Xenia. Scritti in onore di Piero Treves 8870625729, 9788870625721


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Italian Pages 254 [263] Year 1985

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Xenia. Scritti in onore di Piero Treves
 8870625729, 9788870625721

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XENIA SCRITTI

IN ONORE

DI PIBRO

« L'ERMA » di BRETSCHNEIDER

LA

FENICE

TREVES

LA FENICE COLLANA

DI SCIENZE diretta

DELL'ANTICHITÀ da

GUSTAVO TRAVERSARI

COMITATO

SCIENTIFICO

Forlati Tamaro Bruna Lucchetta Picchetti Franca Michelini Tocci Franco Mirabella Roberti Mario Ortalli Gherardo Traversari Gustavo Treves

Pietro

Vecchi

Giovanni

SEGRETERIA

DI

Manuela

Santi

Fano

REDAZIONE

Università degli Studi Dipartimento di Scienze Storico-Archeologiche e Orientalistiche Palazzo Bernardo - S. Polo, 1977/4 30125

Venezia

- Telef.

(041) 87992

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XENIA «SCRITTI IN ONORE DI PIERO TREVES

a cura

«L'ERMA»

di Fulviomario

Broilo

di BRETSCHNEIDER - ROMA

ISBN

88-7062-572-9

© Copyright 1985 by «L'Erma» di Bretschneider

- Roma - Via Cassiodoro, 19

PRESENTAZIONE

Il Dipartimento di Scienze storico-archeologiche e orientalistiche dell'Università di Venezia, con la pubblicazione del presente volume, intende onorare un suo illustre studioso e affettuoso amico, il Prof. Piero Treves, ben noto ancbe im campo internazionale come grande Maestro di scienze dell’antichita. Indicare

qui l'importanza

e la vastità delle sue ricerche

nell'ambito

sia

del mondo antico, sia di quello moderno, nel quale egli peraltro sa cogliere con eccezionale intelligenza i riflessi di visioni politiche e ideali del passato, torna forse superfluo, data la notorietà dei temi trattati. E da segnalare invece che un nutrito gruppo di colleghi, collaboratori e allievi, italiani e stranieri, ba voluto spontaneamente offrire a Piero Treves dei personali contributi, « Xenia », quale segno di profonda stima e sincero affetto: essi vogliono essere non solo un omaggio, ma anche un fermo augurio a Piero Treves di lunga e feconda attività, perché tutti, colleghi e scolari,

sentono vivo il desiderio di poter « dialogare » con lui ancora per molto tempo, e di poter contare sul suo alto magistero come uomo e come: studioso, cbe, com'è noto, ba sempre operato in armonia con il detto di Seneca: « Licet sapere sine pompa, sine invidia » (Epist., 103). GUSTAVO

Venezia,

30 luglio 1985.

TRAVERSARI

IL DIVINO E IL SACRO NELLA MONTAGNA DELL'ITALIA ANTICA AURELIO BERNARDI

Montagne divinizzate e circondate di venerazione sacrale con rituali a base di offerte e libagioni, talora invocate anche quali garanti di patti politici, sono largamente testimoniate nel mondo medio - orientale, e in particolare in quello anatolico (E.F. WEIDNER, Politische Dokumente aus Kleinasien, Lipsia 1923, p.

28 sg.; E.V. SCHULER, Wörterbuch der Mythologie I, Stoccarda 1965, p. 160), e dalla iconografia (C. G. BRANDENSTEIN, Hethitische Götter nach Bildenschreibungen, Lipsia 1943, p. 18). Con !’ antropormofizzazione divina di forze e realtà della natura, le alte montagne divennero sedi di divinità. Quando poi nel progredire dell’ astrologia, le divinità furono pensate residenti in cielo, le alture montane divennero le più vicine ad esse, quelle sulle quali si venivano a posare quando scendevano in terra. È sul Sinai che Yahwhè detta a Mosè il decalogo. La connessione divinità-montagna si intravvede in filigrana nella parola «shaddai» con cui in ebraico è resa la nozione di divinità e la radice di essa è la stessa dell’accadico «shadu» che significa appunto montagna. In area mesopotamica la nozione di montagna impregnata di sacralità è trasparente nella zigqurat, la torre costruita, come quella di Babele, a gradoni sovrapposti che si restringono verso l'alto, salendo i quali ci si avvicina alla divinità. Come tante altre nozioni, anche quella del divino immedesimato nella montagna passò o si assimilò ad analoghe esperienze della religiosità e della mitologia del mondo greco. Dire Olimpo era come dire Zeus, e così il Parnaso per le Muse; Cibele si identifica con la montagna frequentata o prediletta e di essa è considerata madre, e così è detta Idea dal monte Ida in Creta (EuRIP, Orest., 1453; Verc., Aen., 10, 252), ma anche Sipilena dal monte Sipilo in Lidia sul quale era rozzamente raffigurata sulla roccia (PAUSAN., 3, 22, 4) e Dindimena in Frigia dal Monte Dindimo (Herop., 1, 82, 4). Montagne venerate in età remote per connessi e vistosi fenomeni naturali, cime tempestose, eruzioni vulcaniche, caverne sui fianchi, sorgenti alle falde, gradualmente personificate, diedero luogo a noti miti: Titani, o Giganti, sprofondati da Zeus nelle masse montuose dell'Olimpo, dell’ Athos, dell'Etna, Haimon e Rhodope trasformati, in punizione di aver usurpato i nomi di Zeus e Hera, negli omonimi monti della Tracia. Nel mondo italico, la montagna (mons = altura: cfr. eminere) che occupa, con gli Appennini e le Alpi 1’80% della superficie, ha dato luogo, più che a suggestioni divinizzanti, a espressioni di devozione sacrale. Antichissima divinità delle alture appare Saturno (DroNvs., 1, 34), al quale subentra Juppiter, in età storica venerato sul Campidoglio, sulla rupe sovrastante Anxur-Terracina, sul Vesuvio, col soprannome di Appenninus presso Gubbio e con quello di Surzma-

"us su numerose cime. Altre divinità ricevono culto sulle montagne, Apollo sul

Soratte, Diana sul Tifata in Campania, Venere sul Monte Erice. Nella connessione di tali divinità con le montagne, ebbero parte l'imitazione e l'influsso di esperienze religiose venute dall'esterno, pur essendo già in atto anche nel mondo italico, fin d'antica età, il processo di antropomorfizzazione divina di fenomeni naturali. ° Esempi di divinità del tutto identificate con la montagna su cui sono venerate, come si è richiamato per il mondo religioso medio-orientale, sono rari. Il più vistoso è quello di Perzinus adorato sul Gran S. Bernardo, passo del commercio preistorico tra la Valle Padana e l'Europa centro-settentrionale (la leggenda vi collegò anche il passaggio di Ercole). Il dio, nel cui nome compare il radicale mediterraneo pez = altura (ancora oggi in Umbria e in Romagna le vette si indicano col termine di «penne», e del resto lo stesso radicale ritorna in Appennino), era proprio degli abitanti del luogo (Liv., 21, 28, 6); poi con la interpretatio romana si identificò con Juppiter e divenne luppiter Penninus o Poeninus: lo attestano numerose iscrizioni rinvenute nel sito del santuario ancora in piedi nellXI sec. dove oggi sorge la statua di S. Bernardo di Menthon (CIL, 5, pp. 762-764). Altra divinità-montagna ἃ Bergimus, attestata in iscrizioni a Brescia (CIL, 5,1 p. 411); il radicale di sostrato berg significa appunto monte, altura (& lo stesso di brig che é presente in Brixia, Briga, Brigantio, Brianza). Oltre questi esempi, in area oltretutto celtica (fama di audaci scalatori accompagnava i Celti: secondo la leggenda, sarebbero stati i primi, dopo Ercole, a salire sulle Alpi), non ci sono altre testimonianze, per l'Italia antica, di montagne personificate come divinità, ma ció non esclude che non ce ne fossero in senso assoluto in età

molto risalente, solo.ne andó perduto il ricordo nell'evolversi del sentimento re-

ligioso, o per reinterpretazioni avutesi all'avvento di divinità di importazione. E anzi probabile che la sacralità attestata in età storica per alcune montagne traesse ancora forza da originarie divinizzazioni di fenomeni naturali. Lo si intravvede nella forte pregnanza religiosa connessa con l'una o l'altra divinità. Un esempio lo offre la sacralità della vetta del Monte Albano (oggi M. Cavo, m. 954), sulla quale, da età remota, salivano una volta all'anno, in pellegrinaggio, le genti del Lazio per compiervi un sacrificio in comunea Juppiter: vi si immolava un toro le cui carni erano poi distribuite agli intervenuti (DroNvs., 4, 49; PriN., N.H.,

3, 69); la montagna era ritualmente spruzzata di latte e unica bevanda consentita era quella a base appunto di latte (Cicer., De div., 1, 11, 11 FEST., p. 212,

L.). Tanta pregnanza religiosa risaliva a epoca certo anteriore a quella in cui sulla montagna venne a insediarsi Juppiter, signore delle vette, e si connetteva, in origine, con fenomeni di vulcanesimo ivi ancora attestati, sia pure con manifestazioni periodiche, in piena epoca storica (Liv., 1, 31, 3; 22, 36, 7; 23, 31, 15;

35, 9): ora, dove la montagna trema o emette bagliori, o sprigiona lapilli, lava e ceneri, o esala miasmi, diventa istintivo, in chi è ignaro delle cause dei fenome-

ni, il sentimento di essere in presenza di forze misteriose e potenti che poi verranno personificate nel processo appunto di divinizzazione che si riscontra per altre realtà della natura, acque correnti, sorgenti, boschi, fenomeni celesti. Anche il Mons Albanus in origine dovette essere. quindi percepito come montagna «divina». È significativo che i pochi monti appenninici ricordati dalle fonti (po-

co più di una ventina), si caratterizzino per la forma conica tipica, in genere, di un apparato vulcanico spento, per es. il Vulture (HonaT., C., 3, 4, 9; LUCAN., Phars., 9, 185), il Massico (Cicer., De leg.agr., 2, 66; PLIN., N. H. ‚3, 60), il Mon-

te di Roccamonfina (Oros., Adv. pag., 4, 4, 4), il Gauro (PLIN, N. N. ; 3, 60: oggi Monte Barbaro, a est di Cuma),

il Ciminius

(Liv., 9, 36-37), tutte montagne

fertili, con vegetazione lussureggiante intorno, come si riscontra nelle aree vulcaniche, per lo pià ricche di acque minerali alle falde: gli arcaici fenomeni di vulcanesimo rimasero a lungo fissi nella memoria come espressioni di forze misteriose, e quando iin tempi lunghi la memoria venne meno, ne rimase tuttavia, in chi abitava intorno, un radicato istintivo rispetto sacrale, trasmesso di, generazione in generazione. Per i vulcani ancora in attivita, Vesuvio, Vulcano, Stromboli , soprattutto l’Etna, le primordiali ideazioni animistiche furono invece sopraffatte da miti di importazione greca. Un alone sacrale avvolgeva anche il Monte Soratte: costituito di roccia calcarea, si erge isolato a nord di Roma, tra il Lazio e l'Etruria, e nella sua forma conica ἃ visibile tutt'in giro, anche se di modesta altitudine (m. 691); doveva

certo colpire la fantasia quando, specialmente negli inverni rigidi, ogni quattrocinque anni, si ammantava tutto di bianco (appunto il candidum Soracte oraziano (C. 1, 9, 2); chi saliva con pietà religiosa al santuario di Apollo nella festa annuale, poteva camminare indenne, si diceva, a piedi scalzi su carboni accesi (PLIN., N. H., 7, 19). Biancore calcareo, forma conica, visibilità da ogni parte, erano elementi atti a muovere Pi immaginazione: di qui il senso religioso da cui era circondato anche il Mons Alburnus (oggi Monte della Betina, m. 1742), nel territorio dei Lucani, a sud del Sele: il dio di ugual nome che si venerava nel luogo (VERG., Georg., 3, 147; TERTULL., Apol., 5) potrebbe essere residuo di una arcaica identificazione con la montagna, non più percepita in età storica. Anche sistemi montani rocciosi quali i saxa Hernica (VERG. Aen., 7, 684) muovevano la fantasia col loro brullo biancore. E intuitivo che la rinomanza sacrale rilevata per il Soratte e 1’ Alburno, circondasse altre montagne accessibili all'uomo e che si distinguevano per la struttura isolata e inconfondibile nell'ambito dei sistemi montuosi dell’ Appennino, per lo più modesti con vette ondulate e arrotondate o rocciose: così, per citarne alcuni, il Monte Bove (m. 2113) dalla mole piramidale, il Monte Vettore (m 2478) nella sua grandiosità alpina, l’uno e l’altro nei marchigiani Monti Sibillini, e ancora, nelle maestose Alpi Apuane, il Pizzo d’Uccello (m. 1782), o il monte Amiata (m. 1738) col suo apparato vulcanico isolato nel paesaggio maremmano. Queste montagne, come tante altre dall’inconfondibile forma, si fissarono nella immaginazione già in età arcaica, con istintive personificazioni, delle quali si perdette poi il ricordo, salvo a conservarsene tracce in fondi di leggende locali. La compilazione di un catalogo delle montagne caratteristiche e l'individuazione, tra le pieghe dei nomi odierni, di risalenze antiche potrebbe fornire utili elementi su una loro possibile sacralità arcaica. I monti caratteristici dell' Appennino, per i quali ὃ stato tramandato il nome, pochi come si é detto, fungevano certo come tali anche quali punti di riferimento negli spostamenti umani da regione a regione, in epoca piü antica per le

transumanze lungo i tratturi, soprattutto per grandi distanze (VARR., De r.r., 2, 2, 4; 3, 17, 9), piü tardi su piste e strade, spesso utilizzanti itinerari di cresta, per i traffici commerciali. Non é puro caso che buon numero di monti con nome tramandato si trovino nella regione sabino-sannitica dove insediamenti umani si svilupparono in aree più elevate che altrove (Liv. 9,13): cosi il Moss Taburnus (m. 1393)) (VERG., Aen., 12, 715 e Georg., 2, 38) con mole piramidale a ovest di

Benevento, e il Mons Tifernus (Liv., 10, 30, 7) nel gruppo calcareo, ricco d’acque, del Matese, la cui vetta più alta, M. Miletto (m. 2057), ha forma conica, e

ancora il M. Lucretilis, oggi M. Gennaro (m. 1269), sotto il quale era la villa che Mecenate donò a Orazio in Sabinis (C. 1, 17, 1; Cicer., Ad Att., 7, 11, 1; FEST.,

p. 106, L.); e ancora il M. Lactarius, oggi Monti Lattari, m. 1445 la vetta più alta, nella penisola sorrentina (se ne faceva derivare il nome dal latte di produzione locale, ritenuto medicamentoso: Cass., Var., 2, 10); e il M. Curetus nella Sabina (Dionvs, 1, 14), identificato con il Terminillo (m. 2216), il M. Gaurus in' Campania già citato, il M. Ceraunius (Dionys., 1, 14, il «tempestoso») oggi M. Velino (m. 2487), il M. Imeus (Dronys. 1.c.), oggi ‘Forca Caruso (m. 1107), nella Marsica, a ridosso della Via Valeria che congiungeva Roma all' Adriatico. Suggestioni di sacralità erano mosse anche da altri fattori, in primo luogo dalle caverne: ne ha alcune il Soratte, numerose sono quelle dell Alburno, e tra esse é la notissima Pertosa con uno sviluppo di ramificazioni di c. ? Km., con stupende concrezioni. Le caverne funsero da abitacoli per i primi gruppi umani, come pure per le divinità gradualmente antropomorfizzate; quando poi l'uomo si costrul abitazioni all'aperto, in legno e pietra, le caverne «divine», intanto caricatesi di intensa sacralità, continuarono ancora, pur costruendosi ormai case,

cioé templi, anche per gli dei, a essere circondate da devozione sacrale per conservatorismo religioso. Il senso religioso emanante dalle caverne è rilevato nelle fonti antiche (SEN., Epist., 41, 3). La rinomanza del Mons. Fiscellus (V AnR., De r.r. 2, 1, 4; PuiN., N.H. 3, 12, 109); (5π.. ITAL., 8, 519), nome che includeva for-

se tutto il sistema montuoso che va dai Monti Sibillini al Gran Sasso d'Italia, veniva anche dall'antro che si riteneva abitato da una Sibilla, che diede poi il nome a tutto il gruppo di Monti omonimi. La vitalità sacrale delle caverne duró nel tempo, come appare dai documenti di successivi livelli culturali trovati in molte di esse, in qualche caso dal paleolitico superiore fino a età romana e oltre, come nella cit. Pertosa dell' Alburno, nelle caverne liguri delle Arene Candide e dei Balzi Rossi, in quelle del promontorio roccioso del Circeo, del promontorio di Scilla, di Santa Maria di Leuca (grotta Porcinara), tutte caverne dall'alta risalenza magico-religiosa (le grandiose grotte di Castellana sono di scoperta recente). Altro fattore di sacralità era anche stimolato dalle acque che sgorgavano a piü altezze dai fianchi della montagna, copiose quando fluiscono da rocce calcaree porose sulle quali la pioggia, invece di scorrere via come fa sugli scisti argillosi o sulle arenarie compatte, penetra nelle fessure per ricomparire anche dopo lunghi percorsi tra rocce e in tempi distanziati. L' approvvigionamento idrico aveva enorme importanza nel costituirsi e nella sopravvivenza dei primordiali agglomerati umani (aquae condunt urbes), donde la venerazione in cui erano tenute, oltreché fiumi e corsi d'acqua, spesso oggetto di personificazione divina, le

acque che sgorgavano dalle rocce, cioé dalla montagna, venerazione che si faceva intensa quando le acque, filtrando tra pietre impregnate di particolari sostanze minerali, e già se ne erano identificate molte nell'Italia antica, avevano un'azione salutifera attribuita a entità divine ritenute presenti nelle stesse acque, quindi nelle montagne da cui sgorgavano (ubi thermae ibi salus, era detto corrente). L'approvvigionamento idrico diventava assillante in zone assetate della Penisola, dove scarseggiavano corsi d'acqua e resorgive e cíó ebbe riflessi nel sentire religioso: qualche monte prese nome dal fiume alimentato dalle acque che uscivano dalle sue falde: il Monte Girino (m. 1830) si denominò appunto dal Siris, odierno Sinni in Basilicata (Vib. Seg., 157, R.). In epoca antica, solo per necessità o per pratiche religiose, l’uomo si spingeva verso quote elevate: gli insediamenti stabili non si svilupparono che là dove fossero disponibili gli alimenti essenziali. L'alta montagna, anche solo a pensarla, evocava sensazioni di difficoltà insuperabili, come di una realtà impossibile: i complessi montani grandiosi erano percepiti come entità inaccostabili; come i mari aperti, vivevano inviolati da millenni (Si. IrAL., 3, 487; Pers. 3, 65). Dei

complessi montuosi appenninici più alti, il Gran Sasso d’Italia (Corno Grande m. 2914), la Maiella (M. Amaro m. 2795), le fonti antiche non hanno tramandato i nomi (se mai ne hanno avuto): li si percepiva al di-là della realtà, appunto perché inaccessibili. Questa irrealtà dell’alta montagna in cui le asprezze dell’inverno erano perenni, quindi senza mai primavera e estate, valeva per tutte le vette eccelse: come eventi eccezionali furono tramandate sia l’ascensione compiuta, con interessi di strategia militare, dal re Filippo V di Macedonia sul M. Haemus, nel nord della Tracia (oggi Stara Planina m. 2376) da cui si riteneva di poter scorgere il Mar Nero, l'Adriatico, il Danubio, le Alpi (Liv., 40, 21-22), sia la salita che Adriano, l’imperatore turista, fece, per vedervi il sorgere del sole, sulla vetta dell'Etna (m. 3273), la montagna- -vulcano dominante tutta la Sicilia

(SPARTIAN.. Hadrian., 13,3). Era più che altro curiosità quella che, sulla scorta delle descrizioni della catena alpina fatte da Strabone e Plinio, richiamava l’interesse ad essa: il Monte Rosa, visibile per largo tratto della pianura padana, non aveva nome. Il celebre passo delle Confessioni di S. Agostino ...et eunt homines admirari alla montium...et relinguunt se ipsos è piuttosto un topos retorico

di contrapposizione tra mondo esterno e quello interiore, nel quale va ricercato Dio. Un interesse verso la montagna si andava certo sviluppando, ma limitato ai ...loca leviora et salubriora (VARR., De r.r., 2, 6, 3). Gli Appennini non erano nemmeno percepiti come catena unitaria (e invero non lo sono geologicamente):

quasise ne percepiva di più la connessione con le Alpi, di cui venivano considerati una prosecuzione che arrivava, con i monti intermedi della Liguria, tra i

quali il Mors Iuventius (i Giovi), il Blopo e il Tuledo (CIL, 1,2 584,18), fino ad Ancona (Vis. SEQ., 231). L'espressione Appenninus Pater è tarda personificazio-

ne poetica, al di là di una unitaria percezione religiosa, che invece si coglie collegata più direttamente con le montagne della visuale quotidiana, alle quali si rivolge l'interesse personale (HoRAT., Sat., 1, 5, 77: incipit ...montes Apulia notos ostentare mibi), con attributi umani come quelli rivolti al Tetrica, mons severus dell'Umbria (VERG., Aen., 7, 713; VARR., De r.r., 2, 1, 5; Su. ITAr., 8, 417).

Anche per le Alpi (& Polibio il primo autore a citarle), solo tardi prese corpo la nozione di una catena unitaria. Le altissime vette innevate con gli imponenti ghiacciai e i tanti picchi impervi che le caratterizzano, erano sentite come entità appartenenti più al cielo che alla terra (Str. ITAL., 11, 217; saxa impellentia cae-

lum), non stimolavano quindi stati di emozione religiosa nei primitivi gruppi umani insediati nelle zone di bassa quota, nei quali certo, come in generale nel mondo antico, ghiaccio e neve erano sentiti con senso di timore, se non di ripugnanza (Honar., C., 4, 14, 12; Amm. Marc., 15, 10, 5; CLAUDIAN., Bell. Goth.,

340 sgg.). La traversata alpina dell'esercito di Annibale si era fissata nel ricordo come evento miracoloso (PriN., N.H., 36, 1, 2); per affrontare le Alpi occorre essere provvisti forti pectore (HORAT., Epod., 1, 11). È significativo che di tutta la catena Alpina, pur descritta ampiamente, come si è detto, da Strabone e Plinio, solo del Monviso, Mors Vesuli (VERG., Aen., 10, 708; Pomp. MELA, Chor., 2, 4, 6, 2; PLIN., N.H., 3, 117; MARTIAL., 6, 64) e per il sistema montuoso a est

del S. Gottardo, Adula Mons (Avien., Orb. Terr., 431) siano stati tramandati i nomi, che per altri monti non esistevano o non avevano rinomanza. Per il Monviso, la spiegazione è nel fatto che da esso muove il Po signore dei fiumi padani; per I’ Adula, l'importanza era data dai passi di comunicazione tra la media pianura padana e il centro Europa, e l'affermarvisi, in età medievale, del culto di S. Gottardo puó far presupporre precedenti suggestioni sacrali, come avvenne per Penninus diventato poi Juppiter Penninus, e infine S. Bernardo. Di un altro passo è noto il nome, il Mors Matrona, oggi Monginevra (Itin. Burd., 556; Amm. Marc., 15, 10, 6): le Matronae, che diventano Junones nella interpretatio romana, erano divinità celtiche e sotto la loro protezione fu posto il passo. Queste testimonianze di religiosità ad alte quote, rare come si vede, trovano spiegazione con la familiarità che si prendeva con l'alta realtà montana quando ragioni di necessità spingevano verso i passi per raggiungere il mondo transalpino. Forme di religiosità primitiva esprimentesi in culti di tipo naturalistico erano certo diffuse alle quote alpine medie e basse. Tra i graffiti rupestri della Val Camonica,

alcuni sono stati identificati come tempietti (A. PRIULI, in «Annali

Benacensi», 1975, p. 75 sgg.). Reperti archeologici attestano in pià luoghi culti di divinità collegate in qualche modo con rocce e pietre, quelli per es. di Castegion di Monte Loffa, m. 1000, nel Veronese, con pietre piramidali, accette di pietra verde, asce, tutti oggetti sacrali dalle virtà magiche, con datazione verso il V sec. a.C. (R. BATTAGLIA, in «Notizie Scavi», 1934, p. 116 sgg.). Anche la toponomastica fornisce dati indiretti sulle forme dell'arcaica religiosità: a S. Maria di Minerbe, in Valpolicella, su una prominenza montuosa (m. 500), si sono tro-

vate iscrizioni che attestano la presenza in luogo di un tempio dedicato a divinità primitiva, identificata poi in età romana con Minerva, e il nome di tale dea & appunto sopravvissuto nel toponimo (P. Tozzi, in «Riv. Archeol. Prov. di Como», 1978, p. 103 sgg.). Per numerosi santuari di età medievale costruiti su alture pressoché dovunque in Italia, sono intuibili precedenti sacrali antichissimi dalla posizione di isolamento, dai nomi nei quali ricorre spesso, specialmente in quelli dedicati alla Madonna, e sono i più frequenti, il richiamo alla roccia, al sasso, alla montagna.

Come i monaci della Tebaide, eremiti e anacoreti medievali cercavano luoghi di

isolamento in alture per avvicinarsi di piü a Dio, e in molti casi si trattava di montagne cariche di sacralità antica: i seguaci di Isacco di Antiochia andarono a insediarsi, dal VI sec., sul Monte Luco, sopra Spoleto, sede di antichi rituali umbri; S. Benedetto fondo nel 528 il suo ordine a Montecassino e nel luogo era ancora frequentato un santuario di Apollo. In quello dello stesso dio sul Soratte subentró il culto di S. Silvestro. Santuari in gran numero si impiantarono in grotte e spelonche: con lo sfondo di nude rocce, il contatto sacrale con la natura primigenia diventava piü diretto, anche se era la ricerca dell'isolamento e dell'innalzamento a spingere a quei luoghi. Poi conventi, abbazie, romitaggi attrassero visitatori, stimolando il costituirsi di agglomerati a quote più elevate che in passato: la pregnanza sacrale in tempi lunghi ebbe quindi, pure se indirettamente, parte attiva, anche per l'apprestamento delle condizioni che rendevano possibile

il viverci (si ricordi l'ora et labora benedettino!), nel vincere l’istintiva riluttanza

verso la montagna. Il Purgatorio dantesco già esprime i nuovi sentimenti e se ne fa eco il Petrarca con la salita sul Monte Ventoso. *

*

*

Le montagne a ogni livello sono costituite da rocce di varia formazione: il rispetto sacrale si rivolgeva spesso anche a queste. Con gli arnesi primordiali, la pietra naturale non era facilmente modificabile e il farlo in contesti magicoreligiosi poteva essere una violazione. Poi nei betili si cominciò a intravvedere simboli o immagini di entità divine, come per altro in legni e alberi, fatto che aprì la strada alla statuaria quando, venendosi a disporre di strumenti idonei, soprattutto in metallo, si prese a lavorare la pietra, cioè a modellarla per farla rassomigliare all'oggetto da raffigurare, azione questa che, per il conservatorismo religioso, continuò, in aree isolate, ad essere considerato violazione dello stato

di natura. Questa nozione è forse già nello sfondo del precetto del decalogo mosaico di non fare scultura alcuna e nell’intimazione che l'Eterno rivolge a Mose di erigergli un altare ma di terra, e, se sarà di pietra, di non usare scalpello per non contaminarla (Exod., 20 4, 24-25). Anche quando verrà eretto il tempio a Gerusalemme, si prese cautela che le pietre vi giungessero già squadrate per non contaminarle con la scalpellatura. La stessa arte islamica rifuggirà da raffigurazioni della natura in quanto ritenute nel Corano profanazioni del creato divino. La stessa nozione è forse remota matrice della proibizione, attribuita a Numa, di raffigurare antropomorficamente e zoomorficamente gli dei (PLUT., Numa, 10). Costituirono già un’incrinatura, nel rispetto magico della natura, i primi timidi segni fatti sui betili per richiamo a particolari fattezze umane. Un deciso passo avanti si operò con le pietre rispettate bensì nella totalità del blocco, ma con la figura umana o animale incisa o scolpita in esso: il resto lo farà la statuaria. L’istintivo rispetto magico rivolto alla pietra, che si inquadra nelle primordiali concezioni animistiche attribuenti ad essa un’energia interiore, quella che la fa rotolare in una china o reca dolore, o addirittura la morte quando cade addosso con violenza, sopravvisse a lungo in talune procedure rituali: i Feziali in

Roma solo saxo ilice potevano colpire l’animale da immolare; il cippo di confine, che con l'antropomorfizzazione divina diventa Terminus, si viene a identificare con lo stesso Juppiter nella variante di Juppiter Terminus; su Juppiter lapis si prestavano i giuramenti solenni (CICER., Ad fam., 7, 12, 2; GELL, 1, 2, 4); Japis manalis, forse pietra dei mani, & quella che viene trascinata a terra per sollecitare, con magia mimetica, la caduta della pioggia sui campi riarsi; i miliari delle distanze stradali hanno anch'essi risalenze sacrali, come le hanno le pietre sepolcrali, non solo per quella che ne & la destinazione. Dunque una energia, quella della pietra, primordialmente percepita con ansia religiosa, donde il millenario rispetto per alcune pietre ritenute fornite di proprietà magiche, veri e propri feticci, come pure per gli ammassi rocciosi in relazione a forze misteriose in essi racchiuse. Si intuisce che, quando in età medievale, le pietre tombali affiancanti le vie che portavano alle città vennero utilizzate in opere di ripristino di mura fatiscenti, o incluse in edifici pubblici o anche religiosi, un cospicuo retaggio di antica sacralità andó-disperso. Nella Laus Italiae, con la quale Plinio il Vecchio chiude la descrizione | dell’Italia nella Naturalis Historia (3, 138), è richiamato un antico divieto con il ᾿ quale il senato romano aveva proibito di estrarre zetalla dalle viscere della terra Italia, che ne abbonda più di ogni altra parte del mondo: ora per zetalla vanno intesi, in senso ampio, oltreché i metalli, le pietre o le cave di pietre. In tale divieto, che il tempo aveva fatto cadere in oblio, c’è ancora l’eco dell'arcaica venerazione dovuta alle pietre, e quindi alle montagne che ne sono immensa riserva.

NUOVI DECURIONI DI FORUM CORNELI FUORI PATRIA FULVIOMARIO

BROILO

. A Lo studio delle epigrafi del Museo nazionale concordiese di Portogruaro in vista della pubblicazione del secondo volume delle iscrizioni stesse per la serie Collezioni e Musei Archeologici del Veneto ! mi ha portato ad una parziale restituzione del testo di due Zitu/i che, pur in stato di ampia lacunosità, con le integrazioni da me proposte offrono un'ulteriore testimonianza dei rapporti intercorrenti tra Forum Corneli e Iulia Concordia e arricchiscono il numero dei Forocorneliensi fuori patria2. Credo di fare cosa opportuna valorizzare in questa sede i risultati prosopografici a cui sono pervenuto durante tale lavoro preparatorio. Il primo di essi ?, una lastra di marmo bianco, é stato rinvenuto in quattro pezzi nel settore settentrionale della necropoli di levante di Iulia Concordia durante l’inverno 1876/77 assieme a numerosi altri frammenti di tombe e di iscrizioni appartenenti alla fase più antica del sepolcreto stesso ^. L’Ispettore degli scavi di Concordia, l’avv. Bertolini, nel dare notizia della scoperta, pubblicò il materiale separatamente, ordinandolo in serie alfabetica a, b,c,de aggiungendo solo poche righe di commento che trascrivo: «Abbiamo distribuito in questa guisa i 3 pezzi che non hanno connessione col principale, perché ci parve che li P e c vengano a completare la nomenclatura dei titolati EnNIAE.

L(ucii L(ibertae) AntON(iae),

e L. Ennius-L(ucii) L.(ibertus) HonO-

Ratus; ma non vi ha circostanza alcuna per giustificare il collocamento del pezzo d piuttosto in uno che in altro punto». Il Mommsen, che non la vide personalmente, la inseri tra le concordiesi nel 1877 valendosi di una copia del Bertolini, il quale evidentemente si limitó ad inviare allo studioso tedesco la trascrizione del testo pubblicato in «N.S.» poiché nel C.I.L. ritroviamo i 4 frammenti pubblicati senza alcun tentativo di ricomposizione del testo unitario ma con una diversa collocazione della serie dell’edizione bertoliniana: a, c, d, 5 5.

|

Dopo la costruzione del Museo nazionale di Portogruaro (1885) i frammenti di questa iscrizione ebbero definitiva collocazione mediante muratura nella navata sinistra dell'area museale e probabilmente si deve al Bertolini, fino ai primi anni novanta Ispettore alle Antichità Concordiesi 7, la ricomposizione del testo e in questa operazione egli si avvalse del quasi perfetto combaciare delle linee di fessurazione. Quanto rimane della lastra di marmo misura cm. 61 di altezza x cm. 39 di

larghezza ed & da sottolineare che lo specchio epigrafico doveva essere limitato inferiormente da una modanatura, di cui rimangono tracce: pertanto l'ultimo rigo conservato era effettivamente T'ultimo rigo del testo originale 8, Le linee di di frattura, attualmente visibili, incidono e dividono la superficie in nove pezzi 9

in gran parte, come abbiamo detto, combacianti fra di loro. Da qui di seguito la

ANULDALUNE

trascrizione con le nuove integrazioni proposte e un breve apparato.

10

[---El»nio [---]

[---patro]no, delcurioni---]

7

[---Fo]ro Cornleli---] [---En]niae L(uci) [?fGHae)--]

7 7,2

[--- Ennius L(uci) [Gbertus)---] 7,8

[---sex]vir fierli iussit].

1,5

2 e 6. [Patrolno: l'integrazione non pone particolari difficoltà di ordine interpretativo dovendo l'epigrafe essere ascritta nella tipologia delle sepolcrali sia per la struttura del testo stesso (le due serie onomastiche dei defunti al dativo e la serie del dedicante in sede finale al nominativo, la formula fieri zussit, la compresenza di un uomo e di una donna, il gentilizio comune ai tre individui), sia per confronto con un'altra iscrizione concordiese, quella di M(arcus) Armo-

nius M(arci) libertus) Astura ? che conferma trattarsi di un patronato personale tra un cittadino romano e un suo liberto. Se le considerazioni fin qui svolte sono nel vero il rapporto patronus-libertus impedisce ogni altra scelta (guattuorvir, duumvir) alla linea 6 e limita l'integrazione alla sola carica del sevirato 19 tenuta per lo più, ma non esclusivamente !!, da affrancati che «han fatto fortuna» (prevalentemente nel settore artigianale e mercantile) tanto da essere circondati da un reale prestigio (e invidia) presso i loro concittadini. E chiaro dunque che un Ennius liberto e seviro fece fare il monumento sepolcrale per il suo patrono Ennius la cui serie onomastica doveva necessariamente aprire le serie onomastiche secondo schemi ben consolidati e quindi possiamo dedurre che il gentilizio del primo rigo a noi conservato trovava la stessa collocazione nel testo originario. Confrontando tale schema con quello del zitulus di M. Armonius Astura 12 si può notare che dopo l'indicazione del patronato (vale a dire l'indicazione del rapporto giuridico di carattere privato che più interessava al libertus per i vincoli di obsequium et reverentia da lui dovuti verso il manumittente) segue, come di consueto, la/e eventuali cariche tenute dal patronus: in questo caso quindi, con scelta resa univoca dalle lettere a noi pervenute, dal decurionato e, trattandosi di decurionato tenuto fuori dei confini del territorio concor-

diese, con la specificazione toponomastica del centro urbano dove l’Ennius patronus tenne la carica; in riga 3 perció le lettere superstiti portano ad integrare [Folro Cora[eli] come in quella di M. Armonius Astura. L' Ennius patronus fu pertanto decurione a Forum

Corneli (l'odierna Imola), situato nella VIII regio

augustea 13,

La seconda iscrizione qui presa in esame è composta da due frammenti: il primo 4 è materialmente conservato !4 e collocato nella navata sinistra del museo di Portogruaro; del secondo 5 invece si è smarrita ogni traccia 15 e rimane solo la trascrizione e fortunatamente anche il calco ad opera del Bertolini 15, Le due parti furono ritrovate negli ultimi giorni di maggio del 1893 in una casa colonica di Summaga, l'uno a riutilizzato come «architrave della porta 10

d'ingresso d'un fabbricato adiacente alla casa dominicale del proprietario di quella colonica» e l'altro P inciso sul bordo di una vasca nel cortile della casa stessa mentre gli altri 3 bordi presentavano una cornice che il Bertolini definisce «di buon disegno e lavoro». Il Bertolini riconobbe l'appartenenza dei due pezzi allo stesso monumento: «mi portai sopra luogo, e il taglio dei caratteri, il numero delle linee mi persuasero trattarsi del cominciamento dei versi della iscrizione, di cui le lettere della vasca erano parte. Fatto quindi il calco de’ due pezzi e, messili insieme, risultó evidente la loro appartenenza allo stesso titolo, ma la loro povertà rendeva impossibile il completarlo» 17. Aggiunge poi: «dal ravvicinamento delle lettere stanti sull'orlo di quella [vasca] al frammento principale, appare che ben poca parte dell'epigrafe andó perduta pel taglio, perocché, se mal non m'appongo, nel quarto verso non difetta che una metà dell E di MATE e l’asta delR che vi tien dietro; nel sesto una metà dell N e la

verticale del E...» 18. La parte conservata nel museo è quella di sinistra. La cornice che correva sui tre lati (il quarto è la risultante del taglio di riutilizzo) era stata scalpellata mediante lavorazione a grossa gradina per adattarla alla muratura della porta d'iingresso mentre la modanatura originaria era visibile, come abbiamo detto, sui bordi della vasca !?. Nella ricostruzione del testo si adoperano entrambi i frammenti con l'avvertenza che la lacuna visibile nel calco del

Bertolini tra le due parti è riducibile allo spazio necessario all'incisione di una sola lettera e in più righe anche a meno. 1

Claius)Vetl---]

9,8

2

pater, dlecurio---]

8,2 (9,8)

3 4 5 6

Foro Clorneli---] mater, Cl(aius) Vet---] fratelr], dlecurio --- Foro] Corneli et---]

7,6 7 (8) 6:8 (7,6) 6,2

7

lulia Cloncordia---Vet---]

6,2

Rufulsl, dlecurio---Iulia] Conclordia---loc(us) dat(us) decret(o)] decurio(num), [Ptestamento?] fier iussit.

5,6. 6,4 4,8 4,4

8 9 10 11

Pur non dovendo analizzare minutamene in questa sedela tipologia monumentale e le caratteristiche paleografiche 2° non si può sottacere che il modo d'incisione delle lettere e il loro ductus s'apparentano strettamente con quelli dell'epigrafe di M. Armonius Astura e che il punto distinguente di linea 1, del tipo a freccia, si segnala per una particolare e rara curvatura del tratto superiore del tutto uguale a quella presente nei punti distinguenti delle righe 2 e 3 del titulus testé menzionato, tanto da poter fare intravvedere non solo una provenienza da una medesima officina lapidaria ma fors' anche l'individuazione di una stessa mano 27,

2

Passando ora ad analizzare l'iscrizione nel suo aspetto visivo, cioè nella sua impaginazione, quello che la caratterizza (e la differenzia dall'epigrafe, similare 11

per altri versi, di M. Armonius Astura) & la stesura «continua» del testo 22 con un procedimento che porta l’ordinator a non rispettare (con l'ovvia eccezione della prima riga) la pià usitata collocazione dell'unità logica delle serie onomastiche, l'inizio delle quali solitamente il lapicida tende a far coincidere coll'inizio di una riga. Qui invece si possono vedere al principio della 4 e 5 riga i termini accessori "mater e frater che presuppongono le loro serie onomastiche incise rispettivamente all'interno delle righe 3 e 4: a conferma di ciò sta il cognomen Rufus di riga 8 che richiede praenomen, nomen e patronimico (piü eventuale tribù) nella riga precedente. Credo sia giusto aver sottolineato tali peculiarità d’incisione perché da ciò deriva un approccio teorico al testo meno vincolato agli schemi più usuali: in altre parole, non essendo privilegiate dal punto di vista ottico le serie onomastiche, ci si deve aspettare una collocazione più frequente i in inizio di riga di vocaboli non appartenenti all'onomastica strict sensu: in questo caso infatti abbiamo toponimi (cfr. righe 3, 6, 7,9). Il testo si apre col praenomen e nomen

di C. Vet[---] al nominativo

a cui

seguiva nella parte mancante la filiazione (l’ipotesi alternativa dell’indicazione del patronato cade dato il livello sociale, il decurionato, dei membri della famiglia) e forse, ma non necessariamente, la tribù, essendo il monumento sepolcrale

di carattere privato e quindi meno vincolato alle prescrizioni pubbliche in materia di onomastica; segue poi l’indicazione di pater, elemento, come abbiamo detto, accessorio nell'onomastica pubblica e tuttavia di rilevante pregnanza emotiva se ricondotto al momento della devozione familiare e del rispetto filiale in ambito funerario. Dalla sfera dei rapporti e delle sequenze genealogiche si passa successivamente a ricordare la posizione del defunto nella vita civile e qui ci soccorre il frammento ᾧ che in riga 2 lascia tracce di una lettera chiaramente completabile in una D a cui segue in riga 3 Foro C[---]; se a tutti questi dati si aggiunge Cornell---] di riga 6 e Iulia C[---] di riga 7 è difficile non confrontare il nostro testo con quello di M. Armonius Astura, operazione questa resa ancor più giustificabile dalle singolari affinità paleografiche messe in luce in precedenza, affinità paleografiche che allora investono il gusto di una committenza non solo similare per livello economico e sociale ma legata per di più ad una medesima origine municipale. Dunque il padre C. Vet[---] fu, come l’Ennius della prima iscrizione, decurione a Forum Corneli 23 mentre il C. [Vet---] figlio di C. Vet[---] del 1 rigo e fratello del dedicante [Vez---] Rufus, con grande verosimiglianza il primogenito essendo portatore dello stesso praenomen del padre, fu decurione sia a Forum Corneli sia a Iulia Concordia. L’ultimo personaggio ricordato nel testo, il [Vet---] Rufus figlio e fratello degli altri summenzionati, fu probabilmente decurione solo a Concordia. In tal modo avremmo ben attestato da questo fitulus un caso di mobilità familiare ai massimi vertici della vita municipale nei suoi tre momenti di attuazione con il padre decurione solo a Forurz Corneli, il figlio (forse primogenito) e fratello dell'esecutore del monumento funerario decurione sia a Forum Comeli che a Iulia Concordia e il secondo figlio decurione solo a Iulia Concordia: il processo di migrazione e integrazione è avvenuto nell'arco di due generazioni. Concludendo, tanto l'iscrizione di Ennius 12

quanto questa portano ulteriori testimonianze sui rapporti intercorrenti nel I secolo d.C. 24 tra Forum Corneli e Iulia Concordia mediante il trasferimento

nella colonia della X regio di membri autorevoli della vita cittadina imolese che Ja elessero a loro seconda e definitiva patria come & dimostrato dal ritrovamento delle loro pietre sepolcrali'a Concordia 25.

1 F. Bnorro, Iscrizioni lapidarie latine del Museo nazionale concordiese di Portogruaro (I a.C. III d.C.), II, Roma (in corso di pubblicazione); il primo volume F. Bnorro, Iscrizioni lapidarie latine del Museo nazionale concordiese di Portogruaro (I a.C. - III d.C.), 1, Roma, 1980, è qui abbreviato Brolo, I.

2 Vedi la lista in F. MANCINI - G.A. MANSUELLI - G. C. Susini, Imola nell'antichità, Roma, 1957, pp. 225-26 e cfr. pp. 230-48 per gli indici sociali, istituzionali e spirituali. I due testi vengo-

no del pari ignorati dalle opere d’assieme più recenti su Concordia, vedi G. BrusIn - P.L. ZovaTTo, Monumenti romani e cristiani di Julia Concordia, Pordenone, 1960; B. ScARPA BONAZZA, Concordia Romana, in AA.VV., Iulia Concordia dall'età romana all'età moderna, Treviso, 19782. 3 Vedi figg. 1 (inv. num. 52, S.A.V.) e 2 Le fotografie sono dell’Istituto di Studi Classici, Archeologia, Università degli Studi di Venezia. Le trascrizioni sono riprodotte dalla rivista «Notizie degli scavi di Antichità», 1877, 1893. ^ Cfr. D. BERTOLINI, in «N.S.», 1877, pp. 28-34, n. 27, qui di seguito abbreviato BERTOLINI, Cit., 1877 0 1893. 5 BERTOLINI, Cit., 1877, pp. 32-33.

6 CLL., V, 8691, Concordia. 7 Nell'atrio del Museo di Portogruaro una lapide ricorda che la prima pietrafu collocata il 1 luglio del 1885 disponente Iosepho Fiorellio allora Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti, curante Dario Bertolini, architecto Antonio Bon.

8 Cfr. BERTOLINI, Cit., 1877, pp. 32-33. ? C.LL., V, 1884, Concordia = I.L.S., 6689 = MANCINI - MANSUELLI - SUSINI, Op. cit., pp.

225, n. 240

= BnusiN - ZovATTO, Op. cit., p. 28 (fig. 20) - P.L. ZovATTo, Concordia e dintorni,

Portogruaro, 1972, p. 11 (fig.) = IDEM, Portogruaro, Concordia, Summaga, Sesto al Reghena, Caorle,

Bologna, 1973, p. 6 (fig. 9) = SCARPA BONAZZA, Op. cit., p. 41, n. 119 (fig. 27) = Brotto, I, n. 37 (fig.) = G.C. Susi, Epigrafia romana, Roma, 1982, tav. XXVII. 10 Sui seviri, seviri Augustales e Augustales la bibliografia ἃ vastissima (si veda da ultimo per lo status quaestionis R. DuTHOY, Les *Augustales, in A.N. R. W., II, 16, 2, 1978, pp. 1254-65 e in particolare per la Cisalpina R. CHEVALLIER, La Romanisation de la Celtique du Pó, Paris-Roma, 1983, pp. 208-10). 11 Ingenui che geriscono queste funzioni si trovano soprattutto nella Cisalpina (cfr. ad es.

CHEVALLIER, Op. cit., p. 209, n. 297 e per Concordia vedi Brotto, I, n. 38). 2 Vedi supra. 33 Su Imola, oltre alla monografia di AA.VV., Op. cit., Roma, 1957, si vedano da ult. i contributi di vari autori in «Studi Romagnoli», XXVI, 1975; XXIX, 1978; XXX, 1979; J. ORTALLI, Un nuovo monumento funerario romano di Imola, in «Riv. di Arch. », II, 1978, pp. 55-70 (figg. 1-12); AA.VV., Dall'età tardoromana all'alto medio-evo. Lo scavo di Villa Clelia, Imola, 1979. 14 Vedi figg. 3 (inv. num. 95, S.A.V.)e 4. 15 Il BERTOLINI, Cif., 1893, p. 221 dice: «Il proprietario mi ha generosamente concesso di levare l'architrave dal sito e portarlo nel Museo, ed è pur disposto di cedere a questo anche la vasca quand’io ne trovi una da sostituirvi»; tale accordo, che rispondeva alle esigenze dell’amatore di reperti classici (anche i più umili) e alle necessità del proprietario il cui comportamento rispecchia-

13

va peraltro la dura realtà quotidiana nella campagna veneta della fine dell'Ottocento, non ebbe un seguito per la scomparsa di li a poco dell'Ispettore onorar. avv. D. Bertolini cosi benemerito verso le antichità concordiesi. 16 BERTOLINI, Cit., 1893, pp. 220-21 (qui fig. 4). 17 18 1? 20

BERTOLINI, Cit., 1893, p. 220. BERTOLINI, Cit., 1893, p. 221. Vedi supra. Per l'edizione completa si i rimanda a Brotto, II, Roma (in corso di pubblicazione, vedi sz-

pra n. 1).

21 Per l'individuazione delle singole botteghe lapidarie e del loro specifico linguaggio monumentale si rimanda a G.C. SusiNz, I lapicida romano, Roma, 1968 (rist.), pp. 29-30; InEM, Epigra-

fia romana, Roma, 1982, pp. 80, 87 con precedente bibliografia. 22 È metodologicamente impossibile utilizzare il frammento 5 per inferire deduzioni dalle spaziature lungo il margine destro in quanto lo stesso BERTOLINI, Cit., 1893, p. 221 afferma: «Il labbro della vasca, sul quale stanno le lettere, è tutto sdrucito ai lembi, per cui manca ogni regolarità nella loro posizione rispettiva nel succedersi dall'alto in basso; e mentre in una riga si notano due lettere in un'altra se ne vede solo un frammento»; dunque l'editore ci ha lasciato non un calco

«fotografico» bensì una semplice trascrizione di ciò che lui leggeva e quindi verso destra il bianco non corrisponde necessariamente a spazio vuoto nel testo originario ma si è prodotto nel tempo per ribassamento, corrosione e sdrucitura a causa del riutilizzo. 23 Pur non potendosi escludere con assoluta certezza l'altra possibile integrazione d[zovir],

dopo il ritrovamento nell'agosto del 1965 a Imola nell'area della necropoli occidentale di una lastra iscritta attestante per la prima volta il duovirato quale suprema magistratura di Forum Corneli (cfr. ORTALLI, Art. cit., pp. 56-7, con discussione delle ipotesi precedenti e prudenti conclusioni dovute all'unicità della fonte) tuttavia credo sia di gran lunga preferibile la ben pià frequente d[ecurio]. ?* La datazione al I sec. d.C. si basa per la prima iscrizione sulle peculiarità paleografiche, in . particolare sull'uso della capitale cosiddetta quadrata che à attestata nell'epigrafia concordiese non oltre il I sec. d.C. (cfr. BroıLo, I, nn. 8, 8a, 31); per la seconda si deve fare riferimento a quel-

la di M. Armonius Astura databile alla I metà del I sec. d.C. (cfr. BRono, I, n. 37; SUSINI, Imola cit., pp. 225, 231, 240). 25 CT.L., V, 1893, Concordia - Broto, I, n. 31; C.LL., V, 1884, Concordia = I.L.S., 6689 - BROILO, I, n. 37.

14

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17

SALLUSTIO

E I TRIUMVIRI

LUCIANO CANFORA

1.

Ronald Syme ha ravvisato elementi di polemica antitriumvirale nel discorso che Sallustio fa pronunciare a Cesare nella Catilinaria (capitolo 51). In particolare ha richiamato l'attenzione sulle parole con le quali Cesare esprime il timore di veder dilagare una violenza indiscriminata: dopo un precedente quale l'esecuzione sommaria dei Catilinari — osserva Cesare —, in futuro, «un altro con-

sole, specie se con-un esercito ai propri ordini, potrà passare all'azione su falsi presupposti» (51.36: «Potest alio tempore, alio consule, quoi item exercitus in manu sit, falsum aliquid pro vero credi»). «L'oratore — scrive Syme — si riferisce, per la verità, ad un console che potrebbe agire dietro autorizzazione del Senato. Ma Sallustio aggiunge tra parentesi: un console che abbia in ma-

no un esercito. Non è una circostanza abituale per un console di questo periodo. Non c’è per caso qui un'allusione ad Ottaviano, insidiosa o sinistra? Una possibile allusione, non certo un preciso ri-

ferimento»!.

|

Cosi «Sallustio gioca il tiro più insidioso ai triumviri: sfrutta Cesare contro gli eredi di Cesare» 2. L'altro possibile riferimento ad Ottaviano sarebbe, secondo Syme, nelle parole «falsum aliquid pro vero credi», dato che, secondo Svetonio, Ottaviano avrebbe in un secondo tempo giustificato il proprio voltafaccia antisenatorio sulla base di espressioni a lui ostili attribuite a Cicerone e ad altri (SUET., div. Aug., 12)?. 2.

Non si tratta, a mio avviso, di «possibili allusioni» ma di qualcosa di piü. Nel discorso che Sallustio attribuisce a Cesare, l'aspetto pià polemico contro i triumviri è, credo, l'ampia.e drammatica rievocazione delle proscrizioni sillane.

Tra l'altro è un tema non del tutto pertinente nell'ambito del discorso cesariano, ed il «pretesto» con cui Cesare giunge a toccare quel tema appare piuttosto tortuoso. Cesare parte dalla premessa: «omnia mala exempla ex rebus bonis orta sunt» (51.27), quindi soggiunge che: «ubi imperium ad ignaros eius aut minus bonos pervenit, novum illud exemplum (= le «res bonae» da cui discendono i «mala exempla») ab dignis et idoneis ad indignos et non idoneos transfertur» (51.28). Ma l'esempio subito addotto — i trenta «tiranni» «qui rem publicam tractarent», imposti ad Atene dopo la sconfitta del 404 - sembra quasi ignorare questa precisazione ed esemplifica soltanto il principio generale («mala exempla ex rebus bonis orta sunt»), giacchè certo uomini come Crizia o Teramene non possono definirsi né «ignari imperii» né «non idonei». I «trenta», per caratterizzare il cui governo Sallustio qui parafrasa Senofonte (Elleniche, 11.5.12), rappre19

sentano — appunto secondo l'immagine datane da Senofonte — il tipico esempio di «bona initia» poi risoltisi in cattivi «exitus»: «Ei primo coepere pessumum quemque et omnibus invisum indemnatum necare: ea populus

laetari et merito dicere fieri *. Post ubi paulatim licentia crevit, iuxta bonos et malos lubidinose interficere, ceteros metu terrere» (51.29).

MEM

i

Analogamente, incalza Cesare, al tempo nostro le proscrizioni avviate da Silla vincitore, in un primo momento furono benemerite e apprezzate: «quis non factum eius laudabat?» (51.31), «sed ea res magnae initium cladis fuit» ?. Si apri una indiscriminata caccia alla ricchezza: «uti quisque domum aut villam, postremo vas aut vestimentum alicuius concupiverat, dabat operam ut is in proscriptorum numero esset» (51.33), «neque prius finis iugulandi fuit quam Sulla omnis suos divitiis explevit» (51.34).

Certo — conclude Cesare — io non temo qualcosa del genere nel caso di Marco Tullio né in questa circostanza (51.35): «Potest alio tempore, alio consule, cui item exercitus in manu sit etc.».

Come si spiega qui questa ampia tirata sulle proscrizioni sillane ed (eventualmente) future? E. difficile che Cesare abbia inteso dare larvatamente del «proscrittore» a Cicerone console. Oltre tutto disponiamo — nella Ouarta Catilinaria ciceroniana — della diffusa e abile replica di Cicerone al «vero» intervento di Cesare in Senato: ebbene il tema delle proscrizioni non ricorre tra le pur molteplici ritorsioni dialettiche di Cicerone nei confronti del suo interlocutore. Semmai «sillano» à in certo senso — per Sallustio — proprio Catilina (Cat. 5.6: «hunc post dominationem L. Sullae lubido maxuma invaserat rei publicae capiundae»), e di sinistro sapore sillano &, per Cicerone, il massacro dei «buoni» progettato dai catilinarii (Cat. 3.9). Cesare formula, invero, una «profezia»: «ubi imperium ad ignaros eius pervenit» (51.27), «alio tempore, alio consule» (51.36; cfr. 51.25: «tempus, dies»).

Una profezia forse post eventum, che sembra riflettere una esperienza scottante. Il console che si trovi a disporre di un esercito € anche — nell'ambito di tale «profezia» — «ignarus imperii»: come appunto il diciannovenne Ottaviano nel momento in cui diventa console con un colpo di mano; e dispone di un esercito per cosi dire «personale», ed avvia con freddezza e determinazione le nuove pro-

scrizioni, presentate — com'é noto — concordemente da tutte le fonti come

«sullanum tempus»; proscrizioni di cui proprio Marco Tullio sarebbe stato una delle prime vittime. Parrebbe intenzionale, in un discorso cosi scopertamente allusivo, la contrapposizione (prospettata da Cesare) tra Marco Tullio ed i suoi futuri carnefici.

3,

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Ma vi & un ulteriore elemento, che sembra accentuare gli elementi «attuali» di questa pagina: il riferimento ai «trenta tiranni» di Atene. Dalla concatenazione degli argomenti sembra evidente che l'operato dei trenta viene messo sullo stesso piano delle proscrizioni sillane: ció comporta un pertinente giudizio sull'esperienza dei trenta, visti dunque anch'essi — come del resto fonti quali Lisia, Isocrate, e lo stesso Senofonte lasciano intendere — 20

come promotori di una immane persecuzione (e spoliazione) dei ricchi in quanto ricchi. Ma soprattutto dei trenta viene ricordata una caratteristica che richiama singolarmente i nuovi triumviri: essi erano stati imposti ad Atene «per rifondare lo stato» («qui rem publicam tractarent», dice il Cesare sallustiano). «Qui rem publicam tractarent» traduce un'espressione della fonte che Sallustio sta adoperando: oi δὲ τριάκοντα ἠρέθησαν ... EP’ ᾧτε συγγράψαι νόμους καθ᾽ οὕστινας πολιτεύσοιντο (Elleniche, II. 3.11; subito dopo figurail giudizio sui «buoni inizi» dei trenta che Sallustio traduce in 51.29: πρῶτον μὲν odg πάντες ἤδεσαν £v τῇ δημοκρατίᾳ ἀπὸ συκοφαντίας ζῶντας καὶ τοῖς καλοῖς κἀγαθοῖς βαρεῖς ὄντας 6 συλλαμβάνοντες ὑπῆγον θανάτου ... ἥ te βουλὴ ἡδέως αὐτῶν κατεψηφίζετο). Per parte loro i triumviri si fecero in-

vestire con la lex Titia di una analoga incombenza: «tresviri rei publicae consituendae». Sallustio vuol dunque sfruttare a fondo l'eloquente parallelo storico. In questo contesto, «qui rem publicam tractarent» è una delle espressioni più allusive. Ma c’è di più. All'indomani dell'uccisione di Cesare, nell'incertezza degli opposti schieramenti, era stata proclamata e accettata — sia dai «liberatori» che da Antonio, e solennemente ribadita in Senato — una formula di riconciliazione che esplicitamente si richiamava alla «amnistia» e alla ὁμόνοια proclamate da Trasibulo ad Atene all’indomani della caduta dei trenta: vi fanno riferimento le fonti storiografiche (Velleio 11.58.2; Appiano, Guerre civili, 11.142.593; Dione XLIV. 26 ecc.), nonché, ampiamente, Cicerone all'inizio della Prima Filippica: «Atheniensium vetus exemplum (...); Graecum etiam verbum usurpari quo tum in sedandis discordiis usa erat civitas illa» 7. L'accostamento trenta/triumviri acquista allora un significato ancora piü allusivo e polemico. Invece di tenersi alla concordata ἀμνηστία, i triumviri han-

no voluto ricalcare le orme dei trenta. (Va anche detto che, forse, nell'indiretto richiamo a quella «amnistia» vi & una pointe particolarmente ostile proprio ad Ottaviano: l'unico che non avesse mai formalmente accettato quell'accordo di «riconciliazione»).

4, Va infine rilevato che già la domanda iniziale («at enim quis reprehendet quod in parricidasrei publicae decretum erit?») apre il gioco delle allusioni. «Parricidae rei publicae»: è su questo termine che si svolge, ben prima della formazione del triumvirato e dell’avvio delle proscrizioni, lo scontro propagandistico tra «liberatori» e cesariani. Così ad esempio, quando Antonio fa incidere sulla statua di Cesare la dedica «parenti optime merito» e Cesare viene esplicitamente onorato come «parens patriae», Cicerone reagisce privatamente scriven-

done a Cassio nell’ottobre del 44: «ut non modo sicarii sed iam etiam parricidae iudicemini» (fazz. XII.3.1), nonché — pubblicamente — nella Seconda Filippica: «confiteor eos (sci/. i cesaricidi) plus etiam quam parricidas esse, si quidem est atrocius patriae parentem quam suum occidere»

(Iz Art. 2.31). La presentazione

del cesaricidio come parricidio à del resto ben presente ancora in uno storico21

antiquario di età tiberiana quale Valerio Massimo (4.5.6.: «compluribus parrici-

darum violatus mucronibus»; 6.4.5: «M. Brutus suarum prius virtutum quam patriae parentis parricida»). Per parte loro, Cicerone, i «liberatori» e i loro sostenitori ritorcono l'accusa di «parricidium» contro Antonio e Lepido durante tutto il periodo della cosiddetta «guerra di Modena», soprattutto a partire dal momento in cui Antonio è ufficialmente proclamato «hostis»: «huic igitur importuno atque impuro parricidae quid habemus quod remittamus?» (In Ant. 12.13), «inter Antonium et Dolabellam impurissimos parricidas» (13.42). Lentulo, in una lettera ufficiale al Senato (presso Cic., farz. 12.15.4) chiama Dolabella «ille parricida», e Planco definisce regolarmente, scrivendo a Cicerone nello stesso periodo, «parricidae» Antonio e i suoi (far. 12.23.5 e 24.3). E l'esemplificazione potrebbe seguitare. Si capisce che anche ai catilinari viene riferito un tale epiteto (Cic., Cat.

1.29 definisce Catilina «parricida civium») 8. Ciò non toglie che, al momento in

cui presumibilmente Sallustio scrive, quella parola & diventata uno dei pià abusati e reciproci termini dello scontro in atto. Il senso allusivo del passo del discorso cesariano è dunque che, se — per il cesariano Sallustio — i cesaricidi sono ovviamente «parricidae» (come consuetamente li definiscono i loro avversari), parricidi sono anche coloro che richiamandosi a Cesare scatenano in

realtà un massacro alla maniera dei trenta tiranni di Atene o, peggio, alla maniera di Silla. Anche qui Ottaviano sembra costituire un bersaglio privilegiato, se si considera l'insistenza ossessiva e bigotta con cui ha continuato a motivare la propria azione politica come mirante essenzialmente alla punizione «eorum qui parentem meum trucidaverunt» (Res Gestae, 1.2) ?.

Non sarà un caso che i vari fili o motivi polemici e allusivi riconoscibili in questo brano del discorso di Cesare si illuminino proprio se riferiti alla vicenda e alle circostanze delle proscrizioni triumvirali, un fenomeno che soprattutto al cesariano Sallustio dovette apparire mostruoso. Dinanzi ad una svolta cosi sconcertante — gli uomini di Cesare che fanno ricorso alla ignominiosa pratica sillana delle proscrizioni! — Sallustio non trova di meglio che rivolgere un aspro ammonimento a questi cesariani «degeneri» proprio per bocca di Cesare. Ed & proprio al cospetto di questa svolta che & si definitivamente maturata la rottura salJustiana con la politica militante. Se il bersaglio preso particolarmente di mira appare Ottaviano, ció forse si spiega con il ruolo repugnante da lui svolto, con la freddezza burocratica con cui il giovane erede di Cesare si è adattato — pare dopo qualche iniziale esitazione — alla pratica delle proscrizioni: «restitit quidem aliquandiu collegis ne qua fieret proscriptio, sed inceptam utroque acerbius exercuit» (Suet., div. Aug. 27.1).

22

1 R. SyME, Sallust, Berkeley and Los Angeles 1964, tr.it., Brescia 1968, p. 141. ? [bid., p. 140. 3 Ibid., p. 141, nota 1. | ^ Cfr. DEM., 9.61: ὁρῶν δὲ ταῦτα ὁ δῆμος ... τοῖς μὲν οὐκ ὠργίζετο, τὸν δ᾽ ἐπιτήδειον ταῦτα παθεῖν ἔφη καὶ ἐπέχαιρεν. Qui Sallustio contamina due fonti, Senofonte e Demostene.

3 La polarità buon esordio / pessimi exitus è alla base del giudizio sallustiano su Silla (Cat. 11.4; Jug. 95.4). Lo spartiacque è la «victoria civilis». $ Nelle corrispondenti parole che Sallustio attribuisce a Cesare («Ei primo coepere pessumum quemque et omnibus invisum indemnatum necare») è forse da leggersi — stando al modello —: «pessumum quemque et omnibus bonis invisum». 7 Su questo «Schlagwort» del linguaggio politico corrente nei mesi successivi al 15 marzo 44, cfr. ad esempio P. JAL, La guerre civile à Rome, Paris 1963, p. 6.

8 E parlando contro Vatinio aveva detto «patriae certissimus parricida» (Iz Vat., 35). ? E all'incirca la formula che ricorreva nella lex Pedia varata da Ottaviano subito dopo il colpo di Stato (agosto 43): cfr. la notizia in fonti a lui ligie (Livio per. CXX, Velleio 11.69.5).

23

ERODOTO

E LA TIRANNIDE

FiLIPPO

CAssoLA

Secondo l'opinione pià diffusa, Erodoto, appartenente ad una famiglia aristocratica, avversario ad Alicarnasso del tiranno Ligdami, ammiratore di Pericle e della democrazia ateniese, era per natura μισοτύραννος, come alcuni perso-

naggi delle sue Storie (VI, 121, 123: Callia figlio di Fenippo e gli Alcmeonidi) ! Non mancano peró, a cominciare almeno da Eduard Meyer, studiosi che considerano l'interpretazione corrente troppo semplicistica. I dati biografici (origine aristocratica; lotta contro Ligdami) sono talvolta trascurati, o messi in dubbio, perché derivano da una fonte tarda e non sempre attendibile (Suidae Lexicon, s.v. Ἡρόδοτος; cfr. s.v. Πανύασις). Inoltre alcuni ritengono che duran-

te il suo soggiorno ad Atene lo storico abbia subíto l’influsso di una tradizione locale (probabilmente alcmeonide) ostile ai Pisistratidi,ma negano ch'egli fosse

contrario in generale, e per principio, alla tirannide; altri non ammettono nemmeno una simpatia per Átene e per gli Alcmeonidi e sostengono che Erodoto era neutrale, o indifferente, in materia di regimi politici ?. Α mio avviso la communis opinio & valida. Credo peró che valga la pena di rivedere ancora una volta sia gli argomenti che di solito vengono addotti in suo favore, sia le obiezioni: anche per discernere, fra gli uni e le altre, quali siano veramente significativi e quali possano considerarsi marginali. 1. Fra i temi che hanno attirato maggior attenzione vi è quello della terminologia. Erodoto sembra usare i termini βασιλεύς e τύραννος, che dovrebbero designare il primo il monarca legittimo, il secondo l'usurpatore, senza distinzione; al punto che in qualche caso i due titoli sono riferiti alla stessa persona a distanza di poche pagine o di poche righe. Ciò dovrebbe significare ch'egli non attribuiva alla qualifica di tiranno un valore dispregiativo. Recentemente lo Apffel, e dopo di lui, con un esame più particolareggiato, il Ferrill, sono riusciti a spiegare molte delle contraddizioni, dimostrando che esse sono solo apparenti 3. Ad esempio, non si può trarre alcuna conclusione quando il titolo di re appare nel discorso diretto, e soprattutto quando è usato al vocativo. Se Erodoto classifica Gelone fra i tiranni (VII, 156,3) ma immagina che

l'ambasciatore ateniese si rivolga a lui con la formula ὦ βασιλεῦ.

Συρηκοσίων

(161,1), evidentemente ritiene il titolo regio più solenne, o addirittura considera «tiranno» un termine da evitare, in quanto ingiurioso.

La variatio dunque, lungi dal dimostrare indifferenza, implica piuttosto una netta distinzione (cfr. anche III, 42,2; V, 92 & 1) 4. Telys di Sibari è chiamato sia re, sia tiranno (V,44); ma il primo titolo si trova nella versione dei Sibariti,

favorevole a Telys, il secondo nella versione dei Crotoniati, a lui ostile.

25

Non credo però che tutte le contraddizioni siano state eliminate. Il Ferrill suppone che Aristofilide di Taranto, definito re da Erodoto, non fosse un tiranno, ma l’erede di una dinastia legittima; dunque il titolo sarebbe usato in modo ortodosso ὅ. Su questo punto si discute: l’esistenza di re in una colonia di Sparta non è affatto inverosimile, ma la testimonianza è isolata. Non si può escludere che Taranto sia stata fin dalla fondazione una repubblica, ovvero che un'originaria monarchia, o diarchia, sia stata nel corso di uno o due secoli sostituita da

un regime aristocratico: in ambedue i casi Aristofilide sarebbe un usurpatore ὅ. ‘L’uso (sporadico) di zyrannos per i monarchi medi e persiani può spiegarsi, almeno in parte, come un’allusione al carattere del loro potere, legittimo in quanto ereditario, ma, diversamente da quello dei re spartani, esercitato senza alcun freno costituzionale o morale (così il Ferrill); questa spiegazione tuttavia non vale per i re della Lidia. Tanto Gige, che, nella versione accettata da Erodoto, era un usurpatore, quanto i suoi successori, sono chiamati βασιλεῖς (1,13;

14,4); ma nello stesso tempo si legge che i Mermnadi s’impadronirono della tirannide togliendola agli Eraclidi (14,1). Ardys «regna dopo Gige», ma i Cimmeri espugnano Sardi«mentre egli era tiranno» (1,15). Anche Sadiatte e Aliatte «regnano» (16,1; 25,1),

ela βασιληίη di Aliatte viene ereditata da Creso (26,1);

questi peraltro era stato una prima volta presentato come tiranno (6,1). Non si può certo supporre che lo storico intenda sottolineare, saltuariamente, il potere dispotico dei re lidi: è manifesto che egli, a torto o a ragione, non giudica Creso un despota (nemmeno quando lo guarda con gli occhi dei suoi sudditi greci: cfr. 1,141) 7. È anche da respingere l'ipotesi che egli distingua gli Eraclidi, monarchi legittimi, dai Mermnadi, usurpatori; oltre all'accenno già citato sul passaggio della tirannide dagli uni agli altri (14,1), lo dimostra il fatto ch'egli chiama tiranno anche Candaule (7,1). Né si può pensare a un influsso della tradizione lidia. Non pochi studiosi ritengono che la parola τύραννος sia di origine anatolica, ma la cosa non è affatto certa, e comunque

non si tratterebbe di

un'origine lidia, perché i re lidi portavano il titolo di galmiu, che i Greci resero con πάλμυς (Hıppon. fr. 3, 38, 42, 72 W..; AgscH., fr. 437 N?

= 623 M.; HE-

SYCH., s.v. πάλμυος) 8 . Dunque, l'unico dato sicuro & che Erodoto ha voluto sostituire la forma palmays con termini più familiari, e ha usato indiscriminatamente βασιλεύς e τύραννος.

Mi sembra poi che si debbano tener presenti anche i passi riguardanti i dinasti di Cipro. Questi, nel loro insieme, sono chiamati due volte re (V,110; VII,90) e una volta tiranni (V,109,1). Gorgo di Salamina è re (V,104,1; 115,1; VIII, 11,2) mentre Stesanore di Curio è tiranno (V, 113,1); la variatio non dipende da un diverso giudizio sui due uomini, che, dal punto di vista politico, sono

schierati dalla stessa parte — sono cioè fedeli alla Persia — e sul cui carattere le Storie non danno alcuna notizia. Anche Aristocipro di Soli è re, ma si aggiunge che suo padre Filocipro era stato lodato da Solone τυράννων μάλιστα (113,2). Questa serie di dati è ancor più significativa di quella sui palmydes lidi, perché i re di Cipro parlavano in greco e portavano il titolo di βασιλεύς; inoltre agli occhi dei Greci il loro potere doveva apparire simile a quello dei re omerici e non a quello dei despoti orientali ° 26

Ció non vuol dire che Erodoto ignorasse la differenza di significato fra i termini «re» e «tiranno». Quando gli ambasciatori spartani ad Atene attaccano Alessandro I, re di Macedonia e vassallo del Gran Re, come «un tiranno che collabora con un tiranno» (VII, 142,5), l'intento spregiativo della definizione è inequivocabile: il passo ἃ significativo poiché appartiene a un discorso pronunciato dai cittadini di una polis governata da re. Dopo l'uccisione di Ipparco, gli Ateniesi ἐτυραννεύοντο.. οὐδὲν ἧσσον

dunque

un

governo

può

essere

più

ἀλλὰ

καὶ μᾶλλον ἢ πρὸ τοῦ (V,55):

o meno

tirannico,

mentre

l'idea

di

βασιλεύειν e βασιλεύεσθαι non ammette gradazioni 19, Tuttavia, come si é visto, nel contesto narrativo lo storico si comporta in

modo incoerente, e dimostra di non dar peso alla distinzione: l'area semantica di βασιλεύς (e derivati) e quella di τύραννος (e derivati) tendono a sovrapporsi.

Raramente accade che il primo gruppo di termini invada l'area del secondo: l'unico esempio certo, dopo le indagini dello Apffel e del Ferrill, quello di Aristagora, il tiranno che si preoccupa di perdere la propria βασιληίη (V, 35,1) 11; resta incerto il caso di Aristofilide. Spesso invece il secondo gruppo invade l'area del primo. Insomma, l'analisi lessicale non è di alcun aiuto per definire l’atteggiamento di Erodoto verso la tirannide. 2. Il dialogo fra Otane, Megabizo e Dario dopo l'uccisione del «falso Smerdi» (III, 80-82) viene citato talvolta al fine di confermare l'indifferenza di Ero-

doto per quanto riguarda i regimi politici: vi si nota infatti un tentativo mal riuscito, ma volenteroso, di presentare argomenti pro e contro tutti e tre i tipi fondamentali di costituzione 12, Più numerosi sono forse i critici che vedono nel dibattito la prova di una scelta per la democrazia, o almeno di un'avversione per la tirannide 15, Infatti, mentre la decisione finale a favore della monarchia non ha nessun particolare significato (essa & obbligatoria, dal momento che l'episodio si svolge in Persia e ne sono protagonisti Dario e i suoi alleati) sembra a molti che il discorso di Otane in difesa del regime democratico e contro la monarchia (III, 80,2-6) sia il pià lucido e il meglio costruito; inoltre il personaggio stesso di Otane & presentato con particolare simpatia. Deve notarsi peraltro che il testo potrebbe essere citato à favore dell'una o dell'altra tesi soltanto se fossimo certi che Erodoto lo ha inventato — sia pure utilizzando materiale attinto alla pubblicistica politica del tempo — appunto allo scopo di esprimere le proprie idee !^; e questa ipotesi & inaccettabile, perché risulta chiaro che egli segue in buona fede una o pit fonti, orali o scritte, in cui aveva tanta fiducia da convincersi che il dialogo era autentico, e da sostenerne a spada tratta l'autenticità, contro ogni dubbio (III, 80,1; VI, 43,3). Molto diffusa & l'ipotesi che la fonte sia uno scritto sofistico, o una conferenza tenuta da un sofista, e ascoltata da Erodoto 15; ma un Greco di Alicarnasso, che aveva passato molti anni a Samo e aveva percorso tutte le satrapie occidentali dell’; impero persiano, ben difficilmente avrebbe ammesso che Protagora di Abdera (questoè il nome più frequentemente ripetuto), o Ippia di Elide, po27

tessero saperne più di lui sugli arcana imperii della monarchia persiana; e non avrebbe giurato a occhi chiusi sulla loro testimonianza. A ció si aggiunge un'ulteriore difficoltà: l'argomentazione,

considerata nel suo insieme,

& talmente

sommaria, disordinata, e soprattutto asimmetrica, da non potersi assolutamente attribuire a un maestro di eristica. Dunque la spiegazione più probabile è quella, ormai classica, secondo cui Erodoto sentí parlare del dibattito in ambienti greci dell' Asia Minore, che gli apparivano — evidentemente a torto — bene informati sul mondo persiano; o in ambienti persiani, sempre dell' Asia Minore, aperti alla cultura greca e desiderosi di apparire «aggiornati», al punto di attribuire ai Sette una sorta di priorità nell'elaborazione di una teoria politica 16. Comunque, tanto l'ipotesi di una fonte sofistica, quanto quella di una fonte anatolica (greca, o persiana ellenizzante), escludono che il dialogo possa considerarsi un documento del pensiero erodoteo. Si puó al massimo ripetere che l'argomentazione di Otane per la democrazia e contro la tirannide è di gran lunga la meglio riuscita, o la meno insoddisfacente; e ciò può far pensare che Erodoto fosse più a suo agio nel riprodurla. 3. Si dà troppa importanza ai giudizi specifici espressi su singoli tiranni, o addirittura su singoli aspetti della loro personalità e della loro opera. Allo Jacoby, per esempio, basta il fatto che Erodoto non si esprima sempre im modo ostile a Policrate e agli altri Eacidi per affermare: «hier zeigt sich... wie wenig man mit dem Schlagwort tyrannenfeindlich für Herodot durchgängig auskommt» "7. Lo Waters ha raccolto una serie di giudizi positivi, che, a suo parere, pre-

valgono su quelli negativi e dimostrano pertanto sia la sostanziale indifferenza dello storico verso la tirannide sia la sua obiettività %. Ma questi passi sono utili per dimostrare che egli era veramente obiettivo solo se, per altre considerazioni, ammettiamo che era contrario alla tirannide (se fosse stato indifferente al pro-

blema, si tratterebbe di un'obiettività troppo a buon mercato). In generale, si può dire che l’atteggiamento dello storico non è quasi mai univoco: rari sono i casi come quello dei Cipselidi, a favore dei quali egli non sembra aver nulla da dire (III, 48-53; meno significativo è il discorso di Socle,

V, 92, inteso a motivare l'opposizione di Corinto al ritorno di Ippia e perció necessariamente ostile alla tirannide) 15, Tuttavia, se si mettessero sui due piatti di

una bilancia le valutazioni positive e quelle negative dei singoli tiranni, apparirebbe chiaro che queste ultime hanno un peso maggiore. Ma non credo che valga la pena di redigerne l'elenco: ció che importa non & la simpatia o l'antipatia di Erodoto per questo o quell'individuo, bensì la sua opinione sulla tirannide come sistema di governo. Vorrei ricordare incidentalmente solo un giudizio che non riguarda i tiranni, ma i tirannicidi. Si è affermato che Erodoto condanna Armodio e Aristogitone, e se ne è indotto che egli vede con una certa simpatia Pisistrato e i Pisistratidi 2°. Direi che i passi citati dimostrano il contrario: i Ghefirei sono oggetto di critica non per aver ucciso Ipparco, ma perché il loro gesto fu inutile: es28

si «esacerbarono i Pisistratidi superstiti, e non posero fine alla tirannide» (VI, 123,2; cfr. V,55).

4. Narrando la storia della tirannide ateniese, Erodoto nota che Pisistrato, al suo ritorno dall'esilio, trovò, accanto ai suoi sZasiotai, altri seguaci, «ai quali la tirannide era più cara della libertà». (I, 62,1). A questo episodio isolato 2! si contrappongono vari altri passi da cui risulta ‘che la tirannide è impopolare, e che i cittadini, se liberi di scegliere, non l’accettano (VI, 22,1: i Samii benestanti; VI, 5,1: i Milesii in generale; V, 93,2: le poleis alleate di Sparta); di ciò sono consa-

pevoli gli stessi tiranni (IV, 137,2: Istieo; V, 37,2: Aristagora). Lo storico dunque conosce e mette in evidenza un dato che scredita notevolmente i regimi personali. Tuttavia — si potrebbe obiettare — l'anonimo autore dell" A0nvaíov πολιτεία sapeva bene che la maggioranza dei suoi compatrioti era ostile agli oligarchi, eppure sosteneva l’oligarchia, non solo in dispregio al demos e per il proprio interesse, ma anche come forma di governo migliore. Per prudenza dunque lasceremo da parte anche questi passi, in omaggio all'improbabile ipotesi che Erodoto, pur considerando la tirannide un regime quasi universalmente odiato, trascurasse la vox populi e personalmente si attenesse a un ‘opinione più moderata. 5. «È chiaro non da un solo punto di vista, ma sotto ogni aspetto, che l’isegorie è una cosa degna di attenzione, se è vero che gli Ateniesi, quando erano soggetti a un potere tirannico, non erano superiori in guerra a nessuno dei loro vicini, e invece, essendosi liberati dai tiranni, divennero di gran lunga i primi. Ciò dimostra che quando erano costretti si battevano malvolentieri pensando di agire nell’interesse di un despota, mentre, allorché furono liberi, ciascuno si batteva con entusiasmo per sé stesso» (V,78). Questo passo, e altri che esprimono lo stesso concetto in forma piü sintetica (66,1; 91,1), sembrerebbero decisivi: qualunque significato tecnico si attribuisca alla parola isegorie 22, ci troviamo di fronte a un’antitesi fra libertà e ti-

rannide, nonché a una scelta in favore della prima. Si potrebbe aggiungere anche una frase meno famosa, ma altrettanto significativa: i Dori invasero l'Attica

quattro. volte, due come nemici, le altre due «per il bene del popolo ateniese» (V, 76: sono le spedizioni di Anchimolio e di Cleomene contro i Pisistratidi). Chi ha scritto queste righe ritiene ovvio e pacifico che la caduta dei tirannifu «per il bene del popolo». Come si & già detto, alcuni studiosi ritengono che i giudizi espressi nel quinto libro siano validi solo per Atene, e non in assoluto; essi inoltre rispecchierebbero non tanto il pensiero di Erodoto, quanto l'influsso di una tradizione ateniese, o più precisamente alcmeonide 25, Questa interpretazione mi sembra troppo restrittiva: sebbene Erodoto parta da un caso singolo (gli Ateniesi divennero di gran lunga i primi) la conclusione. ch'egli

ne

trae

è

formulata

in

termini

generali

(l’isegorie

è un χρῆμα

σπουδαῖον). Tuttavia lo scetticismo potrebbe essere giustificato dal fatto che i

29

passi citati si trovano tutti in una sezione dedicata alle vicende di Atene 24, e il loro tema comune — la libertà & un fattore di forza e di grandezza — non ὃ ripreso altrove; & anzi contraddetto da un'altra esperienza, quella degli Ioni, che pur avendo eliminato i tiranni (compreso, nell'ultima fase della rivolta, lo stesso Aristagora), non seppero, e in parte non vollero, resistere alla controffensiva persiana.

