i nemici si attestino con una fortificazione sul suolo patrio: tf:loa'>.tyOYV Ò>çoùx Elxòç dfl ;i,MOV q>Et.OOµtvouç'tO'Ùç 1touµ(ouç tv tji XOOQeuyouaLbTJ'ttvaç oùx alaxQOç, ooç 18 q>aUyaç) •

Il grande nome di Platone rimase per sempre legato a questo atteggiamento di diffidenza e rifiuto verso la guerra navale, vista come un cattivo banco di prova per la tempra di un combattente, anzi fattore di diseducazione, in confronto al combattimento oplitico, che è la forma di guerra tradizionale e rispettabile. Il ricordo del biasimo di Platone per la marineria servirà a Plutarco per introdurre le sue notizie sull'opposizione reazionaria a Temistocle, che fece opera di democratico trasformando gli Ateniesi in mari-

Platone, Leggi IV 706 c. Notevole anche ibid. 707 a: xaxòv tv taì.ftttn 'tQL1'QELç 6ru.('tmç naeEatV tE 11:QQ OutE~ l:val(yxLOVOutEVOY)µa.

Notte e i suoi figli

107

Si deve a Hennann Frankel, nella seconda edizione del suo Wege und Formen.friiJ,,griechischen Denkens9 , un complesso di importanti osservazioni su questo brano (vv. 211-225) della Teogonia. Per quanto qui ci interessa, è opportuno tener presenti certe differenze di fondo, appunto messe in luce da Frankel, che distinguono le diverse entità provenienti da Notte, conformemente alla duplice essenza che è caratteristica della genitrice 10 • Notte è non solo "Deckwort" del concetto di negativo, ma è anche una realtà cronologica o, se si vuole, astronomica, per cui "alles Negative niichtig ist, ohne nicht alles Nachtige negaliv ist". Da ciò la compresenza, nella progenie di Notte, per esempio, di Moros, Ker, Thanatos, ma anche delle Esperidi e di Philotes. Accanto a questa di Friinkel va tenuta presente un'altra importante ricerca, quella di Dieter Bremer del 1976 11, anch'essa interessata, per quanto riguarda Notte esiodea, al problema del rapporto fra questa e la sua prole. Neanche Bremer sfugge alla tendenza a cercare qualche principio che valga come elemento unificatore della disparata progenie di Notte, e lo individua nel "Verhilllen", nel nascondere. Sul grado di validità esaustiva di questo principio si può discutere, ma merito della ricerca rimane quello di aver ribadito, dopo Frankel, la molteplicità anche, almeno all'apparenza, discorde - delle componenti che coesistono in Notte e nella sua discendenza. Ebbene, tracce sicure di tale molteplicità noi crediamo siano reperibili anche nel concreto dei modi in cui Esiodo espone il suo pensiero in questo brano, a incominciare da una circostanza che, forse, non è stata finora valutata nella sua importanza, e cioè: Notte compare, come si è detto, accompagnata dall'epiteto lQEIJEVYT) al v. 213, da ÒÀOT)al v. 224, senza alcuna attribuzione al v. 211. Ora è legittimo domandarsi: stante la differenziazione della stirpe che da Notte discende, sarà senza significato che l'aggettivazione che caratterizza la genitrice presenti variazioni nel corso del brano? t una domanda, questa, che in parole più esplicite si può formulare nel 9

Milnchen 1960, p. 317 88. Sulle caratteristiche della progenie di Notte generiche sono le osservazioni di West nella sua edizione commentata (lntr. p. 35 s.) che spiega come da quella discendano Momos (Cavil), Oizys (Pain), Nemesis, Geras (Age), Eris (Strife) "because they are darlt and dreadful". 11 'Licht und Dunkel in der frilhgriechischen Dichtung', Archivf. Begrijfsgesch. Suppi. l; per quanto qui ci interessa cfr. p. 180 88. Questo lavoro è ricco di meriti, utile anche nella parte relativa alla valutazione delle differenti proposte di individuare caratteristiche che accomunino Notte e la sua prole. 10

G. Arrighetti

108

modo seguente: sarà infondato il sospetto che questo variare dell'aggettivazione della genitrice sia in qualche modo connesso col variare delle caratteristiche della prole o, se si vuole, con l'emergere di volta in volta delle differenti caratteristiche che compongono la complessa entità di Notte - come ci ha insegnato a considerarla Frankel - e che si manifestano nelle diversità degli esseri che da quella provengono? Che l'uso esiodeo dell'aggettivazione si diversifichi da quello dell'epica eroica tradizionale è un dato accertato dalla critica. Tale diversificazione si manifesta in maniera vistosa in una tendenza alla risemantizzazione di molti epiteti, e costituisce un fatto rientrante in modo armonico nel complesso degli elementi testimonianti in Esiodo quella profonda e seria riflessione sui mezzi espressivi che di lui è uno dei tratti caratteristici 12 • Sull'aggettivazione esiodea, osservazioni ancor oggi fondamentali furono fatte da lnez Sellschopp già nel 1932 nella sua dissertazione amburghese 13 ; grazie ad esse veniva dimostrato in modo del tutto convincente come in Esiodo sia riscontrabile la tendenza a scomporre i nessi tradizionali nome + epiteto per utilizzare l'epiteto, resosi cosl libero, in nuove connessioni con sostantivi differenti. Accade cosl che, in questi casi, l'epiteto cessi dalla sua funzione esornativa per assumere pienezza di significato e valore determinante ai fini della caratterizzazione della realtà. Su osservazioni analoghe, relativamente alle troppo frequenti innovazioni da parte di Esiodo nei confronti del

12

Su un piano generale, relativamente alla riflessione di Esiodo sulla lingua, alle differenze che a questo proposito lo distinguono abbastanza nettamente da Omero, ai presupposti, infine, sui quali questa riflessione si fonda e dai quali è motivata, rimando al mio Poeti, eruditi e biografi. Momenti della riflessionedei Grecisulla kueratura, Pisa 1987, cap. I. 13 Stilistische Untersuchungen zu Huiod, pubblicata nel 1934 (ristampata a Darmstadt nel 1967). Le pagine che qui interessano sono soprattutto quelle del cap. II, 18-41, e anche del VII, 106-107. La Sellschopp, con il suo lavoro, forniva già allora alcuni strumenti capaci, come minimo, di contenere la marea oralista che le ricerche quasi contemporanee di M. Pany avrebbero scatenato qualche decennio dopo. Quando quella marea arrivò e poi minacciò di sommergere anche Esiodo, ben pochi ebbero presente il lavoro della Sellschopp. Arie Hoekstra, per esempio, nei suoi pur importanti articoli sull'oralità di Esiodo, pubblicati in Mnemosyne 3, 1950, pp. 89-114 e 10, 1957, pp. 193-225, rammenta poche volte la dissertazione della Sellschopp, e solo a proposito del problema della priorità dell'Odissea o di Esiodo in alcuni punti di coincidenza. Questo problema del rapporto fra Omero e Esiodo costituisce il tema principale della ricerca della Sellschopp, ma ne rappresenta anche la parte piÌl opinabile.

Notte e i suoi figli

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complesso formulare tradizionale, si fondava, molti anni dopo il lavoro della Sellschopp, la parte di un importante libro di Albrecht Dihle intesa a dimostrare il carattere non orale della poesia esiodea 14 • Il problema dell'aggettivazione esiodea, delle novità che a questo proposito i tre poemi fanno registrare, è stato affrontato anche nel libro di G. P. Edwards, Th.eLanguage o/ Besi.odin its Traditional Context (Oxford 1971), seppure un po' cursoriamente 15 • Edwards, pur essendo oralista e quindi portato a limitare o addirittura a negare ogni carattere di novità alle divergenze della lingua di Esiodo nei confronti della tradizione dell'epica eroica, tuttavia non può fare a meno di riconoscere che "Hesiod is not everywhere so content to depend upon his predeces-

14

Cfr. A. Dihle, Homer-Probleme,Opladen 1970, p. 120 ss. Alla ricerca del Dihle va anche il merito di aver sempre lucidamente tenuto presenti le strette connessioni che in Esiodo sussistono fra innovazioni al livello dei mezzi espressivi e novità non tradizionali nei contenuti dei suoi poemi. Dihle ha dimostrato ancora una volta che ricerche sugli strumenti della dizione poetica di Esiodo che si limitino a dati puramente formali sono destinate a non conseguire mai un pieno successo. Un lavoro esemplare per completezza e chiarezza rimane la dissertazione di H. Troxler, SpracM und Wortschal.zHuiods, Zilrich 1964, al quale anche Dihle si rifà. Pur avendo interessi soprattutto grammaticali e più strettamente linguistici, il lavoro di Troxler fornisce una grande quantità di materiale, intelligentemente raccolto ed elaborato, assai utile per il discorso che andiamo facendo: cfr. in particolare pp. 165-182. 15 Le uniche pagine veramente interessanti dal nostro punto di vista, anche se opinabili per le idee ivi 808tenute, sono 51-54. Il molto materiale è utilmente raccolto, anche se non sempre giudiziosamente valutato. Basti un esempio che ci pare particolarmente significativo: in Th. 104-115, nel corso dellapropositiotMmatis, si elencano le divinità e le entità sulle quali Esiodo richiede l'ispirazione delle Muse, e al v. 109 si wtELQLtoç, o[bl'(ln ihJCwv.L'aggettivo wtElQLtoç per Edrammenta il mare: 1t0Vtç wards è "a straightforward epithet", mentre in Od. 10, 195, dove wtdQLtoç è riferito al mare che circonda un'isola, avrebbe funzione predicativa. Ancor maggiormente caratterizzate nel senso di rivestire una funzione puramente riempitiva sarebbero, sempre nello stesso verso della Teogonia, le parole 0[61,&(ltLihJCwv,qui "used purely as an additional epithet for the sea, conveniently filling the space at the end of the line", in confronto con Il. 21, 234 o 23, 230. Su questa valutazione proposta da Edwards a proposito delle attribuzioni del mare in questo verso del poema esiodeo, crediamo di poter legittimamente avanzare seri dubbi: si tratta di un luogo particolarmente importante e c'è da chiedersi se le caratterizzazioni qui proposte delle varie entità di cui si tratterà nell'opera non abbiano, al contrario, la loro pienezza di significato: non va dimenticato che la vistosa deroga dall'uso prosodico costituita dall'abbreviamento della prima sillaba dell'aggettivo yaL~oxoç in Th. 15, può essere spiegata con l'esigenza di non tralasciare questa qualifica del dio Poseidon, sentita come particolarmente caratterizzante da Esiodo, anche se l'uso del caso accusativo, obbligato in questo contesto, provocava appunto la deroga.

llO

G. Arrighetti

sors . . . and . . . he does from time to time depart from traditional fonns of expression" (p. 52). Con quanto fin qui si è argomentato, non si intende sostenere che ovunque l'aggettivazione esiodea abbia questa funzione cosl decisamente caratterizzante e ricca di significato, né, tanto meno, si dovrà pensare ad un modo sempre costante di vedere e di considerare la realtà e sempre nella medesima prospettiva, e nemmeno, infine, che, non mutando la prospettiva, non muti nemmeno la caratterizzazione e quindi rimangano fisse le attribuzioni. A tale proposito, ancora Notte offre un esempio istruttivo in Erga 17, dove, nonostante come in anche qui compaia come madre di Eris, è definita tgEflEVVTI, Th. 224-225, dove, come tale, è detta ÒMlfl. Pertanto il problema va posto caso per caso, fondandolo su un preciso esame della pregnanza semantica dei singoli contesti. Cosl, sulla base di tali premesse e dopo quanto si è constatato: a) sulla funzionalità di certi momenti di pausa, o di articolazione, all'interno della maniera in cui Esiodo redige alcuni elenchi di entità divine, b) sul significato che l'aggettivazione può assumere nella sua poesia, possiamo procedere ad una formulazione delle due condizioni sopra stabilite che sia più adeguata ai risultati ai quali siamo giunti fino a questo momento, nel senso che occorre esaminare se il testo tràdito soddisfa alle esigenze poste da quelle due condizioni. In altre parole si tratta di vedere: aù div. 214 1) se l'articolazione scandita nell'elenco da bti,-tEQOV ha la funzionalità, che abbiamo visto essere sua propria e normale, e se questa verrebbe compromessa in seguito all'inversione; 2) se c'è il sospetto - anche solo il sospetto - che la caratterizzanon abbia valore puramente esornativo, e zione di Notte come tgEflEVVTI che pertanto da ciò consegua che la menzione di questa entità, in quanto cosl caratterizzata, possa presentare qualche connessione organica con i tratti propri della prole che nell'elenco le è collocata vicina, per cui questa connessione verrebbe in qualche modo compromessa in seguito alla collocazione del v. 213 dopo il v. 214. Vediamo dunque. In questo brano la prole di Notte, secondo l'ordine tradizionale, appare articolata in tre gruppi: il primo (vv. 211-212) costituito da Moros, Ker, Thanatos, Hypnos, Oneiroi; il secondo (vv. 214-222) costituito da Momos, Oizys, Esperidi, Moire, Kere; infine il terzo comprendente Nemesi, Apate, Philotes, Geras, Eris (vv. 223225). In prossimità del primo Notte compare caratterizzata come tgEflEVVTI (v. 213), e non c'è dubbio che il buio, l'oscurità - in senso

Notte e i suoi figli

lll

proprio e metaforico - rappresenta l'elemento che accomuna quel gruppo di entità e che sulla base del medesimo elemento esse sono connesse con Notte 16 • Le entità del secondo gruppo, invece, appaiono collegate con Notte singolarmente, una per una, nel senso che il genere del legame con la genitrice varia, si può dire, per ciascuna di esse, e, conseguentemente, non si lascia scorgere alcun nesso decisamente caratterizzante che le accomuni fra di loro. Momos e Oizys, per di più, non hanno nulla di profriamente tenebroso, per cui il loro legame con Notte appare più sottile 7 e si presenta come un tipo di connessione indiretta, passante attraverso entità come Thanatos o Moros o Ker: come queste rappresentano un male per l'uomo, cosl altre entità come Momos e Oizys, che personificano il dolore oppure sono causa di dolore e di angoscia per l'uomo, possono facilmente esser pensate come provenienti dalla medesima genitrice. Un fenomeno di questo genere possiamo riscontrarlo forse ancoi;a più chiaramente nel caso di Moire e Kere. Queste entità, anche se il loro rapporto con le corrispondenti al singolare div. 211 è difficile a cogliersi, sono abbastanza ben descritte da Esiodo nella loro essenza e nel loro agire, tanto da rendere spiegabile la specie di legame che le unisce a Notte nel modo che abbiamo detto. Le Moire danno agli uomini il loro destino che, pur essendo costituito da IJ:yai}ove xaxov, presenta, nella concezione esiodea della vita umana, una netta sproporzione a favore della seconda delle due componenti. Le Kere, poi, sono VT)Àeo3tOLVOL, con tutto quanto segue ai vv. 220-222. Diverso è il legame delle Esperidi con Notte, di cui sono figlie unicamente, si direbbe, per la loro collocazione geografica18 • Segue infine il terzo gruppo, a proposito del quale Notte viene qualificata come ÒÀ.É()V èQaÀÉov xovtif3T1aE ai vv. 54 e 420. Questa formula, riferita all'esecuzione lirodica di Hermes, ne sottolineerebbe la cattiva qualità, contrapposta a quella ben di Apollon, che infatti è il lirodo del v. 502. L'esesuperiore (lµEQ6EV) non poteva cuzione del fratello maggiore, il dio musico xa,:' t;ox11v, che essere superiore, e ciò è riflesso nell'uso delle due diverse espressioni 2 • Questa spiegazione non può essere giudicata a priori come inveroLa formula ricorre variamente coniugata in 8 334, O 648, TI 277, ~ 593, e 542, Hes. Th. 840; aµ. xov~LtE(v) è a 8 466, N 498, ~ 255. Ovviamente anche i casi di aµEQOO).taxwnwv, taxcov, ~EV, tf}6,'iOEV, btxÀno etc. sono riferiti a contesti di battaglia. 2 Hymni,Homericiree. A. Baumeister, Leipzig 1860, ad loe.: "diversitatem illam conailio potius a poeta contendo esse quaesitam. Nam v. 54 et 420, ubi Mercuriua artia rodia chordaa tentat, fragor quidam raucus et paullo inconditior esse potuit; contra quum Apollo docta manu fidea tangit 502, aonum suaviasimum edunt". Baumeister giustamente polemizza contro la normalizzazione di Schneidewin, che in tutti e tre i 1

Il primo suono della lira

117

simile sul piano naITativo, e si può segnalare almeno un riscontro comparativo. Nel Kalevala è raccontata l'invenzione del kantele da parte di Vainamoinen, ed anche questo strumento, una sorta di cetra, è ricavato da un animale, un luccio gigante che con la mascella ne fornisce la cassa armonica e coi denti i bischeri. Il nuovo strumento è provato da tutti, compreso Lemminkiiinen, ma nessuno ne sa ricavare un bel suono (nelle mani della gente di Pohjola lo strumento "stride orribilmente" addirittura), finché lo stesso Vainamoinen ne farà vibrare sapientemente le corde con risultati meravigliosi. Vero è che Vainamoinen, cantore supremo, è anche l'inventoredel kantele3 • Ma si avrebbe comunque un parallelo nel fatto che uno strumento appena inventato, e ricavato da un animale, manda un cattivo suono in mani inesperte finché non è toccato dallo 'specialista'. Senonché, pur prescindendo dal fatto che Apollon non può essere 'esperto' di uno strumento nuovo e mai ascoltato prima (obiezione certo troppo 'razionalista'), nel caso di Herm questa spiegazione urterebbe comunque contro le chiare indicazioni del contesto. Al v. 54, dopo ..aooEbè IlflVEÀ6:rtEta. Ma nel passo omerico la casa rimbomba allo sternuto di Telemachos, e l'umorismo nasce dall'uso iperbolico di OµEQbaÀÉov, qui usato a qualificare il fragore innocuo dello maQµ.6ç. Viceversa io non riesco a concepire, neanche nel più sprovveduto dei poetastri, un 'umorismo' cosl maldestro da richiamare, in occasione della efficace, bella esecuzione del dio, l'allusione ad una situazione cosl patentemente estranea. Anche questa strada è dunque impraticabile. 4. La soluzione più comunemente proposta è quella etimologica6 • Si è ricordato infatti che oµeQbaÀÉoçè imparentato con lat. mordeo, ingl. smart ("acuto", "penetrante"), e che è dunque perfettamente adeguato ad esprimere la qualità sonora di un'esecuzione musicale. Questo tipo di esegesi solleva però due serie obiezioni. Una di merito: se oµe(}baÀÉoçè connesso con mordeo è anche connesso con a. a. t. smerzan, ted. Schmerz, ed è difficile recuperarne, anche in sede etimologica, una 'neutralità' che gli consenta di esprimere, senza implicazioni 5

Trova "burlesco" l'uso della formula S. Wiersma, Gri.eheAudili.eveUildrukkingen. Het gebruik tkr termen met suffix -fk>-, Diss. Utrecht 1975, p. 28, utile comunque per il valore di xovafk>c;,xovaj3éro,xovaj3(tro. 6 Già Baumeister vi fa riferimento (loc. cit. a n. 2): "l:~oc; autem, si Doederlinum sequaris Gloss. II p. 113, non horrendu.m quod vulgo dicunt, sed penetrans et acre" (il riferimento è a L. Doederlein, Homerisches Glossarium, Erlangen 1850). Battono la stessa strada anche A. Gemoll (Die homerischen Hymnen, Leipzig 1886) e Th. W. Alleo-E. E. Sikes (The Homeric Hymru, London-New York 1904) ad loc.

Il primo suono della lira

119

negative, la qualità di un suono strumentale che - va ancora sottolineato - è ripetutamente indicata come gradevole1 • L'altra obiezione, più ovvia, è di metodo. Il significato di una parola non coincide con la sua etimologia: a nessuno, che volesse elogiare la bellezza di una donna, verrebbe in mente di definirla 'mostruosa' facendo appello al latino monstrum. Pensare che l'autore di Herm potesse far mantenere all'espressione la sua verginità etimologica (si noti, fra l'altro che x6vafk>çè imparentato a lat. cano) equivarrebbe a pensare che ignorava l'uso della formula fatto da Omero, Esiodo e chissà quanti altri poeti esametrici. Ipotesi, quest'ultima, che sembrerà difficile sostenere anche al filologo più vaccinato contro il morbo panomerista. Non si tratta, infatti, di rifiutare a priori la possibilità che il rapsodo dell'inno abbia ignorato l'Iliade come poema. Bensl di supporre che oµEQl>aÀroçpossa essere restato, nella tradizione poetica in cui era inserito il rapsodo, completamente intatto da un uso che perfino a noi è cosl vastamente documentato. Infatti, anche al di fuori del nesso formulare con xova~Éoo,l'aggettivo (e il suo corradicale O~QCW6ç) è comunque usato, avverbialmente e non, più di 35 volte nell'epica arcaica (Omero e, ciò che più conta per un poeta continentale, anche Esiodo, oltre che gli Inni OmericiXXVIII e XXXI) e mai in contesti che ne consentano un'interpretazione 'etimologica' e 'neutrale' come quella proposta per Herm. Tale situazione, è inutile dirlo, perdura per tutto l'arco della letteratura greca, almeno fino a Nicandro (Ther. 815). Neanche la via etimologica ci consente, insomma, di venir fuori dal problema. A meno di ricorrere ad un'ipotesi quanto mai improbabile, non avanzata, che io sappia, da nessuno, e che qui presento solo come possibilità astratta. Si tratterebbe cioè di supporre una rietimologizzazione cosciente operata dal rapsodo. l:~{)l>aÀÉov in Herm sarebbe insomma uno di quei casi di "bold and arbitrary re-etymologizing" citati 8 da E. Fraenkel a proposito di Aesch. Ag. 149 (fxEVT1tç) • Ora però questi casi presuppongono nel poeta un atteggiamento più o meno pole-

7 Del tutto diverso il caao di ÀLyuç.Pur essendo connesso, da Eschilo in poi, per

lo più con suoni tristi, questo aggettivo è comunque epiteto tradizionale di q,6ef.uyçin Omero, e indica generalmente un timbro chiaro ed una gradevole qualità della voce. 8 Cfr. AeJChylwAgamemnon II, Ed. with a Comm. by E. Fraenkel, rist. Oxford 1978, p. 146. Kenning e yQtcpoç,impiegati da Esiodo, sono in ogni caao fenomeni diversi.

120

M. Cantilena

mico e individualista nei confronti dei codici linguistici fomiti dalla tradizione. Il che, pure in presenza di alcune differenze rispetto all'uso omerico, sembra certo troppo per il poeta di Herm, nonostante tutto cosi indebitato nei confronti della dizione epica. Tale ipotesi sarebbe comunque da prendere in considerazione solo in mancanza di meglio. Cosi come solo in extremis si potrebbe ricorrere ad un'altra soluzione, anch'essa però assai poco verosimile. In realtà, noi potremmo immaginare che qualcuno, volendo elogiare, poniamo, un'esecuzione di Maurizio Pollini, dichiarasse che "ha suonato mostruosamente". In ogni caso non lo farebbe pensando all'appoggio etimologico fornitogli da lat. monstrum, bensl ricorrendo ad un espediente stilistico oggi molto comune, l'uso ironico di un'iperbole negativa. Quest'ipotesi avrebbe però, se applicata al caso di Herm, un punto debole assolutamente non trascurabile. Se "fonnidable", "bestiale", "terrific" e simili sono cosi diffusi nelle lingue moderne, questo espediente è alieno, per quanto io sappia, dal greco arcaico. Vero è che esso è documentato per il greco classico: Luigi Enrico Rossi mi ricorda lo slittamento subito da l>ELv6ç, da Eschilo in poi impiegato nel senso di 'abile' o 'molto abile'. Ed anche il latino conosce il fenomeno, che è ricordato tra quelli della lingua d'uso da Hofmann9 • Sarebbe dunque astrattamente possibile riconoscerlo anche nello oµEQbaì..tovdi Herm. Ora però, all'opposto che nel caso di l>ELV6ç,questo sarebbe un unicum: per ipotizzarlo, dovremmo supporre di aver perduto ogni altra testimonianza di un uso colloquiale molto diffuso, anzi talmente diffuso da prevalere su quello epico, di una formula che, viceversa, tutto indica come ben radicata proprio nella tradizione epica. Il che metodicamente non appare corretto 1°.La stessa difficoltà si può esprimere esaminando lo statuto retorico di quest'iperbole. Come per ogni espressione dell'ironia, anche in questo caso è necessario un segnale che ne consenta la decodificazione immediata: e

9

Fra le espressioni di stupore e meraviglia, in uso intensivo, egli ricorda Aur. ap. Front. p. 29, 4 N. = 27 van den Hout: horribiliter .scrip.sisti,"con una dottrina spaventosa". Cito J. B. Hofmann, La lingua d'wo latina, nell'eccellente edizione italianaa cura di Licinia Ricottilli, Bologna 19852 , p. 206. La Ricottilli mi segnala anche Cic. ad Au. VIII 9a 2: .sedhoc 'téQOShorribili uigilantia celerùa~ diligentia est. 10 Il "son formidable" di Humbert è una bella traduzione 'etimologica' per Hema 54, 420, 504: ma non ci aiuta a decodificare il valore della formula. In Ar. Av. 553 ID K2jlei6va xal Iloeq>VQLWV,Ù>SbaÀ.Éov xovafiijoot. cum verba chori summum, me iudice, terrorem ac pavorem indicent") e parla addirittura di evocazione di fantasmi e di Hermes psicopompo. 6. Ma non c'è bisogno di arrivare a tanto: la lira comunque terrorizza i satiri fin dal suo primo risuonare, proprio perché mai udita prima. Più di uno studioso 17 ha visto un parallelo nella situazione di un altro dramma satiresco sofocleo, l'Inaco, dove il suono della syrinx (altra invenzione di Hermes, cfr. Herm 511 s.) getta nel panico i satiri. Ora Allègre ha ovviamente ragione nell'osservare che il rapsodo non ha sfruttato nell'inno le possibilità comiche contenute in quest'idea. Evidentemente altre erano le sue esigenze narrative, e oltretutto mancavano i satiri! Ma non bisogna per questo pensare che egli abbia impiegato la formula meccanicamente. Si può anzi constatare un suo impiego ben ragionato. Non è casuale, infatti, che solo al v. 502 la tradizione manoscritta presenti la variante lµEQ6ev, e la cosa è certamente in relazione con l'esecuzione di Apollon, come aveva intuito Baumeister 18• Ma non perché nelle due precedenti occorrenze della formula Hermes suoni male, bensl perché in esse il suono della lira si ode per la prima volta. Cosl certamente si verifica al v. 54, quando lo strumento è appena inventato. Ma questa è anche la situazione del v. 420, dove è presente Apollon; è lui, questa volta, a udirlo per la prima volta; ed ai suoi orecchi la lira risuona CJµEQbaÀ.Éov, con un effetto di sbigottimento. Sarà solo 15

Rev. it. anc. 15, 1913, pp. 237-26.3, qui a p. 249. Mnemasyne 42, 1914, pp. 81-90; 165-177, qui a p. 175 s. 17 Per tutti, vd. D. F. Sutton, Sophocks' lnachw, Meisenheim am Gian 1979, p. 68. Temere un suono o un rumore era proverbiale. Vd. la nota di Pearson (cit. a n. 22), ad Soph. fr. 61. 18 Anche Wiersma (cit. a n. 5), pur ritenendo irrilevante una possibile differenza al v. 502: ciò perché Apolin abilità fra l'esecuzione dei due fratelli, difende lµE{l6EV lon non è una figura comica, e a lui non si addirebbe l'applicazione - già definita burlesca - della formula omerica. 16

M. Cantilena

124

quando suonerà la tena volta, dopo che i due ascoltatori ne avranno già sperimentato l'effetto, che il suo timbro sarà finalmente lµEQOEV, non suscitando più lo stupore inquietante della novità. La lezione dell'iparchetipo 'I' è dunque senz'altro da preferire al v. 502. Del resto, come errore sarebbe difficilmente spiegabile: una 'razionalizzazione' del copista sarebbe probabilmente intervenuta anche ai vv. 54 e 420. La lezione di M è dunque una normalizzazione. 7. Ci si potrebbe chiedere come potesse, lo stesso suono, suscitare sbigottimento ed essere giudicato bello, al punto di muovere Apollon al sorriso. Ma i due aspetti non sono affatto inconciliabili. Esiste un passo omerico che può essere utilmente richiamato. In q>404 ss., Odysseus sta per compiere la prova dell'arco, e saggia lo strumento della sua vendetta. Solleva, osserva e tende il grande arco, quindi (q>410-413): be;ttEQTIb' &ea XELQl Àafki>v:rtELQTIOato VE'UQTISElxÉÀTJ aù&tv. b' &e' &xoç; yÉVEtO µÉya, :rte&OL b' l'tQa XQO>ç; µVT)O'rijQOLV tt{>a:rtEtO.

TIb' i,nò xaÀòv &etoE, xdtMvt

Il suono è bello, in sé 19 , ma il suo effetto è inquietante. E si noti che Odysseus, nello svolgere questi preparativi, è esplicitamente paragonato ad un suonatore di q>OQµty;(q>406-409) 20 : iliç;ot' àviie cp6Qµtyyoç; bnotaµevoç; xat àotbf)ç; ~-.:b(roç;havuooE VÉq> :rtEQL x6llom xoebfiv' a'\jlaç;àµcpotÉQm,:ou&)ç;tClV\JOEV µtya t6;ov 'Obuooruç;.

Rispetto alla situazione di Herm c'è un rapporto inverso fra i due aspetti del suono. Quello dell'arco è "bello", ma inquietante; quello della lira è "inquietante", perché inaudito, ma bello. E i due aspetti xovaflrioe· yf>..aooEbÈ sono affiancati nel v. 420 dell'inno OJ&E~aÀ.Éov cl>oiJloç'Arr.6Uorv in cui il bé non ha semplice funzione copulativa. Io trovo qui particolarmente felice la caratterizzazione del dio, dapprima

19

"Un suono acuto e soddisfacente" parafrasa Galiano (Omero, Od~a VI, a cura di M. F. Galiano e A. Heubeck, Milano 1986, ad loc.). Ma è notevole il paragone con la rondine che sembra dare una connotazione infausta al suono della corda (vd. ora M. Bettini, 'Turno e la rondine nera', Quad. Urb. n. s. 30 [59], 1988, pp. 7-21). 20 Il paragone fra arco e lira non è infrequente. Basterà citare Heraclit. fr. 51b o Theogn. TrGF28 F 1. Cfr. W. F. Otto, Gli dii •,w.aytvnç Mal>' é;ev(oµria I 1jl6cpq> tòv oubdç

n6è oux out(I) neb:ti di lchn. 365. 23 t certo molto verosimile che Sofocle abbia avuta presente più d'una versione del mito. "Non ai può escludere" tale conclusione secondo Maltese (op. cil. a n. 13), p. 20.

M. Cantilena

126

smo c'è, e resto complessivamente persuaso dal riesame degli indizi cronologici fatto da Janko, che punta alla fine del VI sec., dando una conferma sostanziale alle giuste osservazioni contenutistiche di Gorgemanns24 che rimanda al principio del V. Ma se un'origine attica dell'inno è improbabile, una sua ripresa attica è sicura. Non so se a questa vadano fatte risalire le tracce linguistiche di atticismo, o addirittura il paragone fra l'improvvisazione di Hermes e quelli che sembrano essere qualcosa di molto simile agli skolia attici (cfr. v. 55 s. M; aÙ'tOCJXEl>(riç XELQç 9EQÉQtatovolmv !vtµ.µ.ey«QOLç xei'taL µ.EÀ.L'toç l'tEXÀ.T)itoç. A parte alcuni lievi interventi dovuti al Casaubon (su accenti errati o del tutto mancanti e sulla geminazione di µ in !vt µEy«QOLç)e a parte il necessario supplemento di it' dopo xù.tl3EtOV effettuato dallo Schweighauset", l'incipi.t X'}QUXaç aitava"tOLOLpresenta una sequenza quantitativa (- - .. - .... - .. ) del tutto inconciliabile con la struttura dell'esametro dattilico. 3

In Omero itoxf)ih')i;vale vyLt\i;,itoLv,\i;,cfr. Ap. Soph. 45, 3, si veda inoltre H. Ebeling, Lai.con HomericumI, Leipzig 1885, p. 182 e, per la restante documentazione, LSJ p. 257 s. v. itoxf)ih')i;.Nell'iscrizione di Tegea l'aggettivo, riferito a un lEQOihrcai;,è interpretato dagli editori come "sine vitio". 4

Cfr. D. W. T. C. Vessey, 'Statius and Antimachus: a Review of the Evidence', Plailologw 114, 1970, p. 134 (a proposito dei frr. 21 e 23 Wyss), ma già il Wyss, riferendosi ai frr. 24 e 23, sottolineava il fatto che nei due frammenti venivano ripetute espressioni preuoché identiche ..more poetarum epicorum" (cfr. Wyss ad fr. 24). 5 Il supplemento dello Schweighiuser infrange la 'legge di Wemicke', ma già il Wyss (in apparato al frammento e a p. XXXVII) richiamava esempi di tale infrazione in Omero.

Su alcuni frammenti della Tebaide di Antimaco

157

Numerosi sono stati i tentativi di emendamento che si sono succeduti nel tempo: lo Schellenberg 6 voleva XTJQUXaç airtoioL "aut simile 7 quid"; il Blornfield proponeva XT}QU;aç(xlloLaL; il Dilntzer'I avanzava l'ipotesi di un xaì. XTJQUXaç iiyoiÉQELV lo Schwenck9, propenso ad attribuire il resto a il solo XTJQUXaç successive aggiunte per reminiscenze omeriche; correggevano in XT}QUXaç it' aµa'tOLQov1. (Alex. 516) 'dç BifJQuxrovQL'i'Et.avbfJantQlav'. Infine, in Athen. 9, 393 be (cfr. Eustath. in Hom. P 324, p. 1108, 48, IV p. 61, 6 ss. van der Valk) nella discussione viene coinvolta perfino l'innocente 6gtu; di Aristofane: 't'IV µtOT)v6è 'tO\Jòv6µa'toç (scil. 'tO\J 6gruyoç) aullafWlv b'tELVOUa'VTlç 6' tv ElQ'IVll auvEataÀ.µivroçl(J)Tl61.à'tÒ JAÉtQOV '6gruyiç olxoyEVEiç'. Soprattutto i due esempi in Apollonio Rodio citati da Cherobosco sono indicativi della effettiva incertezza in cui già gli antichi si trovavano nell'utilizzo, in contesti metrici, di vocaboli del tipo Bt{JQu;16 ; questo rende credibile che anche Antimaco abbia potuto costruire un verso con la sillaba centrale di in cui l'espressione x11guxaçlxitava'tOLxuavox,ah:n xat

y(vetat

xa'tà. µetwtÀaaµòv 'tq> xuavox,ai'ta, xal oùx lx,et :11:QOCJ)'EyQOµµÉVOV 'tÒt, olov roc;:n:aQà•AV'ttµax,q> (segue fr. 36 Wyss). In questa circostanza Antimaco ha strutturato il suo verso, come del

resto è solito fare, attingendo abbondantemente alla tradizione dei poemi omerici, sulla quale tuttavia opera alcune interessanti ma ardite variationes. Colloca in incipit :n:a'tQ( 'tEe in clausola :n:e:n:otiro>c;, attestati 17 nell'Iliade e nell'Odissea anche in tali sedi ; il dativo necessario è Ilooe1.6arovt,una forma che in Omero non è mai associata a :n:e:n:otiro>c; e tuttavia ricorre spesso nella medesima sede che nel frammento antimacheo 18 • Restano cinque sillabe, che debbono coprire il secondo dattilo e il terzo trocheo con un epiteto di Iloaet6arovt. In tutta la tradizione relativa ai poemi e agli inni attribuiti a Omero non sono documentati vocaboli che soddisfacciano a entrambe queste condizioni, anzi non si osservano epiteti di Ilooet6arov, nei vari casi, in quella sede. Invece, nell'Inno a Demetra, nell'incipit del v. 347, ricorre il nesso "Atbt] xuavox,ai'ta, al vocativo, con xuavox,ai'ta precisamente nella sede richiesta nel frammento della Tebaide. L'aggettivo xuavox,ai'ta è epiteto riservato a Poseidone 19 e appartiene a una serie di temi maschili in -cl che vengono usati spesso in Omero con nominativo in -a e che hanno un seguito nel resto della tradizione letteraria greca. Ma è particolarmente interessante notare come in questo frammento di Antimaco, e poi almeno in Arat. Phaen. 664 l:n::n:6-ta (J)TIQ{>c; Cfr. per n:a'te{ n r 50, 8 283, y 209, a 140, Hymn. Yen. 134; n:motikoç presenta complessivamente diciassette occorrenze e solo una volta (v 289) non è in clausola. 111 Cfr. O 57 (= 158, y 43, 54, L 412, 526, ). 130, v 185, 'i' 277: IlOOl!LMù>vL 6vaxn), a 73 IlOOELMù>vL t,U,ydoo,y 178 IlOOl!LMù>vL 6è 'tauewv, ). 306 Ilom:tMwvL t,U,yi'tvm, v 181 IlOOELM01VL 6è Taueouç, v 341 IlOOELMù>vL µaxef)vat 16 xdtaQ tv ElQTlµÉVOOVt6vrov O'tQObT) •••µaxQà xat JtOÀUEL&)ç.Per le innovazioni musicali, ritmiche e lessicali introdotte da Timoteo nelle sue composizioni, si vedano, oltre a D. Korzeniewski, 'Die Binnenresponsion in den Per11emdes Timotheos', Philologus 118, 1974, pp. 22-38, anche Privitera, art. cil. a n. 42, p. 318 ss. e Gentili, op. cil. a n. 45, p. 34 ss. 49 Vedi 11uprapp. 171 e 173 s. 50 De mw. 8, 1134 b = Sacadas test. 3 Gent.-Pr. 47

48

Il ,wmos citarodico nella cultura greca arcaica

177

ge a Cassandra la seguente domanda: 1t6itEV ... 'tà b' bt(mçbtoiouv,:o ... ol µèv v6µot àywvtcnv ~oav) 54 • Dobbiamo pensare che ciò valesse solo per alcuni tipi di nomos e che altri avessero invece struttura strofica e potessero anche essere eseguiti da un coro? Certo non lo si può escludere, ma si potrebbe anche pensare che l'espressione Orthios nomos usata dal Coro di Eschilo, a proposito del canto di Cassandra, abbia valore metaforico e tenda ad evidenziare con un'iperbole solo il tono acuto e lamentoso delle battute di Cassandra, mentre d'altra parte la parodo dell'Agamennone può essere stata assimilata ad un nomos citarodico solo per l'uso di strutture metriche kat'enoplion e kata daklylon ritenute tipiche dei no51

Vv. 1150-1153. V. 1281 s. Cfr. Schol. ad /oc. (p. 309, 3 s. Dilbner): b( 'tWVXL~txcilv vofAOJV· TLµaxlbaç YQCIIJ>Et, ç'tòQithp voµq> xExetJµtvou 'toii Alaxuwu xai iivmttaµtvwç. Per il valore dell'espressione O"taotçµEÀ.(i>V,nel passo di Aristofane, rinvio a E. Cingano, Quad. Urb. n. s. 24 (53), 1986. pp. 139-143. 52

Ran. 1276 = Ag. 104; Ran. 1285 = Ag. 109; Ran. 1289 = Ag. 111. La parodo deU'Agamennone è costituita, com'è noto, da una sezione anapestica (vv. 40103) e da un canto lirico (vv. 104-257). 54 Ps. Aristot. /oc. cii. (supra p. 175). 53

A. Gostoli

178

moi citarodici 55 • Non sono tuttavia mancati studiosi, sia nel passato, sia in epoca più recente, i quali, pur con diverse sfumature, hanno sostenuto l'ipotesi del carattere corale, ma nello stesso tempo astrofico, del rwmos sia aulodico che citarodico 56 •

Un preciso riscontro metrico fra Terp. fr. 3 Gostoli = PMG 698 Page e un verso della parodo dell'Agamennone in B. Gentili, 'Preistoria e formazione dell'esametro', Quad. Urb. 26, 1977, pp. 7-37 (p. 36). Si deve anche ricordare che la critica moderna ha ravvisato nella parodos dell'Agamennone una suddivisione tematica che sembra corrispondere alle sette parti del nomos citarodico enunciate da Polluce, vedi supra n. 42. 56 H. Reirnann, Studien zur griech. Mwikgeschichte. A. Der Nomos, Ratibor 1882, p. 18 ss.; Lasserre, op. cil. a n. 1, pp. 27-28. Il primo a sostegno della sua tesi su Aerichiama l'attenzione, sulla denominazione del nomos aulodico KWl,WQXLOç, schyl. Choeph. 822 e Plat. leg. 3, 700 a. 55

La strofe per gli eromerwi calcidesi (carm. pop. 27/873 P.). Edizione critica e commento Gennaro Tedeschi

Premessa La breve strofe dedicata dai Calcidesi ai loro eromenoi e tràdita dall'Amatorio di Plutarco (17, 761 AB), che in questo caso riprellde una notizia di Aristotele 1, pone quesiti di varia natura a cui gli studiosi non sempre hanno saputo dare una soluzione univoca. Benché infatti sia stata riconosciuta da tempo l'affinità della struttura metrica con la versificazione stesicorea e, dopo le recenti pubblicazioni di ampi frammenti delle opere del poeta imerese, ne sia stata definita in modo convincente la struttura colometrica, rimangono ancora aperti taluni problemi tra loro interdipendenti, inerenti al periodo di composizione, all'individuazione del genere letterario e della circostanza privilegiata della sua performance. Non tutti infatti hanno dato credito allo storico di Cheronea che ricorda con dovizia di particolari come questa quartina, continuamente cantata dagli abitanti di Calcide, avesse avuto origine da un episodio accaduto durante la guerra lelantina che, finalmente dopo una secolare discussione scientifica 2 , gli scavi archeologici effettuati in Eubea a Lefkandi sul lato orientale della pianura di Lelanto hanno confermato essere stata combattuta verso la fine del sec. VIII 3 come risulta dalla notizia

1

Non è affatto certo che si tratti del filosofo di Stagira (fr. 93 R. 3 ), probabilmente è uno storiografo locale (cfr. FGrHi&t423). 2 Per un'essenziale panoramica della questione si veda A. Brelich, Guerre agoni e culli nella Grecia arcaica, Bonn 1961, pp. 9-21; cfr. G. Tedeschi, 'La guerra lelantina e la cronologia esiodea', in Studi triestini di antichità in onore di Luigia A. S~Ua, Trieste 1975, pp. 149-167; C. Talamo, 'Il mito di Melaneo, Oichalia e la protostoria eretriese', in Contribution à l'étude de la société et de la colonualion eubiennn, Napoli 1975, pp. 27-36. 3 L. H. Sackett-M. R. Popham, Archaeology 25, 1972, pp. 8-19; M. R. PophamL. H. Sackett-P. Themelis, Leftandi 1-11, London 1979-80; P. Auberson, 'ChalcisLeJkandi-Erétrie au VIiie siècle', in Contribution, cit. pp. 9-14. Si vedano altresl le

180

G. Tedeschi

secondo cui per Anfidamante, basileu.sdi Calcide morto in uno scontro navale durante questa guerra, venne celebrato un agone funebre al quale partecipò Esiodo che vinse il certame poetico con un hymnos (Op. 650-662; Plut. fr. 84 Sandbach), identificato dai moderni con la Teogonia 4 • Alcuni in effetti sospettano che il carme anonimo sia stato composto in un'epoca successiva ad Archiloco o ad Alceo 5 ; altri invece lo datano alla seconda metà del sec. Vl 6 ; né manca infine chi ritiene che esso sia recenziore e propende ad abbassarne la datazione addirittura al sec. IV sulla scorta di considerazioni metriche 7 • A nostro avviso invece questo canto d'occasione è verisimilmente coevo al cruciale episodio di cui parla Plutarco, cioè fu composto a breve distanza di tempo dall'evento a cui si ispirò come accadde per le più antiche redazioni degli scoli in onore di Armodio e Aristogitone (carm. conv. 894 e 895 P.), di Cedone (carm. conv. 906 P.) e dei caduti a Lipsidrio (carm. conv. 907 P.) debitamente celebrati con canti nei simposi dai loro compagni di eteria all'indomani dei loro sfortunati tentativi per abbattere la tirannide dei Pisistratidi ad Atene. L'analisi lessicale e stilistica in effetti conferma l'arcaicità della strofe che, nonostante la sua formale compiutezza, può aver fatto parte di un componimento più esteso: un caso non unico qualora si ricordi che una quartina di un carme alcaico (fr. 249, 6-9 V.) venne deliberatamente adattata nel lessico e nella sintassi così da risultare consona alle specifiche esigenze e funzioni prammatiche del simposio attico del periodo tardo-arcaico. L'epiteto tat}Mç, il termine àyaito( (scil. 6v6gEç) e il nesso àv6gda-"Egooç bene si attagliano infatti a descripertinenti considerazioni di B. D'Agostino, 'Osservazioni a proposito della guerra lelantina', Dial. archeol. 1, 1967, pp. 20-37, sulla scomparsa della ceramica euboica nell'emporio di Al Mina dopo il 700 ca., che rafforzano l'ipotesi cronologica della guerra tra Calcide ed Eretria deducibile dagli scavi archeologici compiuti in Eubea. 4 H. T. Wade-Gery, 'Hesiod', Phoenix 3, 1949, p. 87; E. M. Bradley, 'On King Amphidamas' Funeral and Hesiod's Muses', Parola d. pas&alo 30, 1975, pp. 285-288. 5 Nel riferire questa ipotesi C. Gallavotti, 'Un poemetto citarodico di Stesicoro nel quadro della cultura siceliota', Boll. Class. Lincei n. s. 25, 1977, p. 19, insiste tuttavia sull'alta arc~icità della struttura metrico-ritmica della strofe. Al tempo di Alceo pensa M. Vetta, Theognis. Elegiarumli.bersecundw, Roma 1980, p. XXXIXs. 6 Cfr. H. W. Smyth, GreelcMelicPoets,New York 1899, p. 511; U. von Wilamowitz-Moellendorff, Euripùks Herakw I: Einlei.tung indie griechi.sche Trag&lie, Berlin 18891, p. 72 s. 7 M. L. West, GreelcMetre, Oxford 1982, p. 139.

La strofe per gli eromenoi calcidesi

181

vere alcuni tratti peculiari di una società aristocratica divisa per classi di età e caratterizzata al suo interno da relazioni pederotiche - pratica legata ad un'educazione militare e strettamente connessa a rituali iniziatici - quale fu la società calcidese arcaica 8 • Inoltre il riferimento alle XaQL'tEçe al À.uotµù:riç"Egroç, tema su cui è imperniata l'intera strofe, rimanda inequivocabilmente ad Esiodo (Theog. 907-911) che- l'abbiamo ricordato - si recò a Calcide in occasione degli agoni funebri per Anfidamante durante la guerra lelantina per recitare la sua Teogonia. D'altro canto la redazione del carme nota a Plutarco presenta elementi lessicali e sintattici da taluni studiosi considerati recenziori, quali il ... òµtÀ.(av, la preposizione bt( con accezione costrutto µri q>itovei'tE locativa, il sintagma aùv àvbgd~. Tali elementi, talvolta addotti per inficiare l'arcaicità del carme, sono in realtà indizi preziosi che avallano la notizia dell'ininterrotta riproposizione orale del componimento e al tempo stesso attestano l'esigenza di un continuo adeguamento del testo a nuove realtà linguistiche. È pertanto possibile che un termine desueto (ex. gr. àvbQO't'ij'tL yag) sia stato sostituito da un sinonimo più noto ed usuale (aùv yàg àvbgd~), metricamente equivalente, secondo una pratica non insolita per testi poetici celebri ripetutamente cantati nelle occasioni conviviali 9 • La stretta interdipendenza nella lirica arcaica tra enunciato poetico e modalità espressive, tra enunciatore ed uditorio, tra la forma dell'espressione e dei contenuti e lo spazio fisico e sociale entro il quale avveniva la performance, rende ineludibile il problema dell'individuazione dell'occasione del canto. La tematica erotica, le scelte lessicali, il tono parenetico e l'intento eulogistico della quartina, mostrando una straordinaria affinità con le elegie pederotiche della Silloge teognidea 10 , consentono di proporre nel momento conviviale la circostanza privilegiata della sua esecuzione. Il palese riferimento ai nobili ragazzi calcidesi, apostrofati col vocativo

8

A. Mele, 'I caratteri della società eretriese arcaica', in Contribu1ion,cii. p. 24. Per un'esaustiva spiegazione di tale prassi si veda B. Gentili, 'L'arte della filologia', in La critica ~tuak greco-Ialina, oggi. Metodi e probkmi, Roma 1981, p. 13 ss.; cfr. F. Ferrari, 'Uso e riuso del canto simposiale: Teognide e l'elegia greca arcaica', in Teognide. Ekgie, Milano 1989, p. 5 ss. 10 M. Vetta, Theognu, cii. p. XXXIX.Per l'interrelazione tra i generi a livello stilistico-lessicale si veda B. Gentili, 'L'interpretazione dei lirici arcaici nella dimensione del nostro tempo. Sincronia e diacronia nello studio di una cultura orale', Quad. Uri>.8, 1969, p. 14 s. 9

G. Tedeschi

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plurale che presuppone un sotteso "voi", e l'invito a concedere le loro grazie agli liyaito( 11 inducono a ritenere che l'occasione conviviale fosse del tipo degli livbQt:ia cretesi e spartani - probabilmente connessa a una festa in cui si celebrava un rito di passaggio di età 12 e comunque diffusi anche fuori del mondo dorico - ai quali sia pure in posizione subalterna partecipavano anche i ltaibt:ç (cfr. Plut. Lyc. 12, 6). Un'occasione dunque che non era soltanto pretesto di svago e di scherzi, ma che al tempo stesso si configurava come momento paideutico per i ragazzi. Infatti il ristretto gruppo di quanti godevano dei pieni diritti civili e politici, socialmente e culturalmente omogeneo, in questo spazio conviviale celebrava con canti e danze le proprie tradizioni ed eroi, affrontava argomenti diversi per illustrare il modello ottimale da seguire, per additare i valori etico-politici da rispettare o per indicare il corretto comportamento da tenere nelle circostanze più varie nella vita della polis. L'ipotesi di una destinazione conviviale sagacemente suggerita da Wilamowitz 13 non è esclusa dall'analisi colometrica. I kat'enhoplionepitriti, in cui è composta la strofe, rimandano sia alla metrica delle epigrafi arcaiche sia alla versificazione della produzione citarodica di Stesicoro 14 , autore tra l'altro di componimenti erotici 15 , sia infine ai cola attestati dai carmi conviviali anonimi. Il v. 1 infatti, costituito dalla sequenza pros enh è pressoché identico all'incipit del carm. conv. 34 D.(= 524Suppl. Hell.), attribuito da Lobone a Pittaco 16 • Il v. 2, come il successivo v. 3, composto da epitr"

11

Sulla pederastia come elemento integrante della paideia aristocratica pose per primo l'accento E. Bethe, 'Die dorische Knabeliebe', Rh. Mw. 62, 1907, pp. 438475. Si veda da ultimo B. Sergent, L'homosexualité dans la mythologie grecque, Paris 1984. 12 Cfr. B. Sergent, op. cit. p. 199 s. 13 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Griechische Verskunst, Berlin 1921, p. 437 s. Il suggerimento è stato accolto tra gli altri da O. Schroeder, Grundrissckr griechìschen Versgeschi.chk, Heidelberg 1930, p. 90; nonché da M. Vetta, Theognis, cit. p.

XXXIX. 14

C. Gallavotti, 'Un poemetto citarodico di Stesicoro', cit. p. 16 s. Athen. XIII601a. Sulla fruizione conviviale dei componimenti stesicorei cfr. Eup. frr. 148 e 395 K.-A. 16 Su questi scolt pseudoepigrafi si rinvia a 'Sei carmi conviviali attribuiti ai Sette Sapienti. Edizione critica e commento', a cura di E. Pellizer-G. Tedeschi, Quad. Filol. Class. Univ. Triest#!3, 1981, pp. 5-23. 15

La strofe per gli eromenoicalcidesi

183

ihyc (interpretabile anche come hypodo glyc), è raffrontabile sia con il v. 2 dei carm. conv. 898-901 P., dove l'ibiceo - attestato da un graffito ateniese del sec. VIl 17 - è preceduto da un dimetro coriambico, sia con il verso iniziale del carme di Hybrias, dove all'epitrito segue un gliconeo 18 • Infine il dimetro anapestico del v. 4 funge da verso incipitario del carm. conv. 32 D. (= 522 Suppl. Hell.), attribuito a Solone, e da clausola sia nell'epitaffio di Glauco a Taso, contemporaneo di Archiloco 19 sia nel carm. conv. 917 (c) P. 20 • Concludendo, il carme che i Calcidesi solevano indirizzare agli eromenoi per onorare il prode erastes caduto in battaglia durante la guerra lelantina risulta il più antico esempio di citarodia erotica, un genere poetico di cui abbiamo purtroppo scarse ma significative notizie per quanto concerne il periodo arcaico 21 • Inoltre gli elementi emersi avallano la tesi che la strofe tràdita dall'Amatorio plutarcheo avesse una destinazione conviviale, fosse cioè uno slwlion, un canto assolo sostenuto dall'accompagnamento di un unico strumento musicale a corde 22 • La disamina stilistico-semantica per di più consente di evidenziare un diretto rapporto con la poesia esiodea, cosl come il pressoché coevo graffito d'ispirazione conviviale della coppa di Nestore (454 C. E. G. Hansen), rinvenuto nella tomba di un fanciullo nella colonia euboica di Pitecusa, che rinvia inequivocabilmente all'ambiente culturale calcidese intriso di elementi beotici 23 • Infine l'alta arcaicità del carme inficia l'ipotesi di una tradizione "dorica" dei kat'enhoplion-epitriti avanzata da Wilamowitz il quale riteneva inverisimile che questo tipo di versificazione fosse stato prodotto

17

C. Gallavotti, Metri e ritmi nelk iscrizioni greche, Roma 1979, p. 80. C. Gallavotti, ibidem, p. 122. Cfr. G. Tedeschi, 'Il canto di Hybrias il cretese: un esempio di poesia conviviale', Quad. Filol. Clan. Univ. Trieste 5, 1986, p. 63. 19 C. Gallavotti, ibidem, p. 11. 20 Su questo argomento si rimanda a 'Poesia conviviale in un papiro di Elefantina. Edizione critica e commento', a cura di E. Pellizer-G. Tedeschi, Quad. Filol. Class. Univ. Trieste 4, 1983, pp. 5-23. 21 Sull'argomento si veda C. O. Pavese, Tradizioni e generi poetici cklla Grecia arcaica, Roma 1972, pp. 240-242. 22 B. A. van Groningen, Pindar au banquet, Leyde 1960, p. 15; M. Davies, 'Monody, Choral Lyric and the Tyranny of the Hand Book', Class. Quart. n. s. 38, 1988, p. 55 88. 23 C. Gallavotti, 'I due incunaboli di Atene e Pitecusa ed altre epigrafi arcaiche', RenJ. Ace. Lincei, Se. Mor., s. s• 31, 1976, pp. 207-219. 18

184

G. Tedeschi

nelle colonie greche d'Occidente 24 , terra di origine di Stesi coro e di lbico. Al contrario le informazioni desunte dagli scavi archeologici attestano già dal sec. VIII la presenza commerciale, coloniale e culturale degli Euboici in Sicilia e nell'Italia centrale e meridionale. È probabile dunque che proprio attraverso il moto di colonizzazione euboica in Occidente siano pervenuti a Stesi coro dall'ambiente beotico-euboico non solo taluni elementi lessicali e linguistici ma anche le strutture epitritiche e le sequenze dattilo-anapestiche 25 • Carm. pop. 27 /873 P.

w:rmibtç, ot XaQh(l)'VTE xat

na'tÉ{>(l)'V À.aXET't0'6À.oov, l''I cp&ovti-D'WQOSltya-Doimv 6111.À(av· O"ÙVyàQ i.tvbQt(c;ixat 6 À.Uatl'ÙT)S "EQO>S ènt Xa>..xLbÉ(l)'V -Déù.>..€L n6À.EaLV. Plut. Amat. 17, 761 AB •AQL..riçbt ,:òv µèv IO.roµaxov 6:llooç à,tot}aveiv cprim, xeai;1'oavi:a i:wv 'EQE'tQLt(l)Vtjj µé&xn-i:òv b' ùnò i:où teooµivou eùmv· (1-4] 1 Pind. fr. 122, 7 Sn.-Maehl. Ù>:itaibeç (de meretricibu8 Corinthii8 dictum) Sem. fr. 1, 1 W. Ù>:itai, vd. etiam Anacr. fr. 15 Gent.; Theogn. 1235, al., cf. Plat. Phaedr. Xaeh(l)V lbyc. fr. 288, 1 P. Eùe,ja).e, yì..auxtwv 244a Bacch. 1, 151 robt À.aXÒ>V Xae(,:(l)V Mì..oç, vd. etiam Ar. Ecci. 974; Theocr. XXVIII 7 Aie. fr. 72, 13 V. WÀ.(l)V rovtEç tx i:ox1'(1)V carm. conv. 907, 4 P. ot ,:6-t' fbe1.çav ot(l)V :itai:tQ(l)V Theogn. 933 8. :JtQUQOLç àvitQ(l):Jt(l)Vliemt xai xalloç ò:itrtl>fr / 6).f:ILoç,6ç 'tOU't(l)V liµcpo,:tQ(l)V fÀ.V liya6oioLv òµD..EL, vd. Theogn. 31 8., cf. Pind. Pyth. 2, 96 8. 3 He8. Theog. 120 8. "EQ.ùv òµµa'trov fXEUEV'

evidentemente rifatto su Y 321 xa,:' òq>itaì..µci>v XÉEVàx"A:uv (cfr. E 696 1

B. Marzullo, Cultura e Scuola 5, 1962, p. 65 s., cui si devono gli essenziali raffronti omerici (vd. infra) anche per i vv. successivi; cfr. Frammenli della lirica greca, Firenze 19672 , p. 11I s. 2 C. Gallavotti, Parola d. pas3ato 4, 1969, p. 135.

M. G. Bonanno

190

= n 344 xa'tà

b' Ò..)tyELV "xf!À.(Ei)tm b'

ot:LQTIV(J)'V lioLbais

e citava la glossa di Esichio 'KflÀ.600 = 'KflÀ.Éoo. Nel 1903 l'Amim nella edizione delle reliquie del libro Della musica di Diogene di Babilonia 11 dava il testo del frammento secondo il Kemke:

XTtÀ(Ei)'t«L b' OtLS(tml)v OOLbais.

Nel 1913 il Crusius nella Anthologia Lyrica dell'Hiller, dopo aver annotato 12 "fragmentum dubites utrum ad epodos referas an ad elegia", dava il testo 13 quale fr. 112a di Archiloco secondo il Kemke, cosl: XTIÀEL'tat b' 6'tLS(tatl)v fiOLbais.

Nel 1927 lo Zwicker 14 riteneva "molto insicuro" il supplemento del Sitzler. Il Diehl nella sua Anthologia Lyrica Graeca15 tra i frammenti epodici di Archiloco (fr. 106) dava il testo di Kemke e aggiungeva, in apparato, al luogo del Liside 206 b di Platone Eur. Alc. 359 e, per il contenuto, rinviava a Pindaro, Pyth. 1, 1 ss. L'Edmonds scriveva col Gomperz fatLV, non tat(v (fr. 98 A):

IMdùa poetanun Graecorumfragmema Il, Progr. Rostochii, p. 14. 'Jahresbericht Ober griechische Lyriker fùr 1891-1894', Jahnsberichtilherdù Fomchrilu tkr cla.ssischen Alkrtunuwwen.schaft (begr. von C. Bursian) 92. Bd.-25. Jg., 1897, p. 48. 11 V. F. III, fr. 89, P· 234. 12 Andwlogia Lyrica, ed. E. Hiller-0. Crusius, Lipsiae 1913, p. XIII. 13 P. 16. 14 R. E. III A 1, col. 292 8., 8. v. 'Sirenen'. 15 lamhorum scriploreJ III, 195~ (1923 1), a c. di R. Beuùer. 9

10

s.

202

M. Gigante

XTJÌ.[Ei}tm b' OtLç[fotL}vaolbaiç

e traduceva "and whoso liveth is soothed by song" 16 • D. A. van Krevelen, nella edizione del De musica filodemeo 17 , ripresentava il testo del frammento archilocheo stabilito dal Kemke e traduceva (p. 45): "ieder die [leeft], wordt door liederen bekoord". F. R. Adrados 18 , attribuendolo al van Krevelen, riproduce 19 il testo del Kemke e traduce: '"l'odo el que existe siente el hechizo de las canciones". Che l'Adrados abbia inteso "evidentemente, OtLçcome neutro" è un errato rilievo del Morelli20 • F. Lasserre-A. Bonnard 21 situano il testo fra gli 'Epodi' (fr. 262), ma scnvono: - ::..:- ::..:XT)ì.[ii]tmb' OtLç[tott}v aoLbatç

intendendo " ... et que tout un chacun soit séduit par mes chants". E confrontano Hor. Epod. XIII 8 ss.: nunc ... I ... iuvat et.fide Cyllenea I levare diris pectora sollicitudinibus. Il Morelli criticò minutamente l'ipotesi esametrica del Lasserre: "Già il Diehl riteneva giustamente che il frammento appartenesse agli epodi e che fosse un alcmanio. Il Lasserre, invece, pur assegnando con il Diehl il frammento agli epodi, ritiene che esso costituisca gli ultimi quattro piedi di un esametro, ma, ciò facendo, non si accorge di commettere quattro erron. . . . ..22 . M. Treu 23 inserisce fra i Giambi il fr. 106 D. e scrive: XTJ[ÀtE)tm b' OtLç[tott] aotbaiç

traducendo: "(jeder) steht doch im Baone der Lieder". Nel commento 24 il Treu stabilisce l'equivalenza quasi sinonimica

:: Elegy and lambw Il, ed. J. M. Edmonds, London 1931 (1954), p. 152 s. Philodemw de Muziek, Hilversum 1939, p. 44. 18 Liricos Griegosl, Barcelona 1956, p. 33. 19 Fr. 19. 20 G. Morelli, art. cit. p. 232. 21 Archi/.oque.Fragmenls, Paris 1958 (1968), p. 72. 22 G. Morelli, 'Una nuova edizione di Archiloco', Mai.a 12, 1960, spec. pp. 134-149. Per l'alcmanio in Archiloco, cfr. G. Perrotta, 'Alcmanio e reiziano in Archiloco, Mai.a 1, 1955, pp. 14-19. 23

24

Archiwchos, MUnchen 1959, p. 94 s. P. 240.

Archiloco fr. 253 West

203

di XflÀEivcon itÉÀ.yeLv. Per l'efficacia magica del canto sugli uditori, tipica dei poeti arcaici, e per il Dasein della poesia non solo parola, ma fascino, il Treu rinvia a un articolo del Kraus 25 • G. Lanata26 riproduce il testo di Kemke-van Krevelen e nel commento allinea Omero e Esiodo ad Archiloco per il motivo del potere della poesia di sedurre, incantare e dare gioia e traduce 27 "tutti sono ammaliati dai canti". Il Tarditi 28 scrive (fr. 214), secondo il Treu: Xf'IÀ[ÉE]'taL 6' onc; [tatì.)v lxOLbaic;,

traduce 29 : "Chiunque sia, è incantato dai canti", considera il testo un colum dactylicum. Il più recente editore filodemeo, G. M. Rispoli 30 , riproduce il testo del Kemke trascrivendolo cosi: bLòxat tòv 'AQXLM>l[xov À)éyeLv"xfl-

)lt'taL b' érnç / [fa]'nv ltoLbaiç". La studiosa traduce: ••Perciò (afferma) anche Archiloco dice "chiunque esiste è stregato dal canto" ". Il ciclo ecdotico si chiude con l'edizione di M. L. West 31 , che ripropone (fr. 253) la problematicità del contesto - fatto risalire a Diogene di Babilonia che, a sua volta, può dipendere da Dicearco - non meno che del testo cosi: X]ai:~[ a ]lJO'tLXO'V'wc; bn[ .... ),:(l)'Vxaì. i:v ~o>L[(l)'V .... )Q'ftmxai:rutQ'tat e E per o nel susseguente bonç;. Prima di tutto, nessun editore ha badato ad un segno che è fedelmente riportato anche nell'incisione alla fine della linea 33 della colonna 32 : [otaatrov] xat taQaxcòv d[vm

Il segno pur giuntoci incompiuto o incompiutamente riprodotto (·*) è un asterisco (*) quale ricorre in altri libri di Filodemo (p. es. PHerc. 163 col. XXVIIfr. 3, 6 e col. XLVI 33 33 e PHerc. 1065 coli. XI 5 s. e XVIII2)34 , e, più che essere inteso come "un riempitivo", secondo il Cavallo, "serve a marcare con forza la fine di un vero e proprio paragrafo", "la fine di un paragrafo contenente un discorso in sé compiuto" 35 • In effetti, il discorso di Filodemo è sul melos e la musica: secondo una comune credenza, condivisa dai suoi avversari, la musica ha valore educativo e risulta utile: propriamente l'entusiasmo per essa può (buvaoOat) disporci a moltissime virtù, anzi, secondo Diogene di Babilonia, a tutte le virtù. Dicearco 36 ha fornito esempi a Diogene sul potere educativo della musica: l'aedo per gli antichi è sapiente, come l'aotbòç; OVflQ(Od. III 267) cui Agamennone aveva raccomandato Clitemestra su cui nulla poté l'insidia di Egisto, finché ebbe vicino l'aedo e poté ascoltare il suo canto. Diogene tralasciando altri esempi passava a indi-

32

Nell'ed. Rispoli, p. 238. Cfr. A. Tepedino, 'Il primo libro "Sulla ricchezza" di Filodemo', Cronache Ercol. 8, 1978, p. 53 n. 5. 34 Philodemw, On Methods oJlnference, ed. Ph. H. De Lacy-E. A. De Lacy, Napoli 1978, p. 20. 35 G. Cavallo, Libri scriltun scribia Ercolano, PrimoSuppi. CronacheErcol. 13, 1983, p. 24. 36 Fr. 93 W. 33

205

Archiloco fr. 253 West

care altri poteri (l>uvaµEtç)della melodia e indicava - qui lo scriba appone l'asterisco- il potere di far cessare le contese e i tumulti sia fra gli uomini sia fra gli animali. A conferma il filosofo stoico37 , continuando verisimilmente ad attingere alle Questwni omerichedi Dicearco, citava il luogo di Archiloco sul potere incantatore della poesia aedica, sulla sua capacità rasserenatrice 38 • La perdita dell'originale, come accennai, non consente la verifica del disegno napoletano: tuttavia siamo certi che il luogo di Archiloco veniva addotto a sostegno del concetto, anche questa volta dato come largamente valido, che il canto mitiga le contese e le passioni (l'accenlascia pensare a Orfeo); l. 29 ss.: no agli ta l>t'oli yE ouµ](J)(J)Vdtm xat ME(om. rcae(o)ta[t]m tò rceò tais aì..À.atSl>uvaµ]em.vtò µilos xaì. otllOEOOV x]at taeaxci>vd- (·~) vm x]ata,:c[a]uottx6v. c;: btt tci>vàv&Qv~oovcpa(v)eitm xata1CQQVVOµtvoo]v·l>tòxat tòv 'AexU.Oxov >..Jfyetv·Xt)À.O>tat (?) l>'atLS ... )oovàotl>ais. rcm(?). l>Èxa[ì. (?)

30

35

È difficile supporre cosa segua aotl>aiç: la presenza di l>t lascia pensare a un nuovo periodo. Per quanto attiene al testo di Archiloco, riteniamo che elementi di cui non si può metodicamente dubitare sono: l>' onç, la desinenza ]wv (la vocale è incompleta nel primo tratto, ma altro non può essere), il dativo ciotl>atç. Che in Xt}Mll't«L si nasconda una voce del verbo XT)À.€00- a non tener conto della glossa esichiana XT)ÀOO>= XT)Àiro - sembra difficile non ammettere. Archiloco riprende da Omero la poetica della malia del racconto epico e si appropria con tale verbo del modello fornito da XT)À.T)ftµ6çin due luoghi dell'Odissea:al racconto sull'Ade (Od. XI 333 37

Cfr. A. J. Neubecker, D~ Bewertu.ngder Mwik bei S"1ikm und Epilwnem, Berlin 1956, p. 64. 38 La teoria stoica, come forse già prima da Colote, era criticata da Filodemo. Cfr. M. Gigante, Cronache Ercol. 1, 1977, p. 40 e, soprattutto, Philodemw, Uber die Mwik IV. Buch. Text, Ubersetzung und Kommentar von A. J. Neubecker, Napoli 1986, spec. pp. 63-65.

206

M. Gigante

s.) e alla fine degli "apologhi di Alcinoo" succede lo stupito silenzio dei e il XTJÀ.TJ-f>µ6ç (Od. XIII 1 s.): Feaci ammaliati, la CJLO>mt 1tavnç àxriv tytvovto çfcpaft', ol t,' aQ t,' faxovto xa"tà µéyÉÀ.yELV Il compimento del verbo è àoLbaiç, ma vale la pena prima di tutto 44, il luogo di un ditiramrichiamare per XTJÀ.Eiv, come troviamo nel L.5J bo di Pindaro 45 :

a

6 bÈXTJÀEL'taL xoeroo(amm xa[t f>T)Qv àyÉÀ.a[ta]çLv, [oo]x 0tav µ6vov xrtì.[wv]- / 5'tm 't'ijç; 'Obuoodou bL'lYfl- I oEO>ç; / (j)OQ(l'V, xat nae' airtoiç; [b)è 'toiç; àxouovnç;, àllà xat xa'tà rl)v 6Urtv OUl'ffEQLµv[rt)o't'ijQOL,'tClyE noUà 0L- / 10 yrj. (Anche Filodemo poeta ricorda le dolci favole della terra dei Feaci, A. P. Xl 44, 6). Mus. Ruf. fr. XLIX Hense: .. .Jdcirco, inquit, poetarum sapientissimu.saudilores illm Ulixi laboressuos in.lustrissimenarrantis, ubi laquendifinisfactu.s, non exultare nec streperenec vociferarifacit, sed consiluisse universo.sdicit quasi attonito.set obstupidos delenimentis aurium ad origine&wque vocis permanantibu.s:ò'>ç; q?a'tOX'tÀ..Luc. Nigr. 35: 'tÒ 'tWVcl>maxwvnaitoç; naitfiv. 41 Cfr. Od. XII 39 s., 44, 52, 158 s., 183, 187 ss., 192. Cfr. Lanata, op. cit. pp. 16-19. 42 Fr. 112, 5: no).).çlf ~OV'taL ((tilyOV'tmLobel) vÉOL. 43 Fr. 86 Calarne, cfr. fr. 4, 1: Mo'6.yEMrooa ).(YTta ... 44 S. v. XrtÀ.Éro dove il testo archilocheo suona XrtÀ.EhmàoLbaiç;. 45 Dith. 2, 22 s. 46 Plat. Prot. 315 a: Protagora ammalia con la propria voce Orleo. Cfr. Luc. Adv.

Archiloco fr. 253 West

207

47 liare con i suoi inni (uµvoun XTJÀ.T)Oavta) Persefone e Ade e riportare alla luce Alcesti. Dopo Omero, la malia del canto delle Sirene è espres48 ; il fascino può divenire anche seduzione, abbinsa da XTJÀ.Eiv 49 dolamento • La situazione poetica del frammento archilocheo - nella forma e nel contenuto - prelude a Pindaro: più che al proemio della prima Pitica evocato dal Diehl penso al proemio della quarta Nemea dove le nude àotba( del poeta pario di Mirrine diventano le sapienti figlie delle Muse che incalzando come un'onda 50 affascinano la serena letizia, il medico migliore delle ardue fatiche compiute:

"AQLO'tOç E'ÒLOOV / 1)6fha. Il plurale anche in Dith. 1, 14 c'd)~n• ambJ'ES !'"X..youOLv, 6tLç ocpÉaçEloacpbCfl'taL. Ma se escludiamo, come mi pare dobbiamo escludere, la integrazione tad.v - la violazione della sicura traccia di oo dà un risultato

troppo banale o troppo assolutizzante "chiunque sia" "chiunque esiste" - la desinenza oovprima di aotbaiç può lasciare pensare a un sostantivo in genitivo plur. 6.3 più verisimilmente che ad un aggettivo al nominativo sing. 64 • Lo spazio ristretto non lascia pensare ad una preposizione: bisognerebbe ammettere una citazione mutila. Che la citazione sia incompleta è possibile. In ogni modo, penserei, a guisa d'esempio, a aat]rov dal momento che il testo archilocheo viene riferito al discorso sulle discordie civili placate dal melos. Di Archiloco citerei nei vari contesti metrici: 58

D. Page, 'Archilochus and the Oral Tradition', in Entr. Hardt X, cit. pp. 117-163 (con la discussione, pp. 164-179). 59 J. A. Notopoulos, 'Archilochus, the Aoidos', Trans. Am. Philol. A.u. 97, 1966, pp. 311-315. 60

Apollonio Rodio riprende 60L6a( due volte nel IV delle Argonauticke: è rilevante che il tennine al dativo - designa gli incantesimi, le formule magiche di Medea ricorra a chiusura di esametro (vv. 41 s. e 59 sulla bocca di Selene: quest'ultimo testo è controverso, cfr. l'ed. comm. di E. Livrea, Firenze 1973 e G. Paduano-M. Fusillo, Apolloni.oRodio, Le Argonauticke, Milano 1986, pp. 538-541). 61 Mi limito a rinviare a note pagine di B. Snell, La cultura greca e k origini del pensi.eroeuropeo, trad. it. Torino 1963. 62

Cito solo altri pochi esempi: Il. XXIV 751 s.: 6:Uovç l'ÌV yàe nai6aç tµoùç ... 6v nv' neoxE; Od. 111355:;t;(vouç çEtv(l;ELV, 6ç dç x' tµ.à &opat' tx'IJ'tat;Od. XXII 314 s.: l»J.à. xat &llouç I ffQUEOXOV l'V'IJuri'iQOS, 6'tlç 'tOtairca YEQél;ot,etc. 63 Cfr. p. es. Il. XXIII 285 s.: 6llot bè mtllE'taL b' onç; àat )Qlc; yuvaucoc;,cfr. n. 6. 3 Il cui primo sostenitore sembra essere stato Blomfield (in calce al discusso Aesch. Ag. 6.37 xwelc;1't·nµ~ inci1v);su questa linea J. M. Edmonds, Ekgy and lambw 11, London-Cambridge Ma. 1931, p. 217.

,. . Tammarn

218

cani slatement; and the slight awkwardnessoC"(UV(l1XÒçwould be removetJ. For if the poet is contrasting the female with the male mind~il is natural for him lo use a singular, if he is insisting that the various women were made out of different material. a plural would be expected f•••); but sense and language alike incline me to think tbat il more probahly means 'separate from man•s mmd' "(p. 63 s.). Sta di fatto che il tema del "giambo. non è la differente origine della donna rispetto all'uomo, ma la sua origine molteplice. Non si capisc:e quindi perché, assumendo X(J){)Lçcome •separatamente uno dall'altro', "as a programmatic statement at the start it seerns rather flat" (Lloyd-Jones p. 63): proprio cosl, invece, si configura l'atteso, energico •motto' iniziale, in linea con la nuova ginecogonia che sarà esposta subito dopo. Che sia energico e possieda un senso forte è stato ben visto da Marg p. 35 s. 4 e opportunamente ribadito da Verdenius 1968, p. 1335 : al suo pubblico maschile, che senza dubbio conosce la versione esiodea del mito di Pandora, la prima donna creata da Zeus in odio agli uomini (Theog. 570 ss., cfr. 590 b tT1çYàe ytvoç rotì. yuvaLxwv ih]ÀtrtEQOO)V ), Semonide prospetta polemicamente una creazione differenziata, che ha il vantaggio di dar conto dei numerosi tipi femminili di fatto individuabili. Soprattutto - ha osservato ancora Verdenius, loc. cit. - essa può giustificare l'inopinata comparsa, in Theog. 608, della xebvr)v ... (!xoL"tLV,ÒQTlQUiav:rtQWttbEOOL, che mal si concilia con l'bt:(xÀ.O:rtov~itoç lasciato in eredità da Pandora a tutte le donne (Op. 77 se.). Ciò detto, sarà però lecito tener conto dell'imbarazzo che LloydJones, e molti altri prima di lui, hanno provato davanti a yuvaLxoç, soprattutto in quanto singolare6, e in generale al testo del v. 1. Mentre 4

Cfr. anche p. 6 s. !\ Cfr. inoltre Verdenius 1977, p. I. 6 Merita appena di essere ricordata l'interpretazione di L. Radermacher: "Getrennt vom Weibe schuf ein Gott den Verstand" (Weinen und Lachen. Studien ii.ber antikeJ l..ebemgefilhl,Wien 1947, p. 161). Egli intendeva quindi XWQ(çcome preposizione: ma a una sintassi più agevole corrisponde un significato senza il minimo aggancio nr.l re11todel componimento; né può certo valere la nota esplicativa: "Zur Ent11chuldigungdr.s Dichters mag dienen, dass er anderswo (frg. l, 3 Diehl [cioè vouç 6' ooxbt' i.lvitQnoiOLV xti...))den Menschen ilberhaupt den Verstand ahspricht" (ibid.). A Radermacher si collega l'articolo di Monique Trédé, significativamente intitolato •~monide 7, 1. Sena et emploi de XWQ(çou "Comment l'esprit vint aux femme1" ', in 'li6unov Aoy66Eutvov. Logopé~s, Mél. de Phil. et de Llng. grecq. offerta à J. Taillardat, Paris 1988, pp. 235-245.

Semon. fr. 7, 1 s. W.

219

non ci si sorprende che negli apparati delle ultime edizioni siano ricordate alcune proposte avanzate in passato, meraviglia la vis polemica di Verdenius 1977, p. 1: "We(st) im Apparat: 'yuvaixaç vel -oov Koeler' 7 , aher der kollektive Gebrauch des Singulars diirfte doch jetzt gentigend bekannt sein (vgl. Ktihner-Gerth I, 86-7). Auf weitere tiberfliissige Hinweise in Wests Apparat gehe ich nicht ein". Nel nostro caso, di certo, i suggerimenti di Koeler non costituiscono un mero lusus, sono il frutto di un'adeguata argomentazione: non menzionarli, del resto, impoverirebbe la dimensione storica di un'edizione critica, oltre a ridurne la fruibilità. Prima di Verdenius, Marg p. 7 - pur ammettendo che l'espressione è "grammatisch ungewohnlich", perché accanto al x.wg(ç che indica differenziazione abbiamo un singolare - respingeva come "unangebracht" il tentativo di introdurre un plurale. E continuava: "Neben dem Thema der Verschiedenheit der Weiber besteht ein zweites: das Weib tiberhaupt, das dem ganzen Gedicht zugrunde liegt, und zu dem passt der Singular ausgezeichnet. Durch die Sperrung ist yuvauwç ... v6ov als thematisch neben x.wg(ç herausgehoben. Damit leitet der erste Satz nicht nur den ersten Teil, sondem das ganze Gedicht ein". Si può obiettare, ancora una volta, che all'inizio preme al poeta la presa di distanza dal precedente esiodeo, la messa a punto di una protostoria (cfr. v. 2 'tà ,igro,;a), con l'illustrazione di una innovativa, ricca tipologia femminile: alla seconda parte del componimento è riservato di tracciare lo sconsolato bilancio, che col suo segno complessivamente negativo ritorna - in sostanza - nel solco della tradizione esiodea 8 • La persistenza di qualche imbarazzo nello stesso Marg è provata non tanto dall'affermazione successiva - che il plurale sarebbe preferibile se la prima e la seconda parte costituissero due frammenti separati - ma dal suo riconoscimento oggettivo che non ci è dato di trovare nell'epos "eine solche kollektive Ausdruckweise yuvaixòç v6oç; 'der Weibessinn' ". Verdenius 1968, p. 134 ha citato al riguardo Hom. o 20 oloita yàg oloç ihlµòç tvl O'tTlitECJCJtyuvaix6ç: un'espressione che ha però evidente carattere gnomico, lontana dalla solenne evocazione di 7

Cfr. West p. 99. Non mi soffermo qui sulle discordanti interpretazioni e valutazioni del 'giambo' anche in relazione a Esiodo: importanti le osservazioni di Marg pp. 35-42, Verdenius 1968, pp. 156-158, Lloyd-Jones pp. 18-33. Il 'misoginismo' di Esiodo è ora negato da G. Arrighetti, in Muoginia e maschilumo in Grecia e in Roma, Genova 1981, pp. 27-48 (rist. in E$iodo, Operee giorni, Milano 1985, pp. XXXVII-LV). 8

220

V.Tammaro

un evento antropogonico, 'storico', che sancisce la pluralità dei caratteri femminili. A favore di un plurale - nella fattispecie, yuvaixaç, con v6ov accusativo di relazione, come ottimamente proponeva Koeler p. 23 s. 9 - militerebbero quindi, a mio parere, i seguenti elementi: 1) l'accezione di XOOQ(ç"separately from each other", che a stento è conciliabile con un collettivo yuvatxòç v6ov (un collettivo a sua volta non esente da dubbi, tanto più in questa sede); 2) la difficoltà del nesso v6ov l'tOLEiv, per il quale nessuno ha potuto addurre reali paralleli, e che porta del resto a giudicare meno probabile l'alternativo yuvau«irv dello stesso Koeler, loc. cit. 10 ; 3) il fatto incontestabile che subito dopo, al v. 2, e poi di seguito nell'intera rassegna il verbo "creare" (ltOLÉOO/ t(ih]µt / nÀ.aooro, spesso sottinteso) regge direttamente il singolo esemplare femminile: TI)vµtv ... TI)vbè ... etc. (il v6oç non è "creato" ma è un portato dell'animale o elemento che si utilizza per le distinte creazioni) 11• Finita la rassegna, l'autore concluderà che ZEùç yàQ µÉyLatovtoirt' bto(rioEV xaxov, I yuvaixaç (v. 96 s.). Un futuro editore potrà decidere, forse, di stampare ancora yuvatx6ç, ma dovrà continuare a segnalare in apparato le congetture originate da una reale difficoltà espressiva ed esegetica: ed il yuvaixaç di Koeler va privilegiato, perché con minima spesa risolve ogni problema linguistico, stilistico e concettuale, restituendo chiarezza e congruenza all'esordio del 'giambo' 12 •

9

A yuvaixai; sarebbe pervenuto in seguito - ignorando Koeler - Schneidewin (in alternativa, yuvaixa); Ahrens propose yuvaixai; ... vcxp: Meineke yuvaixai; ..• v6ou (gen. dipendente da xwQ(i;). 10

Più tardi suggerito anche da Bergk. Una piccola variatio è al v. 58, dove è la stessa cavalla a dare origine - ma sempre per intervento divino, si presume - alla donna troppo raffinata: n)v t,• imtoi; 11

aJ3ei1 XOL'tUoo' fyElva'to. 12

Sarebbe facile spiegare la corruzione di yuvaixai; in yuvmx6i; con una meccanica influenza del precedente X 't'ijç'BQaç 'tEµÉVEt, ì..ey6µevoçxalltCJ'tEia"among the people of Lesbos there is a beauty contest of women held in the sacred precinct [temenos) of Hera, called the kallisteia" 5 • The other epithet describing the ò)ì..oì..uyaç"ululation" of the women of Lesbos, èvtauo(aç "seasonally recurring" (Alcaeus fr. 130b, 20), indicates an event that must have taken piace at a yearly festival. That we are in fact dealing with a beauty contest is suggested by the wording XQtvv6µevatqruav "outstanding in beauty" (Alcaeus fr. 130b, 17). This event is more than a beauty contest, however: it is also a choral event, as we see from the reference to LQa[ç ò)ì..oì..uyaç"sacred

4

B. Gentili, Poetry and ltJ Public in Ancient Greece: From Homer to the Fifth Century, English version of Poesia e pubblico nella Grecia antica: da Omero al V secolo (Roma-Bari 1985); translated, with an introduction by T. A. Cole, Baltimore-London 1988, pp. 220, 306 n. 30. 5

Cf. D. Page, Sappho and Akaeus: An lntroduction to the Study of Ancient Lesbian Poetry, Oxford 1955, p. 168 n. 4. We may compare the reference to a temenos of Hera in Dioscorides, A . P. VII 351. This temenos is the purported setting for the events taking piace in the Cologne Epode of Archilocus, S478 Page: see C. Miralles and J. Pòrtulas, Archllochus and the lambic Poetry, Roma 1983, p. 136 n. 16, with further bibliography.

Alcaeus in sacred space

223

ululation" (Alcaeus fr. 130b, 20). There is reinforcement from Palatine

Anthology IX 189, where apparently the same festival, taking piace in the temenos of Hera, is described explicitly in choral terms of song and dance, with Sappho herself pictured as the leader of the khoros "chorus•'6. I argue that the words of Alcaeus, envisioned in fr. 129 and fr. 130 as speaking from the centrai precinct of Lesbos on the occasion of a choral performance at a festival of the goddess Hera, presuppose a dramatized setting of authoritative speech intended for the community at large 7 •

Despite its authoritativeness, however, the poet's voice assumes a tone of agonistic alienati on from his community. Alcaeus is speaking as a wretched exile who longs for reintegration with civic life in his native city (fr. 130b, 1-9). His nostalgia for the civic council and assembly (ay6Qaç ... xaì P[6]Uaç: fr. 130b, 3 and 5) corresponds to the nostalgia of the alienated hero Achilles for the assembly of his warrior society

dç àyoe~v 31:00ÀÉOXEtOxul>L.uxmxµ(mç (f)E'IJ'YOOV TÒV 11:0À.tµov.

1) Der Athener Onomakles: Haslam (S. 123) liest nunmehr auch in P. Oxy. 2165 fr. 1 W'fta[.)atoç. Trotzdem darf die Vermutung gewagt werden: Wer seinerzeit ergiinzt hiitte, was sich aus P. Oxy. 3711 ergibt, hiitte wenig Beifall gefunden. Nur allzu gut schien ja auch ~a [b') oloç zu passen, das nun aufzugeben ist. "Wie Onomakles aus Athen habe ich mich angesiedelt ... " - so kennzeichnet also Alkaios seine Lebensform in dem Heiligtum, in dem er Asyl gefunden hat. Wer aber war Onomakles? Ich selbst schrieb dariiber vor gut einem Jahrzehnt 8 : "Vollig unklar bleibt auch der Vergleich mit Onymakles, 8

Dichter umi Gruppe, Mi.inchen 1980, S. 280.

Zur Struktur des Alkaios-Kommentars P. Oxy. 3711

233

einer ansonsten unbekannten Gestalt, die die bisherige Forschung vermutungsweise dem Bereich des Mythos oder der mytilenischen Friihgeschichte zugewiesen hat. Nicht auszuschlieBen, vielleicht sogar am wahrscheinlichsten ist indessen, daB es sich gar nicht um eine zu dieser Zeit allgemein bekannte Person handelt, auf die man paradigmatisch verweisen konnte, sondern ein Hinweis auf einen anderen, von einem iihnlichen Schicksal betroffenen haiQOç vorliegt; dies wiirde immerhin erklaren, warum keinerlei weitere Ùberlieferung iiber den Triiger des Namens existiert". Aufgegeben werden muf3davon die Vermutung, gemeint sei ein haiQOç; doch der Verdacht, es handele sich um einen Zeitgenossen von begrenzter Bekanntheit, gewinnt auf der neuen Textgrundlage an Wahrscheinlichkeit. Die Auseinandersetzungen zwischen Athen und Mytilene um Sigeion filhrten nicht wenige Athener in dieses Gebiet; einer von ihnen mag Onomakles gewesen sein (so bereits Haslam, S. 124). Welche Wendungen sein Lebensschicksal dort dann genommen hat, um ihn in eine Lage zu bringen, die Alkaios als der seinen verwandt empfinden konnte, liegt im Dunkel. 2) Auxa1.xµ(a1.ç:Dieser Wortlaut wird durch P. Oxy. 3711 gesimit dariibergeschriebenem (jechert; P. Oxy. 2165 hatte Àuxa1,µ(a1.ç doch nicht sicher identifiziertem) X, was sich nun also definitiv als Korrektur eines Schreibfehlers erweist. Page9 und andere hatten Àuxa1.µ(a1,ç als authentischen Text angenommen und aus der Kombination zweier Hesych-Glossen folgende Erklarung gewonnen: "Mann, der sich unter Wolfen (oder: wie ein Wolf) im Wald (alµ6ç = bguµ6ç [Hesych]) aufhalt". Diese Herleitung wurde sodano zu einem wesentlichen Stiitzpfeiler fiir die These von G. Burzacchini 10, daB Alkaios Fr. 130 b die Folie fiir das Horaz-Gedicht lnteger vitae (Carm. 1, 22) bilde (Z. 9 ff.: namque me silva lupus in Sabina [ ... ] fugit inermem). AH dies ist Die Hesych-Glosse À jetzt hinfallig. Was aber bedeutet Àuxa1.xµCa1.ç? 1369 >.uxa1.xµCaç (verschrieben zu >.uxa1.x>.Caç)I1 bietet die Erklarung (mogliche Ableitungen: von fJQ6'toç,"[aus der Wunde 6 Àux6fJQO'tOç ausgetretenes) Blut", oder von fJQO't6ç,"sterblich"); im Cod. Vat. Gr. 9

Sappho and Alcaew, Oxford 1955, S. 205. 'Aie. 130 b Voigt ~ Hor. Carm. I 22', Quad. Urb. 22, 1976, S. 54 fJ.; 'Some Further Observationa on Alcaeus Fr. 130 b Voigt', Pap. Liv. Lat. Sem. 5, 198.5, S. 377 f. 11 So unter Berilcksichtigung von P. Oxy. 3711; Latte ilnderte in seiner Ausgabe (Huychu Alaandrini Lexicon II, Kopenhagen 1966) unter dem Eindruck von P. Oxy • 2165 ZU À'UXOLµ(aç. , 10

W. Rosler

234

23 tritt die Variante À.ux6~Q(l)'toç, "vom Wolf gefressen", hinzu. Aber keine dieser Ableitungen iiberzeugt, denn keine beriicksichtigt das Element alxµ11:" ... habe ich mich angesiedelt wie ein Wolfskrieger". R. Buxton schreibt in seiner Abhandlung 'Wolves and Werewolves in Greek Thought' 12 : "Not only do wolves in generai roam in areas which seem to humans to be outside the confines of human territory, but the lone wolf - having dropped out of or been expelled from a pack as a result of wounding in a fight or infirmity, and thus being a kind of outsider even amongst a community of outsiders - is a recognised part of wolf ecology, known to antiquity as to us [... ]". Buxton selbst verweist im folgenden auf unser Alkaios-Fragment, wobei er noch von À.uxatµf.atç ausgeht. Noch besser scheint auf den ersten Blick À.uxatxµf.atçzu diesen Ausfiihrungen zu passen. Doch dann kommen Zweifel: Alkaios ist ja, wie die bloBe Existenz dieses Gedichts zeigt, von seinen haiQOL keineswegs verstoBen - oder soli man mit einer scherzhaften Ubertreibung rechnen 13? Doch auch das Unbehagen von Haslam erscheint nicht unberechtigt (S. 124): "I must admit that now that we no longer have h-6-ab' oloç as predicate I should be happier if À.uxatxµf.atçwere object of tof.xT)OO [... ]" 14• In dieser Situation ist es kein Trost, daB die Kommentierung der Stelle in P. Oxy. 3711 eben dies ja anzeigt, daB zum Verstandnis ein bestimmtes, uns fehlendes Hintergrundwissen erforderlich ist. Im Gegenteil: Um so mehr muB man das Abbrechen des Kommentars bedauem. 3) cl>E'tl'yOOV i;òv :rt6À.Eµov: Jeder Neufund, der einen Text da vollstandig bietet, wo zuvor Erganzungen die Liicken zu schlieBen versuchten, entscheidet im nachhinein iiber Erfolg und MiBerfolg. So auch in angenommen; diesem Fall: Diehl hatte am Beginn von Zeile 9 q>E'lJ'YOOV dem war Latte unter Hinweis auf die sich ergebende Wortwiederholung

12

1987, 13

In: J. Bremmer (Hg.), lnterpretatioru of Greek Myùwlogy, London-Sidney

s. 63.

Ein solcher familiiirer Ton wilrde sich durchaus einfiigen in die lnterpretation von Fr. 130 b als eines an die haiQoL gerichteten Briefgedichts aus dem Exil (Dichkr und Gruppe(o. Anm. 8], S. 272 ff.). 14 Kaum eine Losung stellt freilich die Bestimmung von ÀuxaLxµim.c; als Dativ Plural eines Substantivs >..uxaLxi,da, "Wolfskampr, dar- 80 M. R. Lefkowitz und H. Lloyd-Jones, 'AYKAIXMIAU:', Zeilschr.f. Pap. u. Epi.gr. 68, 1987, S. 9 f. ("the lines would describe not Alcaeus' loneliness, [... ] but his war tactics"). Von einzelnem abgesehen, scheint mir der lnhalt des Gedichts im ganzen zu der angeblichen Selbstvorstellung des Dichters als eines Guerilla-Kampfers in krassem Gegensatz zu stehen.

Zur Struktur des Alkaios-Kommentars P. Oxy. 3711

235

(Z. 9/11) entgegengetreten (vgl. Haslam, S. 124) - im Apparat der Ausgabe von Voigt ist Diehls Vorschlag denn auch gar nicht mehr erwahnt (als mogliche Lesungen des ersten Buchstabens werden - nach Lobel und Page - À.und X angegeben). P. Oxy. 3711 bestatigt nunmehr q>Euyc.ov (wie auch den bestimmten Artikel 'tÒV). lm nachhinein mu.8 man konstatieren, da.8 Lattes Argument von Anfang an ohne Gewicht war, wie folgende Parallelen zeigen: toixrioa (Fr. 130 b, 10) toi[xrioa (14) - oixriµt (16) oder xfutoovuµaooav (Fr. 129, 5) ciM'Jµaooav (8). Wir sind damit am Ende der Auswertung des neuen Kommentars angelangt. Ein weiteres Fragment aus dieser Schrift (P. Oxy. 3711 Fr. 2) ist leider ilberaus diirftig. lmmerhin ist das Vorkommen des Namens Alkaios (Z. 12) geeignet, eine Schlu.Bfolgerungzu vertiefen, die aus Fr. 1 abgeleitet wurde: da.8 es sich eben nicht um Lesbiaca, sondem um einen Kommentar zu Alkaios handelt.

Lirica arcaica e scoli simposiali (Aie. 249, 6-9 V. e carm. conv. 891 P.) Luigi Enrico Rossi

È noto che il simposio creativo, quello che compone carmi per opera di poeti che li firmano, culmina e finisce con le composizioni simposiali di Pindaro e di Bacchilide, oltre che con quelle degli elegiaci Eueno e Dionisio Calco. Nel V e nel IV secolo il simposio adotta sia la breve canzonetta improvvisata, secondo la definizione di Severyns 1 , sia il 'riuso' di carmi o parti di carmi di poeti più antichi. È chiaro che in questi casi di riuso non si può parlare di derivazione da un modello o da una fonte, secondo i criteri della critica positivistica. Se la composizione arcaica viene ripresa più o meno di peso, da una parte si può dire che si tratta dello stesso testo, e dall'altra si dovrà invece vederla in una individualità nuova, che pone i due testi, in sé distinti, in una intertestualità di tipo particolare. Quando un'ode o una strofe di Alceo viene riusata nel simposio attico, il suo contesto socioculturale e linguistico cambia, trasferendosi dalla Lesbo del principio del VI secolo all'Atene del V. E nel caso poi che il canto riusato si sia stabilmente inserito nel repertorio del simposio attico, i due testi perché di due testi distinti ormai si tratta - hanno ognuno una propria tradizione con vicende particolari. Ho descritto in termini astratti la situazione di un caso concreto di riuso che da una parte offre l'occasione di un restauro testuale e dall'altra si presta a considerazioni di qualche interesse sulle vicende delle due indipendenti tradizioni. Si tratta di Aie. 249, 6-9 V.:

).[ ).. ov x[6]QOV al..[

1

A. Severyns, 'Proclos et la chanaon de tahle', in Milangt!s Bidu 11, Bruxelles 1934, pp. 835-856. Per la poesia simposiale in generale vd. Poesia e simposioMila Grecia amica, a cura di M. Vetta, Roma-Bari 1983 (spec. l'introduz. del curatore) e Sympotica, ed. by O. Murray, Oxford 1990.

L. E. Rossi

238 ]. vàa Y,ÉV'l)'tat

'tq>XOQÉOV'ttTTQÉXELVt àva..yxa. µ]axava (lv)tµoç q>ÉQ[

9

]tv

).~(

13

e di carm. conv. 891 Page (ap. Athen. XV 695a): bt yf)ç XQTIxa'tLb'l)Vni..6ov Et 'tLç buvat'tO xat mù.aµ'l)V ixm, bttl bt x' tv nmq> YÉVTJ'tat 'tq>11:0QEML'tQÉXEtVàvayx'I).

Il carme conviviale è l'ottavo della raccolta trasmessaci da Ateneo, e, a cominciare da Stefano, vi si era riconosciuta una composizione di Alceo per ovvie considerazioni di contenuto (la tematica della nave e della tempesta), per la forma metrica (strofe alcaica) e per alcuni fatti dialettali, fra i quali è notevole la conservazione del vocalismo eolico in xa-r(fuJv nel cod. A (mentre l'Epitome ha l'atticizzazione xatLbei.v). Il papiro di Alceo, del sec. I a. C. o I d. C., comparve nel 1951, pubblicato da Lobel nel voi. XXI di Ossirinco (P. Oxy. 2298) e ci diede la conferma della paternità originariamente alcaica della strofe, restituendoci anche il contesto originario della strofe stessa, che faceva parte di un carme di più strofe (appaiono frammenti di cinque versi prima e di quattro versi dopo la nostra strofe). Ateneo ci presenta nel carme conviviale alcune atticizzazioni per così dire innocue, proprio perché usuali in casi del genere e significative per quella che appare una 'tolleranza' della mistione dialettale, che sarà da attribuirsi non sempre solo ad interventi della tradizione manoscritta, ma anche ad atticizzazione dovuta al riuso: 1 yijç, 2 et, 1taÀaµriv, 4 à.vayxri (a parte i fatti di solo accento). Un caso, invece, di possibile atticizzazione per così dire violenta è 4 'tQÉXELV, a cui purtroppo nel v. 9 di Alceo corrisponde lacuna del papiro: creerebbe infatti, trasferito in Alceo, una correptio attica non proprio normale. Non mi soffermo su questa

Lirica arcaica e scoli simposiali

239

difficoltà, che ha dato e dà da fare ai filologi2 e lascio anche da parte l'alternativa congiuntivi / ottativi in Aie. 7 I carm. 2. Vorrei invece dirigere l'attenzione sull'alternativa Aie. 6 11:QOtfutv vs. carm. conv. 1 xa'tt&)v, dove mi pare che si possa raggiungere un del papiprogresso. Tutti sembrano concordi nel considerare 11:QOt&)v ro, col suo valore di 'prevedere', lezione autentica rispetto a xa't(futv del carme, che sarebbe inaccettabile per il significato. IlQOOQOO> (LSJ s. v., vd. anche s. v. 11:QOEibov) significa 'veder davanti', sia in senso spaziale (Hom.) sia in senso temporale (e mentale) come 'prevedere' (fin da Pind. N. I, 27). Barner-3precisa che un senso spaziale di nQOt&)vnel testo alcaico non è da escludere, visto che c'è bt.yciç (ma vedremo che c'è una possibilità più precisa e specializzata di esprimere col verbo la spazialità). È forse da questo accenno e sicuramente su questa linea che Rosler4 fa un timido passo avanti per giustificare quella che crede (con tutti) la corruzione xad&)v, dicendo che sulle ragioni per la corruzione si possono fare solo ipotesi, ma che potrebbe esserci l'influenza di qualche concezione spaziale: "auf das Meer (herab)blicken und die (in Aussicht genommene) Fahrtroute betrachten". Ebbene, mi pare che Rosler, avendo avuto una felice intuizione nel giustificare xa't(&)v come corruzione, si sia fermato a mezza strada e si sia lasciato sfuggire l'occasione di spiegarlo come lezione giusta. 'V edere', 'esplorare' da terra il viaggio per mare: xa'ta- 'da terra a mare'. È questo quanto spero di dimostrare in quel che segue. Vediamo che cosa ci dicono i lessici su xaitoQétoo.Secondo LSJ (s. v., e vd. anche xa'tei&>v)significa 'guardar giù; guardar giù proteggendo (detto di dèi); vedere distintamente, avere nel proprio campo visuale; osseroare,percepire, esplorare' (e cfr. i valori di 'esplorazione' xa't63nT1ç,xa'taoxonoç): tutti significaper sostantivi come xa't01t'tTIQ, ti di ~ardevole antichità; nei Settanta è 'aver riverenza, rispetto per'. È strano che, con questa documentazione lessicografica, gli esegeti si siano tutti espressi in senso cosl negativo per il valore da dare a xa't(futv (vd. i valori sottolineati qui sopra): basti ricordare con quanta

2

B. Gentili, Poesia e pubblico nella Greciaantica. Da O,neroal V secolo, RomaBari 19892, p. 282 n. 135 e in Sileno 10, 1984, p. 242 s. 3 W. Bamer, NeuereAlkai.m-Papyri. aw Oxyrhynchos,Hildesheim 1967, p. 117 e nn. 4, 5. 4 W. Ròsler, Dichler wul Cruppe.Munchen 1980, p. 97 n. 116.

L. E. Rossi

240

decisione Page5, d'accordo con Lobel, esclude il valore di "to catch sight of ". Ma i lessici vanno integrati con una raccolta di materiale offerta recentemente da R. Nicolai6 , che, per l'esegesi di passi di letteratura geografica. accerta che i due avverbi 6.voo/ xlrtoo (e corrispondentemente le preposizioni/ preverbi àva. / xa'téJ.)"costituiscono un sistema di localizzazione relativa a un punto di riferimento", che non è mai assoluto o astratto, ma è sempre frutto di una scelta dell'osservatore, che per lo più è la posizione stessa dell'osservatore. Le due coppie hanno un valore spaziale per cosl dire 'in divenire', significando 6.vooe àva. una e xa'téJ.una direzione direzione verso l'interno (o verso monte) e XO.'too verso valle e verso la costa. Quando il punto di osservazione sia la / xa'téJ.la direzione verso il mare: tutti costa, è ovvio indicare con XO.'tOO ricordiamo la definizione di Max Weber delle civiltà antiche come "civiltà costiere". Aggiungo un esempio di letteratura lessicografica come Hesych. x 1005 Latte, dove s. v. xa'téJ.gli interpretamenla~. lut6, etç sono di per sé eloquenti (vd. anche Phot. Lex. I p. 315 Naber). Mi pare anche significativo che parole come xa.itoooç, xa't~aaLç e specialmente xa'twtÀ.ouc;,con i verbi corrispondenti, abbiano una loro bivalenza semantica fra l"andare' e il 'tornare', che si spiega, appunto, con la scelta del punto di vista. E segnalo infine due occorrenze molto ,tÉMlyoc;, chiare: una in senso proprio (carm. conv. 917 c, 9 P. xait6QµL ha il valore di defi,ciocome bene interpretano E. Buchholz e R. Peppmilller 6 confrontando Herodt. 7, 187, dove lo storico afferma che non c'è da meravigliarsi se, per lo sterminato numero dell'armata di Serse, le acque di alcuni fiumi si siano addirittura esaurite: oùbtv µoL ftroµa xaQ(ata'taL XQobouvaL'tà QÉEf>Qa 'toovxo'taµoov fatL cbv7• Ma J. Svenbro, che discute il passo in un suo libro, forse, troppo 4

Saffo e Alceo. Testimonianze eframmt!nli Il, Napoli 1948, p. 26. Gentili 19892, p. 269 s. 6 Amhologie aw den lyrikem der Griechen, Leipzig-Berlin 19116 , p. 66. Cfr. Andere erklliren: er will nicht zum Verriiter anche l'Anhang a p. 187: "5. ffQOO(OOELV] werden, nicht tOckisch berauschen. Die unter dem Texte gegebene Erklarung billigt Karsten: 'Dictio olvoç, oç; oi'!n0tt Cf)Tlm nQOl>tbrol,lL 5

Il linguaggio delle cose

249

fortunato 8 , sembra, o vuole, ignorare questa interpretazione 9 , mentre assegna un valore senz'altro eccessivo alla personificazione del vino che indubbiamente emerge dall'espressione senofanea. Anzi, con invidiabile fantasia, lo studioso svedese la indica addirittura come prova della netta separazione, in seno alla società già al tempo di Senofane, tra i due cicli: di produzione e di consumo; in sostanza la personificazione del vino rivelerebbe, nel poeta-filosofo di Colofone, l'atteggiamento mentale di chi, ormai senza più un'esperienza diretta del processo produttivo dei beni di consumo, "sostituisce inavvertitamente al produttore invisibile la personificazione del prodotto". Ma con buona pace dello Svenbro, non credo che il riferimento al ciclo di produzione e a quello di consumo sia, in questo caso, pertinente. Del resto una frattura cosl netta tra i due cicli, in una società che si reggeva prevalentemente su di un'economia agricola, mi sembra addirittura improponibile. Si tratta, in effetti 1°, di un uso figurato, quasi metaforico, di q>TJµ(, e presuppone da parte del narratore un processo mentale mediante cui si trasforma una percezione, avuta visivamente o solo per induzione, in un vero e proprio messaggio vocale trasmesso dalla o dalle cose che la hanno, più o meno direttamente, provocata. In questo modo l'oggetto, che è stato solo l'elemento passivo ed il motivo occasionale della percezione, diventa esso stesso mittente del messaggio e viene, di conseguenza, considerato come persona. Nella stessa accezione di Alceo (fr. 73, 5) e di Senofane (1, 5) q>TJµ(ricorre in Callimaco (la. 6 = fr. 196, 44 Pf.) e in Teocrito (1, 51): in entrambi i casi, mittente del messaggio figura una scultura e destinatario l'eventuale osservatore. nell'accezione di deficio: 'tO'Ù cpQOYµx6't0ç, "essendo venuta meno la palizzata". 8 La parole et le marhre. Aw: originesde la poitique grecque, Lund 1976, p. 101 · (= tr. it. Torino 1984, p. 96). Il lavoro dello Svenbro è senza dubbio stimolante, ma non di rado lo studioso usa le fonti in modo assai soggettivo ed azzarda ricostruzioni non su ciò che esse effettivamente dicono, ma su ciò che egli avrebbe voluto che dicessero. Per una esauriente e puntuale analisi dell'opera dello Svenbro rimando a G. Nieddu, Dialoghi di Archeologia2, 1981, pp. 1-22. 9

Come chiaramente si evince dalla traduzione che egli dà del v. 5 senofaneo "C'è ancora vino, pronto, che promette di non tradirci mai" (cfr. p. 96 della trad. italiana). 10 Ne sono testimonianza il fr. 73 di Alceo e gli altri casi qui di seguito riportati e discu88i.

G. Serrao

250

Il Giambo6 di Callimaco è una specie di propemptilconnella forma di un'ekphrasi.s11 ; in esso il poeta, come ci informa l'anonimo 12 , esponeva ad un amico, che salpava alla volta dell'Elide per bLTfYTl't11T)µ(implica sempre un messaggio, e un messaggio presuppone sempre un destinatario che può essere, naturalmente, anche solo sottinteso. Cosl, per limitarci ai casi qui trattati, in Alceo il destinatario è il poeta stesso e la sua fazione, in Senofane sono i commensali, in Callimaco e Teocrito sono gli eventuali osservatori. In Catullo (4, 1 s.), infine, i destinatari sono gli hospites (cioè 'i visitatori') apostrofati dal poeta nell'incipit del carme e a cui la navicella, nella nobiltà della sua vecchiaia, lascia intuire la sua gloria di un tempo. L'affermazione del Dover bisogna dunque intenderla nel senso che in q,avaL e q,aaO-aLnon è importante la distinzione tra comunicare un pensiero esprimendolo ad alta voce e comunicarlo trasmettendolo con un mezzo diverso da quello vocale, come è appunto il linguaggio delle cose. Riprendendo ora le fila del discorso e ritornando al fr. 73 di Alceo, gli esempi che abbiamo sin qui esaminato ci fanno intuire, o meglio ci dicono: 1) che il q,aio(L) di v. 5 è 3• persona singolare e la nave-città ne è il soggetto;

15 16

The ldylls o/ Theocrilw, London 191g2, p. 191. Theocrilw. Sekct Poems, Glasgow 1971, p. 81.

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2) che esso è adoperato in senso figurato e vale "fa capire", "lascia . . ,,, "'" mtmre 1a supporre " . 3) che i due participi, rispettivamente dei vv. 3 e 6, che si riferiscono entrambi al soggetto di q>aia(1.),vanno integrati al nominativo e non all'accusativo come si legge ancora nell'edizione della Voigt.

Sobre las innovaciones de la poesia erotica griega Francisco R. Adrados

1. Del tema de la mujer enamorada a la poesia homosexual En un artfculo publicado en 1971 sobre 'El campo semantico del amor en Safo' 1 y que, seguramente por haber aparecido en una revista de LingiHstica Generai, no ha sido apenas conocido dentro de los cfrculos de estudiosos de la Literatura griega antigua, traté de definir, a partir del léxico, los rasgos principales de la concepci6n safica del amor. La conclusi6n principal es que ese léxico y esos rasgos son los mismos para el amor heterosexual y para el homosexual (femenino): difieren, naturalmente, de los que aparecen en los epitalamios, que representan un punto de vista en parte diferente. Habrfa que aiiadir - y con esto adelantamos cosas - que hay una coincidencia fundamental con el tratamiento del amor en toda la poesia griega arcaica. Resumo. En el amor hay dos ténninos, que califico de "sujeto" y "objeto": alguien (el sujeto) se enamora de alguien (el objeto) y quiere lograr su amor: lo logra o no lo logra, espera o sufre antes de conseguirlo, sufre también por el abandono y los celos. Desde el punto de vista del léxico y de la concepci6n generai es indiferente que el sujeto sea una mujer que busca y sigue a un hombre (Dorica a Caraxo, Helena a Paris) o una mujer que busca y sigue a una mujer (Safo a sus amigas, fondamentalmente). He hecho notar en varias ocasiones que puede leerse la Oda a Mrodita (1)2 ignorando si el "objeto" cuyo amor busca Safo es hombre o mujer: solo una forma de género femenino en la ultima lo aclara. de las palabras de la diosa (xooùxèf>ÉÀ01.oa) Pero hay un rasgo fundamental: el sujeto de la relaci6n amorosa, el que se enamora y busca enamorar es siempre una mujer. Es una mujer la que ama, enamora, fracasa, es olvidada tras triunfar, desea la

1 2

Rev. Soc. Esp. LingiJJst.1, 1971, pp. 5-23. Cito por la edici6n de E. M. Voigt, Amsterdam1971.

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muerte por su fracaso. Puede pensarse que ello se debe a que se trata de poemas de Safo. No lo creo asi. En 15 Safo pide a Afrodita que Dorica, enamorada de Caraxo, fracase en su empefio y no pueda jactarse de que por segunda vez lleg6 a su amor deseado. En el famoso fr. 16 se nos presenta a Helena corno ejemplo de que se considera lo mas bello aquello que uno ama: Helena es una amante que sigue al amado, es corno Safo amando a Anactoria. Sea el "objeto" hombre o mujer, no hay contrapartida masculina del sujeto, aunque véase mas adelante. Los verbos que indican el "amor" estan iòclufdos en el campo semantico del "deseo": son E{)aµai, lµÉQQOO, µa(oµai, n:oih]ro, que dicen también del deseo o amor a "cosas". Es el sujeto el que los emplea: el sujeto femenino que se refiere a un objeto masculino o femenino. Hay una esencial disimetria. A veces son sin6nimos, ciertamente, de q>U.TJµµi, pero la esfera semantica de este verbo los rebasa. Se refiere a relaciones de grupo, ya eroticas, ya familiares, ya de amistad, esencialmente simétricas; puede usarlo cualquiera que esté implicado en una de estas relaciones. También en la relaci6n erotica: puede decirse de Safo (cf. 1, 19), también del amor que le ha de devolver su amiga (1, 23); se aplica también a familiares (q>(Àe referido al novio en 115, 1, cf. 5, 6). Pero volvamos a la relaci6n erotica asimétrica con sujeto femenino, que es la fundamental: en otros casos lo que tenemos es una asimilacion a un esquema diferente, el del grupo de los q>LÀot,institucionalizado o no. Tratese de una relaci6n homo- o heterosexual, el enamoramiento del sujeto es concebido corno producido automaticamente por la visi6n de ciertas cualidades del "objeto", de ciertas "sustancias", diriamos, que lo envuelven. Tiene EQOç(112, 4) y es por tanto egai:oç (16, 17), tiene n:o6oç, sin duda tiene lµt:QOçpuesto que es lµt:Q6Etaa (17, 10), lµt:Q"toç(112, 4). La persona amada tiene "deseo" y provoca deseo y amor del sujeto, asi EQOçen 15, 10, Iµegoç en 96, 15; 137, 3, n:6-ttoç en 48, 2; 102. Pero el sujeto no solo tiene lgoç, n:6-ftoç,Lµt:QOç:este deseo le "tiene", es una especie de agente que le posee, le empuja. El n:o6oç domina a la enamorada (102), la quema (48), un Lµt:QOç la posee en 95, 11, EQOçha sacudido las entrafias de Safo corno un viento sacude las encinas (47), la agita corno una bestia contra la que no puede lucharse (13). Esta ya claramente divinizado en 54 y 159. En definitiva, el amor es algo que al "sujeto" le llega de fuera, es algo que ejerce una violencia dirfamos que magica, que es calificado de locura: recuérdese la "mente enloquecida" de Safo enamorada en 1, 18,

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entre tantos pasajes. El agente es concebido ya corno presente en el "objeto", ya corno una hipostasis que actua igual que un dios. Eros, en realidad, es ya un dios, conocido desde Hesfodo y las Cosrnogonfas. Esto nos lleva a describir una variante del esquerna erotico que antes hernos presentado. En él el "sujeto" recibe el enamorarniento por obra de esos factores extemos, a los cuales se aiiade otro que no es una hipostasis, sino una diosa de la religion tradicional, Mrodita. Y, a su vez, cuando qui ere enarnorar al "objeto", puede seguir dos vias: puede intentar xd{}ELV "persuadirlo" y esta persuasion puede convertirse en una hipostasis, Ild{}oo(96, 29); pero puede intervenir también la diosa erotica, Mrodita. Esta puede persuadir, correspondiendo a la suplica de Safo, a la amada esquiva para llevarla "a tu amor"; puede también, evidentemente, hacer que no tenga éxito el amor de alguien, corno Safo le pide en relacion con Dorica. Por supuesto, Afroditaesta estrechamente relacionada con Eros, en 159 éste es su servidor, en 194 y 221 los Erotes son su cortejo. Existen, asi, dos esquemas de la monodia erotica, por lo demas estrechamente enlazados conceptualmente. Ambos se colocan en el punto de vista de la rnujer que es "sujeto". En el primero, ésta se dirige directamente a la persona amada (el objeto), pidiéndole que acepte su amor o, en otras ocasiones, haciéndole reproches o sfiorandola tras su alejamiento, pidiéndole que vuelva; o, simplernente, expresando deseos de muerte por el abandono (94). En el segundo esquema, la mujer que es "sujeto" se dirige a Afrodita (suponemos que también a Eros y otros dioses, en el caso de Anacreonte a Dioniso) pidiéndole que use su persuasion para atraer a la persona amada. Es claro que son tipos secundarios aquel en que Safo se dirige a Mrodita para pedirle que haga fracasar el intento erotico de Dorica con su hermano (15) y aquel otro en que el tema erotico es usado corno mera cornparacion (16). Importante, de otra parte, porque encuadra el eros dentro del mas amplio campo del deseo y relaciona éste con el de los objetos bellos. Existe, pues, la monodia erotica directa, en que la mujer enamorada se dirige al objeto de su amor, hombre o rnujer, en circunstancias varias que no excluyen las del reproche y el duelo. Existe, de otra parte, la monodia erotica himnica, que se dirige a un dios para pedir su intervencion favorable. Puede tener caracter clético, corno la Oda a Mrodita (I) en que se pide la veni da de la di osa: esta en relacion con otras odas cléticas, eroticas o no, corno 2, 17 y 86, y con la sirnple oracion no erotica a la diosa en 5. Tiene relacion estrecha con la sirnple plegaria corno la de Crises a Apolo en Il. 1: pertenece al género. Pero

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tamhién en este caso la que habla es una mujer, la enamorada. Y ni en uno ni en otro se da la palabra a la persona cuyo amor se requiere (o cuya negativa u olvido se critican): lo que se sabe de ésta es indirectamente a través de la intervencion de la mujer que hemos llamado "sujeto". Pensamos que los dos géneros son tradicionales, corno también lo es el epitalamio, en que intervienen un coro masculino y uno fe menino y, quiza, sus coregos, el novio y la novia respectivamente. Son elogios dirigidos al novio y la novia, reproches topicos de un sexo al otro: siempre en una situacion simétrica, el novio y la novia son bellos, tienen lQOç, pero sin que intervengan la persuasion amorosa ni el rechazo y dolor. Es una situacion diferente centrada en el tema tradicional de la boda normai, institucionalizada. Dejamos este tema, en el que Safo no ha hecho otra cosa sino dar forma literaria a la tradicion. También es asi en el caso de los dos primeros géneros, pero aqui lo que Safo innova es absolutamente importante. De un lado, a partir de temas y géneros tradicionales Safo ha creado una poesia personal, por mas que mantenga temas tradicionales 3 • Esto es bien conocido, no voy a insistir aquf en ello. Pero hay una innovacion de base sobre la que, quiza, no se ha llamado la atencion suficientemente, quiza por el empeiio de tantos estudiosos y filologos, desde la Antigiiedad misma, de negar el caracter a todas luces homosexual femenino de la mayor parte de la poesia de Safo. Doy esto por sabido hoy, no polemizo. Esta innovacion de base consiste en que los dos géneros de partida, a saber, la monodia erotica directa y la monodia erotica himnica son en su rafz poesia heterosexual, en que la mujer busca el amor, la union con el dios o con un hombre concebido en términos heroicos o semidivinos. Y Safo, sin altefar el léxico ni los conceptos, ha convertido la mayor parte de sus poemas en poesia homosexual femenina, en que una mujer se dirige a otra. Por supuesto, hay una innovacion paralela, mas reciente, en que a partir del mismo léxico, los mismos conceptos y los mismos dioses (Afrodita sobre todo) se crea poesia homosexual masculina. La encontramos, antes que en ningun otro lugar, en Anacreonte: frs. 5 y 15 PMG 359 y 360, por ej., son monodia erotica directa dirigida a Gent. conseguir el amor de un muchacho, mientras que en 357 el poeta pide a

=

3

Cf. mi libro El mundo de la llrica griega ami.gua, Madrid 1981, p. 123 ss., asf Early Greeklyric Ekgiac and lambic Poetry, Wiesbaden 1977, p. 69 88. como O. Taagaraki8,Se/f-expreJSionin

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Dioniso que la ayude a conseguir esto mismo. Mas claro es esto aun en el libro II de Teognis, donde aparecen el amor corno locura, la petici6n que se hace a Mrodita alternando con la petici6n directa, los temas del deseo, del rechazo, los celos. Todo elio es bien conocido. He sostenido en otros lugares 4 que la relaci6n homosexual dentro de circulos restringidos, al no chocar con los tabus impuestos a la relaci6n hombre / mujer por la sociedad y, sobre todo, por la instituci6n del matrimonio, destinada a promover la continuidad de la familia, encontro posibilidades favorables para nuevos desarrollos ideologicos, educativos y sentimentales. Y que es dentro de esta poesfa donde fondamentalmente se desarrollaron los temas centrales de la erotica griega, que luego, a partir de Eurf pides, pasaron a la poesfa heterosexual. Asf sigo pensando, aunque en relaci6n con Arqufloco sobre todo haya que introducir determinadas excepciones y aunque, corno digo, esa poesfa homosexual sea historicamente un desarrollo de la heterosexual. Pues, efectivamente, entre los dos esquemas de la monodia salica, sea directa o hfmnica, a saber, aquel en que una mujer se dirige a un hombre y aquel otro en que una mujer se dirige a otra mujer, el primero, aunque en ella sea mas raro, es el originai. Ello se demuestra porque tanto en la poesfa popular griega corno en sus precedentes mesopotamicos y del Asia Anterior en generai, existen esos dos tipos de erotica, mientras que el homosexual es estrictamente griego: ha tornado del otro todo su vocabulario y su ideologia, con excepci6n, por supuesto, de los temas de la fecundidad (humana, animai, vegetai). Toda esta erotica heterosexual esta enraizada claramente en el mundo de los cultos de fecundidad y en la hfmnica con ellos relacionada. Su caracter originalmente religioso se ve no solo por la comparaci6n de las formas poéticas y su coincidencia con la tradici6n poética aludida, tema sobre el que volveré. También por la concepci6n del eros corno locura infundida por una fuerza externa, véase mas arriba. También por la concepci6n religiosa y magica de la "persuasi6n" que ejerce la monodia erotica a través de sus repeticiones y aliteraciones, corno ha hecho ver no hace muco Ch. Segal5• Pero sobre todo, por su enraizamiento en cultos que, corno los de Eros, Mrodita y Dioniso, se refieren 4

Cf. mi libro (en colaboracion) El Mscubrimunw Ml amor en Grecia, Madrid 1985 2 , p. 155; y mi trabajo 'Las tragedias eroticas de Eurfpides', Revista M Occidenu 107, 1990, pp. 5-32. 5 Cf. 'Eros and lncantation: Sappho and Oral Poetry', Arethwa 7, 1974, pp. 139-170. También P. Gross, Amatory Persuasion in Antiquity, Newark 1984.

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originariamente al mundo de la relaci6n entre los sexos y de la fecundidad entendida c6smicamente, es decir, en el ambito humano, animai vegetai. Bien claro es esto en el caso de Eros, que en la Teogonia de Hesiodo y en las 6rficas preside el proceso del desplie~e del mundo, de la obra del sexo que lo multi plica. ;,Y qué decir de Mrodita, la heredera de la Astarté fenicia, la lstar babilonia, la lnana sumeria? Ya en Il. 5, 429 le dice su padre Zeus que lo suyo son los lQ"YayaµoLo, la obra de la boda o de la union de los sexos. Su sventura con Ares es narrada en el canto VIII de Od., su uni6n con Anquises, en medio del florecer de la naturaleza, en el H. Aphr. Todavia en Safo 2 se le rinde culto en el huerto, en medio del esplendor de la naturaleza: ni mas ni menos que en los cultos griegos que conocemos, por ejemplo, el de Mrodita de los Jardines en la vertiente norte de la acr6polis de Atenas 6 • ;,Para qué hablar de la prostituci6n sagrada en Corinto y de tantos y tantos datos que pudieran aportarse? Entonces, cuando Safo invoca a Afrodita para que la ayude a conseguir el amor de una amiga o Teognis para que le conceda igual ayuda en el caso de un joven, hay a todas luces una ampliaci6n de su esfera de acci6n. Ya no es la diosa de la uni6n de los sexos y de la fecundidad, sino la di osa poderosa en el amor, pero en un amor esteri} que ya es tan solo una pasion. El Plat6n del Fedro con sus Mroditas Urania y Pandemo al servicio de la homosexualidad masculina, le asigna igual papel. Todo esto, que es completamente l6gico, tiene, sin embargo, que confirmarse con la demostraci6n de que la monodia sa.fica, tanto la directa corno la himnica, tienen su precedente en la poesia popular griega de tipo heterosexual, dirigida por la mujer al hombre: por mas que ésta la canozcamos imperf ectamente y, las mas veces, por documentos mas recientes que Safo. Y hay que hacer ver que esta poesia, a su vez, tiene una fuente de inspiraci6n en la poesia asiatica de tipo heterosexual, poesia de culto también ella. Sobre uno y otro punto voy a limitarme a una bibliografia reducida, que evidentemente podrfa ampliarse: un arti culo de Elvira Gangutia 7 y algunas publicaciones mias 8 • 6

Cf. mi artfculo 'Sobre las an-eforias o erreforias', Emerita 19, 1951, pp. 117-

132. 7

'Poesia griega "de amigo" y poesia arabigo-espaiiola', Emerita 40, 1972, pp. 329-346. 8 Orlgenesde la lirica gmga, Madrid 19862 • También 'Propuesta para una nue-

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Unas veces se trata de datos transmitidos por escritores anticuarios, otras de versiones literarias de Estesfcoro, Erffanis, Safo (incluido el perdido poema sobre Fa6n), Te6crito. En todos los casos nos hallamos ante la que llamanos poesia erotico-trenética, en que una mujer acompaiiada de un coro busca al amante desaparecido o muerto, se da muerte a si misma a veces, es a su vez llorada. No entro en todo el detalle, para el cual remito a los libros y artfculos mencionados. Igual que Safo 140 hace que Afrodita y su coro lloren a Adonis, Erffanis (pero sin duda no es la poetisa, sino alguien a quien presta su voz) busca por el bosque al cazador Menalcas. Otros coros femeninos buscan y lloran a Bormo o a Hilas o a Dafnis. El tema de Calice que pidi6 a Mrodita que Evado se casara con ella, pero desdeiiada se suicid6, siendo llorada luego por las mujeres, era tratado en un poema de Estesfcoro y en otro paralelo el de Radine; y la harpalice era un treno por esta herofna, que muri6 desdeiiada por lficlo. Tema tradicional que dej6 huella en el tema del suicidio de Safo, en su 'tdh,axrrv àb6À.oo;ftÉÀ.00(94), en Anacreonte 376. Pero no es solo poesfa trenética: la poesia popular, incluso de época helenistica, ha conservado el tema de la mujer que se dirige al hombre en términos eroticos, y el tema de la mujer abandonada, tema safico, alcaico (10), anacre6ntico (347). Son fragmentos bien conocidos: la canci6n locria de Carm. Pop. 7 de PMG(la mujer que le dice al amante que se aleje, ya llega el dfa); el fragmento de Lyr. Alex. Adesp. 5 Powell (el llamado an6nimo de Marissa: una situaci6n parecida, con dialogo, la mujer pide al amante que vuelva); los versos de la joven en Ar. Eccl. 952 ss., etc. Y temas come el de la mujer que se dirige a la madre para pedirle consuelo o consejo. En Safo quedan huellas de esta poesfa heterosexual en los temas de Dorica y Helena y en 102, lamento dirigido a la madre por la doncella que ama a un hombre. Elvira Gàngutia, en el artfculo citado, ha presentado la continuaci6n de estos temas en la lirica medieval espaiiola, concretamente, en las jarchas mozarabes, y en otros tipos de poesfa medieval: hay, sin duda, una continuidad a través de los contactos entre el mundo arabe, heredero del griego, y el romanico occidental. Pero, sobre todo, ha presentado los antecedentes de estos géneros en la poesia orientai. Voy a recoger algunos, aiiadiendo datos nuevos. va edici6n e interpretaci6n de Estesfcoro', Emerita46, 1978, pp. 251-299, sobre todo p. 289 88.; y, sobre la poesia popular griega en generai, mi L(rica.gri.egaarcaica, Madrid 198.3, p. 33 u.