Il breve cenno sulle invasioni dei Dori resiste meglio degli altri alla critica: è difficile che gli Ateniesi fossero disposti a riconoscere il proprio debito verso Sparta. Si deve quindi pensare a un'osservazione personale di Erodoto... a meno che non si preferisca supporre ch'egli attingeva notizie e idee anche in ambienti oligarchici e filospartani; ipotesi, quest'ultima, che potrebbe essere accolta da chi considera lo storico ostile a Pericle.

6. Nel 506 il re di Sparta Cleomene, dopo essere stato esplulso da Atene insieme con Isagora, ritornò con l’esercito della lega peloponnesiaca, accompagnato dall'altro re, Demarato; egli voleva, per vendicare l'oltraggio subíto, imporre Isagora come tiranno. (V, 74,1: la notizia ἃ respinta da alcuni moderni, ma in questa sede importa solo che Erodoto ne ammettesse la veridicità). Quando già

lo scontro era imminente, i Corinzi si convinsero che la causa per cui erano stati mobilitati era ingiusta (75,1: ὡς où ποιέοιδν τὰ δίκαια) e si ritirarono; il loro esempio fu seguíto da Demarato (/bid.: l'espressione «i Corinzi per primi cambiarono idea» dovrebbe significare che Demarato agí per lo stesso motivo). Alcuni anni dopo gli Spartani, preoccupati per le vittorie ateniesi su Calcide e Tebe, riunirono il consiglio della lega, ed espressero il proposito di restituire il potere a Ippia (altro particolare considerato, da una parte della critica, incredibile) 25. Socle, delegato di Corinto, affermò che nulla è più ingiusto (92 a 1: ἀδικώτερόν ἐστι οὐδέν) della tirannide, e che imporre con la forza il ritorno di Ippia ad Atene sarebbe stato un atto contrario alla giustizia (92 n 5: παρὰ τὸ δίκαιον).

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Anche per questi passi, che, come quelli citati sopra ($5), si trovano in un logos dedicato ad Atene, si presenta il problema delle fonti. Ancora una volta, è improbabile che i democratici riconoscessero di dovere qualcosa allo zelo per la giustizia dei Corinzi e di Demarato; inoltre nessun Ateniese, indipendentemente dalla sua posizione politica, avrebbe potuto fornire tutti i particolari presenti nel lungo racconto sui Cipselidi. Il discorso di Socle è costruito con dati appresi a Corinto: Erodoto conosceva le tradizioni di questa città e ne teneva conto (cfr. VIII, 94, ove riferisce sia la versione ateniese, sia quella corinzia, sul contegno di Adimanto a Salamina, e osserva che la seconda è confermata dagli altri Greci) 26. Per quanto riguarda Demarato, la critica spiega l'eccezionale rilievo concesso nelle Storie a questo personaggio con la plausibile ipotesi che Erodoto abbia avuto rapporti amichevoli coi suoi discendenti 27: da questi ultimi dunque egli dovrebbe aver attinto, non tanto le notizie sulla parte del re spartano nella crisi del 506 (l’episodio del contrasto fra i due re era abbastanza clamoroso per

30

essere ricordato da tutti), quanto l'interpretazione, più o meno valida, del moti-

vo che lo spinse a ostacolare Cleomene. 7. Più importante è il fatto che i giudizi attribuiti ai Corinzi in generale, a Socle, a Demarato, rispondono pienamente alle convinzioni di Erodoto. I] tema comune dei passi ora esaminati & l'associazione fra l'idea di tirannide e l'idea di ingiustizia — che, forse per puro caso, non si trova in fonti più antiche — 28. Essa si ritrova in altri due passi che esprimono senza dubbio il pensiero dello storico e non quello delle sue fonti. III, 142,1: «Meandrio avrebbe voluto essere il più giusto degli uomini, ma

non vi riusci». Egli infatti, essendo padrone di Samo dopo la morte di Policrate, che lo aveva lasciato nell’isola come suo vicario, convocò l’assemblea e dichiarò

di essere pronto a deporre il potere, purché gli fossero dati sei talenti e il sacerdozio di Zeus Eleuterio. I concittadini, sottovalutando la sua intraprendenza, non accettarono le condizioni proposte, sicché egli restaurò la tirannide e gettò in prigione gli avversari (che in seguito furono uccisi da suo fratello Licarete). La lugubre ironia del racconto, sottolineata dal magniloquente discorso in cui Meandrio esalta l'eleutberia e condanna chi vuol dominare su uomini uguali a lui (142,3), non può sminuire il valore dell’esordio: se Meandrio avesse davvero

rinunciato alla tirannide, sarebbe stato il più giusto degli uomini. VII, 164,1: Cadmo, avendo ereditato dal padre la tirannide sui Coi, salda-

mente fondata, di sua spontanea volontà e senza essere minacciato da alcun pericolo, animato da un sentimento di giustizia (ὑπὸ δικαιοσύνης), mise il potere

a disposizione dei Coi e si recò in Sicilia. Anche in questo episodio non manca l’ironia: il tiranno Gelone apprezza l’onestà di Cadmo, manifestatasi anche in altre occasioni, e gli affida un incarico di fiducia (164,2); si riconferma, comun-

que, che il rinunciare alla tirannide è un atto di giustizia e che, pertanto, la tirannide è di per sè ingiusta. 8. Riassumendo: Erodoto conosce il significato dispregiativo della parola τύραννος, ma spesso non ne tiene conto (δ 1); riecheggia una fonte in cui sono

contrapposti i pregi e i difetti delle varie costituzioni; e sembra che gli riesca più facile esporre i difetti della monarchia, destinata inevitabilmente ad assumere forma dispotica ($ 2); alterna giudizi negativi e positivi sui singoli tiranni ($ 3); sa che la tirannide è impopolare ($ 4). Questi dati sono in parte ambigui, e nell’insieme insufficienti per una conclusione. Più significativo è il giudizio favorevole sulla situazione di Atene dopo la caduta di Ippia ($ 5); si è affermato che esso è valido solo per il caso specifico e che è ispirato dalla tradizione alemeonide, ma, come si è visto, l'atteggiamento ostile alla tirannide era diffuso anche in altri ambienti, non alemeonidi e non ateniesi ($ 6). D'altra parte, in questo caso come in tanti altri, non si può dire

che Erodoto ripeta passivamente notizie e idee offertegli dai suoi informatori: la condanna della tirannide in quanto incompatibile con la giustizia sembra frutto dela sua esperienza personale e delle sue meditazioni ($ 7). 31

1 Tra le numerose formulazioni di questa tesi mi limito a ricordare alcune delle più nette: «He is the relentless foe of tyranny and oppression» (T.A. SiNCLAm, A History of Greek Political Thought, London, 1951, p. 39); «Erodoto condanna senza appello la tirannide sulle città greche» (S. MAZZARINO, I/ pensiero storico classico, I Bari 1966, p. 174).

2 Ep. MEyER, Forschungen zur alten Geschichte, II, Halle 1899 (Hildesheim 1969), p. 226228; H. STRASBURGER, «Historia» IV 1955, p. 10-11, 14-15; K.H. WATERs, Herodotos on Tyrants and Despots, Wiesbaden 1971; A. MasaraccHIA, Studi erodotei, Roma 1976, p. 18-21. F. JacoBv, in RE, Sb. II (1913), col. 218-219, rileva una decisa ostilità nei confronti dela ti-

rannide: poco dopo tuttavia aggiunge che uno Schlagwort come tyrannenfeindlich non è di alcuna utilità per comprendere Erodoto (col. 223: v. infra, n. 17). Egli inoltre sostiene (col. 357-358) che lo storico non è un ammiratore della democrazia periclea, ma solo di Pericle, e non s'interessa di

regimi politici. 3 H. Aprreı, Die Verfassungsdebatte bei Herodot, Diss. Erlangen 1957, p. 67-68; A. FERRILL, in «Historia» XXVII,

1978, p. 385-398.

^ In realtà, Gelone non si sarebbe per nulla offeso se l'ambasciatore lo avesse chiamato tiranno: cfr. Pindaro, Pytb. III, 70 (βασιλεύς) e 85 (τύραννος), ecc. Si noti peraltro che, secondo I.S. Oosr, in «CPh» LXIX, 1974, p. 118-120; LXXI, 1976, p. 234-226, fin dall’età arcaica vari tiran-

ni pretesero il titolo di re.

5 O.c., p. 390.

6 L’esistenza di una monarchia a Taranto e la sua sopravvivenza fino alla fine del VI seoclo sono ammesse da: P. WUILLEUMIER, Tarente, Paris 1939 (rist. 1968), p. 176; T.J. DUNBABIN, The Western Greeks, Oxford 1948, p. 93,385; F. SARTORI, Problemi di storia costituzionale italiota, Roma 1953, p. 84. Negano invece, fin dall'origine, l'esistenza di re: E. CIACERI, Szoria della Magna Grecia, II, Genova 19402, p. 51; L. MORETTI, in Atti

X Conv. di Studi sulla Magna Grecia (Taranto

1970), Napoli 1971, p. 36, i quali pertanto vedono in Aristofilide un tiranno.

7 E probabile che Erodoto non sbagli: la monarchia lidia, che si collega in parte alla tradizione ittita, non era una monarchia assoluta nel senso in cui lo erano quelle mesopotamiche ed iraniche (per tacere dell'Egitto). Cfr. l'esauriente esame di CLARA TALAMoO, La Lidia arcaica, Bologna

1979. p. 113-156.

$ Una derivazione di τύραννος dal lidio sembra esclusa, fra l'altro, dal fatto che il sinonimo

lidio di questa parola è λαίλας (HESYCH., s.v.; probabilmente dall'ittito Zahhijala, guerriero, capo militare: cfr. O. CARRUBA, in «Athenaeum» XXXVIII, 1960, p. 42; R. GusMANI, Lydisches Wörterbuch, Heidelberg 1964, p. 275; CLARA TALAMO, o.c., p. 136-137). Sulle molte ipotesi circa un'origine asiatica di τύραννος cfr. la discussione di DoLores HEGYI, in «Acta antiqua Acad. Scient. Hung.» XIII, 1965, p. 309-318 (bibliografia a p. 314 n. 8). R. GUsMANTI, in Studi linguistici V. Pisani, Brescia 1969, p. 511-512, pensa a un'isoglossa lessicale greco-anatolica rappresentata, in Asia Minore, dall'ittito geroglifico tarwana-. S. MAZZARINO, Fra oriente e occidente, Firenze 1947, p. 191-192, seguíto da L. Braccesı, in R. BIANCHI BANDINELLI (ed.), Storia e civiltà dei Greci, II Milano 1978, p. 331, nega ogni rapporto con l'Anatolia. Su galmlu: R. GusMaNt, Lyd. Wörterbuch, cit., p. 179-180, 276-277. Il titolo forse non è escusivamente lidio: nell'IZade, XIII, 792, Palmys è il nome di un guerriero frigio (O. Haas, in «Die Sprache» VIII, 1962, p. 196-198, pensa al sostrato prefrigio). Si noti infine che il lemma di Esichio, πάλμυος, & al genitivo. ? Non ho citato V, 111,3-4, ove Onesilo è chiamato re dal suo scudiero, perché, come si è

detto, l'uso di βασιλεύς nel discorso diretto non è indicativo. I dati su Cipro, se non sbaglio, sono

trascurati dal Ferrill; lo APFFEL, o.c., p. 67, li spiega supponendo che Erodoto fosse incerto sulla reale natura della monarchia cipriota (ma l'ipotesi & improbabile perché la tradizione dinastica, a

Cipro, non aveva subito soluzioni di continuità). Diverso mi sembra il caso di Isocrate, che nei discorsi II, III, IX, usa largamente il titolo di βασιλεύς per i signori di Salamina, Evagora e suo figlio Nicocle, ma non rifugge dal titolo τύραννος e dai suoi derivati (II, 4,35; IIT, 11; IX, 32, 34, 40, 71). Evagora e Nicocle si facevano chiamare βασιλεῖς, e vantavano la propria discendenza dall'antica dinastia dei Teucridi, quindi da

Zeus; ma non é certo che le loro pretese fossero valide e fossero accettate da tutti (se Evagora fosse stato veramente un Teucride, non gli sarebbe stato permesso di rimanere a Salamina durante l'usurpazone fenicia: cfr. Ep. MEYER, Gesch. des Altertums, V, Stuttgart 19584,p. 191 n.1, che

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dubita del rapporto coi Teucridi, e K.J. BELOCH, Griech. Gesch., III, 2, Berlin 19232, p. 98, che ammette una discendenza da un ramo cadetto o in linea femminile). L'incoerenza della terminolo-

gia, dunque, rispecchia una effettiva incertezza della posizione costituzionale (confermata dalla voluta confusione fra i vari tipi di monarchia nella syzcrisis dei regimi politici: III, 14-27); dimostra inoltre che Nicocle non era affatto suscettibile su questo punto (fra l'altro, l'oratore lo paragona a Dionisio I di Siracusa: III, 23). ? Lo nota H.F. Bonwrrz, Herodot-Studien, Berlin 1968, p. 20-21.

1! Secondo il FERRILL, o.c., p. 391, Erodoto scrive qui βασιληίη perché si mette nei panni di Aristagora, di cui interpreta il pensiero. Il Ferrill stesso peró non ritiene l'argomento molto convincente, e a buon diritto. I tiranni della Ionia, nelle Storie, non si peritano di definire il proprio potere come tirannide, parlando tra loro (IV, 137,2); difficilmente avranno usato eufemismi pensando. 12 Ep. MEYER,

/.c.; H. STRASBURGER, o.c. p. 10-11; K.H. WATERS,

o.c.., p. 11-12.

13 Ad esempio H. APFFEL, o.c., p. 48, 85, 96; CLAUDE Mossé, Histoire des doctrines politiques en Grèce, Paris 1969, p. 20; HANNELORE EDELMANN, in «Klio» LVII, 1975, p. 319. Secondo alcuni studiosi, come T.A. SINCLAIR, o.c. p. 38-39, e P. WEBER-SCHÄFER, Einführung

in die antike politische Theorie, I, Darmstadt 1976, p. 136, l’atteggiamento di Otane, che, dopo la decisione dei suoi compagni in favore della monarchia, si astiene dal partecipare al sorteggio per la scelta del nuovo re dichiarando οὔτε γὰρ ἄρχειν οὔτε ἄρχεσθαι ἐθέλω (III, 85,2), ἃ agli antipodi

dell'ideale greco, espresso da Aristotele, Pol. III, 2,9 p. 1277 b, 7-13: οὐκ ἔστιν εὖ ἄρξαι μὴ ἀρχθέντα. Non sono d'accordo: Otane non si schiera contro qualunque forma di autorità (basta confrontare ΠῚ 80,6), ma solo contro il governo dispotico. La famosa dedica apposta da Gaetano DE SANCTIS al quarto volume della sua Storia dei Romani, pubblicato nel 1923: «A quei pochissimi che hanno parimente a sdegno d'essere oppressi e di farsi oppressori», offre la più valida interpretazione del passo erodoteo. 14 Il dialogo è una creazione originale di Erodoto secondo M. UNTERSTEINER, I sofisti, I, Milano 19672, n. 22 a p. 39-40; A. FRENCH, «Mnemosyne» XXV 1972, p. 24-26; J. BLEICKEN, in «Historia» XXVIII, 1979, p. 152-153. Propende per questa ipotesi, con cautela, PH. E. LEGRAND, Hé-

rodote, III, Paris 1949, p. 106-109. Si aggiungano gli autori che rilevano un influsso della sofistica

nella struttura e nello stile del dialogo, ma credono che il pensiero sia di Erodoto, come H. RyrFEL, Μεταβολὴ πολιτειῶν, Bern 1949, p. 63-73. H. BRINGMANN, in «Hermes» CIV, 1976, p. 266-289, ammette la possibilità di una fonte ma nella sua trattazione, in pratica, non ne tiene conto.

5 Il primo a fare il nome di Protagora è stato E. Maas, in «Hermes» XXII, 1887, p. 581595, fra l’altro sulla base di un confronto con Isocrate III, 14-27 (v. sopra, n. 9); che deriverebbe

dalla stessa fonte (a parte un possibile influsso di Erodoto sull’oratore, il confronto non convince affatto). La tesi del Maas è stata più volte ripresa, anche con nuovi argomenti, ad esempio da W. NESTLE, Vom Mythos zum Logos, Stuttgart 19422, p. 292-294; J.S. Morrison, «CQ» XXXV 1941, p. 12-13; K.F. STROHEKER, in «Historia» II, 1953-1954, p. 381-412; F. LASSERRE, in

«MH» XXXIII, 1976, p. 65-84. In forma meno decisa si esprimono altri critici, come T.A. SınCLAIR, O.C. p. 38 n.2 (Erodoto deve molto a Protagora, ma la sua fonte diretta non si può

precisare); V. EHRENBERG, «Historia» I 1950, p. 525-526 (la fonte si ispira alla situazione politica di Atene; forse & sofistica). 7.5. MORRISON, Ic. e in «JHS» LXX, 1950, p. 76-77; A. FRENCH, o.c. p. 25; K. BRINGMANN, o.c., credono che il discorso di Dario alluda alla posizione egemonica di Pericle (ma i primi due ve-

dono nell'allusione un intento apologetico, il Bringmann un intento polemico). Si sono schierati decisamente contro questa ipotesi: V. EHRENBERG, 0.C., p. 526 n. 27; το., in «AJPh» LXIX, 1948, p. 161 n. 40; A. W. GoMME, in «JHS» LXX, 1950, p. 77; K.F. STROHEKER, 0.C., p. 389-390.

16 Fonte persiana: Ep. MEYER, Forschungen, cit., I, Halle 1892 (Hildesheim 202 (si-noti che il Meyer cade in contraddizione, cercando di individuare una fonte tempo servendosi del testo come documento sul pensiero di Erodoto); F. JacoBv, 415, 429, 501; H. APFFEL, o.c, p- 71-83, 96; S. MAZZARINO, I/ pensiero stor., cit., I, 163 a p. 580-581; M. OsrwaArp, Nomos and tbe Beginnings of Athenian Democracy,

1966), p. 201ma nello stesso o.c., col. 414p. 174-175 e n. Oxford 1969,

p. 178-179; D. LANZA, Il tiranno e il suo pubblico, Torino 1977, p. 225-232. Altri, come K. von Fritz, Die griechische Geschichtsschreibung, I, Berlin 1967, p. 309-318,

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optano per una fonte ionica; questa seconda ipotesi non è esclusa da F. JACOBY, o.c., col. 501, e M. OsTWALD, ἐς. 17 O.c., col. 223. 1? O.c., p. 1-42.

9. Erodoto narra che Periandro aveva mandato ad Aliatte trecento fanciulli di Corcira, per farli evirare (III, 48,2). Aggiunge subito dopo (49,2) che egli voleva vendicarsi, poiché i Corciresi, per primi, avevano commesso un'azione empia contro di lui, uccidendogli il figlio (cfr. 53,7). Questa notizia spiega il contegno di Periandro, ma non si puó dire che la giustifichi. Sembra evidente, poi, la simpatia dell'autore per i Samii, che salvarono i trecento fanciulli (48,2-4), anche se questo intervento costitul un ὕβρισμα a danno di Corinto (48,1). 20 H. STRASBURGER, 0.C., p. 14; H. BERVE, Die Tyrannis bei den Griechen, I, München 1967, p. 196.

21 Ben diverso é il caso di Samo: qui coloro che «non volevano essere liberi» (IIT, 143,2) sono cittadini che, lungi dall'appoggiare Meandrio, cadono nelle sue mani per la loro imprudenza e la loro debolezza, e finiscono con l'essere uccisi. Naturalmente anche Meandrio ha i suoi partigiani (144), come Pisistrato (1,62,1): è ovvio che nessun tiranno può fare a meno di una sua fazione. 22 Cfr. F.D. Harvey, in «Historia» XV, 1966, p. 254; A. FERRILL, o.c. p. 394. Sulla isegorie

v. T.A. SINCLAIR, o.c., p. 29; V. EHRENBERG, in «Historia», cit., p. 527; G. VLASTOS, in «AJPh» LXXIV, 1953, p. 356, n. 65; E.T. GRIFFITH, in Ancient Society and Institutions, Studies V. Ebrenberg, Oxford 1966, p. 115-138; E. WILL, in «Revue historique» CCX XXVIII, 1967, p. 396 n. 2; M. OSsTWALD, o.c., p. 109 n. 2; 157 n. 2; Cun. MEIER, Entstehung des Begriffs «Demokratie», Frankfurt am Main 1970, p. 40; A. MoMIGLIANO, Sesto contrib. alla storia degli st. classici, Roma 1980, p. 427-429; K.H. Kınzı, in «Gymnasium» LXXXV, 1978, p. 122. 2 Ep. MEYER, /.c.; K.H. WATERS, o.c. p. 15; A. MASARACCHIA, 0.c. p. 20 n. 11; cfr. anche F. JACOBY, o.c., col. 357-358. Altri autori invece negano che Erodoto abbia simpatia per Pericle e subisca l'influsso della

tradizione alemeonide; vedono anzi nei passi citati una sfumatura polemica. Secondo H. STRASBURGER, 0.C., p. 15-16; CH. W. FORNARA, Herodotus, Oxford 1971, p. 48-49, 53-56, 80-81, egli si

limiterebbe a constatare che Atene aveva ottenuto brillanti successi, ma in questi vedrebbe un fosco presagio dell’imperialismo ateniese e delle future, ben più sanguinose, guerre fra Greci (91,2: gli Spartani prevedono che, dopo i Beoti e i Calcidesi, altri avranno a soffrire per l'intraprendenza di Atene; cfr. 93,1, dove la profezia ὃ ripetuta da Ippia e riferita in particolare ai Corinzi). I due studiosi ammettono però che secondo Erodoto la liberazione dalla tirannide era stata per Atene un progresso irrinunciabile. 24 Secondo H.R. IMMERWAHR, Form and Thought in Herodotus, Cleveland 1966, p. e passim, i capitoli 55-96 del libro V costituiscono un /ogos ateniese. Silvana CAGNAZZI, mes» CIII, 1975, p. 396-399, distingue invece un /ogos che tratta l’inizio della rivolta viaggio di Aristagora a Sparta, la caduta di Ippia (V, 28-65,4), e uno dedicato alla storia

116-118 in «Herionica, il di Atene

dopo la tirannide, fino all'arrivo di Aristagora (65,5-96). 2 G. DE SANCTIS, Atthis, Torino 19122, p. 332 n. 2(= Atthis, Firenze 1975?, p. 419 n. 5), giudica incredibile che gli Spartani volessero instaurare Isagora come tiranno, o, peggio ancora, restituire la tirannide a Ippia (V, 74,1; 21). Egli inoltre, come K.J. BELOCH, Griecb. Gesch., I, 1, Strassburg 19122, p. 401, ritiene che vi sia stata una sola spedizione della lega peloponnesiaca, nel 507-506, erroneamente reduplicata dalla tradizione. Contra: E. Wir, Korinthiaca, Paris 1955, p. 654 n. 3, seguito daB. VIRGILIO, Comm. stor. al quinto libro delle St. di Erodoto, Pisa 1975, p. 109110.

26 Cfr. A. MASARACCHIA, Erodoto, La battaglia di Salamina (libro VIII, Verona 1977, p. 203, n. al cap. 94. 27 Secondo la consuetudine degli Achemenidi, Dario aveva concesso a Demarato, esule presso la corte persiana, «terra e città» (HDT. VI, 70,2; cfr. ATHEN. I, 54, p. 29 F). Ancora all'inizio del IV secolo Teutrania e Alisarna, in Misia, erano governate da discendenti del re (Xen., Anab., II, 1,3; VII, 8,17; Hell. III, 1,6; cfr. PAus. III, 7,8). I contemporanei di Senofonte si chiamavano

Euristene e Procle: la famiglia dunque rimaneva fedele alle sue origini. 28 Cfr. S. MAZZARINO, I/ pensiero stor., cit., I, p. 173: «Il governo del tiranno è, per lui [scz/.

Erodoto], la negazione di Dike». 34

Alceo accusa Pittaco 75,12; 348). Per Solone, la e dalla violenza (fr. 32,2-3; δημοφάγος); Pisistrato è

(Prom. 224-225).

di essere spergiuro (fr. 129 V., 23), avido (ibid., 23-24), ignobile (fr. tirannide è caratterizzata dalla schiavità del demos (fr. 9 W., 3-4; 11,4) 34,7-8); il tiranno in generale è rapace (fr. 33,5-6; cfr. THEOGN. 1181: ipocrita (αἱμύλος, fr. 11,5). Eschilo aggiunge il tema della diffidenza

Nel dialogo sulle costituzioni i difetti del monarca, visto esclusivamente

nell'aspetto di tiranno, sono ὕβρις (cfr. SoPH., O.T. 874), φθόνος, κακότης. Τ᾿ ἀδικία del tiranno riappare frequentemente in Euripide (sui poeti tragici cfr. i passi raccolti da D. LANZA, o.c., p. 235-236).

N.B. Non ho citato, fra i passi erodotei, quello che riferisce il presagio ricevuto da Ipparco: nessun uomo che agisca ingiustamente (ἀδικῶν) sfuggirà al castigo (V, 56). Anzitutto è ovvio che

si tratta di un racconto tradizionale, e non inventato da Erodoto; inoltre il presagio & ambiguo. Secondo il LEGRAND, o.c., V, Paris 1946, p. 101 n. 3, il personaggio che appare nel sogno allude

all'ingiustizia di Ipparco; secondo W.W. How, J. WELLS, A Comm. on Herodotus, II, Oxford 1912 (1957), p. 25, egli, mentre invita il tiranno a subire il suo destino, lo conforta affermando che i suoi uccisori saranno puniti per il loro atto ingiusto (l'invenzione risalirebbe dunque all’ambiente dei Pisistratidi).

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IL PROGRAMMA DEI POROI E IL PROBLEMA DELLA COPERTURA FINANZIARIA (ΠῚ, 9) MICHELE

CATAUDELLA

E per molti riguardi in questo passo (III, 9) il presupposto fondamentale del programma finanziario proposto nei Poroi, in quanto in esso è descritto lo strumento di copertura finanziaria di maggiore rilevanza delle iniziative suggerite dall'autore. Importanza determinante ha, pertanto, la definizione di questo strumento, che, mentre da un lato, denota la presenza di una specifica preoccupazione per la componente imprescindibile di qualsiasi programma di finanza pubblica, qual & la relativa copertura, pone, dall'altro lato, difficoltà di notevole

portata in ordine alla sua natura, alla sua articolazione e alla sua reale rispondenza agli scopi che concretamente il programma si prefigge !. *

*

*

Appare quindi opportuno un riesame del passo che qui di seguito si trascrive per comodità del lettore: ᾧ μὲν yàp ἂν δέκα μναῖ 'y εἰσφορὰ γένηται, ὥσπερ WALTIKOV, σχεδὸν ἐπίπεμπτον αὐτῷ γίγνεται, τριώβολον τῆσ ἡμέρας λαμβάνοντι. ᾧ δὲ Aàv x εντε μναῖ, πλέο } ἐπίτριτον. Οἱ δέ γε πλεῖστοι ᾿Αθηναίων πλείονα λήψονται κατ᾽ ἐνιαυτὸν ἢ ὅσα dv εἰσενέγκωσινοϊ γὰρ μνᾶν προτελέσαντες ἐγγύς δυοῖν μναῖν πρόσοδον ἕξουσι 2.

La natura delle cifre riportate — se 10 mine, 5 mine e una mina costituiscano una generica esemplificazione di un contributo libero, o se esse siano ispirate a un certo criterio sulla base di un determinato punto di riferimento — e soprattutto la misura delle rendite, cosi com'é calcolata, hanno ovviamente colpito gli studiosi moderni impegnandoli nella ricerca di una logica accettabile nel quadro di una ricostruzione coerente del meccanismo finanziario proposto. Se, in effetti, è comprensibile una rendita sulla base di un interesse del 18% (σχεδὸν ἐπίπεμπτον), lo é assai meno la rendita sulla base del 3696 (πλέον Yenttpırov),

e del tutto inconcepibile è l'interesse del 180% qual è previsto per la fascia più numerosa (οἱ πλεῖστοι), che contribuisce con una mina 3.

Questi dati, d’altra parte, hanno condizionato in larga misura le ipotesi formulate in merito alla natura dello strumento finanziario, inteso, ora come in tut-

to analogo ad un'£ioqopá ^, sia pure con scopi diversi, ora come contributo volontario, secondo una prassi nota col nome di ἐπίδοσις 5, ora come prestito ©. Il carattere obbligatorio o volontario & per altro di rilievo secondario, qualora sia possibile giungere a una definizione dello strumento finanziario, in quanto ne sarebbe conseguenziale. Α tal riguardo rivestono interesse precipuo le cifre indicate dall'autore come tre livelli possibili di versamento: è questo il primo degli aspetti di cui si è 37

detto. Che le tre misure — 10 mine, 5 mine, 1 mina — rappresentino non più che una esemplificazione & nella natura stessa del testo che le riferisce, il quale non trascrive un testo di legge o un dato storico, ma si limita a una proposta, in questo caso, come negli altri, che via via illustra come mezzi di ampliamento del-

le entrate. Se, dunque, queste cifre hanno indubbio carattere esemplificativo, in quanto, in fase di eventuale applicazione del programma, esse potevano essere modificate o adattate in relazione a nuove valutazioni ed esigenze impostesi sul piano concreto, appaiono in ogni caso degni della massima attenzione il numero e le misure dei livelli di versamento indicati. Sono tre livelli, come si é visto: il richiamo ai tre livelli di contribuenti, che

é un elemento costante del sistema fiscale ateniese, legato com'é alle tre classi soloniane (la quarta comprende in non contribuenti), si impone in modo evidente ". La coincidenza è senz'altro significativa. L'«aggancio» ai tre livelli di contribuenti trova piena rispondenza nelle cifre tonde — 10,5,1 — le quali assai poco agevolmente potrebbero essere spiegate per altra via, ché, fra l'altro, appaiono eccessive, le prime due, come contribuzioni volontarie, mentre precaria è indubbiamente l'eventualità di un riferimento ad imposta percentuale, sia pure in rapporto alla «media» 5. Appare invece probante il confronto fra i tre livelli di versamento indicati nel passo in discussione e i tre livelli di capitale corrispondenti alla tre fascie dei contribuenti, che erano alla base del sistema fiscale ateniese, e che la riforma di Nausinico — pur prescindendo ormai dalle classi soloniane — non poteva certo ignorare sul piano sostanziale. Ora, è evidente che i livelli di capitale imponibi-

le, nella misura rispettiva di 1 talento, 1/2 talento e 10 mine sono fissati secondo

lo stesso rapporto esistente nei tre livelli di versamento rispettivamente di 10 mine, 5 mine, 1 mina indicati nel passo in questione; ovviamente va tenuto conto del diverso sistema numerale su cui sono fondati rispettivamente il talento e la mina, essendo il primo diviso in sessantesimi, la seconda in decimi. Alla luce del diverso sistema metrico si vede bene come i dati numerici dei due diversi ordini di livelli siano stati fissati sulla base esattamente dello stesso criterio. In forza dell’inquadramento nel sistema tributario, ne discende, con ogni verosimiglianza, che il provvedimento proposto riguardava esclusivamente i contribuenti, e che esso, di conseguenza, avesse carattere obbligatorio e nell'adempimento e nella misura del versamento ?. Ma qual era la natura del provvedimento che l’autore si sforza di presentare con ogni cura ed efficacia persuasiva? Siamo al secondo aspetto del problema. La stessa premessa e l’illustrazione della proposta si conciliano ben poco con l'ipotesi di un provvedimento fiscale analogo 41} εἰσφορά, istituto ampiamente applicato e quindi notissimo (tristemente!) agli Ateniesi, e quindi non bisognoso di particolari premesse e delucidazioni. Al contrario, la assoluta diversità è delineata espressamente dalla contrapposizione alle precedenti εἰσφοραί; queste infatti non comportavano né una rendita del capitale versato, né la compartecipazione al capitale, né alcun'altra garanzia. Era un'imposta straordinaria, un tributo e nulla pià (ἐκείνου δήλου ὁὅτι οὐδέποτε ἀπολήψονται ἃ ἂν εἰσενέγκωσιν οὐδὲ μεθέξουσιν ὧν ἂν εἰσενέγκωσιυ. E chiaro che la proposta dell'auto38

re, per la logica della contrapposizione, deve essere concepita in modo da dare quello che l’eiopopd non dava, e perché ciò sia possibile è necessario supporre che il provvedimento fosse di natura del tutto diversa e prevedesse condizioni opposte nei due aspetti che l'autore ha tenuto a specificare quali più significativi della differenza !9. . A tal riguardo una perspicua indicazione forniscono le due proposizioni κτῆσιν ἀπ᾿ οὐδενὸς ἂν οὕτω καλὴν κτήσαιντο ὥσπερ ἀφ᾽ οὦ ἂν προτελέσωσιν εἰς τὴν ἀφορμήν; οἱ γὰρ μνᾶν προτελέσαντες ἐλλὺς δυοῖν μναῖν πρόσοδον ἕξουσιν, in cui la presenza del verbo προτελέω delinea, già

in assoluto, il concetto di anteriorità, ma l'ordine cronologico assume rilevanza solo in quanto determini il presupposto essenziale del secondo dei momenti in cui è concepita l'operazione finanziaria, la rendita, che è l'elemento più significativo. Ma non è in questi termini, ovviamente, che si esaurisce l’operazione in

quanto il presupposto della rendita non è nel versamento preliminare (προτελέσαντες: ciò è scontato e fuor di luogo sarebbe stato specificarlo!), ma nel μετέχειν alla ἀφορμή chesi ottiene attraverso il versamento, e si configura

come atto preordinato alla rendita (προτελέσαντες) in quanto si trasforma in κτῆσις del contribuente che è μετέχων τῆς ἀφορμῆς 1.

Dunque ciò che 1᾿ εἰσφορά non prevede è previsto invece dallo strumento finanziario descritto: la rendita inoltre risulta piuttosto elevata, per cui l’operazione si presenta quanto mai vantaggiosa e per questo poteva allettare anche gli stranieri, com'era nell'auspicio dell'autore. In tal caso, evidentemente, non poteva trattarsi che di una libera scelta come si conviene a una cosa auspicata soltanto, magari incoraggiata, con ogni mezzo, mentre né di auspicio, né di inco-

raggiamento si trova traccia riguardo agli Ateniesi a cui l'autore si sforza di far apparire la propria idea non deprecabile come se egli proponesse un’eiopopd. Se del piano finanziario la κτῆσις risulta componente ben definita e significativa, la rendita, che ne è pure componente essenziale, presenta difficoltà sul piano della sua articolazione, poiché la misura di essa, pienamente accettabile per il primo livello, appare invece incredibile per il secondo, e del tutto assurda per il terzo. Per questo motivo si è praticamente rinunciato alla soluzione del problema 12. Tuttavia un'osservazione appare subito opportuna: si legge nel testo che per i primi due

livelli di versamento — ᾧ μὲν γὰρ ἂν δέκα μναῖ fj εἰ-

σφορὰ γένηται.. . ᾧ δὲ γ᾽ ἂν πέντε μναῖ... --- la rendita é rispettivamente oxe-

δὸν ἐπίπεμπτον e πλέον γέπίτριτον; peril terzo livello, che comprende la mag; gior parte degli Ateniesi (οἱ πλεῖστοι) si legge che avranno una rendita di quasi due mine (ἐγγὺς δυοῖν uvoiv πρόσοδον ἕξουσι). L'uso differente dei tempi, prima il presente e poi il futuro, non può essere di certo casuale: in realtà per i primi due livelli la rendita è fissata in rapporto al versamento rispettivo di 10 e 5 mine, e in questo senso essa è il 18% e il 36% 15. Per il terzo livello, dal momento che le due azioni — il versamento e la riscossione della rendita — sono espresse con due voci al futuro, ne consegue che la rendita, nella misura indicata

di quasi due mine, 707 è rapportata al versamento di una mina all'inizio, quindi non è quasi due mine, ma lo sarà ogni anno in relazione al versamento di una mi-

na che sarà effettuato ogni anno. In altri termini, il presente si riferisce a una 39

rendita annua che & fissata nella misura indicata in rapporto a un determinato versamento, mentre il futuro si riferisce a un versamento annuale, per cui sia la rendita, sia il versamento sono proiettati nel futuro. Ciò che è implicito nella differenziazione dell'uso dei tempi è reso esplicito dalle due proposizione che illustrano l'operazione relativa agli appartenenti alla terza fascia, i πλεῖστοι fra gli Ateniesi: costoro, infatti, riceveranno ogni anno come rendita più di quanto avranno versato (πλείονα λήψονται κατ᾽ ἐνιαυτὸν

ἢ ὅσα ἂν εἰσενέγκωσιν). L'uso dei tempi e dei modi non sembra lasciar spazio

a dubbi: la rendita annua di quasi due mine è subordinata alla condizione (ὅσα

dv εἰσενέγκωσιν) che essi versino ogni anno una mina. In definitiva: la rendita sarà (non à) del 180% ogni anno solo in quanto i πλεῖστοι verseranno annual-

mente una mina (abbiano versato...) !4. Se dunque il sistema di versamento relativo al terzo livello è quello descritto, si delinea in modo più concreto e comprensibile l’intero meccanismo su cui è fondato il piano finanziario enunciato nei Poroi. Infatti, dato che per il primo livello è fissato un versamento di 10 mine, se per il terzo livello il versamento di una mina si ripete annualmente, è sufficiente che la proposta fosse inserita in un programma di durata decennale perché l’assurdità di una rendita nella misura del 180% risulti soltanto apparente e, in realtà, invece, del tutto ragionevole,

oltreché perfettamente rispondente alla logica del piano, in relazione alla misura della rendita prevista per gli altri livelli. A nessuno può sfuggire infatti che l’interesse del 18% annuo su un versamento di 10 mine qual è quello del primo livello, equivale esattamente all'interesse annuo del 180% per chi versa una mina ogni anno per dieci anni. Infatti nell’arco di dieci anni il versamento risulta di 10 mine per entrambi i livelli, e l'interesse del 18%. In questo stesso meccanismo doveva necessariamente rientrare anche il se-

condo livello, relativo al versamento di 5 mine; il testo non ne fa cenno ma è lecito dedurlo dal rapporto con gli altri due livelli. Basta in pratica supporre che il versamento assommi in totale a 10 mine, e ne risulta la misura dell'interesse al

18%, in armonia con i dati corrispondenti del primo e del terzo livello, secondo la ricostruzione proposta !5. L'ipotesi di una programmazione finanziaria secondo un piano decennale costituisce parte integrante del meccanismo finanziario nei termini or ora proposti; le stesse cifre, per altro — 10,5,1,18%,180% — alla luce di quanto si &

esposto, non possono nascondere un legame indissolubile con un corso decennale. D'altra parte l'intero programma di cui il piano finanziario costituisce parte integrante, prevede evidentemente dei tempi di attuazione che, per quanto è dato ricavare dal testo, confermano l'ipotesi di un corso decennale. Il progetto che l'autore presenta nel modo piü particolareggiato, e che pertanto mette in luce i problemi inerenti ai tempi e alle fasi di attuazione del programma è quello riguardante gli schiavi e lo sfruttamento delle miniere secondo un piano unitario. La realizzazione del piano € prevista sulla base di scaglioni annuali per cui da un numero iniziale di 1.200 schiavi si doveva raggiungere, in cinque (o sei) anni, il numero di 6.000 schiavi (εἰκὸς ἤδη ἀπ᾽ αὐτῆς τῆς προσόδου £v ἔτεσι πέντε ἢ ἕξ μή μεῖον ἂν τῶν ἑξακισχιλίων yeveodaı). a

40

Una volta raggiunta questa cifra, dall'affitto degli schiavi, la cui rendita ὃ fissata nella misura di un obolo al giorno per ciascuno, si ricaverà un introito complessi. vo annuo di 60 talenti (ἀπό YE μὴν τούτου...ἣ πρόσοδος... [IV.23] 19). La me-

ta a cui é indirizzato il piano è il raggiungimento di un introito complessivo annuo di 100 talenti, che potrà essere ottenuto soltanto dopo che sarà stato raggiunto il numero di 10.000 schiavi: seguendo il dato relativo alla rendita nella misura di un obolo al giorno per ciascuno schiavo, il calcolo risulta perfettamente valido. A tal fine l'autore prevede uno stanziamento di 20 talenti su 60 di reddito dei 6.000 schiavi, da destinare all'acquisto di altri schiavi. Ebbene: attraverso un calcolo molto semplice si puó verificare che con 20 talenti, al prezzo di 158 dracme per ogni schiavo, si acquistano praticamente 760 schiavi 17: siccome per raggiungere la cifra di 10.000 schiavi, che sostituisce la meta del programma, occorre acquistare altri 4.000 schiavi da aggiungere ai 6.000 già acquistati in cinque anni, saranno sufficienti altri cinque anni per raggiungere la cifra auspicata. Ossia: acquistando 160 schiavi ogni anno, in cinque anni si saranno acquistati 3.800 schiavi, che, aggiunti ai 6.000 già posseduti, assommeranno in totale a 9.800. L'arrotondamento a 10. 000 appare per altro legittimo considerando l’approssimazione inevitabile di simili calcoli, non soltanto in sede di verifica da parte dei moderni, ma anche nei dati di cui poteva servirsi lo stesso autore antico, in relazione alle possibili variazioni del mercato, alle «medie», agli «arrotondamenti», ecc. (ad esempio, sulla base di un prezzo medio arrotondato di 150 dracme per schiavo, in cinque anni si acquisterebbero esattamente 4.000 schiavi;

e non sarebbe certo una cifra inverosimile) 18,

Da qui ancora la conferma che l'intero programma era concepito in relazione a un piano decennale come lo strumento finanziario nei termini in cui sopra é

prospettato.

*

*

*

La natura dell’operazione finanziaria scaturisce dagli elementi costitutivi di essa, se fondata è l’interpretazione proposta; in sostanza la formazione dell’àφορμή derivante dai versamenti di ciascun contribuente, fa sì che questi sia μετέχων 4} ἀφορμή stessa, attraverso la κτῆσις di una quota corrispondente

all'ammontare del versamento 15. Se così era concepita la proposta finanziaria di cui si tratta, essa può richiamare in qualche modo i moderni titoli di partecipazione a imprese pubbliche, almeno nelle linee essenziali, dato che sarebbe certamente fuor di luogo fermarsi sulle differenze, legate come sono alla varietà degli strumenti finanziari di oggi, alle possibilità di operare che esse consentono, alla convertibilità, alle quotazioni, ecc. Nulla vieta per altro di pensare che il sottoscrittore, in quanto titolare di κτῆσις, potesse anche negoziare la sua quota di compartecipazione e così recuperare la somma versata, guadagnando o perdendo in rapporto — com'è presumibile — alle esigenze del mercato 20. Certo è comunque che il capitale, stando così le cose, non doveva essere restituito; l'onere pubblico era pertanto rappresentato soltanto dal pagamento degli interessi. L'operazione, che si presentava certo vantaggiosa per i sottoscrittori — e come tale la prospetta ovviamente l’autore —, quale onere costituiva pet 41

le pubbliche finanze? Chi pensi agli interessi degli attuali titoli di Stato, pagati con tanta disinvoltura, non ha da porsi problemi a riguardo per un tasso dell’ordine del 1896: in pià Atene disponeva di riserve di metallo prezioso nel Laurion che l'autore considerava praticamente inesauribili e utilizzabili addirittura — a suo giudizio — senza rischio di spinte inflattive. Tuttavia una valutazione puntuale (o anche approssimativa) dell'operazione dal punto di vista della finanza pubblica appare molto precaria in mancanza di dati essenziali (il gettito globale, ad esempio); ma, se si tien presente che per il programma relativo agli schiavi l'autore fonda i suoi calcoli su una rendita superiore al 3396, e che l'incremento dell'estrazione di argento e il potenziamento delle strutture ricettive e delle infrastrutture commerciali, uniti agli altri provvedimenti, dovevano autorizzare previsioni non meno ottimistiche (altrimenti sarebbe stato naturale destinare il piano finanziario all'operazione relativa agli schiavi — che assicurava un'ampia copertura degli impegni — e non ad altri settori), sembra innegabile che il piano globale — cosi come si ὃ proposto di intenderlo — dovesse rispondere alle capacità della pubblica finanza ateniese. Si trattava — non va dimenticato — di un progetto che l'autore vuol rendere in tutti i modi accettabile (peccando forse di ottimismo?): sulla carta, in-

somma, c'è poco da obbiettare. La realtà poteva anche risultare meno rosea.

! Per un profilo delle questioni si rimanda alla recente ampia trattazione di P. GAUTHIER, Un comm. hist. des Poroi de Xén., Genève-Paris 1976, pp. 97 e ss. (in part.) e a quella recentissima di

E. SCHÜTRUMPF, Xenophon vorschläge zur Beschaffung von Geldmitteln oder über die Staatseinkünfte, Darmstadt 1982. 2 Cito dall’edizione di G. PIERLEONI, Xen. Opuscula, Roma 1933, pp. 129 e ss. 3 Cfr. ad es., J.H. TurgL, Xen. Poroi, Diss. Amsterdam 1922, pp. 48 e ss.; K. von DER LIECK,

Die xenopb. Schrift von der Einkünften, Diss. Köln 1933, pp. 24 e ss.; G. ΒΟΡΕῚ GIGLIONI, Xen. de Vectigalibus Firenze 1970, pp. 34 e ss.; P. GAUTHIER, o.c., pp. 238 e ss. Si è richiamato a tal proposito un passo successivo (IV, 17), in cui l'autore sembra auspicare che la città possa arrivare ad acquistare tanti schiavi fino a raggiungere il numero di tre per ogni cittadino. Considerata quindi la rendita di uno schiavo nella misura di un obolo al giorno, si darebbe cosi ragione dei tre oboli al giorno per ogni cittadino (A. WILHELM, [Unters. zu Xen. Poroi, in «Wien. Studien» 61, 1934, pp.

44 e ss.] ha ritenuto i due punti così strettamente uniti da proporre lo spostamento di III, 9 subito dopo IV, 33). Valutazioni diverse del rapporto fra i due passi in THIEL, o.c., p. 49; BoDEI GIGLIONI, 0.C., pp. 86 e ss.; GAUTHIER, 0.c., pp. 97 ess. e 240 e ss. In realtà IV, 17 merita di essere appro-

fondito — ovviamente in sede diversa — proprio perché il rapporto con III, 9, che indubbiamente sussiste, ma solo in quanto tutto il programma & concepito unitariamente, appare di natura diversa. Infatti la sostanziale identificazione dei tre oboli di III, 9 con i tre schiavi di IV, 17 appare molto precaria in qualunque modo la si possa intendere: basti qui osservare che i due punti dipendono da due distinti piani di finanziamento (per gli schiavi si accenna a un'eio«qopó; in proposito cfr. BopEr GigLIONI, /.c.) e SCHÜTRUMPF, o.c., pp. 13 e ss. 4 Così GAUTHIER, /.c..

^ Cfr. A. KuenzI, Epidosis, Bonn 1923, p. 16; H. BoLKESTEIN, Wobltát.u. Armenpflege im vorcbristl. Altert., Utrecht 1939, pp. 265 e ss. 6 Cfr. THIEL, o.c. pp. 48 e ss.; Von DER LIECK, o.c., p. 41; ΒΟΡΕΙ GIGLIONI, o.c. pp. 84 e ss.

42

7 Basti pensare a PoLLUCE (VIII, 129) per la suddivisione tradizionale, soloniana, dei contribuenti ateniesi. Successivamente «i trecento» (oi τριακόσιουῃ) e «i milleduecento» (oi διακόσιοι

καὶ χίλιοι) sono distinti dal resto dei contribuenti minori: quindi ancora tre fascie. Cfr. R. THom-

SEN, Eisphora, Copenhagen 1964, pp. 235 e ss., ivi fonti e discussione. 8 Cfr. BOLKESTEIN, 0.c., pp. 262 e ss.; GAUTHIER, 0.C., p. 98. ? Il confronto pare già decisivo in relazione alla testimonianza di Polluce, anche se mancano dati specifici per un confronto per il periodo successivo. D'altra parte , in quanto «agganciate» al sistema fiscale, le cifre non potrebbero essere che «tonde», come in realtà sono quelle del sistema

fiscale; il loro carattere esemplificativo non ἃ dubitabile in quanto si tratta di una proposta, ma l'esempio è fondato su una logica che è quella del sistema fiscale (cfr. ancora BoDEI GIGLIONI, o.c., pp. 83 e ss.). 10 Sembra che di ció non tenga conto il GAUTHIER (0.c., p. 100) sostenitore dell'opinione che non si tratti se non di un'£ioqopá, non differente dalle altre Contra v. SCHÜTRUMPF, 0.c., p. 13. 11 L’uso del verbo εἰσφέρω non è necessariamente vincolato al versamento di un tributo; nel-

la fattispecie, poi il problema nn si pone nemmeno, dal momento che — come per l’eisphorà — il versamento avviene nell’ambito della finanza pubblica: la diversa natura e funzione del versamento attiene a quest'ambito. Può essere significativo il confronto con DEMOSTENE, II, 24, .. ἀνηλιOKET

εἰσφέροντες...

12 Che i dati siano sorprendenti — e per la portata degli inteessi e per la disparità di essi — non poteva sfuggire (cfr. ad es. VoN DER LIECK, o.c., pp. 22 e ss.; GAUTHIER, 0.c., pp. 93 ess. e

102; ecc.). Tuttavia l'accuratezza dei calcoli che si riscontra nel testo viene ampiamente riconosciuta, per cui sarebbe ingiustificabile pensare a cifre aberranti. Alla difficoltà maggiore va incon-

tro chi sostiene che si tratti di un tributo, dato che, in tal caso, non trovano posto interessi di qualsiasi genere e misura. D Per il versamento di 5 mine, relativo alla seconda fascia, cfr. infra.

^ L’interpretazione di nAeiova...ti ὅσα ἂν εἰσενέγκωσιν nel senso proposto non pare che possa incontrare difficoltà, anzi parrebbe l’unica sintatticamente possibile: la condizione espressa

in ὅσα dv...

è legata all’azione futura espressa in λήψονται in quanto si ripete annualmente

(κατ᾽ ἐνιαυτόν).

15 E chiaro che non c'é alcun contrasto fra l'interesse effettivo del 18% per tutti e tre i livelli, secondo l'interpretazione proposta, e i dati enunciati nel testo, ossia il 18%, il 36% e il 180% rispettivamente per le tre fascie: infatti il calcolo, limitato al rapporto somma/ anno/rendita, com'é nel testo, & senz'altro esatto. 16 Per la rendita degli schiavi cfr. F. OERTEL, in «Rhein. Mus.» 1930, p. 237; WILHELM, 0.C., pp. 25 e ss.; S. LAUFFER, in «Abhandl.d.Ak.d.Wiss.Mainz» 1955, pp. 176 e ss. In questa se-

de interessano soltanto i dati di cui si è servito l'autore (un obolo al giorno per 360 giorni, presumibilmente).

17 Gli elementi del calcolo si ricavano dallo stesso testo; l'alternativa — cinque o sei anni — dipende evidentemente da possibili variazioni di prezzo e di mercato di cui, in una programmazione a lunga scadenza, era necessario tener conto. Cfr. W.K. PRITCHETT, in «Hesperia» 25, 1956, pp. 276e ss.

1? E opportuno rilevare ancora che la concezione decennale del programma emerge chiara-

mente anche dalla circostanza che il piano di acquisto degli schiavi si autofinanzia nei primi cinque anni attraverso l’impiego dell’intera rendita annualmente ricavata, mentre per i successivi cinque

anni esso si autofinanzia solo attraverso un terzo della rendita annuale: segno evidente di uno scaglionamento della spesa esattamente programmato per un arco di 10 anni. Per l'autofinanziamento

attraverso l’intera rendita annuale nei primi cinque anni è sufficiente una verifica in questi termini: 1.200 schiavi = 1.655 schiavi = 2.281 schiavi

rendono 12 talenti rendono 16,5 talenti rendono 22,8 talenti

= 3.147 schiavi rendono 31,5 talenti =4.342 schiavi. rendono 43,4 talenti =5.991 arrotondamento = 6.000.

con cui se ne acquistano con cui se ne acquistano con cui se ne acquistano

455 625 866

455 + 1.200 = 625 + 1.655 = 866 + 2.281 =

con cui se ne acquistano 1.195 con cui se ne acquistano 1.649

1.195 + 3.147 = 1,649 + 4.342 =

43

19 Non è facile accettare il valore di κτῆσις nel senso di «profitto», a prescindere da ogni altra considerazione; il significato della parola infatti è legato esclusivamente al concetto di «acquisto, proprietà», e sim., a cui corrisponde l’azione di μετέχειν in relazione 41} ἀφορμή. Cfr. GAvTHIER, 0.C., pp. 91 e ss., ivi bibl.

2° Non si tratta quindi di un effettivo prestito pubblico (cfr. supra nota 6), e non possono quindi valere le obbiezioni di GAUTHIER (p. 93 e 101 e ss.), per altro formulate in un'ottica troppo moderna. Comunque, nell'ipotesi che si & proposta, i termini e le componenti essenziali dell’operazione risultano ben definiti nei tratti più significativi. Di più non è lecito cercare in uno strumento finanziario concepito oltre due millenni fa.

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ZANKLE DALLE QUESTIONI DELLA KTISIS AI PROBLEMI DELL'ESPANSIONISMO GELOO, SAMIO E REGGINO SEBASTIANA

CONSOLO

LANGHER

1. Origini, istituzioni e vita economica di Zankle in età arcaica.

Rispetto alla storia delle altre consorelle calcidesi, la storia di Zankle 1 si distingue per la originalità degli esiti nel contesto degli eventi siciliani, in cui, come e con le altre, si inserisce. Il dominio dello Stretto, la dimensione «emporica» ad esso connessa, la

presenza di Rhegion sulla sponda opposta, esercitarono sempre una influenza peculiare non solo sullo sviluppo economico e sociale della città, ma anche sulle sue vicende politiche e sulle modalità di mistione e di alternanza della sua compagine etnica, che rivestirono in Zankle aspetti ed implicazioni particolari determinando, tra l’altro, nella seconda metà del V sec. a.C., il mutamento della sua denominazione. Il sito era abitato — almeno dall’età neolitica — da indigeni che occupavano prevalentemente le prime propaggini dei Peloritani, prospicienti il porto, secondo una ubicazione probabilmente determinata da motivi di difesa, e da mezzi di sussistenza fondati sul raccolto e sulla caccia 2. Successivamente, provocato forse dall’arrivo dei Siculi fra XIII e XI secolo a.C., un processo lento ma incessante di inserimento sulla riva del mare determinò l’avvicinamento degli abitanti alla costa che ebbe la sua più completa attuazione in epoca greca.

La eccezionale posizione strategica sullo Stretto attirò nel sec. VIII a.C i Greci con la promessa di pedaggi, di traffici e di pirateria?. Peculiari altresì le vicende della fondazione comprendente due tempi: un primo periodo in cui Zankle è solo un covo di pirati (una base marittima di Cuma), più che una vera città; un secondo in cui si sviluppa la vera e propria-colonia con l'intervento dei Greci provenienti dalla città di Calcide e dall’Eubea in genere. I due interventi coloniali greci attestati da Tucidide 4 (il quale testualmente afferma che Zankle fu fondata da pirati provenienti ἀπὸ Κύμης ἐν ᾿᾽Οπικίᾳ, ai quali si aggiunse, in un secondo tempo, da Calcide e dal resto dell’Eubea, la moltitudine dei veri e propri coloni, a stabilizzare il primitivo insediamento) sono databili intorno alla metà del sec. VIII a.C. Ad una migliore puntualizzazione cronologica (circa il 757 a.C. per il primo; tra 753 e 728 per il secondo) si può . forse giungere con l'ausilio di alcune testimonianze di Eusebio e di Pausania, tenendo altresì presenti alcune indicazioni cronologiche generali, quali si desumono da Diodoro oltre che da Tucidide. 45

Procediamo con ordine. Per primo il Bérard ? ha proposto di intendere sul piano cronologico la distinzione tucididea tra il primo insediamento (uno scalo di pirati cumani) ed il

secondo (che diede luogo alla colonia vera e propria con contingenti euboici e calcidesi), con il sussidio di una testimonianza di Eusebio 6, secondo cui nel

757/6 sarebbero state fondate in Sicilia Selinus et Gangle. Ma, a prescindere dal dato eusebiano (inspiegabile per altro per Selinunte), la proposta di ricollegare il primo stanziamento indicato da Tucidide alla fondazione di Pithekousai (e quindi ad un periodo

successivo

al 770

a.C.),

formulata piü recentemente

dal

Vallet 7, si concilia assai bene con l'esigenza di non sottovalutare l'importanza che il passaggio dello Stretto dovette subito acquistare nell'antichità per il collegamento con gli stanziamenti campani. Sia che si voglia risolverlo cronologicamente con l'ausilio dei dati eusebiani (secondo la proposta del Bérard), sia che si voglia riconnetterlo alla fondazione di Pithekousai (secondo la proposta del Vallet), il primigenio stanziamento di Zankle trova un convincente chiarimento nella doppia esigenza dei Calcidesi del golfo di Napolidi possedere una base sullo Stretto e di impedire che esso cadesse in mano agli Etruschi. Scalo di Cuma o di Pithekousai, Zankle & alle origini essenzialmente un piccolo stanziamento composto soprattutto di avventurieri greci che esercitavano la pirateria. Questo primitivo carattere di Zankle risulta confermato da una testimonianza di Pausania $, il quale allude, sia pure con qualche confusione, ad un primo insediamento di λῃσταί che avrebbero fortificato-la zona del porto. La fondazione vera e propria della città greca con coloni euboici e calcidesi (e forse anche con elementi nassi, se & da accogliere una testimonianza dello Pseudo Scimno ?), avvenne subito dopo, nel 753 o nel 728, a seconda che si ac-

cetti, tra i dati discordanti tramandati dagli autori antichi, la datazione alta (che — com'é noto — si desume per Selinunte e Megara, e quindi anche per le altre colonie siceliote, da un famoso passo di Diodoro 19) oppure la cronologia più bassa (di 23 anni circa) che si ricava da Tucidide 13, I risultati delle più recenti

campagne di scavo hanno orientato gli studiosi verso una maggiore attendibilità della serie cronologica alta: fondamentale sembra soprattutto il risultato emerso dagli scavi eseguiti dalla scuola francese a Megara, i cui reperti indicano una più elevata antichità rispetto al più antico vasellame di Siracusa!?. In particolare, i frammenti rinvenuti a Naxos e a Leontini indicano press’a poco l’epoca delle origini di Megara, mentre i reperti di Rhegion e quelli di Mylai (la prima colonia di Zankle) indicano all'incirca l'epoca della fondazione di Siracusa?. Secondo tali risultati, la fondazione di Zankle viene a porsi prima di Siracusa (733a.C.), ma subito dopo Naxos (757 a.C.), all’incirca nel periodo di Megara. La vera e propria ktisis di Zankle sembra dunque posteriore, di poco, alla kzisis di Naxos!‘ e a quelle di Leontini e di Catane, ma precedente a quella di Rhegion, che fu colonizzata con la partecipazione degli Zanklei. Quanto alla fondazione della subcolonia di Zankle, Mylai, sulla costa settentrionale della Sicilia (che miró ad assi-

curare una base anche agricola all'economia della metropoli, fondata principalmente sui proventi dell'attività commerciale e marittima), posta già dal Bérard col sussidio di un passo di Eusebio nel 717/16 a.C. 5, essa, in base ai tipi stilisti46

ci delle ceramiche, sembrerebbe non posteriore, ma coeva, alla fondazione di Siracusa 16,

Come si desume dagli scarsi reperti archeologici, i limiti urbani dell'abitato ellenico di Zankle comprendevano grosso modo la zona falcata (estendendosi fino a raggiungere come limite meridionale l'attuale via S. Cecilia) e inoltre il torrente Zaera, e la parte centrale del porto fino all'altezza del moderno Corso Garibaldi, senza oltrepassare l'attuale Piazza Duomo". Gli scavi più recenti nella zona sud del porto, nel punto in cui la falce si congiunge con la costa, hanno riportato alla luce un insediamento arcaico, con resti di case costruite con pietre di fiume, e separate da stradine strette che seguono un sistema ortogonale 18, Conferme alla incorporazione della penisola di S. Ranieri nell’abitato sono comunemente considerate l’immagine monetale del porto a forma di piccola falce bordata da quattro quadrati, nei quali si è ritenuto di poter riconoscere torri, ‘ isolati urbani o bacini portuali!, e l'indicazione di Pausania 20, che i pirati, inse-

diatisi nella località, «fortificarono i dintorni del porto». Verso la fine del VI secolo a.C. il tessuto cittadino occupava, con ogni probabilità, una sorta di semicerchio comprendente anche la falce ed estendentesi verso nord-ovest, con un diametro complessivo di un chilometro e mezzo. Non è da escludere che il sistema ortogonale emerso dai reperti più recenti si estendesse a tutta l’area urbana. Il porto si configura fin dalla fondazione come il fulcro della vita cittadina, men-

tre il materiale di scavo conferma gli scambi intensissimi con la Grecia e soprat-

tutto con Corinto?!,

Prosperando in un sito che, privo di zone idonee allo sfruttamento agricolo, appare scelto con il preciso obiettivo di assicurare un buon porto alle navi greche che dall’Egeo si spingevano verso l’Etruria??, e ancora oltre (alla ricerca di schiavi, derrate e soprattutto metalli?), Zankle conia, già a partire dall'ultimo spicchio del sec. VI a.C. , una stupenda monetazione argentea, recante le immagini dell’«inconfondibile» porto falcato e del delfino?4, e si caratterizza, anche per tale via — come vedremo meglio più avanti — quale città più di ogni altra aperta, per la sua peculiare posizione strategica, a iniziative e attività di commercio e

di scambio, prima che di agricoltura, e particolarmente interessata alla espansione sulla costa settentrionale «tirrenica» dell’isola, ove oltre a Mylai, fonda anche Himera?.

Le scarse notizie pervenute sull'età più antica, oltre ai cenni sulla deduzione di Mylai, da ritenere — come abbiamo già detto — sulla base dei dati archeologici — solo di un ventennio successiva a Zankle e più o meno coeva alla fondazione di Siracusa 26, comprendono la partecipazione degli Zanklei agli insediamenti di Rhegion 27, e la fondazione zanklea di Himera (nel 649/8) 28. Una conferma, sia pure ‘indiretta, alla priorità della fondazione di Mylai rispetto ad Himera è data da un passo di Strabone > ‚in cui Himera & definita fondazione degli Zanklei di Mylai. Definita da Diodoro ?° phrourion, Mylai fu un semplice avamposto militare, come confermano l'assenza di monetazione e il fatto stesso che Tucidide non ne faccia menzione nel quadro delle colonie calcidesi. La fondazione di Himera, circa la metà del sec. VII a.C., risulta chiaramen-

te da Diodoro 3! in un fondamentale passo in cui, a proposito della distruzione 47

di Himera nel 480 a.C., l'autore precisa che essa fu abitata per 240 anni 52. I dettagli sulla fondazione di Himera da parte di Zankle sono tramandati da Tucidide, che ne indica gli ecisti e ricorda la partecipazione di elementi siracusani chiamati Myletidai, e da Strabone, che ricordala provenienza degli Zanklei da Milazzo, mentre lo Pseudo Scimno si limita ad annoverare Himera fra le città calcidesi di Sicilia 55.

Se esigue sono — come si vede — le notizie pervenute sui primi duecento anni di vita di Zankle, il riesame della sua pià antica monetazione, che annovera serie di grosso taglio, coniate secondo un sistema ponderale estraneo alla madrepatria e affine viceversa ai moduli della coeva monetazione etrusca, cui si affiancano serie minori di litre e di emilitre, puó fornire — almeno per la metà del sec. VI a.C. — interessanti elementi di riflessione. Si tratta di serie di dracme di piede c.d. microasiatico (o «etrusco») che pre-

sentano spesso sul recto in incuso lo stesso tipo del diritto, il Delfino, secondo una tecnica che è propria delle più antiche serie di Siracusa e di Crotone 34. Tra le datazioni assolute proposte per l'inizio di tale monetazione ?, la cronologia negli anni intorno al 535/30 a.C. sembra tra le più convincenti, anche per il rapporto stilistico con la pià antica monetazione di Himera che, sulla base dei riscontri con i reperti ceramici, è stata posta di recente intorno al 550/30 a.C. Caratterizzate dai tipi Delfino/Quadrato incuso 3, Delfino/Quadrato 7, Delfino/Delfino, tali pià antiche emissioni comprendono quattro serie che coprono tutto l'arco di tempo che dagli inizi della coniazione, giunge fino all'arrivo dei Sami (494/3 a.C.) 38.

Le quattro emissioni vengono scaglionate, secondo alcuni raggruppamenti proposti dagli studiosi, in quattro distinte epoche che, grosso modo, abbracciano, dal 535 al 494 a.C., un decennio ciascuno (precisamente: gli anni tra il 535 e il 525 a.C. la prima emissione; tra il 525 e 11 515 a.C. la seconda; tra il 515 e il 510 a.C. la terza; tra il 510 e il 495 a.C. la quarta). Le sequenze tuttavia, in ordine di cronologia relativa, rimangono dubbie, per le stesse divergenze tra gli studiosi, che propongono avvicendamenti diversi ?. Due emissioni comprendono anche piccoli nominali ( da gr. 0,92 a gr. 0,11; da gr. 0,89 a gr. 0,12), da considerare serie di litre e di emilitre (o, secondo altri, oboli ed emioboli) 40,

Il complesso della monetazione per il metro, per i tipi, per la consistenza ponderale, attesta l'esistenza di una classe imprenditoriale agiata, in rapporto di affari con le aree magno greca ed etrusca. Ad essa dovevano affiancarsi categorie di lavoratori portuali (carpentieri, scaricatori, manovali), oltre che di artigiani e di piccoli commercianti alle cui

pratiche necessità quotidiane doveva convenire l'uso di serie monetali minori (litre ed emilitre). La massiccia presenza delle unità minori rivela infatti una ricca articolazione del tessuto sociale, quale & del resto legittimo ipotizzare in una città di carattere «emporico». o L’uso di un sistema ponderale di tipo etrusco che è proprio altresì di Naxos e di Himera (anche esse, in ciò, «diverse» dalle altre città greche della Sicilia), 48

indica il gravitare delle tre città su direttrici di mercato comuni, partecipi delle esigenze di scambio proprie dell'area tirrenica. Con Himera e Naxos, Zankle ha dunque in comune la priorità nella coniazione della moneta. Con le medesime città ha probabilmente in comune anche una priorità nella codificazione delle leggi, che la tradizione attesta solo per la subcolonia di Naxos, Catane, ma che a buon diritto puó ipotizzarsi — pur se non ne è pervenuta l'attestazione — per le altre città calcidesi *!, tanto più che esse appaiono ancor più di Catane legate al mare e quindi più sensibili ed aperte dovevano essere — come indica la elevata antichità e l'articolazione delle loro serie numismatiche — a fenomeni di articolazione e mobilità del tessuto sociale. Di un reggimento oligarchico in Zankle fa fede una preziosa testimonianza relativa ai trecento cittadini pià cospicui preposti alla direzione della città, che fa capo ad Erodoto, in riferimento agli inizi del V sec. a.C. ?, ma che certamente indica ordinamenti preesistenti già almeno all fine del sec. VI a.C. In complesso l'immagine di Zankle, almeno nel corso e alla fine del sec. VI a.C., si configura come quella di una città retta da un'oligarchia legata al mare, più che ai possessi fondiari, e sorretta da una buona moneta argentea. Governata dai cittadini più ricchi per censo, la città non si mostra tuttavia insensibile — come indica la presenza di nominali minori — alle richieste di un derzos articolato e laborioso, in cui le categorie portuali ed artigiane dovevano essere largamente operose e comunque compensate in denaro. Sembra dunque ovvia conseguenza che Zankle verso la metà del VI secolo dovesse, per la sua invidiabile posizione strategica e per la sua ricchezza, costituire obiettivo tra i più importanti della politica espansionistica verso il Tirreno che animava alcune potenti città della Sicilia meridionale. Tra esse, tra la fine del sec. VI e gli inizi del sec. V a.C., si pone soprattutto Gela, con il suo geniale tiranno Ippocrate 45. Pertanto la storia di Zankle nel sec. V a.C., a causa della opulenza economica della città, sarà caratterizzata dallo scontro con Gela, ma dovrà fare i conti anche con

l'espansionismo di Reggio e dei Sami, prima che con quello di Siracusa. 2. L’espansionismo di Gela su Zankle e la genesi della tirannide in Rbegion. Il contrasto fra Calcidesi, Geloi e Siracusani per il dominio dei traffici nel Tirreno, che nel corso del sec. V a.C. caratterizza la storia dei Sicelioti, assume

in Zankle, per le ingerenze della vicinissima Rhegion e per il sopraggiungere di gruppi etnici (Ioni e Sami) dalla Grecia, aspetti ed implicazioni «peculiari», sì che l’espansionismo medesimo di Gela (prima) e di Siracusa (dopo), provoca in essa soluzioni diverse che in altre città siceliote, quali Naxos, Catane, Himera. Il primo attacco alla potenza di Zankle viene dal Sud dell’ isola, ove il tiranno di Gela, Ippocrate, aveva costituito, agli inizi del sec. V a.C., un vasto dominio. Dalle direttrici medesime della sua linea di espansione si evince che supremo obiettivo di Ippocrate — alla cui ambizione premeva suscitare consensi con vittoriose conquiste — era riuscire ad unificare, sotto il suo potere, tutta la gre49

᾿οἰτὰ della Sicilia orientale, in maniera da strappare alle po/eis calcidesi (Zankle, Himera, Naxos), il controllo dei traffici che dal Tirreno raggiungevano l' Africa settentrionale, l'Italia e la Spagna. A guadagnare tale controllo e ad assicurarne la stabilità si mostrano protese già alcune prime azioni di assedio, da Ippocrate affidate al luogotenente Gelone, a Zankle (oltre che a Callipoli, Naxos, Leontini, ed altre località, ricordate succintamente da Erodoto) ed altresi un tentativo su Himera, riferito da Conone 44. Fallito ad Hmera, il tentativo compiuto da Gelone riusciva a Zankle, nella

quale Ippocrate poté instaurare il proprio un generale greco di sua fiducia, Scite 45, divennero nominalmente alleati, ma «di caso soggetti al partito «dorizzante» che

controllo, imponendovi come tiranno già tiranno di Coo, si che gli Zanklei fatto» sudditi di Ippocrate e in ogni Scite rappresentava all'interno della

città. Scite, che Erodoto, attingendo a fonte favorevole, definisce basileus, è

infatti in realtà una creatura di Ippocrate, che tiene, per suo mezzo, sotto controllo una città che solo «formalmente» è alleata, secondo una prassi che il signore di Gela adotta nelle varie città espugnate: nell'ordine Callipoli e Naxos; quindi Zankle; poi Leontini e Siracusa; poi parecchie popolazioni barbare 46. Di esse (sottolinea Erodoto) nessuna riuscì a sfuggire la servitù ad Ippocrate, tranne Siracusa, che però dovette cedere Camarina. Si comprende pertanto come nei confronti di Scite e dei suoi sostenitori geloi si dovessero già da tempo nutrire non poche preoccupazioni nella vicina Rhegion, ove si consolidava al potere, intorno al 494 a.C., assumendo la tirannide della città, Anaxilas 77. Poco sappiamo dei suoi esordi, a prescindere da una testimonianza di Erodoto 48 pertinente i rapporti che Anassila ebbe nello stesso anno con un potente gruppo di emigrati sami che sfuggendo al dominio persiano giungevano in Occidente, su invito degli Zanklei, e che erano sbarcati a Locri: prima tappa nel viaggio verso la Sicilia, ove avrebbero dovuto, secondo l’invito ricevuto, procedere alla colonizzazione di Kalè Akté, sulla costa settentrionale

dell’isola. Si è supposto che Anassila sia stato aiutato (per andare al potere) dai Sami. Ma non vi sono elementi di convalida, se non il fatto (che potrebbe però indicare semplicemente l’alleanza subentrata) che la monetazione reggina presenta ad un tratto tipologia e metro simili a quella samia. Erodoto, dal suo canto, afferma che Anassila, il quale era in contatto con gli Zanklei e con Scite, procurò ai Sami l'informazione dell'assenza di Scite e del suo esercito da Zankle, e che essi — da

lui persuasi — si affrettarono ad occuparla, accantonando il progetto della colonizzazione di Kalé Akté. In effetti la parte che Anassila ricopri in queste vicende rimane piuttosto oscura per la frammentarietà della troppo succinta testimonianza di Erodoto circa l'ostilità esistente tra Anassila e gli Zanklei di Scite. Sembra ovvio tuttavia che Anassila, anche se non ha ancora assunto quel ruolo di difensore della grecità ionico-calcidese che gli sarà peculiare qualche anno dopo, ambisse già a quel dominio totale dello Stretto che era indispensabile per l'incremento della potenza reggina e che notevole pertanto fosse l'allarme suscitato in lui e nei suoi soste50

nitori dai tentativi egemonici verso le coste tirreniche da parte della potente Gela 5. Il successo di Ippocrate nell' area dello Stretto, con la vittoriosa azione su Zankle e la soggezione del governatore di Zankle a Gela, costituiva senza dubbio una minaccia per la prosperità economica di Rhegion: interessata direttamente ai profitti provenienti dal commercio marittimo, da pedaggi e da rifornimenti, la città era legittimata a temere un calo di benessere e fenomeni di disoccupazione e di depressione. δὶ che fondata sembra l'ipotesi formulata di recente che proprio tale minaccia avesse contribuito a rafforzare in Rhegion la linea politica nuova espressa da Anassila attraverso la creazione di un regime dai toni democratici, imperniato su un criterio dinastico e sull'obiettivo dell'aggregazione di Zankle. In ogni caso le informazioni che Anassila fornisce ai Sami sulle vicende zanklee e la connessa esortazione alla conquista di Zankle indicano che egli ha già cominciato la sua battaglia «diplomatica» per il possesso dello Stretto, contro le aspirazioni del potentissimo Ippocrate. 3. Problemi e caratteri della occupazione samia. Oltre che dal dettagliato racconto di Erodoto, le vicende che portarono i Sami in Zankle sono tramandate da un breve passo di Tucidide e da un accenno

fugace di Aristotele. Di scarso rilievo, ai fini della ricostruzione dell’insediamento dei Sami (dalla Locride e da Rhegion) in Zankle, è il passo in cui Tucidide 5, dopo avere delineato la colonizzazione di Zankle, accenna brevemente alle sue mutazioni etniche, affermando testualmente: «Gli abitanti di Zankle furono espulsi da parte dei Sami e di altri Ioni che, sfuggendo al dominio persiano, giungevano in Sicilia». Ben più importanti i dettagli che lo stesso Tucidide, riferendosi a un periodo successivo, fornisce sulla espulsione dei Sami da Zankle e sull'occupazione della città da parte di Anassila (vicende che non sono ricordate né da Erodoto, né da Aristotele): « poco tempo dopo, Anassila, tiranno di Rhegion, cacciati i Sami e ricolonizzata la città con uomini di varia provenienza, mutò la sua denominazione in Messene, dal nome della sua antica patria». Alle modalità dell’ occupazione samia di Zankle accenna fugacemente un inciso brevissimo ma illuminante di Aristotele che, in un contesto relativo ad esempi di staseis originate dalla commistione etnica, tramanda che «gli Zanklei, dopo avere accolto i Sami, furono da essi scacciati» 71.

Ma ritorniamo alla indicazione di Erodoto che offre del trasferimento dei Sami in Occidente e della loro occupazione di Zankle il racconto più completo e dettagliato. Secondo la sua testimonianza, dopo la punizione inflitta a Mileto dai Persiani vittoriosi a Lade, sembrò opportuno ai Sami di accettare la proposta di fondare una colonia a Kalè Akté, in Sicilia, pervenuta «in quello stesso periodo» da parte degli Zanklei, e di partire per l'Occidente, prima che i Persiani riportassero in Samo il tiranno Eace 52.

Si tratta, secondo la definizione di Erodoto, di elementi «abbienti» (οἵ τι ἔχοντες: Herod. VI 22,1), ai quali non era tornata gradita la ritirata decretata 51

dagli strateghi sami a Lade. Intollerante verso il ripristino di un regime tirannico e filo-persiano in Samo, il folto gruppo di benestanti profughi sami doveva essere legato ad attività marinare e ad imprese mercantili in particolare, come sembra provino sia il cospicuo numero di navi di cui disponeva, sia la facilità con cui si distaccó dalle sue terre (difficile da intendere in chi avesse fatto soprattutto assegnamento su possessi terrieri), sia il possesso di monete d'argento di gros-

so taglio in parte, forse, portate da Samo, in parte coniate in Occidente (così ad esempio la serie con Prua di nave), si che non infondata potrebbe essere l'ipotesi di un trasporto cospicuo di lingotti d'argento che i partenti dovevano detenere già in Samo e che dovettero imbarcare sulle navi allorché decisero di passare in Occidente ?.. Non sarà inopportuno, ai fini di una migliore comprensione dell'arrivo e del comportamento dei Sami a Zankle, aprire una breve parentesi che possa illuminarci sul problema della loro identità. Il tentativo di trovare nella storia di Samo le tracce di una loro connotazione sociale è stato di recente compiuto con soddisfacente risultato 54. La ricostruzione dei contrasti civili sami sia in età di Policrate sía subito dopo la sua caduta & nota da tempo: alle lotte tra le eterie aristocratiche erano seguite — in età di Meandrio — le rivendicazioni (in senso democratico) dei piccoli proprietari e del proletariato rivoluzionario di pescatori (i mytbietai), sintomo di un processo di borghesizzazione della vita economica e sociale di Samo durante la parentesi tirannica di Meandrio, in cui prevale, sia pure in maniera effimera, un momento democratico, portatore del concetto di isonomia 55. Eliminati dall'intervento dei Persiani (che consegnarono l'isola a Silosonte e che, temendo ogni esperienza isonomica, appoggiavano ovunque 56 gli esponenti dell'oligarchia fondiaria), i contrasti sociali, apparentemente quietati sotto il governo del filo-persiano Silosonte, dovettero riaffiorare dopo di lui, come indica la espulsione del figlio di Silosonte, Eace 57. L'opposizione ad Eace ed alla Persia era alimentata dal malcontento vivo in vari strati sociali che annoveravano piccoli proprietari terrieri, schiacciati dalla pressione fiscale persiana, braccianti, pescatori, rematori, piccoli e medi benestanti, possidenti di capitale liquido. Tra essi soprattutto i «possidenti» di beni mobili, che detenevano alcunché di consistente in denaro liquido ed erano legati al commercio e al mare (più che i possessori di beni fondiari legati alla terra), dovevano essere assai ben disposti ad evitare il ritorno alla dominazione persiana emigrando in Occidente. I vari esponenti della categoria mercantile samia in verità erano direttamente o indirettamente, secondo i livelli economici, i più colpiti dal ripristino della dominazione persiana, la quale imponeva di mettere navi e dipendenti a disposizione dell'apparato militare persiano e di versare la epitaxis del tributo 98. A costoro (e soprattutto agli imprenditori agiati e a quelle categorie artigiane e portuali che a loro si appoggiavano), io credo vada ricondotta sia la propaganda contro la dominazione persiana (e contro il regime tirannico), sia la guida nelle

aspirazioni verso una gestione più democratica del potere in Samo. Che essi siano da identificare con gli abbienti che Erodoto indica quali esponenti della spedizione in Occidente non sembra illegittima ipotesi, special52

mente ove si consideri la immediatezza con cui essi lasciarono l'isola di Samo e la pronta disponibilità di navi, di denaro liquido e di mezzi — ivi comprese le maestranze — necessari ad un lungo viaggio, quale soprattutto i ceti imprenditoriali potevano avere. Tanto pià probabile sembra poi l'ipotesi su tali condizioni sociali degli emigrati sami ove si rifletta al loro comportamento, una volta giunti in Occidente. Informati da Anassila della debolezza militare di Zankle, e da lui consigliati, essi abbandonarono subito il progetto iniziale di fondare una colonia samia a Kalè Akte per tentare l'avventura del possesso di Zankle: avventura che, se appare inspiegabile e certamente non congeniale per un gruppo di agricoltori venuti in Occidente alla ricerca di pingui terre da dissodare (ché tale era la proposta degli Zanklei), poteva invece essere allettante per un gruppo di mercanti. Che i Sami non ambissero terre, bensì traffici marinari e attività di com-

mercio e di pirateria, quali dovevano rientrare nelle loro tradizioni, lo conferma — come vedremo subito — il successivo loro atteggiamento verso Ippocrate di Gela. I Sami dunque penetrarono in Zankle pacificamente ??, approfittando — . come dice Erodoto — dell'assenza del governatore Scite e del suo esercito: non mancó loro probabilmente né l'appoggio dei cittadini zanklei ostili a Gela ed a Scite, né forse, di quei trecento notabili che Scite aveva soppiantato nel governo della città e che nel racconto di Erodoto vengono proposti poco dopo da Ippocrate per la pena di morte. A costoro con ogni probabilità risaliva l'invito inoltrato ai Sami a passare dall’Egeo in Sicilia, per la colonizzazione della chora di Kalè Akte: l'espansione militare verso ovest doveva essere infatti difficile per gli Zanklei per la resistenza indigena, indicata, sia pure fuggevolmente, da Erodoto 9; se a ciò aggiungiamo che dal sud incalzava la minaccia geloa, comprendiamo come i governatori di Zankle, prima di essere sopraffatti da Scite, avessero ritenuto opportuno incoraggiare una immigrazione dalla Ionia in Sicilia che ritornasse a loro vantaggio ©.