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Los mas antiguos de ellos, no recogidos por nuestra autora, son sumerios 9 • Se refieren al ritual del matrimonio sagrado: es la sacerdotisa de lnana, la diosa erotica, la que se dirige al rey que representa al dios, para que yazga con ella: "Esposo, amado de mi coraz6n ... en la clunara Ilena de miei, deja que gocemos de tu radiante hermosura ... tu, ya que me amas, dame, te lo ruego, tus caricias. Mi seiior dios, mi seiior protector, dame te lo ruego, tus caricias". Este es el primer poema. El segundo, mas complejo, tiene pasajes semejantes. Introduce una variante el pasaje del Gilgamés en que la diosa lstar se dirige al héroe, pidiéndole que se acueste con ella, y él la rechaza, injurioso, acusandola de su promiscuidad, su olvido de sus antiguos amantes. Es el tema del rechazo, que modificado vuelve a aparecer en la Urica griega. Pero que tiene precedentes en la Odisea: una y otra vez 10 se ha seiialado el paralelismo de Odiseo alejandose de Calipso y rechazando a Circe. Por su parte, Elvira Gangutia ha seiialado otros paralelismos. Asi en el poema de la época de Hammurabi publicado por von Soden en el que hay un dialogo mujer / hombre: éste la rechaza, pero ella piensa que, orando a Inana, el hombre volvera, como sucede: el paralelo con Safo no puede ser mas evidente. Y las canciones lrtu del s. XII a. C. editadas por Ebeling. Se trata de un colecci6n de versos iniciales de una serie de canciones, muchas en boca de mujeres, con motivos de amor y duelo para ser cantadas con motivo de un hier6s gd.mos en las fiestas de Tammuz. Son versos en que el amante es llamado "hijo" (recuérdese el mito de Cibele y Atis, entre otros): Vén, t6mame! Doy la bienvenida al hijo Tu, oh hijo, eres el amante de mi pecho

son dos ejemplos. Aiiadamos todavfa al Cantar de LosCantares, que aunque fue completado seguramente en fecha helenfstica, procede en su nucleo, parece, del s. VIII y recubre cultos muy arcaicos, del tipo de los mencionados. Es, ciertamente, dial6gico, pero domina el tema de la esposa que busca al esposo, que le requiere de amor, que busca la uni6n. Una vez

9

204

Cf. S. N. Kramer, la lwtoria empiaa enSumer, trad. esp. Barcelona 19704, p.

88.

° Cf. J. Corsi

1

Meya, El vi.aljeal mon des mom en l'Odwea, Barcelona 1984, y mi reaeiia en Aula Omntalis 6, 1988, p. 10.

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mas, el mismo tema, heredado luego por San Juan de la Cruz. Por ejemplo al comienzo la esposa dice: "Que me bese con besos de su boca! Tus caricias son mejores que el vino... Llévame en pos de ti, corramos! lntrocluceme, oh rey, en tus hahitaciones. En ti nos gozaremos y nos alegraremos; celebraremos el amor mas que el vino". Son precedentes rituales, cultuales, del tema safico (y lirico griego en generai) de la mujer que require de amores al hombre o que recibe rechazo y abandono y sufre. Ciertamente, alguien podria objetar que no hay relacion entre esta poesia y la griega. Pero los griegos eran bien conscientes de los influjos orientales en su lirica y expresahan esto mediante diversas leyendas y diversos nombres miticos corno Orfeo, Marsias, Olimpo, Olén, su conocimiento de los origenes orientales de sus instrumentos y modos musicales, las noticias que se nos transmiten de coros diversos en Asia. No puedo entrar aqui en el detalle del tema: en mis Origenes, p. 190 ss. , he tratado de hacer verosimil que el desarrollo de la monodia griega (a partir de las improvisaciones de los solistas de los coros) ha estado muy influido por la monodia orientai (la babilonia y hebrea, entre otras, nos son conocidas), que es mas antigua. Parece bien claro, en conclusion, que en manos de Safo la poesia erotica femenina de origen cultual se ha humanizado y se refiere ahora a circunstancias del presente. Es la doncella que no puede trahajar y se queja a su madre; 102 "dulce madre, no puedo trahajar en el telar; me derrota el amor por un muchacho por obra de Afroclita floreciente". Es la referencia al amor de Dorica y la inversion del tema de Helena, tomada ahora corno paradigma para el amor de la propia Safo. Helena no es ya la mujer raptada por Paris, es la enamorada que va tras él. Pero la aportacion de Safo es mas importante que esta adaptacion de la poesia femenina tradicional y que la adaptacion literaria del no menos tradicional género de los epitalamios. Llevada de unas determinadas circunstancias sociales que favorecen la relacion estrecha de un grupo de mujeres sobre un fondo cultual (referido a Afroclita, Hera, Eros, etc.) y musical, Safo ha creado, sin modificar lo esencial del vocahulario ni de la idea del eros, la nueva poesia homosexual femenina. En el tono de los antiguos poemas en que la mujer dirigia al hombre (directamente o a través de la diosa) su amor o sus reproches, ella se dirige a sus amigas con deseo o aiioranza, reproche o celos, amor en suma. A partir de los temas topicos se crea un nuevo universo erotico, personal y presente. Es el modelo, sin duda, del mundo de la erotica homosexual masculina, al que hemos hecho referencia.

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La erotica heterosexual, centrada en el amor de la mujer por el homhre, no decay6, por lo demas, en Grecia. En realidad, la conocemos desde Arqufloco, pero con rasgos especiales, que veremos. Y esta en el fondo de tantos y tantos mitos. Pero en publicaciones mfas antes aludidas he dejado constancia de que, sin duda por razones de tipo social, la tragedia deserotiza, tiende un velo sobre el tema del amor femenino. Hasta llegar a Eurfpides, que escandaliz6 a toda Atenas - las Ranas de Aristofanes nos lo dicen - presentando a sus herofnas eroticas. Pero es un eros que choca con el nomos, que solo se realiza fuera de la convenci6n social: es el amor adultero o incestuoso, incluso el amor de Pasffae por el toro. Es un amor que lleva a la tragedia: algo que ya estaba implicado antes en tantos poemas y mitos de amor y muerte, algo sobre lo que teorizaba Teognis al comienzo de su libro Il, pero que ahora aparece en primer plano. Pues bien, no resulta dudoso que la descripci6n del amor femenino que aquf se hace esta influfda por la de la poesia erotica anterior y, en primer término, por la de Safo. Este ha sido el rodeo por el que el amor de la mujer por el hombre y toda la riqueza de sentimiento y de dolor que de ahf nace ha retomado, enriquecido, al centro mismo de la Literatura griega, a la tragedia. Pero no podemos entrar aquf en el detalle.

2. Del tema de la mujer enamorada al del homhre enamorado En la poesia femenina tradicional el homhre es, extrafiamente, pasivo. Apenas se le concede la palabra, nos enteramos de su comportamiento por lo que dice la mujer. En realidad, es l6gico, en cierto modo, que sea pasivo: aceptara o no el amor que se le ofrece segun lo determine la diosa o segun sea la eficacia de la "persuasi6n" de la mujer. Ni mas ni menos que la mujer amada en la poesia homosexual femenina. En uno y otro caso sabemos, sin embargo, tanto por la poesia orientai corno por la popular y literaria griega, que a veces hay rechazo y hay abandono y olvido. La mujer, entonces, actua para recuperar al amante: con sus palabras, sus oraciones, incluso con su magia, asi en el caso de la Simeta de las Farrnaceutrias de Te6crito. Tiene éxito o no. Pues bien, en Arqufloco, anterior cronologicamente a los otros textos poéticos griegos, el panorama es diferente: el hombre buscado

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por la mujer torna la palabra y la rechaza. Ciertamente, ya Gilgamés habfa rechazado a Istar, Odiseo a Circe. Pero en el ambiente no mftico, sino contemporaneo y humano, de la lirica, solo Arqufloco os6 esto. Ello es una prueba, si es que era necesaria, de su originalidad cuando abri6 caminos luego seguidos por otros o caminos que practicamente nadie sigui6, corno en este caso. Todo el tema de Neobula y las Licambides debe interpretarse desde este punto de vista. Los mas de los fragmentos presentan esta tematica: la promesa de boda incumplida, los ofrecimientos de Neobula, el rechazo de Arqufloco. Es este siempre el que habla. Entre otros lugares, en su Epodo VIII 11 con su brutal comienzo: "No esta tan floreciente corno antes tu suave piel, pues ya se marchita y el surco de la vejez funesta te derrota" y sus insultos, a(m mas brutales. Y en su Epodo IV, con la zorra-Neobula invitando a Arqufloco a entrar en su cueva y este rechazandola. Posiblemente también en el fragmento 132. El tema ha sido variado en el nuevo epodo de Colonia, cuando la mujer que habla propone al poeta la boda de Neobula y éste la rechaza. Ahora bien, no es esta la unica innovaci6n de ArquHoco, ni la principal. En otros pasajes es Arqufloco mismo el que se nos presenta corno el hombre enamorado que sufre. En el Epodo IX, fr. 90 nos dice aquello de que "... sino que el amor que debilita los miembros me somete a su imperio, amigo mio, y no me cuido de los yambos ni de las diversiones". En el XI, fr. 95 comienza asf: "estoy, desgraciada de mi, rebosante de amor, sin vida, con los huesos penetradas de terribles dolores por voluntad de los dioses". iSon amores no correspondidos? iSufre Arqufloco de abandono? de Hesfodo, potenNo, es claro: pero sf es seguro que el eros À.Vao(cp'tLVÈçaù'twv q>XTJOav• La notizia è doppiamente importante: essa colloca correttamente il palazzo di Ano Englianos ai piedi dell'Aigaleon, dove Strabone poneva l"'antica" Pilo, e insieme indica il capo Koryphasion quale nuova sede prescelta dagli antichi abitanti. Ma probabilmente resti dell'antica popolazione si stabilirono anche in altre aree della Messenia in seguito ad accordi con i nuovi signori della regione 17•

13

Strab. VIII 3, 7 (339); Schol. Hom. Il. Il 591, I p. 309 Erbse. Vd. C. W. Blegen-M. Rawson, The Palace o/ Nestorat Pylos in WesternMessenia I 1, Princeton 1966, p. 421. 15 Vd. V. R. d'A. Desborough, The Last Mycenaeansand their Successors,Oxford 1964, p. 254; Prinz, op. cit. p. 317. Sulle datazioni presenti nelle fonti antiche vd. F. Cassola, La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, p. 24. 16 Strab. VIII 4, 2 (359); cfr. Thuc. IV 3, 2. 17 Vd. principalmente Eph. FGrHist 10 F 116. Ancora alla fine della prima gueffll messenica gli Spartani concedevano al neleide Androklos di occupare la regione della Hyameia (Paus. IV 14, 3), che si trovava probabilmente tra il Parnisos e capo Akritas: vd. F. E. Lukermann, 'Settlement and Circulation: Pattern and Systems', in The Minnesota MesseniaEzpedition, by W. A. McDonald-G. R. Rapp, Minneapolis 14

Pilo e i Neleidi in un frammento di Mimnenno

271

A movimenti di popolazioni che si situano in questo più generale contesto si riferisce Erodoto allorché afferma che i Minii, allontanati da Sparta in un periodo di poco successivo al ritorno degli Eraclidi, trovarono rifugio nella terra dei Paroreati e dei Kaukones in Trifilia 18 • Essi cacciarono allora queste popolazioni dalle sedi che occupavano e fondarono nuove città, tra le quali Lepreon e Makistos. È probabile che delle popolazioni che allora abbandonarono le loro sedi facessero parte anche i Pilii insediati in Trifilia. È quanto può concludersi dal confronto con un altro passo erodoteo, dove si affenna che tra le dinastie scelte per regnare sulle città dell'Asia Minore vi erano dei Lici discendenti da Glauco e Bellerofonte e dei Kaukones pilii discendenti da Codro e Melanto (ol bè Kauxrovaç IluÀ(ouç lutò KMQOu xat Mdavf>ou) 19 • La popolazione pilia è qui parzialmente assimilata a quella dei Kaukones, rispetto alla quale non appare nettamente distinguibile. Nell'ambito degli spostamenti che seguirono l'invasione dorica essa cioè fa blocco con la popolazione di "sostrato" dei Kaukones. Questa tradizione erodotea menziona una partenza di Pilii dalla Trifilia sotto la spinta dei Minii, a loro volta allontanati da Sparta. E a questi Pilii sembra affidata una funzione di guida nella fondazione di città nell'Asia Minore, dal momento che furono essi a fornire le nuove dinastie di sovrani alle città appena fondate. Nella narrazione erodotea questi eventi si collocano in un periodo non di molto successivo all'occupazione dorica della Laconia. La partenza dei Minii da Sparta è infatti contemporanea a quella di Theras verso l'isola che da lui prese nome, avvenuta circa una generazione dopo l'occupazione dorica della Laconia20 • Nella Trifilia si collocava, come è noto, anche una delle Pilo di Nestore. Strabone non solo identificava la Pilo trifilica con quella omerica, ma seguiva anche con notevole attenzione le vicende successive della città, nonostante la sua modesta importanza. Solidarizzando con i Messeni, essa venne a trovarsi in costante conflitto con Spartani ed Elei. A conclusione della terza guerra messenica il centro fu definitivamente abbandonato e gli abitanti trasferiti nella vicina città "minia" di 1972, pp. 165 s.; 164, fig. 9-4. Su altre tradizioni affini vd. F. Kiechle, 'Pylos und der pylische Raum in der antiken Tradition', -Hutoria 9, 1960, pp. 9-13. 18 Vd. Her. IV 148, 4. Sulla presenza di Minii in Triftlia, che nella tradizione hanno origini più remote dell'età delle migrazioni, vd. Strab. VID 3, 19 (347); Kiechle, art. cit. pp. 38-45. 19 Her. I 147, 1 s.; Kiechle, art. cit. p. 27. 20 Her. I 147 11.

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Lepreon 21 • Nel periodo successivo questo antico centro fu quasi del tutto dimenticato, cosl come, ai tempi di Strabone, tendeva a scomparire anche il nome di Pisati, Kaukones, Trifilii, ormai definitivamente incorporati nell'Elide 22 • La riscoperta o la rivalorizzazione della Pilo trifilica risale probabilmente all'erudizione ellenistica e in particolare a Demetrio di Scepsi, che costituisce una delle fonti maggiori, accanto ad Apollodoro e Artemidoro, per questa parte dell'opera di Strabone 23 • Di tanto maggiore interesse risultano di conseguenza le notizie raccolte da Strabone relativamente a quest'area. Tra le altre antichità della regione egli ricorda un santuario di Eracle Makistios, un santuario di Hades, un bosco sacro a Demeter, che sovrastava la pianura pilia, e un fiume Acheron che sfociava nell'Alfeo. Una concubina di Hades, Minthe, dava il proprio nome al monte vicino, mentre sulla costa, tra Lepreon e l'Alfeo, sorgeva il celebre santuario di Poseidon Samios24 • Sarebbe questo il luogo dove Nestore e i Pilii celebravano il sacrificio al sopraggiungere di Telemaco (Od. III 5 ss.). Nella medesima regione scorreva il fiume Minyeios, noto anch'esso dai "racconti di Nestore" nell'/liacle 25 : qui si sarebbero raccolti i cavalieri pilii attorno al giovane Nestore, prima di muovere verso nord alle foci dell'Alfeo, per combattere gli Epei che avevano attaccato la città di Thyron. Dalla descrizione

21

A ciò è legato l'appellativo di AvtQEO'tLXOç;, dato alla Pilo trifilica, accanto a quello di TeupuÀ.Laxoç;:Strab. VIII 3, 14 (343). Sulla fine della Pilo in Trifilia vd. Strab. VIII 3, 30 (355); E. Meyer, R. E. XXIII 2 (1959), col. 2131, s. v. 'Pylos'. 22 Vd. Strab. VIII 3, 30 (355). 23 Vd. F. Bolle, 'Triphylien bei Strabon. Eine Quellenuntersuchung', Rh. Mus. 87, 1938, p. 142 ss.; Meyer, R. E. cil. col. 2153 s.; S. Hiller, Stud~n zur Geographie da Rei.clw um Py/,0$ nach den mykenischen und homerischen Te%len, Wien 1972, pp. 110-112; R. Baladié, Strabon. GéographieV, Paris 1978, pp. 21-28. 24 Strab. VIII 3, 14-16 (344 s.); cfr. Bolle, 'Triphylien bei Strabon', cil. p. 154 s. In particolare Makistos sorgeva tra le città di Lepreon a sud ed Epitalion sull'Alfeo (vd. Xen. Hell. III 2, 25; cfr. Strab. VIII 3, 16 [344], qualora si accetti la lettura 'A)..cpELoii),all'altezza del santuario di Poseidon Samios, sito lungo la costa; Makistos esercitava un controllo sui culti ivi praticati: vd. Bolte, R. E. XIV 1 (1928), coli. 774-776, s. v. Maxunov. Cfr. H. Kiepert, Formae OrbisAnti,qui, tab. XIII; infra n. 31. 25 Strab. VIII 3, 18 s. (346); cfr. Il. Xl 712 s.; una parte della tradizione antica poneva presso il fiume Akidon, che scorre in quest'area, anche la lotta di Nestore contro gli Arcadi (cfr. Il. VII 133-135): ciò richiedeva una diversa lettura del testo omerico: Kdabovn / 'Ax(bov'tL; cl)ELciç; / Xaaç;; vd. H. Ebeling, Lexi.conHomericum, Lipsiae 1885, s. v. Kda&.ov; Bolte, 'Triphylien bei Strabon', cil. p. 153 s.

Pilo e i Neleidi in un frammento di Mimnermo

273

di Strabone, sembra che in quest'area si concentrino una serie di tradizioni e di culti richiamanti la Pilo omerica, che non trovano analoga diffusione in altri centri del Peloponneso. Secondo Strabone, che in ciò seguiva l'orientamento di Demetrio di Scepsi, questa convergenza di elementi conforterebbe l'identificazione della Pilo omerica con quella trifilica. In termini cosi netti la tesi non appare sostenibile, ma ciò non dovrà indurci a sottovalutare l'importanza di queste tradizioni che sembrano concentrarsi in un'area limitata della Trifilia, in particolare nella sua parte meridionale, tra i centri di Lepreon e Makistos. Ciò invita piuttosto a ritenere che, se la Pilo trifilica non era propriamente quella di Nestore, in questa regione si fossero tuttavia stanziati una parte dei Pilii dopo la distruzione del palazzo di Ano Englianos e qui avessero rinnovato le proprie tradizioni e i propri culti, ciò che verosimilmente avvenne in un'età precedente la loro partenza verso l'Asia Minore. Una parte di essi rimase tuttavia nella regione, e qui il ricordo sopravvisse ancora per qualche tempo dopo il trasferimento finale degli abitanti nella vicina Lepreon nel secolo V. Aggiungeremo che questa regione trifilica era anche la terra dei Kaukones. Se infatti il nome di questa popolazione è diffuso su un'area vastissima nella regione occidentale del Peloponneso, essa doveva avere in questa regione il suo centro, come suggerisce il fatto che è proprio nel territorio di Lepreon che l'eroe eponimo Kaukon aveva la sua tomba26 • Analogamente i Paroreati ricordati da Erodoto occupavano i monti attorno a Lepreon e Makistos, città minie, e giungevano fino al mare nei pressi del santuario di Poseidon Samios27 • Questi dettagli geografici forniti da Strabone risultano tanto più notevoli se letti alla luce della testimonianza erodotea. I Minii esuli da Sparta occuparono quella medesima area della Trifilia legata alle tradizioni pilie e dove sorgeva Pilo stessa. In questa medesima area trifilica è da collocare probabilmente il secondo centro menzionato da Mimnermo - A~y - nonostante le incertezze che la sua localizzazione ha suscitato . Strabone richiama in 26

Strab. VIII 3, 16 (345); Paus. V 5, 5; Lepreon è detto KaUX(OV(JJV mo>.LriQov da Callimaco (Hymn. I 39); l'eroe eponimo Lepreu8 era figlio di Kaukon in Zenodoto (Ath. X 412 a); vd. <e, R. E. XI 1 (1921), col. 65, 8. v. •Kaukones'; Kiechle, art. cit. p. 27. 27 Strab. VIII 3, 18 (346). 28 Si veda ad esempio V. Burr, 'NEXTJOOV KauxO>VEç. Per una carta della regione vd. K. Graefinghoff, Ath. Mitt. 38, 1913, tav. IV; D. Miiller, TopographiscMrBildlwmmentar .zu den HistorienHerodots,Tilbingen 1987, pp. 795 (tav.); 795-800. 32 Il. Xl 711 s.: latL bé 'tLç "9QU6EoaaMÀLç, abtEia xoùimJ / 'tTJÀOUbi' 'A.Àq)EL; cfr. Strab. loc. cit.; i sostenitori di questa tesi dovevano ritenere tra l'altro che 8Qu6Eooa non fosse riferito alla città ma alla natura del luogo (cfr. 6Quov:canna, cespuglio). La città è ricordata anche nel Catalogo delle navi (Il. II 592); cfr. Hope Simpson-1..azenby, op. cit. p. 83. 33 PY Fn 79, 1; H. Milhlestein, 'Namen von Neleiden auf den Pylostlifelchen', Mw. Helv. 22, 1965, p. 159 s.; L. Baumbach, 'The Mycenaean Greek Vocabulary Il', Glotta 49, 1971, p. 156; cfr. ad esempio 8T)j3aYtvt'lç, Il\JÀOLyi;vt'tç, e a Micene ko-o-ken.e Kwayi;vt'tç(Oi 701, 6). 30

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il nome proprio AimJ'toç, che ebbe una certa fortuna nell'onomastica pilia, perché fu portato da due sovrani: dal neleide fondatore di Priene e dall'eraclide figlio di Kresphontes che regnò sulla Messenia ormai dorizzata 34 • Alla serie di queste formazioni è probabilmente da ascrive5 re anche lo Aùtaatov 1tE~(ov3 , cioè la pianura costiera della Trifilia meridionale, dove sorgevano i templi di Eracle Makistios e di Poseidon Samios. In conclusione, si hanno buone ragioni per ritenere che Aipy designasse un centro della Trifilia, probabilmente non lontano da Pilo. Entrambe le località restano non identificate 36 , ma il riferimento a quest'area può considerarsi assai probabile. In particolare Strabone, che rappresenta per noi la fonte più ampia e autorevole, e che attingeva alle opere di Demetrio di Scepsi e Apollodoro, non menziona una Aipy in Messenia, e di una tale localizzazione non avrebbe mancato di dar notizia se ne avesse trovato un cenno nelle fonti utilizzate. Né a tale mancanza può adeguatamente supplire la notizia di Stefano Bizantino (s. v. Abtu· 1t6>..tç Meomivtaç X'tÀ.),che probabilmente non fa che ribadire l'appartenenza della città al regno di Nestore, che in età postellenistica era normalmente collocato in Messenia 37 • Se pertanto nel primo verso del frammento di Mimnermo figurava questo centro, si dovrà escludere una partenza dei futuri coloni di Colofone dalla Pilo messenica, e quindi dal palazzo di Ano Englianos. Si dovrà pensare piuttosto a una loro permanenza in Trifilia per alcune generazioni e quindi a una successiva partenza intorno al 1050, età dei più antichi ritrovamenti riferibili alla presenza greca sulla costa microasiatica. Una soluzione come quella prospettata non implica tuttavia che la

34

Vd. Paus. VII 2, IO; Strab. XIV I, 3 (633). CTr. Etym. Magn. s. v. (37,

31-33). 35

Strab. VIII 3, 21 (348), con adozione del suffisso -aoi.os per la formazione di aggettivi: ad esempio 4>kwowç, 'I6a,t1\moç;vd. E. Schwyzer, GriechucM Grammalik I, MUnchen 1939, p. 308; P. Chantraine, Laformation da noms en grec ancien, Paria 1933, p. 41. 36 Come è noto, l'identificazione della Pilo omerica con Kakovatos in Trifilia risale a Dorpfeld. Il problema è stato ampiamente rinnovato dopo il ritrovamento del palazzo di Ano Englianos: vd. Bolte, 'Ein pylisches Epos', Rh. Mu.s.83, 1934, pp. 341-343 (già incerto sull'identificazione con Kakovatos); W. A. McDonald, 'Where did Nestor Live?', Am. Joum. Archaeol. 46, 1942, p. 538 88.; Kiechle, art. cit. pp. 13-21; in generale Meyer, R. E. cit. col. 2128 u.; Baladié, op. cit. pp. 305-307. 37 Meyer, R. E. cit. col. 2154 s.

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Pilo omerica vada ricercata in Trifilia, come ritenevano Strabone e le fonti da lui utilizzate. Un esame interno ad Omero non consente un'identificazione unica per questo centro. Cosi mentre gli spostamenti di Telemaco da Pilo a Sparta e viceversa si conciliano abbastanza bene con una localizzazione della città in Messenia, il viaggio di Telemaco a Pilo presuppone il riferimento a un centro situato più a nord e quindi richiede l'ipotesi di una Pilo in Trifilia. I "racconti di Nestore" poi, nel canto XI dell'Iliade, risultano abbastanza incomprensibili se la spedizione del giovane eroe partisse da una località meridionale come Pilo messenica, mentre riacquista credibilità e interesse se riferita a una localizzazione di Pilo in Trifilia. Ciò non dovrà indurre a ritenere che nei poemi omerici Pilo non abbia una sua collocazione o che il poeta inventi liberamente senza curarsi delle condizioni geografiche o semplicemente ignorandole 38 • In realtà ogni episodio presuppone una propria ambientazione geografica e su di essa è costruito. Ciò appare abbastanza chiaro in episodi nei quali i riferimenti geografici hanno un ruolo importante nella narrazione, come appunto nel caso della spedizione dei Pilii di Nestore contro gli Epei. La compresenza nei poemi di una Pilo trifilica accanto a quella messenica è legata a precise ragioni storiche e probabilmente riflette situazioni diverse succedutesi nel tempo e non semplicemente localizzazioni in contraddizione fra loro. Se il riferimento alla Pilo messenica non può essere separato dal palazzo di Ano Englianos, la Pilo trifilica rappresenta la nuova capitale della regione, dove trovarono rifugio una parte dei Pilii dopo la distruzione della Pilo messenica. Nella tradizione epica si è conservato il ricordo di entrambi questi momenti, anche se probabilmente più forte rimase nella tradizione l'ultima situazione conosciuta dai Pilii prima della partenza dal continente. Essa è riflessa anche nel Catalogo delle navi. Delle nove città ricordate, la maggior parte si colloca nella sezione settentrionale del regno, mentre neppure una è localizzabile con certezza nell'area meridionale 39 • Burr ne concludeva che anche la Pilo del Catalogo fosse

38

Vd. in tal senso J. Chadwick, '"Eon Ill'.lwç 1t{IÒIluwio',

Mirws 14, 1973, p.

55. 39

Hom. Il. li 591-594; oltre ai repertori di Burr (op. cit. pp. 65-67) e di Hope Simpaon-Lazenby (op. cit. pp. 82-90), vd. Meyer, R. E. cit. col. 2149 s., J. Tegyey, 'Empire mycénien et empire homérique', Acta Acad. Sc~nt. Hung. 23, 1975, pp. 98-100. Sul regno miceneo di Pilo in rapporto alla testimonianza omerica vd. Chadwick, 'The Mycenaean Documenta', in The MituauotaMesseniaE,q,editi.on,cit. p. 100 u., in particolare p. 113 s. (lucida analisi, ma con sostanziale incomprensione della

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da localizzare in Trifilia. La conclusione è da ritenere eccessiva, perché nel Catalogo Pilo rappresenta innanzitutto la capitale di Nestore, senza riferimento univoco a un centro determinato. Noteremo tuttavia come anche nell'inno omerico ad Apollo sia rilevabile una situazione analoga: Pilo e Aipy sono nominate insieme con altre città della Trifilia e dell'Elide 40 , mentre rimane escluso ogni riferimento all'area meridionale e in particolare alla Messenia. Conformemente a un orientamento che il Catalogo omerico manifesta anche per altri casi, dalla presentazione del regno pilio sembra emergere una situazione successiva alla distruzione dei palazzi, riferibile al Myc III c. Essa privilegia quale sede dei Pilii alcuni centri che si collocano tra la Neda e l'Alfeo, piuttosto che quelli della costa messenica o della valle del Pamisos, che pure costituivano parte integrante del regno pilio secondo la documentazione delle tavolette in lineare B. Anche il frammento di Mimnermo, se le precedenti considerazioni non sono fuorvianti, fa riferimento alla medesima regione trifilica. Lafacies archeologica che presenta la costa occidentale del Peloponneso in questo periodo può in parte integrare il quadro generale offerto dalle tradizioni letterarie. In Messenia, una fase di grande prosperità è seguita, nel Myc III c, da un periodo di forte crisi. La distruzione del palazzo di Ano Englianos è accompagnata da una netta diminuzione dei centri abitati 41 • Nel Myc III c la popolazione si riduce a circa un decimo rispetto al Myc III b. Abbastanza diversa, rispetto a quella messenica, si presenta la situazione nella bassa valle dell'Alfeo. Qui i cimiteri mostrano una continuità nell'uso dal Myc III b al Myc III c; ed è probabile, come ritengono McDonald e Hope Simpson, che in questa regione sia giunto il gruppo più numeroso di Micenei alla ricerca di nuove sedi. La scelta dei nuovi centri, piuttosto vicini alla

testimonianza omerica); Hiller, op. cit. p. 107 ss.; B. Sergent, 'La situation politique de la Messénie du sud-est à l'époque mycénienne', Rf!'IJ.archlol. 1978, pp. 6-9; cfr. 'Mythologie et histoire en Grèce ancienne', Dial. lùst. o.ne. 5, 1979, pp. 76-80; Hope Simpson, Myce~an Grttce, Park Ridge 1981, p. 113 se., in particolare pp. 150152. 40 Hymn. Ap. 421-426; ignota resta la localizzazione di Argyphee (v. 422); vd. Cassola, Inni omerici, Milano 1975, p. 510; analoga collocazione di Pilo in Trifilia nell'inno a Hermes: vv. 101 s.; 397 s. 41 Vd. McDonald-Hope Simpson, 'Arehaeological Exploration', in TM Minnaota MesseniaExpedition, cit. p. 143; tavv. 8-14; 8-15; cfr. Lukermann, art. cit. (n. 17), p. 163 s.

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costa, non sembra dettata da ragioni di sicurezza; essa riflette piuttosto un ritorno verso centri fiorenti uno o due secoli prima. In età protogeometrica vi è forse un'inversione di tendenza, almeno nell'area settentrionale. Qui si registra un decremento nell'occupazione, mentre nell'area della baia di Navarino vi è leggera ripresa. Tenendo presente che queste regioni sono state oggetto di esplorazioni abbastanza ampie, un confronto con i dati delle tradizioni appena richiamate non dovrebbe apparire illusorio. Con la distruzione del palazzo di Ano Englianos ha inizio un periodo di profonda crisi nell'intera regione. Un gruppo cospicuo di rifugiati si diresse allora verso la Pisatide e la bassa valle del1'Alfeo, orientandosi verso centri presumibilmente noti e allo stesso tempo meno appetiti dagli invasori. Una traccia della presenza di Pilii in questa regione è forse riconoscibile nell'importanza che la tradizione omerica annette alla figura di Nestore e alle sue imprese giovanili, localizzate tra la Trifilia e la foce dell'Alfeo. Il calo nell'occupazione che si registra nell'area settentrionale nella fase protogeometrica può essere messo in relazione con la partenza di una parte degli abitanti verso le coste dell'Asia Minore, dove i primi insediamenti, riferibili alla presenza ionica, risalgono all'inizio dell'età protogeometrica (1050 a. C. circa). Il frammento di Mimnermo andrà in ogni caso riferito alla partenza dei coloni da Pilo trifilica. Esso da un lato viene ad integrare la testimonianza omerica, rifacendosi a una tradizione forse presente anche negli inni omerici, dall'altro si inserisce nel quadro storico generale che la tradizione erodotea e la documentazione archeologica permettono in parte di recuperare.

Contributi epigrafici a Mimnermo, fr. 24 Gent.-Pr. Maria Colantonio

Nel 1913 U. von Wilamowitz aveva contestato l'attribuzione a olq>Et,"lo zoppo fa molto bene Mimnermo del proverbio aQLO'taxro>..òç l'amore", ampiamente documentato dalla tradizione paremiografica e assegnato a Mimnermo da un solo testimone 1 • Se ne sarebbe servita la regina delle Amazzoni Antianira per replicare agli Sciti che volevano far pace con le Amazzoni e unirsi con loro in matrimonio; poiché le Amazzoni avevano l'abitudine di mutilare gli appartenenti al sesso maschile amputando loro una mano o una gamba, gli Sciti sostenevano che, sposandosi con loro, avrebbero avuto mariti integri e sani. Ironica la risposta di Antianira, ispirata al celebre aforisma che attribuiva agli zoppi eccezionali qualità amatorie. È assai verisimile che Mimnermo avesse fatto menzione delle Amazzoni e di Antianira: fra le sue composizioni elegiache era annoverata la Smirneide, identificabile forse con la µEy{ù.T) yuvfi ricordata da Callimaco negli Aitia2 e nella quale, secondo Pausania, il poeta aveva

1

U. von Wilamowitz, Sapplw und Simonida, Berlin 1913, p. 282 n. 1. Il proverbio è ricordato dallo Ps. Diogeniano 2, 2 (Paroem. Gr. I 196, 7 u.), da Macario 2, 40 (Paroem. Gr. II 147, 16 88.), dalla Suda s. v. li{,una, nonché dallo storico Duride ap. Phot. La. 1, 258 Theodoridis (cfr. B. Gentili-C. Prato, Poetarum ekgiaconun II, Leipzig 1985, p. 144, adt.kndaod Mimo.24); lo auegna a testimonia tl~nkJ Mimnermo il cod.Athen. 108.3edito da S. Kugéas ap. O. Crusius, 'Paroemiographica', Sitz.-Ber. Bayer. Akad. 1910, 4, p. 15 Corp. Paroem. Gr. Suppi., Hildesheim 1961, V p. 15. W. Bilhler, in Serta Turyniana, Urbana 1974, p. 419 88. ha dimostrato che il cod. Athen. 108.3 è un apografo di M, un codice del monte Athos edito da M. E. Miller, Milanges ~ liUiraturegrecque, Paria 1868, p. 370. Purtroppo M si interrompe prima della menzione di Mimnermo. Per i singoli testimoni rinvio all'apparato dell'edizione degli elegiaci greci curata da B. Gentili e C. Prato (I, Leipzig 19882), od Mimn. fr. 24 e agli adt.kndacii. 2 Cfr. Mimn. Test. 10 Gent.-Pr.; vd. anche A. Colonna, 'Mimnermoe Callimaco', Athenaeum 30, 1952, p. 190 u.; G. Serrao, in SIOriae civiùà ~i Greci V 9, Milano 1977, pp. 221-225; R. Pretagostini, Ricerchesulla poesiaakuandrina. Teocri.-

=

280

M. Colantonio

rievocato anche la guerra degli Smimei contro i Lldi3 • Secondo una tradizione, accolta anche da Strahone, la città di Smirne avrebbe preso il nome dall'omonima Amazzone4 • Se Mimnenno aveva ricordato questa circostanza nella Smimeide, l'episodio di Antianira e della sua sarcastica risposta ben si adattava ad essere inserito nella storia delle Amazzoni e delle loro imprese 5 • Il rifiuto del Wilamowitz si fondava sostanzialmente su motivi di ordine linguistico e metrico: - otqxo / olcptroera considerato voce dorica; - il ritmo giambico del proverbio sembrava estraneo alla poesia di Mimnenno, che le testimonianze considerano unicamente poeta elegiaco (cfr. Testt. 17-19 Gent.-Pr.), se non addirittura il fondatore dell'elegia (cfr. Testt. 20-21 Gent.-Pr.). Malgrado le riserve di Wilamowitz, E. Diehl incluse il frammento nell'opera di Mimnenno, assegnandolo dubbiosamente ad un libro di

Giambi"': : - "" - : - (ieLO"tQ XOOÀ.Òç

olcpti ...- : - ...- : - ...::.

Se si ammette la possibilità che Mimnenno avesse riportato nella Smimeide la risposta di Antianira, le obiezioni di ordine metrico e linguistico non costituiscono un ostacolo insuperabile. Dal punto di vista metrico, senza ipotizzare, con Diehl, Szédeczky-Kardoss e Garzya, che Mimnenno al pari di Archiloco abbia composto elegie e giambi7 , il proverbio può adattarsi al ritmo dattilico con il semplice inserimento di un bé connettivo o avversativo, come ha ipotizzato B. Gentili: - ::

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- ... (ieLata

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to, Callimaco,SotaM, Roma 1984, p. 132 u. e le OBServazionidi B. Gentili-C. Prato, ad /oc. 3 Paus. 9, 29, 4 Mimn. fr. 21 Gent.-Pr. 4 Strab. 14, 1, 4, 633 8. ; cfr. Steph. Byz. 8. V. l:µvQVa. 5 Cfr. B. Gentili-C. Prato ad Mimn. fr. 24 adn. 6 Cfr. Mimn. fr. 15 D. 3 • Il frammento è incluso anche nelle edizioni di Edmonda (fr. 23), Adrados (fr. 15), West (fr. 21a). 7 S. Szlideczky-Kard088, 'Schrieb Mimnermos lamben? (Zur Echtheitsfrage des 15. Mimnermoe-Fragmentes)', in Miscellanea critica Teulm~r I, Leipzig 1964, pp. 268-280; A. Garzya, Maia 17, 1965, p. 385. 8 B. Gentili, Maia 17, 1965, p. 386. Prima di lui O. Crusius, art. cit. p. 77,

=

Contributi epigrafici a Mimnenno

281

Per quanto riguarda l'aspetto linguistico, le citazioni nelle quali 9 olcp6À.Lç , compare il verbo otqxo / olcptrocon i suoi derivati olcp6À.T)ç, q>LÀ.O(q>aç sembravano limitate all'area dorica: Plutarco nella Vita di Pi"o (28, 6) lo inserisce in un contesto in dialetto dorico (olcpe);il verbo compare inoltre nella legge di Gortina (179 II 3: olxEL,cfr. E. Schwyzer, Dialectorum Graecarum exempla epigraphica potiora, Hildescfr. Schol. ad heim 19603, p. 83) e in Teocrito (4, 64: q>LÀ.oiq,a; Loc.)1°.A questi esempi si aggiungono alcune iscrizioni rupestri rinvenute a Tera presso il santuario di Apollo Carneo in un contesto di amori omosessuali 11 :

I. G. XII 3, 536 (VII-VI a.C.) IlhtL61.n(n)t6aç mmht. TLµay6ea,ç xat 'Emhte,iç xat tyò'>ui:h[oµtç Fidippide copulava. Timagora, Emfere ed io copulavamo

I. G. XII 3, 537a (VII-VI a.C.) ]vat 'tÒV aùnhtvLOV h[o] Ketµrov n(i.)bt muthE nai.ba Baitux>..toç à6ù.cptò(v va\ Hiller von Gaertringen: xadapis h(o) Dilmmler, prob. Hiller von Gaertringen: ~ Wilamowitz Per Apollo Delfinio, in questo luogo Crimone copulava con un ragazzo, il fratello di Baticle

I. G. XII 3, 538b (VII-VI a.C.) 'Aµodwva mut(h)E Ketµwv ['t]E(i)b(t In questo luogo Crimone copulava con Amozione

I. G. XII 3, 539 (VII-VI a.C.) Eiinovoç IDLlnh[E Eupono copulava.

aveva proposto di leggere 6{,una olcpti/ xmAòç,ma la proposta di Gentili è senz'altro ..più rispettosa dell'orda w:rbonun tràdito", come sottolinea R. Pretagostini, op. cii. p. 134 n. 58. 9 Cfr. l'esaustiva ricerca di L. Lehnus, '0l4>0All:. Alla ricerca della fonte di una glo888', in Scripta Philologa II, Milano 1980, pp. 159-174 e quella di D. Bain, 'Six Greek Verbs of Sexual Congress', Clou. Quare. 41, 1991, pp. 51-77. 1 Cfr. P. Chantraine, Dict. lt. lang. gr., s. v. olcpm;Eust. ad Il. 1597, 29. 11 Cfr. K. Dover, Grttk Ho~ualily, London 1978, pp. 114 e n. 9, 123 s., trad. it. L'ornottS&ualilànella Greciaantica, Torino 1985, pp. 118 e n. 10, 127. D verbo compare in un contesto omoerotico, mentre Esichio chiosando il derivato obpoÀT)çlo attribuisce solo ad amori etel'08e&Buali.

°

M. Colantonio

282

Ma la restituzione in un carme di Archiloco dedicato a Dioniso, dell' hapas otq>ì..(q>, "lubrico", verisimilmente un attributo del dio, testimonia la presenza del termine in area ionica 12: con ragione Szadeczky-Kardoss lo ha invocato a sostegno della autenticità del frammento 24 Gent.-Pr. di Mimnermo13 • Anche il più comune olcpoÀ.T}ç è documentato in area ionica: lo attestano due iscrizioni di Teno e di Nasso, risalenti rispettivamente al VI-V e V-IV sec. a.C., e un graffito su un vasetto proveniente dall'area del Mar Nero del VI sec. a. C. 14 : S. E. G. XV 523 (Teno, VI-V sec. a.C.) 15 16 nueh1ç •AxTlatoleoç I olq>6À'lçI 8Qii( La)oo xatam'.ry(l)'V SeijLaoa leg. A. N. Oikonomides, KUXÀ.a6Lxa 5, 1956, pp. 245-247

Pirla figlio di Acestore è un lussurioso, Tressa una rottinculo

I. G. XII 5, 97 (Nasso, V-IV sec. a.C.) 17 4roQOCPéa Ka I Kae((l)'VI olq>6À'lç xa('tam,ywv)Oikonomides, loc. cit., cfr. S. E. G. XIII 32 et XV 523, Ka initium nominis Ka[Q(OJY cene. Hiller von Gaertringen 18

Dorofea, Carione lussurioso

S. E. G. XXXII724 (Berezan, Mar Nero 550-525 ca.) 19

Archil. fr. 219 Tani. = 251 West: i frustuli del carme sono stati restituiti dall'iscrizione di Mnesiepes rinvenuta nell'Archilocheion di Paro. 13 S. Sz4deczky-KardOBB, art. cil. 14 Da Berezan, sulla costa settentrionale del Mar Nero, attualmente al Museo di Kiev. 15 Cfr. L. H. Jeffery, The LocalScripts of Archaic Greece,Oxford 19902,p. 298; J. e L Robert, Bull. tpigr. 1958, nr. 377. 16 Per xmam,ywv detto di una donna cfr. S. E. G. XIII 32 e Bull. tpigr. 1955, nr. 45. 17 Forse addirittura dell'VIII sec., cfr. S. E. G. XXXII 821. 18 Secondo Hiller von Gaertringen l'anonimo incisore aveva iniziato a scrivere Kaeuov sulla prima riga ma, per mancanza di spazio, lo avrebbe riscritto sulla seconda riga; olq>OÀf)S sarebbe stato aggiunto da un'altra mano, dopo il nome dell'uomo, come nota di biasimo; cfr. Bull. tpigr. 1958, cil. Jeffery, op. cil. p. 412, legge '1~ xa I Kaeuov. 19 Ed.pr. V. P. Yailenko, Gre&skayaKolonizaùija,VII-lii 1111.do N. E., Moskwa 1982, pp. 269-309, nr. l; cfr. Jeffery, op. cil. p. 480 s. 12

Contributi epigrafici a Mimnenno

283

•1Mvo tµt totcproÀTJ àQ{,cnixoç20 •1bav6tµL(voc.) tempt. Vinogradov ap. ed. pr. p. 308 s.

Io sono il vasetto di ldano il lussurioso.

Queste testimonianze epigrafiche, aggiunte al canne archilocheo, contribuiscono ad eliminare in modo definitivo i dubbi sollevati sull'autenticità del fr. 24 Gent.-Pr. di Mimnermo. Non solo, ma l'impiego del verbo olq,éooconferisce al linguaggio amoroso del poeta di Colofone una connotazione di realismo e di icasticità finora non documentata.

Cfr. anche S. E. G. X.XXV858; poche le notizie su questa iscrizione, della quale manca una riproduzione. Si tratta di un ~to e il ~aso è di J?rovenienzaioni':8, forse un contenitore di profumi. Da oeservare 11gen. tolcpwÀTI = 'tOU olcpoÀTI (confusiodiminutivo di àeuLÀ.T16ovoç; p(oç;. Il tema amore viene svolto, per la prima volta nella storia della poesia, attraverso una rete complessa di motivi organizzati per coppie oppositive, il che costituisce la specificità del mondo poetico di Mimnenno. Tale rete considero composta da cinque coppie di motivi, o, se si preferisce, motivi e antimotivi, che chiamerei denotativi, in quanto costitutivi del tema, e da dodici coppie di motivi che

12

Emblematica si può considerare la posizione di A. Garzya, 'Mimnermo', in

Studi sulla lirica greca da Alcmane al primo Impero, Messina-Firenze 1963 (una prima redazione ne era apparsa in Annali Fac. Leu. Napoli 1, 1951, pp. 7-27): l'autore dello studio più analitico che ci è dato di leggere sulla poesia del nostro elegiaco, attribuendogli una produzione di tre libri, distingue, oltre alla Srni.rneùk,un Mimnermo del Karà Àffl'tov,al quale sopra tutto è legata l'immagine del poeta edonista, e un Mimnermo della Nanno, dove "confluivano almeno due motivi: il mitologico-narrativo a sfondo erotico e quello della rievocazione storica" (p. 59). 13 G. Pasquali, art. cit. p. 122 (= p. 324). 14 B. Gentili, Intervento in 'Mimnermo', Maia 17, 1965, pp. 366-387, in part. pp. 379-384, rist. an. in F. Della Corte, Opwcula I, Genova 1971, pp. 23-44, in part. pp. 36-41.

290

G. D'Ippolito

chiamerei connotativi, in quanto legati al tema da diversi rapporti associativi. I cinque motivi e antimotivi denotativi compongono il tema amore distinguendone, rispettivamente, l'aspetto fisico, l'aspetto spirituale, il tempo relativo, il tempo assoluto, il tempo soggettivo, cioè 1. sesso (nella formulazione più completa, fr. 7, 3: XQ1J1tta6(11 q>I.À.6'n}ç xat µELÀ.LX«OO>QxuµoQOç: "Subito possa essere morto, poi che non dovevo al compagno / che veniva ucciso prestare soccorso". Il suo aùdxa 'tEitva(T)Vdà luogo all'a'Ù't(xa 'tEitvaJ4EVaLdi fr. 8, 10 e all'altrettanto diretto grido

Compattezza e novità nella poesia di Mimnenno

297

'te-6va(11v,incipit di fr. 7, 2: "Possa essere morto quando più non mi curo d'amore!". Dunque l'insuccesso eroico e quello erotico possono evocare una identica risposta: "Possa io essere morto!". Se può avere successo solo chi è ÒYTIQO>ç e àitava'toç, ecco che questa combinazione di aggettivi ci ricorda ancora Glauco, e, più precisamente, il compagno d'armi Sarpèdone, che cosi lo coinvolge in un attacco al muro acheo (Il. 12, 322-328): O amico, se fuggendo da questa battaglia sempre dovessimo senza vecchiaia né morte vivere, né io fra i primi combatterei né te spingerei al combattimento gloria dei forti; ma poi che ora ci sovrastano Chere di morte a migliaia, e non può fuggirle un mortale o evitarle, andiamo: o a qualcuno gloria daremo o qualcuno la darà a noi.

Tornano qua le Chere che sovrastano gli uomini, mentre "Sarpèdone nelle parole, nelle azioni e nel destino adombra Achille" 29 : come lui, un guerriero che morl giovane e non vedeva aspetti positivi nella vecchiaia, un guerriero che presto perdette la vita ma per sempre conservò l'onore. Dunque, Mimnenno deve avere avuto in mente almeno quattro luoghi iliadici, dai libri 6, 9, 12 e 18, quando compose le due elegie corrispondenti ai frr. 7 e 8: egli "usa le parole di Glauco, Sarpèdone e Achille per mostrare che la gioventù è il tempo dell'amore, non della guerra" 30 ; e la morte ha almeno il merito di impedire un altro tipo di disonore, quello di non più amare e non più essere amati. Per esprimere una sintesi del messaggio emergente dai testi a confronto, si può dire che quella salvezza laica che Omero riserva in generale all'umanità, con il suo perpetuo rinnovarsi come le foglie, ma individualmente solo ali' eroe, attraverso la prova di valore che gli dà fama imperitura, in Mimnenno diventa, secondo una visione individualistico-borghese, la effimera pienezza che l'uomo comune trova nelle gioie dell'amore legate alla fugace giovinezza. 4. Resta ancora un frammento, il 21, l'unico nominatamente citato dalla Smimeide e l'unico ad essa ascrivibile. Un distico: "Cosl le

29 30

C. M. Dawson, art. cil. p. 47 (mia trad.). C. M. Dawson, ibid. (mia trad.).

G. D'Ippolito

298

truppe regie, poi ch'ebbe dato l'ordine, attaccarono protette da cavi scudi". Descrive un momento di guerra, quando il re dei Lidi, Gige, dà il segnale di attacco. Non che tentare una impossibile ricostruzione, quel che adesso preme di vedere è in qual modo quest'opera si inserisce nel quadro della poesia di Mimnenno sin qui delineato. È una specie di contraltare del poeta elegiaco d'amore o rafforza vie più la figura del primo? Almeno dal punto di vista formale, non possiamo non constatare una diversità: il problema che ancora si poneva lo Steffen 31 , se la Smirneide constasse di numerose piccole elegie ovvero costituisse un unico lungo canne, certo oggi può dirsi superato dalla identificazione della "grande donna" callimachea con questo poema, ma è anche vero che simili questioni, al di fuori delle polemiche alessandrine, possono essere viste in maniera più distaccata e ricondotte alla loro realtà. Anzi, per l'età di Mimnenno un lungo canne elegiaco è già una grande novità formale. E grande novità è al tempo stesso il tema: si parla di avvenimenti politici vicini nello spazio e nel tempo, ma non se ne parla in forma di parenesi, come nelle elegie di Callino e di Tirteo, bensl nella forma della diegèsi storica. Quella elegia narrativa che vanamente abbiamo cercato nella raccolta della Nanno, ecco presentarsi con la Smimeide. La "scoperta poetica della storia" la possiamo attribuire, con Santo Mazzarino 32 , proprio alla Smimeide. Non consentiamo più con lui, però, quand'egli parla di epos storico e quando difende una impossibile datazione bassa - in contrasto con una Suda generalmente veritiera e sopra tutto contro la tradizione alessandrina (test. 21) che fa del Nostro uno dei tre possibili EUQE'ta(dell'elegia (con Callino ed Archiloco) con la specifica motivazione che era impossibile che "un avvenimento del 670/66) divenisse oggetto di epos all'incirca intorno al 630", si badi "di un epos trattato alla maniera omerica (omerico è il tono dei frammenti; omerico lo stesso discorso posto in bocca a Gige)" 33 • Proprio qui sta il punto: della Smimeide rimane un solo distico e il tono omerico non abbiamo alcuna base sulla quale immaginarcelo. L'epica

31

V. Steffen, •De Mimnermi Smymeide', in Quaestiones lyricae, fasciculw I, Poznan 1955, pp. 5-21. 32 S. Mazzarino, Il pemiero storico classico I, Roma-Bari (1966) rist. 1990, pp. 37-42, in part. p. 38. 33 S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente.Ricerche di &tori.a greca arcaica, (Firenze 1947) Milano 19892, p. 63.

Compattezza e novità nella poesia di Mimnenno

299

storica ci vorrà ancora un buon secolo perché nasca: la creerà, nella seconda metà del sec. VI, Senofane di Colofone34 • Non a caso Mimnermo, nella sua scoperta della storia, sceglie la forma dell'elegia e non quella dell'epica. Alla base dell'opera 'storica' di Mimnermo, che in quanto elegiaca non riesco ad immaginare solo narrativa ma anche gnomica e parenetica, io vedo il medesimo ideale antieroico del q>1.ÀT)bovoç ~(oç sotteso alla Nanno, quell'ideale pacifista che spiega la minaccia continua di guerra fra Lidi e Greci mediante la originaria U~QLçdi questi ultimi. Pure della Smimeide, perciò, l'originario contesto pragmatico di fruizione non è estraneo al simposio: se la lunghezza dell'elegia ha indotto ad ipotizzarne una destinazione pubblica e festiva35 , altrettanto probabile sembra che, accanto a una prima partecipazione agonale, l'autore si prefiggesse repliche simposiali, anche parziali 36 • 5. Per una breve conclusione mi pare opportuno rifarmi al più recente lavoro complessivo sulla poesia di Mimnermo, quello di Carles Miralles 37 , nato da esigenze non dissimili dalle mie ma approdato a risultati opposti. Le sue asserzioni di base, secondo cui "di due Mimnermi non possiamo parlare assolutamente" e "ci tocca oggi ricuperare un Mimnermo più immerso nel suo tempo, più 'unitario' e più storico" 38 , sono esattamente le mie convinzioni. Ma lungi dal vedere questa unità poetica nella sofferta tematica dell'amore e della pace, la individua in un presunto prevalente carattere parenetico-guerresco della elegia, che cosi non si allontanerebbe dalla scia di Callino, anch'egli asiatico: per questo "sbagliano fin nei presupposti - sostiene lo studioso 39 - coloro che hanno parlato dell'edonismo in Mimnermo come se si trattasse del tratto più significativo della sua poesia e insieme di una specie di debolezza da perdonargli". Certo sbaglia chi parla dell'edonismo di Mimnermo - ma diciamo pure del suo ideale erotico-irenico 34

Cfr. G. D'Ippolito, 'Epici greci minori', in Dizionario degli Scriltori Greci e latini, dir. da F. Della Corte, Settimo Milanese 1988, pp. 719-761, in part. p. 726. 35 E. L. Bowie, 'Early Greek elegy, symposium, and public festival', Joum. HeU. Stud. 106, 1986, pp. 13-35, in part. pp. 27-35. 36 M. Vetta, 'O simposio: la monodia e il giambo', in AA. VV., Lo spazio letterario della Greciaantica, dir. G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza,I 1, Roma 1992, pp. 177-218, in part. pp. 190-192. 37 C. Miralles, 'La poesia di Mimnermo', Lexi.s1, 1988, pp. 35-52. 38 I bukm p. 46. 39 lbukm p. 37.

300

G. D'Ippolito

- in termini di debolezza: costituisce invece la principale forza della sua poesia in termini di novità tematica, alla quale si unisce una sconvolgente novità formale. Donde quella sua dolcezza celebrata dagli antichi, che altro non è se non, sul piano ilomorfico, una chiarezza di struttura piena di raffinate simmetrie e opposizioni, e, sul piano espressivo, un ricchissimo giuoco di cadenze ritmiche e fonico-timbriche, che precorre di vari secoli la poesia barocca ellenistica.

MTtµaxaQL~ELvavbQa 1tQòtiiç

'tEÀeutijç,

da Solone ad Eusebio di Cesarea Salvatore Calderone

"Non dire beato un uomo prima della fine" 1• Sentenza insigne, questa. Che trascorre d'un capo all'altro la cultura antica, l'occidentale come l'orientale 2 , ma cedendo ad interpretazioni, d'età in età, diverse, pur sotto la veste immutata dei termini significanti. Dei punti nodali di questa vicenda di "variazioni su tema" esegetiche, nell'ambito occidentale, e d'una di esse in particolare, e del probabile tramite del suo approdare ad area culturale in certo senso "diversa" - giudaico-ellenistica - intendo discorrere in queste pagine dedicate con animo amico e ammirato ad un finissimo esegeta della parola antica. 1. È difficile dire quando, per la prima volta, questa sentenza sia

1

La formulazione prescelta per il titolo è quella di Eus. V. C. 1, 11, 2 (20, 29-30 Wink.): fra tutte è una delle più condensate; e, naturalmente, quella finale (almeno

per me, che da essa prendo le mosse per questa ricerca, mentre attendo ad una edizione commentata della V. C.): µaxae(tELV, il cui spettro semantico s'andò arricchendo nel tempo di riflessi ideologici via via nuovi e più profondi, doveva finire per imporsi sull'arcaico gruppo dei derivati di 6Àj:k>ç.Vedi, al riguardo, la dissertazione traiectina (1968) di C. de Heer, Makar-eudaimon-olbios-eutychh: diligentissima rassegna di loci, ma poco sensibile alla ..dimensione epocale" assunta volta a volta dal valore semantico preminente di questa o quella delle parole considerate sulle altre, che appaion tutte, invece, quasi semanticamente ed eternamente sincroniche. 2 E ancora oltre, specie nella tradizione bizantina: si ricordino Mich. Psell. Kanrv. 'tOUixQXLEQiwç(I 241, 19 Kurtz-Drexl.); Georg. Kedr. Hist. comp. (Corpw Script. Hist. Byz. C. S. H. B. I p. 250, Il ss.); Nicephor. Greg. Hist. byz. 19, 2, 5, C. S. H. B. II p. 938, 10; lob. Tzetzes, Chuiad. I 1, 23 ss.; III 71, 2 ss.; VIII l 77 ss. (cit. in A. Martina, Solon, Roma 1968, p. 431). In Occidente, dopo le menzioni di Tertull. Apol. {fragm. fuld.) 19, 4, e ancora di Auson. Lud. sept. sapient. III 55 ss. (p. 141 Prete) e Sidon. Apoll. Carm. 2, 160 (vedi I. Opelt, Vig. Christ. 34, 1980, p. 24 ss.), non pare che la sentenza sia stata ripresa (vedi però infra, n. 22); ma essa riappare in un sonetto del Petrarca (/n vita di Mad. Laura, xxxvi 13 s.: "innanzi al dl de l'ultima partita / uom beato chiamar non si convene").

=

S. Calderone

302

stata formulata nei termini che l'avrebbero definita per sempre in terra greca. Sofocle, intorno al 450, vi accennava come ad agxaioç "J,lyyo,;3. Sul concetto generatore di essa, l'instabilità della ricchezza, s'era già mossa, certo, la meditazione di Solone4 ; e forse Bacchilide, da ultimo, anche di questa gnome potrebbe aver fatto5 , per quanto topica, "vivo elemento di poesia''6. Quel ch'è certo è che essa appare genuina espressione di una società, quale fu quella della grecità antichissima, che identificò con l'opulenza aristocratica (6 6À.~ç) la "felicità", ma allo stesso tempo meditò impotente, e con immensa angosciosa tristezza, sull'insanabile conflitto tra la diffusa esaltazione etico-sociale delle grandi concentrazioni di ricchezza da un lato, e l'instabilità della 't'UX'I dall'altro, e dunque sulla desolata incertezza se l'uomo possa essere 6À.f3LOç "sino alla fine". Si capisce agevolmente, infatti, come entro le strutture etiche di quella società arcaica, e nei corrispondenti schemi mentali di quella che E. R. Dodds, in termini antropologici, ha definito come "shame-culture" 7 , la nonna che ammoniva di attendere, prima di dichiarare 6À.f3Loç un uomo, che 1'6)..~ç lo accompagnasse sino all'ultimo suo giorno (ò)..f3(oaLbè XQTI/ fl(ov 'tEÀEU'tTIO'avt' tv eùearoi q>LÀ.TI,

3

Soph. Trach. 1. Sulla datazione della tragedia, vedi E.-R. Schwinge, Die Stel-

lung d. Trach. im Werk d. Soph. (Hypomnem. 1), Gottingen 1962. 4 Sol. fr. 6, 4 Gent. -Pr. (= 4, 12 D.): X~f'Cl'tO 6' àv@Q,ron,6llo'tE 6lloç ~EL. Cfr. P. Oliva, 'Die Gesch. von Kroisosund Solon', Da&Altertum 1975, p. 181 (ove, però, meglio che fr. 1, 17, andrebbe citato 1, 65 s.: oMé nç ol6EV,I~ µé}J.EL ax1'm:Lv X~f'Cl't; àQxoJ'ÉV01)[-oç GomperzD.

5 Ove, come penserei, si accettasse di integrare, in Epin. 3, 74, roxm]a À.fit.oç;); faccenda bisogna guardare alla fine, come si concluderà". 3. Sedimentatasi al fondo della coscienza ellenica, e fattasi per suo tramite "segno" della tristezza universale - 1t(d)oç;-µ(d)oç;-dell'uomo antico, la sentenza deflul copiosamente nelle letterature classiche. Già nei tragici: negli anni stessi dell'òn6bE;t.ç; erodotea, in Eschilo 14 ; e ancora in Sofocle 15 , in Euripide 16 • È ben naturale che la si ritrovi nel bagaglio gnomico della commedia nuova: di Menandro testimoniano le sententiae che circolavano sotto il suo nome 17 • Platone pure se ne servl 18 • Entrava nel tesoro sapienziale popolare 19• Diveniva infine luoscussione recente sulla cronologia dell'ultimo Mennnade, e su quella della nomothesia e dei viaggi soloniani, e sulla connessa questione dell'anacronismo erodoteo, in J. Cargill, 'The Nahonidus Chronicle and the Fall of Lydia ... ', Am. Joum. Anc. Hùt. 2, 1977, p. 97 ss.; A. J. Podlecki, 'Solon's Sojoums', in Cuwica et Iberica.A Festschr. in Honour of J. M. F. Marique, Worcester Ma. 1975, p. 31 88.; L. Piccirilli, 'Erod. e l'apodemia di Solone', in Contributi di storia antica in onore di A. Garzetti, Genova 1977, pp. 22-30; C. Mazetti, Vestnik Drevnei lstorii 144, 1978, p. 175 88. (in russo, con riass. in ingl.); R. Sealey, 'Zum Datum d. Solon. Gesetzgebung', Hùtoria 28, 1979, p. 238 ss.; A. R. R. Sheppard, 'The Date of Solon's Travels', Liverpool Clau. Monthly 5, 1980, p. 205 88. Un tentativo di liquidare le ragioni che i moderni fanno valere contro la congruenza cronologica del colloquio, in S. S. Markianos, 'Herodotus' Trustworthiness .. .', Hellenikd 28, 1975, p. 5 88.; ma vedi, contra, P. J. Rhodes, A Commentary on the Aristot. Athen. Polileia, Oxford 1981, ad 10, 2. 14 Aeschyl. Ag. 928 s. (cfr. 462 ss. ). Anche riguardo alla formulazione "soloniana", è forse utile notare lo stretto parallelismo tra Erodoto ed Eschilo: si consideri la cronologia dell'Agamennone. 15 Soph. Oed. Re", in fine; Trach. 1-3; fr. 646 Radt. 16 Eurip. Heracl. 865 s.; Androm. 100 ss.; Troad. 509 s.; cfr. Suppi. 269 s.; lphig. Aul. 161 s. 17 Men. Sent. 498 Jaekel; cfr. Comp. Men. et Phil. l 69 (90 Jaek. ), e App. 2, 27 (128 Jaek.). 18 Plat. leg. 802 a 1-3. Vedi infra n. 30. 19 Corpw Paroem. Gr. l p. 315; Il pp. 515, 665 (Anth. Pal. IX 336, 6).

305

go comune - tra i itQ'UÀ.OUµEVa, come dirà più tardi Diogene Laerzio20 per secoli; in oriente e in occidente 21 • Se pur dimenticata dal Medioevo latino (ma varrebbe la pena di scandagliare il fondo di quella misteriosa stagione), essa rivien fuori, con gli albori dell'Umanesimo italiano, in Petrarca, probabilmente ricordatagli dal suo "platonico" Cicerone 22 • 4. Un fossile, dunque: testimone di un mondo etico arcaico, "estroverso", "collettivo", le cui strutture s'andaron ben presto dissolvendo sotto l'urgere di nuove pulsioni ideologiche, di nuove "sapienze". Ché quando a ricchezza e rispettabilità non fu più riconosciuta maggior fiducia che ai venti, come predicava pure Democrito23 , allora l'uomo greco "lanciò nel cosmo la propria domanda di giustizia sociale", e ascoltò, di ritorno, "dagli spazi esterni l'eco magnificata della propria voce" 24 ; o piuttosto, potremmo dire noi, cedette allora al miraggio, potentemente seduttore, di "certezze" etiche, che valessero a sottrarlo all'insulto della sorte. E nella nuova scala di "valori" ilQE't'll ("virtù" interiore, ora) ed T)bovi),variamente atteggiate, si contesero il posto lasciato vuoto dall"'esterno" incontrollabile 6~ç, l'una e l'altra aspi-

20

Diog. Laert. 1, 2 (50). Cic. Fin. 2, 87; Ovid. Met. 3, 135; Plin. N. H. 7, 132; Flav. los. B. iu.d. 5, 11, 3 (461); Iuven. 10, 274 s.; Lucian. Charon 10; Arrian. 7, 16, 7, ecc. Vedi, oltre Martina, Solon, cit. p. 435, P. Oliva, 'Solon im Wandel der Jahrhunderte', Eirene 11, 1973, p. 32 88.; Id., art. cit. a n. 4. Per la tarda antichità cristiana, vedi l'art. cit. supra (n. 2) della Opelt, ove peraltro incompleto è lo spoglio dei testi. In genere, tali "citazioni" della sentenza hanno quasi sempre sapore di scuola, di topos letterario, o evocano, sia pure con partecipazione, un fondo gnomico popolare, terra terra, lontano dai difficili sentieri dei filosofi. Inutile, invece, cercarne traccia, ad es. , tra le reliquie degli stoici, per i quali 6~Loç e l'(lXQQLOç è, comunque, il saggio (S. V. F. III p. 188, 14 ss.) e la ricerca del "morire bene" altro non è che ricerca di una "morte secondo virtù" (S. Y. F. III p. 156, 28), di una "uscita razionale" (Eil).oyoç;~ayoy,\: vedi S. Y. F. III p. 187 88. ). 22 Cfr. supra, n. 2. Nel senso di E. Garin, Il ritorno tki filmofi antichi, Napoli 1983, p. 26, chiamo "platonico" Cicerone, che fonte non pol~ non essere al Petrarca in Fin. 2, 87 (ove, della vita beata prodotta dalla sapienza, si dice che essa non ezpeclal ultimum kmpw, quod Croesoetc.); anche se strutturalmente il poeta sembra aver pensato piuttosto ad Ovid. Mei. 3, 135. Ma già anche l'"umile e illetterato" frate Francesco sembra la ricordasse, questa massima, alla folla che lo osannava: cfr. Tomm. da Celano, Vita st!COnda 96; Bonavent. da Bagnorea, uggend,a mass. VI 3 (in Fonti Francescane, Padova 19803, pp. 661, 882). 23 H. Diels, Fr. d. Yorsokr. II p. 205, 9 s. 24 Dodds, op. cit. p. 32. 21

S. Calderone

306

rando al ruolo di condizione necessaria e sufficiente dell'd&nµov(a 25. Il più ovvio, ma importantissimo, corollario di questa rivoluzione ideologica, che accompagnò la lunga vicenda della crisi del mondo greco arcaico, dall'ultimo VI sec. in poi, di questo formidabile tentativo di liberazione dell'uomo dall'effimero della TUXT), fu che a lui veniva ora concesso di sentirsi e d'essere giudicato, ma soprattutto di sentirsi, sl, E'Òl>a(µoov, ma dentro di sé e in qualsiasi momento della vita. Era il deciso rifiuto del Uryoç ltQxaioç, che al momento della morte, non prima, rinviava qualsiasi giudizio (ma esterno) di E'ÒOOLµov(a.

5. L'dbaLµov(a come esperienza interiore al riparo dal capriccio della TUXT) fu il dono di Platone al mondo greco, e all'uomo, per sempre. Con lui, per usare l'immagine di Max Pohlenz26 , "il demone buono si trasferiva dentro l'uomo"; diveniva il ba(µoov ;uvoLxoç di Tim. 90 c. E non più, ora, soltanto la morte, come ripeteva l'antica rassegnata non più la tomba (l'olxoç omerica saggezza (ftava'toç taVT)À.E'yTtç), 1tauoO..u1toç)avrebbe potuto spegnere per sempre la voce del dolore; ora, il subbuglio degli eventi avrebbe potuto placarlo lui, l'uomo, nel corso stesso della vita ('tò tOQQXOOEçèv 'tcj>ptcpxa'tanauoaL toov 1tQQYI.La't(.l)'V)21. Più concretamente, il grandissimo tra gli allievi di Platone definl l'E'Òl>aLµov(acome uno stato del tutto dipendente dall'agire secondo virtù ("signore della felicità sono le attività secondo virtù") 28 • E dunque, ancora una volta, emergeva il grande corollario: l'E'ÒbaLµov(a umana, in quanto dipendente dai più stabili tra i fatti umani, le èviQYELaL al xa't' ltQETfiv,in quanto fatto interno all'uomo stesso, può 29 durare tutta la vita (xal lO"taLbi.à p(ou 'tOLOU'toç [scil. E'Òba(µrov]) • Quale valore, a tal punto, poteva avere l'antica massima "soloniana", con quel suo datato fondo etico "estroverso"? In realtà, un intenso dibattito dovette aver luogo, già nell'ambito della primissima Accade-

25

Si pensi al valore - lµnwov atd-

dell'l!om't già in Solon. fr. 6, 3 Gent.-Pr.

(= 4, 11 D.). 26

M. Pohlenz, L'uomo greco, tr. it. Firenze 1962, p. 578. Sono le parole di un prezioso frustulo di Senocrate di Calcedone, il terzo scolarca dell'Accademia dopo Platone (Diels, Dox. Gr. p. 605, 7 s.). Per 6avmoç 'tU\ITIÀeyt')çcfr. Hom. Od. 2, 100; per la metafora della tomba vedi/. G. XIV 2136. 28 Aristot. E. N. 1, 10, 9. Cfr. 1, 8, 8; 9, 7; 10, 2 e 15; 13, I. 29 Aristot. E. N. 1, 10, 11. 27

Myt J.&aXUQLl;ELV livbea n:QÒtijç 'tEÀEUtijç

307

mia, sulla questione che quella massima poneva. Se il peso della sua antica autorevolezza era tale che i nuovi "idéologues" non potevano esimersi dal prenderla in considerazione e discuterla, bisognava pur tentarne un'esegesi più sottile e più congrua, se possibile, con la nuova etica 30 • Una traccia evidente del dibattito è rimasta in un brano, peraltro tormentatissimo tra gli esegeti moderni, del primo libro degli Ethica Nicomachea aristotelici (1,10 [11]: 1100a, 10 ss.). È molto significativo, infatti, a mio parere, che nel pieno della discussione 1tEQl tijç eòbatµov(aç, ch'è, come si sa, il tema precipuo di questo primo libro (1095a, 16 ss; ), Aristotele abbia voluto inserire una sorta di excursus, o, meglio, abbia guidato il filo del ragionamento in maniera tale (vedi 1100a, 5 ss.) da toccare il problema del significato della massima "soloniana", e si sia, d'altra parte, confrontato con essa, quasi fosse un passaggio obbligato, inevitabile, una à1,4q>Lç (l'tOl'tOV. Viene cosl fissata una certezza preliminare (1-6): un primo significato generale della massima - un significato "solonia'tomo Pouu-rm), e direi "ellenico", ma al no" (cfr. 7: µ116tl:6À.CJ>V tempo stesso aristotelico (la morte è negazione di hÉQYELa;cfr. supra, p. 306)- è che non si deve giudicare della felicità di un uomo prima della sua morte (e bisogna, cioè, guardare all'intero arco della sua vita, compreso il 'tÉÀ.Oç di essa, Éroc; av ~fl).Posteriore alla morte potrà essere dunque, secondo Solone, il giudizio sull'n,bmµovta, non l'n,bmµovta, del defunto. Ma, ciò posto, al filo del discorso, rigorosamente dialettico, viene a questo punto annodata un'ipotesi alternativa - la sola possibile, si direbbe, una volta escluso che Solone potesse pensare ad una "felicità" dell'uomo post momm, e certamente tratta dall'esperienza del dibattito accademico. Eccola: una sua giustificazione la massima potrebbe averla nel fatto che, senza pericolo di sbagliare (8: ~ocpaMi>c;), chiunque può chiamare beato il defunto, in quanto ormai fuori da ogni bnòc; ftbfl'tvxaxv6vta) 35 • Ma l'ipotesi male, da ogni sventura (ooc;

33 34

Vedi infra, p. 310.

Per facilitare un controllo testuale delle citazioni, mi riferirò alle linee delle pp. 10-11 dell'edizione didotiana. 35 È il senso presumibile di un famoso detto di Chilone, come giustamente annota il Gauthier (op. cit. II p. 78); il quale, peraltro, si meraviglia che Aristotele si riferisca "à ces vues populaires, comme si, en dehors d'elles, il n'y avait rien". Ma vedi la nota seguente.

309

non regge. L'obiezione - un tratto di genuina antropologia culturale, degna della concretezza sperimentale del grande stagirita, un dato antropologico utilizzato in funzione dialettica 36 - è questa: (non si può dire che un defunto sia, in quanto defunto, "fuori ormai" da ogni sofferenza, perché] è opinione diffusa (10: boxEi) che male e bene, in certa misura, tocchino il defunto cosl come toccano il vivo, solo che egli, il defunto, non ne sa nulla 37 : è il caso di onori e biasimi, fortune e sventure, che tocchino ai figli, e in genere ai discendenti (12-13: olov tLµat xal. àtLµ(m xat ttxvea XQÒ'rijç 'tEÀ.EU'rijç

319

locata integralmente, con i suoi termini significanti ('tEÀ.EU'tTI µaxaeLt;ELV),nel 1° emistichio, e nel 2° figura un distinto enunciato sulla "conoscibilità" dell'uomo tv 'tÉXVOLç. Nella più tarda traduzione siriaca non è più traccia, nel 1° emistichio, dell'idea di 'tEÀ.EU'tTI, e al suo posto si trova quella della necessità di un "attento esame" ('dr tkm:, "finché non avrai scrutato attentamente" [l'uomo]); questo concetto, peraltro, appare desunto, in quanto suo presupposto, da quello della "conoscibilità"; e infine l'idea del µaxaeLt;ELV,mantenuta nel 1° e ripresa nel 2° emistichio, appare correlata ad un elemento espresso con il termine lylh. In sostanza, le due interpretazioni divergono in questo: mentre la "greca" appare strutturata su due proposizioni, la "felicitazione" condizionata dalla 'tEÀ.EU'tTI e la "conoscibilità" dell'uomo (la possibilità, s'intende, di dirlo felice) dipendente dai 'tÉXVa,l'interpretazione "siriaca" semplifica il discorso e preferisce operare su una sola proposizione: la "felicitazione" dell'uomo dipende dall'esame attento del suo lylh. Viene spontaneo pensare, per l'economia stessa della divergenza dei discorsi, che questo termine non possa avere che l'uno o l'altro dei o quello di 'tÉXva. Con l'ovvia due significati: o quello di 'tEÀ.ElJ'tTl, conseguenza che nel primo caso l'interpretazione siriaca si contrapporrebbe nettamente alla greca che parla di "figli", nell'altro caso scomparirebbe del tutto; nella siriaca, l'elemento che nella greca condiziona la "felicitazione" ('tEÀ.EU'tTI). Prima però di chiederci quale sia il significato proprio del termine, notiamo che nelle due in.te,pretationes, che figurano, sostanzialmente riprodotte, come s'è detto sopra, nella tardissima redazione qaraita, la siriaca nel primo douhlet (S), la greca nel secondo (G), il termine che nella traduzione siriaca occupa il posto tenuto nella greca da 'tÉXva, cioè o/th, ritorna (naturalmente in ebraico, come '/Kit), non solo nel douhlet S, ma anche nel G. Orbene: quale il significato di lylh - 'JKit?Accade di scoprire che, se per un verso i due termini discendono da un'unica radice "venne dopo"), per altro verso essi, ambedue, trovano semitica C/Jr, largo impiego nelle letterature ebraica e siriaca sia con l'uno che con l'altro di due distinti valori semantici: possono valere "fine, estremità", ma anche "posteri, discendenti, figli'>M. E cosl la divergenza "fi-

64

Ad es.: "figli, discendenza" in PJ. 36 (37), 37; 108 (109), 13; Prov. 24, 20; Jer. 38(31), 17;Dan. 11, 4;Amos4, 2; "fine, estremità"inwn. 49, l;D1. 11, 12;/$. 46, 10; Jr. 23, 20; Ez. 38, 16; Amos 8, 10 ecc.; e in particolare, "fine dell'uomo, di un popolo", in testi poetici: D1. 32, 20, 29; Nu. 24, 20; Jr. 12, 4; Thr. 1, 9; PJ. 72 (73), 17; luoghi spesso fraintesi nei LXX: esemplare il caso di Num. 23, 10, ove 'lpjtj vien tradotto 'tÒ .E un po' di attenzione alla lexis ci fa capire che qui Origene intende costruire il suo argomento in forma di deduzione di esso da una "verità" generale; derivando, in altri termini, il suo enunciato particolare (l'incertezza dell"'esito" dell'agone martirico) da un enunciato "assiomatico" (l'incertezza universale di ogni "partenza" dalla vita umana). Qui dunque b~atç è termine a due facce; che, nel passare dall'"assioma" all'enunciato particolare, percorre in se stesso, e in condensato, si direbbe, la stessa parabola semantica che può essere percorsa, poniamo, da exitw, o da perire (si pensi al plautino-leopardiano "perir dalla terra"). Insomma, Origene vuole qui dire: è bene evitare in ogni modo la grande tentazione della testimonianza sino alla morte, non soltanto (formula che già apre ad una valenza assiomatica delle parole che seguono) a causa della nota, universale, incertezza della b~atç dell'uomo, che è enunciato valido pure nel caso del martirio, ma anche per non ... Qualche altra osservazione. Ed una anzitutto. Che il passo del commento a Giovanni presuppone e contiene - elemento importante quell'interpretazione cristiana, di cui ho detto sopra e che Origene clava o accoglieva, della massima "soloniana". È l'esegesi che pure racchiudono le parole 'tÒ'rijç tx~aeroç llbT}À.OV. Qui !'"incertezza" dell'ultimo momento della vita umana non si proietta più, infatti, sul giudizio intorno al singolo, che la comunità non deve dare prima della sua 'tEÀ.E'Ufll, o può dare solo dopo di essa, ma sempre come giudizio umano e terreno; ché da quell'"incertezza", per il cristiano Origene, si dipartono invece necessariamente, ma oltre la morte del corpo, sul piano dell'eternità, la vita o la morte dell'anima. Ecco perché Origene di fronte al termine siracideo preferisce, al posto della traduzione del "nipote", più greca certamente, più classica, più "soloniana", ma pure più pagana ('tÙ.E'lJTil),una traduzione più aderente al testo originale, e allo stesso tempo meglio adatta ad esprimere, con quel suo contenuto di attesa soteriologica, la bfSaa1.ç, la "partenza", del cristiano alla volta di Dio. Era il necessario contributo che la filologia origeniana dava alla sopravvivenza, nella nuova stagione cristiana, dell'antichissima norma. Il termine scelto da Origene figurava, sembra dunque probabile per quanto s'è visto, nella revisione hexaplare. Dobbiamo anche ammettere che egli sia tornato altrove a "chiosare", dispiegandola, la sua "lettura" della massima. Ma non sapremmo dire in quale luogo dell'immenso materiale di esegesi biblica, scoli, omelie, commentari del padre alessandrino, ch'è andato perduto, essa si annidasse. Sta di fatto che dopo

S. Calderone

326

Origene - e per la fama di lui poteva ben diventare di dominio comune - questa esegesi e questa lettura le troviamo in Basilio cappadoce, e più tardi ancora in Giovanni damasceno 75 • 11. Come è noto, anche Eusebio di Cesarea, il dottissimo allievo di Panfilo, fu impegnato nell'opera "origeniana" di recensio dei testi biblici. Il nostro versetto Ecclw 11, 28 fu presente più volte al suo pensiero durante la composizione di sue opere 76 ; e ancora durante la redazione della V. Const. 77 ; tra l'altro in V. Const. 1, 11, 2 (20, 30 Wink.), ove è menzionato a conclusione del prologo dell'opera: solo ora ch'è morto, egli scrive, posso a tutta voce dichiarare veramente beato Costantino; questo non mi era possibile farlo prima, perché è stato detto µTIµaxag(teLv livbga JtQÒ "tù.wtijç btà "tÒ'ri}ç "tOù fUou "tQOffliç li&)M>V.Per la forma, come si vede, la citazione della massima può dipendere da una qualsiasi delle tante sue formulazioni, ma già livbga sembra rivelare una certa memoria del testo ebraico, e dunque eh~ Eusebio aveva qui in mente l'Ecclesiastico; ma questo è chiaro, soprattutto, perché la massima è integrata da una sua "chiosa" (btà ... ); e la "chiosa" è quella di Origene, l'esegesi del "maestro". Tranne però che in un punto: "tQOl't'I "tOÙ~(ou ha sostituito bc.~LÀOµoÀffl>ç, za", esso ricorre - coerentemente con il quadro semantico qui delineato - altre quattro volte, sempre in contesti corali; come nel caso di Stesicoro, le tre occorrenze in poemi lirici sono situate nel proemio, e sembrano quasi alludere al tipo di esecuzione cui è destinato il testo. Philomolpos è epiclesi di Apollo nel verso iniziale del primo partenio di Alcmane 18 , e a un contesto corale e virginale non dissimile da quello alcmaneo esso sembra riferirsi nel già citato frammento papiraceo contenente il proemio di un poema in dialetto beotico 19 • Negli altri due passi phuomolpos è invece attributo di città: in Pindaro, Nem. 7, 9 di Egina, che celebra con musica, danza e canto corale (l'epinicio) il vittorioso Sogene, mentre Callimaco definisce Delo "loving dance and song" (H. Del. 197), riferendosi alle danze e ai canti corali che ne animano le occasioni cultuali e festive (v. 300 ss.)20. Non diverso è infine il valore e dell'equivalente !Qaa(µoÀffl>çcon cui Pindaro invodi q>LÀ.T)mµoAJtoç ca in Ol. 14 due delle Càriti, divinità strettamente legate alla danza che accompagna il canto corale, come è ricordato nella stessa ode21 • Pagliaro, op. cil. p. 26 e J. A. Davison, FromArchilochw to Pindar, London 1968, p. 12, ai quali rinvio anche per l'esame di (é;~tlV (rispettivamente pp. 27 88.; 9 88.). Sul valore di ffll(l;Etv vd. infra. 16 La funzione coregica, tipica di Apollo, è attribuita alla Musaanche nel fr. [278) P. di Stesicoro (cfr. Mullen, op. cil. p. 18) e in due proemi di Alcmane, frr. 4 C. 14a P.; 84 C. 27 P. Vd. Calame,op. cil. p. 106 s.; idem, Alcman, Roma 1983, p. 352. 17 Hes. ScUl.205; Archil. fr. 116 T. 121 W. (peana);Pind. Pyrh. 1, 4. 18 Fr. l C. SLG 1. Il valore dell'epiteto non cambia qualora si pensi, con Th. Gelzer (Mw. Helv. 29, 1972, p. 143 s.), che il verso appartenesse non a un partenio, ma ad un inno ad Apollo. 19 PMG692 fr. 2, 1-5: ... fflletm, x6etJ... [>.i.]yoi,6t µ.t).1jlOV(it] .•• cptloµobov ... In un articolo di pl'088ima pubblicazione ho proposto l'attribuzione a Corinna degli anonimi frammenti raccolti in PMG 692 come •Boeotica incerti auctoris'. 20 Vd. W. H. Mineur, Callimachw. HymntoDelos, Leiden 1984, p. 183 ad loc. 21 Ol. 14, 8 s.; vd. anche l'esplicita menzione del coro danzante (/wmori .•• koupha bibo111a)al v. 16 s. e cfr. H. hom.Ap.19488.;H. hom. 27, 15. La distinzione

=

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E. Cingano

Ai due frammenti esaminati è utile accostare il fr. 232 P., tµal.at 'tot. µ{ù.1.ata/ na1.yµoauvaç è... &eòv'6µvèv~ç 6vl>Qaç(cfr. l,IOÀ,ff'l'I e itaÀL'I nel v. precedente). 33

Pyeh. 1, 60: ~EUQ(l>l,LEV iiµvov; Ol. 1, 110; 3, 4; fr. 122, 14 M.; cfr. Ol. 9, 80. Vd. Maehler, op. cii. pp. 73 a., 95 a.; Gentili, op. cii. p. 68 sa. 34 K.leine, op. cii. p. 84; la stessa correzione anche in G. Dindon, Aristoph.an.is comoeduu ... Tomi IV para III (acholia graeca), Oxonii 1838, p. 100. L'unico a non accogliere nel testo la proposta di K.leine è stato F. G. Schneidewin, Dekctw poais Graecorumekgiacae, iamhicae, melicae aect. III, Gottingae 1839, p. 332; nella sua riedizione dei Poetae melici di Page M. Davies pone ora senza alcuna ragione il verbo tra cruces (Poetarum melicorum Graecorumfragmento I, Oxonii 1991, p. 208). La proposta di Page (in apparato) di leggere ~EUQOVta a' 6~ç oppure µ' ~ va respinta, per l'illogica posizione sintattica in cui verrebbe a trovarsi il pronome OtEç; cantare (insieme a essi) peani di Frinico, di Stesicoro e anche di Pindaro ... "42. La notizia è attendibile, perché proviene da una fonte competente in fatti di storia locale sicula, vissuta in un periodo assai vicino a quello in cui si svolse l'episodio narrato, ed è riportata anche da Polieno, in forma condensata ma con la conferma dei dati essenziali 43 • Che il contesto sia quello di canti di peani è provato dal riferimento, nel seguito del passo di Timeo (Athen. 6, 250 be), a un peana per Asclepio composto dallo stesso Dionisio; quanto al termine 'peana', esso è da intendersi, in un autore di età prealessandrina (e data la menzione del peana per Asclepio), nel senso proprio di 'inno corale l'>È

Stesicoro (vd. Vallet, op. cit. p. 308). Bumett (pp. 141-147) ha comunque il merito di aver tentato di ricostruire il quadro storico-religioso delle perfo~ corali dei poemi stesicorei in Occidente. 40 Vd. P. Angeli Bemardini, in BOIOTIKA, hrsgg. H. Beister-J. Buclder, Milnchen 1989, p. 39 ss. La menzione della primavera e il contesto tebano ricorrono anche nel proemio (corale, cfr. v. 12) dell'Oreste di Corinna (= PMG 690, 8 ss.), legittimando l'ipotesi di un legame tra il mito di Oreste e feste in onore di Apollo; vd. D. L Page, Corinna, London 1953, p. 28. . 41 Per altri spunti di discussione sull'esecuzione corale di Stesicoro, lbico e Pindaro rinvio a 'L'opera di lbico e di Stesicoro nella classificazione degli antichi e dei moderni', Ann. lst. Or. Napoli, sez. filol.-lett. 12, 1990, p. 208 ss. 42 Athen. 6, 250 b = Timeo, FGrHist566 F 32, parzialmente riportato da Page tra i 'Miscellanea' come fr. 276 b. Il testo qui adottato è quello dell'edizione di Ateneo di G. Kaibel. Il passodi Ateneo deriva da una conoscenza diretta di Timeo, e non da fonte intermedia; vd. G. Zecchini, La cultura storica di Ateneo, Milano 1989, pp. 176-178. 43 Polyaen. Strat. 5, 46: ... µetà 'tÒ 6eimov ... 'tOÙ(; It1Jmx6eou xal IlLvMeou :n:auiva; ~Questo passo è considerato citazione diretta da Timeo da J. Melber, Jahrbb.f. clau. Philol. Suppi. 14, 1885, p. 518.

Indizi di esecuzione corale in Stesicoro

359

in onore di una divinità', sia essa Apollo, Artemide, o altre 44 • Se i papiri di Ossirinco hanno restituito consistenti reperti di numerosi peani pindarici, mancano tracce di peani composti dal tragico ateniese Frinico; Ed. Fraenkel ha tuttavia mostrato che egli subl l'influsso della coeva poesia innodica, e nulla esclude che abbia a sua volta composto inni o peani, come fece Sofocle in epoca posteriore 45 • Se si rifiuta questa possibilità, basterà allora ricordare che già al tempo di Aristofane Frinico era celebrato proprio per la bellezza dei suoi canti lirici 46 : il peana (o i peani) menzionato da Timeo andrà dunque individuato in un canto lirico in forma di inno inserito in uno dei suoi cori tragici. Alla luce di queste osservazioni mi sembra che si possa prestare piena fede a Timeo quando ricorda che nella prima metà del sec. IV a.C. in Sicilia, patria del poeta, era consuetudine simposiale cantare peani di Stesicoro. Questa testimonianza - in genere trascurata sia dagli studi su Stesicoro sia da quelli sul simposio - è importante non solo perché informa su di una specie- poetica praticata da Stesicoro sulla quale tacciono le altre fonti, ma anche perché ne illustra con estrema chiarezza la modalità di esecuzione 47 • Si tratta di un'esecuzione simposiale (µ.nà 'tÒ beinvov) da parte di un coro improvvisato, le cui modalità corrispondono in modo sorprendente al primo tipo di canto simposiale illustrato da Plutarco (Quaest. conv. 615 b), nel corso del quale i convitati ... xQ(i:rcovµèv flbovq>&tìv'tO'Uteou xoLvooçlutavteç µ.L(i qxovfi xaLav(tOV'teç ... 48 • Eda notare che gli ambasciatori di Dionisio

44

Sul peana in età arcaica vd. Smyth, op. cil. p. XXXVI ss.; A. E. Harvey, Cla&&. Quart. 5, 1955, p. 172 s.; G. A. Privitera, in Rito e poesia corak in Grecia,a cura di C. Calame, Roma-Bari 1977 (1972), p. 17 ss.; Calame, Lu choeurs, cil. p. 147 ss.; D. A. Schmidt, Hermes 118, 1990, p. 21 ss. 45 Fraenkel, op. cil. p. 210; cfr. Herington, op. cil. (n. 3) p. 108 s.; G. Zanetto, inArùtofane. Gli Uccelli, Introduzione e traduzione di D. Del Como, Milano 1987, p. 242. Fonti sui peani composti da Sofocle: PMG 737; Philostr. Vil. Apoll. 3, 17; Suda

IV 402, 2 Adl. 46

Per le testimonianze antiche sui cori di Frinico vd. TrGF3 T 9, 10, 13, 17

Snell. 47

La testimonianza di Timeo è accettata da Kleine, op. cil. (n. 4) p. 89 s.; Welcker, op. cil. (n. 4) p. 206; U. von Wilamowitz-Moellendorff, Die Testgadw:hk tkr griechiscMn Lyri/to, Berlin 1900, p. 34; Privitera, art. cil. p. 21. Alla produzione innodica di Stesicoro può appartenere, oltre al fr. 232 (vd. supra, n. 24), il fr. 274 P., ae autentico; su questo punto rinvio all'articolo cil. supra n. 41, p. 211 s. (cfr. anche fr. 276c P.). 48 "First (after dinner) carne a paean, sung by ali the guesta together": cosl

E. Cingano

360

non si alzano a turno per cantare monodicamente uno skolion, secondo la prassi simposiale più diffusa, ma si premurano di formare un coro con i marinai per ripetere quella che era la modalità originaria di performance dei poemi di Stesicoro, Frinico e Pindaro. La menzione dei peani di Pindaro, di cui conosciamo la non eccessiva lunghezza e la destinazione interamente corale, pennette di immaginare: a) che anche i peani di Stesicoro avessero una lunghezza limitata, tale da permetterne il canto da parte di un coro di non professionisti; b) che il ruolo del coro non si limitasse alla ripetizione di un semplice refrain rituale 49 • In queste pagine ho cercato di dimostrare che la produzione poetica di Stesicoro era più diversificata di quanto oggi si tenda a credere, e che alcuni suoi componimenti, pur presentando "no overt reference to a specific piace, person, or audience" 50 , sono collocabili nel contesto di un'occasione festiva e cultuale non dissimile da quelle in cui venivano

Harvey, art. cit. p. 162, cui rinvio per i vari tipi di mcoÀI.OV cantati in età clauica; vd. anche M. Vetta, in Poaia e simposio nella Grecia anlica, a cura di M. V., Roma-Bari 1983, p. 119 88. Sul pasao di Plutarco vd. R. Reitzenstein, Epigramm und Skolion, Giesaen 1893, p. 5 88. 49 L'esempio dei peani pindarici, incentrati sul culto di Apollo, mostra che un più stretto legame tra il contenuto religioso del poema e l'occasione festiva alla quale esao era destinato è più verosimile per il tipo di peani cui sembra riferirsi Timeo che non per l'Orutea, come vorrebbero invece Delatte e Bumett; sul peana vd. anche L. Deubner, Kkin.e Schriften zur kUJllùchen Alkrtunukunde, Konigstein/rs 1982 (1919), in partic. p. 221 88. D pasaodi Timeo permette inoltre di riferire a poemi corali, e non a carmi erotici monodici come generalmente ritenuto, le testimonianze di Eupoli (fr. 148 K.-A., 139 K. Stesich. fr. 276 b P.) e dello Schol. Aristoph. Vup. 1222 a Koster sulla recitazione di poemi stesicorei in contesti simposiali attici, insieme ad altri poeti (prevalentemente) corali quali Alcmane e Simonide; vd. Reitzenstein, op. cit. p. 30 811.e il mio art. cit. alla n. 41, p. 207 s. 50 Cosl Burltert (art. cit. [n. 3] p. 51), per il quale l'esecuzione corale dei poemi stesicorei nell'ambito di feste cittadine era antagonista rispetto alle performance, rapsodiche o citarodiche di poemi epici o inni; l'affermazione di Burltert va attenuata dalla constatazione che - a differenza di quanto accaduto con lbico, 151 - non sono rimasti i versi finali di neuun poema di Stesicoro. A una precisa occasione festiva, e a una destinazione probabilmente corale, può far pensare anche l'Ekna, se si pongono in relazione reciproca i frr. 187, 189 P. (= argum. Theocr. 18, p. 331 W.) e il contenuto dell'epitalamio di Elena teocriteo: cfr. la lapidaria osservazione di Wilamowitz, op. cit. (n. 47) p. 92. La dettagliata ricerca di Rossi (ari. cit. alla n. 3, in partic. p. 15 811.)giunge a una diversa ricostruzione dell'occasione cui erano destinati i poemi di Stesicoro, nel quadro di agoni citarodici che comportavano una recitazione strettamente monodica, oppure di più ristretti contesti simposiali con analoga modalità di esecuzione (p. 21 811.).

=

su;

Indizi di esecuzione

361

corale in Stesicoro

eseguiti da un coro i poemi di Alcmane, Pindaro e Bacchilide; a quest'ipotesi, che prescinde dalla contestata equazione: struttura triadica = coralità, mi sembra contribuire il lessico autoreferenziale di alcuni frammenti. Per concludere, quanto alle possibili obiezioni poste alla mia tesi dall'eccessiva lunghezza dei poemi (ad .es. l'Orestea) e dalle testimonianze antiche che accostano Stesicoro a Omero51 , in questa sede mi limito a osservare: 1) che il paragone con Omero non concerne, nella quasi totalità dei casi, le modalità di esecuzione dei poemi, bensl il loro contenuto e lo stile narrativo dei due poeti, e non ha dunque valore probante (cfr. e. g. Simon. fr. 564, 4 P.; Ps. Long. De su.hl. 13, 3; D. Chrysost. Or. 55, 6); 2) non mi sembra possibile censurare a priori la capacità fisica e mnemonica di un coro cantante e/o danzante professionista - immerso in una cultura fondamentalmente orale assai diversa da quella contemporanea - di eseguire un poema di 1000/1500 versi, a maggior ragione se si considera che nulla è dato di sapere sull'effettiva continuità, durata e modalità tecniche dell' esecuzione 52 •

51

Cfr. Davies (art. cit. [n. 3) p. 53) e Pavese, il quale affianca al problema della lunghezza quello della probabile noia suscitata nell'uditorio antico da una coreografia e da un canto corale eccessivamente prolungati (op. cit. alla n. 3, p. 243 88. ). Su questi punti rinvio all'art. cit. supra(n. 4l)p. 212 88. ea Bumett, art. cit. (n. 3)p. 132 s. Va qui aggiunto che il problema della lunghezza non concerne ovviamente l'esecuzione dei peani, e che la tendenza generale è di attribuire una notevole lunghezza a tuui i poemi, quando le indicazioni in nostro possesso riguardano in realtà soltanto l'Orestea, l'Elena (entrambe in due libri), la GerioMide e forse la Tebaide (P. Lilk 76 abc fr. 222b Davies). Rilievi di natura metrica a favore di un'esecuzione monodica in Pavese, op. cit. p. 266 s.; idem, in AA. VV., Problemidi metrica classica, Genova 1978, pp. 56 s., 68 88.; Haslam, art. cit. (n. 3) p. 32 s.; R088i, art. cit. p. 7 88. 52 Si vedano anche le pertinenti osservazioni di C. Carey, Am. Joum. Philol. 110, 1989, p. 562 88. A queste considerazioni non sarà inutile aggiungere il valore del nome d'arte l:nimx~. "istruttore" o "suscitatore di cori", che pone in chiaro rapporto la professione del poeta con la danza, e forse anche con il canto corale: cfr. PMG938 c (Moi:om?) onimxO()OV ~l,&VOV 6-yoLOOL; Pind. Pytla. 1, 4 ayr1 fr. 286 may be regarded as an elahoration of Sappho's comparison of love to a gale-force wind" 3 , et p. 216: "Anacreon does not write in the rich, sensuous style of lbycus, but relies for his effect on careful craftsmanship, elegance and wit". Mais mon propos n'est pas, ici, de retracer les étapes de la reception globale de la monodie archaique, ni méme d'analyser les erreurs initiales de lecture qui ont oblitéré les différences. Je souhaite seulement mettre en évidence la singularité de l' oeuvre d' Anacréon en regard des oeuvres de ses pré-

ve

2

Fr. 235 K.-A. (6anw:ijç):

900V 6fi l,&OL e. 3

Page.

Référence pour Sappho: fr. 47 Lobel-Page (= Voigt). Pour lbycos: fr. 286

Lea tQortLxa d' Anacréon

367

décesseurs, et meme de celle de son contemporain lbycos, actif en meme temps que lui à la cour de Polycrate de Samos. Car ce qu'on n'a jamais montré, c'est qu'Anacréon a donné à la monodie une fonction nouvelle. Et c'est tout naturellement à l'initiateur des recherches sur la fonction de la littérature, auxquelles on a vu récemment attacher le nom de Groupe d'Urbino, que sont dédiées les réflexions qui vont suivre4 • En remontant des effets aux causes, on constate que l' alignement des poètes lyriques précités sur un seul et meme jugement n'en a qu'une, qui est l'attention exclusivement pretée à la manière dont ils ont décrit leur amour, sans égard ni à la circonstance, ni à l'intention des poèmes où se rencontraient de telles descriptions. Preuve en soit le groupement dans ce but des exemples que nous a conservés la tradition antique. D'une part, Chaméléon réunit dans un meme chapitre sur les poètes excessifs en amour et dans leur poésie érotique Alcman (Ath. XIII 600f h&>uva1. nQ(Ì)'tov µO..oçàxoÀ.mn:ov 6vta xat JtEQl'tàç yuvaixaç xat 'tT)V'tOLQUtl)Vµo,joov), Stésichore (ibid. 601a où µE'tQLroç tQV de la longueur d'un dimètre et la phrase se découpe en syntagmes calqués sur celte courte mesure, le plus souvent sans enjamhement. Strophique ou non, le poème se rapproche par là de la chanson, dont il adopte la hrève phrase musicale et la syntaxe linéaire, ce qui en ·facilitait la compréhension immédiate

F. Lasserre

374

et peut-etre la mémorisation (celle-ci est attestée pour les chansons à boire d'Anacréon par Aristophane, fr. 235 K.-A., puisqu'on les récitait 16 encore en 427 sous forme de O'K6À.~a) • Sous peine de manquer son but, en effet, il fallait que le trait port!t dans le très court instant que durait la récitation, à peine une minute. C'est, sans doute, en raison de cette forme nouvelle de chant que les lQ(l)-nXa d' Anacréon ont été classés dans la série des inventions musicales par l'heurématographe. En outre, la variété remarquable des mètres et le gofit des anaclases qui s'observent dans la poésie érotique d'Anacréon autant que dans le reste de sa poésie lyrique témoignent de son désir de renouveler sans cesse la forme de ses prestations dans ce genre aussi, afin d'intéresser par son art du chant et pas seulement par ses textes un auditoire toujours identique. D'où, enfin, le style: pour capter l'attention, pour se faire comprendre aussit6t, et pour divertir, il fallait une expression non seulement simple et frappante, mais aussi originale et amusante. Ces quatre conditions se trouvent parfaitement satisfaites par la clarté de la syntaxe, par l'inattendu des métaphores, ponctuelles ou développées, et par le mélange d'ironie sur soi-meme et de sensibilité qu'ont si bien relevé tous les commentateurs modemes, évoquant parfois à ce sujet l'épigramme alexandrine. Je n'en referai pas après eux la démonstration, mais je crois utile de souligner une demière fois, en référence à la fonction du poème érotique dans le cadre symposiaque, que ce cadre meme incitait le poète à payer de sa personne en se donnant lui-meme en spectacle. Telle est, je crois, la bonne réponse à la bonne question soulevée par Vetta. Cette réponse dit-elle tout? Elle dit au moins l'essentiel. Mais elle ne rend pas compte de ce qu'on appellerait aujourd'hui, d'un terme propre à la communication écrite et cependant mieux encore adapté à la communication orale, l'intertextualité. La chanson jetée à travers la table, la mélodie jouée à la lyre, la mimique du poète, nous pouvons à la rigueur les imaginer. Mais la résonance de ces effets théAtraux dans la salle du banquet, au moment où l' on sert le vin dans les coupes, la réception immédiate du texte, la connivence entre le poète et son public, qui fait que le public participe activement et non passivement à ce moment de poésie, la présence, ou l'absence, aussi, de Polycrate ou d'Hipparque, toutes ces réalités devraient etre prises en compte en sus du texte, si l'on veut vraiment comprendre ce qui n'est pas seulement

16

Voir la n. 2 supra.

Les tQo>,;Lxél d' Anacréon

375

un texte, mais un événement. Et que savons-nous du programme du symposi.onau cours duquel le poète produisait son lQOYtLx6v? Chantaitil plusieurs poèmes? Répétait-il d'une soirée à l'autre le meme, ou les memes poèmes, com.me un chansonnier, aujourd'hui, son recital? Autant de questions de première importance auxquelles nous sommes incapahles de répondre mais qu'il faut poser, au moment de conclure, pour rappeler qu'un poème, meme complet, meme compréhensible dans tous ses détails, ne livre qu'une partie de l'acte poétique auquel il doit son existence quand il s'agit d'une production orale. Mais si l'autre partie de cet acte, celle qui relevait de l'instantané, doit rester à jarnais inconnue, du moins un faible reflet s'en conserve-t-il dans les vers fameux de Critias qui montrent de quelle manière la tradition symposiaque à Athènes perpétuait par la simple répétition des chants d' Anacréon autour des tables, dans un cadre à peine modifié et tous genres confondus, quelque chose de la communion primitive du poète avec son public, du public avec son poète (Vorsokr. 88 B 1): Le doux Anacréon, qui jadis sur des modes Féminins composa le ti88u de ses odes, Pour la Grèce Téos le laissa s'embarquer; Roi des jeux du banquet, des femmes trop aimé, Ennemi de la fltlte, amoureux de la lyre, Il vécut de plaisir et rien ne put lui nuire. L'amour qu'on a pour toi jamais ne vieillira Ni ne saurait mourir, du moins tant qu'il y aura Quelque jeune garçon pauant de coupe en coupe Pour verser sur sa droite un vin que d'eau l'on coupe, A boire aux premiers voeux, tant qu'on verra des choeurs De femmes célébrer les nocturnes ferveurs, Et tant que le cottahe offrira sur son fatte Aux gouttes de Bromios, fruit de l'airain, l'assiette.

Il proemio, il sigillo e il libro di Teognide. Alcune osservazioni Pietro Giannini

Nel corso della lunga discussione relativa all'origine ed alla formazione del Corpw Theognideum, anche i versi iniziali, il cosiddetto 'proemio' (vv. 1-18) e il cosiddetto 'sigillo' (vv. 19-26), sono stati oggetto di varie osservazioni e di diverse conclusioni. È nota a tutti la disputa relativa al sigillo che (per citare solo le opinioni più diffuse) è stato 1 o nella individuato o nel vocativo KllQVE(in alternativa Ilo>..unai&}) 2 menzione di Teognide ai vv. 22-23 o nella intera elegia dei vv. 19-26 3 o nella eccellenza artistica dell'opera 4 • Allo stesso modo, per quanto riguarda i vv. 1-18, se alcuni studiosi (tra i fautori della teoria 'analitica') 5 ne riconoscono la genuinità e la funzione proemiale 6 , altri negano sia questa funzione sia la paternità teognidea 7 e li considerano versi aggiunti ad opera di tardi compilatori. Tuttavia, nonostante questa lunga attenzione, i due problemi sembrano essere stati trattati piuttosto

1

Cfr. per es. F. Jacoby, 'Theognis', Sitzungsb. Berlin 10, 1931, p. 119 (= Kleine philologùcM Schriften I, Berlin 1961, p. 380 ss., secondo cui saranno fatte le citazioni nel corso del lavoro). 2 Cfr. per es. R. Reitzenstein, Epi.grammund Skolion, Giessen 1893 ( = Hildesheim-New York 1970), p. 264 ss. 3 Cfr. E. von Leutsch, Philologw 29, 1870, p. 511 ss. 4 Cfr. T. W. Allen, Rev. di! philol. 16, 1950, p. 137 ss. 5 Si intendono coloro (e sono la maggioranza)i quali considerano il corpw teognideo costituito da varie 'parti'; restano esclusi da questa discussione i fautori dell'unità, quali Harrison (Studies in TMOgnis, Cambridge 1902), Allen (Clau. Rev. 19, 1905, pp. 386-395), Highharger (Trans. Proc. Am. Philol. A.ss. 58, 1927, pp. 170-198), Young (TMognis, Leipzig 1961, p. Xl). 6 Cfr. per es. P. Friedlinder, 'Yil08HKAI 2. Theognis', Hermes48, 1913, pp. 572-576 (= Studien zur antiken Likratur und Kunst, Berlin 1969, pp. 275-279, secondo cui saranno fatte le citazioni nel corso del lavoro); F. Jacoby, art. cii. p. 346 ss. 7 Cfr. per es. W. Kroll, TMognis. lnterpretationen, Leipzig 1936 (Plùlologw Suppi. 29, 1), pp. 24 ss.; 90 ss.; M. L. West, /ambi et elegi Graeciante Alesandn.un cantati I, Oxford 19892, p. 173.

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separatamente e non si è cercato di vedere con sufficiente rigore quali siano le implicazioni che la soluzione di uno di essi comporta per la soluzione dell'altro. Significativa a questo proposito la posizione di W. Rosler, che da ultimo ha affrontato la questione della silloge nel suo complesso. Egli, sulla scorta di Reitzenstein, riconosce nella raccolta (v. un libro compilato dallo stesso Teognide e nella cosiddetta acpQT)y(ç 22 ss.) una sorta di titolo di questo libro, ma poi ritiene inverosimile che le invocazioni dei vv. 1-18 fossero collocate (tutte quante, almeno) nella posizione attuale 8 • Sembra dunque opportuno riprendere, sia pure brevemente, la questione ed esaminare in stretta connessione il proemio ed il sigillo del Corpw per verificare, alla luce di una lettura attenta anche al dato storico-culturale, se la forma in cui essi si presentano attualmente possa essere in qualche modo giustificata. Premessa indispensabile di quest'esame è la considerazione della genuinità di questi versi sia per quanto riguarda la paternità sia per quanto riguarda la collocazione. Tale premessa può essere ritenuta credibile in base alle seguenti osservazioni: 1) l'esistenza di un libro di Teognide nel IV sec. è implicita nell'affermazione di Senofonte nel IlEQL0e6yvu~oç 9 , secondo cui la poesia di 10 àvitQ001t(l)V , ed emerge altrettanto quest'ultimo è un m'ryyQ (cfr. 2 G. Permtta-B. Gentili, Polinnia. Poaia greca arcaica,Mesaina-Firenr.e 1965 , ad loc.): questo verbo esprime quindi il valore passivo di un'azione che all'attivo è indicata dal verbo fflLd6,Ji,u(vd. oltre). 14 Cfr. Teognide.Ekp, intr. trad. e note di F. Ferrari, Milano 1989, p. 76. 15 Cfr. B. A. van Groningen, Thh,g,aiJ.u pmni.er lwre Mi.li ar,ec un commentai12

re, Amsterdam 1966, p. 446.

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380

Gen. 3, 15 del II sec. d.C.) si denuncia l'azione con cui due eredi, in assenza di due altre persone aventi uguale diritto, sono entrati nel luogo in cui si trovava depositata di comune accordo l'eredità, consistente in mobilia (r. 9 tv6oµevwv), luogo su cui si trovavano i sigilli apposti da tutti (rr. 14-15 'trov acpeayt&rv t'tf.Ui>v [x]oLvfi ffavt(l)V e, dopo averli rimossi (r. 16 PeétyL1., per salvaguardare la proprietà del suo prodotto vi ha apposto il suo sigillo personale. L'interpretazione è stata ripresa nel 1933 da O. lmmisch 20 , il quale ha pensato piuttosto ad un sigillo apposto sul margine del rotolo, al suo inizio, corredato anche da qualche iscrizione esplicativa. Dopo lmmisch la proposta non ha avuto seguito e sono prevalse le interpretazioni 'metaforiche' del sigillo. Ma una ripresa di tale teoria sembra possibile sulla base del dato, messo in rilievo da Rossbach 21 , della sempre maggiore diffusione del sigillo nel corso del VI sec. a. C., diffusione a cui lo studioso collega esplicitamente (ma, sembra, indipendentemente da Birt) il passo teognideo. Dall'articolo di Rossbach apprendiamo anche della utilizzazione dei sigilli, che erano incisi sulle pietre degli anelli, per lettere 22 e testamenti 23 • Non abbiamo per quest'epoca esempi sicuri di libri recanti un sigillo, che sono invece attestati per l'età romana24 • Ma è possibile dedurre la loro presenza agli inizi del V sec. da un passo delle Supplici di Eschilo (v. 946 ss.): qui Pelasgo, parlando all'araldo degli Egiziani, che è venuto per richiedere le figlie di Danao, dice che l'assemblea degli Argivi ha decretato di non riconsegnare loro le fanciulle contro il loro volere. E aggiunge: "Le cose tutte che tu ascolti non sono inscritte su tavole né suggellate fra le volute dei rotoli" 25 ('tairt' O'Ù ,w;(va;(v lati.V lriEYQ'tE)e nessuno accetterà come suo un verso peggiore (xaxLOv) quando è a disposizione quello genuino ('toùaf}>..oi,1taQEOV'toç). In sostanza, i pericoli da cui Teognide intende salvaguardarsi sembrano essere due: da una parte l'appropriazione indebita dei suoi versi ad opera di qualche poeta, dall'altra la manipolazione peggiorativa di qualche verso che, pur rimanendo attribuito a lui, è stravolto nella forma o

nell'Atene dd V e IV sec. a.C.', in Libri, editori e pubblico nel mondo amico. Guida llorica e critica, a cura di G. Cavallo, Roma-Bari 1975, p. IO. 26 Vd. T. Birt, op. cit. p. 24.3. 27 Cfr. W. Rosler, op. cit. p. 89 n. ll4 e vd. anche E. G. Tumer, 'I libri', cit. p. 18. 28 Op. cit. p. 8.3 88. 29 Vd. Diog. Laert. 9, 6 (= 22 Al Diels-Kranz) e le osservazioni di G. Cavallo in Libri, editori, cit. p. XIIl 88. 30 Op. cit. p. 267. 31 Per questa articolazione del discol'BOvd. T. Hudson-Williams, TM Elegia of ~. London 1910 (= New York 1979), p. 51 n. l.

Il proemio, il sigillo e il libro di Teognide

383

(forse meglio) nel contenuto 32 • Le parole di Teognide lasciano intendere che i fenomeni di cui parla non sono eccezionali: egli infatti non dice di voler impedire che i suoi versi siano 'rubati', ma che lo siano senza che ciò non venga scoperto. Da qui la conclusione che si trattava di fenomeni correnti. Un'idea del modo in cui tale 'furto' potesse avvenire possiamo farcela dall'episodio di Testoride, riportato dalla Vita erodotea di Omero (rr. 209-210 Allen): Testoride, dopo aver registrato per iscritto i testi composti da Omero, se ne andò via da Focea, poiché della sua poesia. Per quanto rivoleva appropriarsi (t;LbLper no),:uç(v. 153) introduce nel testo di Solone una precisazione che ne muta il senso (ma gli esempi di questo tipo, nella silloge teognidea, sono molto più numerosi)33 • Tuttavia, come abbiamo accennato, il problema della salvaguardia dell'autenticità del prodotto poetico ha, nell'ambito del sistema della comunicazione letteraria arcaica, una rilevanza maggiore di quanto non indichino gli esemf.! addotti; su questo fenomeno ha ampiamente informato G. Cerri . Per quanto riguarda l'ambito più specifico della poesia gnomica, il problema forse si poneva in termini più stringenti per la natura stessa della poesia, destinata automaticamente al riuso: ne fanno fede i tentativi di Focilide, Demodoco e Ipparco di assicurare la paternità dei loro brevi componimenti premettendo ad ognuno di essi il proprio nome

32

Che il sigillo abbia la funzione di preservare il contenuto delle poesie di Teognide, intese come "a body of gnomological poetry as representing the accepted standards and values of the agathoi", è affermato da A. L. Ford, 'The Seal ofTheogni11: The Politica of Authorship in Ancient Greece', in Theognu of Megara. Poetry and tM Polis, ed. by T. J. Figueira and G. Nagy, Baltimore and London 1985, p. 89 (anche se nell'articolo non è precisata la natura del sigillo). È comunque da segnalareche tutto il volume, in cui è contenuto l'art. cil., sottolinea la stretta connessione tra la poesia teognidea ed il suo ambiente 'politico'. 33

Sul procedimento del riuso, all'interno del corpusteognideo, cfr. R. Reitzenstein, op. cil. p. 60 88. 34

Cfr. 'Il significato di &phregisin Teognide e la salvaguardia dell'autenticità testuale nel mondo antico', in Liricagreca e Ialina, Atti del Convegno di studi polaccoitaliano (Poznan 2-5 maggio 1990), Ann. l&t. Or. Napoli, Sez. filol.-lett., 12, 1990, pp. 25~.

P. Giannini

384

(cfr. rispettivamente xat 'tME cl>ooxu)..(bEoo, xat 'tME ~111,U>Mxou, 35 µvijµa 't66' 'lmtagxou) • Nel caso di Teognide la salvaguardia dell'autenticità è assicurata dalla copia sigillata, depositata in un luogo che non possiamo determinare, ma che in caso di controversia poteva essere consultata. È questa circostanza che consente di riconoscere i versi di Teognide, sicché ognuno potrà dire: "Sono versi di Teognide di Megara; egli è rinomato presso tutti gli uomini" 36 • La proiezione nel futuro (cfr. lgEi) delle ipotetiche parole dell'interlocutore tradisce le reali intenzioni di Teognide: i versi, cosl genuinamente conservati, dovranno assicurargli la fama presso i posteri. Una posizione non dissimile da quella di lbico (SLGfr. 151, 48 Page) e Bacchilide (Ep. 3, 96 ss.), che si attendono dai loro versi rinomanza futura. A tale aspettativa si contrappone (v. 24 6') l'amara constatazione del poeta che egli non è ancora (ou:rtoo) gradito a 37 tutti i suoi concittadini ; amarezza che non sembra attenuata dalla ~IIQia considerazione finale (vv. 25-26) che nemmeno Zeus piace a Lutti quando piove e quando trattiene la pioggia. La ragione dell'incompleto gradimento da parte dei concittadini è facilmente individuabile: è evidentemente l'atteggiamento duramente e ostinatamente drÌstocratico della sua poesia. In conclusione, i vv. 19-26 non contengono né costituiscono in alcun modo il 'sigillo' dell'opera di Teognide, ma esprimono l'intenzioue di apporne uno, concreto, sul rotolo che la contiene e chiariscono i fini che si intendono raggiungere con questa operazione. Essi perciò trovano una loro giustificazione in rapporto alla compilazione del rotolo, nel senso che sono stati composti nel momento in cui Teognide, per salvaguardare l'autenticità della sua opera, ha deciso di affidarla alla scrittura 38 • È da rilevare, per inciso, che, anche con questa funzione,

35

Su queste introduzioni vd. R. Reitzenstein, op. cit. p. 266 e W. Rosler, op.

cit. p. 85 n. 133. 36

Le parole n:avtac;l>txa't' lrvi>QMuc; òvoµaat6c;sono attribuite da alcuni (per ria D. Young nell'edizione Teubneriana del 1961) all'ipotetico interlocutore, da -um (per es. West, op. cii. ad loc.) a Teognide stesso. È opportuna l'osservazione di H. •"riinkel(Dichiung und Phuosop~ des.frii,hen Griechentum.s, Milnchen 196:z2,p. 457) che le lodi del poelà wno più appropriate sulla bocca di altri. 37 Una analoga considerazione in Pind. Ol. 8, 53 ne,rvòv ... hi lrviteQTIY(ç (identificata da lui nell'intera elegia 19-26), anche se normalmente è collocata prima dell'epilogo, può anche ben trovarsi dopo il proemio40 • Al Friedlinder si deve anche l'osservazione che le invocazioni iniziali agli dei rispondono ad un unitario intento proemiale e non sono la casuale scelta di :rtQOO(µLa utilizzati, per esempio, durante un simposio41• Il carattere 'proemiale' dei vv. 1-18 è stato riconosciuto anche da Jacoby42 , van der Valk 43 , H. Friinkel44 ed è stato illustrato di recente da S. Novo Taragna 45 , che ne ha sottolineato il carattere 'ionico' e ribadito i numerosi punti di contatto con i :rtQOOf.µLaveri e propri, la cui funzione originaria era, com'è noto, quella di canti in onore degli dei, che precedevano le recitazioni epiche 46 • Particolarmente significativa l'invocazione iniziale ad Apollo (vv. 1-10)47 • Qui il carattere 'proemiale' è visibile nella promessa del poeta a "non dimenticarsi" (où À'lOOµ«L)mai del dio né all'inizio né alla fine del suo canto (ou:rtO"tE .•. ÒQXOµEVoç où~' à:rto:rcauoµEVoç) ed a cantarlo

39

Cfr. B. A. van Groningen. 'A propos de Terpandre', MMmosyne S. IV 8, 1955, p. 180 n. 2; ma l'opinione non è più ripresa nel successivo commento (op. cii.). 40 Cfr. P. Friedlinder, op. cit. p. 279. 41 Cfr. P. Friedlinder, op. cit. pp. 275-276. 42 Cfr. F. Jacoby, op. cii. p. 345 ss. (che però espunge i vv. 5-10) . ..., Cfr. M. van der Valk, 'Theognis', H~ 7-8, 1955-1956, pp. 68-140. 44 Cfr. H. Friinkel, op. cii. p. 457. 45 Cfr. 'Il linguaggio poetico del "proemio" della silloge teognidea (I 1-38)', Civiùà clau. crisi. 5, 1984, pp. 213-237. 46 Cfr. Inni omerici, a cura di F. Cassola, Milano 1975, p. Xli. 47 Considero, con Young, una sola elegia i vv. 1-10. che gli_altrieditori dividono in due parti (vv. 1-4 e 5-10 rispettivamente).

P. Giannini

386

"come primo e come ultimo e in mezzo" (1t()Ò>'t6v tE xal uatatov ~ tE µtooun), ed è presente anche nella preghiera, che il poeta rivolge al dio, di ascoltarlo e di concedergli ogni bene ('KÀiHhxal toit).à b(bou): quest'ultima richiesta riprende le analoghe richieste degli Inni omerici in cui il cantore chiede espressamente al dio lxQE'tT)V tE xal 6À.f30V (Hy. Bere. XV 9; Hy. V.dc. XX 8) oppure TUX'IVEÙOO.LµDVLTtV te (Hy. Ath. XI 5). Il carattere 'ionico' è riconoscibile nei vv. 5-10, dove si mescolano "l'apostrofe e lo svolgimento narrativo-descrittivo" 48 : all'iniziale cl>oiJlE(Iva; segue la descrizione della nascita di Apollo a Delo con l'evidenziazione dei prodigi che l'accompagnarono. Dice infatti il poeta 49 si riempì che, quando Latona lo generò, Delo "infinita" (lxxELQEOLTJ) di "profumo immortale" (Mµijç lxµJlQOOLTtç), la terra "rise" (tytì..aooE), il mare "si rallegrò" (Y"tihJOEV). Da rilevare, per inciso, che quest'ultima associazione costituisce una 'coppia totalizzante' 50 , cioè un'associazione che designa in sostanza la Terra nel suo insieme. Sono illustrati qui, come mette in rilievo Novo Taragna 51 , i "segni della presenza del divino e della sua potenza letificante". Anche la preghiera ad Artemide (vv. 11-14) presenta caratteri propri dell'inno, sia cultuale che rapsodico. Al primo appartengono la sottolineatura delle sue qualità benefiche, che viene fatta sia esplicitamente attraverso l'aggettivo ih}QO µot x>..uitt) e di allontanare le "cattive sventure" (xaxàç lxxò XijQaç (i).a).xE). Seb48

Cfr. Novo Taragna, art. cii. p. 218. L'epiteto ha un significato religioso: cfr. van Groningen, op. cii. ad loc. (che riprende una proposta di W. Schulze, Quaestiones epicae, Giitersloh 1892 Hildesheim 1967, p. 245). 50 Per la 'coppia totalizzante' in Pindaro cfr. G. A. Privitera, Pindaro. le lstmicM, Milano 1982, p. 244 (s. v.). 51 Art. cii. p. 220. 52 Come conferma Pausania (1, 43, 1). 53 Cfr. Novo Taragna, art. cii. p. 222. 49

=

Il proemio, il sigillo e il libro di Teognide

387

bene quest'ultima espressione riecheggi da vicino Il. 21, 548 itava'tOLO non ricorre nel signifxiQdaç XT)QOç iù..aÀXOL,in essa il termine XT)QEç ficato omerico di "morte" 54 , senso che provoca difficoltà nel definire con esattezza il referente concreto 55, ma in quello postomerico di "sventure" 56, come al v. 767 della stessa silloge, dove le xaxat XT)QEç che si devono allontanare (aµuvaL) sono precisate subito dopo nella "funesta vecchiaia" (yftQOç oÙÀ6µEVOV)e nel "termine di morte" (itava'tOLO'tÉÀ.Oç).La preghiera, espressa nella forma negativa di richiesta di liberazione dai mali, corrisponde a quella, formulata al v. 4 nella forma positiva, di "concedere i beni" 57 e ne riprende il carattere proemiale 58 • Il v. 14, in cui si sottolinea che la liberazione dalle "cattive sventure" è cosa di poco conto (oµ.LXQOV) per la dea, ma di grande importanza (µtya) per il poeta, mentre ribadisce la potenza della divinità, sottolinea il bisogno d'aiuto da parte del poeta 59 • L'ultima invocazione alle Muse e alle Cariti (vv. 15-18) presenta una sostanziale diversità rispetto alle due precedenti perché, dopo l'allocuzione iniziale e il ricordo della loro partecipazione alle nozze di Cadmo e Armonia (vv. 15-16), non vi è la preghiera vera e propria, che potrebbe consistere nella richiesta di "onorare" il canto del poeta, come nell'Inno omerico alle Muse e ad Apollo (Hy. XXV 6 xa(QE'tE,'tÉXVa ~L6ç, xal tµriv 'tLµflLÀ.Ov ta'tt (v. 17); esse lo hanno cantato alle nozze di Cadmo e Armonia e gli immortali lo hanno ripetuto subito dopo. Questo il senso, evidentemente, della frase ld}ava'tOO'V ~ÀilE bLà moµa'tOO'V, come dimostra il confronto con Aristoph. Av. 220 btà b' à:ftava'tOO'V moµa'tOO'V Xrot»Ei ... ÒÀ.Àuy{):anche qui Apollo intona un canto, stavolta di lamento, ed esso è ripetuto dagli altri dei. La circostanza conferisce all'enunciato una valenza divina e quindi assoluta 63 : essa è in definitiva una massima degli dei. Perciò è di estrema importanza coglierne l'esatto senso. La massima, nella doppia forma (positiva e negativa) coincide con un antico proverbio che ricorre in Platone (Lys. 216 c) nella forma xaÀÒV q>LÀ.Ov alEL Le 64 fonti antiche che ne trattano ne precisano il senso affermando che esso si riferisce a coloro che "perseguono il proprio vantaggio" (btt 't\') da parte degli dei e "buona fama" (M;av ... ityafhrv) da parte degli uomini (con la precisazione che tale fama consiste nell'essere dolce per gli amici ed aspro con i nemici), se da una parte richiamano le invocazioni dei canti epici 70 , dall'altra ricordano la preghiera alle Muse e alle Cariti in Teognide e le analoghe richieste fatte ad Apollo (v. 4) e ad Artemide (v. 13)71 • La funzione 'proemiale' che i vv. 1-6 hanno in Solone è evidenziata dal fatto che ad essi seguono, in un componimento elegiaco (come quello di Teognide), le considerazioni gnomiche che nella silloge vengono dopo il proemio e il sigillo (v. 27 ss.). Se poi consideriamo che lo 'spazio' dell'elegia di Solone era quasi sempre il simposio 72 , l'accostamento tra i due testi, pur nella diversità di strutturazione e di destinazione, appare più significativo. Il secondo esempio è costituito dalla raccolta di scoli attici tramandataci da Ateneo (14, 694c), che inizia appunto con quattro 'inni' in metro lirico (frr. 884-887 Page)73 • La raccolta rispecchia sicuramen-

68

C&. ad es. Schol. Pind. Nem. 1, 1 ef (Ili pp. 31-32 Drachm.). C&. anche Xenophan. fr. 1, 13 ss. Gent.-Pr. e in generale vd. P. von der Milhll, 'O simposio greco', in Poaia e simposio nella Grecia antica. Guida storica e 69

critica, a cura di M. Vetta, Roma-Bari 1983, p. 10. 70 Per quest'accostamento cfr. H. Frinkel, op. cii. p. 269 s. 71 Sull'accostamento tra il proemio di Teognide e i versi iniziali dell'elegia di Solone cfr. P. Friedlinder, op. cii. p. 278 n. 38 (di parere opposto F. Jacoby, op. cii. P· 360). 72 C&. G. Tedeschi, 'Solone e lo spazio della comunicazione elegiaca', Quad. Urb. n. s. 10 (39), 1982, p. 33 ss. 73 L'accostamento tra gli inni iniziali di Teognide e quelli della raccolta di scoli attici è fatta da Reitzenstein, op. cii. p. 74. Un altro esempio di libro simposiale è costituito dal P. Berol. 13270, pubblicato da Schubart e Wilamowitz nel 1907 nei "Berliner Klassikertexte" (V 2), ripubblicato da Page nei POt!lae Mdici Graeci(fr. 917) e da ultimo da F. Ferrari, Studi class. or. 38, 1988, pp. 181-227.

390

P. Giannini

te un'edizione degli scoli fatta nel V sec. 74 : ciò dimostra che, ancora nel V sec., una silloge di poesie 'simposiali' prevedeva le invocazioni iniziali agli dei, a imitazione di ciò che avveniva concretamente nella performance del simposio. Lo stesso, dunque, accade già in Teognide, dove troviamo un riferimento alla pratica orale, sia di carattere simposiale sia relativa alla recitazione pubblica della poesia (specialmente epica), per cui la performance principale era preceduta da invocazioni agli dei. Da questo punto di vista gli inni proemiali presenti in Teognide, lungi dal costituire una traccia di seriorità 75 , sono invece un elemento arcaico, che si giustifica con il modello della recitazione orale. In fondo Teognide, volendo compilare un 'libro' per garantire l'autenticità dei suoi versi e non avendo a disposizione modelli correnti, dal momento che, nella seconda metà del VI sec. (che è l'età di Teognide)76 il libro è un fenomeno di portata limitata, destinato alla "fissazione e conservazione dei testi" 77 e non alla circolazione letteraria, egli lo struttura sul modello delle recitazioni orali (che sono l'unico modello disponibile, nel suo contesto culturale, di fruizione pubblica della poesia), in cui le invocazioni agli dei precedono il testo vero e proprio. Sicché il libro di Teognide, concepito come prodotto librario, è assai probabilmente la raccolta di testi utilizzati dal poeta nei simposi e destinati ai simposi 78 , ma di cui egli vuole salvaguardare la paternità proprio perché, forse, egli conosce bene la pratica simposiale, consistente soprattutto nel riuso di testi già ascoltati. ovvio, lo ripetiamo, che ciò non configura una circolazione 'libresca' della poesia di Teognide. Il 'libro', per il quale non dobbiamo supporre l'esistenza di copie, rimane confinato in un luogo che non possiamo definire con esattezza. La fruizione dei suoi

t

74

Cfr. R. Reitzenstein, op. cit. p. 15.

Come pensano, per esempio, J. Carrière, Théognu~ M~gare.Etude sur k Recueil i/igiaque auribui à ce ~te, Paria1948, pp. 143-145; van Groningen, op. cit. p. 18. 76 I dati cronologici delle fonti antiche (Suda,S. Girolamo e Cirillo, Chronicon Paschale)pongono l'ilxl'"del poeta tra la 59" e la 57• olimpiade, cioè tra il 544 e il 533 a.C.: sulla questione informa ampiamente A. Garzya,Teognide.Ekgi.e, Firenze 1958, pp. 8-11. . 77 Cfr. G. Cavallo, in Libri, editori, cit. p. XIVss. Sull'età arcaica come età di comunicazione prevalentemente orale vd. B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, Roma-Bari19892. 78 Cfr. R. Reitzenstein, op. cit. p. 74. 75

Il proemio, il sigillo e il libro di Teognide

391

testi rimane legata, come prima della compilazione, alla esecuzione orale nei simposi. A ben vedere, esso si propone di difendere la paternità di ciò che vi è contenuto, non si prefigge di impedire successive aggiunte. Cosa che purtroppo è avvenuta e, allo stato dei fatti, anche per le altre successive manipolazioni, non ci pennette di distinguere con esattezza ciò che è sicuramente teognideo da ciò che non lo è. Ma rimane il fatto che, almeno per la parte iniziale, noi possiamo osservare come fu strutturato dal suo autore il primo 'libro' della poesia greca.

IMPRESSO NELLE OFFICINE DI ACNANO PISANO DELLA GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA

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Ottobre 1993

TRADIZIONEE INNOVAZIONE NELLACULTURAGRECA DA OMEROALL'ETÀELLENISTICA.

GRUPPOADITÒIUALE INTERNAZIONALE~t.,• ROMA

TRADIZIONEE INNOVAZIONENELLACULTURAGRECA DA OMEROALL'ETÀELLENISTICA

COMITATO PROMOTORE E ORGANIZZATORE

PAOLA ANGELI BERNARDINI

AGOSTINO MASARACCHIA

Grov ANNI CERRI

GIUSEPPE MORELLI

G1ov ANNI CoMO'ITI

CARLO PRATO

ITALO GALLO

ROBERTO PRETAGOSTINI

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G.

PIETRO GIANNINI

LUIGI ENRICO Rossi

JEAN IRJGOIN

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AURELIO PRIVITERA

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GREGORIO SERRAO

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l.AssERRE MAEHLER

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MASslMO VETTA

TRADIZIONE E INNOVAZIONE NELLA CULTURA GRECA DA OMEROALL'ETÀ ELLENISTICA SCRI'ITI IN ONORE DI BRUNOGENTILI II

a cura di ROBERTO PRETAGOSTINI

GEI® GRUPPO EDITORIALEINTERNAZIONALE® · ROMA

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Questa opera è stata pubblicata con il contributo delle seguenti istituzioni: CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE UNIVERSITÀ DI i.ECCE UNIVERSITÀ DI URBINO

PARTE SECONDA

LIRICATARDO-ARCAICAE CLASSICA

Per un profilo di Mirtide antedonia Gabriele Burzacchini

I. Che Mirtide fosse autrice di JlÉÀ.'I ed originaria di Antedone, cittadina beotica affacciantesi sul mare d'Euhea, è attestato da Plutarco 1• Secondo una tradizione, recepita dalla Suda, ella sarebbe stata maestra tanto di Corinna quanto di Pindaro 2 • Con quest'ultimo la vuole in rapporto di rivalità un celebre frammento della medesima Corinna, nel quale la tanagrese biasima esplicitamente la collega per es-

1

Quaat. Gr. 40 (Mor. 300 f). Suda x 2087, Ili p. 157, 28 a. Adler K6QLvva ... ~LU MugtCooc;,nonché x 1617, IV p. 132, 26-29 Adler ntvl>aeoç ... l,l(lihrri)ç6è MugtCooc;yuvauc6ç ("as if the biographer had Corinna's lines in mind", 08llel"Ya,circa la precisazione yuvaLx6ç, M. R. Lefkowitz, The Liva of the GreekPoeu, Baltimore 1981, p. 64). Ancora nell'Urania del Manzoni compare "Mirtide già de' carmi e de la lira/ a Pindaro maestra" (v. 129 a.). Non di Mirtide o di Corinna, bensl di Esiodo sarebbe stato (idealmente) discepolo Pindaro nella sommaria analisi di K. J. Merentitis, Mugtlç xal K6QLvva, 'AitqvaL 1970, p. 28 u. "Qui fabulam de Pindari et Corinnae certamine memoriae prodiderunt, eosdem utrique Myrtidem magistram dedisse probabile est", 088ervava W. Cronert, 'Corinnae quae supersunt', Rh. Mw. 63, 1908, p. 161. Ne segue sostanzialmente le orme L Bianchi, 'Corinna', Si. il.filol. 21, 1915, pp. 228-230: abbastanza curiosamente, peraltro, egli nega il magistero di Mirtide nei confronti di Pindaro, mentre lo ammette tranquillamente per Corinna, senza fornire una spiegazione convincente circa il diverso trattamento riservato alle pur analoghe notizie (cfr. anche U. Lisi, Poetase greche, Catania 1933, p. 97 s., tuttavia più problematica nelle conclusioni). Sembra accordare credito alla duplice tradizione E. Romagnoli, / poeti lirici DI, Bologna 1933, p. 248; né manca chi l'accoglie, attenuandola nondimeno nel senso di ammettere semplicemente influssi artistici di Mirtide su Corinna e Pindaro: cosl ad es. N. Cupaiuolo, Corinna,Napoli 1939, p. 23 s. In realtà, è giocoforza sospettare che tali notizie di relazioni di scuola fra poeti - favorite, come speuo accade, da elucubrazioni sviluppatesi in margine ai testi - sianoda imputare soprattutto alle intemperanze del biografismo gratuito. Tra l'altro, se Corinna f088e stata davvero discepola di Mirtide, dovremmo ammettere che in almeno un componimento (vd. infra)ella biasimasse la propria maestra o ex-maestra: il che - nonostante Romagnoli, /oc. cii. - appare francamente improbabile. Dei rapporti fra Mirtide, Corinna e Pindaro mi sono recentemente occupato in 'Corinniana', EiluumDII2, 1991, pp. 39-90 (in particolare 41-47). 2

G. Burzacchini

396

sersi voluta cimentare, lei donna, col lirico tebano 3 • Antipatro di Tessalonica la annovera nel cosiddetto canone delle poetesse, sottolineandone la dolcezza del canto 4 • Taziano ne ricorda una scultura in bronzo ad opera di Boisco5 • 2. Informandoci sul contenuto di un componimento di Mirtide, la testimonianza di Plutarco rappresenta anche unfragmentum sine verbis, l'unico che possediamo dell'antedonia 6 • La pagina del dotto di Cheronea appartiene alle Quaestiones Graecae, e tratta del mito di Ocna ed Eunosto, ai'nov di un tabu connesso con l'iil.ooç dell'eroe. Chi era l'eroe tanagrese Eunosto, e per quale motivo l'accesso al suo bosco sacro è vietato alle donne? Eunosto era figlio di Elieo, figlio di Cefiso, e di Sciade 7; il nome, dicono, gli derivava dal fatto di essere stato allevato dalla ninfa Eunosta. Bello e giusto, egli era egualmente casto e morigerato. Narrano che di lui si innamorasse Ocna, una delle figlie di Colono, che era sua cugina. Quando però Eunosto ne respinse le profferte e, dopo averla coperta di improperi, mosse alla volta dei fratelli di lei per accusarla, la fanciulla lo prevenne nel far questo contro di lui, ed incitò i fratelli Echemo, Leonte e Bucolo ad uccidere Eunosto, reo, a suo dire, di averla violentata. Quelli pertanto tesero un'imboscata al giovinetto e lo uccisero. Elieo allora li fece imprigionare. Ma poi Ocna, pentita e sconvolta, da un lato desiderando liberarsi dal tormento causatole dalla passione amorosa, dall'altro mossa a compassione dei fratelli, rivelò ad Elieo tutta la verità, e quegli a sua volta ne informò Colono. Dopo che Colono ebbe emesso il verdetto, i fratelli di Ocna se ne andarono in esilio, mentre lei si buttò giù da un dirupo, secondo il racconto di Mirtide di Antedone, poetessa di µÉÀ.TJ.L'heroon ed il bosco sacro di Eunosto erano talmente sorvegliati, ad impedire che vi accedessero o vi si avvicinassero donne, che spesso, al verificarsi di terremoti, siccità o altri portenti celesti, i Tanagresi aprivano un'inchiesta e si davano un gran daffare, con zelo, per appurare se per caso una qualche donna non si fosse avvicinata al sito, eludendo il controllo; e alcuni, tra i quali v'era Cleidamo, personaggio di spicco, riferivano che si era fatto

3

Fr. l la (PMG 664a) P. A. P. IX 26 (XIX G.-P.), 7 yÀ.uxuaxta MllQ'tLV. 5 Ad Gr. 33 Whittaker Botaxoç MuQ'tl6a (Jcil. lXaÀ.XO\JQ'Y'JOEV). 6 Fr. 1 (PMG 716) P. 7 Madre a quanto pare di Eunosto, non di Elieo, come intende invece J. M. Edmonda, Lyra GraecaIII, London-Cambridge Masa. 19402, p. 3. 4

Per un profilo di Mirtide antedonia

397

loro incontro Eunosto mentre si dirigeva al mare per bagnarsi, dal momento che una donna aveva messo piede nel temenos. Anche Diocle8 , nel suo scritto Sugli heroa, riferisce un decreto dei Tanagresi concernente le faccende circa le quali Cleidamo aveva riferito.

3. Non è chiaro, dalla prosa plutarchea, quanto della narrazione risalga alla poesia di Mirtide. Prima facie, la precisazione ooçMuQ'tlç~ 'Avfhtbov(a JtOL'l'tQLa µEÀO)Vlm6grp,E potrebbe sembrare relativa alle ultime informazioni soltanto, quelle riguardanti il suicidio di Ocna (aùnJ bè xa'tEXQ'lµVLµTt bè XTIÀ.LyouQèrv Mougt(b' t~• on Povàcpoi,a' f~a IlLVl>«QOL :n:òtfQLV. Biasimo anche la canora Mirtide, io per mia parte, giacché nata donna con Pindaro entrò in lizza.

Non è questa la sede per sviscerare tutti i problemi posti dai noti versi: mi limito ad affrontare alcune questioni maggiormente pertinenti. Per quanto riguarda il rapporto tra Mirtide e Pindaro, converrà chiedersi in che senso la prima fosse entrata in lizza col secondo. A livello meramente teorico, si potrebbe pensare sia ad una semplice imitazione/ emulazione di Pindaro da parte di una Mirtide non necessariamente coeva 16 , sia ad un reale antagonismo fra poeti contemporanei: di fatto, però, soltanto quest'ultima spiegazione appare attendibile, in quanto l'impiego della locuzione tpa ... nòt tQLV,come sottolineava opportunamente Pfeiffer 17 , presuppone competitività effettiva con un rivale simultaneo (poco importa se formalizzata o meno in veri e propri agoni)18 •

16

Secondo P. Guillon ('À propos de Corinne', Ann. Fac. Leur.Aix 33, 1959, pp. 155-168, in particolare 161 ss.), ad esempio, tanto la datazione di Corinna quanto quella di Mirtide sarebbero da abbassare alla seconda metà del III secolo a.C.; il nostro frammento rifletterebbe, a suo avviso, una polemica tutta alessandrina fra i tardi epigoni di Pindaro, impegnati a rincorrere il miraggio di "faire revivre la grande lyrique" del tebano (scuola di Mirtide), e i fautori invece di una poetica incline "vers des rythmes plus simples" e "vers une langue [... ] plus fidèle aux vieux parlers locaux" (Corinna) (p. 164): una ricostruzione tutta basata, com'è facile constatare, su una serie di postulati e di ipotesi inconsistenti. Che l'feu; fra Mirtide e Pindaro non si traducesse in episodi agonistici di fatto, ma significasse soltanto emulazione, da parte dell'antedonia, del carattere sublime della poesia pindarica, sosteneva decisamente già J. A. Hartung, Die griechischen lyri/u!r VI, Leipzig 1857, p. 123: "Auch hinsichtlich der Myrtis besagen diese Worte keineswegs, da8 diese einen cSflentlichenWettkampf mit Pindar bestanden habe, sondern nur da8 sie es gewagt habe den erhabenen Ton und Styl seiner Dichtung nachzuahmen". 17 Ap. D. L. Page, Corinna, London 1953, p. 31 n. I: riscuotendo ivi l'approvazione dello stesso Page. 18 Del tipo di quelli che diverse testimonianze, verosimilmente derivate dal solito biografismo gratuito, postulavano fra la stessa Corinna e Pindaro (Sudax 2087, lii pp. 157, 29-158, I Adler s. v. K6QLvva;Paus. IX 22, 3; Ael. V. H. XIII 25).

G. Burzacchini

400

A giudizio di Welcker 19 , dal biasimo espresso da Corinna si dovrebbe dedurre che la temeraria Mirtide fosse stata sconfitta in un certame con Pindaro; ciò non vieterebbe peraltro, secondo il medesimo studioso, di credere che Corinna si fosse poi messa a competere lei stessa con l'illustre poeta: "scilicet" (si badi all'humour dell'argomentazione, del tutto involontario) "non iidem sumus omnibus horis" 20 • Secondo un'ipotesi 21 di Kirkwood , la tradizione della rivalità tra Mirtide e Pindaro "may conceivably mean that Myrtis, unlike Corinna and other poetesses, who adhered lo locai stories and a locai dialect, used the themes and the style of the great choral lyricists, and in that sense was Pindar's competitor". Non abbiamo tuttavia alcun elemento per poter avallare una simile teoria. L'unica cosa che siamo in grado di asserire, è che la notizia di un antagonismo con Pindaro risulta un chiaro indizio a favore di una produzione lirico-corale della poetessa (senza con ciò escludere, naturalmente, che i suoi µÉÀT)potessero comprendere anche componimenti monodici)22 • Piuttosto, spostando la nostra attenzione sull'ottica della testimone, occorrerà sottolineare come la motivazione della censura rivolta da Corinna alla pur "canora" 23 Mirtide ricalchi esplicitamente un ben noto cliché - radicato ab ovo nella cultura indeuropea e qui significativamente espresso, guarda caso, per bocca di una donna - circa la conclamata naturale inferiorità femminile nei confronti dell'altro

19

F. Th. Welckerus, 'De Erinna et Corinna poetriis', in Mektemata e disciplina antiquilatu opera F. Creuzeri, II, Lipsiae 1817, p. 15 n. 6 F. G. Welcker, Kkine Schriften zur gmclwchen Lilteraturgeschichù! II, Bonn 1845, p. 155. 20 Argomentazione ovviamente banale: sarà giocofona ammettere che la tradizione di uno o più agoni fra Corinna e Pindaro riceve, dal frammento corinniano, un duro colpo. Ciò naturalmente non arreca alcun pregiudizio alla contemporaneità dei due poeti, vale a dire alla tradizionale cronologia alta di Corinna, in favore della quale parlano non solo tutte le testimonianze antiche, univoche al riguardo, ma anche spie ricavabili dall'interno dell'opera stessa della poetessa (cfr. K. Latte, 'Die Lebenazeit der Korinna', Eranos 54, 1956, pp. 57-67 [riat. in Kkine Schriften, Milnchen 1968, pp. 499-507)). 21 Op. cil. (a n. 9), p. 178. 22 Cfr. A. Lesky, Storia della letteratura greca I, trad. di F. Codino (da cui ai cita), Milano 1969"', p. 242. 23 Come >.ty(Jc;,cosi Àiyul)6ç;denota principalmente la "chiarezza" del suono, e quindi del canto. Il fatto che altrove, nel fr. 2 (PMG655), 5 P., la stessa Corinna (dove il secondo membro qualifichi i propri carmi con il composto ÀiyouQOXO>t(Àuc; richiama il garrire della rondine, cfr. X(l)'tellw, X(l)'tl.Àac;), basta da solo a smentire le elucubrazioni di P. Guillon, art. cil. (a n. 16), p. 164.

=

Per un profilo di Mirtideantedonia

401

sesso 24 • Non siamo in grado di precisare quale ruolo eventualmente giocassero, nella parte perduta del componimento corinniano, tematiche di poetica. È possibile, ma non sicuro, che Apollonio Discolo attingesse allo stesso testo anche il fr. llb (PMG 664b) P.: ÙOVEL 6'

ElQV Ò{>E'tàç xe:LQO>ét&lv •..

Quel che è certo, è che Corinna biasimava l'audacia di una poetessa la quale, donna, osava misurarsi col poeta-uomo Pindaro. Ciò da un lato costituisce un inequivocabile messaggio sugli ovvi condizionamenti psico-sociologici cui soggiaceva la tanagrese; dall'altro lascia forse intravvedere, per quanto riguarda Mirtide, una personalità dalla tempra non comune, capace all'occorrenza di sfidare consolidati pregiudizi.

24

Un,..antica convinzione" , questa, "cui pii'J tardi Aristotele vedrà di fornire supporti teorici" (E. Degani, 'La donna nella lirica greca'. in La donna nel mondo anlico, Atti del Convegno Nazionale di Studi, Torino 21-22-23 Aprile 1986, a c. di R. Uglione, Torino 1987, p. 81).

Corinna e il suo pubblico Bruna M. Palumbo Stracca

1. La querelle sulla cronologia di Corinna, inaugurata da Lobel nel 1930 e proseguita fino ad oggi con alterne vicende 1, ha posto in secondo piano altri aspetti significativi della poesia corinniana, tra cui non è certo di poco conto la complessa problematica relativa alle modalità dell'esecuzione e al tipo di uditorio cui era destinata. È un fatto ben noto che in epoca moderna il nome di Corinna si trova registrato ora nell'ambito della lirica monodica, ora nell'ambito della lirica corale 2 ; ma è anche da rilevare che in tempi recenti la questione appare sostanzialmente, e talora programmaticamente, ignorata: un atteggiamento

1

Che la veste ortografica dei papiri di Corinna riflettesse una realtà che non può andare più indietro della metà del III a. C., ma neanche molto più avanti, fu chiarito da Wilamowitz nella sua edizione del papiro berlinese (P. Berol. 284, Berl. Klau. Tate V 2, 1907, edd. W. Schubart-U. v. Wilamowitz, pp. 19-55); di' qui la necessità di ipotizzare un metagrammatùmos del testo corinniano nel beotico del III sec. Come è noto, E. Lobel (Hermes 65, 1930, pp. 356-365) per primo ha suggerito di abbassare la datazione di Corinna, fino a farla coincidere con l'archetipo stesso del III secolo. La cronologia bassa è difesa da P. Guillon, Bull. corr. hell. 82, 1958, pp. 47-60, Annaks Fac.duleuresd'Ai.%33, 1959, pp. 155-168, daCh. Segai, Erano&73, 1975, pp. 1-8, e da M. L. West, Clau. Quart. n. s. 20, 1970, pp. 277-287. Decisi sostenitori della cronologia tradizionale sono invece C. M. Bowra, Clau. Rev. 45, 1931, p. 4 s., A. E. Harvey, Clau. Quart. 49, 1955, pp. 176-180, K. Latte, Erano&54, 1956, pp. 57-67, A. Allen-J. Frel, Clau. Joum. 68, 1972, pp. 26-30. La datazione alta e la natura corale della poesia di Corinna sono ora ribadite da G. Burzacchini in un articolo apparso durante la stampa di questo volume ('Corinniana', Eika&mos 2, 1991, pp. 39-90). Approdano sostanzialmente ad un non liquet D. L. Page, Corinna, London 1955 e M. Davies, Studi it.filol. 6, 1988, pp. 186-194. 2 Sull'inserimento di Corinna tra i monodici (vd. Diehl 12 4, p. 193 ss. , SchmidStihlin I l, p. 445 ss.) ha certamente pesato la perentoria affermazione di Wilamowitz nella sua edizione del papiro berlinese (cit. a n. 1): "Der Gegensatz Korinnas zu Pindar ist auch in dem VersmaB gewaltig: sie gehoren in verschiedene Sphiren. Ubrigens gibt es gar keinen Anhalt dafùr, daJ3sie fùr einen Chor gedichtet batte, und wenigstens von ihren fEPOIA wird man es nicht glauben. Sie singt den Tanagraerinnen selbst die alten Geschichten in heimischer Rede und heimischen Versen" (p. 47).

404

B. M. Palumbo Stracca

che senza dubbio riflette l'attuale tendenza a giudicare poco rilevante la canonica distinzione tra poesia monodica e poesia corale 3 , ma che in gran parte dipende proprio dalla collocazione 'ellenistica' di Corinna, voluta da Lobel4 • Infatti, per chi considera Corinna una poetessa pressappoco contemporanea di Callimaco, non sussiste ovviamente alcun problema di performance.Per chi, invece, ritiene Corinna una poetessa arcaica, non è di poco conto riflettere sulla destinazione e sul tipo di esecuzione dei suoi componimenti; ma sono ben note le difficoltà che da sempre si oppongono ad una corretta valutazione di tali problemi, giacché, se da una parte le testimonianze antiche, ponendo Corinna in stretto rapporto con Pindaro, ne evidenziano l'appartenenza allo stesso ambito professionale, non v'è dubbio che sul piano compositivo la distanza tra i due poeti appaia enorme. In particolare per Corinna si fa valere la struttura monostrofica, la metrica ripetitiva, la lingua sostanzialmente epicorica: tutti elementi che, nell'opinione vulgata, pertengono all'ambito monodico. Se, in aggiunta a tutto ciò, si segue l'approccio di Lobel e di Page, cui si deve una decisa svalutazione delle testimonianze antiche, il rapporto con Pindaro diviene evanescente, fino a scomparire del tutto. 2. Nell'ambito di tale problematica mi pare che qualche elemento significativo si possa trarre da una più attenta valutazione degli incipit corinniani, e in particolare del P. Oxy. 2370 (PMG 655), che ci ha

3

Il più recente tentativo in tale direzione si deve a M. Davies ('Monody, Choral Lyric, and the Tyranny ofthe Hand-book', Cla&s.Quart. n. s. 38, 1988, pp. 52-64). Il mio parere è che, pur tenendo nel debito conto i rischi di una eccessiva schematizzazione - è evidente che non esistono poeti esclusivamente monodici o esclusivamente corali -, non si possa liquidare la questione come irrilevante, o peggio, inesistente, in quanto la distinzione tra poesia monodica e poesia corale, o, se si vuole, tra poesia destinata ad un uditorio ristretto e poesia destinata ad un grande uditorio, corrisponde ad una reale differenza di luogo e di occasione, a cui corrisponde una reale differenza di tecnica compositiva. Vero è che le conclusioni a cui giunge Davies sono strettamente collegate alle sue convinzioni in merito alla monodicità di autori come Stesicoro, lbico, Alcmane, Pindaro (un approccio che personalmente non condivido); ma certo non si può negare che la nuova classificazione proposta dallo studioso ("gruppo occidentale" e "gruppo orientale") risponda a criteri puramente descrittivi, senza peraltro riuscire ad evitare i rischi della schematizzazione. 4 A tale proposito devo subito dichiarare che, a mio parere, non vi sono ragioni sufficienti per contestare la datazione alta tradizionale; anzi, una recente linea di ricerca di carattere archeologico ha sostanzialmente vanificato uno dei punti di forza della prospettiva lobeliana (vd. par. 6).

Corinna e il suo pubblico

405

tramandato con ogni verisimiglianza l'incipit del canne d'apertura nell'edizione antica. Che si tratti di un testo programmatico, composto da Corinna per fungere da proemio all'edizione dei suoi fEQOia, è stato sostenuto da M. L. West 5 ; e poiché un tale procedimento appare impensabile prima dell'età ellenistica, se ne traggono impegnative conclusioni in merito alla datazione di Corinna. Gli argomenti di West sono stati recentemente sottoposti a critica da M. Davies6, in maniera convincente, a mio parere. Per parte mia, desidero richiamare l'attenzione sulla presenza, nel componimento, di alcuni elementi, sia linguistici, sia concettuali, che trovano precisi riscontri nell'ambito della lirica cultuale e corale (vv. 1-5): bt( tJETEQ'\jlLX6Q« [ xw..à ftQOt' luooµ[évav TavayQ(bECJCJL AE[uxo1tÉ1tÀuç µtya l)' tµTjç yty[ailt 1t6>.Lç ÀLYOUQOXro[ t(j).u[ ç tvortTjç.

Come è noto, il papiro ha consentito di recuperare l'esatta forma del termine fEQOia7 , che la tradizione indiretta aveva banalizzato in YEQOia.Fatto ancora più importante, ha restituito l'esatto contesto ai vv. 2-5, che erano già noti attraverso Efestione (XVI, p. 56, 22 ss. Consbr. ). Ma forse non si è riflettuto abbastanza sulle conseguenze di questo recupero: se prima era accettabile l'immagine di Corinna che cantava antiche storie (o storie per vecchiette) per un uditorio femminile simile a quello della cerchia di Saffo, ora la menzione di Tersicore rende inevitabile pensare alla performancedi un coro8 • Non solo: che si tratti di un contesto ufficiale e cultuale, è provato dall'esplicito riferimento alla 1C6ÀLçche gioisce per il bel canto. Espressioni del genere

5

Art. cit. (a nota 1). Art. cit. (a nota 1). 7 Sul significato del termine vd. D. L. Clayman, 'The Meaning of Corinna's feQoia', Cuw.Quart. n. s. 28, 1978, p. 396 s. 8 Fa notare giustamente C. Gallavotti (Gnomon 29, 1957, p. 423) che non è opportuno supporre un'invocazione, perché la frase deve armonizzarsi con quella successiva espressa con ytyaitE; di qui la sua proposta di integrazione al v. 1 (RbEV). In tal caso l'incipit formalmente trova riscontro in più luoghi pindarici: Ol. III 4 88. Moioa 6' ou-tù>nm nciotata µm vEoolyaÀOVEVQ(W'tL TQ6nov / t\ù>Qhpcprovàv Dilla. 1125 s. Moio' àvtatao' 'Ella6L xa[A]~LXOQ MKQµoçaLm60,q, / iiyÀaoXEt!iformance è un dato costante nella lirica di destinazione ufficiale e cultuale. Nel seguito del carme, il pessimo stato del papiro non consente una valutazione precisa del testo; tuttavia riusciamo a cogliere anche qui elementi cospicui di 'poetica', applicata all'atto performativo. Relativamente alla serie di miti che Corinna cita al v. 8 ss., è stato già rilevato come siano frequenti in ambito lirico rassegne di reali o potenziali argomenti del canto 15 ; ma è soprattutto significativo in tale contesto l'uso del verbo xoo!A,Éw,che continua efficacemente la serie dei termini connessi con la sfera compositiva ed esecutiva. 3. Nella canonica edizione dei lirici di D. Page, la serie dei Boeotica incerti auctoris (PMG 690-695) si apre con il testo frammentario di un papiro (PSI 1174), che il primo editore, G. Coppola 16 , aveva decisamente attribuito a Corinna sulla base di precise concordanze nel dialet-

13

Escludendo l'ipotesi della prefazione editoriale, si dovrebbe pensare ad una sorta di preludio, affidato ad un solista (e perciò astrofico), ed eseguito prima che il coro dia inizio alla sua performance. Non mancano indizi in tal senso (sui 1tQ00(1,uain contesto corale vd. soprattutto H. Koller, 'Das kitharodische Prooimion', Philowgus 100, 1956, pp. 159-206 e da ultimo G. Comotti, 'L'anabolé e il ditirambo', Quad. Urb. n. s. 31 [60), 1989, pp. 107-117), ma si deve riconoscere che non disponiamo di riscontri significativi. 14 In ambito lirico X(l)'t(À.()çè epiteto della rondine (Anacr. PMG 453, Simon. PMG606; cfr. il termine beotico X(l)'tLMJçnella testimonianza di Strattis, fr. 47 K.), o dell'usignolo (Simon. PMG586), o della Musa in persona (Innoa Pan, PMG936, 4). Al termine pertengono i concetti della garrulità, della dolcezza, e della seduzione (anche con sfumatura negativa, vd. Hes. Op. 374 e Soph. Ant. 756). 15 Vd. M. Davies, art. cil. (a nota 1), p. 187. 16 Introduzione a Pindaro, Roma 1931, pp. 231-242.

B. M. Palurnbo Stracca

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to e nella grafia con il papiro berlinese. L'atteggiamento prudente adottato da Page riflette il punto di vista di Lobel, che nel pubblicare il P. Oxy. 2370 17 , aveva indicato come sicuramente corinniano, oltre al papiro in questione, solo il papiro berlinese, ed aveva invece escluso categoricamente la paternità di PSI 1174, adducendo soprattutto ragioni di ordine metrico: poiché nel papiro berlinese, in P. Oxy. 2370, e nelle citazioni indirette appaiono usati solo due tipi di versi, i gliconei e i dimetri ionici, tanto bastava al Lobel per escludere dalla produzione corinniana il testo di PSI 1174, il cui ritmo non è facilmente definibile, ma che non sembra presentare i versi in questione. In realtà le argomentazioni di Lobel appaiono troppo labili per essere cogenti 18 , e più valgono, a mio avviso, le numerose concordanze nella lingua e nella grafia con i testi sicuramente corinniani. Se di Corinna, il papiro appare di grande interesse, dal momento che ci restituisce un titolo (OPEl:TAl:) e un incipit. Riporto qui i vv. 8-12: OPEl:TAl: ]aç µtv Ò>XLQVOO À.utaa.[ ] i«QÒV K6QLVVa àvabouµÉVYJ tijç v(xJJc;htxa tcji yuµvao(q, YQOCJ>TI, ~ Il(vbaQOV*oµatL tv(XYJOEV tv 91\fkuç. cpa(vttm bt µoLVLX'!OOL tijç bLw.ÉX'tOU tE htxa, 6tL ~bEVo'Ò tfi q,wvfi tfi 41WQ(l>L E xall(oni tò Elooç, d n tfi dxovL bei ttxµa(Qeo6m. 27

Il mito di Oreste nella Pitica 11 di Pindaro Paola Angeli Bemardini

La Pitica 11 1 si apre con un attacco fastoso. Il tono è quello solen-

ne di una celebrazione cittadina; l'atmosfera quella ispirata di una cerimonia religiosa. Le eroine di Tebe, Apollo, la sacra Pito, la città dalle sette porte e infine Trasideo e la sua vittoria occupano per intero il proemio, che ha la struttura dell'inno e nello stesso tempo assolve la funzione informativa dell'epinicio. Sono invocate le protagoniste femminili della più antica storia tebana; è celebrato il potere di Apollo; sono rievocati il trionfo del giovane committente, il luogo nel quale esso è stato conseguito, i successi agonistici della famiglia. In altra sede ho cercato di dimostrare che tutto il proemio è calato in una realtà che nasce dall'occasione particolare della festa in onore di Trasideo 2 • Una realtà che si può tentare di ricostruire sulla base del testo pindarico e di altre fonti e che ha come teatro la città di Tebe, il tempio di Apollo Ismenio, il luogo di esecuzione dell'epinicio stesso. Naturalmente la ricostruzione delle varie fasi della cerimonia presuppone l'individuazione del ruolo che in essa riveste il giovane atleta festeggiato e della sequenza tra la performance dell'ode trionfale e quella dell'inno che le eroine sono invitate a intonare per celebrare la grandezza di Apollo. I dati emersi dall'indagine si possono così riassumere: tra i riti che si incentravano intorno al santuario di Apollo Ismenio uno dei più importanti era quello della daphnephoria. Esso prevedeva, tra l'altro, una processione in cui il protagonista principale era un ragazzo di nobile

1

Il testo e la traduzione della Pi.ti.ca11 sono citati secondo l'edizione di B. Gentili, in Pindaro. u Pi.ti.cM,a cura di B. G., Milano (Fondazione Lorenzo Valla), in cono di stampa. 2

Per una più ampia e approfondita discussione e per la bibliografia relativa ai problemi trattati si rinvia a P. Angeli Bemardini, 'Il proemio della Pi.ti.caXl di Pindaro e i culti tebani', in Boiolika. Vortrii.gevom 5. lntemationakn Bootien-Kolloquium zu Ehren von P,ef. Dr. S. Lauffer, Milnchen 1989, pp. 39-47.

P. Angeli Bemardini

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famiglia, bello e forte (daphnephoros),e contemplava l'esecuzione di un inno da parte di un coro di fanciulle che seguivano, durante il corteo, il giovanetto intonando canti di supplica. Ora, mentre le eroine chiamate dal dio a riunirsi nel tempio non sembrano altro che la proiezione mitica di queste ragazze tebane che leveranno il loro canto in onore di Apollo, del daphnephorose della sua famiglia, Trasideo, sicuramente al centro della prima parte dei festeggiamenti per la sua vittoria nei giochi Pitici, potrebbe anche essere identificato - al pari di altri giovani Tebani quali Agasicle (cfr. Parth. 2 = fr. 94b) o Daifanto, figlio dello stesso Pindaro (cfr. fr. 94c)- come il protagonista della seconda fase della cerimonia e quindi come il probabile destinatario del dafneforico3. Dunque una festa che si sviluppa in due momenti, ad ognuno dei quali è assegnato un canto in sintonia con la duplice occasione: la vittoria pitica e la daphnephoria4 • L'elemento che accomuna i due avvenimenti è la benevolenza di Apollo che ha protetto Trasideo a Delfi e che continua a favorire la città di Tebe. Come si vede, un proemio in cui la tematica è circoscritta ad eventi tebani, sia che riguardino il tempio del dio e la potente casta dei profeti che vi prestavano la loro attività mantica (cfr. v. 6 à>..aitro µavt(rov itooxov)5,sia che interessino l'influente famiglia del giovane corridore. Con la propria vittoria egli ha contribuito a tramandarne la 6 • In memoria ai posteri (cfr. vv. 13-14 fµvaaev !mtav ... ,ta.'tQ(fXIV) ogni caso, lo sfondo locale e l'atmosfera esultante sono i dati che caratterizzano l'inizio dell'ode. Non si tratta di suggestioni appena suggerite o di memorie appena evocate, secondo una tecnica tipicamente pindarica. Su di esse il poeta insiste per un'intera triade fino al momento in cui trova l'aggancio per la narrazione mitica: "egli (Trasideo) ha vinto nei

3

Sulla tipologia del partenio dafneforico fondamentale è il contributo di L Lehnus, 'Pindaro: il dafneforico per Agasicle (fr. 94b Sn.-M.)', Bull. but. Clau. Stud. London 31, 1984, pp. 61-92. 4 In tal senso anche C. O. Pavese, 'la decima e la undecima Pitica di Pindaro', in Studi triestini di antichità in onore di L. A. Stella, Trieste 1975, p. 246. 5 Cfr. l'apparato al v. 6 in Gentili, op. cit. a n. I; µavi(wv come in O. 8, 2 denota l'insieme dei profeti che hanno prestato e prestano la loro opera presso il santuario. Diverso avviso (µavtdov thi>xov) ho manifestato in art. cit. a n. 2, p. 41 n. 7. 6

"la terza corona" al v. 14 è quella che il giovane Trasideo aggiunge alle due già conquistate dal padre Pitonico: una ad Olimpia con la quadriga (vv. 46-47); l'altra, probabilmente sempre equestre, non si sa in quali giochi (vv. 47-48).

Il mito di Oreste nella Pitica 11 di Pindaro

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campi opulenti di Pilade, l'ospite del lacedemone Oreste" (vv. 15-16). A questo punto si pone il quesito più imbarazzante per l'interpretazione dell'ode: perché, dopo un proemio cosl strutturato, il poeta sceglie di raccontare il mito di Oreste? Perché introduce una narrazione dalle tinte fosche in cui tutti i protagonisti si macchiano di qualche colpa? E che cosa ha a che fare l'excursusmitico con la lode di Delfi e di Apollo, cosl altamente intonata nei versi iniziali, e soprattutto con la città di Tebe ove si svolgono la celebrazione in onore del vincitore e la festa in onore di Apollo? Si tratta veramente di una axaLQOç ,mebf\aaLç, cioè di una divagazione inopportuna, come la definiscono gli scoli, con un procedimento per altro non insolito 7 , oppure la scelta obbedisce a un criterio di opportunità, in qualche modo individuabile e decifrabile? Sono questi alcuni degli interrogativi ai quali cercheremo di dare qui una risposta. Il mito di Oreste sul piano formale viene introdotto al v. 15 mediante un "pretesto geografico", come è stato definito 8 , che poteva essere immediatamente ravvisato da parte dell'uditorio. Sul piano concettuale esso si lega al proemio e all'attualità - intesa in riferimento sia all'occasione agonistica e all'esecuzione dell'ode, sia alla situazione politica di Tebe - attraverso alcuni innegabili "elementi di richiamo" sui quali è stata via via fissata l'attenzione 9 • Quello della ;ev(a, la generosa ospitalità di Strofio nei confronti di Oreste, che rappresenta la 7

Cfr. Sclwl. Pyth. 11, 23b, p. 257 Dr. e ancora Schol. ad 58b, p. 260 Dr. (e cfr. ~(VELV ad 58a). In questo caso il giudizio degli scoli va valutato con cautela non solo perché il rilievo ha il sapore di una "blosse Paraphrase des Abbruchaatzes" (cosl G. W. Most, 'Des verschieden Gesinnten Sinnesverbindung: zur poetischen Einheit der Alten', in Einheil als Gnuullage der PhU03oplue, Darmstadt 1985, p. 17), ma anche perché esso si ripete pressoché analogo, dopo le digressioni mitiche, in altri epinici (cfr. ad es. Schol. Pyth. IO, 46b, p. 245 Dr. idoyq> ff..Poçdelle grandi famiglie che provoca come conseguenza lo q,itovoç che si scaglia contro chi ha successo 11 ;_ quello della polemica contro gli eccessi della tirannide 12 ; quello della devozione filiale verso il padre, di cui sono esempio Oreste nel mito e Trasideo nell'attualità 13 , e via dicendo. Ognuna di queste "thematic connexions" ha una sua validità, ma è insufficiente a spiegare di per sé la funzione della digressione mitica sugli Atridi. La mia idea è che sostanzialmente Pindaro, mediante il lungo racconto, abbia voluto impartire un insegnamento al giovane Trasideo e dargli al tempo stesso un avvertimento non nuovo e suggerito dalle circostanze: il ruolo primario che egli ha nella grande festa tebana in onore di Apollo, la prestigiosa vittoria ai giochi Pitici, il momento di celebrità che gliene deriva non debbono fargli dimenticare che il successo comporta ~vi rischi e, primo fra tutti, quello dell'invidia e della maldicenza. t il solito ammonimento che si accompagna all'esaltazione della vittoria atletica: un evento straordinario per ogni concorrente, ma ancor più straordinario quando questi è in giovane età. Il trionfo va gestito con moderazione e quiete, senza eccessi, senza insolenza, senza soverchia superbia, vuol dire il poeta al ragazzo, come ben si evince dai vv.

54-58: sono puniti gli invidiosi dal loro stesso accecamento se un uomo, raggiunta la cima e vivendo nella quiete, s'astiene dalla terribile insolenza e trova della nera morte una fine più bella, lasciando alla dolcissima stirpe il più grande dei beni, la grazia di un buon nome 14• 194-196, oppure R. B. Egan, 'On the Relevance of Orestes in Pindar's Eleventh Pythian', Phoenù: 37, 1983, pp. 189-200. 1 Cosl W. J. Slater, 'Pindar's Myths: Two Pragmatic Explanations', in Arktou"°'·Helknic Studia Pre&entedto B. M. W. KTIO%.Berlin-New York 1979. pp. 63-68. 11 Cfr. J. Péron, 'Le thème du cp66vo; dans la Xle Pythique de Pindare (vv. 29-30; vv. 55-56)', Rev. it. anc. 78-79, 1976-77, pp. 65-83. 12 Cfr. B. Gentili, op. cil. a n. 9. 13 Cosl S. J. lnstone, 'Pythian 11: Did Pindar Err'!', Clm&. Quart. n. s. 36, 1986, pp. 86-94. 14 Per i problemi relativi alla sistemazione del testo di questo tormentato passo si rinvia all'apparato in B. Gentili, op. cil. a n. I.

°

Il mito di Oreste nella Pitica 11 di Pindaro

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Si tratta di un passo chiave nell'economia del canne la cui importanza è stata in genere sottovalutata perché l'attenzione si è di preferenza polarizzata sull'interpretazione dei versi che immediatamente precedono, nei quali Pindaro manifesta una convinzione che sembra essere di natura più propriamente politica. Chi conosce la prassi celebrativa che nella Grecia antica faceva seguito alla vittoria sportiva sa che l'esortazione a non insuperbire e a rifuggire da ogni esagerazione dopo un simile evento non è fuori luogo. Ancora una volta la conoscenza della realtà agonistica nella quale si calava un atleta vittorioso in grandi giochi come gli Olimpici o i Pitici può aiutarci a capire. Ma perché proprio l'esempio degli Atridi per dimostrare la validità di questo inse~amento? Molti altri miti avrebbero potuto SUIQl:erirea] poeta casi paradigmatici di ÒÀ.fx}ç che ha portato a conseguenze più o meno tragiche. Anche la figura di Oreste rappresenta di per sé un modello di comportamento discutibile, per quanto io non creda affatto che egli sia proposto - in un tutt'uno con la sua famiglia - come contrarium paradeigma,15• Si potrebbero allora ritenere validi i motivi di ordine biografico/ politico (i propositi antitirannici subito dopo l'esperienza siciliana di Pindaro) addotti da Schroeder 16, Wilamowitz 17, Méautis 18, per giustificare un racconto che muove proprio dal tema della dismisura dei tiranni. Oppure, tanto per ricordare un'ipotesi formulata più di recente, potrebbe trattarsi di una conseguenza dell'ammirazione di Pindaro nei confronti del grande poeta tragico Eschilo. Come ritiene J. Herington, che concorda con la composizione della Pitica 11 nel 454, Pindaro sarebbe infatti rimasto cosi colpito dalla rappresentazione dell'Orestea nel 458 da riproporne quattro anni dopo in un'ode lo stesso chiaro che queste interpretazioni, accentuando la tragico mito 19• spinta personalistica e biografica nella scelta da parte del poeta del mito, sottovalutano il carattere pubblico e celebrativo dell'epinicio. In

t

15

D. C. Young, op. cit. a n. 9, p. 19 ss. ha riproposto l'idea che risale agli interpreti del secolo scorso (cfr. L. Dissen, Pindari Carmina quae supersunl, Gotha a. Erford 18.30, p. 348). 16 Cfr. O. Schroeder, Pindars Pythien erldart, Leipzig u. Berlin 1922, p. 106. 17 U. von Wilamowitz-Moellendorff, Pindaros, Berlin 1922, p. 263. 18 Op. cit. a n. 8, p. 267. 19 J. Herington, 'Pindar's Eleventh Pythian Ode and Aeschylus' Agamemnon', in GreekPoetry anJ Philosophy. Studi.esin Honour of L. Woodbury,ed. by D. E. Gerber, Chico Ca. 1984, pp. 137-146.

P. Angeli Bernardini

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particolare nel nostro caso non tengono conto dell'atmosfera cosl solenne e cosi tipicamente tebana della festa che, come abbiamo visto, ha per protagonista Trasideo. È proprio l'occasione dei festeggiamenti per la sua vittoria, connessi con la daphnephoria in onore di Apollo, che può, invece, offrire una spiegazione per illustrare la "relevance" del mito di Oreste in questo particolare contesto. Bisogna innanzitutto tener conto della connessione dell'eroe con la Beozia e della possibile presenza di un suo culto in questa regione. Il suggerimento risale a C. M. Bowra che in un articolo del 1936, alla luce del fr. 690 P. ('OQÉo-taç)attribuito a Corinna, proponeva di interpretare l'introduzione del racconto relativo a Oreste nella Pitica 11 come legata alla presenza dell'eroe nella mitologia locale ed anche alla solennità religiosa in corso 20 • La ricostruzione del Bowra, pur lasciando aperti nell'insieme non pochi interrogativi, soprattutto a proposito della datazione dell'epinicio e della circostanza per la quale quest'ultimo e il carme di Corinna sarebbero stati composti 21 , mette tuttavia in luce un elemento che risulta rilevante ai fini dell'interpretazione del mito, cioè il legarne di Oreste con Tebe e l'ambiente beotico. La testimonianza del carme di Corinna, o di chi per lei 22 , prova che in ambiente tebano Oreste aveva una posizione di rilievo nel pantheon eroico, cosi come l'aveva ad esempio lolao al quale la poetessa aveva dedicato un poema (cfr. fr. 661 P.) e che Pindaro onora quasi come un Eracle minore, in particolare nelle odi tebane 23 • Una posizione di rilievo che avevano anche le eroine, come sembra ricavarsi dal fr. 664 P. di Corinna e dai versi iniziali della nostra ode. Sulla presenza di Oreste nella Beozia, la testimonianza più impor-

20

C. M. Bowra, 'Pindar, Pythian Xl', Class. Quart. 30, 1936, pp. 129-141. U Bowrapreferisce la datazione del 454 e ritiene che l'Orestedi Corinna e la Pitica 11 possano essere stati destinati ad una stessa cerimonia notturna e primaverile in onore di Apollo a Tebe. Ma i dati ricavabili dal frammento di Corinna non consentono alcuna sicurezza in questo senso. 22 La connessione di Oreste con Tebe, per la quale il frammento di carme beotico, sia esso di Corinna o di autore anonimo, è testimonianza importante, è stata riproposta con buoni argomenti e con il supporto di altre testimonianze da R. B. Egan, art. cii. a n. 9. 23 Sull'argomento cfr. P. Angeli Bemardini, 'lolao in Pindaro: un Eracle minore?', Teiruias Suppi. 3, Montreal 1990, pp. 119-123. 21

Il mito di Oreste nella Pilica 11 di Pindaro

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tante è, comunque, quella fornita da Pindaro stesso in N. 11, 33-37 in cui l'eroe è presentato come il capo della spedizione di Peloponnesiaci e di Eoli mossasi da Amide, a sud di Sparta, e poi salpata da Aulis verso le coste dell'Asia Minore dopo una sosta presso le rive dell'lsmeno, conformemente ad una tradizione presente nel primo libro degli Aeolica di Ellanico (FGrHist4 F 32). Dopo alcune ricerche sulla complessa questione delle fonti relative al ruolo di Oreste come capo della spedizione di Eoli verso la costa settentrionale dell'Asia Minore e come ecista in pectoredi una colonia a Lesbo, sono giunta alla conclusione che il riconoscimento di una matrice peloponnesiaca della colonizzazione eolica guidata da Oreste e di una progressiva aggiunta di f6vrtdiversi, tra i quali quello beotico occupa un posto di rilievo, sembra diffuso nella cultura tebana già dalla prima metà del V sec. a.C. 24 • Una tradizione che troverà riscontro in fonti più tarde che concordemente insistono sulla natura "composita" e "varia" del gruppo guidato da Oreste e dagli Orestidi, sia sotto il profilo etnico-geografico25 , sia sotto quello linguistico26 • In questo contesto esse assegnano ai Beoti una collocazione abbastanza definita e individuano nei diversi discendenti di Oreste (ol •oetatou xaibeç) gli esecutori dell'impresa progettata dall'eroe. Non è possibile dire se questa tradizione relativa ad Oreste, ai suoi compagni ed alla partecipazione dei Tebani, di cui Pindaro è il primo testimone, risalisse ad un'epoca precedente; ma è facile pensare che il poeta, che nella Nemea 11 si riferisce alla genealogia del committente, uomo importante ed influente nella vita politica di Tenedo, raccogliesse voci preesistenti e notizie già circolanti. Per un quadro più dettagliato della spedizione di Oreste, che si realizza - è bene ricordarlo - col favore dell'oracolo delfico, rinvio comunque a quanto da me già scritto. Qui interessa ribadire che nella carriera mitica di Oreste è contemplata sia la presenza della Beozia, sia quella di Delfi. Nella Pitica 11 è esplicitata anche la provenienza spartana delZI Cfr. P. Angeli Bemanlini, 'Oreste, gli Orestidi e il ruolo della Beozia nella migrazione eolica', in 6. lnkmali.onal Boeotian Conference (Bradford, 26-30 June 1989), in cono di stampa. 25 Menecl. Bare. FC,Hist 270 F 10; Schol. Lycophr. 1374, pp. 379-380 Scheer; Eust. ad Dion. Per. 820 in K. Milller, Ceogr. Cr. Min. II, p. 361. 26 Lycophr. Ala. 1377; Schol. Dem. ad Dion. Per. 820 in K. Miiller, Ceogr. Cr. Min. Il, p. 4.54 e cfr. in proposito F. C8880la, La Ionia nel mondo miceneo, Napoli 1957, p. 361.

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l'eroe. Pindaro, definendo al v. 16 Oreste come "lacedemone" e poi collocando al v. 32 la reggia di Agamennone nella città di Amicle, non segue la tradizione dei poemi omerici e della tragedia che assegnano la residenza di Agamennone ora a Micene27 , ora ad Argo211, ma si rifà ad una versione dorico/ laconica attestata da Stesicoro (fr. 216 P.) e da Simonide (fr. 549 P.). L'Orestea di Stesicoro rappresenta un capitolo importante nella trattazione di questo mito e i suoi rapporti con la Pi.tica 11 aprono una prospettiva nuova anche nel problema più generale delle fonti mitografiche di Pindaro 29 • Per quanto riguarda la 'spartanità' della saga degli Atridi, Pindaro sembra seguire la versione dorico/ lacedemone. La testimonianza di Erodoto (7, 159) che fa di Agamennone il re di Sparta dimostra che ali' epoca di Pindaro la tradizione spartana si era ormai affermata accanto a quella argivo/ micenea 30 • Né è da escludere che questa acquisizione da parte di Sparta di glorie di Micene e di Argo fosse già avvenuta intorno alla prima metà del VI sec. quando Stesicoro compose i suoi carmi. Probabilmente questo è imputabile a ragioni di egemonia politica 31 • Ma tornando ad Oreste, se egli, come abbiamo visto, aveva una sua collocazione tra gli eroi onorati in Beozia e se nell'economia dell'ode egli ripropone a livello mitico il tema del triplice legame tra Tebe, la patria del laudandus, Sparta e Delfi, non può essere presentato al committente, alla sua famiglia e all'uditorio come un esempio negativo. Nell'insieme del racconto mitico sono piuttosto da distinguere due nuclei narrativi: da una parte la sciagurata vicenda della famiglia degli Atridi in cui ognuno ha una sua grave responsabilità (Clitemestra prima fra tutti; Egisto; ma anche Agamennone) e in cui la dismisura e l'insolenza portano alla rovina i protagonisti e all'ignominia i loro discendenti; dall'altra la vicenda di Oreste, prima vittima innocente del M>..oçbuo:rtEVfntç (v. 18) e poi vendicatore, grazie all'appoggio di Stro-

27

Ad es. Il. 2, 569; Od. 3, 304; Sofocle nell'Ekura. Ad es. Il. l, 30; Eschilo nell'Ore.,tea; Euripide nell'Oreste e nell'EleUra. 29 Cfr. A. J. N. W. Prag, The Ore.,teia./corwgraphic and Narrative Tradition, Wanninster 1985; A. Neschke, 'L'Orestie de Stesichore et la tradition littéraire du mythe des Atrides avant Eschyle', Antiquiti class. 55, 1986, pp. 283-301. 30 In tal senso C. Calame, 'Spartan Genealogies: the Mythological Representation of a Spatial Organisation', in J. Bremmer (ed.), lnterprt:talioruof GreekMythology, London 1987, p. 177. 31 Cosl M. L. West, The HesiodicCalalogue of Women, Oxford 1985, p. 132. 28

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fio, re della Focide, dei misfatti della madre e di Egisto. Oreste impersona l'esempio del triste destino che spetta ai figli di coloro che non sanno vivere nel giusto mezzo ('tà µéoa v. 52) e che non sanno sfruttare il successo con calma e tranquillità (TIO'UXçt v. 56). I vv. 54-58, sui quali abbiamo già richiamato l'attenzione, commentano questi due aspetti del mito degli Atridi e in un certo senso indicano come esso debba essere letto: delineano - chiaramente approvandolo - il comportamento che è l'esatto opposto di quello tenuto dagli Atridi, cioè il comportamento di chi, raggiunto il successo, si astiene dalla hybris e lascia ai figli il più grande dei beni, vale a dire un nome di cui andare fiero. Oreste, certo, non ha potuto godere di questa grazia (eùrovuµovXClQLVv. 58), essendo il rampollo di un genos dominato dalla tracotanza e dalla dismisura e figlio di una donna d'alto rango che, con la sua condotta scandalosa, ha provocato la maldicenza dei cittadini. I vv. 26-30: È per le giovani spose la colpa più odiosa, impossibile occultarla a lingue altrui; i cittadini sparlano. Ha pari invidia la prosperità; chi ha il fiato umile rumoreggia nell'ombra32 ,

mediante l'insistenza sulla cattiva fama di Clitemestra e più in generale su quella di coloro che usano male il potere, anticipano le riflessioni conclusive che il mito suggerisce al poeta: ogni eccesso - ivi compresi quelli impliciti nella tirannide - priva l'uomo della possibilità di lasciae l'eù&>;(a. re ai propri figli l'E'ÙCJ)Tlµ(a Che l'Orestea di Stesicoro abbia rappresentato un modello per la

32

L'interpretazione del v. 30 è controversa: per il senso di 6 bè X«l'tJÀàKVtoYv come "colui che vive terra terra", cioè "l'uomo semplice, il povero", cfr. D. E. Gerber, •Pindar, Pythi.an 11, 30', Gr. Rom. Byz. Stud. 24, 198.1, pp. 21-26; per J3eiµELil Gerber giustamente sottolinea che il verbo implica "un rumore alto, un suono forte"; per l'espressione licpavtov f:'et!IEL è illuminante il confronto con Aesch. Ag. 1030 ~KÒ C71CO'C

çdel v. 29 è lo stato di prosperità di Clitemestra e di Egisto 34 e più genericamente contrappone coloro che ne godono a quanti sono invece di umile condizione. Anche se rumoreggiano, questi ultimi rimangono nell'ombra e non provocano invidia. L'incontinenza, quando riguarda il potente, suscita invece lo ,i,6yoç dei cittadini. Questo impedisce di lasciare ai propri figli un buon nome. In conformità con tale certezza, l'empio atto conclusivo commesso da Oreste è presentato sl come la giusta vendetta per l'888888inio di Agamennone, ma anche come la legittima rivalsa per il grave torto subito quando egli era ancora in tenera età e per la sofferenza a lui imposta dalla condotta della madre, palesemente sfrontata. Un atto che si compie con il diretto aiuto di Ares (v. 36). Anche il legame tra Oreste e Delfi, e quindi tra l'eroe e Apollo, è più volte ribadito, anche se implicitamente, nel corso dell'ode. È vero che nell'Orestea di Stesicoro il favore di Apollo è più diretto e si manifesta nell'atto concreto del dono divino a Oreste dell'arco con il quale egli avrà la meglio sull'Erinni della madre (fr. 217, 22-24 P.), ma anche nella narrazione pindarica si possono individuare alcune spie della presenza del dio 35 • Il riferimento al Parnaso ai piedi del quale Oreste viene accolto da Strofio (v. 35), cosi come la duplice menzione del tragico destino di Cassandra (vv. 20 e 33), che non a caso è chiamata µavnç XOQ sottolinea la durata del soggiorno), anticipando il verso in cui viene rievocata l'uccisione della madre e di Egisto, si configura come un'attenuante dell'azione delittuosa. E nonostante ciò, esiterei a cercare analogie troppo strette fra Oreste e Trasideo; analogie decisamente artificiose e non saprei fino a che punto avvertibili dal committente e dall'uditorio. Ad esempio l'improbabile associazione delle qualità atletiche dei due 37 , o l'essere stati 36 37

B. Gentili, op. cit. a n. 9, pp. 195-196. Cfr. R. B. Egan,art. cit. a n. 9, p. 199.

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ambedue "ospiti" a Delfi e da Il essere tornati ognuno alla propria patria a rendere onore al padre 38 ; o, infine, la vittoria conquistata come terza da Trasideo dopo quella del padre e del nonno, paragonata all'atto delittuoso di Oreste, terzo anello della catena di omicidi perpetrati in seno alla sua famiglia39 • Ciò che vale per il giovane Trasideo non sono tanto questi paralleli, più o meno discutibili, quanto la lezione finale che emerge dal mito e che viene esplicitata in forma assiomatica nella serie di dichiarazioni che il poeta fa nella parte conclusiva dell'ode perché servano al giovane di insegnamento (vv. SOa-58). La validità della lezione di cui Pindaro si fa portavoce trova la conferma più éclatante nella sorte di lolao e in quella di Castore e Polluce che sono rievocate dal poeta a riprova e a conclusione di quanto viene via via affermato. Se un esempio mitico deve essere indicato al giovane vincitore, esso è quello impersonato da questi tre eroi che rappresentano l'esatto opposto del comportamento di Agamennone, Clitemestra ed Egisto. La critica ha in genere prestato poca attenzione al ruolo che giocano nell'ode questi personaggi40 , ma nell'economia del carme essi assolvono un compito preciso: dimostrare che colui che ha raggiunto il successo e sa bene amministrarlo conquista e lascia dietro di sé una buona reputazione: cosa che non hanno fatto i protagonisti del mito narrato. L'accostamento di lolao a Castore e a Polluce non è insolito in Pindaro 41 , né è qui casuale. A conclusione del discorso portato avanti dal poeta esso delinea, mediante una serie di corrispondenze ravvisabili nel destino dei tre personaggi, un modello di comportamento per Trasideo e per tutti i giovani Tebani. Si consideri il sistema di analogie che vede da un lato l'eroe tebano, dall'altro i due fratelli spartani. lolao, figlio di lficle, nipote e leale compagno di Eracle, pur essendo inferiore a lui per forza e bravura, gli fu sempre fedele e non si macchiò mai di hybru nei suoi confronti. La tradizione lo dipinge, anzi, come esempio di generosa dedizione 42 e Pindaro stesso rievoca l'assassinio di 38

Cfr. D. C. Young, op. cit. a n. 9, p. 20; G. W. Most, art. cit. a n. 7, pp.

24-25. 39

40

Cosi A. Neschke, art. cit. a n. 29, pp. 292-293.

Qualche utile ouervazione si troverà in D. C. Young, op. cit. a n. 9, p. 22. Del tutto cunorie, ad esempio, le annotazioni in S. J. lnstone, art. cit. a n. 13, p. 94 o in F. S. Newman, art. cil. a n. 9, p. 61. 41 Cfr. /. I, 15 sa.; 5, 32-33. 42 Cfr. ad es. Plut. Amator. 17 (761 D-E) e Defral. am. 21 (492 C).

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Euristeo da lui compiuto in difesa degli Eraclidi (P. 9, 79-83)43 • Egli impersona, dunque, l'eroe che, avendo raggiunto il successo, sa cone gode di una buona reputazione accontentandosi di servarlo 1'aux(i essere secondo rispetto ad Eracle e lottando in difesa della stirpe che da lui discende 44 • Castore e Polluce sono figli di Leda e hanno come padre l'uno Tindaro, l'altro Zeus. Essi sono quindi fratelli di Clitemestra e di Elena, ma a queste si contrappongono per la condotta di vita e per il rifiuto della dismisura e della hybris. Secondo la versione pindarica (N. 10, 15 ss.), essendo il primo mortale e l'altro immortale, per generosa scelta di Polluce, dopo la morte di Castore, abitavano alternativamente un giorno insieme nella tomba a Terapne e un giorno insieme nell'Olimpo. Il secondo elemento che accomuna Iolao ai Dioscuri è rappresentato dalle loro eccezionali qualità atletiche. lolao fu non solo abile auriga dello zio, ma conquistò grande fama negli agoni equestri (/. 1, 17; 5, 32; 7, 9) e anche in altre gare che in /. 1, 17 ss. vengono ricordate in dettaglio (corsa semplice, corsa in armi, giavellotto, disco). A Tebe, inoltre, presso il suo heroon aveva luogo la festa agonistica degli Heraldeia o lolaeia, più volte ricordata da Pindaro. Questo rapporto con i giochi, unitamente alle qualità guerriere, fanno di Iolao un paradigma eroico anche per Telesicrate, vincitore nella corsa in armi, nella Pitica 9, 79 ss. Anche i Dioscuri secondo la tradizione furono grandi atleti: Castore viene per lo più presentato come auriga e Polluce come pugile45 • Proprio da Eracle è loro affidato l'incarico di sovrintendere allo svolgimento dei giochi Olimpici, come si ricava da O. 3, 35-3a46. Castore e Iolao vengono, del resto, proposti come esempi di valentia agonistica anche a Erodoto di Tebe, vincitore col carro in/. 1, 14 ss. Quanto alla pertinenza per cosl dire geografica dell'accostamento tra Iolao e i Dioscuri, se il primo vanta a Tebe una collocazione anti-

43

Per l'interpretazione del passo e per la caratterizzazione che in esso ha lolao cfr. L L Nash, 'The Theban Myth at Pyth.ian 9, 79-103', Quad. Urb. n. s. 11 (40), 1982, pp. 77-99. 44 Questa natura di eroe che lotta in difesa del proprio ytvoç sarà poi messa in luce da Euripide negli Eraclidi (cfr. ad es. vv. 6 u. e 26-30). Il nucleo più antico della leggenda degli Eraclidi risale probabilmente a tradizioni beotiche. 45 Ma in O. 3, 39 aono ambedue definiti rofm1:wv ... Tuvba{>Lbav. 46 Cfr. anche N. IO, 52.

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chissima, forse precedente a quella stessa di Eracle 47 , i secondi sono divinità tutelari di Sparta, ma godono anche a Tebe e in Beozia di particolare favore48 • Direi che nel loro insieme essi ripropongono a livello mitico, più che a livello ideologico o politico49 , quel legame tra Tebe, patria di Trasideo, e Sparta, patria di Oreste, messo in luce all'inizio dell'ode. cioè come eroi da onorare e celebrare da parte dei Come "l''YTJ'tOL, tòvta al v. 61), e come eroi che sentono la forza del poeti (cfr. "l''YTJ'tÒV legame del yévoç, lolao, Castore e Polluce si oppongono, dunque, agli insolenti e ai tracotanti che non lasciano una E'Ùoovuµ.ov X«Qt.V. Non è un caso che sotto questa stessa luce essi siano presentati dal poeta anche in /. 5, 26 ss. insieme agli Eraclidi, eroi-guerrieri che "offrono lavoro ai poeti", e insieme ad altri eroi destinatari di un culto nelle varie città, e che in /. 1, 16 il poeta faccia proprio allusione a un inno per Castore o ad un inno per lolao al quale vuole associare l'ode per il vincitore Erodoto. t dalla condotta di vita di Iolao e dei Dioscuri che Trasideo può trarre il migliore insegnamento.

47

A. Schachter, Culu of Boiotia2. Heraldu toPoseidon (Bull. lnst. Cuus. Stud. Suppl. 38, 2), London 1986, pp. 64-65. 48 Id., Culu aamv, si deve far risalire non ad lppostrato, storico del lii sec. a.C., menzionato poco prima (I 63, 4 Dr. FGrHi.8t568 F 3; vedi il commento di Jacoby ad loc .), ma a Timeo, citato nello scolio 2, 15a, rispetto al quale il passo presenta una perfetta analogia di contenuto e struttura.

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Concordano con i due passi gli scolii a Ol. 2, 16c e 2, 70f, nei quali la tappa a Gela da parte degli avi di Terone, anche se non esplicitamente negata, è comunque taciuta: essi sarebbero pervenuti da Atene a Rodi insieme con alcuni Argivi e di là i loro successori, dopo qualche generazione, si sarebbero recati ad Agrigento 7 • Infine lo scolio a Ol. 2, 15b fa giungere gli antenati di Terone ad Agrigento direttamente da Rodi 8 • Queste testimonianze non possono non richiamare alla mente il ruolo che, al contrario, la tradizione antica assegnava proprio a Gela nella storia delle origini di Agrigento. Dalla famosa pagina di Tucidide (6, 4, 3-4) sulla archaeologia della Sicilia greca si apprende che Antifemo di Rodi ed Entimo di Creta colonizzarono Gela nel 45° anno dopo la fondazione di Siracusa, cioè nel 688 a. C. 9 , e che a loro volta i Gelo i, guidati da Aristonoo e Pistilo, fondarono Agrigento 108 anni più tardi, nel 580 a.C. 10 • L'origine di Agrigento da Gela, attestata in seguito da Strahone e dallo Pseudo-Scimno 11, è ricordata anche dagli scolii all'O-

7

Snelle Maehler, in apparato al fr. 118, propongono la derivazione di questi due scolii da Timeo, loc. cit. a n. 1, con il quale hanno in comune le stesse notizie riguardanti l'itinerario degli Emmenidi. Come risulta dall'edizione di Drachmann, E. Horn (De Aristarchi studii.sPin.darici.s,Diss. Gryphiswaldiae 1883) aveva già formulato, all'inizio dello scolio 2, 70f, l'integrazione A(6uµoç 1t«QatdtéµEVoç tà TLµa(ou CJITIO(V.

Gli scolii 2, 15a, 2, 15d, 2, 16c e 2, 70f costituirebbero dunque un blocco di testimonianze caratterizzate da una certa uniformità di struttura e di contenuto, presumibilmente tutte di paternità timaica, e tutte attestanti la provenienza rodia degli Emmenidi. 8 I 62, 11-14 Dr. Cfr. p. 431 s. 9 Vedi anche 7, 57, 6; 7, 57, 9, Diod. 8, 23 e Sclwl. Pind. Ol. 2, 70g (I 79, 5-7 Dr.). Ai Rodii e ai Cretesi si sarebbero aggiunti alcuni Peloponnesiaci secondo Artemone, FGrHi.st569 F 1 ap. Sclwl. Pind. Ol. 2, 16b (I 64, 3-8 Dr.). 10 Questa data trova riscontro nel v. 91 ss. dell'Ol. 2 di Pindaro, negli scolii a Ol. 2, 166 (I 101, 17-18 Dr.), 2, 168 (I 101, 25-26 Dr.) e anche nei documenti archeologici, che nelle località comprese tra Gela ed Agrigento rivelano un processo di ellenizzazione condotto da Gela verso occidente, che ebbe come naturale conseguenza la fondazione di Agrigento nei primi decenni del VI sec. (cfr. E. De Miro, 'La fondazione di Agrigento e l'ellenizzazione del territorio fra il Salso e il Platani', Kokalos 8, 1962, pp. 122-152). 11 Rispettivamente 6, 2, 5, 272 (dove si accetta comunemente la correzione di Kramer 'AxQOYaç 6È rdq>wv o~oa al posto delle improbabili lezioni dei codici ÀÉ'yw lwvovoa e 'lOYOVOL degli Agrigentini 12• Risulta evidente, in queste fonti, il diverso atteggiamento nel delineare il rapporto di Agrigento e degli Emmenidi con Gela, assolutizzato da una vera e propria filiazione in un caso e nell'altro, invece, negato e prevaricato da uno stretto legame con Rodi. Non si può, tuttavia, parlare di contradditorietà tra le diverse testimonianze, in quanto le une riguardano propriamente la fondazione di Agrigento, le altre l'arrivo degli avi di Terone in Sicilia. La tradizione, in effetti, non sembra conservare un chiaro ricordo degli Emmenidi come colonizzatori, nonostante riconosca loro un ruolo di primo piano nella storia antica di Agrigento, a cominciare dal rovesciamento di Falaride -divenuto tiranno all'incirca a un decennio di distanza dalla fondazione della città- ad opera di Emmenes nonno di Terone o di Telemaco bisavolo di Terone 13 • Pindaro stesso non si riferisce mai a loro come a dei fondatori, neppure quando il contesto lo avrebbe permesso, come al v. 9 dell'Olimpica 2 o al v. 3 dell'encomio, dove in relazione allo stanziamento in Sicilia sono usate le espressioni "occuparono la sacra dimora del fiume" e "abitano l'alta città", che nel loro significato generico non è possibile riferire con sicurezza a fenomeni di colonizzazione. Maggiormente problematici, nel complesso di testimonianze sulla storia degli Emmenidi, risultano due scolii all'Olimpica 2. Il primo passo (Schol. ad Ol. 2, 15c, I 62, 16-17 Dr.) riferisce che essi sarebbero giunti a Gela (al seguito di Antifemo ed Entimo?) e poi di là ad Agrigento: una testimonianza che - è bene sottolinearlo -, oltre a sottintendere forse una partecipazione degli avi di Terone alla fondazione di Gela, includeva la città nel loro itinerario, documentando l'esistenza di una tradizione diversa, sebbene meno privilegiata e meno diffusa, rispetto a quella che legava gli Emmenidi esclusivamente a Rodi e ad Agrigento. Non credo che esistano validi motivi per gettare discredito sullo scolio 2, 15c, ritenendolo solo frutto di un errore interpretativo degli antichi commentatori 14 : un interessante riscontro è paradossal-

12

Scholl. ad Ol. 2, 15a, 162, 6 Dr.(= Tim. loc. cit. a n. I); 2, 16b, 163, 19-20 Dr.(= Artemon loc. cit. a n. 9); 2, 15d, 163, 5 s. Dr.(= Hippostrat. loc. cit. a n. 6). 13 Scholl. Pind. Ol. 3, 68a (I 124, 4 ss. Dr.); 3, 68b (I 124, 9 ss. Dr.). Cfr. Van Compernolle, op. cit. pp. 374-377. 14 Per Van Compernolle, op. cit. pp. 378-380, la tradizione degli Emmenidi a Gela sarebbe il risultato dell'interpretazione erronea dei vv. 8-10 dell'Olimpica 2 da

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mente offerto proprio dagli scolii 2, 15d e 2, 15a (vedi p. 428), che negano la notizia data dallo scolio 2, 15c. La struttura stessa delle frasi nei due scolii, con la forte opposizione fra i loro elementi (oùMÀù>çdç fflVrÉÀav . . . àll' rlrfroç dç 'tTIV 'AxQOyavta; oùx futÀ.roçdç fflV r&v ... àllà. rlrfroç lutò 'P6&>v Elç "CTl'V 'AxQayavta), non può che implicare un concreto riferimento a due tradizioni effettivamente esistenti e contrapposte, delle quali l'una, accolta nello scolio 2, 15c, faceva giungere gli Emmenidi a Gela, l'altra, preferita da Pindaro e poi attestata da Timeo, direttamente ad Agrigento. Da parte sua, anche lo scolio 2, 15c sembra testimoniare, esattamente come gli scolii 2, 15d e 2, 15a, entrambe le versioni: dopo aver affermato che gli Emmenidi giunsero prima a Gela e poi ad Agrigento, esclude un'allusione alla fondazione di Agrigento in Olimpi.ca 2, 8, presupponendo forse proprio l'esistenza, in questo caso negata, di una tradizione che faceva degli avi di Terone i colonizzatori della città. Il secondo passo (Schol. ad Ol. 2, 15b, I 62, 11 ss. Dr.) si presenta come una versione abbreviata e un po' confusa delle vicende narrate negli scolii a Ol. 2, 16c e 2, 70f. Omessa tutta la prima parte della storia, e quindi trascurata anche la discendenza cadmea, che pure aveva costituito un elemento rilevante nella propaganda emmenide, gli antenati di Terone sono indicati come originari i di Rodi ('P60LOL... 6vteç avooitev): a causa di una rivolta interna al loro ytvoç, essi si trasferirono in Sicilia dove, dopo aver combattuto contro i barbari, cioè gli indigeni dell'isola, "fondarono la città" 15 • Che si alluda ad Agrigen-

parte di Artemone di Pergamo (loc. cit. a n. 9 = Schol. ad Ol. 2, 16b, I 6.3-64 Dr.), autore vissuto all'incirca alla metà del II sec. a.C., che aveva identificato la "sacra dimora del fiume" alla quale pervennero gli avi di Terone con la città di Gela, anziché con Agrigento, come avevano invece inteso altri commentatori, quali Aristarco (ap. Schol. ad Ol. 2, 16a, I 6.3, 14-17 Dr.) e Menecrate (loc. cit. a n. 1). Menecrate contestava ad Artemone anche l'interpretazione di xaµ6vtEi; (Ol. 2, 8), che non sarebbe riferito alle difficoltà incontrate da Antifemo di Rodi ed Entimo di Creta nella colonizzazione di Gela - una prospettiva che escludeva qualsiasi riferimento agli antenati di Terone -. bensl alle travagliate vicende occorse agli Emmenidi fino al momento del loro arrivo in Agrigento. 15

Forse opera di un epitomatore un po' maldestro, lo scolio ripete motivi presenti in altri passi: cosl, ad esempio, la rivolta interna al ytvoç; degli Emmenidi riecheggia la ataoLi; menzionata nello scolio a Ol. 2, 29d (I 68, 20 ss. Dr.) e ricorda anche l'uccisione sia pure involontaria di un parente da parte di Emone narrata nello scolio a Ol. 2, 16c e 2, 70f, episodi che costituiscono l'antecedente immediato del movimento migratorio emmenide verso la Sicilia. Anche un altro elemento dello scolio 2, 15b,

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M. G. Fileni

lo e non a Gela, ritengo che si possa sostenere a causa della menzione di Rodi, qui addirittura terra d'origine degli Emmenidi, che in altri contesti, come si è visto, compare sempre connessa con il loro arrivo direttamente ad Agrigento e con l'esclusione di Gela dal loro percorso. Nonostante lo stato confusionale in cui versa il passo, sarei ugualmente propensa ad includerlo nel gruppo di testimonianze scoliografiche (Scholl. ad Ol. 2, 15a; 2, 15d; 2, 16c; 2, 70f) che ribadiscono l'origine rodia degli Emmenidi e, pur con la dovuta cautela, a proporlo come unica fonte di una tradizione che faceva degli Emmenidi i fondatori di Agrigento provenienti da Rodi. Vista in una certa prospettiva, questa notizia potrebbe perfino trovare una sua dignitosa collocazione a fianco del passo di Tucidide sull'origine rodia di Agrigento, apparentemente inconciliabile con essa. Siamo di fronte alla testimonianza di un atteggiamento estremamente selettivo nei confronti della tradizione, che comporta l'esaltazione di una sola delle varie componenti culturali presenti nelle tradizioni ecistiche di Agrigento, cioè la rodia, a discapito di quelle cretesi e geloe. Lo scolio 2, 15b rappresenta il punto estremo del processo di dilatazione dell'elemento rodio, che fa di Rodi al tempo stesso il luogo d'origine degli Emmenidi e il luogo di provenienza dei fondatori di Agrigento. Sulla scorta delle testimonianze antiche, anche la critica moderna tende a conferire diverso valore ai dati sulla tradizione ecistica, privilegiando ora uno ora un altro fattore nella valutazione complessiva della cultura agrigentina arcaica. Un'opinione diffusa è che la derivazione di Agrigento da Gela comporti la stessa duplicità etnica rodio-cretese che a sua volta aveva caratterizzato la fondazione di Gela, come suggerisce anche la presenza dei due ecisti Aristonoo e Pistilo al momento della fondazione della città 16 • Ma alla tesi di una convergenza in Agrigento degli elementi rodio e cretese provenienti entrambi da Gela, dove costituivano la compagine cittadina, si è affiancata, come è noto, una diversa prospettiva critica che suppone, accanto all'elemento geloo, cioè rodio-cretese, un apporto diretto da Rodi, secondo un ..pattern" ricorrente nella storia di altre sub-colonie quali Zancle e Selinunte, alla cui cioè lo scontro con i barbari indigeni, compare altrove, nello scolio a 01. 2, 16b, riferito però non agli avi di Terone, ma ai fondatori di Gela (cfr. n. 14). 16 Vedi, ad esempio, J. Bérard, La colonisation grecque de l'ltalie miridionak et de la Sicik dans l'antiquiti. L'histoire et la légende, Paris 19572 , p. 236 s. (trad. it. La Magna Grecia. Storia delle coloni.egreche dell'Italia ITU!ridionale,Torino 1963, p. 232 8. ).

Una pagina di storia agrigentina

433

fondazione parteciparono anche gruppi dall'originaria madrepatria greca 17 • Si è inoltre suggerito di collegare l'arrivo dei coloni dall'isola di Rodi con un preciso evento storico che consiste in un movimento migratorio dorico verso il Mediterraneo occidentale, in particolare la spedizione effettuata nel corso della 50a Olimpiade(= 580-576 a.C.), quindi all'incirca al tempo della fondazione di Agrigento, da parte di Cnidii e Rodii che sotto la guida di Pentatlo di Cnido, alla ricerca di nuovi insediamenti, dapprima approdarono in Sicilia e poi occuparono le isole Eolie 18 • 17

Il gruppo rodio poteva provenire da Gela, potenziato da una nuova immigrazione rodia che alcuni dati archeologici attestano a Gela proprio nel periodo della fondazione di Agrigento (T. J. Dunbahin, The Western Greeks. The History of Sicily and Soulh ltaly from the Foundation of the Greek Colonies to 480 B .C., Oxford 1948 (1968), pp. 237-239; 310-311; A. Graham, Colony and Mother City inAncient Greece, Chicago 1983 2 , pp. 21; 65); oppure poteva giungere ad Agrigento direttamente da Rodi (D. Asheri, 'La colonizzazione greca', in La Sicilia antica l 1, a cura di E. Gabba e G. Vallet, Napoli 1980, p. 127 s.; W. Leschhorn, "Grii.rukrder Stadl". Studien zu einem politisch-religimen Phanomen der griechischen Geschichte, Stuttgart 1984, pp. 52-53). J. A. de Waele, Acragas Graeca. Dii! historische Topographit!des grit!chischen Akragas a,if Sizilien I: HistorischerTeil, 's-Gravenhage 1971, p. 101 s. e L. Braccesi, 'Agrigento nel suo divenire storico (580 ca.-406 a.C.)', in Vedergreco. Le necropolidi Agrigento. Mostra Internazionale (Agrigento, 2 maggio-31 luglio 1988), Roma 1988, pp. 4-6, ritengono possibile la presenza sia di due gruppi, rodio e cretese, sia del gruppo geloo al quale si sarebbe aggiunto quello rodio. Sulla formazione delle tradizioni ecistiche di Agrigento cfr., da ultimo, D. Musti, 'Le tradizioni ecistiche di Agrigento', in Agrigento e la Sicilia greca: storia e immagine (580-406 a.C .). Atti della Settimana di studio, Agrigento 2-8 maggio 1988, a cura di L. Bracceai e E. De Miro, Roma 1992, pp. 27-45, che fornisce un prezioso inquadramento di prospettiva e di metodo dei dati riguardanti le componenti culturali rodie, cretesi e geloe nell'antica storia agrigentina. Una certa preponderanza dell'elemento rodio è riscontrabile anche nella città di Gela, come lasciano presumere il nome Lindioi dato a Gela dai suoi fondatori (Thuc. 6, 4, 3), le offerte dedicate ad Atena I.india (Chron. Lind. FGrHist532 F 25 Xenag. FGrHist 240 F 12) e l'importanza del culto di Apollo, presumibilmente I.indio (Diod. 13, 108). Anche per quanto concerne la fondazione della città, ai ritiene che il contingente principale dovesse essere rodio: significativo è il rilievo assunto da Antifemo di Rodi, in onore del quale è attestato un culto a Gela (S. G. D. I. 5215; S. E. G. XII 409-410; L. H. Jeffery, The LocalScripts ofArchaic Greece, Oxford 1961, p. 273; M. Guarducci, Epigrafia Greca I, p. 254 a., nr. 4), rispetto all'altro eciata Entimo di Creta, nelle fonti che trattano della colonizzazione di Gela (cfr. Leachhorn, op. cit. pp. 43-48; Aaheri, art. cit. pp. 125-126). 18 Tim. FGrHùt 566 F 164, cap. 9 ap. Diod. 5, 9. Per l'ipotesi di una connessione degli Emmenidi con questa spedizione cfr., fra gli altri, Jacoby ad Tim. FGrHist 566 F 92 e Asheri, art. cit. p. 128.

=

434

M. G. Fileni

Non credo tuttavia che nel concreto rafforzamento numerico e nell'effettivo prevalere dell'elemento rodio in Agrigento nel V sec. si debba ricercare la causa della formazione di una tradizione che esaltando il legame con Rodi escludeva Gela dalla storia di Agrigento: per questa riscrittura della storia cittadina poterono molto di più - è la convincente tesi di A. M. Buongiovanni 19 - gli interessi politici del ytvoç degli Emmenidi. L'affermazione della propria origine rodia, l'attribuzione a se stessi della fondazione di Agrigento ed il rifiuto del rapporto di wtotx(a con Gela avrebbero costituito altrettanti validi motivi propagandistici, diffusi soprattutto nei primi anni del regime di Terone e operanti sia in politica interna, per un rafforzamento del prestigio della famiglia nell'ambito della città, sia in politica estera, per la rivendicazione di una pari dignità con Gela nei rapporti fra le città più potenti della Sicilia greca. Non c'è dubbio che da questa ricostruzione dei fatti scaturisce una motivazione del tutto plausibile per l'omissione di Gela dall'itinerario degli Emmenidi nell'encomio di Pindaro per Terone: il poeta, secondo una prassi usuale, si sarebbe fatto portavoce e propagatore di una tradizione elaborata dalla famiglia del suo committente, che escludeva qualsiasi rapporto con Gela e poneva in risalto, piuttosto, la provenienza rodia, venendo in fondo a privilegiare e ad amplificare l'effettivo legame creatosi con il mondo rodio al momento della fondazione di Agrigen-

La partecipazione dei Rodii, tuttavia, è taciuta da altre fonti: Thuc. 3, 88; Antioch. FGrHist 555 F 1 ap. Paus. 10, 11, 3; Strab. 6, 2, 10, 275; Ps.-Scymn. 262 s. (G. G. M. I 207 MUller). Questa discordanza nelle antiche testimonianze sarebbe, secondo V. Merante, 'Pentaùo e la fondazione di Lipari', Kokalos 13, 1967, pp. 88104, il frutto di un taglio maldestro operato da Diodoro nella sua fonte. Il racconto diodoreo viene cos} interpretato: Cnidii e Rodii insieme abbandonarono le loro terre ma si separarono una volta giunti in Sicilia, dove i Rodii parteciparono con i Geloi alla fondazione di Agrigento. 19 'Una tradizione filo-emmenide sulla fondazione di Acragas', Ann. Scuola Norm. Sup. Pisa 15, 2, 1985, pp. 493-499. Condivido pienamente l'assunto generale dell'articolo; sarei invece più prudente nel concludere che secondo la tesi timaica Agrigento sarebbe una fondazione rodia e non geloa (pp. 494-495). Non ritengo sussistano elementi per affermare che lo storico, il quale ribadisce unicamente l'origine rodia degli Emmenidi, non solo si riferisca alla fondazione di Agrigento, ma escluda la componente geloa dall'opera di colonizzazione. Mi sembra inoltre riduttivo valutare le fonti che parlano delle origini geloe degli Emmenidi (Sclwll. Pind. Ol. 2, 15c; 2, 16b) come un semplice autoschediasma derivato dalla tradizione sull'origine geloa di Agrigento (p. 495), anziché come testimonianza di una tradizione alternativa a quella dell'origine rodia del ytvoç.

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435

to. È forse superfluo ricordare l'incidenza della componente culturale rodia nella vita della città, come testimoniano, ad esempio, i culti di Zeus Atabyrios e di Atena Lindia che da Rodi, precisamente da Camiro e Lindo, erano stati portati ad Agrigento: da qui si inviavano offerte all'Atena Lindia di Rodi fin dal tempo di Falaride 20 • In onore di queste divinità erano stati eretti due templi sulla parte più alta della città, come riferisce Polibio (9, 27, 7-8), il quale trova naturale che nel luogo colonizzato dai Rodii il dio conservasse il titolo che aveva nell'isola, cioè Atabyrios. Il culto per Zeus Atabyrios, in particolare, può essere un indizio rilevante per un probabile legame diretto con Rodi poiché, al contrario di quello per Atena Llndia (cfr. n. 17), esso non si trova attestato a Gela. Si riconnettono con Rodi anche il toro di bronzo fatto costruire dal tiranno Falaride. ideato a imitazione dei tori di bronzo collocati sul monte Atabyr(i)on, a Rodi, che muggivano in presenza di qualche pericolo incombente sulla città 21 , e la parola Atabyrion, attestata anche in Sicilia come nome di un monte, da identificare, probabilmente, con l'altura dove sorse Agrigento 22 • L'enfatizzazione della componente rodia nelle tradizioni ecistiche di Agrigento ad opera della famiglia emmenide appare, come a ragione osserva Musti (art. cit. p. 31 ss.), strettamente correlata a un altro aspetto della propaganda familiare, cioè la presa di distanza da motivi di tradizione cretese, che avevano caratterizzato sia la precedente cultura agrigentina sia l'immagine di Falaride sia il mondo sicano delle popolazioni indigene dell'entroterra: un'operazione culturale che si profila come una sorta di programmatica contrapposizione del nuovo signore di Agrigento nei confronti dell'odiata tirannide del VI sec. Va rilevato, inoltre, che l'omissione di Gela dall'encomio non ha solo, come effetto, quello di privilegiare il rapporto degli Emmenidi con

20

Chron. Lina. FGrHist532 F 27 e 30

= Xenag. FGrHist240 F

14 e 17. Tra le fonti più importanti: Pind. Pyth. 1, 95-96; Aristot. fr. 611, 69 Rose ex Heraclid. Lemb. fr. 69 Dihs; Callim. fr. 46 Pf.; Polyb. 12, 25, 1-5; Cic. Verr. 4, 33, 73; Diod. 9, 18-19; Scholl. Pind. Ol. 7, 159f, I 233, 13-14 Dr.; 160c, I 233, 21-22 Dr. (= Tim. FGrHist566 F 39b); ma per una più completa valutazione del toro di Falaride come momento di incontro di tradizioni rodie, cretesi e sicane, cfr. M. J. Fontana, 'Terone e il 'tacpoçdi Minosse. Uno squarcio di attività politica siceliota', Kokalo, 24, 1978, pp. 201-219; O. Murray, 'Falaride fra mito e storia', in Agrigento e la Sicilia greca, cit. pp. 51-54. 22 Tim. FGrHist 566 F 39a, b (= Steph. Byz. s. v. 'A'tafJuQOV;Didym. ap. Schol. Pind. Ol. 7, 160c, I 233, 19 ss. Dr.). 21

M. G. Fileni

436

Rodi: inevitabilmente si produce anche una esaltazione del loro legame con il luogo al quale essi, appena arrivati in Sicilia, avevano legato il proprio destino, conquistandovi un primato che avrebbero non solo mantenuto per lungo tempo, ma anche rafforzato quando, nella persona del loro discendente Terone, detennero nella città il più alto grado di potere unito a un grande prestigio. Perché si possa considerare compiuta la trattazione dell'argomento, ritengo si debba prospettare un'ulteriore ipotesi interpretativa riguardo all'esclusione di Gela, anche se - è bene precisarlo subito essa non è verificabile allo stato attuale delle nostre conoscenze. È possibile che quel particolare della narrazione pindarica, oltre a trovarsi in linea con gli interessi di parte e con i motivi propagandistici che improntavano la politica emmenide, si ricollegasse ad eventi storici molto precisi e ben documentati, che possono aver costituito il contesto storico e cronologico del carme ed aver influenzato le scelte del poeta. Mi riferisco ad un momento di forte tensione, peraltro di brevissima durata, fra Terone di Agrigento e i Dinomenidi di Siracusa, verificatosi nel 476 a.C. Prima di allora le loro relazioni furono improntate ad una vantaggiosa intesa e caratterizzate addirittura da salde alleanze, come testimoniano la presenza di Terone accanto a Gelone nella battaglia combattuta ad lmera contro i Cartaginesi nel 480 a. C., oppure i matrimoni fra esponenti di entrambe le famiglie 23 ; ma una serie di circostanze condusse ad una rottura momentanea di tale equilibrio. Terone si trovò infatti coinvolto nei difficili rapporti tra Ierone, succeduto a Gelone nel 4 78 a. C., e il fratello più giovane Polizelo, che cercò rifugio e aiuto presso il tiranno di Agrigento, al quale lo legavano vincoli di parentela. Al deterioramento delle relazioni con i Dinomenidi contribul anche la decisione di lmera, vessata dal potere di Trasideo, figlio di Terone, di inviare ambasciatori a lerone per chiedergli soccorso contro il tiranno 24 •

23

Sulla politica matrimoniale della famiglia dei Dinomenidi si vedano L Gernet, 'Mariages de tyrans', in Hommage à luci.en Feoore. Éwmlail de l'histoire vivanle II, Paris 1953, pp. 46-47 = Anthropowgie de la Grèceantique, Paris 1968, pp. 350351 e G. Vallet, 'Note sur la "maison" des Deinoménides', in aVO'V {b} ~i.o[vu]oou 9( &Q01u< >? xm6µEVm· t 'tÒ bÈ xmµ(OO'Yt lLQEiç;[ ] KallL6xaç;, ç; ot maitfl µvaµa àxoq>itLµÉ'Y(J)'Y· uµVEL, a µÈ'Yroxal'tav A(vov a0..L'YO'V ab' 'Yµtvmov, tv yaµoLOLXQOi:t6µEVO'V M~EVlaxa'toç; uµv(J)'Y· ..x't: ouµ,tQO>'tov a bÈ < > 'Iéwµov roµo~À.q> vouoq>{on} xtooittv'ta oittvoç;ulòv OlayQOu

5

10

'OQCPtaXQUOOOQ«

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2 èsuppi. Wilamowitz 3 f>allovt(Ec;): Wilamowitz; aherum bt seclusit Wilamowitz 4, 'tal l>èSchneidewin; XOLf,Uaavt suppi. Wilamowitz.

Il

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Il

Dieser Rekonstruktionsversuch soli im folgenden begriindet werden. lm Mai 1989 hatte ich Gelegenheit, in der Vaticana das Euripi5

Rh. Mw. 2, 1834, pp. 110-121. Lobel hatte die uber dem E des 8. Verses sichtbaren Spuren als avov,den man nicht ohne Not andem wird, verlangt ein transitives Verb in der Bedeutung "wetteifem um, streben nach" oder ahnlich. Das ilberlieferte ~QOµ'iJtat6µevaL lasst sich nicht mit O'tÉq>avov verbinden und ist auch sprachlich nicht moglich. Das von Maria Cannatà Fera vorgeschlagene ~QOµLn:at6µEVaLmilsste "von Bromios wenig plausibel geschlagen" bedeuten, was neben àLO'VUOO'U wirkt; ausserdem wiiren drei Kiirzen vor einem daktylischen Element in diesen relativ einfachen Daktyloepitriten kaum glaublich. lch vermute daher ~µL "laut tonend", mit Anspielung natilrlich auf Dionysos' Kultnamen 8 • Das Partizip ,iaa.6µEVaL,auf àotba( hezogen, ist mir unverstandlich; man wird wohl nicht um die Annahme eines Schreibf ehlers herumkommen: bat6µEVaLoder xaa.6µevaL"brennend" wiire ohne einen die Metapher erkliirenden Zusatz ebenfalls nicht verstandlich; µaL6µEVaLdagegen wilrde exakt den erwarteten Sino ergehen: Dionysos' Lieder, also Dithyramben, "strehen nach dem Efeukranz". Ungelost bleibt dabei das Problem des Anfangsbuchstabens von Vers 4, der im Papyrus wie ein ungewohnlich kleines o aussieht und jedenfalls nicht Teil eines ~ gewesen sein kann; allenfalls w ware moglich. lch vennute also, dass im Zitat ein Wort ausgelassen war, das sich auf die Dithyramben bezog: o[g{haL? vgl. Pinoder dar, Fr. 128e (a), 2 und (b), 6; Luigi Lehnus denkt an OUQE°L OUQEOLV. 4-5 'tÒ l>è xotµ(oav . . . Kallt6,iaç: 8

nach Paianen und Dithyramben

Oder kann man Beoµ{ n(ÉQL) µm6µtVm vennuten? (Vorschlag von E. W. Handley).

456

H. Maehler

wird hier offenbar eine dritte Liedergattung eingefilhrt, und zwar die, auf die es in diesem Zusammenhang besonders ankommt, der Threnos. Freilich kann der Anfangdes Satzes nicht richtig iiberliefert sein; zumindest der Akzent in xo1.µ(oavist falsch, und als Subjekt werden immer noch lio1.6a(anzunehmen sein. Daher hat Schneidewin 'tOÌ.6È vorgeschlagen: die dritte Art von Liedern, die Threnoi, haben die drei Sohne Kalliopes "zur Ruhe gebettet", namlich im Tode9 • Leider ist in der Handschrift das Wort zwischen 'tQ(Eiç)und Kall1.6naç nicht ganz zu entziffern; unter der Quarzlampe glaubte ich, vor Kall1.6n ein x ziemlich deutlich zu erkennen, zu dem ein oben offener Viertelkreis hinfilhrt, also tx, geschrieben wie in b x'toooO zwei Zeilen dariiber. Davor sind wohl 3-4 Buchstaben anzunehmen, von denen der vorletzte ein a gewesen sein konnte. Das fuhrt auf 'tQEiçulaç b Kall1.6naç (zu ulaç vgl. Bakchylides 13, 100), was folgenden Vers ergeben wilrde:

- - ..,- -..,..,-1-- ...-1-...... -.....,-

(-edlj-ejD)10.

Aber der vorhergehende Vers kann nicht gut mit xo(µ1.oav, xotµ1.ooavoder xo1.µ(ooaV'to(Schroeder) enden. Nun konnte man 'tQEiçans Ende dieses Verses ziehen, aber dagegen spricht die Kolometrie des P. Oxy. 2447 ebenso wie der Umstand, dass 'tQEiç sich zweifellos auf die drei Sohne Kalliopes bezieht ('tQEiçulaç b K. ?), nicht auf die drei lio1.6at. Solite Pindar etwa gesagt haben

'taì. 6È xotµ1.ooav'tQ('tat.I 'tQEiçulaç b Kall1.6naç? 5

ci>1; ol Q'tO{t,fiµvaµa Moq,itLµévoov:"damit ihr (= Kalliope) Mahnmaleder Gestorbenen gestiftet wilrden"; zum Andenken an jeden der drei Sohne bleibt sein Name als Bezeichnung eines Klageliedes.

6

o.µÈV (scil. lio1.6a)...

uµVEL:die eine Liedgattung aus der zuletzt genannten Gruppe gilt Linos; statt uµv(Etv)ist sicher ein lndikativ anzunehmen, uµVELwohl eher als uµVEt.Linos galt seit jeher als 9

Zu dieser Bedeutung von XOLl'(tELV vgl. Soph. Aitu 8.12, Eur. He/cahe473, auch mediai:Eur. Tro. 594 xo(iuoo( 11'èç •Al&>u;vgl. xoLµàv:Eur. Hipp. 1387 d& ~ XOLfMIO!Lt , , , • ALOO\I... (mryxa. 10 Die Kombinationvon e bsw.- e mit d 1 findet aich bei Pindar auch in /s. 5 und ls. 9, •· den 'Metrorum conapectua' der Teubner-Ausgahe in Pindari carmina,cil. p. 182 f.

457

KalliopesSohne

Musensohn; Hesiod, Fr. 305 (s. unten) macht ihn zum Sohn Uranias, desgleichen Schol. T zu Il. :I 570 (das die Geschichte ebenso wie Schol. B nach Philochoros erzahlt, FGrHist 328 F 207), wiihrend Apollodor I 3, 2 ihn zum Sohn der Kalliope macht xal OlétyQOu,xat' bt(XÀ.TJOLVbè 'An:6lloovoç; Schol. A zu :I 570 nennt Apollon als Vater. Asklepiades macht ihn, wie wir gesehen haben (oben S. 453, FGrHist 12 F 6), zum altesten Sohn Kalliopes und Apollons, dem noch die drei Brilder Hymenaios, Ialemos und Orpheus gefolgt seien. Uber seinen Tod waren verschiedene Versionen im Umlauf; nach Schol. A zu :I 570 wurde er von Hirtenhunden zerrissen 11 , nach Apollod. I 3, 2 von Herakles getotet, nach Philochoros (Schol. BT zu :I 570) von Apollon12 • Statt eòxtcav ist wohl eòxaCtav zu schreiben 13 ; einen Hinweis auf seine Schonheit gibt Hes. Fr. 305, 1 OùQµt nç; uµvoç;iiµ'VTIOE'V, àll' 'AxtQOVtLvuµcpeuaw.R. Muth, (btLvuµcp(bLOç; Wien. Stud. 67, 1954, pp. 15-22 weist die Verbindung mit uµvoç;zurilck. 18 Vgl. den Kommentar zum I. Buch derAitia, P. O"Y· 2262 fr. 2, 41-43 (Il p. ).[.)y.[.).1[ 104 Pfeiffer): [ YEYH[o)xat Où(QOV(aç; 6) 'Yµtvw..oç; Hyporchemata, berichtet Schol. Vatic. zu Pind. Ol. 13, 25c (= Fr. 71), habe Pindar erzahlt, der Dithyrambos sei auf Naxos erfunden worden, im 1. Buch der Dithyramben hingegen in Theben, in Ol. 13, 18 in Korinth. Auch zur Erkliirung des Namens hatte Pindar ein Aition anzuals ÀuiHQaµf3oç; "erklarte" (Fr. 85). Bei der bieten, das bLiroQaµ(x>ç; Hochzeit Niobes sei die lydische Tonart "zum erstenmal verwendet" btbax-fnivat), war in einem Paian erzahlt 21 , und auf worden (1tQOl'tOV die "Erfindung" der lokrischen Tonart bezieht sich Fr. 140b, 1-422 , eine Stelle, die Kallimachos gewissermassen "zitiert" hat (Fr. 669 Pfeiffer). Das hiibsche Aition von der Erfindung der Pferdetrense, mit der Bellerophon den Pegasos aufzaumte (Ol. 13, 63-86), stammt zwar aus einem anderen Bereich, beweist aber ebenfalls Pindars Interesse fiir mythologische Erklarungen der Urspriinge. Man kann sich vorstellen, mit welchem Jagdeifer Kallimachos die siebzehn Biicher der Lieder Pindars durchforscht haben muss; wie gross seine Ausbeute an Aitia war, konnen wir nur ahnen.

21

S. zu Paian 13 (Ps. Plut. De mw.15, 1136 e= Aristoxenos, Fr. 80 Wehrli = 75 Turyn). Pind. Fr. 64 Schr. 22 Vgl. dazu M. G. Fileni, Senocriiodi Locrie Pindaro (Biblioteca di Qr.uukmi Urbinatidi Cullura Clauica 2), Roma 1987.

=

Due note pindariche (Pitica 3, 43 e Nemea 7, 49) Franco Montanari

1. Aristarco e un anceps interpositum bisillabico: Pitica 3, 43

Fra i numerosi elementi interessanti offerti dai nuovi frammenti di Stesicoro, restituiti qualche anno fa da un papiro di Lille, c'erano anche quelli squisitamente metrici, che non hanno mancato di essere studiati a fondo e con abbondanza. In quest'ambito, un dato particolare ma certamente non secondario fu l'attestazione inequivocabile di alcuni casi nei quali il cosiddetto anceps interpositum dei cosiddetti dattilo1 , della lirica corale si presentava nella epitriti, o xa't' tv61tÀ.LOV-epitriti forma bisillabica del biceps in responsione con la più comune forma monosillabica breve o lunga 2 • L'anceps interpositum bisillabico non era ignoto in precedenza, ma con le nuove attestazioni esso acquistava pieno diritto di cittadinanza in modo tale che diventava necessario, almeno nella metrica stesicorea, ammettere per l'elemento metrico definito anceps interpositum la completa libertà di realizzazione: una lunga, una breve o un biceps. Questo dato stesicoreo invita ovviamente a considerare con occhio più attento eventuali attestazioni di anceps interpositum bisillabico in altri lirici corali, attestazioni che in verità risultano estremamente rare. L'opera superstite di Pindaro ci offre un solo caso, a Pyth. 1, 92. Il ma il verso 92 si verso è str/ant 6, schema 'maasiano' De_ D _De-, presenta come segue: lot(ov àvEµ6EV. J.LT) OO~ç,

1

Wq>LÀ.E,XÉ{)bE inq'> 'tÒ aµa 'tq> 31:Qro'tq> pT)µan Qi,oaoita1. 'tÒV3taioa. Il parallelo è utilizzato anche negli scoli omerici: lo schol. ex. a Iliade XIII 20, dopo aver rilevato la grandiosa rappresentazione di Posidone che in tre passi supera tanto mare e tanti popoli (e con il quarto raggiunge la meta), insinua che Pindaro abbia voluto superare il modello omerico (e con questo Etc;im6vo1.av ~XEV "'7EUOOuc;) rappresentando Apollo che varca un'immensa distanza addirittura con un solo passo (e cita il verso di cui stiamo parlando). Siamo evidentemente nella sfera di una rappresentazione della potenza divina grandiosa fino a dimensioni cosmiche 5 : l'idea di uno zelos omerico di Pindaro in questo passo della Pitica 3 sembra trasparire sia negli scoli pindarici 'adeche in quelli omerici, con valutazioni diverse. La lezione 'tQl.'tCl'tq> guerebbe', se cosi si può dire, il dettato di Pindaro alle 'dimensioni' omeriche, togliendo quello che poté sembrare un eccesso di grandiosità (apprezzato invece dallo scoliasta pindarico): essa ha buone probabilità di essere stata una congettura, magari non di Aristarco medesimo bensl di qualcuno a lui precedente, dettata proprio dal confronto con Omero6 • 4

Forse da intendersi più probabilmente hypomnemata che edizioni: cfr. Slater, 'Problems', cit. infra alla n. 6, sulla base di A. Ludwich, Aristarchs homerische Tmkriti.k nach tkn Fragmenkn da DidyrnosI, Leipzig 1884, p. 130. 5 W. Biihler, Beitriige zur Erklii.rung tkr Schrift vom Erhabenen, Gottingen 1964, p. 24. 6 W. J. Slater, 'Problems in lnterpreting Scholia on Greek Texts', in Editing Gree/canJ Latin Texu, ed. by J. Grani, New York 1989, p. 47 s., nel contesto di un discorso che avrebbe bisogno di attente revisioni, prende in considerazione anche questo caso. Slater ritiene che 'tQL't(nq>potesse essere una lezione che Aristarco non voleva davvero nel testo, ma fosse soltanto "a suggestion to accord with Homer" data nel commento (ma a quale scopo? suggerire come avrebbe potuto scrivere Pindaro?); 'tQL'tatq>lo definisce senz'altro "unmetrical" e conclude: "The rare tQCta'toç was used

F. Montanari

464

In ogni caso, dovette avere una qualche fortuna antica, anche se non entrò nella nostra tradizione manoscritta. La variante aristarchea, insomma, non sembra da prendere realmente in considerazione per la costituzione del testo pindarico: sulla dei manoscritti non c'è ragione di intervenire, concorde lezione l'tQOO'tq> e bene hanno fatto gli editori a rispettare il testo tradito. Resta invece comunque assodato il fatto che, per Aristarco, quella lezione era possibile, e dunque era ammissibile lo schema metrico che ne risulta, con l'anceps inlerpositum realizzato da un biceps. Poiché non sono un metricologo professionale, e non pretendo di avere competenze specifiche, non voglio azzardarmi a fare considerazioni né a trarre conseguenze di alcun genere. Mi limito a osservare il caso e a segnalarlo agli addetti ai lavori: a loro utilizzarlo, se può avere una qualche utilità o un qualche interesse. 2. Il testimone veritiero di Nemea 7, 49 Voglio tornare ancora una volta su un problema puntuale di esegesi pindarica, che è stato a lungo oggetto di dubbio, con discussioni copiose e proposte divergenti, ed è stato ripreso ancora di recente. Mi riferisco alla dibattuta questione dell'identificazione del µlxQTIJçdi Nemea 7, 49: un epinicio del resto assai problematico e intorno al quale si agitano numerosi e importanti problemi della critica pindarica attuale, di cui non intendo trattare in questa sede. Riprendiamo sinteticamente i termini della questione specifica del µaQ'tUç, ben noti ai pindaristi militanti, cominciando con il ricordare per sommi capi il contesto. Il mito narrato è quello di Neottolemo: dopo aver concluso il racconto con l'uccisione dell'eroe a Delfi (vv. 38-43), Pindaro offre di questo avvenimento l'interpretazione più positiva, secondo cui Neottolemo in questo modo portava a compimento un disegno del destino, che voleva un Eacide seppellito nel recinto sacro di Delfi accanto al dio Apollo, affinché diventasse colui che sovrintende alle processioni sacre dei sacrifici (vv. 44-47). Seguono i tre versi 48-50: EÙoovuµovtç b(xav tQLO btEa bLOQXÉOEL.

où ,pEiibLç 6 µaQwç EQYµamv btLotatEI, AtyLva, tErov dL6ç t' txy6vfJJV7•

instead of 'tQhoç, on the basis that two short syllables were thought lo be equivalent lo a long". Proprio questo è il problema, data la sede. 7 "Per un giusto riconoscimento di buona fama basteranno tre parole: non è falso

Due note pindariche

465

Chi è dunque il testimone veritiero chiamato in causa dal poeta? Diverse le proposte in una critica copiosa, che di recente (dopo che ha perso credito la candidatura di Neottolemo) si è concentrata su due possibili identificazioni. Alcuni sostengono che il µaQTUçsia Apollo, presente alle imprese di Achille, di Neottolemo e degli altri Eacidi, che meglio di chiunque altro nella sacra sede di Delfi testimonierà in eterno le imprese degli Egineti. Altri pensano che il µaQTUçsia il poeta stesso, Pindaro, che qui esprimerebbe ancora una volta il concetto per cui egli e il suo canto esercitano la funzione di testimoniare e eternare la gloria delle imprese dei celebrati 8 • Credo proprio che il secondo ordine di idee sia quello giusto; ma ciò non ostante non riesco a convincermi che Pindaro abbia voluto celare se stesso dietro questo anonimo µaQTUç. Sottolineiamo intanto che c'è sicuramente una sorta di rapporto causale fra la prima e la seconda frase: poche parole basteranno per il giusto riconoscimento di una buona fama perché il testimone è veritiero; dal momento che il testimone non è mendace, basteranno poche parole perché la buona fama sia giustamente riconosciuta. Le tre parole sufficienti non possono che essere quelle pronunciate dal poeta stesso, quelle del canto che dà gloria al celebrato: ma perché ribadire la veridicità di un testimone senza un esplicito riferimento a se stesso, che sarebbe cosl squisitamente "pindarico", cosl proprio dell'orgoglio del poeta che tante volte proclama se stesso veritiero dispensatore di gloria e di immortalità? Ripeto che l'ordine di idee mi sembra questo, e dunque sarei portato in primo luogo a escludere che il µaQTUçsia altri che il poeta. Ma vedo il discorso e lo spessore della dichiarazione arricchito se penso che il µaQTIJçpossa essere non esattamente Pindaro stesso, bensl il tempo, testimone veritiero per eccellenza, che coopera con il poeta e il suo canto a consacrare in modo immutabile la vera gloria e a cancellare i falsi meriti. Mi sono dunque sempre più affezionato (ma certo non voglio contrabbandare certezze che non ho) all'idea che il µaQTUçsia il tempo nel suo complesso, ma specialmente (come è ovvio) il tempo il testimone che presiede, o Egina, alle imprese di coloro che discendono da te e da Zeus". 8 Non mi pare il cuo di produrmi qui in una lunga nota bibliografica: si vedano da ultimi E. 06nt, 'Pindars siebente nemeische Ode', lfien. S,r,d, 98, 1985, p. HO: G. W. Most, 7M M«uun!I o/ Praise. S111U:CUre and FIUldionin Pindar's Second.Pyllaianand Snend&NemMJnOda, G6ttingen 1985, p. 176 ss. (con tutti i riferimenti).

F. Montanari

466

posteriore all'evento, nella concezione di Pindaro testimone veritiero e attendibile, che rende giustizia alla gloria e alla fama con distribuzione opportuna e retta sentenza. È vero che non mancano passi nei quali Pindaro applica a se stesso l'idea di "testimoniare veridicamente", ma se non mi inganno allora usa di solito in modo esplicito il riferimento alla propria persona 9 : e se si trovano anche passi in cui lo stesso concetto si applica al tempo, i due ordini di paralleli stanno per lo meno sullo stesso piano. Ho cercato dunque conferme e sostegni a questa idea. In primo luogo, mi pare che un passo molto vicino sia il ben noto verso di Olimpica 1, 33 s.: a!A,É{>aLb' bttì,.outOL µa{>tu{>Eç OOtatOL,

che non potrebbe esprimere più chiaramente il concetto che andiamo cercando. Ma forse il confronto più significativo ci viene dall'Olimpica 10, un'ode nella quale gioca un ruolo importante proprio il tempo e il suo rapporto con il valore del canto poetico 10 • In Ol. 10, 51 ss. Pindaro dice che alla fondazione delle Olimpiadi assistettero le Moire e

o t' t;ùtyxrov li).(d}ELQV

µ6voç

ètfttuµov

XQ6voç.tò bÈ ompavÈçlò.>vn6eoooxatÉc:peaoEV ... ,

cioè: "l'unico garante di un'esatta verità, il Tempo. Il quale procedendo dichiarò chiaramente ... " 11• Questo passo sembra fatto apposta per commentare quello della Nemea 7 di cui ci occupiamo: il tempo che passa è garante di verità, cioè testimone veritiero di quanto il poeta canta, qui niente meno che il mito di fondazione dei giochi olimpici in rapporto con il vincitore celebrato. Un ordine di idee simile a quello

9

Cfr. S. Fogelmark, Stud~s in Pindar, with particular reference to Paean VI and Nernean VII, Lund 1972, p. 109. 1 Cfr. Pindaro, Olimpiche, a cura di L. Lehnus, Milano 1981, p. 161 ss.; G. Kromer, 'The Value of Time in Pindar's Olympian 10', Hermes 104, 1976, partic. p. 433 88. 11 Commenta Lehnus, op. cit. p. 177, ad loc.: "Il tempo è garante della storicità del mito; il suo trascorrere mette alla prova la verità, svelandola o restaurandola (cfr. O. 1.33-4). Al centro dell'ode, Verità e Tempo fanno dell'iniziale motivo 'poetico' dell'esattezza (il debito di Pindaro) il fondamento stesso del sapere storico del poeta"; cfr. anche nota a vv. 24-77, p. 176.

°

Due note pindariche

467

che si trova in Ol. 2, 15 ss., dove XQOVoçè detto 6 xavtrov xatl)Q, che però non può annullare quanto si è già compiuto. Torniamo, per chiudere, al nostro passo della Nemea 7. Nei paralleli che abbiamo addotto è presente un'indicazione temporale esplicita, che nel nostro passo è naturalmente assente (altrimenti la sua problematicità non esisterebbe). Tuttavia, mi pare che Pindaro abbia suggerito in qualche modo la nozione di tempo dicendo subito prima che bisognava che uno degli Eacidi hrbov aÀCJEL x fosse per il futuro (-ròM>LXÒV)il -6EµLox6xov delle cerimonie sacre. Poi si affaccia l'idea del poeta per il cui canto bastano tre sole parole, perché il testimone delle imprese degli Egineti, il tempo, ha visto i fatti passati ed è in grado di dame testimonianza veritiera, di testimoniarne il valore per il futuro. Mi pare insomma che distinguendo la figura del poeta e quella del testimone, facendo in certo modo il primo portavoce del secondo e il secondo garante 'esterno' del primo, lo spessore poetico e di pensiero della dichiarazione risulti accresciuto e arricchito.

Il coro nel sesto Peana di Pindaro Carlo Odo Pavese

BaLà O' tv lfflX()OLOL xmxf.À.À.€LV àxà CJOq)Oiç

P 4 (1-6) Per Zeus Olimpio, o aurea mantica Pytho, ti prego con le Grazie e con Afrodite di accogliermi nel tempo sacro, canoro interprete delle Pieridi. (De I pr E re hor 4). Praep 1 (7-15) Ché sull'acqua sgorgata dalle bronzee bocche avendo udito lo scroscio di Kastalia privo della danza di adulti, vengo a togliere d'imbarazzo i tuoi congiunti e i miei onori. In animo mio come un figlio obbedendo alla madre, giungo al bosco di Apollo, alto re di fes tosi banchetti. (/ in.opa ci h .sim a I).

1. Per Zeus Olimpio. Zeus è invocato all'inizio secondo l'antica (vd. Alcm. 29, usanza proemiale e simposiale tx ~lÒç àQXOOµEo6a Pind. Nem. 2, l; 5, 25, etc.; vd. inoltre Comm. in Aratum rel. p. 81, 26-36 M.) e anche per una ragione speciale: Zeus era all'origine delle Theoxenia, in quanto aveva mandato la siccità e poi la pioggia liberatrice, v. 125 e Schol. ad loc. sulla preghiera di Aiakos a Zeus Hellanios, oftev àxowuftooç xal 'tq>fflEl 'tq>:mù..alq>xal tji U1COXElµÉvTI U1toftÉCJEl 'tTjVàQXTIV (come a proposito nota Comm. in Arau1tò ~lÒç 1tE1COLTJ'tOl tum rel. loc. cit. ).

3. Ti prego con le Grazie e con Afrodite. Afrodite è compagna delle Grazie, come a Pyth. 6, 1. Le Grazie rappresentano quanto di bello e gradito, Afrodite quanto di piacevole v'è nel canto, e nel coro che lo canta: il coro infatti è composto da giovani (v. 122 vÉol). Il coro danza per gli dei e, se la sua danza è fatta con grazia, gli dei convenuti per la festa a Pytho ne prendono diletto. Afrodite e le Grazie stanno perciò col coro, e concordano con ì..(aaoµal, non con bé;at. 5. tv l;aftÉq>µE bé;al xQVµÉÀELoùb' f-n µoÀJ'tijç.

Il verso ha riscontro concettuale e formale con Hymn,.Mere. 451 e Arch. 20 Tani. (cfr. anche Hor. Epod. 11, 1 ss.). Il colon bucolico completa il parallelismo où ... h' / oùb' hL. 2. Successione dei fonemi fra IV e V piede e numero delle sillabe che formano il colon bucolico nel tipo A: lon 2, 5 4, 1 Crit. 5, 1 Euen. 2, 1 Dubia 46 49

CV 3+ 1 cv 2+1+2 cv 1+1+3 ve 1+4 cv 3+2 VV :J+2

esametro spondaico

iato e abbreviamento -

EL où

-

3. La bucolica di tipo A è preceduta da un bisillabo in misura di pirrichio in: Crit. 5, 1 Euen. 2, 1 Dubia 46 49

ooq>6ç XOÀ.U

xax6s µÉÀ.Et

4. Presenza di altre incisioni nei versi con bue. A: ces. 5 ces. 5f ces.5+7

tre volte due volte una volta

5. Struttura metrica dei primi quattro piedi degli esametri con bue. A: dddd sddd ddsd ssss

due una due una

volte volta volte volta (il verso è olospondaico)

*** 6. Incisione bucolica di tipo DEBOLE B (con le sottoclassi Bl, B2a, B2b): sette casi.

L'incisione bucolica nella elegia greca del VI-V-IV sec. a.C.

495

Nel tipo BI il collegamento del colon bucolico con l'emistichio che lo precede avviene per mezzo di: -

congiunzione xa( congiunzione yaQ . negazione oux articolo ol nessun elemento

.

due due una una una

volte volte volta volta volta

7. Analisi dei versi caratterizzati dalla bue. Bl: Dionys. Chalc. 2, 18 x6nafx,v MaòE ool tQhov Éatavm ol ÒUCJÉQW'tEç flµELç1tQOO't(-ftEµEV ...

La bue. accentua enfaticamente il soggetto oLbuoÉQW'tEµf1,la 5, la 7 di scarsissimo rilievo espressivo e la bue., di un certo valore per la presenza della litote. Adespota 12, 1 Xa(QE'tE,m,µn6-tm 6vbQt:çòµ[ll>..txt:ç;t]; ilya&i, yaQ ilQ;aµEVoçtEÀ.Éro tòv >..6yov[EUç ily[aft6 ]y.

Si tratta di un testo ritrovato nel Pap. Berol. 13270, di argomento simposiaco, di cui il v. 1 dovrebbe essere l'inizio del carme. La bue. coincide con una pausa sintattica molto forte e accentua la formula è~ llyatk>u in poliptoto con dç llyuf}6v in positio princeps alla fine dell'elegiaco. È rilevante la presenza di y6.()in fine di esametro, che conferma la forza dell'enjarnbement fra i vv. 1 e 2. Il v. 1 ha la ces. Sf e le dieresi 1 e 2. 12, 9 tOÙ bÈ:1totOQXOwtoç1tEtftooµt:fta·tafrta YtlQéotLV fQY' ilvbQci>v ilyaftci>vEÙÀOy(av tE q>ÉQEL. La bue. è qui certamente la pausa principale del verso, e si accompagna alla ces. 5 che esalta il neologismo 3tOtO.()XWV = magister bibendi. Il colon che segue la bue. è in sé di scarsissimo rilievo semantico, se non forse per una certa enfasi su tauta = 'proprio questi', e si completa solo con l'enjambement.

8. Incisione bucolica di tipo DEBOLE B2a. Questo tipo di bue. si ha in diciannove versi della raccolta 9 , ma solo alcuni di essi presentano qualche motivo di interesse per aspetti strutturali o linguistici. lon 1, 7 naibt:ç q>ro'VT}EVtEç, otav 1tÉV&µa y(vnm ÙY'IQ•

Il verso non ha cesura (cfr. Gentili-Prato, adn. ad loc., p. 127), quindi la bue. costituisce l'unica pausa sensibile, che riesce anche a dare risalto ai due attributi di ii"'lQ collocati nella prima parte del verso. Dubia 50 tv bÈ 6Lxoatamn xal 6 nayxaxoç fµµoQEnµf)ç.

10

Eua sarebbe maggiore se ai accettasse l'emendamento cwLMs del Welcker, che facendo della parola un genitivo retto da 6ci>Qov darebbe più forza al verbo usato in forma assoluta ('brinda in risposta'). Si perderebbe però l'originale accezione simposiaca dell'espressione cw&Ms àvt&ne&nfh = 'brinda canaoni in risposta', che fa dell'accusativo una l«iio Jifficilior.

498

M. L. Coletti

A parte il dubbio che il verso appartenga veramente a un contesto elegiaco (il West pensa comunque che esso ne sia addirittura l'inizio), la bue. non ha rilevanza espressiva, a causa della forte enfasi della ces. 5 che accentua, separando i due hemiepe, la gravità della constatazione quasi impensabile ('nella discordia anche il malvagio ottiene onore').

9. Incisione bucolica del tipo B2b. Nei frammenti elegiaci della raccolta solo cinque versi hanno questo tipo di incisione (oltre a un altro di dubbia classificazione, Antim. 19): lon 1, 9; 5; Dionys. Chalc. 2, 3; 3, 3; Crit. 1, 12. Il caso più notevole di tutti è lon 1, 9 véxtaQ àJ1ÉÀ,yovtm,µ6vov ÒÀ.~tovàvf}Qronmaw

dove il pesante dativo finale costituisce da solo l'intero colon bucolico. Notare lo spondeo in V sede. Di un certo interesse è però anche Dionys. Chalc. 2, 3 xroQuxov. ot bè n:aQ6vtEc;ÈVElQEtE XEiQUc; wtavtEc;

in cui il colon bucolico comprende l'oggetto del verbo ante diaeresin e un attributo del soggetto che è posto ante caesuram in una struttura di tipo chiastico. Il verso tuttavia potrebbe anche rientrare nel tipo B2a, perché il colon bucolico completa il senso di ciò che precede: l'azione è però chiarita molto meglio da quanto è detto nel primo hemiepes dell'elegiaco (lç mpa(gaç xui..(xwv), che fa capire che si tratta ancora di un particolare momento del gioco del cottabo. Lo stesso dubbio per la collocazione nel tipo B2a o B2b si presenta per Dionys. Chalc. 3, 3 ElQEOl(,l yÀ.roamJc; ànon:éµ,Poµ.EV èc;µéyav alvov toub' btt auµnoatou

e anche qui il senso, parzialmente completo alla fine dell'esametro, viene meglio chiarito con l'inizio dell'elegiaco.

*** Dall'analisi fin qui condotta non emergono elementi di particolare interesse per la storia dell'incisione bucolica nel distico elegiaco: a differenza del più ampio numero di versi esaminati nel precedente articolo, relativi alla poesia elegiaca dell'età arcaica, nei poeti dei secoli VI-V-IV a. C. non risaltano attitudini nuove né capacità artistiche di

L'incisione bucolica nella elegia greca del VI-V-IV sec. a.C.

499

rilievo particolare. Si ha l'impressione che sia ormai finita la grande età creativa dell'elegia, quando poeti come Tirteo, Solone, Mimnermo avevano saputo dare una impronta determinante alla composizione del distico elegiaco e avevano fatto dell'incisione bucolica un elemento espressivo di particolare valore e funzionalità dal punto di vista sia ritmico che semantico. Un nuovo impulso alla composizione dell'elegia e nuove conquiste di contenuto e di forma verranno dai poeti ellenistici.

Dionisio Calco: tradizione e innovazione nell'elegia del V secolo Carles Miralles

Qualche anno fa scrissi un articolo per sottolineare l'importanza globale della poesia non drammatica del V secolo a.C. 1• Nell'insieme di questa poesia mi parve notevole l'elegia, vincolata al simposio, sul cui considerevole apporto, molto sintomatico, si poteva insistere grazie a una serie di indizi non molto lievi ma indeboliti dalla scarsità dei frammenti esistenti, dai problemi, a volte, di autenticità, e soprattutto da un pregiudizio, nella tradizione filologica, sulla poca importanza di frammenti e poeti. Da allora ho cercato, già in altra occasione 2 ed anche ora (come l'omaggio più opportuno per chi è stato uno degli editori di questi poeti per la collezione Teubner)3, di illustrare sulla base di aspetti più specifici e concreti, la novità dell'apporto di alcuni di questi elegiaci alla tradizione di questo metro e del simposio 4 • Cosi oggi è la volta di Dionisio, colui che i contemporanei chiamavano "quello di rame". Cercherò di aprire nuove vie di accesso alla sua poesia e al mondo in cui nacque. E dividerò in due parti questo approccio a Dionisio Calco.

1. Intorno a questo personaggio l'informazione disponibile è poca, ma non insignificante. Sappiamo per cominciare che era, come lo stesso Eveno, un retore (test. 5). Possiamo sospettare anche che non si mantenne al margine dell'azione politica: in occasione della fondazione

1

C. Miralles,'La renovaci6n de la elegia en la época clasica', Bol. lnst. Est. Hel. 5, 2, 1971, p. 13 11. 2 'Evè de Parot1:l'epigramma simpòtic XI 49 de la Palatina (= 2 West)', in Apoplwreta philok>gica E. F emanda-Galiano a sodalibus oblata I, Madrid 1984, p. 267 88. 3 Poetae ekgiaci. Testimonia etfragmenta II, edd. B. Gentili et C. Prato, Leipzig 1985. 4 Sui rapporti tra poesia e simposio: Poesia e simpa&ioru!llaGreciaantica. Guida storica e critica, a cura di M. Vetta, Roma-Bari 1983.

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della colonia panellenica di Turi, presso Sibari, ci viene detto che Dionisio avrebbe o guidato la spedizione fondatrice o partecipato ad essa. Da un lato è bene ricordare che il vincolo del poeta elegiaco con la colonizzazione e con temi di colonizzazione è tradizionale, da Mimnermo e Archiloco. Dall'altro bisogna tener conto della tendenza degli storiografi posteriori a far partecipare vari intellettuali ateniesi di prestigio alla fondazione (è il caso per esempio di Protagora e lppodamo). Comunque sia, malgrado le due precisazioni, l'informazione è di grande importanza. Dal 446 al 443 vi furono due spedizioni a Turi, una ateniese e una di coloni di tutta la Grecia; è possibile che le due spedizioni non fossero dello stesso colore politico 5 • L'incoerenza delle liste dei partecipanti potrebbe essere dovuta a questo motivo, e d'altronde gli Ateniesi di quell'epoca non furono certo un modello di costanza di idee. Non mi sembra impossibile che la tradizione abbia dato una mano a vincolare un poeta elegiaco a una impresa coloniale. Che la sua fama di raffinato possa avervi contribuito è del resto anche possibile, data la fama di Sibari nell'antichità. D'altro lato Plutarco ci parla (test.3) di un tal Ierone che si millantava (1tQ001tOLO'UµEVOç, dice) figlio di Dionisio e che era stato educato in casa e sotto la tutela di Nicia. Cosa che, fosse o no suo figlio, tutto sommato vuol dire che, in città e fuori, Dionisio era una persona nota nell'Atene di Nicia (fra il 429 e il 413, diciamo) e negli ambienti aristocratici. In questa città dove doveva essere un personaggio noto lo chiamavano, come ho già detto, "quello di rame". Si dice "per aver consigliato gli ateniesi ad usare monete di rame" (test. 5). Non è questo un affare da poco, anzi tale misura potrebbe essere un rimedio appropriato all'estrema miseria conseguente alla guerra del Peloponneso 6 • Rimedio criticabile perché, anche se alla lunga poteva risultare efficace, a tutta prima poteva essere visto come quotidiano sintomo della penosa situazione economica. Ne abbiamo una testimonianza degna di fede in ciò che dice il corifeo nel v. 718 ss. delle Rane di Aristofane (che sono, ricordiamolo, del 405, l'anno della sconfitta finale di Egospotamo); qui la rana corifeo fa un parallelo fra ciò che Atene fa con i suoi uomini e

5

Ed. Will, Le rrwndegrec et l'Oriem. Le Ve siècle (510-401), Paris 1972, p. 276

6

Ibidem, p. 661.

ss.