4. La spartizione samio-geloa di Zankle. Se veramente i Sami trassero aiuto dalla vecchia classe dirigente zanklea, essi tuttavia non ne coronarono le aspettative.

Tra le righe del racconto pur succinto di Erodoto si coglie lo spregiudicato

realismo con cui i Sami capirono che conveniva loro accordarsi col piü forte. E poiché tale si riveló Ippocrate, accorso a Zankle, su richiesta dello stesso Scite (che, per la sua scarsa abilità, fu deposto e incatenato da Ippocrate), essi non esitarono a venire a patti con lui impegnandosi a mantenerli con giuramenti: a Ippocrate furono ceduti la metà dei beni in suppellettili e schiavi esistenti in città, vale a dire la metà di quanto era nelle case, con le case medesime, (praticamente la metà della città), e «tutto ciò che era nei campi», cioè tutta la chora coltivabile, con gli strumenti, i beni, il raccolto €. 53

Venuta meno la chora (lasciata ad Ippocrate), ai Sami rimaneva il possesso della sola polis di Zankle, o meglio di metà di essa: soprattutto — io credo — dovettero trarne il possesso esclusivo del porto, cioè la possibilità di sfruttare quelle risorse per le quali disponevano delle necessarie attrezzature: le navi (effigiate in talune delle loro monete) e il capitale monetario, cosi copiosamente a noi pervenuto. I pià ragguardevoli, in numero di trecento, tra gli Zanklei, senza dubbio colpevoli agli occhi di Ippocrate di avere favorito (con i piü degli Zanklei, per ció — io credo — imprigionati) la penetrazione samia 9, furono ceduti, dopo gli accordi, come prigionieri ai Sami che, invece di ucciderli, — secondo la proposta geloa — li espulsero dalla città *. In realtà in Zankle non c'era più posto per essi: anche se Erodoto non lo precisa, il comportamento delle due parti protagoniste degli accordi indica che i trecento — da identificare con la vecchia classe dirigente zanklea — dovevano essere i legittimi proprietari delle terre cedute (col raccolto) ad Ippocrate e degli altri beni (case, suppellettili, schiavi della città) divisi a metà fra Ippocrate e i Sami. Anche per ció essi oltre che per i loro insuccessi dovevano morire (come proponeva Ippocrate) o andare in esilio (come de-

cretarono invece i Sami). In altre parole: la confisca dei beni della vecchia classe

dirigente (le cui proprietà terriere passavano ad Ippocrate, mentre case e servi della città venivano divisi tra lui e i Sami) ne comportò, in uno con gli errori politici e militari connessi, la totale eliminazione. Ed è ovvio che la loro presenza fosse intollerabile anche per i Sami, cui non doveva garbare, oltre tutto, di dividere con altri eventuali proventi dai pedaggi e dai traffici dello Stretto. Per quanto riguarda i rapporti con Rhegion, dai documenti numismatici sembra prendere corpo l'indicazione che il collegamento tra i Sami e Anassila, pur se indebolito dal trattato giurato con Ippocrate, non si interruppe. Il fatto che le monete di Rhegion ripetano metro e tipi sami e che siano simili alle monete coniate dai Sami a Samo e, forse anche a Zankle 9, rende legittima l'opinione

che i collegamenti tra Zankle e Rhegion si siano mantenuti in maniera più viva ed intensa di quanto si possa pensare valutando le sole fonti letterarie. Né dovrà trarci in inganno il fatto che, cinque anni più tardi, morto Ippocrate, in un quadro politico e militare profondamente mutato, gli stessi Sami furono allontanati da Zankle da un gruppo di invasori Messeni inviati da Anassila. Mi sembra opportuno a questo punto riepilogare i principali risultati emersi dalla nostra indagine: 1) ISami, giungendo a Rhegion all’incirca nel momento in cui Anassila assunse il potere, si soffermarono per qualche tempo in città magari aiutando Anassila a consolidarsi; qui (dopo breve periodo di stasi) ricevono da lui l'informazione che Zankle & momentaneamente sguarnita di forze militari e forse — come tramanda Erodoto — la istigazione ad impossessarsene; non & da escludere che ad Anassila — che non ha più bisogno di loro — potesse tornare scomodo o pericoloso il prolungarsi della loro permanenza, o che Anassila ritenesse di potere controllare Zankle per mezzo dei Sami. Dallo svolgimento delle vicende e dalla testimonianza stessa di Aristotele, si evince che la penetrazione dei Sami in Zankle fu pacifica, e che quindi i nemici di Scite e di Ippocrate in Zankle era54

no ben disposti verso di loro. I Sami dunque penetrarono in Zankle con la collaborazione di quegli Zanklei che con ogni probabilità li avevano invitati in Sicilia per la colonizzazione di Kalè Akté e che, deposti da Ippocrate, vedevano ormai nei Sami eventuali alleati contro di lui.

2) Penetrati nella città, i Sami devono fronteggiare Ippocrate, che sopraggiunge col suo esercito su richiesta di Scite. Operando da padrone, come chiaramente risulta da Erodoto, Ippocrate esilia Scite per la sua incapacità, imprigiona la maggior parte degli Zanklei, e intanto viene ad accordi con i Sami, ai quali consegna i trecento più cospicui cittadini (certamente i proprietari delle terre e delle case di Zankle), perché li uccidano; i Sami salvano loro la vita ma li espellono dalla città. 3) In base alle trattative di pace, sancite con giuramenti, i Sami cedono ad

Ippocrate metà delle suppellettili e degli arredi e degli schiavi degli Zanklei (vale a dire «metà di ciò che è nelle case» con le medesime che tale metà contengono), e inoltre tutto il raccolto, i beni e gli arredi esistenti nei campi (cioè la chora col-

tivabile), e in cambio si impossessano totalmente del traffico sullo Stretto, e dei relativi proventi, come conferma tra l’altro la coniazione di talune serie samie a Zankle (con i tipi Scalpo di leone/Prua di nave, di metro euboico-attico quale era in uso a Gela), indispensabili per la gestione di tale traffico. I tipi monetali sami (Testa di leone/testa di vitello), propri dell'isola di Samo, si affermano intanto nella zona e si ritrovano anche sulle serie reggine. 4) Dai documenti numismatici si evince che Anassila svolge una linea economica e mercantile comune con Zanklei e Sami. Non & escluso che pedaggi, dazi, proventi dal pilotaggio delle navi che attraversavano lo Stretto fossero divisi. Per tale via si spiegherebbero infatti la monetazione tipologicamente «affine» nelle due città e l'uso in entrambe di un tetradramma tagliato su un piede di gr. 17,30, indicativi di una comunanza di area e di interessi economici che & preludio a quell'insediamento messenico e a quell'allontanamento dei Sami da Zankle (in cui Ánassila si inserirà come signore) che saranno attuati allorché — morto Ippocrate — Anassila ha la possibilità di intervenire militarmente, eliminando una «società» in affari e una divisione di guadagni economicamente scomoda, finora tollerata a causa dell'alleanza samio-geloa. 5) Le concessioni dei Sami ad Ippocrate (dai Sami stessi fissate) si chiariscono sia con la potenza dell'esercito ippocrateo (il pià forte della Sicilia) e con l'esigenza dei Sami di assicurarsi un alleato alle spalle, sia con la loro stessa natura di mercanti e di benestanti quale si configura dal possesso delle cospicue serie monetali e dalle indicazioni di Erodoto. Interessati ad attività di mercato e di controllo dei traffici, e a proventi dal pedaggio e dal pilotaggio nei porti (pià che alla coltivazione delle terre pingui della chora zanklea) li indicano del resto le stesse clausole erodotee del trattato di pace, concordato con Ippocrate. 6) Il comportamento di Ippocrate indica quanto vivo fosse il timore geloo per le eventuali conseguenze di una alleanza tra i Sami ed Anassila, che in realtà avrebbero potuto insieme formare un punto ragguardevole di resistenza all'espansionismo armato di Gela. Questo timore chiarisce bene l'atteggiamento di Ippocrate verso Scite e verso i capi di Zankle e l'alleanza «giurata» con i Sa55

mi, dai quali Ippocrate riuscì ad ottenere, per la consistenza del proprio esercito e per la sua abilità, concessioni così notevoli di territorio e di beni, che la pace

riuscì per i vincitori sami piuttosto onerosa, se è nel vero — come io credo — la interpretazione delle tangenti indicate da Erodoto, come cessione di tutta la chora coltivata (indicata dai suoi campi e dai relativi prodotti), e di metà delle case della città stessa (indicate dai loro arredi e suppellettili e dai loro schiavi). Che sia questa l’interpretazione esatta del testo erodoteo lo conferma il fatto che Ippocrate conservò in Zankle tanta potenza da riuscire ad imporre — nel momento stesso dell’alleanza o in un momento di poco posteriore (non è chiaro) — un governatore di provata onestà, Cadmo 56, figlio di Scite, (laddove quest'ultimo, per la debolezza dimostrata di fronte ai Sami e probabilmente di fronte ai trecento notabili zanklei, era stato destituito e relegato ad Inico). Proveniente da Erodoto, la notizia si trova in un contesto che pertiene alle trattative fra i Greci e Gelone al tempo della seconda guerra persiana, durante la quale Cadmo fu inviato da Gelone con tre navi in missione di fiducia a Delfi. «Cadmo — afferma Erodoto — aveva ricevuto dai Sami la città di Zankle, nella quale si era stanziato», dopo avere deposto spontaneamente la tirannide a Cos. Poiché sembra impossibile che Cadmo potesse rivestire una qualche autorità a Zankle senza il consenso eT appoggio di Ippocrate (sia che ciò avvenisse nel momento dei patti, sia che avvenisse — come è più probabile — poco tempo dopo) sembra legittimo ipotizzare che il governo di Cadmo riguardasse tanto il gruppo samio quanto quel gruppo cittadino che ricadeva nell'area di influenza geloa, conciliando nella sua persona (poco dopo il trattato) la bipolarità del possesso di Zankle divisa fra i Sami ed Ippocrate. Mi sembrano inoltre degne di particolare rilievo le seguenti considerazioni: 1) il fatto che l'egemonia geloa *' su Zankle si sia mantenuta anche durante l'occupazione samia (che duró circa cinque anni) trova riscontro anche nelle serie monetali che i Sami coniano in Zankle secondo il metro usato da Gela, e

senza leggenda, quasi a dimostrare che tali serie non esprimono che una parte della città. Coniando secondo il sistema ponderale euboico-attico in uso a Gela, i Sami denunciano l'abbandono sia del sistema c.d. miocroasiatico, proprio della monetazione zanklea fin dalle sue origini, sia del sistema proprio dell'isola di Samo. Le serie che ripetono tipi peculiari sami (con la variante dello scalpo di leone sul rec£o e della prua della nave sul verso, probabile riferimento al loro viaggio) sono caratterizzate da quattro diverse lettere alfabetiche: esse indicano con ogni probabilità il susseguirsi di quattro emissioni per uno spazio di quattro anni e presentano quale nominale pià importante il tetradramma, di gr. 17,30 circa. 2) Va sottolineata l'introduzione del nuovo piede ponderale samio-zankleo cui dianzi accennavo. Pur mantenendo come unità di base il c.d. piede microasiatico (con una dramma di gr. 5,63), Rhegion conia infatti tetradrammi di gr. 17,30 circa, assai vicini al peso delle nuove serie coniate dai Sami a Zankle, mentre notevole appare sul piano tipologico l'affinità con i tipi propri di Samo: la testa di leone e la testa di vitello. Nell'insieme, risulta evidente l'interscambio commerciale samio-zankleo: una preziosa premessa per l'attuazione di quel programma egemonico che, agli inizi del 493 a.C., Anassila aveva tentato di attuare 56

con maneggi diplomatici, accantonandolo in attesa del proprio consolidamento e in attesa che gli eventi siciliani maturassero in senso a lui favorevole. Ultima, fondamentale, considerazione: l'egemonia di Ippocrate e la sua alleanza con i Sami eliminó definitivamente dalla scena la vecchia classe dirigente zanklea che, espulsa dalla città, fu sostituita da elementi filogeloi e da elementi sami, gli uni e gli altri peraltro assai vulnerabili perché privi di intrinseca forza e scarsamente amalgamati.

5. L'intervento di Anassila e il mutamento del toponimo.

Che i Sami fossero considerati almeno in Rhegion «economicamente» scomodi e, tutto sommato, militarmente e politicamente assai deboli, lo indica la successiva «operazione» che Anassila, una volta morto Ippocrate, compie nel 488 a.C. Essa prova altresì che Anassila non aspettava che l'occasione per intervenire. Questa si presentó allorché un gruppo di emigranti messeni, in fuga dal Peloponneso per gravi contrasti con Sparta, si rifugiò a Rhegion, fornendo ad Anassila la possibilità di conseguire, per loro mezzo, l'espulsione dei Sami e l’invasione violenta di Zankle. L'impresa dovette essere agevolata dalla crisi che travaglió Gela subito dopo la morte di Ippocrate 68, provocandone il temporaneo disinteresse nella zona dello Stretto. | Espugnata dopo lotte cruente per terra e per mare la città per mezzo dei conterranei messeni, Anassila ne cambiò il nome in Messene, non tanto in ricordo della sua terra, come dice Tucidide 65, quanto soprattutto per sancire il predominio del nuovo ‘etbros da lui insediato,

ed indicare ufficialmente che una

nuova epoca si inaugurava nella storia della città. Allora nella monetazione di Messene, assieme alla nuova denominazione

etnica (MESSENION) appare zz toto la tipologia reggina, e l'abbinamento della testa di leone di prospetto (di ispirazione samia) con la protome di vitello di profilo a s., legata forse alla saga italica di Eracle "9. Da questo momento Messene e Rhegion coniano serie perfettamente uguali nei tipi e nel metro, distinte solo dalla leggenda: MESSENION (per Messene); RECINON (per Rhegion): una conferma preziosa che Anassila riunì le due città dello Stretto in un unico Stato, nel quale esse occuparono eguale posizione, continuando entrambe a battere moneta a proprio nome. Mi sembra opportuno, a questo punto, riepilogare brevemente le conclusioni concernenti le implicazioni reggine della storia di Zankle nel V sec. a.C. Occorre in merito distinguere due momenti: il primo in cui Anassila, arbitro già del potere, ma ancora in via di consolidamento, agisce come portavoce degli interesi si della vecchia classe dirigente zanklea accantonata, informando i Sami che Zankle & sguarnita di truppe ed esortandoli a penetrarvi. Non & chiaro da Erodoto se dovessero aiutare l'oligarchia zankea o sostituirsi ad essa: probabilmente, nel momento in cui si decideva l'intervento, né i Sami né Anassila erano in

grado di prevedere le reazioni di Ippocrate, né quella di Scite e del suo esercito. 57

In ogni caso, dopo l'intervento energico di Ippocrate, la vecchia classe dirigente zanklea risulta abbandonata alla distruzione. Nel secondo momento (che tiene dietro alla morte di Ippocrate), Anassila svolge nelle vicende politiche zanklee quel ruolo di protagonista che era stato già di Ippocrate. Approfittando dello slittamento degli interessi geloi verso l'area siracusana ove Gelone quale successore di Ippocrate attende febbrilmente a costituire il nuovo centro dell’impero geloo, e approffittando altresì del momentaneo vuoto di potere nella cuspide zanklea ancora troppo distante dalle mire di Gelone 71, Anassila si inserisce direttamente nelle vicende di Zankle e, vinta in

battaglia l'accanita resistenza degli abitanti, vi trapianta elementi (messeni) a lui fidati; cambiato il nome della città in Messene, conia in essa e in Rhegion monete con tipi simili ma con leggenda legata ai due distinti ezbze. Oscuro rimane il problema delle istituzioni di Zankle e della carica con la quale Anassila avrebbe legittimato il suo potere assoluto. Né & noto fino a che punto egli abbia rispettato la sovranità degli abitanti di Zankle e se dall'esilio siano mai rientrati i trecento notabili allontanati dai Sami, pur se l'insediamento dei coloni messeni indica come improbabile tale eventualità. Con ogni probabilità i nuovi abitanti provenienti dalla Messenia e quanti rimanevano dei vecchi abitanti zanklei riconobbero la direzione militare e la epirzeleia di Anassila, ma è da escludere che Zankle abbia perduto l'indipendenza fondendosi con la comunità reggina, come indica chiaramente, mi pare, il diritto di Zankle a monetare a proprio nome.

Si realizzava nella persona di Anassila, signore dell'una e dell'altra città ?? un potente principato, destinato a scontrarsi con la politica egemonica di Siracusa, venuta in potere di Gelone, l'ex luogotenente di Ippocrate di Gela. E non é forse un caso che la tipologia monetale propagandasse (secondo una suggestiva ipotesi) nell'immagine del vitello una saga che, collegando il dio Eracle con lo Stretto, risultava «ambientata» in esso, quasi ad indicarne la comunanza di governo e di interessi economici. Alla coalizione di Gelone con il fratello Gerone, signore di Gela, e con il cognato Terone, signore di Agrigento, Anassila rispose coalizzandosi a sua volta con il suocero Terillo, signore di Himera,e con i Cartaginesi, ma non partecipò alla battaglia di Himera, vinta dalle forze alleate comandate da Gelone 75. E al fratello di lui, Ierone, successo a Gelone al potere in Siracusa nel 478

a.C., Anassila dava in moglie la propria figlia 74, quasi a sancire, ora che la potenza siracusana è giunta all’acme, la propria deferente alleanza. Scomparsa la denominazione di Zankle, la città, divenuta Messene, veniva a gravitare, assieme a Rhegion, nell’orbita della potenza siracusana. Ma solo do-

po la morte di Anassila e dei successori ciò comporterà la dorizzazione del nome (Messana), e la trasformazione, almeno fino al 460 circa a.C, della opulenta città

marinara in centro di raccolta dei mercenari espulsi dalle città siceliote 75,

58

1 Sui problemi della storia di Zankle (oltre alle opere di carattere generale, quali L. PARETI, Sicilia antica, Palermo 1959; J. BERARD, La colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile, Paris 1957; S. ConsoLo LANGHER, Contributo alla storia della antica moneta bronzea in Sicilia, Milano 1964; M.I. FinLEy, History of Sicily, London 1968, (trad. it. Bari 1970), si vedano soprattutto: E.S.G. RoBInson, Rbegion-Zankle-Messana and the Samias, in «JHS» LXVI (1946), p. 13; G. VarLET, Rbégion et Zancle, Paris 1958; E. MANNI, Reggio e Messana nella prima metà del V secolo a.C., in «Klearchos» X (1959), pp. 61 ss.; ID., Sicilia e Magna Grecia nel Vsecolo, in «Kokalos» XIVXV (1968-69), pp. 95 ss.; Ὁ. MappoLi, I/ VI e il V secolo a.C., in Storia della Sicilia, II, Napoli 1979, pp. 31-33 e passim; M. Price-N. WAGGONER, Archaic Greek Coinage. The Asyut Hoard, London 1975; C. RAccUIA, Per una connotazione economico-sociale dei Sami insediatisi in Zankle, in

«Kokalos» 1979, pp. 188 ss.; D. ASHERI, Rimpatrio di esuli e ridistribuzioni di terre nelle città siceliote, ca. 466-461 a.C., in «Φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni», Ro-

ma 1980, pp. 145-158; G. DE SENSI, Contrasti etnici e lotte politiche a Zankle-Messene e Reggio alla caduta della tirannide, in «Athenaeum» LIX (1981), pp. 38 ss. 2 Sull’esistenza di un insediamento stabile nel territorio messinese nei pressi di Montalto, fin

da epoca neolitica, si veda O. PATA, Su una stazione neolitica scoperta nell'abitato di Messina, in «Atti Acc. Peloritana, Classe di Sc. Fis. Mat. e Nat. » XLVIII (1947), pp. 2-4. Per le testimo-

nianze archeologiche riferibili alla prima età del bronzo, C. ScIBoNA, «Boll. di Paletnologia Ital.» XII 80, Roma 1971, pp. 213-226. Si veda anche BERNABÒ BREA, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1972, pp. 18-95.

? Sulla importanza della via dello Stretto nei contatti tra Grecia ed Etruria in epoca arcaica, C. TRONCHETTI, Contributi al problema delle rotte commerciali arcaiche, in «Dialoghi di Archeologia» 1973, pp. 5-15. (Per la diffusione della ceramica etrusca a Zankle, oltre che a Lipari e a Naxos, si vedano anche M. PaLLOTTINO, La Sicilia fra l’ Africa e l’Etruria: problemi storici e culturali, in «Kokalos» 1972-73, pp. 54 ss.; G.M. Bacci, Messina. Scavi a cura di G. COLONNA, in «Studi etru-

schi» 1978, p. 578). Circa il valore strategico di Zankle quale sentinella dello Stretto, si veda inoltre F. SARTORI, L'evoluzione delle città coloniali in Occidente, in Storia e Civiltà dei Greci, 111, Mila-

no 1974, pp. 130 ss. Sul ruolo dei Calcidesi nei contatti tra la Grecia e l'Occidente, di recente R. MARTIN, G. VALLET, G. Voza, Le colonie greche di Sicilia e il mondo mediterraneo, in Storia della Sicilia, I, Napoli 1979, pp. 449 ss. Sul problema interpretativo della colonizzazione greca d'Occidente in generale, si vedano S. HUMPHREyS, I/ commercio in quanto motivo della colonizzazione greca in Italia e in Sicilia, in «RSI» LXXVII (1965), pp. 421 ss.; E. LEPORE, Osservazioni sul rapporto tra

fatti economici e fatti di colonizzazione in Occidente, in «Dialoghi di Archeologia» 1969, pp. 175 ss. ^ Thuc, VI 4,5: Ζάγκλη δὲ τὴν μὲν ἀρχὴν ἀπὸ Κύμης τῆς ἐν ᾿᾽Οπικίᾳ Χαλκιδικῆς πόλεως λῆστων ἀφικομένων ᾧκίσθη, ὕστερον δὲ καὶ ἀπὸ Χαλκίδος καὶ τῆς ἄλλης Εὐβοίας πλῆθος ἐλθὸν ξυγκατενείμαντο τὴν γῆν᾽ καὶ οἰκισταὶ Περιήρης καὶ Κραταιμένης

ἐγένοντο αὐτῆς, ὁ μὲν ἀπὸ Κύμης, ὃ δὲ ἀπὸ Χαλκίδος. 5 J. BERARD, op. cit., 98.

6 Eus., ed. Schóne, p. 80; ed. Helmut, p. 181: i» Sicilia Silinus et Gangle conditae sunt. ? Cfr. VALLET, op. cit., pp. 54 ss.; 65. Lo studioso suppone che nella tradizione riportata da Tucidide Cuma abbia preso il posto di Pithekousai, ereditandone la tradizione, per una assimilazione, che si sarebbe verificata nel corso del sec. V (in cui Pithekousai non è più che una

semplice dépendance di Cuma), di quella a questa. Egli pone il primo insediamento subito dopo Pithekousai, cioè dopo il 770 a.C.; la colonia vera e propria, invece, dopo Naxos e Megara, ma prima

di Siracusa. Qualche dubbio sulla attendibilità del primo insediamento è stato avanzato dal Manni (G. Vallet, Rbégion et Zancle (recens.), in «Riv. Filol. Class.» 1960, pp. 211 ss.): poichè EforoEllanico, in contrasto con Tucidide, ignoravano l'intervento di Cuma campana nella fondazione di .

Zankle, il Manni suppone che Antioco, il quale non poteva ignorare del tutto la tradizione della maggiore antichità di Zankle rispetto a Siracusa, sarebbe ricorso, per giustificarla, ad un insedia-

mento di pirati e, non potendo prenderli da Naxos (che egli pone solo un anno prima di Siracusa) sarebbe ricorso a Cuma di Campania. Tuttavia, rifiutare l'attendibilità della tradizione tucididea in ordine ad un primigenio insediamento cumano (o meglio, accogliendo la correzione del Vallet,

pithekousano) in Zankle prima della vera e propria fondazione della città con elementi calcidesi e nassi (che giustamente il Manni pone prima di Siracusa, ma dopo Naxos e Megara, non lontano dal

753 a.C.) equivarrebbe ad una sottovalutazione dell'importanza che il passaggio dello Stretto do59

vette subito acquistare, già fin dagli anni intorno al 770 a.C., per i collegamenti con lo stanziamento campano. Il Manni medesimo del resto ammette la necessità di uno scalo lungo la rotta verso gli insediamenti di Campania, intorno al 770 a.C. 8 Paus. IV 23,7.

? Ps. Scymn. vv. 283-286, per il quale Zankle (con Leontini, Catane e Kallipolis) & una fondazione di Naxos. Notizie sulla fondazione di Zankle si trovano anche in Strab. VI 268 (che riferisce il nome piü antico di Zankle alla forma del sito e la indica come fondazione dei Nassi di Catane: «καλουμένη Ζάγκλῃ πρότερον διὰ τὴν σκολιότητα τῶν τόπων, Ζάγκλιον γὰρ ἐκαλεῖτο τὸ σκολίον, Ναξίων οὖσα πρότερον κτίσμα τῶν πρὸς Κατάνην». Altre notizie in Steph.

Byz. s.v. Ζάγκλη. Cenni su Zankle si trovano anche nel 1.11 degli Aitia di Callimaco (Oxyrb. Pap. XVII, n. 2080, vv. 60 ss.). 10 Diod. XIII 59 (in base a tale passo la isis di Selinunte, caduta nel 409/8 a.C., dopo 242

anni di vita, viene a porsi nel 650 circa, cioè 23 anni prima rispetto al dato di Tucidide, e la ktisis di Megara, fondata — come si precisa — cento anni prima di Selinunte, risulta al 751-50). 11 Per la esegesi dei dati cronologici antichi e per la ricostruzione delle due serie in Tucidide e in Diodoro, si vedano, tra gli altri, VAN COMPERNOLLE, in «Bull. Inst. Belg.» 1953, pp. 187 ss.; Ip. ibid. 1955, pp. 221 ss.; J. BERARD, op. cit., pp. 125 ss.; M.T. MaNNr Praamo, Sulla cronologia

delle fondazioni siceliote, in «Kokalos» III (1957), pp. 124-128. Sul problema cronologico di Zankle, e sul suo inquadramento nella pià ampia questione della priorità della colonizzazione calcidese nel Mediterraneo occidentale, anche in base ai risultati delle esplorazioni archeologiche, si veda

inoltre l'ampia messa a punto nel mio Contributo (cit.), pp. 5-11. Un riesame accurato della tradizione storiografica antica è dato di recente da M. MiLLEr, The Sicilian Colony dates, New York 1970. La più recente interpretazione del problema cronologico generale, in J. HEURGON, I/ Mediterraneo occidentale dalla preistoria 1972), pp. 363 ss.

a Roma arcaica (trad. it. Bari

12 VALLET-VILLARD, Les dates de fondation de Mégara Hyblaea et de Syracuse, in «Bull. Corr. Hell.» LXXVI

(1952), pp. 289-346; ID. Mégara Hyblaea, Paris 1964.

13 Si vedano: per Naxos «Arch. Anz.» 1954, p. 146; per Leontini «NSc.» 1884, p. 252; «Róm.

Mitt.» XIII (1898), pp. 340-345; J. BERARD, op. cit., p. 297, n. 31; per Zankle, «NSc.»

1929, pp. 38 ss.; per Mylai «Bull. Corr. Hell.» 1952, n. 4, p. 342; BERNABO BREA, in «Ampurias» 1953-54, pp. 203 ss.; G. VALLET, op. cit., pp. 84 ss.

14 Sui problemi della storia di Naxos si veda il mio recente saggio Naxos di Sicilia. Profilo storico, in «Φιλίας χάριν. Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, (cit.), pp. 539-572.

5 Eus. ed. Schöne, p. 80; ed. Helmut, p. 181. Per la identificazione di Chersoneso con Mylai e la relativa interpretazione cronologica, J. BERARD, op. cit., p. 98 e p. 114, n. 100. (Secondo l'ipotesi del Bératd, il nome originario di Chersoneso sarebbe stato sostituito dal nome Mylai in seguito all' insediamento dei Myletidai di Siracusa (i quali vi si sarebbero rifugiati dopo essere stati cacciati dalla loro città), che da Mylai avrebbero poi preso parte alla fondazione di Himera.

16 Sul problema cronologico, G. VALLET, op. cit., pp. 83 ss. Ritenendo arbitraria la identificazione di Chersoneso con Mylai, lo studioso propone - sulla base del materiale scoperto di recente (che sembra dello stesso periodo del pià antico materiale siracusano) - per la fondazione di Mylai la stessa data di Siracusa, cioé poco meno di 20 anni dalla fondazione stessa di Zankle.

Sul pericolo costituito dalla infiltrazione di elementi incineritori, portatori di una civiltà di tipo villanoviano (quali le necropoli di Mylai e di Pozzo di Gotto hanno rivelato) e sulla conseguente necessità, per Zankle, di difendersi con la costituzione di una colonia, si vedano BERNABO BREA, in «Ampurias» V-VI (1953-54), pp. 201-206; P. Orsi, in «BPI» (1946), pp. 74-76. 17 G. VALLET, op. cit., pp. 111 ss., in cui sono studiati i reperti (frammenti attici della secon-

da metà del sec. IV a.C.), provenienti da un'area prossima alla chiesa di S. Maria Alemanna, dalla zona più a sud, lungo la via S. Marta, e da un'altra area compresa tra le attuali vie Giordano Bruno e La Farina. 18 Si veda G. ScIBONA, in «The Princeton Encyclopedy of Classical Sites», Princeton-New Yersey 1976, p. 998 s.v. Zankle. L'insediamento occupa l'area dello is. 224, di fronte all'Hotel Reale.

Secondo P. Orsi, in «NSc.» 1929, pp. 38-46, sulla estremità della penisoletta di S. Raineri, nel punto in cui oggi si trova la stele della Madonnina, sarebbe sorto un santuario dedicato alla ninfa Pelorias il cui culto & attestato da alcune serie monetali (si vedano Rizzo, op. cit., tav. XXVII, n.

60

14; S. Cousoro LANGHER, Contributo, cit., p. 236, nn. 136-137). 1? E. GanniCI, in «Boll. del Circolo Numism. Napoli», Napoli 1952, p. 13. 20 Paus. IV 23,7: Ζάγκλην δὲ τὸ μὲν ἐξ ἀρχῆς κατέλαβον λῃσταί, καὶ ἐν ἐρήμῳ τῇ γῇ τειχίσαντες ὅσον περὶ τὸν λιμένα ὁρμητηρίῳ πρὸς τὰς καταδρομὰς καὶ ἐς τοὺς ἐπίπλους

ἐχρῶντο. 21 G. VALLET, op. cit., pp. 141-165; S. ConsoLo LANGHER, Contributo, (cit.), p. 23. 22 La via dello Stretto sostituisce ormai nei traffici marittimi e interstatali del tempo la prece-

dente rotta usata dalle navi puniche. Per l’azione di guida che la via fenicio-africana (secondo la direttiva Creta-Tunisia-Tirreno-

Etruria-Iberia) aveva svolto nei primi movimenti marittimi dei Greci, S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Firenze 1957, pp. 116 ss. Sull’abbandono di essa allorchè vie nuove (precisamente la

via dello Stretto e la via terrestre dal golfo di Taranto al golfo di Salerno) si dischiusero e divennero le vie «classiche» dell' Occidente, S. CALDERONE, L’alfabeto greco e i «barbari» d'Occidente, Mes-

sina 1955, pp. 14 ss.; 24; 50 ss.; S. ConsoLo LANGHER, Contributo (cit.), p. 7. 23 Sul carattere delle più antiche colonizzazioni greche di Occidente e contro la teoria che le città greche fondassero nuove colonie perchè costrette da crisi intestine, determinate dalla sovrappopolazione, S. HUMPHREYS, 11 commercio in quanto motivo della colonizzazione greca in Italia e in Sicilia (cit.) (con bibliografia precedente). Per la distinzione tra commercio acquisitivo e commercio competitivo, E. LEPORE, Osservazioni sul rapporto tra fatti economici e fatti di colonizzazione in Occidente, (cit.), pp. 175 ss. Sulla problematica, si veda anche E. WiLL, La grande Grèce, milieu

d’echanges, in «Economia e Società nella Magna Grecia», Atti del 12° Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1972, pp. 21 ss. 24 Sulle serie argentee arcaiche di Zankle, ancora fondamentale H.E. GreLow, Die Silberpragung von Zankle-Messana, in «Mitteil. der bayerischen Num. Gesellsch.» XLVIII (1930), pp. 1-54.

Sul problema della cronologia iniziale delle serie in Zankle (525 c.a.C.), e nelle altre città calcidesi dell'isola, Himera (sulla costa occidentale)

e Naxos (sulla costa orientale), aventi in comune con

Zankle il peculiare carattere di «empori», si vedano E.S.C. RoBINSON, in «HS», 1946, pp. 3; 17

(per Zankle); G. Rizzo, Monete greche della Sicilia, Roma 1956, pp. 158 ss; CAHN, Die Münzen der Sicilischen Stadt Naxos, Basel 1944, pp. 74 ss. (per Naxos c. 550 a.C.); L. BREGLIA, nell'intervento al Convegno su La monetazione arcaica di Himera, in «Atti del Conv. di Studi Num.» Napoli 1972 (per Himera 550/30 a.C.).

Sulla priorità della monetazione nelle tre città e sul collegamento tra fenomeno monetale e dimensione «emporica» di esse, con implicazioni di ordine sociale di particolare rilievo, S. CoNsoro LANGHER in «Atti del Conv. di Studi Numismatici» su Le origini della monetazione del bronzo in Si-

cilia, Napoli 1977-79, passim e nel vol. Contributo (cit.) pp. 12 ss.; 151 ss. e passim (ibid. i caratteri e le ragioni del sistema ponderale c.d. eginetico (o etrusco), proprio delle serie iniziali di Zankle, Naxos e Himera).

Sulla organizzazione della prima valuta d'argento a Naxos, Himera e Zankle e per la prova che la valuta e i relativi criteri di frazionamento; estranei a Calcide, ma simili a moduli della coeva monetazione etrusca, furono dettati non da esigenze di mercato interno, ma interstatale, si veda, oltre alla mia opera, già citata, anche N. PARISE, in La circolazione della moneta ateniese in Sicilia,

in «Atti del Conv. Intern. di Studi Num.» 3, Napoli 1967, pp. 111 ss. 2 Sulla posizione strategica di Zankle in un punto- -chiave per il dominio dello Stretto e per il controllo delle vie di comunicazione, e sulla importanza dello Stretto, in particolare, G. VALLET, op. cit., pp. 163 ss., 183 ss. Sul ruolo dello Stretto nei rapporti tra la Grecia e l'Occidente si vedano anche MARTIN- VALLET- Voza, in Storia della Sicilia (cit.), I, pp. 456 ss. Sulla funzione di transito

e di smistamento dei prodotti provenienti dalle due aree del Mediterraneo | per i porti di Zankle e di Rhegion, si veda di recente anche F. SARTORI, Riflessioni sui regimi politici in Magna Grecia dopo

la caduta di Sibari, in «PdP» 1973, p. 151. 26 Cfr. supra, nn. 15-16 (con le differenti proposte cronologiche di Vallet e di Bérard). 27 Thuc. V 44; 79; Diod. XII 5; Strab. VI 257. 28 Cfr. infra, nota 33.

29 Strab. VI 273. 30 Diod. XII 54,4. 31 Diod. XIII 62,4. 61

2 Sull’attendibilità della cronologia diodorea riguardo alle ktiseîs siceliote, una messa a punto nel mio Contributo (cit.), pp. 15 ss. 33 Thuc. VI 5,2; Strab. VI 272; Ps. Scymn. 283-290. Sulla colonizzazione dorica di Himera, intorno al 476 a.C., S. ConsoLo LANGHER, Gl Hera-

kleiotai ek Kephaloidiou, in «Kokalos» VII (1961), pp. 189 ss. Sulla cronologia di Himera si veda inoltre G. VALLET, op. cit., p. 86. Contra, DuNBABIN, The Western Greeks, Oxford 1948,p. 500, n. 1. Per la problematica relativa allo sviluppo della città, AA.VV. ‘ Himera Ie Himera IT, Roma 1970 e 1976. 34 Sulla tecnica incusa delle città di Magna Grecia, C.H.V. SUTHERLAND, The «incuse» coinages of South Italy, in «ANS Museum Notes» III (1948), pp. 15 ss.; W. SCHWABACHER, Zur Pragtechnik und Deutung der inkusen Münze Grossgriechenland, in «Atti del CIN», Roma 1961; L. BREGLIA, Numismatica antica Milano 1964, p. 43. 35 Datazioni proposte: al 560 a. C.: MILNE, The early coinages of Sicily, in «Num. Chron.»

1938, pp. 51-52; al 550 a.C.: VALLET, op. cit., p. 327; al 515: GIELOw, art. cit., pp. 8 ss.; al 525: PARISE, Sull'orgatizzazione della valuta d’ argento nella Sicilia greca, in «Atti I Conv. Ist. It. Num.»

Napoli 1967, p. 112; e prima di lui, già ROBINSON, art. cit., pp. 13-20. Nella monetazione iniziale di Rhegion (datata al 510 a.C.) riscontriamo serie analoghe, coniate cioé secondo lo stesso piede, ma recanti tipi diversi (Toro androcefalo/Toro andr. incuso).

36 Il quadrato appare suddiviso in otto triangoli, quattro incusi e quattro in rilievo, con conchiglia al centro e leggenda DANK o più raramente DANK. 37 La serie reca sul verso, sul bordo, intorno al rilievo in forma di falce, quattro sporgenze ‚rettangolari e leggenda DANKTE. 38 Sull’arrivo dei Sami, si veda supra.

39 Cosi, ad esempio, la prima emissione Gielow equivale alla terza Milne e alla quarta di Vallet. Per una tabella riassuntiva delle varie proposte si veda VALLET, op. cit., p. 331. Fra tutte appare preferibile la cronologia del Milne (che considera terza la serie incusa) sia per motivi di

ordine stilistico, tipologico ed epigrafico, sia per il rapporto con la tecnica incusa della emissione reggina databile al

510 a.C.: vedi supra, n. 35.

^0 PARISE, art. cit.,p. 112. 41 Per tale ipotesi si veda di recente G. MADDOLI, I/ VI e il V secolo a.C. (cit.), pp. 25 ss. e,

per Naxos, il profilo da me tracciato in Naxos di Sicilia (cit.). Herold. VI 23: τοὺς δὲ κορυφαίους αὐτῶν τριηκοσίους...

43 La tradizione su Ippocrate è costituita da Her. VI 23-24; VII 154-155.

Sulla tirannide di Ippocrate, esauriente discussione in T.J. DUNBABIN, The Western Greeks (cit.), pp. 376 ss.; H. BERVE, Die Tyrannis bei den Griechen, München 1967, pp. 137 e 597. Sulle mire di Ippocrate, L. PARETI, Sicilia antica (cit.), p. 111; G. VALLET, op. cit., pp. 337 ss.; E. MAN-

NI, in «Klearchos» 1959, pp. 66 ss.; S. ConsoLo LANGHER, Gli Herakleiotai ek Kephaloidiou (cit.), pp. 27 ss.

Sulle motivazioni della politica ippocratea, da ultimi F. SARTORI, (si veda infra, nota 49), e G. MADDOLI, loc. cit., pp. 31 ss. 4 Herod. VI 26; Conon. Narr 42 = WESTERMANN, Myth., pp. 144-145: «Γέλων ὁ Σικελιώτης τυραννίδι ἐπιθέσθαι διανοούμενος Ἱμεραίων ἐθεράπευς τὸν δῆμον». Cfr. PARETI, Sicilia antica (cit.), pp. 111 ss.

55 Sulle varie vicende del governo di Scite in Zankle, Herod. VI 23,3 (anteriore all'arrivo

dei Sami e dei Milesi a Locri, l'imposizione di Scite a Zankle & anche anteriore alla presa del potere a Rhegion da parte di Anassila (databile agli inizi del 494-5 a.C.), che è stata a sua volta connessa con la serie di squilibri politici interni ed esterni provocati dalla conquista geloa di Zankle. Sul problema, da ultimo, G. MADDOLI, loc. cit. Su Scite, E. CIACERI, Intorno alle più antiche relazioni fra la Sicilia e la Persia, in «Studi storici per I' Antichità classica» V (1912), pp. 12 ss.; A.R. BURN, Persia and tbe Greeks, London 1962, pp. 308 ss.; PUGLIESE CARRATELLI, Le guerre mediche e il sorgere della solidarietà ellenica, in La Persia e il mondo greco-romano, Atti Lincei, Roma 1966, p. 154).

^6 Gli assedi di Ippocrate ai maggiori centri della Sicilia nord-orientale e le guerre contro Si-

racusani e indigeni in Herod. VII 154,2. *' La cronologia iniziale della tirannide di Anassila (494 a.C.), si ricava da Diod. XI 48,2, in

62

un passo in cui si precisa che la sua morte (collocata nel 476 a.C.) avvenne dopo diciotto anni di . governo. Si veda da ultimo R. VaN COMPERNOLLE, in Étude de chronologie (cit.), pp. 290-296 ss. Sul modo in cui egli avrebbe conseguito ii potere, e in particolare sull’ appoggio di elementi popolari messenici, si veda E. MANNI, G. Vallet, Région et Zancle (recens.), in «Riv. di Fil. Class.»1960, p. 210. Su Anassila in genere, G. VALLET, Rhegion et Zancle (cit.), pp. 336 ss.; H. BERVE, Die Tyrannis bei den Griechen (cit.), ΡΡ. 155 ss. (ibid. fonti ed ampia bibliografia). Sulla genesi e sul carattere della tirannide reggina, si veda anche F. SARTORI, art. cit., pp. 131:ss. Su Anassila e sulla sua

politica verso Zankle si veda anche G. DE SENSI SESTITO, Contrasti etnici e lotte politiche a ZancleMessene e Reggio alla caduta della tirannide (cit.) pp. 38 ss. 48. Herod. VI 22. La tradizione complessiva sull’insediamento dei Sami in Zankle è costituita da Herod. VI 22-24; Thuc. VI 4,5; Arist. Pol. V 1303 a 35-36. Sul racconto erodoteo di recente anche P.Tozzi, La rivolta ionica, Pisa 1978, p. 57.

^ La particolare rilevanza dell'opera di Ippocrate e del suo tentativo di unificare i Sicelioti sotto l'egemonia dorica, sottolineata già da A. SCHENK VON STAUFFENBERG, Trinakria, MünchenWien 1963, p. 174, è stata ribadita di recente da F. SARTORI, L'evoluzione delle città coloniali in

Occidente (cit.), pp. 131 ss.; 138 ss., che insiste sulla connessione fra il controllo geloo di Zankle e la genesi della tirannide di Anassila in Rhegion. 50 Thuc. VI 4,5-6: «ὕστερον δ᾽ αὐτοὶ μὲν [gli Zanclei] ὑπὸ Σαμίων καὶ ἄλλων 'Ióvov ἐκπίπτουσιν, ot Μήδους φεύγοντες προσέβαλον Σικελίᾳ, τοὺς δὲ Σαμίους ᾿Αναξίλας Ῥηγίνων

τύραννος

οὐ

πολλῷ

ὕστερον

ἐκβαλὼν

καὶ

τὴν

πόλιν

αὐτὸς

ξυμμείκτων

ἀνθρώπων οἰκίσας Μεσσήνην ἀπὸ τῆς ἑαυτοῦ τὸ ἀρχαῖον πατρίδος ἀντωνόμασεν». 51 Arist. Po]. V 1303 a: «Ζαγκλαῖοι δὲ Σαμίους ὑπεδεξάμενοι ἐξέπεσον αὐτοί».

? Herod. VI 22,1. Sui maneggi filo-persiani di Eace e sull'atteggiamento di attesa e poi di ritirata degli strateghi alla battaglia di Lade, Herod. VI 13-14. 53. La descrizione del zbesauros comprendente monete samie caratterizzate dal tipo Protome di leone/Prua di nave, in NoE, A Bibliography of Greek Coin Hoards 2, New York

1937, n.

685 = M. TuoMrsoN-O. MgrkHoLm-C.M.Kraay, An Inventory of Greek Coin Hoards, New York 1973, n. 2065. Sui vari esemplari soprattutto BARRON, The Silver Coins of Samos, London 1966, tavv. VI-VII. Per il numero delle emissioni e per la coniazione di esse in Zankle si vedano inoltre E.S.G. RoBInson, Rbegion, Zankle-Messana and the Samians (cit.), pp. 15 ss.;

M. PrıcE-N. WAcco-

NER, Archaic Greek Coinage. The Asyut Hoard (cit.), p. 27. (Per una coniazione degli esemplari iin Samo, C.H. Dopp, The Samians at Zankle-Messana, in «JHS» XXVII (1908), pp. 56 ss., ma l'ipotesi è stata ampiamente confutata dal Robinson e da Price- Waggoner). 54 Si veda C. RAccuIA, Per una connotazione economico-sociale dei Sami insediatisi in Zankle,

in «Kokalos» 1979 (cit.) pp: 188 ss. > Si veda su tali aspetti S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente (cit.), p. 242 e nota 15; L. Braccesı, La tirannide e gli sviluppi politici ed economico-sociali. La tirannide in Ionia, in «Storia e

Civiltà dei Greci» 2, Milano 1978, p. 353 (con bibliografia precedente). 56. Si pensi alle vicende di Mileto e a quelle di Naxos. Si veda anche L. BRACCESI, op. cit., p. 348. | 57 Su-Eace e sulla data del suo insediamento quale Zyrannos in Samo, cfr. H.T. WADE-GERY, Miltiades, in «JHS» XI (1951), pp. 215 ss.; J.P. BARRON, op. cit., p. 34. 55 Sul tributo versato dalla Ionia alla Persia, Herod. III 90. Sull'attività mercantile di Samo,

vivace nel VI secolo, e ancora presente sotto il controllo persiano, e sul commercio ionico in genere, R. Meıccs, The Athenian Empire, Oxford 1972, p. 25. Non è da escludere che l'attività cantie-

ristica (che indica la presenza di un piccolo artigianato specializzato piuttosto benestante e possidente di un po' di denaro, oltre che di un bracciantato portuale), sia stata anche sollecitata ad incrementare la produzione a fini militari, se è vero che al tempo della spedizione scitica Dario richiese ai tributari forniture di fanti e di navi (Herod. IV 83,1).

? L'occupazione samia di Zankle e il successivo intervento dell'esercito zankleo condotto da Scite e dal suo σύμμαχος Ippocrate in Herod. VI 23,9-10 (:«xei9opévov δὲ τῶν Σαμίων καὶ σχόντων τὴν Ζάγκλην, ἐνθαῦτα οἱ Ζαγκλαῖοι, ὡς ἐπύθοντο ἐχομένην΄ τὴν πόλιν ἑωυτῶν, ἐβοήθεον

αὐτῇ καὶ ἐπεκαλέοντο

Ἱπποκράτεα

τὸν Γέλης

τύραννον" ἦν yàp δὴ σφι οὗτος

σύμμαχος»). Sottolineano il carattere pacifico dell'occupazione le formule erodotee «τῶν Σαμίων... σχόντων τὴν Ζάγκλην» e «Σάμιοι... ἀπονητὶ πόλιν καλλίστην Ζάγκλην περιε-

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βεβλέατο» (Her. VI 24) eT espressione aristotelica «Σαμίους ὑπεδεξάμενοι».

6 Herod. VI 23 allude genericamente ad una spedizione degli Zanklei e di Scite contro una πόλις τῶν Σικελῶν.

6 Erodoto ribadisce che gli Zanklei «volevano» fondare una «città di Ioni»: una decisione che non poteva in nessun caso provenire nè da Ippocrate, nè da Scite, suo vassallo. Destituita di serio fondamento sembra dunque l'ipotesi, già formulata dal PARETI (Studi Siciliani e Italioti, Firenze 1920, p. 72) e seguita dal DUNBABIN (op. cit. pp. 391-392) e dal Burn (op. cît., p. 298), che l’invito a colonizzare Kalè Akté sarebbe pervenuto ai Sami da parte di Scite, che viceversa deve avere conseguito il potere in un periodo successivo al bando. Su Scite e sul figlio Cadmo, E. CIACERI, Cadmo di Coo in Messana e alla corte di Gelone, in

«Arch. Stor. Sic. Or.» VIII (1911), pp. 68 ss.; ID., Intorno alle più antiche relazioni fra la Sicilia e la Persia, in «Studi storici per I’ Antichità Classica» V. (1912), pp. 12 ss.; PUGLIESE CARRATELLI, op. cit., p. 154. Dubbia sarebbe l'identificazione, comunemente accettata, del tiranno di Zankle con Scite di Coo, secondo BURN, op. cit., pp. 208 88. 6 Herod. VI 23,5: l'espressione τὰ δ᾽ ἐπὶ τῶν ἀγρῶν πάντα, indicando i limiti del dominio

di Ippocrate che si afferma su ogni strumento che è sulla chora, sui raccolti della cora (laddove la popolazione cittadina, con la città, viene consegnata, per metà, ai Sami) va intesa — io credo — nell'accezione più vasta, cioè nel senso che essa comprende tutta la chora zanklea con i suoi beni, la sua popolazione, i suoi prodotti. Insoddisfacente la interpretazione restrittiva di VALLET (op. cit. p. 338) che finisce con il limitare i compensi di Ippocrate al solo raccolto e non chiarisce la suddivisione della città, cioè il significato dell'espressione «metà delle suppellettili e degli schiavi» da intendere anch'essa in senso lato, cioè estensibile alle case che quelle suppellettili e quegli schiavi contengono. Identificano in maniera convincente l’espressione relativa a tutto ciò che è contenuto nei campi con l'intero territorio zankleo E. LEPORE Per una fenomenologia storica del rapporto citta-

territorio in Magna Grecia, in La città e il suo territorio, Atti del VII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1967 (Napoli 1968), p. 47, e M.I. FiNrEY, Storia della Sicilia antica (cit.) p. 71.

$ Indicando la fase successiva agli accordi tra i Sami e Ippocrate, Tucidide, il cui interesse è rivolto all'alternanza di gruppi etnici in Zankle dalle origini in poi (egli perció tace l'intervento di Anassila), si limita ad indicare nei Sami coloro che scacciarono gli Zanklei dalla città. Più completa la lapidaria informazione di Aristotele. Provenendo forse dalla stessa fonte di Tucidide (Antioco), Aristotele rileva come gli Zanklei, «dopo avere accolto i Sami», furono a loro volta, successiva-

mente, estromessi. La vicenda appare scelta da Aristotele come esempio di una convivenza tra gente di diversa origine (in questo caso Zanklei e Sami) che dopo alcuni anni degenera in s/asis (espulsione degli Zanklei). Aristotele conferma dunque l’ iniziale accoglimento pacifico dei Sami in Zankle, da attribuire con ogni probabilità a quei trecento «capi» zanklei cui i Sami risparmiarono la vita, dopo che la pace con Ippocrate — come attesta Erodoto — ridusse in schiavitù τοὺς... πλεῦνας τῶν Ζαγκλαίων.

€ T] favore della tradizione erodotea verso i Sami (abbastanza esauriente, ad esempio, anche sulle ragioni della loro partenza da Samo) & evidente; esso ἃ il prodotto della simpatia della fonte di Erodoto (da identificare con una tradizione orale della Ionia) per tutti quegli esuli ioni (cioè, oltre ai Sami, Scite, ad es., e Cadmo, suo figlio, e Dionisio di Focea), che si erano trasferiti in Occidente

a causa della rivolta ionica (v. P. Tozzı, op. cit., p. 68). Anche la legittimità del potere di Scite in Zankle, adombrata nella sistematica definizione di Scite in Erodoto quale basileus e mounarchos degli Zanklei (secondo una vecchia proposta di E.S. SHUCKBURGA, Herodotos VI, Cambridge 1965 (1889), p. 102) rivela la benevola propensione erodotea verso Scite e verso i Sami, cui si contrappone una mal celata ostilità verso i tiranni occidentali: Anassila, indicato come il vero responsabile dell'occupazione samia di Zankle, e Ippocrate, indicato come il traditore degli «alleati» zanklei per avidità di dominio. Che la fonte di Erodoto si sia formata lontano dal teatro degli avvenimenti lo indica anche il fatto che lo sviluppo successivo delle vicende di Zankle e i motivi del mutamento del nome della città in Messene vengono ignorati. Ad una tradizione italiota appresa da Erodoto a Thurii pensa invece MANNI, Reggio e Messina (cit.), pp. 65 ss.; ID., Sicilia e Magna Grecia (cit.) p. 103.

6 [a strettissima rispondenza tipologica tra la serie reggina recante al diritto la testa di leone

e le monete battute dai Sami a Zankle (o a Samo stessa prima della partenza per l'Occidente, secondo C.H. Don», The Samians at Zankle-Messana (cit.), pp. 56-76), è stata evidenziata soprattut-

64

to da L. PARETI (art. cit., pp. 54-58) e, più di recente, da L. Lacrorx, Monnaies et colonisation dans

l'Occident grec, in «Mém. Acad. R. de Belgique, Classe des Lettres» LIX, 2 (1965), pp. 19 ss., C.M. Kraay, Archaic and classical Greek Coins (cit.), p. 214 e A. STAZIO, La monetazione delle città calcidesi d’Occidente, in «Atti XVIII Conv. di Studi sulla Magna Grecia» Taranto 1978 (in corso di

stampa). Ross HoLLOwAY, Art and coinage in Magna Grecia, Bellinzona 1978, pp. 40-45 articola la serie in esame in due momenti proponendo di retrodatare la tipologia ad età preanassilaica.

66 Herod. VII 164; E. CIACERI, op. cit., I, pp. 608 ss.; G. MADDOLI, loc. cit., p. 34. $7 Sui dati relativi all'irradiazione geloa ini età di Ippocrate, da ultimo, G. MADDOLI, loc. cit.,

pp. 31 ss. (ibid. bibliografia precedente). € Herod. VII 155. In realtà la data della morte di Ippocrate (che, secondo la testimonianza erodotea, regnò in Gela sette anni) e quella dell’inizio della tirannide di Gelone sono ancora controverse. Del pari controversa resta dunque la cronologia dell'arrivo dei Messeni in Occidente, che presuppone il disinteresse di Gela per la via dello Stretto, a seguito del vuoto di potere determinatosi. Problematica è altresì la individuazione delle circostanze che indussero i Messeni a migrare in

Occidente. Al periodo della terza guerra messenica pensa FREEMAN (op. cit., p. 115), mentre il Vallet ipotizza genericamente una rivolta messenica.con conseguente, cruenta repressione da parte di Sparta (per tali argomentazioni si veda VALLET, Op. cit., pp. 345 ss.).

€ Il racconto tucidideo allude genericamente al ripopolamento di Zankle (da partedi Anassila, con ξύμμεικτοι ἄνθρωποι, di cui oscura rimane la provenienza), ed al mutamento di nome della città determinato da ragioni sentimentali (Μεσσήνην ἀπὸ τῆς ἑαυτοῦ τὸ ἀρχαῖον πατρίδος ἀντωνόμασεν). Viceversa Strabone e Pausania concordano nel ricondurre l'origine del nome Messene alla popolazione del Peloponneso. Strab. VI 268, definisce la città κτίσμα... Μεσσηνίων τῶν £v Πελοποννήσῳ, παρ᾽ ὧν τοὔνομα μετήλλαξε, καλουμένη Ζάγκλη πρότερον; più diffusamente Paus. IV 23, 5, si sofferma sulle modalità dell'arrivo dei Messeni in

Sicilia, a seguito dell'invito di Anassila: la narrazione ricorda la battaglia decisiva condotta contro gli Zanklei per mare da Anassila, per terra dai Messeni; le drammatiche scene di cui sono protagonisti i vinti Zanklei, supplici presso 1 templi; la decisione iniziale di Anassila di uccidere gli Zanklei e di ridurre in schiavitù il resto della popolazioné; compresi i fanciulli e le donne, decisione in seguito revocata, sì che i due gruppi etnici poterono vivere fianco a fianco, in una città ormai mutata nell'aspetto, come nel nome. 7€ E.S.G. ROBINSON, art. cit., pp. 19-20; G. VALLET, op. cit., p. 356, tav. XIX, 4-5.

71 Sui problemi della storia di Gelone, si vedano da ultimi F. SARTORI, art. cit., pp. 138 ss.; G. MADDOLI, loc. cit., pp. 34 ss. (ibidem, bibliografia precedente).

7 Diod. XI 48. 7? Diod. XI 22. 74 Schol. Pind. Pytb. I 112. Sulle relazioni matrimoniali tra le famiglie dei tiranni, L. GERNET, Mariages de Tyrans, in Hommage à L. Fébvre, Paris 1954, pp. 52 ss. (Anthropologie de la Grece antique, Paris 1968, pp. 358 ss.); J.P. VERNANT, Le mariage en Gréce archaique, in «Pdp» XXVIII

(1973), pp. 51 ss.

75 Diod. XI 76,5. Da notare che Diodoro continua ad indicare ancora per un certo tempo gli

abitanti della nuova Messene con il nome di Zanklei. Si ritiene che la città abbia potuto temporaneamente riprendere il vecchio nome di Zankle dopo la cacciata dei figli di Anassila, tanto piü che l'etnico relativo riappare in un tetradramma con Zeus e Delfino (G.E. Rizzo, Monete greche della Sicilia (cit.) tav. XXV,

n. 16).

L'ipotesi di una ripristinata prevalenza politica in Messana, intorno al 460 a.C., degli «anti-

chi» cittadini zanklei, che avrebbero ricostituito (assieme ai Messeni) la poZs libera, lasciando la chora ai mercenari, è formulata di recente da D. ASHERI, art. cit., p. 153.

SUL NUOVO DOCUMENTO DI ALLEANZA TRA SPARTA E GLI ETOLI UMBERTO

COZZOLI

1. L'illustre epigrafista W. Peek ha pubblicato, or non & molto, una iscrizione di primaria importanza, trovata sull'acropoli di Sparta ed ora custodita nel Museo locale!. Egli fornisce una buona fotografia ed unà ricostruzione grafica del testo, che gioverà tenere presenti per l'interpretazione del documento. Esso è dato dallo studioso in questi termini: [συνθέκ]αι Αἰτολοῖς. κ[αττάδε]

ἐπὶ ταὐτὸν ποθόν [περ Λακεδαί!-

[φιλία]ν καὶ μιράναν ἔμεν ποτ]

μονίος. φεύγοντας μὲ δεκέθο!-

[Αἰτο]λὸς καὶ ovvnafxiav ᾽:

hav κεκοινᾶνξδκ[ότ ..1.8,.1-

4 [::]vhovoc μανίτι 1:2 heno][μ]ένος μόπυι κα Λα[ζκεδαιμόνι!-

16 μάτον. αὲ δέ τις κα fan τὰν TOV] Ἐρξαδιέον χόραν [στρατεύεϊ!]

[o]t häyiövraı καὶ κα[τὰ γᾶν]

ἐπὶ πολέμοι, ἐπικοίρεν Λακεδαιμο!-

[jai καθάλαθαν, τὸ αὐτὸν;

νίος παντὶ σθένε[ι καττὸ óvvatóv]-

8 φίλον καὶ τόνναυτ[ὸν ἐχθρὸν]

20 αἱ δέ τις κα ἐπὶ τὰ[ν Λακεδαιμο]-

ἔχοντες hóv περ [καὶ Aaxe]-

νίον χόραν στρ[ατϑεύει ἐπὶ πολέ!]-

δαιμόνιοι. μὲδὲ x[a cá) hw] ποιέθαι ἄνευ Λα[κεδαιμονίον]

pot, ἐπικορᾶν ἜΓρξαδιξς παντὶ] [σθένει καττὸ δυνατόν. ...]

12 pedeviav hévi[ag πρέσβε]

- ----

Accetto il testo cosi come é dato dall'editore, salvo che condivido le perplessità suscitate dalla integrazione della 1.2, [φιλίαϊν, onde l'intera frase suonerebbe κ[αττάδε!]] [φιλία!ν καὶ hipávav ἔμεν ποτ] [[Αἰτο]λὸς καὶ συνμα[χίαν---]2.

L'accenno alla εἰρήνη fa supporre la composizione di uno stato di ostilità sussistente fra le due parti3, sicché le motivazioni dell'intesa dovrebbero succedersi nell'ordine εἰρήνη- -φιλία, e non viceversa, prima della συμ μαχία, giusto come si vede

negli esempi addotti dallo studioso 4. : εἰρήναν εἶμεν καὶ φιλίαν ποτ᾽ ἀλλάλους nel trattato fra gli Etoli e gli Acarnani del 263/25; εἶναι Προυσίᾳ καὶ Βυζαντίοις εἰρήνην καὶ φιλίαν, intesa del 220 6: εἶναι εἰς ἅπαντα τὸν χρόνον εἰρήνην καὶ φιλίαν Μάγνησι καὶ Μιλησίοις, nel 196 7; τῷ δήμῳ τῷ Ρωμαίων καὶ τῷ δήμῳ τῷ Θυρρείων εἰρήνη καὶ φιλία καὶ συμμαχία ἔστω, nel 94 8, Ritengo che si possa integrare [συνθέκ]αι Αἰτολοῖς. κίαττάδε ἀμ[είδιο]ν καὶ hipávav ἔμεν ποτ] Αἰτο]λὸς καὶ συνμαϊχίαν mM , in quanto serrando — nel disegno del

Peek— alla fine della prima riga le lettere supplite di KATTAAE], si ha il posto per ΤΑ di A][[EIAIOTN ? e d'altronde il resto di questa parola occupa bene lo spazio di [DIAIA]N nella seconda riga. La scelta di questo supplemento èè fatta in base alla constatazione che nell’epoca entro la quale si può collocare l’iscrizione, spettante, come bene ha visto il Peek, alla prima metà del V secolo, la durata di 67

accordi del genere viene espressa normalmente nei documenti relativi. Si parla di un'intesa a tempo illimitato nel trattato concluso tra Sibari e i Serdaioi !? probabilmente in un anno del periodo 550-525 (ἀρμόχθεν οἱ Συβαρῖται κ᾽ οἱ σύνμαχοι κ᾽ οἰϊΣερδαῖοι ἐπὶ φιλότατ|ι πιστᾶι κ᾿ ἀδόλοι ἀεἰ[διον) e nelle alleanze di Atene con Regio (τὸν δὲ höpkolv ὀμοσάντον ’Adevallioı hiva & haravta πιστὰ καὶ ἄδολα xai h|[axAà παρ᾽ '"A0gvaíov ἐς ἀΐδιον "Peyivorc,

xa|[và τάδε KTA) e con Leontini (σύϊνμα[χ]οι ἐσόμεθα Asovriivlorg ἀί!διο ι ἀδόλος κ]αὶ [ἀβλα]βῦς), entrambe del 433/2 11. In questi casi tra i contraenti sussisteva una sproporzione di rilevanza politica, onde il pià forte vincolava a sé l'altro per un tempo indeterminato, cosi come agivano gli stati egemoni nelle grandi leghe. Si hanno peraltro casi di accordi a termine definito, il che, generalmente, si rileva nei rapporti tra stati che potevano trattare alla. pari: 50 anni sarebbero dovute durare la pace di Nicia 12 e la successiva alleanza tra Atene e Sparta 15, nonché l'intesa tra i Lacedemoni e gli Argivi stipulata nel 418 dopo la battaglia di Mantinea !^. Argo nell'imminenza della spedizione di Serse aveva chiesto ai Lacedemoni di fare un patto trentennale di non aggressione, ponendolo tra le condizioni per la sua adesione alla lega ellenica, e nel 451 aveva contratto con Sparta una tregua appunto di 30 anni 15; per tale durata fu conclusa anche nel 446 la pace tra Atene e Sparta !6 e nel 418/7 circa quella tra i Lacedemoni e i Mantineesi 17, Per 100 anni invece fu stipulata l'alleanza tra gli Elei e gli Erei del 500 circa 18 e venne stretta la lega del 420 fra Atene, Argo, Mantinea e l’Elide 1°, Ora, tra Sparta e gli Etoli, notoriamente, sussisteva nell’età classica una disparità di forze politiche, sicché è assai probabile che la pace e l'alleanza di cui si parla nel trattato fossero stabilite senza limiti di tempo, secondo l’integrazione dianzi suggerita.

Il Peek colloca l’iscrizione, in base a precisi accostamenti di altri testi spar-

tani, nel periodo 500-470, con la riserva che si possa abbassare il secondo termine verso la metà del secolo 2°. D'altronde il documento è anteriore all’iscrizione del lacedemone Damonon, come ha dimostrato il Peek mediante il confronto delle lettere, e questa epigrafe è di un periodo precedente l’età della guerra peloponnesiaca, perché i tre efori eponimi che vi sono nominati non sono compresi nella lista completa che si ha di tali magistrati durante quel conflitto e perché non è possibile una datazione più bassa stando a confronti con iscrizioni posteriori ad esso 21. Pertanto il Peek, dopo aver escluso, a ragione, la possibilità che il testo concerna rapporti tra Sparta e la gente di Αἰτωλία 2, città del Peloponneso, secondo Stefano bizantino 25 (supposizione inammissibile, perché alle Il. 17 e 22 compaiono come controparte dei Lacedemoni gli ᾿Ερξαδιξς, i quali naturalmente non possono essere i cittadini di AitoMa, ritiene che il trattato costituisca un'intesa tra i Lacedemoni e gli Erxadieis, non noti da altre fonti, che sarebbero stati una popolazione del territorio costiero etolico, esposta a eventuali sopraffazioni da parte degli Ateniesi o dei Messeni di Naupatto; gli Spartani avrebbero stipulato il patto con gli Erxadieis appunto, estendendolo poi agli Etoli in generale: «Die Erxadieis werden es denn auch gewesen sein, die zu dem Vertrag gedrángt haben, der dann vielleicht erst von Sparta aus auf die Aitoloi insgesamt ausgedehnt worden ist» ?^. 68

P.A. Cartledge invece ha affacciato l'ipotesi che l'alleanza si riferisca ai rapporti tra Sparta e l'Etolia dei quali tratta Tucidide nel racconto degli eventi del 426 25. Secondo lo storico, τοῦ δ᾽ αὐτοῦ θέρους Αἰτωλοὶ προπέμψαντες πρότερον ἔς te Κόρινθον καὶ ἐς Λακεδαίμονα πρέσβεις, Τόλοφόν TE τὸν ᾿Οφιονέα καὶ Βοριάδην τὸν Εὐρυτᾶνα καὶ Τείσανδρον τὸν ᾿Αποδωτόν, πείθουσιν ὥστε σφίσι πέμψαι στρατιὰν ἐπὶ Ναύπακτον διὰ τὴν τῶν ᾿Αθηναίων ἐπαγωγήν 2. Lo studioso quindi ritiene che l'alleanza sia stata conclusa

nel 426 o nel 425, dopo il disastro spartano di Pilo, «when Sparta was thrashing around for allies in all sensitive quarters» 27, Questa spiegazione non agevolmente puó essere accolta per la cronologia dei caratteri epigrafici. P.A. Cartledge si basa sulle osservazioni della Jeffery, secondo la quale «Lakonian inscriptions are thus particularly difficult to date by their letter-forms alone, presenting as they do a deceptive mixture of forms normally considered advanced (as the alpha and zu) with others which, normally hall-marks of the archaic period (as longtailed epsilon and upsilon, or closed beta), are still in use in the fifth century for formal inscriptions» 28, Tali considerazioni della Jeffery possono valere per il gruppo di iscrizioni da lei considerate, che si scalano nel tempo dal VII secolo alla fine del V, approssimativamente ?, ma non possono tradursi in norma per un testo come il trattato spartano-etolico, che non era conosciuto dalla studiosa, la quale peraltro, malgrado le difficoltà enunciate, ritenne di poter proporre, pur con cautela, una collocazione cronologica di moltissime delle iscrizioni laconiche che prese in esame ??. Per quanto attiene al nuovo documento, in esso si notano 8 con il prolungamento della verticale in basso e o a 5 tratti (nelle due forme, destrorsa e sinistrorsa), mentre, dopo la metà del V secolo, € non ha

tale segmento e o è scritto con quattro tratti ricompaiono eccezionalmente nel decreto degli trovato nell'isola e spetta alla fine del V secolo, una metà in alfabeto laconico e per l'altra con

31. Le rispettive forme arcaiche Spartani per Delo 52, che é stato ma in questa epigrafe, scritta per caratteri ionico-milesi, la prima

parte contiene anche altre lettere di tipo antiquato, il cui impiego, in base a

quanto ha osservato la Guarducci 33, dipende da un arcaizzare intenzionale, essendosi voluto dare spicco a forme peculiari della tradizione spartana nel fare un incisione di lettere eleganti in ordine stoichedico. Dunque, il trattato spartano-etolico non può essere collocato nell'età della guerra archidamica per i caratteri epigrafici. D'altra parte nelle circostanze cui si riferisce Tucidide gli interlocutori etolici dei Lacedemoni furono gli Ofionei, gli Euritani e gli Apodoti, mentre nel documento epigrafico figurano gli Exardiei come controparte. Ancor più è difficile che l'alleanza nota dall'epigrafe sia, come propone D.H. Kelly ^^, quella conclusa da Agesilao con gli Etoli 55, che sarebbe da porre secondo lo studioso tra l'autunno del 388 e la pace del re. In questo caso si ab-

baserebbe di oltre un sessantennio il termine ante quem dell’iscrizione collocata dal Peek nel periodo 500-450; e non vale osservare 36 che i margini di datazione offerti dai caratteri epigrafici sono ampi, prendendo come esempio il testo Meiggs-Lewis 67, che nella stessa silloge è datato da uno degli editori al 427 e dall’altro invece agli anni 396-5, perché in questo caso i limiti cronologici sono assai più vicini ?7. 69

Del resto gli Etoli, di cui gli Erxadieis costituirono la controparte dei Lacedemoni nella conclusione dell’ alleanza, furono coinvolti nella politica estera spartana anche verso la metà del V secolo e, a mio avviso, se ne puó dare una ricostruzione.

2. Nell'epigrafec’è un riferimento ai Messeni, in un divieto fatto agli Etoli, nelle IL

14-16:

φεύγονίτας

ue seké00]]hav

μάτον.- Premesso che i supplementi so che gli esuli di cui si parla siano eventualità questi avrebbero potuto l'obbligo del trattato col dichiararli

κεκοινανεκ[ότας. ἀδικεῖ |

del Peek a questa frase sono ovvii, va escluelementi degli Etoli stessi, perché i in tale far rientrare i propri fuoriusciti eludendo non colpevoli. La clausola dunque si riferi-

sce a φδύγοντες dei Lacedemoni, che avevano compiuto, operando in comune,

azioni inique. Ora, gli Spartani non potevano soggiornare all'estero senza il permesso degli efori; quindi tutti i fuggiaschi dei Lacedemoni erano rei o per qualche crimine commesso o semplicemente per essere andati a vivere fuori dei confini dello stato 38. Dunque, la precisazione κεκοινανεξκ[ότας ἀδικε]μάτον si riferisce a una speciale categoria di fuotiusciti che gli Etoli dovevano individuare bene e non ad esuli spartani in genere, di cui dovessero vagliare, caso per ca-

so, la condizione di colpevolezza. Le persone che collettivamente avevano preso parte ad azioni inique contro Sparta si identificano agevolmente con i Messeni ribelli che in base ad un accor-

do erano stati lasciati liberi di andar via dall’Itome, a condizione che si recassero

fuori del Peloponneso ??. L’espressione μὲ 6gzk£00]|hav indica non solo il generico divieto di non accogliere i fuggiaschi, ma ha pure il significato particolare di non fare alleanza e di non collaborare. La clausola sui Messeni non è superflua dopo l’impegno complessivo degli Etoli di avere gli stessi amici e gli stessi nemici degli Spartani (ll. 7-10), perché esclude che gli Etoli diano appoggio ai Messeni anche in tempo di pace. Che nel trattato si parli di fuoriusciti e non di Messeni può dipendere dal fatto che quest’ultima designazione poteva lasciar adito a fraintendimenti, perché i Messeni, sistemandosi in località fuori del Peloponneso, potevano acquisire differenti denominazioni. Il trattato dunque è posteriore all’esodo dei Messeni, avvenuto, secondo Tucidide, con cui si accorda Eforo-Diodoro ^, al termine della guerra decennale (δεκάτῳ ἔτει). Inutilmente si è cercato di correggere il testo tucidideo, ripetendo una vecchia congettura del Krüger *!, secondo cui un A scritto dallo storico per dire τετάρτῳ sarebbe stato inteso erroneamente per δεκάτῳ. Orbene, come è stato esaurientemente dimostrato *?, in Attica al tempo di Tucidide i numeri erano scritti con un sistema «acrofonico» (|- 1, II 2 5, A=10,

H= 100

etc.), usato solo per i cardinali, e non col sistema milesio delle lettere — affermatosi in età ellenistica avanzata presso gli Ateniesi — con le quali si indicavano tanto i numeri cardinali che gli ordinali, sicché A significava τέτταρες e τέταρtoc. A mio giudizio, quindi, Tucidide non può aver scritto A ETEI, giacché A avrebbe significato 10 e l’espressione sarebbe stata incongruente, e dunque la congettura paleografica del Krüger è destituita di fondamento 9. 70

Lo storico, che racconta la conclusione della guerra messenica in collegamento con l'urto fra Atene e Sparta per il rinvio del corpo di spedizione di Cimone *, proprio con la notazione δεκάτῳ ἔτειἔα intendere di aver anticipato rispetto ad altri avvenimenti l'epilogo della ribellione, accostandolo alla rottura dell'alleanza tra le due città. Che poi la resistenza degli insorti si sia protratta per tutto quel tempo si spiega anche considerando che lo stato di ostilità tra gli Argivi, alleati degli Ateniesi, e i Lacedemoni doveva impedire a questi ultimi di dedicarsi con tutte le forze a far capitolare i i Messeni arroccati sull'Itome 9. Considerato che la rivolta seguì al famoso terremoto, nel 464/53 “6, l'insediamento dei superstiti a Naupatto spetta al 455/4 e si collega bene all’affermazione tucididea, secondo cui gli Ateniesi avevano occupato di recente (νεωστί) quella città dei Locresi Ozoli 47, e alle notizie di altre fonti, in base alle quali Naupatto era stata presa da Tolmide nella spedizione del 45 6/5 ^5 L’anno 455/4 costituisce l'estremo cronologico più alto per collocare nel tempo il trattato spartano-etolico. Quanto all’estremo più basso, esso non può scendere all’età della guerra archidamica, come si è visto dall'esame dei caratteri epigrafici, e va

escluso pure che si possa collocare dopo la pace conclusa fra Atene e Sparta nel 446/5, perché in essa era vietato ai contraenti di stipulare alleanze con terzi pet ledere l’altra parte “5, È assai difficile inoltre che il trattato spetti agli anni 451/0-447/6, in cui sussisteva la tregua quinquennale tra Atene e Sparta 7°, perché l’intesa tra i Lacedemoni e gli Etoli, mettendo a rischio le basi e le alleanze degli Ateniesi a settentrione del golfo di Corinto, avrebbe costituito una violazione della tregua stessa. Pertanto, la possibilità di datare il trattato spartano'etolico si restringe a due periodi, quello tra l'esodo dei Messeni dal Peloponneso (4554) e l'inizio della tregua quinquennale (451/0) e quello tra lo spirare di quest'ultima (447/6) e la pacé trentennale((4465); ma il primo periodo va ulteriormente delimitato. 3. Secondo Pausania ?!, i Messeni insediati a Naupatto dagli Ateniesi, sapendo che gli Acarnani abitanti di Eniade possedevano una fertile campagna ed erano nemici degli Ateniesi, si impadronirono della città e del suo territorio. L'anno successivo tutti gli Acarnani, preparandosi alla riscossa, vorrebbero attaccare Naupatto, ma il piano é assai difficile a realizzarsi, perché essi dovrebbero attraversare il paese degli Etoli, che sono loro nemici, e perché sospettano che i Messeni si siano forniti di mezzi navali, sicché non potrebbero essere costretti alla resa facilmente. Perciò gli Acarnani dirigono l’attacco contro i Messeni di Eniade, che, dopo un combattimento presso le mura vengono cinti d’assedio. Il blocco dura otto mesi, finché i Messeni appunto, rimasti senza vettovaglie, riescono a aprirsi un varco tra gli avversari, compiendo una sortita nottur-

na, e raggiungono il paese degli Etoli, con cui sono in buone relazioni, e, attraverso esso, Naupatto. Pausania utilizza una fonte favorevole ai Messeni, come si evince dai dettagli laudativi della loro impresa, ma non c'è motivo per non prendere in considerazione la trama degli avvenimenti narrati. Segue nel racconto del periegeta una esposizione del comportamento dei Messeni durante la guerra peloponnesiaca. 71

La spedizione messenica in Acarnania difficilmente si puó collocare dopo la pace del 446/5 tra Atene e Sparta, giacché in essa, come si € visto, era sancito che le parti non estendessero le rispettive egemonie in modo che una arrecasse danno all'altra e appunto i Messeni attaccarono Eniade non solo per proprio vantaggio, ma anche in accordo con le mire politiche degli Ateniesi 52, E da escludere pure che durante la tregua quinquennale i Messeni d'intesa con gli Ateniesi compissero la spedizione in Acarnania, per la medesima ragione che ne sarebbe stata danneggiata la lega peloponnesiaca e si sarebbe violata la situazione armistiziale. Anche nel periodo tra la scadenza della tregua (estate 446 o poco prima) e l'inizio della pace (inverno 446/5), non si puó collocare l'impresa perché essa duró un anno e otto mesi circa e quindi non entra in quello spazio di tempo. Resta il periodo tra l'insediamento a Naupatto (455/4) e l'interruzione quinquennale delle ostilità (451/0).

In questi anni si colloca anche la spedizione di Pericle in Acarnania col tentativo non riuscito di conquistare Eniade ?. La cronologia di questa impresa di Pericle si basa sulla notazione tucididea che dopo di essa διαλιπόντων ἐτῶν τριῶν

σπονδαὶ

γίγνονται

Πελοποννησίοις

καὶ

᾿Αθηναίοις

πεντέτεις ?^.

Ora, la tregua di cui è menzione in questo passo era scaduta verso la metà dell'estate del 446, quando il re spartano Plistoanatte condusse l'esercito peloponnesiaco in Áttica, e quindi al più tardi doveva essere stata conclusa nell'estate del 451

55: i tre anni che, secondo Tucidide, sarebbero intercorsi tra la spedi-

zione di Pericle contro Eniade e la stipulazione della tregua quinquennale possono essere dunque tre anni tucididei, calcolati dal principio di una primavera a quello della successiva, 454/3, 453/2, 4521, oppure i tre anni attici, rispettivamente,

di Aristone

(454/3),

Lisicrate

(453/2)

e Cherefane

(452/1);

dunque

l'azione militare di Pericle si collocherebbe tra l'inizio della primavera del 455 e il cominciare di quella del 454 oppure sotto l'anno arcontale di Sosistrato (455/4) 56. Più a ritroso per questa datazione non si può risalire, anche perché le operazioni di Pericle spettano ad un anno successivo alla spedizione di Tolmide intorno al Peloponneso, avvenuta nel 456/5 (arcontato di Callia), come si desume da Diodoro 57 e da uno scolio ad Eschine 58, L’occupazione messenica di Eniade, dato che durò un anno e otto mesi circa, non può trovare posto tra l'insediamento dei Messeni a Naupatto e la spedizione di Pericle in Acarnania, avvenimenti circoscritti nello spazio di un anno,

ma va collocata tra la missione periclea e l’inizio della tregua quinquennale, entro il periodo 455/4 - 451/0. I Messeni durante la loro spedizione acarnanica vennero favoriti dagli Etoli, sicché è da escludere che un parte rappresentativa di questi in quel tempo stipulasse l'alleanza con gli Spartani. Tale patto si può collocare dunque o tra l'esodo dei Messeni dal Peloponneso (455/4) e il loro attacco ad Eniade, o tra la fine di questa impresa e l’inizio della tregua quinquennale (451/0, al più tardi), o tra la scadenza di essa e la conclusione della pace dei trenta anni fra Atene e Sparta (446/5), con gli ovvi margini di approssimazione. Lasciando da parte ipotesi diverse consequenziarie a queste prospettive cronologiche, l'accenno dell'epigrafe all'instaurarsi della pace tra Sparta e gli 72

Etoli (l. 2) lascia intendere che l'intesa fu preceduta da uri stato di guerra tra i

contraenti, presumibilmente per un intervento militare degli Spartani avente lo ‘scopo di indurregli Etoli a mettersi dalla loro parte 59. Nel conflitto in corso tra Sparta e Atene, mentre questa affermava vieppiù la sua egemonia nell’ambito del golfo di Corinto e dei suoi accessi — dominando, oltre che su Naupatto,

sul porto megarese di Pege 9, l'Acaia&!, Calcide di Etolia 62 e forse Molicrio 9 — il trattato spartano-etolico rappresenta il risultato di una iniziativa dei Lacedemoni per stabilire in quello scacchiere un rapporto di forze meno sfavorevole alla lega peloponnesiaca.