Dionisio Calco

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quello che gli Ateniesi fanno con le loro monete: come la città usa solo i peggiori, i cittadini usano le monete di rame; nei vv. 730- 731 i cittadini peggiori e le monete di rame sono un tutt'uno. Per i cittadini che la pensavano come la rana corifeo, il soprannome "di rame" era un insulto. Ma questo soprannome di Dionisio potrebbe essere rivelatore anche in un altro senso. Infatti i frammenti pervenutici (grazie a Ateneo, a cui dobbiamo anche gli scoli attici) si riferiscono al banchetto, e di essi il secondo, di grande elaborazione retorica, come vedremo, al gioco del cottabo. Gioco che, specifico del simposio, aveva varie modalità, ma che consisteva nel gettare le gocce che avanzavano nella coppa (MtayEç), dopo aver bevuto, in coppe di bronzo o rame (Elçxcù:xàç q,u1Àaç,dice la Suda), ed era importante il modo che esso faceva; in cui il recipiente suonava, cioè il rumore ("16q>ç) secondo un'altra prassi, le gocce cadevano dal cottabo pieno su una figura di bronzo o rame con un bagno d'oro che rappresentava un uomo (àvbQtàç xaAxouç XEXQUOO>µtvoç, ancora secondo la Suda). Potrebbe essere che, trattandosi di un raffinato poeta simposiale, chiamarlo Calco implicasse, per gli Ateniesi che cosl si comportavano, connotazioni di dissipato e mondano. A tal proposito vorrei segnalare che quando non viene chiamato xaAxouç, Dionisio è chiamato xaAxtbruç (test. 4): questa parola, se non significa nato a Calcide (cosa che qui non sembra possibile), può essere senza dubbio un'allusione al rame, ma viene testimoniata solo nel lessico di Esichio, dove appare glossata come bELÀf>ç, cioè a dire con senso morale. Cosa che viene ad aggiungersi al senso che sembra imporsi a partire dal passo delle Rane che ho citato pnma. È possibile che egli fosse anche vanitoso. In un passo della Retorica Aristotele si riferisce en passant a una brutta metafora, pensa lui, usata da Dionisio nel chiamare XQauyiJvKallt63t'T)çla poesia (fr. 7). Un commentatore anonimo a questo passo di Aristotele intende (test. 6) che chiamare Dionisio "di rame" faceva riferimento alla sua stele: giacché costui, ci dice, aveva impiegato la metafora citata da Aristotele come deplorevole "nei versi elegiaci incisi nella sua stele". È vero che Stefano commentando lo stesso passo (test. 7) pare che faccia una gran confusione e che parli della stele "del tiranno Dionisio" (che potrebbe essere il tiranno siracusano, nato nei primi anni del IV secolo), ma questo non autorizza West a fare di ogni erba un fascio 7 • Non si può 7

M. L. West, /ambi et elegi Graeci II, Oxford 1972, p. 60.

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certo affermarlo con sicurezza, ma se Dionisio fu un ateniese conosciuto e con buone conoscenze, vanitoso e con una certa disponibilità finanziaria, potrebbe essersi fatto erigere una stele di bronzo ed avervi inciso alcuni versi suoi. Gli Ateniesi, per ridere di lui e del suo stile, lo avrebbero chiamato Calco, attenti al senso morale del rame ed al suo continuo vincolo ai temi del simposio. Le elegie di questo retore raffinato trovano la loro cornice non solo nel simposio ma anche, credo, nei banchetti delle eterie della sua epoca. Nel fr. 3 leggiamo: 6E;LOtl)ç 'tE ÀoyO\J 4>a(axoç MotJCJO>V tQttaç btt CJÉÀ.1,L«T« n:tµn:EL.

Contro la correzione a(axac;,preferita non senza una certa ragione da alcuni filologi, Gentili e Prato espongono che "Phaeax aequalis Dionysii fuisse videtur (cfr. Th. Lenschau, R.E. XIX 2 (1938), 1534 ss. ), ut iam putaverat Osann et nunc etiam D. Smart, Joum. Hell. Stud. 92, 1972, 142 cum adn.; de Phaeacum familia vid. J. K. Davies, Athenian Propertied Families 600-300 B.C., Oxford 1971, 521 ss.". Orbene, sappiamo che l'accordo di Alcibiade con l'eteria di questo Feace, che Alcibiade aveva incorporato nella sua, fu fondamentale per ottenere l'ostracismo di Iperbolo (nel 418-417 probabilmente)8 ; si tratta quindi di qualcuno che gravitava nell'orbita di Alcibiade. a(a; in ogni caso è il singolare di qxx(axEc;e, se era il nome di qualche partecipante al simposio, il poeta poté giocare sul fatto che il suo nome significasse "feace" creando cosl (con procedimento tipico del suo stile, come vedremo) una anfibologia. Inoltre c'è Teodoro, il destinatario esplicito del fr. 1. Non sembra impossibile che si tratti del compagno di Alcibiade che avrebbe fatto da araldo secondo Plutarco (Alc. 19, 2; cfr. 22, 4) nella cerimonia di profanazione dei misteri a cui i membri della eteria (ha(QOuc;)di Alcibiade avevano finto di essere iniziati (µu fy,(E()(loaç xaeLtaç.

oot 1'()(.0'tq> Xaeltrov

xal où À.V t66E beov àmbàç ixvtLTiQ(>m ih, auµ,t6mov xooµci>vxal oòv d, ittµ.EVoç.

10

A. Garzya, 'Dionisio Calco', in Studi $ulla lirica greca, Messina-Firenze 1963, pp. 97 ("gioca sul doppio sensoi, 100 n. 33 ("il solito gusto per il doppio eensoi, ecc. Di "polisemia" ha parlato G. Giangrande, Quad. Urb. 24, 1977, p. 97 88.

11

fr. 3',

E. K. Borthwick, "The Gymnasium of Bromios. A Note on Dionysius Chalcus,

Joum. HeU. Stud. 8412, 1964, p. 49 ss.

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C. Miralles

IlQ01tLVELV vuol dire "bere alla salute di", in modo tale che sempre ha come oggetto, esplicito o no, ciò che si beve; cioè per i Greci nell'ambito del banchetto, il vino. Ma quando qualcuno beveva alla salute di un altro, normalmente gli passava la coppa, dopo aver bevuto. è anche, in questo ambito, e più o Pertanto, l'oggetto di 1EQ01ELVELV meno esplicitamente, la coppa. Nel frammento di Dionisio non appaiono esplicitamente né il vino il suo né la coppa; esplicitamente, nelle due occorrenze di 1EQ01ELVELV, 12 lxoLOaç) • Ciò nonostante è chiaro oggetto è la parola poetica (1tOLflQi,yaxall1JtV6wv aÙÀ.wvltQQq>Vçttràdito sia da mantenere, come fece Dobree. In primo luogo il termine doveva indicare non solo in generale "l'oscurità" della notte, ma anche in particolare un certo colore scuro, "misto di nero rosso e bianco" 11, "di color rosso scuro" 12 , l>Qq>Vtoç "grigio marrone" 13 ; poiché l>Qq>Vçtè preceduto da al6M>Vche ha il valore di "variegato", "multicolore", "cangiante", i due termini farebbero parte di un'unica espressione metaforica ripresa dalla sfera semantica dei colori, con un ossimoro molto espressivo (multicolore, cangiante / oscuro, monotono). Che il riferimento alla melodia di al6M>Vnon sia immotivato, è poi confermato dal passo di Ateneo che riporta i giudizi di Eraclide Pontico sulla qualità delle harmoniai dorica, eolica e ionica 14 : a proposito della prima egli dice che essa "dimostra carattere virile e magnifico e non sereno ed ilare, ma arcigno e impetuoso, non multicolore (:rtou,ww) né vario" e :rtou,(ÀOç è 15 16 considerato nei lessici sinonimo di al6utoç e di alo).(futç • Il senso del passo di Teleste sarebbe dunque: " ... o il frigio re dei sacri auli dal bel soffio, che per primo intonò il variegato rwmos lidio contrapposto al monotono colore scuro, al grigiore della musa dorica, intrecciando alle canne l'alata aura del fiato ... ", e l>Qq>Vçtsarebbe dunque da preferire ad òµq>(l,rispetto al quale costituisce fra l'altro lectio difficilior. Il secondo dei due frammenti non presenta alcun problema testuale né alcuna difficoltà di interpretazione: solo la disposizione colometrica può forse essere modificata per una più corretta e coerente interpre-

11

Cfr. Plat. Tim. 68c; Duri8, FGrHist76 F 14. Cfr. Xen. Cyr. 8, 3, 3. 13 Cfr. Ari8tot. Poi. 792a27; 794b5 in Aristotle. Mirwr Works, transi. by W. S. Hett, London-Cambridge Ma. 1963, pp. 11, 21. 14 Fr. 163 Wehrli = Ath. XIV 624c 88. 15 Etym. M. p. 33, 32 Gaisf. Al6uLoç- mnxO.Oç. 16 Hesych. 8. v. AloUbaç- MLxO.OOç 'tUXEiç. 12

516

G. Comotti

tazione metrica e ritmica del frammento nel quale sono evidenti sequenze omogenee di metra giambici e coriambici: xQQl'.ry1.0V i:ot b' ò~Uq>(l)'Votçmixi:(l)(l)'V ,jlV non si riferisca ai 'nuovi inni' di Timoteo, menzionati ai vv. 211-212, ma sia da intendere in senso piuttosto generico ('tvbE avrebbe in questo caso solo la funzione di segnalare la ripresa di un vocabolo già usato in precedenza). All'accusa di deturpare con le sue composizioni la venerabile 'musica' di un tempo, e di essere il responsabile - per il successo che hanno tra il pubblico le sue innovazioni del fatto che più nessuno compone secondo l'antica 'maniera', Timoteo ribatterebbe dunque: "lch aber tue weder das eine noch das andere. Denn ich dulde jeden in der Musik, mag er jung sein und auf neue, mag er alt sein und auf alte Weise komponieren, raubealso

5

Timou&em. D~ Perur, cil. p. 27. 'LeaPel'Bellde Timothée', Rev. lt. gr. 16, 1903, p. 74. 7 'Timothée de Milet. Lea Pel'Bell',Rev. ck philol. 27, 1903, p. 213. 8 'I Persiani di Timoteo di Mileto', Rend. R. 1st. Lomb. Sc~n.zee Leuere 36, 1903, pp. 635 e 649. Cfr. V. Strazzulla, / Persiani. di E&ehilo e il nomo di Timoteo 1/0lgarizzaliin prma, Mesaina 1904, p. XVIII. 9 'Intorno a Timoteo', Riv. stor. ant. 9, 1904, p. 60. 10 Beilrilge zu ckn Perum cks Timolhem (Di88. Erlangen), Greifswald 1920, p. 43. Nella stessa pagina lo studioso dà conto anche delle interpretazioni di H. Jurenka e di B. Gildersleeve. 11 /bui,. p. 45. Tale interpretazione è condivisa anche da K. Seeliger, Berl. Philol. Woch. 40, 1920, p. 915. 6

G. F. Nieddu

524

auch nicht dem alten Stile die Verbreitung. Nur die µouooxaÀatoÀ.uµat will ich aus der Musik verdrangen (... )" 12 • Anche a questa ricostruzione si può tuttavia obiettare che non spetta a Timoteo consentire o vietare a chicchessia di dedicarsi ali' attività poetica, sia egli 'giovane' seguace del 'nuovo stile' o 'vecchio' ancorato alle passate tradizioni musicali; ma soprattutto appare fuor di luogo far indossare a Timoteo i panni di chi, con piena tolleranza ed equanimità, ponga su uno stesso piano vecchio e nuovo stile musicale. Non avrebbe in questo quadro del resto alcun valore l"ostracismo' da lui decretato nei confronti dei µouooxaÀatoÀ.uµat. Assolutamente insoddisfacente anche la proposta interpretativa avanzata di recente da T. H. Janssen 13 , nonostante il pregio di maggior "semplicità" attribuitole dall'autore. La sostanza della risposta di Timoteo sarebbe a suo avviso la seguente: "Some people criticize my oeuvre; everybody is allowed to interfere, merely the dabblers are kept at a distance". Del tutto incongruo appare supporre che, di fronte al biasimo spartano, preciso nel contenuto per quanto espresso in termini generali, Timoteo si limiti a dichiarare una generica disponibilità ad accettare critiche. In realtà nella sua risposta il poeta sviluppa una argomentazione coerente e pienamente conseguente. A chi gli rimproverava di disdegnare la forma di canto più antica, tradizionale, egli puntualmente ribatte - riprendendo con una punta di ironia i termini centrali dell'accusa ( o't t x a À.a t o 't ÉQ a v v Éo q; uµvotç µouaav à'ttµo>) - di non "tener lontano" dal suo canto nessuno per la sua appartenenza ad una classe di età, sia egli cioè giovane, vecchio o coetaneo 14• L'affermazione non 12

In modo sostanzialmente affine intende il passo W. Schmid (Geschi.chtetkr griechuchen LiteraturI 4, Munchen 1946, p. 509): "Wenn in diesem Tadel liegen soll, dass er [se. Timotheos] irgendeine Altersklasse von der Sangesiibung ausschliessen wolle, so lehnt er das ab"; "er weder Alte noch Junge noch Altersgenossen vom Hymnengesang ausschliesse, sondem nur die Schiinder der alten Musik (... )". 13 Timothew. Persae: a Commentary, Amsterdam 1984, p. 135. 14 La disposizione chiastica evidenzia il rapporto di stretta correlazione tra la / vtOLç;e quella vfov / yEQ06v, usata però con valore più propriacoppia naÀaLO'ttQE'Ùç uv htxvooaEV (vv. 221-222); TÉQ:rtavbgoçb' btt "tq> bba I ~w!;E µouaav tv q>batç (vv. 225-226) 18 • Sul loro esempio ora termini gÌOtJanl! I vecchio, che come si è detto costituiscono puntuale ripresa dell'espressione mwa più antica I musa recenle, sono da intendere a mio avviso nel senso più ampio di quelli di oggi I quelli di una volta, rispetto al quale l°"fxrv appare una vivace quanto inattesa appendice polemica, contrassegnata anche da uno 'scarto' metrico, che interrompe la regolare successione di gliconei e ferecratei. Evidente carattere di invettiva ("Schimpsworter") hanno del resto nel medesimo contesto i singolari (v. 216) e ÀLyuµaxQO(p(l)'Voç (v. 219). Cfr. G. Meyer, Die composti µouoo:n:aÀ.aLOÀVµT)ç stilistische Verwendung der NominalJwmposition im Griechisclum, Leipzig 1923, p. 156. 15 In senso traslato aveva già inteso il passo L. Levi, 'Intorno a Timoteo', cit. p. 59, attribuendo però all'espressione "escludere dagli inni" il valore di "mostrare nella sua poesia sdegno e disprezzo", cioè "posporre un poeta ad un altro a cagione della sua età". Grande incertezza sul valore da dare all'espressione dichiara P. Maas, R. E. VI, 1937, col. 1333, 20 ss., s. v. 'Timotheos': "Sparta wirft mir vor, on :n:aÀ.aLO'téQavvtoa6uoµaitEiç tµt, xouQàv 6' l6ouaa ff!Vl>EX'll>t:tou 'tQLX6ç àvmtt:~ç XÙ66xt:LçÒQ«Vtµt lxvooxomruaa ,:' tv O't~LOL ,:oiç tµoiçaa'U'rijçà6dcpoù auµ.µé'tQOu i:(j>a(j>XaQC;l axbj,aL i:oµfi nQOOitEiaaj36atQUxov'tQLX6ç l6oiJ6' iicpaoµa 'tO\nO X'tÀ..

225 226

227 228 229 230 231

Due dati in ogni caso devono essere sottolineati: (a) i vv. 228-229 'corrispondono' a Eur. El. 532-533: txvoaxonouoa equivale a Elc; rxvoç f:xia' ... mebpa, p{&otv, mentre auµµttQOU trova riscontro in auµµ.nQOc;; (b) il v. 228 si aggregagoffamente a un discorso già concluso in se stesso, che verteva ai vv. 225-227 sulla reazione manifestata da Elettra alla vista del ricciolo prima che il fratello le apparisse di persona 4 • Senonché il rimedio generalmente applicato e accolto anche da G. Murray (19552), da D. Page (1972) e da A. F. Garvie nel suo commento (1986)- rimedio consistente, a partire da F. Robortello, nel porre il v. 227 dopo il v. 228 - sembra peggiore del male: non solo questa trasposizione non restituisce affatto quel riscontro puntuale con Eur. El. 532-533 che pure è suggerito con forza dalle notate coincidenze verbali fra le due coppie di versi, e non solo essa non appare autosufficiente, coinvolgendo l'ulteriore trasposizione (Bothe) del v. 230 davanti al v. 229, ma presenta già di per sé un inconveniente che era cosi

' Cfr. H. Lloyd-Jonea, 'Some Alleged lnterpolations in Aeschylus' Choephoriand Euripides' Ekctra', Clau. Quart. n. s. 11, 1961, p. 174 (il Lloyd-Jones inclina in effetti a consenare l'ordine tràdito, ma 1upponendo una lacuna dopo il v. 228 - cfr. anche Cnomon 37, 1965, p. 657 - cosl che lxvoaxo:n:oùooX'tÀ. venga a gravitare su una frase principale inghiottita dalla lacuna; lo segue West [ed. 1990)) e D. Blank, 'Aeachylus, Choephori225-230', Rh. Mw. n. s. 124, 1981, p. 97, il quale giustamente ouerva che "the sole parallel given, Ag. 239 xrovoo f~ ... :n:pbtouoai}' atç,is not a 1uitable one. The two participle1 here do not express actions difierent from that of the main verb: they are rather of a purely descriptive character andare not to be compued with thoee in Cho. 226 and 228. Verse 228, therefore, han81 in midair in the texts of KJausen, Peile, Verrall, et ali.".

542

F. Ferrari

messo in luce da M. Valgimigli 5 : "dopo txvom«>m>Uaaassai difficilmente Eschilo avrebbe detto àvem~ç;, con una immagine che a quella parola non si addice, mentre s'addice e si accoppia naturalmente a XO\IQUV, anche per il ricordo dell'òµo,nEQOç; al v. 174". Se invece ci teniamo fermi ai riscontri fra Ch. 230 e El. 520, e fra Ch. 228-229 ed El. 532-533, nonché alla successione di momenti esibita neU'Eleura, saremo indotti a ricavare con un solo intervento, per le Coefore, un ordine dei versi del tutto congruente sia col testo dell'Elettra sia con lo sviluppo interno dell'argomentazione condotta dall'Oreste eschileo: airtòv µtv 00V6eoa ~oµa&iç; qAÉ, looiioa nrv6E Xf16EtoutQLX6ç; àvmtEQ0>'6,)ç; xà66xELç;OQ(1V tµt• axt,;«L toµfi xQOO&ioo P6atQ\IXOV 'tQLX6ç; lXVOOXoffl)Uoo t' h m(pcnm toiç; 4'oiç; CJ xa-cftavÒ>V µoQ(pooµau. Le assurde conseguenze delle dicerie che correvano sul conto di Agamennone durante la guerra hanno già avuto enunciazione nel periodo precedente (v. 866 ss.): "Se quest'uomo qui avesse ricevuto tante ferite come la fama fluiva fino a casa, sarebbe stato forato più di una rete, a dirsi". Quella qui riportata nel testo greco è dunque la seconda enunciazione, espressa ancora con sorridente e trionfante ipocrisia: "Se poi fosse morto come si moltiplicavano le voci, da tricorpore certamente, Gerione secondo, si sarebbe potuto vantare di ricevere una triplice veste di terra, abbondante di sopra, perché di quella di sotto non parlo, morendo una volta per ciascuna forma". Se appare chiaro cos'è questa xftovòç; XÀ.aiva e se si tiene presente ciò che abbiamo ricordato sulla terra coperta dal corpo sepolto, il v. 871 non sarà giudicato miserrimus (Page) e non sarà espunto, come normalmente accade sulla base della proposta di Schiitz. Qui Eschilo accosta le due immagini, sicché la terra è la veste che copre il corpo ma anche il possesso tenuto dal corpo, assai spessa la prima, indicibilmente più ricco in profondità il secondo. Tutto è qui sarcasmo, ma il segnale più netto è quello che viene dal "vanto" che la falsa ipotesi avrebbe attribuito (o consentito) ad Agamennone.

'Dramma di Gige', o 'di Candaule'? Antonio Garzya

Non intendiamo qui riprendere la discussione sui vari problemi posti dal P. Ory. 2382 (ed. pr. E. Lobel 1949 = fr. 664 K.-Sn.), 11-111 sec., anche perché taluni sono francamente o irrisolvibili o mal posti, ma solo soffermarci su un punto che non è stato finora toccato. Che la materia lidia potesse entrare nel quadro d'un dramma tragico sembra ipotesi ineccepibile, a partire almeno da due elementi di giudizio: 1) un'idria corinzia (T 1144, a. ca. 460 a.C.) pubblicata da Sir John Beazley nel 1955 (ARV2 571/74 = trag. ad. Se K.-Sn.), la quale rimanda con ogni probabilità (presenza d'un flautista) a un dramma su Creso lv m,Q(l1 ; 2) il racconto erodoteo della vicenda di Candaule e Gige (18-13) che, come già molto tempo prima della scoperta del papiro era stato notato2 , ha tutta l'andatura d'un'azione drammatica, anzi tragica. Il frammento papiraceo porta in linea generale decisiva conferma a tale ipotesi. Abbiamo i resti d'una tragedia. Ma quale il personaggio tragico? Quale la colpa tragica che dà senso all'azione? Si è pensato, come a cosa ovvia, a Gige e al suo misfatto. Ma Gige,

1

Lo stesso tèma ricorre su un'anfora alquanto più antica di Misone (Louvre, a. ARV2 238: 1), anche se Creso vi figuri in costume greco, non, come nell'idria corinzia, barbaro {per la differenza d'abbigliamento cfr. B. Snell, 'Gyges und Kroisos ala Tragodien-Figuren', ZeiJschr.f. Pap. u. Epigr. 12, 1973, p. 203 s.). 2 Da K. F. Smith, "l'he Talea of Gyges', Am. Journ. Philol. 41, 1920, p. 1 ss.: " ... in fact it is actually a parallel in prose to such drames as the Agamemnon or Oedipw Tyrannw"; e ancora più lucidamente da K. Reinhardt, 'Gyges und sein Ring', Europil.ùcheRev. 15, 1939, p. 386 Vermachtni.sckr Antihe, Gottingen 1960 (rist. 1989), p. 177: "Charaltterisiert wird es (se. la fonte della nanazione erodotea) durch zweierlei: dadurch, dass die Geschichte menschlich weise wird, bis zum Ironischen, und dadurch, dass sie mit seelischem Konflikt anfùllt, bis zur Tragik... um 500... WeM aus der Wundergeschichte die fast tragische Novelle wird zur Zeit, da in Athen sich die Tragfidie bildet, so ist das kein Zufall". Cfr. anche K. von Fritz, D~ griechi,che Gachichluchreihun.g I, Berlin 1967, p. 214 s. ca. 490/480

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A. Garzya

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posto dalla regina di fronte al dilemma: o uccidere Candaule e prenderne la sposa o esser lui ucciso per averla vista nuda, nello scegliere la prima alternativa, agisce per puro calcolo egoistico, non per una di quelle decisioni profonde. e tormentate che sono proprie delle persone tragiche (prototipo il Pelasgo delle Supplici di Eschilo: 407 6ei 'tOL fkxitdaç q>QOVt(OOç Oom)QLO\J ..• ). Non lo si può confrontare neanche con un Egisto. Si comporta, al più, come l"'eroe cattivo" d'un romanzo, al quale non resta altro che attendere che si compia la "giustizia poetica" in cambio del male compiuto. Affatto diverso il caso di Candaule. Erodoto parla chiaro (cap. 8): o~'toç... 6 Kav6auÀ.T)çt'iQltoitf) 'rijç lrov'toù yuvaLx6ç, tQ«oitdç 6è tv6µLtt ol dvaL yuvaixa 1tollòv 1taotrov xall(O'tT)v. oome6è 'taù'ta voµ(trov, ~v ya.Qol 'tvatxµo(J>6Qrov r"YT)ç... àQeox6µevoçµa.À.Lma, 'tOU'tcp'tq>ruYTJ... 'tÒ dooç 'rijç yuvaLxòç Ù1tEQE1t«LVÉrov· xQ6vov 6È où 1tolloù 6Ldit6v'toç, xQiiv yàQ Kav6auÀTIyevtoitaL xaxci>ç,D..eye1tQÒç oxroç txELVT)V -ltE'flOEaL yvµ\l'tlV. Nel contesto 'tÒVr"YT)v 'tOLa.6e·... 1tOLEL tutto ruota intorno all'inciso xQiiv yàQ Kav6aUÀTIyevtoitaL xaxci>ç:il resto mette in luce in quali termini e per quale via doveva attuarsi il suo destino di rovina. A procurarsi la fine fu lui medesimo col gettar disonore sulla moglie. Ma non tale era stato il suo intento. Al contrario, egli aveva voluto soltanto esaltare, anche agli occhi d'un estraneo, la bellezza che il suo amore gli faceva credere di gran lunga superiore a quella di tutte le altre donne. In codesto senso la colpa di Candaule richiama quella di alcune figure del mito: di Side, moglie di Orione, che osa "gareggiare in bellezza con Era" 3 ; di Cassiopea, che in un filone della tradizione mitologica s'inorgoglisce della bellezza della figlia Andromeda sino a sfidar le 4 ; di Niobe, la Nereidi finendo annientata dalla sua À.a.À.oç E'Ù'texvia quale mena vanto della prole sino a oltraggiare Era ricevendone la punizione più terribile. Si tratta ogni volta di colpe non per animus nocendi, ma per una sorta di dismisura (hybris) nel bene, di passioni in sé lodevoli, ma spinte oltre ogni limite. La colpa, diciamo la hamartia, di Niobe fu presa, com'è noto, da Eschilo a tèma d'una sua tragedia 5 • Una

3

Ilt:Ql µoQ(pijç;te(oaaa 'HQi;x(Apollod. I 4, 3). A. P. XVI(= A. Pl. IV) 147 (Antiphil.]; cfr. Hygin. Fab. 64; Lucian. Dial. meretr. 14. 5 È da precisare che, mentre nel resto della tradizione Niobe si vanta solo del "numero" della prole, in Eschilo sembra farlo anche per la "bellezza" della stessa: fr. 4

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'Dramma di Gige', o 'di Candaule'?

differenza fra la Niobe eschilea e il dramma del nostro papiro è che qui la vicenda si trova collocata non più nel mito, ma nella storia, una storia, ovviamente, adattata, mediante straniamento e altri accorgimenti, in guisa da poter entrare, come avviene, per esempio, nei Persiani di Eschilo, in una tragedia. Altra differenza è che Candaule non vi compare propriamente da troµaxoç, anche se il suo eccesso nella passione si configura comunque come un'accecante ate e diviene lo strumento della rovina che gli è destinata; a lui si acconcia la sentenza eschilea 'ttç a1h6ç, xcòtroç che suggella il destino di Dario: ò).J.' lrcav I.Àei6è 'tq>xaµvovn OULçx-&ov6ç, cpft(vouoa6' ày6.aLç PJ.&(l Kabµeiov, µt).aç 6' •AibTiç cnevayµoiç xat y6ot.ç,w)U't(tnaL. e per suo effetto [della peste) la caaa di Cadmo si vuota; e il nero Ade si arricchisce di lamenti e di pianti. La &..e ~ di Goldhill, p. 182. s Loraux,p. 51. 2

Figure femminili nell'Edipo re

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La lingua, mentre è ricca di trovate stilistiche, è povera di determinazioni precise. Da una parte, come se parlasse per enigmi, il sacerdote costruisce un'antitesi di immagini ("vuotare", "riempire") su un chiasmo, il quale sembra alludere alla perversa e contraddittoria natura del male. In più gioca allusivamente sul nome alternativo di Ade, e cioè Plutone, e chiamandolo nero riprende un epiteto tradizionale di Ade (cfr. Eur. Hec. 1105-1106), esso stesso costruito su un'allusione etimologica (Ade ricondotto a un alfa privativo e alla radice id- del verbo "vedere"). La mortifera peste solleva dunque tutto questo gioco allusivo e stuzzica l'immaginario da vari punti di vista mitico-religiosi. D'altra parte il testo non dice nulla di preciso sulla peste stessa, su come uccide le piante e gli animali e in che modo attacca gli umani e quali fra gli umani sono più colpiti. La lista specifica dei colpiti contiene solo i frutti della terra, gli animali domestici e le donne incinte. L'esperienza della peste in Atene, alla quale qualche critico rimanda per datare l'Edipo, sembra del tutto assente da questa descrizione, specialmente quando la si confronti con il testo di Tucidide. Queste caratteristiche della descrizione della peste fanno pensare che essa sia evocata qui in termini volutamente vaghi e mitici per corrispondere all'edificante tema di un'altra peste, quella che s'abbatte sulla città ingiusta secondo il modello esiodeo di Op. 238-24 7. I versi 242-245 del poema esiodeo offrono un confronto preciso ed una conferma dell'allusione testuale e dunque anche del motivo edificante:

toimv 6' OOQ.ao(· oo6t yvvaixtç; tlxtoumv, µLvuik>um6t otxm Z'l"òç;cpQCX6µoouvnmv 'O>.uµ.n(ou· Il figlio di Crono invia loro dal cielo una grande sofferenza, la carestia e insieme la peste, e la gente muore, le donne non partoriscono, le case sono svuotate, per via delle decisioni di Zeus Olimpio.

I paralleli concettuali e linguistici fra il passo di Sofocle e questo di Esiodo sono evidenti, a cominciare dall'uso dello stesso verbo (apo)phthinutho, cfr. O. R. 25-26 phthirwusa ... phthinousa, fino alla menzione della sterilità delle donne e delle case vuote. Anche nel passo esiodeo la menzione delle donne che non partoriscono è specifica e mette in risalto le donne come le vittime privilegiate, se non esclusive, della peste. Sofocle ci presenta dunque il motivo della peste in termini mitici e tradizionali come la punizione che cade su una città ingiusta.

P. Pucci

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Nel cantico 168 ss., che riprende in termini lirici la descrizione della peste, troviamo le stesse caratteristiche che abbiamo già messo in evidenza per il passo 25 ss. Anche qui, mentre si dichiara che "l'intero popolo è malato" e che "uno dopo l'altro" i morti se ne vanno, si enumerano solo specifiche malattie delle messi e delle donne, e cioè i loro aborti (168-174); e nell'antistrofe si evocano solo i corpi morti dei figli, mentre madri e mogli corrono supplici agli altari. Il testo non esclude i maschi adulti dalla carneficina della peste, ma la specificità della peste e l'enfasi retorica nella descrizione marcano soprattutto le donne. Il lettore non deve dimenticare che la peste attacca soprattutto il processo riproduttivo. Madri e figli sono dunque le vittime privilegiate. Il testo non garantisce neppure che il dio della peste sia veramente Ares. La fiducia, cosl consolante perfino nel testo di Esiodo, di poter indicare con certezza la causa della malattia manca del tutto nel testo di Sofocle. Il coro, che cantando identifica il dio della peste con Ares, non fa che un'ipotesi, probabilmente giustificata dal fatto che Ares è, dal momento della fondazione di Tebe, il dio nemico della città 4 • Ma quest'ipotesi non viene mai confermata. Per il lettore il rapporto di Ares con la peste e con il crimine di Edipo rimane misterioso. Sembra che il testo si diverta a portare le tracce della presenza di Apollo fuori dal nostro orizzonte e a suggerire veramente l'assenza del Padre, cioè dell'autorità, che attraverso l'oracolo pare aver programmato il destino di Edipo. Perché è evidente che, mentre l'oracolo di Apollo si avvera presto ed è immancabile, il riconoscimento di questa avvenuta realizzazione da parte dei personaggi giunge tardi e per vie del tutto distorte. Non è solo, come ha ben detto Freud, che il processo di riconoscimento sembra avanzare proprio come il processo dell'analisi, ma si deve aggiungere anche che il modo in cui il riconoscimento si effettua sembra lasciato al gioco del caso, senza che nessuna autorità prenda in mano le fila del garbuglio per scioglierlo. Il testo sembra provocare il lettore con l'idea che nessun vero padre (telos) è riconoscibile dietro gli eventi, e suggerire che le storie diverse che Edipo, Giocasta, Polibo e tutti gli altri hanno dato di sé e dei loro incontri siano completamente equivalenti quanto a verità. Rimane per cosl dire nelle mani del caso che il riconoscimento del parricidio e dell'incesto alla fine avvenga, e che dietro a questi fatti riconosciuti si possa leggere la presenza del padre 4

Vian, pp. 22-32, 107-109.

Figure femminili nell'Edipo re

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Apollo. Sl, il fattaccio avviene come Apollo ha predetto, ma il riconoscimento di questo, e dunque il fattaccio stesso, sembrano non emergere che con la risibile complicità del caso, o con la complicità della tyche di Apollo. La presenza della peste, la sua causa e i suoi specifici effetti rimangono dunque enigmatici. La peste appare come esempio edificante di una punizione divina, una parabola devota già tradizionale nella letteratura pia. Essa giunge molti anni dopo che la trasgressione da parte di Edipo ha avuto luogo, e dunque non funziona come la reazione religiosa reale a quella trasgressione. La funzione della peste nell'intreccio del dramma si limita a fornire un'allegoria dell'impurità di Edipo e a forzare Edipo e i tebani a chiedere la ragione della peste, e cioè a riaprire l'inchiesta sulla morte di Laio. In questa seconda funzione la peste è il motore iniziale dell'azione drammatica. Ma una volta che questa funzione è esaurita e che la funzione simbolica è stata avviata la peste sparisce dalla scena: dopo il verso 685 nessuno la ricorda più. Certo, il coro continua a farsi domande etiche sul tiranno e sull'impurità dei suoi costumi, ma tali domande non si riferiscono più alle sofferenze della città, ma alle esperienze private di Edipo e di Giocasta. Questa interpretazione edificante e tradizionale del ruolo della peste nel dramma suggerisce che il pubblico colto del dramma potesse già comprendere dalla presenza della peste che un atto di hybris era stato commesso nella città. Infatti la hybris è all'origine della peste nel testo esiodeo (cfr. Op. 238), ed essa apparirà come madre del tiranno nel testo sofocleo (873 ss.). L'insistenza del testo sull'aborto delle nascite e della riproduzione in generale fa comprendere che la hybris si riferisce alla trasgressione della santità della famiglia. Queste premesse, determinate dall'allusione al testo (e contesto) tradizionale, marcano fin da principio la traccia della nostra lettura e soffocano altre storie che tuttavia il testo in modo provocante presenta, come per esempio la parziale o totale innocenza dell'assassino. L'assassinio di Laio, invece, è già scritto in un contesto devoto, in una specie di allegoria religiosa, che necessariamente qualifica il gesto come atto colpevole, cioè di hybris, come del resto l'incesto. Aver rappresentato le sequele di morti e di aborti che avvengono a Tebe, aver messo tutta la città in panni di lutto solo per raggiungere gli effetti menzionati e per dimenticarsene subito dopo a effetti ottenuti, non è poca hybris da parte dell'autore stesso. Non c'è niente dell'impegno politico e sociale che i critici stanno ancora cercando di enunciare

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e comprendere, senza risultati convincenti 5 • Il fatto è che il testo non fonda i problemi morali e religiosi che lo agitano sulla comunanza delle sofferenze e delle esperienze, e neppure su questioni relative alle strutture portanti del potere politico. Basta considerare la fantasiosa e aberrante rappresentazione di Edipo come un leader semidivino, circondato da fanciulli e sacerdoti in atto di supplica agli altari, per convincersene6. Questa scena rende grandiosa la figura di Edipo, lo mette su un piedistallo unico e improbabile piuttosto che introdurre un rapporto organico e realistico fra lui, i suoi problemi e la città. In più si noterà che Edipo, in quanto tyrannos, è un re per caso o per colpo di fortuna, come Reinhardt, Vemant e altri hanno sottolineato con forza7 • Re per caso, quando avrebbe dovuto essere re legittimo di Tebe, Edipo è politicamente, cioè in quanto 'tiranno', un effetto ironico delle cose, delle traversie contorte che ha seguito per arrivare dove è arrivato, e dove non doveva arrivare. Il testo usa dunque il tema della peste per provocare l'inchiesta delfica e per marcare con un esempio devoto l'impurità che macchia Edipo. La morte dei fanciulli e delle madri, come quella degli altri tebani, diventa inutile una volta raggiunti questi effetti, e si può per cosl dire buttar via. Che in questo contesto i padri non siano mai esplicitamente menzionati è un fatto che dà da pensare. Questo contesto servirà da cornice per analizzare e intendere la figura della madre nel dramma. Abbiamo visto che la madre d'un figlio illegittimo è essa stessa eyche, ma questa identificazione ha anche un'applicazione più generale con conseguenze ideali più profonde. Quando il messaggero di Corinto porta la notizia della morte di Polibo, Giocasta ed Edipo si rallegrano prendendo questo trapasso come una prova della inattendibilità degli oracoli. Ma la gioia di Edipo è presto temperata dal riconoscimento che sua madre Merope è ancora viva. La paura dell'incesto lo attanaglia sempre. Giocasta cerca di smorzare questa paura con un argomento generico scuotendo, con grande forza emotiva, i fondamenti delle credenze religiose dalle quali e lui e lei sono tormentati (vv. 977-988): 5

Fra gli interpreti, Di Benedetto (p. 130 u.) analizzacon finezza l'ecliui della polis dalle preoccupazioni del dramma e l'emergenza di problemi e ansietà tutte private. 6

Sugli aspetti anomali e iperbolici del personaggio Edipo ai vedail bel saggio di Gentili, pp. 117-126. 7 Reinhardt e Vernant.

Figure femminili nell'Edipo re

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t

Che deve l'uomo temere? il caso (tyche) che controlla la sua vita e non c'è previsione certa di niente. Meglio vivere alla ventura (eikei), come si può. E riguardo a questo matrimonio con tua madre non temere: già molti uomini anche (kan) nei sogni giacquero con la loro madre, ma colui che non si dà pena di queste cose vive meglio. EDIPO: Tutto quello che dici sarebbe bene, se quella che mi ha messo al mondo non vivesse. Lei viva, è giocoforza che io tema, anche se parli bene. GJOCASTA: Però la morte del padre è un gran conforto. EDIPO: Grande, d'accordo, ma quella vive ed io temo.

L'affermazione che il caso o la fortuna dominano l'uomo suona scettica riguardo alla presenza e all'intervento degli dèi nella vita. umana. Specificamente quest'affermazione attacca le forme di previsione o prescienza che l'uomo attribuisce agli oracoli e ai sogni 8 • Ma il pubblico sa che Giocasta e Edipo sono realmente incestuosi e dunque non solo è invitato a capire che gli oracoli sono attendibili, ma anche a rendersi conto che l'indifferenza, anzi l'insignificanza che Giocasta attribuisce ai sogni incestuosi degli uomini è quanto meno impropria nel caso presente. Il punto delicato in questo passo è il kai del v. 981, che già doveva imbarazzare gli antichi: è scritto in rasura sul ms. L, ed è discusso dal Dawe, che ne cerca una correzione 9 • Infatti il kai mette in rapporto i sogni in quanto mezzi di premonizione divina 10 con gli oracoli ed invita a comprendere " ... non temere il matrimonio con tua madre, dal momento che, non solo gli oracoli, ma anche i sogni incestuosi [non profetizzano nulla] e coloro che non se ne danno pensiero vivono meglio". Ma l'intero pensiero non è ben sviluppato, e la menzione degli oracoli, avvenendo tre versi prima con la frase generica "non c'è previsione certa di niente", lascia il kai isolato. Come suggerisce il Dawe nel suo commento, a prima vista le parole lascerebbero intendere "anche nei sogni come nella vita". Giocasta sembrerebbe dunque affermare che l'incesto è un fenomeno del tutto ordinario. Naturalmente essa non lo vuol dire e in ogni caso l'incesto non è un fenomeno ordinario: ma

8

Sui risvolti ideologici di questa posizione di Giocasta si veda Di Benedetto.

9

Dawe.

10

Vd. per esempio Il. 1, 62-63, dove Achille dice che i sogni vengono da Zeus.

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poiché sappiamo che essa vive in incesto con Edipo, questo significato superficiale delle sue parole acquista per l'ascoltatore un senso e lascia una traccia. Probabilmente questa prima interpretazione delle parole di Giocasta è voluta per ironia tragica. Sull'orizzonte del caso e del vivere alla ventura i sogni incestuosi non profetizzano niente, sono fantasmi privi di senso, dei significanti che non si riferiscono a nulla. Nemmeno al piacere? Nell'indifferenziazione del caso, le distinzioni cessano e subentra la promiscuità. Ci si ricorda qui delle parole che il coro usa per descrivere Giocasta dopo che il segreto dell'origine di Edipo è stato scoperto (vv. 1208-1210): O glorioso e caro Edipo. Lo stesso largo porto bastò al figlio e al padre, servi della stanza nuziale per giacervi. Come mai i solchi appartenenti al padre poterono sopportare, infelice, in silenzio, cosi a lungo?

La metafora iniziale in se stessa è carica di significato. Limen ('porto') echeggia hymen ('imene' e 'matrimonio') ed evoca il contesto liquido dell'atto sessuale e il paesaggio marino, che simboleggia Amore dal momento della nascita di Afrodite dal mare 11• Ma più precisamente questa metafora richiama quella già usata da Tiresia (vv. 420-423), per il quale il matrimonio di Edipo con Giocasta è un matrimonio e un porto inospitale, senza approdo (anormon). La stessa immagine è dunque ripresa, con la differenza che Giocasta, in quanto porto per Edipo, non è più un porto inospitale come aveva detto Tiresia, ma largo, e dunque troppo ospitale, come dice il Coro. Questa differenza rende palese la disponibilità sessuale della madre per il figlio, senza quel ritegno o forse quel rifiuto che Tiresia aveva apposto alla definizione di Giocasta come porto. Anche la seconda figura metaforica usata dal coro è sorprendente. Giocasta è qui metaforizzata, secondo un 'immagine frequente, in un campo i cui solchi sono seminati da Laio, perché appartengono a lui (patroiai ... alokes); ebbene, questi solchi non hanno gridato allo scandalo quando il figlio ha preso il posto del padre per seminarli. Anche l'immagine di testimoni inanimati e muti di fronte allo scandalo è

11

Hes. Theog. 188 88., Emped. 98 D.-K., ecc.

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convenzionale 12 , ma la perversità della parola del Coro non è attenuata dal fatto che l'immagine sia frequente. Perché il coro sa bene che Giocasta non ha potuto gridare perché essa non conosceva l'identità di Edipo, ma, esprimendo questo argomento in una domanda retorica, lascia liberi gli ascoltatori di intendere che Giocasta avrebbe dovuto gridare, come se di fatto essa sapesse tutto. Quest'interpretazione è di poco attenuata dal fatto che l'epiteto patroiai dato ai solchi suggerisce che è la voce del padre che avrebbe dovuto risuonare nei solchi di Giocasta. Ma il padre non ha voce: è assente. Apollo aveva tutto predetto, ma lascia correre le cose. Laio è morto, ucciso da briganti. Nell'assenza della voce del padre niente impedisce l'incesto perché i solchi materni non fanno discriminazioni contro il figlio. La madre è un porto largo, e una Tyche ben generosa (eu didouse.,, v. 1080). Un'altra madre, Merope, è descritta in modo analogo a Giocasta, cioè con il suggerimento che essa sia capace di manipolazione sessuale. Anche qui è nel risvolto del testo, in una lettura possibile o alternativa, che il suggerimento è fatto (vv. 779-780): 'AVflQ yàQ tv bEUt'VOLç, µ' Ù3tEQ3tÀTJOitdç µt6yJ xétoitat; Suppl. 574 !;T)çµÈV liyayev, :rco:rcoi, I EéQ;T)çb' à:rcooÀ.EOEV, 'tO'tOL, / EéQ;T)çbè :rtav't'!:rtéQ6vroç; Choeph. 436-

437 bta'tL µÈV OOLµ6vrov, / EX«'tLb' àµltv xeQv. Sofocle è più alieno da queste strutture severe, come del resto fa un uso più ridotto della ripetizione 5 • Egli ama ribadire in un canto i concetti essenziali con il richiamo a una o più parole chiave, ma per lo più queste non appaiono in responsione nella strofe e antistrofe. La parodos delle Trachini-esi apre a 94 con le parole al6À.avu!; che ritornano, in diversa sede metrica, all'inizio dell'epodo 132-133; il coro che

3

Sulle iterazioni rituali vd. il commento di E. Norden al libro VI dell'Eneide, Berlin-Leipzig 19273 , p. 136 ss.; quello di E. Doddsalle Baccanti, Oxford 19602, p. 80; W. S. Barrett, op. cit. p. 169. 4 Proprio in vista di queste variazioni conviene conservare la lezione di P e non restaurare un testo identico nei due passi, come, sulle orme di Elmsley, fa K. Chr. Korff nella più recente edizione della tragedia, Leipzig 1982. 5 Rare sono in Sofocle le doppie ripetizioni, cfr. R. W. B. Burton, TM Chorw in Sophocks' Tragedi.es, Oxford 1980, p. 24. Il libro esamina i casi più rilevanti di ripetizioni in Sofocle, vd. nell'indice s. v. 'Repetition of words'.

Simmetria verbale e concettuale nelle responsioni in Euripide

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lamenta l'inganno fatale del centauro, lo descrive all'inizio della strofe ... Mµounv p>..apav(842), alla fine come oo>..(avxat come J.LEYaÀQévaç b' ÒÀLYLO'tOV xQ6vov b-còç l'x-caç11.Analogo 6vov~ 861 q>6vou; Hipp. 552 q,ov(otç ~ 562 q,ov(q>;Hec. 931 'D..taOaO'X01tLaV ~ 941 OOQLOEV 'D..taOOç;Suppl. 71 ~ 79 y6(0'V,1002 ~ 1025 qxi>ç;/on 1088 lù).(O'V ~ 1104 6llav (si insiste sull'estraneità di Ione alla casa regale di Atene e ai suoi destini); El. 143 ~ 161 :rta'tEQ(nell'invocazione di Elettra al padre morto), 1212 ~ 1220 Jl\JQOµat xa'tOÀ.Oq>UQOµal., 968 V-roç lì.EoçocYfQXE'tQL ~ 979

~

~

heea 6' hEQOçàµet~E'tat. Una sede preferita per tali ripetizioni, che così acquistano maggiore enfasi, è l'inizio della strofe: Alc. 872 nQ6fm, nQ6fkx~ 889 wxa, "EQO>ç ~ 535 lxllooç ullroç; Suppl. 955-956 wxa; Hipp. 525 "EQO>ç oòxtt' E'U'tEXVOç, oòxtt' rii- I 1ta1.ç~ 963-964 brtà µa'tÉQEçbrtà XO'U/ QOUç,1123 q>ÉQO> q>ÉQO> ~ 1132 MaLç Matç; Bere. 763 XOQOÌ. XOQOL ~ 773 itroì. &ot. Del resto il /coloniniziale di una strofe è anche una sede preferita per richiami verbali, come nel passo riportato sopra di Suppl. 71 ~ 79 y6rov I o Bi,pp. 1120 ~ 1131 I OÒXÉ'tt (vd. anche sotto p. 570). Questi espedienti ricorrono, come abbiamo visto, anche in Eschilo, in misura minore in Sofocle. Ma Euripide non si ferma qui. La ripetizione metrica favorisce anche la ripetizione di concetti identici o simili, anche se non espressi in una veste verbale identica. Se casi come Alc. 252 vExurovbè noei)µeuç ~ 260 vExurovtç aòì.av oppure Med. 647 olx'tQO'ta'trovàxérov ~ 657 bEtv6'tatov naitérov (in fine di periodo) sono una sorta di riecheggiamenti orecchiabili, quasi dei ritornelli, altrove la responsione metrica anche di più di un /coloncoincide con la ripetizione di uno stesso pensiero in termini volutamente variati. L'ascoltatore coglie il ritmo di un medesimo motivo con le medesime note, ma con parole diverse. La simmetria è tanto più significativa quando ricorre alla fine della strofe o alla fine di un periodo, nei punti che più restano impressi nell'orecchio di chi ascolta. Perciò nell'elenco che segue saranno indicate, ove ricorrano, queste sedi metriche privilegiate. Il primo coro dell'Alce.sti, che nella strofe lamenta la morte incombente su Admeto col rimpianto che non sia possibile ricorrere per aiuto agli oracoli, come a quello di Ammone 115-116 (in fine di periodo) d't' lq,' fbQaç ò:vubQOuç/ 'Aµµrov1.abaçI (secondo il restauro di Nauck di questi versi corrotti), nell'antistrofe ricorda Asclepio che solo sapeva ricondurre dall'Ade i morti: ~ 125-126 ~À.itEV fbeaç axo,;(ouç 1·A1.ba

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'tE m'.l>..ac;, dove l'accenno parallelo alle due vie di salvezza precluse si carica di una ironia oggettiva se il seguito del dramma mostrerà che Eracle farà proprio quello che Asclepio avrebbe potuto fare (/ µ6voc;b' lxv, 122): il rimpianto, apparentemente inutile quanto gli accenni agli oracoli, diventa quasi profetico. Nel terzo stasimo della Medea il coro lamenta l'ardire della donna nell'aver ucciso i figli 851-852 OXÉ'\J'aL b' -cextrovn>..ayav, I oxt'\J1at q>6vovotov alQTII ~ 861-862 (1tc; 6µµa-ca 1tEQL(3a)..ouoa) 'tÉXVOLc; lxbaXQUV µoiQ..ovno-cl aàv •Aat11nba ytvvav

~

128 (ciµtll~) / 'I>..tàc;ooaa x6ga Aaxeba(µovoc; tyyevtcnatv; Con assonanza finale Suppl. 71 (all'inizio di strofe)/ Ò.yW'V ob' 6Uoc; abe µ' t;ayeL XO.QLc; y6rov. Il coro tgxe-caLy6rovy6rov ~ 79 / MÀflgob(-I -cav a.Uav ittµevoc; XO.QLV / v6itou 1tatbòç lxuQ..µouv-c(bac;ò.x-cac;Il ~ 449-451 (Ma 1t«'tflQ)i.1t1t6-cac; Mbt q>c; / 9htboç etvéù..tovy6vov / -caxunogov 1t6b' 'A-cge(batc;liNel kommos tra Oreste, Elettra e il coro, quest'ultimo conclude strofe e antistrofe con un commento al matricidio, 1226 betv6-ca-cov1taittrov

Simmetria verbale e concettuale nelle responsioni in Euripide

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fQ~aç 11 ~ 1232 t:tQµa xaxci>vµEyaMOV MµoLoLv Il.Nell'Oresteil canto del primo stasimo supplica le Erinni di lasciare libero Oreste, 319321 li~xxeutov at ittaoov Mxe-t' lv I daxc,vo, xat y6oLç / µdaYXQO>'tEç EÙf1EVt6Eç, ahE 'tÒV ~ 335-337 itoa~rov OE'tÒV f.LÉÀEOV q> MxQUa / daxc,vo, 6àvtµq>xQCi> Il~ 879 lù.l' hoo ~auÀ.oç fk>àX«Q(i lii. In particolare questa rappresentazione della musica funge talvolta

9

P0880noessere semplici esortazioni a danzare o a cantare oppure paragoni, fino a diventare descrizioni che talvolta occupano strofe intere. Cfr. oltre i passi citati sopra: Aie. 446-454; Med. 421-426; Heracl. 780-783, 892-893; Hipp. 1135; Suppi. 975-976; Cy. 63-72; Hen:. 348-351, 683-686, 763-768, 781-794; El. 178-180, 702704, 859-865, 873-879; Tr. 146-152, 325-341, 542-550, 1071-1073; Hel. 13421352; IT 179-184, 1125-1130, 1143-1151; /on 1074-1089; Ph. 312-317, 651-656, 786-788, 822-827, 1153; Or. 145-146; /A 576-578, 1036-1039, 1480-1482; Ba. 72-74, 114, 120-134, 155-167, 378-385, 561-564, 862-864; Phaeih. 71-72 Diggle. Nel tardo Euripide con il mutamento di stile dei suoi cori anche il motivo della musica si fa più frequente, dove bisogna tenere conto, tuttavia, che certi pezzi, come le Baccanli, ne offrivano più spunti che non altri.

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da antitesi esplicita o implicita di un motivo serio o addirittura luttuoso. Nelle Troiane il suono del flauto e il canto delle fanciulle che festeggiano l'arrivo nella città del cavallo di legno e la presunta partenza dei Greci (542-555) contrasta immediatamente col grido di morte che si leva da Troia in fiamme (555-557). Nello Ione si immagina che le figlie di Aglauro danzino sull'Acropoli al suono della zampogna di Pan (492501), ma proprio nelle vicinanze dell'antro del dio è stato esposto da Creusa il fanciullo creduto morto (502-509), e più tardi, nel suo appassionato sfogo contro Apollo, Creusa descrive il dio che canta al suono della cetra (881-884), mentre essa si consuma nel ricordo del parto infelice e della sorte del fanciullo (895-904) e termina il suo lungo lamento ancora una volta con l'evocazione di Apollo che, indifferente ai suoi dolori, è intento a cantare e a suonare la cetra (905-907). Il primo scambio di canti tra Elena e il coro (Hel. 167-178 ~ 179-190) avviene per immagini musicali. Elena invoca le Sirene perché accompagnino con il flauto libico o la zampogna i suoi lamenti e perché Persefone, che le invierà, riceva come ricompensa il suo canto di lode per i morti ÒÀOµÉVOLç À.aPn 11.Il coro 177-178 ('lv' bct MXQUOL)/ ,tQLQVa/ VÉXUOLV che accorre appena ode le parole di Elena paragona il suo lamento al grido di una Naiade che si rifugia sui monti per lamentare l'amore di Pan:~ 188-190 (ù,w;òOÈ,w;hgtva yuaÀ.a)/ XÀ.ayyaiaL/ Ilavòç àvaPo~ yaµouç 11.Il motivo di Pan Ninfageta col quale termina l'antistrofe è derivato dalla tradizione degli inni di culto(/. G. IV 12 130 A c. 1, 15 ss. = P. Maas, Epidaurische Hymnen, p. 130) ed è collegato, come avviene spesso in Euripide, alla menzione della zampogna (al v. 171, cfr. fon 492, 498, 501; IT 1125-1126). Proprio quest'ultimo esempio ci introduce a una variante particolare della simmetria: quella di collocare in responsione, spesso con assonanze verbali, concetti opposti, o almeno diversi, di modo che il parallelismo formale faccia risaltare ancora di più l'antitesi del pensiero. Nel primo stasimo dell'Alcesti la strofe termina con l'invocazione O' à'1:61tauaov ad Apollo perché liberi Admeto dalla morte, 225 q>C)VLOV •Aibav Il,l'antistrofe con l'esortazione alla terra di Fere a lamentare la discesa ali' Ade di Alcesti, 237 xa'tà yfxçxMvtov 11:ag'"Atoav Il-In maniera analoga, il coro del primo stasimo della Medea chiude la strofe con l'immagine dell'esule che sarà cacciata senza onore dalla terra di Corinto, 437-438 'taÀ.aLva,qroyàçOÈxrogaç / li't1µoçUauvn Il,mentre l'antistrofe con quella della nuova sposa che si insedia nel suo letto 6.lla Poawia XQELOO(l)V / nuziale, 444 445 (avOÈ À.éX'tQQoOhaç11-La chiusa dell'antistrofe spiega invece che cosa Paride portò veramente a Troia, 1135-1136 aavarov vEq>tÀav btl vaualv 6.yrov/ docoÀovlEQÒV 'BQQç11-Alla fine delle due strofe stanno i nomi delle due dee rivali. In questi artifici è innegabile una certa meccanicità e fissità nell'applicare un mezzo enfatico. Euripide però sembra farne uso quando si tratta di parole, motivi o concetti rilevanti per il contesto non solo del canto, ma anche dell'intera tragl:'dia. Ma alcuni casi fanno vedere una rilevanza che va oltre la mera enfasi retorica e musicale.

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Una è quella della ripetizione di motivi della sfera religiosa. In una tragedia nella quale l'aspetto religioso, o meglio l'atteggiamento dei protagonisti verso la divinità, impronta di sé tutta la trama, lo Ione, il lungo canto iniziale (81-183) del ragazzo è ispirato dalla sua completa dedizione al servizio del dio e alla convinzione che la sua esistenza sia tutta racchiusa in questo servizio che è anche un dovere di gratitudine verso Apollo che lo nutre. È uno dei pochissimi canti in cui compaia l'tqroµvtov con l'invocazione, probabilmente in termini rituali di Paian (125-127 = 141-143). Gli anapesti di marcia che precedono il canto strofico col ritornello (112-143) terminano con un paremiaco, 110..111 ('tO'Ùçi)QÉ,paV'taç) / o(fk>u vaoùç i)EQWtEUOO 11-Lo stesso motivo è ripetuto anche nella parte strofica, a 127-129 ro/ oi~E,oot 3tQÒ MµoovMl'tQEU-/ ooe in chiusura di strofe a 140 o(fk>u 'tOUxa'tà vaov li. Queste riprese non sono in responsione, ma l'intera monodia di Ione si chiude con il paremiaco 183 'toÙç ~OXOV'taç i)EQ03tEUOOV IIIper riecheggiare il finale della prima parte astrofica del canto. Questa devozione esclusiva di Ione al tempio di Apollo (dal quale presto lo allontaneranno gli eventi) è motivata dalla santità dell'oracolo (un oracolo che si rivelerà subito assai problematico). Così anche questo tema nel canto strofico è sottolineato dalla responsione esatta, in fine di periodo: 114 o(fk>u i)uµtÀav I~ 130 µaV'tEiovEbQOVj. Anche nel primo stasimo del coro che invoca l'E'Ù'tExv(aper Creusa, il motivo centrale dell'oracolo è presentato ancora una volta in responsione, anche verbale, e per di più in fine di periodo: 464 µaV'tEUµa'ta XQOLVEt I ~ 4 70 µaV'tEUµaat XUQO'atI. La dedizione totale di Ione in Euripide trova corrispondenza, se pure in forma diversa, nel fanatismo delle Baccanti, in una tragedia dove sono più frequenti che altrove le iterazioni (68, 83, 107, 116, 152-153, 165, 370-371, 412, 537, 577-578, 582, 584, 595, 986, 1198) 10 • Anch'esse entrano in scena con un lungo canto, Bacch. 64169, dove un pezzo astrofico 64-72 precede una triade a struttura strofica 105-169. Ma, in maniera non dissimile da quanto avviene nella monodia iniziale dello Ione, la clausola del canto astrofico, 72

10

Desumo questi esempi da Dodds, loc. cil. alla n. 3. Direi pero che soltanto alcune di queste ripetizioni potranno risalire a gridi rituali, 83, 152-153 (w) tn: ~xxm, (ro) t'tE~xxm, 116, 165,986 dç (tç) 6{)0ç, Elç (tç) 6()0;, 412,584 (w) BQ6tu,E BQ6tu,E,577-578 tro~xxm, l~xxm, 582 toot. Le altre anafore in asindeto sono in funzione semplicemente enfatica.

Simmetria verbale e concettuale nelle responsioni in Euripide

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Awvuoov ùµvt100>Ilè ripresa nel finale della prima strofe della diade, 83 At6vuoov itEQWEE'UEL Il,dove però il dimetro non è sincopato nel secondo metro. E ciascuna delle due strofe della prima coppia si chiude con un /colon semanticamente equivalente, 119 olV, 221 o((xpì..ai:gtç fyev6µav, 225 otfJetatotì..ai:gelatç 11-All'inizio della strofe e dell'antistrofe esse ribadiscono il carattere religioso della loro offerta: 203 lxxgo{HvtaAo;(çt ~ 215 xalltOtai:atç

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ITTEQ(ry(l)'V àxµaiç, I tµol 6' lixe' lixea xa'ttÀ.utE,I Mxgua Mxgua 't' im' òµµél't(l)'V I lfxww lfxww 6. 'tì..a~I I11. D'altra parte nella preghiera del coro alle nuvole, Nub. 275-290 ~ 298-313, sono inserite non a caso responsioni isometriche di suoni e di parole 12 che fanno supporre che il poeta voglia qui riecheggiare lo ~ 300 stile ieratico 13 : 276 àgitroµEV~ 299 Vdkoµev; 277 EÙaytt'tOV e6av6gov yav; 283 xù.amiµa'ta ~ 306 xal àyaÀ.µa'ta; 286 µagµagéaunv aùyaiç ~ 310 '1:aV'tOOWtaimv oogaiç.

11

Vd. da ultimo B. Zimmermann, Unùrsuchungen zur Form und dramati.schen Technik tkr Aristophani.schen Komodi.en II, Konigsteir,/I's. 1985, p. 17 e R. Pretagoetini, 'Forma e funzione della monodia in Aristofane', in AA.VV., Scena e spettacolo neU'antu:hità,a cura di L. de Finis, Firenze 1989, pp. 118-119. 12 Dover, loc. cit. 13 Su questo coro vd. H. Kleinknecht, Die Gebe~ in derAnlike, Stuttgart 1937 (rist. Hildesheim 1967), pp. 21-26; Zimmermann, op. cit. I p. 66.

Struttura e spazio scenico nella Medea di Euripide Antonio Martina

È impossibile pensare la Medea di Euripide fuori di una sua precisa struttura. Euripide conferisce un carattere di terrificante grandiosità alla protagonista, che domina sempre la scena e non resta mai confusa né attenuata dalla presenza di elementi apparentemente estranei. Considerare la natura del rapporto tra la "acting area", costituita da edificio scenico, À.oyEiov e orchestra 1, e le restanti aree d'azione al di là di questo limite, connesse con la "acting area" attraverso le parodoi e attivate dall'immaginazione degli spettatori, è essenziale per la deter1

Sono i tre elementi che costituiscono la parte visibile di ciò che si è soliti chiamare "acting area". Alcuni eventi dell'azione drammatica possono aver luogo all'interno dell'edificio scenico o anche in "the off-stage region": in quest'ultimo caso gli spettatori ne vengono a conoscenza, di solito, attraverso le ~aELç àyyù.Lxa(. In Euripide è evidente la distinzione tra interno ed esterno. Dal punto di vista tecnico o, se si vuole, materiale, il limite tra spazio interno ed esterno è costituito dal fondoscena, in cui sono anche le porte, o la porta, che conducono all'interno. Allo stesso modo le parodoi delimitano tutta la "acting area" dalla "off-stage region". Gli spettatori sanno che la parodo destra conduce alla Pnice, all'Areopago, all'agorà, la sinistra alla campagna (ma vd. anche n. 8). Chi siede nella summa cavea ha modo di constatare la stretta connessione tra la "acting area" vera e propria e il resto del territorio della MÀLç.Se si considera la struttura del teatro greco e la sua natura di teatro all'aperto e, inoltre, si tiene presente che praticamente neuuna delle tragedie di Euripide a noi giunte ha la scena posta in Atene, si può comprendere agevolmente quanto fosse necessario che il poeta fornisse gli elementi che poteuero favorire la trasformazione di ciò che era o doveva essere immaginato, vale a dire consentissero l'identificazione dei luoghi in cui si svolgeva l'azione drammatica. La descrizione dei luoghi ha speBSOtoni in vario modo sfumati in una con la nota caratterizzante la specifica situazione drammatica e con l'esigenza di suscitare l'immaginazione dello spettatore. E come questi non conosceva sempre i luoghi descritti, cosl il poeta non si preoccupava per parte sua dei particolari e talvolta anche della precisione. Anche parti non visibili dell'azione scenica devono essere quindi considerate come costitutive dello spazio scenico quando siano strettamente correlate e integranti dell'"acting area". Indipendentemente dalla loro collocazione - problema facilmente superabile grazie all'immaginazione degli spettatori-, importa la loro connessione con l'azione drammatica che si svolge dinanzi agli occhi degli spettatori.

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minazione dello spazio scenico nella Medea, una tragedia che per precise esigenze di struttura pone la protagonista al centro degli eventi che si svolgono nell'"acting area" e all'esterno di essa, conferendole una dimensione straordinaria: a un personaggio eccezionale corrisponde uno spazio scenico eccezionale. L'ampliamento dello spazio scenico e la questione degli spazi acquisiti alla scena e del conseguimento di più estese visibilità attraverso l'utilizzazione di espedienti di tecnica drammatica costituiscono nella Medea un problema complesso. Lo spazio scenico della Medea è il risultato di svariati fattori e sembra essere il riflesso del personaggio. La valenza temporale ha qui una sua importanza, perché fattrice di uno spazio scenico evocato: la Prologrhesisdetta dalla nutrice 2 è un'esposizione drammatica dei fatti. La lontananza degli eventi con cui sembra iniziare la rhesis è annullata. La Prologrhesisè uno sguardo aperto sull'antefatto e diventa forma vivificante del presente 3 • Le note relative alla figura di Medea sono presenti qua e là in tutta la Prologrhesis. La nutrice recupera il passato di Medea segnando il limite estremo, punto di partenza spazio-temporale entro il quale è inserito questo immenso personaggio. Unisce presente e passato. All'evocazione dei fatti accaduti si accompagna lo stato presente di Medea: vi è continuità tra drammaticità evocata e drammaticità presente 4 • Ma soprattutto Medea è 2

Quando una tragedia si apre con un personaggio che uscendo dalla CJXtfVTI si fa avanti e dopo pochi passi verso gli spettatori inizia un monologo, tutto lascia pensare che questi sia uscito da una casa, un palazzo, un tempio ecc. Il poeta non descrive di solito le caratteristiche dell'edificio, ma le dà per scontate. L'interno della CJX')VTI funziona in termini di potenzialità. Cosi la parte invisibile dello spazio drammatico determinato dalla struttura definita dell'edificio scenico può assumere le forme di ogni genere d'interno, secondo ciò che potrebbe essere suggerito dall'identificazione del suo esterno. Nella Medea la nutrice sta di fronte alla casa di Medea (cfr. v. 16 ss.), ma Polimestore di fronte alla tenda militare di Agamennone (Hec. 1132 ss. ), Dioniso di fronte al palazzo di Penteo (Bacch. 616 ss.), Odisseo di fronte alla grotta del Ciclope (Cycl. 382 s.). L'interno contrasta con ciò che siamo soliti chiamare 'aria aperta' ed è concepito come un luogo che non è in diretto contatto con la natura, sicché se un personaggio desidera rivolgersi agli elementi o vedere il sole, deve necessariamente uscire da casa: cosi la nutrice di Medea, che al v. 57 ss. spiega le ragioni della sua uscita, cosi Fedra in Hipp. 178 s., Alcesti in Aie. 206, Giocasta in Phoen. 1 ss. 3 La nutrice è la voce di Medea. Non vi è motivo però perché in questa tragedia Medea e la nutrice debbano essere interpretate dallo stesso attore. 4 L'eccezionalità del personaggio non deriva, infatti, soltanto dal fatto che Medea si trova ad essere ,'i-nµaoµévt]ed ,'ibtx')µévtjda Giasone, quanto dal fatto che Medea, che per seguire Giasone aveva compiuto azioni 'straordinarie', sia ora ricambiata col

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donna che non si può comprendere al suo primo apparire, che ha bisogno, per essere compresa, di essere anche raccontata da chi ha sempre vissuto al suo fianco, da chi può riferirne la storia con la parola 5 • Cominciamo così a conoscere Medea tra i silenzi e le grida di disperazione raccontati 6 • La "imaginary area" ha qui proficuamente il sopravvento sulla "actual scenery". Ciò non deve sorprendere se si considera che nella Prologrhesis non vi è, apparentemente, azione drammatica vera e propria ma solo una preparazione e insieme una descrizione e una riflessione sulla singolarità del personaggio che è ancora fuori scena, ma che nello stesso tempo già domina la scena. Proprio per la sua singolarità ed eccezionalità il personaggio dev'essere descritto, in modo che un certo numero di dettagli siano noti agli spettatori quando la protagonista appare. È creata in tal modo negli spettatori un'atmosfera di angoscia e paura incombente, e una linea divisoria tra "acting area" e interno della casa, luogo immaginario della scena, tiene per il momento fuori scena la persona fisica della protagonista, che domina però lo spazio scenico interno ed esterno. Gli spettatori sono ansiosi di vedere come si comporterà Medea quando apparirà sulla scena e che cosa acèadrà. Perciò l'esposizione preliminare dei :n:go:n:mgayµtvanella Prologrhesis della 'tQO(l)()çsembra ancora più necessaria e appropriata. Medea è una tragedia in cui lo spazio scenico ha una funzione peculiare, perché tutto ciò che fa parte della "imaginary area" viene gradualmente e opportunamente condotto, attraverso una tecnica drammatica estremamente sobria ma essenziale, caratteristica di questa tragedia, alla protagonista e diventa elemento inerente di una necessità drammatica. Anche quando le situazioni sono apparentemente simili a quelle di altre tragedie, il loro trattamento differisce. Alla fine della tragedia si ha l'impressione che tutto quel che si è visto o si è sentito doveva accadere, data la presenza di un personaggio come Medea, che rende palpabili anche le situazioni lontane. Nel prologo c'è lo sfondo remoto della vicenda; attraverso i riferimenti a Medea e al suo stato presente sono stabiliti dei rapporti tra la protagonista e le "off-stage areas". Questa parte rappretradimento. Medea appare già nella rhesi.sdella nutrice infuriata e nello stesso tempo fredda calcolatrice, terribile nei suoi occulti Jx,uÀT)µa'ta,dominata dal desiderio di vendetta e di distruzione. 5 Casounico nelle superstiti tragedie di Euripide, la nutrice dice la Prologrhesi.s. 6 Il confronto con la roccia e il flutto marino fa già di Medea una figura temficante.

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senta come la periferia della "off-stage area", la periferia di un immenso spazio dominato da Medea. La "off-stage area", interna ed esterna, funziona in termini di potenzialità: assume la forma e la struttura richieste dall'azione. Nella Medea la città di Corinto, città associata col mito di Medea, e particolari luoghi di essa costituiscono circostanze drammatiche rilevanti. A Corinto e al palazzo reale si fa riferimento già nel prologo (vv. 10 e 18 s. ). Nella Medea la città con la sua atmosfera è strettamente legata a ciò che avviene sulla scena e alla figura della protagonista 7 • La funzione di Corinto non è ristretta alla presenza di un coro simpatetico, che diventa spettatore dell'azione drammatica, fa il suo commento ed esprime la sua compassione e la sua partecipazione per l'eroina. Tutte le circostanze che si verificano al di là delle parodoi sono funzionali alla straordinarietà del personaggio e tutte sono innestate nell'azione drammatica come se si trattasse di scene visibili. Naturalmente i termini qualificanti un particolare sono suggestivi più che descrittivi: è come se il poeta cercasse un equilibrio tra realtà verbale e visiva. Le parole hanno un'efficacia tale da sostituire la scena. Abbiamo cosl scene, anche secondarie, dedicate alla descrizione di eventi, anche secondari, che hanno luogo nella "off-stage region", che quindi non sono visibili ma solo ricostruibili nell'immaginazione degli spettatori. Anche la Medea ha quindi la sua 'topografia', determinata dai supposti movimenti dei personaggi fuori scena e, quel che più importa, funzionale al personaggio principale. Ognuno degli avvenimenti fuori scena ha una funzione sua propria e dev'essere considerato nell'unità dell'ideazione drammatica. Cosl nella seconda scena del prologo (vv. 49-96) lo spazio scenico è allargato oltre i confini della struttura teatrale attraverso la comunicazione verbale. Nei vv. 67-73 il pedagogo, che rientra coi figli di Medea8 , riferisce le voci di un possibile bando di Medea e dei figli da 7

Sotto questo aspetto l'Orult' è sicuramente un esempio più significativo. Per questa prima entrata (v. 49) il pedagogo e i bambini usano la parodo sinistra, da dove entra anche Egeo che viene da fuori (v. 663). Dalla parodo destra entrano le donne del coro, che vengono dalla città (v. 131). Dalla stessa parodo fa il suo ingresso Creonte nella sua prima entrata (v. 271). Creonte viene dal palazzo e nella sua prima entrata fissa la direzione per tutti gli altri personaggi che vengono dal palazzo: dalla stessa parodo devono entrare Giasone (446, 866, 1293), i bambini e il pedagogo (1002), il messaggero (1121). t inutile cercare sofismi per un'equa distribuzione delle entrate tra le due parodoi. Dove non ci sono più esplicite indicazioni nel testo deve valere la soluzione secondo convenzione: le testimonianze antiche (vd. Poll. IV 126-127) non sono però, com'è noto, chiare. Cfr. W. Beare, 'Side Entrances and 8

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parte di Creonte raccolte là dove gli anziani del luogo giocavano a dadi, presso la fonte di Pirene. È un quadretto di vita, uno scorcio d'ambiente, ma quel che più importa è che un particolare luogo, fuori dell"'acting area", è innestato nell'avviamento dell'azione in connessione non solo con i personaggi presenti sulla scena, ma anche con gli assenti protagonisti della vicenda (Medea, Creonte) e determina un ampliamento dello spazio scenico come riflesso delle dimensioni tragiche della protagonista. La notizia del pedagogo si lega con la rappresentazione di un ambiente nell'immaginazione dello spettatore 9 • Euripide non ha bisogno di precisare le caratteristiche topografiche: l'espressione oEµvòv llµq,ì IlELQTIVT)S ubroQdeve avere, ed ha, forza evocativa, deve fare in modo che la "off-stage region" funzioni in termini di potenzialità 10 • Il pedagogo racconterà quel che ha sentito. Nei punti d'incontro della vita quotidiana si parla dunque di Medea, si parla di

Periactoi', Clan. Quart. 32, 1938, p. 209; K. Reea,'The Significance of the Parodoi in the Greek Theater', Am.Joum. Philol. 32, 1911, p. 378 88.; M. Bieber, 'Entrances and Exits of Actora and Chorus in Greek Playa', Am. Joum. Arcl&Mol.58, 1954, specialmente p. 278 a. È poasibile che in una tragedia con una quindicina di entrate la parodo sinistra sia usata solo due volte. Nella Me~a il palazzo è il luogo dove si verificano eventi di estrema importanza drammatica. Qui, oltre Creonte, vivono Giasone e Creusa e qui avviene il solo importante avvenimento che si verifica fuori scena. Il palazzo dev'essere immaginato come acce88ibile attraverso una delle parodoi (la destra), ed è da escludere che sia la casa di Medea sia il palazzo di Creonte fossero sulla scena. N. C. Hourmouziades, Producti.onaruI lmaginati.on in Euripides, 'A~m 1965, pp. 21-25, raccoglie cinque esempi di tragedie euripidee in cui è impiegata una seconda porta (/ph. A. 855 88., Hel. 1165 ss., Hec. 53, Troad. 153 88. e prologo del Fetonte). Di questi neasuno è cogente, tranne forse il primo. Cfr. anche O. Taplin, The Stagecraft o/ Aeschylw, Oxford 1977, p. 439. D'altra parte la presenza di due porte non sarebbe qui sufficiente per ammettere che anche il palazzo di Creonte sia sulla scena. Il solo personaggio che si muove tra due posti lontani è Egeo: né Delfi, da dove viene, né Trezene, dove è diretto, sono connessi con l'azione scenica. Lo spettatore si rende presto conto che altri sono i motivi della presenza di Egeo. 9 In Euripide, osservatore della realtà, è forte il nesso tra spazio scenico e tendenza descrittiva. D'altra parte, che un personaggio riferisca ciò che è accaduto fuori scena è una innovazione euripidea: in Eschilo non avviene. 10 Accanto all'indicazione del luogo, aµcptIlELQ'/rYT)ç OOO>Q, il convenzionale OEf.&VOV. Gli spettatori localizzavano la circostanza narrata dal pedagogo o perché avevano visto coi propri occhi la fonte di Pirene o perché ne avevano sentito parlare; vi era anche chi non sapeva della sua esistenza. Il pedagogo (e per lui il poeta) non descrive accuratamente il luogo, evoca (vd. , per es., la descrizione del tempio di Delfi nell' apertura dello Ione, 5 s.). Cosl la notizia del pedagogo si legs con la rappresentazione visiva di un ambiente nell'immaginazione dello spettatore e amplia lo spazio scenico.

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un provvedimento che Creonte, il tiranno di Corinto, intende prendere nei suoi riguardi. Si tratta del primo e nello stesso tempo più descrittivo e meno dettagliato riferimento a un particolare della città di Corinto. L'ideazione drammatica non è legata allo spazio scenico definito. Evocazione e rappresentazione si completano e la tragedia appare già dall'inizio fondata sulla centralità della figura di Medea. L'evocazione si fa rappresentazione. Dal punto di vista strettamente tecnico la parodo vera e propria, cioè "la prima esibizione del coro", comincia col v. 131, quando le donne del coro spiegano le ragioni della loro venuta. Il prologo termina al v. 95 con le ultime parole della nutrice che accompagnano l'uscita di scena del pedagogo e dei bambini. La parodo è preceduta e preparata da un'introduzione lirica in dimetri anapestici (vv. 96-130), intercalati e chiusi da paremiaci: grida di Medea (vv. 97-98, 111-114) commentate tutte e due le volte dalla nutriceli. I vv. 96-130 possono quindi considerarsi come una scena di transizione dal prologo alla parodo, vale a dire al primo canto: legata col prologo per la presenza della nutrice che è rimasta sulla scena e commenta le grida di Medea provenienti dall'interno, con la parodo in quanto nutrice e Medea sono i due 12 personaggi che, uno fvoo-6-ev e l'altro wtò OXT)vijç 13, danno luogo con le donne del coro al dialogo lirico commatico. La parodo 14 non è divisa 11

Diverso, nonostante Flickinger, Cltus. Joum. 34, 1919, pp. 357-359, il caso di Clitemestra in Aesch. Eum. 94-139. 12 Le K~E1tLYQa( in un testo tragico sono rarissime; veramente poche quelle che risalgono all'autore (Aesch. Eum. 117-129, DiktyoulJroi,fr. 474, 803, Eur. Cycl. 487 e trag. adesp. P. Oxy. 2746). Taplin, op. cit. p. 15 n. 1, dubita che ve ne possa essere qualcuna risalente al V secolo. Medea parla dall'interno della casa, quindi fuori scena: non ancora bxEXUXÀ.TJµÉVTJ, dice lo scolio al v. 96, ma il termine non è usato in senso tecnico, bensl in quello di 'apparire'. I Greci non sono in grado, né vogliono mostrare l'interno di una casa. 13 Per questa espressione, come sopra per l'uso di ÀOyELOV,si prescinde qui da questioni di cronologia. 14 O termine è usato per indicare il canto d'entrata del coro in Aristot. Eth. Nic. 1123 a 19 88. (cfr. G. M. Sifakis, Am. Joum. Philol. 92, 1971, p. 410 ss., specialm. pp. 414-416); altrimenti ricorre soltanto in scrittori tardi. A. M. Dale, CollectedPapers, Cambridge 1969, p. 34 ss., osserva che la sola importante differenza tra parodo e stasimo è nella coreografia non nella struttura. Cfr. anche Kranz, R. E. XVIII 4, 1949, col. 1686 88., s. v. nciQboç.Vi sono naturalmente altri casi in cui l'inizio della parodo non coincide con la fme del prologo. Nell'Elena e nell'/p.sipile la struttura lirica strofica comincia prima che il coro entri. La varietà delle strutture ha spinto a dubitare che il termine rifletta l'uso corrente nel V secolo.

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nettamente da ciò che precede e prende forma di un dialogo lirico 15 in cui i versi lirici del coro sono intervallati dagli anapesti della nutrice e di Medea. Della parte che precede l'apparizione di Medea sulla scena (v. 214) lo schema è il seguente: Prologo: vv.

1-48, Prologrhesis della nutrice 49-95, scena dialogica nutrice-pedagogo16 Scena di transizione: vv. 96-130, anapesti: Medea 96-97; nutrice 98-110; Medea 111-114; nutrice 115-130 Parodo: vv. 131-138, coro; lirici senza corrispondenza antistrofica 139-143, nutrice; anapesti 143-14 7, Medea; anapesti 148-159 ( = 173-183), coro; strofe 160-167, Medea; anapesti 168-172, nutrice; anapesti 173-183 (= 148-159), coro; antistrofe 184-203, nutrice; anapesti 204-212, coro; lirici senza corrispondenza antistrofica.

La preoccupazione delle donne del coro spiega la forma lirica. Dal punto di vista strettamente tecnico l'entrata del coro della Medea è complessa 17 • I pochissimi anapesti d'apertura (un periodo anapestico) sfociano subito in una sequenza ugualmente breve di versi lirici astrofi15

La parodo prende forma di un dialogo lirico in tre tragedie di Sofocle (Ekura,

Filouete,Edipo a Colono)e in nove di Euripide se si considera euripideo il Reso (tra queste la più antica è la Medea): cfr. D. Detscheff, De tragoediarum Graecarum confonnatione Jcaenica et dramatica (Diss. Gottingen), Sofia 1904, p. 45 ss.; K. Aichele, Die Epùoden der griechuclum Tragodie, Diss. Tiibingen 1966, p. 20 s.; Schmidt, in Die Bauformen der griechùchen Tragodie, herausg. von W. Jens, Miinchen 1971 (Poetica, Beiheft 6), p. 14 s.; W. Nestle, Die Struklur del Eingangl in der auùchen Tragodie, Stuttgart 1930 (Tabingen Beitr. z. Alurtunuww. 10), pp. 77-82. Il Prometeo o costituisce un precedente o è una tragedia tarda: cfr. Taplin, op. cit. p. 24. 16 Le battute variano da 1 a 7 versi: vd. E. R. Schwinge, Die Verwendung der Stichomythie in den Dramen del Eu.ripidel, Heidelberg 1968, pp. 12-32. 17 Non vi è nessun indizio nel testo del modo in cui entrava il coro e la struttura strettamente saldata tra prologo e parodo rende difficile supporre una pausa durante la quale il coro entrasse in silenzio. In linea generale si può forse dire che quando non vi era un preludio anapestico il coro entrasse con le parole di apertura della prima strofa. Ma allora come corrispondeva la coreografia dell'antistrofe? Nella Medea la parodo non ba corrispondenza antistrofica. Non si può però dire con precisione quando il coro dice le parole del v. 131: appena compare dalla parodo o quando è sull'orchestra? Convenzionalmente si indica il v. 131 per la sua entrata, ma ciò non significa che essa abbialuogo subito dopo che il verso precedente, 130, era terminato: è solo un'indica-

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ci e costituiscono la proodo (vv. 131-138), cantata probabilmente dal corifeo, che interrompe lo scambio anapestico tra Medea Evooftev e nutrice l:utò OXT)vijç.Come nei Sette di Eschilo e nelle Baccanti di Euripide, il coro comincia con un breve canto lirico che non ha corrispondenza antistrofica. Il resto della parodo è una sequenza epirrematica in cui, dopo gli anapesti con i quali la tQOq>6çrisponde al coro e dopo le nuove grida di Medea, alle strofe del coro (vv. 148-159 = 173-183, tre enopli cratinei preceduti da un periodo anapestico e se.; guiti da un reiziano), cantate probabilmente dai due semicori rispettivamente, si risponde con anapesti, lirici come anche prima quelli di Medea, o recitati come anche prima quelli della tgoq>6ç, che costituiscono il dialogo lirico o commo. La parodo termina con un altro canto lirico astrofico (v. 204 ss.). Nonostante le analogie con le strutture epirrematiche, la funzione della parodo commatica è differente, perché mentre i canti lirici epirrematici ricorrono nel corso di un episodio (o atto), questo canto è in "an act-dividing position" 18 • L'introduzione lirica in anapesti (vv. 96-130) appare strettamente legata alla parodo vera e propria non meno di quanto sia effettivamente legata al prologo. La scena dialogica dei vv. 49-95 si chiude con le raccomandazioni della tQoq>6çal pedagogo (v. 90 s.) di tenere lontani i bambini dalla madre. È il momento in cui dall'interno della casa si odono le urla della protagonista (vv. 96-97; 111-114) che suscitano terrore nei bambini. La loro paura non si desume soltanto dalle raccomandazioni della tQOq>6çal pedagogo (v. 90 ss. ), si manifesta in particolare nel comportamento dei piccoli riluttanti ad ottemperare all'ordine della tgoq>6ç, che perciò dev'essere ripetuto più di una volta (vv. 89, 100, 105)19 , un esempio di esecuzione ritardata, motivato sotto il profilo drammatico dalla paura dei bambini, che riflette la terribilità del personaggio Medea. Al v. 112 Medea li vede passare e prorompe in terribili imprecazioni20 • Ma la prima esortazione zione convenzionale. Su carattere, funzione e movimenti del coro vd. A. PickardCambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19682 , p. 232 ss. 18 Cfr. Taplin, op. cit. p. 247. 19 Da notare che nei vv. 46-48 la nutrice annuncia l'anivo dei bambini e non del pedagogo, perché questi e non il pedagogo devono essere al centro dell'attenzione. Già nel prologo i bambini sono citati molte volte. 20 Dopo la prima esortazione (v. 89 h' ... OO>f,UU(l)V foro) il pedagogo sta parlando con la nutrice (vv. 90-95) e non può accompagnare i bambini. Al v. 96 ss. la nutrice e il pedagogo sono sulla porta spaventati dalle grida di Medea; temono che Medea faccia

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della 'tQOcpoçai bambini era avvenuta nel corso della scena dialogica col pedagogo: una prova ulteriore che tra le due parti non vi è soluzione di continuità 21 • Tutta questa parte (vv. 1-212) prepara l'apparizione di Medea sulla scena; tutti gli eventi portano a un personaggio, Medea: da qui la connessione tra unità di ideazione drammatica e unità di spazio scenico. Di solito la preparazione per l'apparizione di un personaggio è così accurata che il fattore sorpresa è ovviamente rappresentato dalla mancanza di una preparazione. Nella Medea non solo c'è preparazione, ma questa è accurata ed essenziale: il personaggio di Medea è impensabile senza quella preparazione 22 • Come ha osservato Steidle, in tutto il del maleai bambini. La seconda esortazione (v. 100 CfflE'UOO'tE) è giustificata dalla pauradei bimbi per le grida della madre. Alla fine la nutrice li esorta ad entrare, forse accompagnandoli materialmente con la mano, ma a tenersi lontani dalla madre (vv. 100-104). Al v. 105 (t"tevOv) il pedagogo e i figli entrano in casa. L'anomalia tecnica dell'uscita di scena accresce la tensione drammatica. L'attenzione degli spettatori si focalizza sui bambini. Al v. 112 abbiamo la reazione di Medea, che evidentemente ha visto i figli, molto probabilmente mentre attraversano il cortile. In questa circostanza lo spettatore può immaginarsi tre diverse parti della casa: a) la stanza dov'è Medea, b) il cortile attraverso il quale passano i bambini, c) la stanza dov'essi sono diretti. L'interno della ~ funziona in termini di potenzialità: assume le forme richieste dall'azione. D'altra parte accade che al v. 894 ss. i figli di Medea possono sentire la voce della madre e venir fuori dopo due versi, sebbene si trovino nella stanza più remota della casa, e poco oltre (vv. 952-955) l'ancella alla quale è stato dato l'ordine di andare a prendere il dono nuziale mostri di averlo eseguito solo dopo tre versi. Da un punto di vista realistico Medea si riferisce a due differenti parti della casa quando (v. / x6oµov xoµ(~ELV 6EUQOn:QO(ffl6MOV-Ctva 950 8.) dice ai servi àll' ooov-caxoçXQEWV e dopo al pedagogo (v. 1019 s.) àllà lmivE&oµa-cwvfow I xal n:mol n:6ecruv' ola xet'I xaf}' i)µteav: lo spettatore non può seguire i movimenti delle persone che entrano in casa, e tuttavia sono quei movimenti che consentono di conferire all'interno determinate caratteristiche. Ovviamente ciò diventa possibile quando avviene qualcosa che giustifica l'entrata o l'uscita di scena di un personaggio. Cfr. A. M. Dale, 'Seen and Unaeen on the Greek Stage', Wien. Stud. 69, 1956, p. 103 s.; G. Rom:, 'A propos du décor dans les tragédies d'Euripide', Rev. ét. gr. 74, 1961, p. 28 ss. 21 Nella Prologrhais la nutrice dice che Medea ora "grida i giuramenti" (v. 20), ora se ne sta in uno stato di grave prostrazione, muta e chiusa in una solitudine ostinata (v. 24). Cosl già lo scolio al v. 97 lw µo( µo1: àtniµcpwva-cairta fon -coiçiin:ò'rijç

n:~u-nooç ElQ11µi'vo1ç on

ltcpwvoçxaih)-cm xal tv aù-ccj>6t -ccj>n:eoMyq>-cò µax6µEV6vton· MT)6ELa ... (v. 20) ... El-caµE-e' ÒÀ.(yov (v. 24) ... : queste grida succedono quindi a un intervallo di ostinato silenzio, durante il quale la nutrice ha detto la

Prologrhais e si è svolta la scena dialogica tra nutrice e pedagogo: un nesso anche questo tra prologo e parodo. 22

Di solito la fine della parodo prepara una importante entrata e la prima scena

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dramma antico ciò che avviene sulla scena non avviene mai per mero effetto, ma ha piuttosto una funzione significativa per la comprensione dell' opera 23 • Per Medea è sicuramente più efficace la preparazione ideata da Euripide che una sorpresa 24 • Nella Medea di Euripide la compiutezza del personaggio si realizza nella compiutezza della scena 25 • Con la fine del prologo la scena si estende fino a comprendere l'interno della casa, dov'è Medea che grida paurosamente 26 • Le voci fuori campo sono di solito voci di lamento 27 • Medea agisce (bQ(t) fuori del primo episodio è una scena di grande efficacia: cos} per esempio nell'Ippolito. Ma non è uno schema rigoroso: per es., nell'Edipo Re Edipo era comparso già nel prologo (dal v. 1). La Medea, che pure rientra in questa regola, è un caso particolare. La sua apparizione sulla scena è stata accuratamente preparata in tutta la parte che precede ed è stata creata negli spettatori un'attesa adeguata. Contrariamente all'aspettativa Medea pronuncia una rhesis molto articolata e piena di profonde riflessioni (vv. 214266): ora non grida, ragiona. Forse è proprio questa la sorpresa. D'altra parte sulla scena non potrebbe che apparire una Medea che ragiona, una Medea che rende conto delle proprie azioni: che però è quella Medea che gli spettatori hanno conosciuto dal v. 1 al v. 212 (è possibile che la poca chiarezza dei primi versi della rhesissia voluta dal poeta e rifletta lo stato di agitazione di Medea). Anche l'arrivo di Egeo è preparato, ma per Medea, cioè per il bisogno che Medea ha di un rifugio (cfr. vv. 359 ss., 387 ss., 437, 441, 502 ss., 603 s., 642, 653 ss.). Per il personaggio di Medea è di gran lunga più efficace l'accurata preparazione che una sorpresa. Non è inutile osservare che la Medea di Seneca non ha, per quanto riguarda la struttura, nessun punto di contatto con quella di Euripide. 23 W. Steidle, Studien zum antilcen Drama, unter besondererBerikksi.chligung des B~nspiels, Miinchen 1968, p. 15. 24

Da tenere presente anche che in una tragedia greca azione non è, o non è soltanto, atto violento o movimento: cfr. B. Snell, Eschilo e l'azione drammatica, trad. it. Milano 1969. 25 t questa una caratteristica fondamentale di tutta la tragedia euripidea: pensando a Sofocle si pensa alla compiutezza dei personaggi, pensando a Euripide alla compiutezza della scena in cui il personaggio si realizza. 26 Non si può parlare di una scena "enacted in the interior", per il fatto stesso che gli anapesti di Medea, pur provenendo dall'interno della casa, servono ad accrescere la tensione drammatica della scena che ha luogo nell"'acting area". In nessuna delle superstiti tragedie di Euripide abbiamo una conversazione tra persone che sono nell'interno e persone che sono fuori della casa (o del palazzo ecc., cioè dell'edificio scenico). Esiste solo comunicazione, nel senso che chi è sulla scena può sentire chi si trova all'interno quando grida o parla ad alta voce. Vd. K. loerden, Hinterszenischer Raum und awserszenischeZeit, Diss. Tiibingen 1960. Le grida disperate di chi viene ucciso richiamano sempre l'attenzione di qualcuno sulla scena. Aesch. Agam. ll31 ss. è modello di tutte le scene di questo genere (Hipp. 776 ss., El. 1164 ss., ecc.): in questo modulo rientra Medea 1271 ss. 27 Per es. Soph. Ai. 974, Trach. 862 ss.

Struttura e spazio scenico nella Medea di Euripide

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scena, non vista dagli spettatori, e tuttavia è un personaggio che, come dice Aristotele, si va delineando proprio in quanto agisce: un momento della vicenda tragica di Medea si sta svolgendo fuori dell'"acting area". D'altra parte gli spettatori attraverso le sue grida e il commento della nutrice cominciano a comprendere la natura del personaggio di Medea28 • Abbiamo qui un esempio di spazio scenico allargato e complesso, risultante dalla drammatizzazione della vicenda tragica di Medea considerata in un arco di tempo molto lungo e in una entità spaziale molto ampia, in forme e modi diversi tra loro nella struttura ma articolati in forma organica come riflesso dell'unità di ideazione drammatica. A uno spazio scenico evocato com'è quello della Prologrhesisdella nutrice, che costituisce la periferia della "off-stage region", come 'tà '1:Q0'1:EXQ(lyµtvacostituiscono i precedenti dell'azione, segue uno spazio scenico risultante da una comunicazione verbale (notizia riferita dal pedagogo, vv. 67-73), collocato quindi nella "off-stage region", quindi uno spazio scenico creato da una voce, le grida di Medea provenienti che delimita la "acting dall'interno della casa, vale a dire dalla OX'l'fVTI area" (vv. 96-130, anapesti della scena di transizione). Senonché le grida di Medea non solo raggiungono la scena, ma sono sentite anche dalle donne di Corinto nelle loro case, non importa quanto lontane (certamente non molto). Cosl lo spazio scenico è allargato in più direzioni. Le donne corinzie motivano la loro venuta e quindi la loro presenza sull'orchestra; trovano la nutrice - che nella Medea è elemento costante di connessione - che era uscita per narrare alla terra e al cielo le sventure della casa. A lei si rivolgono per sapere di Medea, di cui si sentono le grida: è possibile cosl la parodo commatica. L'elemento generatore della tensione tragica, Medea, non è nell"'acting area" ma nell'interno della casa, e le direzioni sono verso la "acting area", dov'è la 'tgoq>6ç,e verso la "off-stage region", dove sono le case delle donne corinzie: si determina cosl un allargamento dello spazio scenico corrispondente all'eccezionalità del personaggio di Medea, che è tale da riempire di sé tutto il mondo circostante, creando uno spazio scenico totale. La parodo, completando la linea drammatica, sviluppa rielaborandolo liricamente il contenuto del prologo. Ricompaiono in una intonazione intensamente lirica i motivi precedenti (dolore, paura, ansia, minacce, disperazione,

28

Grida e voci fuori scena sono un mezzo per costruire l'entrata di un personaggio che è causa di tensione (Aiace, Filottete).

A. Martina

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odio). Medea, che lo spettatore vedrà fisicamente da un momento all'altro (col v. 214), appare già nella sua dimensione tragica, creatura tormentata e terribile, animata da una disumana sete di vendetta. È possibile seguire i vari momenti in cui Euripide prepara l'apparizione di questo personaggio eccezionale, dal sospiro col quale la nutrice apre la Prologrhnis ricordando la spedizione degli Argonauti all'immagine di chiusura della parodo, in cui le donne del coro ricordano la venuta di Medea in Grecia attraverso il mare tenebroso in una sorta di "Ringkomposition" complessiva. I vari motivi ritornano qua e là, o si intersecano, o si fondono, creando una straordinaria unità in cui elementi di tecnica drammatica e struttura, di ideazione drammatica e spazio scenico, non sono mai distinti o giustapposti. In Poet. 12, 1452 b 19 ss. Aristotele definisce il prologo come µÉQOço"Aov 't(Klyq>l>(aç'tÒ :n:QÒ XOQOU :n:u ("tutta la parte della tragedia che precede l'ingresso del coro"), la parodo come TI:n:Q(Offl l>ei;Lç oÀ.OuXOQOU ("la prima esibizione dell'intero coro"), il commo xat ò.:n:òOXTjvijç("una lamentazione esecome itQiivoç XOLvòçXOQOU guita in comune dal coro e dalla scena"). Queste definizioni non sembrano applicabili allaMedea, dove la divisione tra prolog_oe parodo non è cosi evidente come implica la definizione aristotelica. E possibile che Aristotele tenesse presente piuttosto la tragedia del IV secolo29 ; soprattutto fa riflettere la definizione del commo come di un dialogo lirico avente carattere trenetico 30 • Nella Medea il passaggio è, sotto diversi aspetti strettamente connessi tra loro, graduale e complesso. Ciò vale per la struttura, che va dal semplice al complesso, dalla rhesis della nutrice al dialogo lirico tra coro, nutrice e Medea, come per il contenuto, dai sospiri della nutrice alle grida di Medea, commentate prima dalla nutrice, poi dalla nutrice e dal coro. Unità di struttura, tematica e di spazio scenico sono interdipendenti: la nutrice esce preoccupata per le sorti della padrona (Prologrhesis); il pedagogo è preoccupato per quel che ha sentito dire sul conto di Medea; le donne del coro arrivano preoccupate e terrorizzate dalle grida di Medea (da qui il dialogo lirico). Le grida prima sono raccontate dalla nutrice, poi si sentono sulla scena. Una situazione di ansia e di apprensione trasforma così anche lo spazio scenico non fruibile, vale a dire la "off-stage region", in spazio

29 30

Cfr. D. W. Lucas, Arutotle, Poeti.es,Oxford 1968, p. 136. Cfr. Taplin, op. cit. p. 474 (App. E).

Struttura e spazio scenico nella Medea di Euripide

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scenico fruibile 31 • Medea non ancora presente sulla scena domina la scena: lo spettatore la intravede figura disumanamente tormentata e terribile. Tutti gli eventi, passati e presenti, portano a un solo personaggio. Da qui la connessione tra unità tematica e spazio scenico, che nella Medea non è quello definito dall"'acting area". Nella Medea ha rilevante significato drammatico non soltanto ciò che avviene nell"'acting area", ma anche ciò che avviene nella "offstage region". Il 11ii-6oçcomporta una certa sequenza dei fatti disposti di da Euripide in un certo modo: la O\Jatao~ç "trov :JtQ,'tout' tOO>V 6vaeÀ.É"(w;I où µà ,M' .... Cfr. H. Patin, Études sur ks tragi.qua grecs: Euripide 11, Paris 1913, p. 291 ss. I vv. 262-269 costituiscono viceversa uno dei brani di sapore più marcatamente comico pronunciati da Sileno. 20 U. von Wilamowitz-Moellendorff,GriechiscM Tragodren III 1, cit. p. 21; D. F. Sutton, 'The Satyr Play', cil. p. 348. 21 T( cpatE; d À.É'yE'tE; 'taxa 'tLç i,µwv ç"OÀq> / Mxeua µdhit connettivo, che collega direttamente tra loro le incalzanti domande del nuovo arrivato, e contribuisce in modo decisivo a tenere distinti i ruoli dei due personaggi, suggerendo l'impressione di una sorta di interrogatorio23 : 't(ç f>'iJf>eXOOQ' f>'-1\ 'tq>~ot; - (v. 121); BQOµtou lxoucn yaiav; (v. 117); cmdQOUCJL f>èrtµ'lxouotv ... ; (v. 123); cplM;evot f>è... ; (v. 125). R. G. Ussher nota in proposito: "here (at least in the first part of the interchange) question and answer (in the absence of connective oùv or yàQ ... ) must strike the ear as notably abrupt" 24 • Ma anche in questo caso dobbiamo registrare un brusco cambiamento di tono: a partire dal v. 131, con l'uso da parte di Odisseo dell'espressione colloquiale olait' o-bv 6 f>QCioov, il dialogo diviene più confidenziale e concitato. Nelle battute dei due interlocutori fanno ora la loro comparsa particelle come illa., oùv, ya.Q(vv. 131, 135, 137, 141, 148, 150, 151, 154) ed espressioni incidentali come chçoacpÉO'tEQOV µa.-ftnçe chç6QOO>XTIS, lm!W>X'ls, lMx11s (in Aristoph. Eq. 1086 è ff'tEQtl'Y(l)"C6s).

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scenica, dovrà risultare dello 'flt't(l)'VÀ.6yoç,di una logica consapevolmente vacua, mistificatoria: ma irresistibile. Si attinge, ovviamente, ad un mitico modello, in sostanza incontrollabile. Il cui analogo è, tuttavia, frequente nella tragedia euripidea (non di Eschilo, e tanto meno di Sofocle), spiccherà nella Andromeda, come la parodia di Aristofane nelle contigue Tesmoforiazuse(v. 1089 ss.) fortunosamente assicura. Si tratta di un uccello (Prom. 286 ol(l)'V6v), dalle veloci ali (ITTEQUYOOXT): un ardito hapax, ma anche Achille era 1tobooxT)ç).Soltanto alla fine dell'episodio (v. 395), sapremo, per bocca del medesimo pilota, che la detta cavalcatura è, malgrado tutto, 'tE'tQC;nvoµal>aç, oi '1:ÀEX'tàçmÉyaç ,i;eMQçl:xuittiJv wtOLXOç(?), ricordando in Choe. 161 s. lo scitico dardo ribadito in Sept. 817 (l:xui}y) 1'jQq>), / ... ~O.TI'm.n:cillwv J\QT!ç), ma anche biasimandone la inciviltà (l:xufh)v 't' év XEQOLV "politica". Il Prometeo ne ha, da solo, tre ulteriori ricorrenze: v. 21:xt'.,ih)v éç otµov, (che trova puntuale rispondenza in Aristoph. Ach. 704 l:xuittiJv ~ov Elç éQT1µCav ~µ{çi), v. 417 l:xufh)ç Loµévov !;uQ(j>,di cui evidente è la parentela con l'enigmatico Theogn. 829 (l:xufta, XELQE x6µTjVX'tÀ..),sopra richiamato (ma cfr. Athen. XII 5240. In Rh. 426 spicca uno l:xufh)ç ì..Eci>ç, cui risponde nel v. 430 éç yaiav l:xuih)ç: un esibito, piuttosto che interessato manierismo, non dissimile da quello sommariamente rilevabile nel Prometeo. Ma il quadro tracciato (stupisce, che Kretschmer, R. E. Il A, coli. 923-946, non dedichi alcun cenno alle testimonianze "letterarie") non dovrebbe allarmare, se i discu88i Prom. 709 ss. non ricalcassero, nella sostanza e nelle forme, Herodot. IV 46 (non è casuale, che un intero libro venga dedicato agli Sciti, a mo' di excursus, l:xui>Lxa si devono, del resto, ad Ellanico, coetaneo di Tucidide): filà q>EQfoLXOl Mvteç ,i;meç foxn ùtn:O'tol;6'tm, . . . olx11µa'ta 'tÉ aq>L. . . btl tEUYÉO>V, imbattibili (&µaxOL),dunque, ed imprendibili, per la mobilità dell'insediamento, delle cavalcature, delle armi. Già in IV 19, del resto, la denominazione di una loro tribù suona, estensivamente, voµal>Eç... l:xuitm. Una accreditata dottrina sembrano tradire queste informazioni, cui attingerebbero sia Erodoto sia il prometeico Maestro, l'orecchio teso

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La sensibilità greca, il suo immaginario, rifuggono da simili ibridazioni, le ritengono mostruose, incomprensibili. Organicità e razionalità, figlie della medesima esigenza di naturalistica rappresentazione, dominano il concepire dei Greci. Nelle Rane di Aristofane, a giochi ormai fatti, Euripide rinfaccia ad Eschilo oscurità varie, ed in particolare la sua propensione per yQUxa(eto1. e consimili invenzioni (v. 929 ss.) 12• Si tratta soltanto di immagini raffigurate sui bronzei rilievi degli ad emergenti interessi, pronto a populistica ecolalia. Ne abbiamo lo scarno, ma enenziale protocollo in Hippocr. Aer. XVIII 5 ss.: i) 6è l:xuittwv iQ11µ(t)(!) XaÀetlµM) ne6uiç tau( ... ). mairlta xal ol l:xu@m 6Lmuiivtm, Noµa6eç 6è xaÀE'ÙVtm,lrcL(olç Man.) oox fanv olx{)µcna, l&ll' hi l!µciçnaLv olxeùmv ( ... ). avtm 6è 11:0,cnç 11:eeL11:Ecpeayµtvm· dal 6è xal 'tnexvaaµtvm cixmeeolx{)µ.a'ta, 'tà µtv 6LnAil, 'tà 6è 'tQud.à. 'tairfa 6è xal O"teyvàn()Òç ii&o(, xal neòç xi.6va xat neòç 'tà nvroµ.a'ta. Questi niM>L,equivalenti a tendaggi, ricorrono soltanto in Herodot. IV 23, 73, 75, quindi in Xenoph. Cyr. V 5, 7. D'altra parte, le O'tÉyaL(di cui in Prom. 700, e ad eccezione di Alc. fr. 140, 3 V.) non ricorrono prima di Herodot. II 2, 148, 175 (nell'ulteriore II 2 significano "capanna"): spiccano, nella medesima fonte ippocratea, addirittura trasformate in O'tey'YO,la originaria forma ionica, ricorrente solo nel cit. Herodot. IV 23 (n{lq> O'teyv),e quindi in Eur. Cycl. 324 (metaph.) O'tey'Yà ... (71(t)VWµ.a'ta. Con proce880 del tutto analogo, ~Q't\/1,1,E'YOL, ribadito pero in Prom. 908, deve attendere Tucidide per generalizzarsi (cfr. VI 17 'tà neet 'tÒ oroµ.a l,,wnç t;{)gnrtm), i suoi immediati precedenti emergono in Herodot. I 43, 61, II 32. Prom. 711 bn)~M>Lç 'tOçOLOL'Y è disinvoltamente attinto dal vero Eschilo, cfr. Eum. 628 't(>çOLçbn)~À.OLOLV,con speculare artifizio. I "nuovi" Sciti appaiono estranei ad Eschilo, ed a tutta la tradizione arcaica: prelibata trouvailk, invece, per un erodoteggiante Maestro. Un abbagliante spot li illumina, del resto, con reciproco entusiasmo incontrandosi con i Greci. Erodoto (IV 46) ha preme880, che già ai tempi di Dario stupidissimi, in realtà selvaggi (ffvea ilµ.aittO'ta'ta), erano tutti i popoli, che si affacciano sul Ponto: salvo gli Sciti, con la nteL) nessuno dei conterranei potrebbe confrontarsi. Hanno fatta cui abilità (aocpCT)ç una scoperta, che è la più grande, fra quante ne ha escogitate l'umano ingegno, anche se Erodoto non può ammirarla: quella di sottrarsi, come abbiamo veduto, sia all'approccio sia all'aggancio di eventuali nemici (sarà Dario, infatti, a fame le spese). La primazia, militare, economica, sociale, viene ribadita ed enfatizzata da Tucidide (II 97): nenuno eguaglia gli Sciti, né in Europa, ma neppure in Asia, né risulta popolo che, da solo, pona resistere agli Sciti, una volta confederati. Siamo, in realtà, nel 429: Sitalce ha stretto una alleanza con gli Sciti (cfr. Herodot. IV 80), unendosi al blocco ateniese, devasterà la Macedonia e la Calcidica. Gli entusiasmi di Erodoto e di Tucidide appaiono legittimi, più che motivati. Il prometeico Maestro, a differenza dei tragici colleghi, si accoda: con una popolaresca digrenione (un medaglione celebrativo?), significativamente allusiva pero ad Erodoto e ad Ippocrate. 12

Oltre all'lmtaÀ.EX'tQ'U(l)'Y (v. 932), intrigano l'onesto Ateniese i 'tQ(l'YtÀacpoL (v. 937), malgrado relegati nelle tappezzerie persiane. Con parodico spregio, Aristofane trasformerà il mirabolante Pegaso in un disgustoso lrutoxavftaec>ç, sull'eventuale mo-

Sofistiche "macchinazioni"

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scudi, verosimilmente però sfoggiate da barbariche, spregevoli popolazioni. Se mai Eschilo, nel Prometeo, avesse portato in scena (nel cielo stesso della scena!) un grifone, gli verrebbe ora ed aspramente imputato. Se mai, in sua vece, l'avesse fatto il pur ardimentoso emulo, il rimbrotto e la pertinente citazione non sarebbero forse irreperibili. Né l'uno né l'altro vi si è, verosimilmente, attentato. Quando, invece, per giunta fulvo (Myrm. fr. 134 R. Eschilo ricorda un UfflaMX'tQUOO'V, = Aristoph. Ran.. 932), il commoner ateniese, che non riusciva a prendere sonno, chiedendosi che razza mai fosse di uccello, si sente ora vendicato, malgrado consapevole della natura fittizia di siffatte sofisticazioni. Una intolleranza però inestinguibile, se Aristofane reagisce non soltanto nel giudizio finale, ma già in allo ;ouitòç UfflaMX'tQUOO'V Pax 1177 (x*'ta q>royELnQ(irtoç ci>cmEQ ;ouitòç utffaMX'tQUOO'V), e quindi in Av. 800. La cavalcatura di Oceano, per quanto vistosamente alata, niente ha da vedere con il Grifone. Non ha in sé nulla di sconcertante: ha tratti dall'apparenza consueta, addirittura familiari. Intenerisce la sollecitudine, che per lei nutre il singolare cavaliere, il cui spirito del resto si dichiarerà tutt'altro che incline all'avventura o alla stravaganza. Si tratta di Pegaso, immaginosa figura, radicata nella mitologia, nella fantasia linguistica dei Greci. Incarna, metaforicamente, la velocità straordinaria di un ideale destriero 13 • Esiodo (Th. 281 s.) già conosce Ilftyaooç

dello di 'Imwxévtaueoç (cfr. Plat. Pl&Mdr.229d), auociato con Gorgoni e Pegasi nel novero degli impouihilia e di moetri teratologici. Siffatta repulsione contro i Mischwesen anima l'intera cultura classica. Non è un caso, che Orazio gli dedichi l'intero Proemio dell'Ar.s (vv. 1-13), energicamente rifiutando ogni "poetica licenza" (v. 9 s., lrvemh'rvouc;elvaL ffl>LT)'tàc; xal ma cfr. Lucian. ITnaf!. 18 ,i;aAai.òc;obtoç 6 ÀOy(>c;, yeacptac;).Si tratta di Mgri 1omnia (v. 7), destinati ad incontenibile riso (v. 5, cfr. Epùt. Il 1,194 s. 1iforet in krrù, riderei Democritw, seu I diver.sumconfwa genw panthera camelo, trattandosi della goffa giraffa). Si rivendica, sul piano non semplicemente letterario, classicistica unità ed organicità: nella visione della natura, a maggior et ragione nella sua rappresentazi_one(cfr. An 23 denique sit quodvis, simplu dr.unla:l:at uniun). Da richiamare è, infine, Lucian. Prom. verb. 5 fan yoiiv tx buo xcwi1v 6lloxo-tov TiJv ~'IV elvaL, olov txeivo 'tÒ '1:QOXELQO"ta'tov, 6 lmwxévtaueoç ..• , 6él>La1'1''tÒ txadeou xalloc; 1'l,li;Lc;ouvtcpi}ELQn',successivamente (7) rinforzato da lmtoxal'ffl>L xal 'teayél.aq>OL, 13 Eur. /. T. 32 s. offre un analogo stilema: si tratta di un barbaro, 8oac;, 6c; d>xùvn66a nfnlc; toovmEQOic;/ te;'tOOVOf'' lj).fn 'tobl! ffl>OO>XEtac; XOQLV. Da richiamare è il cit. Xenoph. Cyr. IV 3, 15 voµLt(J),-1\v lmtri,c; ytvwµaL, liv6eomoc;ff"tTIVç ba&aL. Che costituisce l'anello di congiunzione, fra i progressivi stadi di una ago-

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B.Marzullo

bmoç. il cui nome deriverebbe dall'essete nato 'Qx.rovou (dr. O 151 u .• 467 Oftbaoov ... umov):

:ta.QCÌ

X'rJY(iç

xwµtv wromlq.lEvoç ~ x66va,inruea 11iti.(JJY. t; Mavc'.aou;, Z'f\"Òçl,' tv OO>tMJ01 vai.a.

txn•

Provvederà in seguito al trasporto di lampi e fulmini divini 14 • Ancora Esiodo tTh. 325) sa deU•uccisione di Chi~ dovutaa Pegaso ed al coraggio di Bellerofonte (che. a sua volta. è figlio di Posidone). Ma singolare è la presema di Pegaso in Pindaro (I. VU 43 ss. ). Follia spropositata. nella nostra piccolezza (v. 44 vs. 'tà l,UIXQQ.immo ~xùv. se. olµov. roll. Pind. P. IV 248, KwmerGerth, I p. 265):

~xuç

Ul ~ l,' El l'Lç ,ro.,muvn, ~xùç tl;Lxta&at xcwc6,ul,ov &rov lbQ«v· 6 l'OL 1rtEQ6fLç ,00L,j,E Il(ryw:x>ç oomotaV Htlovt' tç maBµoùç atnv pri' ÒJ&a'YUQLVB~av ZTJV6ç.

oùeavou

45

Un plastico medaglione, in cui traspare la matrice del prometeico mai)µouç, che non indiluogo. Evidente spia è nell'originale OÙQCJ>(l'tVQL

Z11vòçllQX«im 6bOV'tat.

È qui la fonte primaria dell'iperrealistico "stabbio", cui agogna l'alato quadrupede, in Prom. 395 s. Si compie un paradigmatico itinerario, mitico e formale. In Esiodo (Th. 285) Pegaso raggiunge gli imo' tv oroµaoLva(EL. Pindaro ne specimortali, e di conseguenza ZTJVÒç fica la dislocazione olimpica, indicando antiche (o "eterne") stalle di Zeus. Il nostro Auctor discende da ambedue, trasforma le greppie in più nobili o-taitµo(, scarta l'aulica accezione, che a questo termine ancora concede Pindaro in analoga occasione (P. IV 76), ammorbidisce aulicismo e realismo dei prototipi, ricorrendo ad olxEioç, dotando il mitico destriero di più familiari propensioni (lloµEVoç),di commovente fralezza (àv ... Xaµ,pELEV y6vu). Che il 'tE'tQ6vtaç ft Ilt:QOÉaç. In primo luogo viene indicato il nostro eroe, per la preminen-

za gerarchica, o, verosimilmente, cronologica 26 • Più specifica testimonianza risulta assemblata in Suda E 1897: tc.oeriµa· 6 Bt:lliQOq>OV'tflç btà 'tO'U Tiriyaoou 'tO'U ITTEQOO'tO'U btdroµfl(ÀovµoL (an 1:axù ITTEQOV, coll. Aristoph. Av. 1453, sebTiriyaoou 'tOXUJt'tEQOV bene 1:axum:t:QOçsia significativamente reperibile nel solo Prom. 88?). µt:1:ÉooQOç bè atQE'taLbtl µrixavijç. 1:oii1:obè xw.t:haL tc.oeriµa. tv aùtj\ 24 Le allitterazioni degli iniziali (Pax 154 s.) XWQEL xa(Q. 26 Cfr. Schol. Clem. Alex. Protr. II 12. In Polluce si precisa immediatamente, sempre a proposito della tragica l''lXçi&Q:rcatouoa'tÒCJµa 'tÒ(immo 'toù) Mtµvovoç. Viene nominata, infine, una componente primaria della medesima (IV 131): aleaç6' 6.v Ei:rcoLç 'toùç xaÀ.O>ç, ot xa~Q't'lV'taL ~ ii'ljl()uç, Ò>çilvÉXELV'tOÙçbtl 'toù bÉQoç CJ>ÉQEoitaL 6oxoiivtaç fiewç il itwuç. Sono da segnalare, ulteriormente, Suda E 1894 (cfr. 1898) éQ«, E 1896 éo>Q'lih')'tO>, E 1899 éQ1JoLç, E 1900 éO>Q(tro,cfr. e 2192 bt;nO>QEL'tO, nonché m 265 alù>QoiivtaL, 1J415 fl0>Q1JµÉVO>, flQ1JOEV: tutti connessi con il basico h(ew, cfr. l'E'tÉO>QOS• Le forme attiche sono distinte dal dittongo iniziale (alQ1Jµa), risultano semasiologicamente obbligate all'"oscillare", provocato dalle corde in 808pensione.

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7• Fonte prima 6è xatijyov -roùç -fteoùçxal -roùç tv Ò.ÉQL:rtoÀOuv-raç2 sono gli scolii a Pax 76, nonché 80 s. Questi due versi sembrano riecheggiati nella Suda, una volta smarrito il tramite scoliastico: 6 6Euvtac;,che va senza esitanv' elbec;6v6Q« xatà zione emendato in noi..oiivtac;. Cfr., del resto, Pax 827 8. fi>J...ov -còv aÉQ« ni..avwµevov, nonché Plat. Phaedr. 246b 1jl\JXT) . . . mivta bè O'IÌQ«VÒV '1:EQIJtOÀ.EL. 28

In Aristoph. Pax 152 8. Trigeo raccomanda astinenza agli spettatori,

wc;El

µETÉWQOc; ootoc; O>V OO(J)~OE"CaL, I xatWXClQ«Q(,jlac;!-LE l}ouxoi..{ioetm. Ritorna, essenil Qhjlac;allude a ben più rozzo scopo, alla fine di Bellerofonte ziale marca, µETÉWQc;, (cfr. Pind. /. VII 45). È superfluo ricordare nuovamente Pax 80, 92 µETEWQOXOneic; (hapax), nonché Nuh. 225, 1503 aeQOfxxteiv (citato in Lucian. Prom. verbu 6): in Plat. Phaedr. 246c, l'anima btteQWµÉVT)µETEWQOMQEL.t'i bè meQOQQU{ioaoa q>ÉQEtaL fwc; xtÀ.. Il Syrian. reca il corretto µETEWQ0'1:0À.Ei, anticipato, nella riga precedente, dal cit. ncivta bè O'IÌQ«VÒV '1:EQIJtOÀ.Ei. Il noi..ouvtac;del cit. Eur. fr. 306 N. 2 non fa che confermare. Da ricordare è Aristoph. Ran. 1291 xuotv aeQOq>OhoLc;, che è già in Aesch. fr. 282 R. (cfr. Ag. 135 mavoimv xuo(, Prom. 1022 ,mivòc; xuwv). Il delle Nuvole è ripetuto in Plat. Apol. 19c, nonché [Lucian.] Phipeculiare aeQOfxx-c lop~. 12 èc;TQ(Tovo'ÒQ«VÒV àeQOfxx-c{ioac; (si tratta di Cristo risorto, una delle eventuali fonti, Eput. Cor. Il 12, 2 8s., recava: olba livitQWnov .•. t&QnayÉvta..• , fwc; tQhou 0-ÒQ«voii..• , lrn t'iQnc'tYfl elc;tòv naQcibemov xtÀ..). Athen. III 99b attribuisce a Platone (Polit. 264d: ma solo parzialmente coincidente) ;riQOfxxtLXClnva ~(Ì>Cl xal àeQOfxxtLxci,confortati in parallelo da uno ;r)QOtQOLx6v te xat .•• aEQOVOµLx6v, e da altri èvaéQLa.

Sofistiche "macchinazioni"

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(v. 1173), tuttavia, altra e più provocatoria matrice è rilevabile: dohna'to è patentemente ispirato dal nostro Prom. 115, imponendo però al suo :JtQOOM'tauna volatile connotazione, esplicandolo quale irrefutabile marca (un 'tEXJlTJQLOV, dunque) del mirabolante, sebbene volo. Poco dopo (v. 1182 s.), la "citazione" del invisibile (llq>E"fYT)c;) Prometeo continua, letteraria allusione ormai, più che teatralmente parodica: Q'Ul'TI "CExat ITTEQOLOL xat QLtiJµaoLV alih)Q bovti'taL TOU ittou tTJTOUµ€VOlJ' XliOT' OÙ µaXQÒV wtwittv, li>J..'maui}a1tOU

i\bti'm(v. Incerta ancora la divinità (ma chiaramente arriva ll:itò JlTIX«viic;, cfr. v. 1172 'tOOV yàg-&eoov'tLc;,nonché v. 1195), lo scotimento dell'aria provocato dalle Oceanine (Prom. 126), il riecheggia lo U:JtOtoµa discenda 'tÒç Nella Pace, Aristofane reagisce con perfida malignità alle (gratuite) invenzioni del Prometeo, ne innesca gli indefiniti effiuvi nella conclusione, che vuole dirompente, esplosiva: platealmente vendicativa. Negli Uccelli, all passion spent, il supposto (in realtà evocato, peggio se mimato) "volo" delle Oceanine riaffiora: riacquista erudita consistenza. Si offre ad un riso non più sarcastico, ma blandamente ironico: signorilmente burlesco. Il rapporto della Pace con il Bellerofonte è diretto, per cosi dire biunivoco. Senza il provocante (provocatorio, in realtà, per un filisteo) ordito tragico, la esilarante trama aristofanea rischia la banalità, il puro divertissement. Costituirebbe un malinconico reperto letterario: come accade per la frigida ripresa, che gli Uccelli faranno del Prometeo. Come in sostanza si verifica per noi, moderni lettori di un accidentale e accidentato testo, non più di una fastosa compagine scenografica. La distorsione messa in atto dalla Pace è totalizzante: aggredisce non soltanto gli effetti di un marchingegno, giudicato mistificatorio, ma il suo stesso ingranaggio concettuale, le sue motivazioni culturali, drammaturgiche. Point counter point, Aristofane lo smonta: lo ricompone in peius, lo brucia e dissolve tra comici bagliori. Trigeo si offre come incondito Doppelgiinger di Bellerofonte, non senza divertita contaminazione con eroi ed eroine esemplate sul "balordo" modello: attinge dal Prometeo. Sostituisce terrestre necessità a curiosità, follia ad audacia: costruisce un perfetto "antieroe". Il protervo ingombro della µT)Xa'VT) diventa esso stesso protagonista. Il più negativo dei bersagli: verrà pun-

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tualmente descritto ed illustrato, smascherato (sintomatico è l'appello al µT)xavoxowç, nel v. 174 ss.), sdegnosamente denunciato nel suo perverso funzionamento 30 • Perché la parodia sfugga alla intrinseca sudditanza, si risolva in autentica, folgorante comicità, quanto meno necessario è un crash finale: inatteso, inevitabile, distruttivo. Sarà, ancora una volta, uno scarto di ordine primario, innescato a livello biotico. Non si esaurisce però nel triviale, costituisce una felice impennata. Soccorre nel Prometeo il ricorso oramai serioso (in realtà di serie) alla µT)Xa'VTI, l'uso addirittura fittizio, immaginario, del sofisticato strumento: un corale, intollerabile abuso, cui lo stesso Euripide non si sarebbe (cosi gratuitamente) attentato. La confidenziale intesa fra Trigeo e lo scarafaggio è parallela, se non identica, a quella che intercorre fra Oceano e Pegaso 31 • La sorpre-

30

Del l''IXOVOffO!Oç abbiamo due ulteriori presenze in Aristofane. Nel fr. 160 K.-A. (wryiada), ove gli si fa obbligo immediato (éxefrv)di JU{)LayELV ... roç'taxuna ff1Vxeab'lv,verosimilmente ingiunto dal protagonista, impaurito dalla escursione aerea (spettacolarmente) troppo prolungata. Nel fr. 192 K.-A. (di non facile costituzione, ma è dal Daedalus !) risulta in potere del "macchinista" 'tÒV'tQOXÒV tciv, di mollare dunque l'argano (tciv txc'rvEXlt,;t).tyE, inestricabile, sed cf. Aristoph. Ve.sp. 18 cpteeLV •.. civmcà,;d,; 'tÒV 0'6eavov, Hippocr. Mul. li 149, 8 CÌV'tL àQxaiov dvm XQLVWV ('tò) l'E"fa.Ào11:Qmtç 'tE xal TIQWixov,'tÒ 6È 11:avoùQYOY XOJ1,P011:Qmtç 'tE xal yvu>J10À.OyLXÒV òllotQLOV (an òllotQLa?) njç 'tQOyq>b(aç.Più avanti, la medesima fonte (T A l, 16) dichiara, che la semplicità ('tÒ 6È wtÀ.Oùv)della drammaturgia di Eschilo, confrontata con quella dei .•. xal wtQ.oiov. In P.oç. Il richiamo al "Fliegender Holliinder" è deliberato. Cosce: :n:nJVÒ!;:n:oQEUOEL mune sembra la natura "spettrale" del veicolo, sebbene la machi.na usata dalle Oceanine risulti esente dal wagneriano candore, dallo stesso e maligno sarcasmo, con cui Heinrich Heine ne aveva riproposto la fantasmagorica tregenda: è addirittura priva di necessità, oltre che "mitopoietica", drammaturgica, scenica. Che debba ancora trattarsi di un simbolico apparato, sommariamente identificato e "mentalmente" supposto, suggerisce lo stesso Wagner fin dalle iniziali didascalie (..In der Feme zeigt sich das Schiff'), fornendo scabri indicatori verbali ifawe de mieu.x), per designare che il vascello non subisce alcun danno (!) nel procelloso attracco (significato però dalla musica), spiegando che "stumm und ohne das geringste Geriiusch hisst die gespenstische Mannschaft des Holliinders die Segel aur'. Alla bufera infernale provvedono le "parole" ("da bliist es aus dem Teufelsloch heraus ... "), l'ammiccante li.ed intonato dal Timoniere, l'impatto musicale, tutt'altro che circensi (o cinematografici?) scenari. Le espressionistiche, spesso stravaganti messinscena, in cui gareggiano recenti regie, palesemente violano la implosiva sobrietà, la musica essenzialità della drammaturgia wagneriana. Notoriamente improntata all'unità di Wort und Ton, autosufficiente, esclusiva: rifugge dalle oleografiche, declamatorie, divistiche esibizioni, cui spingevano il realismo tardo-romantico, il naturalismo dell'imperante Grana Opira. Frequenti esecuzioni "in concerto" stanno oggi restituendo a Wagner la incisiva potenza dei suoi accordi, espungendone ogni lenocinio visuale: ne rivendicano, drasticamente, la programmatica natura di "dramma musicale". A suo stesso dispetto, si direbbe. In realtà, egli si indusse a proclamare: ..Ho orrore di questi costumi e di questi belletti !. .. Ho creato l'orchestra invisibile. Se potessi inventare il teatro invisibile!" (la sottolineatura è nostra). Provvederà a riscattarlo Adolphe Appia, sviluppando una concezione integralmente plastico-luministica dello ..spazio scenico", fattosi ormai "vivant": come dovrebbe concepirsi ogni autentico attore, intendersi la stessa "oeuvre d'art". Uno spazio, che, significativamente ispirandosi alle stilizzate forme del teatro greco, rifiuti naturalistici andazzi, beceri illusionismi, si rivendichi provvisorio, nudo, simbolico. Ambisca alla "pura forma", alla induzione di una Stimmung, rarefatta, fantasmagorica, genuinamente "romantica".

B. Marzullo

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gratuita ridondanza: estraneo alla austera essenzialità della vecchia tragedia, non più che spettacolare. Una gratuita violenza è l'uso di questa "macchina". Materialmente impraticabile, del resto, nella fattispecie: protervamente imposto quale fantasmatico espediente. Fisicamente introdotto solo nella seconda (e meno fantasiosa) evenienza: la trasferta di Oceano. L'uso del carro sembrerebbe già eschileo. In Pers. 607 ss. esso risulta testimoniato, tuttavia negandosi. La regina Atossa afferma, infatti: 'tOLyàQxÉÀ.€U-6ov 'tl1V6' 6.vru 't' ÒXT)µcl'tOOV XÀLmjç 'tE 'rijç :rt«QOtitEVtx Mµrov:rt«ÀLV fatELÀa, :rtm6òç :rta'tQl :rtQEtJµEVEiç xoàç µEVOV, cui verbo esprime soggettivo impeto, affidato alla persona, non a materiali supporti (carri et simm.). Sorprende, che l'avverbio venga inteso come marca iterativa, e non sequenziale (cfr. Eur. H. F. 1257 vuv't€ La Regina ha, evidentemente, rinunciato non solo al xal 3tOQOLilEV). carro, ma a tutto il fastoso apparato d'antan, già nella prima comparsa (ripudiava, atterrita, la ricchezza eccessiva, cfr. v. 167 s.), rilevandolo con drammatica enfasi nella seconda (cfr. Eur. El. 966 xaì. µT)V6xoLc; In Pers. 180, ooc;ti\c; 3tOQOLilEV Wq>QOVTlc; ye xal O'tOÀfl Àaµ,tQ'UVe'tOL). significa la notte "passata", in quanto il determinatum costituisce una puntuale indicazione cronologica. Che non obbliga pertanto ad una specifica e pregressa azione, non risulta "significant in retrospect", come suo malgrado sembra sostenere in questo caso Taplin, Stagecr., p. 79, in genere lucido ricostruttore di siffatte scene. Lo stesso Pers. 471

Sofistiche ..macchinazioni"

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,tQÒç 't'fi JtOQOL-t}E (se. OUµq>Q(i), esprime una sequenza, che solo ouµq>Qé.t definisce evenemenziale, non generica né rituale. Esplicita conferma è in Eur. Tro. 640 'V'JXTIV cUài:aL 'tiiç JtOQOL-t}' E'ÙJtQa;(aç. Pristinus, del resto, indica JtOQOL-t}E (assente in Herodot., Thuc., Corpus Hippocr .), cfr. Soph. O. R. 1282 ss. 6 JtQÌVJtaÀaLòçb' 6).fk>ç~v JtOQL-t}E µèv / 6).fk>ç 6Lxa(roç, vuv bè tji6E ih'jµÉQçt/ O'tEVayµ6ç,lxffl, Mvai:oç, aloxUVTJ, xaxoov I oo' tO'tl 1tavi:rov òv6µai:', où6tv tO't' lm6v, che esprime un rimpianto non dissimile da quello di Atossa. Grandioso è l'arrivo di Cassandra, in Ag. 1035 ss., su un carro che si presume non più barbarico (eventualmente mutuato, però, dalla civiltà sconfitta dagli Achei). Clitennestra le ingiunge, in apertura, doro xoµ(~ou xal m'.,, Non fa che attuare, per intanto, un ordine di Agamen/ 'tT)V6' tax6µL~E. Le none, cfr. v. 950 s. i:riv ;ÉVT)v6è Jt{)EUµEVxtiµa, che la regina Atossa riteneva (per una severa economia scenica, abilmente però drammatizche zata) di potersi risparmiare. Non diverso dalla spettacolare àmiVTJ, Agamennone ha caricato di prede e di trofei (v. 1035): con esibizionistica funzionalità. Il fantasioso trip, che la dea fragorosamente realizza mulinando la mitica egida, non appare d'altra parte possibile, come si constaterà meglio, che con Euripide e la sua sofisticata cultura, anche materiale. Saltano, dunque, i vv. 404 e 405. Il v. 403 ha concluso, con perfetta logica, l'esordio della dea (vv. 397-402), inteso a fornire le coordinate spazio-temporali del proprio viaggio: MEV,

µh oùbtv, ttauµa b' '6Q ... / ... x66va; I 6Q yé 'tOL 'tÒVl>E ... / ... / ... X'tÀ..Matrice di Eum. 406 è in Aesch. Suppi. 234 ss. :rtObwtòv6!-'LÀOV 'tOÙ'tOitauµaotòv :rtéÀ.EL, nonché Choe. IO s. d xQtiµa À.E\iooco; di; :rtoit'ijl>'Ò!''lyuQLç/ I 't«Qj:\Ei't'6.yav 61-'Lì..ov), cfr. Eur. I. A. otECXEL X'tÀ..(già Sept. 34 s. !'fil>'b:TjÀ.vl>cov 1338 s. Quanto a xmv6ç, si tratta di un atticismo (emerge con Aesch. Choe. 659, cfr. Bacchyl. XIX 9), sempre in Eschilo, talvolta in Sofocle ed Euripide, conserva il senso originario di "insolito, straordinario", cfr. J. Wackemagel, Venn. Beilrage, p. 38 s. (= Kl. Schr. l, p. 799 s.). "Novità" significa già in Eur. Med. 16 (:rtaÀ.ai.à xmvrov), 79 (vfov :rtaÀ.aui>), ma si afferma, emblematicamente, con Soph. O. R. 916 'tà xmvà 'toiç :rtaÀ.clL 'tEXµa(QE't«L.Eccezionale è, tuttavia, Herodot. IX 26, l xal xmvà xat :rtaÀ.mà

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t

singolarmente sfuggito, tuttavia, il modello di siffatto arrivo, quale reperibile nella medesima tragedia, sulle labbra della Corifea (v. 249 ss.): xirovòç yò.Qn:o:çn:molµavrm 't6:rtoç, un:te 'tE Jt6vtov wrtt{>otç :rton\µamv ~À.-frov6LCOXO\IO' oiJ6ÈVUO'tiQaVE 40 , con cui in Prom. 135 sono arrivate le Oceanine, il lussuoso mezzo, cui rinunciava Atossa in Aesch. Pers. 607. Ma anche i -DaÀa0001Wl)'X'ta . . . À.Lvom~ ... vau't(À.ù>V òxfiµa'ta, che Prometeo vanterà di avere per primo inventati

40

Fantasmatico, in quanto significativamente privo del 6axwMS&um,ç pronome. Il deittico qui significa, che Medea si è già levata in alto, sul problematico (di sicuro approssimativo) veicolo. La cui base è, patentemente, retroscenica: nel v. 1317

Medea dichiara inutilmente chiuse e sprangate le porte della reggia, nel v. 1320 consiglia (beffardamente) a Giasonedi "parlarle", visto che non potrà pià "toccarla". I vmrrD.rov òxfiµmadel cii. Prom. 468 ripetono la eccezionale matrice metaforica da Soph. Tr. 656 0XT11,1Q vac>ç.Nel precedente Prom. 467 oinu; 6Uoç lm:' èJ&oii, M. Griffith, op. cil. p. 171, opportunamente segnala Umganguprache, rimandaagli analoghi (reciprocamente caratterizzanti) Prom. 234, 440, 50'l s., 913 s. (qq. vide). P. Groeneboom, Aachylw. Promelhew, Groningen 1928, p. 182, con la consueta attenzione, sottolineandone la ridondanza, indica quale esempio pià alto del sintagma Soph. Ai. 444 ot'ncciv 'tLç; aine ... 6Uoç lm:' èJwij, e come pià significativo Aristoph. Nuh. 653 ,:(ç; 6Uoç lrvd i:outoul. mvoo,mjAou; Ma sono da richiamare Vesp. 210, Eccl. 925, nonché Knhner-Gerth, Gramm. d. Griech. Spr. II, p. 301 ss. La battuta di Nuh. 653, a dispetto degli editori, è di Strepsiade, non di Socrate. Che ne respinge immediatamente (v. 654) la rozza volgarità: àyeeioç;el xal. axcn6ç (buffonescamente sottratto ad Alcm. fr. 13, 1 P.). Van Leeuwen sospettò del peculiare Nuh. 653, Dover lo ha addirittura espunto. Per la vessata attribuzione, cfr. W. J. M. Starltie, 7'he Clor.uù of Aristophano, London 1911, ad loc., ed il nostro intervento in Plùlolo(Iw 117, 1973, p. 130 ss.

631

Sofistiche "macchinazioni"

(v. 46 7 ss. ): lamentando, significativamente, che, pur 'tOLQ'U'ta ll'IXX'lll«cui rinuncia Atossa (Pind. fr. 106, 5 ss. M. lo oppone al più nobile aQµa), non ancora il naviglio della cui invenzione si vanterà Prometeo, tanto meno il mastodontico velivolo su cui le Oceanine si illudono di imbarcarsi. Ma neppure la semplice cavalcatura, che Trigeo trionfalmente si vanterà di avere (soltanto lui) inforcata (Pax 865 ss. ), utilizzando il medesimo ed emblematico lessema: dç; / X'lll«arriverà ad Aristofane, non senza un incrocio con Pegaso, in cui la fantasiosa invenzione del Prometeo (il Titano, è del resto 1tOLXLÀç;, cfr. v. 308) ha reduplicato e assieme contratto il veicolo di Medea. Lo ha ridotto, più adeguatamente, a 'tÒV1t'tEQ"YOOXf) 't6v6' ol(l)V6v (cfr.

t

41

La cui mitica genesi aembra di cogliere in Eur. El. 464 88. tv l'>t l,ltoq, xattÀ.af.&ffl? OOXEL cpaffoJv I xi,,c),oç iw.CoLO I &µ.mEQOéoomç.Nel fregio orientale del Partenone, il Sole è già rappreaentato aulla protocollare quadriga. 42In realtà, nel cil. v. 1297 il:rmivòvc\eaL aroµ' tç al~~. viene tempeativamente anticipata la necessaria informazione acenica. "-' È merito di G. Nenci (Quad. Urb. n. 1. 3 [32), 1979, p. 81 88.) di avere con-etto nel tradizionale oonç dç I 6XTJI'«xavtaQOU •mpaç, il debole dç con Elç, coll.

uuw~

Aeach. Sq,t. 6, Soph. O. R. 1380, Ariatoph. Eq. 861, Pl. 186. Quanto ad 6XTJI'«, lo Schol. osserva, che non è detto solo degli &{>µata: il lat. vehiculum ne appare il perfetto calco, formale (òxtm / veho) e sostanziale.

B. Mar.rullo

632

'1:0't{K)ç):vanto di Oceano (Prom. 286), ma Med. 1321 'tOt6v6' i>xru.ux anche del suo burlesco emulo, Trigeo (Pax 865 s.) 44 • Un procedimento inverso sarebbe indimostrabile: senza l'esplicita, schietta invenzione della Medea, il carro delle Oceanine, parimenti alato, non sarebbe concepibile. Esso allude, non più che indirettamente, al fantasmagorico prototipo. Si configura moltiplicato in capacità e grandezza, sembra di conseguenza relegato sul piano della elucubrazione, non della rappresentazione scenica. Della µrixa'VTI si fa un uso chiaramente ultroneo, geometricamente magnificato: per cosi dire metafisico, in quanto fisicamente non realizzato né percepibile. Euripide insisterà (solitario?) nella mirabolante macchineria: con proterva determinazione. In Andr. 1226 ss., di pochissimo più giovane, l'apparato scenico si assottiglia, si formalizza in quel tipico istituto, che si definiµrixavijç. Correttamente, sarà la Corifea ad annunciare la sce itroç wr.ò miracolosa apparizione di Tetide: ùò loo· 't( xtx(Vl')'tat, 'tlvoç ala6avoµa.L ih!(ou; XO'ÙQ(rovargutamente richiamano ambedue le valenze di

bnj:Ja(vro. 46

t

l'elemento visuale che qui prevale, esclusivo. Vàq:,E'YYiis di Prom. 115 è inteso ad atetizzarlo, ne giustifica la stessa rinuncia. In analoga epifania, cui sommariamente si attenta (una unica volta, su rigoroso modello epico) Soph. Ai. 14 88., prevarrà, significativamente, quello sonoro: wcpittyµ' •Aitavas, q:,ll.'t«l11s tµot itwv, çrllµaitts 00\I, x&v Curomos~s 6µros, CJ)WVTIµ' àX()U(l)xat ;uvaenal;ro IJ)()EVL Che 6mm-to; generi il più ricercato àq:,E'YYiis, espungano ambedue l'elemento visuale, appare sempre più irrefutabile. Va segnalato, che luromo; è Li.eblingswortdi Sofocle (4x). Il v. 16 verosimilmente allude ad Alcm. fr. 39, 3 P. xaxxapel>rov6na auv6éµEVO!;,quale da me a suo tempo ricostituito (Rh. Mw. 98, 1955, p. 73 88.). Prototipico è, tuttavia, Hom. B 182 ;q:,ait'·6 l>ì çuvéT)xEtros 6na q)(l)VT)OOOT)ç. Analoghe situazioni (aurali, non visuali) sono in Eur. Hipp. 86, El. 1489, /. T. 1447, ma cfr. Soph. O. R. 1325 s., nonché 762. Ancora da Soph. Ai.14 s. è ispirato [Eur.] Rha. 608 s. l>fomnv' 'Aitava, q:,i}éy!JG'toS yàfJt'la66µT)V/ 'toù ooù cnMj&T)yijQUV.La protocollare alternativa provoca scompiglio, quando in nessun caso si verifichi, cfr. R. 1312 ts l>ELvov,oùl>' àxouotov, oùl>' bw,j,Lµov. Soph. 47 Il passivo di noeftµn,ro insorge con Herodot. II 97, è riservato, oltre che ad npl>' 'Avl>QOl,IOXT)V / çEVLXOi!; tff' 6xOLç Eur. Andr. 1229, a Tro. 568 s. ÀEUOOEL!;

o.

~l'ffllV48 Introduce ancora nei soli Eur. Heracl. 13, Hipp. 1391, H. F. 815, /on 1549 (,emel), Rha. 885 (ro fo [ru w]).Abbiamo già sottolineato, come esso sia 808tanzialmente ignoto ad Eschilo (salvo Choe. 870, fr. 46 a, 7 R.), ma è 4x nel solo Prometeo. Sofocle lo adotta nel tardo O. C. 1479, per sottolineare lo sconvolgere del tuono. 49 Il modello (ma si tratta di un XOQLXOV, che introduce correttamente la ~) è in Eur. Ak. 11 s. d noi' ii..ov, buro6cì>vlla.

Sofistiche "macchinazioni"

637

mega) 58 • Con effetti indiziari, dimostratisi convenzionali quanto irrefutabili (v. 1182 ss.). La evidente dipendenza daProm. 125 s. alitrtQ b' tMxcpgaiç / ff'tEQ'U'YOOV ~utaiç 'U:rtOO'UQLl;EL, viene correttamente 59 riconosciuta • Nella sostanza, come nella forma. Più oltre (v. 1197 s.), il richiamo a Prom. 124 ss. (un modello letterario ormai) risulterà più esplicito. Negli Uccelli, Aristofane contamina, visibilmente, l'Eracle di Euripide con Prom. 124 8. cpEÙcpEÙ,"tL:rtO't'ali XLVaihoµa XÀ:uc.o / :n:Uaç 60 olrovòrv; • Ma lo spazio aereo, già indicato nell'Eracle con un esplicito u:rtÈQ Mµrov, viene intenzionalmente ribadito nella conclusione: in H. F. 873 lç Mµouç ha funzione contrastiva, alla cessata visione della divinità si oppone, ulteriormente, l'acpaV"tOLdei Coreuti. Essi non saranno più percepibili con la vista: ltcpaV"toçcostituisce una pregnante indicazione (didascalia interna?), del tutto analoga a quella proiettata da àcpeyyfiç, con cui veniva qualificato il fantasioso approdo delle Oceanine (Prom. 115). Non risulta però dissimile da quell'a:n:omoç, che abbiamo segnalato a carico di Atena, già nell'Aiace di Sofocle (v. 15). La mirabolante testimonianza della Pace costituisce una sorta di spartiacque, per quanto riguarda l'uso della µT]xa'VTI,e di analoghe

58

Cfr. v. 1198 mEQWtòçcpi}6yyoc;,v. 1199 avt1') :irtéQUYE :n:oivauotoÀEiç;;v. 1230 :n:QÒç; àv6Qdmouç; :n:troµm, v. 1260 htQ(O(Je:n:noµtvyi. Appare enigmatico :n:ÀOiov11xuvij (v. 1203). L'immagine del naviglio, secondo lo Schol ., sarebbe provocata dal xexoÀJtwo&OL tòv XLtVa,durante la corsa, la xuvij richiamerebbe l"'ala" tesa del berretto, emblematica del :n:traooç, proprio del navigatore Hennes. Non siamo lontani dal ~LfJooijaa x6À.:n:ovdella prototipica Atena (Il edizione!) del cit. Aesch. Eum. 404. 59 Cfr. P. Rau, Paratragodia, Mllnchen 1967, p. 176 n. 14, che tende a sottovalutare siffatte reminiscenze, per quanto opportunamente riconosca, che le testimonianze degli Uccelli non hanno rilevanza alcuna nella "Prometheus-Frage": la singolare tragedia risulta saldamente accreditata, anche se nessun indizio la riferisce ad Eschilo. 60

Non ricorre in questo luogo il protocollare :n:EMQOLOç;, tuttavia liebling$WOrt nel Prometeo (vv. 269, 710, 916, cfr. Aesch. Choe. 846). Th. Kock, pur sottolineando la patetica allure di Av. 1197 s. (l'enallage di l>(Vl')ç;:irtEQWtÒç; q,Myyoç;, nonché :n:roaQOCou), ne escludeva a torto intenti parodici, eventuali bersagli o modelli tragici. Nel precedente v. 1196 Meineke indicò giustamente lacuna: 66QELl>t :n:èiç; XUXÀQ> axomi>V.Che sia piuttosto da integrare con il topico fo fo, vel lw l,come ci>ç; fyyùç; 1\l>TJ lascia sospettare? Il ffEQLCJXO:n:ovµevoç;, suggerito in clausola dal Willems, appare banale invenzione.

B. Marzullo

638

macchinerie: nella tragedia di Euripide, o di eventuali suoi contubernali (il Maestro del Prometeo, verosimilmente più inceppato, ne è tuttavia snobistico seguace). Immediatamente successivo, infatti, si dimostra l'esempio pur vistoso, di El. 1233 ss. 61 : òll'

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66µwv Ul"EEQilXQO'tQ't(J)V

cpa(vouo( 'tLVEçOO(tJ,OVEç i\ inrov 'tO)'VOÙQEYYflç;, ziale didascalia. Un elemento, in realtà, inteso ad allentare la tensione drammaturgica, di cui erano cariche quelle più arcaiche (e contratte) "parole sceniche", costitutive di un teatro però alieno da spettacolari esibizionismi. La cui cifra resta tuttavia la 61"Lç;,ormai· disvelata, platealmente dispiegata 62 •

61

La cui messinscena viene posta, in genere, dopo il 421 a.C.: la Pace aristofanea non sembra conoscerne l'eventuale esempio, cfr. infra, n. 65. 62 Il deittico ME torna nell'autopresentazione dei Dioscuri (v. 1240), cui corrisponde njobE per la sorella (v. 1243). Che questa apparizione ricorra a scenografici supporti, sembra possibile negare: x~ç. j3a(voum, quindi lxq>(yµria (v. 1242) li escluderebbero. Ma Mµwv UXE{) lxxemc'mov obbliga ad una aerea escursione, cui seguano sbarco e "marcia" verso il proscenio. L'interrogativo posto dai vecchi editori nel v. 1235, dopo OÙQ«V((J)V, è incongruo: si tratta di una allibita constatazione. Analoga struttura è rilevabile in Aristoph. Av. 268 ss. all' ... oùtool xal &i nç 6QvLç Eex~m. quindi dç 1Wt' lat(v, infine dç latLV6QvLçoirtoo(; con analoga, e motivata, sequenza di indefinito e di interrogativo. Prototipico è, tuttavia, Aie. fr. 345 V., asseverativo, a dispetto della Voigt, sua ultima editrice, cfr. il nostro Frammenti tklla

Sofistiche "macchinazioni"

639

Nel più tardo Ione (successivo al 412 a. C.), la scena è tipica, ma senza alcun brivido (v. 1549 ss.): fu· -c(çotxrov ih.Je>Mxrov ù1tEQ"CEÀflç ih!rov; itvrftÀ.LOV 1tQ000>1tOV bccpa(VEL q>E\l'yO>fJ,E'V, 00"CEXO'UOQ, l'fl tà ba(VEL62xoupa ... lt6ba: appare cifJQÒV 'tLilttaa xroÀ.OV, quale spicca in Eur. /.A.

67

persistente e è sempre nel una belluria 614 68 •

Ma già il v. 7 ss. risulta raffinatamente richiamato (cfr. /.A. 613 s.

cTÙ6',

w

... / ~ ... lloftevéç;): dxoç;, olov fxw ,rovov· cTÙ6' luateiç;, y~ 6' iiitei XVOO>..itoLç. O'ÙtEyàe mieòç oùt' OO'tQOOV 'Ù1tÉQtEQOV Piloç 530 oiov tò tciç 'AcpQOO(taçLTJOtV b XEQV "EQroç6 dLÒç1taiç. aVT.a 536

540

dimetro libero prassilleo I prassilleo I prassilleo I reiz pherecr + lecyth enh + pros reiz

lùJ.roç c\llroç 1taQ(lt' 'AÀcpE cl>o(Pout' trtt Iluit(oiç tEQClµVoLç fk>utav cp6vov'Ellàç QOiibaTQO(çi.

enh + hem f hem hem f + 2 epitr 4 da hem ia + cr 2 cho libero 2 cho libero 2 tr

enh hem 2 ia 2 ia hem + reiz ithyph

·

I tragici greci e il passato come inizio del tempo Dario Del Como

Nella parabasi degli Uccelli di Aristofane il coro canta l'elogio della propria radiosa natura. Eterni e ignari di morte, liberi, autenticamente reali, gli alati abitatori del cielo si confrontano orgogliosamente con gli individui umani, nient'altro che ombre di sogno, pallide larve di giornata, caduchi come le foglie (vv. 685-689). L'ultimo epiteto richiama alla memoria un altrettanto illustre passo omerico: "Come la vita delle foglie, tale è la vita degli uomini. Il vento le butta a terra, ma altre fioriscono dalla terra rigogliosa, quando viene il tempo della primavera. Perché vuoi sapere chi sono?" chiede Glauco a Diomede (Iliade VI 145-149). Ma il rapporto fra i due passi va oltre il richiamo verbale; anzi, lo rovescia in un'intrigante ambivalenza. Nel canto degli uccelli l'esistenza effimera dell'uomo si oppone alla natura eterna, che è loro prerogativa; invece la sentenza di Glauco assimila la vita umana a quella di ogni altro essere vivente. Gli uccelli non nascono né muoiono, perché la dimensione del loro esistere non è quella dell'individuo, bensi quella della specie: ma secondo il poeta omerico altrettanto accade delle foglie, e anche degli uomini - tanto che è inutile conoscere il nome delle persone. Esso rappresenta il contrassegno di una caducità che è un accidente trascurabile di fronte alla continuità ·della razza, perennemente rinnovata di generazione in generazione come il verde degli alberi al mutare delle stagioni. La specie, in cui consiste l'eternità degli uccelli come delle foglie e degli uomini, è garantita dal ritmo ciclico della natura. In questa concezione il tempo non ha inizio, né fine, secondo un movimento circolare ed eterno che finisce per coincidere con l'immobilità - con l'assenza di un passato e di un futuro, ossia con l'assenza stessa del tempo, forse con l'esenzione dalla sua condanna. Il parallelo con un altro luogo insigne della letteratura greca, il frammento di Mimnermo che ad Omero palesemente s'ispira, trasferendone peraltro l'immagine a una diversa temperie del sentimento (fr. 8 Gent.-Pr. ), ha sovente indotto a cogliere nelle parole di Glauco la malinconia del transeunte: ma si sareb-

658

D. Del Como

be tentati di sorprendervi piuttosto la voce del rimpianto per la perduta naturalità di una vita secondo le leggi del cosmo. Trascinato a Troia dall'obbligo di affermazione che è il retaggio aspro dell'individualità, a questa il pensoso guerriero infine soggiace, dichiarando il proprio nome: ed egli lo inserisce in una lunga serie genealogica, scandita secondo una successione che prospetta un'immagine rettilinea del tempo. Accanto al tempo ciclico in cui risiede la nonna suprema della vita universale esiste dunque, in una drammatica contraddizione che è il connotato poetico del personaggio di Glauco, pure il tempo rettilineo; e questo grava l'uomo con la memoria del passato e l'attesa del futuro. A distanza di secoli, l'opposizione fra le due figure del tempo ritornerà come una delle alternative fondamentali, che distinguono le strutture profonde della tragedia e della commedia. Nelle sue varie forme, la vicenda comica altro non è se non il ritorno a un'età dell'oro, che s'identifica con il recupero dei ritmi della natura. Ma un passato che si ripete non è un passato; e l'eternità del tempo ciclico vanifica le chimere del possesso, del potere, della gloria, confutate dalla commedia nel segno di una viscerale adesione ai ritmi primordiali dell'universo, in cui si annullano i fantasmi perdenti della volontà individuale. Il destino dell'individuo rappresenta invece il nucleo tematico e concettuale della tragedia; ed a ciò corrisponde il carattere del tempo tragico, che è rettilineo ed irreversibile. Nella tragedia l'azione scaturisce da un passato che non ammette ritorno, e si proietta verso un futuro altrettanto irrevocabile, a tal punto da coincidere per lo più con l'annientamento dell'eroe. Ci sono, è vero, delle eccezioni come l'Alcesti e l'Elena euripidee, in cui la conclusione sembra ricomporre la situazione iniziale: tuttavia è significativo il fatto che, per la prima di esse, la critica antica dubitava persino che si potesse attribuirle la qualifica di tragedia 1 • Ma nella nonna la figura lineare del tempo s'identifica con il destino del personaggio: il cui itinerario verso la catastrofe è appunto scandito dal trascorrere del tempo, che precisa il significato essenziale dell'evento tragico come unico ed irripetibile 2 •

1 Euripide, AlceJti, arg. Il: tò l>èb(l(iµa xwµu((l(iµétfou OOt\JQLXwtEQOV, otL tç xCIQELrtCIQE xaitwtEQ Ullèxç; ne di Ateneo il Kaibel giudicava "oxrum't'rovcorruptum''4; più tardi, in una nota manoscritta - secondo quanto informano gli ultimi editori dei comici 5 - ritornava ali'~ bè dei "veteres editores", concentrando i suoi sospetti su xa-ftwtEQ. Sospetti per la verità debolmente giustificabili dopo il rinvio del Peppink a Dio Chrys. 17, 36 V..uoE't'ÒaxfJµa6 : il passo, parallelamente a Xen. Conv. 9, 7 au't"t')'t'OÙ't'6't'EQVEOV), 79b ('tQOXLÀ.Oç i>QVLç oirtoo(, che farebbe il verso al Prometeo eschileo, 941 s. ), 86 (xro xoÀ.01.Òç µoixE'taL, da confrontare con Od. IV 707 e Eur. Andr. 1083), 93 s., ecc. Ora, l'effetto parodico, che consiste nel collocare situazioni o espressioni solenni e auliche in contesti che tali non sono, prescinde ovviamente da ogni criterio di verosimiglianza. Non si vede quindi perché a usare il linguaggio paratragico o aulico debba essere necessariamente Pistetero solo per il fatto che dei due è il più intelligente e il più colto. Mi sembra, anzi, che l'effetto comico aumenti se chi usa certe

Anche l'anonimo autore della Hypoth. I 5 88. Coulon afferma: òvoµatovim bÈ 6ç;xal nQ6-tE{)Oç; 6.QXEtaL. 6 µiv IlLaDttmeoç, 6 bÈ EùEÀJtC&-tç;, 12 E. Friinkel, Beobachtungen zu AriswphaneJ, Roma 1962, pp. 61-65. 11

E. Corsini

684

espressioni poco appropriate non si rende conto della stonatura. E 'questo calza perfettamente con la personalità di Evelpide, appassionato di spettacoli tragici (come egli stesso asserisce, v. 511 s.), di cui forse non tutto gli era chiaro. Dunque sulla bocca di Evelpide il linguaggio tragico e aulico, orecchiato e applicato a sproposito, non soltanto ottiene un effetto comico più esilarante, ma concorre anche a delineare il carattere di questo personaggio, che diventerà minore e secondario soltanto in seguito, cioè soltanto quando prevarrà il progetto di fondazione di una nuova città esposto da Pistetero a Upupa nel verso 162 ss. Prima di allora, come risulta dalle parole rivolte agli spettatori (v. 27 ss.) e poi dal colloquio dei due ateniesi con Upupa (v. 92 ss.), il progetto è quello della fuga da Atene infestata dalla piaga dei processi, alla ricerca di un t6noç rutQétyµoov(v. 44), "una città di lana morbida per sdraiarvisi come su una soffice pelliccia" (v. 121 s.). È un progetto all'insegna dell'evasione e dell'utopia pura, in netto contrasto con quello esposto e realizzato da Pistetero che si ispira invece esplicitamente alla 13 noÀ.U3tQ liv :n:{l'ftmç. ... i X tOUt(IJV où l'TJXUVT)V lXELç;

86

Euripide ha confessato al Parente che le donne ateniesi si riuniranno in giornata per decidere della sua sorte e, alla sua richiesta di dirgliene il motivo, risponde: "perché dico male di loro". Il Parente dapprima commenta, con aria seria e compunta, xal b(xata tµa,rtjj o suoni simili contigui) del vocabolo. Quindi: ;'UVOLOO

JtOll' bEivo b' oùv.

'Eml 'tali' oùx dertx', OQ(i.ç,roç atÀE"fY(baçÀ.apoi;om, mEL'ta mcpù>'V(~oµev 'tÒV olvov.

556

Continuando nelle sue calunniose denunce, il Parente travestito rinfaccerebbe alle donne uno dei vizi anche altrove attribuitigli (per le Tesmoforiazusecfr. 420; 630 s.; 735 ss.; 743 ss.), quello della loro smodata bibaci.tas,che in prosieguo di tempo costitul un luogo comune per i commediografi delle età seguenti 13 • Ma nel nostro passo 'tÒVolvov, rispetto a 'tÒVoi'tov tramandato da Re confermato dagli scoli e dalla Suda, ha tutta l'aria, nonostante la quasi universale accoglienza 14, di una congettura, che il lessicografo Polluce (s. v. o(cprov)ha forse deliberatamente introdotto in un contesto dove si fa un elenco di termini principalmente connessi con l'uso del vino. l:i'tov, pertanto, sarebbe da conservare, sia perché filologicamente di./ficilior, sia perché, per quanto inatteso accanto a un verbo come mcprov(teLv,conferma, con la sua preziosa testimonianza, un altro difetto femminile (quello di piccoli furti di grano), più o meno scherzosamente denunciato altrove da Aristofane (cfr. vv. 420 e 813 ed Eccl. 14 s. ). Resta da spiegare come nella vita quotidiana si potesse concretamente effettuare codesta operazione, dato che il testo, nella sua estrema semplicità - forse non cosl oscuro, come per noi, per lo spettatore contemporaneo - non può signiijcare altro se non che le donne, dopo aver preso gli strigili, si davano ad aspirare... il grano (dalle anfore).

13 Cfr. Athen. 10 p. 440 E cpU.OLvov ,:ò ,:), che furono molto cari al nostro commediografo: una dozzina (circa la metà di quelli usati da Aristofane) sono segnalati da v. Leeuwen ad Ve.,p.89; per le Tumoforiazwe vd. v. 131 (x), v. 153 (xdtft(t0>), v. 169 (xvµ{t0>), v. 617 16

t

(xaeooµtt0>). 19

Un esemplare (datato al II sec. a.C.) è stato di recente rinvenuto nel corso di scavi condotti al relitto sottomarino di S. Caterina di Nanlò dalla Soprintendenza Archeologica di Puglia, sotto la direzione del dott. G. P. Ciongoli, che qui ringrazio di cuore per avermene dato notizia e per avermene fornito documentazione fotografica. 20 Cfr. Colum. 2, 10, 16 quae (vcua) repletacum confestimgypsala sunl, quandoque in usum prompserimw, integram lenum reperiemw;vd. inoltre 12, 10, 4; 16, 4; 20 extr.; 39, 2; 44, 6. Per grosse quantità di prodotti, destinati soprattutto all'esportazione, si usavano dalia di altra grandezza e, ovviamente, operculapiil solidi e sicuri, per lo piil metallici o di sughero.

Note al testo delle Tesmoforiazwe

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rie alle donne ... affamate, per cuocersi, forse, una µcita o qualcosa di simile. A furto compiuto, entrava in azione lo strigile che, come acutamente aveva osservato W. Kraus21 , con la sua piatta superficie, era l'attrezzo più indicato per spalmare e rendere liscia, alla maniera, se ci si consente, della cazzuola oggi adoperata dagli intonacatori, la calce o il gesso, opportunamente stemperati in acqua 22 , del coperchio traforato. Una siffatta operazione, che può sembrare un po' complicata per noi, ma che non doveva esserlo per i contemporanei, ha, se non erriamo, una conferma in un frammento di lpponatte (fr. 58 Degani = 56 West), conservatoci dallo stesso Polluce: o(cproviÀ.eff'tq> 'tointUh1µa dove l'azione del perlorare il coperchio (dell'anfora) con un 'tE'tQTIVaç, sifone sottile sarebbe da ricondurre, come aveva già inteso lo Scaligero (puntualmente richiamato da Degani in apparato), a qualcuno (o qualcuna, diciamo noi, come . . . le donne chiamate in causa nel nostro passo, sia pure per un po' di grano), il quale "vinum furtim ex cado pitissarat seu gustarat". La conservazione della lezione tradita 'tÒVO'L'tOV era stata suggerita già, sia pure con argomenti, a nostro avviso, poco persuasivi, dal Rogers e, molto tempo prima, dal Biset, il quale, però, si fondava anch'egli su un inappropriato (per il nostro testo) accenno di Aristotele nei Topica, in cui il grande filosofo, a dimostrazione che di certi termini, solitamente adoperati per esprimere una determinata nozione, ci si può servire per significarne altre, adduce l'esempio della O"tÀEyy(ç, comunemente usata per detergere il sudore, ma adatta anche ad attingere acqua 23 • Un esempio, questo, che, come aveva notato il Kuster (p. 220, ad 563), mal si concilia con l'idea del oicprov(tEtV,stante il fatto che lo strigile, con il suo concavo manico, simile quasi a un cucchiaio, 24 poteva anche servire n:QÒç , ma difficilmente sa'tÒ'U~(t'T)ç. tified the first two as Antigonus Monophthalmus and his son Demetrius Poliorcetes, but the third (Phila deified as Aphrodite) was not Demetrius' mother (as Meineke claimed) but his wife (or perhaps ex-wife)6 • 3

The subject has achieved a daunting bibliography. I single out: O. Ribbeck, Alazon, Leipzig 1882; E. M. Rankin, The Role o/ the µayElQOl in the Life o/ the Ancient GreekJ, Chicago 1907; K. Latte, R. E. s. v. µayEiQOç; M. Treu, Philologw 102, 1958, p. 215 ff.; A. Giannini, Acme 13, 1960, p. 135 ff.; E. Fraenkel, Elementi Plautini in Plauto, Florence 1960, p. 408 ff.; H. Dohm, Mageiros, Munich 1964; G. Berthiaume, Le11r6le11 du rr&af(eiros, Leiden 1982; along with, of com-se, good modem commentaries on the relevant comic texts (e. g. Handley on Men. Dysk. 393; the Gomme and Sandbach commentary on Menander, generai index s. v. 'cooks'; Hunter's edition of Eubulus, index of subjects s. v. 'cooks'). 4 On the correct form of the tille, see Kaibel's edition of Athenaeus 111,Leipzig 1890, p. VII. 5 Callimedon's name is not mentioned in our sources after 318 B.C., and the probability is that he died in exile. Edmonds' theory (The Fragments o/ Attic Comedy 11, Leiden 1959, p. 425 note b) that Callimedon could have survived the period of the Phalerean's regime and retumed to Athens in 306 (thus making it possible that Alexis' play received only one production, in 305) is backed by no evidence and seems inherently unlikely fora politician who had already surfaced in the 340's. 6 Cf. Kaibel (n. 2), and W. S. Ferguson, HellenisticAthens, London 1911, p. 114 n. 7.

A Cook'sSpeech in Alexis

721

Meineke also recognised that the victory celebrated by Alexis was the one gained at sea by Demetrius over the Ptolemaic fleet off the Cyprian Salamis in the spring or early summer of 306 7 , when Demetrius was stili VEav(oxoç (29/30 in Diod. Sic. 19, 69, l; 27/28 in Plut. Demetr. 5, 2); after this victory Antigonus assumed the title of ~aoLÀ.ftlç (Diod. Sic. 20, 53, 2; Plut. Demetr. 18) while Phila's deificiation was confirmed at Athens in 305 by the erection of a tempie (Ath. 6, 255c, citing Dionysius son of Tryphon)8 • It seems very likely that fr. 111 was specially written by Alexis for a second production of his play in Athens shortly after the victory at Salamis (? Lenaea or Dionysia 305, if the occasion was a major state festival). By 305 B.C. the form, content and conventions of New Comedy were already well established, but between 345 and 318 they were in ali probability stili in their final stages of development 9 • It is a pity that the limitations on our evidence, in regard to both dating and materiai, prevent us from establishing how far in this play Alexis was an innovator and how far a follower of settled convention, but even so two useful points may be made in this connection about fr. 110 and Alexis' presentation of the cook in the Krateia. (i) Fr. 110 is a long and witty monologue whose structure and contents link it very closely with one common type of rhesis in later Greek comedy, where the cook, on retuming from market, lists the purchases he has made, describes how he will prepare them for the banquet he has been hired to provide, and brags fantastically about his skill (here in vv. 18-26). We may compare in particular Alexis 84, 186-189, Archedicus 2, 3, Philemon 79 and Sotades com. 1, which illustrate just how much humour can be squeezed out of a limited number of formulas repeated with little real variation 10• lt is unfortunate that these fragments cannot be put into any chronological sequence. (ii) The speaker of Alexis fr. 110 describes his purchases and his plans with a style and conceited panache which would normally label

7

Cf. A. E. Samuel, Ptokmaic Chronology, Munchen 1962, p. 6; K. Buraselis, DOJhellenistische Maudonien und di.eAgais, Milnchen 1982, p. 52 f. 8 Cf. Ferguson (n. 6). 9 Cf. T. B. L Webster, Studi.esin Laler GreekComedy, Manchester 197e>2;and my paper in Greece& Rome 19, 1972, p. 65 ff. 1 Cf. especially Dohm (n. 3), p. 104 ff., and Handley on Men. Dysk. 393.

°

722

W. G. Amott

him as a typical comic µayELQOç,but for an explicit statement in vv. 18-21: 'tOutOLçµayELQOç OÙ3t(K)OELux(çis the wrasse, and in particular the female wrasse (Arist. H. A. 6, 13, 56 7bl 9 f.; cf. Diphilus of Siphnos in Ath. 8, 355b) 21 • About twenty different species of wrasse are found today in the Mediterranean, belonging mostly to the Labru.s and Crenilabru.s genera. The range of coloration and patteming is quite remarkable; the female Labrus mixtus, for example, is orangered with black patches; Labrus bergylta green, red or brown with a red-brown net-like patteming; Labrus tardus reddish or light green, sometimes with a horizontal white stripe; Crenilabru.s mediterraneus coffee-brown in the female with white vertical stripes; and most spectacular of all Thalassoma pavo, the head pink with a blue net-like patteming, the body green with blue and pink vertical stripes, and the fins and tail-edges blue. The other items in Alexis' list cannot compete with this palette of pattern and colour, but al least four of them add significantly to the kaleidoscope. 'P~naç are the smaller species of dextral flatfish, especially the flounder (Platichthys fle.~us) and various soles (Solea solea, etc.); these are muddy green or brown in hue. Kagiba is the prawn (especially Palaemon elegans, P. serratus), transparent lo sandy when alive, pink when cooked. IlÉQXT)Vis a comber or sea perch, of which there are three species in the Mediterranean, Serranus cabrilla, S. hepatus and S. scriba; all have a series of dark vertical stripes along the body, and the last named a violet or blue patch on the belly. Finally o:rtaQOVis the sea bream, with more than twenty species in the Mediterranean; Spondyliosoma cantharu.s is greenish, with black vertical stripes.

20

Cf. B. A. Sparkes, Joum. Hell. Stud. 82, 1962, p. 129 and pi. V. 5; B. A. Sparkes and L. Talcott, Tlu: Atlu:nian Agora XII: Black arul Plain Pottery, Princeton 1970, p. 228 f. 21 Although D'A. W. Thompson, A G/,ossaryoJG~ek Fislu:s,London 1947 is stili extremely useful as a guide lo the interpretation of ancient Greek names for fish, it needs now to be supplemented with an up-to-date handbook on the fauna of the Mediterranean; Thompson's binomials are often now superseded. I have found A. C. Campbell, Tlu: Hamlyn Guide to the Flora arul Fauna of tlu: Medite"anean Sea, London etc. 1982, very useful for its clearly presented information and excellent illustrations, even though it is limited to the commonest native species.

Sul primo atto degli Epitrepontes Francesco Sisti

La pratica della divisione dei drammi in cinque µÉQTI,codificata da Orazio (Ars Poet. 189-190: Neue minor neu sit quinto productior actu I fabula, quae posci uolt et spectanda reponi)1, che per la commedia separano nuova trova sicura applicazione (nel Dyskolos i quattro XOQO'U cinque µÉQTIdi estensione proporzionata: 232 + 194 + 193 + 164 + 186 = 969), nonostante alcuni recenti, ingegnosi tentativi 2 , non trova una spiegazione convincente né nelle teorie antiche né nella struttura compositiva o nella pratica drammaturgica 3 • 1. Se ci limitiamo a una semplice obseruatio del materiale a noi pervenuto, risulta evidente che l'atto primo è ben circoscritto e definito nella "funzione informativa" che comprende sia le scene prologiche vere e proprie, sia la definizione dello sviluppo drammatico futuro, con la presentazione di uno o più personaggi che hanno il compito di far progredire l'azione, nel tentativo di risolvere l'impasse iniziale, e che contribuiscono invece ad avviluppare ancor più il "nodo" drammatico.

2. Insieme al quinto, il primo atto degli Epitrepontes è il più lacunoso e - per molti aspetti - il più problematico. Non conservato nel P. Cairensis 43227 4 è ricostruibile solo sulla base della tradizione indiret-

1

Vd. anche Donat. Adelph. Praef. I 4 (II, p. 4 Wessner): hoc etiam ul cetera huiwmodi poemala quinque actw habeat necesse e.st clwri.sdiui.sosa Graeci.spoeti.s; Euanth. III 1 (I, p. 18 Wessner): Comoedia uetu.sab initio clwru.sfuit pau.latimque personanun numero in quinque actw proce.s.sit. 2 Vd. da ultimo A. Blanchard, Essai sur la compositiondes comédies de Ménandre, Paris 1983, pp. 33-64. 3 Vd. A. Gomme-F. H. Sandbach, Menander. A Comrnentary,Oxford 1973, p. 19: "lt is known that the choral interludes divided Dyskofus and Samia into five acts ... Why this practice was adopted is not known". 4 Per il codice Cairense preziosa è la recente edizione fotografica The Cairo

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F. Sisti

ta - abbondante, come di consueto, per la parte iniziale - e della Membrana Petropolitana 3885, che ne ha restituito la parte finale. Si può pensare a questa sequenza di scene: dialogo iniziale Carione-Onesimo e rhesis divina (sezione prologica); monologo di Cherestrato (o dialogo Cherestrato-Ahrotono); arrivo di Smicrine e suo monologo con a parte di Cherestrato; scena a tre Cherestrato-Smicrine-Abrotono; conclusione dell'atto con Cherestrato-Abrotono. Nella ricostruzione di GommeSandbach (che calcola anche i versi in lacuna) a questo primo atto sono assegnati 171 versi, pochi in rapporto non solo ai 249 dell'Aspis e ai 266 della Perikeiromeneche hanno una struttura iniziale simile a quella ipotizzata per gli Epitrepontes,ma anche ai 232 del Dyskolose agli oltre 200 (considerando le lacune) della Samia che pure hanno strutture prologiche diverse e più brevi. Considerando, quindi, la sequenza delle scene, si desidererebbe per il primo atto un numero maggiore di versi, e forse ciò è possibile, partendo dalla ricostruzione del codice fatta dallo stesso Sandbach 6 • Coda o/Menarukr(P. Cair. 43227) dell'lnstitute of Classical Studies, London 1978, preparata con la supervisione di H. Riad e Abd el-Kadr Selim, con una prefazione di L Koenen. Si veda pure F. H. Sandbach, •Notes on the Cairo Codex of Menander (P. Cair. J. 43227)', Zeitschr.J. Pap. u. Epigr. 40, 1980, pp. 47-52 (per gli Epit.repontu, PP· 48-50). 5 Sulla Membrana Petropolitana, vd. C. G. Cobet, 'Menandri fragmenta inedita', Mnemosyne 4, 1876, pp. 285-293; V. Jernstedt, •Porphyrii fragmenta Atticae comoediae', Acta Univ. Petropol. 26, 1891; H. Huùoff, De Menandri.Epit.repontibw (Diss. Kiel), Berolini 1913; S. Sudhaus, 'Zu den neuen Bruchstiicken der Epitrepontes', Hennes 48, 1913, pp. 14-28 (in particolare p. 24). 6 Se lo stigma(= 6), che si legge nell'angolo alto sinistro del fr. Z recto(= tav. XIX) nel quale è contenuta sicuramente la prima parte del quarto atto degli Epit.reponte.s, indica l'inizio del sesto quatemione, si tratta della p. 81 del codice; e poiché l'Heros inizia alla pagina xit' (= 29), ne consegue che gli Epit.repontu venivano subito dopo l'Heros ed erano la terza commedia del codice (la prima occupava le pp. 1-28): cosl secondo la ricostruzione attenta del codice in Gomme-Sandbach, p. 43 ss. Ma dove iniziavano gli Epit.repontu? Quando nel Cairense comincia la nostra commedia, ci troviamo già nell'atto secondo, all'inizio della p. 67 (terza del quinto quatemione). Accettando la numerazione di Gomme-Sandbach, il primo verso del Cairense relativo agli Epit.repontesè il 218 dall'inizio della commedia. Ora, considerando una media di 35 versi per pagina e che, forse, all'inizio c'erano, come nell'Heros, l'hypothesù e la lista dei personaggi, si deve pensare che gli Epit.repontu iniziassero alla pagina 60 del codice, e che l'Heros si estendesse per circa 1067 versi (vv. 1-52 [pp. 29, 30) + vv. 1015 [29x35D. Ma poiché sappiamo di commedie anche inferiori ai 1000 versi (Dyskolos, Samia), si può togliere anche un'altra pagina all'Herose attribuirla agli Epit.repontes, che invece erano sicuramente una commedia lunga. Del resto, anche la commedia che precedeva l'Heros, con le sue 28 pagine, non doveva superare di molto i 960 versi.

Sul primo atto degli Epilrepontes

727

3. Come i dialoghi Davo-Smicrine nell'Aspis, Trasonide-Geta nel Misumenos, Davo-Geta nell'Heros, la scena tra Carione e Onesimo costituisce la sezione drammatica del prologo che ha la funzione di informare sugli antefatti recenti della vicenda e nella quale il punto di vista dell'informazione è quello dei protagonisti della vicenda 7. Che il fr. 18 rappresenti l'inizio della commedia è opini.ocommunis della critica, avvalorata oggi dal simile incipi.tdel Dis Exapaton9 restituito dall'hypothesise felicemente portato a riscontro da Austin 10• In verità, il carattere di "discorso avviato", tipico di battute d'entrata, esclude che qualcosa potesse precedere, a meno che non si postuli un i>eòç3tQOM>y(trov all'inizio, con una struttura simile a quella del Dyskolos. Come altrove l'invocazione alla Notte o al Sole da parte di un personaggio desideroso di partecipare alla natura le sue pene, qui l' espediente drammaturgico per giustificare l'informazione è costituito dalla 3tEQLegy(a11 del cuoco Carione. Le rivelazioni di Onesimo concernono un segmento narrativo ben conosciuto nella Nea: una puella vi.tiatarimane incinta e sposa, senza riconoscerlo, il suo seduttore. Elemento essenziale in questa struttura narrativa è l'assenza del marito (viaggio) subito dopo il matrimonio per permettere che avvenga il parto della fanciulla - prematuro rispetto alla data delle nozze - e l'esposizione del bambino. Negli Epi.trepontesil viaggio non è esplicitamente menzionato nelle parti della commedia a noi restanti, ma è giustamente ipotizzato per raffronto con l'Hecyra terenziana che ha alla base lo stesso motivo drammaturgico (vv. 171-172: viaggio a lmbro per questioni di eredità). Ma si esauriscono qui le affinità narrative con la commedia di Terenzio? Forse non a torto, E. Capps 12 riteneva che, rifugiandosi nella casa dell'amico dopo le rivelazioni di Onesimo e chiamando presso di sé Abrotono, Carisio volesse indurre la moglie Panfile ad abbandonare lei

7

Per questa interpretazione dell'intera sezione prologica, cfr. il mio lavoro 'Sul prologo della Nea', in Filologia e fonTU!ktkram. Studi offerti a F. Della Corte I, Urbino 1987, pp. 303-316. 8 Oùx 6 "tQ6cpLµ6ç oou, nQÒç&ai>v, '°""ol.l'I!, I 6vuv ~XO>V •TIÌ'V> 'A~ niv ,jla).'tQLOV/ fyYJ11' ~anoç; 9 Cfr. Zeiuchr.f. Pap. u. Epigr. 6, 1970, p. 6. 10 In Gomme-Sandbach, p. 291. 11 Sulla ffEQLt:gy(acfr. H. J. Mette, 'Die fft'.QLt'.Q'Y(a bei Menander', Gymnasium 69, 1962, pp. 398-406. 12 E. Capps, 'Plot of Menander's EpitreponkS', Am. Joum. Philol. 29, 1908, p. 421 88.

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F. Sisti

la casa matrimoniale (wtOÀ.EutEtv)evitando così il ripudio da parte sua (wtmtɵ,tEtv). Questa è la speranza di Panfilo nell'Hecyra (v. 155 s.): sed iUam spero, uhi hoc cognoueril I non posse se mecum esse, abituram cleni,que. Ma in Terenzio vien detto esplicitamente che Panfilo non ha ancora avuto rapporti con la moglie Filumena: è possibile immaginare la stessa situazione negli Epitrepontes? (cioè: si può pensare che lo schema narrativo della puella vitiata presupponesse sempre questo particolare?). È quanto sostiene MarciaE. Weinstein 13 , sulle basi però troppo fragili di un frustulo papiraceo (P. Oxy. 2829, fr. VI 2) dove si può forse leggere wt6xot1:oç o-cou, che la Weinstein interpreta cosl: ''The meaning of VI, 2 must be that Charisios has not lived with his wife since he married". Nella parte della commedia che leggiamo non ci sono elementi a sostegno di questa tesi. È certo, comunque, che gli Epitrepontes presentano una situazione particolare e, in certo senso, rovesciata: il marito che si crede tradito, invece di ripudiare la moglie, abbandona lui il tetto coniugale, mentre la moglie resta in casa 14 • Questo rovesciamento è ben messo in evidenza dal lessico: wt6xot-coç che nei documenti matrimoniali è detto solo della donna, qui è riferito per ben due volte a Carisio. La 71:EQtEgy(a ci collega al fr. 2 (2a, 2b Arnott), che consta di due frammenti separati da xal mxÀ.tVnel testo del commentatore di Aristotele (C. A. G. XVIII 1, p. 27) e attribuiti alla nostra commedia dal van Leeuwen. Tra i molti testimoni che citano la seconda parte v'è Cicerone (ad Att. IV 11, 2) il quale però, dopo la citazione greca (oùbèv ii mxv-c' Elbévat), continua: quare, ul homini curioso ... , yÀ.uXU'tEQOV mostrando di far riferimento con il termine curiosus al 71:EQLEQYOç della prima parte del frammento, e assicurando così anch'egli la vicinanza dei due testi. Importante è il contesto di Temistio (che cita ancora la seconda parte: Or. 21, 262c) acutamente analizzato dal Masaracchia 15 • Oltre al recupero del nome del cuoco, Temistio ci rende sicuri che in questa prima scena, in risposta alle domande di Onesimo anche lui 71:EQ(Egyoç, il cuoco chiacchierone faceva sfoggio, come sono soliti i cuochi della commedia, della propria abilità nel preparare ribuoµa-ca

t;

13

14

The Oxyrhynchu.s Papyri XXXVIII.London 1971, p. 26. Vd. E. Capps, art. cil. p. 421: "It cannot be denied tbat tbe situation in the

family of Cbarisius ... is just tbe contrary of wbat we sbould naturally bave expected. The guilty wife remains in ber busband's bouse, tbe busband goes away". 15 'Note agli Epilreponus di Menandro', Helikon 8, 1968, pp. 1-6.

Sul primo atto degli Epitreponle.s

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variando le ricette e i nomi delle vivande. Non si dimentichi che questo cuoco è axrom1.x6ç,secondo la precisa testimonianza di Ateneo (XIV potrebbe essere contenuto nel fr. 659b). Un esempio del suo axc.i>me1.v che altri preferi5 (btbtaoa / bit 'tÒ 'tétg1.xoçaÀ.açtàv oirtro TUXTI), scono invece interpretare come un modo di dire proverbiale di chi, con la sua azione, peggiora una situazione già cattiva. Questa battuta Arnott suggerisce di attribuirla a Onesimo "when describing the disastrous consequences of his tale-telling on Charisios' arrivai home" 16 • Ma se cosl fosse, quale situazione già compromessa la rivelazione di Onesimo aggraverebbe? Prenderebbe forza allora l'ipotesi di una situazione coniugale in origine non felice; oppure, cosl intesa, la frase si adatterebbe meglio alla seconda rivelazione di Onesimo, concernente l'anello. In realtà il riferimento al cuoco è più convincente: un forte indizio può che essere la ripresa in Temistio dell'espressione tàv oirtro TUXTI, come ha notato il Masaracchia - non può essere casuale. A questa stessa scena appartiene certamente la glossa del fr. 4; uguale certezza, invece, non si può avere per il fr. 3: d 6' ou ,w;oeiç lt{,1.atov;6 6' àÀ.ue1.,ttJÀa1./ xa'taxe(µ.evoç. Altrove ho analizzato il 17 ; e il raffronto istituito con Caritone IV 2, 8 (6 6è significato di àÀ.urov [$cil. Cherea] tv naga6doq> 'tl.Vtxa'tÉXEL'tO µovoç àÀ.urov)rende sicuri che il soggetto dell'espressione è Carisio; ma non è chiaro chi pronunci la battuta. Si è pensato a Onesimo che, alla fine della prima scena, esorterebbe il cuoco a troncare le chiacchiere e ad andare in casa a preparare il pranzo per il padrone 18 • Ma ciò contrasta - mi pare - con l'atteggiamento precedente del servo, se è vero che anche lui neg(egyoç ha provocato la parlantina e quindi l'indugio del cuoco. In verità la frase può essere pronunciata sia da Cherestrato che da Abrotano: a me sembra la battuta tipica di chi entra in scena e si rivolge verso l'interno, concludendo un discorso già iniziato 19 • Forse appartiene al personaggio che entra in scena subito dopo la rhau divina (Cherestrato o Abrotano).

16

MenanderI, London-Cambridge Mass. 1979, p. 395. Cfr. anche G. Paduano, Menandro. Co,nm,edie,Milano 1980, p. 381 che suggerisce "piove sul bagnato". 17 'Sul testo degli EpitreponkJ', Stud. it.filol. clau. ser. III, 3, 1985, p. 239 88. 18 Coal Amott, op. cit. p. 393: "Ifthe fragment comes from the opening scene, as seema likely, Onesimos will be addressing Karion, and usin11:Charisio11'fretful impatience aa bis excuse to usher the cook of stage into Chairestratos' house". 19 Sulla funzione di queste battute, cfr. E. Fraenkel, Ekmenli Plautini in Plauto, Firenze 19602, p. 155.

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F. Sisti

4. Dopo la rhesis divina, necessaria per completare l'informazione, è Cherestrato il personaggio presente sulla scena a commentare con degli a parte il monologo di Smicrine 20 • È incerto però- come s'è detto - se l'amico di Carisio venga in scena da solo o sia seguito da Abrotono (oppure il contrario); la presenza dell'etera già in questa prima scena è assai probabile, perché, quando Abrotono compare certamente al v. 142 (cosl, ormai, pensano tutti gli editori, abbandonando l'idea di Simia, nominato più oltre, ma che è probabilmente l'assistente del cuoco), non è chiamata per nome, come avviene solitamente per ogni personaggio alla prima uscita - a meno che la sua identità non sia evidenziata dal costume, e il nome sia superfluo. D'altra parte, la presenza di Cherestrato e poi di Abrotono è a mio parere necessaria perché sia completata l'esposizione dei segmenti narrativi sui quali è costruita la trama degli Epitrepontes: a) il motivo della puella vitiata che sposa poco tempo dopo il suo seduttore senza riconoscerlo, e che durante un'assenza del marito (viaggio) fa esporre il bambino, frutto della violenza; b) il motivo dell'esposizione del bambino, raccolto da un pastore e ceduto senza i yv0>Qtaµa'taad un'altra persona che successivamente li pretende come appartenenti al bambino: e arbitro della contesa è un parente del bambino stesso (simile alla storia di Alope, raccontata da Hygin. 187); c) il motivo dell'amore di Cherestrato per l'etera Abrotono. Nello sviluppo della commedia i tre elementi narrativi si intersecano l'uno con l'altro realizzando un organismo drammatico perfetto, in cui ogni elemento della trama, come tessera di un mosaico prezioso, trova la sua giusta collocazione. Che il tema di Cherestrato non fosse un motivo secondario nell'economia della commedia, è dimostrato dal passo di ME'VaVb(>OU 3tE3tLflµévO>V Coricio 32, 73 Foerster-Richtsteig 'tOO'V 3tQ0003tO>V Moox(wv µèv flµciç 3tÉQO>V.

In questo passo, la sua vicenda personale allude emblematicamente alla commedia, come il personaggio di Moschione allude alla Samia, Cnemone al Dyskolos e Smicrine all'Aspis21• Si può obiettare che Cherestrato è un nome comune nella Nea e non ha per giunta una

20

Sugli a parte si veda D. Bain, Actors and Audience,Oxford 1977, in particolare pp. 110-112. 21 cl>LÀOQ'YUeoç è epiteto riconente di Smicrine nell'Aspis (vv. 123, 149, 351).

Sul primo atto degli Epilrepontes

731

tipologia fissa (è un giovane nell'Eùvouxoç, vd. Pers. Sat. 5, 162 e Schol. ad loc.; è un uomo di età incerta in P. Sorb. 72r = fr. 257 Austin; è un vecchio nell'Aspis). È però difficile che ci sia un altro Cherestrato innamorato di una ,péù,:tQLae d'altra parte è logico pensare che nella citazione di Coricio fossero menzionate commedie molto famose22 • 5. All'arrivo sulla scena di Smicrine, Cherestrato dunque commenta con degli a parte le parole del vecchio. La circostanza che nella scena precedente Cherestrato possa aver manifestato, con un monologo o con un dialogo, il suo amore per l'etera rende più comprensibili come vedremo - alcuni accenni contenuti nelle battute seguenti. Al monologo di Smicrine appartiene forse il tanto discusso frammento 6: àgyòç b' i,yLa(vOO'V 'tou 3t'UQÉ't'tOV'toç xoÀ:6 / l..u.o'tEQO絫TJJV youv loiHEL/ bLXÀ.tlLavikQWt(J)V.Per il vestito bianco, cfr. Onom. 4, 119 (I p. 236, 8 Bethe). 5

6

Cfr. Polluce, Onom. 4, 146 s. (I p. 244, 17 Bethe). Per il vestito rosso, Onom. 4, 119 (I p. 236, 5 Bethe). 7 B. Bader, 'The '1'6q>oçof the House-Door in Greek New Comedy', Antichuwn 5, 1971, p. 36. 8 Cfr. Bacchielli, art. cit. 9 Art. cit. p. 36 n. 2.

Commedia nuova a Cirene

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rappresenterebbe un commento del tutto personale alla scena dipinta. In particolare, l'iscrizione sopra la porta sarebbe stata ispirata dall'affinità che l'affresco presentava con la situazione descritta in una commedia ben nota: un giovane confidava allo schiavo una marachella o un guaio nel quale si era cacciato e lo pregava di trovare una soluzione. La mano sinistra dello schiavo portata verso il mento denota un atteggiamento pensoso e preoccupato; evidentemente sta meditando come tirar fuori il padroncino dai guai 1°.La porta di casa che si sta aprendo verso l'esternou suggerisce l'uscita di qualcuno: un arrivo imprevisto e forse temuto, come sembra denotare il gesto del giovane, che alza vivacemente il braccio verso il suo interlocutore per avvertirlo e imporgli il silenzio. L'importuno, ancora nascosto dalla porta, è stato identificato dal commentatore nel padre del ragazzo. Affresco e didascalia si corrispondono e si completano a vicenda, tanto da render lecita la supposizione che pittore e scriba - se si tratta effettivamente di due persone diverse - avessero in mente la stessa commedia 12• La didascalia può dunque essere considerata l'appropriato commento alla scena rappresentata nell'affresco. Qualche problema suscita la disposizione del testo, che corre su due righe: w.i..E,j,q)TJXE'VO:rtUTT)Q TJituQ«:rtQOEQXE'taL

Mediante la trasposizione di 6 1tat'JIQalla fine della seconda riga il Bader restituisce un intero trimetro giambico e l'inizio di un secondo:

°

1

Cfr. Plauto, Mil. 200 ss.: Palestrione si concentra per cercare una soluzione al guaio combinato da Pleusicle e Filocomasio. Periplectomeno, che lo osserva e ne descrive gli atteggiamenti, nota ad un certo punto (v. 209) che lo schiavo columnam mento sufT'l!it suo. L'os columnatum di Palestrione gli rievoca un'immagine sgradevole, quella del poeta Nevio messo alla gogna. 11 Sulle porte, che negli edifici teatrali si aprono verso l'esterno, si veda, oltre all'art. cit. del Bader, Chr. Dedoussi, 'Studies in Comedy Il. The lnterpretation of ''TI)v ihJQTJXE'V tflV irogav tLç t;Loov'. à.ll' oùxt 17 XQUoo • Dato che il verbo è scritto accanto alla testa del giovane, vien da pensare che il commentatore intendesse attribuirgli l'intenzione di entrare in casa. Ma questa interpretazione non combacia con la scena rappresentata nel dipinto: la porta semiaperta suggerisce infatti l'uscita di un terzo personaggio, come ha ben visto il primo scriba, e il braccio alzato del giovane evidenzia il suo timore per l'arrivo improvviso e inopportuno. La vicenda rappresentata nell'affresco e chiosata dai due versi incisi sopra la porta è talmente tipica della commedia nuova che non ha bisogno di essere esemplificata. Tuttavia il momento particolare - servo e padroncino sorpresi dal padre del giovane mentre escogitano qualche espediente per uscire da una situazione critica - non trova esatto riscontro nei testi superstiti della commedia nuova e della palliata latina. Gli esempi più affini sono offerti dal v. 203 ss. del Dyskolosdi Menandro: la figlia di Cnemone, mentre conversa con il suo innamorato, sente

16

Per la numerazione dei versi delle commedie di Menandro seguo l'edizione oxoniense di F. H. Sandbach (19902). 17 Cfr. Petersmann, art. cil. pp. 91 n. 3 e 95.

F. Perusino

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aprire la porta e teme che il padre scorbutico la sorprenda fuori di casa: 'té!À.Mç (cfr. fr. 1), quanto perché parrebbe strano se il suono prodotto per mezzo di una 'tÙÀLVTJ,"a small bivalve shellfish' 94, venisse definito µtyaç. Per nç / 'tL in clausola, si vedano i frr. 6, 1 e 10, 3. Quanto a 'tLç (~xoç) cfr. del resto Ar. Eccl. 880 e 1153, Plat. com. fr. 71, 14 K.-A., e soprattutto Soph. fr. 314, 113 R. ~(~&)µ' UJ.vtL 'tOOV [ ...... ). o~ç [ 5 • "Ma férmati": cosl viene inteso comunemente, e genericamente, 1

A. M., Athenaei Deipnowphistae I, Lipsiae 1858, p. 156; G. K., Comiconun GraecorumFragmenta I 1, Berolini 1899, p. 193; A. O., Frammenti della commedia greca e del mimo nella Sicilia e nella Magna Grecia II, Napoli 1947 2 , p. 33; M. G., Rintone e il katro in Magna Grecia, Napoli 1971, p. 90. 2 Cfr. S. P. Peppink, Athenaei Dip"'"ophistanun Epilome I, Lugduni Batavorum 1937, p. 10 (e XXIII), e già G. Wissowa, in Commentationesphilologae in honoremA. Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, p. 24. 3 I. Schw., Athenaei Naucratilae Deipnowphistarumlibri quindecim I, Argentorati 1801, p. 336 e Animadversionesin Athenaei Deip"'"ophistas II, Argentorati 1802, p. 76; Ch. B. G., Athenaew. The DeipnosophutsI, London 1927, p. 368; W. J. SI., Arutophanu Byzantii Fragmenta, Berlin-New York 1986, p. 132. 4 D'Arcy W. Thompson, A Glossaryof GreekFuhes, London 1947, p. 259. 5 Richiamato da Olivieri (loc. cit .), che però- abbiamo visto - accoglie la lettura dell'Epilome. Quanto al pronome personale 'pleonastico', cfr. Kùhner-Gerth I 660.

F. Bossi

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W.' taxe6 • È vero che l'imperativo taxe, da solo, significa "hold, stay, stop!" (LSJ 844). Ma perché il parlante, avendo udito un suono, dovrebbe invitare l'interlocutore a fermarsi? lo penso che nel nostro passo taxe significhi piuttosto (e più precisamente) "tac i" ("non mi disturbare"), che cioè si debba sottintendere at6µa: si vedano e. g. Soph. Trach. 976 s. taxe ooxcÌ>'V I at6µa oov,Eur. H. F. 1244 taxe at6µ(a)7. Nel senso di "taci" iaxe è attestato in Soph. fr. 314, 101 R., Antiphan. fr. 85, 2 K., nonché in Eup. fr. 298, 5 (cfr. Kassel-Austin ad loc.).

6

La traduzione è di Gigante (loc. cit.). Su questa strada anche Schweighiiuser (Athen. loc. cit.), Olivieri (loc. cit.) e Gulick (p. 369). 7 Cfr. O. Longo, Commenlolinguistico alk Trachini.edi S..ava, futEXQOL1taÀ.a) dursi che un personaggio ne parlava, forse a titolo di esempio o paragone, comicamente positivo, in un contesto che ignoriamo. Pantaleone, a quanto sembra, un buontempone benestante dell'Atene di un tempo forse non molto anteriore all'epoca di Teogneto10 , prendeva gusto a burlarsi dei malcapitati che erano oggetto delle sue trovate spiritose, al solo fine di ridere e far ridere a loro spese. Dal contesto di Ateneo non dovrebbero esserci dubbi che allo stesso personaggio si riferisca Crisippo nel brano immediatamente successivo: xat XQum1t1toçb' 6 qnMooq,oç tv E' 1tEQLtou xaÀ.ou xat 'rijç 'l'iooviiç 1tEQl tO'U IlavtaÀ.Éovtoç tabe YQQ(J)EL • "6 bÈ n:À.avoç µéllrov txatEQOV t(O'V vL(O'V xat' lb(av IlavtaÀ.érov tdEutav µ6vq>aùtq> À.ÉyELV 011:00xatooQUXOL tò XQ'UOLOV, f;T11tatl}OE,q>11oaç O>otEµatl}V 'UotEQOV xotvfi oxwrtovtaç aloittoitaL f;T11tO'tl}l,LÉ'VO'Uç". L'attributo n:À.avoç,termine in certo senso tecnico, che non va quindi tradotto con la Isnardi "astuto", richiama t1tÀ.ava del commediografo: anche in punto di morte l'incallito burlone non rinunzia ai suoi scherzi, a spese addirittura dei figli. Basterebbe questo per escludere che il Pantaleone crisippeo sia il "tiranno di Pisa, il cui nome è legato alle storie delle guerre messeniche, insieme con quello dei figli Demofonte e Pyrrhos", come scrive la Isnardi 11, rinviando a T. Lenschau, in R. E. XVIII 3, 1949, col. 687 s.: questo personaggio, vissuto tra la fine del VII e il principio del VI sec., in base al poco che s~ppiamo di lui (Heraclid. Lemb. Excerpta Polit. 21 Dilts12 ; Pausan. VI 21 può co1111iderarsi sicuro e sono da respingere gli emendamenti proposti a v. 1 per avcòç aV'CO'Ùç (a. ~oç Meineke in app.; ~oç aii'twç Bothe; avcòç ilatòç Bergk; a. ilatòç lHvHerwerden); solo a v. 4 sembra richiesto avc(j>(Morel, Dindon) in luogo di avc(j> del Mare. Gr. 447 (A). 10 Se non altro perché l'allusione potesse riuscire efficace presso il pubblico della commedia. 11 Op. cil. p. 444 n. 220. 12 IlavtaAérov ~orùuoEV

tv 'tomOLç,'ÙPQum)çxal xa>.vtoç,~oç

:n:ewfieLç

746

I. Gallo

s., che ci fornisce l'epoca in cui visse), non può avere alcuna attinenza con quel che è detto dai due testimoni sopra riportati e poco o nulla avrebbe significato per spettatori e lettori ateniesi del III sec. Neppure credo possa trattarsi del Pantaleone di cui rimane un semplice accenno in Llsia, come hanno supposto Meineke 13 e altri 14 : osterebbe tra l'altro la notevole distanza di tempo tra l'orazione lisiana e l'epoca di Teogneto e Crisippo. A maggior ragione è assai dubbio e a mio avviso improbabile che sia da identificare con il nostro 1tÀ.a.voçil protagonista della commedia Ilavtb(a: una datazione cosl alta dovrebbe consigliare cautela, come giustamente suggeriva Kaibel ricordato da Kassel-Austin 15 , e nulla suggeriscono in proposito i due brevi frammenti della commedia citati da Polluce 16 , che è pure l'unico a dare notizia di questo dramma; c'è tuttavia da tener presente che lo stesso Polluce 17 accenna ad una sua discussa attribuzione (El xat àµcpLafhl'tEL'tQL 'tÒ bQEV inserita nel testo da Kock,avvertano "sed non 'eversa' est vita, sed 'inversa' ", citando a 808tegno Anon. yà.QtT)vl;TJVi)µvOOtOL, iamb. /n turpilucrum, p. 133 Diehl, 3, 30 (avfotQOCPOV appartenente ad un componimento in coliambi variamente attribuito (cfr. 1605 Pack 2 e I. U. Powell, Colkctanea A'8andrina p. 214, che l'attribuisce dubbiosamente a Cercida D,e rinviando a Cali. fr. 193, 9 Pf. (!;6Tiµnfotewnm, che c'entra poco o nulla). Credo che, se l'espressione di Teogneto va intesa come invemre e non come evemre, il tràdito àvtLotQtcp6çbekommt die Bedeutung 'schlau' ... ". Vedi anche W. K. C. Guthrie, A Hutoryof GreekPlril-OMJphy III. The Fifth-Cemury, Cambridge 1969, p. 28.

T. Cole

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risultato di una scelta accorta ed astuta fra le possibilità numerose e contraddittorie contenute nel ricco repertorio della "saggezza" popolare. Anche sophos come epiteto divino sembra naturale nella prospettiva che si profila qui: sophia è parente molto vicino della µij-nç studiata da Detienne e Vemant 7 ; e il iltòç oq>6ç (o -ftEo(/ ba(µovEç ooq>() di molti 8 testi del quinto secolo non è altro che il µT)'t(E'taZwç dell'epos omenco. Come spiegare, allora, la testimonianza di Platone e di Aristotele? La concezione della sophia arcaica quale viene schizzata qui non è soltanto diversa dalla loro: è quasi il contrario complementare di tutto ciò che essi avrebbero considerato degno di quel nome. Una volta esaurite le risorse del repertorio di conoscenze esatte e di operazioni fisse che costituiva per loro la sophia, incomincia il lavoro del sophos arcaico, una specie di bricolage dedicato, a differenza del bricolage dei popoli primitivi 9 e di noi moderni, alla creazione di nuove discipline, ma che, fino al punto dove quelle nuove creazioni emergono con chiarezza sufficiente per essere studiate e insegnate, continua ad essere bricolage e non arte o scienza. La preistoria platonica e aristotelica della sophia può anche considerarsi un attacco consapevole contro la sopravvalutazione di questo tipo di bricolage. Della sophia arcaica nella sua dimensione politico-morale Platone avrebbe detto quello che Socrate dice della retorica (Gorg. 463a7-bl)-che è da considerare il prodotto di "un ingegno intuitivo, calcolatore di probabilità, ardito, sommamente dotato per avere a che fare con altri uomini" (,puxijç ... moxao-nxijç xat lxvbQdaç xat q,(,oELbELvijç1tQOOOµLÀEiv 'toiç lxv-ftQro1toLç); e rimpiazzando "altri uomini" con "cavalli", o "navi" o "parole" o "note musicali" o 'tà µEtéooQaecc., si ottengono formulazioni altrettanto valide per sophia in tutte le sue dimensioni. Ma secondo Platone, il frutto di queste doti non può essere altro che adulazione (xoÀ.axda) - non sophia o techne - e di esse manca qualsiasi menzione nello schema "storico" costruito da lui e da Aristotele. Quello schema però non è storia, ma una specie di diacronizzazione dell'ordinamento sincronico

1

Les rwes de l'inJelli.gence.La mitis des Grecs, Paris 1974 (trad. it. Le astuzie deU'inJeUi.genza nell'antica Grecia, Roma-Bari 1977). 8 Cfr., ad esempio, Sofocle, fr. 524, 7 Radt; Euripide, Alc. 218-219, /on 1242, Hel. 1441, lph. Tau.r. 380, El. 972, Phoen. 86, lph. Aul. 444 445; Aristofane, Pax 428; Erodoto 3, 108, 2. 9 Vedi C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris 1962, pp. 26-47.

Sophia fra oralità e scrittura

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di professioni e di mestieri secondo la gerarchia delle parti e funzioni dell'anima quale si presenta parecchie volte nei dialoghi 10. Le discipline teoretiche del filosofo costituiscono il punto culminante di tutto un processo nel quale sono precedute da quelle create per servire alla ricerca "timocratica" di potere ed onore, come queste ultime sono state precedute da quelle che soddisfacevano ai bisogni dell'anima puramente nutritiva o appetitiva. Ma tutte le arti di cui si tratta mostrano, nella misura loro consentita dal loro oggetto, quella ricerca del preciso, del sistematico, dell'esatto e del programmatizzabile che viene per la prima volta completamente realizzata nell'indagine filosofica della natura della realtà. È inutile cercare in una costruzione di questo tipo dati che permetterebbero una ricostruzione della vera storia della parola sophia e dei suoi referenti. Ma la elaborazione stessa fa parte della storia genuina e vera, e vale la pena chiederci se la trasformazione, oppure inversione, di significati che hanno effettuato Platone e Aristotele non sia stata preparata in qualche modo dai loro predecessori immediati. Mi sembra che la risposta qui debba essere affermativa, che si possa rintracciare nel corso del quinto secolo un certo ravvicinamento alla posizione platonico-aristotelica, man mano che la sophia viene considerata come, soprattutto, ciò che insegnano coloro che sono sophoi per professione - cioè, i sofisti. Che la sophia si possa acquistare o imparare da altri uomini è una proposizione che si ritrova per la prima volta in certi testi della fine del quinto secolo 11; troviamo però, anche qualche decennio prima, negazioni implicite - offerte probabilmente per ragioni polemiche - di questa proposizione. E dall'esistenza della polemica si può concludere che anche in quel periodo c'era chi trattava la sophia come se fosse cosa insegnabile, anche se non avrebbe osato, forse, dirlo esplicitamente. La prima di queste negazioni che si può datare esattamente risale all'anno 476 (Pindaro, Ol. 2, 86 ooq,òç 6 11:ollà Elbwç qn,c;i),ma anche nei coetanei di Pindaro si trovano formulazioni dello stesso tipo. Eraclito (B 129 D. -K. ), ad esempio, condanna la

10

Nella successione di costituzioni di Resp. 8-9, per esempio, o nell'ordine di "vite" in Phaedr. 248de. 11 Vedi Gorgia, Elena 4 ooq>Caç; bnxn't'tou 6uvaµLv, e Dwoi Logoi 6 (IlEQl 'tciç; passim. Nei primi dialoghi di Platone, com'è ooq>(aç;xal 'tciç;ÙQE'tciç;, al 6LOOX'tOV) noto, questa tematica si attribuisce frequentemente ai sofisti del quinto secolo, ma non si sa fino a che punto l'attribuzione sia anacronistica.

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sophi.adi Pitagora come polymathi.ae kakotechn.ia;Eschilo (fr. 667, 2 Radt) definisce il sophos come colui che conosce cose utili, non cose numerose; Epicarrno (B 4, 6-7 D.-K.) parla della sophi.aautodidatta non frutto di paidei.a- che pennette alla Natura (physis)di far nascere un pulcino da un uovo. Ora, è probabile che i bersagli di queste polemiche erano sofisti, i quali per il fatto stesso di presentarsi - e ottenere ricompensa finanziaria - come maestri e professori di sophi.aavevano creato una situazione piuttosto instabile. Astuzia, abilità euristica, ingegnosità sono cose che di solito - nella Grecia come altrove - non s'imparano da professori. Occorreva che una delle due cose cambiasse: o il carattere delle pretese professorali, oppure il carattere della sophi.astessa. E che difatti incominciava a verificarsi il secondo di questi cambiamenti è ciò che suggerisce un secondo gruppo di testi appartenenti al quinto secolo. In questi testi la sophi.aviene identificata con un corpo determinato di conoscenze, con dottrine, cioè, che sono o esoteriche o la proprietà di un solo maestro o gruppo di maestri 12 • La gran maggioranza dei passi viene dai presocratici - Eraclito, per esempio, che parla di un unico ooq>6v(B 32; 41; 50 D.-K.) che sia completamente separato da altre cose (navt(l)'V XEXç(!) véridique d'Artémis; cf. aussi v. 1336 s.); il est véridique dans l'lphigéni.een Taurùk.

Rythme, voix et mémoire de l'écriture en Grèce classique

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Crilias, sa narration est introduite par une invocation à Mnémosyné; le récit consigné par écrit dans les archives des pretres d'Egypte est en effet raconté oralement à Solon qui en rapporte à Athènes sa version (ta pote rhethenta hupo ton hiereon kai deuro hupo Solonos komisthenta) avant qu' il fasse l'objet des efforts de mémoire (mnesthentes) du vieux Critias et de ses interlocuteurs 29 • Quand il s'agit du récit (logos) et en particulier des discours vrais, tradition écrite et tradition orale concourent à l' exercice de la meme fonction mémoriale. Dans le passage du Phèdre si souvent allégué, si l'on attribue à l'écriture un role négatif dans l' exercice de la mémoire intérieure, de la mémoire philosophique (anamimneiskomenous), on lui reconnait tout de meme une valeur comme remède à la remémoration du récit (hupomnesis). Et n'oublions pas que dans le Philèbe, l'explication de la nature des sensations recourt à la double métaphore d'une mémoire-scribe utilisant I'écriture pour enregistrer dans l'Ame des discours, que ceux-ci soient véridiques ou mensongers 30 • Sans doute n'est-ce qu'avec Aristote que l'écriture devient garantie d'exactitude et de vérité; mais la réalisation discursive de l'écrit est encore désignée par le terme lexis, un dérivé du verbe "dire" 31 ! Derrière l'impression visuelle de l'écriture, le Grec perçoit toujours l'intonation d'une voix.

29

Plat. Tim. 22a ss. et Cril. 108c ss. Cf. M. Detienne, 'La double écriture de la mythologie entre le Timie et le Crilias', in C. Calarne (ed.), Métamorphoses du mythe en Grèce antique, Genève 1988, pp. 17-36, repris dans L'écrilure aOrphée, Paris 1989, pp. 167-188, et surtout M. Vegetti, 'Dans l'ombre de Toth. Dynamiques de l'écriture chez Platon', in Detienne (ed.), op. cil. n. 17, pp. 387-419. 30 Plat. Phi/,. 39a. Sur le sens narratif de ù1t6µVT)0tç, voir Eur. Or. 1032 et Plat. Leg. 732d. 31 Aristot. Rhet. 1413b 8 ss.; fon Àt;Lç YQÒV xal 'AµliQQxuim1v. Yf:fOVFVaL, 2 Cfr. Parthen. Na". amat. 17 (= Test. 11 Gent.-Pr.). Sul rapporto incestouomo tirannico, cfr. il bel saggio di B. Gentili, 'Il tiranno, l'eroe e la dimensione tragica', in B. Gentili-R. Pretagostini (cur.), Edipo. Il teatro greco e la cultura europea, Roma 1986, pp. 117-123. 3 Probabilmente il nomignolo va inteso in senso positivo, come ..moglie dolce e virtuosa", cfr. Semon. 7, 84-93, sulle virtù della donna che deriva dall'ape, e Nicole Loraux, 'Sur la race des femmes et quelques-unes de ses tribus', Arethwa 11, 1978,

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allo spettro della moglie, evocato dagli lnf eri per brama di denaro (XQTUW'tO>V évexa), Periandro si rivolgerà per farsi indicare il luogo che dove era nascosto un tesoro, un deposito di valori (1tagaxa'taih1XT1) un suo ospite aveva celato in un luogo segreto. C'era un sinistro oracolo nella regione dei Tesproti, là dove il fiume Acheronte, sfociando nel mare, forma un'ampia laguna, detta nuxùç À.LµT)v. Presso questa località dell'Epiro era possibile interrogare le anime dei trapassati, che venivano evocati e fatti apparire con riti opportuni. A questo Nekyomanteion Periandro mandò i suoi messi, perché interrogassero l'ombra di Mèlissa. Da qui muove un gioco particolarmente intricato di dinieghi e di allusioni, di ambiguità e di enigmi che rendono la pagina erodotea (5, 92 TI)cosl avvincente da leggere (o da ascoltare)\ e cosl interessante per un'analisi del discorso allusivo ed enigmatico nella cultura greca arcaica. 0.2. Cominciamo con l'esaminare in dettaglio il passo erodoteo. Nell'ambito generale delle Storie, questo racconto ha la funzione di esemplificare quali siano i mali della tirannide, e di quali nequizie sia capace l'uomo tirannico, allo scopo di dissuadere gli Spartani dall'appoggiare questo tipo di governo. Nell'economia dell'enunciazione, esso di Corinviene attribuito da Erodoto all'ambasciatore Socles (IroxÀ.ÉT!ç) to, che in un lungo discorso si diffonde in molteplici aneddoti sulla dinastia dei Cipselidi a Corinto e sulle loro malefatte. Sarà bene, per comodità, riportare il testo completo \ Her, ,d'. 5, 92 fl):

·oaayàQ

Ku,vù.oç MÉÀ.LtE XtELVu,V TF xal buoxrov, IlEQLavbQ6ç oq,Ea rutE"tÉÀ.EµEVaL, Q\JCJ)OQUç MÉbuaÉ acptaç n:aaaç 6µohoç, 'taç 'tE lliu'ftÉQaç xal "tàç llµcpLn:6ì..ouç,Éol 1tot'tlEU'tEQOV n:ɵ,i,aV"ttfcpQOç, ÒÀ.Lafk>,«SULI;', Horos 4, 1986, pp. 168-178, e dello stesso, 'The Bread-stick of Mantios', ibiJ. 3, 1985, pp. 130-131.

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,mnòv yae ol ~V 'tÒ

auµf36À.aLOV'a; VEX{)q>touan Mù.(oon tiu'Y'l-

0. 5. Fin qui, dunque, abbiamo soltanto informazioni destinate a garantire l'identità e la credibilità dei due attori principali. A questo punto appare la trasformazione centrale della nostra storia, che consiste nel manipolare (MANIP) il fantasma di Llside, costringendolo o comunque inducendolo a cedere il suo sapere. Quando nei racconti accade che due programmi narrativi (PN) opposti vengano in conflitto, le possibilità sono in genere due: o ne risulta uno scontro(lotta, duello, guerra, combattimento o qualunque altro genere di confronto violento), o appaiono alcune delle innumerevoli possibili forme dello scambio, operatore sintattico fondamentale che consiste nel far circolare oggetti (di valore, Ov, oppure modali, Om) tra due atlanti, producendo cosl la manipolazione (MANIP) di uno dei soggetti da parte dell'altro e l'eventuale trasferimento di competenze (COMP), con conseguente liquidazione delle situazioni di mancanza. Nel nostro caso, abbiamo il trasferimento del sapere segreto relativo al nascondiglio del tesoro, in cambio appunto di una risoluzione del manque, di un rimedio alle inadempienze rituali compiute da Periandro in occasione dei funerali della moglie. Il tiranno risponde, secondo la sua indole, nelle forme dell'eccesso, dell'esagerazione e della vessazione nei confronti dei suoi sudditi, le donne di Corinto, sia libere che schiave. Lo scambio assume infatti questa forma: 5 1: Periandro produce (PERF) la spoliazione delle donne di Corinto, che vengono private delle loro vesti, delle quali si fa un gran rogo; a tale spoliazione corrisponde dunque l'appropriazione simbolica delle stesse da parte di Liside: 5 1 ~ S4 : Corinzie u Ov: vesti n S2 : Liside, e in tal modo ottiene in cambio l'informazione desiderata sull'ubicazione del tesoro nascosto: S2 : Llside ~ S 1: Periandro n Om: sapere, acquisizione di competenza che gli consentirà, si può supporre, di appropriarsene, quindi: S2 : Liside ~ S 1: Periandro n Ov: tesoro.

Periandro di Corinto e il forno freddo

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Si scambiano dunque le vesti di tutte le donne di Corinto con l'informazione segreta di cui il tiranno era in cerca: due simmetriche "liquidazioni del manque", cui corrispondono due reciproche manipolazioni (MANIP): Liside ha ottenuto che Periandro facesse quello che lei voleva, e Periandro l'ha convinta a rivelargli ciò che lei sapeva. Lo scambio agisce quindi come una duplice manipolazione, che trasforma i due contraenti in reciproci aiutanti, l'uno nei confronti dell'altro. 0.6. Vediamo ora se sia possibile ricavare qualche utile approfondimento del senso del racconto attraverso l'esame delle figure e dei valori che esso mette in opera, cercando di tracciare un inventario delle figure e dei tratti connotativi che si possono riconoscere nel nostro testo: 1) connotazioni del tiranno: avidità di denaro, pratica di azioni innominabili (necrofilia), mancanza di scrupoli nel togliere le vesti alle donne di un'intera città, capacità e intelligenza (metis) nel decifrare enigmi e segni segreti 13 • Tali qualità sono coerenti con altre informazioni fomite dal macrotesto in cui questo breve racconto è contenuto. Mancano quasi del tutto, singolarmente, modalizzazioni passionali esplicite (Path) del comportamento di Periandro, se si esclude una certa implicita lavidi.tàle /lussuria/. 2) Ancor meno diffusamente sono descritti i caratteri e le qualità degli altri attori, o il loro coinvolgimento patemico. I mediatori (messi, araldi, dorifori) sono poco più che comparse, l'ospite che ha celato il deposito resta anonimo, la folla delle donne corinzie denudate è una vittima collettiva altrettanto anonima e incapace di manifestare reazioni 14 , se non nell'enunciatario (il lettore o l'ascoltatore del racconto), che si suppone debba indignarsi della nudatio, come poco prima si sarà indignato dell'empio atto contro natura commesso da Periandro. 3) L'apparire del fantasma di Liside-Mèlissa presuppone una credenza fondamentale, da parte dell'uditorio, nell'esistenza di forme demoniche o anime dei trapassati, in grado di apparire e di manifestarsi attraverso un linguaggio diretto o allusivo (À.tyELVo OTlµa(vELV), nonché 13

Si rammenti il precedente episodio narrato da Socles di Corinto, l'enigma delle spighe tagliate che il tiranno Trasibulo propone allo stesso Periandro e che questi interpreta correttamente; cfr. D. Latainer, •Nonverbal Communication in the Hi.Jtoria of Herodotu1', Alllhwa 20, 1987, pp. 83-119, 1pec. p. 99. 14 È tuttavia evidente, e tanto più importantequanto più è dato per econtato e disonore. eottinteeo, il "patema" implicito / Path: vergognai, alaxUYl'J,

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di un luogo deputato a favorire tali apparizioni, e di un'istituzione finalizzata a sollecitare (e forse interpretare) le risposte dei trapassati, il Nekyomanteion in Tesprozia. Il narratore, a quanto sembra, condivide queste credenze, o se non le condivide non interviene per farcelo sapere (mentre sappiamo che in altri casi è in grado di farlo) 15 • Un errore nel compimento del rituale funebre è supposto influire sulle condizioni "fisiche" dell'anima del defunto: Liside "è nuda ed ha freddo" anche nel mondo dei morti perché Periandro ha trascurato di bruciare le vesti con le quali l'ha fatta seppellire. Lo spettro della donna non manifesta né tratti particolarmente paurosi per l'uditorio, né investimenti passionali specifici; esso parla come da una fredda lontananza priva di dolore, rimpianto, affetti o altri moti dell'anima. Il sistema di valori soggiacente è relativamente semplice: il tiranno di Corinto si è macchiato (oltre che d'incesto con sua madre, come sanno altre fonti, mentre Erodoto non ne dice nulla) di atti di necrofilia perpetrati sul corpo della moglie; ha trascurato poi di compiere il rituale di sepoltura della stessa nelle dovute maniere; si rivela anche in questo caso avido di denaro, tanto da non esitare a interrogare le ombre corrucciate dei morti, pur di fare guadagno. Ma la colpa che qui appare come la più grave e degna di un tiranno è la spoliazione delle donne di Corinto, sia libere che schiave, costrette a radunarsi presso il tempio di Hera con i loro abiti più belli, per poi essere costrette a spogliarsene ed a vederli bruciare in un immane rogo propiziatorio. Questa è l'anima tirannica. A colpe innominabili nei confronti del giusto comportamento sessuale - già messe molto bene in evidenza da B. Gentili e J.-P. Vemant 16 - si aggiunge la tendenza al comportamento ambiguo ed avido, l'abitudine connaturata nell'uomo tirannico a uccidere e spogliare i cittadini. E a tanto si può arrivare,

15

Per esempio di880Ciandosidalla sua fonte d'informazione, o usando il generico

ÀéyttaL; in tutti i casi, qui l'intero discorso è attribuito a un diverso enunciatore,

Socles di Corinto, cfr. C. Calarne, 'Hérodote sujet de son discours. Littérature ou histoire?', in C. Calarne (cur.), Le logos grec. Mises en discoun, Lausanne 1986, pp. 25-48, spec. pp. 33-34 e n. 16. 16 Cfr. il saggio citato di B. Gentili, e di J.-P. Vemant, 'Le Tyran boiteux: d'Oedipe à Periandre', Le temps de la réjlawn 2, 1981, pp. 235-255 (= 'From Oedipus to Periander: Lameless, Tyranny, lncest in Legend and History', Arethwa 15, 1982, pp. 19-38, ora anche in J.-P. Vemant e P. Vidal-Naquet, Oedipe et ses m.,eha, Paris 1986, pp. 54-78).

Periandro di Corinto e il forno freddo

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sembra voler sottolineare il racconto, che un tiranno come Periandro non si fermerà neppure davanti all'idea di denudare un'intera popolazione femminile e di gettarla nella vergogna, togliendole in pubblico ciò che essa ha di più prezioso: se agli uomini toglie i beni e la vita, e non ha rispetto nemmeno dei corpi e delle ombre dei morti, alle donne non permetterà neppure di conservare il pudore, la rispettabilità e l'onore. Uomo enigmatico e signore degli enigmi, poiché vive egli stesso nella dimensione dell'ambiguità e della dissimulazione, oltre che in quella della prevaricazione sessuale e della dismisura, sarà capace di commettere questa colpa su una scala di dimensioni cittadine, e i suoi inganni lasceranno ignude e vergognose le donne, libere e schiave, dell'intera Corinto.

Gorgia e l'analisi tipologica del discorso nell'Encomio di Elena: discorso poetico e discorso magico Roberto Velardi

La struttura formale e il procedimento logico-argomentativo dell'Encomio di Elena di Gorgia 1 si articolano in tre momenti: 1) enunciazione della tesi generale; 2) elenco dei singoli casi particolari nei quali la tesi generale si dimostra vera; 3) riaffermazione della tesi generale. All'inizio dell'Encomio la tesi della non colpevolezza di Elena viene enunciata al negativo, attraverso l'affermazione che i suoi accusatori sostengono il falso (par. 2). L'assunto di base non è che Elena non abbia commesso il fatto, ma che non ne sia responsabile, in quanto la sua partenza per Troia non poteva non verificarsi (par. 5). Per dimostrare questa tesi, Gorgia enumera, innanzitutto, i diversi motivi che potrebbero aver determinato l'azione di Elena: volontà divina, violenza fisica, persuasione operata mediante la parola, amore (par. 6, p. 289, 21-23). Dal par. 6 in poi, dunque, l'orazione non è altro che una puntuale analisi delle modalità di azione delle quattro forze individuate come possibili agenti, nessuna delle quali è indicata come la causa effettiva: ciascuna di esse ha lo stesso grado di plausibilità di qualsiasi altra ed implicitamente viene esclusa ogni possibilità che non rientri tra le quattro menzionate. L'analisi delle prime due alt(ai occupa, rispettivamente, i parr. 6 e 7 ed è centrata, nel primo caso, sul rapporto divinità-uomo, che diventa paradigmatico di qualsiasi rapporto basato unicamente sulla forza; nel secondo caso, invece, la violenza di un individuo sull'altro viene vagliata dal punto di vista giuridico, in un discorso che contiene spunti interessanti sul piano teorico e procedurale. La discussione della terza ah(a viene affrontata nei parr. 8-14; alla quarta vengono dedicati i parr. 15-19. Il par. 20 riafferma la tesi della necessità di prosciogliere 1

Il presente contributo è parte di uno studio più ampio dedicato all'Encomio di Elena di Gorgia. Le citazioni del testo seguono l'indicazione del paragrafo, della pagina e del rigo di H. Diels-W. Kranz, Die Fragmenle tkr Vorsokratiker Il, Berlin 195:t', pp. 288-294.

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Elena, ancora una volta non in forma esplicita, ma attraverso un'interrogativa retorica e il par. 21, infine, riprende il programma annunciato in apertura, per concludere affermando la piena coerenza tra lo sviluppo dell'orazione e il proposito iniziale. Su questo schema logico-strutturale si incardinano non solo l'orazione nel suo complesso, ma anche le singole parti che la compongono, perché esso ricorre in ciascuna al da e in sezioni di discorso nelle quali è articolata la discussione sulle due al'ttaL trattate più diffusamente. La lettura qui di seguito proposta dei parr. 8-10 non potrà non tener conto dello stretto rapporto tra struttura formale e contenuti. Il par. 8, che costituisce il prologo di questa sezione, è diviso in tre parti: 1) introduzione; 2) definizione di À.oyoc;;3) formula di passaggio alla proposizione successiva. L'introduzione (El ot À.oyoc;6 ndoac; xal t'flV vuxrrv wtaflloac;, oùot nQÒc;'tO'U't0XaÀVtÒV wtOÀ.Oy()oaoitaL aldav wtoi.:uoaoitaL IDOE)serve a presentare il À.oyoc;come xal t'flV una delle possibili al't(aL del comportamento di Elena e, dunque, ha lo scopo di connettere lo svolgimento della teoria gorgiana del discorso, che è la vera e propria materia di questi paragrafi, a quella che si potrebbe definire la trama pseudo-oratoria dell'Encomio. La definizione di À.oyoc;si articola, a sua volta, in tre momenti: 1) definizione vera e propria (À.oyoc; ouvaO'tT)c; µéyac;fo-t(v); 2) estensione in una frase relativa che definisce l'effetto generale di À.oyoc;(i>c;6fx>v aq,w'iv xaì xaQàv tvEgyt'xoaoitaLxal l>..Eovtffau~oaL). In questo paragrafo siamo sul piano della definizione di À.oyoc;in generale e, dunque, gli effetti elencati (far cessare la paura, eliminare il dolore, infondere gioia, accrescere il pianto) non sono attribuibili precisamente a questo o quel tipo di À.oyoc;.La formula conclusiva del par. 8 ('ta'U'ta otwc;OU'troc;lXELod;ro) 2 costituisce il passaggio dalla definizione ge-

2

Per un'analoga formula di pusaggio, vd. De morbo sacro 3, 1 Grensemann: 6-tcp 6è 'tQOfflf)xal é; ot11ç;1'QO(l)ClOLOç; y(vnm, fyw cpoaOCI> oocpéwç;.L'uso di connettivi di questo tipo non è infrequente nell'Encomio: il primo esempio ricorre in 5, p. 289, 17-19, in un brano che collega il bios di Elena con la discussione delle cause (par. 6 6è 'ti..6yq>'tòv 'W'tEvuvun:~ç; énl TitvàexTIV 'toù µtU.ovtoç; À.OyOU sa.): wvxeovov neo,h\ooµaL, xal neofh'looµaL'tàç; aldaç; ... U secondo esempio è questo (8-9, p. 290, 19-20). Sul terzo (9, p. 290, 25) vd. infra. A tali frasi andrà accostata la

Gorgia e l'analisi tipologica del discorso nell'Encomio di Elena

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nerale ai casi particolari che saranno esaminati di seguito. Le condizioni operative della dimostrazione (bd;oo) vengono precisate dalla frase che segue immediatamente (bEi bt xal b6;n bEil;aL-roiç àxououcn) e che apre, nella redazione del testo che noi leggiamo, il par. 9. Superando l'artificiosa separazione in due paragrafi, è possibile intendere le due formule come segue: "Dimostrerò che le cose stanno in questo modo, fornendo una dimostrazione che sia anche adeguata all'esperienza del pubblico". Va sottolineato il rapporto di complementarità tra le due formule, delle quali la prima enfatizza il ruolo dell'emittente dell'enunciato, mentre la seconda ne mette in luce il destinatario ('toi:ç ÒXO'UOUO'L).

Il par. 9 prosegue con quattro proposizioni che esprimono, nell'ordine: I) la definizione di poesia; 2) i singoli effetti particolari di questa; 3) l'effetto generale; 4) una nuova formula di passaggio. Il tono asciutto ed assertorio della prima proposizione ('tT)v no(T)OLVfutaoav xal vo11ttooxal òvo11atoo)..é,yovlxOV'tal,LÉ'tQOV: "tutta la poesia ritengo e definisco discorso con metro")3 sembra segnare un brusco passaggio ad

formula conclusiva di 17, pp. 293, 21-294, 1: xal ,:à µtv OELl'(l'tOUVta:n:ollà µtv ffllQ(IÀEl:n:nm, 6µma o' !od ,:à :n:boùç 'rilv J&èv xaxçàxououaav naiiooL tijç al'tLaç, 'toùç bè µeµcpoµtvouç,PEUOOµtvouç bn6Ei;m xaì. bEi;m 'tàÀ.T)itÈç xaì. naiiooL tijç àµait(aç4. Spetta alla stessa persona sia dire correttamente quanto è dovuto, sia confutare i detrattori di Elena, donna sulla quale è univoca e unanime tanto l'opinione di coloro che ascoltano i poeti, quanto la fama dovuta al nome stesso, che è richiamo di disgrazie. Intendo far cadere l'accusa contro di lei che risente di cattiva fama, conferendo un certo ragionamento al mio discorso, quindi fornire la dimostrazione che i detrattori pronunciano menzogne, additare la verità e far cessare l'ignoranza.

ffO\l éç xat llroç :n;oÀ.ubaxQuç xat xof}oç q>t.À01tevintç,"un brivido di paura, una compassione ~he muove le lacrime, un desiderio vicino al pianto invadono chi la ascolta"), per passare, subito dopo, ad una descrizione di questi effetti in termini più generali (p. 290, 23-25: bt' àÀÀO'tQ(orv'tE :1t()ayµa'torvxat oroµa'torv EÙTIJXtat.ç xat ou01tQay(a1.ç\'.oi.6v'ti. :n;{dhuw01.à'tvÀ.Oyorv bta-6-Evfl ,j,\JXfl:"l'anima, attraverso i discorsi, prova un sentimento, come se fosse proprio, nei confronti delle circostanze felici o disgraziate relative ad azioni e ad individui estranei"). La seconda proposizione completa e spiega la prima: la poesia è narrazione di vicende e personaggi che sono felici o infelici; nel trattare eventi ed individui che sono completamente estranei rispetto alla realtà storica dell'ascoltatore, sottopone questo ad un processo di identificazione e di immedesimazione, che lo porta ad attualizzare i sentimenti

Aesch. Ag. 689 s. ('EUvav ... iltvaç, Uavbeoç, Ubn:oAtç), già segnalato da O. lmmisch, cit. (supra, n. 5), p. 9. Su questo luogo dell'Agamennone vd. M. Salvadore, Il nome e la persona. Saggio sull'etimologia amica, Genova 1987, p. 55 ss., che non prende, però, in esame il brano di Gorgia. Un altro gioco etimologico sul nome di Elena è segnalato da M. Untersteiner, cit. (supra, n. 3), p. 90, in Eur. Troad. 891.

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espressi attraverso il discorso poetico e a fargli rivivere in prima perso. na quella paura, quella pietà, quel desiderio di pianto che sono implicati dalla trama poetica. Non è sfuggito ai critici il confronto tra l'elenco gorgiano dei naih} provocati dalla poesia e la definizione aristotelica della tragedia 10 • A proposito dell'espressione àU.6-tQLa naih} è stato, invece, richiamato il brano del libro decimo della Repubblicall, nel quale Platone parla del piacere che si prova nella compartecipazione al lutto dei personaggi, al punto che la qualità più importante riconosciuta ai poeti è quella di suscitare tali emozioni nel pubblico. Questa attitudine dell'animo umano è certamente negativa per Platone, il quale lamenta che l'uomo in grado di osservare il dominio di sé, sebbene riesca a tenere a freno i propri sentimenti in occasione di un lutto familiare, non è altrettanto fermo nella condanna di chi, diversamente, vi si abbandoni; la causa di ciò risiederebbe nella debolezza della parte migliore della nostra natura, non abbastanza forte da condannare quegli àU.6-tgLa naih} che, pure, respinge per se stessa, perché è resa inabile a ciò dalla poesia e dall'incapacità di riconoscere la forte influenza che i sentimenti altrui hanno sui nostri. Il discorso svolto da Platone nella Repubblica ha come punto d'approdo la svalutazione delle attività mimetiche e, in particolare, la condanna della poesia e la sua messa al bando dalla città ideale. Le posizioni qui espresse dal filosofo sulle implicazioni psicologiche della poesia sono il frutto di una riflessione che risale alla sua età giovanile e vengono sviluppate, in particolare, nello Ione, dialogo interamente ed esclusivamente dedicato a questo tema. Il problema che viene posto nello Ione è se il mestiere del rapsodo possa o meno essere definito una 'tÉX'YTI, cioè un'attività fondata sulla conoscenza razionale. La risposta è negativa: esso rientra, invece, nell'ambito dei fenomeni di tvltouoLaoµ6ç, al pari del profetismo e del rituale coribantico. Come il profeta e la menade, il poeta è posseduto dalla Musa, il rapsodo è, a sua volta,

10

Aristot. Poet. 1449b 24-28. Il primo studioso ad istituire il confronto tra Gorgia ed Aristotele, ipotizzando una dipendenza del secondo dal primo, fu W. SUss, Etho,. Stru.lun zur iilleren griechi.&chen Rhetorik, Leipzig-Berlin 1910, p. 83 ss., dando origine ad un lungo ed acceso dibattito ma, mi pare, cogliendo sostanzialmente nel segno. 11

Plat. Resp. 10, 605 d-606 b. Cfr. W. Siiss, cit. (supra, n. 10), p. 90; M. Pohlenz, cit. (supra, n. 3), p. 169 = 463; A. Rostagni, cit. (supra, n. 3), p. 205 n. 56; M. Untersteiner, cit. (supra, n. 3), p. 100.

Gorgia e l'analisi tipologica del discorso nell'Encomio di Elena

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invasato dal poeta del quale recita i versi e il pubblico, che accorre in massa ad applaudire lo spettacolo rapsodico, dal rapsodo stesso, grazie all'abilità di quest'ultimo di rendere con efficacia i personaggi e le situazioni create dalla trama del racconto poetico. Dopo aver descritto al rapsodo Ione, con un linguaggio largamente attinto alla tradizione poetica, l'esperienza della possessione del poeta, Socrate intenoga il suo interlocutore: "Quando· reciti bene i versi e riesci al meglio a colpire i tuoi spettatori (bfflÀT)çTiçµaÀ.t.Ota 'toùç &wµtvouç), o quando rappresenti Odisseo che balza sulla soglia, si rivela ai pretendenti e scaglia le frecce davanti ai loro piedi, oppure Achille che avanza contro Ettore, o ancora qualche brano dei lamenti di Andromaca, o di Ecuba, o di Priamo, allora sei ip senno o sei fuori di te d 1j f1;wOOU'tOU y(yvn), e la tua anima crede di essere effetti(lµq>QO>V vamente presente alle vicende che narri (,iaQà 'toiç ,iQéryµaat.v... olç posseduta, sia che questi si svolgano ad Itaca, a Troia, o dove À.É'yEt.ç), siano i versi?". Ione non ha esitazione nel rispondere: "Come è efficace, Socrate, l'esempio che mi fai ... infatti, quando recito qualcosa che muove il pianto (èì..Et.v6v'tt.) gli occhi mi si riempiono di lacrime; quan1j 6Et.v6v), i do racconto qualcosa di pauroso o di terribile (q,oflEQÒV capelli mi si rizzano in testa per la paura e il cuore mi batte forte in petto" 12 • È lo stesso Ione a testimoniare che le reazioni emotive del pubblico, durante i suoi spettacoli, si manifestano all'unisono con le sue: "Li vedo ogni volta, dall'alto della tribuna, che piangono e guardano minacciosamente e si spaventano tutti insieme per le cose che vado narrando" 13 • La teoria che Platone elabora nello Ione è riassumibile in due punti fondamentali: 1) l'esperienza della poesia comporta una momentanea sospensione delle normali facoltà intellettive e l'abbandono ad una realtà che è completamente al di fuori delle circostanze storiche concrete nelle quali il soggetto si trova a vivere; 2) tale "crisi della presenza" coinvolge tutti i soggetti che, a vario titolo, partecipano del1'esperienza della poesia; il poeta che la crea, il rapsodo e l'attore che la recitano e la mettono in scena, il pubblico che assiste al recital poetico o alla tragedia. Pur costituendo una formulazione del tutto originale, la teoria platonica dell'Mouat.aaµ6ç poetico utilizza e rielabora concetti già pienamente attestati nella cultura arcaica e tardo arcaica: dalla no-

12

13

Plat. fon 535 b-c. Plat. fon 535 e.

R. Velardi

822

zione tradizionale del poeta ispirato dalla Musa e del poeta-profeta, alle dottrine democritee del magnetismo e dello stesso tvftouaLaaµoc; poetico, concepito, però, da Democrito esclusivamente in rapporto al poeta creatore 14 • A questo quadro culturale va aggiunto Gorgia, con il quale Platone risulta fortemente in debito sia, come ha messo bene in luce C. Segai 15 e come vedremo meglio anche di seguito, per il ruolo centrale che, nella speculazione del retore siciliano, assume l'aspetto della fruizione del discorso e degli effetti psicologici che esso suscita negli ascoltatori, sia per la descrizione gorgiana della poesia come coinvolgimento emotivo del pubblico nelle vicende e nei personaggi rappresentati dal discorso poetico. Il brano dell'Encomio di Elena che segue immediatamente quello finora esaminato è stato generalmente interpretato in stretta relazione con il precedente, cioè come un'estensione del discorso sulla poesia. Questa posizione è stata sostenuta in modo particolarmente chiaro ed argomentato da A. Garzya 16 , che, in un recente saggio dedicato al frammento 23 D. -K. di Gorgia, afferma che l'àJtafl) tragica gorgiana "è una straordinaria esperienza esistenziale che trascina seco chi vi sia predisposto per tutto il suo corso, tumultuosa prima e poi serenante, poiché giunge alla meta carica d'una misteriosa [spaziato nel testo] bellezza che in principio non s'era sospettata" 17 • L'interpretazione dello studioso si avvale anche di una lettura del passo in esame secondo la quale Gorgia disporrebbe i xa-fhi della poesia lungo una climax costituita dai tre gradi seguenti: 1) ÀUffll(che includerebbe i tre sentimenti sopra elencati, q>Q(XT), V..eoc;e x6itoc;); 2) tbtov naihjµa; 3) 'itoovft (cioè "lo stato di rasserenamento che in virtù della poesia interviene nell'animo dello spettatore già profondamente turbato e commosso") 18 • Garzya precisa che la sua ricostruzione della climax di Gorgia è fonda-

14

Vd. R. Velardi, cil. (supra, n. 3), in part. pp. 99-113. Cil. (supra, n. 6). 16 A. Garzya, 'Gorgia e l'AnATII della tragedia', in Filologia e/o~ letùrarie. Studi offerti a F. Della Corte I, Urbino 1987, pp. 245-260. Una redazione in francese di questo saggio, 'Gorgias et l'apate de la tragédie', è apparsa in Ant.h.ropologieet thitìtre antique (Actes du colloque international, Montpellier, 6-8 Mars 1986), Cahi.ers du Gila 3, octobre 1987, pp. 149-165. 17 P. 255. 18 P. 254. 15

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ta: "l) sull'accettazione dell'emendamento, proposto da lmmisch, di EÙTUX(aç in buumteay(mç (A), E'irrux(aç xal bumtQ«Y(aç (V, X, Am3 , R, Co): cfr. F. Donadi, cit. (supra, n. 4), p. 12. Fr. Blass, cit. (supra, n. 5), emendò il testo in E'imeay(mç xal l>umtQ«Y(mç,probabilmente alla ricerca di un eccesso di simmetria. 21 De morbo sacro I, 10-12 Grensemann. Trad. it. di A. Lami, inlppocrau. Testi

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è, insomma, a giudizio del medico, un comodo alibi per eventuali insuccessi terapeutici e, d'altra parte, se la causa fosse da attribuire ai cibi e alle bevande dalle quali i ciarlatani prescrivono l'astensione, perciò stesso se ne escluderebbe l'origine divina. Inoltre, se effettivamente la guarigione intervenisse grazie alle purificazioni, nulla impedirebbe di credere che con altrettali pratiche i ciarlatani potrebbero suscitare il morbo e, ancora una volta, si dimostrerebbe che la sua origine non è divina. "Colui che infatti è in grado con compiute purificazioni e magie di stornare una tale affezione (oanc; yà.Qol6c; 'tE ,tEQLXaita(Q(l)V xat µayEi,(l)'VàJtayELV'tOLO'U'tO ,tétitoc;), costui anche potrebbe attirarla con altri ritrovati, e con questo discorso il divino si perde. Con tali discorsi ed escogitazioni essi pretendono di saperne di più ed ingannano gli uomini ('toLau'ta ÀÉ'yOV'tEc; xat µT)xavooµevoL,tQOLÉO'vtaL ,tÀ.Éov'tL Ell>évaLxat lxviteoo,iouc;~wta'tOOOL)prescrivendo loro espiazioni e purificazioni, e la gran parte del loro discorso va a finire nel divino e nel demonico" 22 • Un'ulteriore testimonianza, tra le tante, sull'uso di btq>l>a( a fini terapeutici, particolarmente interessante anche per l'autorità del testimone, è fornita da un brano del Carmi.dedi Platone. All'inizio del dialogo Socrate si dimostra interessato al giovane Carmide e Crizia gli suggerisce il pretesto per attaccare discorso con il ragazzo: fingersi medico e prescrivergli un rimedio per il mal di testa che lo affligge. La terapia consiste in un'erba che va, però, assunta recitando contemporaneamente una formula incantatoria (btcpbi)) che Socrate ha appreso da medici traci, seguaci del dio Zalmosside, pena l'inefficacia del farmaco23. Naturalmente, il campo d'azione degli operatori magici non è solo quello della malattia fisica. Nel secondo libro della Repubblica, Platone parla di lxyi,Q'taL e µ«V'tELc;che offrono a pagamento i loro servigi, per rimediare a torti commessi da vivi o da defunti, o per colpire eventuali nemici, servendosi di sacrifici e di incantesimi (ituo(aLc; 'tE xat btcpl>aic;)e millantando un particolare potere che proviene loro diretta24• mente dal divino (l>uvaµLc;b( &wv ,t0QL~OµÉVT))

di medicina greca, Introduzione di V. Di Benedetto, premessa al testo, traduzione e note di A. Lami, Milano 1983. 22 De morbo sacro 1, 26-27. 23 Plat. Chann. 155 e 88, 24 Plat. Resp. 2, 364 b-c 88. In generale 8ull'btq>&i vd. F. Pfi8ter, R. E.

Gorgia e l'analisi tipologica del discorso nell'Encomio di Elena

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Al di là dell'intenzione allegorica di Socrate nel Carmide, che emergerà dal seguito del dialogo, o del tono polemico di Platone nella Repubblica e del medico nel De morbo sacro, questi brani documentano la diffusione notevole, a giudicare anche dalla virulenza dell'attacco sferrato dall'autore ippocratico, di pratiche magiche e magicoterapeutiche. Ai nostri fini interessa rilevare che: 1) tali pratiche venivano esercitate da individui definiti, tra l'altro, µayot; 2) esse consistevano in prescrizioni alimentari e di farmaci e in rituali accompagnati da formule di incantesimo dette btq>ba(; 3) il contesto in cui venivano praticate era di tipo magico-religioso, dal momento che, nel caso dei rituali terapeutici, l'origine del morbo veniva attribuita ad uno o più agenti divini, che, in generale, gli operatori magici dichiaravano di intrattenere con il divino un particolare rapporto e che, con ogni probabilità, proprio l'btq>M), in quanto discorso magico attraverso il quale si obbligava la divinità ad intervenire, costituiva il momento culminante dei riti; 4) la diffusione di queste pratiche era dovuta, evidentemente, alla loro, almeno presunta, capacità di rimuovere stati morbosi e di malessere psico-fisico, restituendo il malato alla guarigione. Tutti questi elementi trovano puntuale riscontro nel brano dell'Elena: 1) le btq>ba( si caratterizzano per la loro proprietà di rimuovere il dolore e restituire il piacere; 2) hanno attinenza con la sfera del sacro, perché vengono definite Meot; 3) la loro efficacia consiste nell'affascinare, persuadere e stravolgere l'animo umano; 4) sono ascrivibili all'ambito della µ.ayda, che viene definita esplicitamente 'tÉXVTJ (10, p. 291, 3). Non c'è dubbio, quindi, che Gorgia si riferisce alle medesime pratiche sulle quali ci informano Platone e il medico ippocratico. Un'analisi della struttura del paragrafo consente di eliminare anche la residua eventualità di un uso metaforico del termine btq>&) in riferimento alla poesia. È possibile, infatti, suddividere il brano in tre distinte proposizioni: a) al yàQ fvtltoL bLà 'A.(yyo:,v btq>bat btayroyot T)bovijç;,àn:ayroyol i..umiç;y(vOVtm b) auyyLVOIJ.MlyàQ tfl M;n Tijç;,i,uxiìç;T)buva,.uç;Tijç;btq>&ijç; ffù.;E xat fxELOExat µE"tt..utaeatxat loottcpavOLxat liot6LµoL "Ellaooç; lQELOµE (5, 26, 1), µéµV1Jµ«L (5, 26, 4), etQYJ~«L (6, 94, 1). 24 Thucydides also uses the future of his writing: 2, 48, 3, cf. 5, l; 3, 90, l; 3, 113, 6; 5, 26, 6; 6, 54, 1. 25 H. D. Westlake, 'Cl: EIKOl: in Thucydides', Hermes 86, 1958, pp. 447452. 26 L. Pearson, "Iòucydides as Reporter and Critic', Trans. Am. Philol. A.u. 78, 1947, pp. 37-60.

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certain particles also have the effect of direct engagement with the reader, the creation of a situation in which the writer is present to tbe reader. lnterventions (e) in whicb Thucydides makes a judgment bave tbe same effect. All of tbese markers cause tbe writer to emerge into tbe reader's own time out of a narrative in tbe past tense. Thus Thucydides creates a hic of tbe writer. We bave, tben, two sets of self-reference in Thucydides, eacb marked by a group of several traits, of which tbe most important are grammatica! tense and grammatica! person. Thucydides is a third perin tbe past; Thucydides is a first person son wbo wrote a auyygaE.Elsewhere, the name appears only with secondary tenses. Luciano Canfora has argued at length that the passage is spurious 30 • For the purposes of the present argument, discussion is unnecessary, since, if genuine, the perfect tense would be the sole exception lo my rule. Second, there is a group of self-references in which Thucydides uses the past tense in the firstperson singular. According to my classification, Thucydides uses the first person only in the present system. Let us take an example of a passage that apparently violates the binary classification: 1, 97, 2, the criticism of Hellanicus and the introduction to the Pentakontaetia. I wrote (fyQ«'\jla) these things (events of the Pentakontaetia] and I made this digression in my discourse for this reason: those before me left this area open and composed (;uve-tt'6Eoav)31 either pre-Medic affairs or the Medie invasion itself. Hellanicus, the one who in his Attic book (;uyyQ«q,f)) touched on these things (the Pentakontaetia] mentioned them briefly and inaccurately with respect to chronology. At the same time, these things (my narrative of the Pentakontaetia] fXEL)of how the Athenian empire carne to provide a display (wt«SbEL;Lv be.

There are two references to Thucydides' writing here. The first uses the aorist tense ("I wrote"). Thucydides thus seems to be speaking of his work, in an important procedural passage, in the past tense and in the first person singular. But note the second reference. Here he uses the present tense ("these things provide"). He conceives of the Pentakontaetia as a presentation. (Note also the unexpected Herodotean imMEL;Lç,too)32 • The proposed excursus is thus brought into a references al the end of the article; Greimas-Cortés, Sémiotique: Dictionnaire raisonné de /,a thioriA! du /,angage Il, Paris 1986, s. vv. 'Énonciation' and 'Énoncé'. 30 Hemmerdinger, art. ci.t. p. 107; Canfora, op. ci.t. (1970), pp. 41-50. Contra: Dover, HCT V p. 390. 31 Thucydides does not use this verb of his own writing. He does use, however, the corresponding passive at 1, 22, 4: f;vyxEL'tOL. 32 On Herodotean an:l>ei.;u;, see G. Nagy, 'Herodotus the Logi.os',Arethwa 20, 1987, pp. 175-184.

L. Edmunds

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tempora! foreground, into the same dimension as the perf ect tenses I have mentioned. The actions of writing and of making an excursus designated by the secondary tenses in the first sentence thus become operations that are subsumed in the gesture of presentation or display. "I wrote it and here it is". What is true of this passage is true of severa! others which might seem to escape the binary classificati on I have proposed 33 • In fact, the consistent tempora! foregrounding found in these passages is the strongest confirmation of my scheme. The act of writing is brought into the present, and the writing is thus present to the reader. The illusion of the presence of the writer would have been strengthened by the practice of reading aloud. What Charles Fomara observed of Herodotus is equally true of Thucydides. ''The book-reader spoke the words aloud and to that extent heard the author himself (cf. Hdt. 1, 125, 1)"34 • Cratippus, the younger contemporary and continuator of Thucydides, referred to listeners to the work of Thucydides (D. H. De Thuc. 16 :..:FGrHistIIA 64 F 1, implying the practice of reading aloud). To conclude this description of the presence of the writer, I shall give further examples of statements in past tenses, about the writing of the work or about other matters, which Thucydides brings into the timeframe of the present. In two passages that have to do with Spartan casualty figures, Thucydides says that he did not write the number (oùx l-'{Q«,pa: 3, 113, 6, yQét,paL... oùx àv l6uvé.tµf1V:5, 68, 2) because he could not obtain exact information. In both, he proceeds to shift the tense to the present. He speaks of what "is reported" (À.ÉyE'taL: 3, 113, 6), of what he does "know" (oll>a: ibid.), of what "it is possible" (l;Ean: 5, 68, 2) to calculate. This process of tempora! foregrounding is seen already in the first chapter of the work, which begins with a statement in the past tense ("Thucydides the Athenian wrote ... ") and ends with the first person singular ("I believe ... " 1, 1, 3). The preface to the work (I, 1-23) concludes with the same movement: "I wrote" (1'QOUYQ«,pa 1, 23, 5) is followed by "I consider" (T)yoùµaL1, 23, 6). Against the presence of Thucydides in his writing one must set,

33

Besides the examples I have discussed: l, 20, l; l, 21, l; 1, 23, 5; 2, 102, 6 (note the present participle); 5, 26, 5; 8, 24, 4. 34 Fomara, op. cit. p. 31. His emphasis. B. M. W. Knox, 'Silent Reading in Antiquity', Gr. Rom. Byz. Stud. 9, 1968, pp. 433-435 points out fifth-century exceptions to reading aloud: Eur. Hipp. 856 ff. and Ar. Eq. prologue.

Thucydides in the Act of Writing

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however, his egual and nearly coextensive absence. To introduce the absence of Thucydides, I turo to an important article by Nicole Loraux, which inspired the title of this paper35. Loraux begins with the question: how did Thucydides become the paradigm of the historian? How did Thucydides become the authoritative figure that he is? Her answer is based mainly on a reading of the first sentence of the work and of 1, 21-22. In the first nine words of the first sentence of the work (''Thucydides wrote the war of the Peloponnesians and Athenians") she . sees two simultaneous moments: the institution of Thucydides as the subject who did the writing; the effacement of this subject in what he wrote, i.e. the war. She remarks on the "pure transitivity" by which the subject, Thucydides, disappears into the object, the war that he wrote36• More precisely, she sees the verb itself, ;UVÉyQLÀ.(roç, o'Ò 1toÀ.eµ(roçxoµ(oaV'teç t~uÀOV'to 'touç 'te 3

Cfr. la mia Storia greca, Roma-Bari 19902, pp. 14-23.

856

D. Musti

-òµoov XELQOUçµrixtn

µallov yE"VtoitaL 'touç 'tE llµetvouç 'tà li;La

fXELV, OOOq>QOVLO'tOÌ6V'tEç 't'ijç yvooµT)ç XOÌ 'tù>V oooµa'tOOV 't'TIV1t6ÀLVO'ÙXllUo'tQLOuvtEç liil' tç 't'TIV;uyyévELQV olXELOuvtEç, tx-6-()0'ÙçoùbE'Vtxa-6-LO'tO~T)-6-MEç yàg a'Ù'tou ol nollot 'tÒ µtyE'ftoç 't'ijç 'tE xa'tà 'tÒ tau'tou oroµa 1eagavoµ(aç tç 'tTJV b(aL'tav xat 't'ijç xa-6-' ~ lxaa-rov tv o'tq> y(yvoL'tO bgaooE"V, ooç bLavo(aç TUQ«vv(ooç mL-6-uµouvtL noUµLoL xa-6-to-raoav, xat b')µoo(~ XQ1.À.(wç, ou :n:oì..eµ(wç codd.: cpl.À.(ouç, ou :n:oì..eµ(ouç Steup.

evtE

l:µain Tucidide e in Gorgia

857

xQ'iivXQOCJq>ÉQOVtaç q>EÀ.Eiv· 'tÒ oùbÈ ~ xa'tÉO'tTItaµa chçdxdv O"CL yae tcp ;uvEVeyxÒVltllov tOU'tOlPÀWt'tEV.a 14a te a ii t a Q x Eç 6 v oùl>Èv l>LEq>OV'lXQÒçaÙ'tÒlaxuoç TCÉQL i\ llo6EVE(aç, ò.llà naV'ta ~UVTJQEL xal tà naon btaLtn -6-EQ«1CEU614E'Ya. betv6'tatov bt naV'tòç liv tOÙ XQXOÙ11tE li-6-u14(a OTC6tE tLç aio6oLtO XOl4VOOV {1tQÒçyàQ 'tÒ àvÉÀJtLCJ'tOV roi}ùç tQaTC614E'YOL tfl YVOO!-'TI TCOilq>1,1,(illov1EQOtEV'to acpciç aÙ'toùç xal oùx llV'teixov), xal O"CLlneoç licp' hÉQOlJ -6-Eearce(aç livarct141CÀ.a14E'YoL O)(fflEQtà nQ6Pa'ta ffvnaxov· xal 'tÒV 1EÀELCJ'tOV cp66QOV tOÙ'tOhrmo(EL.

Dunque, ancora una volta il corpo, la b(aLta, l'aùtlxQXELacome connotazione del corpo e, in distanziata e un po' remota antitesi, la yvoo11T1Già il K.riiger si difendeva, come si vede, dalle posizioni di un Heilmann o di un Krahner. Pur se errori e deviazioni dalla più semplice, e insieme più valida, linea interpretativa c'erano, tuttavia non erano dominanti. E il Lexicon Thucydideum di E.-A. Bétant, II, Genève 1847 (!), registrava appunto s. v. 11Q(p. 431 s.) solo il significato di corpu.s,in tutta l'opera di Tucidide: compreso II 41, 1. Si può garantire invero per tale significato in tutta l'opera tucididea: ma qui basti il rinvio, oltre che al contesto di II 41, al parallelo stretto di 51, 2 (51, 3 secondo Bétant), ai contesti oppositivi 00011avs yvoo11T) o 6LavoLa, e ai contesti concettuali tutti, per riconoscere la presenza o forte compresenza del significato di "corpo" in II 41, 15 • 3. La posizione di J. Classen-J. Steup, e altre simili, non hanno mancato di avere un forte seguito nelle traduzioni più recenti italiane e straniere. Fra queste ultime, possiamo ricordare quella di A. Horneffer-G. Strasburger, del 1957 (Personlichkeit), o quella di J. de Romilly, del 1962 (personnalité) 6 • Un po' più complesso è il discorso riguardo alla resa con la parola "persona", anche se è chiaro che dal contesto la parola finisce col ricevere di fatto nelle traduzioni il senso di "personalità", quindi soprattutto di persona "morale" e di "carattere" individua5

Non a caso, considerati date e orientamenti, E. F. Poppo nell'ediz. con commento di Tucidide (12, Llpsiae 18662 ) scriveva (ad II 41, 1, a p. 84) "OµaHeilmannum interpretari Person, sed esse potius corpw docet Krueger, cl. 51, 2, uhi item iungitur cum au-tCXQ1(Eç". 6 Cfr. Thukyduw. Der Peloponnesische Kmg, a cura di A. Homeffer-G. Strasburger, introd. di H. Strasburger, Bremen 1957, p. 146; Thucydide. La guerre du Pi/oponnhe. Livre Il, a cura di J. de Romilly, Paris 1962, p. 30.