1 Ein neuer spartanischer Staatsvertrag, in «Abhandl. d. Sächsisch. Akad. d. Wissensch. Leipzig» phil.-hist. Kl. LXV3, 1974, p. 3-15 e tavv. S.E.G. XXVI, 461. . 2 P.A. CARTLEDGE, A new 5tb-century Spartan treaty, in «Liverpool Classical Montly» I, 1976, p. 91. D.H. KELLY, The new Spartan treaty, ibidem IMI, 1978, p. 133-4. Lo stesso CARTLEDGE (The new 5tb-century Spartan treaty again, ibidem YII 1978, p. 189) passa poi a sostenere la restitu-

zione del Peek, ritenendo di aver trovato un appoggio in Tucidide IV, 19,1 (Λακεδαιμόνιοι δὲ ὑμᾶς προκαλοῦνται ἐς σπονδὰς καὶ διάλυσιν πολέμου, διδόντες μὲν εἰρήνην καὶ ξυμμαχίαν καὶ ἄλλην φιλίαν πολλὴν καὶ οἰκειότητα ἐς ἀλλήλους ὑπάρχειν, KTA.), dove, tuttavia, si nota che la φιλία, rispetto alla εἰρήνη e alla ξυμμαχία non è la prima forma di rapporto menzionata, come invece si & supposto per l'epigrafe.

3 Che qui si alluda alla pace, semplicemente perché il rapporto tra genti greche non vincolate da un trattato sarebbe stato quello della guerra attuale o potenziale, eventualità presa in esame da D.H. Ketty (p. 137), è improbabile per le osservazioni dello studioso (p. 133-4) e di P.A. CARTLEDGE (p. 89 del primo studio) sulla «laconicità» degli Spartani. D'altronde, circa tale visuale dei rapporti fra i Greci, vd. L. SANTI AMANTINI, Sulla terminologia relativa alla pace nelle epigrafi greche fino all'avvento della Koiné eiréne, in «Atti Ist. Ven. di Sc. Lett. Arti.» CXXXVIII

1979-80, cl. sc. mor., lett. e arti, p. 467 sgg., specialmente 469 sgg., 488 sgg., ed ivi bibl. 4 P.5.

^ IG IX, 1? 1,3 A,3-4. Syll? 421 A. H.H. Scuwrrr, Die Verträge der griechisch-römischen Welt von 338 bis 200 v. Chr., München-Berlin 1969 (Die Staatsverträge des Altertums [d'ora in

poi SV] III), 480. $ PoLyB., IV,52. SV III 516.

7. Syll? 588, II. 8 [G IX, 1, 483,8-9. Syll? 732.

? L’epigrafe a destra & mutila e la linea di margine di questo lato ipotizzata dal Peek tende a restringere lo specchio epigrafico verso l'alto, ma.tale delimitazione, che fa diminuire la lunghezza delle prime righe rispetto a quella delle linee della parte bassa dell’iscrizione, rappresentaun pura congettura; è presumibile invece che la lunghezza delle prime righe non fosse così ristretta rispetto

alle altre come il Peek ha supposto. L'esigenza di una indicazione della durata del trattato è avver-

tita anche da F. GSCHNITZER, Ein neuer spartanischer Staatsvertrag und die Verfassung des Peloponnesischen Bundes, «Beitr. z. klass. Philol.» H. 93, 1978, pp. 16-17. Sui vari supplementi al testo proposti in questo studio vd. quanto ha osservato L. MORETTI, in «Riv. Fil. Class.» CVII 1979, pp. 127-28. Inoltre, P. CARTLEDGE, rec. in «Classical Review» n.s. XXX 1980, p. 295-96. W. KIERDORF, rec. in «Histor. Zeitschr.», CCXXXI 1980, p. 137-38. 10 Mzrccs-LEvis 10, 1-5. H. ΒΕΝΟΊΞΟΝ, Die Verträge der greichisch-römischen Welt von 700

bis 338 v. Chr., München-Berlin 1962 (SV IT), 120. 11 Vd. le ricostruzioni dei testi in MEIccs-LEwrs 63, 10-13 e 64, 21-23. 2 ΤΉυς. V, 18,3, Drop. XII, 74,5. TIusrIN. III, 7,15. SV II 188. D 'Tuuc. V, 23,1. SV 189.

73

14 Tuuc. V, 79,1; cfr. V, 41,2. SV II 192 e 194. 5 HDpr. VII, 148-9. Tuuc. V, 14,4. SV II 144.

ἢ Tuc. I, 115,1; Anpoc. De Pace 6; Diop. XII 7; PLUT., Per. 24,1.

17, Xen. Hell. V, 2,2. SV II 195. 18. $y]]? 9. Meiıscs-Lewis 17,2. SV II 110. ? 'Tuuc. V, 47,1 e 3. IG I? 86. SV II 193. 20 p. 12.

2 IG V,1, 213. L. MORETTI, Iscrizioni agonistiche greche, Roma 1953, nr. 16. Peek, p. 10.

2 P. 15 sg.

]

2 S.v. 24 p. 15.

3 III 94-102. Cfr. Drop. XII 60.

26 TII 100,1.

|

27 A new 5tb-century Spartan treaty, cit., p. 91-2; In., The new 5tb-century Spartan treaty again,

cit., p. 189-90. Una collocazione del trattato ancora più tarda nell'ambito del V secolo è proposta da D.J. MosrEy (Bericht über die Forschung zur Diplomatie im klass. Griechenland, in E. Olshausen

- H. Biller [edd.], «Antike Diplomatie», Darmstadt 1979 [Wege der Forschung CDLXIII, p. 228), in considerazione del ruolo evidentemente inferiore degli Erxadieis e della evoluzione della terminologia diplomatica impiegata, argomenti non decisivi per fissare nel tempo il documento. 28 The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1961, p. 187. ? P. 183-202 e tavv. 35-38.

? Ibidem, specialmente p. 198-202. 31 Cfr., oltre ai riscontri del PEEK, pp. 9-12, L.H. JEFFERY, op. cit. p. 183 sgg. M. GUARDUCct, Epigrafia greca 1, Roma 1967, p. 278-9. 2 Inscr. de Délos 87. L.H. JEFFERY, op. cit., p. 198, nr. 62, tav. 38. M. Guarducci, op. cit. p. 284-5.

3 [bidem. 34 Art. cit., p. 136-41. 5 XEN., Ages. 2,20; cfr. Hell. IV, 6,14. 3 P. 137.

37 Ho proposto di collocare questa epigrafe fra il 391 e il 386 (Proprietà fondiaria ed esercito nello stato spartano dell'età classica, Roma 1979, p. 137). Rispetto alla cronologia piü alta, del 427, quella pià bassa, che io ho sostenuto, comporta il divario di un quarantennio circa, che à un periodo di tempo ammissibile, come nella proposta del Peek, il quale pone l'epigrafe del trattato spartano-etolico entro i limiti di un cinquantennio (500-450). 38. (5. BusorT - H. SwoBoDA, Griechische Staatskunde II, München 1926, p. 658-9. L. PARETI, Origini e sviluppi dell’eforato spartano, in Studi minori di Storia antica I, Roma 1958, p. 152-3. 3. THuc., I, 103; Drop. XI, 84,7-8; Paus. IV, 24,7; cfr. III, 11,9.

^ ΧΙ, 64,4. ^ Hist Phil. Stud. I, Berlin 1836, p. 156 sgg. Contro l’attendibilità della tradizione mano-

scritta si veda in particolare A.W. Gomme, Commentary on Thucydides I, Oxford 1950, p. 401413. G. KLAFFENBACH, Das Jahr der Kapitulation von Itbome und der Ansiedlung der Messenier in Naupaktos, in «Historia» I, 1950, p. 231-235. B.D. MERITT, H.T. WADE-GERY, M.F. McGREcor, The Athenian Tribute Lists III, Princeton 1950, p. 162-176. D.M. Lewis, Itbome again, in «Historia» II, 1953, p. 412-418. Ipotesi per accordare il dato tucidideo con una datazione della fine della guerra messenica nel 460 circa presso SCHARF, Noch einmal Itbome, in «Historia» III, 1954, p. 153-162. N.G.L. HAMMOND, Studies in Greek Chronology of the Sixtb and tbe Fifth Centuries B.C., ibid. IV, 1955, p. 371 sgg., specialmente 371-81. R. SeALY, The Great Earthquake in Lacedaemon, ibid. VI, 1957, p. 368-71. 2 M.N. Top, The Greek Numeral Notations, in «Ann. British School at Athens» XVIII, 1911-12, p. 100-1; In., The Greek Acropbonic Numerals, ibid. XXXVII, 1936-37, p. 237-8; Ip., The Alphabetic Numeral System in Attica, ibid. XLV, 1950, p. 126 sgg., specialmente 137-8. A parte l'esempio isolato di uso di numerali alfabetici in IG I?, 760, epigrafe di età periclea, la cui interpretazione ἃ alquanto difficoltosa e la cui genesi & estremamente congetturale, l'uso corrente ad

74

Atene, del sistema acrofonico nell'età classica è indubbio, come si desume da quanto osserva il Tod nell'ultimo studio citato: «What the inscriptions prove is the continued and constant use of acrophonic numerals down to the opening years of the first century B.C. ...» (p. 138). I numerali

ordinali tucididei dovevano essere scritti per esteso in parole; vd. Top, ibidem, p. 127: «Thus when alphabetic numerals came into use, the Athenians had been accustomed for centuties to date-formulae written out wholly in words». Vd. inoltre M. GUARDUCCI, op. cit., p. 417 sgg., specialmente p. 425. 43 In.un altro luogo tucidideo, I, 57,6, si trova un δέκα che è evidentemente erroneo; ma

l'emendamento τεσσάρων del Krüger è mera congettura, con la quale non si può dimostrare che è valida la correzione da lui apportata a I, 103,1. Assai generico per poterne ricavare una indicazione cronologica ἃ [Xen.], Azb. Resp. 3,11 (τοῦτο δὲ ὅτε εἵλοντο (scil oi 'AO0nvaiou Λακεδαιμονίους ἀντὶ Μεσσηνίων,

ἐντὸς ὀλίγου χρόνου Λακεδαιμόνιοι καταστρεψάμενοι

Μεσσηνίους ἐπολέμουν ᾿Αθηναίοις). L'autore fra l'altro travisa lo svolgimento dei fatti, perché

l'iniziativa delle ostilità notoriamente fu presa dagli Ateniesi e non dai Lacedemoni. Diodoro colloca l'insurrezione messenica nel 469/8 (XI, 63-4), in base ad una notizia di fonte cronografica — emergente da Scbol. Aristopb. Lys. 1144, ove l'avvenimento è posto, con poca differenza, nel 468/7 — e la fa terminare nel 456/5 (XI, 84); egli d'altra parte asserisce che la guerra duró 10 anni (XI, 64,4), senza preoccuparsi dell'incongruenza rispetto agli estremi cronologici del-

la vicenda da lui forniti, perché in questo caso segue Eforo. Il pensiero eforeo sulla durata della guerra messenica é probabilmente riportato anche da Trogo-Giustino, che si accosta a Diodoro: lam et Lacedaemonii omissis Messeniis adversus Athenienses arma verterant. Diu varia victoria fuit; ad

postremum aequo Marte utrimque discessum. Inde revocati Lacedaemonii ad Messeniorum bellum ne medium tempus otiosum Atheniensibus relinquerent, cum Thebanis paciscuntur, ut Boeotiorum imperium bis restituerent, quod temporibus belli Persici amiserant, ut illi Atbeniensium bella susciperent. Tantus furor Spartanorum erat, ut doubus bellis impliciti suscipere tertium non recusarent, dummodo inimicis suis bostes adquirerent (III, 6,8-11). Da questa fonte si evince che i Lacedemoni non furono

in grado di impiegare le loro forze continuamente contro i Messeni prima della.battaglia di Tanagra (cfr. lo svolgimento di essa aeguo Marte, secondo Giustino, e il racconto di Diodoro, da Eforo, sulla μάχη ἀμφίδοξος XI, 80,6), dovendo fronteggiare Argivi e Ateniesi, e dopo si accordarono con i Tebani, per potersi dedicare alla guerra contro i Messeni (cfr. Drop. X1,81,2: ἐπηγγέλλοντο — scil. oi Θηβαῖοι --- δ᾽ αὐτοῖς ἀντὶ ταύτης τῆσ χάριτος ἰδίᾳ πολεμήσειν τοῖς ᾿Αθηναίοις, ὥστε μηδεμίαν ἀνάγκην εἶναι τοῖς Σπαρτιάταις ἐκτὸς τῆς Πελοποννήσου δύναμιν ἐξαγαγεῖν πεξήν).

4.1 102. ^ Cfr. la perspicua indagine di S. ACCAME, Note storiche su epigrafi attiche del V secolo, in

«Riv. Fil. Class.» XXX, 1952, p. 113-17 e le osservazioni di D.W. REEceE, The Date of the Fall of Ithome, in «Journ. Hell. Stud.» LKXXII, 1962, p. 111-20. 46 Arcontato di Archedemide, come si ricava da Pausania IV, 24,5. 47 I, 103,3.

48 Dion. XI, 84; Schol. Aeschin. II, 75. ^ THuc. I, 40,2. 50 Questi. dati cronologici sono di stretta approssimazione; vd. infra, p. 00. 51 IV, 25. 52 PAUS. IV, 25,1... ἠπίσταντο (scil. oi Μεσσήνιοι) γὰρ Οἰνιάδας ᾿Ακαρνάνων γῆν. τε ἔχοντας ἀγαθὴν καὶ ᾿Αθηναίους διαφόρους τὸν πάντα ὄντας χρόνον, στρατεύουσιν ἐπ᾽

αὐτούς. 3 'Tuuc. I, 111,2-3; Drop. XI, 85 e 88; PLUT., Per. 19,2-3. La notizia diodorea (XI, 85,2), secondo cui Pericle avrebbe attratto dalla parte di Atene tutti gli Acarnani, tranne quelli di Enia-

de, è infondata, perché la prima alleanza tra Atene e gli Acarnani risale all'inizio della guerra archidamica: vd. THuc. II, 68,8; cfr. 7,3 e 9,4. KJ. BELocH, Griech. Gesch. IL,1, Strassburg 19142, p. 174 e n. 2.

54 L 112,1.

> Cfr. G. De SANCTIS, Atthis, Firenze 1975?, p. 585 e n. 124. 56 Diodoro, che racconta due volte la stessa spedizione di Pericle, collocandola nel 455/4, a

75

XI, 85, e nel 4553/2, a ΧΙ, 88, dà con la prima versione la cronologia giusta. Cfr. K.J. BELOCH, Griech. Gesch. II, 2, Strassburg 1916?, p. 202-3.

5 ΧΙ, 84:

ss II 75.

” Cfr. supra, p. 00, n. 0. 6 Thuc.

1,103,4; 107,3; 111,2;

115,1; IV, 21,3.

6 Huc. L111,3; 115,1; IV, 21,3; PLUT. Per. 19. € Tuuc. 1,108,5. 6 'Tuuc. IIT, 102,2; cfr. II, 84,4. Diodoro (XI, 84,7) attribuisce a Tolmide la conquista di Zacinto e Cefellenia, ma giustamente G. BusoLT (Griech. Gesch. III, 1, Gotha 1897, p. 326 n. 1) ha notato che questa notizia & poco credibile, in quanto Tucidide, che riferisce (I, 108,5) la presa

della piccola città di Calcide da parte di Tolmide, difficilmente avrebbe omesso la conquista delle due grandi isole, il che, anche se argumentum ex silentio, ha valore dimostrativo, in quanto l'omissione tucididea avrebbe falsato la consistenza dei risultati della spedizione di Tolmide. Quelle isole peraltro non avevano un'alleanza con Atene all'inizio della guerra archidamica (Truc. II, 7,3).

76

LA FURIA

NELLA

«SAEVA

FRANCESCO

PELOPIS

DELLA

DOMUS »

CORTE.

Le due tragedie, scritte al tempo di Augusto, il Thyestes di Vario Rufo e la Medea di. Ovidio, furono dagli antichi giudicate autentici capolavori ([Tac.], dial. 12; Quintil. X, 1,98). Augusto dal canto suo mostró un notevole impegno

finanziario per il teatro. L'ultima repubblica e ancor più l'alto impero si addossarono la pesante opera di costruire edifici teatrali stabili. Non avrebbero profuso tali somme, se non ci fosse stato un vivo interesse per lo spettacolo da parte del pubblico romano, che poteva ormai sedere sulle gradinate appoggiate ai muri perimetrali, sopra ai quali veniva tirato un velario perché riparasse dal sole durante le numerose e sempre piü prolungate festività. Lo stesso sviluppo della frons scenae, molto pià complessa della s&ezé greca, rivela i medesimi intenti monumentali che l'edilizia di Roma e di altre località dell'impero stava manifestando. L'inizio della nuova éra era stato segnato dal teatro di Pompeo, ispirato forse al teatro di Mitilene. Dedicato nel 55 a.C. (Dio XXXIX, 38), venne a tro-

varsi sotto la protezione di Venere Vincitrice, la dea progenitrice della gens Julia, il cui tempio sorgeva sulla sommità della cavea; questa poteva cosi apparire come la gradinata del tempio (Gell. X, 1,7; Tertull. de specz. 10) e come tale costituiva in parte un edificio stabile. Abbellito di opere d'arte, il teatro fu restaurato da Augusto (res gestae 4,9), che nel contempo edificava il teatro di Marcello.

In origine esso era la replica di Giulio Cesare al teatro di gettato a pianta circolare, su terreno pianeggiante a nord del tempio di Apollo spostato per dare maggior spazio al venne col tempio della Piezas. La costruzione della scena,

Pompeo. Era stato prodel foro olitorio e a sud teatro; la stessa cosa avsul lato del Tevere, lar-

ga circa 85 metri, profonda 20, e della cavea del diametro di 150 metri, ebbe un

lungo decorso a causa prima della morte del dittatore, poi delle guerre civili. Augusto nell'intento di presentare il marito della sua unica figlia, Julia maior, nella migliore veste, rinunció a chiamare il teatro col suo nome e lo intitoló a Marcello. Questi non ne vide la fine, se mori nel 23.

Già in occasione dei ludi secolari del 17 il teatro accolse spettacoli greci; data la presenza di numerosi Orientali a Roma, si puó supporre che si trattasse non di palliate né di coturnate, ma degli stessi originali greci. E presumibile che, se le gradinate contenevano più di diecimila spettatori, tanti fossero in Roma gli spettatori, che vi accorrevano, romani o no, in grado di comprendere un dramma recitato in greco. Sappiamo da Svetonio (Aug. 29) che il principe, non contento dello sviluppo edilizio e marmoreo della città, esortava di continuo i piü insigni cittadini, perché ognuno, secondo le proprie disponibilità finanziarie, ab-

bellisse la città con nuove costruzioni e restaurasse le vecchie; fra gli altri intervenne anche L. Cornelio Balbo, costruendo un teatro che, dedicato nel 13 a.C.

T]

(Dio LIV, 25) nella zona di Monte dei Cenci, poteva ospitare circa settemila spettatori.

Non solo l'archeologia ci attesta lo sviluppo dell'edilizia teatrale, ma persino la trattatistica coeva sta a indicarci la cura con cui era affrontata la progettazione dei teatri augustei. L’optimum dell’architettura teatrale veniva allora teorizzato (anche se poi non realizzato) da Vitruvio (de arch. V , 6-9), che stabiliva le

norme per costruire un perfetto teatro. Parallelamente alla costruzione e al rifacimento dei tre teatri romani, Au-

gusto tentó di incentivare anche la produzione teatrale, arricchendola di un nuovo e più aggiornato repertorio; puntando sui drammaturghi contemporanei, cer-

cava vatibus addere calcar (Hor., epist. IT, 1, 217); tuttavia non riusci a catturare Pollione, il quale, manteneva costante il suo personale criterio di giudizio, senza

cedere agli baud mollia iussa. Più di tutti arrendevole alle pressioni e/o ai finanziamenti (rzunera) di Augusto ci appare Lucio Vario Rufo. Da lui Agrippa si attendeva un forte epos sulla battaglia navale di Azio (Hor., carm. I, 6, 1). Certamente di sentimenti filottavianei, come traspare dai sarcastici frr. 1 e 2 Morel, riferibili ad Antonio, Vario

si trovò nell’occasione di scrivere una tragedia per i ludi scenici celebrativi della vittoria di Azio. Sappiamo anche, dalla didascalia contenuta nei codici Parisinus Latinus 7530 e nel Casanatensis 1086, quanto gli rese: un milione di sesterzi, due volte e mezzo di reddito annuo minimo di un cavaliere romano. Non sembra sia stata la piaggeria nei confronti del potere, data la carica antitirannica del tema, e neppure l'adulazione, quelle che hanno guidato la scelta di Vario. L'unico sicuro frammento superstite, se pronunciato con intenzione da Atreo sulla scena, avrebbe potuto suonare come constatazione dello stato di necessità che portò alla guerra aziaca (1 p. 309 KI.): iam fero infandissima, iam facere cogor. Pare gli faccia eco Seneca (Thyest. 1052 sg.):

sceleri modus debetur ubi facias scelus bac ubi reponas, ma il commento di Quintiliano (IIT, 8, 45): neque enim quisquam est tam malus,

ut videri velit...sic Atreus..., sconsiglia di scorgere in Atreo un Antonio, e tanto meno in Tieste, un Ottaviano.

Nel tentativo di restituire qualche frustolo in più al Thyeszes, Lucian Müller (Zum Thyestes des Varius, in «Berl. Philol. Woch.» XIII, 1893, pp. 738 sg.) trasse dalle lettere di Seneca (80,7) una citazione tragica da attribuire a Vario: ille qui in scaena latus incedit et baec resupinus dicit: 'en impero Argis; regna mibi liquit Pelops, qua ponto ab Helles atque ab Ionio mari urguetur Istbmus,' servus est, quinque modios accipit et quinque denarios. 78

I versi, il primo riportato anche da Quintiliano (IX, 4, 140), sono certa-

mente tragici, ma destinati a restare fra gli incerti (O. Ribbeck, T. R.F., Lipsiae 1899, p. 289) . Al Müller si aggiunse U. Wilamowitz (Lesefrächte, in «Hermes» XXXIV, 1899, p. 229), che, sempre in Quintiliano (XI, 3, 73: itaque in iis quae ad scaenam componuntur fabulis artifices pronuntiandi a personis quoque adfectus mutuantur, ut sit Aerope in tragoedia tristis, atrox Medea, attonitus Aiax, truculen-

tus Hercules), scorgeva un nuovo spunto del Thyestes a causa della presenza del personaggio di Erope. Miglior fortuna ebbe un terzo ritrovamento in Mario Vittorino (GL VI p. 60 K.); il frammento:

primum buic nervis septem est intenta fides variique apti vocum moduli ad quos mundi resonat canor in vestigia se sua volventis,

riportato così da A. Klotz (Scaenicorum Romanorum fragmenta, I, p. 309), già agli occhi di Ch. G. Heyne (P. Virgilius Maro, I, p. 467) pareva essere anteriore a Virgilio (georg. II 401 sg.): ...redit agricolis labor actus in orbem atque in se sua per vestigia volvitur annus.

Rappresentato nel 29 a.C., il Thyestes non mancò di ispirare l’amico poeta, che in quel momento attendeva alle «Georgiche». Un caso inverso deve essere offerto dal frammento incerto Ribbeck?, p. 266 = Klotz, p. 310: et frondosam semipulatam queritur vitem,

che già Filargirio (ad Verg. buc. 2,70) attribuiva a Vario: frondosa vitis, idest de qua si quis biberit, furit. Sic [a] Varius... La cronologia vuole che in questo caso la priorità vada Virgilio. — Naturalmente non conosciamo il Thyestes di Vario, ma sappiamo che esso fu letto sia da Virgilio, sia da Seneca tragico: «Varii quoque Thyesten Senecae in manibus fuisse certum est» !. Scontata é anche la polemica antiantoniana di Vario ?; perció si & prodotta una tendenza nella critica, volta a vedere nel Thyestes di Vario una tragedia aggiornata, che si rifaceva alla omonima di Ennio, di cui era stato lettore certo (e forse spettatore) Cicerone (Tusc. I 106: exsecratur luculentis sane versibus apud Ennium Thyestes, primum ut naufragio pereat Atreus; durum boc sane; talis enim interitus non sit sine gravi sensu; illa inania: ‘ipse summis saxis fixus asperis, evisceratus,

latere pendens, saxa spargens tabo sanie et sanguine atro'. 79

non ipsa saxa magis sensu omni vacabunt quam ille ‘latere pendens, cui se bic cruciatum censet optare, quae essent dura si sentiret, [sunt] nulla sine sensu. illud vero perquam inane:

‘neque sepulcrum, quo recipiat, babeat, portum corporis, ubi remissa bumana vita corpus requiescat malis". vides quanto baec in errore versentur: portum esse corporis et requiescere in sepulcro

putat mortuum; magna culpa Pelopis qui non erudierit filium nec docuerit quatenus esset quidque curandum; (in Pis. 43): Thyestea est ista exsecratio, poetae vulgi animos, non sapientium, moventis, ut tu 'naufragio expulsus uspiam, saxis fixus asperis,

evisceratus latere penderes’, ut ait ille: 'saxa spargens tabo, sanie et sanguine atro’ (fr. CL a Jocelyn). Poiché «plus qu'en Virgile, Auguste a trouvé en Varius le poéte du principat» ?, non c'é dubbio che la tragedia, rappresentata nell'euforia del trionfo aziaco, suonasse come propaganda ottavianea. In altri casi sappiamo che la tragedia forniva pretesti di attualità: l'armorum iudicium parve allusivo nel momento in cui, morto Cesare, Ántonio e Ottaviano si contendevano la successione,

come Ulisse e Aiace le armi del morto Achille; nello stesso tempo un Brutus fu tolto dal cartellone per non rinfocolare la reazione contro i Cesaricidi. Del resto sulla scena tutto era possibile. Il caso limite può essere costituito dall’«Eurisace» di Accio, che l’attore Esopo rappresentò nel 57, riuscendo ad ammiccare al recente esilio di Cicerone (Schol. Bob. ad Cic., pro Sest. 57): Eurysacen ita ut per

omnem actionis cursum tempora reipublicae significaretur et quidem Ciceronis fortuna deploraretur. ! Se mai di allusioni si poteva parlare, il procedimento doveva essere molto sottile. A giudicare dal trattamento, che del medesimo soggetto ha fatto Seneca, una maledizione pesava sulla casa di Pelope (Sen., Thyest. 28-29: rabies parentum duret et longum nefas | eat in nepotes), esattamente come il fratricidio di Romolo pesava sul destino di Roma, fatalmente portata a guerre fratricide ^. La Furia, che in Seneca dialoga con l’umbra Tantali, se già fosse stata in Vario, potrebbe avere ispirato l'Aletto virgiliana (Aer. VII, 335 sg.: tu potes unanimos armare in proelia fratres | atque odiis versare domos, che mette i fratelli contro i fratelli (Sen.

Thyest. 32: superbis fratribus regna excidant; 40: fratrem expavescat frater, 47-48: fratris et fas et ides [iusque omne pereat), e porta la distruzione nella casa regale, scatena la guerra, fa impazzire nel mito i due fratelli, Atreo e Tieste, nella tragedia romana allusivamente due fratres patrueles, Antonio e Ottaviano. Il verso tragico che, Thyesteo more, Porcio Latrone (Seneca, contr. I, 1, 21: cur fugit fratrem?

scit ipse) declamava per dimostrare non irasci tantum debere, sed ] u r e r e, qualora fosse di Vario, starebbe ad indicare la presenza della Furia infernale. A detta di Filargirio (ad Verg., buc. 8,10), la tragedia era omnibus praeferenda, dove

omnes sono o le altre sue tragedie o, pià verosimilmente, tutte le tragedie latine; in tal caso Vario riportava la palma sull'intera produzione tragica romana, e la riportava probabilmente anche perché affrontava il grande tema, che Orazio così fissava (epod. 7,17-20): acerba fata Romanos agunt [ .scelusque fraternae necis... Si potrebbe concludere che Vario abbia agito per sole istanze estetiche; ma 80

non si devono scartare altre ragioni per le quali Vario avrebbe scelto come soggetto il Thyestes. Diciamo, in primo luogo, l'emulazione: c'era già un Thyestes di Ennio, la cui fama era ancora viva, se Cicerone la ricorda non solo in opere dotte di filosofia (Tusc. I, 106-107; III, 25) o di retorica (or. 103; Brutus 78), ma persino in un'orazione (ir Pis. 43).

A parte Cassio Parmense, che si suppone — ma nonè sicuro — autore di un omonima tragedia, un Thyestes, abbiamo notizie di omonime tragedie di Gracco (p. 319 Kl.), di Curiazio Materno ([Tac.], dial. 3,31), di Basso amico di

Marziale (V, 53,1); tali tragedie stanno a se il tema della ributtante mitica cena e Del Thyestes di Vario non abbiamo (a.p. 91), il quale pare portasse il tema del drammatica, che richiedeva toni elevati, dia, pur parlando spesso di Vario (Hor.,

indicare quanto gradito ai Romani fosdella conseguente vendetta?. testimonianze dirette e coeve. Orazio Thyestes come esempio di alta tensione non fa esplicita parola di questa tragesat. 1,5,40; 93; 6,55; 9,23; 10,44; 81;

II, 8,21; 63; epist. II, 1,247; carm. I, 6,1; a.p. 55). Non siamo in grado di spie-

garci perché Orazio, che pure lodavaVario perché epico, nonsi mostrasse altrettanto entusiasta del poeta tragico. Si é supposto che l'intero soggetto, che doveva servire di traccia alla tragedia, non si arrestasse alla cena, ma, se si presta fede alle fabulae di Igino (88,

3-11), si prolungasse fino alla nascita di Egisto e alla sua vendetta. Ma non arriveremo a dire che, con facile etimologia popolare, Vario facesse Aegistus = Augustus, questo Apollinis filius existimatus (Suet. Aug. 94,4), quello nato da Pelopiae da Apollo; e neppure che si possano attribuire al Thyestes di Vario altri anonimi frammenti (fr. inc. fab. LXV-LXVI Ribbeck?) solo per congruità di tema. A noi basta aver additato la figura di Alletto nel VII libro dell' «Eneide»; il libro che viene dalla critica tacciato di ripetitività rispetto al libro I, trova ora una sua più limpida genesi. Immaginata come la Discordia enniana $, trasformatasi in una divinità infernale decisa a separare i fratelli, & stata, prima che da Virgilio e da Seneca tragico, usata come personaggio (in parte simbolico in parte operativo) già di Vario, con il preciso scopo di scatenare una deplorevole guerra fratricida; da ció la sua attualità nel trionfo aziaco. 1 Fr. Leo, De Senecae tragoediis observationes criticae, Berolini 1878, p. 173; K. ANLIKER, Prologe und Akteinteilung in Senecas Tragödien, [Noctes Romanae 9], Bern-Stuttgart 1960, p. 24. 2 I. LANA, L'Atreo di Accio e la leggenda di Atreo e Tieste nel teatro tragico romano, in «Atti Acc. Scienze Torino» XCIII, 1958-1959, pp. 325 sgg.; E. Zorzi, Sul Tieste di Seneca, in «Aevum» XXXIX, 1965, pp. 195 sg.; A. LA PENNA, Atreo e Tieste sulle scene romane (Il tiranno e l'atteggiamento verso il tiranno), in «Studi classici in onore di Q. Cataudella», Catania 1972, I, pp. 364 sgg. 3 H. BARDON, La littérature latine inconnue, Paris 1956, II, p. 33. ^ HOR., epod. 7,17-20: sic est: acerba fata Romanos agunt Jscelusque fraternae necis { ut inmeren-

Lis fluxit in terram Remi / sacer nepotinus cruor. 5. E. LEFEVRE, Der Tbyestes des L. Varius Rufus, in «Akad. Wiss. Lit. Mainz» 1976, N. 9, pp. 20 sgg.

6 E. NORDEN, Emmois imd Vergil, Leipzig-Berlin 1915, pp. 9 sgg.; R. HEINZE, Virgils epische

Technik, Leipzig 19155, p. 184. Ovviamente sono più remoti gli accostamenti con Euripide; W.F. KNIGHT, The integration of Allecto, «Class. Journ.» (Malta) III 3, pp. 3-4; B. OTIS, Virgil, Oxford 1964, p. 324; e con Eschilo, S. SrABRILA, Latin tragedy in Virgil’s poetry, Wroclaw 1970, p. 69; meglio scorgere con V. PoEscur, Die Dichtkunst Virgils. Berlin-New York 1977, p. 122-125, un accenno alle guerre civili che si concludono con il 2? triumvirato.

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LETTURA

STORICA

DEL

« DIALOGUS

PAOLO

DE

ORATORIBUS »

DESIDERI

1. Non si tratta di ricavare dall'opuscolo tacitiano i singoli dati di interesse storico, ma di cogliere il valore documentale del testo nel suo complesso, recuperando il significato storico del dibattito che inscena e delle diverse posizioni che vi figurano; dovrebbe emergere il carattere storiografico, pià che letterario, dell'opuscolo: forse, come pensa il Syme, una specie di prodotto collaterale, in veste drammatica, dello sforzo di ricerca e d'interpretazione compiuto per scrivere i primi libri delle Historiae 1. Apparentemente non ci sono problemi: nella lettera dedicatoria a Giusto Fabio, con cui il Dialogus si apre, Tacito afferma che è stata sua intenzione di riprodurre con fedeltà quasi stenografica il contenuto di una conversazione che ha avuto luogo, in sua presenza, al tempo della sua giovinezza, tra alcuni degli uomini più eloquenti e in vista di allora, sul tema della crisi dell'eloquenza contemporanea 2. Le determinazioni di ordine cronologico sulle circostanze in cui questa conversazione si sarebbe svolta sono abbondanti (fin troppo) 3; gli in-

tervenuti alla discussione sono tutti personaggi storici; il tema trattato è quanto meno verosimile, visto che compare con una certa frequenza nella letteratura della prima età imperiale *. Ma naturalmente si sa che da Platone in poi è comune l’uso della forma dialogica nella trattatistica filosofica e politica, o più genericamente letteraria, e che spesso il dialogo pretende di non essere un puro dato formale, un espediente espositivo, ma un autentico dato storico: quasi un'esi-

genza di concretezza, o meglio, nel caso dei dialoghi ciceroniani che vengono di norma assunti a modelli del Dialogus tacitiano 5, una ricerca di autorevoli quanto artificiali padrini delle posizioni poste in contraddittorio nel testo e specialmente di quella alla quale l’autore finisce poi per dare il proprio assenso. Tuttavia, proprio in casi come questi, e tanto più quanto più vicina al momento della stesura dell’opera viene collocata la conversazione che si pretende di ricostruire per scritto, esiste un’ampia presunzione, che deve valere fino-a prova contraria,

di sostanziale corrispondenza fra le idee e il carattere dei singoli protagonisti del dialogo, e le idee e i caratteri che erano stati propri dei personaggi storici che a quei protagonisti prestavano il loro nome: ciò è richiesto da leggi di verosimiglianza che non conveniva violare, e che in ogni caso doveva essere ben difficile violare impunemente; possibili forzature dovevano essere contenute in limiti molto precisi. Nel caso del Dialogus, la sua redazione viene collocata al più tardi

al 107 ca., vale a dire a trent'anni al massimo di distanza dalla presunta

conversazione $; e bisogna per di più tener conto del fatto che Tacito è, almeno in età traianea, per così dire professionalmente uno storico, e quindi presumibilmente poco portato, pur nell’ambito di un genere non storiografico, ad operare di fantasia. Se dunque potrà essere considerata fittizia, per prudenza, la circo83

stanza stessa della conversazione, non sarà certo arrischiata l'ipotesi che le idee espresse nel corso della conversazione siano correttamente attribuite ai loro legittimi titolari in quanto persone storiche; o quanto meno, che é quello che interessa, che queste idee avessero comunque una paternità, individuale o sociale, appartenessero cioè a persone o a gruppi significativi della realtà del tempo, i cui connotati Tacito intendesse rievocare per fornire, anche se in maniera assai sintetica e limitatamente alle componenti intellettuali, un quadro totale di quella società 7. L'identificazione di questi individui e soprattutto di questi gruppi è l'obiettivo finale di una lettura guidata da interesse storico del Dialogus: essa prenderà le mosse dal tentativo di dare un concreto volto a questi personaggi, usando sia i dati che risultano dal Dialogus stesso, sia, per quel poco che & possibile, dati esterni; in tal modo si potranno poi collegare significativamente le idee espresse dai vari interlocutori alla realtà biografica e sociale di ciascuno. In conclusione dovrebbe risultare giustificata la scelta da parte di Tacito di quei particolari soggetti di conversazione che costituiscono il contenuto del Dialogus, e insieme dei protagonisti, tanto come individui quanto soprattutto come espressione di gruppi: a questo punto potremo vedere nel Dialogus la rappresentazione emblematica delle tensioni e dei contrasti di un'epoca, nonché delle forze politiche e sociali in azione; potremo forse anche capire meglio il valore che ha per Tacito questa rievocazione. 2. In realtà l'unico dei personaggi attivi ὃ del Dialogus che si possa considerare ben caratterizzato, da un punto di vista per cosi dire sociologico, ὃ Marco Apro, una figura che appare isolata anche per la parte che sostiene nella discussione: egli ἃ infatti l'unico ad affermare la superiorità, o almeno la pari dignità, dell'oratoria moderna rispetto a quella antica. Mentre gli altri due principali interlocutori, Materno e Messalla, riducono al minimo le informazioni sulla propria esperienza biografica, Apro ci & prodigo di particolari, cosi come fornisce indicazioni rilevanti sull'estrazione sociale di due oratori contemporanei che egli considera come i simboli viventi delle grandi possibilità offerte dalla nuova oratoria: Marcello Eprio e Vibio Crispo. Di se stesso Apro traccia un profilo i cui elementi essenziali sono l'origine provinciale, la nascita in una piccola città, la mancanza di tradizioni familiari da una parte; e dall'altra la maggiore importanza attribuita ai propri successi oratori che non alla carriera politica, atteggiamento che si potrebbe considerare stravagante a tener conto delle difficoltà che quella carriera doveva aver comportato in quelle condizioni di partenza ?. Ma si tratta di tutt'altro che di stravaganza: & una voluta provocazione nei confronti degli interlocutori, tutti ben altrimenti titolati e tutti imprigionati in un ruolo che di politico non ha più che il nome; verso quelle cariche un tempo prestigiose, la questura, il tribunato, la pretura, l’«homo novus» che vi è acceduto in

un'epoca nella quale sono solo tappe di una carriera burocratica può permettersi

un tono di disinvolta noncuranza, precluso ai discendenti delle famiglie che hanno costruito l'impero. E ovvio che il potere non sta più in quelle cariche; ma per Apro esse rappresentano un passaggio utile e quasi obbligato per farsi conoscere e impostare cosi la propria ascesa negli ambienti che contano della capitale; per 84

gli altri viceversa sono lo strumento di una tortura sofisticata, il non poter dimenticare quello che sono stati e non possono piü essere.Il centro del potere risiede certo nell'imperatore e nella sua corte; ma Apro ritiene che chiunque, per quanto modeste siano le sue origini, possa mirare a impadronirsi di una parte anche rilevante di quel potere: e per conseguire questo obiettivo serviranno non le cariche, che & l'imperatore stesso ad assegnare, ma le capacità individuali finalizzate a dominare un campo di azione aperto a tutti, quello del discorso pubblico. L'affermazione dell'importanza determinante dell'iniziativa individuale nel guadagnarsi una posizione di prestigio e di potere rappresenta la chiave di volta dell'argomentazione di Apro, e spiega insieme il compiacimento col quale egli si sofferma sui dati per lui più importanti della sua biografia: la caratterizzazione. tacitiana del personaggio risulta così di un’assoluta coerenza, in quanto si saldano perfettamente in un’assieme unitario e convincente connotati ideologici, psicologici, sociologici. Si osserverà per inciso che alla realizzazione di una figura così armonica e intimamente vera non può non aver giovato, forse in maniera

decisiva, la lunga consuetudine e la intensa frequentazione col maestro dell’allievo Tacito, il quale «non solo /o ascoltava con attenzione nei processi, ma /o seguiva anche a casa e in pubbblico con un'incredibile avidità di apprendimento e con un ardore tipicamente giovanile, per non lasciarsi sfuggire neppure le sue chiacchiere, le sue discussioni, perfino i suoi esercizi privati di dizione» 19, Gli stessi, o assai simili, connotati Apro assegna ad Eprio Marcello e Vibio Crispo !!, i due uomini che rappresentano per lui il punto più alto al quale può giungere l’uomo nuovo in veste di oratore che egli stesso ritiene di incarnare, i due principes in Caesaris amicitia". Anzi il valore esemplare della loro vicenda individuale è esplicitamente messo in rilievo: «quanto più modesti e vili sono stati i loro natali, e quanto più notevoli la povertà e le ristrettezze che li hanno accolti alla nascita, tanto più chiaro e luminoso è l'esempio che essi costituiscono per dimostrare l’utilità dell'eloquenza oratoria: senza essere raccomandati dalle loro origini, privi di disponibilità economiche, nessuno dei due di specchiati costumi, uno anche di aspetto spregevole, orami da molti anni sono gli uomini più potenti della città e, finché è loro piaciuto, sono stati principi del foro, mentre ora, principi nell’amicizia di Cesare, fanno il bello e il cattivo tempo, e dal principe stesso sono amati sì, ma insieme rispettati, perché Vespasiano, vecchio venerabile e tollerantissimo del vero, ben si rende conto che tutti gli altri amici suoi hanno la ragione della loro forza in ciò che egli stesso ha dato loro e che può a suo piacimento togliere e trasferire su altri, ma Marcello e Crispo sono arrivati alla sua amicizia grazie a qualcosa che non hanno ricevuto e non può essere ricevuto dal principe» 35. Qui addirittura le possibilità di ascesa personale non appaiono pregiudicate non solo dalla mancanza di nobiltà (come nel caso di Apro stesso), ma neppure dall’umiltà della condizione economica di partenza (di sè Apro non dice niente a questo proposito); anche l’handicap della nascita in una cittadina periferica, Marcello a Capua e Crispo a Vercelli, può essere superato senza difficoltà (Apro era ancora più svantaggiato, da questo punto di vista) 15. Per Messalla e Materno il discorso è più difficile. Nessuno dei due fa dichiarazioni sulla propria condizione sociale o economica di partenza, e non può essere considerato suffi85

ciente un argomento ricavato da questo stesso silenzio: cio& che essi non ne parlerebbero perché personaggi ben noti dell'aristocrazia romana, e in ogni caso alieni dall'esibizionismo individualistico dell’«homo novus» Apro. Tuttavia una conclusione di questo genere difficilmente può essere evitata (anche se, almeno per il caso di Materno, essa venga raggiunta su base esclusivamente indiziaria) quando si considerino altri elementi, interni e, per quanto riguarda Messalla, anche esterni al Dialogus. Il caso di Messalla & dunque pià semplice: alla nobiltà della sua famiglia fa esplicito riferimento Materno 5, e del resto sia il personaggio di Vipstano che la famiglia sono altrimenti conosciuti 16; inoltre Messalla stesso afferma di essere di Roma e di conoscerne perciò bene i vizi 17, ed è infine l'unico dei personaggi del Dialogus a parlare di maiores nostri nei discorsi retrospettivi sull'epoca repubblicana 18. Quanto a Materno, egli afferma di essere un senatore ?, e questo è quanto

di certo si puó dire su di lui; l'interesse per Catone sembra per altro collocarlo in ‘una tradizione «repubblicana», rischioso appannaggio di un ristretto numero di nobili famiglie romane 2°. L'identificazione col «sofista» Materno mandato a morte da Domiziano non è certa, ma confermerebbe la dimensione antitirannica del personaggio 21; altre possibili identificazioni con personaggi attestati epigraficamente sono troppo labili per potere essere d’aiuto 22. 3. La precisazione, nei limiti del possibile, dei connotati storico-sociale dei protagonisti del Dialogus, conseguita pressoché esclusivamente attraverso la valorizzazione di elementi interni, deve essere ora messa alla prova e fatta reagire sui contenuti dei discorsi che Tacito fa loro pronunziare; in tal modo si potrà, auspicabilmente, istituire quel collegamento fra sistema di idee e connotati sociologici dei singoli personaggi che consentirà di mettere meglio a fuoco il valore documentale del nostro testo. Ma prima di tutto bisogna ricordare qual e il tema, o i temi, della discussione, come viene o vengono posti, come si determina la

sequenza degli interventi; è all’interno di questo schema, del quale è ovviamente responsabile Tacito, che dovranno essere esaminati i veri e propri contenuti dei

discorsi. La conversazione viene collocata da Tacito nella casa di Materno, il giorno dopo la recitazione del suo Cato, che è stato interpretato come un attacco ai potenti 25; Materno afferma che sta per dedicarsi alla stesura di un’altra tragedia, il Thyestes, nella quale rincarerà la dose rispetto a quello che ha scritto nel Cato ?*, e quest'affermazione provoca un intervento di Apro che pone la prima questione: é lecito darsi alla poesia quando «tante cause di amici, tante clientele di colonie e municipi ti chiamano nel foro»? ? Il problema & dunque quello della maggiore o minore rilevanza dell'attività poetica rispetto a quella forense, posto che, come viene in seguito precisato 26, una persona possa svolgere indifferentemente sia l'una che l'altra, e tenuto conto del fatto che l'attività poetica può comportare rischi personali non minori dell'altra ?. La posizione di un problema come questo non ἃ casuale: il fenomeno dell'abbandono della vita del foro, e in generale dell'attività oratoria e politica, & riscontrabile già nell'età di Nerone 28, ed & certo continuato nell'età dei Flavi 25: né

si puó, naturalmente,

dimenticare il caso di Tacito all'inizio del regno di Traiano, il caso forse piü illu86.

stre e più felice, certamente quello che più ha pesato nella decisione del nostro aitore di far partire proprio da qui la discussione sulla crisi dell'oratoria, che su questo tema inoltre, tornerà in forma conclusiva nell'ultimo discorso di Materno ??, Un fenomeno come questo non era generalmente visto con favore a corte, in quanto di regola aveva il significato di una contestazione del potere imperiale; specialmente quando questo ritiro non era silenzioso, ma si accompagnava, come nel caso di Materno, ad un impegno letterario su temi di natura politica, anche se trattati in forma di tragedia, e magari con personaggi tratti dal mito: allora l'ostilità dei «potenti» poteva diventare pericolosa. In siffatto contesto il discorso di Apro a difesa del prestigio dell'oratoria suona prima di tutto come una presa di posizione, anche se non volgare, a favore del regime: l'impegno nel settore politico-giudiziario appare come incomparabilmente piü gratificante che non quello sul terreno letterario, perché la società, e non solo quella della capitale ma anche quella delle città italiche e provinciali, è interessata e sensibile a quanto avviene in quel settore e quindi pronta a tributare onori e riconoscimenti a coloro che in esso eccellono; e se anche si possono correre dei rischi nell’esercizio di questa attività, in primo luogoè più sensato correrli qui che non nell’altra, e inoltre, la stessa capacità oratoria ti dà la capacità di difenderti

con successo e di avere ragione dei tuoi nemici. La difesa del regime non è improntata a un trionfalismo di maniera, ma a un realismo spregiudicato, con punte quasi machiavelliane 31: ne emerge il quadro di una società tendenzialmente violenta, nella quale l’importanza stessa dell’attività giudiziaria, nelle più varie sedi, è la spia di tensioni costanti a tutti i livelli, individuali e collettivi, una so-

cietà nella quale si vive pericolosamente e si è costretti a mettere continuamente in gioco tutto quello che si ha; ma nella quale, proprio per questo, la posizione di ‘ chi possiede e sa usare l'arte della parola è di rilievo particolare. E. chiaro che Apro è perfettamente integrato nel sistema, di cui accetta i vantaggi e gli svantaggi; e ciò perché è questo sistema che gli ha consentito di emergere, valorizzando competenze che tutti possono teoricamente acquisire, senza preclusioni di ordine sociale: la sua origine modesta e provinciale non gli ha impedito, come non l’ha impedito a Marcello e a Crispo, di arrivare ai gradi più alti della scala sociale, ed egli può ora a buon diritto farsene un vanto, che si traduce in un'esaltazione delle proprie doti naturali e della propria capacità di farsi strada. Contro questa linea argomentativa di Apro, che è dunque agevole ricondurre alla caratterizzazione sociologica del personaggio sopra ricostruita sulle parole di Tacito, il discorso di Materno, il quale è impegnato a giustificare la propria scelta dell'attività letteraria, si sviluppa lungo due direttive convergenti: da una parte la denuncia dell’ inaccettabilità della situazione sociale presente, per il troppo alto livello di violenza 52, e dall’altra la considerazione che in realtà il prestigio degli oratori non basta a garantire la loro libertà di fronte ai dominanti 33. La scelta dell'eloquenza poetica in queste condizioni non è un ripiego: essa significa da una parte un tentativo di riportare l’arte dell'espressione ‘a quello che era in origine, e cioè strumento per la celebrazione delle imprese virtuose, mentre oggi è diventata arma per la difesa dei malfattori 34, dall'altra l’individuazione di un tipo di attività che consenta, sperabilmente, di conserva87

re il proprio prestigio di fronte ai concittadini e insieme la propria libertà rispetto all'imperatore #5. Il succo del discorso può dunque riassumersi in un rifiuto dell’ottimismo, sia pure sfumato, di Apro circa la qualità della vita sociale e politica del momento; per Materno sostanzialmente Apro non tiene nel debito conto il fatto che, con tutto il suo prestigio, l'oratore, anche al culmine della carrie-

ra, non é piü che un liberto dell'imperatore 56, L'accento sulla «libertas» à del tutto al suo posto sulle labbra dell'autore di un Cato, e tende a confermare il carattere aristocratico del personaggio; ma per una valutazione più esaustiva converrà tener conto anche del discorso finale di Materno. 4. E a questo punto, come si ricorderà, che entra in casa di Materno Mes-

salla, il cui intervento determina, dopo una breve schermaglia, la decisione di continuare la discussione spostandone alquanto il fuoco: si tratterà ora del rapporto tra l'eloquenza antica e la moderna, e in particolare del punto se e per quali motivi quella moderna sia decaduta rispetto all'altra. Alla determinazione di questo tema, del resto tutt'altro che nuovo, non solo per i personaggi del Dialogus 57, si arriva per una richiesta dello stesso Messalla, che fa seguito ad

una sua battuta ironica su Apro, accusato di continuare ad occuparsi di «controversie scolastiche», usando il suo tempo libero «al modo dei nuovi retori anziché degli antichi oratori» 38; alla risposta indispettita di Apro Messalla, fingendo di credere che il suo avversario non parli seriamente quando difende i moderni contro gli antichi, propone che si indaghino e si espongano «le cause di questa infinita differenza» 55. Il tema nasce dunque già segnato, nelle intenzioni del proponente, dalla convinzione, che si rivela poi comune anche a Secondo e a Materno ^5, della superiorità degli antichi; ciò implica un pessimismo circa la situazione presente che si collega facilmente con le considerazioni precedentemente svolte da Materno. Non sorprende pertanto trovare di nuovo Apro schierato su posizioni opposte, cioè in questo caso impegnato a negare il problema: anche qui la sua linea è prima di tutto quella di giustificare l’esistente. Egli contesta che sia lecito parlare di antichi e moderni facendo riferimento alla generazione di Cicerone da una parte, e alla propria dall’altra, rifiuta cioè una periodizzazione basata su una cesura rigorosa all’interno di una sequenza cronologica estremamente

breve, più o meno centoventi anni *; non si tratta di un'argo-

mentazione capziosa, come pretende Messalla nella risposta 42: semplicemente Apro non accetta l'estensione alla storia dell’oratoria di uno schema cronologico che ha un valore per lui esclusivamente politico, in quanto contrappone la repubblica al principato. Per Apro si deve parlare dell’oratoria come di una realtà distinta dalla politica, il che indurrà a considerarne la storia dell’ultimo secolo come una continua evoluzione, priva di fratture; un’evoluzione in senso positi-

vo, in quanto si è assistito a un costante affinamento e perfezionamento delle capacità espressive, parallelo del resto alla richiesta del gusto del pubblico, sempre meno disposto a sopportare la pesantezza e la lentezza dell’oratoria di un tempo 4. All'ottimismo di Apro si oppone, come era da aspettarsi, Vipstano Messalla, il quale si dichiara disposto a rinunciare alla periodizzazione contestata da Apro, ma a condizione che venga comunque riconosciuta la superiorità de88

gli oratori «di quei tempi» ‘4; in realtà la successiva argomentazione ripropone la contrapposizione passato/presente, collocata peraltro sul piano del costume socio-culturale piuttosto che su quello politico (come sarà invece nel discorso finale di Materno). Quali dunque le cause della decadenza? Il lungo intervento di Messalla appare dominato dalla convinzione che essa derivi dalla crisi dell'antico sistema educativo, e più precisamente dal fatto che la famiglia ha perduto quasi completamente la capacità di controllare e determinare i meccanismi della riproduzione del tessuto sociale, lasciando cosi via libera al nuovo deprecato sistema, quello che si vale della scuola pubblica; & l'istruzione massificata e anonima, che pretende di surrogare con programmi standard di tecnica retorica l'antico tirocinio nel foro e il libero approfondimento delle arti liberali e della ricerca filosofica, a determinare l'esaurimento delle capacità oratorie: questo esaurimento è dunquela spia di un malessere sociale assai più profondo 45. Non c’è bisogno di ripercorrere analiticamente le argomentazioni di Messalla: per rendersi conto di quelle che sono le valenze sociali di quel discorso saranno sufficienti poche considerazioni. La famiglia di cui Messalla parla, quella che era una volta l'agente unico del processo educativo, & la grande famiglia aristocratica tradizionale, come provano: l'elenco delle madri modello, Cornelia madre dei Gracchi,

Aurelia di Cesare, Azia di Augusto 46; la dispendiosità senza limiti di un'educazione che, come insegna il caso esemplare di Cicerone, doveva prevedere di necessità prolungati soggiorni in Grecia e Ásia, per l'acquisizione delle varie discipline, soprattutto la filosofia ?7; la possibilità dei padri di collocare i propri figli, allo scopo di iniziare l'attività oratoria nel foro, presso i migliori oratori della città ‘8. Queste famiglie non sono scomparse, ma è scomparsa la loro capacità di gestione dell'educazione dei figli insieme a tutto il «mos maiorum» di cui erano depositarie; il loro. posto nel processo educativo è stato preso da un organismo separato, che non & chiaro a chi sia responsabile del proprio operato, che fornisce una indifferenziata

istruzione a livello esclusivamente tecnico, che non & in

grado di assicurare il vitale collegamento fra l'esercizio e lo studio teorico da una parte e la prassi giudiziaria e politica dall'altra *. Messalla non denuncia apertamente quello che sono le conseguenze in positivo di questo nuovo sistema di educazione retorica: emergenza di nuovi ceti sociali, funzionarizzazione e burocratizzazione dell'attività politica; egli si limita a rilevare che le antiche famiglie repubblicane con esso e per esso hanno cessato di riprodursi come protagoniste della vita dello stato. 5. La posizione di Messalla risulta chiarita dal confronto con un importante passo dell’Institutio Oratoria di Quintiliano, quello in cui si discute il problema se sia preferibile l'educazione domestica o quella scolastica 59. In verità neppure Quintiliano osa dichiarare che l'educazione pubblica è uno strumento di promozione sociale o, tanto meno, che il suo sviluppo corrisponde a un preciso interesse dello stato imperiale: non una parola da lui, nonostante la stretta intimità liberamente dichiarata con i vertici della casa Flavia, sull’impulso decisivo dato da Vespasiano e da Domiziano alla costituzione di una scuola di stato, del quale egli stesso ha beneficiato 5; anche con le grandi famiglie bisognava convivere, 89

ed era inutile provocarle ricordando loro realtà spiacevoli, che si poteva piuttosto cercare di nascondere o almeno di mascherare. La decisa presa di posizione quintilianea a favore dell'educazione pubblica si appoggia pertanto a considerazioni di ordine didattico e pedagogico, e non politico; ma resta il fatto che l'educazione domestica é rifiutata anche nell'ipotesi della presenza delle migliori condizioni possibili, cio& la massima cura della famiglia nel seguire la formazione dei figli, e la disponibilità degli insegnanti più validi; e che la denuncia, comune al Messalla tacitiano, della diseducatività dell'ambiente familiare, non & qui correlata alla rievocazione di un mitico passato non lontano, nel quale la famiglia rappresentava la sede naturale del processo educativo: in Quintiliano i dati del presente sono assolutizzati, la famiglia d'oggi & la famiglia di sempre, ed essa & istituzionalmente inidonea ad educare, perché corrotta e corruttrice. In realtà é evidente dalla descrizione dei caratteri specifici di questo contesto di corruzione che Quintiliano ha in mente non certo la famiglia umile e di media fortuna, ma proprio quella del pià alto livello sociale, e il cerchio cosi si chiude: Quintiliano e «Messalla» testimoniano della stessa situazione di decadenza morale delle grandi famiglie; ma «Messalla», che vi ὃ personalmente coinvolto, ne trae spunto per

una ricostruzione idealizzata di una ipotetica realtà trascorsa, e per un attacco tanto indiscriminato quanto vano contro una struttura, la scuola, che & per lui con la sua stessa esistenza la prova del fallimento della sua classe, mentre Quintiliano, che finge di ignorare le complesse implicazioni socio-politiche del discorso di «Messalla», indica in quella struttura una più valida alternativa al sistema educativo su base familiare. 6. Il rapporto con l'Institutio Oratoria, pubblicata verosimilmente qualche anno prima del Dialogus 52, mostra quanto sia fortemente e concretamente radicato questo scritto nel contesto storico-culturale al quale appartengono i suoi personaggi: Messalla potrebbe essere considerato il prototipo di quei «nonnulli», secondo Quintiliano, che sostengono la superiorità dell'educazione familiare, «per non so quale convinzione personale» 75; ; proprio a loro egli dedica questo. paragrafo, che si sarebbe potuto altrimenti risparmiare, tanto evidenti sono per lui, come per i legislatori e i più eminenti scrittori, i vantaggi della scuola. La matrice sociale e economica di Materno non puó essere, come abbiamo

già visto, troppo diversa da quella di Messalla, ma & certo che, rispetto a questi, egli dimostra dinamicità, ricchezza d'iniziativa, capacità di farsi una ragione della realtà, nonché il pericoloso coraggio dell'ironia ?*: con tutto il suo pessimismo e il suo scetticismo Messalla, incapace di trovare un luogo qualsiasi di possibile applicazione di una forza politica, appare rassegnato a svolgere comunque il ruolo oratorio-burocratico assegnato alla sua classe dall'organigramma imperiale; Materno, più realista e creativo, individua per sè un nuovo ruolo e lo svolge con decisione, rifiutando l'altro del quale ha riconosciuto anch'egli l'inadeguatezza. Il suo discorso finale 55 salda i due temi di discussione del Dialogus, nel senso che, nella ricognizione dei motivi per cui l'oratoria odierna è, e non può non essere, inferiore a quella antica, fornisce insieme la spiegazione più autentica della sua decisione di darsi all'attività poetica; questa capacità di sintesi è un'evidente 90

funzione letteraria, cioè serve a identificare il personaggio al quale l'autore conferisce una specie di rappresentatività di se stesso. Materno crede alla cesura fra antichi e moderni, come Messalla, ma spinge già a fondo la sua analisi e dichiara quello che Messalla forse non aveva osato 5: questa cesura non è che il riflesso di una cesura politica; é il capovolgimento della situazione politica che ha determinato il decadimento dell'oratoria. Come dice Apro l'oratoria non & indipendente dal generale movimento della società , ma per Materno il termine di riferimento non può essere la linea di variazione del gusto, né il criterio di giudizio di valore la maggiore o minore capacità di adeguarsi ad esso; il termine di riferimento è il sistema politico-sociale, che richiede più o meno l'esercizio dell'arte oratoria, e il giudizio di valore non può che privilegiare globalmente le prestazioni che si sono avute nelle situazioni storiche più sollecitanti. Se dunque oggi l’oratoria è in crisi, questo è un segno di salute per l'organismo sociale nel suo complesso, e di buon funzionamento delle strutture politiche; la grande oratoria infatti ha coinciso, non a caso, con un periodo, quello dell’ultima repubblica, di

estremo disordine istituzionale e sociale: scomparse o esautorate le tradizionali forme di mediazione politica, l'esasperata conflittualità sociale si sfogava ricorrendo agli strumenti di lotta tipici delle situazioni di anarchia, le armi e l’abilità oratoria. Materno è sincero quando afferma che l’anarchia è un prezzo troppo grave da pagare per avere dei buoni oratori 57; non lo è invece quando pretende di esaltare, nel finale del suo discorso, l'assoluta perfezione del sistema in cui vi-

ve: qui il suo tono si fa scopertamente ironico, e del resto non si potrebbe altrimenti spiegare il contrasto con le affermazioni di segno opposto del suo primo intervento 58, Certo è in ogni caso che egli non considera l'oratoria un'attività che possa al giorno d oggi soddisfare una personalità ambiziosa, o quanto meno desiderosa di impegnarsi in uno spazio libero: in questo campo si opera per cosi dire sotto tutela, fosse pure una tutela lungimirante, rivolta al supremo interesse . pubblico; è piuttosto un gioco, che si svolge nel rispetto di regole rigorose, in cui i margini di possibile manovra sono segnati con precisione, e le infrazioni sono punite con severità. Meglio la libertà dell'agone letterario, pure non privo di rischi, come si € visto; in realtà l'«otium» diventa, in questa ottica, «negotium»:

l'attività politica, chiusi i canali istituzionali, si trasferisce sul piano culturale, e nasce l'intellettuale libero, che si contrappone ai letterati corifei del regime non perché abbia un atteggiamento programmaticamente avverso al potere, ma perché è indipendente dal potere 55. Questo orientamento, questa scelta di vita, si imposta evidentemente, come abbiamo già rilevato, su un terreno di generale iinsoddisfazione per le opportunità offerte dal presente stato di cose che é tipico di quel ceto aristocratico al quale appartiene anche Messalla; sarebbe peró arrischiato tentare di identificare all'interno di questo ceto un gruppo, socialmente omogeneo, che possa esserne considerato il portatore. Sarà pià prudente valutarla come una scelta individuale, che è stata in ogni caso operata da diversi individui, ma che acquisisce la dimensione di fatto storicamente rilevante soprattutto perché è stata poi la scelta di Tacito; il quale l’ha ritrovata, con tutte le motivazioni, in quel Materno che proprio per questo ha costituito a personaggio principale del Dialogus ®. 91

7. E chiaro a questo punto perché e in che senso il Dialogus debba esser

considerato un testo di preminente interesse storico; la struttura formale che

Tacito ha creato, con tutti i richiami a Cicerone è nella sostanza un'assoluta no-

vità, perché 1 personaggi portano nella discussione la loro carica storica e non danno luogo semplicemente a un confronto d'idee, ma esprimono quasi brechtianamente, e nonostante l'atmosfera da salotto nella quale in apparenza si muovono €$., il senso preciso dei problemi politici e sociali del loro mondo. E se il Materno del Dialogus fosse veramente il personaggio ucciso da Domiziano «perché aveva fatto delle composizioni contro i tiranni», la rivendicazione tacitiana del diritto di fare quella stessa scelta potrebbe significare, iin un contesto del quale non é ovviamente possibile ricostruire i dettagli, un’orgogliosa e pericolosa sfida al nuovo regime a dimostrare coi fatti di essere diverso da quello «tirannico» di Domiziano €.

1 Tacito (trad. it.), Brescia 1967, 881. Per un chiarimento sulla distinzione tra componente letteraria e componente storiografica del Dialogus vd. K. MATTHIESSEN, Der Dialogus des Tacitus und Cassius Dio 67,12, in «AC» XXXIX, 1970, 168/177. Per un ottimo orientamento sui problemi filologici ed esegetici che pone il Dialogus e sulle varie ipotesi di soluzione rinvio a K. BRINGMANN, Aufbau und Absicht des taciteischen Dialogus de oratoribus, in «MH», XXVII, 1970, 164/178.

2 D. 1. ? C'é un contrasto, non grave, fra l'indicazione (D. 17,3) «sextam iam felicis huius principatus stationem qua Vespasianus rem publicam fovet», che porta al 75, e l'altra che subito segue

«centum et viginti anni ab interitu Ciceronis in hunc diem colliguntur», cioè "il 78 (vd. R. SYME;

o.c., 877/878).

^ Passi raccolti in K. BAnwick, Der Dialogus de oratoribus des Tacitus - Motive und Zeit seiner

Entstehung, in «Ber. ü. die Verhandl. der sáchs. Akad. der Wissensch. zu Leipzig», B. 101, H. 4, Berlin 1954, 1. ? Sugli ascendenti ciceroniani vd. in particolare A. MicHEL, Le «Dialogue des orateurs» de Tacite et la philosophie de Cicéron, Paris 1962; su quelli platonici da ultimo K. MATTHIESSEN, o.c.,

168/170.

6 R.SvwE, o.c. , 880/881. L'ultima discussione sulla conologia è quella di C.E. Murgia (The Date of Tacitus Dialogus, in «HSCP», LXXXIV, 1980, 102/125), il quale ritiene che il Dialogus sia del 97.

7 Sulla corrispondenza tra idee e personaggi, ma coll'intento di saggiare la coerenza estetica dei personaggi del Dialogus, vd. K. Von Fnrrz, Aufbau und Absicht des Dialogus de oratoribus, in «RhMus», LXXXI, 1932, 275/300. Più di recente H. Gugel (Uztersucbungen zur Stil und Aufbau des Rednerdialogs des Tacitus, Innsbruck 1969) ha studiato la corrispondenza frai singoli personaggi, con i connotati esterni e le idee che Tacito assegna loro, e lo stile in cui ciascuno si esprime. In

direzione opposta si muovono indagini come quella recente di W. Deuze (Zur advocatus-diaboli Funktion Apers in Dialogus und zur Metbode ibrer Deutung, Grazer Beitráge III, 1975, 61/68), che

vedono nella struttura dialogica semplicemente un espediente compositivo; in questo modo si dissolve, a mio parere facendo grave torto alla complessità drammatica del Dialogus, lo spessore storico dei personaggi in un superficiale gioco delle parti. Bene replica a questo indirizzo H. Gugel in un altro scritto (Die Urbanität im Rednerdialog des Tacitus, in «SO», XLII, 1968, 127/140, in part. 135 e 136 con n.1).

8 C'è poco da dire su Giulio Secondo, il quale è praticamente un κωφὸν πρόσωπον (su di lui vd. comunque R. SyME, o.c., 1055/1056); non entro nella questione della lacuna di 35/36, nella

quale si potrebbe, secondo alcuni interpreti, collocare un intervento di questo personaggio, perché in ogni caso non sarebbe possibile ricostruire il tenore di questo ipotetico intervento (vd. una pre-

92

cisazione dello status della questione, dal punto di vista testuale, in D. Bo, La lacuna del Dialogus de oratoribus di Tacito, in «Prometheus», II, 1976, 124/144).

9. D. 1,12.

|

10 D. 2,1. Tacito dice ciò non solo a proposito di Apro, ma anche di Giulio Secondo. 1 D., 8. 7 D., 8,3.

13 Ibid. 14 Per l'origine gallica di Apro vd. R. Syme, o.c., 1054/1055. 5 D. 27,1 «antequam te Aper offenderet maiores tuos lacessendo» (nel discorso precedente Apro ha attaccato gli oratori antichi, tra i quali, a 20,1, anche il Messalla Corvino antenato di Vipstano Messalla: A. GUDEMAN, P. Corneli Taciti Dialogus de oratoribus, Leipzig-Berlin 19142, 400; non del tutto certo R. Syme, o.c., 147 n. 45). Il Syne comunque (o.c., 806; cfr. anche 139) lo defi-

nisce «di gran lunga superiore agli altri per nascita». 16 R. SYME, o.c., 139 sgg: specialmente famoso il fratellastro Aquilio Regolo (citato ini D. 15,1).

U D.28,3.

18 D. 25, 2; 30,2; 34,1; 35,1 (cfr. anche A. GUDEMAN, o.c., 71 e n. 3); solo una volta usa il termine Materno (D. 51, 1). È Messalla appunto che prospetta, a seguito della questione terminologica posta da Apro su «antiqui», l'opportunità di usare invece «maiores» (D. 25,1/2). 9 D. 11,4.

20 Vd. P. PECCHIURA, La figura di Catone Uticense nella letteratura latina, Torino 1965; il Pecchiura ritiene peraltro che ci sia un progressivo appannamento del mito politicodi Catone a partire dall'età dei Flavi (91/96). Sul valore fortemente repubblicano, nel senso di anti-monarchico, del

Cato di Materno insiste K. Von Fritz (o.c., 284). Che Materno corra dei rischi risulta da D. 2,1; 3,2/5; 10,6/8. Quanto al suo Dorzitius (D. 3 ,4), sia il protagonista il Domizio Enobarbo lucaneo

(Phars. VII, 599 sgg.), Ὁ il figlio di costui (A. GUDEMAN, o.c., 203), si tratterà comunque ancora di una praetexta di spiriti repubblicani (vd. anche R. SYME, o.c., 150/151). 21 Cass. Dio, LXVIII, 12,5 Μάτερνον δὲ σοφιστήν, ὅτι κατὰ τυράννων εἶπέ τι ἀσκῶν, ἀπέκτεινεν (sc. Domiziano, nel 91).

22 R. Syme (o.c. ‚1053/' 1054) propende, su questa base, per un’origine spagnola del personaggio. Vd. ultimamente nello stesso senso T.D. BARNES, Curiatius Maternus, in «H», CIX, 1981,

382/384; il Barnes ribatte inoltre molto bene ad alcuni argomenti di solito fatti valere contro l'identificazione del Materno «sofista» di Cassio Dione con il nostro Materno (sull'opportunità di

non irrigidirsi sul «sofista» dell'estratto idoneo già K. MATTHIESSEN, o.c., 176).

»

Mit! Οὗ

2 D. 2,1.

28 Vd. specialmente PETRON., Sat. 118.

2 Come risulta fra l'altro dalla polemica di Quintiliano contro la filosofia, «deverticulum desidiae» (LO. XII 3,11). Per casi concreti (sotto Domiziano) vd. R. SvME, o.c., 116/117.

30 R. SyME, o.c., 159: «Il Dialogus ci mostra uno scrittore che ha voltatole spalle all'eloquen-

za del Senato e dei tribunali, e il cui modo di pensare & già quello di uno storico». Vd. anche la fine del presente lavoro. 31 Penso soprattutto al passo in cui si parla del favore di cui godono a corte Marcello e Crispo (D. 8,3), i quali «stanno su di sé». 2 D. 12,2.

3 D. 13,4. 3 D. 12,3.

5 D. 13,5/6; cfr. 27,3. 36 D. 13,4 («tantum posse liberti solent»). 37 Messalla ha giä espresso in precedenza, e più volte, il suo punto di vista a favore dell’oratoria antica (D. 15,1; 2; 27,1). Sulla trattazione del tema nella prima età imperiale vd. K. BARWICK, 0.C., 1.

93

40 D. 16,,..

.

41 D. 16,4/17 (per i centoventi anni, dalla morte di Cicerone alla data della conversazione, 17,3; 24,3).

42 D. 25,1/2: «nominis controversia».

€ D. 19/23. D. 25,2. D. 28/35.

D. *? D. D. D.

28,5. 30/32; a 32,1 il disprezzo per l'educazione «simplex... et uniforme». 34. 29,3/4 (per la scuola elementare o grammaticale); 30,2; 31,1; 35 (per le scuole di retori-

ca). A D. 33,5/6 Materno tenta addirittura una teorizzazione, di sapore vagamente crociano,

dell'identità di conoscenza (scientia) e applicazione pratica (exercitatio). ^ LO. I2. 51 Su ciò vd. ultimamente il mio Dione di Prusa. Un intellettuale greco nell’impero romano, Firenze 1978, 64/66.

52 Generalmente si ritiene, con buoni motivi, che l'I.O. sia stata pubblicata poco prima della

morte di Domiziano; il tentativo di W.C. MC Dermott e A.E. Orentzel (Quintilian and Domitian, in «Athenaeum», LXVII, 1979, 9/26) di spostare la data di pubblicazione a dopo la morte di Do-

miziano non mi pare convincente. I rapporti fra il Dialogus e l'I.O. sono stati chiariti soprattutto da R. Güngerich (Der Dialog des Tacitus und Quintilians Institutio Oratoria, in «CP», XLVI, 1951, 154/164; vd. anche H. BanpoN, Dialogue des orateurs et Institution Oratoire, in «REL», XIX,

1941, 113/131).

3 LO. 124. 54 La migliore caratterizzazione dell’ironia di Materno, e anche la migliore interpretazione di questo personaggio, è quella di A. Koehnken (Das Problem der Ironie bei Tacitus, in «MH», XXX,

1973, 32/50).

> D. 36/41. 56 Vd. D. 32,7 (discorso di Messalla): «sunt aliae causae, magnae et graves, quas a vobis aperiri aequum est». ? D. 40,4: «Sed nec tanti rei publicae Gracchorum eloquentia fuit, ut pateretur et leges, nec

bene famam eloquentiae Cicero tali exitu pensavit». 585 Su ciò vd. il mio Dione cit., 87/88, e soprattutto la discussione di A. Koehnken. 5? Forse c'è dunque qualcosa di più che una effimera ripresa della cultura «senatoria» dopo le purghe neroniane e il mecenatismo flavio (A. LA PENNA, Potere politico ed egemonia culturale in Roma antica dall'età delle guerre puniche all'età degli Antonini, negli Atti del Convegno perugino «Il latino nelle Facoltà umanistiche», Roma

1974, ora in Aspetti del pensiero storico latino, Torino 1978,

spec. 23/27). * L'identità Materno/Tacito, data per scontata dal Syme (supra, n. 29), è stata dimostrata dal Barwick (o.c., 15/30); di diverso avviso R. Giingerich, nella recensione al lavoro del Barwick stesso («Gnomon», XXVII,

1955, 441). K. Von Fritz (o.c., 299) ammetteva che Tacito «ha messo

molto di sé proprio in Materno». 6 Assai bene messa in luce da H. Gugel (Die Urbanitát cit.).

€ Il Syme (o.c., 151) considera argomento contro l’identificazione il fatto che il Materno ta-

citiano esprime la fondata speranza di essere in futuro meglio difeso dall’«innocentia» che dall'«eloquentia» (D. 11,4); sarebbe un'ingiusticata «insinuazione ironica» se in realtà Materno

fosse poi stato eliminato da Domiziano. Ma a me pare che anzi, se questa fosse stata la vera fine di Materno, la sfida di Tacito acquisterebbe un significato più pregnante; giustamente K. Matthiessen (sostenitore della tesi dell’identità) sottolinea il valore di testimonianza del «canto del cigno» di Materno (o.c., 173).

94

SU SILOSANTE

I E II, ANACREONTE Vincenzo

LA

E IGT?,

834

BUA

Un'importante testimonianza è stata tramandata da Polieno VI, 45 ! circa il modo con il quale il gezos samio — cui apparterrà Policrate — riuscì ad impadronirsi del potere. Alla sua attendibilità non pochi studiosi hanno prestato fede 2, mentre altri hanno ritenuto che qui Polieno — o la sua fonte diretta — abbia fatto confusione col Silosonte che s’impadronì del potere insieme ai fratelli Policrate e Pantagnoto ?: il passo di Polieno VI, 45 sarebbe, quindi, un duplicato di Polieno I, 23,2, in cui è narrato il colpo di stato operato da Policrate e dai suoi fratelli 4

In particolare Labarbe 5 ha affrontato il problema sotto tutti gli aspetti con dovizia di argomentazioni per giungere alla suddetta conclusione e ad altre connesse, che riguardano-la storia stessa delle vicende samie che portarono all’avvento della tirannide policratea. Labarbe risolve le contraddizioni esistenti fra i due passi di Polieno col sottile uso di ogni altra testimonianza a disposizione; ma il particolareggiato esame dello studioso, se evidenzia i contatti fra i due passi di Polieno, non risolve i profondi contrasti esistenti fra di essi. Invero, unico evidente punto di contatto fra i due passi è il colpo di stato compiuto da una parte da Silosonte, dall'altra da Policrate con l'aiuto dei fratelli durante la πανήγυρις ἐν τῷ ἱερῷ τῆς Ἥρας: un'occasione che diede la possi-

bilità di occupare Samo deserta degli uomini che partecipavano armati alla processione e all'adunanza sacra. Per il resto i particolari con cüi sono narrati i due colpi di stato riflettono situazioni completamente diverse. In VI, 45 Silosonte, figlio di Callitele, eletto stratego col favore popolare Σαμίων δὲ πολεμούντων toic Αἰολεῦσι, con l'aiuto dei suoi marii s'impadronisce del potere approfittando della partecipazione del popolo alla πανήγυρις nel santuario di Hera, che

egli stesso aveva consigliato, pur trovandosi i Sami in guerra; in I, 23,2il complotto è preparato ed attuato da Policrate in collaborazione coni fratelli Silosonte e Pantagnoto: mentre questi con i seguaci assalgono e trucidano gli avversari radunati per i sacrifici nel santuario di Hera, Policrate occupa la città, si fortifica nell’acropoli con i fratelli tornati dal santuario ed ha alla fine ragione della reazione degli avversari con gli aiuti inviati da Ligdami di Nasso. Le differenze fra i due racconti sono notevoli: nell’uno principale ed unico protagonista è Silosonte, figlio di Callitele, che ricopre la carica di stratego; nel secondo è Policrate, che non ricopre alcuna carica, mentre i suoi fratelli Silosonte e Pantagnoto hanno la semplice funzione di collaboratori: nell’uno Silosonte attua il colpo di stato con l’appoggio dei marinai durante la «guerra che i Sami sostenevano con gli Eoli»; nel secondo non vi è altra indicazione cronologica, se non quella che si ricava dal fatto che Policrate riesce alla fine a conquistare il potere con gli aiuti militari inviati da Ligdami, diventato già tiranno di Masso. 95

Labarbe 6 risolve la discordanza cronologica, ritenendo che non si ha altra notizia di una guerra fra i Sami e gli Eoli, se non di quella che sostenne Policrate contro i Lesbi, accorsi in aiuto dei Milesii 7, in lotta coi Sami dopo la caduta di . Creso: la quale quindi rappresenta il terminus post quem della guerra, mentre il lerminus ante quem è rappresentato dalla tirannide di Policrate 8; e considerando anche che in Diog. Laert. II, 5 vi è un chiaro accenno ai misfatti che i figli di Aiace commettevano nei riguardi di Mileto, Labarbe conclude che «le Syloson de Polyen VI, 45, qui fut stratége Σαμίων πολεμούντων toic Αἰολεῦσι, doit

n'avoir pas été différent du frére de Polycrate» ?. Ma le sottili argomentazioni del Labarbe si basano su un argumentum ex silentio senza alcun valore scientifico. Invero, il fatto che non si hanno altre noti-

zie su uno stato di ostilità fra i Sami e gli Eoli prima dell'avvento di Policrate, non è sufficiente per dimostrare falsa l'indicazione contenuta in Polieno VI, 45. D'altra parte, il soccorso dei Lesbi ai Milesii attaccati da Policrate mostra che essi erano ostili ai Sami, ai quali tentarono d'impedire l'abbattimento di Mileto e un ulteriore accrescimento della loro potenza marittima. L'inevitabile rivalità commerciale fra Lesbo e Samo non poteva non determinare frequenti stati di contesa armata; e la vittoria di Policrate su Lesbi e Milesii ricordata da Erodoto

é da considerarsi l'epilogo di un rapporto ostile, che doveva durare da tempo, verosimilmente dagli inizi del VII sec., come puó intendersi dalla guerra lelantina e dal continuo stato di guerra di Samo con Mileto, Megara ed Egina 19, Labarbe cerca di risolvere un'altra appariscente discordanza fra i due passi di Polieno: il nome del padre di Silosonte, detto in Polieno VI, 45 figlio di Callitele, mentre si sa che il silosonte, di cui è menzione in I, 23,2, era figlio di

Aiace !!, A tal fine lo studioso riprende in esame un distico, conservato in una duplice tradizione, epigrafica e letteraria. Si tratta del distico inciso su un'erma acefala proveniente dai dintorni di Dafni, in Attica, e tramandato con minime differenze nel VI libro dellAntologia Palatina, dove & attribuito ad Anacreonte 12, Labarbe ritiene che l'epigramma sia stato inciso verso il 525-522, durante un soggiorno del poeta ad Atene ®, per volere di Policrate, il quale, «se comptant parmi les discendents du Samien Callitélés, avait charg Anacréon de renouveler une ancienne offrande au sanctuaire appolinien sur l'emplacement duquel a été construit le monastére de Daphni» !^, per cui «sur la foi du distique, où il lisait ἔκγονοι, un biographe de Syloson aura cru que Polycrate et ses freres étaient fils de Callitélés. Car c'est bien à un biographe de Syloson que doit remonter le récit de VI 45, et j'y vois finalement un simple doublet de celui qui figure en I 23.2» 15. Ma contro la teoria di Labarbe sta il significato stesso dell'epigramma. Esso ci rivela, invero, che i discendenti di Callitele rinnovarono il dono votivo del

loro antenato: e non si comprende come un ipotetico biografo di Silosonte, fratello di Policrate, abbia potuto — per quando distratto possa essere stato — mutare i discendenti di Callitele nei figli di Callitele, compreso quindi Policrate, troppo famoso per diventare anch'egli figlio di Callitele. Proprio il contenuto dell’epigramma dimostra da sè il contrario di quanto forzatamente vuol dimo96

strare Labarbe. Se invero, come sembra certo, il distico & opera di Anacreonte che visse — & ben noto — per molto tempo presso Policrate, essodà valore storico alla testimonianza di Polieno VI, 45, in quanto attesta l'effettiva esistenza

di un Callitele, quale capostipite del «genos policrateo». Infatti, dal momento che nel passo di Polieno un Silosonte é detto figlio di Callitele e questo Silosonte indubbiamente appartiene al «genos policrateo» 16, come dimostra il suo nome, ripreso dall'omonimo figlio di Aiace 17, il Callitele padre di Silosonte e il Callitele, di cui si riconoscono discendenti i personaggi che hanno incaricato Anacreonte di comporre il citato epigramma, non possono essere chela stessa persona. Di conseguenza, il Silosonte citato in Polieno VI, 45 non puó essere assolutamente identificato con il Silosonte fratello di Policrate, contemporaneo di Anacreonte e quindi discendente e non figlio di Callitele. Un'ulteriore considerazione. Se il citato epigramma è stato inciso — come

ritiene Labarbe — verso il 525/522, cioé verso la fine dell'esistenza di Policrate, morto indubbiamente nel 522 18, il termine [&]y[y]ovor risulta improprio. In questo periodo, infatti, Policrate era unico tiranno di Samo, dopo aver ucciso Pantagnoto ed esiliato Silosonte, coi quali all'inizio aveva diviso il potere 19: e sembra molto strano che Policrate abbia voluto ricordare nella rinnovazione della dedica di Callitele anche i fratelli, che si erano ribellati al suo potere e che erano stati trattati da fieri nemici. Nè si possono postulare altri membri della famiglia di Policrate, come p.es. il Naucrates, figlio di Eschilo, dell’epigramma A.P. «VI, 137 2°, sia per la supposizione troppo ipotetica, sia per il fatto che il tiranno — all'atto della sua partenza per Magnesia presso Orete — affidò il potere al suo segretario Meandrio ?!, uomo di origini servili, il che sarebbe incomprensibile, qualora Policrate avesse avuto un parente, ritenuto degno di essere associa-

to nella rinnovazione della dedica di Callitele. Il termine discendenti, pertanto, ὃ comprensibile soltanto se si sposta la data dell'epigramma ai primi anni della tirannide di Policrate, cioè agli anni in cui egli governava Samo coi fratelli. Anche se non si sa con precisione quando Policrate assunse da solo il potere 22, questo evento è da porsi indubbiamente non molti anni dopo il suo colpo di stato perpetrato in collaborazione coi fratelli, variamente datato fra il 544 e il 532 2; e quindi certamente prima della morte di Pisistrato, avvenuta nel 528/7 24. Orbene, sono pienamente d'accordo con Labarbe 25 nel ritenere che l' epigramma sia stato inciso nell’età di Ipparco, cioè fra il 527 e il 514 a.C. Con questa datazione si accorda la nuova cronologia da me stabilita della vita di Anacreonte, secondo la quale il poeta nacque nel 598 e morì nel 513 26. L’anno 514, pertanto, risulta il zerzinus post quem dell’epigramma, sia perchéè l'anno della morte di Ipparco, sia perché è molto probabilmente l’ultimo dell’esistenza di Anacreonte. Per il suo Zerminus ante quem è da considerare ancora il significato stesso dell'epigramma, che — come si è detto — è una dedica di p;2 personaggi che si riconoscono discendenti di Callitele, e non certamente di un solo personaggio. E poiché molti elementi, messi già in luce dal Labarbe, rendono difficile

una datazione del distico nei primi anni della tirannide polictatea; cioè durante la tirannide tripartita, e mostrano al contrario che esso è stato con ogni probabi-

97

lità inciso dopo la morte di Pisistrato, cioè quando sicuramente Policrate era solo tiranno di Samo, il rinnovo della dedica di Callitele non può essere stato voluto da Policrate, bensi da altri discendenti di Callitele.