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le, se non è opportunamente accompagnata da un'esegesi diversa: l'inerzia gioca infatti a favore di un'interpretazione fondamentalmente psicologica, non di quella mirante almeno anche alla fisicità: e ciò proprio in virtù della concezione di fondo oggi dominante, e per un'inerziale presa di distanza dalla fisicità, che connota palesemente la parola o&µa in Tucidide. Nel 1988, la traduzione di P. J. Rhodes suona: "keep his person ready to profit from the greatest variety ... ", e sembra quindi di fatto puntare sulle attitudini psicologiche; forse (e non è privo di interesse) è invece più sbilanciata sul versante della fisicità la traduzione inglese di Forster Smith, del 1919 7 • Le traduzioni italiane sono anch'esse prevalentemente volte a porre l'enfasi sulla personalità: "mi sembra che ciascun uomo della nostra gente volga individualmente la propria indipendente personalità a ogni genere di occupazioni ... " (C. Moreschini, 1967); "ogni cittadino ... acquista una personalità completa, agile nell'esercizio degli impegni più diversi ... " (E. Savino, 1974 e 1978); altrove appare una formulazione meno puntata alla personalità come insieme di qualità psicologiche, e la traduzione lascia più spazio, almeno in teoria, alla fisicità: "il singolo individuo educato da noi può essere disponibile, e sufficiente, alle più svariate attività ... " (G. Donini, 1982)8 • 4. In altri passi di Tucidide, OOOf.La rivela sempre una portata, integrale o almeno parziale, di fisicità, con effetti sorprendenti, sul piano dell'intuizione e della rappresentazione storica, che si colgono quando ci si accosta al linguaggio tucidideo in maniera disinibita, da un lato, dall'altro con la consapevolezza della forte componente della "corporeità", ravvivata da una riconsiderazione sistematica del suo lessico. Cosl, si avverte con più forza il rapporto che, tra la figura e i comportamenti di Alcibiade e quelli di un tiranno, viene a istituire in virtù del confronto che si può fare tra VI 15, proprio la parola OOOf.La,

7

Cfr. Thucydù:les.History II, a cura di P. J. Rhodes, Wanninster 1988, p. 87; Thucydides, a cura di Ch. Forster Smith, I (1-2), Loeb Class. Library, London-New York 1919, ad loc. Anche G. P. Landmann, Thukydù:les.Geschichk des peloponnesischen Krieges, Ziirich und Stuttgart 1960, p. 143, traduce Person. 8 Cfr. Tucidide, a cura di C. Moreschini, in Erodoto e Tucidide, Firenze 1967, p. del Peloponneso, a cura di E. Savino, Milano 1974, p. 117; 536; Tucidide. GUA!rra Tucidide. La g!IA!rradel PeloponnesoI, a cura di E. Savino, Milano 1978, p. 233; per "personalità" opta anche M. Moggi, in Tucidide. La g!IA!rradel Peloponneso, Milano 1984, p. 303. Vd. poi le Storie di Tucidide, a cura di G. Donini, Torino 1982, p. 339.

l:rof.Ulin Tucidide e in Gorgia

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4 e I 17: nel primo passo, Tucidide ricorda i timori degli Ateniesi nei riguardi di Alcibiade, per la grandezza tiiç 'tE xa'tà 'tÒ tamou tavo(aç rov xaft' EVéxaa,;ov ~ otµTt non è mai considerato nel suo rapporto polare con (J(i)µa in P. Huart, Le vocabulairede fanalyse psychologique dans l'oeuvre de Thu.cydide, Paria 1968.

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cui Pericle fa palesemente carico ai Lacedemonii. A questo tipo di 6(aL'ta, Pericle contrappone lo lxveLµtvroç6LaL'tcioitaL, la Q~ih,µ(a, cioè la nonchalance, la vita rilassata e disinibita, che rifiuta costrizioni di cui è ineludibile il significato almeno fondamentalmente fisico. All'inizio di II 40, Pericle inoltre perora il diritto ad arricchire, a cogliere il xaLQ6ç, la chance dell'arricchimento, attraverso gli lQYa, le attività produttive. Ecco già qui, nella frase del oroµa au'taQXEç(ma si potrebbe risalire anche al sistema 1t6voL-1t6vrovlxvan:auÀ.aL),disegnata una gamma di et&), cioè di tipi di comportamenti, rispetto a cui l'Ateniese possiede un "corpo", una "persona fisica" autosufficiente. Il corpo dell'uomo pericleo è dunque destinato al lavoro e, all'occorrenza, alle attività militari, come al riposo e alla gioia, per quel che è detto esplicitamente, e ad altro che è solo implicito. Come però questo corpo è diretto dall'intelligenza (e risponde ai bisogni) di una "persona", pare accettabile anche la traduzione "persona", purché abbia a suo primo fondamento la nozione di "corpo". "Personalità" mi sembra invece trasferire fondamentalmente sul piano psicologico un termine che ha, al suo fondo, una forte connotazione fisica. 5. L'esegesi del oroµa tucidideo di II 41, 1 è comunque di fatto sollecitata in due direzioni diverse, se i raffronti si muovono fuori del testo tucidideo. Va da sé che il primo orizzonte contestuale, quello dell'autore medesimo, conserva sempre un suo fortissimo peso, e di esso, come delle considerazioni interne al testo specifico, va tenuto conto. Per contro, in un senso diverso, verso cioè un significato più generale 10 , parrebbe portare il confronto con Erodoto, I 32, là dove Solone afferma che nessun lxvttQ0>1touoroµa è di per sé au'taQXeç in tutto, ma "alcune cose ha, di altre manca" (e perciò "ha bisogno"). Può trattarsi, in questo caso, del "corpo"? Il contesto del discorso di Solone pare richiedere di allargare il senso dell'espressione verso "individuo", "persona": si tratta infatti della valutazione delle condizioni entro cui un uomo può dirsi 6ì..~Loç("felice"), e non soltanto EÙ'tUXT)ç ("fortunato"); ed è chiaro che, di per sé, tali condizioni non possono coinvolgere la sola sfera fisica. Per questo passo, dunque, è naturale che, anche prima dei tempi favorevoli a una lettura ipercritica, l'esegesi erodotea

10

Non fa riferimento a una connotazione fisica dell'espressione di Thuc. Il 41, 1 N. Loraux, L'invemion d'AthAnes. Histoin de l'oraisonjuMbre dans la ciii clauÙ/flll, Paria-La Haye-New York 1981, rinviando al parallelo di Herodot. I 32, ap. 474n. 22.

l:µain Tucidide e in Gorgia

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facesse posto abbastanza per tempo alla traduzione "persona". Tuttavia, ci sfuggirebbe il senso di tutto il discorso di Solone sulla felicità, se idealizzassimo troppo questa "persona", poiché, a costituire l'idea di felicità, senz'altro contribuisce, in altissimo grado (anche se, certo, non esclusivamente), una serie di condizioni appunto fisiche, corporee: l'essere 6.vovooc;,wtT)QOc;, EU1ta1c;, eue1&Jc;,cioè "senza malattie, senza invalidità, con bei figli, di bell'aspetto" ecc. Che nel oµadi Herodot. I 32, che traduco anch'io "individuo, persona", sia comunque fortemente implicito un senso di individualità fisica, compresente, anche se non esclusivo, mi pare innegabile. Per una piena valutazione di I 32, non va dimenticato d'altra parte come Erodoto, II 123, 2, sappia distinguere ,vuxf) da oµa,e quindi riservi un valore di piena fisicità, in questo caso, al termine oµae alla stessa espressione àvftQÈyEVOJ'Mllaxe 'tÒlOO\'teov xalloç, 6 Àafk}uoaxal où Àaitouoa laxe· nÀE(maç l>È nÀE(m0tç bn6uµ(aç lQ(l)'toç tvt l>È oroµa'tL3tOUà oroµa'ta O\J'VTIYOYEV ilvbQv btl èvELQYClOQ'tO, µeyéù.0tç µtya q>QOVOUV'trov, drv ol µÈV nÀu'touµeytfht, ol l>È EÙyEVELaç naÀauiç EÙOO~(av, ol l>Ètilxijç tb(aç EÙe~(av,ol l>Èooq,(aç btLXTtl'tOUbuvaµtv laxov· xal -iixov wtaV'teç un' lQLM>VLXO'U q>LM>'tLµ(aç 'tE ilVLX~'tO'U.

Il linguaggio è audacemente, 'modernamente', erotico: la traduzione di M. Untersteiner 13 suona, per le righe centrali: "moltissime - in 12

Cfr. Encomi.o di Ekna, a cura di F. Donadi, Roma 1982, pp. 11 ("e per il corpo suo solo chiamò ad adunata molti corpi d'eroi a grandi cose l'animo intenti ... ", par. 4) e 17 (" ... lo sguardo d'Elena, sciolto dal piacere per il corpo di Alessandro ... ", par. 19); Gorgiaù Encomium o/ Hekn, a cura di D. M. MacDowell, Bristol 1982, pp. 21 ("with a single body she brought together many bodies of men ... ") e 29 (analogamente, "body"), per i due passi in questione. 13 Cfr. Sofoti. Testimonianze e frammenti 11,a cura di M. Untersteiner, Firenze 1949, pp. 93 e 109-lll. In generale, per il rapporto che qui viene di fatto, anche se

l:ci>l,Ulin Tucidide e in Gorgia

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moltissimi - passioni d'amore instillò, e con una sola persona radunò molte persone di pretendenti orgogliosi per grandi qualità". È possibile che una resa italiana "e con un solo corpo radunò molti corpi di pretendenti ecc." sia sembrata al traduttore troppo scabrosa, e linguisticamente inaccettabile. Ermeneuticamente, possiamo anche trovare la traduzione come accettabile o come una delle migliori possibili: ma a patto che si abbia chiara coscienza del fatto che qui "persona" sta innanzitutto per "persona fisica", per "corpo"; o se ne ricava un'immagine sbiadita, rispetto alla forza espressiva dell'autore dell'Encomio, che non intende rifuggire da una certa crudità di espressione. Si può dire anzi di possedere una splendida conferma nei parr. 18 e 19 della stessa operetta. Qui si dice l'influenza che tramite la vista (6,pLç)esercitano azioni e corpi (nQ(lyµa'ta xat 00>µa'ta), producendo fQOOç(amore) e n6t}oç (desiderio): bllà µflv ot yQaq>Eiçotav tx l'tollci>v XQO>µa-rrov xaì aroµa-rrovlv

aci>l,Ul xaì oX'lf.Ul-rù.E(roçàl'tEQYétaOOVTm, 'tÉQl'tOUOL 'tflV 6-IVLv· TIbÈ-rci>v lrvbQtétv-rrovl'to(rimç xaì fl 'tci>vàyw.µét-rrovtQYama 6oov flbEiav 3tOQÉoXE'tO -roi:ç6µ1,UlOLV. O'U't(l)'tà µÈV À.\Jl'tELV 'tà bÈ n:o6Ei:vn:ÉcpuXE 'tflV6-IVLV.n:oUà bÈ n:olloi:ç n:ollci>v ÉQOO'ta xaì l't6ik>v tvEQYCl~E'tm l'tQOyµét'trov xaì aroµa-rrov.El oùv -rcp-rou 'Ai..E;étvbQOuOWf.Ul'tL -rò 'tftç Tfl '\jllJXTI 'EÀ.ÉVT)ç6µ1,Ul flcrl>ÈVl'tQOth,µ(av xal. aµLllav ÉQO>'tOç l'taQÉbroxE,-r( aauµaa-rov;

Di conseguenza se, del corpo di Alessandro compiaciutosi, l'occhio di Elena provocò slancio e desiderio per l'anima sua, che motivo c'è di meravigliarsi?

Qui però Untersteiner rende giustamente la parola oooµa con "corpo", dando spazio a quel tanto di audace e crudo, ma psicologicamente autentico, che è insito nella parola e nel contesto. Ci si accorge, una volta di più, di quanto Gorgia (se, come credo, è il nostro autore) abbia fatto spazio, nel suo elogio-apologia di Elena, a un'analisi lucida e spregiudicata della passione femminile, della passione vista dal lato e con l'occhio della donna. Ma ci si accorge anche, e soprattutto, del ruolo dell'idea stessa in linea di massima solo di fatto, a istituirsi tra il lessico tucidideo e il lessico gorgiano, cfr. quanto osserva J. H. Finley jr., 'The Origins ofThucydides' Style' (1939), in Three Essays on Thucydides, Harvard Univ. Press 1967, pp. 55-117 (contro una dipendenza di Tucidide da Gorgia, ma per il riecheggiamento, nei discorsi dell'opera tucididea, di forme stilistiche circolanti nei tempi della prima maturità dello storico).

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della fisicità, del oooµa, che apre l'Encomio: x6oµoç n6ÀEL µtv E'ÙavbQ(a,oooµa'tLbè xalloç, ,vuxfibè O'Oq>(a, :JtQ«yµa'tLbè ilQE'tT), À.6yq>bè ilÀ.11-ftEta· 'tà bè tvavda 'tOU'tOOV ilxooµ(a. E, andando ancora oltre, si apprezza la bilanciata simmetria fra il richiamo al corpo (.6yorv, non meno numerosi di quelli della poesia, 'tWV µE'tàµétgou :rtOL'lµénorv,per isolare il genere scelto nella prassi oratoria e nella :rtaLbe(a retorica, i discorsi •EllrivLxo(, :rtOÀL'tLxo(e :rtavriyuQLXO(,che tutti direbbero più simili ai testi fondati sulla µoumxT) e sui ritmi che ai discorsi per il tribunale. Si distinguono per lo stile, più vicino alla poesia e più elaborato, tjj Àt;EL :rtOL'l'tLXOO'tÉQçt per gli tvfhJµT)µa'ta, più elevati e insoliti, nonché xat :rtOLXLÀ.(J)'tÉQçt, per le altre lbÉaL, di maggior rilievo e più frequenti (47). Il primo effetto di questi discorsi è il piacere degli ascoltatori, pari a quello che

offrono i testi costruiti con i metri. Rispetto all'Evagora, la poesia resta qui solo un termine di confronto, che consente di misurare la portata teorica e i risultati di un tentativo del tutto riuscito, la piena affermazione di un genere di discorsi nuovo, un genere più elevato, che supera l'oratoria giudiziaria 11• Se le novità investono gli tvfhJµT)µa'ta e poi anche le altre lbéaL, quindi l'intera struttura formale del discorso, Isocrate pone al centro della sua riflessione critica, in modo specifico e puntuale, la ÀÉ;Lç,un piano sul quale è ormai possibile registrare anche nei dettagli l'avvenuta sostituzione della poesia e la realizzata conquista della :rtOLXLÀ.La. Nella prassi, la positiva recezione degli ascoltatori, rutaV'tEç àxouoV'tEç xa(goucJLv, è il primo, il più immediato indice di successo: il nuovo genere rivaluta e attua quella "1uxayooy(a degli ascoltatori che nell'Evagora sembrava un appannaggio esclusivo e ambiguo della poesia 12 • È questo un punto di svolta, che riceve conferma dall'ulteriore uso di :rtOLXLÀLa, come diretto, immediato termine tecnico.

11

La consapevolezza di creare prodotti più elevati di quelli dell'oratoria giudiziaria affiora già nella Contro i Jofuti (19-20) e giunge al Panatenaico (271-272). È noto, anche Isocrate, in età giovanile, coltivò l'oratoria giudiziaria. Ma netto è il suo rifiuto al termine del Panegirico (187-189), quando il "principio agonale", l'invito a competere, passa dall'oratoria giudiziaria all'oratoria epidittica. Cfr. Ch. Eucken, op. cit. p. 142 ss. 12 In alcuni casi, la recezione positiva diventa desiderio di accedere ad una completa formazione retorica, n:oUol l>È xal µaih)'tal y(yveo6m j}ou>.ovtm. Nell'A Nicock (49) Omero e la poesia tragica costituiscono il miglior paradigma di ciò che bisogna dire o evitare per poter davvero toilç àX{)O(l)µh,O\lç ,in,xayoryeiv. Poi, nel

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Nel Filippo (25-29), dopo l'esteso resoconto sulla lettura del testo che segue e sul relativo dibattito critico con i discepoli, ovvero su due fasi della formazione retorica, Isocrate espone la differenza, per capacità persuasiva, Elç 'tÒ ,tE(-ftELV,tra i discorsi pronunciati e i discorsi scritti. Così dapprima distingue tra un'oratoria assembleare, destinata alla comunicazione diretta, e un'oratoria epidittica, destinata alla scrittura13. Poi elenca i motivi per cui il discorso scritto non è autonomo e nella lettura, soprattutto in una lettura non adeguata, può apparire debole, q>auÀç,agli ascoltatori. Sono motivi che rischiano di danneggiare anche il discorso ora composto, il Filippo, e di farlo apparire ancora più debole, q>auÀ6'tEQOV,poiché Isocrate afferma (27) di non averlo nemmeno strutturato stilisticamente, XEXOO'µflXOµfV,con quella ricerca del ritmo e con quella elaborazione formale, 'taiç 7tEQtlTjV ÀÉ;LV EÌJQU-ftµ(aLçxat 7tOLXLÀ(aLç,di cui un tempo ha fatto uso e ha dato esempio, mezzi capaci di rendere i discorsi più gradevoli e insieme più credibili, ri6(ouç aµa xat 7tLO"tO'tÉ()OUç. Nel passo la 7tOLXLÀ(asi attesta ormai definitivamente, nell'ambito della teoria retorica, sul piano dei x6oµoL, della struttura formale del discorso e in particolare della ÀÉ;Lç. È un tratto di stile voluto, ricercato e realizzato con successo in un arco di produzione ormai concluso, inoltre un oggetto di insegnamento retorico e infine, ancora una volta, uno strumento atto a rafforzare la validità del discorso e della sua recezione, nella prospettiva sia del piacere immediato sia del consenso. Ma ora emerge in primo luogo il problema della lettura, quindi della comunicazione del discorso scritto, con i vari effetti che può avere sul

Panaunaico (263), la superiorità dei discorsi di Isocrate rispetto a quelli dei rivali

poggia su una puntuale rassegna degli atteggiamenti dell'uditorio: sullo sfondo emerge il rapporto fra la fama di Omero e la fama dei suoi imitatori. Platone considera la retorica una ,jroxaywy(a nel Fedro (261 a, 271 c). Sul termine cfr. K. Gaiser, Protreptik und Paranese bei Plalon, Stuttgart 1959, p. 103 ss. Ora E. Asmis, 'Psychagogia in Plato's Phaedrus', JU. Class. St. Il, 1986, p. 153 ss., ne fa la chiave del "conflitto" fra la retorica di Isocrate e quella che delinea Platone. Nel Menesseno (235 a) gli autori di elogi 'fOiç òv6µam :ltOUtUl.ovi:Eç,YOTJ'fWO\lOLV .•• 'tàç ,jroxaç, il loro successo deriva solo dalla JtOLXI.À.(a. Sui probabili obiettivi polemici cfr. R. Clavaud, Ménaène de Plalon et la rhétorique de son temps, Paris 1980, p. 92 ss. 13 Isocrate qui riconosce l'immediato rapporto tra genere di oratoria e forma di comunicazione. Del resto Aristotele, nella Retorica (1413 b 3-22), distingue un'oratoria "grafica" da una "agonistica" e Dionigi di Alicarnasso, nel Demostene (22, l-7), oppone l'oratoria "scritta" di Isocrate a quella di Demostene. Offre un esame di questi e di altri giudizi analoghi L. Canfora, Demostene, Torino 1974, p. 22 ss.

u

Ilouu).(a: storia di un termine in Isocrate

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destinatario 14 • A lato della mancanza di ritmo, la mancanza di 1touuÀ(a in ogni caso appare come un ostacolo alla positiva recezione del discorso, poiché senza dubbio moltiplica i tratti negativi della scrit15 • È tura e di una cattiva lettura: a qiauÀ.Oçcorrisponde qiauÀ.O'tEQOV infine importante sottolineare che ora l'tOLXLÀ.ta rientra nel contesto di un giudizio critico formulato da Isocrate sulla sua opera. Molti dei fatti rilevati tornano nel Panatenaico, dove ltOLXLÀta si mostra pienamente in grado di accogliere ed esprimere l'intreccio dei vari piani di scrittura, di stile e di riflessione o interpretazione critica a più voci che si sviluppano nel discorso. Il termine vi ricorre due volte (4 e 246). La ricca sezione proemiale (1-4) si apre, ancora, con un quadro dei vari generi di prosa che Isocrate non ha praticato e con l'ampia analisi del genere finora prescelto, i discorsi utili alla città e agli altri Greci, ben individuabili soprattutto per le numerose peculiarità formali 16 • Ma Isocrate rifiuta qui anche quel genere, bEivov 'tÒV'tQ()1tov, e lancia una nuova proposta formale più articolata, che prevede un ulteriore livello compositivo, la conquista di un'apparente semplicità frutto di molto impegno, di molto 1t6voç, e di grande attenzione. Cosl (4), anche se il discorso può sembrare più debole, µaÀ.axro'tEQOç,dei precedenti, non va in realtà paragonato alla loro variegata complessità, 1tQÒç 'tT)V txELV(l)V l'tOLXLÀtav, ma va considerato in base al soggetto. La cura della ltOLXLÀLa è riferita ad un'attività ormai lontana nel tempo, come nel Filippo, o meglio, in modo più chiaro, ad un genere

14

Tende a sovrapporre nel passo ÀtçLç e u1t6xQLOL!,Th. Cole, art. cil. p. 19. Consigli per la lettura, nel desiderio di non affaticare gli ascoltatori, sono sviluppati ad esempio nell'Antido.Ji(12). Cfr. W. Steidle, art. cit. p. 293 ss. Nel Panatenaico (17), è palese la condanna della cattiva lettura che, nelle scuole dei rivali, stravolge il valore dei discorsi stessi di Isocrate. Considera il problema della lettura, vocale o meno, nella prospettiva della pronuntiatio e dei geflt!radi.cenai G. Calboli, 'Oratore senza microfono', in Ar.s rhetorica antica e nuova, Genova 1983, p. 48 ss. 15

Per Platone, nel Fedro(278 c-d), solo il "filosofo" è capace di mostrare che i prodotti della scrittura sono q,auAa. Isocrate analizza i limiti della scrittura anche nella I Lettera (2-3), sottolineando che la scrittura priva i testi di ogni aiuto dell'autore, àJt6vtoç ... 'tOUYQCX,P«vtoç leriµa 'tOUJk>,'Jih'Joovt6ç èmLV. Ricostruisce il sottile intreccio tra i passi di Isocrate e di Platone M. Erler, Der Sinn der Aporien in den Dialogen Platom, Berlin-New York 1987, p. 38 ss. 16 Si distinguono infatti sia per la ricchezza degli Mvµ~µa'ta, sia per le numerose antitesi e parisosi e per gli altri procedimenti, tl>tm, che "brillano" al momento della comunicazione, h- 'taiç QTJ'tOQElOL!,, e costringono gli ascoltatori a gesti e clamori di consenso. Cfr. J. B. Lidov. art. cit. p. 283.

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ormai abbandonato, e, di nuovo, alla JtotxLÀ(aè legata la forza, l' efficacia del discorso, quindi la possibilità di un giudizio di valore che Isocrate rivolge alla sua produzione del passato 11. Non affiora in modo esplicito la ÀÉ;tç come l'ambito, il piano retorico sul quale gravita la 3tOLXtÀ(a:indicatore complessivo dell'apparato formale del discorso, la JtotxLÀ(a si contrappone ora alla im6-ltEotç, il soggetto, il tema del discorso che è stato questa volta presentato alla critica del pubblico e che è visto come l'elemento di maggior rilievo nella struttura dell'insieme18. Il problema della JtOLXtÀ(aè riproposto poi nella sezione finale, quando il discorso si apre ad un vivace ma enigmatico scambio di giudizi e riflessioni per lo più in modo diretto tra Isocrate ed un discepolo, sostenitore di Sparta, sulla lode stessa di Atene che precede. L'ultimo, articolato intervento del discepolo (235-263) contiene così numerosi criteri di interpretazione del testo, con ampio lessico relativo. In particolare (246), il discorso di Isocrate, secondo il discepolo, non è in nulla simile agli altri, ma offre due livelli di lettura e di esegesi 19 • Ad una lettura superficiale, Qa-ltuµooç,il discorso appare semplice e facile da porta invece a considerare il seguire. Una lettura profonda, ÒXQtPç, discorso difficile e di ardua comprensione, colmo cioè di un vasto, concreto sapere, ma ricco anche di ogni varietà e di artificio, Jtavtobwtfjç bè µ€OtÒV Jtotxt>..(açxal ,pEubo)..oy(aç,non del tipo che di solito danneggia con intenzione i cittadini, ma del tipo in grado di offrire utilità o piacere agli ascoltatori, formandoli, µetà JtaLbE(aç q>ÙELV ft tÉQ3tELVto'Ùç àxouovtaç. Ancora una volta n:otxtÀ(a, di contro agli ampi blocchi contenutistici del discorso, risulta legata, in unione a JtavtobwtT) e a lato di

17

J. Martin, op. cil. p. 259, sulla scia del Simposio di Platone (198 a-199 c), interpreta la presa di distanza dalla ricca elaborazione del passato come una condanna di varie degenerazioni dello stile di Gorgia, diffuse nel IV secolo. La VI Lettera (6) esclude, per chi scrive in età avanzata, uno stile elaborato, EùtEiv... bttxaQhwç xal µoumxçxal btwtE1tOVT1µ.É'Vt0ç. 18 Sul significato di t'm:c>itEotç, ad esempio nell'Areopagilico(63, 77) e nell'Antidosi (276-277), cfr. H. Wersdorter, op. cil. p. 20 ss. 19 Qui sorge il problema, è ovvio, del rapporto fra il giudizio del discepolo e il giudizio di Isocrate, poiché Isocrate al termine dell'intervento del discepolo mantiene una posizione ambigua (265). Cfr. H.-0. Kroner, 'Dialog und Rede', Antike u. Abendland. 15, 1969, ora in F. Seck, op. cil. p. 296 ss., e Ch. Schii.ublin, 'Selbstinterpretation im 'Panathenaikos' des lsokrates?', Mus. Helv. 39, 1982, p. 164 ss.

IlOLxLÀ.la:storia di un termine in Isocrate

873

,PE1JOOÀ.oy(a,al

piano della Àt;tç. Ma il discepolo fornisce un dato ulteriore, distingue, in base agli effetti, due tipi di ,PE1J60).,oy(a,ovvero di À.É;iç, e quindi due generi di discorso. È una sottile analisi che senza dubbio investe anche 1toixLÀ.(a. Cosl, al di là del rifiuto di una 1tOLXLÀ.La e di una ,PEUOOÀ.oy(avolte all'inganno intenzionale dei cittadini, il discepolo rivaluta questi elementi della struttura formale del discorso in base alla capacità di fornire utile o diletto agli ascoltatori. Non è difficile riconoscere qui il punto di vista indicato, per 1toixLÀ.(a, da Isocrate stesso nell'Antidosi e nel Filippo. Bisogna ricordare però che ora, nel Panatenaico, la 1COLXLÀ.(a emerge solo da quel secondo livello di lettura e di esegesi del testo che il discepolo teorizza e attua. è una sorta di ricchezza formale non appaPer il discepolo la 1COLXLÀ.(a rente, e con questo significato peculiare il termine rientra nell'ampio arco di quel lessico critico che le pagine finali del Panatenaico certo contribuiscono a codificare20 • Cosl, quando parla di 1tmxLÀ.(a, il discepolo non si pone in contrasto con l'affermazione di Isocrate, in apertura, sull'impossibilità di un confronto con la 1tOLXLÀ.(adei precedenti discorsi, poiché Isocrate delinea per il Panatenaico una semplicità frutto di grande applicazione, dunque una semplicità di superficie che non esclude una ricchezza formale non apparente. Non è assurdo supporre nella sezione iniziale l'annuncio di un doppio livello di scrittura che potrebbe legarsi al doppio livello di lettura indicato nella sezione finale dal discepolo. L'esame condotto permette di sviluppare alcune considerazioni. Sorprende forse la frequenza relativamente bassa di 1COLXLÀ.Oç e derivati nei pur numerosi, lunghi discorsi, ma bisogna subito riconoscere che il problema della 1COLXLÀ.(a è affrontato sempre nei contesti di maggior rilievo per una ricostruzione della teoria retorica di Isocrate: nel programma della Contro i sofisti, nei proemi dell'Evagora, del Filippo, del Panatenaico, nella riflessione sulla propria eloquenza nell'Antidosi fino alle ultime, tanto discusse pagine del Panatenaico. Si assiste poi ad un progressivo specializzarsi sia del termine, sia della nozione retorica che il termine esprime. Dal più vago xa'ta1toixiÀ.aL o buucoixiÀ.ai rispettivamente della Contro i sofisti e dell'Eva-

20 Da ÀoyOL aµcp(j3oAOL a bLavLa e u:n:6vma.Un esame in K. Eden, 'Henneneutics and the Ancient Rhetorical Tradition', Rhetorica5, 1987, p. 60 ss. Traccia una storia della nozione di aµcp(j3o).ovF. Zucker, 'lsokrates' Panathenaikos', Ber. Ak. Leipz. 101, 1954, ora in F. Seck, op. cit. p. 247 ss.

M. Vallozza

874

gora, attraverso il ÀÉ;EL 1tOLKLÀ0>'tÉQ~dell'Antidosi si arriva infatti, nel Filippo e nei due passi del Panatenaico, al ben più deciso e prefiante 1tOLKLÀ(a, che sarà largamente usato anche in epoca successiva 1• Ma soprattutto, dal piano degli Muµ11µa'ta nella Contro i sofisti a quello dei vari dfui nell'ambito dei x6oµot nell'Evagora, la 1tOLKLÀ(a si lega, più esplicitamente, fin dall'Antidosi e poi nel Filippo, al piano della ÀÉ;u;, sul quale rimane attestata, ormai implicitamente, anche nei due passi del Panatenaico. In vario modo, cosl, gravitano su 1tOLKLÀ(a i problemi della fondazione, sia nella teoria sia nella prassi, di un tipo di discorso in prosa, quello epidittico, che possa e sappia sostituire nella funzione e negli effetti il discorso poetico: il ruolo dei KoxtµfiaL allitì..otç), volto a impedire il commettere e il subire ingiustizia. È da questo con-

11

Sulla teoria del "contratto sociale" e sulla problematicità della sua attribuzione al sofista Licofrone (citato da Aristot. Pol. 1280b 10), si vedano K. R. Popper, op. cit. p. 116 ss. e W. K. C. Guthrie, op. cit. III p. 135 ss. (spec. p. 139).

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A. Masaracchia

tratto che nascono le leggi, grazie alle quali la giustizia si configura come un compromesso tra l'ottimo bene, il commettere ingiustizia, e il peggior male, il subirla. È stata giustamente notata l'affinità di questa teoria con quella formulata da Callicle nel Gorgia, per cui la giustizia e le leggi sono un mezzo escogitato dai deboli per impedire ai forti di prevalere. Ed è altresl evidente che la formula di Trasimaco non può essere considerata solo una sua variante. Mentre questi afferma essere la giustizia ciò che conviene al più forte, in Callicle essa appare un baluardo a difesa degli uomini comuni. È però evidente che la concezione che della giustizia hanno i più è una concezione 'opportunistica'. Nella sostanza, Trasimaco e i molti di cui si fa portavoce Glaucone esprimono la stessa posizione polemica verso la giustizia convenzionale: ad essa rispondono con un immoralismo che si esprime in termini teorici e brutalmente schematici in Trasimaco e in termini sottilmente argomentativi su base giusnaturalistica nei noU.o( di Glaucone. Ciò che infatti caratterizza soprattutto il discorso di Glaucone e gli dà forza è l'apparato teorico giusnaturalistico che egli fornisce all'immoralismo di Trasimaco, quell'apparato che è corrente nella cultura filosofica del V e del IV secolo e nel quale si iscrive notoriamente anche Callicle. Che però i noUo( abbiano della giustizia una concezione simile a quella di Trasimaco è rivelato dall'ipotetica eliminazione delle regole convenzionali quale si manifesta nell'apologo dell'anello di Gige (359 C360 B): l'uomo che miracolosamente liberato dal controllo sociale persegue i suoi naturali, istintivi fini immorali è la prova che nella realtà chi è al riparo dei rischi della vita associativa e del confronto con chi è più forte di lui e può infliggergli ingiustizia si volge senza esitazione a perseguire i suoi interessi di prevaricazione personale. La conclusione di Glaucone conferma il carattere di rigorosa costruzione teorica del suo ragionamento, che è mirato, come sottolinea Socrate (361 D), alla confezione di due modelli ideali, politi come due statue, pronti a essere confrontati e giudicati dalla gente. Nella posizione di Glaucone, ispirata a impietosa logica calliclea, abbiamo da una parte il giusto, sottoposto a ogni sorta di offese fisiche, dall'altra l'ingiusto, che appare giusto e che, operando con l'ingiustizia, domina nello Stato e realizza tutti i suoi fini di prevaricazione (361 E-362 C). L'intervento di Adimanto 12 fornisce il completamento del quadro

12

Adimanto è il più sacrificato e il più superficialmente esaminato dei personaggi del secondo libro. La più tipica distorsione della sua figura è quella per cui egli

Per l'interpretazione del II libro della Repubblica

883

della morale corrente. Dopo la schematica impostazione teorica di Trasimaco e la sua nuova formulazione in termini teoreticamente rigorosi e comprensivi delle opinioni comuni ad opera di Glaucone, Adimanto rafforza la saldatura tra la teoria filosofica e le idee correnti, tra il pensiero 'sofistico' e la concezione che si esprime nella cultura tradizionale. È attraverso questo discorso che si rende chiaro l'intento di Platone di mostrare la sostanziale convergenza tra le tesi apparentemente isolate e paradossali degli ambienti sofistici e la filosofia reale che corre tra la gente ispirandone le formulazioni teoriche e i comportamenti pratici. Questa filosofia diffusa poi - e questo è l'altro aspetto penetrante e sconcertante dell'indagine platonica - trova la sua codificazione e la sua cassa di risonanza nella cultura poetica tradizionale con i suoi augusti campioni quali Omero ed Esiodo da una parte e Orfeo e Museo dall'altra. Il discorso di Adimanto si articola in due momenti: il secondo è da lui presentato come un allo dboç ).6yooved è quindi un modo diverso di formulare le posizioni proposte nel primo. I problemi dinanzi ai quali si trova l'interprete nell'esaminarlo sono sostanzialmente due: 1) perché Adimanto presenta i suoi ).é,yoLcome havttOL rispetto a quelli di Glaucone? 2) in che consiste la diversità di quello che egli chiama allo dboç ).6yoov?Quanto al primo interrogativo, è chiaro che si deve intendere l'opposizione nel senso che si passa dalla critica spietata della giustizia in cui si risolve il discorso di Glaucone alle lodi di essa con annessa critica dell'ingiustizia. Senonché questa lode della giustizia è solo apparentemente in antitesi con la condanna formulata nelle teorizzazioni di Glaucone. Si tratta infatti - spiega Adimanto - delle lodi dell' apparenza della giustizia (363 A: oùx aÙ'tÒ bLXaLOO'UV1}V btaLvoùvteç illà 'tàç fut' aùtijç wboxLµ11oeLç, tva boxouv'tL bLxa(cp dvaL y(yvTJ'taLaxò 'tftç b6;rtç a.Qxa( 'tE xal yaµoL xal OOa1tEQnauxoov bLftÀitEVOQ'tL, Ò.3tÒ 'tOU eùboxLµEiV ovta 'tÒ> bLxa(cp)13• È in questo senso che si deve intendere, secondo Adimanto 0

,

sarebbe più profondo e più filosoficamente dotato di Glaucone. Wilamowitzad esempio scriveva (Platon I p. 350 s.) che Ad. è "tiefer angelegte und darum an gewichtigeren Fragen und Einwiirfen befahigte". Si veda anche M. Croiset, La Républi,quede Platon, Paris 1946, il quale scrive di Adimanto (p. 146): "plus philosophe sans doute que Glaucon, celui-ci va plus au fond des choses". Più correttamente lo Szlezak (op. cil. p. 298) lo definisce "der Sache der Philosophie wesensfremd". 13 Giustamente Wilamowitz (op. cil. II p. 377 s.) difende sulle onne di Adam il tradito 'tq>[,um(q> e mostra che non è corretto emendarlo in 'tq>àbb«p.

A. Masaracchia

884

la lode della giustizia fatta dai padri ai figli e da chiunque si preoccupi di un altro. Questa concezione di vita trova il suo supporto nella più augusta tradizione poetica, in Esiodo e Omero per quanto riguarda i beni promessi per la vita agli apparentemente giusti, in Museo e suo figlio per quelli che sono prospettati per l'aldilà. Il secondo tipo di discorsi differisce nel senso che esso ha in comune col primo la lode della giustizia e si trova formulato sia dalla gente comune che nei testi della cultura tradizionale (363 E: tbtc;itE À.ey6µevovxal Ù,tÒ XOLfltv), ma se ne distanzia in quanto unisce alle lodi della giustizia la considerazione che essa è dura e faticosa (X,«À.EXÒVµÉVtOLxat bd.xovov), mentre l'ingiustizia è piacevole e facile ad acquistarsi, brutta solo per convenzione (1'bù µtv xat E'Ùxetèç;XtT)Oaoitat, b6!;n bè µ6vov xat v6µcp atox,Q6v), utile più della giustizia. È da questo tipo di approccio all'argomento - prosegue Adimanto - che nascono i discorsi i}auµaou.otatoL sugli dèi, i quali assegnano a molti giusti sventura e vita misera e il contrario agli ingiusti. Di tali discorsi sono diffusori i professionisti della morale corrente, ày{,QtaL e µavtELç;,che promettono ai ricchi dietro compenso impunità a mezzo di sacrifici e incantesimi, grazie ai quali si può ottenere dagli dèi ciò che si vuole. Questi professionisti operano con opportune citazioni desunte dai testi tradizionali e cioè di nuovo da Esiodo e Omero da una parte, da Museo e Orfeo dall'altra (364 A-E). La propaganda di questi diffusori professionali dell'immoralismo opera non solo sui privati, ma anche sulle più illustri istituzioni religiose e cultuali (365 A). L'intervento di Adimanto si conclude con una sintesi che rappresenta efficacemente la situazione delle idee morali correnti e l'impatto che esse operano sull'animo dei giovani. Questi si sentiranno indotti a praticare l'apparenza della giustizia, convinti di disporre dei mezzi per sfuggire alle punizioni degli uomini e di altrettanto efficaci mezzi per sottrarsi alla punizione degli dèi, sia in questa vita che nell'aldilà: per i}eo(, come insegnano le più questo serviranno le tEÀ.Eta(e i À.UOLOL grandi città e i poeti, figli e interpreti degli dèi (365 A-366 8) 14• Adimanto conclude affermando che il discorso sulla giustizia e l'ingiustizia si è orientato esclusivamente sulla fama, gli onori e i doni che da esse 14

L'accenno alle grandi città non sembra potersi intendere altro che come un'allusione ad Atene. È inevitabile che ci si riferisca ai culti e alle fedi eleusine il cui rapporto organico con !"orfismo', malgrado antiche e lunghe polemiche, non è possibile negare. In generale si veda il fondamentale volume di F. Graf, Elewis und die orphischeDichtung Athens in vorhellenistischerZeit, Berlin-New York 1974;

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provengono, ma nessuno le ha esaminate nella loro ideale autonomia e purezza. t questa carenza che spiega l'atteggiamento generalizzato volto a evitare la reciproca ingiustizia. In mancanza di un esame di questo tipo, nulla si può opporre alle impostazioni di Trasimaco e degli altri (367 A). t qui che deve inserirsi la rifondazione socratica del discorso sulla giustizia. In conclusione, dai successivi interventi di Trasimaco, di Glaucone e di Adimanto emerge un quadro articolato e coerente della cultura contemporanea con la quale Platone si confronta. È un quadro nitido ed essenziale, senza sbavature e senza inciampi, dove le ripetizioni servono a ribadire ed esaltare le essenziali nervature. Vengono cosl passati in rassegna gli intellettuali di tipo moderno, cioè i 'sofisti', quale Trasimaco, i rappresentanti della cultura tradizionale, con i suoi due rami, quello omerico-esiodeo e quello 'orfico', i quali apparentemente sono divaricati rispetto a Trasimaco, ma in realtà si saldano con le sue teorie e con la rilettura approfondita e solida che ne ha fornito Glaucone, e infine la gente comune e, in mezzo ad essa, con funzione di orientamento e guida, i professionisti della morale corrente, che fanno da tramite tra i privati e le grandi istituzioni cultuali (Eleusi!), operando la saldatura tra pubblico e privato e facendo naturalmente ricorso ai testi tradizionali. In sostanza, allo schema teorico di Trasimaco segue l'esposizione della 'filosofia' corrente, anch'essa di stampo trasimacheo, di cui Glaucone si fa interprete fornendone una lucida e rigorosa lettura e Adimanto portavoce, esemplificandone e illustrandone le espressioni letterarie. Questo quadro è dominato da alcune premesse implicite che gli dànno significato. La prima, e la più importante per Platone, è che tutta la cultura tradizionale, a tutti i suoi livelli, dal più alto, quello che si esprime nella più raffinata filosofia, al più basso, quello che si esprime nelle formule e nelle idee correnti tra la gente comune, è ispirata da una concezione immoralistica che è responsabile della gravissima crisi della società e dello Stato. Tra filosofi, poeti, istituzioni cultuali, propagandisti privati e gente comune si compone un solido e unitario 'blocco storico', la cui sostanziale organicità e unità Platone addita dietro il velo delle apparenti diversità. È tutto questo massiccio e unitario complesso che costituisce l'antagonista della riforma platonica, una riforma che, per essere efficace, deve agire sia sulle idee filosofiche che sulle convinzioni reali della gente comune. t per questo che essa deve operare sia sul piano delle lucide e rigorose teorizzazioni che su quello di un'analisi storica che illustri la genesi del processo attraverso cui si è avuta la situazione di crisi. È il compito al quale si dedica la Repuhbli-

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ca, cominciando dall'analisi dell'origine della società e dello Stato e culminando nella teorizzazione di una nuova classe di intellettuali, il cui compito è quello di rifondare le basi filosofiche e costruire un nuovo sistema culturale. La seconda premessa, ed è quella di più sconcertante modernità, è quella che permette di operare concretamente con un concetto di cultura di valenza antropologica, che veicoli l'uso della filosofia come ideologia e che permetta quindi di individuare l'organicità al corpo sociale delle idee filosofiche e dei loro portavoce, onde il filosofo detta implicitamente le norme di comportamento pratico alla gente, che le assorbe e se ne fa ispirare e guidare. Si intende quindi che il progetto platonico di una società guidata dai filosofi si chiarisce nella sua portata rivoluzionaria non tanto come un nuovo modo di concepire il rapporto tra filosofia e gente comune, quanto come la fondazione di una rete di garanzie, costruite con un rivoluzionario percorso paideutico, a difesa del progetto di costruzione di una nuova filosofia e di nuove norme di comportamento e di vita. La riforma platonica intende affidare al filosofo di tipo nuovo l'autorità istituzionale che gli permetta di modificare la cultura corrente e vincere cosi l'influenza e l'egemonia dell'intellettuale del passato.

Ancora sul I.ÀavftQ0>3tO'V comincia col Lessing2, che, in uno scritto del 1768, respinge le traduzioni correnti di q>LÀ.avftQO>nov nelle diverse lingue ("hominihus gratum", "ce que peut faire quelque come plaisir", "was Vergnilgen machen kann") e spiega q>LÀ.av&QO>n(a "das sympathetische Gefilhl der Menschlichkeit", che si desta in noi alla vista del dolore, anche se meritato, escludendo che possa invece indicare la gioia per la punizione di un uomo cattivo 3 • Espressa con veemenza e stile immaginoso, l'opinione del Lessing ha fatto testo, e ad essa si sono adeguati molti interpreti di Aristotele. Mi limiterò per ora a ricordarne qualcuno. Per J. Vahlen 4 è "die menschliche Teilnahme ... , die auch dem Bosewicht, den verdientes Ungemach trifft, nicht versagt

1

G. Ricciardelli Apicella, 'Il q,~ nella Poetica di Aristotele', Helikon 11-12, 1971-1972, p. 396. 2 Cfr. G. E. Leasing, Hamburgùche Dramatur~, Stock 76, in Siimtliche Schriften VII, hgb. v. K. Lachmann, Berlin 1839, p. 343. 3 Il Leasing (loc. cit.) moetra apprezzamento solo per la traduzione di q,llav6Q(l>:rrovdata da Goulston ("quod humanitatis sensu tangat") e, per quanto riguarda la propria interpretazione, oeserva che già Curtius l'aveva suggerita, limitandosi però ad ammetterla verso un malvagio solo quando questi cade nella sventura per caso, mentre, secondo lui, la vista dell'infelicità, anche se conseguenza di una cattiveria, non può non farci soffrire. L'interpretazione di Leasing era stata giudicata interessante da P. E. Arias, 'Leuing e la definizione aristotelica della tragedia',Atene e Roma 11, 1930, p. 143 n. 3. 4 J. Vahlen, Beitroge m Aristotela' Poeti/e, NeudrUck besorgt v. H. Schone, Leipzig-Berlin 1914, p. 41.

G. Ricciardelli Apicella

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ist, da er nicht aufhorth Mensch zu sein". J. W. Atkins 5 intende q>LÀ.avitQLÀ.avitQLÀ.avitQnov, ma non pietà e paura, dato che l'una si rivolge all'innocente infelice, l'altra ad un nostro simile. Resta quindi 4) il caso intermedio di un uomo che non si distingua per virtù e giustizia e che da una situazione di prestigio cada nella sventura non per malvagità ma per una ltµaQ't(a: nQCirtovµtv MjÀ.oV O'Ù'tE'toùç bttELXEiç6v6eaç 6Ei µE"ta~aç q:,a(vEoitat M; EÙwx(aç dç 6uOTUx(av, où yàg

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q>O~EQÒ'VOÙ6È ~EL'VÒ'V 'tOU'tO

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J.LLaQOVlatL'V" O'U'tE 'tOÙç

µoxfhigoùç t; àwxtaç dç EÙ't'UX(av,à'tgayq>M'ta'tov yàQ 'toirt' tatì na'V'tùJV,où6èv yàg lXEL 6Ei, ou'tEyàQ q:,tMvftQO>nov oùtE ~Etvòv O'Ù'tEq:,o~EQOV tattv où6' ali 'tÒV aq:,obganovriQÒ'V EÙ't'UX(açdç

rov

t;

btJOTUX(av µE'ta3tLn'tEL'V" 'tÒ µÈV yàQ q>LÀOvftQ003tOV fXOL O'V°ii'tOLa'U'tT) O'Uataatç à)J..' O'U'tElÀ.EOVOU'tE q:,6~, 6 µÈV yàQ 3tEQÌ 'tÒV àvét;tov

lati.V 6UOTUXOU'V'ta, 6 6È 3tEQÌ 'tÒ'V oµo1.ov, lÀ.Eoç µtv 3tEQÌ 'tÒV àvét;1.ov,q:,6~ç 6è nEQÌ'tÒ'Voµotov, ci'xrtEoùtE tÀEEtvòvoii'tE q:,o~EQÒ'V fatai. 'tÒ au~aivov. •o µE'ta;ù liga 'tOU'tùJV À.Oi.n6ç. "Eatt 6È 'tOLOU'toç 6 J.L'tl'tEàgEtjj 61.aq:,ÉQ(l)'V xaì 61.xal.Onov. "EO'ttv 6È 'tomo, mav 6 aoq:,òçµtv µE'tà novrig(aç tl;ana'tT)ttfl, ooanEQI:(auq:,oç, xaì 6 àv6QEioç µtv li61.xoç 6È °iiTITlttfl12 • Questo passo ha suscitato perplessità in quanto q>LÀ.clvftQO>nov è sembrato inappropriato al caso di un ingiusto coraggioso. Ma questa

rov

11

12

Poet. 13, l452b34-1453al0 Kassel. Cfr. Poet. 18, 1456al9-23.

G. Ricciardelli Apicella

890

difficoltà non nasce dal testo di Aristotele, bensl dall'interpretazione di q>LÀav6-Q0>3tOV come simpatia umana anche verso il malvagio. Ritenere 'tQLÀav6-Qro3'tov una nota marginale, come fa 13 14 Else , seguendo un'ipotesi di Gudeman , è azzardato e dovrebbe inche non renda necessavogliare ad un'interpretazione di q>LÀav6-QLÀav6-Q0>3tOV nell'estetica aristotelica del dramma. Posso solo ribadire che, se si parte da un'idea preconcetta del piuttosto che dall'interpretazione dei passi aritermine q,ù..av6-QO>XOV stotelici, si vedranno facilmente incongruenze nella Poetica e si proporrà di correggere o espungere quanto non si adatti a quell'idea. Quando una parola sembri determinare una certa contraddizione, è proprio Aristotele 17 ad ammonire affinché si esamini in quanti modi quel termine, in quel contesto, significhi qualcosa. E ancora 18 , a non fare come i critici che assumono illogicamente certe posizioni traendone deduzioni, per poi rimproverare l'autore di aver detto ciò che essi credono, quando questo sia contrario alla loro opinione. I drammi lodati in 18, l 456a22-23 sarebbero, secondo il Lamberton 19 , quelli in cui "devious or criminal characters endowed with some redeeming positive quality are defeated" e andrebbero stranamente assimilati a quello rifiutato in 1453al ss., che avrebbe 'tÒ q>LÀav6-Q0>3tOV senza V-Eoçe q,6~ç, e che perciò costituirebbe qualcosa di distinto dalla tragedia. Ma, seguendo il testo aristotelico, capovol-

13

Cfr. Else, op. cu.p. 548.

14

Cfr. A. Gudeman, Ari.s~~-

15

Cfr. Gudeman, op. cu.p. 239 s. Cfr. Lamberton, art. cu.p. 96 s. Poet. 25, 146la31 88. Poet. 25, 146lbl 88. Lamberton, art. cu.p. 96.

Ileel

325. 16

11

18 19

XOLTJ't'LXijç, Berlin

und Leipzig 1934, p.

Ancora sul cpl.À.a'V&Q(l)ffl>V nella Poetica di Aristotele

891

gerei la descrizione dei caratteri ritenuti idonei in l 456a22-23: non criminali con qualche qualità positiva, bensl un saggio ma cattivo, oppure un valoroso ma ingiusto. Si tratta dunque di un personaggio insieme positivo e negativo. Dicevo nel mio articolo che qui "non siamo troppo lontani da quello che il filosofo aveva detto prima essere il tipo ottimo da presentare in una tragedia", e che comunque, "anche se vogliamo rilevare la differenza che c'è tra un Sisifo e l'eroe tragico ideale, dobbiamo tener conto della parola itauµacnci>ç",con cui si "allude alla sorpresa che lo spettatore prova nel vedere che una persona astuta (e quindi difficilmente ingannabile) viene raggirata, o che una persona valorosa (dalla quale perciò non ci aspetteremmo che vittorie) viene sconfitta" 20 • Il caso di Sisifo, infatti, non è citato quando si discute del personaggio ideale di una tragedia, ma quando si parla di come raggiungere l'effetto tragico e si introduce l'elemento sorpresa 21 • Aristotele ammonisce a non comporre una tragedia quasi fosse un poema epico, con molte vicende, poiché la dimensione del dramma non lo consente 22 • Nei drammi l'effetto desiderato si può raggiungere grazie 23 alla sorpresa (itauµacnci>ç) : è infatti sorprendente che un astuto sia ingannato o che un valoroso sia sconfitto. È una difficoltà un po' affine a quella che è stata indicata in 14, 1454a4 ss., dove viene definito XQO'tLertOV il caso di chi sta per agire nell'ignoranza, ma poi viene a sapere e non agisce più. Anche qui sembra esservi una contraddizione con quanto detto prima, e cioè che è preferibile il passaggio dalla felicità alla sventura, ovverosia il caso di uno che agisce non per cattiveria

20

Ricciardelli, art. cil. p. 395. Questa mia spiegazione è ora condivisa da J. Moles, Phoenù, cil. p. 330. 21 G. F. Else (op. cit. p. 548) giudica ftauµacnciJç "a wholly implausible outburst of enthusiasm on the part of Aristotle". Ma va tenuta presente la spiegazione di A. Rostagni (Aristotele. Poetica, Torino 19452 , p. lll): ftauµacnroç "non significa 'benissimo', 'mirabilmente'; bensl ha un valore tecnico pregnante: 'mediante l'uso del 6auµaat6v', cioè del !lorpreNknu". 22 Poet. 18, l456al0 ss. 23 Secondo D. Lanza(Aristotele. Poetica, Milano 1987, p. 182 n. 5) non è chiaro il legame con quanto precede. Ma vd. C. Gallavotti, Aristotele. Dell'arte poetica, Milano 1974, p. 165: "È chiaro il collegamento logico di questo paragrafo con il precedente: mentre l'epopea desta attenzione e interesse mediante lunghi e svariati episodi intercalati, la tragedia è breve e concentrata, perciò deve ricorrere a una diversa maniera (quella del ftaul,l,(lO'tç) che corrisponde alla propria natura, 'tQ.u6µEVoçoùbèv a'to1tov 1tOLEi.v). cattivo addirittura non sembra in amicizia neppure con se stesso, poiché non ha in sé nulla di suscettibile d'amicizia (Où bT)cpa(vetaL 6

cpaii>.oçoùbè 1tQÒçtau'tòv cpt>.txooç btaxEtoaat btà 'tÒ µTJbÈ'V lXELV q>L).TJ't6V )28 •

24

Premesso che si può agire o non agire, sapendo o non sapendo (Poet. 14, 1453b27 ss. ), abbiamo queste possibilità: a) il personaggio sa e agisce (Medea); b) non sa e agisce (Edipo); c) non sa e sta per agire, ma viene a sapere e non agisce (Ifigenia); d) sa e non agisce (Emone). 25 Cfr. U. Galli, 'Il concetto di q>LÀ.aV'&Qt.Àtlv6Q:JtOV nella Poetica di Aristotele

893

Eppure q>I.Àavitgoo,iovcome "sentimento di umanità" rivolto anche ai malvagi è interpretazione diffusa. Nel lessico della Poetica di Aristotele il Wartelle 29 spiega q>LÀ.avitgoo,ioç:"qui aime les hommes, qui a des sentiments d'humanité", senza precisare o menzionare altri possibili significati. La ragione per cui la maggior parte degli studiosi segue tale interpretazione risiede indubbiamente nel fatto che questo è il significato "normale" della parola. Scrive il Nicev 30 che intendere 'tÒ q>I.Àavitgoo,iovcome un sentimento di giustizia è paradossale, poiché a questo termine verrebbe così conferito un senso che esso non ha, che non è attestato dalle fonti, e che nessun testo di Aristotele ci suggerisce. Secondo il Nicev 31 il q>LÀ.avitgoo,iovè il sentimento intermedio fra gli estremi opposti di ÉÀ.Eoçe VɵEOLç(come ò.vbgE(a è il mezzo tra q>6~c; e {}agooc;) e, come ÉÀ.Eoçdesigna la compassione per un uomo che soffre senza colpa, così q>LÀ.avitgoo,iovdesignerebbe una compassione umana anche per un uomo che merita di soffrire. Ma tale valore di q>LÀ.avitgoo,iov,se accettato, indicherebbe un sentimento estremo, e il mezzo sembrerebbe piuttosto essere EÀ.Eoç.Che q>LÀ.av{}goo,iov(o q>LÀ.av{}goo,i(a)e EÀ.Eoçtalora vadano insieme 32, talora non agiscano in sintonia 33 non deve creare difficoltà: l'amore dell'umanità e la pietà vanno ovviamente d'accordo, ma nei riguardi di un malvagio è.filantropico godere della sua rovina34 • Ciò che dunque creava imbarazzo a Gudeman e Else nel passo di 18, 1456a21 35 va rivisto nel senso che q>LÀ.av{}goo,i(aè sì la partecipazione al destino dell'umanità, ma non del singolo che con il suo agire si sia messo fuori e contro l'umanità stessa. Un passo di Demostene (21, 57) indica quale era per il Greco di allora la vera q>LÀ.av{}goo,i(a.Midia ha oltraggiato un corego e deve pagarne la pena: non serve a niente, osserva l'oratore, che leggi xaÀ.ci>çxal q>LÀ.avitgc.o,iooç ... U3tÈQ 'tci>v,ioUci>v KEicrfraL, se poi, nel giudicare, gli Ateniesi non si adireranno contro quelli che disobbediscono e le viola-

29

A. Wartelle, Lexique ~ la "Poétique" d'Aristote, Paris 1985, p. 161 s. v.

q)LÀ.a'V6Q(.OffOç. 30

A. Nii!ev, La catharsis tragique d'Aristote, Sofia 1982, p. 29. Nii!ev, op. cit. p. 37. 32 Vd. Aristot. De virtut. et vit. 5, 1250b31 ss.; Dem. 25, 76 e 81; cfr. K. J. Dover, Greek Popular Morality, Berkeley and Los Angeles 1974, p. 201. 33 Cfr. Poet. 13, 1453a2 ss. 34 Cfr. Aristot. Rhet. 2, 9, 1386b26 ss. cil. sopra. 31

35

Vd. sopra, p. 889.

G. Ricciardelli Apicella

894

no. Dunque è filantropica una legge che prevede la punizione del colpevole. Nell'orazione contro Leocrate, Licurgo si augura che l'utile c6mpito di denunciare i trasgressori delle leggi venga giudicato q>LÀ.avftQoo:rtov da parte della moltitudine 36 , e aggiunge (2, 6) di ritenere che i delitti commessi contro la comunità contengano in sé anche ragioni comuni di inimicizia nei riguardi dei colpevoli. Insomma, bisogna mirare al vantaggio della comunità 37 : che questo costi la caduta del singolo, che sia anche un malvagio, è giusto. Che la q>LÀ.avftQoo:rt(a debba privilegiare la massa rispetto al singolo e rivolgersi solo ai buoni emerge anche da alcuni passi di Isocrate: in 15, 276 i soggetti elevati, belli e q>LÀ.avftQOO:rtOL sono quelli che toccano l'interesse generale; in 2, 15 si dice che bisogna essere q>LÀ.avftQOO:rtoç; e q>LÀ.6:rtOÀ.Lç;, e che durano di più quei governi che servono con zelo la massa (:rtÀ.fjfroç;).Non a caso, forse, negli oratori q>tÀ.avftQOO:rtoç; si colora di un valore politico, applicandosi alle prescrizioni democratiche, contrapposte a quelle oligarchiche 38 • Ancora in Epist. 5, 2 Isocrate loda Alessandro, come q>tÀ.avftQOO:rtoç;, q>LÀ.a'fhlvatoç; e q>LÀ.6ooq>ç; non ciecamente ma sensatamente, in quanto non riceve persone biasimevoli ma solo quelle giuste. Dunque q>LÀ.avftQOO:rtoç;, proprio perché "amico dell'umanità", è chi deve tutelarla nel suo complesso, contro colui che vuole nuocerle, e quindi è q>LÀ.avftQoo:rtoç; chi punisce il colpevole e chi gode della sua rovina. Ma, soprattutto nell'epoca di Aristotele, il valore di q>LÀ.avftQoo:rtoç; si amplia per includere quello di "gradito", "che soddisfa", "che piace". Ciò, non a caso, è evidente soprattutto negli oratori, dove, come nel teatro, bisogna fare i conti con la soddisfazione del pubblico 39 • In Demostene (18, 298) la q>LÀ.avftQoo:rt(a ).fyyoovè l'amabilità delle parole, il loro riuscir gradite in quanto umane. Ancora più chiaro è l'uso in 24, 156: tT)V... toù 6v6µatoç; q>LÀ.avftQOO:rt(av è la popolarità della parola "legge" (v6µoç;)40 ; in 19, 95 la difesa della pace, in

36

Lyc. 2, 3. Cfr. G. Finsler, op. cii. p. 125 s. Dice giustamente il Pohlenz, art. cii. p. 59: "In dem Worte cp~ hèirt diese Zeit schon stark den Begriff dea Kollektivums Mensch". Anche W. Schadewaldt ('Furcht und Mitleid', Herma 83, 1955, p. 137) parla di "menschliche Gesellschaft". 38 Cfr. Dem. 24, 24. 39 Cfr. Ricciardelli, art. cii. p. 390. 40 Cfr. Dem. 45, 4 cpllav{tQtÀ.avftQO>:Jt(a, quando sono usati nel campo Spesso q>tÀ.avftQ0>:1toç del parlare e dell'ascoltare, hanno un valore solo apparentemente positivo: questo è naturale, poiché l'amabilità delle parole volentieri non trova rispondenza nelle azioni. Ovviamente anche l'atteggiamento può essere fittiziamente amabile. I politici che vogliono piacere debbono mtxag(-rroç xal q>tÀ.avftgro:1troç ... xal À.ÉyOV'teç xaì. mostrarsi 41 • Demostene presenta :JtQO't'tOV'teç Filippo come uno che agisce q>LÀ.avftQW:JtLÀ.avftQO>:JtW6µevoç (19, 139). Alcidamante osserva che chi è abituato a preparare minuziosamente i propri discorsi, quando passa a quelli improvvisati non riesce a praticare un'oratoria agile e piacevole: irygçxaì. q>tÀ.avftgwxroç µe-raxetg(teaftat -roùç )..6yovç42 • Anche qui q>tÀ.avftgro:1troç si avvicina al significato di "piacevolmente". Sempre nel campo dell'elocuzione, si può ricordare Dionigi d' Alicarnasso, che dice che Demostene si è forxaì. q>tÀ.avftgro:1tov 'tT)VtgµT)vdav 43 • La lingua di Platone giato XOLYr)V 44 b-r6:itroç T)beia fatt xal q>LÀ.ClvftQ0>:1toç : Platone infatti ricerca un vocabolario corrente ('tT)V... xot v6'tf)-ra... -rvòvoµa-rrov) e mira alla chia45 rezza (aaq>11vetav) • È interessante notare come q>tÀ.avftgroxoçnella retorica volentieri si accompagni a Y)buçe xotv6ç. In Eschine (3, 248) -rv òvoµa-rrov. uomini malvagi si arrogano 'tà xotvà xaì. q>tÀ.avftgro:1ta

41 42

lsocr. 15, 132.

Alcid. 1, 16. Secondo W. Silss (Eù,,m.Studien zur i:i/.teren griechischenRhetorik, Leipzig und Berlin 1910, p. 95) cpllavitQ(imwçqui è un terminw technicw. A proposito di questo passo scrive J. Vahlen ('Der Rhetor Alkidamas', Sitzun.gsber. d. p~.-hi.st. Classe d. Akad. d. Ww.Wien 43, 1863, p. 527): cptlavftQc; "ist natilrlich nicht durch 'menschenfreundlich' zu ilhenietzen, sondem bezeichnet die den Zuhorer gewinnende und ansprechende Weise zu reden, dem lateinischen 'blande' entsprechend". 43 Dion. Hai. Demmth. 5, 33, 3. 44 Dion. Hai. Demmth. 5, 5, 2. Cfr. P. Geigenmilller, Quaestiones Dionysianae de vocahuli.s arti.s criticae, Lipsiae 1908, p. 16. 45 Dion. Hai. Denw&th. 5, 5, 3.

G. Riccianlelli Apicella

896

Plutarco userà volentieri questo aggettivo: q>LÀavftQLÀavftgoo:n:ov mamente, infatti, l'affermazione di Lamberton 51 sulla radicale separazione che Aristotele istituisce tra estetica e morale 52 , nonché la sua dichiarazione che la tragedia si muove ai margini della sfera del morale non piace mente repulsivo. Ciò che non risponde a giustizia è µtIÀClvftgoo:n;ov!). immeritate non significa che la tragedia sia immorale, ma solo che è uno spettacolo di vicende dolorose e tristi; sarebbe immorale e repellente (µLaQ6v!) se si concludesse col trionfo del cattivo. In definitiva, 'tÒ µLaQOVe 'tÒ q>!Àavftgoo:n;ov sono praticamente opposti: l'aveva riconosciuto U. Gallis.3, lo ribadiscono M. E. Hubbard 54 e R. Stark.55 , che 46

46

47 48

Plut. Cleom. 13, 4. Plut. Cic. 47, 7.

Plut. De mus. 12, 1135d. F. Lasserre(PluJarqut!.De la musi,qut!,OltenLausanne 1954, p. 162) qui rende q>wiviteumov "digne d'un sentiment d'affection". 49 Plut. Sol. 15, 2. 50 Plut. Lyc. 16, 12. 51 Cfr. Lamberton, art. cit. p. 98. 52 Su questo problema vd. le osservazioni di A. Rostagni, op. cit. p. XL s. (riprese da M. Pittau, La Poetica, Palermo 1972, pp. 42 e 213) e di J. Moles, art. cit. p. 334 s. 53 Cfr. U. Galli, art. cit. p. 244 n. 1 e p. 253. 54 Cfr. M. E. Hubbard, in D. A. Russell e M. Winterbottom, Ancient Literary Crilicism, Oxford 1972, p. 106 s. n. 2. 55 Cfr. R. Starle, op. cit. p. 108.

Ancora sul cpl.À.aV6Q(.01tOV nella Poetica di Aristotele

897

peraltro interpreta q>LÀavftQro,tov sulla scia di Lessing 56 • Ci si può chiedere perché il caso di un uomo né particolarmente buono né cattivo 57 , quale è Edipo, susciti, oltre che pietà e paura, anche 'tÒ q>LÀ.avftQro,tOV. La spiegazione va cercata nella llµaQ't(a di Edipo: le sue azioni sono state imprudenti, anche se commesse nell'ignoranza, e, soprattutto, sono comunque talmente orribili (incesto e parricidio) da richiedere un'espiazione. Non credo infatti che la colpa di Edipo non consista nell'incesto e nel parricidio, bensl nell'empietà verso il sacerdote 58 • Seppure involontaria, una colpa esige una pena: è un modo di ristabilire l'ordine e l'equilibrio compromessi. Scrive il Moles59 che deve esserci un certo squilibrio fra le azioni del personaggio tragico e il suo fato per suscitare la nostra pietà. Direi però che, se di squilibrio si vuole parlare, questo viene colmato dalla gravità della colpa che, seppure causata da una llµaQ't(a (per cui il personaggio è in certa misura non colpevole e quindi degno di pietà), di per sé abbisogna di una durissima espiazione. Secondo il Lucas 60 'tÒ q>LÀ.avftQro,tOV è "a desirable element" (cfr. rovbei, 13, 1452b38) nella tragedia, ma meno importante di lì..Eoç e cp6fk>ç,e che non richiede purificazione. Direi piuttosto che senza V..eoçe cp6~oç non si ha proprio una tragedia, dato che la tragedia, per definizione, è mimesi di un'azione seria e compiuta, che attraverso

56

Vd. sopra, n. 7. L'osservazione di G. F. Else (p. 396 s.) che 'tÒ µLaQOV e 'tÒ cpv..avi>QQI.À.avitQO>ffOVnella Poetica di Aristotele, scarta l'interpretazione di Lessing e mostra di aderire maggiormente all'altra, ma osserva che non vi sono paralleli per l'uso di q>I.À.avitQO>ffOVcome soddisfazione per la sofferenza di un colpevole 64 • Egli cosl argomenta 65 : dei quattro aggettivi usati da Aristotele nel cap. 13 per censurare o approvare, Uu1.v6c;e q,o~EQ(>c; si riferiscono direttamente alla risposta del pubblico (a&>c;e q,opoc;);µ1.aQ(>c; si riferisce solo indirettamente alla risposta del pubblico (ripugnanza, disgusto), che non è identica a 'tÒ µiaQ6v, hensl ne è un risultato naturale. E possibile, conclude il Carey, che anche q,tlav&QO>n:oc; vada interpretato allo stesso modo, sicché 'tÒ q>I.À.avitQO>ffOV come 'tÒ µ1,aQ6vsia "a quality in the plot, not a quality in the audience". Da un punto di vista linguistico è evidente che Aristotele usa i quattro aggettivi ora riferendoli all'intreccio, al caso prospettato, ora sostantivati per indicare una qualità che l'intreccio possiede o non pos-

61 62 63

Vd. P~t. 6, 1449b24 88. Cfr. Lamberton, an. cit. p. 97.

Il Lamberton (an. cit. p. 97) suggerisce che Aristotele includa il cpù..avftQ'Y solo come conceBSione al cattivo gusto del pubblico. Ma questo Aristotele non lo dice, mentre parla della "debolezza" del teatro a proposito dell'amore per un doppio finale, buono per i buoni e cattivo per i cattivi (13, 1453&34). Secondo il Moles (an. cit. p. 334) Aristotele rifiuta la "doppia trama" a) perché la doppia storia di88ipa l'effetto dell'emozione; b) perché il "lieto fine" fa al che non vi siano abbastanper za pietà e timore; c) perché la "doppia trama" soddisfa troppo 'tÒ cpù..avftQLÀavitQç;) sia l'aggettivo (~Lv6v, cpo~Ee6v),mentre negli altri due solo l'aggettivo, sostantivato o no; ma questo non è influente. Osservazioni linguistiche a parte, per quanto riguarda q>LÀavitQLÀavitQLÀavitQLÀavitQLÀaVitQWffOVsecondo A. Rostagni (op. cit. p. XL s. n. 4) sfugge completamente il valore del concetto; cfr., dello stesso autore, 'Aristotele e l'aristotelismo nella storia dell'estetica antica', Stud. it.jiu,l. n. s. 2, 1922, p. 9 n. 4, risi. in Scritti minori I, Aest~tica, Torino 1955, p. 85 s. n. 4. 69 Cfr. Carey, art. cit. p. 138. 68

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Questa opera è stata pubblicata con il contributo delle seguenti istituzioni: CONSIGUO NAZIONALE DELLE RICERCHE UNIVERSITÀ DI LECCE UNIVERSITÀ DI URBINO

PARTE TERZA

LETIERATURA ELLENISTICA

lperdorismi callimachei e testo antico dei lirici (Call. Hy. 5, 109; 6, 136) Albio Cesare Cassio

È noto che tutta la tradizione degli Inni di Callimaco dipende da un archetipo perduto in minuscola, probabilmente posteriore alla seconda metà dell'undicesimo secolo, designato con la sigla 'P, che conteneva anche gli inni omerici, quelli di Proclo, quelli di 'Orfeo' e le Argonauti.cheo,ftche1• Nella sua recente edizione commentata dell'Inno Per i lavacri di Pallade 2 , scritto come il successivo in una coloritura dialettale dorica 3 , A. W. Bulloch dedica una sezione dell'introduzione al tema "'P and Doric" (p. 74 ss.); in essa esamina in che modo la coloritura dialettale si era conservata nell'archetipo. Com'era prevedibile, esso offriva un testo in cui molte forme erano normalizzate sia nella direzione della lcoinéche in quella del dialetto letterario epicoionico dell'esametro e dell'elegia (cfr. e. g. 21 "HQTt,che può essere esclusivamente ionico). Fatti di questo genere sono normali sia in testi poetici che in prosa dialettale (p. es. falsi pitagorici, Archimede, ecc.) 4 • In un solo caso, secondo Bulloch p. 75, 'P mostra una corruzio1

R. Pfeiffer, Callimachw II, Oxonii 1953, pp. LV-XCI; A. W. Bulloch, Callimachw, TM Fifth Hymn, Cambridge 1985, pp. 68-76. 2 Vd. nota precedente. 3 Non sembra esserci molta concordia tra gli studiosi moderni sulle ragioni per cui Callimaco ha usato il dorico in certe composizioni e in altre no e sul tipo di dorico utilizzato. Vd. la discu88ione di Bulloch, op. cil. p. 26 88. e di N. Hopkinson, CaLlimachw, Hymn to Demeter, Cambridge 1984, p. 43 ss. Secondo C. H. Ruijgh ('Le dorien de Théocrite: dialecte cyrénien d'Alexandrie et d'Egypte', MMmosyne 38, 1984, pp. 56-88, spec. p. 60) Callimaco di Cirene, "fier de sa patrie", avrebbe composto gli inni quinto e sesto "dans un dorien de couleur cyrénienne". A parte il giudizio sulla tesi generale di quell'articolo, molto affascinante ma molto ipotetica, non si capisce per quale ragione, se le cose stessero come dice Ruijgh, non dovrebbe essere in dorico l'Inno ad Apollo, cosl cirenaico nell'ambientazione e nel tema. 4 Vd. p. es. per Eroda I. C. Cunningham, HerodasMimiambi, Oxford 1971, p. 18 "a certain amount of dialectal normalization" in P; per Archimede vd. J. L. Heiberg, Jahrb.f. class. Philol. Suppi. 13, 1884, pp. 543-566; importante anche una testimonianza tardoantica, quella di Eutocio, in Archim. 3, 132, l ss. Heiberg, su

904

A. C. Cassio

ne inversa, cioè una forma iperdorica che Callimaco non potrebbe avere scritto: si tratta del v. 109 "where it is difficult to accept that Callimachus himself wrote ll(ia'tav". Di conseguenza, Bulloch stampa nel testo 1'fia'tav. In sé la possibilità di restituzione di forme dialettali, vere o pretese tali, da parte di un copista dotto antico o medievale non fa nessuna difficoltà; dorizzazioni secondarie sono sicuramente presenti p. es. nella tradizione di Teocrito ed in quella di Pindaro 5 ed 'abbellimenti' dialettali sono stati sicuramente operati sul testo di Archita nella prima età imperiale 6 • Stupisce un po' in questo caso che in tutto l'inno ci sia un solo esempio di questo modo di procedere; e tuttavia se ci fossero delle prove davvero forti contro l'autenticità di ll(ia'tav una correzione sarebbe inevitabile. Queste prove a mio parere non esistono, e penso non sia inutile dedicare una breve discussione al problema (sul quale, a quanto mi consta, nessun recensore di Bulloch si è soffermato) anche perché esso ha una rilevanza maggiore di quella del caso specifico in esame, e spesso gli editori in casi del genere o tacciono o si comportano in maniera contraddittoria 7 • I dubbi sulla legittimità di ll(ia'taç; nascono dal fatto che nei dialetti dorici ~fiaed 1'fiarosembrano le uniche forme attestate (Bulloch p. 220), ed è esattamente quello che ci aspettiamo dato che ~PTI deriva da yétra8. Dopo aver affermato ibid. che ll(ia'tav in Hy. 5, 109 "is probably the result of 'improvement' by a scribe" Bulloch aggiunge alla n. 3 che nello stesso modo anche le forme a(ia ed 6vafk>ç;in Theocr. 1, 44; 5, 87 ed 8, 3 sono "surely scribal hyper-Dorisms" e rimanda ad A. testi di questo autore che conservavano parzialmente

ff1V•AeXLl'T16EL cpO..TfY 4«

y"J..ioooav. Sui testi pitagorici in dorico vd. ora l'ottimo lavoro di A. Stidele, Di.eBriefe da Pythagorw und der Pythagoreer, Meisenheim am Gian 1980, pas,im (apec. p. 220 88.). 5 B. Foruman, UnursuchlJl'lfenzur SprachePindars, Wiesbaden 1966, pp. 3741; C. Gallavotti, 'Nuovi papiri di Teocrito', BoU. dei clauici a. III 5, 1984, pp. 1-42, apec. p. 27. 6 Vd. il mio 'Nicomachua of Gerasa and the Dialect of Archytaa, fr. l', Clau. Quart. 38, 1988, pp. 135-139. 7 Sia Wilamowitz (Callimachi Hymni et Epigrammala, Berolini 1907 3 ) aia Pfeiffer (op. cit.) accolgono 6'3a'tav senza che dalle loro edizioni appaia che esiste un nella sua problema in proposito. Da notare che lo stesso Wilamowitz stampò lrvYJjk,v edizione dei BucoliciGraeci(Oxonii 1910) in Theocr. 5, 87, dove tutta la tradizione ha &vajk,v. 8 H. Frisk, Griechische& Etymologische& Worterbuch,Heidelberg 1973, a. v. i\fhl.

lperdorisrni callimachei e testo antico dei lirici

905

Fick, Bezz. Beitr. 3, 1879, p. 126, ed a Ch. D. Buck, The GreekDialects, Chicago 1955, p. 179 s. 9 • Fick affermava che in Teocrito si deve ecc., "da diesem Meister ein so arger Schnitzer correggere livri'3ç auf einer jilngern aeolischen affectirt alnicht zuzutrauen ist; fq,a'3ç terthilmlichen lnschrift von Kyme ist ein Fehler" 10 • Quanto a Buck, egli si limita ad affermare in generale che l'attico fcpripaç"was sometimes given the pseudodialectal form fq,apaç, e. g. in some late Doric and Lesbian inscriptions, in imitation of the frequent equivalence of dialectal V sia la spiegazione, introdotta, come è normale, da i\'youv. 24 /. G. XII 5,911, ricordata da Forssman, op. cii. p. 68 e n.l; anche secondo Foruman &fkxera "sprachlich real" nei dialetti dorici.

A. C. Cassio

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prodotti in una lingua antica che ignoriamo totalmente a livello parlato e che conosciamo a livello scritto in maniera limitata a causa della perdita materiale di una quantità enorme di testi. Alcuni iperdialettismi potrebbero benissimo essere stati fenomeni di lingua parlata (e forse avere talvolta una matrice popolare, come vuole Ruijgh) che si sono affermati ad un certo punto anche nella letteratura 25 • Non è peraltro da escludere la possibilità di influssi di forme ipercorrette di altri dialetti, testimoniate in testi letterari di prestigio, cui non saranno stati insensibili soprattutto dei poetae cl«ti. Ritornando al nostro caso partisi leggevano colare mi riferisco al fatto che le forme di afkxe afkxµL nelle edizioni alessandrine dei poeti eolici. Non è chiaro fino a che punto debbano considerarsi iperdialettismi dovuti agli autori e non invece agli editori; comunque erano le forme che Callimaco e Teocrito leggevano in quelle edizioni e che ritenevano autentiche (Teocrito usa . effettivamente afkxin una delle sue composizioni in eolico, 30, 20)26 È certamente superfluo rammentare in questa sede quale sia stato l'influsso della tradizione poetica di Lesbo e quindi del dialetto eolico d'Asia sul dorico della lirica corale, l'esistenza di teorie probabilmente già alessandrine sull'unità originaria di dialetto eolico e dorico27 e la presenza nella poesia ellenistica in dorico di elementi dialettali presi dall'eolico di Saffo e Alceo (basti pensare alla Conocchiadi Erinna o al settimo Giambodi Callimaco)28 • 25

È molto probabile siano autentici i numerosi iperdorismi di Archimede, autore di opere tecniche il cui dorico non ha mai interessato i lettori antichi, cui importavano esclusivamente i contenuti, e quindi neppure i grammatici; di conseguenza nessuno aveva interesse a fare conezioni per restituire un dialetto conetto o preteso tale: vd. H. L Ahrens, De Graecaelinguae diakctu Il, Gottingae 1843, p. 22 e Heiberg, art. cù. p. 545. 26 Sul problema vd. E. M. Hamm, Grammatikzu Sappho und Alkai.os, Berlin 1957 (Abh.Akad. Ww.Benin 1951 nr. 2, 25 par. 51); A. Braun, Il contribuwO'E1 cpuatwv 6xwc;l'Tl'tÒV'tQ(tJuÀ.fi)". S. A. Naber, editore del Lessico,annotò: "Uter Aristophanes intellegatur, non pro certo dixerim". Ma Qiiotç si trova usato in questa accezione in un passo delle Vespe, dove il coro dei giudici lamenta (vv. 1091-1098): Ero terribile allora: non temevo nulla; e sottomisi i nemici, navigando colà con le triremi. Non ci si preoccupava allora di recitare un bel discorso (QijOLv À.ÉçELV), né di fare il sicofante ma di chi sarebbe stato più bravo a remare (trad. di G. Mastromarco),

w

e le commedie di Aristofane abbondano di riferimenti (tutti polemici) 9 all'attività "parlamentare" dei Qfi'toQeç5 • Soprattutto interessante per noi è un passo delle Tesmoforiazwe (v. 373 ss.). Qui una donna in funzione di araldo convoca le altre (v. 373: lixoue ,iaa' ~ Cali. la. 1, 1: àxouoait') all'assemblea (v. 375: bxÀ.fJo(av) nel giorno centrale delle Tesmoforie, "quando abbiamo più tempo" (v. 376: ~ µéù..toit'T)µiv CJXOÀ.'fl; cfr. la. 1, 33-34: xal yàQ oùb' aù't6ç / µéya oxo>..a~oo); domanda quindi chi vuol parlare (v. 379: 't(ç àyoQEUELV jX>uÀ.E'tat;). Una donna si fa avanti, e l'altra allora ammonisce (vv. 380-382): Silenzio! Taci! Attenzione (nQwv'tm.

M. R. Falivene

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tragedia (ét'JOELç µav6(xvELV)e mentre li recita al simrsio naoà mnov) se li dimentica (btù..av6avta6aL) . )J:yOJV

(tairtaç

Alcuni secoli dopo, la lettera di Amano a Lucio Gellio, premessa alle Diatribedi Epitteto, illustra il modo in cui la trascrizione era praticata nell'ambito di una scuola filosofica: Per le cose che ho udito dire da lui mi sono sforzato, trascrivendole per quanto possibile con le sue parole esatte, di conservare per me stesso memoria scritta del suo pensiero e della sua franchezza nel parlare. Com'è naturale, quindi, questi appunti hanno il carattere di una conversazione spontanea fra una persona e un'altra, e non di una redazione compilata in vista di futuri lettori 66 •

L'invito a "scriversi il discorso" che "lpponatte" rivolge ai filosofi (o filologi) alessandrini li fa apparire come discepoli ormai adulti 67 , dal cattivo carattere e dalla memoria ancor peggiore.

4. I livelli dell'imitazione Che entrambe le definizioni offerte nel Lessicodi Fozio appaiano adeguate alla Qijcnçdi "lpponatte" è possibile in quanto esse la riguardano a livelli diversi. In termini mukafovskiani 68 , diremo che la/orma dell'espressioneimita in scrittura una Qijcnçin senso teatrale (discorso di "lpponatt~ redivivo" inscenato dall'autore Callimaco nel metro e nel linguaggio appropriati); la materia del contenuto, invece, imita la Qijoiç in senso retorico (discorso di un oratore di fronte a un pubblico, a fini di ammonizione e persuasione) di un retore / filosofo ad Alessandria, presso il Serapeo fuori le Mura. Su questo livello, Callimaco riproducecon verisimiglianzaun'occasione certo comune nella sua città di adozione. La critica stenta talora a distinguere fra questi diversi livelli. In particolare, alcune interpretazioni tendono alla individuazione imme-

65

Theophr. Charact. 27, 2. Epilt. Lucium Gellium, H 2-3: ·0oa 6t ~ aircou ~. -iairta aircà bei.eaihJv aircoic;ch-61.&affl,v mc; olov n ~ yea,paµevoc; ~ffl>µv,\µmaetc;ilcneeov t,.&avt 6Lçavftat ooiiah IldaoyLal'>Eç(appello a intraprendere l'azione rituale). Analoghe forme iUSBiveai trovano anche nei primi vel'lli, mimetici, dell'Inno II (vedi i vv. 2 txàç txàç oonç cllne6ç e 8 ol l'>èvtOLµo~ n xat tç XOQÒV tvn'.rvaaftE),ma non sono in incipit. Tra l'altro, a prescindere dalla posizione incipitaria, l'apostrofe al pubblico era un fatto estraneo alla tradizione dell'innodia 'omerica': come opportunamente nota E. L Bundy, Calif. Stud. Clau. Ani. 1, 1972, p. 83, "in generai the homeric hymns do not openly display awareneu of auditol'II other than the god", mentre invece "in the hymns of Callimachus, which owe much to the rhetoric of choral poetry, the poet's conaciouaneu of an assembled audience (whether their presence is real or imagined) is at time fully evident".

~

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divina: vedi n. 23), ma è solo nella lirica corale ieratica che tutti quanti trovano possibili modelli. Gli elementi degli Inni V e VI che a me paiono più decisamente disgiuntivi rispetto all'innodia "omerica" e più probabilmente congiuntivi rispetto alla lirica ieratico-cerimoniale sono, oltre 1) alla scelta del dorico e 2) all'incipit apostrofico-iussivo, cui già si è accennato, 3) la costanza dell'epifania divina; 4) il dualismo, espresso in una serie di prescrizioni sullo svolgimento del rito, fra poeta-corifeo-'maestro di cerimonia' (persona loquens) da una parte e dall'altra ministre del cultocoreute (kopha prosopa); 5) il tenore espressivo deittico-pragmatico. Certo nessun inno "omerico" attesta il motivo dell'epifania divina presentata come un evento che si attua contemporaneamente alla performance. Invece in un partenio di Pindaro (il II, fr. 94b Maehler) si parla di Apollo come giunto a partecipare al dafneforico in suo onore 18, e in un ditirambo dello stesso Pindaro (il secondo per gli Ateniesi, fr. 75) gli Olimpi si immaginano scesi nell'agora di Atene, spettatori della festa per Dioniso 19 • Anche un hymnos lirico20 di donne elee in onore di Dioniso (PMG871 P.) contempla un espresso invito al dio perché scenda assieme alle Cariti nel suo tempio in città 21 • Del resto la teofania di Apollo (che per l'esattezza veniva intesa come un ritorno dalla terra degli lperborei) 22 era regolarmente contemplata nelle feste delfiche per Apollo note come Theoxenia, e un esplicito appello in questo senso è attestato in due peani epigrafici rinvenuti a Delfi: quello di Filodamo di Scarfeia per Dioniso, scritto nel terzo-quarto decennio del IV sec. a. C., 18 V. 3 8. ijxE]Lyàe 6 [A~)(aç; / 11]e(6Jq>Qv 1:' dnù.t' à.yoe(rv. 20 Probabilmente la parte corale di un ditirambo rituale di tipo archilocheo, destinata ad accompagnare una processione, cfr. J. L. Melena, Tabona 4, 1983, p. 196. 21 'E>.hiv ileo> ALOVVO'E I •AA.Etrov tç;vaòv / ayvòv oùv XaehEooLv/ tç;vaòv / 1: Ptq> JtOOt6urov, / &!;LE TaiiQE,I &!;LE TaiiQE. 22 Secondo il racconto di Imerio, Or. 48, 10. Anche Alceo avrebbe celebrato questo ritorno, come osserva lo stesso Imerio subito sotto (307c Voigt): ~ µtv ow ~ xat 1:oii atoouç; 1:ò µéoov airt6, otE t~ 'YnEefJoetQOLQC1L, td,evovooaLc;l,&iÀ,E'taL, / a xaUxih:i> xatLOVtoç ÙELCp6ty!;aofn yuvai:XEc;· I "Aaµmee, µtya xai:QE, JtOÀU'tQOCPI! nooAut,Lt6LµVE", v. l s. È pouibile, ma non più che pouibile, che un'analoga apoetro-

fe direttiva f088e rivolta dal corifeo al coro al termine di quanto resta del secondo ditirambo pindarico per gli Ateniesi, il già menzionato fr. 75, se si emenda il v. 19, tràdito nella forma otxvd ti! :IE!,&D.av Uuw:JUM(a xoeo(, in olxvEi:t' le;6ut,Lt).avxtA. (e vocativo) con J. L Melena, art. cit. p. 211 s. In ogni caso Melena ha si intende xoeoL senza dubbio ragione, quando sottolinea che la penona loquens del frammento non è il coro, ma l'autore, visto che ai vv. 7 e 13 "se resalta el papel del poeta procedente de Zeus y las virtualidades que posee, semejantes a las de un manti.I, respectivamente". 31 Cfr. ad es. C. M. Bowra,La lirica greca da Alcmane a Simoni.de(19612), tr. it. Firenze 1973, p. 34 s.; F. R. Adradoe, Orlgines de la luica griega, Madrid 1976, p. 1~.

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corifeo32 • Ed è del tutto certo che in un partenio dello stesso Alcmane (fr. 82 Calarne) le coreute esortassero il loro corego (cfr. a 3, b 2) ancora una volta un uomo: 'AYT'lo(baµ.oç- perché desse il la al loro canto (étQXE 'taJ; ~vµa([vatç .. ])33 • Infine le testimonianze sul ditirambo più antico, e in particolare sul ditirambo al tempo di Archiloco (vedi il fr. 117 Tarditi), documentano al di là di ogni dubbio la presenza di un t;agxrovche dava il la al canto del coro, forse con un proemio citarodico 34 , e in un frammento (116 Tarditi) dello stesso Archiloco l'autore si presenta come t;agxrov anche di un peana. Dunque, se è vero che nella maggioranza dei casi a noi noti la persona loquens della poesia corale non epinicia è il coro stesso, e che la voce del corifeo si leva di rado distinta da esso, è vero anche che non mancano casi di dualismo coro-corifeo35 • Esempi come questi è plausibile che Callimaco ne trovasse ben più numerosi nei testi lirici a lui noti, ma già i pochi noti anche a noi sarebbero stati sufficienti a legittimare un autore come Callimaco che, nell'ambito di un carme recitativomonologico, doveva necessariamente affidare a se stesso come corifeomaestro di cerimonia il ruolo di unica persona loquens, e sulle azioni o sui canti degli addetti al culto poteva solo riferire, o far immaginare di riferire, egli stesso. Anche dopo Sofocle, l'ultimo poeta più noto che sappiamo aver coltivato questo genere, il carme corale destinato ad accompagnare cerimonie religiose continuò a godere di lunga fortuna, che ci è attestata dalle registrazioni epigrafiche, particolarmente copiose a Delfi36 • Ora,

32

Cfr. Antig. Car. Parad. 23 cpYJolv yà.Qllo6evT!ç(jyy l11.àtò Yi\eaç xal toiç xoeoiç oil 6uvaµevoçouµ,tq,Lq,4>Eo6moo6è 'tjj tvn:aefttv(l)V ÒQX~OEL. 33 Cfr. C. Calame, In choeurs, cit. I p. 116 s. 34 Cfr. J. L. Melena, art. cit. p. 192 ss. e ora soprattutto 'La performance di Cineto', cit. di A. Aloni, pp. 129-142. 35 Ai casi già ricordati si aggiunga che con ogni probabilità è distinta dal coro la persona loquens del partenio I di Pindaro (fr. 94a), che parla di sé al maschile (qiLÀ.t(l)V 6' liv E'ÙXOLl'(XV:v. 11) e parrebbe esporre idee personali del poeta (cfr. C. M. Bowra, 'Early Lyric and Elegiac Poetry', in J. U. Powell (ed.), New Chapters in t~ History o/ GreekLilerature. Third Series, Oxford 1933, p. 52). Altrettanto probabilmente andrà attribuita a una prima persona autoriale, non corale, la frase - parrebbe una dichiarazione di poetica - alla fine di quanto ci resta del partenio Il (fr. 94b, v. 76 s.; cfr. L. Lehnus, art. cit. p. 79), nonché la sicura dichiarazione di poetica del peana Vllb (fr. 52h). 36 Un lucido profilo della storia del peana si deve a G. A. Privitera, Cultura e

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proprio il più antico dei peani delfici noti, quello già citato di Filodamo di Scarfeia, è composto di 12 strofette di 13 versi in ciascuna delle quali si ripetono invariati un ritornello centrale (meshymnion) al v. 5 e uno finale (ephymnion) ai vv. 11-13. Del tutto affine risulta la conformazione di un peana per Asclepio che è attestato in ben quattro iscrizioni (con poche varianti; la copia più antica giunta fino a noi è un'epigrafe di Eritre ionica del 360 a.C. circa) 37 , e pare dunque essere stato una sorta di canto ieratico 'standard' per questo dio: 3 strofe di 9 versi ciascuna, nelle quali si ripetono invariati il mesymnion tè Ilauxv al v. 3 e l'ephymnion triIlauxv, 'AaxÀ'lrtLÒV / ba(µova XÀELV6-tatov, / lè Ilauxv, ai vv. 7-9. Si tratta in entrambi i casi di una struttura che, come già opportunamente rilevò il Powell a proposito del peana di Filodamo, "accenna chiaramente a un canto alternato fra il corifeo e la massa corale che intercala al canto di questo ritornello e ripresa" 38 del resto l'interpretazione del Powell è confermata dall'esplicito appello al coro che si trova all'inizio del peana eritreo (v. 1 s.): (IlaLava KÀ.ut6]µ'l'tLV CJE(oa'tE/ [xo'ÙQOLAatotbav "Ex]atov: è logico supporre che il corifeo incominciasse il canto e che gli facesse séguito il primo ritornello cantato dai "giovani" del coro, venivano poi i tre versi narrativo-aretalogici cantati dal corifeo, infine la ripresa del coro alla fine della strofa. Al di là di ogni dubbio, una struttura compositiva come questa attesta la presenza e l'importanza del corifeo: insomma, tra il canto prevalentemente corale della lirica arcaica, ove la voce del corifeo emerge sporadicamente come voce autonoma, e la forma integralmente monologica dei due inni callimachei, ove del coro e delle sue azioni I canti sappiamo solo quello che ne racconta l'autore-corifeo, va detto che il peana di Filodamo, o quello eritreo, stanno per così dire a mezza strada. Ma l'appello ai giovani del coro all'inizio del peana eritreo è anche altrimenti interessante per la nostra indagine. Questa apostrofe iussiva in incipit, la stessa che ritroviamo nei due inni di Callimaco e che costituisce uno dei loro tratti congiuntivi 39 , non ha riscontri nei framscuola 11, 1972, pp. 41-49. I più rilevanti testi epigrafici si trovano raccolti nei CoUectaneaAlexandrina di J. U. Powell, Oxford 1925, pp. 132-173. 37 La copia eritrea è la più antica (ma non la più corretta); ci sono giunte altre due copie complete e una frammentaria, cfr. J. U. Powell, Collectanea, cil. p. 137. 38 Cfr. J. U. Powell, 'Lirica ieratica', in /d.-E. A. Barber (edd.), Nuovi capitoli di storia della le~ratura greca (Oxford 1921), tr. it. Firenze 1935, p. 65. 39 Vd. sopra n. 17.

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menti a noi noti della poesia corale ieratica più antica, da Alcmane a Pindaro 40 , ma è attestata, oltre che al v. 1 del peana eritreo, anche nel peana epidaurio di lsillo per Apollo e Asclepio 41 , della prima metà del IV sec. a.C. (C. A. pp. 132-136 Powell), nonché in quello di Macedonio per Apollo e Asclepio, forse coevo42 (C. A. pp. 138-140) e in quello delfico ad Apollo con note musicali, che risale forse al II sec. a.C. (C. A. pp. 141-148). Inoltre va rilevato che l'apostrofe incipitaria del peana di Macedonio è complessa alla pari di quella callimachea dell'Inno VI (vd. n. 17), e articolata esattamente negli stessi termini (è sia un invito al canto, sia una direttiva sul rituale), oltre che nello stesso numero di versi: vv. 1-4 ATIÀLOV E'Ùq>QOVL ihJµcp/ E'Ù(J)Tlµ[Ei'tE, q>ÉQOVtEç, tTJ tÉ, Ò) tè Ilaiav,] / Lx'rijQ[a] xÀaOOVtv nw.a[µaiç, Aiòç] à[y>..]aòvfqvoç / xoi>QOL 'Aih)[va((l)V, tTJLÉ,Ò>tè Ilaiav]. Se poi l'incipit iussivo fosse appannaggio delle versioni recenziori della poesia corale ieratico-festiva, oppure sussistesse già nella tradizione arcaica, i pochi resti di quest'ultima non permettono di stabilire. Certo, vivificare tale tradizione attualizzandola con movenze proprie della letteratura ieratico-festiva più recente, è lecito pensare che non sarebbe spiaciuto affatto al gusto callimacheo. In ogni caso, fra le prime singolarità non-innodiche che avevo sottolineato negli Inni V e VI callimachei, una era proprio l'aprosdoketon di quelle apostrofi ad un gruppo di donne cui il lettore / ascoltatore antico si trovava davanti, in luogo dell'invocazione alla Musa che la convenzione dei generi letterari lo autorizzava ad aspettarsi, nell'apertura di un "inno omerico". Ora, se è corretta la ricerca fin qui condotta delle possibili filigrane modellizzanti adottate da Callimaco, quella che inizialmente appariva come una singolarità, era invece in effetti una sorta di segnale che Callimaco dava al lettore / ascoltatore per avvisarlo che l'inno incipiente non aveva come modello esclusivo gli inni "omerici", e nello stesso tempo per riorientarlo verso il genere del carme lirico religioso-cerimoniale. L'effetto doveva essere analogo- ma più specifico, meno approssimativo - a quello dei patenti dorismi che fin dal

40

Ove l'esordio più frequente era un programma di canto in cui si menzionava la divinità festeggiata, o la città che aveva organizzato la festa. 41 V. 1 s. ·u nauiva itfòv adoatE MIO(,/~aittaç tvvatta[L] tàob' 'EmbauQOU. 42 Cfr. A. Fairbanks, A Study of tht! GreekPaean, cit. p. 36 (ma l'epigrafe su cui è stato rinvenuto, presso l'asclepieo ateniese, è di età imperiale romana).

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primo verso spostavano l'orizzonte d'attesa del genere dall'ambito dell'innodia omerica all'ambito lirico-corale. È opinione comune, riaffermata anche di recente 43 , che Callimaco (assieme a Teocrito) abbia 'inventato' non solo il genere del carme mimico-sacrale, ma anche la poesia mimetica tout court. Tale prospettiva è corretta solo se per opera "mimetica" ci si limita ad intendere una finzione letteraria per cui, con l'aiuto di apostrofi, riferimenti pragmatici, designazioni deittiche etc., si presentano come viste o vissute dall'autore e si vogliono far 'rivivere', sulla pagina quasi come sulla scena, situazioni puramente immaginarie. Ma forse è troppo angusto riservare il termine "mimetico" alle opere impegnate in questa ricerca fittizia dell'effetto di reale, quando poi invece la dimensione pragmatica, ossia il riferimento diretto al contesto situazionale e agli interlocutori, attuato attraverso una deissi che almeno in molti casi è lecito supporre realistica 44 , è un elemento costante della lirica greca arcaica, una poesia maturata nell'ambito di un sistema comunicazionale fondato ancora in larga misura sull'estemporaneità e comunque sull'oralità della comunicazione, se non della composizione. Le occasioni e i destinatari del canto, le concomitanze materiali e le compresenze umane, fanno parte integrante del canto stesso, si affiancano con pari rilievo ai diversi contenuti testuali, e danno a molti carmi addirittura il gusto del vissuto "qui e ora". Nella letteratura ellenistica, il contesto pragmatico non era più una componente organica, naturale, vincolante del sistema della comunicazione letteraria, che magari è ancora influenzato, ma oramai è uscito, dalla "primacy of the spoken word"; eppure l'effetto mimetico torna ad essere ricercato come una scelta di poetica - senz'altro almeno, nel III sec. a.C., da Callimaco e da Teocrito. Perché Callimaco sceglie di realizzare un effetto mimetico più forte che in qualsiasi altra sua opera proprio negli Inni V e VI, descrizioni di feste sacre, e nella prima parte dell'Inno Il, che ha lo stesso tema? È possibile spiegare in termini di tradizione letteraria l'abbinamento del tenore mimetico a 43

Mi riferisco a W. Albert, Das mimetische Gedicht in der Antike, Frankfurt

1988. 44

Concordo con W. Rosler, Dichter und Gruppe:eine Untersuchungzu den Bedingungen und zur historischenFunlctionfriihergriechischenLyrik am BeispielAllcaios, Miinchen 1980 e Wurzb.Jahrb.9, 1983, pp. 7-8 e con B. Gentili, Antike u.Abendland 36, 1990, pp. 1-7. Pare eccessivo lo scetticismo di J. Latacz, Mw. Helv. 42, 1985, pp. 67-94, che tende a considerare per lo più fittizia (vs realistica) la deissi anche nella lirica arcaica.

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questi contenuti e, in particolare, inquadrare tale scelta nella medesima filigrana modellizzante, la lirica cerimoniale religiosa, a cui è parso possibile ricondurre alcune peculiarità degli Inni V e VI (e della parte mimetica del Il)? La risposta è meno scontata di quanto ci si aspetterebbe dopo ciò che si è appena detto circa la lirica arcaica. Meno scontata, perché la dimensione pragmatica era stata particolarmente vitale nella lirica monodica e nella poesia giambica ed elegiaca (generi in cui per lo più la composizione e la fruizione della poesia erano funzionali a ristrette cerchie di persone appartenenti allo stesso tiaso, o partito, o consorteria aristocratica); ma nella poesia corale, data l'ufficialità delle sue occasioni, che avrà permesso quasi sempre una composizione anteriore alla performance, e date le esigenze della performance stessa, che imponeva l'istruzione preventiva del coro sullo specifico carme 45 , e data infine la frequente estraneità, per l'autore, sia del pubblico sia del contesto materiale della festa, è lecito supporre che l'estemporaneità compositiva si verificasse solo in casi eccezionali, ed è facile capire perché sia cosi limitato lo spazio dei riferimenti pragmatici - riferimenti che del resto erano tutti inevitabilmente prospettivi, anticipazioni del contesto cerimoniale che avrebbe fatto da sfondo al canto del coro46 •

45

Anche nella cultura orale a livello etnologico di alcune tribù indigene del Pacifico meridionale, che producono i loro testi poetici sia talora estemporaneamente (composition-in-pe,formance), sia altre volte attraverso una composizione meditata anteriore all'esecuzione (composition-rehearsal-pe,formance), per i generi poetici accompagnati dalla danza si ricorre invariabilmente al secondo tipo di composizione, e questo proprio per provvedere a istruire i danzatori, cfr. R. Finnegan, in 8. Gentili-G. Paioni (curr.), Oralità: cultura, letteratura, discorso, Atti del Convegno intemaz., Urbino 21-25 luglio 1980, Roma 1985, p. 135 ss. 46 Una prova indiretta di questo rapporto di proporzionalità inversa fra occasione ufficiale-largo pubblico da una parte e tenore pragmatico dall'altra viene dai parteni di Alcmane, un caso a sé nell'ambito della poesia corale. Affinità tematico-linguistiche e analogie situazionali con la poesia di Saffo permettono di inquadrare questi parteni come "un tipo di canto epitalamico destinato ad un rituale interno alla comunità delle ragazze"e come "composti su committenza per i tiasi spartani" del tempo (cfr. B. Gentili, Poesia e pubblico, cit. pp. 106 e 108), vale a dire per cerchie ristrette più o meno quanto quelle della lirica monodica. Inoltre, si può supporre che Alcmane fosse per lo più presente in prima persona, come didaskalos, alle esecuzioni pubbliche dei suoi carmi, mentre è certo che ad es. Pindaro per lo più non era presente all'esecuzione degli epinici (cfr. J. Herington, Poetry into Drama: Early Tragedy and the Greek Poetic Tradition, Berkeley-Los Angeles-London 1985, pp. 20-31). Del resto proprio il partenio del Louvre risulta essere forse il più intensamente pragmatico fra tutti i carmi

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Le situazioni della cerimonia più prevedibili, e di cui si potevano perciò più facilmente anticipare spunti di descrizione pragmatica, erano ovviamente 1) quelle che riguardavano in modo esclusivo il rapporto coro-corifeo, meno vincolato alle circostanze festive esterne, e 2) quelle in cui era certo a priori che il coro sarebbe stato implicato nel corso della cerimonia. Quanto alle prime, abbiamo visto alcuni casi di apostrofi del corifeo al coro nella lirica corale ieratica (e altre se ne trovano negli epinici di Pindaro)47 • Quanto alle seconde, pare che le sole azioni della cerimonia descritte più spesso in termini pragmatici fossero i movimenti del coro durante la processione (è il caso su ricordato del secondo partenio di Pindaro), oppure i preparativi del coro stesso alla cerimonia (sempre nel secondo partenio, ai vv. 6-13 le fanciulle presentano se stesse come in procinto di vestirsi per la cerimonia; lo stesso avviene, parrebbe, ai vv. 7-9 di un partenio di Alcmane, fr. 26 C.), o infine il momento iniziale della cerimonia stessa, quando il xroµoçdei cantori arrivava sul luogo della cerimonia. Quest'ultimo è soprattutto il caso degli epinici di Pindaro: la sezione che coagula il maggior numero di deittici e di apostrofi (per lo più a divinità o città) è proprio quella ove l'autore descrive (e per lo più chiede benevola accoglienza per) l'arrivo della processione di cui il poeta stesso fa parte (o più spesso immagina di fare parte) come corifeo - arrivo alla città o alla casa del

corali noti, ed alcune figure delle partecipanti emergono in esso con straordinaria efficacia mimetica (Herington, op. cit. p. 22 parla giustamente di "lyric dramatization of lyrics"). Dopo una quarantina di versi molto lacunosi, che dovevano contenere racconti mitici, la parte più leggibile del frammento inizia con un'apostrofe del coro ad Agesicora, la corega, e ad Agido, la ragazza, parrebbe, prediletta da Agesicora; l' appassionata descrizione iniziale della bellezza di Agesicora si interrompe un attimo al v. 50, e poi si conclude al v. 56 s., con perorazioni che consistono in inviti all'evidenza, esplicite demorutrationes ad oculos (v. 50: ~ cnìx6Qflc;;,v. 56 s. l'>Laqxibavd 'tOLMyw; / 'AY'!OLX6QCJ µèv ama). E poi al v. 78 s. il coro specifica la posizione propria (e di Agesicora) con una movenza locativo-deittica: o'ÒyàQa)_([a]µ(oqn,QOc;/ 'AY'!OLX[òe)c;i ~llQ'airtei. Quest'ultima indicazione (dorico occidentale per aimru) ovviamente presupponeva che i committenti del partenio sapessero con certezza a quale luogo si riferiva quel "là" - cosa che non si evince dal contesto, e che infatti lascia gli interpreti moderni in gravi difficoltà: cfr. C. Calarne, Alcman, cit. p. 340. Una preziosa analisi dell'orizzonte d'attesa cultuale-festivo che si ricava da alcuni epinici di Pindaro e dei loro riferimenti al contesto reale della cerimonia a cui erano destinati è offerta ora da Eveline Krummen, Pyrsos Hymnon:festliche Gegenwart und mythisch-ritru:lk Tradition aLs Vorawseuung einer Pindarinlerpretation (lsthmie 4, Pyt~ 5, Olympie l und 3), Berlin-New York 1990. 47 Per cui cfr. W. J. Slater, Ckw. Quart. 19, 1969, pp. 86-94.

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vincitore da celebrare, oppure ad un tempio, quando si fa coincidere la celebrazione della vittoria con una festività sacra 48 • Non c'è dubbio che questi passi processionali 49 siano alcuni fra i passi ove più spesso Pindaro dà spazio al tenore pragmatico, e cioè, pur componendo prima della performance, descrive l'azione come se si svolgesse nel corso della performance, in virtù di quello che è stato chiamato un "oral

48

Se l'accompagnamento di danze corali affiancasse effettivamente l'esecuzione di coreuti nelle celebrazioni di vittorie oppure no, è ora oggetto degli epinici del Xµoc; di un vivace dibattito: da una parte M. R. Lefkowitz (Am.Joum. Philol. 109, cii.) e M. Heath (Am. Joum. Philol. 109, 1988, pp. 180-195) sostengono che la danza sarebbe distinta dal canto dell'epinicio, che in tal caso poteva essere eseguito anche non coralmente (con maggior cautela sostiene la possibilità, in taluni casi, di performances a solo anche J. Herington, Poetry into Drama, cii. p. 31), mentre Cnr. Carey (Am. Joum. Philol. llO, 1989, pp. 545-565) ribadisce la tesi tradizionale di un'esecuzione corale dell'epinicio da parte di coreuti. Personalmente credo che la tesi tradizionale regga ancora bene all'evidenza dei testi e degli indizi da essi desumibili. 49 È il caso della Olimpica IV (vv. 1-9 ZEii ... btl;m ... tovbe Xµov); dell'Olimpica V (di autenticità discussa, ma per lo più accreditata negli ultimi anni: cfr. R. Hamilton, Am. Joum. Philol. 93, 1972, pp. 324-329; K. M. Crotty, Pindaric Beginni.ngs: the Uses of Structure in Pindar, Diss. Yale 1975, pp. 32-41; L. M. Macia, Estud. cl&. 21, 1977, pp. 141-152), che ha l'aspetto di un vero e proprio carme processionale, come già rilevava il Boeckh (vd. i minuti dettagli descrittivi dei vv. 9-13, i vv. 14 f:ryOYY te,;cpaoçtovbE baµov Qotv e 20 8. al~OOYY MÀLVE'ÒavOQCaLOL tavbe x>..utaiç/ bmMlleLv); della Olimpica VIII, con ogni probabilità un epinicio at'.likyevéç,composto a rid0880della vittoria di Alkimedon e destinato ad accompagnare la processione per il vincitore (v. 9 s. IDIl(oaç ro6ev6QOV bt:' 'AAcpE 6i.ooç, /tovbe x6>µov xat otecpavaq>OQ(av bé-/ ;m); della Olimpica XIV (vv. 13-17 MtVL' t' Et'.lq>Q()O\lVa, itEv XQUt(otou/ xaibeç, bt:axooite vuv, 'Ay>..ata I cplÀtJo(µo>..,i;é ea>..Cate/ tQUo(µo>..,i;e, tboioa tovbe xci>µovbt:' roµevei nixc;i/ xoiicpaPLl}ci>vta); della Pitica VI, ode che "was written for performance at Delphi, to be sung as the victor passecl along the Sacred Way to the tempie of Apollo to offer thanks for his success" (cfr. R. W. B. Burton, Pindar's Pythian.Odes, Oxford 1962, p. 15) e che esordisce con un'apostrofe al pubblico (vd. i vv. 1-4 'Axouoat'· ~ yàQ 0.Lxwxlboç 'Acpeoo(taç / 6Qoueav il XUQ(tOYY / QVa,i:o)..(~oµev ÒµcpaÀÒV teLPQ6µou / x-Dovòç te,; va'iov ~LX6µEVOL) priva di riscontri in Pindaro, ma analoga agli imperativi con cui si aprono gli Inni V e VI di Callimaco; infine della Pitica XI, la cui esecuzione pare precedesse una daphnephoriaa Tebe (come ha ribadito P. Bemardini, in H. Beister-J. Buckler (hrsg.), BOIOTIKA: Vortrage vom 5. lntemationakn Bootien-Kolloquium zu Ehren von Professor Dr. S. Lauffer, Milnchen 1989, pp. 39-47), e che esordisce in modo apostrofico, invitando dee locali alla processione verso l'Ismenio e fornendo loro (v. 10) indicazioni sulla durata del canto (vv. 1-10 Kabµou x6QUL,Ieµé>..a µiv 'O>..u1,1.ma601V llyuLt' fyro avvtJtmtov ecc. 25 Gow-Page, cit. p. 123: "Two possible solutiona auggeat themselvea. The fust, that lamps make common cause and that A. 'a lamp may thus control the behaviour of othen; and this, though not very penuasive, may derive a little support from El hòç; d ... The aecond posaibility is that A. is waiting neither in his houae nor in hen but in a room which ahe uaea for aaaignationa. H that ia so the difficulty diaappears, but X [== 5, 150) give pause, and we know no evidence that hetaerae uaed, like Meaaalina in Juv. 6. 114 ff., accommodation addreuea". - Gow-Page notano anche che un'analoga, 23

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S. Mariotti

954

La prima di queste ipotesi è stata discussa da Miroslav Marcovich26, che non crede alla supposta azione della lucerna di Asclepiade su quella di Eraclea come fenomeno di magia omeopatica27 • Egli procede oltre gli studiosi inglesi e sostiene che si tratti piuttosto dell'attribuzione al ~:uxvoçdi una vera e propria natura divina 28 : il Auxvoç dio si troverebbe dovunque ci sia una lucerna. Il Marcovich si richiama soprattutto, oltre che all'El -fteòçd del v. 2, allo spesso citato frammento comico adespoto 152 Kock (III p. 438): Baxxtç fl-E6vo' tv6µLoEV, robaLµov À.uxve· xd 29 'tv&tvµtyunoç, El 'taUtTJooxtiç per quanto meno grave, difficoltà di localizzare la lucerna per cui ha giurato l'etera offre Meleagro A. P. 5, 8. A loro parere, Statilio Flacco (A. P. 5, 5) avrebbe ouervato la difficoltà presentata dagli epigrammi di Asclepiade e Meleagro e si sarebbe preoccupato di evitarla facendo parlare dalla camera da letto dell'etera una lucerna donatale dal poeta e ora testimone del tradimento. L'ipotesi è molto improbabile. Intanto non è, in astratto, verosimile che difficoltà interpretative di questo genere incontrate da noi moderni fouero tali anche per un antico e per un uomo del mestiere com'era Statilio, ben più di noi familiare con spirito e tradizioni della poesia epigrammatica e con le realtà a cui essa fa riferimento. Inoltre la trasformazione del motivo di Asclepiade (e di Meleagro) è troppo profonda per poterla attribuire, sia pure in parte, alla ragione supposta da Gow-Page. Con l'innovazione del dono della lucerna alla donna e la ripresa dell'antico motivo dell'oggetto parlante Statilio ha trasferito il tema del tradimento su un piano completamente diverso, più patetico e insieme di immediata 'testimonianza' della colpa di lei. Del resto - se si volesse sottilizzare - la difficoltà in Statilio non sparirebbe del tutto: come fa il Mxvoçdalla casa di lei a 'vedere' quello che sta accadendo al suo vecchio padrone (v. 5 CZIMxxE,ot 6' 6:y{lvnvovX.uxvoç e che perciò Asclepiade si rivolge a questo "hypothetischer Augenblicksgott". Già l'Usener, Gouernamen,Bonn 1896, p. 291 n. 18, sulla base del nostro epigramma e del frammento comico che riportiamo subito dopo nel testo, aveva posto il >.uxvoç fra gli 'Augenblicksgotter', e ricordava esempi più tardi di venerazione della luce della lampada nonché la leggenda di Pamphos inventore del >.uxvoç. Che nell'epigramma di Asclepiade il >.uxvoç vada considerato qualcosa di più di un semplice "Augenblicksgott der unmittelbaren Empfindung" osservava il Kost, cit. p. 128. 29 Kd per xal d (trad. xal), adottato dall'Edmonds (C. A. F. III A p. 384), a cui l'attribuisce impropriamente il Marcovich (p. 336 n. IO), è una vecchia congettura del

Su due epigrammi di Asclepiade

955

e all"inno' alla lucerna di Prassagora nelle Ecclesiazuse;riconosce nel Auxvoç una 'Erscheinungsfonn' o uno 'Stellvertreter' di Afrodite protettrice delle etere e cita altri esempi della presenza e della personificazione della lucerna in ambito magico-religioso. Alla seconda delle ipotesi di Gow-Page ricordate poc'anzi ha aderito invece \l mio dotto amico G. Giangrande 30 • Egli obietta al Marcovich che con la sua spiegazione si unificherebbero arbitrariamente - e senza che vi siano altri esempi del genere - in un unico Àuxvoçimmateriale i due Àuxvoiconcreti apparentemente presupposti nell'epigramma. Secondo il Giangrande, l'unico Àuxvoçsi sarebbe trovato in una 'camera a ore' ("Zimmer auf Stunden", "chambre à l'heure") utilizzata da Eraclea come "accommodation address" 31 • Quanto alla mancanza, osservata da Gow-Page, di altre attestazioni di quest'uso, il Giangrande rimanda alla Sittengeschichledi Hans Licht e a un documento egiziano di età romana riportato dal Sudhoff92 , in cui due gabellieri autorizzano un'etera a "dormire con chi voglia" in un giorno e in un luogo detennina~i33 • Non importa molto che l'epoca del documento sia cosl

Reiske, alla quale il Meineke (C. G. F. IV p. 671 s.) obiettava l'eccezionalità della crasi (non ne citano esempi KUhner-B1888I p. 221). Tuttavia, comunque si corregga (cfr. l'apparato del Kock, ad loc., dove si aggiunga il va( congetturato pochi anni più tardi dall'Usener, cit. p. 291 n. 18), è chiaro che il parlante porta scherzosamente all'estremo la credenza di Bacchide nella divinità della lucerna. 30 'Asclépiade, Héracleia et la lampe', Rev. lt. gr. 86, 1973, p. 319 sa. (= Scripta minora Alaan.drina II, Amsterdam 1981, p. 363 sa.). 31 Giangrande, cit. p. 321 (= Scr. min., p. 365). 32 H. Licht [pseudonimo di Paul Brandt), Situngeschic~ Gri«henland& II, Dreeden-Ziirich 1926, p. 52, che parladi "ambulanten Dimen" che ricevevano i clienti "entweder in eigene oder gemietete Wohnungen" (ma non dà esempi di case in affitto); probabilmente anch'egli si rifà, come il Giangrande, all'ostrakon del British Muaeum (ora della British Library) riportato da K. Sudhoff, Ar:rtlicha aus griechischen Paprrw-Urlcunden, Leipzig 1909, p. 106 (Wilcken, Ostr. 1157), a cui rinvia K. Schneider in R. E. VIII 2 (1913), col. 1342, 63-66. 33 'E,uxoQOiiµev(sic) aoL.. µeit' o~ fàv (sic) ttilnç ... XOLJ&Òaltm. - Dal tempo dell'edizione del Wilcken la lettura dell'ostrakon ha fatto progressi per merito dello stesso Wilcken ap. Plaumann, Arch. f. Pap.-Forsch. 6, 1920, p. 220 n. 1 (cfr. gli ampliati 'Zusatze und Berichtigungen' alla ristampa degli Ostraka curata da P. J. Sijpesteijn, Amsterdam 1970, II p. 440): alla I. 1 è stato letto ha(eçl (anziché UaL{Ki(ç)), che conferma il mestiere della donna, si è stabilita la datazione del documento al 110 d.C. e precisata la sua provenienza (Elefantina; due altri ostraka analoghi, anch'essi da Elefantina e del II secolo, sono stati pubblicati rispettivamente dal Plaumann, ibid. p. 219 s. e da W. Muller, Arch.f. Pap.-Forsch. 16, 1958, p. 212 s.).

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S. Mariotti

lontana da quella di Asclepiade 34 : si potrebbe sempre ammettere che l'assenza di attestazioni più antiche sia casuale. Ma stranamente GowPage, e con loro il Giangrande, non hanno tenuto conto del fatto che, se dell'epigramma era unico, doveva trovarsi necessariamente il À:uxvoc; nell'abitazione stessa della donna (dove gli incontri amorosi avvenivano comunemente) e non in una casa d'appuntamento: lo dimostrano ancora lv6ov fxouoa. "Ev6ovsignifica notoriamente 'in casa', le parole q>U.OV domi, e proprio µoLxoùc;fxouoLvlv6ov dice Aristofane (Eccl. 225) delle donne maritate che si fanno entrare l'amante in casa 35 • Dunque, se escludiamo, per i motivi che abbiamo visto, che Asclepiade si rivolga a una lucerna posta nella casa di Eraclea o in una casa d'appuntamento, non rimane che accettare un'interpretazione che permetta di stabilire un diretto collegamento fra due lucerne diverse, quelle delle camere di Asclepiade e di Eraclea, secondo l'esigenza che è alla base della prima ipotesi di Gow-Page ("common cause" fra le dio presente dovunque ci sia lampade) 'corretta' dal Marcovich (>..uxvoc; una lucerna). Fra gli elementi favorevoli a questa tesi, il Marcovich cita in particolare, come abbiamo detto, con d &wc;d 36 del v. 2 e il mono-

A proposito dell'autorizzazione limitata a un eolo giorno, l'amico Manfredo Manfredi a cui eono molto grato per l'attenzione che ha voluto dedicare all'ostrakon edito dal Wilcken - mi fa notare che doveva trattarsi di un'autorizzazione da ripetersi quotidianamente e aggiunge: "come un tempo le bancarelle del mercato avevano di giorno in giorno il permesso dei vigili urbani. Cosl avveniva per diverse forme di piccoli commerci". Sul nome dell'etera, 8tva'3{,Ella, di cui il Wilcken osservava la "merkwurdige Composition", egli ne rileva l'eccezionalità "in quanto, come c'era da aspettarsi, tutte le testimonianze per nomi composti con Allah risalgono all'epoca araba (VII-VIII sec.) salvo forse qualche eccezione per il VI; inoltre il prefiseo 'copto' Thin è ancora più eorprendente, eoprattutto all'inizio del II sec.P"; e conclude: "Bieognerebbe ricollocare questo nome in uno studio dell'onomastica dell'epoca". 34 Mi riferisco all'epoca e non al luogo di provenienza del documento anche perch~ è probabile che Asclepiade sia stato ad Alessandria (cfr. Knauer, cit. p. 77; non del tutto sicura è l'appartenenza a lui di A. P. 9, 752, riguardante una Cleopatra, cfr. Gow-Page II, cit. p. 148). 35 Basti rimandare a Uuher ad loc. e, in generale, a Liddell-Scott s. v. 36 Nella 'logica interna' dell'epigramma, che mostra di prendere sul serio il giuramento della ragazza, l'El è certamente 'assertivo' ("se è vero, come è vero, che sei dio"), ma non è da escludere che vi traspaia intenzionalmente lo scettico eorrieo dell'autore (cfr. Knauer, cit. p. 16: "Der Bedeutung nach ist El hier nicht voli= eowahr ... &ii Der Lychnos eoll sein Gottum tatsichlich erst beweisen"). In Hom. l, 831 El J&n' 6e6ç fom (Penelope parla in eogno all'elbo>).ov inviato da Atena; cfr. t 150; Q 406 s.) El ha pieno valore condizionale.

Su due epigrammi di Asclepiade

957

logo di Prassagora, il frammento comico riportato qui sopra (Baxxtç &6v a' tvoµLQ{t, l'allegoria è una metafora continuata; cfr. H. Lausberg, Handbuch tkr literari&chenRhetorik, Milnchen 1973 2 , pp. 441-442. 5 La valenza erotica del verbo na(t(I), un termine particolarmente caro ad Anacreonte, è posta fuori discuuione, oltre che da Alcm. fr. 147, 1 Calame = 58 P. µagyoç 6' "EQQCP\lQb) t' •Aq>Q06(ff1/ v(.l)V/ 4,o]taaa[ç x]mtl>TJOEV uucot1ç), il riferimento è ad una situazione erotica (cfr. B. Gentili, Anacreon, cit. pp. 186-190); come erotico è il contesto in cui, in Anacr. fr. 15, 4 Gent. 360 P., ai inserisce il termine frvioxroeLç. 1 C. M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide, tr. it. Firenze 1973 (Oxford 19612), p. 397. 11 Anche D. E. Gerber, Euurpe, ADl8terdam 1970, p. 237 è favorevole ad attribuire al termine bteplJ{l'tTJç una valenza sessuale, rinviando per un confronto a LSJ, a. v. btLf'a(V(.l)VA.111.3. 12 G. Burzacchini, in E. Degani-G. B., Lirici greci, Firenze 1977, p. 269.

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°

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R. Pretagostini

fulgida, di Agido, ricorre dapprima al paragone con il destriero che sovrasta tutte le cavalle e poi, più specificamente, a quello con il cavallo ibeno, che durante una gara precede, seppure di poco, il cavallo colasse no 13 • Ma se, come si è detto, l'elemento specifico dell'allegoria equestre presente nel carme di Anacreonte è rappresentato dalla sua valenza erotica e dal conseguente complesso articolarsi nella metafora della ragazza-puledra e in quella dell'amante-cavaliere, allora il confronto più immediato e diretto, nell'ambito della lirica arcaica greca, è quello, proposto da Burzacchini 14, con un'elegia del corpus teognideo (vv. 257260)15: 'uctoç tyro XaÀfl xat àfiti.bt, àUà XOXLO'tOV ltv6Qa cptQro,xa( fJ.OLtoùt' àvt')QOtatov. 3tOÀÀaXL 6ri 'µtllf)oa 6taQQTt;aaa X..h1, "da corsa", riferito alla i1t1toç, esplicita quello che nel carme di Anacreonte era implicito nell'espressione O'tQÉqxnµ(vét TExaì..6v XQTl'V'rl'V 'tE ,pt))CQTl'V6.À...ris XQ'UOWV !xQéµaoev.

5

Lisidice lo sperone equestre, o Cipride, ti offri, pungolo d'oro del suo bel piede, con cui tante volte un cavallo supino fiaccò; né mai a lei, che si agitava leggermente, la coscia divenne rossa. Infatti compiva la corsa senza lo stimolo dello sperone; perciò l'arnese d'oro a te sospese nell'atrio del tempio.

5

L'occasione da cui questo breve canne prende spunto è esplicitamente dichiarata fin dai versi iniziali, poi ripresi, secondo la sofisticata tecnica della Ringkomposition, nella chiusa: si tratta della dedica 22

20

La similitudine dell'tQat1.vaoooµévriçsembrano confermare l'immagine della donna-cavaliere, ribadendo nel contempo l'abilità di Lisidice: i suoi movimenti nel cavalcare l'uomo sono cosl lievi, cosl agili, che la sua coscia non diventa rossa. L'inizio del v. 5 ~v yàQ ltxtvtritoç tEÀEObQ6µoç,però, non si armonizza affatto con il contesto metaforico che Asclepiade ha fino a questo punto delineato, e quindi con la linea interpretativa fin qui seguita; anzi la proposizione, assunta nella sua globalità, sembra presup-

27

La medesimafigura sessuale, descritta qua.si con le medesime parole (clunibw aut agitavit equum lasciva s upinum), ricompare in Hor. Sat. II 7, 50, nel passo in cui lo schiavo Davo, esaltando l'amore meretricio, evoca duefigur~ sessuali: nella prima una meretricula (v. 46) passivamente excepit turgentis verbera caudae (v. 49), nella seconda, invece, è lei stessa a cavalcare Davo, equum supinum. 28 Un accenno a tale axiiµaouvouo(aç ricorre per esempio in Aristoph. Vesp. 501 e Thesm. 153 (XÙ.T)'tLl;ELv), nonché Pax 900 e Lys. 60 (xéì..T)ç);anzi in Lys. 676678 il corifeo del semicoro di vecchi ateniesi è quasi costretto, suo malgrado, a riconoscere, in una riflessione carica di doppi sensi, l'attitudine delle donne ad essere abili 'cavallerizze'. Cfr. J. Taillardat, op. cit. p. 105 e J. Henderson, op. cit. pp. 164-165. 29 In Aristoph. Vesp. 500-501 questa presta2ione costituisce l'oggetto di una specifica richiesta del servo Santia ad una prostituta. 30 Del resto anche Plangone, la protagonista del già menzionato epigramma V 202 (vd. n. 23) si vanta di aver superato, specificamente nel XÙ.T)'tLl;ELV (v. 3, VLXflOOOO xéì..T)n), la rivale Filenide. In riferimento alla pratica di questafigura sessuale, è molto significativo che in un graffito attico da Lamptrai dell'inizio del III secolo a.C. (M. Mitsos, "E,ttyQ. 1957, pp. 47-49, nr. 9; S. E. G. XVIII, 93), purtroppo mutilo in più punti, sl da renderne problematica l'interprewione globale (cfr. P. M. Fraser, Ptolemaic Alexandria, Oxford 1972, I p. 565 e II p. 806 n. 102), una donna faccia allusione ai suoi molti XÙ.T)'tLOµo(,un hapax coniato su XÙ.T)dl;w.

Vicende di una allegoria equestre

967

porre un nuovo ribaltamento dei termini in cui si articola l'allegoria equestre. Se è vero infatti che tùrobgoµoç potrebbe anche essere riferito ad un soggetto rappresentato da una donna-cavaliere, come ha dimostrato Alan Cameron 31 sulla base del confronto con A. P. V 55 (Dioscoride), in cui di Doride, un'amante impegnata nella figura del XÙT)tL~EV (v. 3, 'I yàQ u1tEQ..1.xov), è altrettanto vero che ÒXÉVtT)toç, "non stimolata dallo sperone", non può che riferirsi ad una donna-cavallo, come del 3 resto è ribadito dal risolutivo confronto, instaurato da Gow3 , con Pind. Ol. 1, 20 s., dove il termine è attributo del corpo (bɵaç) del cavallo Ferenico 34 • Quindi il v. 5 del nostro epigramma delinea, attraverso un ritorno alla metafora consueta della donna-cavallo, una situazione nuova rispetto a quella descritta nei versi precedenti: siamo di fronte ad una diversa figura sessuale, quella in cui l'etera Lisidice assume la posizione del cavallo montato dal cliente amante 35 , un cavaliere che per la docilità del destriero non è costretto ad usare lo sperone. In sostanza nell'epigramma di Asclepiade non si allude ad un unico axilµa cruvouo(aç, quello del XÙT)t(~e1.v,come recentemente ha cercato di dimostrare A. Cameron 36 , ma a due axfJµata: oltre al

31

A. Cameron, 'Asclepiades' giri friends', in H. P. Foley (ed.), Rejlectiom of Women in Antiquity, New York-London-Paris 1981, p. 301 n. 67. 32 C'è da notare, però, che in questo caso, proprio nella proposizione in cui metaforicamente è detto che Doride porta a conclusione la gara, Dioscoride usa il termine MÀLXOS,che designa una corsa a piedi, non a cavallo. 33 In A. S. F. Gow-D. L. Page, op. cit. II p. 121. 34 È anche sulla base di questo confronto che mi sembra sia da respingere la proposta di A. Cameron, art. cit. pp. 295 e 302 n. 69 di intendere axtvrr)toç non nel senso di "ungoaded", ma di "not goading", attribuendo, cioè, all'aggettivo un valore attivo, in analogia a quanto accade per una serie di aggettivi in -toç (p. es. a~iJihttoç, ln'O'VT)toç,abÉY)toç), che possono avere valore sia attivo sia passivo. La proposta di Cameron è finalizzata a rendere il termine compatibile con la sua ipotesi interpretativa, secondo la quale nell'epigramma si allude ad una sola figura sessuale, quella del XEÀ.Tjdl;ELV, con la donna sempre cavaliere. 35 Cosl già Gow, in A. S. F. Gow-D. L. Page, op. cit. Il p. 121 e P. M. Fraser, op. cit. I p. 564 e Il pp. 805-806 n. 98. A questafigura sessuale potrebbe far riferimento, secondo J. Taillardat, op. cit. p. 106, il fr. 344 K.-A. di Aristofane (9EOJ.&OcpOQLal;ouom W)avcqnjvm t1)vyuvai.xa ~vÀOµaL, possibile metafora sessuale derivata dall'espressione av~Tjvm (bel) tòv irut:ov, "montare a cavallo". 36 A. Cameron, art. cit. pp. 294-295 e 301 nn. 67-68.

968

R. Pretagostinì

XEÀ'l"tttELV, anche a quello in cui, come afferma

7, "the rider is Gow3

the man". E certo sembra più naturale che Lisidice, al momento di porre termine all'attività professionale di cui va tanto orgogliosa, dovendo in qualche modo riassumerla come in unjlaJh back,non si limiti ad evocare una sola figura sessuale, ma preferisca evocarne almeno due, proprio come due sono le posizioni in cui si concretizza il rapporto sessuale descritto dal più tardo Dioscoride nell'epigramma V 55, a cui si è qui sopra accennato, che sembra in alcuni punti ispirarsi a questo di Asclepiade 38 • Del resto che nel v. 5 la metafora equestre presupponga una donna-cavallo e non una donna-cavaliere è in qualche modo confermato proprio dal confronto, finora ignorato, con il carme 78 Gent. = 417 P. di Asclepiade di Anacreonte: dal momento che il termine tEÀEOb{>6µoç costituisce una voluta ripresa dell'immagine anacreontica della fanciulla-puledra che l'esperto cavaliere fa girare itµq:,ttéQµata bQ6µou (v. 4), esso non può che riferirsi a Lisidice nella sua funzione di donnacavallo. · Dunque nel giro di tre versi (3-5), Lisidice è diventata da cavaliere cavallo e il cliente amante da cavallo cavaliere. Alla luce di questa repentina metamorfosi, l'espressione o-òbé ,tO't' a'ÒTijç I µT}QÒç lq:,oLv(x-fht xoOq:,auvaoooµévTJçmerita di essere riconsiderata. Queste parole, che a prima vista, come abbiamo detto, sembrano essere una riaffermazione del fatto che Lisidice 'cavalca' il suo cliente amante, se le si rileggono in funzione dell'inizio del v. 5 - e a questo proposito è molto importante la presenza del ya.Qdichiarativo -, potrebbero anche voler significare che l'etera è in realtà 'cavalcata': la coscia di Lisidice, cavallo che si muove agilmente, non diventa rossa di sangue perché il suo cavaliere non è costretto a sollecitarla con lo sperone. Anche in questo caso il confronto con il carme di Anacreonte si impone e potrebbe indurre a privilegiare ·questa seconda interpretazione; se è vero che il xoOq:,auvaoooµtvr}ç di Asclepiade è un'evidente ripresa del xoOq:,aOXLQ'tO>Oa di Anacreonte, sembra lecito dedurne delinea il comportamento della che, come nel poeta arcaico OXLQ'tO>Oa ragazza-puledra, cosi nel poeta ellenistico tLvaoooµévTJdovrebbe descrivere il movimento della donna-cavallo. Tuttavia se si tiene conto

37

In A. S. F. Gow-D. L. Page, op. cit. II p. 121. A. Cameron, art. cit. p. 301 n. 68, in maniera un po' troppo perentoria e riduttiva, riserva a questo epigramma la definizione di "Dioscorides' imitation". 38

Vicende di una allegoria equestre

969

del fatto che la frase in questione funge da 'cerniera' fra due poli opposti, rappresentati il primo dalla figura della donna-cavaliere (v. 3), il secondo da quella della donna-cavallo (v. 5), l'esegesi più corretta sembra quella che assegna all'espressione o'Ùl>Éffl>'t' aùtilç / l,LT)QÒç tqxnv(xiht xoiiq>a 't~vaoooµÉ'VT)ç lo statuto dell'ambiguità, nel senso che proprio la sua funzione di 'cerniera' le pennette di assumere la doppia valenza di conferma dell'immagine precedente (la donnacavaliere) e di anticipazione dell'immagine che segue (la donnacavallo)39. Partendo dunque dall'allegoria della fanciulla-puledra e dell'amante-cavaliere cosl come era stata fissata nella tradizione poetica di Anacreonte e Teognide, Asclepiade, da vero poeta alessandrino, l'ha sottoposta ad un processo dapprima di scomposizione, invertendo i termini del rapporto metaforico nella nuova immagine della donnacavaliere e dell'amante-cavallo, poi di ricomposizione, tornando alla metafora, per cosl dire, tradizionale con la donna-cavallo e l'amantecavaliere; il tutto, 'specializzando' il campo semantico dell'allegoria da quello genericamente erotico a quello più specificamente sessuale. Aveva dunque ragione Gowquando scriveva che "this epigram is puzzling in detailtt40; la mia speranza è quella di essere riuscito ad offrire a Bruno Gentili in occasione di questa Festschrift in suo onore un 'puzzle' con tutte le tessere al loro posto.

39

Un effetto di questa ambiguità è riscontrabile nel diverso modo di tradurre la

frase da parte, fra gli altri, di F. M. Pontani (Antologia Palatina l, Torino 1978, pp. 219-221) e di G. Paduano (Antologia Palatina. Epigrammi erotici: lil,ro V e lil,ro XII, Milano 1989, p. 159): rispettivamente "galoppava leggera,/ né la sua coscia imporporò di sangue. / (Senza sprone toccava la meta)", il cui soggetto è chiaramente una Lisidice-cavallo, e "(ha montato a cavallo) e mai le sue coece, / mosse agilmente, si sono macchiate di sangue", che presuppone invece una Lisidice-cavaliere. 40 In A. S. F. Gow-D. L. Page, op. cil. Il p. 121.

L'isopsefo di Arato Riccardo Scarcia

L'attenzione rivolta agli aspetti crittografici e numerologici della composizione virgiliana 1 ha prodotto negli ultimi anni risultati eccellenti, in particolare nel recupero di acrostici di speciale rilevanza 2 • Uno di questi, la cui plausibilità cresce per la compresenza di un giuoco etimologico sul proprio nome gentilizio (convergente con lo pseudonimo grecizzante di "Parthenias" prescelto altrove per Virgilio, ma probabilmente da lui stesso fino dagli esordii poetici) è in Georg. 1, 429 ss.; questo il testo, a partire intanto dal v. 424: Si vero solem ad rapidum lunasque sequentis ordine respicies numquam te crastina fallet bora neque insidiis noctis capiere serenae. luna revertentis quom primum colligit ignes si nigrum obscuro comprenderit aera comu maxumus agricolis pelagoque parabitur imber. at si virgineum suffuderit ore ruborem ventus erit: vento semper rubet aurea Phoebe. sin ortu quarto, namque is certissimus auctor, pura neque obtunsis per caelum comibus ibit totus et ille dies et qui nascentur ab ilio exactum ad mensem pluvia ventisque carebunt 1

425

430

435

Cfr. G. Brugnoli-R. Scarcia, in Enc. Virg. Ili, 1987, pp. 788- 793, s. v. 'numerologia' (con bibliografia). 2 Si aggiunga il caso evidenziato di recente da P. Domenicucci, 'I 'Capretti' di Virgilio - Note sul catasterismo di Giulio Cesare', in AA. VV., l'astrorwmia a Roma nell'età augustea (Atti del Seminario tenutosi a Lecce il 20-21 gennaio 1988), Galatina 1989, pp. 91-106, poi rifuso in Astra Caesarum-Note sul catasterismo a Roma, Chieti 1989, pp. 39-56, che riguarda l'acrostico di Verg. Ecl. 9, 43 ss. (HAEDO, ai vv. 43, 45, 47, 49, 51). Parallelamente, H. Dettmer, 'A Poetic Signature in Propertius 1.22.2?', liv. Ckus. Monlhly 13, 1988, pp. 55-56 ha proposto, persuasivamente, una sphragis del morwbiblos (mancante: e solo nel I libro Properzio non verrebbe a nominare altrimenti mai se stesso) sottolineando (vv. 1-2) Qualis et unde genus ... I quaeris PRO rwstra semPER amiciTIA.

R. Scarcia

972

votaque servati solvent in litore nautae Glauco et Panopeae et lnoo Melicertae3 •

Alla segnalazione fondamentale di Brown4 di combinare le due lettere iniziali dei vv. 429, 431, 433 (scalando cioè i versi di due in due) per il recupero delle sigle MA(xumu.s)- YE(ntus) - PU(ra), da intendere Maro VergiliusPuhlius (con forse, ancora, accluse le istruzioni per l'uso nella premessa revertentudel v. 427, e nell'invito a concludere exactum del v. 435) 5 è in effetti da aggiungere 6 non solo l'indicazione "orizzontale" del v. 430 al si VIRG/neumsuffuderit etc. (il virgineus ruborè slogan, oltre tutto, di verecundi.a,la stessa che si ritroverà variamente manipolata nella tradizione biografica virgiliana e sue derivazioni come tratto fisionomico-psicologico del poeta), ma anche la coincidente presenza di ore, cui pure - non fosse che per ipallage spetta l'epiteto di virgineu.s.Virgineum os è, d'altronde, lo stesso che

Parthenope1 • Come per la sphragis finale delle Georgiche(modello strutturale)

3

Non ll8l'à accidentale, proprio qui, l'omaggio finale al "maestro" Partenio (sulla questione complessiva del celebre calco del v. 437, cfr. R. Scarcia, 'Parthen. fr. 30 M.', Mw. Cril. 18, 1983, pp. 215-228). 4 E. L. Brown, Nr.uneriVergiliani.StudieJ in "Eclogues"and "Georgics",Bruxellea-Berchem 196.3, p. 105 ss. 5 Come per l'acrostico MARS di Aen. 7, 601-604 che è "spiegato" dal doppio senso del v. 603 prima Tl'IOIJent••• MARTEM (vd. 'numerologia', cil. p. 793). 6 Accetta Brown ora R. F. Thomas, Virgil GeorgicsI [11.1-11],Cambridge 1988, in part. il commento di l, 427-437 a p. 139 (e infra, n. 19): Thomas rammenta solo di passata il PartMnùu quale "doppio" di Virgilio (mentre su questo pseudonimo, supporrei, c'è altro da dire in dettaglio per la sua capacità fortemente evocativa e per il suo carattere di pesante cifratura). 7 Ancora Brown, cil. pp. 105-107, per l'acrostico del primaverile Georg.2, 321324-327-330-333, che darebbe P. VER. MA. PART(lumopaew) (o forse PART(l~nùu)?] CRE(monerui.s),e per l'OBServazioneche nei 28 versi di Georg. 1, 410-437 sono sei occorrenze accessorie della sillaba VER (ma completerei che un'allitterazione in V, con almeno una ventina di occorrenze, è fitta attorno all'acrostico di 2, 321 ss.): riterrei involontario (o semmai portato di un'eredità oscuratasi) l'effetto dell'etimologia di Per. Bern. II 49-50, p. 286 Hagen Vergiliw quasi VERegli.sceru,id est CREsceru, erat ••• multipla, sicu.tvernalia incrementa(cfr. G. Brugnoli, Foca;vila di Virgilio, Introd., testo, trad. e commento, Pisa 1984, p. 19, nota ai vv. 50-51: si aggiunga la specialissima pregnanza del 17UUM!re remo del v. 50). Bene Brown constata poi che in Colum. 10, 204-216 (un'esaltata ripresa non "tecnica" delle Georgiche),agli inizi dei vv. 204-210-216, con regolari intervalli sei per sei, tornano le lettere MA - VER - P (p. 113).

L'isopsefo di Arato

973

cosl per questa più celata sphragi.s(modello crittografico) antecedente ragguardevole è senza dubbio lo stesso Nicandro, quanto a metodologia8 • Ma quanto a tecnica, la ripresa diretta è da Arato (AEilTH nelle iniziali di Phaen. 783-787 e, in orizzontale, ai vv. 783784, l'essere ~ ... xat. .. tQEU~ç della luna = virginew rubar e i suoi contorni in latino)9 • Questo il passo: ~ µèv xa-6aQ{itE :n:EQl tQLtov ~µae toiiaa Eii61.6ç; x' Et11·~ 6è xat µa).' t{>rofHiç;

ro

nvEtJµat(11·:n:axtrov6è xat àµ'3ì..dnmXEQ«(mç; thQ«tOV tx tQLtatOLOqxxoç;àµE'Vtl'Vòv lxoooo il V6tq> (lµ.13).uvtaLil U6atoç;èyyÌJç;Mvtoç;.

Né virginew rubar è dunque pura traduzione antonomastica (Luna = Diana= virgo) dell'originale, bensl senhal, perché calco del senhal arateo, che riposa sull'appropriazione maggioritaria del concetto canonico di Àmt0tl}ç 10 • 8

Un NIKANAPO:I individuò E. Lovel, 'Nicander's Signature', Class. Quart. 22, 1928, p. 114 nelle iniziali di TMr. 345-353: secondo E. Vogt, 'Das Akrostichon in der griechischen Literatur', Antike u. Abendland 13, 1966, pp. 80-95 (part. pp. 87-88) l'acrostico, ivi, è inoltre almeno funzionale al contenuto del passo, dove Nicandro spiega - ed è l'unico auion onomastico dell'opera - la derivazione del nome dal rettile detto "Dipaas". Su qualche ulteriore dettaglio circa la dinamica della dipendenza del finale delle GeorgicM da Nicandro, vd. ancora M. Geymonat, 'Spigolature nicandree', Acme 23, 1970, pp. 137-143 (part. pp. 139-140 n. 12). Altro materiale specifico sui sistemi criptici classici in G. Leue, 'Zeit und Heimath dea periegeten Dionysioa', Philologw 42, 1884, pp. 175-178 (acrostici ai vv. 109-134 e 513-531). Generale in F. Domaeiff, Das Alphabet in Mystik und Magie (Stoicheia Heft VII), Leipzig-Berlin 19252 , p. 96 sull'isopaefia e p. 146 aa. sugli acrostici e rinnovato in F. Ahi, Metaformations: Soundplay and Wordplay in Ovia and OtMr Classical Poets, lthaca-London 1985 (con ree. di N. Horafall, Joum. Rom. Stud. 76, 1986, pp. 322323). 9 Ben documentata la 1phragis EY AOEOY TEXNH, in qualche modo intensa suggestione per Arato: vd. N. Horafall, 'Steaichorus at Bovillae', Joum. HeU. Stud. 99, 1979, pp. 26-48 (p. 31 e n. 33 per le "Tabulae Oiacae" ed Eudosso; la stessa 1phmgi.s in D. L. Page, Select Pappi III. Likrary Pappi- Poetry, London-Camhridge Ma. 19502, p. 468). Per una discuaaione su Verg. Georg. 1, 429-433 e il suo rapporto con l'acrostico AEITfH di Arato, cfr. D. O. Roaa, BaELv6µEVOL, mente, di fatto, l'argumentum del poema e una varianza flessiva della sphragis del suo autore) 13 • Eccone il disponibile contesto: l:xmn:o xat «l>ATNHN. 'fiµtv t' òì..(YTI Elxuia axì..ui:~OQQ1'Y11MtEl. 11

Senza particolare evidenza (come avrà forse meritato all'origine archetipica della glossa, stante il contesto sfragistico) l'identificazione serviana (ad v. 1, 432) del certi.ssimwauctor citato ivi con Arato. Deludente G. Aujac, in Enc. Virg. I, 1984, pp. 266-268, s. v. 'Arato' (e anche sommario: p. es. la semplicità del rilievo [p. 267], secondo cui "la luna che 'assottigliata e tutta rosseggiante annuncia il vento' (Phaen. 874) diviene la bella Febe, la cui fronte sempre si tinge di verginale rossore all'avvicinami del vento (G. 1, 430)" riprende tal quale il senso di G. Perrotta, 'Virgilio e Arato', Atene e Roma 5, 1924, pp. 1-19, poi in Cesare,Catr.,Jk,,Orazioe altri saggi. Scriui minori I, Roma 1972, pp. 213-233 [in part. pp. 228-229], e resta a un livello di lettura impressionistica affatto insufficiente). 12 Serv. ad v. 1, 354 registra solo la selezione degli argomenti (prognosticasunt translala deArato, pauca de multi.s),non le rispettive proporzioni. Approssimativo L. A. S. Jermyn, 'Weather-signs in Virgil', Greecea. Rome 20, 1951, pp. 26-37 e 49-59, quando stabilisce (p. 28) in 1/4 il rapporto quantitativo tra Virgilio e Arato. 13 Cfr. v. 166 À.Vt'tàq,advavtm "EeupoL.

L'isopsefo di Arato

975

àµcptbt µLVbuo À.Vt'tà cpaELV6µE"VOL q>oQÉOVtaL ÒO'tÉQEç, OU'tE 'tL J'tO'>J..òv Ò'JtT)OQOL, OU'tEµéù.' tr,(,ç, òJJ.' 6CJQaaa-co •••), del "Re Tolemeo" (Vita OKi\ITTQO'V "AQa-coçfXEL). Ben lo Arati p. 79 Maass, v. 4: À.E3t'tOÀ.6yoç sanno i settatori neoterici del manierismo ellenistico: così Cinna p. 89 Morel:

Osservo, in margine, che la forma ÀE1Ct11 si ritroverà poi solo, di nuovo, al v. 1042 (= v. 310). 15 Per altri "giuochi omerici" di analoga importanza e pertinenza, cfr. soprattutto Athen. 458; e vd. Geli. 14, 6, 4 qui sint apud Homerum versus isopsefi, et quorum ibi nominum :rtaQ(latLX(ç reperiatur. Per apprezzare le note valutazioni di Ennio in Cic. Div. 2, lll: non esse auUm illud carmen .furentis cum ipsum poema declarat (est enim magis artis et diligentiae quam incitationis et motus), tum vero ea quat! àXQOtLX(çdicitur, cum deinceps ex primis primi cuiusque versus litteri.s aliquid conectitur ut in quibusdam Ennianis Q. ENNIVS FECIT. id certe magis est attenti animi quamfurentis, vd. il classico commento di A. S. Pease li 2, Urbana 1924, pp. 529-531 (una garanzia patema per l'immissione di acrostici in Virgilio!). 16 J. M. Jacques, 'Sur un acrostiche d' Aratos (Phén., 783-787)', Rev. ét. anc. 62, 1960, pp. 48-61 (vd. in part. p. 57 ss.; cfr. i casi più o meno simili cit. a p. 52 n. 1 op. 59 n. 3 etc.; a p. 59 n. 1 viene marcata inoltre la corrispondenza tra Arat. v. 783 xaitQUOL µEL6f)aavta· ft6è xat alvO'ta'tou pUµµ' 'Ù1ttJA,EVE xuv6ç;, 10 tv 1tUQ̵h (l)(l)'V'iiv 'trio-oPEivPL6'tou.

Suffragherei ulteriormente per il v. 9 la lettura di Kaibel bt' òq>guai.µ11v(oovta: bt' ÒCJ)QUOI. µ11l>E(aavtaA co"exit Kaibel, receperunt Ludwich1, Diehl (coll. v. 91 Ku:n:()1.c; µ11VLOUOO :n:u()Òc; µtvE1.;E 177-178 ttE6c;... µ11v(aac;...xaì..Emt 6è ttEou bti. µijvi.c;, quibus addit Brugrwli Eur. Aie. 260-261 VEXuoov te;aò).àv ù:n:'ÒCJ)Quai. xuavauyéai. '3).é:n;oov m:E()(IJ"tòc; "Ai.l>aç), Gulick (ù:n:' ÒCJ)QUOI.) bt' òq>guai. µE1.&!00vta Musurus (Jortasse ex codice qui lectwnem Pharnesianam retinuerat), receperunt Bach 2 , plerique edd. recentwres ù:n:'òq>guai. µE1.MtoovtaRuhnken, Harberton, Agar (coll. Hymn. Horn. Dem. 3571 2

A. Ludwich, Coni«taneorum in A~naeumfa.sc.

Il, Regimonti 1902.

N. Bach, Phiktae Coi Hermuianactis Colophonii atqlU! Phanoclu Reliquùu, Hali11Saxonum 1829, con leA-nimadversionesdi Lennep (p. 207 118.)e leAdnotationes di Ruhnken (p. 214 118,).

G. Brugnoli

982

358 µELl>T)O'EV ... 'ALl>oovE'Ùç Òq>QUO'LV et Apoll. Rh. J, 1024 un;'Òq>QUO't Powell (coll. A. P. 7, 439, 4 'A(bn} bt' µELl>LOO>VtEç), 3 Òq>QUO'LV ol&fioavta Hermann •

Tenterò di togliere definitivamente di mezzo il sorriso di Cocito, rendendo il v. 9, secondo il participio congiunto éµtmov... µ11v(OOV'ta. 4

E. Norden, P. VergiliusMaroAeneisBuch VI, Leipzig 1957", pp. 162 ss., 206, 235 e 237.

Il sorriso di Cocito

985

Questa ipòtesi può essere corroborata da alcuni fatti: 1) la raffigurazione cocitea di Verg. Aen. 6, 374-376, archetipo degli altri loci topici cocitei della letteratura latina, è la sola a trasportare altri precisi segni ermesianattei: l'adspiciesdel v. 375 in corrispondenza con il pUµµ' 'U3tɵ€LVE del v. 10 di Ermesianatte; e ilfata deumflecti del v. 376 in corrispondenza con l'tl;avÉ3tEUJE del v. 8 e l'àvÉ3tELOE del v. 13 di Ermesianatte; 2) di tutte le occasioni in cui appare la topica cocitea, quella di Verg. Aen. 6, 373-376 è la sola, insieme al locus ermesianatteo, a configurarsi come struttura di Narratio misterica, sì da far pensare che Virgilio si sia servito intenzionalmente della laus ermesianattea di Orfeo, principe degli iniziati, per l'Allocuzione comminatoria della Sibilla a Palinuro; ma questa ipotesi di lavoro comporta anche che le intenzioni di Virgilio, data l'importanza misterica della catabasi orfica ermesianattea, siano state allora assai più profonde di quello che si potrebbe credere se potessimo invece considerare la ripresa ermesianattea soltanto esornativa; ad esempio, che l'Allocuzione della Sibilla a Palinuro vada letta antifrasticamente in direzione di Enea, che vi parteciperebbe quindi solo apparentemente come semplice uditore, e che, conseguentemente, non vada applicata a Palinuro, ma, appunto antifrasticamente e in positivo, e non come comminatoria, quale è in apparenza, ma, tutto al contrario, come laudativa, al Grande Iniziato Enea, che, in antitesi con il destino miserabile di Palinuro, e proprio come Orfeo, andrà invece iussus nel mondo per altri proibito dei morti, avendo flesso ifata deum, non precando ma per suo esclusivo privilegio iniziatico, e cioè, come fa dire a Palinuro lo stesso Virgilio, non sine numine divum: una proposta, questa, che potrebbe illuminare di ben altra luce la ragione stessa dell'episodio di Palinuro, al di là delle motivazioni, o ovviamente eziologiche, o di ripresa del modello elpenoreo, o anche perfino antropologiche, dove è oggi di solito confinata, localizzandola assai più credibilmente nella direzione politica di sopraleggere in Palinuro un'ipostasi di Enea, come mi pare adombri adesso, finalmente e meritoriamente, Laudizi5 • 5

Cfr. G. Laudizi, 'Palinuro (Verg. Aen. V 827 ss.; VI 337 ss.)', Maia 40, 1988, pp. 57-73. Il risvolto antropologico del "sacrificio" di Palinuro (ultimamente in F. E. Brenk, 'Unum pro multis caput: Myth, History, and Symbolic lmagery in Vergil's Palinurus lncident', Latomw 43, 1984, pp. 776-901 e W. S. Nicoll, "Ibe Sacrifice of Palinurus', Ckw. Quart. 38, 1988, pp. 459-472) diventerebbe del tutto secondario se si accettasse di praticare questo versante "politico" dell'episodio.

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G. Brugnoli La presenza di Ermesianatte in Virgilio non è stata adeguatamente verificata. Per limitarci a questa catabasi orfica, il solo Duckett6 ha fatto notare, e proprio per il v. 9, che la formula di Cocito che guarda è in clausola esametrica spondaica e potrebbe quinOrfeo bt' òcpQi,OL di corrispondere alla formula che Virgilio impiega per descrivere Sinone che guarda i Troiani a Aen. 2, 68 coTLStititatque oc,J,is Phrygia agmina circumspexit, pure questa in clausola esametrica spondaica: ma si tratta di un riscontro certamente straniante e comunque sospettabile eventualmente come puro incidente della memoria poetica di base. Riservando ad altra occasione una verifica sistematica ad hoc, aggiungerei sul momento, e sempre limitatamente alla catabasi orfica, almeno i confronti che considererei deliberatamente allusivi: Hermesian. fr. 2 (7), 1-3 Aen. 6, 119-120 si potuit Manis arceuere coniugi, Orphew I Threiciafretw cithara; vv. 4-5 (con la lettura eventuale per il v. 4 XaQO>V xuavf)v [lt'XOTIV A Diehl, corr. Meinelu!, recte ut mihi videtur, corruptelam swpicatw ex glo!!a ax(a't)o(v xuav)'ftv, àxtwv Bothe, à6x'VT)V Hermann, XOlÀ.lfVToup, àxµ'll" Kalinka, axoxov Giarratano, µLXQTIV Hiller, 6)..xt)vBergk, àxoQii Schweighawer, ltxaÀ.11" Goeuling, ÒÀ.orlVDeubner, XOLVTI"Lennep, Powell, qui olim scripserat QWt'tTIV, coll. Prop. 3, 18, 24 'scandenda est toroi publica cumha senis1llxEi:m dç axa'tov) = Aen. 6, 303/em,.ginea subvectat corpora cumha; v. 6 Georg. 4, 4 78-480 limw niger et deformis harundo I Cocyti, tardaque palw inamabilis unda I adligat; v. 11, in particolare per l'espressione tv nuel.b' 6µµa Aen. 6,300 stant luminajlamma, anche se Ermesianatte parla di Cerbero e Virgilio di Caronte, ma i due sono contigui in entrambi gli autori, e il parallelo con Ennesianatte va comunque meglio del consueto addotto di A l 04 ooaE bÉ ol m.lQL À.aµ,tEi:OO>VtL ttxniv, che è detto invece di Agamennone ed è quindi figuralmente fuori luogo.

=

=

=

Non sarà comunque senza significato che la iunctura bt' Òq>QU.- 6E01t6'ttç fl!A,ETÉQTI' il,t(~ELV f~EO'tL17 ; - ~~'tEiç {>è't(; - 'VUX'ta.- (J)ÉQELç 'tL; - XQ'llOLOV. - roa-6µtt. - xat 't6oov! - où buvaom.

16

Per tale principio metodologico cfr. Scripta Minora Alexandrina Il, cit. p. 429 n. 1, e Brioso, nella sua edizione delle Anacreontiche già citata, p. LXXIX. Ottimamente il Crimi, art. cit. pp. 4 e 18: quando non vi è "altra ragione per correggere che quella della violazione metrica", cioè quando i luoghi "non hanno assolutamente bisogno di essere 'toccati' dal critico per motivi diversi che metri causa", "nulla ci garantisce la validità di simili emendamenti". Per la monottongazione nelle Anacreontiche cfr. Mehlhom, Anacreontea, Glogaviae 1825, pp. 32 e 146 ("diphthongi correptio ante consonantem litteram"). Un bell'esempio di isocronia nella Anacreontica XLVII 7 Brioso: in :rtaQÉbt 'tOL:rt6ll' tµevo(va.

Questo verso è stato spiegato con elegante dottrina dal Chryssafis, nel suo dottissimo commento (Amsterdam 1981): alla sua illuminante discussione rinvio qui il lettore. Incredibile ma vero, N. Hopkinson, a causa della sua totale ignoranza della isocronia e della monottongazione nella poesia ellenistica, crede che la lezione manoscritta voq> bÉ'tOL nel verso teocriteo, con maestria illustrata da Chryssafis, sia "astonishing" e che -cpbÉ 'tOL sia un eretico ("cretic": sic): cfr. Class. Rev. 33, 1983, p. 131. In realtà, il quarto piede nel verso teocriteo XXV 62 è un dattilo, perché il dittongo OL in 'tOL è breve per monottongazione, esattamente come abbiamo visto accadere per il dittongo OL in Callim. Hymn. Jov. 87. Antifilo, in un epigramma che ho già studiato (cfr. Stemmata, Mélanges La.barbe, p. 116 n. 15, e Corolla Lond. 1, 1981, p. 31 ss.), cioè A. P. IX 546, 7 ( = Garl. Phil. 839), scandisce El xa[ nJXTJ'ttç: a quanto ho scritto in Corolla Lond. loc. cit., si deve aggiungere che d xa(, al v. 7, non solo dà il senso richiesto dal contesto ("anche se", "even though"), ma, anche, non presenta difficoltà prosodiche, perché qui xa( è una sillaba breve, per monottongazione (il senso è: "anche se una tale fortuna mi è già capitata", il verbo ElxEessendo sottinteso; tali ellissi verbali sono comuni nell'Antologia, come è ben noto). Ma non vorrei tediare il lettore con una lunga lista dei casi di isocronia e monottongazione attestati nella poesia ellenistica e dell'età

L'isocronia vocalica come fenomeno prosodico alessandrino

997

imperiale: le liste esistono già (cfr. per es. Passow, op. cit. p. 181; Page, loc. cit.; Schneider, Nicandrea I, p. 163 s.).Basterà qui dire che i suddetti casi non sono fenomeni né rari né inspiegabili ("extraordinary", "monsters"), come aveva sostenuto il Page. Primo: essi non sono rari, come le liste di essi a noi note (Passow, loc. cit.) dimostrano. Facile sarebbe aggiungere molte altre attestazioni di isocronia a quelle già listate. Per esempio, in Further Gr. Epigr. 63 la scansione isocrona Eùbaµoç è considerata come "impossibile" (sic) dal Page, sebbene essa abbia il suo parallelo esatto nella scansione isocrona Aa'toi in Further Gr. Epigr. 731, la quale ultima il Page afferma sia "indispensabile" eliminare. Fanocle, nel suo fr. II 2 Pow., scandisce, in scoperta variazione verso Omero, bupuyEiv(cfr. il commento di K. Alexander, ad loc.), ed Alessandro Etolo, come ben sanno i commentatori, scandisce ;irvEoovain fr. III 15 Pow. Filodemo, riferendo la forma maschile yÀuxuval sostantivo femminile fti:6va (procedimento ben noto, in poesia), scandisce yÀuxuvin Garl. Phil. 3279 (=A. P. VI 349, 6: verso a torto alterato dai critici). In Further Gr. Epigr. 219, Page è perplesso dalla scansione isocrona eùxaha, perché "the final syllable ought to be short"; in Further Gr. Epigr. 2164, Page biasima la scansione isocrona XÀLVTJ come una "false quantity", ed egualmente perplesso egli è dalla scansione isocrona fvbì:ov in Further Gr. Epigr. 1394; la scansione isocrona Otva in Further Gr. Epigr. 2110 è dal Page biasimata come "extraordinary" e come una "false quantity", che dovrebbe essere "eliminated" (sic). Il Page (Rufinus, p. 41) non comprende la scansione tQtoaoa in A. P. V 14, 3 perché egli crede che il verbo tQ(bro,usato da Rufino ed attestato in Esichio, sia un puro "mis-spelling" per tQdbro, cioè egli crede che la t di tQ(brodebba essere lunga. In realtà, il verbo tQtbro nacque, come Nebenform di tQdbro, nello stesso modo in cui il verbo ellenistico bavét;ro(cfr. LSJ, s. v.) nacque come Nebenform di bavdtro: queste due Nebenformen, cioè, non sono "mis-spellings", ma il risultato di "Quantitatsausgleich" ellenistico, per cui Et ed i: si confusero. Secondo: due dati sono incontestabili. A) La isocronia e la monottongazione esistono~ come fenomeni pienamente attuati, nella Umgangssprache greca del periodo ellenistico: ciò è provato dalla testimonianza dei papiri, i quali, come ho già detto, riaffermano la deduzione fatta dal Casaubonus, dal Salmasius, dal Gronovius e dal Wemicke, e nel contempo refutano la aprioristica ed infondata "Behauptung" enunziata dal Bentley. B) Isocronia e monottongazione sono già attestate nella poesia el-

998

G. Giangrande

lenistica. Come spiegare questo fatto? La spiegazione è semplice. Come ho avuto occasione di mettere in rilievo più di una volta 19 , i poeti ellenistici vollero affennare la loro originalità e modernità nei confronti di Omero e della lingua epica, innovando: le loro innovazioni consistettero nell'impiegare, introducendoli nella lingua epica di tradizione omerica, elementi "umgangssprachlich" di età ellenistica, sia lessicali sia sintattici. Come ho già sottolineato in A), la isocronia e la monottongazione appartengono alla "Umgangssprache" dell'età ellenistica: ciò è dimostrato dalla natura dei documenti papiracei che esibiscono tali due fenomeni. Sarebbe stato sorprendente ed inspiegabile se i poeti ellenistici avessero, con incoerenza, introdotto nella lingua epica di tradizione omerica elementi "umgangssprachlich" solo di natura lessicale e sintattica, ma non di natura metrica: ora che i papiri hanno dimostrato, riconfermando il Casaubonus ed il Salmasius, che la isocronia e la monottongazione sono elementi "umgangssprachlich" di età ellenistica, possiamo constatare che i poeti alessandrini non peccarono di incoerenza: per manifestare la propria modernità, essi introdussero nella lingua poetica di origine omerica tutti gli elementi "umgangssprachlich" di età ellenistica, cioè non solo elementi lessicali e sintattici, ma anche quelli prosodici, ossia la isocronia e la monottongazione20 • Per una legge ben nota e già osservata ad esempio dal Wernicke, le attestazioni di una data peculiarità metrica mostrano una "progressione", per cui esse aumentano "progressivamente" e si "infittiscono" 19

'Problemi testuali nei poeti alessandrini', in La critica testuale, oggi: metodi e probkmi, Roma 1981, p. 385 ss.; per gli epigrammi di Callimaco cfr. Scripta Minora · Alexandrina III, cit. pp. 107-108 con n. 10. 20 Secondo i filologi antichi (cfr. per es. Dilntzer, De Zenod. stud. homer. pp. 53, 63, 87; Aristonici IlEQl °'111·'Thu'.16oçreliq., ed. L. Friedlaender, p. 14, per il "participium pro verbo finito", e p. 30, per i "gradua comparationis inter se confusi"; si vedano anche le mie osservazioni in Sic. Gymn.39, 1986, p. 50) Omero impiegò elementi che appartenevano alla "Umgangssprache" della sua età, e che poi riemersero nella "Umgangssprache" ellenistica ed imperiale. Se i poeti ellenistici, come alcuni degli studiosi erroneamente criticati dal Bentley sostennero (Schneider, Callimachea I, p. 163 s.), usarono la isocronia e la monottongazione perché credevano che esse fossero già attestate in Omero, come rarità, possiamo concludere che i poeti in questione, che sapevano essere la isocronia e la monottongazione fenomeni appartenenti alla "Umgangssprache" ellenistica, si servirono di esse per imitare Omero, credendo cioè che esse fossero già state usate da Omero in quanto fenomeni appartenenti alla "Umgangssprache" dell'età sua, destinati poi a riemergere nella "Umgangssprache" dell'età ellenistica. I poeti ellenistici amavano riprodurre, moltiplicandone gli esempi, rarità omeriche, come è ben noto.

L'isocronia vocalica come fenomeno prosodico alessandrino

999

col passare del tempo: ciò è stato rilevato dal Friedemann, ed opportunamente ripetuto dalla Palurnbo Stracca (art. cit. p. 73 s., per le peculiarità metriche riguardanti la media syllaba pentametri). La moda, in metrica, è per questo aspetto come la moda nell'abbigliamento femminile: le innovazioni introdotte da pochi diventano, col passare del tempo, elementi sempre più diffusi. Di conseguenza, le attestazioni di isocronia vocalica e monottongazione, fenomeni relativamente rari introdotti da poeti ellenistici nella lingua poetica, si infittirono nella poesia dell'età imperiale, che ne offre exempla nonnulla (Wemicke, loc. cit.) 21 , finché i suddetti due fenomeni divennero poi la norma nella scansione bizantina, cioè negli ottXOL n:oÀL'tLXOL I poeti dell'età imperiale quali Gregorio Nazianzeno, nell'usare la isocronia vocalica, non innovarono, quindi (precorrendo cioè la isocronia bizantina, come opinò il Crimi, art. cit.), bensì coscientemente 22 continuarono l'uso della isocronia e della monottongazione23 che essi

21

Come è noto, Nonno di Panopoli non segul la moda in questione: cfr. Crimi, art. cil. p. 20. 22 Come ha messo bene in rilievo il Brioso (Anacreonticas, p. LXXXVII) bisogna, naturalmente, distinguere. Nel caso di poeti dotti quali per es. Callimaco, Teocrito, gli epigrammatisti alessandrini (la cui conoscenza della lingua omerica è acutissima, anzi oppressivamente pedante), Rufino o Gregorio Nazianzeno, l'isocronia e la monottongazione sono evidentemente peculiarità stilistiche "conscie", per usare il termine felicemente impiegato dal Crimi (art. cil.), con le quali detti poeti vogliono essere "moderni", vogliono cioè differenziarsi da Omero col non seguire più l'uso prosodico di quest'ultimo (cfr., comunque, la n. 20); nel caso di opere quali le Anacreontiche (alcune di queste sono ellenistiche e dotte, altre tarde e "popolari") è ovviamente impossibile decidere dove isocronia e monottongazione siano peculiarità prosodiche stilisticamente "conscie" e volute, e dove esse siano, invece, "error en la escansi6n", errore cioè causato dal "Quantitiitsausgleich" ormai attuatosi. Una cosa è comunque certa: la testimonianza dei papiri dimostra, contro la aprioristica ed infondata affermazione del Bentley che ancora viene supinamente ritenuta valida dal Page o dal West, che la isocronia e la monottongazione sono fenomeni pienamente attuatisi nell'età ellenistica, dal che consegue che le attestazioni di questi due fenomeni nella poesia pre-bizantina sono non già incomprensibili mostruosità ("extraordinary", "monsters"), bensl un fatto perfettamente normale e spiegabile. 23 Altre distinzioni sono, naturalmente, necessarie. Il tipo più comune di isocronia vocalica riguarda a, Led u (cfr. Mehlhom, op. cil. pp. 32, 140, 146, 181). Numerosi casi ne esistono in Gregorio, il quale presenta, però, anche altri tipi di "Quantitiitsausgleich" (cfr. Crimi, art. cil. p. 21). La isocronia di T), attestata come abbiamo visto nei papiri di età ellenistica, in epigrammi ellenistici e nelle Anacreontiche (per la isocronia di E ed T) cfr. Brioso, Anacreontea, Salamanca 1970, p. 30), è poi attestata nella poesia bizantina (non solo in quella non quantitativa, per cui cfr. Crimi, art. cil.

G. Giangrande

1000

trovavano già abbondantemente attestata nei poeti ellenistici. Prendendo spunto da una osservazione dello Spanheim (nel suo commento a Callimaco, p. 39) possiamo concludere che i versi di poesia ellenistica contenenti isocronia per monottongazione, come per es. Callim. Hymn. Jov. 87 t àyxwvL àxoµuoo6µtvoç (btt&}À.O\lbè tòv taQLXÉJ4XOQOV) ytvoç BoQUçvta 'tÒytvoç, àìJ..à.'tLittvta 'tòv (J')(OXÒV 'toùç omroç ovv btl 'tvcpf.M.ov àQ(cnouç 'to;ro'tàç xaQ«À«~tLv· t;tta~e oii xoftev da(v, àUà 'tlveç" (Stobaeus, FlorilegiUTfl,4, 29a, 13: Cum Antigonw rex ex Bione philosopho, cui ignobililw generis obici-eretur, percontalw esset: "quisnam es et unde hominum? tibi uhi patria atque parentes?", ille ail "recte quidem (puto te), o rex, cum tibi sagittariu opw sil, non de genere percontari, sed locum poni iuhere quem feriant sagittarii, quorum hac ratione optimos eligas; eadem ratione, cerueo, in amici! inquiras non undeorti, sed qui sint').

Ho rilevato in altro studio su Bione4, che in generale le similitudini, i paradigmi, le metafore nelle sententiae o comunque nei testi del filosofo cinico sono attinti dalla realtà sensiliile, concreta, sperimentale, dall'area del fare naturale e dell'operare tecnico. Bione non procede con dimostrazioni di logica astratta, ma con esempi di comportamenti naturali o pratici. Non l'essere è il criterio, ma il fare: nel secondo frammento il modello per la scelta degli amici da parte del re (Antigono Gonata) è indicato nel modo di scelta degli arcieri: il re sceglie i migliori non chiedendo loro la stirpe (l'ascendenza), ma ponendo loro un bersaglio. Dunque non dall'origine familiare, ma dalle capacità (quindi non in relazione alla personalità individuale, ma al saper fare; non in conside-

4

'Bione di Boristene: la retorica al servizio della filosofia', in Mnemosynum.

Studi in onore di A. GhiseUi,Bologna 1989, pp. 451-456.

Talento e nobiltà secondo Bione di Boristene

1005

razione dell'essere, ma del fare) dipende la scelta degli amici, dipende, tout court, l'amicizia. Il 1taQftbe1.yµao exemplum suggerisce che saranno scelti come amici quegli uomini che, messi alla prova, mostreranno con il loro comportamento di valere; il valore si misura sulla capacità di fare, di eseguire specifiche operazioni. La comparazione, attraverso la quale l'esempio produce la propria funzione, è istituita tra due aree diverse per considerazioni sia culturali sia sociali: l'amicizia appartiene al dominio della filosofia etica pratica, l'arte dell'arciere appartiene al dominio della tecnica; non è necessario ricordare che nella società antica dei Greci e dei Latini le tecniche e i tecnici in generale occupavano un rango sociale basso, comunque di gran lunga inferiore alle cosiddette artes liberales, proprio perché prevalentemente e originariamente esercitate non da liberi cives, ma da µtto1.xo1.o da liberti o, addirittura, da seroi; e queste considerazioni valgono perfino per i medici e gli architetti e anche per gli avvocati o >..oyoyQétqxn in Grecia, peraltro non a Roma, dove a fianco di umili causidici anche patricii e nobiles de plebe esercitavano l'avvocatura. Anche nell'arte militare i sagittarii occupavano un rango inferiore, tanto è vero che in genere sia a Roma sia in Grecia erano considerati soldati di minore responsabilità tattica e strategica, di fronte agli opliti e ai legionarii milites. Dunque, com'era nell'uso dei cinici, in qualche misura provocatoria questa comparazione tra arciere e amico, perché si fonda sopra una analogia tra situazioni eterogenee, l'una etica e intellettuale, l'altra manuale e tecnica. Ma proprio questa è la forza dell'esempio: rendere sensibile, materiale il concetto, costringere il lettore e l'uditore a ritrovare la teoria nella prassi, ad uscire dall'astrazione per riconoscere nel concreto le idee, dar forza alle idee ritrovandone la forma nelle cose. La polemica affermazione di Bione contro l'importanza della stirpe, secondo cui non dal sangue trasmesso dagli avi dipende il valore del singolo, ma ciascuno vale per ciò che egli stesso è, venne, naturalmente, subito interpretata in senso spiritualistico e di tale interpretazione si trovano abbondanti testimonianze ed echi nel commento del Kindstrand 5 • L'analisi dell'esempio mostra che in realtà Bione anche in questo frammento valorizza un'affermazione astratta assimilandola ad un comportamento manuale e tecnico, con ciò suggerendo che i valori solidi a cui far riferimento, perché la gente intenda quali sono i valori dell'etica 5

Loc. cil.

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A. Pennacini

nuova, diffusa al principio dai Sofisti, ora dai Cinici e dagli Stoici, si ritrovano nel mondo sensibile e manuale, nel mondo del fare naturale e dell'operare tecnico. Queste scelte provano la consapevolezza che i Cinici possedevano della realtà concreta e insieme suggeriscono quale era il pubblico cui le prediche dei filosofi erano dirette.

La l>tal>OXTJ eleatica e il Senofane 'scettico' di Timone* Massimo Di Marco

Quale sia l'esatta collocazione di Senofane in rapporto alla scuola di Elea, ovvero quale sia il grado d'interrelazione tra la sua dottrina e quella di Parmenide, costituisce ancor oggi, dopo decenni di denso ed argomentato dibattito, un nodo in larga parte irrisolto nel panorama degli studi di storia della filosofia antica. A dare rilievo al problema contribuirono in modo determinante, * Ai seguenti lavori si farà riferimento con il solo nome dell'autore: P. Albertelli, Gli Ekati, Bari 1939; J. Bumet, Early Greek Philosophy, London 1934(1892 1); H. Chemiss, Arùtotk'J Criticum o/ PreJocratic Philosophy, Baltimore 1935; C. Corbato, 'Studi senofanei', Annali Triestini 22, 1952, pp. 179-244 (= Corbato 1952); Id., 'Postilla senofanea, 1952-1962', Riv. crit. Jtor. jiloJ. 18, 1963, pp. 229-24 7 ( Corbato 1963); H. Diels, Damgraphi Graeci, Berolini 1879; W. K. C. Guthrie, A Hutory o/Greek Philosophy l, Cambridge 1962; II, Cambridge 1965; W. Jaeger, TM TMololJY o/ tM Early Greek PhiloJopMrJ, Oxford 1947 (= La jiloJofia dei primi peruatori greci, Firenze 1961); W. von Kienle, Die Berichu iiber die SukzeJ.Sionen der PhilosopMn in der MlknutucMn und Jp/1tantiken Liùratur, Diss. Berlin 1961; G. S. Kirk-J. E. Raven, fM PreJocratic PhilosopMrJ. A Criticai Hutory with a Sekction o/ Texu, Cambridge 1962 (nuova ed. a cura di M. Schofield, Cambridge 1983); A. Lumpe, Die Philosophie du XenophaneJ von Kolophon, Diss. Miinchen 1952; J. Mansfeld, 'Aristotle, Plato, and the Preplatonic Doxography and Chronology', in Storiografia e dossografia nellajiloJofr.a antica, a cura di G. Cambiano, Torino 1986, pp. 1-59 (= Mansfeld 1986); Id., 'Theophrastus and the Xenophanes' Doxography', Mnemwyne 40,

=

1987, pp. 286-312 (= Mansfeld 1987); J. B. Mc Diarmid, 'Theophrastus on the Presocratic Causes', Harv. Stud. ClaJ.S.Philol. 61, 1953, pp. 85-156; R. Mondolfo, Eraclito. TeJtimonianze e imitazioni, a cura di R. M. e L. Tarén, Firenze 1972; W. D. Ross, Arùtotk'J MetaphyJicJ I, Oxford 19532 (1924 1); P. Steinmetz, 'Xenophanesstudien', Rh. Mw. 109, 1966, pp. 13-73; M. C. Stokes, One and Many in PreJocratic Philosophy, Washington D. C. 1971; L. Tarén, ParmenideJ, Princeton 1965; M. Timpanaro Cardini, 'Saggio sugli Eleati', Stud. claJ.S.or. 16, 1967, pp. 149-255; G. Turrini, 'Il frammento 34 di Senofane e la tradizione dossografica', PrometMw 8, 1982, pp. 117-135; M. Untersteiner, Senofane. Tutimonianze e frammenti, Firenze 1956; J. Wiesner, PJ.-Arùtotek:J, MXG: der hutorùcM Wert du XenophaneJreferatu. Beitrli.ge zur Geschichte deJ Ekatumw, Amsterdam 1974; E. Zeller-R. Mondolfo, Lafuosofia dei Greci nel Juo Jviluppo Jtorico I 3: Ekati, a cura di G. Reale, Firenze 1967.

1008

M. Di Marco

com'è noto, le tesi sostenute da Karl Reinhardt nel suo Pamumi.da 1• Rivalutando la testimonianza dell'anonimo autore del De Melissa Xenophane Gorgia e deducendone la convinzione della presenza di una forte componente dialettica nel pensiero senofaneo 2 , lo studioso tedesco giungeva a negar credito alla tradizionale immagine del pensatore ionico come iniziatore dell'eleatismo e maestro di Parmenide: non il Colofonio, infatti, ma lo stesso Parmenide sarebbe stato a suo avviso il fondatore della scuola eleatica; quanto al rapporto tra i due filosofi, esso si sarebbe configurato in termini esattamente opposti a quelli già delineati dalle fonti antiche: Senofane sarebbe stato non il maestro, bensl un discepolo del più giovane Eleate - un discepolo peraltro dotato di tale vivacità intellettuale da essere capace, secondo Reinhardt, di dare autonomo e originale sviluppo, appunto in senso dialettico, ad una dottrina pur appresa in età avanzata. Era, quella di Reinhardt, una ricostruzione intrinsecamente debole e, dunque, destinata a non riscuotere molti consensi: sia perché fondata su una globale svalutazione dei referti della storiografia filosofica antica, sia perché elaborata sulla base di un testo in cui il pensiero senofaneo ci appare, con ogni evidenza, riformulato nei termini propri di una cultura filosofica d'età posteriore 3 • Nondimeno, l'audace conte-

1

K. Reinhardt, Parmenuw

Bonn 1916, p. 99 2

und di.e Guchichu tkr grieclwchen Phifusoplùe,

88.

Sulla sezione senofanea del trattato vd. soprattutto Untersteiner, pp. XVIICXVIII, il quale sostiene l'opinione che lo scritto sia opera di un megarico (cfr. anche G. Reale nell'aggiornamento a Zeller-Mondolfo I 3, pp. 2-54), e Wiesner, per il quale l'autore del trattato sarebbe un peripatetico del III sec. a.C. che avrebbe utilizzato materiale aristotelico per Melisso e Gorgia, mentre per Senofane si sarebbe rifatto a ..eine spitere, inadiiquate Tradition [... ), die er formai dem voraufgehenden Melissosbericht anzugleichen versuchte" (p. 323). 3 Si vedano p. es. le critiche di W. Nestle, Wochenschriftf. klau. Philol. 33, 1916, pp. 649-653 e 678-681, spec. 678 s. (pur nell'ambito di una recensione che nel libro celebra ..eine vollstiindige Umwiilzung in der Auffassung der vorsokratischen Philosophie"), o quelle di Lumpe, p. 56 s. Nei suoi cardini fondamentali, la tesi di Reinhardt è stata tuttavia ripresa da E. Howald, Die Anfii.nge tkr europai.schenPhilosoplùe, Munchen 1925 (ma si veda la ripulsa delle sue argomentazioni nella recensione di H. von Amim in Gnomon 2, 1926, pp. 635-641) e soprattutto da O. Gigon, Die Unpru.ng tkr grieclwchen Philowphie. Von Besi.od bis Parmenù:ks, Basel 1945, p. 244 88.: dopo essere stato rapsodo e aver coltivato interessi cosmogonici, e dopo aver criticato sotto l'influsso pitagorico le concezioni omerica ed esiodea della divinità, Senofane sarebbe infine approdato in tarda età, seguendo suggestioni parmenidee, alla dottrina dell'unità dell'essere. Un tentativo di parziale recupero dell'attendibilità della

La lhabox11eleatica e il Senofane 'scettico' di Timone

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stazione di un dato ritenuto acquisito non fu inutile: servì a scuotere antiche certezze e sollecitò l'avvio di uno studio più attento e approfondito dei rapporti intercorsi tra Senofane e la scuola di Elea. Quali siano i risultati delle ricerche condotte al riguardo è a tutti noto4 • Rese più sensibili a cogliere le peculiarità e la molteplicità di interessi del pensiero senofaneo, esse sono venute sempre più segnalando - anche in ordine a quei temi per i quali Senofane è sempre stato tradizionalmente collegato all'eleatismo- importanti ancorché sottili punti di divergenza tra la speculazione del filosofo ionico e quella parmenidea. Sulla valutazione di queste divergenze gli studiosi sono tuttavia divisi: mentre ad alcuni le difformità son parse tali da dover revocare in dubbio l'effettiva appartenenza di Senofanl' alla scuola di Elea, da altri gli scarti sono stati interpretati semplicemente come il segno di una minore maturità delle intuizioni del Colofonio rispetto ai più rigorosi principi enunciati da Parmenide: il quale tuttavia proprio da quelle intuizioni avrebbe ricevuto l'impulso ad elaborare il suo sistema. L'impasse è evidente: secondo gli uni non si andrebbe al di là di un legame assai tenue 5 , secondo gli altri, invece, sarebbe esistito tra i due pensatori - e sarebbe perfettamente riconoscibile - un preciso rapporto di filiazione ideologica 6 • Non è nostro intento entrare nel merito di una quaestio la cui soluzione è resa oltremodo complessa dall'esiguità e dalla frammentarietà

sezione senofanea del MXG, ma da un'angolatura diversa da quella di Reinhardt, è in K. v. Fritz, R. E. IX A 2, 1967, col. 1549, 29 ss., s. v. 'Xenophanes': prescindendo dalla forma dell'argomentazione e guardando alla sostanza della testimonianza (la letteratura dossografica "iiberall die liingeren und schwer mit dem Ausdruck ringenden Formulierungen der friihen Vorsokratiker in kune dialektische Formeln umgesetzt hat", col. 1556, 4 ss.), non ci sarebbero clamorosi punti di divergenza rispetto alla tradizione secondo cui Senofane fu l'iniziatore del monismo eleatico. 4 Un'ampia rassegna degli studi su Senofane, estesa fino alla metà degli anni '60, è nel citato aggiornamento di G. Reale a Zeller-Mondolfo (cfr. n. 2), pp. 64-164. Per gli anni 1939-1956 vd. anche H. Schwabl, Anz.f.Altert. 10, 1957, pp. 195-214, e per gli anni 1952-1962 Corbato 1963. Per gli anni 1957-1969/70 vd. J. Wiesner, Anz.f. Alteri. 25, 1972, pp. 1-15. 5 Tra gli altri, p. es., Albertelli, p. 13: "Senofane e Parmenide anziché congiunti sono separati da un abisso"; Jaeger, p. 54: "the whole theological Eleatic Xenophanes is a chimaera"; Corbato 1952 (Parte prima: 'Senofane eleate?', pp. 179-203). 6 Cfr. p. es. Guthrie II, p. 2: "the influence of X. 's conception of unity on Parmenide& is clear, whether it carne from bis writings or from personal contacts"; Timpanaro Cardini, p. 168 ss.; Mondolfo, pp. C-CXIV.

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dei testi pervenutici nonché dalle difficoltà che ne rendono impervia l'interpretazione. Lo scopo di queste pagine è invece quello, ben più circoscritto, di riesaminare le indicazioni che in ordine al rapporto tra i due filosofi ci sono fomite dalle fonti ad essi successive. Ciò che emergerà è come le notizie di cui disponiamo siano non solo assai più problematiche, ma anche meno univoche di quanto in passato si sia generalmente ritenuto. Il primo che parli di Senofane come capostipite degli Eleati è Platone, nel Sofista (242 c-d): "Ciascuno di questi mi pare ci racconti una favola, quasi fossimo bambini; uno dice che l'essere in quanto tale è tre cose e talvolta alcune di queste combattono fra loro in qualche modo, talaltra divengono amiche e fanno nozze, generano figli e altro che sia ai figli di nutrimento; un altro afferma che è due cose, l'umido e il secco oppure il caldo e il freddo, e queste fa coabitare insieme e unisce in matrimonio. Da noi invece la gente eleatica, che discende da Senofane e anche da più lontano (tò [ ... ] naQ' T)µoov 'EÀeatLXÒV fflvoç, imò Eevoq>avouç te xat hL n:Q6oftevàQ;aµevov), racconta le sue favole, partendo dall'ipotesi che ciò che si indica comunemente con 'tutte le cose' non sia che una cosa sola" (trad. A. Zadro)7. Come da più parti si è rilevato, l'impressione che si evince dal passo è che Platone abbia congiunto Senofane all'eleatismo solo perché Senofane- come gli Eleati, ma prima di loro- aveva fatto professione di monismo8 • Il contesto ci 7

Per l'analisi di questo passo vd. in particolare Steinmetz, pp. 19-21; Stokes, pp. 50-52; Mondolfo, pp. C-CXIV; Mansfeld 1986, p. 22 ss. 8 Si è voluto vedere nel passo platonico un che di ironico o di scherzoso e si è cosl parlato di "Plato's humorous remark" (Bumet, p. 170), "Plato's half-fanciful remark" (Chemiss, p. 201 n. 228), "a playful and half-ironical way of speaking" (Jaeger, p. 215 n. 5); cfr. altresl Ross, p. 153: "Plato's remark [... ) is not be taken very litterally [... ); his treatment of Xenophanes as a founder of the school is probably not very seriously meant"; J. Bames, The Presocratic Phifusophers, London-BostonMelboum-Henley 1982, p. 84: "Plato, jesting, makes Xenophanes the first Eleatic monist". Come argomenta von Kienle, p. 43 ss., quello di Platone andrebbe considerato "ein ironisches Spiel mit philosophiegeschichtlichen Gedanken": il fùosofo ammiccherebbe ai suoi lettori alludendo all'Antologia di lppia, che aveva catalogato fatti e opinioni di vario genere sulla base del criterio della reciproca somiglianza (cfr. 86 B 6 D.-K.), o al IlEQÌ 'tOU6vtoç di Protagora, che doveva contenere una critica delle dottrine monistiche. L'affermazione relativa a Senofane implicherebbe tutt'al più "dass sich irgendwelche Gedanken des Xenophanes im Sinne der eleatischen Einheitslehre deuten liessen". Una conferma di ciò sarebbe nel fatto che in lsocr. 15, 268 quali rappresentanti del monismo sono menzionati solo Parmenide e Melisso (per un esame comparativo dei passi del Sofista e dell'Aniidosi vd. Mansfeld 1986, p. 33 e G. Cam-

La

lhaooxiteleatica

e il Senofane 'scettico' di Timone

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mostra il filosofo esclusivamente interessato a stabilire quali risposte fossero state date al problema ontologico: la consonanza su quest'unico punto doveva risultare preminente rispetto ad ogni pur rilevante divergenza su altri temi; ed essendo Elea ai suoi occhi la "patria ideale del monismo''9, era naturale che appunto nell'alveo dell'eleatismo egli riconducesse, come antesignani di questo specifico indirizzo filosofico, quanti avevano espresso concezioni in qualche modo affini. È questa, credo, la chiave ermeneutica utile a comprendere anche come, procedendo oltre 10 , con un'espressione forse intenzionalmente indeterminata ma dietro la quale molto probabilmente si cela il riferimento ad enunciati di stampo panteistico presenti in testi orfici 11 , Platone possa alludere a precedenti della scuola eleatica ancor più remoti dello stesso Senofane (tn xgoaftev). La disinvoltura di questa indagine retrospettiva - ossia questa sostanziale indistinzione tra pensiero logico e pensiero mitico - non deve meravigliare: di analoghe semplificazioni, infatti, è disseminata non solo la dossografia più tarda, ma offre un cospicuo riscontro lo stesso Platone là dove, nel Teeteto (152 e; 179 e), postula una linea di continuità tra Omero, Epicarmo e gli Eraclitei: una linea

biano, 'Tecniche dossografiche in Platone', in Storiografia e dossografia tu!llafilmofia antica, Torino 1986, p. 70). Pur propenso a riconoscere la ripresa da parte di Platone di uno schema associativo già proposto da lppia, nondimeno Mansfeld 1986, p. 26 s. rifiuta l'interpretazione in chiave ironica del passo: "I[ ... ] suggest that we take Plato's Eleatic genealogy seriously". Secondo Steinmetz, p. 21, la testimonianza di una connessione di Senofane con gli Eleati sarebbe derivata a Platone "aus eleatischer Tradition". 9 "Eleatico non ha qui valore di etnico, ché Senofane non era nativo di Elea, né lo erano i precedenti sostenitori della dottrina; esso si riferisce dunque a una patria ideale, ad un'Elea ante litteram [... ]: litvoç non sarà tanto scuola, o setta come abitualmente viene interpretato, ma discendenza o stirpe ideale" (Timpanaro Cardini, p. 170). 10 t ben noto, del resto, come nella considerazione degli antichi una dottrina potesse vantare un'autorità e un prestigio tanto maggiori quanto più remote fossero state le sue attestazioni. Stokes, p. 51 vede appunto nel passo platonico "an example of the perennial Greek tendency to thrust one's views back into the past as far as possible in order to give them greater authority". 11 Che si tratti di una genericità voluta, per cui Platone non avrebbe in mente dei precedenti ben definiti, è ipotesi p. es. di Zeller, Albertelli, Corbato; ad un'allusione in generale ai poeti cosmogonici pensa Untersteiner; ad Omero e alla scuola milesia Jaeger; al :n:aMlLÒS Aoyo; di cui parla Plat. Leg. 715 e la Timpanaro Cardini e Mondolfo. Che il riferimento sia precisamente a versi orfici è dimostrato da Mansfeld 1986, p. 26 s.

M. Di Marco

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che anzi inizierebbe ancor prima di Omero 12 • Tutto ciò, com'è ovvio, suggerisce un atteggiamento di cautela nei confronti della connessione che egli stabilisce tra Senofane e gli Eleati. Di non minor peso i rilievi che investono la testimonianza di Aristotele: Eevoq>étvriçbè :rtQ-coç [ ... ] h-(aaç (6 yàQ IlaQµev(bT)ç -cou-cou ÀtyE'taLyevéaftat µa-fhtt11ç)oùbèv btEaaq>11vtaevx-cì...(Metaph. A 986 b 22 ss. = 21 A 30 D.-K.). Dalla singolare fraseologia del passo, sulla cui interpretazione grava l'ipoteca di un enigmatico ÀtyE'taL,si è tratto motivo per sospettare che Aristotele derivasse la sua informazione direttamente da Platone 13 ; si è anzi sostenuto che, pur potendosi esimere dal citare Senofane nella sua indagine sulle hQxa( presocratiche, egli si risolvesse a fame menzione per via dell'affermazione platonica che era stato appunto con Senofane (se non addirittura prima) che aveva avuto inizio l"Eì..Ea"ttXÒVWvoç: un'affermazione che, data l'autorità della fonte, non poteva essere ignorata 14 • Di un rapporto di dipendenza cosi vincolante si può, io credo, dubitare 15 ; in ogni caso, il ricorso ad una formula impersonale non può ritenersi casuale: al contrario, occorrerà ravvisarvi il chiaro segnale di una presa di distanze rispetto ad una notizia evidentemente non del tutto scontata o la cui attendibilità il filosofo non era comunque in grado di garantire 16 • 12

L'analogia con il passo del Teeteto è esplicitamente rilevata p. es. da L. Campbell, The Sophistes and Politicus o/ Plal-0,Oxford 1867, p. 104; Bumet, p. 127; Mc Diannid, p. 118 s.; V. Guazzoni Foà, 'Senofane e Parmenide in Platone', Giom. di Metafisica 16, 1961, p. 467; Kirk in Kirk-Raven, p. 165. Vd. da ultimo, in particolare, Mansfeld 1986, p. 27. 13 Cosi p. es. Bumet, p. 126; Jaeger, p. 215 n. 65; Ross, p. 154. Secondo Chemiss, p. 353, "the chance remark of Plato was taken up and applied as a canon of interpretation". Allo stesso modo Lumpe, p. Il parla di una "Missdeutung", Raven (in Kirk-Raven, p. 265) di un Aristotele "misled" dalle parole di Platone: il che mi sembra francamente eccessivo. 14 Cfr. Mc Diannid, p. 118: "His only reason for mentioning Xenophanes appears to be that he is hesitant to omit him in view of Plato's statement in the Sophist that the Eleatic sect began with Xenophanes or stili earlier". 15 Giuste obiezioni già in Guthrie 11,p. 2 n. 4: l'ipotesi è "highly unlikely", tanto più che Platone non fa menzione di rapporti tra Senofane e Parmenide. Cfr. anche Mansfeld 1986, p. 15. 16 Vd. von Kienle, pp. 44 s., 57. Diversamente valuta il ÀfyE'tmSteinmetz, p. 21 s.: non vi sarebbe alcuna riserva da parte di Aristotele, che con tale formula intenderebbe semplicemente richiamarsi a "eine feste Tradition". Analoga interpretazione già in Uberweg-Praechter, Di.ePhilosophie des Altertums, Berlin 1926 12 , p. 81 e in Lumpe, p. 12 n. 12.

La

bLaooxiJ eleatica

e il Senofane 'scettico' di Timone

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Implicazione inevitabile, i dubbi che gravano sulla testimonianza aristotelica proiettano la loro ombra anche sulle testimonianze riconducibili a Teofrasto. In un passo in cui dichiara esplicitamente di riportare il pensiero di quest'ultimo, Simplicio definisce Senofane "maestro di Parmenide" (µ(av 6è niv llQXflV [.••] E:evoq,6.VT)v 'tÒVKoÀ.oq>'tÉQaç ltÀ.-6-E 'tàç 66ouç 'Eua'tT]ç (ÀtyELbè [xal) EE'Voq>a.VTJV) (Alex. in Metaph. A 984 b 3 = Theophr. Phys. op. fr. 6 = 28 A 7

17

Cfr. Jaeger, p. 215 n. 65; Mc Diannid, p. 119: "In Theophrastus and the doxographers [... ] hearsay becomes a fact" (ma contro la tendenza a svalutare la dossografia teofrastea vd. Mondolfo, p. C~qn ss. ). Anche per von Kienle "Theophrast diese alte philosophiegeschichtliche Uberlieferung vorbehaltlos anerkannt hat" (p. 70): ne sarebbe conferma lo stretto legame da lui istituito a livello dossografico tra i due pensatori. 18 Mansfeld 1987, p. 309 rileva tuttavia che "the credentials, in fr. 5, of Melissus ('from Samos'), Parmenides ('son of Pyres, from Elea') and Xenophanes ('the teacher of Pannenides, from Colophon'), are such as appear to be usually given by Theophrastus". 19 t l'ipotesi avanzata da Guthrie I, p. 369: "Theophrastus [... ], though in fact only repeating his master's opinion in different words, did put it in a form more liable to misunderstanding".

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D.-K.). Quella che in autori più tardi ci viene presentata come una dipendenza dogmatica di Parmenide dal più anziano filosofo di Colofone si configura qui come una successione puramente cronologica. Anche in questo caso risalta la formulazione ambigua dell'enunciato ('tOU'tq>[ •••) bnyev6µevoç) 20 : indizio forse di un agnosticismo perfettamente in linea con quello professato sullo stesso tema dal grande Maestro 21 ? I dossografi che attingono a Teofrasto e gli autori tardi che utilizzano i loro compendi guardano a Senofane come al fondatore della scuola eleatica e a Parmenide, come si è già accennato, come ali' allievo che ne avrebbe continuato la dottrina 22 • Nondimeno, è documentata all'interno delle nostre fonti una linea alternativa, rappresentata da chi negava un siffatto discepolato o comunque tendeva a svalutarne l'incidenza sotto il profilo dottrinario. Sozione, ad es., sottolineava come Parmenide avesse preferito seguire il pitagorico Aminia piuttosto che Senofane (Diog. Laert. 9, 21 = 28 A 1 D.-K. = fr. 27 Wehrli) 23 e come questi fosse stato il primo ad affermare l'inconoscibilità delle cose (Diog.

Per questa fraseologia cfr. anche fr. 9 (= Simpl. in Phys. p. 484, 19 ss. Diels) 'tOÙ,;6llou,; ffQOLO'tOQ\loa,; ''tO\l'tOL,;' q>TtO(v 'bnyEV6µEVo,; ID.cnwv tj\ µtv M;n xal tj\ OOVUµEL Jt()()'t'EQO,;, 'toi:,;6È XQ(WOLfi iiatEQO,;X'tÀ.. '. Cfr. peraltro già Aristot. Metaph. A, 987 a 29 s. 1,1,t'tà 6È 'tà,; ElQT1i.&tva,; cpLÀ.OOTt l:(.l)'t(wv,6v6QtXMJ'tLIJ.ÉV, xaÀ.q> 6È xaì. àyaittp. q> Awxa('ta 'tq>IluiroyoQLXq>, xat µallov ftxoÀ.Ouih)OE xat àttoltav6v'to,; fiQov lbQUOO'tO ytvou,; 'tE im«QXWV À.aµ,i;QOU xat nÀ.Omou,xal un' 'AµeLv(ou, àll' o-òx unò S:evocpavou,;El,; fioux(av ffQOE'tQUffll. Fonte di Sozione per il rapporto di Parmenide con Aminia è forse Timeo (H. Diels, 'Parmenidea', Hermes 35, 1900, p. 196). La testimonianza andrà intesa nel senso che Parmenide "durch Ameinias zur Philosophie (-ltoux(a= oXOÀ.fl) gekommen sei" e Sozione potrebbe essere stato spinto a sottolineare il forte legame tra i due dall'interesse che l'ambiente di Ale88andria nel quale viveva manifestava per il pitago20

La OLaboxfieleatica e il Senofane 'scettico' di Timone

1015

Laert. 9, 20 = 21 A 1 D.-K. = fr. 29 Wehrli àxataÀ.T)n:tadvat tà n:étvta). Ippolito (Ref. 1, 11 e 14 = p. 564 s. Diels) non registra la successione Senofane-Parmenide, ed anzi separa nettamente i due filosofi24 ; in più, ripete l'affermazione che Senofane avrebbe anticipato gli Scettici, confortandola con la citazione degli ultimi due versi del fr. 34 D.-K. (= 35 G.-P.) 25 • Non senza ragione, mi pare, si è argomentato che proprio questa interpretazione di Senofane come precursore del più tardo scetticismo possa avere suggerito l'opportunità di assegnargli una speciale ed autonoma collocazione all'interno del sistema delle 6taooxa( 26 : una volta che si fosse enfatizzata la componente scettica nel pensiero del Colofonio, era ovvio che Parmenide non potesse essere considerato il suo continuatore 27 • molto probabile che all'origine di questa prospettiva c~e assume Senofane a scettico ante litteram siano stati i Silli di Timone. E questocome cercherà di illustrare l'analisi che segue - per cosl dire l'archetipo dal quale in prima istanza Sozione, ma poi anche Ippolito e, come vedremo, lo Ps.-Galeno dell'Historia philosopha dipendono. In partico-

t

rismo (von Kienle, p. 84 s.). Vd. anche F. Wehrli, Die Schuk des Ari.stoiele3,Supplbci. 2: Sotion, Basel 1978, p. 59. 24 Senofane è separato dagli Eleati anche in Diog. Laert. 9, 20, ove forma con Eraclito (cfr. 8, 91) il gruppetto dei c. d. ol mtOQCX6']v (su questa collocazione vd. G. Giannantoni, 'Pim>ne, la scuola scettica e il sistema delle 'successioni' ', in LoScetticismo antico, a cura di G. G., Napoli 1981, p. 21 ss.; M. Gigante, 'Biografia e dossografia in Diogene Laerzio', Elenchos 7, 1986, p. 87 s.). Ma lo stesso Diogene Laerzio (9, 20) presenta Parmenide come allievo di Senofane e non esita a qualificare come "em>nea" l'affermazione di Sozione secondo cui Senofane avrebbe assunto posizioni scettiche. 25 Secondo Diels, p. 146 lppolito avrebbe complessivamente attinto ad una fonte dossografica d'origine teofrastea, ma per la sua sezione epistemologica si sarebbe ispirato ad un compendio che seguiva Sozione. Contra von Kienle, p. 23 s. (il nostro brano apparterrebbe ad una sezione per la quale Ippolito sembra utilizzare una fonte dossografica che contamina Teofrasto e materiale biografico e che si direbbe "von einer skeptischen Tendenz durchgezogen") e Mansfeld 1987, p. 297 s. (ipotesi di una fonte dossografica di provenienza accademica). 26 Cfr. p. es. von Kienle, pp. 23, 86. Le peculiari ragioni di questa sistemazione rendono difficile vedere in essa, come suggerisce Corbato 1963, p. 237, una chiara conferma di "quella separazione di Senofane dagli Eleati, che[ ... ] trova piena giustificazione in un esame spassionato della tradizione". 27 Unica possibile (ma paradossale) alternativa era, in quest'ottica, quella di considerare la scuola eleatica come prevalentemente orientata in senso scettico: fu appunto la soluzione adottata dallo Ps.-Galeno (vd. infra).

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lare, un ruolo importante nella fissazione dell'immagine del Senofane 'scettico' avrà avuto, io credo, il fr. 59 del poema timoniano, in cui il filosofo di Colofone, introdotto come persona loquens, si duole per aver assunto nella vecchiaia posizioni di tipo dogmatico, più precisamente monistico: ooçxal èy(Ì)v6Un 6' 66t;cuta't'llih)V wta..(11 6Mç: la quale, con l'assunzione di M6ç a metafora di una dottrina filosofica, si presta ad essere letta come un'implicita ma chiarissima allusione appunto al filosofo di Elea. In effetti, chi conosca la raffinata e arguta tecnica allusiva di Timone e ponga mente alla centralità che il concetto di 6Mç ha in Parmenide 32 , ovvero al valore programmatico del termine nella sua filosofia e all'insistenza con cui esso ricorre nei punti più significativi dei frammenti superstiti del suo poema (28 B 1, 2 e 27; 2, 2 ss.; 6, 3 ss.; 7, 2 e 3; 8, 1 ss., 18; cfr. XÉÀ.E'Uitoçin B 2, 4; 6, 7), non potrà avere dubbi sul fatto che la ripresa di questa parola-chiave sia intenzionale e che qui, sulle labbra di Senofane, essa si configuri come una sottile ma

rum reliquiae a Sexto Empirico traditae explanarùur, Erlangae 1865, p. 10: ou µ6vov

veav(aç, àllà xal ,ieeofJuy~ç. 31

Non capisco come S. Zeppi, Studi sullafl""ofia prt!platonica, Firenze 1962, p. 20, possa invertire le due fasi: "sembra( ... ] che dalla testimonianza di Timone si debba evincere che Senofane, dopo aver dogmaticamente affermato il monismo, abbracciò da vecchio lo scetticismo". 32 Sull'impiego metaforico del termine vd. l'ampio studio di O. Becker, Das Bild des Wegen und verwandù Vorstellungen imfrii},,griechischen Denlren, Berlin 1937 (su Parmenide pp. 139-143). L'immagine della M6ç, in parte forse anche dietro suggestione dell'esempio parmenideo, ricorrerà poi anche in Teofrasto e nei dossografi più tardi (cfr. Simpl. in Phys. 28, 4 = Theophr. PhYJ. op. fr. 8 = 28 A 8 O.-K. Awxumoç [... ] ou niv auniv t~6LoEV Ilapµev(bn xal EEVC>q)QVTI ,iepl 't'tÉpaç ~ì..in 6oouç; [Plut.] Strom. 4 21 A 32 O.-K. Eevoq,avrJç[... ) l6(av nvà 6Mv ,iexoeroµÉVOç).In Senofane compare con valore metaforico XÉÀ.EU60ç: cfr. 21 B 7, I O.-K. VÙV a-6-t'6llov mELµL À.IYyOV,6E(~(I)6È XÉÀ.E\l@ov.

=

=

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1018

precisa frecciata polemica: la boÀ('I M6ç, infatti, altro non è se non l'antifrasi di quella che Parmenide aveva enfaticamente qualificato come la IlEL-6'0ùçXÉÀEU-6-oç, la XÉÀ.EU-6-oç di quella IlELttooche •AÀTt&tn ÒffllbEi (28 B 2, 4). Un'allusione 1taQ' umSvoiav, se si vuole, ma non per questo meno perspicua e mordace. Una mordacia ulteriormente rimarcata dall'esplicito riferimento alla condizione che rese possibile l'inganno: la suggestione esercitata su Senofane dal monismo fu unicamente l'effetto perverso della sua senescenza, dell'appannarsi della ragion critica provocato dall'età. Del resto, l'impressione che il Senofane di Timone intenda polemizzare con Parmenide riceve conferma da quel che segue ai vv. 4-6: un passo che, non a caso, gli studiosi hanno ampiamente utilizzato per ribadire i punti di contatto tra la dottrina dell'uno e dell'altro filosofo. Qui Senofane, con espressioni non prive di coloritura drammatica, presenta la sua adesione al monismo nei termini di una vera e propria allucinazione: per quanti sforzi egli facesse di rimanere ancorato alle sue precedenti posizioni, la realtà che si veniva dispiegando alla sua mente obnubilata si trasfigurava nelle forme di un tutto omogeneo e indifferenziato, di un universo cui il movimento e il divenire erano totalmente estranei. Un quadro in cui appare chiaro il riflesso dell' ontologia parmenidea: della dottrina, cioè, di quel Parmenide che aveva appunto affermato l'esistenza di un tòv oµowv e ;uVEXÉçe aveva concepito come mero 6voµa il 't6'1:ovlùJ..aCJCJELV. Né è soltanto il contenuto di questi versi a rinviare a Parmenide. Da raffinato poeta parodico qual è, Timone ha posto in bocca a Senofane una sottile parodia di uno dei moduli logico-espressivi più caratteristici dell'Eleate: la convalida della dottrina dell't6v attraverso la predicazione dell'inapplicabilità all't6v stesso delle categorie tradizionali di una fisica che ammetteva il pluralismo e il divenire. Come ho già osservato altrove, meritano in particolare di essere segnalate le affinità concettuali e le consonanze espressive che l'ultima parte del nostro frammento (,i;nv bé ol atEl / '1:Clvt'flàvù.x6µevov µ(av Elç q>UCJLV i'.CJ'tatt'6µo('lv) presenta con quei versi in cui, nell'affermare la ;uVÉXELadell't6v, Parmenide accede all'ipotesi di un tentativo (ovviamente del tutto sterile, nella sua ottica) di disgregazione e diversa aggregazione dell'Essere: où yà.Qàno'tµT);EL'tÒ tòv 'toù t6v'toç txEattai I o'Ù'tECJXLbvaµevov,i;avrn ,i;aV'twç xa'tà x6aµov I OÙ'tECJUVLCJ'taµEVOV (28 B 4, 2-4 D.-K.) 33 • Affinità e conso-

33

Credo, con W. J. Verdenius, Parmenides. Some Co~nts

on his Poem, Am-

La 6~abox11eleatica e il Senofane 'scettico' di Timone

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nanze appaiono cosl puntuali da legittimare il sospetto che ad ispirare Timone siano stati appunto i versi parmenidei. Ma quale significato attribuire alla polemica di Senofane contro Parmenide? Il filosofo ionico afferma di essere stato ingannato da una OOÀ.('I6Mç, cioè - come abbiamo visto - dalla dottrina di Parmenide: dobbiamo supporre che Timone pensasse realmente ad un influsso di Parmenide su Senofane, che facesse cioè di Parmenide il "cattivo maestro" del Colofonio? Nel proemio del poema parmenideo la l>a(µoovche guida il filosofo alla conoscenza della verità lo apostrofa come xougoç (28 B 1, 24 D.-K.): può forse questo particolare avere indotto Timone ad immaginare il vecchio Senofane indottrinato dall'ancor giovane eppur filosoficamente già maturo Eleate 34 ? In realtà questa ipotesi ha dalla sua elementi scarsamente probanti. È verisimile, infatti, che l'enfasi con cui nel frammento timoniano Senofane sottolinea la tarda età alla quale si sarebbe convertito al monismo non abbia altra funzione se non quella di motivare il suo abbandono delle posizioni 'scettiche'. Quanto al termine xougoç che occorre nel proemio parmenideo, sono ben note le riserve fatte valere dagli studiosi circa l'interpretazione in senso strettamente anagrafico che già Reinhardt dava dell'appellativo 35 : a motivare l'apostrofe ili XOUQE da parte della dea è probabilmente non la giovane età di Parmenide, ma la differenza tra la natura divina di colei che parla e la natura umana dell'alloquito 36 • Resta, è vero, la polemica contro la OOÀL'I6Mç. Ma,

sterdam 1964, p. 47, che il frammento tratti dell'omogeneità dell'essere (non trovo convincenti, invece, le argomentazioni di K. Bormann, Parmenides. Unursuchungen zu den Fragmenun, Hamburg 1971, p. 87 ss. ). Sulle incertezze testuali che il framm. presenta vd. Taran, p. 45 ss. Cfr. anche 28 B 8, 25 taV'tao(aç che o [...] 3tEQltvòç boyµad~rov, fi 3tQOXQ(

oi..wç xatà 1t(O'tLVfi futtO't(av fi futocpaLv6µevoç 3tEQ( tLvoç trov àMti..wv, tou boyµatLxou y(vetat xagaxtijQOç (Pyrrh. hyp. 1, 223):

come spesso altrove nell'opera di Sesto, l'esegesi del testo che egli cita subisce i condizionamenti imposti dalla contingente prospettiva dell'autore41. Un secondo argomento addotto a sfavore di una derivazione dell'immagine del Senofane 'scettico' da Timone concerne il termine àxata.À.TJITTO che ricorre nella testimonianza di Sozione. Poiché la nozione di àxataÀ.TJ,j,(a è estranea alla terminologia del pirronismo più antico ed è invece familiare al vocabolario dell'Accademia, si è formulata l'ipotesi che Sozione abbia mutuato la sua notizia appunto da fonte accademica 42. Ma una siffatta deduzione a me non pare cogente. Non si può infatti escludere, e forse è addirittura probabile, che Sozione, attento lettore e commentatore di Timone, abbia potuto riformulare nella terminologia in voga ai suoi tempi un concetto che egli credeva di poter desumere dai Silli. Nulla vi si oppone; anzi, un illuminante raffronto

41

Che Sesto forzi i testi a scopo polemico è ben sottolineato da F. Decleva Caizzi, •Prolegomeni ad una raccolta delle fonti relative a Pinone di Elide', in Lo Sceuicismo antico, a cura di G. Giannantoni, Napoli 1981, p. 113 s. E, del resto, proprio la vicenda esegetica del fr. 34 D.-K. di Senofane, lucidamente illustrata da Turrini, p. 117 ss., documenta assai bene come Sesto oscilli tra diverse modalità di lettura di uno stesso testo a seconda del punto di vista di volta in volta adottato. 42 Radicale nel suo giudizio Mansfeld 1987, p. 295: "'Everything is incomprehensible' is the shibboleth of Arcesilaus". Più prudentemente, a giustificazione della scelta di Sozione di presentare Senofane come iniziatore dello scetticismo e assertore dell'impossibilità di cogliere la verità, Turrini, p. 125 prospetta l'ipotesi dell'utilizzazione s\ di una fonte dossografica di provenienza accademica, ma combinata con il ritratto di Senofane risalente a Timone; l'uso di àxa'taÀT)ITTa rinvierebbe in ogni caso, anche per lui, a fonte accademica: a ..materiale dossografico risalente a Carneade o, il che è più verosimile, al gruppo di scolarchi che guidarono l'Accademia nel cinquantennio intercorso tra la direzione di Arcesilao e quella di Carneade".

La bLabox11 eleatica e il Senofane 'scettico' di Timone

1023

può essere istituito in proposito c~11Diog. Laert. 9, 61 (= Pyrrho T 1 A Decleva Caizzi), ove è riportata la notizia secondo cui Ascanio di Abdera avrebbe attribuito a Pirrone l'introduzione dei concetti di btOXT)e, appunto, di àxa'ta.À.T)'\llLLv ~éwv ayo()TIOO'tO xat l&EtÉEutE'Y,che nell'Iliade spesso introduce i discorsi degli eroi (cfr. anche A 253, B 78, 283, H 326, 367, I 95, O 285, 1: 253). Il fatto che Sofocle - a livello conscio o inconscio - avesse presente questo passo non modifica tuttavia la SOBtanzadelle cose: Aristofane citava come proverbiale non il solo KaAxaç in quanto di cpQOVV per antonomasia, bensl l'intero verso, sulla cui valenza a livello gnomico, purtroppo, nulla è dato sapere e solo si può azzardare qualche ipotesi (ad es. che equivalga ad espressioni del tipo della nostra Se due più due fa quattro). 9 A questa annotazione si collega tutta una tradizione paremiografica dove però

La tradizione proverbiale greca e Aristofane di Bisanzio

1027

go alessandrino viene qui richiamato non perché si è semplicemente occupato dell'espressione, ma perché l'ha trascritta rifacendosi al più famoso locw classicw in cui essa compare, Aristoph. Vesp. 1291 d'ta 10 vfrv ~1EO't1)CJEV TIXOQa;tTlV 6.µ1tù.ov:non quindi un "geflilgeltes Wort", ma un verso che avrà contribuito con la sua notorietà alla diffusione del proverbio. Senza dubbio sorprendente è l'avverbio xaxci>ç: non si vede perché Aristofane avrebbe trascritto 'malamente'. Slater si limita ad osservare che "the rason for the criticism is not discemible" 11: con ogni probabilità, invece, bisognerà postulare una corruzione e perlomeno segnalarla con la crux. Visto poi che il semplice xaÀci>çnon è proponibile (sostituirebbe un inspiegabile apprezzamento negativo con uno positivo, ma altrettanto privo di significato), la soluzione migliore appare il xat oihroç proposto da Nauck 12 , che restituirebbe una situazione analoga a quella del fr. 358 (cit. infra), anche se permangono perplessità: il xai infatti avrebbe senso davanti ad 'AQLO"toq>OVT)ç ("anche Aristofane") più che prima di oihroç ("anche cosl") e rimane quindi il sospetto che si nasconda qui una corruzione più ampia, forse dovuta a un saut du mime au mime, provocato dall'uguaglianza del nome del trascrittore e dell'autore. 3. Di particolare interesse è il fr. 358, testimoniato da Arpocraxat •y1EEQEi&)ç (fr. zione (133, 18-134, 3 Dindorf): lgya vtrov· 'tOU'tO 57 K.) tv 'tq>xa't' Aù'toxÀÉouç·HouS~ou(fr. 321 M.-W.) qniotv dvaL. manca la puntuale indicazione dell'irvayQOq>ELV di Aristofane: in Diogen. Vind. III 90 (Il 51, 2-4 L.-S.) si ha semplicemente 'AQLaVTI\;" "f;t1nc'.m]aEV xd. .." mentre in Macar. III 96 (Il 165, 6-7 L.-S.), Mant. Prov. III 44 (11779, 4-5 L.-S.), e App. Prov. II 71 (I 408, 4-5 L.-S.) la citazione diviene lemma, senza ulteriori rimandi ad autori precisi. Il proverbio è inoltre chiosato - senza richiami ad Aristofane di Bisanzio anche da Schol. Aristoph. Vup. 1291, Hesych. X 185, Suda X 97, Eust. 1163, 33. 10 Richter e Blaydes, seguiti dal Coulon, emendano in ~ffO:nJXEV.Non è questo l'unico passo aristofaneo in cui un aoristo tràdito è sostituito dagli studiosi con un perfetto (si vedano ad es. Vup. 244, Nuh. 1033, 1080), ma nel nostro caso l'aoristo, anche se meno adatto al contesto, è giustificabile, poiché si tratta di un proverbio. 11 Slater, nel considerare saldo il testo, sembra muoversi sulle orme di Rupprecht (art. cii. col. 1743), il quale ritiene che si tratti di una critica di fronte alla tendenza aristofanea a "den in der Tat oder scheinhar unvollstiindigen Text der Sprichworter ergiinzen" e afferma: "Es wiire fùr uns von hochstem Interesse zu erfahren welcher antike Gelehrte die durch Zenobius erhaltene Kritik [... ] geilbt hat". 12 Si badi bene che il Nauck (Aristophanis Bymntii grammaticiAlaand.rinifragmenta, Halis 1848, p. 237) proponeva xal ou-cwçe non semplicemente oircwç, come indica Slater.

R. Tosi

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1taQOLµ(adç tanv, f\v àvtyQç).È poi attestato in Elio Aristide (Or. 40, I 755 D.), mentre Gellio (I 8, 4) lo riporta all'interno di un aneddoto ripreso dal peripatetico Sotione e riguardante Demostene: l'oratore sarebbe andato, travestito, a Corinto a cercare l'amore della meretrice Laide famosa per la bellezza e per i prezzi non certo popolari, e questa gli avrebbe chiesto - per concedergli le sue grazie - ben diecimila dracme, costringendolo ad una ingloriosa ritirata. In effetti il proverbio è generalmente spiegato dagli antichi in connessione con l'industria del piacere che fioriva a Corinto, e in particolare con il fatto che, dati i prezzi alti, era riservata ai ricchi: cfr. in particolare Strab. VIII 6, 20; XII 3, 36, da cui deriva Eust. (ad B 570 [I 448, 1-5 Valk]), nonché varie attestazioni lessicografiche e paremiografiche (Phot. 360, 18-22 P., Suda o 924, Apostol. XIII60 [Il 591, 16-20 L.-S.], si vedano anche Zen. Ath. I 27, Zen. vulg. V 37 [I 135, 13-17 L.-S.), Diogen. VII 16 [I 289, 6-8 L.-S. ]). Più genericamente, Esichio (loc. cit .) fa riferimento agli inganni delle etere, mentre un'esegesi del tutto differente - riportata da Apostolio, da Fozio e dalla Suda richiamava semplicemente le difficoltà della navigazione. In realtà, data la valenza che il proverbio assume in Orazio (Ep. I 17, 36), si può postulare che Corinto stia qui ad indicare la meta agognata da tutti i naviganti, ma che non a tutti è possibile raggiungere. 22 Cfr. supra n. 11.

LETIERATURA DEL PERIODO GRECO-ROMANO

Strabone interprete di Omero (Contributo al problema della formazione della polis) Mauro Moggi

Un passo di Strabone (VIII 3, 2), che interpreta il significato di certe denominazioni omeriche relative a località (topoi) dell'area peloponnesiaca, suona cosl: L'attuale polis di Elide non era stata ancora fondata al tempo di Omero, ma il suo territorio era abitato per villaggi; veniva chiamata Bassa Elide per il fatto che tale era la parte maggiore e migliore di essa. Solo più tardi, dopo le guerre persiane, confluirono nell'attuale polis di Elide da molti demoi. Anche quasi tutte le altre località situate nel Peloponneso che il poeta enumera, le menziona, ad eccezione di poche, non come poleis, ma come chorai, aventi ciascuna numerosi OUCJTtlµa'ta &)µwv, dai quali in seguito furono fondate le ben note poleis: cosi Mantinea in Arcadia fu fondata da cinque demoi ad opera degli Argivi, Tegea da nove, da altrettanti Erea ad opera di Cleombroto o di Cleonimo; allo stesso modo Egio fu costituita come polis da sette o otto demoi, Patre da sette e Dirne da otto; analogamente, anche Elide fu costituita come polis dalle comunità circostanti (una di esse, quella degli Agriades, dovrebbe essersi aggiunta più tardi).

Rilevo rapidamente che le considerazioni di Strabone su Elide non sono il frutto di un particolare acume interpretativo, perché la medesima sembra presentata come chora nel testo omerico, mentre mi pare interessante che la valutazione della situazione elea sia stata estesa anche ad alcune città dell'Arcadia e dell' Acaia, per le quali lo stesso testo potrebbe far pensare a delle poleis intese in primo luogo come centri urbani 1• Trascuro alcuni problemi testuali che non riguardano

1

Hom. Il. II 573 88. (Aigialos-Acaia), 603 88. (Arcadia), 615 88. (Elide); per quest'ultima, in particolare, cfr. R. Hope Simpson-J. F. Lazenby, TIII!Calalogueof cheShips in Homl!r's lliad, Oxford 1970, pp. 96-100; G. S. Kirk, fM lliad: a Commi!nlary, Cambridge 1985, I pp. 218-219; III pp. 180-181; sulla situazione rappresentata nell'epica e sul significato di polis in Omero cfr., rispettivamente, A. Mele, 'Elementi formativi degli etw greci e assetti politico-sociali', in Storia e civiltà dei

M. Moggi

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la questione di cui intendo occuparmi 2 : quella della corretta interpretazione dell'espressione 01JO't'tlµa'ta6ftµrov. Le traduzioni risultano pressoché concordi nell'intenderla come "pluralità di gruppi o di organizzazioni di demi", attribuendo a systema il valore di "intero composto" e a demoi quello di "elementi" che concorrono a formarlo. Il systema, insomma, è visto come una struttura composita, di cui i demi rappresentano gli elementi costitutivi e le articolazioni3. Nell'ambito di un discorso puramente linguistico e dal punto di vista delle valenze del termine, questa interpretazione di systema appare non solo del tutto accettabile, ma anche capace di imporsi come la più ovvia: in effetti, se il termine definisce un "whole compounded of severa! parts or members" 4 e se è stato usato per designare la cosiddetta lega Achea da Polibio e dallo stesso Strabone 5 , il fatto che quest'ultimo possa averlo utilizzato per indicare un'embrionale organizzazione statale costituita da un insieme di demi non solo non sembra creare alcun problema, ma può apparire addirittura scontato. Come esemplificazione di questa tendenza interpretativa, cui io stesso mi sono uniformato6, si può citare quanto è stato scritto a proposito della situazione di Mantinea prima del V secolo a. C.: "La république en était encore à la forme primitive du OUWQTJ naefttvoç;, che, priva di ragioni di opportunità, complica le cose a chi deve intendere. 5 Certo non solo l'Anonimo, che per questo critica Senofonte, ma anche Erodoto doveva essere diversamente ispirato quando elaborava la storia di Gige, Candaule e 2

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benissimo che Ollier colga nel giusto quando corregge il testo dei manoscritti di Senofonte sulla base della citazione del passo che si trova nel trattato IlEQt U'\llouç6e del riferimento presente in Stobeo 7 • A rinforzare le ragioni di preferenza per la lezione ti}aì..µotç 1taq{tévrov sono intervenuti di recente importanti rilievi di L. Spina 8 • Comunque stiano le cose e senza pregiudizio per la legittimità dell'intervento sul testo della Costituzione degli Spartani, può suggerire qualche riflessione di metodo constatare come né Ollier né Spina, nel loro argomentare, abbiano toccato il problema generale, e in certo senso preliminare a ogni altro ragionamento, della correttezza con cui lo Pseudo Longino è solito citare le fonti alle quali attinge i suoi esempi: è ovvio che le prove di uno scarso scrupolo o di frequenti errori nelle citazioni richiamerebbero a qualche cautela prima di correggere il testo dei manoscritti in favore della tradizione indiretta. In realtà il sostanziale disinteresse dei moderni per i problemi suscitati dalla citazione di testi altrui nelle fonti antiche è pressoché una costante e troppo spesso si dimentica che le citazioni nel mondo antico sono qualcosa di molto diverso da ciò che noi in genere intendiamo 9 ; tanto più significativo è ritrovare questa sorta di rimozione, a proposito del passo qui discusso, in uno studioso del valore di Augusto Rostagni, il quale nella sua edizione, con traduzione e note, del trattato Del Sublime così osserva: "Veramente i codd. di Senofonte a noi giunti, in luogo di òq>i}aì..µotç leggono itaì..aµo~ç, per cui la freddura non ci sarebbe più. Può darsi che il testo dei codd. sia stato corretto per togliere a Senofonte questo motivo di biasimo: certo il Nostro nel suo esemplare leggeva òq>i}aì..µotç e così leggevano altri che imitarono questa freddura come fece Timeo

della moglie di questi, dove occhio e colpa si identificano in un atto di impudicizia che è patente violazione della riservatezza. 6 IV 4. 1 Fior. 44, 23. 8 'L'incomparabile pudore dei giovani Spartani (Senofonte, Costituzioni! degli Spartani, III 5)', Quad. Urb. n. s. 19 (48), 1985, pp. 167-181. 9 Non mancano in bibliografia titoli, specie dell'ottocento, che sembrerebbero smentire questa idea del disinteresse; per il nostro trattato si può leggere H. Hersel, Qua in citandis scriptorum f!t pot!larum locis auctor libf!lli pt!ri hypsous usus sit rationl!, Berlin 1884; in genere però si scopre ben presto che in queste dissertazioni sono messi a fuoco problemi diversi da quello della fedeltà delle citazioni all'originale. Qualche notazione sparsa·sulle distorsioni operate dallo Pseudo Longino è in W. B. Sedgwick, 'Sappho in "Longinus" (X, 2 Line 13)', Am. Joum. Philol. 69, 1948, pp. 197-200.

L'Anonimo Del Sublime e i frammenti degli storici greci

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appresso cit. ". Il sospetto che l'Anonimo possa aver deformato più o meno intenzionalmente - come avviene in altri casi - il testo di Senofonte non sfiora neppure Rostagni, il quale, anzi, si dichiara sicuro che l'autore del IlEQÌ. u,vouc;disponesse di una copia della Costituzwne degli Spartani con la lezione òq)'f}w..µoic;, magari corretta in seguito da qualcuno preoccupato di vanificare proprio la critica che era rivolta a Senofonte. L'ipotesi è suggestiva, ma non è davvero facile immaginare chi potesse avere interesse per un'operazione del genere, mentre non è da trascurare che l'Anonimo stesso, il quale era alla ricerca di esempi di freddezza stilistica, abbia pensato di modellarne una a spese di Senofonte o comunque di dare la preferenza a una variante testuale, già esistente ai suoi tempi, che si prestava allo scopo 10• Già soltanto per questo s'impone, nel silenzio quasi generale degli studiosi moderni, l'importanza di un'indagine sul modo in cui l'Anonimo maneggiava gli autori da cui traeva esempi per il suo trattato, nel tentativo di comprendere quanto egli li conoscesse a fondo e li rispettasse nello spirito e per una volta, cosa più importante - nella lettera quando li citava. La credibilità dell'autore del IlEQÌ. u,vouç e l'affidabilità del suo sapere letterario rappresentano un tema di rilievo in rapporto al contributo, 10

Non intendo sottacere la difficoltà che ne deriverebbe: in tal caso infatti bisognerebbe supporre che la lezione dell'exce,ptum di Stobeo derivi proprio dall'Anonimo; cfr. Spina, art. cit. p. 168 n. 3. Quanto ai pochi scrupoli nel deformare testi altrui mi pare che sia istruttivo il caso di III 2: qui per deridere la pomposità dello storico Clitarco lo scrittore fa ricorso a un verso di Sofocle (probabilmente dalla tragedia Orina per noi perduta: cfr. fr. 768 Radt) 1uxQOic;µèv aÙÀLCJXOLOL, qx>QPELÒ:c; 6' 61:EQ, "con un piccolo flauto sl, ma senza sordina"; lo stesso frammento è tràdito in due trimetri da Cicerone, Ad Au. II 16, 2 qruo~ yàQ où OJUXQOiOLv aùUaxmc; fn, / òll' ixye(mc;q>tlOOLOL qx>QPELò:c; 61:EQ;se, come tutto lascia credere, la trascrizione esatta è quella di Cicerone e non quella dell'Anonimo (che da Cicerone può derivare), ci troviamo qui di fronte non a un problema di varianti testuali ma a un brutale taglio operato dall'Anonimo, magari per ottenere più immediatamente l'effetto del grottesco nei confronti di Clitarco che è il bersaglio della sua critica. Scarti nelle citazioni si riscontrano anche nei passi presi a prestito dagli oratori: si veda il caso in XVI 2-4 del giuramento pronunciato da Demostene davanti agli Ateniesi sconfitti a Cheronea (Demosth. De cor. XVIII 208). È interessante in proposito quanto osserva G. Martano, 'Il 'Saggio sul Sublime'. Una interessante pagina di retorica e di estetica dell'antichità', Aufot~{! und N~der{!ang 1132, 1, Berlin-New York, 1984, p. 382 n. 54: "La differenza tra il testo demosteniano e la citazione dell'Anonimo può derivare o dal fatto che il Nostro riporta a memoria, o dall'intenzione di scarnire la forma per dare maggior risalto alla sua efficacia emotiva". La rilettura che l'Anonimo fa di un brano del 'divino Platone' (Tim. 65 c-85 e) in XXII è piuttosto una parafrasi: cfr. Martano, art. cit. p. 386 n. 67.

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peraltro molto ristretto 11 , che egli fornisce alla raccolta dei frammenti degli storici greci (F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Històriker), soprattutto a motivo del fatto che l'Anonimo offre al lettore un modello di citazione che, avendo l'apparenza di essere testuale, riserva importanti sorprese. Ovviamente l'esame condotto qui dovrà considerare quelle riprese la cui fedeltà all'originale è possibile controllare, dunque in primis i passi di Erodoto, Tucidide e Senofonte riportati nel trattato Del Sublime. A proposito dell'uso dell'iperbato in XXII 1 è trascritto l'esordio del discorso tenuto da Dionisio di Focea agli Ioni in Her. VI 11: la citazione è fatta verbatim, ma non senza che le parole erodotee ÌJ:7tEQf}aÀ.6µ.EVOL 'toùc; tvavttouc; dvaL Ueu-6-EQOL diventino più modestamente ÌJ:7tEQ~aÀéaf}aL 'toùc; :1toÀ.eµ(ouc;. Quanto alla drammaticità della ÒV'tLµE'taiteaLc; 'tOOV :7tQOOro:7t(t)'V ovvero all'uso del tu impersonale che chiama l'ascoltatore (o il lettore) sulla scena - l'Anonimo in XXVI 2 ricorre a un esempio tratto da Her. Il 29; anche questa ripresa pretende di essere verbatim mentre è una sconcertante estrapolazione di parole che rivela, com'era da aspettarsi, un sostanziale disinteresse per il contenuto geografico del passo, ma anche, più sorprendentemente, una spregiudicata mancanza di correttezza: il percorso da Elefantina a Meroe, che lo storico descrive con dovizia di particolari, è concentrato dall'Anonimo nella risalita del fiume (Nilo) fino a una piana uniforme, nell'attraversamento di questa e nel reimbarco per una navigazione di due giorni che conduce a Meroe; senza contare le pesanti omissioni, di cui è agevole rendersi conto attraverso un confronto con Her. Il 29, basti osservare che i tempi di percorrenza previsti dallo storico dopo il reimbarco assommano a dodici giorni e non a due 12 • In I 103-105 Erodoto narra che una poco numerosa retroguardia degli Sciti, vincitori dei Medi di Ciassare che assediavano Ninive, ritirandosi dalla progettata invasione dell'Egitto e passando per Ascalona in Siria, saccheggiò in quella città il tempio di Afrodite Urania cosicché 'toiaL l>È 'trov l:xu-6-É(t)'V OUÀ.flaaaL'tÒ LQòv'tÒ tv •AaxMoovL xal 'toiaL 6 -6-eòc; -6-flì..eavvouaov. Consideran'tO'U't(t)'V atei b(y6voLÉ(l)'V'tO'tçouÀ:r1oaotv 'tÒ Lt:QÒVtvÉ~aÀ.EVT)i>eòç 'fhlÀ.t:tavvouoov. La citazione, estrapolata dal suo contesto, non ci direbbe molto sulla vicenda degli Sciti com'era raccontata in Erodoto: se questo è ben comprensibile, giacché l'autore non persegue fini di trasmissione di un sapere storico e studia invece questioni latamente retoriche, non manca tuttavia di sorprendere il fatto che la ripresa, avendo tutta l'aria di essere fatta verbatim, non lo è per niente a motivo principalmente a) dell'alternativa tvÉCJXT)'lj)E 6 i>e6ç / tvÉ~aÀEVT)i>E6ç;b) dell'omissione della località ove il tempio sorgeva e dell'estensione della punizione a tutti i discendenti di quei sacrileghi. Trattando l'aspetto delle espressioni rozze ma di grande evidenza, l'Anonimo riprende in XXXI2 - nella consueta forma diretta e dunque con presunzione di resa testuale - due passi delle Storie relativi alla morte, in circostanze del tutto diverse, di Cleomene re di Sparta e dell'egineta Pite figlio di Ischenoo; l'ampio resoconto erodoteo di VI 75 sulla fine di Cleomene è drasticamente compendiato e la sola vera corrispondenza testuale riguarda il verbo xa'tOXOQbt:uwv("facendo salsicce di sé"), ossia la parola che ha attratto a motivo della sua rozzezza l'interesse tutto retorico dell'Anonimo. Non diversamente stanno le cose riguardo a Pite: mentre lo storico in VII 181 intende ricordarne il valoroso comportamento alla battaglia navale dell'Artemisio (~V'tELXE futaç, "resistette combattendo, finµax6µevoç tç T) ché fu fatto a pezzi"), il retore richiama l'attenzione del lettore sull'uso, Già qui si avvertoche rasenta la trivialità, del verbo xa'taXQEO'UQYÉW. no gli effetti di quel processo di decontestualizzazione al quale l'Anonimo sottopone i brani che attinge alle fonti letterarie per l'esemplificazione dei suoi ragionamenti 1tEQlu'lj)ouç: è naturale che l'astrazione dal contesto, che minimizza il significato del passo chiamato in causa per spostare l'attenzione su questioni retoriche, produca le conseguenze più vistose nelle citazioni tratte dalla storiografia. Altri esempi di questo genere, che colpiscono la scelta di vocaboli contrastanti con l'idea di sublime, si ritrovano in XLill l: i riferimenti ~eoam1ç,..essendosi il mare messo a sono a Her. VII 188 Tijç i>aÀ.aCJOT)ç 13 bollire" a proposito della tempesta che coglie l'annata navale di Serse

13

Nel trattato è invertito l'ordine delle parole: ~EOClOl)ç bÈ tijç ÒaÀ.ClOOl)ç.

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D. Amhaglio

al capo Sepiade; a VII 191 ft llUroç xooç a,,.tòç ~itilitaÀ.µcòv,"motivo di dolore per gli doto con il suo &À.YT)b6vaç occhi" 17 , come egli chiama in V 18 le belle donne: a parziale giustificazione del suo autore l'Anonimo precisa che tale definizione è messa sulla bocca di uomini barbari e ubriachi: nonostante ciò il riferimento al passo erodoteo appare oscuro, allusivo e tanto più quando si rifletta sulla complessità e ricchezza dei motivi che nelle Storie caratterizzano l'incontro di Persiani e Macedoni alla corte di Aminta.

*** Quattro volte nel trattato è nominato Tucidide 14

18

,

sempre con atte-

Ma nel trattato: 6 6veµoç bcon(aoev.

15

Ma l'Anonimo scrive: -coùç1tEQl-còvauaymv ~QOoool,ltvouçt!;ebÉXl!"CO -céÀoç t!;Eq>QÉOV'to, mentre cixaQLdove -còvauaymv è probabilmente desunto da -càV«1JTIYLa ~0001,ltvouç è inventato di sana pianta. 16

l:cpfoç -cqiX ... tn; si noti inoltre che nell'edizione di Rostagni xa-céxwoav

è emendamento, sulla base del testo di Erodoto, di un xadaxuoav

2036. 17

L'Anonimo omette Oq>LOL dopo ÒÀY11b6vaç.

18

XIV I; XXII 3; XXV; XXXVIII3.

del Parisinus Gr.

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stazioni di consenso e apprezzamento; tuttavia soltanto in XXXVIII3 è ripreso testualmente un passo tratto da VII 84 e riferentesi all'ultima drammatica sequenza di avvenimenti della spedizione ateniese in Sicilia; sostenendo che le migliori iperboli sono quelle che quasi non danno a vedere di essere iperboli, l'Anonimo produce come esempio il racconto tucidideo degli Ateniesi assaliti e massacrati nel fiume Assinaro, del quale si contendevano l'acqua, pur mista a sangue e fango, per berla. La ripresa verbatim, se confrontata con quelle da Erodoto, raggiunge un grado di notevole esattezza e tuttavia contiene, abbastanza sorprendentemente, un singolare errore per cui ai Peloponnesiaci, che nel resoconto tucidideo scendono nel fiume a far strage degli Ateniesi, si sostituiscono i Siracusani. Per il tema retorico dell'efficacia delle iperboli non ha naturalmente alcuna importanza la confusione fra Peloponnesiaci e Siracusani, che è da imputare verosimilmente a una svista, che aveva del resto qualche buona probabilità di verificarsi favorita com'era, su un piano particolare, dalla circostanza che all'inizio dei capp. 81, 82 e 83 e dello stesso cap. 84 del VII libro compaiono come soggetto proprio i Siracusani nonché, su un piano generale, dallo spostamento dell'interesse nel IlEQLU"1ouç dal significato storico degli avvenimenti verso gli effetti che la parola è capace di suscitare. È questa una delle sconnessioni più frequenti che si manifestano - meglio è, forse, dire si celano - nella letteratura storiografica tràdita per citazioni.

*** Nell'ultima parte del cap. XIX del trattato leggiamo due esemplificazioni dell'efficacia dell'asindeto tratte da Senofonte e da Omero: la citazione dalle Elleniche IV 3, 19 ( = Ages. 2, 12) xat m,~a16vteç 'tàç à3tt6vnoxov è esatta; natuàmd.baç troiroOvto tµaxovto à3téx'tt:Lvov ralmente l'Anonimo non è interessato a dirci chi fossero costoro - Spartani e Tebani- che, scagliando gli scudi l'uno contro l'altro, cozzavano, lottavano, uccidevano, morivano. Non cosl rispettosa del testo senofonteo appare in XXV la ripresa dalla Ciropedia VII 1, 37, in tema di drammaticità della narrazione riprodotta con l'uso del presente storico, dell'incidente capitato a Ciro che viene disarcionato dal cavallo in battaglia 19 : lo spostamento, l'o19

TIEmW'l«Ì>c; bé tLc;imò tKtiQOuumq> xal n:atoti~oc; n:a(ELtjj µaxa(e1,1dc;

nrvyacnéQ« tòv mn:ov· 6 6È aqxi6~l;(l)V c'.utoaE(Etmtòv Kveov, 6 6È n:ln:tEL.

D. Ambaglio

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missione e l'aggiunta di parole non modificano in alcun modo il senso del passo, ma rivelano che la citazione si avvicina alla forma testuale senza raggiungerla. Ancora testualmente sembra essere trascritto in XXVIII 3 un passo della Ciropedia I 5, 12 tratto da uno dei molti discorsi che Ciro rivolge ai soldati: l'Anonimo loda la capacità di Senofonte di esprimere concetti grandiosi, come sarebbe appunto quello della "fatica che è guida del vivere lieto" 20 : non si segnalano importanti deviazioni dal testo guida 21 , ma è notevole l'omissione di un pezzo che evidentemente lo scrittore non riteneva funzionale al suo discorso, come del resto si capisce bene considerando che vi si accenna alla fame e alla sete, cioè a concetti non particolarmente adatti a suscitare il godimento intellettuale del lettore 22 •

*** A una valutazione complessiva l'apporto dello Pseudo Longino si rivela di natura eccentrica rispetto a quello di altri traslatori di letteratura storiografica per citazioni 23 : per lui Erodoto, Tucidide, Senofonte, Teopompo, Timeo non rappresentano propriamente le fonti di un sapere storico-genealogico o geografico o di altro genere, ma piuttosto il campo sul quale si esercitano tecniche retoriche e gusto letterario; in questo senso egli si colloca, pur nella posizione di privilegio che il livello comparativamente alto del trattato gli riserva agli occhi dei lettori moderni, dalla parte di una vasta schiera di grammatici e lessicografi per i quali l'estrapolazione di parole o frasi da uno scritto avviene in genere senza che ci si preoccupi di salvaguardare per chi legge il significato del contesto. In questo quadro di rinuncia all'intelligenza, per la tradi-

20

Il6vov l>t 'toii triv itl>twç tt(Eµ6va voµCtE'tE, xaÀÀ.LQ07tOOLQV l>t ~~ 'tCÌ>V AE6v'twvcptQE'tE. 23

Su questo tema rinvio ai miei lavori 'Plutarco, Erodoto e la tradizione storica frammentaria', Rend. lst. Lomb. 114, 1980, p. 123 ss.; 'Tzetze e la tradizione storica frammentaria', Rend. lst. Lomb. 115, 1981, p. 65 ss.; 'Diogene Laerzio e la storiografia greca frammentaria', in Studi di storia e storiografia antiche per E. Gabba, Pavia 1988, p. 73 ss.; 'I Deipnosofisti di Ateneo e la tradizione storica frammentaria', Athenaeum 68, 1990, p. 51 ss.

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zione indiretta ovvero 'frammentaria' delle opere perdute assumerebbe un rilevante valore la meccanicità della trascrizione, una sorta di garanzia di autenticità ed esattezza dei passi 'prelevati'; la lettura del trattato attesta ripetutamente una forma di citazione testuale che parrebbe soddisfare il requisito della meccanicità, ma un puntuale controllo rivela immediatamente che la ripresa verbatim dello Pseudo Longino traveste una realtà molto composita, che va dal rispetto sostanziale, se non irreprensibile, per i passi esaminati a una libertà di rimaneggiamento che mette ogni volta in discussione la credibilità delle citazioni che non siamo in grado di controllare. Trascuratezza, oscillazione molto ampia nell'aderenza ai testi chiamati in causa, omissione di elementi essenziali con pregiudizio per chi legge della possibilità di orientarsi, errori emergono con evidenza nel non vasto campionario delle citazioni dell'Anonimo e sono da ricondurre all'assenza di un metodo e di una cultura della citazione: che tutto questo accada, e per di più in un'opera che intende promuovere il buon gusto letterario, è singolare solo per chi non abbia presenti le analogie di esperienza e di comportamento in Strabone, Pausania, Plutarco, Ateneo, Diogene Laerzio e altri ancora. Sulla scorta di una penetrante osservazione di E. Gabba 24 circa il destino che accomuna tutte le opere letterarie, esponendole presto o tardi a una lettura diversa da quella che per loro avevano previsto o sperato gli autori, è doveroso tener conto che quelli non potessero immaginare di essere un giorno letti e utilizzati come conservatori di schegge di un patrimonio letterario naufragato. È certo che essi si sarebbero comportati diversamente ma, paradossalmente, per noi è forse meglio cosl.

24

'True History and False History in Classical Antiquity', ]oum. Rom. Stud. 71, 1981, p. 50.

"Longino . " e l' ud"1tor10: · aspetti di un'estetica della ricezione orale Giulio Guidorizzi

Ol lxxouovtEç "ascoltatori": è con questa parola che l'autore del Sublime identifica i destinatari dell'opera letteraria. Ciò non va inteso come uso scolorito di una terminologia convenzionale, ma piuttosto come indizio di una linea critico-estetica perseguita coerentemente nel corso del trattato in cui il pubblico viene inquadrato nella dimensione aurale della fruizione poetica 1• In effetti, quando "Longino" analizza l'interazione tra l'opera d'arte e i suoi fruitori, e in particolare quando sofferma l'attenzione sull'atteggiamento del pubblico, manifesta con impressionante evidenza una precisa nozione di quei fenomeni di coinvolgimento emotivo che caratterizzano in modo specifico un tipo orale di performance, di cui i segni più evidenti sono l'entusiasmo (tv6ouotaoµ6ç), il cedimento della di-

1 I fruitori sono definiti nel Sublime lixouovtEç(15, 2; 22, 2; 22, 3; 30, l; 39, 3; 16, 2; 15, l; 16, 5; 38, 2) oppure lixQOa'ta( (4, 4; 12, 5; 15, 9; 16, 2; 16, 4; 18, 2; 22, 4; 26, l; 32, 4; 35, 4; 39, 2; 41, l); per contro, compare in due soli casi il termine "lettore" (livayLyYW(J)((l)V): in 13, 1, a proposito di una lettura dei dialoghi platonici; e in 34, 4, un passo assai significativo perché vi compare chiaramente istituita la differenza tra una fruizione orale, primaria e tale da esigere una maggiore tensione emotiva, ed una legata alla lettura privata del medesimo testo: "a mio parere le doti di lperide, anche se sono numerose, mancano di grandezza, ed essendo pigre ... lasciano indifferente l'uditore (liXQOQ""v):nessuno che legge (livayLyYCOOX(l)V) lperide prova un sussulto ... ". Va osservato che tale terminologia trova un riscontro in quella dello Ione platonico, dove gli spettatori che assistono all'esecuzione del rapsodo vengono definiti, appunto, lixouovtEç (530 c). Assai raramente il termine "ascoltatore" poté applicarsi ad un pubblico di lettori; uno dei rari casi sta in Polibio (libro IX, proemio) dove egli contrappone la sua storia pragmatica a quella artistica di altri, e si figura la difficoltà che "gli ascoltatori" proveranno davanti ad essa. Nel contesto in cui Polibio parla, la parola assume dunque una valenza polemica ben precisa, in quanto intende sottrarre la sua storia al giudizio di un pubblico disposto ad accogliere con particolare favore opere di timbro patetico e romanzesco, e perciò appunto rivolto ad una dimensione di auralità: per la questione, cfr. B. Gentili-G. Cerri, Storia e biografia nel perui.ero amico, Roma-Bari 198.3, pp. 19-25.

G. Guidorizzi

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mensione logico-razionale della mente (burtaou;, lxn:ÀT);Lç),il piacere provocato dall'ascolto (xaQa), l'importanza attribuita ai valori ritmicomusicali della parola e ai suoi effetti sinestetici, il valore psicagogico della poesia che trascina e soggioga (bouÀo'Ù'taL,XT)ÀEi)la mente di chi ascolta, un identificarsi totale con l'esecuzione tanto che il fruitore si sente anch'egli compartecipe della creazione poetica 2 ; il sublime in sostanza non è altro che la risonanza tra la psiche del poeta e quella del pubblico, è "il riecheggiamento con la grandezza" (u,i,oç µEyaÀoq>QOOUVT)ç wtTJXT)µ.a)3. In questo senso, è stato notato che "Longino" impiega la nozione di "sublime" in modo anomalo rispetto al valore documentato generalmente nell'antica critica letteraria, come osservava già Boileau più di tre secoli or sono: "par sublime ... Longin n'entend pasce que les Orateurs (ossia, i retori antichi) appellent le style sublime ... une chose peut estre dans le style sublime et n'estre pourtant pas sublime" 4 • Come ha puntualizzato recentemente anche Russell 5 , per "Longino" il sublime è un effetto speciale, non uno stile speciale; ma le ragioni per cui egli abbia inteso discutere un "effetto" dell'operazione poetica si spiegano pienamente solo se si colloca il suo trattato all'interno di un quadro teorico fondato sulla fiducia nel valore psicagogico della parola e sulla constatazione della sua efficacia sopra l'uditorio. Occorre dunque rivendicare al Sublime uno spazio (e di notevole rilievo) all'interno di quella linea di pensiero che, partendo da Democrito, Gorgia, Platone, identifica nella dimensione aurale la caratteristica più specifica della poesia; una linea di pensiero che, tramontata l'epoca della poesia orale, continua anche in età ellenistica in autori

2

Entusiasmo: 8, 4; 13, 2; 15, l; 32, 4; estasi e sbigottimento: 1, 4; 15, l; 38, 5; piacere legato all'ascolto: 7, 2; 39, l; rapporto parola-ritmo-musica: 39, 1-3; valore psicagogico della poesia: 15, 9; 39, 3; identificarsi con l'esecutore: 7, 2. 3 9, 2. Questa espressione non può che indicare il transfert emotivo e psicologico che la grandezza del poeta, attraverso la potenza della fantasia, esercita sulla mente dell'ascoltatore, la quale "vibra all'unisono" con lui (àmixrnux);si tratta di un'immagine ricavata dalla sfera musicale, in cui la risonanza prodotta da uno strumento a percussione agisce su altri strumenti analoghi, provocando in loro un'analoga vibrazione; l'idea della trasmissione a distanza di una forza attraverso il metallo trova un modello in Platone (Ione 533 d), quando parla della forza della poesia che si propaga dal poeta agli ascoltatori come accade nella calamita, capace di congiungere tra loro lunghe catene metalliche. 4 N. Boileau, nella Préface alla traduzione del Sublime del 1674 (ed. C. H. Boudhors, Paris 1942), p. 45. 5 D. A. Russell (ed.), longinw, On the Sublime, Oxford 1964, p. XXXVII.

"Longino" e l'uditorio

1069

quali Duride, Eforo, Teopompo, Polibio6, e manifesta ancora la sua vitalità negli scritti retorici di Dionigi d'Alicarnasso (anch'egli estremamente sensibile agli aspetti ritmico-sonori dell'opera letteraria) né pare del tutto estinta in Plutarco 7 • Nell'analisi di "Longino", il fine ultimo della poesia o della prosa (ossia ciò che viene definito "il culmine e l'apice del discorso") 8 si realizza quando l'autore si abbandona all'ispirazione, che si trasmette immediatamente alla mente dell'ascoltatore cosl da travolgerla e prenderne possesso, tanto che poeta ed ascoltatore finiscono per smarrire la propria identità, confusi in una comune esperienza che è nello stesso tempo psicologica ed estetica: il Sublime insiste, infatti, nel delineare un quadro di estrema vicinanza, e addirittura di contiguità psicologica (quando non anche fisica) tra l'opera letteraria e i suoi fruitori. Anche l'impiego lessicale offre una chiave di lettura significativa in questa direzione: non è per caso o per semplice decoro verbale che "Longino" affida la semantica della fruizione poetica a parole tratte da una sfera magico-rituale e legate a idee quali "baccheggiare", "estasi", "sbigottimento", "follia", "possessione divina", "essere simile ad una profetessa", che già i trattatisti del V-IV secolo a. C. avevano utilizzato per definire il fenomeno dell'ispirazione 9 • Nel Sublime, queste nozioni concorrono a descrivere ora l'atteggiamento del poeta, ora quello dell'uditorio, in un rapporto che in definitiva viene presentato come interscambiabile, dal momento che sia

6

Cfr. B. Gentili-G. Cerri, op. cit. pp. 5-31. L'attenzione di Dionigi di Alicamasso per l'aspetto aurale e fonostilistico della poesia è al centro del De compositioneverbonun:cfr. B. Gentili, 'Parola, metro e ritmo nel De compositioneverborumdi Dionigi di Alicamasso', in Metricaclassicae linguistica (Atti del convegno, Urbino 3-6 ottobre 1988), a cura di R. Danese, F. Gori e C. Questa, Urbino 1990, pp. 9-23; per Plutarco, cfr. De audiendispoeti&,14 e-f; 17 f-18 7

a (e pa.s.,im). 8

1, 3: ilxQOnlc;xat t~ox~uc; ).fyyOYV tatt tà u,jn'J. A partire da Democrito 68 B 17-18 D.-K., a cui secondo A. Delatte (les concq,tio,u de l'enthowiaJTIU! cha les phil-Osophes présocratiqua, Paris 1934, pp. 29-34) va fatta risalire la prima formulazione teorica dell'entusiasmo poetico; cfr. inoltre E. R. Dodds, The Greeksand the l"ational, Berkeley 1951, p. 82 (tr. it. / Grecie l'irra- zionale,Firenze 1959, p. 117);E. A. Havelock,PrefacetoPlato, Harvard 1963(tr. it. Cultura orcdee civiltà della scrittura, Roma-Bari 1963, pp. 294-295). Cfr. anche R. Velardi, EnthowiaJmòs. Possessionerituale e teoria della comunicazionepoetica in Platone, Roma 1989 (dove tuttavia il rapporto tra il Sublime e la teoria platonica dell'entusiasmo poetico non è preso in considerazione). 9

G. Guidorizzi

1070

l'uno che l'altro polo della comunicazione sono partecipi delle medesime emozioni: anzi, come l"'entusiasmo" è componente fondamentale del processo creativo del poeta, solo nell'impatto col pubblico si potrà verificare la potenza della sua arte, dato che solo quando anche il pubblico "partecipa all'entusiasmo di chi recita" (32, 4: ouvtvaouauiv 't

mµov(ou JtVEUµmoç) che è difficile disciplinare.

1072

G. Guidorizzi

espresso: "nulla - afferma l'autore in 8, 4 - è cosl grandioso come una nobile passione al momento giusto, come se spirasse entusiasticamente da una sorta di follia (µav(ac; 'ttv6c;) e da una ispirazione, quasi riem14 piendo di spirito divino (propriamente "febizzando", q>t{3a~(J)'V) le parole". Ancora più evidente, per il contesto in cui compare (ossia la disposizione delle parole, che com'è noto era il soggetto tipico di qualsiasi trattazione di fonostilistica), è il passo in cui "Longino", sull'onda di teorie ritmico-musicali che erano state lungamente elaborate a partire dall'epoca classica, istituisce una relazione tra gli effetti prodotti sull'uditorio dal suono degli strumenti (e in particolare del flauto) e quello che il ritmo della frase ingenera sull'anima degli ascoltatori (39, 1-3): "l'armonia non solo sa naturalmente generare negli uomini persuasione e piacere, ma è anche un mirabile strumento di grandiosità espressiva e di passione. Non è forse in grado il flauto di infondere agli ascoltatori certe passioni, e quasi renderli fuori di sé e pieni di furore coribantico 15 , e conferendo al ritmo un certo andamento costringe chi ascolta a muoversi secondo quello e ad uniformarsi alla melodia, anche se è del tutto inesperto di musica? ... E non dovremo ammettere che la composizione... ci ammalii e ci disponga di volta in volta a gravità, dignità, sublimità, a tutto ciò, insomma, che essa contiene, e prenda possesso in tutto e per tutto della nostra mente?". In tal modo, si realizza un profondo processo di empatia, ottenuto sia attraverso la passione, sia attraverso l'effetto musicale della parola sull'orecchio di chi ascolta, un'empatia che per "Longino" è la radice stessa del sublime: "sotto l'effetto della vera sublimità - afferma (7, 2) - per sua natura ( ooX t'EÀ.O\Jµtv(J)V.