Si sa che alla morte di Policrate suo fratello Silosonte — che si trovava ancora in esilio — riuscì ad ottenere l’aiuto persiano per tornare in patria e togliere il potere a Meandrio. La conquista persiana di Samo, che fece di Silosonte il primo #rannos-bjparchos di Dario, avvenne nell'autunno del 521 27, A Silosonte successe il figlio Aiace II, che era tiranno di Samo già al tempo della spedizione scitica di Dario 28, da datare con ogni probabilità nel 514 25: il che fa intendere che egli dovette succedere al padre almeno qualche anno prima. Nel 521, pertanto, cioè quando Silosonte divenne tiranno di Samo, suo figlio Aiace era già in età matura, o almeno in età tale da poter assumere egli stesso il potere pochi anni dopo. Tenendo ora ancora una volta presente che l’epigramma anacreonteo non poté essere stato composto che per volere di pià personaggi discendenti di Callitele — e non certamente per volere del solo Policrate —, esso è da ritenersi vo-. luto dal Silosonte fratello di Policrate, dopo la conquista del potere, sia come ringraziamento ad Apollo per l'impresa felicemente riuscita, sia per allacciare con i nuovi tiranni di Atene quei rapporti di amicizia e di alleanza che avevano legato Policrate e. Pisistrato 3°: e nella dedica che rinnovava il dono votivo di Callitele non poteva non ricordare anche il figlio Aiace, già designato indubbiamente alla successione. Il Zerminus ante quem dell'epigramma anacreonteo deve essere pertanto considerato l'autunno del 521 e negli ἔγγονοι di Callitele son da

vedersi Silosonte II e suo figlio Aiace II. La datazione può essere stabilita con maggior precisione, tenendo presente che Anacreonte visse vari anni alla corte di Ippia e di Ipparco ?! e che Silosonte — per i motivi sopra esposti — dovette considerare l'opportunità di rinnovare il dono votivo di Callitele poco dopo la conquista del potere. Può ritenersi, pertanto, che Anacreonte si sia accinto a recarsi ad Atene per eseguire l'incarico nella primavera del 520. Anche ad Ippia e Ipparco — che seguivano una politica filopersiana 32 — interessava stringere relazioni di amicizia con Silosonte, posto al governo di Samo dal Gran Re: e per deferenza verso il nuovo protetto di Dario e verso il celebre poeta mandarono a prendere Anacreonte con una pentecontere 33 ed accondiscesero alla rinnovazione dell’antica offerta di Callitele.

Anacreonte, tuttavia, non tornò a Samo, che era stata per circa cinquant'anni la sua nuova patria; e i motivi possono essere stati l'età avanzata o piuttosto il comportamento di Silosonte, ben diverso dal fratello Policrate, la cui personalitp era più vicina a quella di Ipparco 34. Si ha una testimonianza che puó chiarire l'effettiva posizione di Anacreonte. Un frammento della Σαμίων πολιτεία di Aristotele 35 riporta l'espressione ἕκητι Συλοσῶντος εὐρυχωρίη, che è stata ritenuta un verso tratto da una liri-

ca di Anacreonte 6, Se l'attribuzione è esatta, il verso da una parte dimostra che il poeta fu presente alle stragi perpetrate dai Persiani accompagnanti Silosonte, stragi che resero Samo deserta di uomini 57, dall'altra che egli assunse nei

riguardi di Silosonte una posizione ostile, condannandone la dura e sanguinosa reazione 38. Ma dal momento che Anacreonte compì con successo l'incarico — 98

che aveva anche un preciso scopo diplomatico — di rinnovare l'offerta di Callitele e comporne la dedica, é da ritenere che sia stato lo stesso Silosonte a desiderare che il poeta rimanesse ad Atene, dopo aver colto l'occasione della suddetta missione per allontanarlo da Samo: ché Silosonte non poteva certo gradire la presenza alla sua corte del poeta, che era stato maestro e cantore dell'odiato fratello, dal quale era stato sconfitto ed inviato in esilio. Ed Ipparco probabilmente non fece che venire incontro al desiderio del collega samio, si che la permanenza del poeta ad Atene può essere considerata un forzato esilio, di cui Anacreonte si vendicò con una lirica, in cui condannava la dura tirannide di Silosonte 59.

L'epigramma IG 12, 834, quindi, da una parte chiarisce alcuni aspetti della politica samia e della vita di Anacreonte, dall’altra dimostra il contrario di quanto vuol dimostrare Labarbe, dando validità storica a Polieno VI, 45. Nè di con-

seguenza si possono eliminare le altre discordanze esistenti fra questo passo e Polieno I, 23,2 sulla base della supposizione che il Silosonte, fratello di Policrate, conquistato il potere, era diventato «assez important pour avoir droit ἃ une biographie personnelle ou, tout au moins, pour faire l'objet d'une tradition particuliére» 49, Questa tradizione particolare — ormai é chiaro — riguarda Silosonte, fi-

glio di Callitele, e non Silosonte, figlio di Aiace e discendente di Callitele. Ed ἃ una tradizione chiaramente ostile a Silosonte I, rappresentato come un subdolo personaggio, che inganna i Sami fiduciosi: prima mostrandosi favorevole al popolo per essere eletto stratego, in seguito pieno di pietà verso la dea Hera al solo scopo di convincere il popolo a compiere la tradizionale solenne adunanza nel santuario della dea e di avere cosi la possibilità di occupare la città deserta di uomini ed impadronirsi del potere. Si riscontra qui lo stesso atteggiamento ostile chesi & riscontrato in molte testimonianze su Policrate, Silosonte II, Aiace II, cioè sugli altri membri del

«genos policrateo», testimonianze per la cui fonte si è fatto il nome di Euagone di Samo, il più antico autore di Ὧροι Σαμίων, opera che giungeva probabilmente sino alla fine della rivolta ionica e alla quale Erodoto contrappose una narrazione, in cui si fece portavoce dei discendenti del «genos policrateo», assumendo la difesa della memoria di Policrate, di Silosonte II e di Aiace II ^!. E come per Polieno I, 23 42, anche Polieno VI, 45 si può, pertanto, a buon diritto ri-

tenere che derivi da Euagone attraverso Eforo: in ultima analisi, quindi, dal più antico autore samio, d’indubbia attendibilità, anche se rappresenta ed interpreta i fatti con palese ostilità nei riguardi di tutti i membri del «genos policrateo». Nella visione di Euagone Silosonte I diventa l’iniziatore della secolare ed odiata tirannide esercitata a Samo dai discendenti di Callitele: egli aprì la strada e ne indicò il percorso ai successori; ed invero lo stesso Policrate non fece che ripetere l’azione fraudolenta dell’avo, approfittando della solenne festività in onore di Hera per occupare la città deserta di uomini ed impadronirsi del potere, anche se la sua azione — con la collaborazione dei fratelli — risultò più feroce e cruenta. |

99

‘1 PorvaxN.. VI, 45: Συλοσῶν Καλλιτέλους Σαμίοις δημοτικὸς εἶναι δοκῶν στρατηγὸς

ἠρέθη. Σαμίων δὲ πολεμούντων τοῖς Αἰολεῦσι καὶ τὴν πανήγυριν οὐκ ἀγόντων ἐν τῷ ἱερῷ τῆς Ἥρας, πορρωτέρω τῆς πόλεως ὄντι, Συλοσῶν οὐκ ἂν ἔφη στρατηγῶν ἀμελῆσαι τῆς εἰς τὴν θεὸν εὐσεβείας, ὧς καὶ μᾶλλον ἐκπλήξων τοὺς πολεμίους, εἰ τὴν πάτριον ἀγάγοι

πανήγυριν. Οἱ Σάμιοι, τὸν στρατηγὸν ἐπαινέσαντες τῆς εὐσεβείας καὶ τῆς ἀνδρείας, ἐλθόντες ἐπὶ τὸ τῆς Ἥρας ἱερὸν NEGKNVONOLOUÜVTO καὶ ὅσα εἰς πανήγυριν καθίσταντο. ‘O δὲ Συλοσῶν νυκτὸς gig τὴν πολιν εἰσελθὼν καὶ τοὺσ ἀπὸ τῶν τριήρων oabtac εἰσκαλέσας

τὴν Σαμίων ἀρχὴν κατέσχεν. 2 H. HoMANN- WEDERING, Syloson der ältere, in «"ApX. Ἔφημ.» 1953-54, Bd. II, 1958, p. 186 sgg.; J.P. BARRON, The sixtb- -century Tyranny at Samos, in «Class. Quart.» LVIII, 1964, p. 21 sgg.; G. L. HuxLEy, The early Ionians, London 1966, p. 126; H. BeRvE, Die Tyrannis bei den Griechen, München 1967, I, p. 107, II, p. 581; G. SCHMIDT, Heraion von Samos: eine Brychon-Weibung und ibre Fundlage, in «Mitt. Deutsch. Arch. Inst. Athen.» LXXXVII, 1972, p. 181 sg. ^ Ep. MEYER, Gesch.d.Alt, III, p. 567 n. 3; P.U. Ure, The Origin of Tyranny, Cambridge 1922, p. 69 n. 5; 7. LABARBE, Un putsch dans la Grèce antique: Polycrate et ses frères a la conquéte du pouvoir, in «Anc. Soc.» V, 1974, p. 38. 4 POLYAEN. I, 23,2: Πολυκράτης, μελλόντων Σαμίων θυσίαν ποιεῖν Ev τῷ ἱερῷ τῆς Ἥρας πάνδημον, ἐν ἡ μεθ΄ ὅπλων ἐπόμπευον, πλεῖστα ὅσα τῇ προφάσει τῆς ἑορτῆς ὅπλα συλλέξας τοὺς μὲν ἀδελφοὺς Συλοσῶντα

καὶ Παντάγνωστον συμπομπεύειν ἔταξε. Μετὰ

δὲ τὴν πομπὴν τῶν Σαμίων θύειν μελλόντων οἱ πλεῖστοι τὰς πανοπλίας ἀπέθεντο παρὰ τοῖς βωμοῖς προσέχοντες σπονδαῖς καὶ εὐχαῖς. Οἱ δ᾽ ἀμφὶ Συλοσῶντα καὶ Παντάγνωστον,

τὰ ὅπλα ἔχοντες, ἀνὴρ ἀνδρὶ παραστάς, ἐφεξῆς ἅπαντας ἐκτίννυον. Πολυκράτης τοὺς ἐν τῇ πόλει μετέχοντας τῆς ἐπιθέσεως ἁλίσας προκατελάβετο τῆς πόλεως τοὺς ἐπικαιροτάτους τόπους. «Τοὺς» ἀπὸι τοῦ ἱεροῦτ μετὰ τῶν ὅπλων σπουδῇ θέοντας ἀδελφοὺς καὶ συμμάχους δεξάμενος, τειχίσας ἀκρόπολιν τὴν καλουμένην ᾿Αστυπάλαιαν, μ8ταπεμψάμενος παρὰ Λυγδάμιδος τοῦ Ναξίων τυράννου στρατιώτας, καὶ δὴ Σαμίων

τύραννος ἦν. 5.7. LABARBE, art. cit., pp. 21-41.

6 Art. cit., p. 33 sgg. 7 Hpr. III, 39,4: (Πολυκράτης) Ev δὲ δὴ xai Λεσβίους πανστρατιῇ βοηθέοντας Μιλησίοισι ναυμαχίῃ κρατήσας εἷλε, οἵ τὴν τάφρον περὶ τὸ τεῖχος τὸ ἐν Σάμῳ πᾶσαν δεδεμένοι ὥρυξαν. 5 J. LABARBE, art. cit., p. 36.

? Art. cit., p. 38. | 10 Cfr. p. es. G. Grorz-R. COHEN, Histoire grecque, I, Paris 19384, pp. 257, 279 sgg., 312 sgg. 11 Hpr. III, 39,1-2; 139,1; VI, 13,2. 12 IG I, 834; A.P. VI, 138 (= ANACR. fr. 194 GENTILI). Per ulteriore bibliografia cfr. SEG X, 343a; XV, 52; XXI, 95; XXV, 52. Sulla base del testo del A.P. VI, 138 (Πρὶν μὲν Καλλιτέλης u'iópócato' τόνδε δ᾽ ἐκείνουχἔκγονοι ἐστήσανθ: oic χάριν ἀντιδίδου ...) è stata possibile la certa integrazione dell'epigrafe: Πρὶμ μὲν Καλλιτέλες Βιδρύσατί[ο᾽ τόνδε δ᾽ ἐκένο], [£] v[ylovoı ἐστεσαν[δ᾽, hoic χάριν ἀντιδίδδ]... Cfr. in particolare J. LABARBE, Sur l'épigramme IG E 834, in «Akte des IV.Int. Kongr.f.Griech.u.Lat.Epigraphik. Wien 17-22 Sept. 1962», Wien 1964, p. 203 sgg.

13 IDEM, ibidem, p. 209 sg., e Un putsch dans la Grece antique..., p. 38. Diversamente G. PFOHL, in «Euphrosyne» N.S. II, 1968, p. 158 sg., data l'epigramma alla metà del sec. V a.C. 14 J. LABARBE, Ur putsch dans la Grece antique..., p. 39. 5 IDEM, loc. cit.

16 Giustamente ribadisce J.P. BARRON, art. cit., p. 212, che il nome di Silosonte «strongly suggests that he was related to Polykrates and the two later tyrants Syloson II and his son

Aiakes». Cfr. pure E. HOMANN-WEDEKING, art. cit., p. 186 sg. 17 Il nome deriva dall'inusitato e molto antico termine σύλη(σύλον) che si trova soltanto nell’epigrafe di Aiace e nel fr.3 Jacoby 544, da attribuire ad Euagone di Samo. Cfr. V. LA Bua, I/

papiro Heidelberg 1740 ed altre tradizioni su Policrate, in «IV Misc.Gr.Rom.» 1975 (Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica, fasc. XXIII), p. 27 sg. Sull'epigrafe di Aiace (IG

100

7 2 $yll? 10 = Tod 7 = Meiggs-Lewis 30) e sui problemi connessi cfr. da ultimo V. LA BuA, Azacreonte, Aiace I e Policrate di Samo, in corso di stampa in Studi in onore di A. Guarino. 18 Cfr. V. LA Bua, Sulla conquista persiana di Samo, in «IV Misc. Gr. Rom.» 1975,p. 83 n. 1. 1? Hpr. III, 39 2: (Πολ. ) καὶ τὰ μὲν πρῶτα τριχῇ δασάμενος τὴν πόλιν τοῖσι ἀδελφεοῖσι Πανταγνώτῳ καὶ Συλοσῶντι ἔνειμε, μετὰ δὲ τὸν μὲν αὐτῶν ἀποκτείνας, τὸν δὲ νεώτερον Συλοσῶντα ἐξελάσας ἔσχε πᾶσαν Σάμον.

20 2! ma vd. 22

J. LABARBE, Sur l'épigramme IG I? 834, p. 212. Hpr. III, 142,1. Sulle origini servili di Meandrio cfr. Hpr. III, 140,5 e 142,5. Sul probleV. LA Bua, Sulla conquista persiana di Samo, cit., p. 55 sgg. H. BERVE, op. cit., 1, p. 108, colloca l'evento intorno all'anno 532.

23 La data più alta del 544 è stata proposta da F. Bonk, Zur altkleinasiatischen Geschichte, in «Klio» XXVIII, 1935, p. 16 sgg., ed ἃ stata confutata da ΤῊ. LENscHAU, s.v. Polykrates, in R.E.

XXI, 2 (1952), col. 1727 sg., che sostiene la data del 538: datazione accettata dalla maggior parte dei moderni. K.J. BELOCH, Griech. Gescb.?, I 1, p. 376 n.1, pone l'inizio della tirannide policratea sotto l'anno 540. Non mancano altre datazioni più basse. Propendono per il 533 J.L. Myres, On the «List of thalassocracies» in Eusebius, in «Journ.Hell.Stud.» XXVI, 1906, p. 101; R. HELM, Ezsebius Werke. Die Chronik des Hieronymus, Berlin 1965, p. 104b; J.P. BARRON, art. cit., pp. 210 e 228. Accettano la data del 532 G. BusoLT,- Griech. Gescb.?, II, p. 508 sg.; Ep. MEYER, Gesch.d.Al#, III, p. 721 n: 1; P.U. URE, op. cit., p. 70; G.GLOTZ-R.COHEN, op. cit., I, p. 281; M. WHITE, The Duration of tbe Samian Tyranny, in «Journ. Hell.Stud.» LXXIV, 1954, p. 36 sg.; MorLy Mnurzn, The Thalassocracies. Studies in Cbronograpby II, New York 1971, p. 25. 24 Cfr. G. DE SANCTIS, Atthis, Firenze 1975, p. 351 sgg. 25 7. LABARBE, Sur l'épigramme IG I? 834, p. 207 sgg. 26 Cfr. V. LA Bua, Anacreonte, Aiace I e Policrate di Samo, cit.

27 Cfr. IDEM, Sulla conquista persiana di Samo, cit., p. 82 sgg. 28 Hpr. IV, 138. | 2 Cfr. V. LA Bua, Sulla conquista persiana di Samo, p. 100. 30 Sui rapporti amichevoli fra Policrate e Pisistrato cfr. in particolare G. DE SANCTIS, Ais),

p. 282 sg. 31 2 33 ^ 35

|

Cfr. C.M. Bowra, La lirica greca da Alcmane a Simonide, ed.it. Firenze 1973, p. 438 sgg. Cfr. G. DE SANCTIS, Attbis), p. 383. Secondo una tradizione riportata in Ps.PLAT., Hipparch. 228 b = Art. V.H. VII, 2. Cfr. C.M. Bowra, op. cit. , p. 438 sg. Arısr. fr. 574 Rose. La testimonianza si trova in forma più completa in STRAB. XIV, 17

(p. 638):

(Συλ.)

πικρῶς

δ᾽ ἧρξεν

ὥστε

καὶ

ἐλειπάνδρησεν

ἡ πόλις.

κἀκεῖθεν

ἐκπεσεῖν

συνήβη τὴν παροιμίαν - ἕκητι Συλοσῶντος εὐρυχωρίη... -. La stessa notizia in HERACL. fr. 10,6 (MÜLLER, FHG, II, p. 216); ZENos., III, 90; EuSTATH., ad Dion. Perieg. 533; THEM. VIII, 109-110.

36 Cfr. CRUSIUS, s.v. Anakreon, in R.E. I, 2, col. 2038; W. Schmmw-O. STAHLIN, Geschichte der Griechischen Literatur, 1 1, München 1929, p. 433 n.3; D.L. PAGE, Poetae Melici graeci, Oxford 1962, fr. 160 b.

37 Hpr. III, 149: τὴν δὲ Σάμον σαγηνεύσαντες oi Πέρσαι παρέδοσαν Συλοσῶντι ἔρημον ἐοῦσαν ἀνδρῶν. 38. Sulla fonte — probabilmente Euagone di Samo — che si è servita del verso anacreonteo

per chiara ostilità verso Silosonte II cfr. V. LA Bua, Sulla conquista persiana di Samo, pp. 50 sg. e 96 sg. ? DiversamenteJ. LABARBE, Sur l'épigramme IG I 834, p. 209..

40 ΤΊ LABARBE, Un putsch dans la Gréce antique..., p. 40. ^ V. LA Bua, U papiro Heidelberg 1740..., cit., 15 sgg.; Sulla couquista persiana di Samo, cit., p. 45 sgg.; «Logos samio» e «storia samia» in Erodoto, in «VI Misc.Gr.Rom.» 1978, pp. 10 sgg., 15

sgg., 31 sgg., 39 sgg., 74 sg.; Ancora sul P. Heid. 1740 ed altre tradizioni su Policrate, in «VII Misc.Gr.Rom.» 1980, p. 45 sgg. 42 |pEM, «Logos samio»..., p. 14 sg.

101

LA

DATA

FITTIZIA

DEL

« DIALOGUS

CESARE

DE

ORATORIBUS »

LETTA

La data in cui l'autore del «Dialogus» ! immagina avvenute le conversazioni sulla crisi dell'eloquenza a Roma, & assai controversa e le soluzioni proposte spaziano dal 74-75 al 77-78 d.C. 2. In generale è sembrato di dover constatare un'insanabile contraddizione tra l’allusione alla sexta statio del principato di Vespasiano (Dial., XVII, 3), che rinvierebbe al 74-75 o al 75 d.C., e quella ai 120 anni dalla morte di Cicerone (XVII, 2-3 e XXIV, 3), che rimanderebbe al 77 o al 77-78. Un'ulteriore contraddizione si è creduto di cogliere nel calcolo degli anni ab interitu Ciceronis, divisi per regni di imperatori (XVII, 3): dalle cifre date dall’autore si ricaverebbe una somma di 117 o 118 anni e non di 120. Di solito si è cercato di risolvere il

problema parlando di calcoli approssimativi da parte di Tacito, che dopo aver computato appunto 117 o 118 anni, arrotonderebbe la cifra a 120 per equipararla a quella topica dell'età massima di un uomo ?. In realtà sembra per lo meno singolare che Tacito potesse sbagliare una somma così banale, di cui per giunta indicava analiticamente gli addendi 4; e se si ammette che egli si sia trovato costretto ad arrotondare il 117 o 118 in 120,

non si capisce come mai, potendo fissare a suo piacimento una data fittizia per un dialogo sicuramente immaginario, non ne abbia scelta direttamente una che consentisse il calcolo in cifra tonda 5. | Queste perplessità mi hanno indotto a riconsiderare nel suo insieme la questione, partendo dall'ipotesi che tutti i dati forniti da Tacito siano esatti, cioé non in contraddizione tra loro, per verificare a quali condizioni ciò sia possibile 6.

Rileggiamo

dunque

il passo

(XVII,

2-3)

su

cui

si basano

tutte

le

argomentazioni ?: (2) Naz ut de Cicerone ipso loquar, Hirtio nempe et Pansa consulibus, ut Tiro libertus eius scribit, septimo idus Decembris occisus est, quo anno divus Augustus in locum Pansae et Hirtii se et Q. Pedium consules suffecit. (3) Statue

sex (codd. novem) et quinquaginta annos quibus mox divus Augustus rem publicam vexit; adice Tiberii tris et viginti et prope quadriennium Gai ac bis quaternos denos Claudii et Neronis annos atque illum Galbae et Otbonis et Vitellii longum et unum annum ac sextam iam felicis buius principatus stationem, quo (codd. qua) Vespasianus rem publicam fovet: centum et viginti anni ab interitu Ciceronis in bunc diem colliguntur, unius bominis aetas. Innanzi tutto occorre chiarire l'esatto valore del termine statio in questo contesto 8: la sua posizione nel computo analitico, in cui il verbo adice regge la sextam stationem di Vespasiano esattamente come regge gli annos di Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone, Galba, Otone e Vitellio, facendo dell'una e degli altri degli addendi della stessa somma, mostra che anche per Vespasiano si vuole qui 103

esprimere il numero degli anni di regno 3. Non ἃ possibile, in un simile contesto, intendere szatio semplicemente come «regno» nel suo insieme, quale che sia la metafora sottostante 19: e infatti, per sostenerlo, il Koestermann & costretto a

far proprio l'improbabile emendamento del Sauppe, correggendo sextam (= VT) in zonam (= VIII) per far tornare il conto degli imperatori succedutisi da Augusto a Vespasiano 11.

Il Koestermann ha certamente ragione nel ritenere improbabile per szazio il significato di «tappa» e nel rimandare piuttosto, per tutti i passi che parlano della statio principis, al concetto stoico di «proprio posto nel mondo» (nel caso del principe, con l'idea di rango, potere, autorità), innestato sull'immagine militare della sentinella che monta la guardia (quindi con l'idea di difesa, vigilanza, sollecitudine) 12.

Ma in questo particolare contesto è innegabile che l'immagine si colora anche di un valore cronologico preciso, reso possibile dal significato di szationes come «turni di guardia» di durata determinata e fissa, che col loro succedersi scandiscono il tempo della vigilanza. Sotto l'immagine dei turni di guardia cui il principe con dedizione si sottopone ininterrottamente, e che scandiscono il tempo del suo regno, non possono celarsi altro che dei periodi di durata annuale, e questi devono coincidere necessariamente con gli anni di regno dell'imperatore a partire dal suo dies zmperii 15, se non si vuole far saltare l'intero calcolo dei 120 anni. Per questo motivo ἃ del tutto ingiustificata la disputa tra quanti sostengono che le szationes alludano ai consolati e quanti preferiscono pensare alle tribuniciae potestates 1^, come se il computo degli anni di regno degli imperatori precedenti a Vespasiano fosse stato da Tacito condotto su tali basi. Il fatto poi che Ovidio (Trist., III, 1, 79), parlando di se stesso, dica: «szazio mibi publica clausa

est», modo tore), tesse rii, e

può significare, sì, che aveva in mente delle magistrature annuali (unico di fare un «turno di guardia» per lo stato da parte di chi non fosse imperama non esclude affatto che, parlando del princeps, la stessa immagine poessere usata in riferimento ai suoi anni di regno, calcolati dal suo dies impenon a specifiche magistrature annuali da lui ricoperte 15. Va poi rilevato che l'espressione sextam stationem deve essere intesa alla stregua delle altre cifre date per i regni degli imperatori anteriori a Vespasiano non solo nel senso che le stationes devono indicare degli anni di regno, ma anche nel senso che devono indicare degli anni già compiuti e trascorsi !6. In altre parole, l'autore del dialogo vuol far capire che siamo non nel sesto anno di Vespasiano, bensi dopo il suo compimento, cioé nel settimo 17, Poiché quest'anno per Tacito andava molto probabilmente calcolato a partire dal 21 dicembre del 69, quando Vespasiano fu riconosciuto imperatore a Roma, e non dal 1? luglio, data della sua acclamazione in Oriente e, retroattivamente, della sua prima zribunicia potestas!8, ne consegue che la data immaginata per il dialogo si colloca tra il 21

dicembre del 75 e il 20 dicembre del 76, e che solo su questa base si deve verifi-

care la possibilità di raccordare l’indicazione cronologica fondata sul regno di Vespasiano e quella fondata sui 120 anni ab interitu Ciceronis. A proposito di questi 120 anni, la prima considerazione da fare è che il primo di essi è proprio l’anno stesso della morte di Cicerone, il 43 a.C., secondo il 104

normale calcolo inclusivo romano di cui abbiamo un esempio nelle stesse linee con la data septimo idus Decembris. Del resto, nel ragionamento di Apro, tendente a dimostrare che l'età di Cicerone e della grande oratoria «classica» non è poi cosi remota se da essa i protagonisti del dialogo sono separati solo dallo spazio di unius bominis aetas, è logico che i due termini di riferimento siano da un lato non la morte in sé di Cicerone, bensì l'anno della sua morte, cioè l'ultimo anno della

sua attività di oratore (dunque tutto il 43 a.C. fino al 7 dicembre, e non il solo giorno del 7 dicembre), e dall'altro il 120? anno da quello della morte di Cicerone (dunque quello che comincia il 7 dicembre del 76 d.C.), e non il 121°, che ec-

cederebbe lo spazio emblematico dell’unius bominis aetas e, troncando questo legame di continuità, collocherebbe già i protagonisti del dialogo in un'età irrimediabilmente diversa da quella di Cicerone. Il ragionamento di Apro ha senso solo se con esso si afferma che, almeno in teoria, nel momento in cui si tenne il dialogo poteva essere ancora in vita, non avendo ancora compiuto i 120 anni, un uomo nato quando Cicerone era ancora vivo e attivo come oratore. Conferma questo significato l’exemplum fictum che segue immediatamente (XVII, 4-5) del

vecchio Britanno che avrebbe potuto ascoltare tanto le orazioni di Cesare e Cicerone quanto quelle dei partecipanti al dialogo. Questo significa che i numeri espressi analiticamente da Tacito (56, 23, 4, 14, 14, 1, 6) non esauriscono il suo

calcolo, ma servono a indicare soltanto lo spazio cronologico tra i due estremi che abbiamo detto, i quali peró vanno a loro volta considerati nel computo totale, contrariamente a quanto si è fatto finora. In secondo luogo osserviamo che per il secondo estremo del calcolo, quello che abbiamo considerato allusivo al 120° anno (non compiuto, ma solo iniziato)

a partire da quello della morte di Cicerone, Tacito fa riferimento ad un giorno preciso: in bunc diem (XVII, 3 e XXIV, 3) 15. In base a quanto si èdetto, questo

giorno deve cadere tra il 7 dicembre del 76 e il 6 dicembre del 77 d.C. per essere nel 120° anno da quello della morte di Cicerone, e tra il 21 dicembre del 75 e il

20 dicembre del 76 per essere nel settimo anno di Vespaniano: il che significa che può cadere solo nel ristretto periodo tra il 7 e il 20 dicembre del 76. Ma poiché Tacito ritiene superfluo enunciare qui esplicitamente questo giorno, ritengo molto probabile che esso sia il giorno anniversario della data epocale posta alla base di tutto il ragionamento (7 dicembre del 43 a.C.), cioè sia il 7 dicembre del 76 d.C. ? Se questo è vero, possiamo essere certi che, dicendo centum et viginti anni ab interitu Ciceronis in bunc diem colliguntur, Tacito intende dire: «Oggi, 7 dicembre, compiuti 119 anni dall'anno della morte di Cicerone, entriamo nel 120°». Allo stesso modo Augusto, in una lettera a Gaio Cesare del' 1 d.C., defi-

nisce quartum et sexagesimum natalem meum il giorno del suo 63? compleanno ?!. In questo ; modo la somma presentata da Tacito, troppo analiticamente precisa nei suoi singoli addendi, che trovano ciascuno riscontro nella realtà storica, e insieme troppo facile per poter ammettere in essa un errore; si rivela esatta: essa non è 56 +23 +4+14+14+1+6=

118 (anziché il 120 dichiarato), ma è in

realtà 1 (anno della morte di Cicerone) morte di Cicerone) ? + 23 (Tiberio)

+56 (anni di regno di Augusto dopo la

+4 (Gaio)

+ 14 (Claudio)

+ 14 (Nerone) 105

+1 (Galba, Otone, Vitellio) -

+ 1 (anno incominciato il 7 dicembre del 76 d.C.)

120.

À riprova di quanto abbiamo detto, é facile constatare che, se volessimo verificare il calcolo di Tacito risalendo all'indietro, a partire dal 76 (settimo anno di Vespasiano) per anni solari interi, l'anno della morte di Cicerone verrebbe ad essere il 44 a.C. (76 + 44 = 120), il che & palesemente errato e in contraddizione

con l'esatta datazione consolare data da Tacito. Ancor piü grave risulterebbe l'errore se la verifica fosse fatta a partire dal sesto anno di Vespasiano anziché dal settimo. Ma se, considerando correttamente come termine finale il 76, cal-

coliamo il primo anno solo dal 1? gennaio (entrata in carica dei consoli Irzio e Pansa) al 7 dicembre del 43 a.C. (data esatta della morte di Cicerone), il secondo . dal 7 dicembre del 43 al 6 dicembre del 42, e cosi via, vediamo che il 6 dicembre

del 76 d.C. segna la fine del 119° anno e il 7 dicembre l'inizio del 120°, cioè che il 120? anno da quello della morte di Cicerone comincia 15 giorni prima del 21 dicembre del 76 e quindi prima che sia terminato il 7? anno di regno di Vespasiano.

Ammettendo che il dialogo sia immaginato tenuto il 7 dicembre del 76 d.C., in occasione dell'anniversario della morte di Cicerone, riusciamo a conciliare tutti i dati offerti da Tacito ?, senza ricorrere ad arbitrari emendamenti del testo e senza pensare ad un inconcepibile errore di Tacito 24. La soluzione che proponiamo, inoltre, permetterebbe di spiegare in modo soddisfacente i motivi che hanno indotto Tacito a scegliere come data fittizia del suo dialogo sulla decadenza dell'oratoria il 1199 anniversario della morte di Cicerone e a sottolinearla con tanta insistenza: da un lato il giorno prescelto forniva uno spunto naturale per il tema della discussione, e dall'altro la scelta dell'anno permetteva di fare il bilancio tra due epoche ormai irrimediabilmente staccate e diverse, un bilancio che in tal modo si giustificava

da sé, senza biso-

gno di appoggiarsi ad una improbabile riesumazione «archeologica» di temi della propaganda secolaristica di Vespasiano, come mostra di credere il Koenen (v. supra, nota 5). Se infatti nell'economia del discorso di Apro la data scelta serve a sostenere artificiosamente che Cicerone non è un antiquus, che i partecipanti alla discussione possono ancora dirsi (sia pure solo per qualche mese) uomini della sua stessa epoca, e che l'oratoria classica non & morta, & chiaro che per Tacito, le cui idee sul presente non sono espresse dall'ottimismo di Apro, ma dalla rassegnazione di Materno, la realtà & ben diversa, e la data del dialogo simboleggia eloquentemente la drammatica coscienza di un mutamento epocale che si sta compiendo e che suggella la fine irrevocabile della grande oratoria: allo spirare dell'anno che sta cominciando, il tempo simbolico di 120 anni sarà finito e sarà reciso cosi anche l'ultimo esile legame col passato. Questa interpretazione negativa dell'intervallo di tempo che separa Tacito dall'età di Cicerone & resa ancor più evidente dal fatto che, dietro la finzione di un dialogo svoltosi nel 76 d.C., in realtà Tacito si rivolge a lettori di circa venticinque anni dopo 25.

106

1 Non è qui il caso di affrontare il problema dell'attribuzione dell'opera a Tacito, che peraltro ritengo praticamente sicura. Per una bibliografia aggiornata, v. ora R. GÜNGERICH, Kommentar zum Dialog der Tacitus, Göttingen 1980, pp. 211 ss. 2 Sul problema v. soprattutto A. GUDEMAN, in P. Corneın Taciti, Dialogus de oratoribus mit Prolegomena, Text und Adnotatio critica, exegetischem und kritischem Kommentar, Bibliographie und

Index Nominum et Rerum, von A. GUDEMAN, Leipzig-Berlin 19142, pp. 55-62 e 298-301; F. Leo, Kleine Schriften, II,p. 281; E. NORDEN, Die antike Kunstprosa, I, Leipzig 1898, pp. 325 s., n. 2; M. ScHANZ-C. Hosıus, Gesch.d.röm.Lit., 114, München 1935, p. 608; R. Svwz, Tacitus, II, Oxford 1958, pp. 670 s.; A. Mansrr1, in CorneLIO Tacito, Dialogus de oratoribus, Pisa s.d. (ma 1959), pp. 66-68; A. MICHEL, in TACITE, Dialogus de oratoribus (P.U.F., Coll. «Erasme», 7), Paris 1962, p. 59; L. KoENEN, Eine Berechnung der Regierungsjabre des Augustus vom Tode Caesars. Zur Datierung der Gesprächssituation von Tacitus Dialogus, in «Zeitschr.f.Pap.u.Ep.», XIII, 1974, pp. 228-234; GUNGERICH, cit. a nota 1, pp. 196 s.

? V. da ultimo GUNGERICH, p. 196. Per il «topos» dei 120 anni come età massima possibile per un uomo, v. le fonti raccolte dal GUDEMAN, pp. 59 s., n.4. Il legame con questa tradizione e il confronto con XXIV, 3 inducono ad accettare il centum et viginti dato da una parte dei codici, e a

respingere, col Gudeman e la maggioranza degli editori, il centur et decem degli altri codici (così, giustamente, anche KoENEN, p. 231). Egualmente inaccettabili sono i tentativi moderni di emendare arbitrariamente il testo in centum et sedecim (Peterson), ovvero in vix centum et viginti (Leo).

^ Osservazioni in tal senso già in KOENEN, p. 233, n. 11. > Il Gudeman si rendeva conto della forza di tale obiezione, e credette di spiegare l'innegabi-

le aporia supponendo che Tacito avesse voluto scegliere per il dialogo una data che nella propaganda di Vespasiano si poneva come inizio di un novum saeculum, e si fosse quindi trovato costretto a far quadrare solo in maniera approssimativa i calcoli di Vespasiano, basati evidentemente su altri elementi, ed i suoi, che volevano agganciarsi alla data emblematica della morte di Cicerone. Ma in-

nanzi tutto l'idea che la propaganda secolaristica di Vespasiano prendesse come punto di partenza proprio il 74, si basa su una evidente sopravvalutazione

e forzatura di CEns., de die nat., XVIII,

13 s.; semmai, se si ammette l'esistenza di una propaganda vespasianea incentrata sulla proclamazione di un zovum saeculum e si cercano elementi per fissarne una data d’inizio che non coincida semplicemente con l'avvento di Vespasiano, potrebbe avere maggior peso l'apparizione del tipo monetale di Aezernitas (legato all’ideologia alessandrina di Aion), che non è anteriore al 76 d.C.: v. R.LC., II, p. 48, n. 271 e p. 52, n. 302; P.L. STRACK, Untersuchungen zur röm. Reichsprägung des

zweiten Jahrhunderts, I, Stuttgart 1931, pp. 186 s.; J. BEAUJEU, La religion romaine à l'apogée de l'empire. I, La politique religieuse des Antonins (96-192), Paris 1955, pp. 147 ss. In secondo luogo, non sembra probabile che Tacito, scrivendo dopo la fine del regno di Vespasiano e la traumatica

scomparsa della dinastia flavia, potesse dare tanto rilievo e potesse sentirsi tanto condizionato da un elemento propagandistico cosi legato al contingente e ormai scaduto di attualità. Nonostante il

tentativo del KoENEN, pp. 232 s., di rilanciare l'idea del Gudeman in rapporto al concetto di saeculum etrusco, ritengo che in Tacito l'accenno ai 120 anni abbia un valore più generico e non legato obbligatoriamente ad una data d'inizio ufficiale di un nuovo saeculum, esattamente come generico è il saluto del beatissimi saeculi ortus in Agr., III, 1, riferito globalmente all'avvento di Nerva (e Traiano) e non a precisi calcoli secolaristici. Se una data precisa poteva avere in mente Tacito nel parlare di zovum saeculum per Vespasiano o per Nerva, questa non poteva essere altro che la data

del loro avvento al potere, riconosciuta in base ad una valutazione politica del regno dei due imperatori, e non un anno successivo, stabilito in base ad elaborati calcoli astrologici. 6 Dallo stesso presupposto parte il KOENEN, che però propone una soluzione contraddittoria

e inaccettabile (v. infra, nota 24). ? Per l’allusione ai 120 anni ab interitu Ciceronis v. anche XXIV, 3. Insufficienti per una datazione precisa sono le indicazioni cronologiche di I, 2 (l'autore era iuvenis admodum al tempo del dialogo) e XVI, 5-6 (poco più di 300 anni intercorrono inter nostram et Demosthenis aetatem, con chiaro riferimento non alla morte, ma al floruit dell’oratore). Anche il riferimento a Muciano ccome ancora vivo in XXXVII, 2 non è di per sé sufficiente: v. infra, nota 23. 8 V. soprattutto GUDEMANN, pp. 57-59; NORDEN, p. 325 s., n. 2; Scuauz-Hosrus, II^,p 608; KOESTERMANN, cit. a nota 12, pp. 363 s., n. 17; MARSILI, p. 67; MICHEL, p. 59; KOENEN, bb. 232 s.; GÜNGERICH,

p. 196.

107

9 Vedi GUDEMAN, pp. 58 5.; ΚΟΕΝΕΝ, p. 232 e n. 10; GÜNGERICH, p. 196. Si noti, tra l'altro,

la rispondenza tra le espressioni usate per Augusto, che apre l'elenco, e quelle usate per Vespasiano, che lo chiude: per il primo si parla di annos, quibus rem publicam rexit, per l'altro di stationes del principatus...quo...rempublicam fovet (per quo in luogo del tradito qua, v. infra, nota 17). 10 Cosi KOESTERMANN, cit. a nota 12, p. 363, n. 17; v. anche NORDEN, pp. 325 s.; n. 2; H. DREXLER, in «Burs.J.Ber.», Suppl. 224 (1929), p. 275. ‚ll KoESTERMANN, loc.cit. (ma, contra, v. già GUDEMAN, p. 57). In realtà, se è paleografica-

mente credibile una eventuale corruzione da VIII a VIII, ben più difficile sembra un passaggio da VIIII a VI. Il Norden, invece, tenta una spiegazione ancor piü artificiosa: quello di Vespasiano sarebbe presentato da Tacito (chissà mai perché) come il sesto regno o statio nella storia dell'impero (I = Augusto; II = Tiberio; III = Caligola; IV = Claudio e Nerone; V = Galba, Otone e Vitellio; VI = Vespasiano). 2 Sulle origini e l'evoluzione del concetto di statio principis, oltre al fondamentale lavoro di E. KoESTERMANN, in «Philologus», LX XXVII, 1932, pp. 358 ss. e 430 ss., si vedano soprattutto H. VOLKMANN, in «Hist.», XVI, 1967, pp. 155 ss.; P. A. BRUNT, in «P.B.S.R.», XLIII, 1975, pp. 21-23; P. DESIDERI, Dione di Prusa, Firenze 1978, p. 252, n. 81 e p. 301 (con nota 24, p. 349).

13 Cfr. FRoNTO, ep. ad Ant.P., 6, p. 168 N. (= p. 160 Van den Hout): rispondendo ad una lettera di Frontone che definiva natalem salutis, dignitatis, securitatis meae il giorno anniversario

dell'ascesa di Antonino Pio al trono (niti imperii dies), l’imperatore stesso dichiara di essere sicuro che bunc diem, quo me suscipere banc stationem placuit, a te potissimum. ..celebrari. 14 Per i consolati si pronunciano SYME, II, p. 670; MICHEL, p. 59; KoENEN, p. 232. Per le £ribuniciae potestates GUDEMAN, p. 59 e, con qualche esitazione, GÜNGERICH, pp. 196 s. 15 Come pensa il KoENEN, p. 232, n. 10.

16 Così già KOENEN, p. 232, contro gli studiosi precedenti (v. per tutti GUDEMAN, p. 56, n. 4 e p. 58, che insiste su un presunto valore probatorio di 2472). 17 Dal momento che la sexta statio è ormai finita, mentre invece il principatus di Vespasiano dura ancora, con l'espressione rez publicam fovet (al presente) non può essere collegato altro che il principatus, e quindi il qua tradito va corretto, con Steiner, Weissenborn e Gudeman, in quo. In effetti, con buona pace del KOESTERMANN, cit. a nota 12, pp. 367 s., n. 17, il confronto con Liv., II, 1,6 (res publicas...fovit tranquilla moderatio imperii) mostra che al fovet del passo di Tacito si

adatta meglio un termine che designi il modo di governare di un imperatore (felix principatus) che non uno che alluda alla durata del suo governo (sexta statio). 18 Cfr. SyME, II, p. 670.

1? Per GUDEMAN, p. 301 l'espressione significherebbe genericamente «fino al presente»; ma in realtà proprio il passo di Agr., XXX, 1 che egli cita a conferma di tale significato, lo smentisce nel modo più netto, giacché nel suo appassionato discorso Calgaco afferma di sperare che hodiernum diem...initium libertatis toti Britanniae fore. Lo stesso deve dirsi di Hist., I, 30, mentre il significato indicato dal Gudeman può riconoscersi solo in Hist., IV, 64 e in Ann., XII, 42.

20 Non è escluso che la data fosse ribadita più esplicitamente, per trarne valutazioni diverse da quelle di Apro, nella parte del discorso di Materno andata perduta nella lacuna del cap. XL: v. quanto si dice più avanti per il diverso valore che la data prescelta doveva assumere nell’ottica di Apro da una parte, e in quella di Materno-Tacito dall'altra. ^ Div.Auc., epist., XXII Malcovati (= GELL., n.A., XV, 7,3). 22 Come è noto, i codici hanno in questo punto un zovem et quinquaginta sicuramente corrot-

to, perché farebbe cominciare il regno di Augusto addirittura due anni prima della morte di Cesare. A partire da Giusto Lipsio si corresse il z0vez in sex, sulla base soprattutto di SUET., Aug., VIII, 7 (altre fonti in GUDEMAN, p. 56, n. 3), mentre senza seguito è rimasto l'emendamento septem proposto dallo Steiner. Recentemente il Koenen, coerentemente con la sua teoria che il calcolo del saeculum di 120 anni partisse in realtà dalla morte di Cesare e non da quella di Cicerone, ha proposto di emendare il sex in octo. In realtà c’è un importante elemento che rende certa la correzione del Lipsio ed esclude tutte le altre. Secondo Tac., ann., I, 9, Augusto mori nello stesso giorno in cui aveva assunto il primo consolato (cfr. anche C.D., LVI, 30, 5). Poco importa qui se la coincidenza sia reale o forzata: quel che conta & che Tacito la accettava e che quindi egli seguiva una tradizione secondo cui gli anni di regno di Augusto erano esattamente 56. La tradizione seguita da Svetonio & sostanzialmente la stessa, anche se non includeva nel computo un paio di mesi del

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43 a.C., dall'assunzione del consolato all’investitura di IIvzr r.p.c., e partendo da quest'ultima calcolava «circa» 56 anni: primum cum M. Antonio M. que Lepido, deinde tantum cum Antonio per duodecim fere annos (dall'ottobre-novembre del 43 al 2 settembre del 31 a.C.), zovissime per quattuor et quadraginta solus rem publicam tenuit (dal 2 settembre del 31 a.C. al 19 agosto del 14 d.C.). Nessuna fonte, invece, ci fa conoscere un computo di 57 o 58 anni di regno. Nel passo del Dialogus, dunque; l'unica correzione ammissibile è sex et quinquaginta: non septem, perché in realtà Taci-

to calcola a parte il 43 (dal 1? gennaio, e non solo dal 19 agosto), e nella cifra corrotta vuole palesemente indicare solo gli anni di potere di Augusto dopo la morte di Cicerone, quasi coincidente col triumvirato (v. il 70x); e tanto meno octo, perché in tal caso si calcolerebbe non solo tutto il 43, nonostante il »20x, ma addirittura anche il 44. Quanto poi al novem et quinquaginta dei codici (octo

per l'Harleianus), molto probabilmente esso non è nato da un errore meccanico di copisti, ma è una correzione arbitraria (v. GUDEMAN, p. 56), apportata da qualcuno che, non avendo capito i fondamenti del calcolo di Tacito, aveva creduto di riscontrarvi l'errore di cui anche i moderni han-

no parlato di fronte al sex et quinquaginta giustamente restituito dal Lipsio: se non si calcolano i due estremi cronologici che abbiamo detto (l'anno 43 a.C. e quello che comincia il 7 dicembre del 76 d.C.) e si considera la sexta statio di Vespasiano come ancora in corso anziché compiuta, ci si trova davanti ad una somma (56 + 23 + 4 + 14 + 14 + 1 + 5) che non dà 120, bensì 117, esattamen-

te come nel calcolo del GUDEMAN, pp. 56 e 300; di qui l'assurda decisione di correggere il 56 in 59. 23 Anche XXXVII, 2 non può smentire questa datazione: il passo allude a Muciano come an-

cora vivo, mentre già nel 77 d.C., quando Plinio dedica la sua opera a Tito, egli risulta morto (PLIN., n.b., XXXII, 62). Ma non abbiamo alcun elemento per affermare, come fa il GUNGERICH,

p. 197, che il libro XXXII di Plinio sia stato scritto almeno un anno o due prima della dedica a Tito, né abbiamo elementi per escludere, su questo punto, una correzione apportata dallo stesso Plinio a un testo scritto prima della morte di Muciano. Sul problema, v. GUDEMAN, p. 57; SCHANZHosrus, II^, p. 608; SyME, II, p. 671.

24 Come si & accennato, il Koenen é l'unico studioso che sia partito dallo stesso nostro presupposto, considerando tra loro compatibili tutte le indicazioni cronologiche offerte da Tacito; movendosi in questa direzione, egli ha per primo rilevato che sexta szatio allude al sesto anno di regno di Vespasiano come già trascorso e non come ancora in corso. Ma la sua tesi di fondo, secondo cui il calcolo degli anni di regno di Augusto (e dei 120 anni complessivi) partirebbe dalla morte di Cesare anziché da quella di Cicerone, è inficiata da tre gravi contraddizioni (v. già GÜNGERICH, p.

197, n.3 e anche qui sopra, nota 22): 1) si postula un canone di 58 anni di regno per Augusto, che in realtà non solo non è attestato, ma è formalmente smentito dallo stesso Tacito, che come Svetonio accetta negli Azzales una durata di 56 anni; 2) si prescinde dal fatto che Tacito stesso, nel passo del Dialogus, considera come inizio del regno di Augusto il 43 a.C., e nella cifra corrotta mostra di volersi riferire agli anni di regno di Augusto dopo la morte di Cicerone; 3) nonostante il proposito di cercare una soluzione che non implichi contraddizioni o errori in Tacito, si ammette egualmente una vistosa incongruenza tra i termini dichiarati per l'inizio del calcolo (43 a.C.) e quelli che si suppongono reali (44 a.C.). | 2 Per la datazione del Dialogus non prima del 101 o 102 d.C., v. da ultimo SyME, II, pp. 671

5.; A. MICHEL, Tacito e il destino dell'impero, tr. it. Torino 1973, pp. 72 s.; GÜNGERICH, pp. 195 ss.

109

UN

CHERONE DI PELLENE: TIRANNO DEL IV SECOLO GABRIELE

a.C.

MARASCO

La tirannide di Cherone, che detenne il potere a Pellene all'epoca della spedizione di Alessandro in Asia, ha suscitato finora scarso interesse, nonostante

l'importanza dell'episodio nell'ambito della storia politica e sociale della Grecia. Gli studiosi che si sono occupati di tale vicenda ! si sono generalmente limitati ad accettare i dati delle fonti, e spesso non di tutte, senza tener conto dei diversi motivi polemici che ispiravano la tradizione antica nei confronti del tiranno, in particolare per quel che riguarda i suoi rapporti con l'insegnamento dell’ Accademía; ἃ stato inoltre generalmente trascurato il legame delle vicende di Cherone con la politica allora seguita dalla Macedonia nel Peloponneso, sulla quale restano, a mio avviso, testimonianze sufficienti per una piü attenta valutazione. Mi sembra dunque opportuno procedere ad un riesame dell’episodio, al fine di chiarirne i rapporti con la situazione politica e sociale del tempo. Sulle vicende di Cherone prima dell'ascesa alla tirannide le fonti offrono assai scarse testimonianze. L'orazione pseudodemostenica «Sul trattato con Alessandro» (XVII, 10) lo definisce «lottatore» (παλαιστής), con evidente allu-

sione alle sue quattro vittorie nei giochi olimpici ?. Le notizie sul suo discepolato presso Platone e Senocrate ? indicano che egli risiedette ad Atene per qualche tempo già prima della morte di Platone e vi restó forse anche dopo la successione di Senocrate a capo dell' Accademia. Le vittorie conseguite nei giochi panellenici dovettero recare notevole prestigio a Cherone, il quale del resto doveva essere di estrazione non bassa *; tuttavia, l'instaurazione della sua tirannide fu do-

vuta principalmente a fattori esterni alla sua città. La tradizione pià aspramente ostile, rappresentata dallo pseudo-Demostene ?, ne considerava infatti responsabile Alessandro. Notizie più circostanziate sono fornite invece dall' Iudex: nonostante le incertezze del testo, è chiaramente

comprensibile la notizia secondo cui Cherone fu imposto come tiranno da Corrago e dai soldati che erano con lui nel Peloponneso 5. Alla riga precedente è poi chiaramente leggibile il nome di Antipatro, il che fa intendere che anche questi fu in qualche modo partecipe dell’azione. Questa testimonianza induce a datare l'avvenimento intorno al 331, quando Antipatro, reggente di Macedonia, era impegnato in Tracia contro il ribelle Memnone 7: in tale circostanza, infatti, Agide III, re di Sparta, organizzò una rivolta contro il dominio macedone che ottenne larghe adesioni nel Peloponneso ed alla quale pose fine solo l'intervento di Antipatro, che riuscì a sconfiggere le forze di Agide presso Megalopoli 8. Nel periodo precedente l’arrivo di Antipatro, Agide era riuscito a sconfiggere Corrago, evidentemente lasciato dal reggente a custodia della Grecia ?; in seguito a tale scontro, Sparta ottenne l’alleanza, fra gli altri, di «tutti gli Achei eccetto quel111

li di Pellene» 19, Si puó dunque concludere che la fedeltà di Pellene alla Macedonia fu dovuta ai legami di Cherone, allora al potere, con Corrago e ció induce a datare l'instaurazione della tirannide appunto intorno al 2321 4. Queste conclusioni consentono, a mio avviso, alcune osservazioni sul ruolo

che Cherone dovette assolvere nell'ambito della politica macedone nel Peloponneso e sui motivi dell'aiuto che gli fu offerto. In effetti, anche se la rivolta di Agide ebbe inizio proprio con la vittoria conseguita su Corrago, è noto che le prime mosse del re spartano ebbero luogo in epoca precedente, dal momento che già nel 333 egli concluse accordi con i Persiani, ottenendone consistenti aiuti, e si recò a Creta per forzare la maggioranza delle città ad aiutarlo contro i Macedoni 12; ὃ credibile inoltre che gli agenti spartani abbiano compiuto, fra

quella data e il 331, una vasta opera di sobillazione antimacedone in Grecia 1. E comprensibile che tali mosse e la chiara ostilità di Sparta verso il dominio macedone abbiano suscitato apprensioni in Antipatro !* e che egli abbia cercato di premunirsi contro il pericolo di una rivolta, nel delicato periodo in cui all'assenza di Alessandro, impegnato in Asia, si aggiungeva la necessità d'inviargli rinforzi P, indebolendo così il controllo macedone sulla Grecia.

A queste esigenze si può ricollegare il ristabilimento della tirannide dei Filiadi a Messene 16, che ebbe luogo intorno al 333 17; inoltre, all'incirca in quel periodo, fu instaurata i a Sicione per comando (ἐκ προστάγματος) dei Macedoni

la tirannide del «pedotriba» !8. L'importanza di queste tirannidi per il controllo macedone nel Peloponneso mi sembra legata a motivi strategici: mentre infatti Messene faceva pesare una grave minaccia sui confini orientali dello stato spartano, i tiranni instaurati a Sicione e a Pellene costituivano un valido controllo sul Peloponneso settentrionale e, unitamente alla guarnigione macedone dell'Acrocorinto, assicuravano la difesa dell'istmo e della costa settentrionale del golfo di Corinto, impedendo che gli Spartani potessero congiungersi con eventuali alleati fuori del Peloponneso e rendendo piü agevoli i movimenti delle truppe macedoni. Infine, Pellene faceva parte della Lega Achea, che non era stata sciolta da Filippo II 15 e che era allora animata da sentimenti antimacedoni, rafforzati dalla perdita di Naupatto 29, L'instaurazione della tirannide di Cherone serviva dunque ad inserire un elemento di discordia fra gli Achei, sottomettendone una delle città al controllo macedone; la stessa scelta di Pellene a tal fine sembra corrispondere ad un calcolo oculato, se si considera che la città era stata, nel corso del V e del IV secolo, notevolmente indipendente rispetto alle direttive politiche della Lega 2. L’instaurazione della tirannide corrispondeva dunque a precise finalità strategiche e politiche da parte macedone; ma, anche se l’intervento macedone è indubbio dalle fonti, è credibile che l’azione di Cherone abbia riscosso adesioni

anche in patria, in connessione con i contrasti sociali che anche a Pellene, come nel resto della Grecia 2, dovevano essere allora assai vivi. Lo pseudoDemostene (XVII, 10), affermando che gli Achei avevano allora una costituzione democratica, accusa Alessandro di aver sovvertito la democrazia (καταλέλυkg τὸν δῆμον) a Pellene, scacciandone la maggior parte (πλδίστους) dei cittadi-

ni e dando i loro beni agli schiavi. Tale testimonianza 25 può essere tuttavia am112

piamente influenzata dal desiderio dell'oratore di eccitare gli animi degli Ateniesi contro il sopruso commesso da Alessandro ai danni degli Achei: & infatti dubbio che costoro fossero allora retti da un regime democratico ?* e del resto il termine che l'oratore impiega potrebbe anche riferirsi ad un regime nel quale il potere era sostanzialmente nelle mani dei ricchi 25. In effetti, si & generalmente trascurato il fatto che la testimonianza dello pseudo-Demostene mostra significative differenze rispetto al racconto di Ateneo

(XI,

509

b),

il quale

afferma

che

Cherone

espulse

da

Pellene

τοὺς

ἀρίστους, dando ai loro schiavi i beni e le mogli dei proscritti. Mentre dunque lo pseudo-Demostene afferma che il tiranno esilió una larga parte dei cittadini 26, il testo di Ateneo fa comprendere che le sue misure colpirono solo una parte dei cittadini, che evidentemente si erano opposti ai suoi disegni. La testimonianza di Ateneo mi sembra nettamente preferibile, tanto piü che, come si vedrà, essa deriva da Democare, democratico ed aspramente ostile a Cherone: essa permette dunque una più accurata comprensione della politica adottata dal tiranno. E evidente infatti da Ateneo che le misure di Cherone non sono in alcun modo configurabili come un ἀναδασμός, ma comtemplavano sol-

tanto una distribuzione delle terre degli esiliati 27, pratica che era, del resto, assai comune nelle lotte politiche. Il termine ἄριστοι che designa gli esiliati dev'essere inoltre inteso nel suo senso politico 28 e dimostra che Cherone espulse da Pellene gli esponenti delle classi più elevate, che detenevano il controllo politico ed economico della città. L'attribuzione dei beni degli esiliati ai loro schiavi, che indica come costoro fossero stati liberati ed immessi nella cittadinanza, appare del resto una misura legata alle esigenze politiche della presa di potere del tiranno. Infatti, Ateneo afferma che Cherone procedette a tale misura «ingraziandosi» (χαρισάμενος) gli schiavi; inoltre, lo pseudo-Demostene (XVII 15), enumerando le clausole del

trattato che sarebbe stato infranto da Alessandro con l’instaurazione delle tirannidi, menziona anche le δούλων ἀπελευθερώσεις ἐπὶ νεωτερισμῷ. L'accenno, che sembra alludere proprio all'episodio di Cherone 25, conferma, a mio avviso, che la liberazione di alcuni schiavi e l’attribuzione ad essi dei beni dei loro

padroni costituì un compenso per il loro appoggio all’instaurazione della tirannide. Non è poi da trascurare l’analogia dell’azione di Cherone con quella di Clearco, che, divenuto tiranno.di Eraclea Pontica nel 364, aveva esiliato i nobili

e ne aveva storo una anch'egli a prio per la

attribuito i beni e le donne agli schiavi, con il proposito di fare di cosicura base per il suo potere 39; è credibile che Cherone mirasse sostituire alla vecchia classe degli ἄριστοι elementi nuovi che, proloro origine servile, dovevano essere a lui più legati.

Qualche osservazione merita pure, a mio avviso, la notizia secondo cui Chero-

ne avrebbe obbligato le mogli degli esiliati a sposare gli schiavi31. La Mossé 52, infatti, notando il ricorrere di tale notizia nella tradizione relativa ai tiranni

Clearco e Nabide di Sparta, lontani cronologicamente ed in situazioni sociali assai differenti, ha dubitato che possa trattarsi di un fopos facente parte della tradizione sui tiranni; ma recentemente l’Asheri, riesaminando i casi attestati di tali misure, ne ha difeso la storicità, rilevandone il comune denominatore nell’OM113

γανδρία, che rendeva necessaria l'immissione di nuovi cittadini, e sottolinean-

do come l'azione dei tiranni nei confronti delle mogli degli avversari politici esiliati fosse basata sostanzialmente sul diritto di guerra ?. E dunque credibile che la misura adottata da Cherone mirasse a mantenere immutato il corpo civico, in un momento in cui ció era reso necessario dall'instabilità politica nel Peloponne50. Le misure adottate da Cherone dimostrano dunque che egli ottenne appoggi anche in Pellene, soprattutto da parte di alcuni schiavi. E tuttavia poco credibile che la sua tirannide sia stata conseguenza di un rivolgimento popolare ?^, sia perché le fonti sono concordi nell'attribuirne l'instaurazione all'iniziativa macedone, sia perché la stessa testimonianza di Ateneo non accenna al ruolo del popolo nella vicenda e limita chiaramente la ridistribuzione dei beni degli esiliati ad alcuni schiavi, escludendo con ció che le misure di Cherone possano aver coinvolto più generalmente il popolo in una radicale modifica degli assetti sociali. E comunque probabile che Cherone, come altri tiranni demagoghi, possa aver sfruttato a proprio vantaggio l'ostilità popolare verso gli ἄριστοι. Le misure adottate da Cherone e la sua tirannide sono state interpretate dalla maggior parte degli studiosi come legate all'insegnamento ed all'influenza dell’ Accademia 55. Questa tesi è in sostanza basata su Ateneo, che riferisce una

lista di tiranni discepoli dell' Accademia: dopo aver riportato le accuse contro Everone di Lampsaco in base a diverse fonti, fra cui l'orazione di Democare in difesa della legge di Sofocle, e quelle contro Timeo (in realtà Timolao) di Cizico, sulla scorta di Democare (XI, 508 f - 509 a), Ateneo espone le vicende di Chero-

ne e le misure da lui adottate verso i beni e le mogli dei proscritti, concludendo che il tiranno sarebbe stato ispirato a tali azioni dell'influenza di Platone (XI, 509 b:... ταῦτ᾽ ὠφεληθεὶς ἐκ τῆς καλῆς Πολιτείας

xai τῶν παρανόμων

Νόμων).

L’ostilita della tradizione nota ad Ateneo nei confronti degli Accademici & stata rilevata 36, ma mi sembra essenziale una più precisa individuazione della fonte e delle sue caratteristiche per verificarne l'attendibilità. Il modo in cui

Ateneo riferisce la notizia indica infatti che anche le notizie su Cherone, come

le precedenti, derivano da Democare 57 e ciò mi sembra confermato in particolare dal gioco di parole prettamente retorico sul titolo dei Νόμοι, che conclude la notizia. L'orazione di Democare da cui deriva Ateneo fu composta nel 306, nel clima di restaurazione democratica che seguì la liberazione di Atene ad opera di Demetrio Poliorcete: l'oratore difendeva la legge di Sofocle, che assoggettava l'insegnamento delle scuole filosofiche al controllo statale 38. La violenta ostilità verso i filosofi che si diffuse allora in taluni ambienti 39, l’adesione di Democare

agli ideali democratici * e le stesse necessità polemiche del discorso aiutano a comprendere la versione che l’oratore offriva della tirannide di Cherone. L'ostilità verso i filosofi, che portava Democare ad. accuse infondate contro Aristotele 41, è ampiamente avvertibile anche nei brani riportati da Ateneo, che mirano a sottolineare l’influenza dell’Accademia sulla formazione e sulla condotta politica dei tiranni, presentando la scuola come una vera fucina di tiranni. La forzatura polemica di tale interpretazione è evidente €? e si rispecchia nel le114

game che Democare pretendeva di istituire fra l'opera di Cherone e le teorie platoniche: l'assimilazione tra la comunità dei beni e delle donne propugnata da Platone ed il comportamento di Cherone, che, come si € visto, si era limitato ad

attribuire agli schiavi a lui fedeli i beni e le donne dei proscritti, è assolutamente inaccettabile e converrà concludere che nessuna delle misure adottate dal tiranno può trovare conforto nella filosofia platonica. La tradizione nota ad Ateneo è dunque da respingere 4, dal momento che le misure di Cherone si rifacevano alla tradizione «tirannica» ed alla prassi comune nella lotta politica e miravano, come si è visto, al rafforzamento della sua posizione personale di potere. Inoltre, mi sembra importante notare che, a questo proposito, é stata gene-

ralmente trascurata la testimonianza di Ermippo, riferita dall' Index. L'autore di tale compilazione riferisce infatti, a proposito di Cherone, la testimonianza di Ermippo nell'opera περὶ τ]ῶν ἀπὸ φιλοσοφίας εἰς [τυραννίδ]ας καὶ δυναστεί[ας μεθεσ]τηκότων ^, secondo cui Cherone Ev ᾿Ακαδημείᾳ μ[ὲν] παρὰ Πλάτ[ωνι!

καὶ Ξενοκράτει

[οὐκ] ἔμ[εινε]ν 4. Nonostante le condizioni del

testo, il senso appare comprensibile e, del resto, lo stesso titolo dell'opera di Ermippo conferma che egli doveva comprendere Cherone fra quei personaggi che avevano abbandonato l'insegnamento della filosofia per la tirannide e doveva intenderne l'azione come causata esclusivamente da ambizioni personali ^6 Qualche altra considerazione induce poi a respingere l'ipotesi di un'influenza accademica sulla tirannide di Cherone. In primo luogo, anche se si & visto che l'azione di questi mostra diverse analogie con quella di Clearco *, tiranno di Eraclea, che fu anch'egli allievo di Platone 48, converrà ricordare che Clearco fu poi ucciso da Chione e Leone (o Leonide) di Bisanzio, anch'essi di-

scepoli di Platone ^, il che conferma come l'iniziativa dei singoli tiranni non coinvolgesse in alcun modo la scuola 59, In secondo luogo, occorre ricordare che l’instaurazione della tirannide di Cherone avvenne con un diretto coinvolgimento macedone, ed in particolare di Antipatro, allora reggente. Ora, per quanto l'Accademia, specie sotto lo scolarcato di Speusippo, sembra essere stata influenzata da un notevole filomacedonismo ?!, la situazione dovette mutare note-

volmente con Senocrate, che fu a capo della scuola a partire dal 339. Infatti, sebbene siano noti i rapporti fra quest'ultimo ed Alessandro, che comunque illuminano scarsamente sull'atteggiamento politico del filosofo ??, una tradizione assai diffusa riferisce il fiero contegno di Senocrate durante l'ambasceria ad Antipatro alla fine della guerra lamaica 55. L'episodio indica l'esistenza di rapporti non buoni tra il filosofo ed Antipatro almeno a quell'epoca ed , in ogni caso, l'ostilità di Senocrate verso la politica macedone che mirava ad assoggettare le città greche ?*; non & dunque credibile che, intorno al 331, lo stesso Senocrate

possa aver avuto qualche rapporto con la tirannide di Cherone, che, come si & visto, assoggettò Pellene alla dominazione macedone. Delle ulteriori vicende di Cherone restano assai scarse tracce. L'accenno nell’Index a πρέσβεις α[ὑ]τῷ διὰ Κ[ο]ρράγου καὶ τῶν μετὰ τούτου χιλίων ἐν

Πελοϊποννήσῳ55 può forse riferirsi alle vicende della guerra contro Agide, nel corso della quale è credibile che Corrago abbia chiesto l’aiuto del tiranno. Ancora nell' Index ricorrono una notizia anonima (tivo), secondo cui il tiranno avreb115

be cercato di fondare una città di nome Cheronea 56, ed accenni difficilmente ricostruibili alla sua morte 57. Se tali notizie, com’& credibile, derivano da Fania di Ereso, che è menzionato poco prima nella stessa colonna e che era autore di un'opera sull'uccisione dei tiranni in conseguenza della vendetta (fr. 14-16 Wehrli), si puó supporre che anche la morte di Cherone rientrasse in tale categoria 58,

È credibile, comunque, che il potere di Cherone non abbia avuto lunga durata: infatti Alessandro, dopo la battaglia di Gaugamela, abolì tutte le tirannidi ?. I motivi di questo gesto possono, a mio avviso, essere chiariti da quanto si è detto circa le finalità dell’instaurazione delle tirannidi filomacedoni negli anni fra il 333 ed il 331. L’azione macedone era stata determinata allora dalla minaccia degli Spartani, appoggiati dalla Persia. Ma la vittoria conseguita da Antipatro su Agide 60 aveva fatto cessare ogni pericolo da parte spartana e la decisiva sconfitta subìta da Dario a Gaugamela rendeva impossibili ulteriori ingerenze persiane nelle vicende greche. In tale situazione, è comprensibile che Alessandro abbia ritenuto ormai inutile il mantenimento delle tirannidi filomacedoni nel Peloponneso e più producente, sul piano politico e propagandistico, la restituzione ai Greci di una certa libertà.

1 In particolare J. KAERST, s.v. Chairon, nr. 4, in R.E. III 2 (1899), col. 2032 s.; H. BERVE, Das Alexanderreich auf prosopographischer Grundlage, II, München 1926, p. 403 (nr. 818); In., Die

Tyrannis bei den Griechen, 1, München 1967, p. 307 s. A tali opere si riferiscono generalmente gli accenni di altri studiosi, che hanno esaminato, come si vedrà, solo aspetti particolari della vicenda di Cherone. ? Di queste e di altre vittorie danno notizia Pausania (VII, 27, 7) ed Ermippo (fr. 89 Wehrli = Academicorum Philosophorum Index Herculanensis, ed. G. Mekler, Berlin 1902, col. XI, 11 ss.); cfr. L. MORETTI, Olympionikai, i vincitori negli antichi agoni olimpici, «Mem. Accad. Naz. Lincei,

CI. di Sc. mor., stor. e filol.», Ser. VIII, vol. VIII 2, 1957, pp. 123 s. Sulla composizione dell’ Izdex cfr. soprattutto W. CROENERT, «Hermes» 38, 1903, pp. 357 ss. = Studi Ercolanensi (tr.it.), Napoli 1975, pp. 155 ss. 3 ATHEN. XI, 509 b; HeRMIPP., fr. 89 Wehrli = Index, col. XI, 9-10, p. 29 Mekler; cfr. anche col. VI, 4, p. 34. 4 Cfr. le osservazioni del BERnvE (Die Tyrammis..., I, p. 307). 5 XVII, 10; cfr. anche Paus. VII, 27, 7, che accusa Cherone di essersi fatto corrompere da

Alessandro. | 6 Index, col. VI, 33 ss., p. 30 Mekler (= HERMIPP., fr. 89 Wehrli). L’identificazione, proposta dal Mekler, di Corrago con il personaggio menzionato in Drop. XVII, 100, 2; Curt. IX, 7, 17; Agr., V.H. X 22 è da respingere: cfr. BERVE, Das Alexanderreich..., II, pp. 219 s. (nrr. 444-5). ' Diod. XVII, 62, 4 s. Per la cronologia cfr. soprattutto E. Badian, Agis III, «Hermes» 95, 1967, pp. 179 s. e 190-92; G.E.M. DE STE. Crorx, The Origins of the Peloponnesian War, London 1972, pp. 376-8; BoswonTH, in «Phoenix» 29, 1975, pp. 27 ss., con bibliografia a n. 2. 8 Cfr. soprattutto BADIAN, art. cit., pp. 174 ss. ? Cfr. BERVE, Alexanderreich, II, pp. 219 s. (nr. 444). 1 AESCHYN., C. Ctesiph., 165. 1! Cfr. TH. Gomperz, Die Akademie und ihr vermeintlicher Philomacedonismus, «Wien. Stud.» 4, 1882, p. 116, nota; KAERST, art. cit., col. 2032; BERVE, Alexanderreich, II, p. 403; In., Tyrannis, I, p. 307; Fr. WEHRLI, Die Schule des Aristoteles, Suppl. I, Hermippos der Kallimacbeer,

116

Basel-Stuttgart 1974, p. 95; E. CuLAsso dubbio è espresso da G.L. CawkwELL, 1961, p. 75, n. 13), che ritiene possibile E comunque da respingere l'ipotesi di

GASTALDI, in «Prometheus» 6, 1980, pp. 235 s. Qualche (A Note on Ps. Demosthenes XVII 20, in «Phoenix» 15, . che Corrago fosse presente nel Peloponneso anche prima. A. SCHAEFER (Demosthenes und seine Zeit, III, Leipzig

18872, p. 134), B. HAUSSOULLIER (Traité entre Delphes et Pellana, Paris 1917, p. 156) ed A. Passe-

RINI (Riforme sociali e divisioni di beni nella Grecia del IV secolo a.C., in «Athenaeum», N.S. 8,

1930, p. 283), che datavano l'inizio della tirannide di Cherone al 336, ignorando la testimonianza dell Index. 2 Dion. XVII, 48,2; Arr., Arab. II, 13, 4-6; Cun. IV 1, 39 s.; cfr. ad es. BADIAN, art. cit., pp. 176 ss.; A.B. BoswonTH, A Historical Commentary on Arrian's History of Alexander, I, Oxford 1980, pp. 223 s. Agli aiuti persiani a Sparta accennava del resto con una certa preoccupazione Alessandro in una lettera a Dario dopo Isso (Arr., Arab. II, 14,6); dopo tale battaglia, inoltre, i Macedoni avevano catturato a Damasco un ambasciatore spartano inviato presso Dario (ARR., Anab. ΤΙ, 15,2-5; Curt. III, 13,15; sulle discrepanze tra le-due fonti cfr. BoswoRTH,op cit., pp. 233 s.) ed Arriano specifica che Alessandro lo trattenne prigioniero in quanto...AakeSauoviov τε ὄντα, πόλεως περιφανῶς ἐχθρᾶς ἐν τῷ τότε. D Cfr. BADIAN, art. cit., p. 181.

14 Alle preoccupazioni: per le mosse di Agide a Creta alcuni studiosi hanno ricollegato l'invio, da parte di Alessandro, di rinforzi comandati da Anfotero nell’estate del 331 (Arr., Arab. III, 6,3): cfr. BoswonTH, Commentary...,I, p. 279 con bibliografia. Accenni preoccupati alle mosse di

Agide sono pure presenti nel discorso di Alessandro prima dell'assedio di Tiro (Arr., Arab. II, 17, 2), la cui autenticità è comunque sospetta (cfr. BoswoRTH, op. cit., pp. 238 s.). 15 Drop. XVII 65,1-2; Ann., Azab. III, 5,1; 16,10 s.; CunT., V, 1,39-42; cfr. in particolare

BoswonTH, Commentary, I, pp. 319 s., il quale ritiene che tali forze fossero partite per l' Asia prima della sconfitta di Corrago, che costituì l'inizio della guerra di Agide. Cfr. anche DE STE. Cnorx,

op. cit., p. 376 s.

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16 DEMOSTH. XVIII, 295; ps. - DEMOSTH. XVII, 3 ss.; PoLyB. monia l'ostilità verso Sparta. Sui Filiadi cfr. ad es. BERvE, Tyrannis, sthenes. Rede für Ktesiphon über den Kranz, Heidelberg 1976, II, p. complesso della politica di Antipatro nel Peloponneso si vedano le

XVIII, 14,3 ss., che ne testiI, p. 308; H. WANKEL, Demo1252 s. con bibliografia. Sul importanti osservazioni di P.

TnEvzs (Demostene e la libertà greca, Bari 1933, pp. 101 s.). .

V Cfr. ad es. BERVE, Alexanderreich, II, p. 274 (nr. 550); Demostene. L’orazione per la Coro-

na, Introd. e comm. di P. Treves, Milano 1966, p. 237; F.W. WALBANK, A Historical Commenta-

ry on Polybius, II, Oxford 1967, p. 567. 18. Ps.-DEMosTH. XVII, 16; cfr. CH.H. SKALET, Ancient Sicyon, Baltimore 1928, p. 77; BERVE, Tyrannis, I, p. 307. Il fatto che lo pseudo-Demostene, che menziona l'instaurazione di tali tirannidi, introduca l'accenno a Cherone con un νῦν (XVII, 10) farebbe pensare che il caso di Pellene fosse stato l'ultimo in ordine cronologico. ΝΣ 1? Cfr. in particolare C. RoEBUCK, in «Class. Phil.» 43, 1948, p. 84; WALBANK, A Histor. Comm. on Polyb., I, Oxford 1957, p. 228 e p. 232; J. A.O. LARSEN, Greek Federal States, Oxford 1968, p. 171; E.I. MCQUEEN, Some Notes on tbe Anti-Macedonian Movement in tbe Peloponnese in

331 B.C., in «Historia» 27, 1978, p. 46.

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20 Cfr. MCQUEEN, art. cit. pp. 46 s. Nel 338, Filippo II aveva attribuito Naupatto agli Etoli. 2! Su tali precedenti cfr. WALBANK, op. cit., I, pp. 232; LARSEN, op. cit., pp. 7, 82 e 128;

MCQUEEN, art. cit. p. 47 e n. 29.

22 Cfr. ad es. R. vou POHLMANN, Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, ed. F. Oertel, I, München 1925, pp. 341 ss.; D. Asuxnr, Distribuzioni di terre nell'antica Grecia, Torino 1966, pp. 85 ss.; A. Fuxs, in «Anc. Soc.» 3, 1972, pp. 17-44; 5, 1974, pp. 5181.

? Accettata, ad es. dal KAERST (art. cit., col. 2032) e dal MCQUEEN (art. cit., p. 46, n. 27). Del tutto errata mi sembra l'osservazione del CARWKWELL

(art. cit., p. 77, n. 23), secondo cui l'ora-

tore «does not say explicitly that Pellene was a democracy when the covenant was made»: l'accenno alla κατάλυσις τοῦ δήμου & sufficientemente esplicito. 24 Nessuna testimonianza conferma l'ipotesi che le aristocrazie ristabilitesi nel 367 (XEN., Hell. VII, 1, 41-43) nelle città anchee fossero state abbattute.

117

25 "Tale fu, in effetti, il carattere della Lega achea rifondata nel 280; si noti che il LARSEN (op. cit., pp. 84 ss) ha sottolineato la continuità della Lega in età ellenistica con quella dell'età classica

proprio nel campo delle istituzioni. 26 Assai generica è la testimonianza dell' Iudex (col. XI, 38, p. 30 Mekler), secondo cui Cherone avrebbe esiliato «i cittadini». 7! Cfr. PASSERINI, art. cit., p. 284; AsHERI, Distribuzioni... cit., p. 105, n. 3; del tutto errate le

affermazioni contrarie del CAWKELL (ART. CIT., p. 77). È inoltre evidente che le misure di Chevitù: cfr. Passerini, art. cit., p. 284; K.-W. 2WELweEI, Unfreie im antiken Kriegsdienst, II, Wiesbaden 1977, p. 154.

E ’ASHERI (Tyrannie et mariage forcé: essai d’histoire sociale grecque, «Annales (ESC)» 32,

1977,p. 26) lo traduce ancora «les meilleurs»; ma giustamente, a mio avviso, P.M. SCHUHL (Platon et Pactioité politique de l’ Academie, «R.E.G.» 59-60, 1946-47, p. 51, n.1) osserva che «le mot a

évidemment ici son acception politique». 29 Cfr. PASSERINI, art. cit., p. 283. 3! Justin. XVI, 5,2:... ut eos sibi fidiores et dominis infestiores redderet. Su Clearco cfr. ad es. BERVE, Tyrannis, I, pp. 315- 18; C. Moss£, La tyrannie dans la Gréce antique, Paris 1969, pp. 12831; ASHERI, Tyrannie et mariage...., pp. 25 s.; S.M. BURSTEN, Outpost of Hellenism: the Emergence of Heraclea on the Black Sea, Berkelely and Los Angeles 1976, pp. 54 ss. 31 Confermata dall’Ixdex (col. XII, 1 s., p. 31 Mekler). 32 Op. cit., p. 185; sulla fortuna di questo topos in ambito retorico cfr. ad es. BERVE, Tyrannis, 1, p. 505. 3 ASHERI, Tyrannie et mariage..., in particolare pp. 36-39.

34 Così intendevano, ad es., l’HAUSSOULLIER (op. cit., p. 156) ed il PAssERINI (art. cit., p. 284). 35 Cfr. ad es. von PÖHLMANN,

op. cit., I, p. 344; SCHUHL, art. cit., p. 51; CAWKWELL,

art.

cit., pp. 76 s.: «Chaeron was a petty philosopher-king who set up a Platonic republic which included common sharing of property and wiwes...». Si veda anche BERvE, Tyrannis, I, p. 307, che tut-

tavia lo considera fra quei membri dell’ Accademia che «spáter durch tyrannische Herrschaft den Lehren Platons hohnsprachen». Dubbiosa è invece M. IsNARDI PARENTE (Studi sull’Accademia platonica antica, Firenze 1979, pp. 290 s.), che osserva, a proposito delle tirannidi di Timolao di Cizi-

co e di Cherone, che «si tratta di tentativi del tutto personali, la cui ispirazione platonica tende a farsi sempre più remota». 36 Cfr. WEHRLI, Hermippos, p. 96. 37 Cfr. MÜLLER, F.H.G., II, p. 447, n. 6; WiLAMOWITZ, Antigonos von Karystos, «Phil. Un-

ters.» 4, Berlin 1881, pp. 196 s.; ed anche, ma con qualche dubbio, WEHRLI, loc. cit.; ASHERI, Tyrannie..., p. 26. Del tutto errata è l'ipotesi del Gorzperz (art. cit., p. 116, nota), che identificava in

Ermippo la fonte di Ateneo: si & visto infatti che Ateneo differisce nettamente dalla notizia di Exmippo riferita nell’Index circa l'entità degli esili decretati da Cherone.

?' Cfr. in particolare W.S. FERGUSON, Hellenistic Athens, London 1911, pp. 104 ss.; J.P. Lynch, Aristotle's School, Berkeley and Los Angeles 1972, pp. 103 ss. 5. Cfr. ad es. i versi del comico Alessi (fr. 94 Edmonds), in cui si elogia il Poliorcete per aver scacciato da Atene Senocrate, considerato un corruttore dei giovani, in maniera assai simile alle accuse di Áristofane contro Socrate.

4 Cfr. ad es. L.C. SMITH, in «Historia» 14, 1962, pp. 114 ss.; T.L. SHEAR, Jn., Kallias of Spbettos and tbe Revolt of Athens in 286 B.C., «Hesperia», Suppl. 17, Princeton, New Jersey 1978, pp. 47 ss.; CHR. HABICHT, Untersuchungen zur politischen Geschichte Athens im 3. Jahrhundert v. Chr., München 1979, pp. 22 ss. ^! EuseB., Praep. Ev. XV, 2, 6; cfr. I. DURING, Aristotle in the Ancient Biograpbical Tradition,

Göteborg 1957, p. 462. 2 Sull'attività politica dell’ Accademia basti qui rimandare ai recenti studi di M. IsnARDI PARENTE, in: ZELLER-MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte II, vol. III 2, Firenze 1974, pp. 870 ss.; Eop. Studi sull' Accademia... cit. , pp. 235 ss. con bibliografia. 9 Non mi sembra comunque rilevante, come vorrebbe il WeurLı (Hermippos, p. 96), il silen-

zio di Pausania e dello pseudo-Demostene sui rapporti fra Cherone e l' Accademia. In effetti, la no118

tizia del periegeta ἃ assai sintetica e probabilmente basata su fonti locali; quanto all'oratore, se si considerano le finalità del suo discorso, improntato ad un'accusa dell'imperialismo macedone e al desiderio di esortare gli Ateniesi a difendere Ia loro indipendenza, sarebbe comprensibile che egli - tacesse qualsiasi eventuale coinvolgimento di cittadini o residenti ateniesi nelle vicende di Cherone. 44 Sull'esatta forma di questo titolo cfr. HEIBGES, s.v. Hermippos, nr. 6, R.E. VIII, 1 (1912), col. 846; WEHRLI, Hermippos, p. 95. ^ Index, col. XI, 1-11, p. 28 s. Mekler = HerMmipP., fr. 89 Wehrli. 4 Cfr. WEHRLI, Hermippos, p. 96. 47 Cfr. sopra, p. il rimando alla pagina del testo che contiene la nota 30. ^5 FGrHist 434, F 1, 1; Sup., s.v. Κλέαρχος, Adler III, p. 126 s.

^9 Index, col. VI, 13-15; FGrHist 434, F 1, 3-4; IusriN. XVI, 5, 12; SUD., Joc. cit.; PS.-CHION, epist. 5, p. 55; 16, pp. 71 ss.; 17, pp. 77 ss. Düring; cfr. ad es. Chion of Heraclea. A Novel in Letters, ed. I. DÜRING, «Göteborgs H x ogskolas Ärsskrift» 57, 1951, Heft 5, pp. 9 ss.; BERVE, Tyrannis, I, p. 318. 50 Cfr. ad es. ISNARDI PARENTE, Studi sull’Accademia..., pp. 292 s. Per l'estraneità delle misu-

re adottate da Clearco rispetto agli ideali platonici cfr., in particolare, FUKs, in «Anc. Soc.» 10,

1979, p. 38.

1 Cfr. in particolare IsNARDI PARENTE, Studi sull’Accademia..., pp. 235 ss.

? Cfr. in proposito G. MADDOLI, Senocrate nel clima politico del suo tempo, in «Dial. Arch.» 1, 1967, pp. 314 ss.; IsNARDI PARENTE, Studi..., pp. 299 s. 53 PHILODERM., Rh. I, p. 350; II, p. 173, Sudhaus; Index, col. VII, 22 ss., pp. 40 ss. Mekler; Prur., Phoc. 27, 2-6; W. CRÖNERT, Kolotes und Menedemos, Leipzig 1906, pp. 67 ss.; cfr. soprattutto GOMPERZ,

art. cit., pp. 105 ss.; MADDOLI, art. cit., pp. 306 ss.; ISNARDI PARENTE, Studi...,

pp. 300 ss. ‘54 Osserva al proposito la ISNARDI PARENTE (Siudi..., p. 301) che «Senocrate non agisce verosimilmente per patriottismo ateniese, ma per patriottismo panellenico». 55 Index, col. XII, 12 ss., p. 31 Makler. 56 Col. XII, 7 ss. Come osserva il BERVE (tyrazzis, I, p. 307), il nome onorava il fondatore, ma ricordava anche la località della vittoria di Filippo II sui Greci: segno ulteriore, dunque, della subordinazione del tiranno alla Macedonia. 57 Col. XII, 12 ss., p. 31 Makler. 58 Cfr. MAKLER, ad. loc.; GOMPERZ, art. cit., p. 116, nota; BERVE, Tyrannis, Il, p. 677. 59 PruT., Alex. 34, 3; cfr. ad es. BERVE, Tyrannis, I, pp. 307 s., che data la misura al 330. Non mi sembra atendibile l'ipotesi di J.R. HAMILTON (Plutarch. Alexander. A Commentary, Oxford 1969, p. 91), 11 quale riferisce l'iniziativa alle città grache d' Asia, che alessandro aveva già li berate, e ritiene che le tirannidi nel Peloponneso fossero invece mantenute. 60 Cfr. ad es. Marasco, Sparta agli inizi dell'età ellenistica: il regno di Areo I (209/8-265/4 a.C,), Firenze 1980m p. 21 e n. 15 con bibliografia. La data della battaglia è assai discussa:. si veda la bibliografia alla precedente nota 7. Mentre gran parte degli studiosi la data al 331, ancora recentemente il BoswonTH (in «Phoenix», 1975, pp. 39 ss.) ha sostenuto che essa abbia avuto luogo all'inizio dell'estate del 330.

119

OSSERVAZIONI SUI RAPPORTI TRA I DIADOCHI E LE CITTÀ D'ASIA MINORE ATTILIO

MASTROCINQUE

Mi è capitato talora di leggere in lavori recenti di storiografia ellenistica che i basileis avevano tutti un analogo atteggiamento nei confronti delle città greche, perché cercavano tutti di sfruttarle quanto pià era possibile e concedevano loro privilegi di indipendenza solo per farsi propaganda agli occhi del mondo ellenico. Un tale modo d'intendere rischia di produrre impostazioni antistoriche di questo problema, precludendo la comprensione di una realtà che fu molto complessa e difficilmente rinconducibile ad un comune denominatore. La dinamica politica del mondo ellenistico si fondava, in buona parte, sui diversi modi di instaurare rapporti con le città da parte dei sovrani. 1 dati storici dimostrano come nei diversi momenti le diverse città avessero ben chiaro quali fossero le convenienze o gli svantaggi nel contrarre alleanza con una o con un'altra dinastia. Le varianti furono pertanto innumerevoli, mentre le regole del gioco rimasero, più o meno, immutate: erano costituite dagli statuti di eleutheria, autonomia, consacrazione ad una divinità, immunità dai tributi, esenzione dall’obbligo

di ricevere guarnigioni o di ospitare truppe ecc., nonché dal contrario di ciascuno di questi privilegi !. Un esame dei rapporti tra il re Lisimaco, i re suoi contemporanei e le città della Ionia credo possa offrire un esempio concreto di ciò che ho affermato. L'anno 295/4 fu d'importanza capitale per la storia delle città d' Asia minore. Plutarco (Der. 35,3) racconta come a Demetrio Poliorcete fosse stato comunicato, nel momento in cui aveva ripreso il controllo di Atene (294 a.C.), che Li-

simaco e Tolemeo gli avevano strappato l'uno le città «in Asia», l'altro Cipro. Forse anche il prologo al XVI libro di Trogo si riferisce alle stesse circostanze, dove afferma che Lisimaco riprese le città d' Asia che erano state sotto Demetrio. Polieno (V,19) e Frontino (Strat. III, 3,7) riferiscono poi come uno stratego

di Lisimaco, Lico, si fosse impadronito della città di Efeso. Queste magre notizie possono essere rimpolpate e precisate soprattutto in

base agli importantissimi dati della numismatica. Infatti è quasi certo che, nei mesi che precedettero l’arrivo della grave notizia a Demetrio, Tolemeo I si fosse impadronito, a spese del Poliorcete, di Sidone e Tiro. Questo è dimostrato so-

prattutto dall'esame di un tesoretto monetale di Galilea. Al medesimo anno 295/4 va assegnata l’instaurazione definitiva dei possedimenti lagidi nelle coste d’Asia minore. Infatti è provato che in precedenza, nel 305-4, Demetrio Poliorcete aveva il controllo delle coste carie e licie (Diod. XX, 82,3; 93,3; 95,4 97,5),

mentre tutti i documenti epigrafici relativi al dominio del primo Tolemeo si riferisconoa dopo il 295/4. La spedizione tolemaica del 309 non aveva portato invece all'instaurazionedi solidi ed importanti domini lagidi (siamo relativamente 121

bene informati solo sui rapporti tra Tolemeo e Iaso). I dati della numismatica dimostrano poi come su Mileto non si fosse affermato il dominio di Lisimaco (come si afferma quasi unanimemente); infatti la successione delle emissioni annua-

li di moneta alessandrina postuma (affiancata negli anni 296-5 da emissioni con i tipi di Demetrio) prova che dopo l'emissione con il monogramma del magistrato di Demetrio seguirono emissioni con il monogramma di Mileto. Questa sequenza, garantita dalla continuità nell'uso di conii di dritto, differenzia nettamente Mileto dalle altre città di Ionia, che invece emisero dal 295/4 moneta con i tipi di Lisimaco, come Efeso, oppure, come nel caso di Magnesia sul Meandro, con-

tinuarono semplicemente ad emetterne come in precedenza. Pertanto Mileto ottenne l’eleutheria nel 295/4 e questa dato collima con la notizia fornita dall'iscrizione REHM, Milet, 139 = WELLES, Royal Corresp., 14, 11,5-7, secondo cui To-

lemeo 1 liberó Mileto dai gravi tributi imposti da altri re. Questi ultimi vanno identificati con Demetrio Poliorcete. Personalmente ritengono che anche l'emissione protoellenistica di moneta d' Alessandro da parte di Bargilia sia da ricondurre al medesimo contesto storico in cui avvenne la liberazione tolemaica di Mileto dal dominio antigonide. Mileto, sempre secondo l'iscrizione menzionata, fece alleanza con Tolemeo I. Questa alleanza rimase in vigore fino al 285 ca., quando Lisimaco sottomise la

città. Ancora nel 286 risiedeva a Mileto una principessa tolemaica, Euridice, ex moglie di Tolemeo Sotér (Plut., Dem. 64,2-3). Pertanto Lisimaco non ebbe il

controllo di Mileto prima del 285 ca. Tolemeo si comportö con le città di Ionia in modo conforme al suo manifesto politico del 315 (Diod. XIX, 62,1), secondo cui la sua casa regnante s'impegnava a rispettare l'indipendenza delle poleis greche. Questo manifesto non puó essere considerato, a priori, un gesto puramente propagandistico da parte di un politico in mala fede. Per lo meno colui che lo aveva promulgato avrebbe dovuto far seguire fatti alle parole. La politica di Lisimaco, il quale non aveva mai fatto pronunciamenti del genere, fu differente da quella di Tolemeo, anche se nel 295/4 i domini di Lisimaco vennero a confinare con quelli del suo collega egiziano, in conseguenza della scomparsa della zona antigonide nel meridione della Ionia. Sia i testi epigrafici di Iaso, sia quelli di Mileto parlano di alleanze stipulate tra Tolemeo I e queste due città. Il caso di Iaso & proprio esplicito indicando che l'alleanza fu un atto giuridico bilaterale con giuramenti prestati dai due contraenti.

Lisimaco aveva invece una particolare predilezione per la fondazione di nuove città le quali, pià belle di un tempo, sarebbero andate a sostituire le vecchie. Ne aveva già dato prova quando aveva fondato, nel 309, Lisimachia, presso il sito di Cardia (cf. Diod. XX, 29,1; Paus. I, 9,8; Plin., N.5. IV, 48) e quando (probabilmente tra il 301 e il 297) aveva rifondato Smirne attribuendole il nuovo nome di Euridicea (noto attraverso le monete), in omaggio a sua figlia

Euridice, e quando, poco dopo Ipso, aveva rifondato in Troade Antigonia col nuovo nome di Alessandria (Strab. XIII, 593). Nel 294 pensó a qualcosa di ancora più grandioso da realizzare con Efeso, e mise in atto i suoi progetti poco tempo dopo la conquista della città stessa. Strabone (XIV, 640) e Stefano di Bi122

sanzio (s.v. ΓΕΦεσος) ci informano che Lisimaco circondó di mura la nuova Efe-

so e la ribattezzò Arsinoe, in onore della moglie. Pausania (1,9,7) dice poi che a questo re é dovuta la nuova disposizione di Efeso, situata presso il mare, frutto del sinecismo con gli abitanti di Lebedo e di Colofone. Pare inoltre che nella neofondazione fossero confluiti abitanti di altre città minori, come Phygela. Ben presto la città di Arsinoe prese:a coniare moneta con la scritta APZI o AP, oppure alessandri postumi contraddistinti da una A; quando poi il &ozzón degli Ioni decise, nel 289/8, di tributare onori al generale di Lisimaco Ippostrato, Efeso fu menzionata

col nuovo

nome

di Arsinoeia

«Ath. Mitt.» XXV, 1900, pp. 102-3).

($IG? 368 e C. FREDRICH,

in

Questa politica innovatrice e magniloquente incontró l'opposizione dei Greci: infatti quelli di Colofone trapiantati ad Arsinoeia si ribellarono, forse con l'appoggio di alcuni Smirnei, e scesero in campo contro il re. Furono peró battuti e la loro Colofone fu conquistata a forza dal vincitore. In questa occasione il poeta Fenice compose un lamento per la sua città distrutta (Paus. VII, 3,4 e I, 9,7). Forse anche la fondazione di Lisimachia aveva provocato non poche ostilità (cf. Paus. I, 9,8) da parte degli abitanti di Cardia.

.

Efeso, Magnesia sul Meandro e Smirne furono sede di zecche regali di Lisimaco: segno questo abbastanza forte della loro sudditanza, forse del versamento di tributi. La sventurata Colofone interruppe le emissioni lisimachee nel 296, prima di essere distrutta. Nessuna emissione lisimachea è attestata invece per Priene. Questo dato collima abbastanza bene con la mia impressione che Lisimaco abbia favorito questa città dal 297 in avanti. Dal 301, infatti, Priene era stata

sotto il dominio del tiranno Ierone e nel 298/7 fu restituita alla democrazia, in seguito ad una battaglia e ad un assedio. A queste operazioni presero parte gli esuli ostili a Ierone, che in precedenza erano rimasti attestati nel forte Karion, ed erano stati aiutati dalla filodemetriaca Efeso. La liberazione dal tiranno av-

venne sotto la stefaneforia di Lico (stesso nome dello stratego che catturò Efeso

per conto di Lisimaco) e in quel medesimo anno i Prienei inviarono una legazione a Lisimaco. Di tutto ciò parla il testo epigrafico Hiller von Gaertringen, Inschr. von Priene, 37. Dopo di allora, risulta che i rapporti tra Lisimaco e Priene furono assai buoni. Pertanto è probabile che la caduta di Ierone fosse stata favorita dallo stesso re di Tracia. Questa ipotesi credo sia conciliabile con il fatto che in precedenza Priene aveva combattuto contro Efeso, città a quel tempo sotto l'influenza di Demetrio 2. Le vicende degli anni prossimi al 294 dimostrano quanto multiforme fosse la realtà dei rapporti tra le città e i re ellenistici. Qualcuno però potrebbe sospettare che lo stesso Tolemeo, se non si fosse arrestato a Mileto nella sua conquista, avrebbe forse potuto imporre ad Efeso e a Colofone la stessa sorte imposta loro da Lisimaco, e qualcuno potrebbe continuare a pensare, come Catone censore, che tutti i re sono per natura carnivori (Plut., Cato Maior, 8). Ma a questo punto

bisognerebbe aggiungere che anche le poleis greche, come si apprende da Tucidide, non disdegnavano, quando potevano, i medesimi metodi «carnivori» dei re ellenistici. Pertanto, re e città, in partenza, erano pari, e mi sembra che l’uso

della categoria della brama di potere possa diventare fuorviante per la compren123

sione della storia ellenistica, dato che essa dovrebbe essere applicata, come una

costante, a tutti gli elementi politici che componevano il mondo nato dalla conquista di Alessandro. Essa potrà costituire, semmai, una conclusione dell'analisi dei fatti; ma allora si vedrà che, accanto alla brama di dominio, potranno risultare operanti altri fattori, ad esempio la gratitudine di una città per una dinastia, la predilezione di un re per una città, magari la sua madrepatria, o, per contro, l'astio antico o recente per una città traditrice o, viceversa, per un re oppresso-

re. À questa moltitudine di fattori operanti nella storia si contrappone un dato più'o meno costante: il rispetto per la tradizione e la continuità nella valutazione del peso internazionale di una medesima città nel corso delle generazioni. Ora, credo che il malcontento suscitato dal regime lisimacheo presso la maggior parte delle città ioniche costituisca il presupposto basilare che spiega sia i caratteri dell'ultima spedizione asiatica di Demetrio Poliorcete sia quelli della campagna di Seleuco culminata nella vittoria di Curupedio. Nel 286 Demetrio sbarcò in Asia minore con un piccolo corpo di spedizione e Plutarco (Derz. 46,4-5) specifica che il suo piano era di far defezionare da Lisimaco le città di Caria e di Lidia. Inoltre dice che fu accolto presso Mileto dall'ex moglie di Tolemeo Euridice. Con buone probabilità si possono riferire alle operazioni di Demetrio nel 286 anche alcuni accenni storici in due testi epigrafici: OGIS 11 e 12, dai quali risulta che Priene, che era in amicizia con Lisimaco, fu attaccata da sol-

dati, non meglio precisati, e dalle forze di Magnesia, città sede di una zecca di Lisimaco. Forse dunque Magnesia s'era ribellata con l'appoggio di Demetrio. Ma l'intervento di truppe lisimachee liberó Priene dal pericolo. Ad ogni modo, l'impresa di Demetrio non era certamente così avventata come potrebbe apparire alla luce del suo fallimento, essa infatti contava sull'appoggio che sarebbe venuto, e che venne, da parte delle città ostili al dominio di Lisimaco. L'impresa naufragò, perché l’esercito di Lisimaco, comandato da Agatocle, costrinse Demetrio a ritirarsi verso Oriente e a sconfinare nei territori di Seleuco, il quale lo catturò e lo tenne in prigionia per tutto il resto della sua vita (Plut.Dezz. 46).

Mileto, nonostante fosse libera e alleata di Tolemeo, fu punita da Lisimaco per avere appoggiato il tentativo di Demtrio e fu gravata da pesanti tributi (REHM, Milet, 138).

La tensione crebbe ulteriormente, tra il 285 e il 281, nelle regioni dell' Asia minore occidentale. Il regime di Lisimaco divenne sempre più inviso ai sudditi, i quali ben presto cominciarono a sperare che un altro sovrano li avrebbe liberati. Questo sovrano poteva essere soltanto Seleuco I. Da lui si recarono Lisandra,

vedova di Agatocle, il figlio stesso del re messo a morte a causa dei raggiri della regina Arsinoe, e anche Tolemeo Cerauno fratello di Lisandra e figlio, pure lui, di Tolemeo I Sotér. Anche il fratello di Agatocle, Alessandro, si rifugiò presso Seleuco. Il governatore di Pergamo, Filetero, che ben sapeva quanto debole fosse il consenso su cui si appoggiava Lisimaco, prese accordi con Seleuco e ne favoτὶ la venuta (Justin. XVII, 1,7; Strab. XIII, 623; Paus. I, 10,4; App., Syr. 62).

Così, mentre le città si sollevavano (Memnon, FGH 434, 5,7), nel 281 Seleuco si mosse e battè Lisimaco a Curupedio. Da quel momento egli divenne il liberatore delle città di Ionia che ne avevano invocato e sperato il soccorso. Dal modo in 124

cui Seleuco entrò in rapporto con ciascuna città d'Asia minore dopo Curupedio dipese poi il trattamento e il giudizio che la sua dinastia, fino ad Antioco III, diede di queste singole città. | Mileto fu ben lieta della vittoria di Seleuco e cosi, liberata dai tributi, con-

ferì al coreggente seleucidico Antioco la magistratura eponima, la stefaneforia, per l'anno 280/79 (REHM, Milet 123, 1.37). Ad Efeso si verificò una sollevazione

di popolo, della quale parla Polieno (VIII, 57). I partigianidi Seleuco, i seleukizontes, poterono avere il sopravvento e uscire dalla clandestinità; essi presero addirittura a distruggere le mura lisimachee e diedero la caccia ad Arsinoe per ammazzarla. Forse le cose non si svolsero col medesimo entusiasmo filoseleucidico a Magnesia, la quale aveva certamente già pagato in precedenza per l’inopportuno attacco a Priene, e così, forse per non avere dato appoggio alla sollevazione contro Lisimaco, divenne sede di una zecca seleucidica. Ciò nonostante, anche Magnesia, al pari di Colofone, rese grazie al liberatore istituendo una tribà Seleukìs (Inschr. von Magnesia, 5, 1.4 e B.D. MERITT, in «AJPh» 56, 1935, p.

380). Probabilmente proprio allora Colofone potè essere ripopolata, consolidando, in questo modo, lo sdoppiamento del corpo civico tra la città vecchia e la Colofone a Mare, cioè il porto di Notio, dove verosimilmente si concentrarono i

pochi Colofonii che Ffeso e che, ancora ne nel decreto delle forse proprio allora

poterono evitare di prender parte al sinecismo di Arsinoeianel 289/8 poterono figurare come rappresentanti di Colofotredici città ioniche in onore di Ippostrato (SIG? 368). Fu che Ilio ribattezzò uno dei mesi col nome di Seleukeios

(FrIscH,. Inschr. von Ilion, 31, 1.11). Lemno tributò un culto a Seleuco, grata per la liberazione da Lisimaco (Phylarch., FGH 81, fr. 29; cf. IG IP, 672). Un

agone in onore di Seleuco fu istituito ad Apollonia della Salbace (J.e L. ROBERT, La Carie, II, Paris 1952, pp. 285-8, nr. 166) e Tralles mutò nome in Seleucia (PLIN., N.b. V, 29 e monete di Seleucia). Seleuco, insieme al figlio Antioco, si espresse in questi termini in una lettera (WELLES, Royal Corresp. 9) concernente

un villaggio sacro presso Nisa: «Abbiamo scelto una politica che favorisca sempre i cittadini delle poleis greche tramite benefici». Seleuco entrò in rapporti anche con la regione di Stratonicea, dalla quale proviene un frammento d’una sua lettera (M.C. SAHIN, in «ZPE» 39, 1980, pp. 211-2). I Prienei, che erano stati in buoni rapporti con Lisimaco, nonostante avessero eretto statue per Seleuco e Antioco (Inschr. von Priene, 14, 11.1-3), ottennero un trattamento certamente

peggiore di quello riservato alle città che avevano invocato e favorito la venuta dei liberatori. Infatti Sesto Empirico (Adv. gramm. 293) e Libanio (LXIV, Pro salt. 119) attestano che sotto Antioco I Priene era priva della libertà, e il carattere di queste testimonianze fa capire che la situazione della città stessa era piuttosto penosa. Antioco, sempre secondo. Sesto e Libanio, sarebbe stato indotto a concederle l’eleutheria per compiacere a un danzatore. Smirne potè finalmente abbandonare il nome lisimacheo di Euridicea e non mancò di istituire un culto per la sposa di Antioco I Stratonice, culto che le valse, in seguito, la consacrazione ad Afrodite Stratonikis ad opera di Seleuco II Callinico (OGIS 228-9; Tac., Ann. III.63). In un'iscrizione che riporta la lettera

di un re seleucide ad Eritre si ricorda il fatto che questa città fu autonoma al 125

tempo di Alessandro, Antigono Monoftalmo e dei primi Seleucidi (WELLES, Royal Corresp., 15, 1.22-24); Lisimaco, naturalmente, non è menzionato. Anche

Pergamo doveva molto alla dinastia seleucidica e fino al 263 il suo governatore Filetero, succeduto poi dal nipote Eumene, rimase legato ad Antioco I ?. Si puó concludere che le città che avevano invocato e ottenuto l'aiuto di Seleuco I si trovarono, dal 281 in poi, nella condizione di riconoscere nella sua casa

regnante la fonte della loro libertà. Libertà dai tributi e dalle altre vessazioni imposte da Lisimaco. Seleuco, vincendo a Curupedio, divenne legittimo sovrano di tutte le città sulle quali Lisimaco aveva esercitato la sua sovranità. Se poi volle rimettere loro i tributi dovuti al re di Tracia, si trattó di una concessione, di un

beneficio unilaterale. Seleuco non tà ioniche ed eoliche, come invece Mileto. Pertanto Ionia ed Eolide cidi. Negli anni a cavallo tra il III Antioco III, riprese ad affermare

strinse trattati bilaterali di alleanza con le citpare avesse fatto Tolemeo I con Iaso e poi con divennero da allora liberte e clienti dei Seleue il II secolo a.C. un discendente di Seleuco I, il ruolo della sua monarchia quale fonte della

libertà per le poleis di Asia minore cistaurica (cf., per es., Pol. XVIII, 51,9). Nel-

la sua spedizione del 204-3 in Asia minore cercó di comportarsi allo stesso modo del suo antenato; come quest'ultimo aveva rimesso alle città le tasse dovute a Lisimaco, cosi Ántioco III liberó Teo dai tributi che prima versava ad Attalo I di Pergamo. Di questa sua generosità il re fece una notevole propaganda, come risulta da alcuni testi epigrafici editi dallo Herrmann (in «Anadolu» IX, 1965, pp. 29 ss.).

Nella situazione creatasi dopo Curupedio Priene poteva rappresentare un'eccezione o rientrare in una minoranza rispetto alle città che ebbero bisogno dei benefici introdotti da Seleuco. L'eccezione peró trova rispondenza nel comportamento delle città situate nell' Asia minore nord-occidentale. In effetti, po‘co dopo l'accessione al trono di Antioco I, Eraclea pontica, Bisanzio e Calcedone unitamente a Nicomede di Bitinia e Antigono Gonata si opposero alla pretesa del figlio di Seleuco I d’affermare la sua autorità su tutta l'Asia minore. La guerra che ne seguì fu sedata nel 278 ca., grazie al patto intervenuto tra Macedonia e Siria, ma lo spirito di indipendenza dai Seleucidi non si spense presso le città della Propontide. Queste città, che non avevano mai sottostato al dominio

lisimacheo, presero, proprio dall’epoca della guerra contro Antioco I, ad emettere moneta con i tipi del defunto Lisimaco 4. Al contrario, Lampsaco, già importante sede di zecca lisimachea, passò probabilmente all’amicizia seleucidica ed emise moneta di Alessandro. Allo stesso modo Antigoneia, rifondata da Lisimaco col nome

di Alessandria

(Troade),

emise

alessandri civici dopo il 281.

Se

Smirne, Lampsaco e Alessandria Troade furono libere dai tributi nel 281, lo dovevano a Seleuco, e proprio per questo, quasi un secolo dopo, Antioco III si irritò gravemente nei confronti di queste città quando, dal 197 a.C., si misero a proclamare la loro indipendenza con l'appoggio di Roma e Pergamo. Nel 193 Antioco III si dimostrò pronto, di fronte ai Romani, a riconoscere l’indipendenza dei Rodii, dei Bizantini, dei Ciziceni e di altri Greci, ma non degli Foli e de-

gli Ioni, perché da sempre sottomessi ai re dell' Asia (App. Syr. 12). Bisanzio e 126

Cizico erano, per l'appunto, due delle poche città che dal 281 si erano rifiutate, con successo, di ubbidire ai Seleucidi.

Concludendo, si può affermare che è un preconcetto moderno quello secondo cui i sovrani ellenistici rappresentarono tutti, più o meno, lo stesso tipo di autorità nei confronti delle poleis, la storia dimostra infatti che queste medesime poleis avevano ciascuna un proprio modo di concepire i rapporti con le diverse monarchie e sapevano tributare le loro preferenze per una determinata dinastia, e la storia dimostra pure che ogni monarchia aveva una propria impostazione politica e delle preferenze sue proprie.

! Rimangono tuttora fondamentali gli studi, d'impostazione antitetica, di A. HEuss, Stadt

und Herrscher des Hellenismus, Leipzig 1937 e di E. BIKERMAN, Institutions. des Seleucides, Paris 1938; Ip., La cité grecque dans les monarchies bellénistiques, in «RPh» LXV, 1939, pp. 335 ss.; ID., Bellum Antiochicum, in «Hermes» LXVII, 1932, pp. 47-76. Si vedano pure la discussione di P.

ZANCAN, Il monarcato ellenistico nei suoi elementi federativi, Padova 1934, da parte di P. TREvEs, in «NRS» XIX, 1935, pp. 399-401, eil capitolo dedicato al problema da. D. MustI, in Storia e civiltà

dei Greci, VII, Milano 1977, pp. 231 ss. Personalmente mi sono occupato dei diversi statuti delle città ellenistiche in L’eleutheria e le città ellenistiche, in «AIV», CXXXV,

1976-77, pp. 1 ss., e del

modo di concepire i rapporti-con le poleis d' Asia minore da parte dei Selucidi in I Seleucidi e Roma, Roma 1983, parte III. Un'importante trattazione del problema ἃ stata recentemente proposta da W. ORTH, Königlicher Machtanspruch und städtische Freiheit, München 1977. Gli accenni al problema che ci occupa sono però innumerevoli nella letteratura recente, alcuni di questi si trovano citati nelle opere che ho qui menzionato. Il ruolo delle monarchie ellenistiche & inteso come un fatto-

re costante di oppressione e privo di diversificazioni tra una dinastia e un'altra e tra i vari casi delle singole poleis per es. da F. WEHRLI, Antigone et Démétrios, Genéve 1968, passim, per es. pp. 103 ss., da F. Prgjko, in «Gnomon» LII, 1980, p. 257 o dallo stesso HEUSS, op. cit. (il quale però esclude ogni legame giuridico di sudditanza per le poleis). Una traccia di impostazione diversificata nello studio delle politiche delle dinastie nei confronti delle città & in W. W. TARN - G.T. GRIFFITH, Hellenistic Civilisation, London 1966", pp. 64-5. 2 Sulla storia dell’anno 295/4, relativamente alle regioni dell’Asia minore e della Fenicia:

ERNST MEYER, Die Grenzen der hellenistischen Staaten in Kleinasien, Zürich-Leipzig 1925, p. 32; A.

MASTROCINQUE, La Caria e la Ionia meridionale in epoca ellenistica (323-188 a.C.), Roma 1979, cap. II, pp. 37 ss.; E. Wirr, Histoire politique du monde bellénistique, I, Nancy 19792,pp. 89 ss. Sulla

monetazione di Mileto: M. THOMPSON - A.R. BELLINGER, in «YCS» XXIV, 1955, pp. 25-6 e 38; G. Le Rmer, in «AEPHE», IV Sect., CV, 1972- 75, pp. 251-4; A. MASTROCINQUE, in «Ann.Ist.It.Num.» XXVII- XXVIII, 1980- .81, pp. 61 ss. Su Bargilia: H. SEYRIG, in «Rev. Num.» 1964, pp. 7-8; MASTROCINQUE, art. cit., p. 71. Su Iaso e Tolemeo I: G. PUGLIESE CARRATELLI, Supplemento epigrafico di Iaso, in «ASAA» N.S. XXIX- XXX, 1967-68, pp. 437 ss. Su Smirne-

Euridicea: F. IMHOOF- BLUMER, Zur griechischen und römischen Münzkunde, Genf 1909, pp. 65-8. Sulla fondazione di Alessandria Troade: V. TSCHERIKOWER, Die bellenistischen Städtegründungen

von Alexander dem Grossen bis auf die Römerzeit, Leipzig 1927, p. 16; L. ROBERT, Monnaies antiques en Troade, Genève-Paris 1966, p. 59, n.1. Sui possedimenti lagidi in Asia minore: MEYER, l.c.; MASTROCINQUE, La Caria, l.c. ein «AIV» CXXXVIIT, 1979-80, p. 554; M. WGRRLE, in «Chiron» VII, 1977, pp. 43 ss. e VIII, 1978, pp. 201 ss. (che ne data l'inizioal 309). Su EfesoArsinoeia e su Phygela: L. RoBERT, in «RPh» XCI, 1967, pp. 36 ss.; per la datazione: LE ΕἸΡΕΚ,

o.c., p. 244 e MASTROCINQUE, La Caria, pp. 51-4. Sulle zecche di Lisimaco: M. ΤΉΟΜΡΞΟΝ, in Es127

says in Greek Coinage to δ. Robinson, Oxford 1968, pp. 163-182. Su Priene: D. AsHERI, in «SCO» XVIII, 1969, pp. 42 ss.; WILL, p. 88; MASTROCINQUE, La Caria, pp. 40-2.

3 Sulla datazione dell'ultima campagna di Demetrio in Asia minore: T. LESLIE SHEAR, Kallias of Sphettos, «Hesperia» Suppl. XVII, Princeton 1978, pp. 68 ss.

e M.J. OsBORNE, in «ZPE»

XXXV, 1979, pp. 181 ss. Sulla spedizione e sull’operato di Seleuco e Antioco in Asia minore nel 281: Cun. HABICHT, Gottmenschentum und griechische Städte, München 19702, pp. 82 ss.; H. HerNEN, Untersuchungen zur hellenistischen Geschichte des 3. Jahrhunderts v.Chr., Wiesbaden 1972, parte I; ORTH, o.c., cap. I; WILL, pp. 97 ss.

4 Su Antioco III e le città d’Asia minore: MASTROCINQUE, I Seleucidi e Roma, parte III. Sulla monetazione di Cizico, Bisanzio, Calcedone e Pario: H. SEYRIG, in Centennional Publ. of the American Num. Society, New York 1958, pp. 603-25 e in Essays Robinson, pp. 183 ss.; Le RIDER, in «AEPHE» CIV, 1971-72, pp. 227 ss.

128

IN OPERIS PUBLICIS ESSE TRA CREMONA, CONCORDIA E L'ASIA MINORE SUL FINIRE DELL’ETA REPUBBLICANA SıLvio

PANCIERA

Questo breve contributo ha il solo scopo di riproporre all'attenzione un documento epigrafico della Venetia che, per vari motivi, non sembra aver ricevuto sinora un'attenzione adeguata al suo interesse. Ne riepilogo anzitutto le vicende. L'iscrizione é nota da gran tempo poiché fa la sua prima comparsa già in una scheda redatta dal Valvason intorno alla metà del ’500e aggiornata dallo stesso nel 1555 o poco dopo !. Ne resero conto in seguito, avendola vista come pare, il Del Torre 2, il Bertoli ?, il Maionica ^ e il Bertolini 5, mentre di seconda mano la pubblicarono il Muratori 6, l'Orelli 7, lo Zambaldi ὃ e il Garrucci ?. Lo

stesso Mommsen non la vide personalmente, ma la pubblicó una prima volta nel 1872 sulla scorta di Del Torre e di Bertoli 19, una seconda nel 1877, valendosi

anche della scheda del Valvason e di copie del Bertolini e del Maionica 11. Qualche piccola rettifica, in seguito a riscontro dell'originale, fu ancora proposta dal Pais nel 1884 [1888] 12, ma esse non passarono nelle Inscriptiones Latinae Selectae, posteriori soltanto di pochi anni (1892) 1. Dovrebbe provenire dal territorio di Concordia, poiché questa è l'attribuzione dei primi editori, il Valvason e il Del Torre !4, e soltanto nel 1555 fu «tra-

sportata in Chiasottis in casa di M. Ásc?. Strasoldo», come si ricava dalla scheda dello stesso Valvason 15. Vi sono, inoltre, anche elementi interni che riconducono esplicitamente a questa città. : Nello stesso luogo, e precisamente «nei muri di una casa detta la Casa Matta discosta un tiro di fucile dalla villa di Chiasottis de’ Conti Strasoldi 3 o 4 m. lunge da Palma», ovvero circa 7 chilometri e mezzo a Nord-Ovest di Palmanova, la vide il Bertoli 16, Quindi passó nel Museo di Udine, nel quale la copiarono il Bertolini ed il Maionica e dove tuttora si conserva, come mi comunica il prof. Giovanni Lettich, alla cui cortesia debbo anche la fotografia che pubblico (fig.1).

La lastra su cui il testo è inciso si presenta rotta in tre parti, che si saldano tra loro, e lacunosa a destra. Ritengo utile fornirne una nuova trascrizione, cor-

redata da un breve apparato limitato ad alcune letture pià ampie del Valvason ed a certe proposte di emendamento ed integrazione del Mommsen (non ve ne sono state, a mia conoscenza, altre):

5

L.CALIVS-M FCLA CREMONA [---] CONCORDIA -DECVRIO QVAESI---] OPERIS-PVBLICIS-IN BITHYNIA FVIT [---] CLA'CREMONA-MALLIOLO FRATRI [---] ET-IN OPERIS' PVBLICIS IN ASIA ET: [---] 129

1 CREMONA NAT---] Valv., Cremona Naltalis --- Momm. - 2 QVESTOR [---] Valv., quaestor [--- et in] Momm. - 3 FVIT-IS-TES[---] Valv., fuit; is tes[tamento f(ieri) i(ussit) sibi et M. Calio M.f.] Momm. - 4 FRATRI IS FO[---] Valv., fratri is eglues Romanus ---]

Momm. ipoteticamente - ASIA-ET-ISAVI---]

Fic.

1. - Udine, Museo

Civico:

Valv., Asia et Isau[ria fuit---] Momm.

iscrizione concordiese CIL, V 977 cfr. 8666.

Anche se si accettano le letture più ampie del Valvason e le integrazioni del Mommsen, il testo rimane, come si vede, ampiamente lacunoso. Questa puó es-

sere una delle ragioni della scarsa fortuna ch'esso ha incontrato nei vari rami degli studi antiquari che ne sono toccati. E tuttavia meraviglia un po’ non trovarne traccia, o vederlo citato soltanto di sfuggita quando non addirittura inesattamente, nei più recenti studi d’insieme tanto su Concordia 17, quanto su Cremona !8 e trovarlo del pari ignorato nelle opere riguardanti la storia sociale ed economica del Veneto e dell’Italia settentrionale in genere 19. Né miglior fortuna l’iscrizione ha incontrato negli studi d’insieme riguardanti le pronvince di Bitinia e d’Asia 20. Sembra chiara, in tali circostanze, l’utilità anche di una semplice riproposizione. Tuttavia l'occasione è opportuna anche per un riesame da vicino del testo, nel tentativo di una sua miglior integrazione e comprensione. 130

Come si è visto, qualche proposta integrativa fu già avanzata dal Mommsen muovendo dalla copia fornita dal Valvason. Suo é anche il tentativo, che di seguito si riporta, per spiegare la menzione, tanto di Crezzona quanto di Concordia, nella formula onomastica dei personaggi ricordati nell'epigrafe: «Fratres bos origine puto fuisse Concordienses, nam tribus Claudia borum propria est, cum Cremonenses fuerint in Aniensi; sed nati videntur esse Cremonae ibique vitam exegisse et

eapropter praeter consuetudinem alteram banc quasi domum adscripsisse. Ceterum bonores existimo nominari in boc titulo susceptos aut Concordiae aut Cremonae» 21. Volendo riaffrontare la questione dalle radici, il primo problema da discutere é, naturalmente, quello dell'attendibilità del Valvason nei punti in cui si di-

scosta (fornendo un testo leggermente pià ampio) da tutti gli autori successivi. Il Mommsen ne ha accettato la testimonianza e si è fondato senz'altro su di essa. Io credo che almeno qualche dubbio sull'integrale validità di questa fonte sia legittimo.

Già la personalità del Valvason non & limpida poiché si trovano nelle sue schede, tanto iscrizioni del tutto false, quanto testi turbati da aggiunte di sua invenzione 22, Inoltre le stesse poche lettere in piü, che egli avrebbe visto rispetto alla testimonianza concorde degli altri autori, non mancano di generare perplessità. | Lasciando da parte le prime due righe, dove NA potrebbe essere semplice duplicazione dell'ultima sillaba di Cremona e TOR niente pià che l'ovvia integrazione di guaesltor], prendiamo in esame, ad esempio, le cinque lettere in più, IS-TES, della terza riga. Il Mommsen non ha potuto farne altro che l'inizio di un'espressione del tipo is zes[tamento f(ieri) i(ussit) sibi et M. Calio M.f.], saldantesi con la riga seguente. Ne risulta una supposta lacuna per questa riga (e per ogni altra) di 23 lettere, che si elevano a 32 se si abolisce l'abbreviazione di fieri iussit

tenendo conto che nessun'altra abbreviazione compare in tutta l'iscrizione, al di fuori dei prenomi, della formula di patronimico e della tribù. Una lacuna di tale ampiezza risulta peraltro difficilmente accettabile nelle altre righe: nella prima, ad esempio, dove dopo Cremona (e prima di Concordia alla riga seguente) difficilmente poté esserci più di un semplice cognomen, seguito, al massimo, da un pronome. E anche nelle altre, dove non si vede come una lacuna così ampia potrebbe essere colmata. Similmente qualche diffidenza sollevano le quattro letterein più, ISAV, dell'ultima riga. Qui il Mommsen propose l'integrazione in operis publicis in Asia et Isaulria fuit] colmando soltanto parte dell'ampia lacuna. Già questo non convince troppo perché l'espressione, e l'iscrizione stessa, sembrerebbero piuttosto concludersi con il verbo. Vi sono poi altri due motivi di perplessità. Il primo ἃ che, dopo in Asia ci si aspetterebbe che la preposizione fosse ripetuta: et in Isauria e non et Isauria; si ammette peraltro facilmente che, per una tale omissione,

non sarebbe difficile, volendo, trovare confronti. Di maggior portata è il dubbio nascente dallo stesso nome geografico. Quale che sia l'attività svolta dai due fratelli (ci soffermeremo su di essa tra poco) essa si svolse, in un caso, nella provincia di Bithynia, nell'altro in due diversi territori, di cui uno fu certamente la provincia d'Asia, l'altro dovrebbe essere, secondo il Valvason e l'integrazione del 131

Mommsen, l'Isauria. Si deve osservare peraltro che quest'ultima regione non fu provincia autonoma se non molto tardi, con la riforma dioclezianea, essendo per

l'innanzi semplicemente un distretto delle province di Galatia, di Cilicia o anche di Lycia-Pampbylia 25. L'iscrizione che stiamo esaminando, certamente posteriore, per ragioni storiche, alla morte di Cesare ?^, difficilmente sarà più tarda di

un decennio o due. Sarà ammissibile che, per indicare l'area in cui l'attività fu esercitata, si sia usato, in due casi, il nome di una provincia e nel terzo quello, ol-

trettutto piuttosto raro nelle iscrizioni latine, di un distretto come l’Isauria? Non è del tutto escludibile, ma neppure sembra molto probabile. Motivi di perplessità dunque non mancano, ed anche a non voler sostenere la tesi di una deliberata e fraudolenta amplificazione del testo, di cui non s'intenderebbe agevolmente la ragione (che senso avrebbe, ad esempio, l'aggiunta di IS’FO alla quarta riga?) c'è quanto basta per sconsigliare che si fondi l'intero problema dell'integrazione e interpretazione del testo sulle poche lettere in piü trádite dal solo Valvason. Il quale, del resto, anche nel leggere la parte pervenuta dell'epigrafe, nonostante il suo ottimo stato di conservazione, commette ben tre errori, trascrivendo CALVVS per Calius, QVESTOR per quaestor e

PVBLLIIS per publicis, alla riga tre. Sembra preferibile, dunque, tentare una comprensione generale dell'epigrafe muovendo autonomamente dall'interno della parte dell'epigrafe che ci & pervenuta. Un agevole confronto con la quarta riga ci dice che, nella prima, dopo Cremona, doveva figurare il cognome di Lucio Calio figlio di Marco. La spiegazione del Mommsen, fondata sulla discordanza fra la tribù Claudia e l'indicazione Cremona, che i due fratelli fossero originari di questa città ed avessero in seguito assunto la cittadinanza concordiese, sembra pienamente accettabile. Il fenomeno del cambiamento di tribù per domicilii translationem è ben documentato 25. Meno condividibile riterrei l'incertezza lasciata dal Mommsen tra Concordia e Cremona, come il luogo in cui il primo avrebbe esercitato le cariche municipali. Il ritrovamento dell’iscrizione sepolcrale nell'agro concordiense, l'ascrizione del personaggio alla tribù del posto e l’immediata successione delle cariche al nome della città sono forti argomenti, mi pare, per ritenere che queste siano state rivestite nella città in cui si era trasferito e morì e non in quella d'origine. Considerata la datazione, egli fu dunque decurione, questore e forse anche altro 26 nella colonia di Concordia poco dopo la sua deduzione 7". E anche da osservare che non puó ritenersi del tutto certo, né che la formula onomastica dei due fratelli fosse del tutto equivalente, nè che Concordia all'inizio della seconda riga stia unicamente ad indicare la nuova domus di L. Calius. Se cosi fosse ci aspetteremmo che il nome della città comparisse anche dopo il cognomen, Malliolus, del secondo fratello, anch’egli nella tribù Claudia quantunque cremonese; ma cosi non é. Vorrei dunque proporre che il nome di Cozcordia sia stato inciso all'inizio della riga 2, non tanto (o almeno non soltanto) in contrapposizione a Cremona, quanto per opporre i due ambiti (Concordia, Bithynia) in cui il personaggio aveva assunto e svolto i suoi principali incarichi 28, Non é detto che il fratello si trovasse nella stessa condizione. Se cosi era, sarebbe co-

munque comprensibile che il nome di Concordia si trovasse dopo e non prima di 132

fratri, in modo da essere immediatamente seguito dalla carica ricoperta nella città e da marcare, anche in questo caso, una contrapposizione rispetto al luogo

della funzione provinciale.

La lettura del Valvason IS:FO[---], se non si considera del tutto inventata,

rende peraltro improbabile che fratri potesse essere seguito direttamente da Cozcordia. Si potrebbe pensare ad un emendamento del tipo is Co[ncordia ---]; oppure tornare alla proposta mommseniana is eq[ues Romanus], però seguito direttamente da et in operis publicis, postulando cioè una lacuna parecchio più breve di quella immaginata dal Mommsen. Similmente, all’ultima riga, la lettura del Valvason ISAV, già interpretata

come inizio del nome geografico Isauria, se si concorda nel considerarla non facilmente spiegabile in questo contesto, potrebbe intendersi come lettura deformata di in seguita dal nome di altra provincia, con condizionamento da parte dei due IS già letti alle righe precedenti, per quanto riguarda la preposizione, ed una cattiva trascrizione delle altre due lettere 29,

Alla fine della terza riga & chiaro che doveva cominciare l'onomastica del fratello, mentre verrebbe da pensare che IS TES, letto dal Valvason subito prima della lacuna, rappresenti corruzione di SIBI'ET anche se non è del tutto agevole spiegare come questo abbia potuto avvenire. In conclusione, l'iscrizione sembrerebbe doversi attribuire ad un monu-

mento sepolcrale eretto nel territorio concordiese per sé e per il fratello, negli ultimi anni dell'età repubblicana da un personaggio che, nato a Cremona e trasfe-

rito a Concordia, era stato ammesso al senato locale e aveva anche ricoperto nel-

la città alcune cariche, tra cui quella di questore ??. Egli era stato inoltre in operis publicis nella lontana provincia di Bithynia, mentre il fratello (di cui è impossibile stabilire con certezza se abbia ricoperto cariche a Concordia, o vi si sia soltanto stabilito; eventualmente con il rango di egzes Romanus, secondo l'ipotesi del Mommsen) aveva svolto la medesima attività nella provincia d’Asia e in altra non determinabile con sicurezza. Di che attività propriamente si trattasse & altro punto da discutere. Neppure questa indicazione, nonostante la sua unicità, è stata infatti sottoposta ad un attento esame. Il solo che ne abbia dato un esplicito giudizio &, a mia conoscenza, lo Hirschfeld, il quale, trattando della persistenza del sistema degli appalti nello Stato romano, porta la nostra iscrizione a dimostrazione di opere appaltate dall'erario in età imperiale nelle province senatorie, mentre per l'Italia sono ricordati alcuni casi di redemptores operum Caesarum o di operum Caesarum et publicorum 3... Recentemente, la sua interpretazione ἃ stata ripresa ed accettata dalla Cimma 52. L'attività avrebbe riguardato, dunque, l’appaltodi lavori pubblici nelle province di Bitinia e d'Asia 55. Una siffatta interpretazione non è peraltro accettabile. A parte l'evidente errore d’inquadramento cronologico dovuto alla manca-

ta visione diretta del documento, essa è dimostrata fallace dalla semplice osser-

vazione che per indicare i lavori pubblici il latino usa sistematicamente opera publica (da opus/-eris) e non operae/-rarum. Operae sono i lavoratori, laddove è opus 133

la res facienda. vel facta ^^. Di qui operarum 55 e l'uso di operum (e non demptores addotti dallo Hirschfeld In operis esse ha in realtà altro

la distinzione classica tra /ocatio operis e operarum) negli stessi confronti italici di re56. | significato. Lo dimostra, fra gli altri, il se-

guente brano, in cui l'espressione ricorre, chiaramente, con il significato di «es-

sere alle dipendenze, al servizio di, operare per conto di»: Cic., Ad fam., XIII, 9,3: quae cum ita sint, in maiorem modum a te peto Cn.

Pupium, qui est in operis eius societatis (scil. Bithynicae), omnibus tuis officiis atque omni liberalitate tueare... Sembra logico dedurne che iz operis publicis esse significhi «stare alle dipendenze pubbliche, al servizio pubblico» o, meglio ancora, «far parte del personale che opera al servizio dello Stato». Occorrerà cercar di capire meglio di che genere di servizio si tratti. L'iscrizione ci fornisce due indicazioni: da un lato ch'esso fu prestato in ambito provinciale (Bithynia, Asia,...), dall'altro, viste le cariche rivestite a Concordia, se non addirittura la qualifica di eques Romanus di uno dei due fratelli,

ch'esso non dovette essere d'infimo livello. Vien fatto di domandarsi, con queste premesse, se sia dovuto soltanto al caso il fatto che l'espressione ir operis esse sia usata nell'età tardorepubblicana in maniera pressoché esclusiva a proposito di agenti, per lo più a livelli elevati, delle compagnie di publicani 51. Si é già visto sopra come Cicerone, nel raccomandarlo al questore di Bitinia-Ponto verso la fine del 51 a.C., qualifichi Gneo Pupio come ix operis della potente societas publicanorum Bithynica 58. Altrove, in Cicerone, sempre per indicare una funzione all’interno di una

di tali compagnie, si trova operas dare: Ad fam., XIII, 65,1: Cum P. Terentio Hispone qui operas in scriptura pro ma-

gistro dat. Ad Att., XI, 10,1: P. Terentius meus necessarius operas in portu et scriptura

Asiae pro magistro dedit. *?. II In Verr., II, 171: Canuleius vero, qui in portu Syracusis operas dabat. II In Verr., ΤΊ, 176: litteras ad socios misisse L. Canuleium qui in portu operas

daret ^9. Ma di nuovo in operis esse torna, senza dubbio con riferimento ad agenti dei publicani, in altro passo dello stesso autore: II In Verr., III, 94: Antea cum equester ordo iudicaret, improbi et rapaces magistratus in provinciis inserviebant publicanis; ornabant eos qui in operis erant.

Infine, ancora una connessione dello stesso tipo è resa verosimile per ir operas mittere nel brano che segue, dalle qualifiche di maximarum societatum auctor, plurimarum magister *, nonché di princeps iamdiu publicanorum 42, riconosciute altrove da Cicerone al padre del suo difeso 4: Pro Planc., 47: Nam ut ego doceo gratiosum esse in sua tribu Plancium, quod multis benigne fecerit, pro multis spoponderit, in operas plurimos patris auctoritate et gratia "miserit. 134

E, come si vede, una cospicua e omogenea serie di riscontri. Se si aggiunge la considerazione che Bithynia ed Asia non furono soltanto province, ma anche circoscrizioni fiscali al cui interno operarono con proprio personale, tramite appalto, le varie compagnie di pubblicani ^*, chiedersi se anche i nostri personaggi non siano stati agenti di tali soczetates appare ancora più legittimo. Ma questa domanda ne trascina con sé necessariamente un'altra: poterono dipendenti di tal genere, cioé publicanorum, qualificarsi come publici? Io non lo crederei. Se da un lato non sarebbe difficile accumulare testi contenenti apprezzamenti per l'utilità pubblica del lavoro dei pubblicani 45, non risulta ch'essi stessi, in quanto appaltatori di publica (e ancor meno i loro agenti) siano mai stati sentiti come dipendenti pubblici. Mi chiedo se miglior esito non possa avere un tentativo di spiegazione che passi attraverso la problematica del personale ausiliario nell'amministrazione provinciale. La nostra conoscenza al riguardo per l'età tardorepubblicana non è, per la verità, molto dettagliata. C'é comunque da considerare anzitutto il gruppo degli apparitores ^6.

Le fonti di cui disponiamo sono sufficienti ad assicurarci che anche in provincia, come a Roma, il magistrato poteva valersi, per l'esercizio delle sue funzioni, di tutta una serie di aiutanti. Scribae, lictores, viatores, praecones, accensi

troviamo al servizio di propretori e proconsoli #7. Scribae e lictores alle dipendenze di loro legati 43, Ancora scribae operanti per conto dei questori ^. Probabilmente l’ organizzazione era ancora più complessa e vedeva apparitores di ogni categoria alle dipendenze, non solo dei governatori, ma anche dei questori e dei legati. Caratteristica di tutto questo personale, che (accensi a parte) era organizzato a Roma in decuriae da cui venivano tratti, per sorteggio o per scelta del magistrato, i singoli aiutanti da inviare in provincia 50, era di ricevere uno stipendio dall'erario detto merces, aes apparitorium o, più tardi, anche salarium ?!. Essi erano, dunque, a tutti gli effetti dipendenti pubblici: e perché pagati con denaro pubblico, e perché operanti in veste pubblica. Una notevole distinzione di prestigio al loro interno puó essere operata tra i praecones, i viatores ed i lictores da una parte, e gli scribae dall'altra. Era quest'ultimo senza dubbio il gruppo piü prestigioso. Il salario non era alto, ma rendevano ambita la carica, oltre alle possibilità pià o meno legittime di arrotondamento, la delicatezza delle funzioni e le prospettive di ascesa sociale ch'essa offriva. Ricevere l'anello d'oro dal governatore presso cui si era prestato servizio, o anche soltanto entrare a far parte di una decuria, dava diritto allo scriba, dice Cicerone, di sentirsi cavaliere e comportarsi come tale 52, E se anche poteva esserci in questo atteggiamento qualcosa di abusivo, non v'é dubbio che non vi fosse, nella coscienza sociale, una grande distanza tra scribi e cavalieri. Conosciamo personaggi che esercitarono la funzione di scribi come equites 535, altri ebbero addirittura una carriera senatoria ?*. Lo stesso Cicerone colloca gli scribi, nell'entourage di un governatore provinciale, subito dopo i tribuni ed i prefetti equestri e prima dei suoi privati consiglieri 55, 135

Si comprende che personaggi del genere dovessero ottener riconoscimento del prestigio sociale raggiunto anche nelle città d'origine. Cosi, se l'interpretazione che ho proposto nel pubblicare un'iscrizione aquileiese puó ritenersi valida, troviamo che nella prima metà del I sec.a.C. in quella città, uno scriba librarius è anche quaestor e decurio 56, Da altra iscrizione apprendiamo che poco più tardi uno scriba vigintisexvirum ricopri anche le cariche di zribunus militum a populo e duovir iure. dicundo Carsulis 51. Non si puó negare che le carriere dei nostri personaggi, di cui uno assunse indubbiamente almeno la questura a Concordia ed entró a far parte dell'ordo decurionum della città, l'altro segui forse la stessa strada o, nell'ipotesi del Mommsen, entró addirittura a far parte dell'ordine equestre, abbiano in sé elementi idonei a sostenere un'equivalenza ir operis publicis-scriba. Che non si tratti soltanto di equivalenza, ma addirittura di identità non oserei peraltro affermare. Correrebbe infatti l'obbligo di spiegare perché, essendo la posizione di scriba tanto prestigiosa, la si sarebbe piuttosto nascosta che dichiarata facendo ricorso all'inedita espressione in operis publicis fuit. Quanto meno non dovrebbe escludersi che alla speciale dizione si sia fatto ricorso per riassumere sotto un unico titolo incarichi tenuti in momenti diversi ed a diversi livelli. S1 deve anche por mente alla possibilità che, a fianco dei governatori provinciali, operassero saltuariamente, oltre ai questori, ai legati ed ai consiglieri privati da un lato, ed agli apparitores salariati dall'altro, agenti pubblici, salariati anch'essi, con incarichi speciali 58, Quel che mi par certo é che deve essersi trattato d'incarichi di una certa importanza, preferibilmente amministrativi, retribuiti dall'erario ed affidati a persone di buon livello sociale, prossimo a, o coincidente con, quello equestre.

Purtroppo, la mancanza di altre attestazioni del gentilizio Calius, tanto a Cremona, quanto a Concordia, non consente un miglior inquadramento dei personaggi nelle città in cui rispettivamente nacquero e si trasferirono. Vano anche un riscontro con la prosopografia equestre repubblicana ed, in genere, con i repertori prosopografici repubblicani e altoimperiali. Non si hanno altre attestazioni del gentilizio né in CIL, I2, né nelle ILLRP.

A] di fuori del periodo coperto da queste raccolte, nella regio X, di cui fecero parte tanto Crermona quanto Concordia, esso compare soltanto una volta, in una perduta iscrizione veronese di malsicura tradizione manoscritta 55. Degno di nota il raro cognomen Malliolus di uno dei fratelli 9. Dell’altro, se

si presta fede al Valvason, conosceremmo soltanto le prime due lettere, ipoteticamente integrate Naltalis] dal Mommsen. Dedotta nel 218 come colonia latina, con un cospicuo numero di equites, rinforzata da altri coloni nel 190, divenuta municipio dopo la Guerra Sociale,

Cremona

sembra godere nella prima metà del I sec. a.C. di una certa floridezza

economica e culturale 4, di cui sono testimonianza, fra l'altro, l'origine cremo-

nese di personaggi come il poeta M. Furius Bibaculus €, il letterato e cavaliere Quinctilius Varus, amico di Virgilio e di Orazio 9, il giurista e cavaliere, poi console suffetto nel 39 a.C., P. Alfenus Varus *, il praefectus fabrum di Pompeo N. 136

Magius 9. Lo stesso Virgilio vi si trasferisce da Mantova per frequentare la scuola $6. Quali motivi poterono indurre i due cremonesi a lasciare la città ed a trasferirsi a Concordia? Vale la pena di rilevare una serie di coincidenze che fanno meditare.

La data della fondazione di Concordia non è nota con sicurezza, ma, per

l'appellativo Iulia, essa è generalmente collocata tra la morte di Cesare e il 27 a.C., mentre per il nome stesso (Concordia) si propende per una data prossima al 42 (fondazione della colonia Iulia Concordia Felix Beneventum) o al 40 (anno del-

la pace di Brindisi) 9. Per punire il suo atteggiamento avverso ad Ottaviano, in una data anch'essa «non precisabile con assoluta sicurezza, ma posteriore certamente alla battaglia di Filippi e assai probabilmente alla campagna di Perugia, sul finire del 40, le terre produttive del municipio cremonese vennero confiscate ai proprietari e, dopo una nuova misurazione, furono distribuite ai veterani» 95. L’iscrizione che stiamo esaminando presenta caratteri piuttosto risalenti. Può dunque ritenersi certo che non sia di molto posteriore alla deduzione della colonia e sembra anzi deporre per una datazione alta della stessa. Ne consegue che il trasferimento dei due personaggi da Cremona a Concordia dovette avvenire all'incirca negli anni in cui a Cremona vecchi cittadini si vedevano, non solo privare delle loro terre a vantaggio di nuovi coloni (si noti un Cagliano registrato fra i toponimi prediali dell’agro 9°), ma anche mettere da parte socialmente e politicamente. Difficile resistere alla tentazione di collegare tra loro tutti questi dati in un rapporto di causalità anche se i rischi impliciti nel procedimento sono ben chiari. Vicende e carriera dei due Cali a parte, l'iscrizione, come si vede, era de-

gna di attenzione anche per altri motivi, riguardanti la storia stessa di Cremona e di Concordia, di quest’ultima città in particolare, della cui organizzazione il documento viene certamente a collocarsi tra le testimonianze più antiche 7? e dirette "!.

1 Su tale scheda vd. ad CIL, V 8666 cfr. p. 1023. 2 F. DeL TonnE, Monumenta veteris Antii, Roma

1700, p. 400.

? G.D. ΒΕΚΤΟΙΙ, Le antichità di Aquileja profane e sacre per la maggior parte finora inedite, Venezia 1739, p. 304 nr. 327.

^ Tramite CIL, V 9666. ^ Tramite R. GArRUccı, Le antiche iscrizioni di Benevento, Roma

1875, p. 67.

6 L.A. MURATORI, Novus thesaurus veterum inscriptionum, II, Mediolani 1740, p. 684, nr. 8. 7 J.G. ORELLI, Inscriptionum latinarum selectarum amplissima collectio, Zurigo 1828. 8 A. ZAMBALDI, Monumenti storici di Concordia, S. Vito 1840, p. 31.

? Vd. sopra, nt. 5. 10 CIT, V 977. 11 CIL, V 8666. 7 Suppl. Ital., 1, 396.

137

13 ILS, 1468.

14 Il primo la riporta tra le concordiesi; il Del Torre la pone esplicitamente ir agro concordiensi. 15. Vd. sopra, nt. 1.

16 Vd. sopra, nt. 2. 7 G. BRUSIN-P.L.ZovATTo,

Monumenti

romani e cristiani di Iulia Concordia, Pordenone

1960; B. SCARPA BONAZZA BUORA VERONESE e Altri, Concordia dall'età romana all'età moderna, Il ed., Treviso 1978, p. 23. 18 (5. PONTIROLI, Cremona e il suo territorio in età romana, in Atti CeSDIR, I, 1967-68 (1969),

p. 204 sg. (con cae cremonesi); 1 G.E.F. Trajan, Oxford

proposta d'interpretare uno o entrambi i personaggi come quaestores pecuniae publiP.L. Tozzi, Storia padana antica, Milano 1972, p. 40 con nt. 96. CHILVER, Cisalpine Gaul. Social and Economic History from 49 BC to the Death of 1941; AA.VV., Storia di Venezia, 1, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957.

20 V. CHAPOT, La province romaine proconsulaire d'Asie, Paris 1904;

T. R.S. BROUGHTON, Ro-

man Asia Minor, in T. FRANK, An Economic Survey of Ancient Rome, IV, Baltimore 1958; D. MaGIE, Roman Rule in Asia Minor, Princeton 1950; vd. anche i vari aggiornamenti bibliografici e problematici sulle province romane d'Asia Minore compresi in ANRW, II, 7, 2, Berlin-New York 1980.

21 Ad CIL, V 977. Seguono poche parole per escludere che le cariche fossero state tenute ad

Aquileia, motivate dall’inclusione del testo, in origine, tra le iscrizioni aquileiesi. Nella riedizione

in CIL, V 8666 l’epigrafe figura tra le concordiesi. 22 TH. MoMMstzN, CIL, V, pp. XXIV, 54, 1172 e, in particolare, 1023 e 1066. In generale sugli scritti, editi ed inediti, di questo autore, si veda l’utilissima Notizia preliminare della vita e degli scritti di Jacopo Valvasone premessa da C. A.CoMa21 all'operetta dello stesso intitolata Descrizione dei paesi e delle fortezze che si hanno a fare nel Friuli con le distanze dei luoghi (tratta principalmente dal codice 1316 della Raccolta Cicogna), Nozze Crovato-Raugna, Venezia 1876.

2 RE, IX, 1916, c.2056; Diz. Epigr., IV, 3, 1946, p. 85 s.

24 Cioè alla fondazione di Concordia, su cui si veda, più ampiamente, sotto. 25 G. Forni, «Doppia tribù» di cittadini e cambiamenti di tribù romane, in Tetraonyma, Genova 1966, pp. 139-155; IDEM, I/ ruolo della menzione della tribù nell'onomastica romana, in L'onomastique latine, Paris 1977, p. 90 sg. 26 Probabilmente edile.

27 Sull'argomento si tornerà ancora più sotto. 28. A Concordia, decurione, questore, ecc., in Bitinia, i7 operis publicis. Degna di nota, in ogni caso, la costruzione della frase che, nella sua impostazione non comune, richiama in qualche modo gli elogia, in particolare quelli scipionici ILLRP, 509 e 510. 2 Tutt'altro che improbabile se si tiene. presente che il Valvason trascrisse anche CALVVS per CALIVS. Il nome della provincia pià vicino ai presunti resti sarebbe quello d' Africa, ma non farei troppo conto di questa vicinanza. 30 .Poiche era usuale che decurioni si divenisse in quanto ex magistrati, 1’ appartenenza al decurionato non viene abitualmente indicata quando siano ricordate le magistrature ricoperte. In questo caso, soprattutto se si ammette che la questura fosse seguita dall'edilità o da altra carica,

configurando un cursus ascendente, si potrebbe pensare che l'ammissione all'ordo fosse anteriore all'esercizio delle cariche, fatto non privo di significató e da tenere presente. anche nel tentativo

d’inquadramento sociale del personaggio che si opererà più avanti. . 31.0, HIRSCHFELD; Die kaiserlichen Verwaltungsbeamten bis auf Dioéletian, II ed., Berlin

1905; p. 266 nt. 1.

32 M.R. CIMMA, Ricerche sulle società di publicani, Milano 1981, p. 106 sg. con nt. 52.

? Non prende posizione sull’Isauria lo Hirschfeld in quanto anche nella seconda edizione della sua opera usa l'iscrizione seguendo CIL, V 977 e non CIL, V 8666. 34 Basti il rinvio a Tbes.l.l., IX, 2, 5, 1976, coll. 659 sgg.

35 Presentazione della problematica, testimonianze epigrafiche e bibliografia presso A. BrSCARDI, in Diz. epigr., IV, 45-46, 1964, pp. 1429-1448.

36 CTL, 9034; IX 4694; XIV 3530 = ILS 3512. 37 Sull'organizzazione delle societates publicanorum in età repubblicana e sul personale che &

qualificato iz operis delle stesse (la nostra iscrizione non è mai discussa in tale contesto), vd. essen138

zialmente: R. CAGNAT, Les impöts indirects chez les Romains, Paris 1882, pp. 84-89 e passim; F. KNIEP, Societas publicanorum, Iena 1896, pp. ; V. IVANOV, De societatibus vectigalium publicorum populi Romani, Petersburg 1910, pp. 65- 73; S.J. DE LAET, Portorium, Brugge 1949, pp. 45-116; G. UROGDI, RE, Suppl. XI, 1968, coll. 1184-1208; E. BADIAN, Publicans and Sinners, Oxford 1972, pp. 67-81 e 136-143; Cr. NicoLET, Deux remarques sur l'organisation des sociétés des publicains a la fin de la République romaine, in H. VAN EFFENTERRE, ed., Points de vue sur la fiscalité "antique, Paris 1979, pp. 69-95, in part. p. 76 sg.; M.R. CIMMA, op. cit. (supra, nt. 32), pp. 73-85.

3 Sulle funzioni di questo Pupius, da ultimo: M.R. CIMMA, op. cit. (supra, nt. 32), p. 84 sg. 3 Su questo personaggio, recentemente: CL. NICOLET, L 'ordre équestre a l'époque républicaine, II, Prosopograpbie des chevaliers romains, Paris 1974, p. 1033 nr. 337; IDEM, P. Terentius Hispo et la societé de Bithynie, n «Ann. EPHE», IV: Sect., 1975, pp. 373-378; IDEM, Deux remarques, cit. (supra, nt. 37). pp. 75 e 87. 40 Sul personaggio: CL.

NicoLET, L'ordre, cit. (supra, nt. 39), II, 925 nr. 80; A. FRASCHETTI,

Per una prosopografia dello sfruttamento: Romani e Italici in Sicilia (212-44 a.C.), in A. GIARDINA-A. SCHIAVONE, edd., Società romana e produzione schiavistica, I, Bari 1981, pp. 62 e 76.

^ Cic., Pro Planc., 32. 4. Cic., Pro Planc., 24. ^ Su Cn. Plancius, padre: CL. Nicorgr, L'ordre, cit. (supra, nt. 39), II, p. 981, nr. 273.

^

Sulla problematica del sistema delle esazioni in Asia Minore nell'età tardorepubblicana,

si vedano soprattutto, con visioni diverse: E. BADIAN, op. cit. (supra, nt. 37), pp. 106 sgg. e Cr. NrCOLET, Deux remarques, cit. (supra, nt. 37), pp. 86 sgg.; vd. anche C.DELPLACE, Publicans, trafiquants et financiers dans les provinces d'Asie Mineure sous la République, in «Ktema», II, 1977, pp. 233-252. ^ Per tutti, Cic., Pro Planc., 23: flos enim equitum Romanorum, ornamentum civitatis, firmamentum vei publicae, publicanorum ordine continentur.

46 Sempre fondamentale a questo riguardo l'analisi di TH. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, III ed., Leipzig 1887, pp. 332-371. Utili ampliamenti e precisazioni in A.H.M. Jones, The Roman Civil Service. Clerical and Subclerical Grades, in «Journ. Rom. Stud.», XXXIX, 1949, pp. 38-55, rie-

dito in InEM, Roman Government and Law, Oxford 1960, pp. 153-175 con ntt. a pp. 201-216. 47 ^5 ^ 50

Cic., Cıc., Cıc., Buon

II In Verr., 1,67.71.72; Ad Quint. fr., I, 1, 13; Liv., XLV, 29. II In Verr., III, 181-187 (scriba); I, 67.72 (lictor). Div. in Caec., 29; II In Verr., IIT, 182. tentativo ricostruttivo a questo riguardo di A.H.M. JoNzs, art. cit. (supra, nt. 46), p.

39 sg. (155 sg.).

?! Fonti in TH. MOMMSEN, op. cit. (supra, nt. 46), pp. 334-336; Diz. epigr., I, 1895, p. 526 sg. 52. Cıc., II In Verr., IMI, 185: binc ille est anulus aureus quo tu istum in contione donasti; 187:

anulo est aureo scriba donatus; 184: noli bos (scil. scribas) colligere, qui... cum decuriam emerunt ex primo ordine explosorum in secundum ordinem civitatis se venisse dicunt. Su questi passi: CL. NicoLET, Les finitores ex equestri loco de la loi Servilia de 63 av.].C., in «Latomus», XXIX, 1970, p. 103; ΤΡΕΜ, L'ordre, cit. (supra, nt. 39) II, p. 935 sg, nr. 212. 5 Cıc., II In Verr., III, 167 sg.; SALL., Hist., III, 89 Maur.; si consideri anche il caso di Orazio, scriba dopo esser stato tribunus militum. Su tutto ciò CL. NICOLET, L'ordre, cit. (supra, nt. 39), II, p. 776 nt. 2, 836, 914 sg.

54 T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of tbe Roman Republic, New York 1952, I, p. 168 (Cn.Flavius,aed. 308), p. 215 (M. Claudius Glicia, dict. 249), p. 408 (C. Cicereius, praet. 173, vd. VAL. Max., III, 5,1 e IV, 5,3); II, p. 475 (Cornelius, quaest.urb. sotto Cesare); vd. anche CL. NicoLET, L’ordre, cit. (supra, nt. 39), II, p. 835 sg. 5 Pro Rab.Post., 13. 56 S. PANCIERA, Un falsario del primo Ottocento. Girolamo Asquini e Pepigrafia antica delle Ve-

nezie, Roma 1970, pp. 151-153, fig. 15. ? CIL, XI 4575 = ILS 1901. Sui tribuni militum a populo e la loro datazione: CL. NICOLET, in «Mél. Écol.Fr. Rome», LXXIX, 1967, pp. 29-76. 58. Di fronte alla frequenza e contemporaneitä d'uso di i4 operis esse nel valore di «al servizio /

alle dipendenze di» assai remota mi sembra la possibilità che l'espressione in operis publicis: fuit debba essere intesa nel senso di «addetto agli schiavi pubblici». Si fa comunque cenno anche a tale 139

eventualità per scrupolo di completezza, rinviando a T5es.1.1., VII, 1, coll. 769 segg. per i vari usi di in + abl. ed a L. HALKIN, Les esclaves publics chez les Romains, Bruxelles 1897 (rist. New York 1979); N. ROULAND, A propos des servi publici populi Romani, in «Chiron», VII, 1977, pp. 261-

218; W. EDER, Servitus publica, Wiesbaden 1980, perla problematica dei servi publici. Va anche detto, peraltro, che neppure in tale eventualità cambierebbe l'interpretazione che si propone dei due personaggi come ausiliari dell'amministrazione provinciale, risultando soltanto chiarito l'ambito specifico della loro attività. >” CIL, V 3840: Calia M.f. Brica. Per il formulario, l'iscrizione sembrerebbe doversi assegna-

re all'età tardo repubblicana o altoimperiale. © Variante di Malleolus, cognomen caratteristico della famiglia senatoria dei Publicii (un C. Publicius Malleolus questore in Cilicia nell'80 a.C.) o piuttosto di Marliolus, diminutivo di Manlius? I. KAJANTO, The Latin Cognomina, Helsinki-Helsingfors 1965, pp. 167 e 342. 61 Lineamenti della storia cittadina in P.L. Tozzi, op. cit. (supra, nt. 18) pp. 9-72, con ampia bibliografia antecedente. € Der kl.Pauly, II, 1967, col. 645, con bibl. 9 Der kl.Pauly, IV, 1972, col. 1297. € Der kl.Pauly, I, 1964, col. 255; T.P. Wiseman, New Men in tbe Roman Senate 139 B.C.-A.D. 14, Oxford 1971, p. 211 nr. 18; Cr. Nicorzr, L'ordre, cit. (supra, nt. 39), II, p. 770, nr. 17. 6 CL. NICOLET, L'ordre, cit. (supra, nt. 39), II, p. 939, nr. 217. 6 DoNAT., Vita, 6 p. 8 D.: initia aetatis Cremonae egit usque ad virilem togam; SERV., Vita, 41, p. 1D.: et Cremonae et Mediolani et Neapoli studuit. 67 A. DzcRassi, La data della fondazione della colonia romana di Pola, in Atti Ist. Ven., CIT, 1942-43, p. 670 (Scritti Vari, II, p. 915 sg.); IDEM, II confine nord-orientale dell'Italia romana, Berna 1954, p. 61 sg.; B. SCARPA BONAZZA BuoRA VERONESE, op. cit. (supra, nt. 17), p. 12 sg. & pL. Tozzi, op. cit. (supra, nt. 18), p. 38. © pL. Tozzı, op. cit. (supra, nt. 18), p. 31. 70 Di datazione notevolmente risalente anche CIL, I° 2191-2 V 1890 = Suppl. Ital, 392 = ILLRP 572; foto di un frammento in DEGRASSI, Auctarium, nr. 232 e in F. Bromo, Iscrizioni lapi-

darie del Museo Nazionale Concordiese di Portogruaro (I a. C.-III d.C.), Roma 1980, p. 76 nr. 33, posta da quattro magistrei. Vd. anche CIL, V 1891, considerata dal Broilo (op. cit., p. 70 sg. nr. 29) quasi certamente testimonianza «del pià antico dei duoviri di Concordia a noi noti». 71) NOTA AGGIUNTIVA. Ai testi sopra indicati, in cui ricorre operas dare si possono aggiungere CIC., Parad., 46: nam ut eis qui boneste vem quaerunt mercaturis faciendis, operis dandis, publicis sumendis... .e Dig,, III, 6, 34, 1 (Iavolenus libro XV ex Cassio): Qui operas in publico, quod vectigalium causa locatum est, dat. rei publicae causa non abest. Devo la prima citazione a Cl. Nicolet, la

seconda ad E. Badian. Li ringrazio sentitamente entrambi. Il Badian mi fa anche sapere che avrebbe più fiducia di me nel Valvason e, pur non escludendo che possa cogliere nel giusto la mia inter:

pretazione, riterrebbe sempre preferibile vedere nei personaggi dei publicani. Lo capisco perfettamente perché anch'io, come risulta dal testo, ho guardato con molto interesse a tale eventualità, non ritenendo tuttavia di poterla seguire sino in fondo per le difficoltà che essa mi sembrava, e mi sembra tuttora, sollevare.