Il giudizio sulla tradizione nelle Vite plutarchee di Teseo e Romolo Ettore Paratore

Plutarco è e deve essere considerato non soltanto il massimo documento di una concezione rigorosamente moralistica della biografia, ma anche il depositario di un metodo rigorosamente comparativo e analitico degli elementi atti al confronto e alla contrapposizione. Caratteristico al riguardo è il primo periodo della Vita di Teseo1 in cui si addita il regno delle leggende, delle narrazioni favolistiche che scoraggiano ogni tentativo di conglobare nozioni attendibili e avvenimenti connessi a una realtà documentabile: ·cmcE{) tv 'taiç yEooyQacp(aLç, rol:oootE IEVtxtwv2, ol lmoeLxol 'tà btacpE'UyOVta Tr)VyvÒ>OLV a'Ù'tÒ>V 'tOiç tC,XV nLVV mE~O'UV'tE\; al't(aç 1ta{)aYQOl10LV O'tL "'tà b' bttxELVa, -&ivEç i\ "miA.òçlu~ç", i\ "Ixll-&txòvXQUoç",i\ liwb{)OLxal ih}QLC.ObEtç", "1ttAayoç1tEffl}Y6ç" ! ovrroç tµol 1tE{)L 'tT)'V 'tÒ>V PLO>V 'tÒ>V 1ta{) nQOOV txoµtvn xQ6-vovbLù.Mvtt, 1tEQt'tTJVELa, ,i(attç, yvoocrtç,ah(aL, 6 tQLµrotatouç µa{ltl)QQç òn;CK)Ouvm 'tT)Vl>L'ltYTIOL V,

1080

E. Paratore

Perfettamente analogo l'inizio della Vita di Numa (pp. 115-116): Anche sull'epoca in cui visse il re Numa esiste una fiera disputa tra gli studiosi ... Un certo Clodio, in un volume intitolato press'a poco "Indagine sulla cronologia", sostiene che i famosi antichi registri andarono perduti durante il sacco subito da Roma ad opera dei Galli, sl che quelli ora esistenti sono dei falsi e furono composti da persone che volevano far cosa grata a certe altre, bramose di entrare a tutti i costi nelle prime famiglie e nelle più illustri casate della città senza avere con esse alcuna relazione... Per tornare alla cronologia, è difficile stabilirla con precisione ... Perciò io esporrò gli avvenimenti che meritano attenzione nella vita di Numa partendo dal momento più conveniente 5 •

Va quindi espressa la lode per la sicurezza con cui lo storico di Cheronea sa distinguere e porre in prospettiva gli elementi attendibili da quelli favolosi della leggenda nei casi in cui gli è d'obbligo accostarsi a temi in cui, per la loro remota antichità, la tradizione prevaleva sulla controllabile documentazione introducendo elementi la cui veridicità era contestabile. Questa è appunto un'esigenza richiesta solo dalle prime quattro biografie, le sole che debbono far concessione a dati leggendari. Perciò isolare questo motivo equivale a sottolineare un aspetto essenziale della tecnica narrativa di Plutarco. Quello che emerge è appunto il malessere che il biografo avverte di fronte a particolari eh' egli deve introdurre per forza nella narrazione ma che hanno un aspetto poco conciliabile con la veridicità. Le notizie su Llcurgo sono controverse e incerte, soffrono di contraddizioni; quelle su Numa suscitano dispute e il sospetto di falso, appaiono discutibili proprio riguardo alla fondamentale esigenza della cronologia. E ancora più deciso è l'atteggiamento d'insicurezza che promana dalle considerazioni introducenti le Vite di Teseo e Romolo, che sono del resto quelle che più richiamano la nostra attenzione. Il mondo delle due biografie appare all'autore tQaynt6ç, anzi addirittura tEQatoobriç,tale che se ne debbono impossessare 1totrital xal µu{}oyQClq>OL, gli avvenimenti che

S "EotL bÈ xat miet 'tWVNoµii 'tO"Ò ~01.ÀtO>çxQ6vwv xait' ouç YF'fCYVE VEQ'VLXfl bLacpoQé.& •.. 'Allà xat KM>bi.6ç'tLç tv 'E).tyxq>xQ6vwv (OV't(I)Ya.Q:Jtù>ç bnyfyQM"taL 'tÒ ~L~ÀLOV)taxue(tE'taL 'tàç 1,1,èv aexa(aç txEtvaç llvayQUÀ.'1V, fiq>av(afhi, àooq>ELav,xa'tav6T)aLv,dxatov, àq,avLoµ6v).Al riguardo un peso specifico assumono frasi come quella che ricorda gli eventi straordinari verificatisi mentre Romolo teneva un'assemblea (liq,vrobÈitauµaatà xai XQE(novaMyou JtEQi'tÒVàÉ()(l nafh) yEVÉoitaL xai µE"tafk>À.àç wt(atouç, e nota l'aggettivo procedente negativamente da quel ,t(atLç cosi fermamente formulato nel brano), o quella che raffigura l'accoglienza favorevole tributata alla rivelazione di - il vocabolo volutamente ribadito in pagiGiulio Proculo ('tafrta 3tLO'tO ne che collimano col favoloso - µÈV dvaL 'toiç •proµalotç tMxEL bLà 'tÒV'tQ()JtOV 1:ou Uyov,:oç xai bLà 1:òv oQxov· où µflv àJJ..à xai

&nµ6vi.6v 'tL O'UVEq>a,PaoitaL naitoç oµoLov MouoLaoµcp· µribéva yàQ àvtEmEiv, àJJ..à naoav im6voLav xai bLafk>À.flv àq,maç EUXEoitatKuQ(vcpxai itEOXÀ.u1:Eiv bEivov). àatµ6vLov, che riprende fooµat ba(µrov KuQivoçche Proculo riferisce lo 'Eyili b' i,µiv E'ÒµEVflç essere stato pronunciato da Romolo-Quirino al momento di rivelargli la propria divinità, afferma perentoriamente la presenza di un elemento favoloso collegato però strettamente con la volontà degli dei. Al momento di prender posizione fra la certezza degli eventi documentabili e la

unairta 'tq>l;tvcpxal :rtl!QL't'tq> :rtQO:rt(l)'V Etc; i\Q(l)Qc;, be b' 1'1Quaac;.

Il giudizio sulla tradizione nelle Vite di Teseo e Romolo

1083

suggestione degli apporti di un mondo circonfuso di leggenda, lo storico si rifugia nel facile scampo di assegnare a una volontà superiore la manifestazione di apparenze che il controllo documentario non riesce a fissare con precisione. Quello che è decisivo e che finisce per costituire un modello di comportamento passibile di raggiungere valori tradizionali è che Livio già prima di Plutarco ha palesato questa velleità di conciliazione fra il certo e il probabile astretto ancora a caratteri leggendari. Già in I 4, di fronte al miracolo della potenza romana sorta da cosl umili origini, non può far a meno di osservare Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes15 imperii principium. I fata, introdotti dal condizionante opinor, fanno pesare la riflessione di tono filosofico-religioso sulla massiccia testimonianza effettiva del maximum imperium. E se risaliamo alla praefatio, ecco formulata subito la consapevolezza del bisogno di addurre maggior luce là dove l'aspetto persistentemente leggendario delle vicende tramandate esige una ricerca che sfoci nell'indiscutibile: nec, si sciam, dicere ausim, quippe qui cum veterem tum vulgatam esse rem videam, dum novi semper scriptores aut in rebus certius aliquid allaturos se ... credunt 16 • Ed è persino superfluo rifarsi alle parole che della praefatio stabiliscono il capitale significato introduttivo, adducendo il motivo religioso come risolutore del dissidio fra leggenda e realtà: Quae ante conditam condendamve urbem poeticis magis decora fabulis quam incorruptis rerum gestarum monumentis traduntur, ea nec adfinnare nec refellere in animo est. Datur haec venia antiquitati ut miscendo humana divinis primordia urbium augustiora faciat; et si cui

15

L. Perelli nell'edizione UTET (Torino 1974) traduce l'espressione "l'inizio dell'impero più grande che sia esistito dopo la potenza degli dei". Analogamente M. Scandola (BUR, Milano 1982) rende "avesse cosl inizio l'impero più potente subito dopo quello degli dei". A me il valore sintattico di secundum non sembra poter suggerire una graduatoria di secondo, subito dopo riguardo alle deorum opes,data l'importanza del genitivo maximi imperii che scandisce la frase; ritengo di poter interpretare che l'impero romano è stato maximum in conformità all'assistenza e all'autorità degli dei. 16 Mi sembra perciò da porre come un problema avvertito anche da Livio e non come una fastidiosa obiezione che sarebbe secondo lui da scartare la necessità di riflettere sulla tradizione. Non mi assocerei quindi alla conclusione di R. Syme ('Livio e Augusto', BUR cil. p. 40): "Per Livio una ampia discussione su queste tradizioni, combinazioni e leggende sarebbe stata tediosa ed inconcludente. Come egli stesso giustamente nota, qui.Jenim rem tam veterempro cerkJ adfinnet?". Ma proprio questa frase rivela la sua tormentata oscillazione fra la vetwta.s e il certum.

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E. Paratore populo licere oportet consecrare origines suas et ad deos referre auctores, ea belli gloria est populo Romano ut cum suum conditorisque sui parentem Martem potissimum ferat, tam et hoc gentes humanae patiantur aequo animo quam imperium patiuntur.

Una volta giustificata con un motivo culturale l'immissione del dato leggendario, lo storico rinnova la sua predilezione per la raccolta e l'esame dei dati certi: Sed haec et his similia utcumque animadversa aut existimata erunt haud in magno equidem ponam discrimine: ad illa mihi pro se quisque acriter intendat animum, quae vita, qui moresfuerint, per quos viros quibusque artibus domi militiaeque et partum et auctum imperium sit. Come abbiamo constatato in Plutarco, cosl anche in Livio si evidenzia la contrapposizione dei vocaboli consacranti il certo storico a quelli aspersi dell'equivoco riflesso del favoloso: da un lato vulgata, certius, incorruptis rerum gestarum monumentis, belli gloria, vita, mores, viri, domi militiaeque, il seducente imperium, e tutto quanto il fondamentale periodo che consacra il più profondo ed edificante senso della storia insito nel grande padovano: Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in in.lustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites; dall'altro vetus, poeticae fabulae, ad.firmare, divina, primordia urbium, origines, dei auctores, conditor, parens, animadversa, existimata. Nel riferire gli eventi cosl carichi di favoloso della giovinezza di Romolo lo storico si sforza di ricavare da essi la concretezza che nella continuità ne assicura il valore di esatta testimonianza: Forte et Numitori cum in custodia Remum haberet audissetque geminos esse fratres, comparando et aetatem eorum et ipsam minime seroilem indolem, tetigerat animum memoria nepotum; sciscitandoque eo demum peroenit ut haud procul esset quin Remum agnosceret. Evidente è poi il riscontro fra i due brani che riferiscono l'intervento di Giulio Proculo confidante l'apparizione di Romolo come prova della sua beatificazione. Plutarco dice: lxv6Qa'tOO'V 1ta'tQLX(oov... 'louÀ.LOV IlQ{SXÀ.oV ... , elJteiv tv 1tCI.OL v, c.òç 66òv aù'tcj>j3a61.~oV'tL 'PooµuÀ.oç t; tvaV'tl.aç1tQOOLÈV l.tvtuturtEL 21

ffoi~E, O'Ù6' O..aoç, ~EÀq>tVtE,XO'UQOV àÉ;otç I EUµotQOVÀEUXflV6xgtç tq>'ijÀtXtT}V, ed Epigr. Gr. 812, 5 s. Kaibel (Lesbo, dedica a Mercurio) àU' LÀaoç, 6va;, Zwouç ytvoç euq>QOVtfh.lµq> / oq>te, 6tooùç airtoiç 6qrf}ovov 35 6Àfx>v àe( • Ancora al v. 4 6É;o: in generale basta rinviare ancora a Kilhn, op.

cit. pp. 33-35. È formula che compare fin dall'età arcaica, vd. C. E. G.

33

Cfr. anche A. P. 6, 106, 5 (Zonas: dedica a Pan); 188, 3-6 (Leonida di Taranto: Terimaco chiede a Pan, &oQQotfle"Ano).ov37 ; 367 (Laconia, 490-480 [?]) Lbé;,o, Fava; KQOVLt.,bLaJ{ L} AeiJ 'O).uµ,tLEXaAÒv ayaAµa. Non è il caso di fermarsi sull'uso di b(broµL38 , sinonimo tecnico di àva't(ih]µL, né su quello del pronome di seconda persona 't0L, al quale pure Kiihn dedica diverse pagine 39 • Va considerato formulare anche àxQ0-6-elvLoval v. 5, vd. soprattutto Lazzarini, art. cit. pp. 93-95, e i nrr. 704, 705, 981 40 • Particolarmente ricco di elementi formulari è il v. 7: la richiesta della X«QLç,l'apostrofe CJ'Ùbé, l'evidenza del contraccambio espressa con àvtt 'tOUnon sembrano trovarsi mai riuniti insieme, ma compaiono con frequenza, isolatamente o a coppie, già in iscrizioni arcaiche 41 , e poi, naturalmente, in epigrammi letterari. Ad es. in C. E. G. I 371, 2 (Laconia, tavola bronzea, 550-525 [?] = Lazzarini, art. cit. nr. 791) si legge, TÙ bè 'tÒLX«QLVatèç h [- - -]; in C. E. G. I 400, 2 (Anfipoli, V sec. a.C. = Lazzarini, art. cit. nr. 790 = Kaibel 784) manca l'apostrofe diretta, 'toiç bè xa't[a]CJ'tl)oaoLKu1tQLçX«QL[v]àvtrutobo(ri 42 • Fra i numerosissimi confronti possibili con epigrammi della Palatina mi limito a segnalare 6, 13, 5 (Leonida, dedica di caccia) àvit' IDV't y>..uxuihlµoç"EQO>çxftKu:n:QOYÉVEl' 'Aq>QOOLTI'J tµEQOVT)µvx6)..:n;(l)V xat 'tci>vµT}Qci>v xa'twtVEUQ[V(btatcirv itEQa1tE'llµatoov,omro tà Myµata où hotµa lxe); IV 3, 10 (tv bÈ toiç 1tQOXEI.QOtatotç, Elç èyxu,PELç,tauta latro tà buo); 12, 1 (buo tautaç ttOLµuì..(av;... xa(QELV oe bei), et al. e M. A. II 7, 1 (XEQLÉQEL, tòv oÀ.OV x6oµov XtÀ..),che richiama la tessitura di hL bt 1tEQLÉQXeta1. Ench. 48 (tbufrcou atao1.ç xat xaQOXffJQ'oùbéxote t; tautou i\ pì..aPTJV' li>J.' MÒ tvl;ro. q>LÀ.OOOq>OU atao1.ç XQOOOOX~ Ò>q>ÉÀ.Etav xat Pì..aPTJvt; tautou 1tQOobox~. xal xaQOX'tlJQ" xaoav Ò>q>éÀ.€1.av etaL,oùbevl tyxaì..ei, oùbtv XEQltautou ì..éye1.

ÀÉyELVX'tÀ.

La movenza iniziale, concordemente testimoniata dai codici, ha creato qualche impaccio ad editori e traduttori, inducendo talvolta ali' emendamento. Così W. Canter proponeva di leggere xat Of1xat 2 Nf1QL't

OOL bnbdl;wµm. La trattazione di tv strumentale è in Kilhner-Gerth I pp. 465-466. 11 Su questo valore di xa( concordano sia Canter che Behr (cfr. le già citate traduzioni). 12 Behr I p. 536 ritiene che El {)i; {)tìxa( di Aristide Il 412 L.-B. (El {)i; {)tìxai XOLVU>VT)OELtv 'tLVL 'tWV 6ilv 'tEXVWV xai buvaµewv X'tÀ... "quodsi etiam cum alia facultate vel arte aliqua sese coniunxerit" nella corretta traduzione di Canter p. 399, li. 35-36) possa costituire un valido parallelo. In realtà si tratta di tutt'altra cosa: {)i; {)tì xa( non è un nesso unico che, una volta accertatane l'esistenza, possa trovarsi dovunque, ma un gruppo di tre elementi distinti, ciascuno dei quali ha una specifica funzione; la collocazione di xa(, in particolare, mentre è del tutto normale tra El e il verbo che da esso dipende, è invece assolutamente eccezionale tra la preposizione tv e il dativo: cfr. J. D. Denniston, The GreekParticks, Oxford 1966 2 , pp. 325-326. Per i tre elementi bt, {){J,xa(, e le loro possibili combinazioni, cfr. Denniston pp. 162-189; 199-240; 248-259; 289-327. 13 'Aelius Aristides, 'leQOl>..6ym XLVIII 25-26 e XLIX 15 Keil', BoU. Class. Ace. Naz. Lincei lii 4, 1983, pp. 84-88.

Poesia, prosa ionica, atticismo

1121

che tutto si spiega perfettamente se si tiene conto della ben nota - e originaria - funzione avverbiale di È'v, che assume, seguito da {>t (o da {>è:&),o da {>è: bT)xa(), il valore di inter alia, inter alios. Si tratta di una costruzione registrata nei lessici e nelle sintassi correnti (TGL, LSJ, Kiihner-Gerth, Schwyzer) in quanto ben documentata nella poesia greca (Omero, Sofocle, Teocrito), comunissima in Erodoto, sporadicamente presente presso qualche prosatore tardo (Partenio, Patimenti d'amore 19), ma estranea, a quanto sembra, alla prosa attica 14 • Trascelgo, dalla vasta documentazione prodotta, un solo esempio erodoteo (III 39, 4): auxvàç µè:v bri -rrov vriooov lxgaLQTIKEE,rroU.à {>è:xat tijç firrdgou av'EQEtQLÉWV tà JtQci>ta), 41 Euripide e Aristofane (in un canto corale) , il costrutto è ripreso, oltre che da Aristide, anche da Luciano, Timone 35 42 ; l'uso costante del termine ionico e poetico à>..ouu(a (Erodoto, Ippocrate, vari poeti)43 per indicare l'astensione dal bagno: per es. D. S. XLVII 6 (à>..ouo(av JtQOQ(lç... tuXOV (gli editori, in apparato, definiscono il termine "nimis poeticum"). 45 LSJ s. v., con l'indicazione dei poeti (da Esiodo a Teocrito), e dei prosatori (Erodoto, Eliano, Alcifrone); altri, tutti tardi (Dionisio di Alicamasso, Luciano), presso TGL s. v.

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S. Nicosia

cetta: che non mancherà di verificare - senza dubbio - i condizionamenti, le chiusure, le rigidità, i servilismi e le artificiosità di certe pervicaci opzioni teoriche, ma anche la forza disgregante di una cultura vasta seppure non profonda, e l'impossibilità di sfuggire all'assedio della realtà; e che legittimerà ad ogni passo il sospetto che certi schematismi siano assai più radicati nella mente degli studiosi moderni che non nella prassi degli scrittori atticisti antichi. Ad una tale conclusione si perviene del resto agevolmente anche attraverso una ragionevole lettura dell'opera di Schmid dedicata all'atticismo, che pure è tutt'altro che immune da schematismi. Posta la convinzione - tutto sommato da condividere - che l'atticismo raggiunge con Aristide il suo più compiuto sviluppo, e che la fedeltà a certi modelli classici è in lui assai più tenace che in qualsiasi altro scrittore 46 , non si può non constatare con quale frequenza lo stesso Schmid sia costretto a registrare "deroghe", "abnormità", "eccezioni", "anomalie", "infrazioni", "deviazioni" e persino "errori" rispetto ad una "norma" dichiarata ineludibile 47 ; e quale incidenza assumano, all'interno di una sostanziale, perseguita adesione all"'atticismo severo", le peculiarità (morfologiche, sintattiche, lessicali) della XOLvtl contemporanea, gli elementi della tradizione poetica precedente, le neoformazioni, gli iperatticismi, gli arcaismi, le oscillazioni e le incoerenze: tanto da giustificare l'affermazione che, per ciò che concerne lo stile, Aristide "est beaucoup moins attigue qu'il ne croit"'48 • Insomma, una realtà linguistica composita, quale si confà ad un'opera che è nel suo complesso, come dice Boulanger, "un pastiche perpétuel" 49 • E tanto più composita quanto minore è il condizionamento di uno specifico modello: perché là dove Aristide non ha un testo esemplare da "riproporre" e da imitare - ed è appunto il caso dei Discorsi sacri, opera senza precedenti nella storia della cultura greca-, il suo stile si risolve in "ein wiistes Gewirre von klassischen Reminiscenzen, poetischen, verdorbenen und selbstgemachten Worten" 50 • Riesce difficile, stando così le cose, rinunziare all'esatta intelligenza di tv bÈ bT)xa( in XLIX 15 (e in XLVIII 25, previa la semplice

46

47 48

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Si vedano soprattutto le pagine conclusive (309-313) del volume di Schmid. Per es. alle pp. 41; 42; 55; 57; 58; 59; 66; e un po' dovunque. Boulanger p. 44 7. Boulanger p. 446 (cfr. anche pp. 410-411). Schmid p. 24 7.

Poesia, prosa ionica, atticismo

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correzione di É'Vin tv), in nome di una presunta refrattarietà dell"'atticismo puro" nei confronti di elementi espressivi non attici, e cioè in forza di qualche persistente pregiudizio relativo alla storia della lingua greca. 'Ev bè bflxa( è costrutto "ionico e poetico" né più né meno di tanti altri che Aristide attinge - con maggiore o minore fortuna - dalla tradizione letteraria precedente; né può essere sminuito il fatto che lo si ritrovi presso un altro prosatore tardo: perché Partenio sarà stato pure un poeta di professione, ma senza dubbio alcuno introduce quel modulo espressivo in un'opera decisamente in prosa. Piuttosto che imbarcarsi perciò in una ricerca sul testo di non so quali prosatori, caso mai si potesse rinvenire un'ulteriore attestazione, decisiva per accreditare ad Aristide ciò che egli leggeva in Omero, in Sofocle, in Erodoto, converrà aspettare che qualcuno produca qualche esempio di tv + dativo separati da bè bT1xa( ( = etiam), e di h bè bfl xat 't6l>E con il valore di "questo soltanto". E non parlo di esempi presso questo o quell'autore, della tale epoca o dell'altra, ma di esempi, e basta: in poesia o in prosa, in autori dell'età arcaica, classica, ellenistico-romana, in testi letterari, volgari, dialettali, in manoscritti, papiri, iscrizioni, nella grecità antica, bizantina e moderna. Insomma, in greco.

L'allegoria in Celso, Filone e Origene Manlio Simonetti

I racconti della Genesi, creazione diluvio storie dei patriarchi, a giudizio di Celso sono soltanto favole assurde inverosimili e grossolane, buone solo per le vecchiette 1 : è vero- egli osserva- che "i più ragionevoli fra i giudei e i cristiani si vergognano di queste storie e cercano di dare loro un'interpretazione allegorica (èùJ..riyogetv); però alcune non sono suscettibili di un'interpretazione allegorica (èùJ..riyog(av), ma sono puri e semplici racconti mitologici e dei più triviali", e "in ogni caso le allegorie (èùJ..riyog(at) scritte, sembra, su questi racconti sono molto più vergognose e inverosimili dei racconti stessi, quando collegano con una follia stupefacente e del tutto insana cose che non possono essere conciliate in nessun modo e sotto nessun aspetto" 2 • Nella replica Origene lo ripaga con la stessa moneta: secondo Celso- egli osserva a 1, 20le favole degli egiziani, che pure degradano la natura divina non soltanto a livello degli uomini ma addirittura delle bestie irrazionali, nascondono contenuti arcani, mentre le storie e le leggi di Mosè sono da lui considerate soltanto favole insulse e indegne di accogliere un significato allegorico (àUriyog(av); successivamente (4, 38) riporta il racconto esiodeo del mito di Pandora (Op. 53-82; 90-98), e torna a chiedersi perché mai le favole dei greci, degli egiziani e di altri popoli siano ritenute degne di interpretazione allegorica tendente a metterne in luce un significato filosofico, mentre questa prerogativa viene negata soltanto ai racconti degli ebrei 3 ; ricorda l'immoralità dei miti greci, illustran-

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Cfr. Orig. Cels. 4, 36 e 41-47. Cfr. 4, 48; 49; 50; 51. 3 A 4, 39 Origene oppone alle favole adatte alle vecchiette, che Celso aveva rinfacciato ai cristiani, la favola platonica di Poros Penia e Cupido (Symp. 3038-E): la confronta col racconto biblico della seduzione di Eva da parte del serpente e vi trova somiglianza tale da far pensare alla possibilità che Platone avesse tratto ispirazione per la sua favola proprio da quel racconto biblico, conosciuto durante il suo soggiorno in Egitto. Era un tema apologetico antipagano di origine giudeo-ellenista affermare che i 2

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dola con l'esempio di una storia di Zeus ed Era che Crisippo aveva interpretato in senso filosofico4 ; e forte dell'affermazione platonica che non ammette il piacere negli Dei5 , conclude: "Noi perciò abbiamo vera reverenza per il nome di Dio e delle sue buone opere, sl che neppure 6 col pretesto dell'interpretazione tropologica ('tQ03tOÀ.Oy(aç) ammettiamo i miti che recano danno ai giovani" (4, 48). Come si vede, sia Celso sia Origene non hanno dubbi circa la liceità del procedimento che, applicando l'interpretazione allegorica a determinati racconti, vi metteva in luce significati nascosti e profondi, e il contrasto verte non sul procedimento in sé bensl sull'oggetto di tale procedimento: Celso considera i racconti biblici troppo rozzi e inverosimili per poter nascondere significati filosofici; Origene nega tale possibilità ai miti greci perché immorali. Quindi Origene in questo contesto sembra equiparare completamente, quanto al procedimento ermeneutico, l'interpretazione allegorica dei racconti biblici a quella delle favole greche: eppure nel corso della sua argomentazione egli accenna ad al8 cuni racconti della Genesi1 , in cui l'LO"tOQ(a nasconde un significato più profondo, che viene messo in luce mediante il procedimento allegorico 9 • Origene non dubita della veridicità storica di questi rac-

filosofi greci avrebberoderivato le loro migliori dottrine dalla conoscenza del Vecchio Tuiamento. 4 A Samo era esposto un dipinto che rappresentava un atto &e88ualedi Zeus ed Era, e Crisippo lo aveva interpretato assumendo Zeus come simbolo di Dio che introduce i semi di razionalità ('tO'tlSmtEQµa'tuwiiç MSyous)nella materia al fine di dare ordine al mondo (Ceu. 4, 48). 5 " ... accettando le parole di Platone nel Filebo, il quale nega che Dio possa accogliere il piacere: 'Tale - egli dice - è la mia reverenza, o Protarco, per i nomi degli dei' [Phil. 12C]". 6 In Origene tropologia e alkgoria sono praticamente sinonimi. Solo in epoca più tarda tropologia avrebbe assunto il significato specifico di allegoria di contenuto morale. 7 Origene ricorda i pozzi scavati da Abramo e Isacco (Gen. 21, 30; 26, 15 ss.), che al tempo suo ancora erano visibili presso Ascalona (4, 44), e la storia di Lot, la moglie e le figlie (Gen. 19, 15 ss.) (4, 45). 8 Il termine ricorre a pp. 316, 26 e 38, 3 Koetschau. Con esso Origene indica il contenuto storico del racconto biblico, e più in generale il senso letterale di questo racconto. 9 "Spesso la parola (divina), servendosi del racconto di fatti realmente accaduti (latoe(mç yevoµn,mç), li descrive per esporre realtà più importanti rivelate in modo nascosto (tv t'"':ovo(çi6ftÀ.Ouµn,wv)"(4, 44). Per il significato di t'"':6voi.a, conispon-

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conti, sl che qui noi avvertiamo la sovrapposizione di due livelli interpretativi, uno letterale e uno allegorico: come Origene osserva più in là, il primo è adatto ai più, che sono più semplici, mentre l'altro è per i pochi che vogliono e possono applicarsi con maggior impegno a un testo che è stato scritto proprio perché la lettera rinviasse all'interpretazione tropologica (4, 49). Proprio questo modo d'intendere l'interpretazione allegorica, tale cioè da sovrapporla al senso letterale senza sopprimerlo, distingue profondamente il procedimento allegorizzante di Origene da quello di Celso. Per renderci conto di questo slittamento del significato di allegoria da un autore all'altro, dobbiamo rifarci un po' indietro. Allegoria è termine di nascita piuttosto recente: com'è noto, per noi la sua prima attestazione è della metà del I secolo a. Cr., nell'Orator di Cicerone, 27, 94, quindi in ambito retorico. Ma il procedimento ermeneutico che abbiamo visto Celso e Origene indicare con questo termine era molto più antico, perché già nel VI sec. a.Cr. Teagene di Reggio lo avrebbe applicato all'interpretazione dei miti omerici: l'avrebbe fatto al fine di salvaguardare l'autorità e il prestigio del poeta nazionale, che appariva compromesso dalla presenza, nei suoi poemi, di tanti racconti mitologici che all'incipiente riflessione filosofica apparivano inverosimili e spesso anche immorali: mi limito qui a ricordare la grande fortuna dell'interpretazione delle discordie degli dei omerici come allegorie della discordia degli elementi naturali, e poi degli dei come simboli dell'attività psicologica dell'uomo 10 • Il termine che indicava questo procedimento ermeneutico era ùn6vota, indicativo appunto del significato filosofico nascosto sotto quello letterale del racconto mitico 11 • Solo molto più tardi venne coniato il nuovo termine àÀÀflYOQ(a, in ambito retorico, per indicare il procedimento per cui si dice una cosa e se ne significa un'altra, un procedimento perciò concettualmente simile a quello della metafora 12 , ma di più ampia estensione perché applicato non ad una sola espressione ma a un'intera frase e

dente a allegoria, cfr. qui sotto, nn. 14, 26, 29. In questo stesso contesto Origene fa uso anche di allegoria e tropologia. 10 Per esemplificazione e dettagli cfr. J. Pépin, MytM et alligorie, Paris 1958, p. 95 88. 11 Cfr. Pépin, op. cit. p. 85 ss. 12 Gli studiosi moderni non sono tutti d'accordo sulla profonda affinità dei procedimenti allegorico e metaforico; ma qui a noi interessa quella che è stata la convinzione degli antichi.

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anche più: in effetti gli antichi intesero l'allegoria come un seguito di metafore 13 • Quando si comincia a far uso, in retorica, di cill11yoQ(a e cillTtYOQELV, questi termini vengono trasferiti in ambito esegetico e diventano di uso comune per indicare, in luogo di {m:6vota, l'interpretazione dei miti tradizionali nel senso filosofico che abbiamo accennato 14 : lo Ps. Eraclito delle Questioni omeriche (I sec. a.Cr.) osserva che nei poemi omerici tutto è empietà se non si fa alcun uso dell'allegoria (n:avta fl tuate da un uomo saggio, e secondo le nonne dell'interpretazione allegorica (xa,:à bÈ ,:oùc;tv òllTJYOQLQ(aç,àllà xal 'rijç ~'rijç yQ(lqrijçtabE llEQI.EXOUOTJS), 24 Cfr., p. es., Spec. leg. 2, 147: tailta µ.tv xatà mv.màv aQxawÀ.Oy(av lO'tOQEitm.

L'allegoria in Celso, Filone e Origene

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fondila, proprio come abbiamo già rilevato a proposito di Origene. La spiegazione di questa differenza di comportamento appare evidente: i miti greci erano racconti di certi fatti più o meno fantastici, che potevano essere o accettati o respinti; ma nel VT Filone, accanto a passi di questo genere, trovava prescrizioni legali che per il giudeo erano impegnative alla lettera, e racconti la cui storicità il giudeo pio non si sognava di revocare in dubbio, come gran parte delle storie dei patriarchi. Abbiamo visto lo Ps. Aristea interpretare allegoricamente le prescrizioni rituali giudaiche a uso di lettori colti di lingua greca, ma egli sapeva benissimo che quelle prescrizioni erano vincolanti per i giudei proprio in senso letterale. Analogamente Filone, di fronte a passi biblici che in qualche modo gli appaiono inaccettabili per il troppo scoperto antropomorfismo nella rappresentazione di Dio o per altro, non ha esitazione a rifiutare il senso letterale a beneficio di quello allegorico, attribuendo a quei passi valore soltanto simbolico; ma in altri casi, e sono i più, egli non ha difficoltà ad accettare l'interpretazione letterale del racconto e vi aggiunge quella allegorica senza operare la sostituzione. È probabile che egli non si sia reso conto di staccarsi dal modello ermeneutico offerto dai filosofi greci: ma in realtà il distacco c'è, ed è notevole, come abbiamo cercato di precisare. Quanto poi all'origine di questa innovazione, essa non sembra rimontare a Filone: a Vit. cont. 78 egli ci presenta i Terapeuti 25 che erano soliti interpretare allegoricamente il testo sacro 26 ; e osserva che essi assomigliavano la Le~e a un essere vivente: il corpo era la prescrizione letterale, mentre l'anima era costituita dal nous invisibile riposto nelle parole, vale a dire il significato spirituale rilevato dall'interpretazione allegorica 27 • Questo paragone sembra presupporre un modulo interpretativo regolarmente articolato su due livelli di lettura, letterale e spirituale, il primo considerato di minor significato e valore rispetto al secondo ma pur sempre valido in quanto significativo di fatti e persone reali 28 • 25

Su quest'associazione di pii giudei amanti della vita contemplativa, tanto ammirati da Filone, cfr. Daumas nell'ediz. dell'opera (Paria 1963), p. 2 u. 26 "Le spiegazioni dei sacri testi si fanno l>L'Vffl>VOl.V tv allTJYO{)(ULç",dove, secondo quanto abbiamo osservato a n. 14, allegoria indica il procedimento allegorizzante e hyponoia il significato nascosto che viene messo in chiaro mediante tale procedimento. 27 È superfluo rilevare l'affinità di questa immagine, che assimila la Sacra Scrittura al corpo umano, con quella analoga di Origene, Princ. 4, 2, 4. 28 Questa constatazione emerge con sicurezza dal passo che abbiamo esaminato.

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Termino questa breve rassegna sul significato di allegoria in Filone con Opif. 157: dopo aver trattato degli alberi del paradiso e del peccato di Adamo, Filone scrive: "Queste non sono invenzioni di favola (µuftou :nÀ.aoµa'ta), gradite ai poeti e ai sofisti, ma bdyµa'ta (esempi, testimonianze) 't'UJt(.t)V (di immagini, rappresentazioni), che invitano all'allegoria (bt' àllT)yog(av) secondo spiegazioni fondate sul senso nascosto (bt' u:novotoov)"29 • Il passo interessa il nostro discorso per due motivi. Innanzitutto ne risulta che Filone, anche se talvolta interpreta racconti del VT sostituendo al senso letterale quello allegorico proprio come i filosofi greci interpretavano i loro miti, distingue però gli uni dagli altri nel senso che considera i miti greci pure finzioni, mentre i racconti del VT, anche quando sono privi di significato letterale accettabile, gli si presentano come testi contenenti un insegnamento di origine divina nascosto al di sotto del puro senso letterale, proprio come avrebbe fatto Origene. In secondo luogo va rilevato l'uso del termine w:noç per indicare, in contrapposizione a µùftoç, il testo biblico portatore di un significato nascosto sotto il senso letterale, proprio come di lì a poco avrebbe fatto Paolo 30 • È noto quante incertezze ci siano tuttora circa l'eventuale conoscenza di Filone da parte di Paolo, che fu suo coetaneo di alcuni anni più giovane 31 ; e del resto, come non possiamo essere sicuri che, in ambiente giudeo-ellenista, Filone sia stato il primo a far uso del termine allegoria in contesto esegetico, cosl il dubbio si può estendere anche

Non possiamo invece affermare con altrettanta sicurezza che i Terapeuti avessero caratterizzato la sovrapposizione di due livelli interpretativi facendo uso del termine allegoria, come sembrerebbe risultare dall'espressione filoniana riportata a n. 26. Non si può infatti escludere che Filone, proprio perché abituato a definire allegorico questo procedimento ermeneutico, lo abbia caratterizzato come tale anche in questo passo in cui lo presenta come dei Terapeuti, prestando a costoro quella che era la sua terminologia. 29 Sul rapporto allegoria I hyponoia cfr. nn. 14 e 26. 30 Come risulta dall'/ndex filoniano di Leisegang, nmoc; è termine di cui Filone ha fatto ampio uso, col significato di immagine, rappresentazione, specialmente in riferimento alle idee, agli affetti che si imprimono nell'anima. Non mi sembra che, oltre che nel caso che abbiamo indicato, il termine sia altrimenti attestato nel nostro autore con valenza esegetica. 31

1930.

Per una rapida messa a punto cfr. A. Feuillet, in Dict. de la Bibk, Suppi. 7,

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a typos 32 • Il fatto certo è che Paolo, nel contesto della sua interpretazione del VT in chiave cristologica 33 , ha fatto uso sia di i:t'm:oç sia di t'U1tLXci'>ç per significare che alcune realtà veterotestamentarie andavano intese come prefigurazioni, anticipazioni simboliche e profetiche delle realtà di Cristo e della chiesa 34 ; e in un altro passo ha definito allegorico questo modulo enneneutico 35 • È difficile pensare a coincidenza casuale con la prassi giudeo-ellenista in ambedue i casi, sl che è preferibile ipotizzare la dipendenza di Paolo da questa prassi, anche se non possiamo essere sicuri che la sua fonte diretta sia stata Filone. In nessuno degli esempi che leggiamo nelle sue lettere Paolo dubita della realtà storica dei fatti del VT che presenta come typos e allegoria di Cristo e della chiesa. Perciò il suo modo di interpretare il VT va ragguagliato al secondo dei due procedimenti che abbiamo distinto in Filone, non quello della sostituzione dei significati, ma quello della loro sovrapposizione, per cui anche qui il racconto veterotestamentario impone due livelli di lettura: Paolo accetta il senso letterale, che gli dà il significato storico del racconto, e vi sovrappone quello allegorico, che gli rivela il significato cristiano dell'antico fatto storico.

32

Da una parte si deve considerare, in generale, la profonda influenza esercitata su Filone dai precedenti esegeti giudeo-ellenisti (cfr. nn. 17 e 25); dall'altra si deve tener conto, più specificamente, del fatto che typm ricorre con valenza esegetica solo una volta in Filone: questa rara frequenza potrebbe essere segno che il termine non aveva ancora assunto significato tecnico in tal senso, e ciò indurrebbe a far pensare che per questa sua puntuale accezione Filone non avesse avuto antecedenti. 33 Fin dai primissimi tempi della vita della chiesa i cristiani avevano cominciato a interpretare il VT in senso cristologico, nel senso che riferivano a Cristo i testi profetici e poetici di riconosciuto contenuto messianico, e altri ancora che potevano trovare riscontro nella vicenda terrena di Cristo. Paolo cominciò a dilatare questo procedimento ermeneutico, in quanto considerò anticipazione profetica e simbolica di Cristo e della chiesa anche alcuni passi del VT di contenuto storico: sono quelli riportati nelle nn. 34 e 35. 34 Cfr. 1 Cor. 10, 1-6 "I nostri padri furono tutti sotto la nube e tutti passarono attravel'IIOil mare, e tutti seguendo Mosè furono battezzati nella nube e nel mare, e tutti mangiarono lo stesso pane spirituale, e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale. Bevevano infatti dalla stessa pietra spirituale che li seguiva: e la pietra era Cristo ... Questi fatti dunque sono stati prefigurazioni (WffOL) di noi, affinché non abbiamo cattivi desideri, come li ebbero quelli". 35 Cfr. Gal. 4, 22-24 "È scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla libera: ma quello della schiava fu generato secondo la carne e quello della libera secondo la promessa. Questi fatti sono espressi in modo allegorico (auva WtLV lxllYfY()QO'UµEVQ): infatti questi sono i due testamenti, ecc.".

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Dei due termini adoperati da Paolo per indicare lo stesso procedimento interpretativo, typos e allegoria, il primo ebbe fortuna negli scrittori successivi, dallo Ps. Barnaba in poi, imponendosi come indicativo del significato cristiano del VT; invece allegoria fu adoperato molto di meno: prima di Origene l'unico scrittore cristiano che fa largo uso di questo termine e quelli derivati è stato Clemente Alessandrino 36 • La spiegazione più ovvia di questo riserbo è che il termine fosse avvertito come troppo compromesso con l'interpretazione filosofica dei miti pagani, dalla quale i cristiani distinguevano nel modo più netto la loro interpretazione del VT, in quanto consideravano quelli favole assurde e questo invece racconto storicamente valido, cui sovrapponevano il significato cristiano, da quel racconto profeticamente anticipato 37 • Come risulta dai passi, sopra riportati, della polemica con Celso, Origene intese l'allegoria come procedimento tecnico in sé neutro, atto perciò a essere applicato a racconti pur differenti tra loro sia per spessore storico sia per valenza morale. Egli non sembra aver nutrito diffidenza, almeno a livello teorico, per l'uso del termine, che ricorre in altre sue opere oltre che nel Contro Celso. Ma di fatto se ne è servito parcamente, meno che Clemente, sostituendovi, più che l'ormai tradizionale typos, il collaudato tropologia e soprattutto una terminologia da lui stesso per primo introdotta in ambito esegetico 38 • È sintomatico che, nell'esposizione fondamentale della propria dottrina ermeneutica (Princ. 4, 1-3), Origene abbia utilizzato il termine allegoria in un solo passo e con citazione esplicita del passo paolino (Gal. 4, 24) che ne fondava la liceità dell'uso in ambito cristiano 39 , senza farvi ricorso altrove nel

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Termini alternativi, adoperatimolto meno di typos, ma più di allegoria, furono au~À.OV. Per dettagli su questo argomento cfr. il mio art. 'Sul significato di alcuni termini tecnici nella letteratura esegetica greca', in AA. VV., La terminologia esegetica ~U'anlichiul, Bari 1987, p. 30 88. 37 Questo procedimento di sovrapposizione di due interpretazioni per uno stesso passo biblico, solo abbozzato in Paolo, si dilatò progressivamente, passando dallo Ps. Barnaba a Giustino, da Ireneo a Ippolito e oltre, fino a comprendere intere parti di libri del VT e infine libri interi. Anche se alla frequenza con cui questo procedimento fu applicato non corrispose altrettanta frequenza del termine indicativo allegoria, è fuor di dubbio che il procedimento f088e di fatto allegorico, e come tale l'abbiamo visto definire da Filone. 38 Su questa terminologia (àvay xaito&>v 'tWV'V"XWVxal. JtaÀ.LV fço&>v f.L1JO'tay0>youvuç 'tEÀOÙOL 'tÒV J,Ltv,roç f.L'llO'tTJV, btovoJ,L«oavtEç OffllÀ.atov QoaatQO'IJ aÙ'toqn,ÈçOffllÀ.aLOVtv 'tOLç1tÀ:r1olov 6QEOL Tijç IlEQ(Jtooçàvttteòvxat m)Yàç fxov ltvl.EQ(OO(lVtoç dç 'tLf.L'fl'V 'tou xavtrov 1tOLT1'tOU xat xa'tl)Òç Mti}Q01J,dxova q>ÉQOV'toç airt«i>'tou 6v 6 MU}Q«ç tbtjl,LLO'llQ'YTIOE, 'tWV 6' tv'tòç cmT)À.aLO'IJ 'tOU XOOf.LO'IJ, xmà 01Jf.Ll,LÉ'tQ01Jç rutOO"tUOELç O\l~À.a cpf;Q6vtrov'tvXOOf.U.XWV O'tOLXELO>V xal. XÀ.Lf.LU'tù>V"l,LE'tà 6è 'tOU'tOV 'tÒV Zù>QoaO'tQTl'Y XQ«ff!oavtoç xat xaQà 'toiç 6llcnç, 6L' liv°tQO>V xal. cmT)À.aLO>V d't' oùv airtoqrovdn XELQOJtOLT)'tO>V 'tàç 'tEÀEtàçàJto6LMvaL.

"I Persiani - scrive Porfirio - consacrano i loro iniziati insegnando ad essi segretamente come le anime discendano quaggiù e di nuovo risalgono e hanno chiamato grotta il luogo (in cui l'iniziazione si svolche ge)". Il verbo al presente ('tùouot), l'articolo 'tOV con µuanrv, permettendo d'applicare anche agli "iniziati" la qualità indicata dall'etnico che funge da soggetto ne fa degli iniziati ai IlEQCJI.Xà JIUCJ'tTIQUl, l'uso di EQOV't(J)V la seconda, che è bimembre, ed infine µetà bÈ toiitov {tòv ZroQ06.atQTIV si può omettere con M) XQOfllQOOV xat TI,l>LwtQa;a.µevoç i]x(J)· À.ÉyELV •Ava;tPLov oi:L oux btLn,6eLov ElT) x,:À..). Soggetto di i:àç i:EÀE'tàç ,:òv 1,1,'UO'tT)V: imitatoimobLMvaL saranno ancora gli stessi che 'tEÀOOçxaV'taç· ouuttvaç El6tvm XQTI 'tàç ,t,uxàç t1'1.1totroµtvaç 'ti,yQ 'tàç Elç ytvEmv xa'tLOuooç. "Ninfe Naiadi - scrive Porfirio - è per noi nome proprio delle potenze che presiedono alle acque, ma per gli antichi quel nome era comune anche alle anime che scendono nella generazione. Essi infatti ritenevano che le anime si posassero sull'acqua (come le api si posano sui fiori: cfr. Philos. ex orac. haur. p. 149, 4 Wolf, :rtQOL' àyaÀl,ttJ.'t(J)V àvitQro:rtOU btLPEPTJx6,:oç:rtÀ.Otov, ,:ou :rtÀ.Otou btt xeoxo6eLÀ.Ou •.. ". Fino a XELµÉ'VOU. àT)À.OL 6è ,:ò 1,tèv:rtÀ.Otov'tTIVtv uyQq>XLVT)ç 1tavtaç riprende to'Ùçbaf.µovaç futavtaç (p. 12, 17) e ribadisce che della rappresentazione egiziana degli dèi - oùx latava1. btt lùJ..à 1tavtaç btt 1CÀoLOU (questo 1tavtaç è espunto, forse senO'tEQEO'U, za necessità, certo con eleganza da Hercher) - quello del sole è l' esempio più celebre (vd. i passi citati sopra), ma non l'unico. Ma a che cosa si riferisce ouati.vaç, la parola davanti alla quale la nostra traduzione si è fermata? Ad futMi>ç1tavtaç, rispondono, tra i moderni, gli editori di Arethusa 1969 (seguiti da Simonini 1986) e Des Places 1973. Ma se questo riferimento è esatto, e cioè se il greco, magari solo quello di Porfirio, ammette quest'uso di oanç - 1tavtEçohLvEçnormalmente non si dice in greco, bensl solo 1tétç, o anche ffClvtEçOO'tLç oppure 1tavtEç 0001.-, qual è la funzione di O'UatLvaçnella sintassi della proposizione relativa? Per Des Places ouati.vaç è il complemento oggetto di El6tva1.:"et voilà pourquoi les Egyptiens installent [latavaL con "A."] toutes leurs divinités sur une barque, à fois le soleil et tous les dieux absolument [futMi>ç1tavtaç], que doivent connattre les imes qui descendent dans la génération en voletant sur l'eau". Ma d6tva1. non significa "conoscere", bensl "sapere": lo sanno anche gli editori di Arethusa (e Simonini), e tuttavia, impacciati dalla presunzione che ouati.vaç debba essere in qualche modo l'oggetto di d6tva1., essi producono una traduzione che non ha alcun rapporto ragionevole, e cioè grammaticale, col testo: "this applies to the Suo and, in short, to ali the deities. We must urulerstand [d6tvaL XQTI]that this (scil. "ali the deities": ouati.vaç] represent (?) souls hovering over moisture, i.e. those souls descending to genesis" ["bisogna sapere che questi (scil. "gli esseri divini") sono le anime che, planando sull'acqua, discendono nella generazione" (Simonini)]. Ora, se El6tva1.,"sapere", ha da avere un oggetto, la presenza di un participio predicativo all'accusativo, bt1.1tot0>µÉ'Vaç, costringe ad individuarlo nel concordante tàç ,i,uxàç ... tàç dç yÉ'VEOLV xati.ouoaç: "bisogna sapere che le anime che discendono nella generazione planano sull'umido". Ma O'UatLvaç,che ormai non può che fungere da soggetto di d6tva1., a che cosa si riferisce? Sensibile, forse, alla stranezza del nesso 1tavtEç otti.vEç, certo preoccupato per il contenuto (se imÀç 1tavtaç sono gli dèi, non ha senso dire di loro che debbono sapere, come del resto non aveva senso dire che gli Egiziani pongono su di una barca, oltre al sole, tutti i dèmoni che le anime devono conoscere ... ), Conrad Gesner 1542, che

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cito da Van Goens 1765, lo riferisce agli Egiziani e traduce: "Item Aegyptios eandem oh causam omnes daemones non in aliquo solido sed in navigio collocare [espunge il primo xavtac; di riga 18 e legge lm:avaL, che perciò dev'essergli attribuito negli apparati], similiter et solem et breviter omnes: nimirum quod sciant animas ad humorem advolare quae in generationem descendunt". A Gesner si associa tacitamente Buffière 1956, p. 602: "Les Egyptiens savent nécessairement que les ames qui descendent s'incarner planent sur les eaux". Altre interpretazioni la grammatica non ne concede. Che le anime "si librino sull'umido", è cosa che gli Egiziani e il finora negletto, ma a torto, profeta Mosè (si rilegga attentamente il greco: l>Là toOto M:yrov[scil. Numenio] xat tòv XQCXPTl'tT}VElQTJxÉ'VaL ... touc; tE Alyuxttouc; bLà tomo ... ) non affermano esplicitamente, ma è opinione che Numenio ricava dal loro modo di raffigurare il divino: oi'.im:Lvac;equivale a xal (o xal yaQ: cfr. la variante di M al secondo xa( di riga 18) aùtouc; (vd. Kilhner-Gerth II pp. 435-436, § 562, 2 e, coi consueti esempi "attici"), e XQTIesprime la necessità logica. La nostra traduzione deve essere dunque completata cosl: "costoro devono sapere che le anime si librano sull'elemento umido - le anime, s'intende, che scendono nella generazione". Nel nome delle "anime che scendono nella generazione" coerentemente si conclude il discorso che Porfirio aveva iniziato riconoscendo nelle ninfe acquatiche, nelle Naiadi, un altro nome di quelle stesse anime. Cosi l'anello, perfettamente saldato, non interrompe la catena: "Perciò Eraclito, continua Numenio, dice che per le anime è piacere e non morte diventare umide ... ". 14, p. 16, 1 88. "A."= p. 65, 24 88. N. ).tfhvOLbè XQ.11ç;,ill' à:itò tou ).(ik>u tQQTJih)aav.tà b' aÀ.L:Jt6Qq,upa q>aQTJ lxvtLXQUç; TI t; alµaTrov àv dTJ t;uq,mvoµ€:vTJ aétQ;.

"I crateri e le anfore di pietra sono invece appropriatissimi alle ninfe che presiedono all'acqua che sgorga dalle rocce. E per le anime che discendono per nascere a questo mondo e per formare un corpo,

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quale simbolo sarà più appropriato di questi ('tOU'trov)?Perciò il poeta osò dire che su di essi (tv 'tOU'tOLç)"tessono manti di porpora, che stupiscono a vederli" (Od. XIII 108). La formazione della carne avviene infatti sulle ossa e intorno alle ossa, che sono l'elemento pietroso degli esseri viventi, perché assomigliano alla pietra. Proprio per questa ragione i telai, dice il poeta, sono di pietra e non di un'altra materia. I manti di porpora saranno senz'altro la carne, che è intessuta di vene di sangue .... " Tomrov, su cui i manoscritti concordano, è riprodotto senza esitazione da tutti gli editori. Ma se 'tOU'tOOV non può che riferirsi ai crateri e che con strana eco lo riprende, allude alle anfore di pietra, tv 'tOU'tOLç, evidentemente ad altri oggetti, pure in pietra, i telai su cui le Naiadi tessono manti di porpora, simbolicamente le ossa su cui le anime-ninfe tessono la carne rossa di sangue dei loro corpi. Gli editori di Arethwa infatti traducono 'tOU'tOOV con "than looms", che ripete il "quam textoria" di Holste 1630 ( = Hercher 1858). Noi preferiremmo accogliere la congettura di Holste anche nel testo e stampare 'tOOV latoov invece di 'tOU'tOOV (che poi questi telai siano di pietra è facile arguire: cfr. 3, p. 4, 12-13: ÀtihvoLbè xal aÙ'tol cbçol àµqmpOQEiçxal ol XQQ .6nos (diversamente da Simonini 1986 preferisco, coi più, associare itt:6ç, benché sia senza articolo, a quel che segue: cfr. Norden 1913, p. 380 ss. ), e se la prima parola allude ad un momento della vicenda delle anime, anche la seconda ricorda un'impresa e, data l'esemplarità delle gesta divine, un carattere del dio. Ma di quale dio? In genere si crede che questo divino "ladro di buoi" sia Mitra, e sulla base del contesto e sulla fede del supposto frammento di "liturgia mitraica" trasmesso da Firmico Materno, De corr. prof. rel. V 2 (Virum abactorem bovum colentes [scii. Persae et Magi omnes, V l] sacra eiw ad ignis transferunt ~x).o,i('ls potestatem, sicut propheta eiw tradidit nobis dicens: 1,LUO"ta cnrv6É~LEffO'tQÒSàyauoO: vd. Cumont 1899, p. 171 e Bidez-Cumont 1938, I p. 98; II p. 153), benché i monumenti che raffigurano il dio "persiano" alle prese col toro non permettano d'incolparlo propriamente di abigeato (vd. Turcan 1975, p. 76 n. 115), come l'odio suggeri allo stesso Firmico (a quel delitto rinvia senza dubbio il termine abactor: vd. ThLL, s. v. ), o di paragonarlo addirittura a Caco, come fece Com-

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modiano, lnstr. I 13 (vertebat boves alierws semper in antri&, I sicut et Cacw Vulcani fil,iw ille). Per Buffière 1956, p. 435 il nostro ~UXÀ61toç; è invece "senza dubbio" Ermete, il ladro delle cinquanta vacche di Apollo (H. Hom. IV 73 ss.). Ma l'esatta identificazione del nome non è, questa volta, essenziale, e non tanto perché Mitra ed Ermete appaiono associati tra di loro e con Apollo-Helios in iscrizioni cultuali, come quelle di Antioco I di Commagene (vd. Turcan 1975, pp. 18 ss. e 116 ss. ), quanto perché quei nomi vengono tutti riferiti ad un'unica entità divina nella teologia nata con gli stoici e largamente condivisa dai "platonici", che chiamiamo appunto "solare" (vd. Cumont 1919): il dio ~UXÀ61toç; può dunque essere, nella sua sostanza, il sole. Porfirio stesso pare abbia scritto addirittura un libro intitolato al sole (Serv. in Bue. 5, 66, III 1, p. 62 Thilo-Hagen: vd. Altheim-Stiehl 1966, p. 198 ss.) e ad ogni modo nell'Antro dà per scontato che il dio µeOT)µ~Laf;rov, ovvero il sole (27, p. 26, 13), sia "il dio che tiene il potere dell'universo" (27, p. 26, 16-17 ftEòv QQXT)V 'tvoÀrov lxovta: cfr. Cic. Ac. Il 41 = SVF I 499 Cleanthes ... solem dominari et rerum potiri putat): supporre che questo dio, come il ~UXÀ61toç;, abbia a che fare con la "generazione" è perciò tutt'altro che illegittimo. Cosi, chi come noi si preoccupi d'interpretare Porfirio più che di ricostruire l'autentica dottrina mitraica, può senza rischio dare al "ladro di buoi" il nome che i "persiani" davano al sole, Mitra (cfr. Vennaseren 1960, p. 79 ss.); né potrebbe impedirlo l'ipotesi di Turcan 1982, p. 208, secondo la quale l'esametro citato da Finnico, benché la parola ouvbÉçwç; e il gesto rituale che essa nomina, la bEç((l)(JLç; o dextrarum iunctio, siano entrambi attestati da documenti mitraici iscritti e figurati, deriverebbe da una "fonte libresca", da un "autore verosimilmente neoplatonico, che integra nella sua esegesi nozioni e linguaggio stoici": neoplatonico è anche Porfirio, libresche sono pure le sue fonti e la coincidenza tra ~uxÀ61toç; (un hapax!) e la ~UXM>1t(1') imputata a Mitra non può essere casuale. Ma la vera difficoltà, nel nostro passo, non sta in ~uxÀ61toç;, il predicato, bensl nel suo soggetto, 6 'tT)V ytvEOLV ÀEÀ1')ft0troç;àxourov. Solo due degli elementi che lo compongono sono chiari: la "generazione", di cui è simbolo il bue, e l'avverbio À.EÀT)ft0troç;;rimane, come sappiamo, il mistero di àxourov. Benché sia sempre rischioso, come insegnava Paul Maas, applicare un qualsiasi criterio di economia all'emendazione di un testo, il nostro "esercizio", proprio perché tale, non può prescindere da ogni regola: se àxourov è guasto ed è impossibile restituire la lezione originaria, dev'essere individuato almeno il ti.pocui essa apparteneva. Poiché, dunque, in tutto il

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passo i soggetti inusitatamente forniscono una glossa, più o meno ampia, dei predicati, due sono teoricamente le vie per sostituire ixxourov: la prima consiste nel trovare una parola che, insieme con À.Ù.flitotroç, costituisca una metafrasi del XÀbttrov implicito in ~XÀc>:rtoç (si tratterebbe di un passaggio dal "proprio" al "proprio", di un semplice "rewording" da dizionario); la seconda, invece, nell'individuare una parola che, insieme con À.Ù.flitotroç, fornisca una soluzione, in termini propri, di XÀ.É:rt'trov,assunto, al pari del "bue" rispetto alla "generazione", come metafora. La prima via è stata seguita da Turcan 1975, pp. 76-77 (cfr. 1982, p. 207), che propone di leggere À.Ù.flit&troç ix:rtétyrov, e intende: "le dieu sauveur soustrait secrètement la création à l'esprit du mal, à Areimanios". A quanto pare è difficile, anche per l'autore di Mithra Platonicus, rinunciare a cogliere nel testo del platonico Porfirio elementi della vera religione mitraica: purtroppo, proprio in relazione al mitraismo, "Turcan's Zoroastrian language, with its reference to Ahriman, is quite inappropriate in the present state of knowledge" (Gordon 1976, p. 157 n. 73). E se è cosl, più grave appare il fatto che la metafrasi di Turcan spezzi la plausibile unità metaforica e "mitica" di ~uxÀ.6:rtoç. A questa seconda, formale obiezione si sottraggono le altre congetture, che seguono tutte la seconda via: da xroÀ.urov di Hercher 1858 (ricordato da Nauck in apparato; ma "le dieu n'empeche aucunement la génération": Turcan 1975, p. 75), a btiturov di Cumont 1896, p. 40 (ma al mitraismo è estranea, come osservava Loisy 1930, p. 186 n. 3, l'idea di un'offerta espiatoria della creazione), ad ixxérov dello stesso Loisy ("mais celte idée de réparer la création blessée est d'inspiration chrétienne": Turcan 1975, p. 75), a xurov di Campbell 1954, p. 23 n. 2 ("the one secretly begetting genesis is a cattle-stealing god": ma questa traduzione trascura le regole della lingua e il gioco dei simboli), fino a ixvaxtvoov oppure ixvaxuxÀ.oov, offerte cautamente dall'apparato di Arethusa (la traduzione dà "furthers (?)"), o ad ixvétyrov di Beck 1978, p. 140 n. 62 ("in the technical sense of bringing creation backup to immortality from mortality": Beck 1984, p. 2054). Delle tre ultime congetture, la prima sembra ispirata da un luogo ermetico citato da Reinhardt 1926, p. 369 (C. H. XVI 8, p. 234, 16 ss. NockFestugière): xat 'tO'Ù'tO'V'tÒV 'tg6:rtov bT)µtougyei'taL (scil. il sole] wtavta . . . 'tà ilitétva'ta µÉQTI 'toù x6oµou 'tQÉq>rov, 'tq> bè xa'taÀ.aµpavoµévq> xat :rtEQLÀOµ:rtOV'tL 'tÒ :rtav uba'toç xat yijç xat ixéQOçxu'toç l;roo:rtotvxat ixvaxtvv yevéaeaLv xat µE"ta~À.aiç 'tà tv 'tOU'totç 'toiç µÉQEOL'tO'Ux6oµou l;q'>a... ; la seconda trova forse un pa-

rallelo ancora in C. H. XVI 9 e in Diodoro II 50, 7, entrambi citati da

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Reinhardt, p. 370 e n. 1, pure a documento dell'attività demiurgica e "zoogonica" del sole, e ad ogni modo livaxuXÀtoo(intransitivo), detto della generazione, è già in Aristotele, Gen. corr. 338 a 4. Ma siamo certi che la bougonia alluda qui alla ytveau;, e non piuttosto, come crede Beck, all'àJtoytveotç? Nelle Allegorie omeriche di Eraclito, un autore che, se non è stoico, allo stoicismo certo deve molto (vd. Pépin 1976, p. 159 ss.), leggiamo, a proposito del sole (56, 6- 7, p. 64 Buffière): 'EnEL6,\1tEQfiÀ.(outQOCl)TIV 61tEcpTJVClµria tTlVMryQOV O'Ùcnavxal yàQ 61tò yi\ç tò l>(uyQOVàvamtrov µéù..LatatT)VcllµuQétvÀEÀ.f)itotwç 'rijç àtµ(l>oç tOUtq>µéù..tata tT)V1tUQ(OOTI qrtJOLV au;EL...

La coincidenza col nostro passo porfiriano è limitata ad una sola parola, l'avverbio À.EÌ,:rrft6tooç; ma il sole, sempre secondo Eraclito (6, 6, p. 7 e 8, 5, p. 10), è da Omero e dai "riti ineffabili" (al wt6QQTl'tOI. tEÀE'tat) identificato con Apollo (cfr. Pépin 1976, p. 126 ss.), che secondo Cleante, teste Macrobio (Sat. I 17, 36 = SVF l 541), chiamano Lycium, quod veluti lupi pecora rapi un t, ita ipse quoque umorem eripi t radiis. Accolta l'identità tradizionale di Apollo col sole, Cleante derivava Àuxei.oç, epiteto di Apollo, da Àuxoç, "lupo", innestando la similitudine omerica dei lupi che rapiscono le pecore (Il. 16, 352) sulla vecchia metafora del sole che "rapisce" l'umidità (cfr. Schol. ad Apoll. Rhod. IV 269 D.-K. II, p. 54, 25 ss. ~toyE'Vf)ç6 'A1tolloovta'tT)ç '61tòflÀtou llQ1tatemta1.tò u&oQTftçitaÀa't'tT)ç... ; Sen. Nat . quaest. IV a 2, 28 ss. = D.-K. Il, p. 54, 28 ss. Diogenes Apolloniates ait: sol umorem ad se rapit). La descrizione del fenomeno dell'evaporazione come effetto dell'azione impercettibile (À.EÀT)it6'tooç!) dei raggi solari e il paragone di essa con la rapina furtiva del lupo; il fatto che l'una e l'altro siano, in Macrobio, contestuali e appartengano ad un ambito dottrinale comune (il secondo è attribuito esplicitamente da Macrobio a Cleante, e la prima è riferita da Eraclito insieme con la teoria del sole che si nutre di umidi vapori, che è generalmente stoica, come sa lo stesso Porfirio [Antro 11, p. 12, 27 ss.], ma che è pure di Cleante [SVF I 5011); il fatto, infine, che Macrobio, Sat. l 17, 1-23, 19, dipenda certamente da Porfirio (da quale, o quali, delle sue opere, non importa ora decidere: vd. Courcelle 1948, p. 20; Altheim-Stiehl 1966, p. 205; Flamand 1977, p. 667); tutti questi elementi persuadono a connettere la bor.Jdopiadell'Antro a quel-

=

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la speciale "rapina", della quale ormai sappiamo che un linguaggio e una dottrina già antichi facevano responsabile il sole: la similitudine del lupo che rapisce le pecore, applicata mediante una falsa, ma diffusa etimologia (ÀUXELoçda Àuxoç) ad Apollo e dunque al sole, funge esattamente da ponte ermeneutico tra la realtà fisica dell'astro che fa evaporare l'umido e il mito in cui il dio agiva, nascosto sotto uno dei suoi nomi, come "ladro di buoi". E poiché, nell'Antro, l'oggetto "diretto" del furto divino non è più l'umidità, ma la generazione, quel furto consisterà nel togliere alla generazione - ÀEÀT)iM'tooç, come in Eraclito allegorico! - l'umidità che l'aggrava. Perciò proponiamo di sostituire lo strano àxouoov con aila(voov e di tradurre: "ladro di buoi è il dio che segretamente dissecca la generazione", ovvero il Sole, comunque lo si chiami, rapisce coi suoi raggi l'umidità cooperatrice della generazione (Antro 17, p. 18, 23 O'U'VEQYEi yàQ YE'VÉ -ceivov eug(oxo-

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µev· ft naxù xat i,yQè,vy1.v6µevov'toiç X'IQOµoiçTijç yi\ç tv6uE'ta1., QO,tjiqrooi.xfiÀ.rilov xat TI senza accento; infine, h'tQEq>uoaçdell'originale è diventato, se ho letto bene, hQcpouoxç! Inoltre, tra 'totç µÉÀEirteuoo(in questa parte del mio lavoro mi è stata preziosa l'assistenza dell'amica e collega Enrica Follieri). Ha quindi, possiamo confermarlo, pienamente ragione il Mazzocchi Alemanni nel giudicare approssimativa la conoscenza belliana del greco30 , anche se nel caso a proposito del quale egli formula il suo giudizio ci può essere stato, come egli giustamente osserva, da parte del Belli, il desiderio di dar vita a un greco maccheronico: si tratta dell'accostamento scherzoso del suo cognome all'aggettivo xaAoç, sul quale il poeta gioca nella firma di due lettere a Cencia: la lettera scritta "Il primo giorno fra l'Ottava della Befana del 1832" 31 , che il Belli firma: "Il vostro quel che volete Calossi"; e la lettera del 29 gennaio dello stesso anno, firmata "Sono il Vostro A.[ffezionatissimo] A.[mico] xaÀÒ>ç;", dove il Mazzocchi Alemanni fa notare la presenza, naturalmente errata, dell'accento grave al posto del richiesto circonflesso32 • Nella parte finale di una lettera a Cencia del 22 marzo 183~ il Belli espone il sistema di equivalenze che sta alla base dei suoi scherzosi = calòs = bello: Calossi = Belli" 35 • pseudonimi: "Ecco: xaÀ.Ò>ç;34

30

Penino, come abbiamo visto, a livello di lettere dell'alfabeto, anche se il Belli ce ne snocciola scherzosamente alcune in una poesia italiana, il sonetto indirizzato probabilmente a Francesco Spada: "come un putto che cona a babbo e mamma/ vi lanciate alla vostra biblioteca / a lucidar su grammatica greca / il sigma, il lambda, il jota, il delta, il gamma" (vv. 5-8: in Belli italiano Ili. Le poesieposkrwri al /H!riodo romanesco, edizione integrale a cura di R. Vighi, Roma 1975, p. 602). Cfr. anche il sonetto Le douol'e$Se(in BeUi italiano li. Le poesie rkl periodo romanesco, edizione integrale a cura di R. Vighi, Roma 1975, p. 405 "e vi spiegano il cappa e l'ipsilonne / ciarlando un'ora dove basti un cenno" (v. 7 s.), che però mi pare si riferisca all'alfabeto italiano (cfr. il v. 20 della poesia La dogana rk krra a Ppiazza-de-Pieira (n. 22 dell'edizione del Vigolo citata a n. 43]: "Dar conne rronne ar pisilonne e zzeta", e la nota del Belli ad loc.; cfr. anche p. 49 del voi. I dell'edizione curata dal Vigolo). 31 M. A. I pp. 33-35. 32 Ed. cit. p. 41 n. 49. 33 M. A. I p. 43. 34 Il facsimile da lui pubblicato a p. 42 smentisce la trascrizione xcwi>ç del Mazzocchi Alemanni (ma potrebbe trattarsi di uno dei tanti errori di stampa che funestano la pur pregevolissima edizione). 35 Restando nell'ambito delle lettere a Cencia, è interessante notare che il Belli in due occasioni le dà spiegazioni etimologiche di parole di origine greca: nella lettera

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Nell'epistolario belliano pubblicato da Giacinto Spagnoletti ricorre due volte, in contesti scherzosi e con evidente valore apotropaico, la parola crepsilon:lettera a Francesco Spada [Domenico Biagini-Filippo Ricci] del 29 agosto 1839: "quegli altri suoni più dozzinali che si salutano anch'essi col prosit o col grecismo del crepsilon"36 ; lettera a Giacomo Ferretti del 5 agosto 1840: "ma pure, da certe quadrature di cielo, prevedo che se qualche P.G.R. noi soccorre, per Dio lo stirar delle cuoia toccherà al maschio. E con ciò Crèpsilonparola greca" 37 • Risolve il piccolo mistero di questa "parola greca" di conio chiaramente maccheronico una nota del Belli a una sua poesia italiana, Scherzoper la sera del 5 gennaio J83e, J.: 368, 368 n. 6 La Bua, V.: 303 n. 12 Labus, G.: 441 n. 2, 442 n. 3 Lachmann, K.: 887 n. 2 Lamberton, R. D.: 888 n. 10,890, 890 nn. 16, 19, 896, 896 n. 51, 898, 898 nn. 62-63 Lami, A.: 823 n. 21 Lampe, G. W. H.: 324 n. 73, ll24 n. 36, 1125 n. 43 Lanata, G.: 203, 203 nn. 26, 27, 206 n.

Indice degli autori moderni 41, 815 n. 3, 825 n. 24 Landfeater, M.: 352 n. 21 Landmann, G. P.: 858 n. 7 Lanza, D.: 10 n. 2, 299 n. 36, 589 n. 31, 708 n. 19, 713 n. 30, 715 n. 36, 718 n. 41,832 n. 7,833,833 n. 14,834 n. 15, 891 n. 23, 912 n. 8, 914 n. 14, 1049 Lanza, M. T.: 364 n. 3 La Penna, A.: 977 n. 22 La Roche, J.: 995 Lucaris, G.: 816 n. 4, 1093 n. 17 Lasaerre, F.: 167 n. 1, 168 n. 12, 170 n. 24,171 n. 26, 173n. 37, 178n. 56,199 n. 3, 202, 202 n. 21, 369 n. 8, 647 n. 5, 896 n. 48 Latacz, J.: 186 n. 29, 367 n. 4, 941 n. 44 Latainer, D.: 809 n. 13 Latte, K.: 233 n. 11, 234, 235, 400 n. 20, 403 n. 1, 639 n. 63, 719 n. 3, 908 n. 28, 910 n. 34 Laudizi, G.: 985, 985 n. 5 Lausberg, H.: 866 n. 4, 960 n. 4 Lazenby, J. F.: 273 n. 28, 274 n. 32, 276 n. 39, 1033 n. l Lazzarini, M. L.: 1096 n. 34, 1097, 1097 nn. 36-37, 40, 42 Lebek, W. D.: 1006 nn. 81-82 Lecoq, P.: 783 n. 32 Lefkowitz, M. R.: 234 n. 14, 347 n. 3, 395 n. 2, 471 n. 3, 472 n. 5, 479, 935 n. 24, 937 n. 28, 944 n. 48 Legge, J.: 781 n. 29 Legrand, P. t.: 928 n. 5 Lehmann, M. R.: 313 n. 45 Lehnus, L.: 281 n. 9, 414 n. 3, 448 n. 18, 455, 466 nn. 10-11, 936 n. 26, 938 n. 35, 945 n. 51 Leisegang, H.: 1136 n. 30 Lempicki, Z.: 443 n. 8 Lennep, D.: 981 n. 2 Lenschau, T.: 269 n. 12, 438 n. 28, 504, 745 Lentz, T. M.: 795 n. 22 Lenz, F. W.: 1119 nn. 1, 3 Leo, F.: 1105 n. 75 Leone, P.: 329 n. 2, 331 n. 6 Leonhardt, J.: 1005 n. 75

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Indice degli autori moderni Leopardi, G.: 447, 450, 450 n. 25, llll n. 4 Le Roy Ladurie, E.: 212 n. 5

Leschhom, W.: 433 n. 17 Lesltin, M.: 1055 Leslty, A.: 81, 81 n. 6, 85 n. 17, 175 n. 44, 400 n. 22, 773 Leasing, G. E.: 887, 887 nn. 2-3, 888, 897,898 Leue, G.: 973 n. 8 Leumann, M.: 457 n. 13 Leut11ch, E. v.: 377 n. 3 Levi, I.: 314 n. 45, 320 n. 65 Levi, L.: 523, 525 n. 15 Lévi-Strauu, C.: 758 n. 9 Lévy, E.: 1034 n. l Lewis, D. M.: 783 n. 32, 836 n. 19

Lewy, H.: 1165, 1168 Licht, H. (= Brandt, P.): 955, 955 n. 32 Liddell, H. G.: 694 n. 15 Lidov, J. B.: 866 n. 2, 867 n. 5, 871 n. 16 Lindsltog, C.: 1193 n. 24 Lisi, U.: 395 n. 2 Lissarague, F.: 511 n. 21 Livrea, E.: 209 n. 60, 834 n. 15, 916 n. 25,920 n. 50 Uoyd, G. E. R.: 763 n. 19 Uoyd-Jones, H.: 217,217 n. l, 218, 219 n. 8, 234 n. 14, 302 n. 5, 347 n. 3, 541 n. 4, 990, 990 n. 2 Lobel, E.: 206, 206 n. 42, 235, 238, 240, 244, 247, 302 n. 5, 403, 403 n. l, 404, 408, 408 n. 17, 409, 454 n. 6, 547 Loclte,J.: 1193, 1194, 1194 n. 27 Lobi, R.: 791 n. 14 Loisy, P.: 1160, 1163, 1168 Lombardo, M.: 356 n. 35 Lomiento, L: 920 n. 50 Longo, C. P.: 504 nn. 8-9 Longo, O.: 10 n. 2, 742 n. 7, 833, 833 s. n. 15, 848 L'Orange, H. P.: 1094 nn. 23-25 Loraux, N.: 221 n. 3, 552, 552 n. 3, 563, 798 n. 27, 801 n. 3, 841, 841 nn. 3538, 842, 842 n. 39, 845, 847 nn. 47, 49,860 n. 10

Lorenz, S.: 888 n. 10 Lorenzoni, A.: 747 nn. 22-23 Lovel, E.: 973 n. 8 Lucas, D. W.: 588 n. 29, 790 n. 10, 897, 897 n. 60 Luce, J. de: 64 n. 5 Ludwich, A.: 463 n. 4, 981 n. l, 995 Ludwig, W.: 947,948 n. 5, 951 n. 13, 952 nn. 20-21, 953 n. 23, 978 n. 29 Uibbert, E.: 173 n. 37, 174 n. 42 Lultermann, F. E.: 270 n. 17,277 n. 41 Lultes, S.: 212 n. 4 Lullies, R.: 614 n. 21 Lumpe, A.: 1007 n. •, 1008 n. 3, 1012 nn.

13, 16 Lunelli, A.: 1151 n. • Luppe, W.: 134 n. 25 Luschnat, O.: 837 n. 21 Luyster, R.: 56 n. 9 Mass, P.: 162 n. 22, 343 n. 48, 458 n. 17, 462, 525 n. 15, 527 n. 23, 572, 715,

990, 990 n. 5, 1162 Maass, E.: 979 n. 30 Macaulay, G. C.: 861 n. 11 Mac Cail, R.: 1178 n. 19 MacDowell,D. M.: 504 n. 9, 613 n. 19, 691, 691 n. 8, 707 n. 15, 817 n. 6, 862, 862 n. 12 Macia, L M.: 944 n. 49 Maddoli, G.: 340 n. 37, 342, 343 n. 48, 1034 n. 2, 1035 s. n. 8, 1038 n. 16 Maehler, H.: 155 n. 1,302 n. 5,353 n. 25, 354 n. 28, 355 n. 33, 421 n. 32, 422 n. 34, 429 n. 7, 454, 454 n. 7, 462 n. 3, 481 n. 2, 482, 490, 875 n. 24 Maenchen-Helfen, O.: 1176 n. 13, 1177 n. 16 Maffi,A.: 796 n. 24, 807 n. 12 Maguire, J. P.: 879 n. 5 Mahlow,G. H.: 634 n. 50 Majercilt, R.: 1165, 1168 Malten, L: 387 n. 56 Maltese, E. V.: 122 n. 13, 125 n. 23, 126 n. 27, 1111 n. 4, 1113, 1113 n. 7 Mancini, A.: 1190 n. 5 Mancuso, U.: 143, 143 nn. 1-3, 144, 145,

1244 14.5 n. 20, 148, 336 n. 23, 354 n. 27 Manfredi, M.: 694 n. 15, 956 n. 33, 114.5 n. 7 Mannaperger, B.: 922 n. 58, 923 n. 62 Manafeld, J.: 1007 n. •, 1010 nn. 7-8, 1011 nn. 8, 11, 1012 nn. 12, 15, 1013 n. 18, 1015 n. 25, 1016 n. 29, 1021 n. 40, 1022 n. 42, 1024 n. 4.5 Marchant, E. C.: 844, 844 n. 42, 84.5, 1194 n. 29 Marchetti, V.: 1055 Marchione Haua, A.: 899, 899 n. 67 Marcovich, M.: 948 n. 3, 951 n. 13, 954, 954 nn. 26, 29, 955, 956, 957 n. 39, 1165, 1166, 1168 Marg, W.: 217, 217 n. 1, 218, 218 n. 4, 219, 219 n. 8, 303 n. 12, 114.5 n. 6 Mariotti, S.: 1110 n. 95 Markianos,S. S.: 304 n. 13 Marot, K.: 54 n. 5 Marquart,R.: 593 n. 9 Marrou, H.-1.: 915, 916, 114.5 n. 7 Martano, G.: 1059 n. 10 Martin, J.: 866 s. n. 4, 872 n. 17, 975 n. 16, 978, 978 n. 29, 979 Martin, R.: 849 n. 55 Martina, A.: 301 n. 2, 303 n. 12, 305 n. 21, 539 n. 1, 542 n. 7 Martinazzoli,F.: 593 n. 10, 594 n. 13 Martini, E.: 1098 n. 47 Marzi,G.: 522 n. 3 Marzullo, B.: 189 n. 1, 191 n. 6, 192 n. 12, 285 n. 2, 350 n. Il, 614 n. 21, 630 n. 40,633 n. 46,638 n. 62,679,679 n. 2, 680, 680 n. 3, 681 n. 6, 682, 683, 685 n. 16 Masaracchia, A.: 728, 729 Mason, D. K.: 867 n. 8 Masqueray, P.: 591 n. 2, 593 n. 8, 599 n. 37 Mauenzio, M.: 1070 n. Il Mastrofini, M.: 1192 n. 19 Mastromarco, G.: 922 Matthews, V. J.: 163 n. 26 Mattioli, E.: 443 n. 7 Maull, I.: 1094, 1094 n. 24, 1099 n. 51 Mauu, M.: 212 n. 4

Indice degli autori moderni Mayer, M.: 148, 148 n. 32 Mayser, E.: 993, 994, 994 n. 16, 995, 996, 1000 n. 23 Mazetti, C.: 304 n. 13 Mazon, P.: 523 Mauarino, S.: 268 n. 6, 298, 298 nn. 3233, 303, 303 n. 13, 775 Mazzocchi-Alemanni, M.: 1189 nn. 2-3, 1190 n. 6, 1191 nn. 8, 13, 1193, 1195, 1195 nn. 31, 33-34, 1196 n. 35 Mc Diannid, J. B.: 1007 n. •, 1012 nn. 12, 14, 1013 n. 17, 1024 n. 4.5 Mc Donald, W. A.: 270 n. 17, 275 n. 36, 277, 277 n. 41 McKay, K. J.: 929 n. 6, 948, 948 n. 3, 949, 949 n. 6, 950, 950 nn. 8, 11, 951, 952 nn. 17-18, 1098 n. 4.5 McLeish, K.: 716 Méautis, G.: 415 n. 8, 417 Medaglia,S. M.: 196, 196 nn. 5, 7 Mehlhom, F.: 990 n. 7, 994 n. 16, 995, 999 n. 23 Meigga, R.: 836 n. 19 Meillet, A.: 836 n. 20 Meillier, C.: 916 n. 25, 993 n. 15 Meineke, A.: 184, 637 n. 60, 675, 675 n. 2, 720, 721, 741, 741 n. 1, 744 n. 8, 74.5 n. 9, 746, 955 n. 29, 957, 957 n. 37 Meister, K.: 681 n. 6 Melher, J.: 358 n. 43 Mele, A.: 181 n. 8, 341 n. 41, 344 nn. 51, 53, 1033 n. 1 Melena, J. L: 133 n. 20, 138, 138 n. 37, 139 n. 40, 141, 934 n. 20, 937 n. 30, 938 n. 34 Merante, V.: 434 n. 18 Mercurialis, H.: 678 n. 12 Merentitis, K. J.: 395 n. 2 Meritt, B. D.: 832 n. 11 Merk, A.: 315 n. 52 Merkelbach, R.: 195, 195 nn. 1-2, 370 n. 11, 1028, 1028 nn. 17-18, 1159, 1168 Merry, W. W.: 681 n. 8 Metastasio, P.: 442 n. 4, 446, 446 n. 14 Mette, H. J.: 727 n. 11 Meyer, E.: 271 nn. 21, 23, 275 nn. 36-37, 276 n. 39

Indice degli autori moderni Meyer, G.: 525 n. 14 Michaelides, S.: 517 n. 28 Miller, A. M.: 130 n. 5, 142 Miller, M.: 303 n. 12 Miller, M. E.: 279 n. 1 Milligan, G.: 323 n. 70 Mineur, W. H.: 351 n. 20 Mingarelli, G. L.: 442 n. 4, 449 n. 20 Miralles, C.: 222 n. 5,299, 299 nn. 37-39, 501 n. 1 Mitsos, M.: 966 n. 30 Moggi, M.: 437 n. 25, 858 n. 8, 1034 n. 2, 1036 n. 9, 1037 n. 13, 1038 n. 15, 1039 n. 17, 1040, 1040 n. 19, 1041 n. 22, 1042 n. 25, 1043 n. 27, 1044 nn. 28-30 Moles, J.: 888 n. 10, 891 n. 20, 896 n. 52, 897, 897 nn. 58-59, 898 n. 6.3 Momigliano, A.: 85 n. 15,591 n. 3, 660 n. 3, 783 n. 33, 1180 n. 24, 1190 n. 5 Mondolfo, R.: 1007 n. •, 1008 n. 2, 1009 nn. 4, 6, 1010 n. 7, 1011 n. 11, 1013 n. 17 Monro, D. B.: 158 n. 13 Montanari, E.: 77 n. 54 Montanari, F.: 329 n. 2, 649 n. 13 Montevecchi, O.: 1145 n. 7 Monti, V.: 441 n. 2, 442, 442 n. 3 Montuori, M.: 77 n. 55 Moravcsik, G.: 1175 nn. 10-12, 1176 nn. 14-15, 1177 n. 16 Morel, G.: 745 n. 9 Morel, W.: 1090 n. 4 Morelli, G.: 145 n. 16, 199 n. 1, 202, 202 nn. 20, 22 Moreschini, C.: 858, 858 n. 8 Moretti, L.: 1092 n. 12 Morpurgo Davies, A.: 910 n. 36 Morrison, J. S.: 80 n. 3 Mortara Garavelli, B.: 866 n. 4 Monman, H. W.: 1055 Most, G. W.: 26 n. 17,415 nn. 7, 9,424 n. 38, 426 n. 49, 465 n. 8 Moulton, J. H.: 323 n. 70 Mounin, G.: 443 n. 7 Milhlestein, H.: 274 n. 33 Muelder, D.: 20 n. 5, 25 nn. 15-16, 28 n. 20

1245 Milller, C.: 397 n. 8, 773 n. 3, 774 n. 4, 1034 n. 3 Milller, C. W.: 287 n. 8, 928 n. 4, 929 n. 5, 933 n. 16 Milller, D.: 274 n. 31 Milller, G.: 310 n. 38, 647 nn. 5, 7, 648 n. 10 Moller, H.: 1106, 1106 nn. 81-82, 1110 n. 93 Milller, K. E.: 1180 n. 24 Milller, L.: 1104 n. 73 Milller, T.: 773 n. 3 Mllller, W.: 955 n. 33 Milller-Goldingen, C.: 310 n. 38 Mukarovsky, J.: 704 n. 7, 924 n. 68 Mullen, W.: 348 n. 5 Munari, F.: 731 n. 24 Munding, H.: 49 Mllff8y, G.: 10 n. 2, 539, 541, 592 n. 5, 629 n. 39, 640 n. 64 Mllff8y, O.: 211 n. 1, 237 n. 1, 435 n. 21 Musatti, C.: 50 Muscetta, C.: 447 n. 15, 1192, 1193, 1193 n. 21 Musgrave, S.: 162 n. 22 Musti, D.: 336 n. 24, 337 n. 30, 338 n. 33, 343 n. 50, 433 n. 17, 435, 436 n. 23, 853 n. 1, 855, 855 n. 3, 1036 n. 9 Musuro, M.: 987 Muth, R.: 458 n. 17 Muxostidi, A.: 441 n. 2

Naher, S. A.: 722 n. 11, 921 n. 58, 922 Nachtergael, G.: 848 n. 51 Nagler, M. N.: 51 n. 1 Nagy, G.: 49, 223 nn. 6-7, 224 nn. 10, 12-14, 225 nn. 15-17, 347 n. 3, 354 n. 28, 356 n. 35, 361 n. 52, 383 n. 32, 806 n. 11, 839 n. 32, 850 n. 57 Nardelli, M. L: 199 n. 3, 207 n. 49 Nash, L. L.: 425 n. 43 Nauck, A.: 144 n. 7,569,614 n. 22, 1026 n. 7, 1027, 1027 n. 12, 1028, 1029 nn. 19-20, 1151 n. 2, 1153, 1159, 116.3 Naughton, S.: 992 nn. 10, 13 Nenci, G.: 6.31 n. 43

1246 Neschke, A.: 420 n. 29, 422 n. 35, 424 n. 39 Neetle, W.: 583 n. 15, 684 n. 13, 775 n. 8, 815 n. 3, 1008 n. 3 Neubecker, A. J.: 205 nn. 37-38 Neumann, F. J.: 773 n. 3, 774 n. 4 Neuschiifer, B.: 1139 n. 41 Newmann, F. S.: 415 n. 9, 424 n. 40 Newton, R.: 56 n. 8 Nicev, A.: 893, 893 nn. 30-31, 897 n. 58 Nicolai, R.: 240, 240 n. 6 Nicole, J.: 380 n. 16 Nicoll, W. S.: 985 n. 5 Nic08ia, S.: 245 n. 14, 1120, 1120 n. 13, 1121 n. 15 Nieddu, G.: 249 n. 8, 848 n. 51 Niels, J. D.: 26 n. 17 Nietzsche, F.: 73, 613 Nilsson, M. P.: 132 nn. 15-16, 142, 957 n. 39 Nock, A. D.: 471 n. 3 Nothiger, M.: 349 n. 8 Norden, E.: 566 n. 3,817,817 n. 6,865 n. l, 868 n. 10, 984, 984 n. 4, 1161, 1168 Notopoulos, J. A.: 209 n. 59 Novo Taragna, S.: 385, 385 n. 45, 386, 386 nn. 48, 51, 53, 387 nn. 59, 61 O'Brien, D.: 1143 nn. 1-2 Oeeterley, W. O. E.: 313 n. 45, 315 n. 53 Ohlert, K.: 806 n. 9 Oikonomidee, A. N.: 282, 807 n. 12 Oinas, F.: 61 n. 1 Olbrechts Tyteca, L.: 867 n. 7 Oldfather, W. A.: 29 n. 22, 963 n. 19 Oliva, P.: 302 n. 4, 305 n. 21 Olivieri, A.: 741, 741 nn. 1, 5, 742 n. 6 Ollier, F.: 1057, 1057 n. 3, 1058 Olmos, R.: 146 n. 23 O'Meara, J. J.: 1165, 1168 Onians, B.: 659 n. 3 Opelt, I.: 301 n. 2, 305 n. 21 Orioli, G.: 1198 Osano, F.: 504 Otto, W. F.: 124 n. 20 Overbeck, J.: 342 n. 45

Indice degli autori moderni Paccagnella, I.: 294 n. 26 Pacho, J. R.: 735, 735 nn. 1-2, 737 n. 12

Padoa, E.: 1051, 1052, 1054, 1055

Paduano,G.: 209 n. 60, 539 n. 1, 729 n. 16, 952 n. 21, 969 n. 39 Paganelli, L: 591 n. 3, 593 n. 8 Page, D. L.: 20, 20 n. 5, 21, 26 n. 18, 29, 29 n. 21, 32, 33, 33 n. 31, 36, 36 n. 35, 41, 65 n. 9, 190 nn. 3, 5, 209 n. 58, 222 n. 5, 223 n. 6, 230 n. 5, 233, 233 n. 9, 235, 240, 240 n. 5, 242, 247, 247 n. 3, 329 n. 1, 355 n. 34, 358 nn. 40, 42, 371, 389 n. 73, 398, 399 n. 17,403 n. l, 404, 407, 408, 412, 438 n. 27, 528 n. 26, 541, 546, 549, 549 n. 7, 589 n. 31, 644 n. 67, 948 n. 5, 952, 952 n. 19,953, 953 nn. 22-23, 25,954 nn. 25, 27,955,956,956n.34,964n.22,965 nn. 23-26, 967 nn. 33, 35, 968 n. 37, 969 n. 40, 973 n. 9, 989, 989 n. l, 990 n. 2, 993, 994, 997, 999 n. 22, 1089 n. 2, 1090, 1090 n. 3, 1093 nn. 17-18, 1098 nn. 44-45, 1100 n. 52, 1101 n. 61, 1102, 1103 n. 67, 1105, 1105 nn. 76-77, 1106 n. 79, 1110 n. 94, 1144 n. 3 Pagliaro, A.: 349 nn. 9-10, 350 n. 12, 351 n. 15 Paioni, G.: 63 n. 2, 942 n. 45 Palmer, L R.: 410 n. 21 Palumbo Stracca, B. M.: 989, 989 n. 1, 999 Papenfuu, D.: 1042 n. 26 Pardini, A.: 241 n. 7 Paribeni, E.: 49 Paribeni, R.: 519 n. 35 Parke, H. W.: 186 n. 31 Parmentier, L: 162 n. 22 Parry, A.: 12 n. 8, 51 n. 1 Parry, M.: 12 n. 8, 51, 51 n. 1, 59, 108 n. 13 Panons, P. J.: 911 n. 4, 1148 n. 18 Paschoud, F.: 1177 n. 16 Pascoli, G.: 193, 193 n. 15 Pasquali, G.: 191 n. 7, 286 n. 5, 289, 289 n. 13, 293 n. 21, 294, 294 n. 24, 927, 927 n. 1, 930 n. 11, 1144 n. 3

Indice degli autori moderni Puqdlnelli, A.: 1019 n. 34 Passow, F.: 162 n. 22, 990, 990 n. 7, 991, 997 Patin, A.: 1019 n. 36 Patin, H.: 595 n. 19 Patocchi, M.: 286 n. 3 Paton, J. M.: 144, 144 n. 15, 149, 149 nn. 34, 36 Pattoni, M. P.: 611 n. 16, 621 n. 32 Pauly, A. F.: 132 n. 15, 133 n. 17, 142 Pavese, C. O.: 137 n. 34, 173 n. 36, 183 n. 21, 347 n •.3, 354 n. 29, 361 nn. 5152, 414 n. 4, 427 n. 2, 470 n. 1, 472 n. 4, 477 n. 12, 479 Pavlov1ki1, Z.: 710 n. 23 Pearson, A. C.: 123 n. 17, 125, 125 n. 22 Pearson, L.: 437 n. 24, 773 n. 2,837 n. 26 Pease, A. S.: 975 n. 15 Peek, W.: 122 n. 13 Peile, T. W.: 541 n. 4 Pelletier, A.: 1133 n. 18 Pellizer, E.: 182 n. 16, 183 n. 20, 216 n. 12, 220 n. 12, 804 n. 7, 1028 n. 15 Pennacini, A.: 1004 Pépin, J.: 1131 nn. 10-11, 1132 n. 15, 1164, 1168 Peppink, S. P.: 676, 676 n. 6, 741 n. 2 Peppmilller, R.: 248, 248 nn. 6-7 Peradotto, J.: 63 nn. 2, 4, 64 n. 7, 65 n. 9, 67 n. 11 Perelli, L.: 1083 n. 15 Perelman, C.: 867 n. 7 Perilli, L.: 603 n. 4 Péron, J.: 416 n. 11 Perosa, A.: 348 n. 5 Perrault, C.: 443 n. 8 Perrotta, G.: 192 n. 13, 202 n. 22, 379 n. 13, 445 n. 13, 593 n. 9, 974 n. 11, 982 Perusino, F.: 719 Peter, H.: 780 Peter, R.: 1094 n. 25 Peters, J.: 1194 n. 28 Petersen, E.: 1094 n. 25 Petersmann, H.: 690 n. l, 692, 693, 693 n. 12, 737 n. 11, 738, 738 n. 15, 739 n. 17 Peterson, C. W.: 897 n. 58

1247 Petre, Z.: 72 n. 29 Pfeiffer, R.: 162 n. 24, 250 nn. 12-13, 399, 457 n. 11, 594 n. 14, 903 n. l, 904 n. 7, 912 n. 7, 916 n. 27, 919, 920 n. 46, 1025, 1105, 1105 n. 76, 1107 n. 85, 1108 Pfister, F.: 824 n. 24 Pflugk, J.: 69 n. 6 Pfohl, G.: 286 n. 4, 793 n. 16, 1089 n. 2 Philippson, P.: 54 n. 5 Piccirilli, L: 304 n. 13, 437 n. 24, 438 n. 28 Piclta.rd-Cambridge, A.: 134 n. 24, 584 n. 17, 708 n. 19, 711 n. 24, 735 n. 2 Pictet, A.: 70 n. 12 Pierson, M.: 1049, 1053, 1055 Pittau, M.: 896 n. 52 Pizzocaro, M.: 210 Plassart, A.: 1093 n. 17 Platnauer, M.: 953 n. 23, 990 Plaumann, G.: 955 n. 33 Podlecki, A. J.: 26 n. 17, 38 n. 37, 72 n. 29, 304 n. 13, 330 n. 2, 337 n. 31, 338 n. 33, 629 n. 39 Pohl, W.: 1177 n. 17 Pohlenz, M.: 306, 306 n. 26, 593 n. 9,815 n. 3, 820 n. 11, 888 n. 9, 892 n. 25, 894 n. 37 Poliziano, A.: 1111 n. 4 Pontani, F. M.: 969 n. 39 Popham, M. R.: 179 n. 3 Popper, K. R.: 878 n. 4, 881 n. 11 Poppo, E. F.: 843 n. 40, 857 n. 5 Porson, R.: 595 n. 21, 747 n. 24 Pòrtulas, J.: 213 nn. 6-7, 222 n. 5 Pouilloux, J.: 833, 833 n. 12, 1089 n. 2, 1090, 1092, 1101 n. 61 Powell, J. E.: 1124 n. 29 Powell, J. U.: 131 n. 11, 748 n. 24,938 n. 35, 939, 939 nn. 36-38, 981, 982 Pozzi, G.: 978 n. 26 Pozzi Paolini, E.: 336 n. 25 Praechter, K.: 1012 n. 16 Prag, A. J. N. W.: 420 n. 29 Prato, C.: 248 n. 7,267, 279 n. l, 280 nn. 2, 5, 285 n. 1, 290 n. 15, 491, 491 nn. 2-3, 492, 493 n. 7, 497, 501 n. 3, 504,

1248 507, 518 n. 34, 801 n. 1 Preller, L.: 14.5 n. 17 Pretagoetini, R.: 279 n. 2, 281 n. 8, 286, 286 n. 6, 287, 287 nn. 7, 10, 461 n. 2, 522 n. 3, 527 n. 24, 576 n. 11, 669 nn. 7-8, 673 n. 16, 674, 789 n. 10, 801 n. 2,913n. ll,915n.19,927n.•, 1110 n. 95 Principato, A.: 1193 n. 20 Prim, F.: 269 nn. 8, 12, 270 n. 15 Pritchard, J. B.: 197 n. 9 Pritchett, W. K.: 722 n. 15 Pritzl, K.: 310 s. n. 38 Privitera, G. A.: 26 n. 17, 36 n. 34, 131 n. 11, 134 n. 26, 139 n. 39, 142, 174 n. 42, 176 n. 48, 192 n. 9, 350 n. 13, 354 n. 29, 359 nn. 44, 47, 386 n. 50, 528 nn. 25, 27, 834 n. 15, 916 n. 25, 938 n. 36 Prontera, F.: 240 n. 6 Pucci, P.: 551 n. 1, 563, 639 n. 63 Puech, A.: 207 n. 51, 471 n. 3, 479 Puntoni, V.: 397 n. 11 Putnam, M. C. J.: 141 Quandt, W.: 992 n. 9 Questa, C.: 1069 n. 7, 1175 n. 10 Rabbow, P.: 1114 n. 8

Race, W. H.: 874 n. 23, 875 n. 24 Racine, J.: 899 Rackham, H.: 310 n. 38 Radennacher, L.: 218 n. 6, 629 n. 39, 817 n. 5, 865 n. l, 868 n. 10, 1103 n. 68 Radin, P.: 54 n. 5 Radt, S. L: 406 n. 10, 471 n. 3, 475 n. 9, 477 n. 12, 479, 906 n. 14, 937 nn. 27-28 Raimondi, E.: 443 n. 8 Rank, L P.: 53 n. 3 Rankin, E. M.: 720 n. 3, 723 n. 18 Rapp, G. R.: 270 n. 17 Rau, P.: 637 n. 59, 639 n. 63 Ravazzoli, F.: 121 n. 11 Raven, J. E.: 1007 n.•, 1012 nn. 12-13, 1019 n. 35 Rawlings, H. R.: 849, 849 n. 54

Indice degli autori moderni Rawaon, M.: 270 n. 14

Reale, G.: 1008 n. 2, 1009 n. 4 Redard, G.: 355 n. 31 Redfield, J.: 91, 91 nn. 1-2 Rees, K.: 581 n. 8 Regenbogen, O.: 303 n. 12 Reichler, C.: 798 n. 27 Reimann, H.: 178 n. 56 Reinach, A.: 342 n. 4.5 Reinach, S.: 1099 n. 50 Reinach, T.: 168 nn. 7, 11, 171 n. 26, 523 Reinhardt, K.: 25 n. 15, 39 n. 39, 547 n. 2, 556, 556 n. 7, 563, 1008, 1008 nn .• 1, 3, 1009 n. 3, 1019 n. 35, 1163, ll64, ll65, 1169 Reiske, J. J.: 699 n. 14, 955 n. 29, 990 Reitzenstein, R.: 201, 201 n. 9, 230 n. 5, 360 nn. 48-49, 377 n. 2, 378, 379 n. 12, 382, 382 n. 30, 383 n. 33, 384 n. 35, 389 n. 73, 390 nn. 74, 78, 757, 757 n. 5, 1000 Reiz, F. V.: 157 n. 7 Renehan, R.: 791 n. 14, 1030 n. 21 Renucci, P.: 28 n. 20 Reverdin, O.: 214 n. 8 Reynolds, J. M.: 735, 738 n. 13 Rhodes, P. J.: 304 n. 13, 858, 858 n. 7 Rhys Roberts, W.: 912 n. 9 Riad, H.: 726 Ribbeck, O.: 720 n. 3, 746 n. 12 Ricciardelli Apicella, G.: 887, 887 n. 1, 891, 891 n. 20, 892 n. 25, 894 n. 39 Richards, : 311 n. 38 Richardson, N. J.: 130 n. 4, 44.5, 1100, 1100 n. 58 Richter, F.: 1027 n. 10 Ricottilli, L.: 120 n. 9 Ridgway, D.: 50 Righi, G.: 443 n. 9 Rigutini, G.: 442 n. 5 Rinaldi, G.: 782 n. 31 Ripellino, A. M.: 705 n. 8 Risch, E.: 4.57 n. 13, 908 n. 26 Rispoli, G. M.: 200 n. 6, 203, 203 n. 30, 204 n. 32 Robert, C.: 127, 14.5, 14.5n. 17, 149, 149 nn. 35-36, 150, 150 nn. 38-39, 41, 151,

Indice degli autori moderni 151 n. 43, 152 n. 46 Robert, J.: 282 n. 15, 1092 n. 12 Robert, L.: 221, 221 n. l, 282 n. 15, 1092 n. 12, 1093, 1093 n. 22, 1099, 1100, 1101 Robinson, D. M.: 692 n. 11 Robortello, F.: 541, 543 n. 10 Roebuck, C.: 1042 n. 26 Rohrich, L.: 21, 22 n. 8 Roesch, P.: 1092 n. 12 Riilller, W.: 211 nn. 2-3, 232, 232 n. 8, 233, 234 n. 13, 239, 239 n. 4, 243 n. 10, 378, 378 n. 8, 382, 382 nn. 27-28, 384 n. 35, 792 n. 15, 852, 852 n. 63, 941 n. 44 Rogen, B. B.: 680 n. 5, 697 n. 9,698, 701 Rohde, E.: 10 n. l, 356 n. 36, 1159, 1169 Romagnoli, E.: 193 n. 14, 363, 363 n. 1, 395 n. 2 Romeo, C.: 199 s. n. 3 Romeo, L.: 806 n. 10 Roos, E.: 706 n. 13 Roscher, W. H.: 352 n. 21, 357 n. 37, 397 n. 8, 1094 n. 25 Rosenkranz, B.: 846 n. 45 Ross, D. O.: 973 n. 9 Ross, W. D.: 791 n. 14, 1007 n. •, 1010 n. 8, 1012 n. 13 Rossbach, O.: 381, 381 n. 21 Rossi, G.: 449 n. 20 Rossi, L. E.: 120, 137 n. 34, 345 n. 56, 347 n. 3, 352 n. 24, 360 n. 50, 361 n. 51, 591 n. l, 593 n. 9, 594 n. 15, 595 n. 21, 600 n. 39, 708 n. 20, 1025 n. 2, 1110 n. 95, 1190 n. 5 Rossi, M. A.: 996 Rostagni, A.: 815 n. 3, 820 n. 11, 891 n. 21, 896 n. 52, 899 n. 68, 1058, 1059, 1060 n. 12, 1062 n. 16, 1074 n. 17 Roux, G.: 585 n. 20, 1092 Rowe, C.: 112, 112 n. 20 Roy, J.: 1037 n. 14, 1044 n. 30 Rubbi, A.: 442 n. 5 Rubenbauer, H.: 1108 n. 87 Rubenbauer, J.: 171 n. 29 Rubin, B.: 1172 n. 1 Rliger, H. P.: 313 n. 45

1249 Ruhnken, D.: 981 n. 2 Ruijgh, C. H.: 903 n. 3, 906, 908 Rummel, E.: 865 n. 1 Rupprecht, K.: 1026 n. 6, 1027 n. 11, 1028 n. 15, 1030 Russell, D. A.: 896 n. 54, 1068, 1068 n. 5, 1070, 1070 n. 10 Russo, C. F.: 48, 50, 716 nn. 38-39, 717 n. 41 Russo, J.: 53 n. 3, 56 n. 7 Russo, L.: 446 n. 14 Rusu, V.: 905 n. 13 Rutherford, R. B.: 1111 n. 3, 1113 n. 6, 1117 n. 9 Rzach, A.: 102 n. 3 Sabbatucci, D.: 77 n. 54 Sachs, C.: 516 n. 21 Sackett, L. H.: 179 n. 3 Sadunka, A.: 144, 144 n. 8, 145, 145 n. 20 Saglio, E.: 132 n. 15, 141, 700 n. 15 Said, S.: 92 n. 9, 785 n. 1 Sakellariou, M. B.: 269 n. 12 Salmasius, C.: 990, 991, 993, 994, 996, 997, 998, 1000 Salvadore, M.: 819 n. 9 Salviat, F.: 833, 833 n. 12 Samuel, A. E.: 721 n. 7 Sandbach, F. H.: 197 n. 9, 720 n. 3, 722 n. 15, 725 n. 3, 726, 726 nn. 4, 6, 727 n. 10, 732, 732 nn. 27-28, 739 n. 16 Sandoz, C.: 789 n. 8, 791 n. 14 Sapegno, N.: 1192 n. 16 Sassi, M. M.: 539 n. 1 Sauppe, H.: 817 n. 5 Savino, E.: 858, 858 n. 8 Savoca, G.: 447 n. 15 Sayce, A. H.: 313 n. 45 Sbordone, F.: 199 n. 3, 207 n. 49 Scaliger, J. J.: 695, 701 Scandola, M.: 1083 n. 15 Scucia, R.: 971 n. 1, 972 n. 3 Schachter, A.: 426 n. 47 Schadewaldt, W.: 355 n. 31, 894 n. 37 Schaefer, G. H.: 696 n. 6 Schirer, M.: 316 n. 59

1250 Schamp, J.: 162 n. 23 Schiiublin, C.: 872 n. 19 Schechter, S.: 313 n. 45 Schein, S. L.: 37 n. 36 Schellenberger, C. A. G.: 157, 157 n. 6 Schlatter, F. W.: 866 nn. 2-3 Schleiennacher, F.: 765 Schmid, W.: 331 n. 6, 352 n. 24,403 n. 2, 524 n. 12, 593 n. 8, 595 n. 16, 611 n. 16, 746 nn. 13, 18, 1123 nn. 20-24, 1124 nn. 32-33, 1126, 1126 nn. 46, 50 Schmidt, D. A.: 359 n. 44 Schmidt, E. G.: 445 n. 13 Schmidt, H. W.: 583 n. 15 Schmidt, L: 990 n. 6, 992, 1176 n. 13 Schmidt, V.: 905 Schmoll, H.: 989 n. •, 993, 994, 994 n. 16, 995, 996, 1000, 1000 n. 23 Schnapp-Gourbeillon, A.: 53 n. 2, 57 n. IO Schneeweisa, G.: 303 n. 12 Schneider, K.: 955 n. 32 Schneider, O.: 991, 991 n. 8, 995 n. 18, 997, 998 n. 20 Schneidewin, F. W.: 116 n. 2, 220 n. 9, 348 n. 4, 355 n. 34, 454, 456, 458 n. 19, 508 n. 15 Schober, F.: 1098 n. 46 Schoemann, G. F.: 102, 102 n. 3 Schone, H.: 887 n. 4 Schone, R.: 143, 143 n. 6 Schofield, M.: 1007 n. • Schrader, O.: 677 n. 11 Schroeder, O.: 182 n. 13, 417, 417 n. 16, 454, 669, 669 n. 8, 674 Schroter, R.: 40, 40 nn. 40-41 Schubart, W.: 389 n. 73, 403 n. 1 Schilrer, E.: 314, 314 n. 49, 315 n. 56 Schiltrumpf, E.: 897 n. 58 Schiltz, C. G.: 546 Schuller, W.: 792 n. 15 Schulze, W.: 386 n. 49, 909, 909 n. 30 Schumacher, J.: 723 n. 18 Schwabl, H.: 102 n. 3, 1009 n. 4 Schwartz, E.: 269 n. 11 Schweighiuser, J.: 156, 156 n. 5, 513, 513 n. 4, 515, 676 n. 3, 741, 741 n. 3, 742 n. 6

Indice degli autori moderni Schwenk, R.: 157, 157 n. 9 Schwenn, F.: 145, 145 n. 18, 936 n. 25 Schwinge, E.-R.: 302 n. 3, 583 n. 16 Schwyzer, E.: 193, 193 n. 15, 275 n. 35, 281, 905, 993, 1103 n. 68, 1121 Scott, R.: 694 n. 15 Scott Campbell, H.: 977 n. 24 Seaford, R.: 591 n. 4, 595 nn. 16, 22, 600 Sealey, R.: 304 n. 13 Sebeok, T. A.: 303 n. 12 Seck, F.: 867 n. 8, 872 n. 19, 873 n. 20 Sedgwick, W. B.: 1058 n. 9 Seek, G. A.: 594 n. 14 Seeliger, K.: 523 n. 11 Segai, C.: 56 nn. 8-9, 58 n. 13, 64 n. 6, 257, 257 n. 5, 303 n. 12, 403 n. 1, 798 n. 28, 817 n. 6, 822 Segre, C.: 294 n. 26 Seidensticker, B.: 594 n. 14, 595 n. 16 Seidler, J. F. A.: 672 Seifert, J.: 854 Sellachopp, I.: 108, 108 n. 13, 109 Sergent, B.: 182 nn. 11-12, 277 n. 39 Serra, G.: 670 n. 12 Serrao, G.: 158 n. 15, 162 n. 24, 279 n. 2, 973 n. IO Service, R.: 62 Setti, G.: 827 Severyns, A.: 237, 237 n. l, 490 Shelmerdine, S. C.: 121 n. 12 Sheppard, A. R. R.: 304 n. 13 Shorey, P.: 879 n. 6 Sifakis, G. M.: 582 n. 14 Sijpesteijn, P. J.: 955 n. 33 Sikes, E. E.: 118 n. 6 Simonetti, M.: 805 n. 8, 1138 nn. 36, 38 Simonini, L: 1152, 1155, 1159, 1161, 1169 Sisti, F.: 330 n. 2, 336 n. 23, 667, 667 n. l, 674 Sitzler, J.: 201, 201 n. 10, 203, 471 n. 3, 479 Sklovskij, V.: 866 n. 2 Skutsch, O.: 779 n. 22 Slater, W. J.: 406 n. 11, 409 n. 19, 416 n. 10, 463 nn. 4, 6, 511 n. 20, 741, 741 n. 3,943 n. 47, 1026, 1026nn. 7-8, 1027,

Indice degli autori moderni 1027 nn. 11-12, 1028, 1029 Slings, S. R.: 195, 195 n. 3, 196, 907 n. 21 Smallwood, E. M.: 314 n. 48 Smart, D.: 504 Smend, R.: 313 s. n. 45 Smith, K. F.: 547 n. 2 Smyth, H. W.: 167 n. 4, 180 n. 6, 354 n. 28,359n.44,837,837n.22,844,844 n. 41 Snell, B.: 24 n. 14, 144 n. 7, 190 n. 4, 195, 195 n. l, 196, 196 n. 6, 197 n. 10, 209 n. 61,303 n. 12,429 n. 7,454,462 n. 3, 481 n. 2, 482, 547 n. 1, 586 n. 24, 664 n. 10, 672, 755 n. 2, 757 Snodgrass, A. M.: 1042 n. 26 Soden, W. v.: 260, 783 n. 31 Solrnsen, F.: 101, 102, 102 n. 4, 112 n. 19 Sommerstein, A. H.: 692 n. 9 Sordi, M.: 343 n. 49 Spadaro, M. D.: 1000 n. 23 Spagnoletti, G.: 1189 nn. 3-4, 1190 nn. 57, 1191 nn. 9-12, 1192 n. 14, 1196, 1196 nn. 36-37, 1197 nn. 40-42 Spanheim, E.: 996, 1000 Sparkes, B. A.: 283 n. 20, 724 n. 20 Speidel, M. P.: 1160, 1161, 1169 Spengler, O.: 81 n. 6 Spina, L.: 1058, 1059 n. 10 Spitzner, E. F. H.: 995 Springer, C.: 977 n. 24 Stadtmuller, H.: 953 n. 23, 1106 n. 79 Stidele, A.: 904 n. 4 SUihlin, O.: 331 n. 6, 352 n. 24, 403 n. 2 Stahl, H. P.: 303 n. 12 Stahl, J. M.: 843 n. 40 Stanford, W. B.: 10, 10 n. 4, 11, 28 n. 20, 53 nn. 3-4, 592 n. 6, 593 n. 8, 598 n. 32 Stark, R.: 888, 888 n. 7, 896, 896 n. 55, 1001 Starkie, W. J. M.: 630 n. 40 Steffen, V.: 298, 298 n. 31, 593 n. 9, 597 Steidle, W.: 585, 586 n. 23, 865 n. 1, 871 n. 14 Steiger, H.: 594 n. 13 Stein, E.: 1176 n. 13, ll 79 n. 21

1251 Stein, H.: 861 Steinmetz, P.: 1007 n.•, 1010 n. 7, 1011 n. 8, 1012 n. 16, 1016 nn. 29-30, 1024 n. 45 Stella, L. A.: 438 n. 27 Stengel, P.: 132 n. 15, 133 n. 17 Stephanus, H.: 184, 449, 875 n. 25, 1166 Stem, J.: 445 n. 13 Steup, J.: 855, 857 Stevens, P. T.: 595 n. 17 Stewart, J. A.: 310 n. 38 Stiehl, R.: 1162, 1164, 1165, 1167 Stiehle, R.: 774, 779 n. 18 Stinton, T. C. W.: 897 n. 58 Stokes, M. C.: 1007 n.•, 1010 n. 7, 1011 n. 10 Stoll, H. W.: 157, 157 n. 10, 352 n. 21, 357 n. 37 Stough, C.: 1016 n. 29 Strasburger, G.: 857, 857 n. 6 Strasburger, H.: 780, 857 n. 6 Strazzulla, V.: 523 n. 8 Strocchi, D.: 450 n. 24 Strocka, V. M.: 1042 n. 26 Strunk, K.: 906 n. 17 Studniczka, F.: 146 n. 23 Stube, R.: 69 n. 6 Sudhaus, S.: 726 n. 5 Sudhoff, K.: 955, 955 n. 32 SiiBB,W.: 820 nn. 10-11, 895 n. 42 Sulzberger, M.: 53 n. 3 Sutton, D. F.: 123 n. 17, 593 n. 9, 594 n. 15, 595 n. 20 Svenbro, J.: 224 n. 14, 248, 249, 249 nn. 8-9, 787 n. 5, 793 n. 17, 795 n. 20 SvenBBOn,A.: 931 n. 14 Swoboda, H.: 1035 n. 7, 1038 n. 16, 1041 n. 22 Sykutris, J.: 867 n. 8, 868 n. 9 Syme, R.: 108.3 n. 15 S.: 268 n. 6, 280, 280 Szédeczky-KardOBB, n. 7, 282, 282 n. 13, 1176 n. 14 Szanto, E.: 1041 n. 22 Szlezak, T.: 877 n. 2, 883 n. 12 Szondi, P.: 716 n. 37 Taillardat, J.: 197 n. 9, 218 n. 6, 96.3 n.

1252 19, 966 n. 28, 967 n. 35 Talamo, C.: 179 n. 2 Talcott, L: 724 n. 20 Tanner, R. H.: 591 n. 4, 592 n. 5, 599 n. 36 Taplin, O.: 581 n. 8, 582 n. 12, 583 n. 15, 584 n. 18, 588 n. 30, 589, 619 n. 30, 621 n. 32, 624, 650 n. 14, 715 n. 36 Tanin, L: 1007 n.•, 1019 nn. 33, 36 Tarditi, G.: 199 n. 3, 203, 203 nn. 28-29, 916 n. 25 Tatò, L: 1047 n. • Tiuhler, E.: 783 n. 33 Taylor, C.: 53 n. 3 Tcherikover, V. A.: 315 n. 55 Tedeachi, G.: 179 n. 2, 182 n. 16, 183 nn. 18, 20, 185 n. 26, 216 n. 12, 220 n. 12, 389 n. 72, 506 n. 12 Tegyey, J.: 276 n. 39 Tenagli, F.: 442 n. 5 Tepedino, A.: 204 n. 33 te Riele, G.-J.: 1042 n. 23 te Riele, M.-J.: 1042 n. 23 Terzaghi, N.: 122, 122 n. 14, 1165 Thalmann, W. G.: 349 n. 9 Theiler, W.: 1165, 1169 Themelis, P.: 179 n. 3 Thomas, R.: 833 n. 13 Thomas, R. F.: 972 n. 6, 976 n. 19 Thompeon, D'A. W.: 724 n. 21, 741 n. 4 Thomton, A.: 659 n. 3 Thomton, H.: 659 n. 3 Thumb, A.: 905 n. 13 Thummer, E.: 476 n. 10, 479 Timpanaro, S.: 1192 Timpanaro Cardini, M.: 815 n. 3, 1007 n. •, 1009 n. 6, 1011 nn. 9, 11 Todd, O. J.: 922 n. 59 Todorov, T.: 838 n. 29 Toepfler, J.: 269 n. 12 Tol.stoi, I.: 340 n. 40 Tommueo, N.: 364 n. 3 Torelli, M.: 336 nn. 24-25 Tortora, G.: 71 nn. 23-24 Tosi, T.: 471 n. 3, 479 Touchefeu-Meynier, O.: 21 n. 6 Tr6«M, M.: 218 n. 6, 867 n. 6

Indice degli autori moderni Trendall, A. D.: 49, 149 n. 37 Treu, M.: 102 n. 3, 199 n. 3, 202, 202 nn. 23-24, 203, 719 n. 3 Treves, P.: 441, 441 n. 1, 444 n. 11, 449, 449 n. 23, 744 n. 6 Troxler, H.: 109 n. 14 Trummer, R.: 1091 n. 8 Tsagarakis,O.: 256 n. 3 Tachajkanowitsch, W.: 1026 n. 6 Tachiedel, H. J.: 22 n. 10 Tsetsk.hladze,G. R.: 1179 n. 21 Tilrlt, G.: 475 n. 9 Tullio, C.: 71 n. 22 Turcan, R.: 1094 n. 24, 1152, 1159, 1160, 1161, 1162, 1163, 1165, 1169 Tumebus, A.: 541, 544 Tumer, E. G.: 381 nn. 23, 25, 382 n. 27, 738, 740 n. 18, 831, 831 nn. 2, 5, 832 nn. 9, 11, 907, 1145 n. 7, 1148 n. 18 Turrini, G.: 1007 n.•, 1022 nn. 41-42 Turyn, A.: 668 n. 4 Twining, T.: 888 n. 9

Oberweg,F.: 1012 n. 16 Ullrich, F. W.: 844 Untersteiner, M.: 815 n. 3, 817 n. 6, 819 n. 9, 820 n. 11, 862, 862 n. 13, 863, 1007 n. •, 1008 n. 2, 1011 n. 11, 1024 n. 45 Usener, H.: 954 n. 28, 955 n. 29 Uuher, R. G.: 595 n. 22, 597 n. 27, 951 n. 15, 956 n. 35 Vahlen, J.: 887, 887 n. 4, 895 n. 42 Valgimigli, M.: 542, 899, 899 n. 68 Vallet, G.: 331 n. 7, 336 n. 23, 357 s. n. 39, 433 n. 17, 436 n. 23 van Compemolle, R.: 338 n. 32,343 n. 49, 427 n. 2, 430 nn. 13-14, 438 n. 29 van der Valk, M.: 385, 385 n. 43 van Erp Taalman Kip, A. M.: 195 n. 3,907 n. 21 van Goens, R. M.: 1152, 1156, 1159, 1169 van Groningen, B. A.: 173 n. 37, 183 n. 22, 379 n. 15, 385 n. 39, 386 n. 49, 387 n. 55, 388 n. 63, 390 n. 75, 963 n. 17 van Hook, L: 874 n. 21

1253

Indice degli autori moderni van Krevelen, D. A.: 202, 202 n. 17, 203 van Leeuwen, J.: 630 n. 40, 681 n. 8, 700 n. 18 van Looy, H.: 990 n. 2 van Niekerk Viljoen, G.: 448 n. 18 Varese, C.: 446 n. 14 Vegetti, M.: 713 n. 30, 799 n. 29 Veh, O.: 1174 n. 9 Veith, G.: 79 n. 1 Velardi, R.: 713 n. 30, 816 n. 3, 822 n. 14, 1069 n. 9, 1070 n. 11 Velsen, A. v.: 695 n. 3 Vendryès, J.: 159 n. 16, 836 n. 20 Verdenius, W. J.: 217 n. l, 218,218 n. 5, 219, 219 n. 8, 448 n. 18, 875 n. 24, 1018 n. 33, 1019 n. 36 Vermaseren, M.: 1159, 1162, 1169 Vemant, J.-P.: 97 n. 19, 192 nn. 8, Il, 194 n. 18, 556, 556 n. 7, 563, 666 n. Il, 758, 810, 810 n. 16 Verrall, A. W.: 471 n. 3, 479, 541 n. 4, 640 n. 64 Vessey, D. W. T. C.: 156 n. 4 Vetta, M.: 180 n. 5, 181 n. 10, 182 n. 13, 211 n. l, 237 n. l, 299 n. 36, 360 n. 48, 368, 368 nn. 6- 7, 369, 374, 389 n. 69, 501 n. 4, 717 n. 41, 963 nn. 18-19 Vetter, W.: 168 n. 12, 173 nn. 36-37 Vettori, P.: 899 Vian, F.: 33 n. 30, 147, 147 n. 28, 554 n. 4, 563 Vidal-Naquet, P.: 666 n. 11, 810 n. 16 Vighi, R.: 1195 n. 30, 1197 n. 47 Vigolo, G.: 1195 n. 30, 1197 n. 43 Vflchez, M.: 264 n. 13 Villi, C.: 50 Vinchesi, M. A.: 1093 n. 21 Vischer, W.: 1035 n. 7 Visconti, E. Q.: 441, 441 n. 2, 442 n. 3, 444, 444 n. Il, 446, 447, 448, 448 n. 18, 449, 449 nn. 19-20, 450, 450 n. 25 Vitali, R.: 700 n. 12, 762 n. 17 Vitelli, G.: 287 n. 7, 920 Vivante, P.: 12 n. 8 Vogliano, A.: 199 n. 3 Vogt, E.: 973 n. 8, 975, 975 n. 16, 977 Voigt, E.-M.: 235, 247, 247 n. 3, 252, 253

n. 2, 638 n. 62 Volkmann, R.: 517 n. 28 Vollgraff, W.: 123, 123 n. 16, 935 n. 23 Von der Milhll, P.: 17 n. 21, 389 n. 69, 952 n. 21, 953 n. 23

Wachsmuth,C.: 774, 778 n. 16 Wachter,R.: 361 n. 52 Wackemagel,J.: 628 n. 39 Wade-Gery, H. T.: 180 n. 4 Walberer,G.: 866 n. 3 Walton, B.: 442 Walz, C.: 1132 n. 13 Waming, R.: 936 n. 25 Wartelle, A.: 875 n. 25, 893, 893 n. 29 Wataon, B.: 780, 780 n. 25, 781 n. 29 Weber, M.: 240 Weber, W.: 1089 n. l, 1090, 1090 n. 8, 1091, 1091 no. 8-10 Weber-Schifer, P.: 879 n. 5 Webeter, T. B. L.: 122 n. 13, 148 n. 31, 149 n. 37,347 n. 3, 350 n. 9, 721 n. 9, 732 n. 28, 735 n. 2 Wecklein, N.: 542 n. 7 Wegner, M.: 349 s. n. 9 Wehrli, F.: 1015 n. 23 Weil, H.: 168 nn. 7, Il, 171 n. 26 Weil, R.: 848 n. 51 Weinstein, M. E.: 728 Welcker, F. G.: 155, 155 n. 2, 348 n. 4, 359 n. 47, 400, 400 n. 19, 454, 497 n. 10, 510, 510 n. 19, 761 Wells, J.: 861 n. Il Wemicke, F. A.: 156 n. 5, 990, 990 n. 6, 991,993,994,997,998,999, 1000 Wersdòrfer, H.: 865 n. 1,866 n. 2, 867 n. 7, 872 n. 18 West, D.: 929 n. 5 West, M. L: 102, 102 n. 4, 103, 104, 105, 107 n. 10, 111 n. 17, 116, 137 n. 34, 171, 171 n. 32, 180 n. 7, 195, 195 nn. 1-2, 197 n. Il, 203, 203 n. 31, 204, 206, 206 n. 42, 208, 208 n. 55, 214 n. 10, 217 n. 1, 219, 219 n. 7, 220 n. 12. 267, 280n. 6, 285n. l, 287n. 9, 3311. n. 7, 347 n. 3,348 n. 5, 356 n. 35, 377 n. 7, 384 n. 36, 398, 398 n. 14, 403 n.

1254 1, 405, 408 n. 18, 420 n. 31, 498, 503, 503 n. 7, 527 n. 22, 528 n. 26, 668. 669, 672, 673 n. 17, 674, 703 n. 3, 992, 993, 999 n. 22, 1028, 1028 nn. 17-18, 1103 n. 68 West, S.: 1103 n. 68 Westlake, H. D.: 837 n. 25 Westphal, R.: 173 n. 37, 174 n. 42 Wetzel, G.: 591 n. 2, 592, 593, 593 nn. 9, Il Whitby, M.: 195 n. l Whittaker, C. R.: 1146 n. 10 Wiel'llma, S.: 118 n. 5, 123 n. 18 Wiesner, J.: 1007 n. •, 1008 n. 2, 1009 n. 4, 1024 n. 45 Wilamowitz-Moellendorll, U. v.: 23 n. 11, 127, 134 n. 24, 158 n. 14, 169, 169 n. 15, 170 n. 25, 172, 173 n. 36, 174 n. 42, 180 n. 6, 182, 182 n. 13, 183, 184, 184 n. 24, 243, 243 n. Il, 267, 267 n. 2, 268, 279, 279 n. l, 280, 281, 291, 292 n. 18, 293 n. 21, 336 n. 23, 348 n. 4, 352, 352 n. 23,359 n. 47,360 n. 50, 365 n. l, 367 n. 5, 378 n. Il, 389 n. 73, 403 nn. 1-2, 417, 417 n. 17,422 n. 34, 438 n. 27, 454, 471 n. 3, 479, 484 n. 3, 485, 485 n. 7, 487 nn. 9-10, 490, 514, 521 n. •, 521 n. 2, 522 nn. 3-4, 523, 524 n. 14, 525, 527 n. 23, 528 n. 26, 542 n. 7, 594, 595 n. 20, 597, 598 n. 33, 599 n. 35, 622 n. 33, 629 n. 39, 651 n. 16, 669 n. 8, 695, 756 n. 4, 778, 883 nn. 12-13, 904 n. 7, 910, 930 n. 8, 948, 1090, 1104, 1105 n. 74, 1107 n. 84, 1109 nn. 90-91, 1119, 1119 n. 3 Wilcken, U.: 955 nn. 32-33, 956 n. 33 Will, É.: 315 n. 55, 502 n. 5, 1041 n. 21 Willema, A.: 637 n. 60 Williama, F.: 931 n. 14 Wilson, J. D.: 1052, 1055 Wilaon, N. G.: 1149, 1149 n. 20 Wilaon, P.: 445 n. 13 Winckelmann, J. J.: 441 Winnington-lngram, R. P.: 648 n. 8 Winterbottom, M.: 896 n. 54 Wiamann, H.: 791 n. 14, 1190 n. 5 Wisaowa, G.: 132 n. 15, 133 n. 17, 142,

Indice degli autori moderni 741 n. 2 Wistrand, E.: 199 n. 3 Wolf, F. A.: 101, 101 n. l, 130 n. 4. 157 n. 6, 441 Woodhury, L: 329 n. 2 Woodman, T.: 929 n. 5 Wonnell, D. E. W.: 186 n. 31 WUat, E.: 17 n. 21, 937 n. 28 Wilatemann, E. F.: 992 Wyss, B.: 155 n. l, 156, 156 nn. 4-5, 157, 158 nn. 12, 15, 160, 162, 162 n. 25

Xanthaki-Karamanou,G.: 150 n. 38, 151, 151 n. 42 Xylander, W.: 267 Yailenko, V. P.: 282 n. 19 Young, D.: 377 n. 5, 384 n. 36, 385 n. 47 Young, D. C.: 415 n. 9, 417 n. 15, 424 nn. 38, 40, 445 n. 13, 875 n. 25 Yu-Shan, H.: 780 n. 25, 781 Zacher, K.: 723, 723 n. 17 Zadro, A.: 1010 Zalateo, G.: 1145 n. 7 Zancan Rinaldini, M. R.: 1077 n. 1 Zanetto, G.: 359 n. 45, 679 n. l, 680 n. 4, 682, 683, 685 n. 16 Zazoff,P.: 145 n. 20 Zecchini, G.: 358 n. 42 Zeller, E.: 888 n. 9, 1007 n. •, 1008 n. 2, 1009 n. 4, 1011 n. Il Zeppi, S.: 1017 n. 31 Ziegler, J.: 314 n. 45, 318 n. 62, 320 n. 66 Ziegler, K.: 35 n. 33, 677 n. Il, 1077 n. l, 1078, 1087 n. 22, 1091 n. 10, 1193 n. 24 Zieheri, L: 331 n. 4 Zielinski, T.: 112 n. 20 Zimmennann, B.: 133 n. 18, 134 nn. 22, 27, 142, 527 n. 24, 528 n. 25, 576 nn. Il, 13 Zimmennann, D.: 1016 n. 30 Zintzen, C.: 1167 Zografou-Lyra, G.: 38 n. 38 Zolli, P.: 605 n. 7

Indice degli autori moderni Zorell, F.: 318 n. 63, 327 n. 80 Zorzetti, N.: 216 n. 12 Zuber, R.: 443 n. 7 Zucchelli, B.: 1077 n. 1 Zucker, F.: 873 n. 20

1255 Zumthor, P.: 704 n. 6, 714 n. 33, 1073, 1073 n. 16 Zuretti, C. O.: 695 Zwicker, J.: 201, 201 n. 14 Zwierlein, O.: 593 n. 9, 598 n. 33

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