140

LA

POLEMICA

DI SENECA CONTRO LE ARTES (Ep. UN CASO DI SCONCERTO MARIO

90).

PANI

L'età dell'alto principato per le sue veloci trasformazioni sociali rappresenta un periodo in cui è difficile individuare i valori prevalenti; così, difficilmente, mi pare, essa si lascia inquadrare in definizioni concettualidi lunga durata. Le connessioni del vecchio e del nuovo, in relazione a quelle trasformazioni, si manifestano, ad esempio, nello stile di vita di alcuni rappresentativi personaggi dei quali la tradizione storiografica ci conserva ritratti significativamente definiti, di recente, «paradossali»!. I paradossi sono naturalmente nella società stessa. Un episodio della difficile convivenza e del difficile adattamento di spinte ideologiche diverse nei vari ambienti sociali e politici è offerto dalla polemica di Seneca contro le artes: una presa di posizione che viene in genere vista più nei suoi aspetti strutturali in riferimento ad una mentalità comune che nei suoi aspetti traumatici: quale sintomo cioè invece delle scissioni e della problematicità e duttilità del quadro di valori della società giulio claudia.

Su quest’ultimo aspetto vorrei qui soffermarmi. Nella lettera 90 a Lucilio Seneca conduce dunque una polemica, per molti versi sorprendente, contro Posidonio, contestando le tesi che facevano risalire alla filosofia l’inventio delle artes di pratica quotidiana 2 (diversi i problemi per le «arti liberali»).

La filosofia avrebbe insegnato agli uomini sparsi in caverne a costruire le case? Allora sarebbe stata anche la filosofia ad escogitare has machinationes tectorum supra tecta surgentium o ad inventare i vivai di pesci o l'uso delle serrature:

espressioni del lusso e dell'avarizia (7-8). Piuttosto felix illud saeculum ante architectos fuit, ante tectores (8), quando non si trasportavano, con lunghe processioni di carri, pini ed abeti perché sostenessero soffitti carichi d'oro (9) 3. Seneca non é neppure d'accordo con Posidonio quando questi afferma che furono i saggi ad escogitare ferramenta fabrilia (11). In tal modo si dovrebbe considerare più saggio chi ha trovato gli strumenti per soddisfare le manie dello sfarzo piuttosto che il filosofo stesso il quale insegna posse nos habitare sine mar-

(orario ac fabro(15). In sostanza simplici cura constant necessaria; in delicias laboratur. Dunque non desiderabis artifices; sequere naturam(16). Omnes istae artes (...) corporis negotium gerunt (...) itaque binc textorum, binc fabrorum | officinae sunt,

binc odores coquentium, binc mollitia molles corporis motus docentium mollesque cantus et infractos (19). La polemica con Posidonio investe anche i tessitori (20),

alcuni ritrovati di tecnica agricola e l'arte nautica (21-25). | . Le risposte — già alquanto divaganti — a Posidonio sono però poi abbandonate e Seneca svela infine senz'altro tutta la carica contemporanea della pro141

pria polemica. I72540 vro non aliis excogitata ista sunt quam quibus bodieque curantur. Quaedam nostra demum prodisse memoria scimus: sono quindi ricordati l'uso dei vetri trasparenti alle finestre, il sistema di riscaldamento nelle case e poi, anco.ra, la moda dei marmi e dele pietre levigate nell'edilizia, fino alla recentissima diffusione della.tachigrafia (25). La conclusione è un rimpianto dell'età antichissima con richiamo all’età dell'oro e citazione virgiliana (37-46). A parte il legame con le teorie del progresso, per quel che riguarda in particolare la polemica contro le artes pratiche, sarebbe appunto ora semplice far rientrare queste posizioni nell'ambito del discredito che in genere riscuotevano presso gli autori antichi, pur non senza contraddizioni, l'applicazione tecnica i mestieri manuali *. Ma forse v'è qualcosa di più. In effetti le analisi e anche le

polemiche storiografiche sulla considerazione sociale delle artes a Roma vengono generalmente effettuate su tempi molto lunghi con riferimenti agli autori più diversi. Se questo metodo è utile, in generale, per isolare costanti di pensiero e di mentalità e i relativi modelli di comportamento ?, le differenziazioni riscontrabili nella tradizione antica non vanno forse neppure disperse. Per quel che riguarda il nostro tema, il de Robertis e soprattutto il Nórr avvertirono della necessità di una analisi articolata che tenesse conto dei diversi ambienti (de Robertis) e anche dei diversi tempi (Nofr) delle valutazioni sociali relative alle ar-

tes. Il nostro caso può forse suggerire una articolazione più specifica. Seneca, in effetti, presenta ulteriori decisi punti di differenziazione con altri autori di poco a lui precedenti, oltre che con Posidonio, nella valutazione delle artes. Cicerone aveva certamente definito (de off. 1,150) sordida ars quella degli

opifices, cosi come aveva dichiarato spregevoli le artes quae ministrae sunt voluplatum, pensando ai ricercati piaceri della mensa e aggiungendovi le prestazioni di unguentari, mimi e ballerini (151). Ma aveva anche riconosciuto artes alle quali prudentia maior inest aut non mediocra utilitas quaeritur e fra queste aveva citato, oltre alle arti liberali (doctrina rerum bonestarum), medicina e architectura. Esse sono da considerarsi decorose iis, quorum ordini conveniunt. Per Cicerone

dunque è solo una questione di gerarchia sociale e di relativi valori. Al loro giusto stato e ruolo, le z7zes non portano certo alla rovina della società. Più specificamente in de off. 2, 12-15, Cicerone aveva ricordato tutte le risorse bominum operis effecta, dai tempi antichissimi, per la conservazione della vita: esse non si sarebbero rinvenute nisi manus et ars accessisset. Aveva citato quindi valetudinis curatio, la generalmente vituperata navigatio, l’ agricoltura (12) e ancora, fra l’altro, I importazione e l'esportazioni di merci, l'estrazione dei minerali dalla terra (che non si sarebbe potuto ottenere size bominum labore et manu (13)) la costruzione delle case, gli acquedotti, i canali di irrigazione, i porti. Nulla di ciò dunque si sarebbe conseguito sine bominum manu et opera (14). Quid enumerem artium multitudinem, sine quibus vita omnino nulla esse potuisset :? (15). Qui enim ae-

gris subveniret « ur quae esset oblectatio valentium, qui victus aut cultus, nisi tam multae nobis artes ministrarent(...)? In generale Cicerone, riprendendo verosimilmente proprio Posidonio, aveva anche considerato la filosofia omnium mater artium (Tusc. 1,64; cfr. de orat. 1,10) e celebrato omnes magni, etiam superiores, qui 142

fruges, qui vestitum, qui tecta, qui cultum vitae (...) invenerunt a quibus mansuefacti et exculti a necessariis artificis ad elegantiora defluximus (Tusc. 1,62), concedendo quindi anche qualcosa ad una concezione che giustificasse uno stile di vita piü ricercato $.

In particolare & nella esasperata negazione del progresso umano, su queste basi, che la polemica di Seneca contro le ares si rivela posizione singolare. Le note rappresentazioni del progresso umano svolte nella letteratura fra I sec. a.C. eld.C. (un periodo di riflessione in tal senso) lasciano di fatto Seneca alquanto isolato, diversamente da quanto potrebbe sembrare o & parso. Egli si distacca su questo punto dall'autorità di Posidonio e della scuola stoica in generale, che appunto lo stesso Cicerone pare seguire, e chiaramente sviluppa un aspetto, in sé contraddittorio, della posizione epicurea che aveva riconosciuto insieme alla positività del progresso, gli svantaggi e i danni che potevano derivarne agli uomini in termini di soddisfacimento dei bisogni. Col progresso si sarebbero create sempre nuove esigenze che avrebbero aperto la via al soddisfacimento di bisogni sempre meno necessari 7, Ma appunto tale aspetto è sviluppato in Seneca isolatamente, privato di quel nucleo essenziale della dottrina epicurea — specialmente maturato nel I sec. a.C. 8 — ch riconosceva la funzione dell'intelligenza e dell'attività umana, quale si manifestava, fra l'altro, proprio attraverso la crescita delle artes. Tale tradizione è fondamentalmente racchiusa nel libro quinto del de rerum natura lucreziano, si salva anche attraverso il pessimismo sentimentale,

in questi punti epico, dell'autore, e ricompare, notoriamente in Orazio (Serm. 1, 3, 99 sgg.) e Diodoro (1,8) 3. Lo stesso Virgilio, al quale Seneca si richiama per il mito dell'età aurea, aveva descritto Giove operare in modo che, nei tempi mutati, varias usus meditando extunderet artes (Georg. 1,133): esse paiono viste come

rimedio alle nuove necessità, non come nuova punizione per gli uomini (cfr. 1,145 sg.: tum variae venere artes; labor omnia vicit] improbus) 19.

Naturalmente & possibile trovare antecedenti dottrinari ai quali Seneca puó essersi ispirato per correggere le tesi di Posidonio, ma il problema non qui solo di Quellenforschung. Neppure la posizione di Seneca puó essere analizzata solo nell'ambito di una pura storia del pensiero 11. Si ἃ visto che la polemica con Posidonio concettualmente è del tutto distorta e forzata. Seneca polemizza contro aspetti e si direbbe, anche ideologie della società a lui contemporanea. In particolare la sua polemica non può non essere vista in relazione con la trattatistica recente e contemporanea sulle artes. a Roma. L’età della tarda repubblica e del primo principato aveva visto, notoriamente, uno sviluppo delle arzes collegato all'incremento della vita e dei consumi a Roma, in primo luogo di seguito al trainante sviluppo edilizio pubblico e privato 12.

In questa età l'erudizione varroniana aveva dato inizio alla ripresa di una pubblicistica ellenistica con una sistematica delle varie artes: ad essa tennero appunto dietro nell’alto principato, con alcune diverse impostazioni, trattati specifici (Celso, Vitruvio, Manilio), già essi stessi espressioni della considerazione

delle artes: un periodo peraltro ancora di incertezze nella enciclopedia del sapere, quali erano legate alla incertezza che comportava una teoria dell'educazione in un sistema di valori in evoluzione 15. 143

Per il nostro problema punto di riferimento importante &, naturalmente, rappresentato dall'opera di Vitruvio, il quale aveva peraltro esplicitamente riferito l'ispirazione del suo trattato alla politica edilizia augustea (de arch. 1, praef. 2) 14. Vitruvio aveva dunque anche strettamente collegato lo sviluppo delle artes, e in particolare dell'architettura, alle teorie del progresso umano, svolgendo una sorta di elaborazione ideologica dell'attività e della funzione dell’ars e del faber. Egli aveva tracciato.(2,1) su questa linea un profilo del progresso umano dall'età primitiva in selve e caverne alla scoperta del fuoco e alle prime aggregazioni con la nascita del linguaggio e la costruzione di edifici sempre più rifiniti, per concludere, alquanto diversamente da quanto farà appunto Seneca, ma in maniera che si pur riallaccia ad una tradizione confluita in Lucrezio e Cicerone 15: cum autem cotidie faciendo tritiores tanus ad aedificandum perfecissent et sollertia ingenia per consuetudinem ad artes pervenissent, tum etiam industria in animis eorum adiecta perfecit ut, qui [uerunt in bis studiosiores, fabros esse se profiterentur (...) tunc vero et

fabricationibus aedificiorum gradatim progressi ad ceteras artes et disciplinas, e fera agrestique vita ad mansuetam perduxerunt bumanitatem (...) auctam per artes orna-

verunt voluptatibus elegantiam vitae. Un passo in cui si puó notare quasi l'orgoglio della propria attività come «professione», frutto di una sperimentata specializzazione, e nello stesso tempo il legame, quale si manifestava nello stesso Cicerone, che viene posto fra artes e comodità, qui addirittura voluptates, con le quali ingentilire lo stile di vita. Da ricordare che in età tiberiana anche un altro «intellettuale» erudito,

Manilio, aveva celebrato, su questa scia, il progresso umano, parlando di experientia che per varios usus artem fecit (Astron., proem. |. 1, 61) e osservando come sollertia nei tempi primitivi necdum doctas fecerat artes (73) 16. Più complesso e significativo il successivo atteggiamento di Plinio, il quale da una parte raccoglie la tradizione stoica in un ammirato catalogo delle invenzioni, fatte risalire e alle origine mitiche divine e all'iniziativa umana (Nar. bist. 7, 191 ss.; cfr. 123 ss.), dall'altra interviene ripetutamente contro le degenerazioni

del lusso, allorchè avaritiae tantum artes coluntur (14,4). Indubbiamente

qui alle posizioni posidoniane si affiancano quelle riconducibili a Seneca. Pare peró evidente che, al contrario di Seneca, Plinio riconosce un progresso umano ed il valore, in particolare, dello sviluppo tecnico e artigiano quando esso non violenti la natura e non sia rivolto al lusso o al lucro (cfr., e. g., praef. 6; 2, 117

s.): conseguenze che a Seneca apparivano, piuttosto, inevitabili. Lo sviluppo delle artes può essere guidato dai buoni zores, salvaguardati dal principe. Si prepara anche cosi l'ideologia del servizio per il principe, elaborata già da Quintiliano; in un certo senso, una burocratizzazione della tecnica 17,

Trattatistica sulle artes, polemica di Seneca contro le artes: nella società del tempo paiono presenti ed operanti spinte contraddittorie e contrapposte. Columella nel suo de re rustica dà un quadro pittoresco, ma realistico, del fiorire degli insegnamenti di ogni tipo di artes nella Roma giulio claudia (si potrebbe ricordare, ad es., anche Apicio, scientiam popinae professus: SEN., ad Helv. 10,8). Egli, pur partendo da posizioni tradizionaliste, pare peró accettare tale moda, alla quale riconosce anzi forse un valore se lamenta che soltanto la res rz144

stica restasse esclusa dalla didattica in auge (sola res rustica [...] tam discentibus egeat quam magistris: praef. 4), sicché la sua opera vuole proprio colmare questo vuoto 18, Egli auspica in sostanza una specializzazione e razionalizzazione produttiva del lavoro agricolo in accordo con i tempi, quasi una sua riduzione ad ars. Seneca si mostra, anche qui, quanto mai lontano da una concezione di questo tipo. Basti citare la sua polemica nell’epistola 88 contro i geometri che insegnano a misurare i latifondi o a fare i computi piuttosto che insegnare all'uomo come misurare le proprie esigenze (Ep. 88,10-11: metiri me geometres docet latifundia potius quam doceat quomodo metiar quantum bomini satis sit. Numerare docet me et avaritiae commodat digitos (...) quid prodest colligere subtiliter pedes iugeri et conprendere etiam si quid decempedam effugit [...] docet quomodo nibil perdam ex finibus meis) 15.

Finley ha ricordato fra i limiti della economia antica come i proprietari terrieri non fossero in possesso di tecniche di calcolo che potessero guidarli alle

scelte economiche più convenienti, osservando anche l’arcaicità rudimentale della contabilità di reddito dello stesso Columella 2°. Ha osservato ancora Finley, in particolare, come nella Roma di Cicerone il modello di scelte economiche

«basato sulla condizione sociale sembrava prossimo alla fine. Tuttavia non venne meno. Si piegò, si adattò (...)» 21, L’intervento citato di Seneca rappresenta certamente un esempio della resistenza «ideologica» di una mentalità ai possibili tentativi di una qualche razionalizzazione della produttività, di fronte anche ai cambiamenti sociali che sembravano scuotere i vecchi modelli di comportamento e che in parte certo appunto li scossero (fino a qual misura non è qui da ricercare). | Seneca, in effetti, pare vivere, in queste fasi, dal punto di vista della storia

sociale e delle strutture, alcune delle contraddizioni che l'impatto fra i grandi fenomeni di evoluzione sociale e politica — quali si svolsero dalla Roma di Cicerone alla Roma di Nerone — e le concezioni tradizionali provocavano nel corpo della società. Notoriamente una accentuata scissione si era verificata fra tarda repubblica e alto principato fra ricchezza, politica, status sociale, elementi precedentemente alquanto omogenei e collegati tra di loro. Nobiltà e ricchezza non più sempre corrispondevano così come, con la crisi della Libertas, non sempre la funzione della ricchezza era orientata a fini politici. La ricchezza poteva cosi essere indice di uno status sociale che salvaguardasse il prestigio clientelare dei nobili ovvero poteva anche risolversi in pura ostentazione, né produttiva, né indirizzata a fini politici, ma fine a sé stessa, lusso, immagine in sé stessa di rango sociale elevato ??. Vi erano in realtà delle tendenze strutturali al lusso (come al parassitismo nobiliare). I ricchi erano quasi condannati al lusso, se restavano fuori da una mentalità «economica», oltre che

ora da quella politica. D'altra parte i ceti lavoratori, emergenti anche dal fiorire della ricchezza, dall'inurbamento e dall'espandersi dei consumi, erano quasi costretti a porsi al servizio del lusso, mancando una socializzazione del lavoro e

della tecnica 25. Lo sconcerto conseguente di una posizione etico filosofica che si voleva porre in continuazione con i ceti dirigenti tradizionalisti, pur chiaramente anche 145

innovando, come la posizione di Seneca, poteva portare ad una reazione intellettualmente ed «ideologicamente» esasperata, già essa stessa sintomo di un trauma. Esso ἃ tuttavia poi anche da collocare nelle vicende del tempo. Da questo punto di vista il Nórr 24 ha finemente osservato in generale, ma citando proprio e solo Seneca, come, venuto meno con il principato il potere della aristocrazia, la giustificazione della bassa considerazione sociale del lavoro si trasférisse sul piano etico individuale. Tuttavia, si è visto, una tale interpreta-

zione puó rappresentare solo un aspetto della questione. Non si adatta a tutti gli autori.

Un aggancio politico ha cercato per la posizione di Seneca il Lana 25, il quale ha osservato che Posidonio, eliminando ogni gerarchia fra le varie attività, finiva col cancellare anche ogni distihzione gerarchica fra i cultori delle varie artes; ciò sarebbe parso inammissibile alla società che deteneva il potere sotto il principato. Ma anche qui la posizione di Seneca è vista come espressione di un ambito forse troppo vasto, mentre è da ricordare che Posidonio e la tradizione da lui in qualche modo dipendente nella cultura romana non disconoscevano di fatto una società gerarchica 26. Probabilmente la collocazione politica della polemica senechiana va ambientata in una situazione ancora più articolata, per la cui comprensione lo stesso lavoro del Lana può offrire ulteriori spunti. E intanto evidente che rispetto all'età degli autori, pur di poco precedenti, sopra confrontati con Seneca e che esprimevano concezioni diverse dalla sua sul nostro tema, la pratica del lusso si era estesa ed approfondita nella società. In particolare, ad es., la edilizia magnificente si era ufficializzata e diffusa in larghi strati sociali. I confronti di passi senechiani con le arditezze della domus aurea neroniana sono chiari, così come con altre meraviglie in voga quali quelle presentate da Trimalcione. Le artes erano o sembravano piü che mai al servizio del lusso in una società in cui i rapidi cambiamenti della ricchezza parevano poter confondere alcuni parametri di valori anche politici ad essa tradizionalmente collegati 27, | Nella polemica di Seneca il risultato era un rifiuto di tutta una struttura sociale e la chiusura a quelle forme di produttivitä a cui una economia del lusso (per parte sua caduca) pur poteva portare, in particolare per quei cetiche da una economia del lusso potevano trovare, in mancanza di altro, sostentamento. In

sostanza Seneca pare rifiutare di fatto il tipo di struttura socioeconomica che potremmo definire «pompeiana» per il ricordo delle botteghe annesse alle lussuose ville. Il lusso poteva creare in effetti un regime di accordo sociale, una alleanza, fra ceti elevati ricchi e ceti bassi lavoratori, parte non piccola della plebe ur-. bana: un connubio sotto yari aspetti spesso emergente in età giulio claudia 28 e in buona parte operante negli ultimi anni del regno di Nerone. Esso era evidentemente visto con sospetto da quei ceti «medi» essenzialmente legati alla nuova ufficialità militare (vd. accordo Seneca Burro), pronta a divenire la nuova classe

dirigente d'età flavia e antonina ?. Questa avrebbe di fatto bloccato in un regime «moderato» quelle possibilità di alleanze politiche fra gruppi estremi che l'età neroniana, in particolare, aveva lasciato intravvedere. La polemica contro 146

il lusso poteva ora dunque accentuarsi e diventare anche la base per la ricerca di un nuovo spazio politico, senza che ci si ponessero problemi di altri valori sociali riguardanti, ad es., il lavoro e la produzione. Probabilmente questo spazio politico era già anche abbastanza in vista per Seneca e delle scelte «etiche» significative erano, in ogni caso, utili a fare chiarezza nell'ambito dell'opposizione alquanto variegata a Nerone E da osservare a questo riguardo che la polemica contro le artes Iudicrae 3° negli anni di elaborazione delle epistole era evidente rivolta non soltanto contro Nerone, ma anche contro quegli ambienti e quei ceti che avevano assimilato uno stile di vita neroniano. In particolare si puó pensare a personaggi come lo stesso Gaio Pisone, il cospiratore antineroniano («amico» di Seneca) personaggio peraltro tipicamente

«paradossale», le cui doti di musico e cantore erano celebrate dall'ononimo e pauper autore della /aus Pisonis ?!. Gli ambienti della ufficialità militare, che pur partecipavano alla vasta e poco omogenea congiura, consideravano invece tristemente questo doti ed, in contrapposizione a Pisone, pensavano piuttosto di puntare proprio su una persona come Seneca. Fondamentalmente Ann. 15,65: Fama fuit Subrium Flavum cum centurionibus occulto consilio neque tamen ignorante Seneca destinavere ut (...) Piso quoque interficeretur traderetque imperium Senecae. Quin et verba Flavi vulgabuntur, non referre dedecori si citharoedus demoveretur et tragoedus (sc.: Piso) succederet52. Era la linea della ufficialità militare nuova, non tradizionalista come gli ambienti che si schiereranno con Galba, ma legata ad alcuni valori della vecchia »obilitas della quale si pone come continuatrice; la linea degli uomini nuovi portatori della morigeratezza, secondo la famosa interpretazione tacitiana, dai quali emergerà Vespasiano, praecipuus adstricti moris auctor (Ann. 3,55). Questa linea in ambienti intellettuali, investiti anche dal moralismo filoso-

fico, pòrtò a posizioni estreme, fra lo strutturale e il politico, quali quelle dell’ultimo Seneca. Sono, con altro approccio, alcune delle ambiguità da studiare nel de otio. Ha osservato ancora il Nórr # che il rifugio nell'etica individuale come base per il dispregio del lavoro pratico (con citazione di Seneca) segna un periodo in cui, finita la libertà repubblicana, non s'era tuttavia ancora sviluppata la nuova etica politica del servizio per il principe. In effetti, come la posizione di Seneca finisse per risultare datata è mostrato dal certo sviluppo che ebbe il «professionismo» umanistico e, in parte, anche tecnico sotto Vespasiano 34. Si può ri-

cordare l’alta considerazione con la quale sono ricordati nel dialogo de oratoribus (8), Eprio Marcello e Vibio Crispo, amici di Vespasiano, «paradossalmente» non egregii moribus, giunti, fra l'altro, ad una ricchezza di duecento e trecento milioni di sesterzi in virtù della mera pratica di una ars liberalis (eloquentiae beneficio). In età flavia, come si è accennato, il moralismo tradizionalista avrebbe cer-

cato di assimilare le tecniche e le «professioni» — orientandone però così anche e, in parte, compromettendone lo sviluppo — appunto nella ideologia del servizio per il principe. Ma i modi e le ulteriori articolazioni di tali sviluppi e contraddizioni trascendono i limiti di questo lavoro che ha voluto cogliere soltanto alcuni aspetti di spinte ideologiche differenziate di fronte a valori in evoluzione in una situazione sociale e politica in trasformazione. 147

1 A. LA PENNA, Il ritratto «paradossale» da Silla a Petronio, in «Riv. Filol. Class.» 104, 1976,

p. 270 ss. = In., Aspetti del pensiero storico latino, Torino 1978, p. 193 ss. Tale fertile traccia di analisi viene finemente sviluppata, sul piano più propriamente sociologico, nella serie dell’Istituto Gramsci: Società romana e produzione schiavistica, vol. III: Modelli etici, diritto e trasformazioni so-

ciali, dallo stesso LA PENNA (Mobilità dei modelli etici e relativismo dei valori: da Cornelio Nepote a Valerio Massimo e alla Laus Pisonis, p. 183 ss.) e, per l'età ciceroniana, da M. LABATE ed E. NARpucci (Mobilità dei modelli etici e relativismo dei valori: il «personaggio» di Attico, p. 127 ss.); v. ora anche M. Pani, Principato e società dai Giulio Claudi ai Flavi, Bari 1983.

2 Tali teorie di Posidonio sono note soltanto da questi passi senechiani (= Posidonio fr. 284 Edelstein-Kidd= 448 TEILER). Sulle fonti di Posidonio e sulle basi teoriche della sua posizione: (teleologismo stoico e conseguente dottrina della socialità dell’uomo e della omogeneità culturale di pensiero ed azione) vd. G. MEYER, Laudes Inopiae, Gottingen 1915, p. 47 s.; R. Monporro, La «creatività»

dello spirito, il lavoro e il progresso umano nella concezione degli antichi, in Ip., La comprensione del soggetto umano nell'anticbità classica, Firenze 1958, p. 629 ss.; L. EDELSTEN, The Idea of Progress of

Classical Antiquity, Baltimore 1967, p. 22 ss. (dove si insiste anche sulla sistemazione originale di Posidonio); A. MICHEL, Sapientia moderatrix .. artium, in Recherches sur les artes

1978, p. 141 5.

à Rome, Paris

3 Diversi dei concetti esposti in questa lettera sono naturalmente ripetuti più volte nell'opera

di Seneca; non li passeró qui in rassegna anche perché ben noti e sovrabbondanti. Notevole poi come in Nat. Quaest. , 53,3, la filosofia è detta invece da Seneca parens artium. Evidentemente qui si

ha di vista il legame fra filosofia e scienza intesa come conoscenza della natura pià che tecnica dei mestieri manuali. Ció nonostante il contrasto ἃ stridente e svela certa strumentalità della polemica. Per una teoria del progresso in Seneca, sotto, n. 4. 4 In generale, ultimamente, v. la bella sintesi di E. PASOLI, Scienza e tecnica nella considerazione prevalente del mondo antico. Vitruvio e l'architettura, in Scienza e tecnica nelle letterature classiche

(Seste giornate filologiche genovesi, febbr. 1978), Sassari 1980, p. 63 ss.; la materia è quanto mai complessa, dovendosi, naturalmente, distinguere vari aspetti, tutti argomento di discussione: teo-

ria pura, tecnica applicata, vari tipi e funzioni di attività manuali, mestieri, vari tipi e funzione di artes, in particolare poi il circolo ristretto delle artes liberales, il cui discrimine non è sempre chiaro; quindi rapporti con la paideia e con l’otium. Una visione complessiva di tutti gli aspetti mi pare che manchi. Per una articolata trattazione di alcuni punti, D. NÓRR, Zur sozialen und rechtlichen Bewertung der freien Arbeit in Rom, in «Zeitschr. Sav.-Stift.» 82, 1965, p. 67 ss.; cfr. anche J. CHRI-

STES, Bildung und Gesellschaft, Darmstadt 1975, p. 169 proposito del volume di K. Vısky, Geistige Arbeit und die schen Rechts (Budapest 1977), in D. NofR, in «Iura» 28, STES, in «Zeitschr. Sav. Stift.» 95, 1978, p. 479 ss.; per

ss.; 196 ss.; altra discussione recente, a «artes liberales» in den Quellen des römi1977 (pubbl. 1980), p. 286 ss., J. CHRIla fondamentale sistemazione di Aristo-

tele contro la crematistica, recentemente, F. CALABI, «Despotes» e «technites». Definizioni essenziali e definizioni funzionali nella «Politica» di Aristotele, in «Quad. di St.» 9, 1979, p. 115 ss. No-

toriamente le attestazioni sulla concezione del lavoro negli autori antichi non sono peraltro affatto omogenee. Sono note le posizioni di Mondolfo, sviluppate in parte, fra gli altri, da Farrington, che tendono a porre in rilievo una valutazione positiva del lavoro nell’antichità classica. Di Mondolfo v., ultimamente, Tecnica e scienza nel pensiero antico, in «Athenaeum» n. s. 43, 1965,

p. 279 ss.

Sulla storia della corrente di pensiero in qualche modo a lui ricollegabile, G. CAMBIANO, Mondolfo e la concezione antica del lavoro e della tecnica, in Filosofia e marxismo nell'opera di Rodolfo Mondol-

fo (relazioni tenute al convegno «Il pensiero e l'opera di R. Mondolfo» Bologna nov. 1977), Firenze 1979, p. 77 ss. Mondolfo tenta di definire come favorevole al lavoro pratico anche la posizione di Seneca, ma con evidente forzatura, v. PASOLI, Scienza e tecnica, p. 77, n. 28; per la concezione del progresso in Seneca come conoscenza (spec. Quaest. nat., 7, 30 s.), EDELSTEIN, The Idea of

progr., p. 166 s.; I. LANA, Scienza e tecnica a Roma da Augusto a Nerone, in Ip., Studi sul pensiero politico.classico, Napoli 1973, p. 405 s. Ultimamente una sintesi dei vari aspetti della discussione moderna in M. VENTURI FENIOLO Introduzione a R. MONDOLFO, Polis, lavoro e tecnica, Milano 1982, p.9 ss.; da ricordare come notevole, anche se più isolata, la posizione di F.M. DE ROBERTIS, Lavoro

e lavoratori nel mondo romano, Bari 1963), tendente a riconoscere una valutazione positiva del lavoro negli strati bassi della popolazione; discussione in NÖRR, Bewertung der freien Arbeit, p. 67 ss.;

per una impostazione storiografica relativa alla storia del concetto di lavoro in età moderna ricordo 148

L. FEBVRE, Travail: évolution d'un mot et d'une idée (1948) in In., Pour une histoire à parte entière,

Paris 1962, trad. it. in Ip., Problemi di metodo storico, Torino 1972? (repr. 1976), p. 47 ss.; cfr. anche, in generale, L. FIRPO, Il concetto di lavoro, ieri, oggi, domani, Torino 1977, p. 20 ss.

5 [n generale, a proposito di Cic., de off. I, 150, M.I. FINLEY, The Ancient Economy (1973), tr. it. Bari 1974, p. 62.

6 Su questi temi cfr. anche de leg. 1,25-27; de nat. deorum, 2,15; de off., 2,17 s.; per le influenze della filosofia greca in Cicerone su tali punti MonpoLFO, La «creatività», p. 708 s.; per la complessità delle mediazioni filosofiche di Cicerone, MICHEL, Sapientia moderatrix, p. 140 ss. ? Sui due impulsi contrastanti che caratterizzano l’atteggiamento epicureo, MonpoLro, La «creatività», p. 708 ss.; cfr. anche, in una visione più ampia, MICHEL, Sapientia moderatrix, p. 144 s. 5 EDELSTEIN, The Idea of Progr., p. 162 s. per discussione e obiezioni sul volume di Edelstein, v.,in generale, E.R. Dopps, The Ancient concept of Progress, Oxford 1973, p. 1 ss.; W. DEN BOER, Progress in tbe Greece of Thucidides, Amsterdam-Oxford-New York 1977, p. 27 ss.

? Perla molto discussa e anche variamente interpretata posizione lucreziana sono da ricordare, naturalmente, de rerum nat., 5, 1448-1457 (cfr. 330-337); sulle espressioni di Orazio e Diodoro, D. VrrALL Sul senso della preistoria negli scrittori latini. Hor., Serm. 1,3,99 sgg., in «Rend. Acc. Lincei» 31, 1976, p. 423 ss. Parziale il contributo di F. MORGANTE, I/ progresso umano in Lucrezio e Seneca, in «Riv. Cult. Class.Med.» 10, 1974, p. 3 ss., dove è larga sintesi della discussione precedente; cfr. anche sopra n. 7. 10 Per questa interpretazione cfr. MEYER, Laudes Inopiae, p. 55 s.; MONDOLFO, La «creatività», p. 714; v. anche, ultimamente, sul passo, A. NEGRI, «Teodicea del lavoro», «Etica del dolore» e filosofia della cultura in Virgilio, in «Giorn. Ital. Filol.» n. s. 9, 1978, p. 47 ss. 11 Per un accostamento di Seneca con Filone (De congressu eruditionis) in termini di afferma-

zione del primato dello spirito sul corpo e quindi sul ruolo della tradizione platonica v. MICHEL, 7. C. ; piü evidente la vicinanza con alcuni noti aspetti della posizione pliniana sulla quale v. J.M. ANDRE, Nature et culture chez Pline l’Ancien, in Recherches sur les artes, p. 7 ss., il quale insiste, con lar-

ga analisi, sul peso della tradizione accademica. 12 Sull’attività edilizia del I sec. a.C. in Roma e in Italia e sul conseguente motivo polemico

della aedificatio fra tarda repubblica e primo principato v. F. GABBA, Riflessioni antiche e moderne sulle attività commerciali

a Roma nei secoli II e I a.C., in The Seaborne Commerce af Ancient Roma:

Studies in Archaeology and History, Edd. J.H. D'Arms and E.C. Kopff, American Academy in Rome,

1980, p. 97 s.

3 F. DELLA CORTE, Enciclopedisti latini, Genova

1946, ora in In., Opuscula III, Genova

1978, p. 10 ss.; LANA, Scienza e tecnica, p. 385 ss.; PasoLI, Scienza e tecnica p. 69; in particolare da

ricordare l'educazione umanistica che Vitruvio richiedeva per l'architetto. 14 Con acute osservazioni PASOLI, Scienza e tecnica, p. 73 s., ha suggerito come Seneca avesse

probabilmente presenti alcuni passi del de architectura nella sua polemica contro l'edilizia. 15 Sulle fonti di Vitruvio, MEYER, Laudes Inopiae, p. 52 ss.; MONDOLFO, La «creatività», p. 715.

16 Cfr., ultimamente, su questi passi, L. BALDINI Moscapi, Magia e progresso in Manilio, in «At. e Roma» 25, 1980, p. 8 ss. Non terrei gran conto della valutazione pessimistica dei tempi più evoluti presente nella prefazione all. I del de medicina di Celso; il tema trattato (corpi più soggetti

alle malattie in tempi di comodità e mollezze) si adattava in quel punto alla ripresa di un motivo topico; sulla considerazione di Celso per le artes vale invece la stessa intrapresa della sua gigantesca opera enciclopedica, della quale appunto solo il de medicina ci è conservato. Su di lui, ultimamente, S. ConTInI, Aulo Cornelio Celso, Palermo 1980.

17 Per la vitalità e i rapporti di diverse linee di pensiero greco ellenistico in Plinio, ANDRÉ, Nature et culture, p. 9 ss.; sul ruolo anche dell'ambiente sociale, MICHEL, Sapientia moderatrix, p. 141; per l'atteggiamento ‘di Plinio nei confronti della tecnica, v. gli Atti del Convegno di Como (sett. 1979): Tecnologia, economia e società nel mondo romano, Como

1980; in particolare, I. LA-

NA, Scienza e politica in età imperiale romana (da Augusto ai Flavi), p. 21 ss. (anche per la elaborazione di Quintiliano, cfr. sotto, n. 34); L. CRAcco RuGGINI, Progresso tecnico e manodopera in età imperiale romana,p. 45 ss.; cfr anche E. DELLA CORTE, Plinio il Vecchio repubblicano postumo, in «St. Rom.» 26, 1978, p. 5 ss.; per discussione, PANI, in «Quad. di Storia» 18, 1983, p. 361 ss.

149

18 Da ricordare che la polemica di Seneca investe altrove, sia pure in maniera meno cruda, sotto forma di ridimensionamento, anche le arti liberali (Ep. 88,2: Unum studium vere liberale est [...] oc est sapientia [...] cetera pusilla et puerilia sunt). Naturalmente è riconosciuto il loro valore e

la loro funzione per quel che riguarda l'educazione personale (ad. es.: de o£io, 3,4; de brev. vitae, 14,5; de ben., 3,21,2); il discrimine per la valutazione negativa è, tradizionalmente, una loro remunerazione (Ep. 88,1); concezione ben nota (ad es. Cıc., de off. 2,21) che ora peró nella caratteristi-

ca dei tempi assumeva ruolo predominante. Lo stesso Vitruvio si preoccupava di non restare confuso in tale tipo di discredito tradizionalista da lui ancora evidentemente accettato (ma siamo piü

di ottanta anni prima delle Epistole a Lucilio); cfr. Praef. 6,5: Ego autem, Caesar, non ad pecuniam parandam ex arte dedi studium; Columella non pare porsi in particolare questo problema. 19 Una tale elaborazione «ideologica» non era tale da impedire evidentemente a Seneca una diligente cura dei propri vastissimi possedimenti agrari e delle proprie culture, v. M.T. GRIFFIN, Seneca. A philosopher in politics, Oxford 1976, 289 sg. (da ricordare che Columella cita con grande ‘enfasi Seneca, lodando anche il rendimento dei suoi vigneti nel nomentano, territorio che è detto particolarmente fertile. de re rust. 3,3,3). 20 FINLEY, Econ., p. 144; 175 s. 21 FINLEY, Econ., p. 77.

22 Da ricordare che la concezione del lusso in Seneca è quella tradizionale da questo punto di vista: le spese sontuose fine a sé stesse sono sperperi (o pura ostentazione sociale, caratteristica so-

ciopsicologica che Seneca ha ben presente nelle Epistole), quelle che hanno invece una funzione politica sono legittime, cfr. Ep. 95,41: quid est cena sumptuosa flagitiosius (...)? (...) Et deciens tamen

sestertio aditiales cenae frugalissimis viris constiterunt. Eadem res, si gulae datur, turpis est; si bonori reprensionem effugit. Non enim luxuria, sed inpensa sollemnis est (cfr., e. g., Cic., de off. I, 54 ss.). An-

che qui questo tipo di «ideologia» non impediva a Seneca di ricercare una certa produttività del proprio patrimonio con prestiti ad interesse e cura dei campi (cfr. sopra, n. 18); sulle sue sostanze e

sul problema posto dalla tradizione su un suo stile di vita lussuoso, GRIFFIN, Seneca, p. 232 ss.; 292 ss. 23 Cfr. su quest'ultimo punto, fra gli altri, LANA, Scienza e tecnica, p. 391 ss: CRACCO RucciNI, Progresso tecnico, p. 58 s. 24 Bewertung der freien Arbeit, p. 84 5... 2 Scienza e tecnica, p. 404; cfr. 394; Ip., Scienza e politica, p. 27.

26 Da ricordare il posidoneismo di Cicerone e la distinzione che Posidonio stesso poneva fra le varie artes secondo Sen., Ep. 88, 21 (volgares et sordidae, ludicrae, pueriles, liberales). 27 Ha osservato acutamente il LANA, Scienza e tecnica, p. 406, come Nerone «cercò di introdurre elementi di rottura nella gerarchia stabilita ed accettata fra le artes liberales e le artes ludicrae» dedicandosi a quest'ultime; hanno dunque un senso, ricorda Lana, le parole attribuite a Nerone morente «qualis artifex pereo!» SUET., Nero 49; Dio 63,29,2 (τεχνίτης); cfr anche In., Scienza e politica, p. 29 s. 28. Alcuni aspetti ho cercato di vederne in Tendenze politiche della successione al principato di Augusto, Bari 1979, p. 97 ss. 2 Cfr., su tale nuovo ceto dirigente, J. NicoLs, Vespasian and the partes Flavianae, Wiesbaden 1978.

30 Assimilate senz'altro si ricordi alle arzes degli opifices, in Ep. 90, 15 ss. cit. sopra. 31 Sull'opuscolo A. SEEL, Laus Pisonis, Erlangen 1969; non si hanno motivi per dubitare della caratterizzazione, insistita, che l'autore dà di sé stesso.

32 Tale spazio politico & oggettivamente occupato da Seneca quali che siano i discussi gradi della sua partecipazione alla congiura. Quanto al ruzzor, esso ha in ogni caso, a mio avviso una sua

logica. Subrio Flavo era tribuno della crote pretoria; da ricordare naturalmente il legame di Seneca con Burro. Cfr. Panı, Principato e soc., p. 00. 33 Bewertung der freien Arbeit, p. 85. 34 I. LANA, La teorizzazione della collaborazione degli intellettuali con il potere politico in Quintiliano, Institutio oratoria, libro XII, in In., Pens. pol. class., 431 ss; cfr. sopra, n. 17.

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STORIA CICLICA DEGLI ANTICHI

E LINEARITÀ PROGRESSIVA DEI MODERNI IN UNO SCRITTO GIOVANILE DI FRIEDRICH SCHLEGEL MASSIMILIANO

PAVAN

Friedrich Schlegel approdó con decisione agli studi di poesia e d'arte classica dopo alcuni anni piuttosto dispersivi e di letture vaste ma indiscriminate. A Gottinga, dove i genitori lo avevano indotto a iscriversi alla facoltà di giurisprudenza per avviarlo a una sistemazione impiegatizia, aveva ascoltato nondimeno le lezioni del filologo Heyne e aveva letto oltre a Platone anche le opere di Winckelmann. Lo assisteva spiritualmenteil fratello August Wilhelm, di cinque anni maggiore, anch'egli studente a Gottinga. Passato nel 1791 all'università di Lipsia il giovane Friedrich, nel perseguire gli studi giuridici senza troppa convinZione, non aveva cessato di interessarsi di storia dell'arte, di filosofia e letteratu-

ra, ma vi si era abbandonato anche alla vita spensierata e di piaceri per i quali era cosi attraente la città sassone di grande tradizione universitaria e culturale ma ora anche in pieno sviluppo economico e commerciale. Finalmente era riuscito a liberarsi, nel mezzo di una vita dispendiosa anche moralmente, fra eccitamenti e depressioni, del progetto di carriera giuridica e si era deciso, soprattutto grazie al conforto spirituale di Caroline Bóhmer, a dedicarsi tutto al libero studio, in particolare a quello dell'arte e del mondo antico: le comode puntate da Lipsia a Dresda gli avevano permesso di conoscere le stupende raccolte che i principi di Sassonia vi avevano creato nel corso del secolo. Quando nel gennaio 1794 Friedrich passò a Dresda presso la sorella Charlotte Ernst egli aveva già concepito una storia della Grecia antica. Ad attrarlo nella capitale del principato sassone non era solo l’affetto della sorella, ma anche la presenza di Christian G. Kérner, il consigliere concistoriale, referendario del consiglio segreto, uomo pienamente immerso nel dibattito culturale che animava allora la Germania. Quel 1794 fu di grande prolificità per lo Schlegel, di scritti brevi, ma tutti dedicati ai Greci. Per la «Berliner Monatschrift» scrisse Von den Schulen der griechischen Poesie, uno schizzo in cui cercò di delineare il corso della poesia greca dal momento di pura ispirazione naturale, al vertice della sua bellezza e perfezione, alla discesa nell’artificioso e nella barbarizzazione. Poi gli articoli Vorz ästhetischen Werthe

der griechischen Komödie (essenzialmente su Aristofane),

Über die Grenzen des Schönen; Über die weiblichen Charaktere in den griechischen Dichtern, in cui veniva sempre ribadita la visione parabolica della civiltà greca, ma anche la possibilità di attingervi moventi di educazione ai più alti valori umani. Sulle orme di Platone, ammiratore dell'educazione delle donne spartane, lo Schlegel scriveva in quell’anno anche il saggio su Diotima, intitolato appunto alla sacerdotessa di Mantinea cui Platone nel Convito attribuisce la sua concezione 151

metafisica dell'amore. Ed ecco tra il 1794 e il giugno 1795 il primo vero tentativo d'una visione organica dell'insieme della civiltà classica, il saggio Vorz Wert

des Studiums der Griechen und Römer che, inviato alla «Berliner Monatschrift», doveva nondimeno rimanere inedito per circa un secolo !.

Nella trattazione di tutti questi saggi era evidente l'influsso della letteratura «militante» del tempo: sullo sfondo quindi, oltre al dibattito filosofico fra

Kant e Herder circa il «senso» della storia umana, affiorano le sollecitazioni dello Schiller, cui tra l'altro era molto legato il Kórner, del Lessing, nonché di un altro giovane vicino a Schiller, Wilhelm v. Humboldt, interessato a problemi statuali (Ideen über Staatsverfassungen 1792; Versuch die Grenzen der Wirksamkeit eines Staates zu bestimmen, s.a. pubblicato postumo nel 1851) e di letteratura ed estetica (nel 1798 avrebbe scritto il saggio sullo Herrmann und Dorothea di Goethe e nel 1799 avrebbe raccolto gli Aeszbetische Versuche) ma che già nel 1787, ancor ventenne, aveva scritto un saggio su Sokrates und Platon über die Gottheit, contenente traduzioni da Senofonte e da Platone, e soprattutto, nel 1793, il saggio Uber das Studium des Altertbums, und des griechischen insbesondere, in cui egli mostrava di aver maturato la convinzione che soltanto nei Greci anche l'uomo moderno può trovare la manifestazione più alta dell'essenza umana. Anche Fr. August Wolf, i cui Prolegomena ad Homerum sarebbero usciti nello stesso 1795,

quando Schlegel portava a termine lo Studium der Griechen und Römer, nei Prolegomena alle sue lezioni sulle antichità greche all'università di Halle nel 1787 aveva dedicato un capitolo a «valore e utilità dello studio dell'antichità» 2. I] tema era dunque al centro del dibattito e Humboldt pensava anche a una rivista da intitolare «Hellas». Nell'ambito di questo dibattito ἃ da precisare che Friedrich Schlegel non si poneva sulla scia dello sviluppo della filologia tedesca, anche se accoglierà con vivo interesse, ma non senza qualche riserva, i Prolego-

mena omerici di Wolf ?. Da essi in particolare attingerà la peculiarità del valore della letteratura alessandrina per la successiva sua Geschichte der Poesie der Griechen und Römer (1798). Ma egli non mostró mai alcun interesse per la critica del

testo, né per le questioni di lingua, di metrica o di grammatica. Il suo vero interesse non era infatti per gli antichi in quanto tali. E questo non solo gli permetteva di superare ogni limitazione di carattere classicistico, ma di tentare di risolvere l'antico quesito del rapporto fra antichi e moderni in una visione più universale della storia (e quindi della letteratura). In ció naturalmente l'influenza di Herder aveva la sua parte. Herder e Kant infatti sono i due unici autori che gli suggeriranno le poche ma lunghe note nel saggio in questione (con un significativo rinvio anche a Fichte: la Grundlage der gesamte Wissenschaftslehre del 1794). Non é senza significato, d'altronde, che dalla scuola di Heyne, il grande filologo di Gottinga, di cui lo Schlegel apprezzava la larghezza di dottrina ma non la mentalità empiricizzante e analitica ^ uscissero per un verso filologi veri e propri, quali Wolf e Gottfried Hermann, instauratore della filologia formale, per l'altro teorici della storia come appunto Schlegel e Humboldt. E come dire che Heyne si pone al crocevia della maturazione della cultura tedesca della seconda metà del XVIII secolo, per la quale la riconsiderazione del mondo classico di-

152

venta momento essenziale sia per il rinnovamento filologico sia per quello storico-filosofico. Questo crocevia e i relativi sbocchi erano a loro volta entro il percorso, par-

tito già dalla fine del secolo precedente, del maturare di una «presa di coscienza» non solo culturale ma spirituale di tutto il mondo tedesco, anche sotto apporti di altre letterature, di pià antica affermazione, di quella francese e di quella inglese in particolare. Tutto ció infatti avvenne con l'assurgere della lingua tedesca a dignità non solo paesanamente poetica ma anche dotta. All'inizio del secolo il Leibnitz scriveva la sua Theodicea ancora in francese, non ritenendo adatta al compito filosofico quella tedesca, troppo provinciale. Il francese era l’unica alternativa al più tradizionale latino, per ogni campo del sapere. La mediazione della cultura e della lingua francesi, soprattutto attraverso Gottsched, fu importante per la proposizione del modello classicistico grecoromano, proprio mentre in Francia ferveva la «Querelle» fra sostenitori della superiorità degli antichi e sostenitori dei moderni. In campo tedesco invece la disputa ferveva piuttosto tra classicisti francesizzanti e tedesco-tradizionalisti. Nel frattempo raggiungevano grande diffusione in Germania gli scritti provenienti dall’Inghilterra, dei platonizzanti Shaftesbury e Berkeley soprattutto, un .po' meno dei filologi quali Bentley la cui importanza sarà riconosciuta appieno in Germania solo dal Wolf e più tardi dal Lachmann. Ma in Inghilterra la filologia classica andava strettamente congiunta con la revisione critica dei testi testamentari, in uno spirito che associava poesia omerica (Blackwell: 1737) e poesia ebraica (Lowth 1753) con la individuazione nei documenti storici delle genuine

condizioni del destino di un popolo. Del lavoro del Blackwell su Omero il Winckelmann scrisse che era «uno dei più bei libri del mondo» 5 per la freschezza e genuinità con cui vi venivano presentati gli eroi, in un contesto di destini, costumi e lingua che insieme danno connotazione a un popolo. C'era in ciò un’evidente premessa romantica e l'adesione del Winckelmann è indicativa del più vero significato della sua «riscoperta» dell’antichità classica. Per un verso Winckelmann subiva gli influssi dei platonizzanti inglesi, per l’altro era portato a rivedere il classico in chiave filellenica attraverso la filologia inglese che storicizzava Omero. Negli stessi anni in cui Lessing con i Briefe der neueste Literatur betreffend (1759) opponeva ai modelli francesi Shakespeare e i classici antichi, Winckelmann scriveva a Dresda i Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke (1755) studiando le raccolte della Corte di Sassonia, le pietre intagliate, i cammei, le incisioni e le celebri tre Ercolanensi che il conte d'Elboeuf a suo tempo aveva inviato ad Eugenio di Savoia per il Belvedere di Vienna e che erano state acquistate poi da Federico Augusto di Sassonia (Augusto III re di Polonia) per il suo Grossen Garten. Delle Ercolanensi il Winckelmann scriveva allo Stosch che «valgono forse più che tutto il cabinet del Polignac» acquistato da Federico II di Prussia 5. Per lo Stosch egli avrebbe scritto poi a Firenze (1760) la Description des pierres gravées con l'esperienza maturata proprio a Dresda dove il Lippert aveva bene individuato nelle pietre intagliate della collezione sassone le immagini piü veridiche 153

ed espressive dell'arte e dello spirito dell'antichità classica (la Dactyliotheca Lippertiana cominciò ad uscire nel 1753).

Se pertanto la Geschichte dell'arte antica del Winckelmann (1763) fu compilazione del periodo romano, al cospetto delle raccolte vaticane, capitoline e di Villa Albani, i presupposti fondamentali del riesame del valore dell'arte classica

erano maturati già negli anni di Germania. Ma nella Geschichte il Winckelmann

aveva esposto anche la teoria dell'evoluzione artistica come un processo parabolico di orgine-crescita-decadenza che egli ricavava in parte dai trattatisti italiani (Vasari e Bellori) " ma che era anche la condizione toeretica dell’esaltazione del genuino, cioè del primitivo, dell'originario (e quindi dell'omerico, del greco rispetto al romano), esaltazione tipica del protoromanticismo. E significativo che fosse proprio Herder a concorrere col filologo Heyne al premio posto in gara per un «éloge de Mr. Winckelmann» nel 1777 dalla «Société des Antiquités» di Kassel. Herder infatti vedeva evidenziati dal Winckelmann tutti e due gli aspetti: quello della individualità (autogenesi peculiare dell'arte greca) e dell'ispirazione, da un parte, e della universalità e quindi dell'assimilazione di aspetti

esterni dall'altra («nelle pià antiche arte e scienza greche, nella mitologia e allegoria, nonché nelle opere d'arte, molto diventerebbe incomprensibile, se non si

ammettesse alcun apporto dall'esterno» 8). La commissione preferi al Denkmal di Herder la Lobschrift di Heyne, la composizione del celebre professore allo scritto del trentatreenne sovrintendente e predicatore alla Corte di Weimar. Ma anche Heyne vi aveva affermato l'esigenza di un recupero del «Geist des Alterthums» come condizione di formazione «del gusto, del bello, del vero, del grande, nell'arte, nella natura, nel costume» ?. La filologia dunque aveva oramai

consapevolezza che doveva alimentare e alimentarsi, in reciprocità, dello «spirito del mondo antico»: un'esigenza spirituale giustificava la scienza filologica e questa dava supporto concreto a quella. Col che le vocazioni potevano continuare a restare distinte. Ma nella naturale differenziazione tra Wolf e Schlegel c'era anche la reciproca interrelazione !9. Nei su citati Prolegomena alle lezioni di Halle, il Wolf aveva dato una sua definizione della scienza dell'antichità, («Alterthumslehre»): «la dottrina classica, le literae antiquae, o come altrimenti si voglia dire, abbracciano l'intera somma

di quelle conoscenze le quali con i fatti e il destino della condizione politica, letteraria ed esterna dei popoli civili dell'antichità ci fanno conoscere la loro cultura, la loro lingua, arti, scienze, costumi, religione, pensiero, e carattere naziona-

le; e ciò in tal guisa che noi siamo messi subito in grado di intendere a fondo le loro opere tramandateci, di diversa natura, di giudicarle con gusto e penetrazione, e di valercene per fini speciali degli altri nostro studi» 11, Se ne ricavava una visione «enciclopedica» del sapere sul mondo antico, non come somma di dati ma come connessione delle varie manifestazioni storiche; in secondo luogo l'antichità come scienza veniva strettamente delimitata nell’ambito dei «popoli civili», cioè dei Greci e dei Romani, lasciando fuori altri popoli pure entrati vistosamente nella storia antica, quali assiri, ebrei, egiziani etc. Più avanti il Wolf

distingueva 12 tra popoli di comune cultura (egiziani, asiatici, africani) e popoli di formazione dotta e di illuminazione più elevata («hóhere Aufklárung»), quali ap154

punto i Greci e quindi i Romani che si trovano uniti dal comune grado di «Bildung». La indicazione sul carattere «enciclopedico», cioé storico del conoscere & importante perché investiva di per se stesso il concetto di filologia nella sua connessione con la storia. Ma fu anche il punto in cui l'ambiguità non fu mai del tutto risolta, perché riguardava non solo il rapporto tra filologia e storia ma conseguentemente quello tra storia e filosofia: «il dissidio tra storia e filosofia era nello spirito tedesco fondamentale, ne prese tutte le forme e tentó sanarsi conla contemplazione (Holderlin), con la poesia (Goethe e Schiller), con la storia filo-

sofica e pratica, non razionale, quindi non veramente unitaria, sebbene vi fosse il buon seme della razionale (Winckelmann, Herder)»

5. Il futuro dissidio fra

Hermann e Boeckh scoppiato clamorosamente nel 1825, circa il modo di intendere la filologia (Boeckh wolfianamente come ricerca dell'insieme, dell'inscindibilità di cose e parole nell'individuazione del processo storico, Hermann come insistenza sul fatto linguistico, sull'interpretazione del testo come momento essenziale) non fu altro che il risultato, per un verso, della latente ambiguità, l'ini-

zio, per l'altro, della progrediente scissione, quale andó stabilendosi nel corso del XIX secolo e del primo XX, solo in rari casi superato (ne sarà clamoroso episodio la disputa tra Nietzsche e Wilamowitz). Quanto alla restrizione della scienza dell'antichità al solo mondo grecoromano essa nasceva da due presupposti; il primo di carattere «umanistico», d'una filologia legata esclusivamente alle bumanae litterae, tradizionalmente intese come lettere classiche; il secorido riguardava il legame fra l'emergente concetto di «Bildung» e quello di «Aufklärung», cioè derivava da premesse tuttora illuministiche, che del resto erano all'origine anche dell'ispirazione winckelmanniana. Il criterio di pecularità che inerisce al concetto stesso di «Bildung» proponeva una gerarchia di valori e relative manifestazioni storiche su basi illuministiche (si pensi alle quattro «epoche illuminate» del Voltaire con l'età di Pericle in testa). Ma l'illuminismo identificando la peculiarità col massimo di razionalità, universalizzava i rispettivi valori senza risolvere il reciproco rapporto storico, né in senso cronologico (per cui postulava «conclusioni» di cicli, come nella crescita e decadenza dei Romani secondo Montesquieu, e poi anche secondo Gibbon), né in senso latitudinario (per cui alcuni popoli soltanto appaiono avere destini di illuminazione). Winckelmann, con l'affidare ai Greci il maggior grado di peculiarità nell'espressione artistica per un verso ribadiva la tipologia del «popolo illuminato», per l'altro innestava nella peculiarità il valore del primitivo, del genuino e quindi vi inseriva un valore naturalistico, non prettamente razionale. Era rotto cosi l'esclusivismo razionalistico e la storia si pose di fronte alla filosofia con una maggior ricchezza di apporti umani. Sulla base del genuino Herder ritenne di prospettare una storia dell'umanità in visione non organica nè solo razionale, ma con evidenti segni di spontaneità, proiettata, anche in virtù di questa, verso una perfezione universalmente va-

lida, in cui ogni «genio» individuale e nazionale rappresenta la condizione stessa del progresso storico, della creatività: «ogni nazione ha il proprio modo di vedere, le sue propensioni, i suoi metodi, le sue preferenze, il suo grado di intelligibi155

lità, le sue bellezze locali» 14. Questo spiega come Wolf formulasse anch'egli il concetto di scienza dell'antichità come conoscenza del «carattere nazionale». Tutto il sapere storico-enciclopedico trovava non solo coagulo, ma motivazione in questa individuazione dello «spirito nazionale», del «Volksgeist» (donde l'intuizione della composizione popolare dei «poemi omerici»), formulato poi dal Boeckh 15. Ma come intendere lo herderiano collegamento del «provvidenziale» progresso storico nell'ambito delle individualità, senza postulare un'immanenza di leggi universali nella storia da cui derivare l'universalità stessa della conoscenza storica

(e quindi

della filologia)?

Kant

dimostrava

(Critica della ragion pura,

1781) l'inattendibilità dei giudizi sintetici a posteriori (empirismo ed erudizioni-

smo) e di quelli analitici a-priori (dogmatismo) ed invece l'universalità delle conoscenze storiche, cioè di leggi nella storia, dando il primato alla ragion pratica. Nell'asserzione di questo primato che pone a supremo fine la legge morale e la sua realizzazione nello sviluppo storico complessivo dell'umanità, la stessa postulazione della libertà a fondamento del mondo umano implicava una fede in un ordinamento divino del mondo, per cui la totalità del sensibile nella sua estensione spaziale e nella sua evoluzione temporale, risulterebbe come realizzazione dello scopo determinante del mondo intellegibile. Tutto l’iter delle Crztzche kantiane era compiuto con la Critica del giudizio del 1790. Ma già nelle Ideen zu einer allgemeinene Geschichte in weltbürgerlicher Absicht del 1784, il Kant aveva espresso il concetto che il progresso della storia non consiste in un accrescimento della umana felicità, ma nell'approssimarsi alla perfezione morale. Togliendo alla condizione naturalistica primaria dell'uomo ogni sostanziale valore di paradigmaticità, d'uno stato di bontà originaria, data l'assenza di una coscienza di legge morale, il Kant proponeva un principio di incivilimento come lotta contro gli istinti che allontanano dalla libera attuazione della legge morale. Erano cosi poste chiaramente le premesse della «Bildung» e ripresentato anche per tal via il contenuto essenzialmente etico della civiltà classica e nel contempo create le condizioni per un suo recupero in chiave di valori che comportasse di per sé il progresso dei moderni. Così fra l’universalità «totale» di Herder, il contenuto formativo della filologia di Wolf, la proiezione eticista del teleologismo kantiano, il giovane Schlegel tentava arditamente la definizione del rapporto tra antichi e moderni in dimensione storico-teoretica, cioé come fatto del conoscere. Il problema di fondo era nella definizione dei fini e del loro raggiungimento, in una proiezione di carattere universale, e quindi tale da investire tout-court il destino dell'umanità. Qual era in questa dimensione il rapporto tra la «storia» degli antichi e quella dei moderni? E questo che Schlegel si propone di chiarire nel saggio sul Valore dello studio dei Greci e dei Romani. Vi affiora subito la polemica, di derivazione kantiana !6, contro la «polimatia vana», nell'esigenza di perseguire una visione che dia unitarietà al sapere storico, al conoscere non sul piano dell’erudizione, ma su quello di leggi intrinseche al destino umano: «la ragione — egli spiega —, nell'intensa ricerca di una scienza che possa essere la base di tutte le altre scienze e rappresenti in modo soddisfacente l'unità assoluta delle pure leg156

gi e dei puri scopi dell'animo umano...» 17. Solo se si dà una risposta a questo quesito, e non rispondendo solo a mode pià o meno passeggere e anche interessate, puó avere veramente senso uno studio dei classici, superando ogni «querelle» tra sostenitori e denigratori, di chi li usa «come un supporto di quadri di paesaggio» 18. Sotto I apparente rigoglio e affinamento scientifici tutto ciò non può fare altro che svuotare la scienza stessa, svilirla e ridurla al disprezzo: «le scienze — osserva ancora lo Schlegel — si discostano sempre più dalla vita pratica e ne vengono ripagate col disprezzo dell'uomo pratico» 19, laddove lo studio dei classici dovrebbe partire anch'esso dal presupposto che «il compito dell’uomo è. qualcosa di più che un’inerte nostalgia» 2°. A tirare le somme di tanto studio, di tante generazioni di eruditi, ecco il risultato: «tutta la nostra antica erudizione è soprattutto una massa estremamente

composita eterogenea confusa, generata e

formata dal confluire di cause contrastanti, dei più disparati influssi, senza l'unitarietà d'un progetto e perfino senza l'omogeneità dell'argilla» 21. Venendo al dunque, a che servono questi classici se non esprimono di per sè una loro totalità e con essa e da essa una relazione col Tutto?: «se si vuole quindi che vanità e confusione — prorompe con giovanile empito lo Schlegel — non regnino nella eterna Notte, che la storia classica non sia un tesoro morto da ostentare vanamente, è assolutamente necessario rendersi conto nel modo più preciso del suo puro valore, creare la linea da seguire per la sua unità, dare la risposta soddisfacente al quesito, circa il suo più alto scopo, e nello stesso tempo stabilire il più nettamente possibile soprattutto il suo rapporto con la storia e con la pura scienza: per giungere così a una meta fissa, a una base solida, a una norma sicura, o almeno per sapere che fare» 77. Lo studio come ricerca del senso della storia, nella quale si esprimono le leggi universali della vita: ecco il fine «pratico», non «praticistico», utilitario, degli studi e quindi della letteratura, come risposta al «che fare» per trovare un giusto posto, ossia il senso stesso della vita. Qui si toccano i momenti primi più genuini e più fecondi del rigoglio culturale del neoumanesimo tedesco, le ragioni vere della sua vitalità, la capacità di rottura degli orpelli intristiti ed asfittici, l’ansia di respiro, la serietà degli intenti. Le proposte di «Bildung» in parte inerivano a suggerimenti lontani (addirittura platonici), in parte rispondevano a esigenze di giustificazioni attuali, cioè a definizioni di collocazioni storiche, di individuazioni personali e nazionali. Proprio perché collocata nella universalità del Tutto, la peculiarità delle singole storie si esprime in rapporto ad esso. Stabilire il rapporto fra mondo classico antico e mondo moderno doveva comportare innanzitutto, dunque, stabilire il ruolo degli antichi nell’ambito della storia universale, definirne le peculiarità: «solo dal completo disegno dell’intero si possono definire esattamente i confini e il fine delle singole parti». Così dichiara lo Schlegel ?. Ma questo era anche lo scoglio maggiore da superare per non ricadere nei vieti paradigmi della cultura tradizionale. Bisognava definire l’antico in quanto tale, nel suo insieme di Greci e di Romani, come di un mondo che si è concluso e nello stesso tempo ha avuto un ruolo nel significato del Tutto. Ma se «quel mondo si presenta oramai storicamente concluso, esso ha avuto anche un suo sistema intrinseco. E allora, ancora: quale il suo rapporto con l’universalità e 157

quindi con l'attualità? Questo ἃ il grande quesito e il grande problema che il giovane Schlegel si cimenta a superare. Esiste infatti qualcosa di più che non sia il rapporto di ante e di post, inevitabilmente, ma solo estrinsecamente legati l'uno all'altro? E chiaro che nel porsi questo quesito, lo Schlegel se mirava a superare la «querelle» arrischiava di ribadirne i presupposti, proprio attraverso la caratterizzazione degli antichi rispetto ai moderni. Perché questa caratterizzazione egli la trova non tanto in aspetti esteriori, quanto in leggi storiche intrinseche, addirittura sul piano del sistema di tali leggi. Dalla vicenda «conclusa» del mondo classico e dalle stesse formulazioni teoretiche in esso estrinsecatesi, egli infatti ricava la teoria di uno sviluppo ciclico del monto antico, su base biologica, naturalistica, rispetto al sistema «aperto», in progressione lineare, su base creativa, intenzionale (künstlich) del

mondo moderno ?^. | Nella definizione di questi diversi caratteri fondamentali, addirittura contrastanti sul piano dei sistemi storici, lo Schlegel riesce ad esprimersi con grande chiarezza. Ma nel contempo si pone in difficoltà di non poco conto, di cui egli stesso appare consapevole nel continuo richiamo alla essenza unitaria di tutta la storia («non si insisterà mai abbastanza nel richiedere alla storia la necessaria esigenza dell'unità» 25).

L'aporia che indubbiamente c’è, va chiarita nei termini in cui l'autore pone il problema. Innanzitutto: perché i Greci? Chi sono i Greci? In che posizione vanno messi i Romani, dal momento che lo svolgimento ciclico rinchiude in sé anche questi? Che unità ne risulta? I Greci si trovano al principio del quadro della civiltà antica per lo stesso motivo per cui detta civiltà si pone al confronto con la moderna come distinzione tra un ciclo chiuso, e quindi sostanzialmente non più progrediente, e uno sviluppo sempre aperto: «I Greci partirono dal primo gradino senza tuttavia raggiungere il sommo» 26. Ne & specchio la letteratura, l’espressione cioè più diretta dello «spirito», che come tale è «vera storia» di

un popolo, in testimonianze che sono tra le piü significative: Omero, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Platone. Questi autori di tanto esprimono 1 connotati positivi, rispetto al loro mondo, di quanto ne segnano anche i limiti. Infatti, se la poesia di Omero «si configura in un tutto che soddisfa completamente la capacità di immaginazione», peraltro essa, resta un fatto «parziale», non plenamente universale, perché «generata dalla natura e non dalla libertà» 27. Il giovane Schlegel assume cosi e fa suo il postulato kantiano del primato della ragion pratica, quella che pone a se stessa le scelte dell'agire secondo leggi morali, e lo trasferisce sul piano dello sviluppo storico. E difatti Erodoto, se «soddisfa la ragione teoretica, offende la ragion pratica» perché, ancorché «allacci il particolare ad un intero concluso, tutto deducendo dalla necessità», vi inserisce «con una

troppo prematura intromissione... un avverso destino» 28, In altre parole, questo «padre della storia» è troppo naturalisticamente determinista. Tucidide riesce a dare unitarietà alla sua storia, perché, «dà un ordine perfetto, mediante

norme, al molteplice», ma non riesce a «portare ad un’assoluta completezza ciò che è stato ordinato secondo tali norme» e questa limitatezza sarebbe dovuta alla sua inerenza «al sistema del ciclo senza fine», non postulando quindi alcun 158

progresso. Senofonte, a sua volta, di cui lo Schlegel tiene presenti soprattutto, evidentemente, gli scritti moralistici e didascalici, giusto il più diffuso uso scolastico, sarebbe riuscito a proporre una «prestabilita armonia tra bontà etica e beatitudine, sia nella vita di singoli individui che nella storia di interi popoli», ma per finire con l'offendere «i diritti dell'intelletto», in quanto «postula intenzioni come cause prime e mescolando invenzione poetica e verità, piega violentemente al suo scopo i fatti compiuti dell'esperienza»: il che sarebbe anche un'osservazione acuta, se l'incongruenza denunciata anziché al «momento poetico» fosse stata attribuita a un altro circolo chiuso, quello che si stabilisce negli scritti senofontei fra norma ed esperienza, col trarre dalla seconda validità alla prima e non viceversa. Quanto a Platone, con la sua ideazione d'uno Stato modello, come «futura possibile storia», avrebbe «offeso l'intelletto e la ragione teoretica» perché ogni esemplare proposto in termini di staticità, e non di sviluppo (cioè di progresso) è un zonstrum che bloccherebbe la storia come tale. A Platone lo Schlegel riconosce nondimeno di avere «giustamente avvertito il bisogno della ragion pratica» 2. Si ἃ citato abbastanza per avvertire come a contrapporre il mondo antico al moderno sia soprattutto per lo Schlegel la mancata consapevolezza nel primo del progresso storico, l'incatenamento al concetto naturalistico della parabola chiusa che é effettivamente la grande discriminante, essendo il concetto di progresso frutto soprattutto del razionalismo illuministico fatto proprio dal Romanticismo. Ma la vera difficoltà non deriva tanto dall'aver constatato questa differenziazione, quanto dall'aver assunto a metro di valutazione storica, di tutta la storia (e quin-

di sottolineando i limiti per questo rispetto non superati dagli antichi), il concetto del progredire infinito, nel momento stesso in cui lo Schlegel riconosceva, anzi postulava, come solo attraverso la concezione naturalistica loro propria fossé possibile conoscere veramente e comprendere gli antichi. In altre parole, per tal via veniva tolta capacità omnicomprensiva anche al moderno sistema aperto: anzi si sottolineava la sua intrinseca impossibilità di arrivare a una qualsiasi perfezione che come tale boccherebbe ogni progredire. Egli dice pertanto: «non c’è nulla di più semplice che interpretare la storia di un popolo secondo il proprio modo di pensare.... il sistema della circolarità-raffigurato in forma, ora determinata, ora indeterminata-non solo era proprio la visione dei maggiori storiografi greci e romani, ma era addirittura la generale concezione del popolo» 3°. Ma nel contempo: «se la nostra storia deve rimanere sempre incompiuta, la nostra meta irraggiungibile e quindi la nostra aspirazione inappagata, pure tale meta rimane infinitamente grande» ?!. Tanto & infinitamente grande questa meta che non & definibile e quindi di per se dovrebbe essere inetta a spiegare se stessa così come, conseguentemente, a collocarsi rispetto agli antichi. Ma sono aporie queste,

che come si noterà, il giovane Schlegel assimilava da posizioni teoretiche dominanti. Resta a-lui la forte tensione, sentita come ragione di chiarezza esistenziale, nel cercare di dare definizione dei caratteri degli antichi per trovarvi le moti-

vazioni di universalità e quindi di attualità, come un bene irrinunciabile. Una volta colto nei pensatori e storici greci, oltre che in Omero, l'autodefi-

nizione di quel popolo, bisognava anche, come si è già rilevato, chiarire il loro 159

rapporto col mondo romano. Presso i Greci si erano espressi i termini stessi del concetto parabolico, del circolo di sviluppo chiuso. Allora i Romani furono soltanto una loro appendice? In parte si e in parte non solo questo. Quel rapporto era anch'esso oggetto di dispute nella cultura del tempo (basti citare il caso della polemica fra Piranesi, Le Roy e Mariette) ed è rimasto aperto anche nella filologia del secolo successivo e oltre (fino al Leo e al Fränkel). Ma nell’assunzione del la grecità come momento privilegiato della storia antica, in quanto pià aderente all'autenticità del naturale (grazie soprattutto ad Omero e alla riscoperta winckelmanniana), era naturale che la posizione dei Romani andasse chiarita. Nella concezione dell'unitarietà del mondo classico lo Schlegel cosi dunque collocava i Romani: «la civiltà greco-romana rappresenta un tutto dal quale non si possono scindere i Romani (il cui carattere originario era certo barbarico, ma non senza qualche ellenismo nel linguaggio, nella religione, nelle usanze, nei costumi (e qz Schlegel faceva sue certe tesi di Dionigi di Alicarnasso), innanzitutto perché essi imitarono e nello stesso tempo continuarono la civiltà greca loro tramandata nella poesia, nelle scienze, nell'arte militare, ed in secondo luogo perché colmaro-

no, in uno stile originale, pur seguendo i principi greci, l'unica lacuna della cultura greca, altrimenti perfetta: i Greci avevano offerto solo alcuni incompiuti esperimenti per la soluzione del compito di estendere a tutti i popoli in modo cosmopolitico l'arte della legislazione e della libera comunità, mentre invece i Romani raggiunsero in ciò un massimo di evoluzione naturale, e questa grande tendenza non é stata senza influsso sull'eloquenza, sull'arte storica, sullo spirito, sui costumi, sul senso della societas dei Romani» 52.

Si sono qui volutamente spazieggate alcune espressioni perché esse sono la chiave per intendere il senso storico e ideale attribuito dallo Schlegel all'unità del mondo greco-romano, in una visione che superava ogni eccesso nel privilegiare i Greci. Per un verso infatti egli faceva una netta subordinazione culturale dei Romani rispetto ai Greci, in quanto i primi sarebbero stati dei barbari raddolciti da ingredienti ellenici e in quanto imitatori e quindi continuatori della civiltà greca. Ma per altro verso essi avrebbero avuto il merito di dare un aspetto integrativo dei caratteri stessi della ciclicità formulata dai Greci, là dove questi avrebbero lasciato una lacuna non indifferente al fine della caratterizzazione di tutto il mondo antico, cioé nella capacità di estendere in ambito cosmopolitico, ossia universale, il fatto politico, la societas, con riflessi in tutte le altre manife-

stazioni dello spirito. Ed & perció che anche grazie ai Romani il mondo antico rappresentò nella sua interezza «un massimo di evoluzione naturale» 33. Naturale, perché nell'ambito dello sviluppo tipico del mondo antico. Entro lo schema circolare tutto si svolge in termini di ascesa e di decadimento, in nessi inscindibili fra scienza, arte ed etica: «perfino la scienza, — osserva lo Schlegel — che pure sembra avere una disposizione naturale all'infinito perfezionamento assume qui il carattere dell'arte e ci offre inconfondibilmente, nei loro diversi stili, i gradi della cultura etica naturale, benché la gradualità, a causa del diverso rapporto del privato con la massa, sia spostata; & anche evidente come per il decadere dei costumi, anch'essa finisse col decadere, nonostante la dovizia dei mezzi ausiliari ed il pià vivo incoraggiamento, poiché la corruzione col160

pi dapprima soltanto gli elementi complementari della filosofia (il suo rapporto con lo Stato, con i costumi, la sua raffigurazione), poi l'intonazione e l'orientamento della stessa filosofia (come avvenne nell’esagerato rigore dei cinici, nell’unilateralità degli stoici e degli epicurei) ed in ultimo perfino l’integrità dell'intelletto che regredi a forme di puerile ingenuità» ?^.

E chiaro dunque che lo Schlegel non recepisce l'esaltazione del classico antico, e in particolare dei Greci, in semplice chiave di genuinità del primitivo, ma vede in questa genuinitàun momento di immaturità o di decadenza, secondo appunto legge di natura, destinando alla maturità il vertice di espressione della individualità vera e propria dell’antico; nel circolo naturalistico il punto più alto non è dato allora dal momento più semplice, più genuino, ma da quello più illuminato da ragione e anche da libertà. Egli infatti ritiene di superare l'evidente incongruenza storicizzando quel vertice; relegandone il valore entro e non al di là del circolo chiuso («non un massimo assoluto, qual è la meta della storia moderna, e che non si può tuttavia riscontrare in nessuna storia e in nessun’opera

— ma il più alto possibile nel sistema della circolarità, un massimo nella civiltà naturale; dunque un massimo relativo» 5. Ma il dubbio gli resta e la difficoltà è indicata: «il momento più arduo da dimostrare — riflette lo Schlegel — &, infine, che ci fu un grado della antica civiltà in cui nella massa la libertà prevalse sulla natura, vale a dire il grado dell'entusiasmo che, quasi in un improvviso slancio, si strappó alla tutela della natura, raggiungendo la vetta dell’autonomia, giacché quest’affermazione è il risultato di giudizi tetici. Se si dovesse trovare un uomo capace di negare questo grado della civiltà antica, in cui l'arte si innalzó ad ideale, i costumi a nobiltà e

autonomia, l'amicizia ad entusiasmo quasi divino, la filosofia a saggezza, lo Stato a libero ordinamento, allora rinunceró di buon grado al vantaggio di poter rendere soggetta o spregevole la purezza del suo giudizio e del suo sentimento, la genuina disposizione del suo animo, ed al posto di questa difesa a buon mercato ammireró la sua bravura, sempre peró che egli riesca a non lasciare del tutto inesplicabili i nudi fatti della storia classica» 56. Ma quali sono i caratteri costitutivi di questo «massimo» raggiunto dalla civiltà classica? Ecco comelo Schlegel li individua: «sebbene la storia antica non soddisfi la ragion pratica e solo congiunta col sistema dell'infinito perfezionamento essa formi un perfetto tutto, pure possiede un maggior grado di conoscenza dell'uomo ‘intero’, anziché l'incompiuta storia moderna, perché nel suo

più libero e conchiuso sviluppo si può conoscere nel migliore dei modi un essere operante, mentre invece per effetto della consapevolezza e della intenzionalità il libero corso dello sviluppo viene impedito e la schietta intonazione e inclinazione della natura sviate» 57, Qual & dunque il vantaggio del circolo chiuso rispetto alla linea aperta? Proprio quel raggiungimento di un punto di completezza che non solo é inerente allo stesso sviluppo naturalistico ma che per essere tale non può non includere anche il momento libertario, creativo, al punto che lo Schlegel è portato a precisare: «la storia antica però non è soltanto lo specchio della natura, il manuale del filosofo, ma anche una fonte inesauribile di godimento

puramente umano... un piacere che nella realtà puó incontrarsi solo commisto, 161

ma che ha un valore assoluto in quanto il suo oggetto ἃ il generalmente valido e il puro, poiché l'appagamento del puro istinto mediante il piacere immediato, il bello, soddisfa un'originaria parte del fine dell'uomo, ed ha quindi valore assoluto...» 38. E dunque: «la ragione della suprema bellezza della vita e delle opere degli antichi è che in essa libera pienezza e attiva forza si dividono con netta. precisione e si congiungono in un ordine delicato ma saldo, si sviluppano movendo da un'origine verso una meta, in una fluente ma intima connessione, e si formano in grandi masse, in un tutto autonomo e in sé concluso» ?9. Due punti emergono: 1° il prototipo di umanità al culmine della civiltà antica offre un così alto godimento, che «qualsiasi altro potrebbe sembrare prosaico al suo confronto»; 2° che questa assolutezza non è un qualcosa di statico, di tirato fuori dal contenuto vitale, di astratto: «seppure il distinguere i tre aspetti dell’assoluto valore dello studio degli antichi può aiutare a determinarli, non si pensi che conoscenza, godimento, imitazione degli antichi siano separati anche nella realtà, o che ognuna di queste capacità non possa essere perfetta e in sè conchiusa. E sempre lo stesso ed unico ciò che ha valore assoluto in tutt'e tre: il senso della partecipazione, il concetto della specie nel considerare la verità, la bellezza, la bontà. Pluralità, unità, universalità, in libera legittima comunione: i tre originari elementi della libertà, le tre semplici ed essenziali componenti dell’uomo» 40, Il carattere di fondo dell'umanesimo antico si configurerebbe dunque nell’avere attuato entro l'ambito dello schema naturalistico il massimo della libera, e quindi aperta, partecipata espressione creativa. Alcuni capoversi prima lo Schlegel aveva definito così i caratteri distintivi di una storia, e quindi di un popolo civile rispetto ai barbari: «la superiore unità della ragione può rinvenirsi solo là dove la compiuta civiltà di un’intera massa si è sottratta alla natura elevandosi ad autonomia» “1; ed è su questa base che si procede anche alla distinzione tra «civiltà originale e civiltà imitata, tra completa ed unilaterale, pubblica e individuale, tra autonomia della medesima e favorevole evoluzione con

l'ausilio della natura...» ^^. Tutte queste premesse-condizioni stanno alla base della maturazione della civiltà antica, del raggiungimento di quei vertici per cui «nella storia dei Greci e dei Romani gli stadi della civiltà sono perfettamente definiti, le pure specie nette e assolute, l’individuo così audace e compiuto da rappresentare l’ideale della sua specie, il Greco è l'uomo κατ᾽ ἐξοχήν, le ragioni semplici, l’unità totale,

l'ordine fluido, le masse grandi e semplici, il ‘tutto’ perfetto. Essa è il commentario della filosofia,

l'eterno

codice

dell'animo

umano,

una

storia naturale

dell'uomo etico e spirituale» 9. Poco prima # lo Schlegel aveva detto che era necessaria «un'analisi circostanziata del concetto di umanità» per stabilire se la civiltà antica «fosse perfetta o avesse una dimensione assoluta», ma ora & risultato che questa analisi ha ricavato proprio da quella storia quel concetto. E se questo concetto é di valore universale il circolo chiuso in cui & espresso & anch'esso di valore universale, cioé inerente a tutta la storia come tale. L'universalità della storia (e quindi la sua totalità, comprensiva dell'antico e del moder-

no) ha invero due aspetti, uno concettuale e uno dei fatti. Quello concenttuale riguarda il «fine», la realizzazione dell'umano: «il fine dell'uomo ἃ riconoscere il 162

giusto, operare il bene, godere il bello, stabilire l'armonia tra pensiero, attività, sensibilità». In ció si risolve la storia stessa dell'umanità: «la conoscenza del puro uomo — la pura etica e psicologia — ha quindi valore assoluto, esattamente come quella dell'uomo intero, nella sua completezza: & la storia appunto dell'umanità» 45. Ma allora qual ὃ il vero rapporto fra antico e moderno? Si riduce proprio solo alla diversità dello schematismo fra sistema a circolo chiuso e sistema lineare aperto? In che misura ὃ valida questa distinzione nella pur inevitabile e addirittura ricercata comunicabilità fra i due mondi? Sul piano dei fatti il mondo antico, definito circolare, viene presentato come necessaria premessa del moderno: «la storia antica si potrebbe considerare come la prima parte della storia dell'umanità, e la storia europea moderna come la seconda parte ancora incompiuta» 46. Lo Schlegel affaccia una possibile distinzione su base empirica circa le differenti espressioni religiose: «il sistema antico ed il moderno si scindono più nettamente là dove al posto delle religioni nazionali è subentrata una religione universale (1{ cristianesimo), poiché la fede è il

primo e il supremo momento sia della civiltà naturale, come mito, che di quella consapevole d’un fine, come dogma»: una distinzione dunque nell’ambito di una comune premessa, e difatti: «i due sistemi tuttavia non possono essere conside-

rati singolarmente e separatamente: essi sono intimamente connessi (infatti il moderno fu possibile soltanto dopo l’antico ed allora necessario)». Addirittura: «in un certo senso il sistema antico continua ancora...» ‘7. Il fatto fondamentale, donde nasce l’aporia, è che se nell’ambito della tota-

lità storica la storia antica ha raggiunto un suo maximum di universalità, questo maximum proprio perché inerente all'umanità come tale, alla sua essenza e quindi ai suoi fini, non può non presentarsi come momento non concluso ma attivo davanti alla storia moderna. E difatti lo Schlegel scrive: «la forma primitiva dell’umanità al culmine della civiltà antica è l’unico possibile fondamento di tutta la civiltà moderna: una legge visibile che, in quanto infinitamente definita, ha più contenuto della vuota legge, ma in quanto limitata e particolare, ha meno contenuto della pura legge» 48, Questa indicazione è importante perché assai bene rivela l'ambiguità della prospezione: ribadisce la limitazione dell’antico entro la sua circolarità, ma nel contempo ne propone una basilarità che trascende quel circolo e si perpetua nella linearità del moderno. D’altra parte se gli antichi per parte loro raggiunsero un loro zaximun, il moderno, per la sua caratteristica di linearità sempre aperta non solo non può raggiungere mai un zaximum in assoluto, ma nemmeno, a differenza dagli antichi, un proprio maximum. Questo Schlegel non lo dice, ma in effetti & proprio questa la chiave per giustificare un rivolgersi al «valore» degli antichi, sia in termini di differenziazione sia in termini di possibile assimilazione. Sul piano della differenziazione lo Schlegel dà delle indicazioni molto pertinenti con l’osservare: «anche la scala dei valori delle scienze filosofiche in Grecia dà adito a rilevanti osservazioni. Nella cultura della civiltà moderna le branchie della filosofia si succedono nel seguente ordine: logica, fisica, etica, e in quest’ultima, estetica, morale, politica. Nella cultura della civiltà classica inve163

ce: fisica, etica, logica, e nell'etica, politica, morale, estetica...Entrambi le filo-

sofie, l'antica e la moderna, partono dalla fede: dal mito o dal dogma; quest'ultimo in certo modo è un mito razionalizzato e intenzionale [£ärstlich], mentre il

primo era opera della natura; ed in entrambi la fisica è più antica dell'etica, la più antica etica è fisica, ma la più antica fisica è etica, vale a dire metafisica o ‘iperfisica’» *?. Fatta la distinzione, ne risultano quindi anche i collegamenti, collegamenti che non possono essere solo estrinseci, ma anche intrinseci, tanto è

vero che a un certo punto si dice: «la ragione ci dà la meta, l’intelletto le discipline; si vuol certo vivere secondo leggi e concetti, ma è impossibile vivere di essi se non si integrano con l’esperienza, se buona volontà e buoni propositi non si attuano con validi e nobili affetti, se giuste leggi e giusti concetti non si completano con giuste e compiute opinioni. Questi elementi positivi ci vengono dalla storia classica, il loro orientamento dalla moderna» 59,

Così, di fronte alle due opposte posizioni dei negatori di una vitalità dei moderni («l'immagine primitiva dei tempi passati non può più rinfrancare l'umanità, ma al massimo torturarla con la consapevolezza della propria attuale abiezione») e di quelli che ritengono inattuale ogni richiamo al passato («la civiltà della nostra epoca ha già raggiunto un così alto grado che non ne ha più bisogno» ?!) il giovane Schlegel riteneva non solo di riaffermare la perenne vitalità degli antichi, ma, all’uopo, dare a questa

vitalità un rapporto col moderno che

non fosse di imitazione sterile, ma di fonte di così rara tra noi, e quella falsa è così comune, da una presuntuosa teoria dogmatica e da una nalità. Vera imitazione non vuol dire artefatta re, nè predominio esercitato dalla grandezza

ispirazione: «la vera imitazione è che la prima è unitamente negata boriosa e cerebrale mania di origiriproduzione della forma esterioe dalla forza sugli animi deboli:

imitare vuol dire appropriarsi lo spirito, il vero, il bello, il buono, con amore,

comprensione, forza operosa; appropriarsi la libertà» 52, E dava degli esempi: «il filosofo riconoscerà certo in Socrate un altissimo prototipo nei costumi, nella capacità di comunicare, e nel rapporto tra la sua dottrina e l’intero animo, la vita privata e pubblica, ed in questa considerazione assimilerà la perfezione di quel filosofo nel suo supremo stile, ma non ne seguirà le opinioni senza averle prima analizzate, e nemmeno imiterà la sua peculiarità» 5. E così via: il legislatore guarderà a Sparta, Atene, Roma cercando di ricongiungere «in un tutto l’intimo senso della comunità, la libera legalità, la forza e la civiltà cosmopolitica», il poe-

ta comico, guarderà ad Aristofane decantando «il proprio genere solo attraverso lo stile di Sofocle ai fini dell’ideale della vis comica» e il cittadino che si trova a vivere in uno Stato in preda a disordine «riunirà in sè la levità di Timoleonte e l'incrollabile forza di Catone». Sembrano riferimenti alquanto scolastici, ma emerge chiaramente la preoccupazione di dare forza a questa sentita esigenza di riproporre la civiltà antica ai fini di un rinvigorimento del mondo contemporaneo, di qui il suo «valore», la necessità del suo studio, esigenza di cui fa parte il rifiuto di ogni pedissequa imitazione che mortifica sia l’antico sia il moderno. Ciò è possibile solo presentando il mondo antico come mondo in cui si sono affermati valori universali: «lo studio dei Greci e dei Romani è una scuola di grandezza, nobiltà, bontà, bellez164

za, una scuola dell'umanità; qui devi attingere di nuovo libera pienezza, viva forza, semplicità, armonia, concordia, perfezione, che l'arte ancora rozza della civiltà moderna ha limitato, mutilato, confuso, fuorviato, spezzato, rovinato.

Appropriatene intimamente e, se vuoi amare gli antichi, sii come loro, fà che non soltanto i tuoi scritti e i tuoi discorsi, ma anche l'originaria impronta della tua vita sia testimonianza del loro grande stile!» 55, Questo scritto giovanile dello Schlegel ci porta dunque nel vivo dei problemi che animarono la cultura, soprattutto quella tedesca, del secondo versante del XVIII secolo. In essa il problema del significato dello studio dei classici ebbe un ruolo primario, non trattandosi più di una disputa semplicemente letteraria come ai tempi della «Querelle». Il discorso ineriva al grande tema della individuazione dei valori universali della storia dell'umanità, resi emergenti proprio nel maturare delle coscienze nazionali. La visione universalistica della storia umana infatti promanava da postulati razionalistici ma cercava più concrete individuazioni nelle singole esperienze tanto più genuine quanto più comprensive della totalità dell’uomo e della storia, con tutti i suoi ingredienti spontaneistici e naturalistici. Così si veniva anche a rompere lo schematismo paradigmatico con cui si era perpetuata la tradizione umanistica basata sul patrimonio dell’antichità classica. Erano istanze assolutamente «moderne» che suggetivano il ripensamento sugli antichi. E il moderno voleva dire novità, rottura di schemi, rispon-

denze più sentite. La civiltà antica veniva era coinvolta in questo moto di rigenerazione proprio perché avendo essa postulato la ciclicità storica, le nascite e i decadimenti, offriva anche i modelli dell’originalità e della vitalità. Nell’esigenza di creare una «Bildung» innovatrice il capovolgimento verso la integrazione del momento razionalistico con quello naturalistico e viceversa riproponeva un modello che per aver espresso tanta creatività non poteva non presentarsi come assimilabile (l'imitazione creatrice prospettata dallo Schlegel). Lo scritto in questione potrebbe essere preso solo come tentativo ancora acerbo di dare sistematicità al problema e alla rèlativa risposta, non senza una qualche presunzione tipica del carattere del giovane Friedrich (Hermann lo detestava perché «is tanta arrogantia est, ut summos in quovis litterarum genere viros spernat, Garvium, Lessingium, Kantium aliosque» 5). Ma si tratta di un

momento particolarmente impegnativo dello Schlegel, un momento in cui egli, grazie anche alle letture, fortemente assimilate, del Fichte di quegli anni 57, af-

fonda la disamina nella ricerca del costruttivo. Pertanto le idee sostenute nel saggio in questione rimasero basiliari, in sostanza, anche negli scritti successivi di argomento classico e letterario (in particolare nel saggio Uber das Studium der griech. Poesie del 1797 58). Ma, va ripetuto, sono idee che rispondono in pieno al dibattito fondamentale di quegli anni. Herder conduceva la sua battaglia contro lo studio eccessivo del latino che dominava in modo asfittico scuole inferiori e superiori, università, accademie,

seminari, nella esigenza di ridare aria fresca e quindi di attingere vieppiù alla genuinità delle lingue nazionali5°: conosceva poco il greco, come Schiller, ma cionondimeno nelle Ideez aveva scritto: «noi abbiamo consideratola storia di que165

΄

sta contrada (la Grecia) straordinaria da parecchi punti di vista, poiché essa co-

stituisce in un certo senso, per la filosofia della storia, un dato di importanza unica fra tutti i popoli della terra» 99. In altre parole i caratteri costitutivi del genuino, condizione prima del risveglio del moderno, potevano essere evidenziati ed esaltati solo attraverso prototipi consolidati, di cui la civiltà classica era la più ricca ©.

Il punto delicato, in effetti mai del tutto superato dalla letteratura neoumanistica della «Goethezeit», era come conciliare questa esaltazione del passato classico, nelle sue forme più creative, con una prospezione che tendeva a giustificare la storia solo in chiave di continua evoluzione verso destini la cui meta era tanto più di avanzamento quanto più irraggiungibile 62, Proprio per la acerbità delle formulazioni, nessuno quanto il giovane Schlegel del Wert sullo studio dei Greci e dei Romani ha reso palese questa aporia costituzionale di tutta una cultura, evidenziando la contrapposizione storiologica dei due mondi e nello stesso tempo ribadendo l’irrinunciabilità dell’assimilazione del «punto più alto» del mondo antico (superando anche la riduzione di questo, sostanzialmente operante anche nello Humboldt, peculiarmente al mondo greco).

1 Il saggio è stato pubblicato solo nel 1892 nel vol. 143, della collezione della «Deutsche National-Litteratur» del Kürschner, a cura di O.F. Walzel, pp. 245-269. 2 Questi Prolegomena furono pubblicati postumi da Stockmann, nel volume della Fr. Aug. Wolf's Encyklopädie der Philologie, Leipzig 1831, p. 4a. ? Ved. S. REITER, FrA. Wolf und Fr. Schlegel, in «Euphorion» XXIII, 1920, pp. 226 ss. dove

è pubblicata anche una lettera inedita di Wolf a Schlegel dell'8 giugno 1798, piena di espressioni di stima ed amicizia. 4 Ved. V. SANTOLI, Filologia, storia e filosofia nel pensiero di F. Schlegel, in «Civiltà moderna» II, 1930, ora in Ip., Fra Germania e Italia, Firenze 1962, p. 239. ? C. Justı, Winckelmann und seine Zeitgenossen, vol. IP, Leipzig 1923, p. 421. 6 Briefe, ed. W.Rehm-H. Diepolder, Berlin 1954 II, p. 112, nr. 381. 7 Ved. SantOLI, I Greci di Federico Schlegel, in Fra Germania e Italia cit. pp. 163 e 166. 8 In Sämtliche Werke, ed. B. Suphan, Berlin 1877, ss. B. 8, p. 475. ? Ved. A. Scnuzz, Die Kassler Lobschriften auf Winckelmann, Jahresgabe 1963 der Winckelmann Gesellschaft, Stendal-Berlin 1963, p. 34 s. 10 Ved. A. BERNARDINI, Storia e scienza dell’antichità in F.A. Wolf, in «Riv. filol. e istr. class.» n.s. III, 1925, pp. 330 ss., E SANTOLI, Fra Germania e Italia cit., p. 241 ss.

1 Prolegomena ed. cit. p. 4a; cfr. BERNARDINI, .c., p. 306 s. 12 Ibid. p. 9; BERNARDINI, p. 313. 13 14 5 16 qualche

166

BERNARDINI, p. 320. Werke, ed. cit. B. 2., p. 357. In Encyclopädie und Methodologie der philol. Wissenschaften, Leipzig 1877, p. 21. p. 247 ed. cit.; cfr. SANTOLI, vol. cit. p. 165: il Santoli è il solo studioso che abbia dedicato pagina all'esame del saggio qui esaminato (/b., pp. 165-169).

17 ed. cit. p. 249. 18 Ibidem.

19 jb. p.251. 20 Ibidem. A Ibidem. 7 Ib. p. 247 s.

2 Ib. p. 250. 24 Circa la formulazione della circolarità degli antichi e i presupposti winckelmanniani, v. SANTOLI, 0.c., p. 168: «lo Schlegel poneva, dunque, una differenza fondamentale fra il classico e il

progressivo, riprendendo su un piano diverso e superiore, su un piano inizialmente storico, la questione dell'eccellenza degli Antichi o dei Moderni, che ha le sue primi origini nell'Umanesimo». > Ed. cit. p. 247.

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26 Ib. p. 253 s.

> Ib. p. 266. 56 G, Hermanns lateinische Briefe an seinen Freund Volkmann, herausgeg. v. A.B. Volkmann, Heidelberg 1882, p. 22. | 57 La lettura di Fichte fu importante negli anni di Dresda, in particolare il Beitrag sulla rivoluzione francese, 1793, e il saggio sulle Bestirzmmungen des Gelehrten del 1794: cfr. J. KRÜGER, Fr. Schlegels Bekerung zu Lessing, Weimar

1913, p. 31.

58. Si legge in tale saggio che i Greci non cercavano di rappresentare il casuale ma l'essenziale e il necessario, tendevano non all'individuale ma all'universale, a «ció che & veramente divino: la pià pura umanità»: Prosaischen Jugendschriften, ed. J. Minor, Wien 1882 (rist. 1906) I, p. 126. >” Rimando al mio scritto, Herder e i «Ginnasi del latino», in «Il Veltro», XXI, 1977, pp. 3 ss. 60 Ideen, III, 1.XIII, c.VII, p. 6 del vol. XIV dei Werke, ed. cit. 61 «Nella imitazione ‘schietta’ dei Greci Schlegel si prefigge una via di uscita dal presente frantumato e disintegrato, la possibilità del superamento dell'assolutezza illuministica dell'intel-

letto e della ragione e il ristabilimento dell'armonia e della completezza greche per creare nel suo 167

tempo una totalità simile ai Greci, una nuova età della educazione armonica»: CL. ΜΕΝΖΕ, Der Bildungsbegriff des jungen Fr. Schlegel, Ratingen 1964, p. 8 s.

€ La più moderna contrapposizione fra concezione «circolare» del tempo presso gli antichi e la «linearità» della concezione giudaico-cristiana e quindi storicistica, per la cui bibliografia e sui cui limiti, v. S. MAZZARINO, I/ pensiero storico classico, vol. III, Bari 1966, pp. 412 ss., ma cfr. an-

che E. Corsi, Apocalittica e storiografia cristiana, nel volume (AA.VV) Mondo classico e cristianesimo, Roma 1983, p. 125 s., in parte riprende i presupposti teoretici presenti nello Schlegel, in parte ne sposta la tematica. Ma la problematica di fondo resta sempre nella contrapposizione fra conce-

zione parabolica (che non eslucde rinascite, anzi le postula) e concezione progressista della storia umana.

168

SUICIDIO EROICO E SUICIDIO POLITICO. IL CASO DEL NOMOTETA GRECO ARCAICO LuIci

PICCIRILLI

Alcuni fra i più illustri nomoteti avrebbero posto fine volontariamente alla propria vita; fra essi le fonti annoveravano Licurgo, Caronda, Diocle e Zaleuco. Di quest "ultimo, però, si tramanda anche la notizia secondo cui egli sarebbe caduto in battaglia, combattendo per la patria 1. Quanto poi alla morte di Licurgo, benché Tertulliano ? affermi che il legislatore lacedemone si lasciò morire di fame, perché gli Spartani avevano emendato le sue leggi, la motivazione nota alla maggior parte degli scrittori antichi ? e risalente a Eforo * era, tuttavia, diversa: il nomoteta avrebbe posto fine ai suoi giorni, per impedire che i suoi concittadini mutassero la costituzione; essi avevano giurato infatti di non apportarvi modifiche finché Licurgo non fosse ritornato in patria. Ma questi, avuta conferma da Delfi che le sue leggi erano buone ed efficaci per la prosperità e la virtà della città, decise di non sciogliere pià gli Spartani dal giuramento, lasciandosi morire 5. Licurgo dunque avrebbe affrontato il suicidio lontano dalla patria nella convinzione che un uomo di stato ha il dovere di essere utile al proprio paese anche con il supremo sacrificio di sé stesso: con tale atto egli garantiva ai propri concittadini, impegnati a osservare le sue leggi fino al suo ritorno, la durata dei beni che aveva loro procurato $ Questa motivazione, di cui ovviamente non è possibile stabilirela storicità,

ricorda quella della morte di un altro nomoteta, Caronda, il qale si sarebbe ucciso per fornire un esempio di assoluta obbedienza alle leggi vigenti. Il codice del legislatore di Katane vietava, a quanto pare, sotto pena di morte d’intervenire armati all’assemblea popolare; ma, avendo egli partecipato a essa inavvedutamente senza deporre le armi, si trafisse con la propria spada per non venir meno alla legge da lui stesso stabilita 7. Diodoro 8, che è una delle fonti dell’episodio ricordato, sostiene che, a dire di alcuni, in tale circostanza si tolse la vita non Caronda, bensì Diocle; una fonte tarda, invece, riferisce l'aneddoto a Zaleuco 3.

Un cenno esplicativo merita tuttavia la legge appena menzionata, in ossequio alla quale i tre nomoteti si sarebbero uccisi: i codici greci arcaici vietavano categoricamente d’intervenire armati all’assemblea popolare; una norma questa comune anche alla legislazione spartana e della quale Plutarco !? fornisce un singolare aition: in seguito al ferimento di Licurgo da parte di Alcandro, i Lacedemoni persero l'abitudine di recarsi all'assemblea con il bastone. Come altrove si è tentato di dimostrare !!, l'episodio dell’accecamento del legislatore spartano, che lo scrittore di Cheronea (o la sua fonte) presenta come un avvenimento della

vita di Licurgo, è in realtà un mito offerto quale modello al giovane spartiata che si sottoponeva all’agoge, la quale drammatizzava, mediante un processo d’inver169

sione, il momento in cui il giovane lacedemone abbandonava definitivamente la vita d'infanzia. Avendo superato lo stadio del «disordine», nel quale era in preda al furor, il neo-guerriero entrava a far parte a pieno titolo del damos. E poiché questo costituiva il consesso degli bomoioi, degli iniziati, ed era caratterizzato dall’«ordine», appare logico che fosse interdetto prendervi parte armati. Ciò spiega il motivo per il quale non solo agli Spartani, ma anche ai Catanesi, ai Siracusani e ai Locresi Epizefiri fosse vietato intervenire in armi all’assemblea popolare, come appunto si evince dall’episodio del ferimento di Licurgo e da quelli relativi a Caronda, Diocle e Zaleuco. La leggenda dei tre nomoteti (Caronda, Diocle e Zaleuco), che si sarebbero

uccisi per sanzionare la propria legge, intende affermare non solo il divieto di presentarsi armati all’assemblea, ma anche il rigoroso e antico principio, comune alla coscienza popolare e a tutti i codici, per il quale la sovranità assoluta dei r0moi non può essere sminuita né dall’ignoranza né dallo status del trasgressore né infineda alcun altro motivo 12. Questo principio, secondo il quale il nomoteta finisce con l’essere vittima del suo stesso codice che non può modificare nel proprio interesse, senza mettere in discussione l’osservanza delle leggi da lui stesso promulgate e senza venir meno al prestigio di cui gode agli occhi dei suoi concittadini, si riscontra in un altro episodio che tende a illustrare la punizione del moichos con la perdita della vista. Zaleuco, non cedendo alle lusinghe dei Locresi di rimettere la pena al figlio colpevole di »zoicheia, avrebbe fatto cavare un occhio a quest’ultimo e uno a sé stesso, salvando così la vista del proprio figlio e l'integrità della legge da lui data ^. L’episodio che è un tentativo di razionalizzare, con argomenti plausibili per il lettore, la particolarità di un personaggio (Zaleuco), caratterizzato fin dalle origini come monoftalmo (proprio al pari di Licurgo), sottolinea il comportamento esemplare del legislatore dinanzi alla sovranità assoluta dei zomzoi. Comunque, anche quello di rimanere vittima delle proprie leggi è un fopos sia dei nomoteti sia degli uomini politici, assurto a motivo letterario, come dimostrano, oltre a quelli dei legislatori, gli esempi relativi all'oratore Licurgo, Pericle e Clistene 14. Se si eccettua Dracone, del quale la tradizione 15 conosce la morte violenta per soffocamento avvenuta accidentalmente in Egina a opera degli abitanti di quell’isola che intendevano manifestare la loro ammirazione, il suicidio (che si potrebbe definire con É. Durkheim, di tipo altruistico obbligatorio) 16 pare costituire dunque un fopos connesso soprattutto con quelle figure di legislatori, quali Licurgo, Zaleuco, Caronda e Diocle, la cui storicità è stata spesso oggetto di discussione. L’uccidersi infatti sembra conferire a questi personaggi un ulteriore tratto eroico, poiché — com’è noto — quello di mettere fine volontariamente alla propria esistenza era una delle caratteristiche diffuse fra gli eroi greci 17, Va da sé, tuttavia, che il suicidio non caratterizzò solo la figura del legislatore, in quanto eroe politico, ma anche quella del theios aner o del sophos: si pensi, p.es., a Pitagora che, secondo talune tradizioni 18, si lasciò morire a seguito di un prolungato e volontario digiuno.

170

1 Suida, s.v. Ζάλευκος (forse da Esichio di Mileto). ? Apol. 4,6 e 46,14. ? Nic. DAM., Exc. virt. I, p. 341,6 = FGrHlst 90 F 56,1; Prur., Lyc. 29,7 sg.; AELIAN., VH XIII, 23; Suida, s.v. Λυκοῦργος.

* La notizia del suicidio di Licurgo ἃ sicuramente riconducibile allo storico di Cuma: lo conferma Eliano, che lo menziona esplicitamente (VH XIII, 23 = FGrHist 70 F 175). > Prur., Lyc. 29,5-8, su cui vd. L. PICCIRILLI, in Plutarco, Le vite di Licurgo e di Numa, Mila-

no 1980, p. 284 sg.

6 Prur., Lyc. 29,8. ? Drop. XII, 19,1 sg.; Var. Max. VI, 5 ext. 4.

8 XII, 19,2, cfr. XIII, 33,3. ? EUSTATH., ad Il. I, 197, p. 83,18 sgg., ma vd. Suida, cit. alla nota nr. 1.

19 [ yc, 11,1-10.

11 L. PiccrRrILLI, Licurgo e Alcandro. Monoftalmia e origine dell'agoge spartana, in «Historia», XXX,

1981, pp. 1-10.

|

12 Cfr. C.F. Crıspo, Di Zaleuco e di alcuni tratti della civiltà locrese. IT, in «Arch. Luc.», VI, 1936, p. 244 sg. (= Contributo alla storia della più antica civiltà della Magna ma 1940, p. 122 sg.). 3 HERACLID. LEMB., Exc. pol. 61 Dilts, dove è da correggere μοιχός in luogo (cfr. K. MÜLLER, FHG II 221, XXX 3 nota), sulla base di Valerio Massimo (VI, 5 ext.

Stor. Cal. e Grecia, Rodi κλέπτων 3) ed Eliano

(VH XIII, 24). 14 AFELIAN., VH XIII, 24. 5 Suida, s.v. Apákov (da Esichio di Mileto, Onom. CCXXXII, p. 60 Flach = FHG IV 161

F 7,20).

16 Sociologia del suicidio, trad. it., Roma 1974, p. 273 sg. Il suicidio del nomoteta appare di tipo altruistico: egli infatti si uccide non in quanto se ne attribuisce il diritto, ma perché ne ha il dovere, e, poiché l'atto presenta il significato di compimento di un dovere, esso è appurito obbligatorio. 17 Cfr. A. BRELICH, Gli eroi greci, Roma 1958, pp. 88, 158, 197, 227.

18° DICAEARCH. ap. PORPHYR., VP 57 e ap.Droc. LAERT. VIII, 40 = F 35 a-b Wehrli?; HERACLID. LEMB. ap. Drioc. LAERT. VIII, 40 = FHG III 169 F 6 = Saryr. FHG III 162 F 10. Sui dati relativi alla morte di Pitagora, cfr. J.A. PHILIP, Pythagoras and Early Pythagoreanism («Phoenix» Suppl. VII), Toronto 1968, p. 191 sg.

171

PER

UNA

INTERPRETAZIONE FRANCESCO

STORICA

Paoro

DEL

DENARIUS

Rizzo

All’indomani della presa di Siracusa Marcello spediva nell'Urbe «ornamenla, signa tabulasque» !, dando in tal modo ai Romani come una misura plastica, oltre che splendida, dell'avvenimento storico stesso. L'esaltazione della «zaiestas populi Romani» e l' «initium mirandi graecarum artium opera», colti da Livio 2 come conseguenza di quell'irruzione di graecitas nel cuore di Roma, furono tutt'altro che semplici fattori di cambiamento psicologico e di costume, venendo al contrario ad incidere profondamente anche sulle prospettive politiche. L'allarme che quasi contemporaneamente l'ambasciatore acarnano Licisco lanciava alla gerousia spartana, parlando della «nube pericolosa» che «dall'occidente» ? veniva attirata sulla Grecia, era giustificato, oltre che dall'incidente dell'accordo etolico-romano, anche dalla nuova situazione di fondo che andava maturando in campo internazionale. Già nel 337/6, infatti, gli Acarnani stessi avevano sollecitato l'intervento romano contro Epiro e Macedonia *;4; tuttavia neppure gli Etoli, pur accusati da Licisco, si appellavano a questo precedente: chiaramente, il contesto politico del 23 7/6 era considerato diverso, essendo Roma allora attenta quasi esclusivamente al Mediterraneo occidentale. Non é necessario polemizzare sulla questione dell'imperialismo romano, quando basta individuare, a questo proposito, gli interessi che avevano fatto da contrappeso al richiamo acarnano: pensiamo alla guerra in Sardegna e Corsica ?, alla minaccia gallica incombente su Roma $, alla preoccupazione di non disturbare l’ equilibrio di forze nella penisola balcanica ?, ed ancora alla difficile stabilizzazione delle condizioni politiche (e diplomatiche) iin Sicilia8. Pure la πρώτη ἐπιπλοκή fra Roma e Grecia, di cui parla Polibio ? in riferimento ai fatti del 228 a.C., afferma indirettamente la distinzione dei due ambiti geopolitici, fra i quali veniva a stabilirsi il primo nodo di rapporto. Se è vero che il legame di «arzicitia» con l'occidentale regno di Gerone II aveva svegliato Roma ad una vocazione nuova, quella di trovare un posto nel concerto delle potenze ellenistiche 1°, è anche vero che il sopravvenuto assoggettamento di Siracusa veniva a ribaltare la tendenza che l'Urbe aveva fino a quel momento mostrato in modo inequivocabile, quella di rispettare le «autonomie» e di concorrere all’equilibrio del complesso sistema degli Stati ellenistici 11. Di questo nuovo atteggiamento di Roma la voluptas possidendi, provocata dall'abbagliante bottino siracusano, non poteva non essere componente di rilievo. Essa, infatti, andava a stimolare interessi economici legati alla politica di mercato e di scambi. Se la nascita del denarius dovesse collocarsi davvero in una simile temperie storica, avremmo, pertanto, la possibilità di cogliere una dimensione politico-economica significativa di questa moneta tipicamente romana. Tale prospettiva & incoraggiata dall'odierno orientamento della ricerca nu173

mismatica sulla cronologia del denarius: un'antica diatriba aveva contrapposto «tradizionalisti» (seguaci del Mommsen nella tendenza verso le date alte) e ribassisti, primo fra i quali il Mattingly 12; sono stati specialmente alcuni dati emersi recentemente dagli scavi di Serra Orlando 15 a determinare parziali rettifiche da parte degli stessi studiosi convinti della teoria ribassista !^, sicchè si è venuta sempre più affermando la cosiddetta «middle theory», nella quale si coglie ora una forte propensione a fissare l'inizio del denarius proprio nel 211 a.C. o poco prima. Le esitazioni della scuola italiana 15 nei confronti della perentorietà di questa tesi sono certo comprensibili, giacché non c’è certezza assoluta se non sull'esistenza di un ferzzinus ante quem, il 211 appunto. Ma proprio per questo motivo vale la pena di considerare con attenzione tutti quegli elementi che valgano ad attenuare il dubbio in cui si dibatte tale questione. Occorre, anzitutto, cogliere il nesso esistente fra l'evento del denarius e l’esigenza emergente del rapporto fra Roma e la Grecia. Tale nesso si esprimeva nell'agganciamento che la nuova moneta andava a stabilire tra l'argento romano e la dramma attica. L'identità quasi perfetta dei pesi del denarius e della dramma attica (gr.4,36) è fuori di discussione. Occorre invece rendere più evidente quanto importante fosse la dramma come moneta di pratico e generalizzato riferimento, sl da capire l'urgenza che ebbe Roma di coniare un nominale corrispondente a questa moneta greca. Ora, il fatto che gli autori greci e latini ragguaglino costantemente la moneta romana (anche quella bronzea) alla dramma attica si presenta appunto come un riflesso di questa funzione essenziale della dramma. Gli studiosi, sulla scia dello Hultsch 16, hanno avuto sempre presenti i testi, inequivocabili per questo aspetto, di Polibio 17, Livio 18, Plutarco 19, Fabio Massimo 29,

Tuttavia Por. II, 15,6 ha convinto di recente il Marchetti ?! a negare l'universalità del fenomeno. Ma vediamo se si tratta davvero di un ostacolo insormontabile. Lo storico di Megalopoli nel passo suddetto informa che in Gallia un pernottamento in albergo costava un sezzis, e traduce — evidentemente per i suoi lettori greci — tale costo nella cifra di un quarto d'obolo. Ció vuol dire che un obolo si scambiava con due assi. Ora, considerando che, per lo meno a partire dal 187 a.C. 22, e dunque anche al tempo di Polibio, l'asse in vigore era quello unciale del sistema romano (gr.27,28), il Marchetti trova che il corrispondente valore argenteo dei due assi del ragguaglio polibiano & inferiore all'obolo attico: conclude, pertanto, che la dramma cui si riferiva Polibio sarebbe stata quella leggera di Rodi, attestata in Epiro, in Acarnania, in Etolia, a Corcira e in Tessaglia ? e pesante i 3/4 di quella attica. Questa conclusione, peró, non & del tutto precisa dal punto di vista metrologico. La presunta dramma che si ottiene dal ragguaglio all'asse unciale romano non è quella rodia: quest'ultima, infatti, proprio sulla base delle testimonianze epigrafiche studiate dal Keil 24 e richiamate dal Marchetti, risulta equivalente a 3/4 di denarius (cioè gr. 3,27 o, in riferimento al denarius ridotto, gr. 2,98); se

volgiamo, invece, l'asse unciale romano nel valore argenteo, secondo il rapporto di 1:120 piü diffusamente attestato fra i due metalli 25, otteniamo il peso di gr. 27,28: 120 - gr. 0,22: due di questi assi, pertanto, secondo l'equazione polibia174

na, danno un obolo di gr. 0,22x2 0,44 x6 = gr. 2,64. ᾿

= gr. 0,44, e dunque una dramma di gr. |

In secondo luogo, occorre opporre la testimonianza dello. stesso Polibio, che in XXXIV, 8, 7-8 ricorre espressamente alla dramma attica, per segnalare alcuni prezzi correnti in Spagna: perché si dovrebbe ritenere questo caso come una deroga ad una regola che non è che ipotetica 26? Studiosi come F.W.Walbank ? e R.Thomsen 28 traggono invece proprio da questo testo la convinzione che anche Polibio usasse costantemente il riferimento al sistema attico-alessandrino. -Sarebbe miglior metodo, pertanto, quello di riferire al sistema attico l'obolo dell'equazione polibiana 2 assi = obolo, piuttosto che fare dipendere quest'ultimo da un presupposto valore ponderale dell’asse. E, necessario, allora, riconsiderare il valore dell'asse in Por., II, 15,6. La determinazione ponderale di questa moneta è legata rigorosamente alla cronologia, atteso il complesso processo di riduzione di peso subito dal bronzo romano. Ora, l’asse unciale, assunto dal Marchetti, sta solo al termine di questo processo 29, e dovremmo tenerne conto qualora il ragguaglio in questione appartenesse davvero al tempo della stesura delle Storie polibiane. Senonchè la notizia data da Pot., II, 15,6 è inserita nel contesto della narrazione della guerra contro i Celti (226- 222 a.C. ), sui quali lo storico riferisce anche alcuni dati di costume. Si tratta di un excursus che si prolunga per otto capitoli (14-21) e che propina una serie di informazioni così precise da non potere farsi risalire ad una conoscenza diretta di Polibio: certo, ci si attenderebbe da parte dello storico un «aggiornamento» dei dati da lui recepiti, ma dobbiamo anche pensare che quelle «annotazioni», scritte (da un annalista?) ancora sotto l'impressione lasciata dal successo di M. Claudio Marcello sui Celti, dovevano apparire allo storico di Megalopoli un testo tutt'altro che antiquato: se il ricordo della più antica vittoria dei Greci su Brenno viveva ancora nella celebrazione dei Soteria 39, se l’odio

contro i Celti era così forte nei Greci da provocare la loro dura ammonizione ai Romani nel 236 51, tanto più l'impressione lasciata da Telamone e Clastidio doveva conferire a quelle «annotazioni» un certo sapore di attualità anche nel momento in cui Polibio se ne serviva. In questa prospettiva, il problema dell’esatta identificazione dell’asse menzionato nelle «annotazioni» confluite nelle Storie polibiane deve prendere in considerazione la cronologia relativa degli assi del penultimo decennio del ITI secolo a.C., per verificare se qualcuno di essi si adatti realmente al ragguaglio di

Por.., II, 15,6.

Quanto al più antico e più pesante degli assi romani, quello librale, il Babelon 32 aveva creduto di riconoscerne l'equivalenza con l'obolo attico, sostenendo di conseguenza che i due assi «polibiani» scambiati con l’obolo dovessero intendersi di metro semilibrale. Una complicata giustificazione di ordine etimologico aveva sostenuto questa tesi, che però andava incontro ad incongruenze cronologiche e metrologiche. Anzitutto, non si può non tenere conto che il passaggio all’asse semilibrale, anche se ci atteniamo alla cronologia bassa del Thomsen 55 che lo pone negli anni 220 a.C., era stato così presto superato dagli 175

eventi che difficilmente possiamo supporre il riferimento a tale asse nelle «annotazioni» da cui attinse Polibio. In ogni caso, anche dal punto di vista ponderale l'equazione del Babelon non si regge: dall’asse librale (o dai due assi semilibrali), infatti, si ottiene un corrispondente argenteo di gr. 327,45:120

= gr. 2,72, che

non ha connessione alcuna con l'obolo attico. In seguito, il Mattingly ?* provvide ad apportare qualche «aggiustamento» alla teoria del Babelon. Tale revisione, peró, mirava a risolvere, pià che le sud-

dette incongruenze, un problema che il Mattingly aveva incontrato nell'applicare il pesante asse-obolo del Babelon al soldo calcolato da Por. VI 39,12-14 in 2 oboli: il soldo sarebbe valso, dunque, in moneta bronzea, 2 assi librali o 4 assi semilibrali. Ma ció non si accordava direttamente con la notizia di Svetonio 55, se-

condo cui Cesare, raddoppiando il soldo, l'avrebbe fissato in 10 assi. Il soldo indicato da Polibio, pertanto, essendo l'unico di cui abbiamo notizia prima della riforma cesariana, doveva valere per il Mattingly 5 assi - 2 oboli, e perció doveva darsi il ragguaglio obolo = 2 1/2 assi. Tale ragguaglio, inoltre, non avrebbe contraddetto l'equazione del Babelon (obolo = asse librale), in quanto si sarebbe riferito all'asse sestantario romano in vigore nel più recente periodo di Polibio. Non dobbiamo badare qui ai presupposti per lo meno discutibili di questo ragionamento: tali sono il passaggio immediato dal soldo «polibiano» di 2 oboli a quello cesariano di 10 assi; la datazione della tariffa militare indicata da Polibio;

e, specialmente, l'identificazione dell'asse «polibiano» con quello sestantario romano. Dobbiamo invece prendere in considerazione proprio l'asse sestantario (gr. 54,56), perché, dal punto di vista cronologico, puó essere collegato invece con la fonte di Polibio. Naturalmente, occorre verificarne il rapporto con l'obolo, per vedere se esso corrisponda alla misura supposta dal Mattingly (obolo = 2 1/2 assi), ovvero se confermi il ragguaglio polibiano (obolo - 2 assi). Per quanto riguarda la prima possibilità, dobbiamo constatare che i due assi e mezzo del Mattingly danno un corrispondente argenteo di gr. 54,56 x 2 1/2:120 = gr. 1,13 contro i gr: 0,72 dell'obolo supposto. Ma anche la seconda possibilità non si verifica: i due assi polibiani, infatti, se intesi come sestantari romani, si conver-

tono in un valore argenteo di gr. 54,56 x 2:120 = gr. 0,90, la cui eccedenza rispetto all'obolo attico è evidente specialmente se si bada al riflesso di questo scarto sul peso della dramma (gr. 0,90 x 6 = gr. 5,40 contro i gr. 4,36 regolari).

Tuttavia, l'approssimazione per eccesso al valore dell’obolo attico che si ottiene con quest'ultimo calcolo si contrappone a quella che risulta per difetto partendo dal metro immediatamente inferiore, che & l'unciale, i cui due assi, come si è visto, danno un valore argenteo di gr. 27,28 x 2:120 = gr. 0,45. Questo fat-

to rimanda ad un valore assiale teoricamente compreso fra quelli ora considerat1.

A questo punto ἃ indispensabile confrontare la documentanzione. Ora, l'esame del materiale numismatico pertinente 56 porta a constatare che una porzione consistente dei bronzi romani considerati di metro sestantario si presenta talmente distante cosi dai valori ponderali sestantari come da quelli unciali che studiosi quali Le Roy ? ed Herszh 38 hanno dovuto inventare per essi un metro 176

«ottantario». Ha ragione il Marchetti ?? nel respingere questa interpretazione, rilevando la non corrispondenza di queste emissioni «irregolari» col peso teorico del metro ipotizzato (gr. 40,93). Tuttavia & dato osservare che queste monete si dispongono omogeneamente in rapporto ad un preciso punto ponderale, e questo fatto male si adatta ad un fenomeno di pura perdita di peso dell'asse sestantario, come alla fine conclude il Marchetti ‘0. La precedente osservazione, invece, orienta verso l'esistenza di un valore teorico preciso: gli assi segnati dai simboli corona, mezzaluna, cornucopia e delfino, infatti, si situano sui 43-41 gr.; financo quelle emissioni che degradano fino ad un peso di poco superiore a quello unciale presentano dei punti di partenza che si aggirano intorno ai 40-41 gr.; il peso assiale, poi, riscontrabile nelle serie di monete riconiate attesta ancora con piü chiarezza il livello di 45-43 gr. Se un valore teorico, pertanto, occorre ipotizzare in conformità a questi dati, viene fatto di pensare al peso di gr. 45,46, che segna il valore dell'asse sestantario nel sistema italico. La grossa diatriba che fin dai tempi del Mommsen ha diviso i numismatici sul tipo di libra (se romana o italica) cui ragguagliare l’asse più antico e le sue riduzioni ci dice che l'ipotesi appena prospettata non puó, almeno per questo aspetto, essere esclusa apoditticamente: si tenga presente, anzi, che la tesi a sostegno dell'asse italico, prima sostenuta rigidamente dal Mommsen, ha ricevuto poi dallo Háberlin 41 un'impostazione più articolata, che lascia aperta la possibilità — non ancora sfruttata — di individuare e cronologizzare alcune fasi di alternanza dei due sistemi. Tuttavia, almeno immediatamente, ci importa verificare l'ipotesi dell'asse sestantario italico sulla base dell'equazione polibiana obolo = 2 assi, dove appunto i due assi costituiscono l'incognita del nostro problema, da determinare esattamente in corrispondenza al rapporto attestato. Constatiamo,

pertanto,

che due assi sestantari italici hanno una corrispondenza argentea di gr. 45,46 x 2:120 = gr. 0,75, che praticamente coincide col valore ponderale dell'obolo attico (gr. 0,72).

Anche il ragguaglio obolo = 2 assi di Por, IT, 15,6, dunque, conferma l'im-

portanza della dramma attica come punto di riferimento usato dagli scrittori greci e romani nelle loro indicazioni monetarie. Roma, pertanto, non poté non avvertire ad un certo momento la necessità di adeguarsi a quest'uso, che — co-

me sembra — ὃ da presupporre radicato anche nella pratica commerciale: il denarius, per la sua equivalenza ponderale con la dramma attica, si presenta come la moneta che ha adempiuto storicamente a questa esigenza. Ma accanto a tale funzione politico-economica, anzi in connessione con essa, anche la cronologia del denarius viene a precisarsi sulla base degli elementi metrologici sopra rilevati. Tale moneta, infatti, aveva tratto denominazione dal rapporto con i «decem asses», che costituivano la sua corrispondenza bronzea. L’identificazione di questi assi non è, poi, così ardua come giudica ora il De Martino 42; anzi, tenendo presenti i valori teorici del bronzo, si rintraccia fra es-

si il punto di aggancio esatto: si tratta dell'asse sestantario romano (gr. 54,56), che in misura di dieci unità dà appunto una corrispondenza argentea di gr. 177

54,56 x 10:120 - gr. 4,54 45. Si tenga pure in considerazione quanto ci si allontani, al contrario, dal valore denariale se si parte dagli assi che, nella sequenza delle riduzioni enee, precedono e seguono immediatamente quello sestantario romano. Ora, proprio quest'ultimo fatto permette di riferirci all'asse sestantario italico al fine di stabilire un zerminus post quem per la nascita del denarius. Se dovessimo attenerci ad una concezione astratta e rigida del processo di indebolimento del bronzo, quest'asse (gr. 45 ,46) sarebbe da considerare posteriore alla coniazione del denarius, misurato sul più pesante asse sestantario romano (gr. 54,56). È invece la struttura metrica emergente dalle testimonianze sull’asse sestantario italico che rivela ancora l'assenza di qualsiasi riferimento al denarius e pertanto una cronologia predenariale. Infatti: tanto Pot. II, 15,6, con il ragguaglio obolo = 2 assi, quanto Pot. VI, 39,12, con la conversione della cifra assiale del soldo in due oboli 4 , rimandano ad un sistema metrico basato sulla ripartizione in 6 parti dell’unità maggio» re, quale è appunto il sistema della dramma. Il denarius, al contrario, non si lascia dividere affatto in questo modo, come è dimostrato non solo dal numero degli assi che ne definiscono la corrispondenza enea, ma anche dai suoi sottomultipli argentei, che sono calcolati e denominati proprio in funzione della divisione dei 10 assi in due parti (quinarius = 5 assi) e in quattro parti (sestertius = 2 1/2 assi) 4. Ne consegue che anche il ragguaglio con la moneta attica viene a disporsi su valori che risultano sottomultipli della dramma nel medesimo rapporto di 1/2 e 1/4: quinarius = 5 assi = 3 oboli (= 1/2 dramma); sestertius = 2 1/2 assi = 1 triemiobolo (= 1/4 dramma). Deve essere chiaro, inoltre, che questa incompatibilità metrologica nei confronti della ripartizione «sestantaria» si riflette sul bronzo non accidentalmente, ma a causa di un rapporto inscindibile e permanente col denarius: anche la «ritariffazione» di quest’ultimo, infatti, presenta

un numero di assi, quello di 16, che è anch'esso non divisibile secondo i rapporti «sestantari» esistenti fra l’obolo e la dramma. Se, dunque, la vicenda dell’asse sestantario italico fornisce un terminus post quem per la datazione del denarius, è importante individuare il preciso contesto cronologico delle notizie polibiane (II 15,6 e VI 39,12) relative appunto a quest'asse ^5. Come sappiamo, la prima di queste notizie è inserita — attraverso un excursus — nel racconto della guerra celtica del 226-222 a.C.: anche se prescindiamo. dall’affermazione dei numismatici, secondo cui, almeno fino al 216

a.C., il campo sarebbe stato occupato ancora dall’asse quadrantario #7, dobbiamo riconoscere dunque che quell’autore che presentava il ragguaglio monetario in vigore «nel proprio tempo» abbia dovuto scrivere negli anni posteriori a quell’evento bellico. Allo stesso periodo rimanda la seconda notizia polibiana: anche in questo caso la notizia è inserita in un excursus, che è il celebre lungo excursus sulla costituzione e sull’organizzazione militare presso i Romani; ma tale excursus interrompe la narrazione nell’anno consolare di Gaio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo (216 a.C.), e Polibio stesso (VI 39,11) fa intendere di de-

scrivere la situazione quale era al tempo della battaglia di Canne. Gli elementi cronologici che ricaviamo, così, dalla nostra analisi vengono a 178

ridurre ulteriormente i margini di incertezza sulla cronologia dell'inizio del denarius: essendosi risaliti ormai fino al 211 a.C. da parte della teoria ribassista, s'impone un avvicinamento a questa data anche dalla parte opposta, dove ancora si discute «se l'istituzione del denarius vada datata al 269 a.C. oppure nel corso della seconda guerra punica» 48, Se già il Belloni aveva potuto osservare che «il denario... non puó essere considerato, quale che sia la data che si ritiene più probabile per la sua introduzione, una moneta d’emergenza, ma fa pensare ad una moneta scaturita da una riforma molto energica, ma altrettanto ponderata» 49, non c'è dubbio che la messa a fuoco della cronologia dà anche l’esatta dimensione di questa riforma energica e ponderata. Si tratta, infatti, di un momento storico segnato da una profonda modificazione del rapporto Roma-Grecia, che l'avvenimento siracusano aveva avviato in maniera sintomatica.

Fenomeni significativi, quale l'agganciamento alla dramma attica, il rialzo del peso del bronzo, il ritorno al metro tipicamente romano, la decisa caratterizzazione metrologica del nuovo sistema monetale, si rapportano, in chiave commerciale e politica, alle esigenze di questa prospettiva storica. Sono questi, appunto, fenomeni essenzialmente inerenti alla natura del denarius e al suo nascere.

1 LIV., XXV, 40,1. 2 Ibidem. — 3 Por., IX, 37,7-8. Licisco pronunciò il suo discorso nel 210 a.C., rimproverando fra l'altro

agli Etoli di essere stati i primi ad avere chiamato i Romani in Grecia con l'accordo del 212. Cfr. F.P. Rizzo, Studi ellenistico-romani, Palermo 1974, pp. 79-81. ^ Jusr., XXVIII, 1, su cui v. F.P. Rizzo, op. cit., p. 45 ss. 5.1. CoLm, Rome et la Gréce, Paris 1905, p. 38. 6 E. MANNI, in «Athenaeum», 1956, p. 270. 7. G. DE SAncTIS, Storia dei Romani, III 1, Firenze (ed. 1967),p. 261. 8. E utile tenere presente che, ispirandosi proprio alle condizioni E Sicilia, gli Acarnani ave-

vano introdotto il motivo della leggenda troiana nel loro rapporto con Roma del 231/6: cfr. Rizzo, Op. cit., p. 115 ss. ? II, 12,7. 10 I documenti epigrafici da me studiati in La Sicilia e le potenze ellenistiche al tempo delle guerre puniche, I, Palermo 1973, costituiscono una testimonianza utile a questo proposito. 11 V. problema e bibliografia in F.P. Rizzo, Studi ellenistico-romani,cit., p.75. 12 Su di lui, sui suoi fautori, nonché sui «tradizionalisti», v. ora bibliografia in G. DE SENSI SESTITO, Relazioni cominerciali e politico-finanziarie di Gerone II, in «Helikon», XV-XVI, 1975-76, p. 219 s. 13 V. particolareggiata bibliografia in G. DE SENSI SESTITO art. cit., p. 220, n. 167. 14 J.B. GIARD, in «A C N», 1961, pp. 235-259; A. ALFOELDI, in «J N G»,

1965, p. 33 ss.;

R.E. MITCHELL, in «N C», 1966, pp. 65-70; ΙΡΕΜ, in.«M N (ANS)», 1969, p. 41 ss. Ma, per

179

quanto riguarda la formulazione della «middle theory», occorre tenere presenti ancora almeno R. THomsEn, Early Roman Coinage, Y, Copenagen 1957, p. 210 ss.; M.H. CRAWFORD, Roman Republican Coinage, Cambridge 1974. 5 Ricordiamo ultimamente G.G. BELLONI, La data di introduzione del denario: ma proprio «poco prima del 211 a.C.»?, in «Riv. Ital. di Numismatica», 1976, p. 35 ss. 16 E, HuLTScH, Griechische und römische Metrologie, Berlin 1882, pp. 250-253.

17 XVIII, 44,7. 18 XXXIII, 30,7; XXXIV 50,6. |

Cam.

15; Flam. 9,6.

20 Cap. 4. 21 P. MARCHETTI, Histoire économique et monétaire de la deuxième guerre punique, Bruxelles

1978, p. 168 ss.

22 Il terminus ante quem è dedotto dai ritrovamenti di Minturno: R. THOMSEN, in «ERC», II, pp. 197-204; E.T. NEWELL, Two Hoards from Minturnae, in «ANSNNM», LX, 1933,

23 V. bibliografia indicata dallo stesso MARCHETTI, op. cit., p. 197, nn. 48 e 49.

24 in «ZEN», XXXII,

1920, pp. 47-49.

2 A determinare questo rapporto nella misura di 1:125 aveva già contribuito E.J. HAEBERLIN (Die metrologischen Grundlagen der ältesten mittelitalischen Münzsysteme, Berlin 1909, p. 55 ss.), seguito ora specialmente da coloro che si occupano di monetazione del mondo greco (cr. S. ConsoLO LANGHER, in «Helikon», 1963, p. 428, n. 163; EADEM, Contributo alla storia dell'antica moneta bronzea in Sicilia, Milano 1964, p. 37, n. 167): noi, tuttavia, preferiamo quello — leggermente

modificato — di 1:120, in quanto esso, nel campo della numismatica romana repubblicana, è attestato al momento della riforma sestantaria: v., per es., MARCHETTI, op. cit., pp. 175 e 190, e quan-

to sarà dimostrato infra, p. 35, n. 43, a proposito del rapporto fra il denarius e l’asse sestantario romano. 26 Così appunto il MARCHETTI, op. cit. pp. 170 e 197. 2 F.W. WALBANK, A historical Commentary on Polybios, I, Oxford 1957, p. 176. 28 ἢ THoMsEN, The Pay of the Roman Soldier and the Property Qualification of the Servian Clas-

ses, in Classica et Mediaevalia Francisco Blatt dedicata, Copenhague 1973, p. 6 (dell’estratto). 2 Non teniamo in conto le ulteriori riduzioni dell'asse, in quanto le monete emesse, per necessità, al di sotto del peso unciale erano fiduciarie in rapporto a quest'ultimo valore teorico: cfr. MARCHETTI, op. cit., p. 190.

30 Queste feste erano state riprese ed ordinate un trentennio dopo l'avvenimento del 279/8: v. bibliografia in F.P. Rizzo, La Sicilia e le potenze ellenistiche al tempo delle guerre punicbe, cit., p.

84, nn. 4, 5, 6, 7. 31 Precisamente, gli Etoli avevano richiamato i Romani al compito di cacciare i Galli dalla penisola italiana: Just. XXVIII 1,2, su cui v. F.P. Rizzo, La Sicilia.., cit., p. 85. 2 E. BABELON, Sur deux passages de Polybe, in «Académie des Inscriptions et Belles-Lettres,

Comptes rendus des Séances», 1906, p. 461. ? Early Roman Coinage, II, p. 116 ss.; III, p. 264. 34 H. MATTINGLY, The Property Qualifications of tbe Roman Classes, in «JRS », XXVII, 1937, p. 102.

3 Caes, 26,3. 36 V. per es. À. SANTINI, Saggio di catalogo generale delle monete consolari anonime con simboli,

Milano 1939 e bibliografia citata nelle note seguenti. Cfr. la ripartizione metrologica di E.A. SyDENHAM, The Coinage of the Roman Republic, London 1952. 37 M. LE Roy, Les étapes de la réduction du poids des monnaies de bronze de la République Romaine, in Actes du Congrès int. de Num., II, Paris 1953, pp. 180-190. 38 CH. HERSH, Overstrikes as Evidence for the History of Roman Republican | Coinage, in «NC»,

5.6, XIII, pp. 52-53, 55, 64.

> Op. cit., p. 185.

40 Ibidem. ^! Per tutti v. sinteticamente F. De MARTINO, Storia economica di Roma antica, I, Firenze

1979, p. 50 s. Più in particolare, per la storia del problema, v. F. PANVINI ROSATI, voce «Libra» nel Dizionario Epigrafico di

180

E. DE RucciEro, IV (1959), pp. 951-955.

? Op. cit., p. 49 s. 43 E da notare come questa corrispondenza puntuale fra l'asse sestantario romano e il denarius costituisce una prova del ragguaglio stesso e, poiché si basa sul rapporto di 1:120 fra i due metalli, conferma indirettamente l'esattezza di questo rapporto, da noi adoperato anche nelle altre

equazioni ponderali nel corso della presente ricerca. * È importante, per quel che stiamo dicendo, notare pure che dopo la paga per i fanti, che è appunto di 2 oboli, vengono indicate da Polibio anche quelle per i centurioni e i cavalieri, rispettivamente del valore di 4 e 6 oboli (cioè 2/3 di dramma e 1 dramma). ^ Si noti, infatti, che il sestertius (= semis-tertius) prende nome dal fatto che il terzo degli assi che lo compongono è calcolato solo per metà. 4 Anche se i due brani polibiani non nominino direttamente l’asse, abbiamo già rilevato (passim) in che senso essi riflettano il preciso (dal punto di vista ponderale e metrologico) riferimento all'asse sestantario italico. 47 Cfr. MARCHETTI, op. cit., p. 299. * DE SENSI, art. cit., p. 220.

^ Op. cit., p. 49.

181

THEODOR MOMMSEN RADIATO DALLA SOCIÉTÉ DES ANTIQUAIRES DE FRANCE FRANCO

SARTORI

Piero Treves, amico di vecchia data, che tanto sa di storia antica e che non minore interesse riserva alle vicende culturali europee dell’ età moderna e contemporanea, potrà gradire, come spero, che io soffi via un po' di polvere accumulata dall'inesorabilità del tempo su un episodio, in sé marginale, di una vita lunga e intensa quale fu quella di Theodor Mommsen, la cui figura di giurista, di storico, di epigrafista e di numismatico ancora oggi emblematica si completa e s'illumina di una costante e appassionata partecipazione alle vicende politiche del secolo scorso. Me ne dà l'occasione la cortesia di un altro amico, Silvio Panciera, cresciuto alla scuola dell'insigne «mommseniano» Attilio Degrassi, discepolo in Vienna di un allievo diretto del Mommsen, Eugen Bormann, e per sette anni maestro in Padova di scienza antiquaria dopo il lungo e indimenticabile insegnamento storico di Aldo Ferrabino, cui lo stesso Treves fu legato da affetto e stima profondi. Molti anni fa, sapendomi allora impegnato in plurime letture mommseniane alla luce di alcune monografie critiche recentemente apparse soprattutto in Germania, il Panciera,

con una generosità di cui gli resto debitore, mi consegnó

un breve manoscritto pervenutogli per una via che egli stesso, come da sua lettera del 19 maggio 1982, ha oggi difficoltà a precisare (forse a mezzo di quell’inesausto raccoglitore di documenti che fu il compianto amico Jean Colin). Confesso subito che N per ἢ), preso da altre occupazioni scientifiche e didattiche, non detti al manoscrittoil suo giusto valore e, come accade abbastanza spesso, mi limitai a conservarlo fra schede e appunti di diversa natura, sempre proponendomi di farne oggetto di studio alla prima occasione, tanto più che non ignoravo la possibilità che una sua eco ci fosse, per ragioni di data, nel quarto volume della monumentale biografia mommseniana cui allora continuava ad attendere Lothar Wickert !, nel qual caso una mia indagine specifica sarebbe potuta anche risultare del tutto superflua. E perciò, quando questo volume finalmente apparve, vi ricercai subito, con comprensibile curiosità, un qualche accenno all’episodio cui il manoscritto si riferisce, ma non ebbi la fortuna di trovarvelo. Devo però dire che non me ne stupii gran che, ben sapendo quale immensa mole di documenti si sia accumulata in tanti anni sul Mommsen e rendendomi conto del fatto che qualcosa poteva essere sfuggito perfino a uno studioso così informato com'è il Wickert 2. E se qui, in onore del Treves, pubblico il testo in questione, sia chiaro che non intendo minimamente muovere un appunto al benemerito indagatore della vita e dell'opera del Mommsen e che desidero solo aggiungere una piccola tessera all'ampio mosaico da lui pazientemente composto in decenni di costante e ardua ricerca. Ritengo inoltre probabile che il manoscritto temporaneamente in mie mani sia una prima e forse non definitiva stesura di un testo ufficiale con183

servato negli archivi della Société Nationale ? des Antiquaires de France a Parigi, fra i verbali delle sedute o nei carteggi di presidenza degli anni 1871-1872, dove a qualche collega francese dovrebbe riuscire abbastanza agevole operare le opportune verifiche. La diligente premura di un altro amico, Sergio Celato, che cordialmente ringrazio per avermi risparmiato consultazioni bibliografiche in Roma, ha permesso di accertare che, per motivi sui quali torneró in seguito, il documento non solo non risulta pubblicato; ma neppure & menzionato nel «Bulletin» della predetta Société per i due anni sopra indicati. Mi sembra dunque utile proporlo all'attenzione dei lettori come una pagina suggestiva sia della biografia mommseniana sia delle vicende politiche e culturali franco-germaniche al tempo della guerra franco-prussiana 1870-1871. Ne riproduco il testo in lingua originale, indicandone la paginazione interna e notando che all'inizio esso reca il contrassegno numerico 378, scritto con il medesimo inchiostro e, a quanto pare, dalla medesima mano: un dettaglio donde puó prendere corpo l'ipotesi che il manoscritto, sia pure ancora in forma di abbozzo da rifinire in sede di discussione durante una seduta della Société (come induce a pensare la presenza di due correzioni, una delle quali bisognosa a sua volta di un'integrazione chiarificatrice del senso), abbia ricevuto un numero d'ordine entro un sistema archivistico da parte dello stesso principale estensore del testo, cioè Anatole de Barthélemy esplicitamente indicato come tale nell'intitolazione del documento. Questa conclusione sembra avvalorata dal fatto che i tre cognomi in calce al manoscritto, seguiti soltanto dalla data, paiono tracciati con la medesima grafia di tutto il resto, con ogni verosimiglianza quella del de Barthélemy. Ció fa credere che questi possa avere aggiunto alla propria firma i cognomi degli altri due membri della Sociéte che con lui avevano collaborato alla stesura del documento su proposta di uno di essi, il generale Creuly; ma siffatta procedura, se & spiegabile per un testo ancora provvisorio, si addice a fatica a un documento presentato in una seduta ufficiale, per il quale le firme dei proponenti dovevano certamente essere autentiche. Comunque sia, ecco la trascrizione: «[11 378. Rapport sur la proposition de M. le Général Creuly relative à la radiation de M. Mommsen par M. Anatole de Barthélemy Messieurs,

Notre Commission a sérieusement discuté sur les conclusions qu'elle est appelée à vous soumettre au sujet de la double proposition formulée par quelques uns de nos confréres. Les uns demandent que l'on supprime sur la liste destinée à étre imprimée en téte de notre Bulletin de 1871 les noms de tous les associés correspondants allemands, les autres se bornent à réclamer la radiation d'un seul nom, celui de M. Mommsen.

Nous avons apprécié toute la gravité d'une mesure générale et nous l'avons unanimement écartée. Les raisons que nous allons vous soumettre en ce qui tou-

che à la seconde proposition justifieront implicitement 4 les motifs qui nous ont guidés. 184

La demande d'exclusion formulée à l'égard de M. Mommsen est basée sur l'attitude prise par ce savant à l'occasion de la guerre désastreuse qui naguères a éclaté entre la France et l'Allemagne. Dans cette circonstance M. Mommsen renoncant un moment aux travaux d'histoire et d'archéologie qui [lui] ont fait une réputation ?, s'est fait journaliste. Lui qui raille le chauvinisme, il ne s'est pas borné à lancer les articles antifrangais dans les journaux allemands; c'est dans les feuilles italiennes qu'il a publié trois lettres dans lesquelles plusieurs de nos confréres voyent des faits d'ingratitude notoire, des calomnies, des invectives audacieuses et mensongéres libellées dans des termes que leur impudence transforme en injures publiques. / [1"] M. Mommsen a été jadis accueilli en France à bras ouverts, dans le monde officiel, comme dans le monde scientifique, comme par les particuliers; il se trouvait alors trés à l'aise dans ce millieu [sic] qu'il qualifie volontiers maintenant de demi-monde. Il fut alors honoréde distinctions académiques, recu comme un prince de la science, décoré de la Légion d'honneut, admis dans la familiarité scientifique du Chef de l'Etat qu'il ne ménage pas aujourd'hui. Les ouvrages et la collaboration de M. Mommsen ont été appréciés avec cette faveur, peut-étre exagérée, que la France accorde souvent volontiers à tout ce qui vient de l'Etranger. Si quelqu'un devait étre reconnaissant envers la France c'était certainement M. Mommsen. Tout en restant allemand de coeur, tout en faisant ir petto les voeux les plus ardents pour le triomphe de ses compatriotes, la reconnaissance et la dignité personnelle du savant devaient lui imposer une certaine retenue alors que l' Allemagne nous faisait si chérement payer l'heureuse fortune de ses armes. Il n'en a pas été ainsi. M. Mommsen a publié dans la Perseveranza à Milan, au début de la guerre, puis lors de la paix, trois lettres dont le but est d' insulter la nation francaise; de démontrer non pas la légitimité de la'conquéte, mais de la revendication de l' Alsace et de la Lorraine; de pousser l'Italie, non pas franchement, mais par des insinuations perfides et des allusions sournoises à reprendre la Savoie et le comté de Nice. Ingrat lui-méme, il préchait l'ingratitude.envers la France, à une nation amie qui doit à celle-ci son indépendance. Pour arriver à ses fins, M. Mommsen se transforme en pamphlétaire, mettant en avant les allégations les plus fausses. C'est ainsi qu'il / [27] représente les populations de l’ Alsace et de la Lorraine comme "'soupirant après le moment oà elles seront affranchies du joug de la France, de cette nation qui a introduit en Italie/ chez un peuple en possession d'une antique et gracieuse civilisation, cette littérature plus sale que les eaux de la Seine à Paris, qui corrompt le coeur et introduit jusque dans l'éducation de la classe aisé un perfide venin"'. Ailleurs il dit que les Alsaciens étaient la risée des Parisiens, qu'au théátre c'était toujours l'Alsacien qui remplissait le róle du niais et de la dupe, róle réservé aussi à l’Allemand; que tout le clergé protestant déclairait en chaire dans ces provinces abandonnées aujourd" hui par des millions de compatriotes fuyant la domination allemande, qu'on ne pouvait adresser de prières, afin de demander le succès des armes francaises. — Et cette appréciation qui date d’aoüt 1870: Maintenant les faits parlent; à la jactance de nos adversaires a succédé une désillusion compléte 185

et le découragement qui s'est produit vient autant des désastres éprouvés que des fanfaronnades qui les avaient précédées [sic]. De la blague (ce mot peu académique est en francais) au découragement il n'y a qu'un pas, et encore ces misérables ont la triste habilité de combiner l'une avec l'autre. Plusieurs objections nous ont été faites; nous devons les examiner. On nous a dit d'abord que le domaine de la science ne doit pas étre confondu avec le domaine de la politique; qu'en nous associant des étrangers que leur renommée parait désigner à notre choix, nous nommons le savant, et non pas l'homme appartenant à telle ou telle nationalité, professant telle ou telle doctrine étrangère aux études spéciales qui / [2"] lui ont conquis nos suffrages. Nous admettons une partie de ce raisonnement, et la meilleure preuve, c'est que nous vous demandons de ne pas prendre en considération la proposition radicale qui vous a été faite de rayer les noms de tous les Allemands. — Mais nous répondrons aussi que toute Compagnie posée comme la nótre dans l'opinion publique, ayant les habitudes d'urbanité et de délicatesse de sentiments que l'on a toujours pu constater au sein de la Société des Antiquaires de France, n'hésite pas à tenir éloigné d'elle le candidat, quelque érudit qu'il soit, signalé ou reconnu ultérieurement comme dépourvu de l'honnéteté et de la courtoisie premieres qualités du savant comme du galant homme. Par contre, si la bonne foi de la Compagnie a été surprise, si plus tard elle reconnait qu'elle a été trompée, elle peut et doit revenir sur sa décision et surtout lorsque celle-ci a été spontanée. La seconde objection porte sur le ridicule que la Société assumerait dans le cas oü la proposition de radiation serait admise. Nous devons vous l'avouer, notre Commission a vainement cherché à comprendre quel ridicule une Compagnie d'hommes bien élevés risque de se donner en se séparant d'une personne discourtoise. Ne serait-il pas au contraire d'une bizarrerie singuliére que la Société des Antiquaries de France comptät dans ses rangs un membre qui insultät la France? Serait ce par hasard parce que notre Compagnie tient un rang trop modeste

pour se permettre de trouver insupportables les insultes d'un savant come M. Mommsen? Mais il nous semble que sans vouloir / [3"] exagérer notre importance scientifique, il suffit de parcourir la liste de nos confréres résidants et correspondants et de compter les membres de la Société qui sont entrés à l'Académie des Inscriptions et Belles Lettres pour affirmer le droit que nous avons à nous respecter et à nous faire respecter. Nous avons aussi entendu dire qu'au delà du Rhin les régles de l'urbanité n'étaient pas les mémes que chez nous; que tel ou tel savant n'avait pas la conscience de la gravité des actes qui lui sont reprochés; que la radiation du nom de M. Mommsen connue en Allemagne serait pour lui un titre de glorie, un brevet de patriotisme. Messieurs, nous croyons que les devoirs de la reconnaissance et de la politesse sont les mémes partout, chacun de nous connaît des Allemands bien appris; il y en a beaucoup parmi les savants comme parmi ceux qui nous pillaient militairement. Quant à l'honneur que tirerait M. Mommsen de la radiation de son nom, nous nous en soucions peu; si la mesure est prise, et si elle est connue, on saura aussi les motifs qui l'ont dictée. 186

Notre Commission vous propose donc, à l'unanimité, d'autoriser la Commission des Impressions à 1? rayer simplement le nom de M. Mommsen de la liste de ses associés correspondants étrangers, non pas comme Prussien, mais par-

ce qu'il a prodigué à la France des insultes qui nous atteignent chacun personnellement. 2° de maintenir / [3”] les noms des autres associés Allemands auxquels des faits analogues ne peuvent étre reprochés 6. Beaucoup d'entre nous verraient avec peine figurer nos noms aupres de celui d'un homme qui professe la haine de notre pays, de notre pays dont il n'a eu personnellement qu'à se Jouer. Nous aimons et nous honorons la science, mais avant la science nous ai-

mons et nous honorons la Patrie que nous ne pouvons entendre méconnaitre et insulter par un de nos confréres sans protester. G(énér)al Creuly Barthélemy Michelant 7 févr(ier) 1872 [?].»

Se il contenuto del documento non dà luogo, per la sua sostanziale chiarezza, a particolari problemi interpretativi, un dubbio permane riguardo alla data finale, la cui ultima cifra sembra potersi leggere come 2, ma, essendo tracciata piuttosto frettolosamente, a curve non bene marcate, potrebbe anche essere 1,

nel quale caso l'anno non sarebbe più il 1872, bensì il 1871. Nemmeno la consultazione del già citato «Bulletin» dirime l'incertezza, perché l'annata 1871,

per ragioni di emergenza bellica pubblicata in forma ridotta e senza numero d'ordine progressivo 7, conserva ricordo di una seduta svoltasi in condizioni precarie (senza notizie dalle altre sedi della Société e senza comunicazioni) il giorno

8 febbraio 1871 con i soli membri presenti in Parigi assediata ® e perché l'annata 1872, ricondotta ai tradizionali criteri di redazione, fornisce il resoconto di una seduta del 7 febbraio 1872, nella quale sono rievocate le difficoltà della Société durante l'assedio e le sciagure proprie dei tempi di guerra?. Ambedue le date convengono alla natura del documento: nel primo caso esso potrebbe essere stato preparato alla vigilia della seduta ufficiale in previsione di un dibattito e delle conseguenti decisioni; nel secondo la stesura sarebbe avvenuta nel medesimo

giorno della seduta o anche durante il suo svolgimento, come materia per provvedimenti immediati o futuri. La scelta fra le due date non appare agevole, benché maggiori probabilità esistano, se non erro, per la seconda, cioe il 7 febbraio

1872. Infatti la cifra finale rassomiglia più a 2 che a 1 e — circostanza forse fortuita, ma certo non trascurabile — i primi due elementi della datazione coincidono con quelli della seduta del 1872. Si aggiunga che nella seduta dell'8 marzo 1871, sotto la presidenza di M. Boutaric, si parlö per la prima volta dell'eventualità di una rottura delle relazioni di fratellanza con analoghe società culturali appartenenti a stati già in guerra con la Francia; ma fu una proposta che per il momento non ebbe seguito, essendosi rinviata ogni decisione a un tempo in cui potesse partecipare alla riunione un numero maggiore di membri 19, E poiché dal nostro documento risulta che i suoi firmatari agivano come una commissione ufficialmente investita dai consoci del non gradevole compito di proporre eventuali provvedimenti di radiazione di tutti i membri corrispondenti tedeschi o almeno di quello tra essi che appariva il più attaccabile, cioè appunto il Momm187

sen, non pare verosimile che tale commissione avesse operato già prima della seduta dell'8 marzo 1871. Dei tre membri della commissione il pià noto é senza dubbio Anatole de Barthélemy, storico e numismatico di valore indiscusso, autore di studi su antichità galliche e gallo-romane, sull'origine della casa reale di Francia e sulla Bretagna e rinnovatore delle indagini sulla numismatica francese, come dimostrano numerosi saggi specifici, manuali divulgativi e i Melanges de numismatique da lui pubblicati fra il 1879 e il 1883 in collaborazione con Félicien de Saulcy, nonché la direzione della «Revue de numismatique» da lui tenuta dal 1883 alla sua morte nel 1904. È perciò comprensibile che proprio al de Barthélemy venisse affidata la stesura della proposta, promossa per altro da Casimir Creuly che, a parte uno specifico interesse per le vicende e gli esiti della guerra, dovuto al suo grado di generale di brigata della riserva, poteva pronunciarsi anche come studioso in quanto membro della commissione per la topografia delle Gallie. Terzo firmatario fu Henry-Victor Michelant che all'autorità di bibliotecario del dipartimento dei manoscritti della Bibliothéque Nationale aggiungeva la responsabilità di rappresentare la commissione costituita dalla Société per la stampa delle proprie pubblicazioni.

La lettura del documento non comporta conclusioni tali da sconvolgere ra-

dicalmente la nostra conoscenza di un episodio da tempo assai noto alla critica e imperniato sulle famose lettere aperte indirizzate dal Mommsen Agli Italiani e pubblicate rispettivamente nei giornali milanesi «La Perseveranza» del 10 agosto 1870 e «Il Secolo» del 20 agosto 1870. Riunite sotto il titolo «La guerra», vennero ristampate il 30 agosto 1870 come primo capitolo dell’opuscolo Agli Italiani Teodoro Mommsen pubblicato a Berlino dalla tipografia Gustav Schade e comprendente un secondo capitolo, pure in forma di lettera, intitolato «La pace» !!. Per esplicita citazione degli estensori del nostro documento 12 fu soprattutto la prima lettera a suscitare la comprensibile irritazione dei membri della Société non solo perché, da un punto di vista politico, il Mommsen consigliava gli Italiani di astenersi dall’appoggiare la causa francese, ma anche e specialmente perché, dall’angolo di visuale francese, egli si esprimeva in maniera ritenuta insultante nei riguardi di un popolo da cui non aveva ricevuto che cortesie e onori. L’accusa sostanziale appare dunque, a ben considerare il contenuto del documento, quella d’ingratitudine e di rozzezza. Ora, è appunto qui l’aspetto più interessante dell’argomentazione svolta dai tre firmatari a sostegno della loro proposta finale di radiare dalla società il solo Mommsen e non, come da altri si era pure pensato, tutto il gruppo dei consoci tedeschi 15. Lo si deve rilevare, giacché nel 1871, come si apprende anche da una lettera di Ernest Renan del 17 marzo, era cominciata una violenta campagna di voci malevole sul Mommsen, accusato perfino di aver sottoscritto per primo la richiesta al maresciallo Helmuth K.B. von Moltke di far bombardare Parigi: una calunnia, senza dubbio, i cui strasci-

chi si protrassero però per almeno un quarto di secolo e contribuirono, fra l’altro, a ritardare fino al 1895 la promozione del Mommsen da membro corrispondente, eletto già nel 1860, a membro straniero dell’ Académie des Inscriptions et Belles Lettres 14, A quell' accusa altre si aggiunsero, abilmente concertate nel 1871 dalla stampa francese, con ripercussioni pure in Germania: per esempio, di 188

avere a suo tempo (verso il 1860) accettato di collaborare per denaro all'opera di Napoleone III su Giulio Cesare 15 e di avere chiesto, dopo la guerra (!), al Renan di ottenergli dall' Académie un compenso continuativo per la prosecuzione dei propri studi epigrafico-antiquari 16. Il Mommsen, com'é noto, smentì sempre ogni accusa e anzi si dimostró spiaciuto che da parte francese in precedenza si fosse pensato di nominarlo membro di una commissione incaricata di curare, per sollecitazione imperiale, tutte le opere di colui che egli considerava il suo più prestigioso maestro, Bartolomeo Borghesi; e motivò tale rifiuto, non implicante per altro una negazione di pareri consultivi su singole questioni, con il fatto che egli aveva già un suo progetto in proposito, ma che non poteva realizzarlo a mezzo di un governo che non fosse il suo 17. Le tre lettere mommseniane dell’agosto 1870 ferirono profondamente l'amor patrio e l'orgoglio nazionale della classe intellettuale francese, soprattutto degli ambienti accademici, nei quali più larga era la fama del loro autore; e proprio il nostro documento ne è una delle tante prove. Ma il Mommsen non doveva certo essersi reso conto, almeno in un primo tempo, di quante polemiche sarebbero sorte dalla pubblicazione dei tre brevi scritti. Lo si arguisce sia dal fatto che egli stesso aveva inviato a colleghi e amici francesi l'opuscolo in cui quegli scritti erano compresi sía dal tentativo da lui esperito subito dopo la fine della guerra di riallacciare , in nome della scienza, le relazioni fra le accademie di Berlino e Parigi 18, Tutto ciò dimostra che egli aveva steso quei testi senza maligne intenzioni, ma anche senza rinunciare a quella funzione critica che era connaturata alla sua vocazione storica. Benché fra vivaci contrasti, questo fu in sostanza capito dall’ Académie des Inscriptions et Belles Lettres che non radiò il suo membro corrispondente 19 e si limitö, come si & detto, a rinviarne per molto tempo il passaggio alla superiore categoria dei membri stranieri. Diversa fu la decisione della Société Nationale des Antiquaires de France, che accettó la proposta di radiazione firmata dal Creuly, dal de Barthélemy e dal

Michelant. Lo si ricava dal suo «Bulletin» del 1872, dove a p. 29 il nome del Mommsen risulta scomparso, senza commento alcuno, dalla lista dei soci.

! L. WICKERT, Theodor Mommsen. Eine Biographie, Frankfurt am Main I, 1959; IT, 1964; III, 1969; IV, 1980.

2 A maggior ragione non è traccia dell'episodio nelle monografie non strettamente biografiche di A. Heuss, Theodor Mommsen und das 19. Jahrhundert, Kiel 1956, e di A. WucHER, Theodor Mommsen. Geschichtschreibung und Politik, Göttingen 1956. 3 Fino al 1870 la Societe si fregiava dell’attributo di «Imperiale», sostituito nel 1871 da quello di «Nationale», evidentemente a seguito della proclamazione della Terza Repubblica due giorni dopo la sconfitta francese di Sedan il 2 settembre 1870.

^ In origine l'avverbio era «amplement». 189

5 L'espressione originaria era «qui ont illustré son nom», frettolosamente corretta durante la

stessa stesura. 6 Il sospetto che il manoscritto qui riprodotto sia solo una stesura suscettibile di perfezionamento sembra confermato dal fatto che le due proposte numerate rispettivamente con 1° e 2° sono introdotte in costruzione sintattica diversa, la prima con la preposizione «à», la seconda con la preposizione «de». Nel secondo caso la dipendenza èè ricondotta direttamente alla forma verbale «propose» anziché, come sarebbe stato più corretto, a quella «autoriser». Si sarebbe anche potuta anticipare l'indicazione 1° con una sua collocazione subito prima di «d'autoriser». 7 Di ciò è data giustificazione nello stesso «Bulletin» 1871, p. 4, dove tra l’altro si accenna a

sedute senza ordine del giorno, al mancato rinnovo del «Bureau» direttivo, all’impossibilità di redigere la lista dei soci corrispondenti e infine alla decisione di pubblicare il «Bulletin» 1871 come fascicolo separato che i singoli soci possano, se credono, aggiungere o al vol. XXXII (1870) o al vol. XXXIII (1872) dei «Mémoires» della Société. 8 «Bulletin» 1871, p. 5.

? «Bulletin» 1872, pp. 71-72 (relazione del presidente uscente H. Cocheris). 10 «Bulletin» 1871, p. 8.

11 Il testo dei tre scritti è ripubblicato con il titolo TH. MoMMSEN, Lettere agli Italiani in «Quad.st.», 4, luglio-dicembre 1976, pp. 197-220 ed è seguito da un'utile e informata nota esplicativa di G. LIBERATI, Le lettere di Mommsen agli Italiani, pp. 221-247. La questione, com'è ovvio, è trattata anche dal WICKERT, o.c., IV, pp. 170-179 e 295-299 note 1-25.

12 Erroneamente la commissione ritenne che tutte tre le lettere fossero state pubblicate nel giornale «La Perseveranza». 13 Lo sdegno francese dovette concentrarsi, almeno in un primo tempo, sul gruppo dei consoci prussiani, che allora erano: J. Friedlánder (dal 9.12.1850), L. Diefenbach e A.W. Zumpt (dal 9.1.1852), R. Lepsius e Th. Mommsen (dal 10.11.1853), G. Pertz (dal 16.11.1859), il can. (dall’1.3.1867), E. Aus'm Werth (dal 2.3.1870). Nel «Bulletin» 1870, p. 30 sono registrati predetti studiosi, meno il Diefenbach, forse omesso per errore, giacché nei successivi elenchi ci egli compare con anzianità ventennale: «Bulletin» 1872, p. 29; 1873, p. 28. Per il 1870

Bock tutti i di sofigura

ancora in lista O. Jahn, che peró era morto l'anno prima dopo un'appartenenza alla Société dal 10.1.1853. 14 WICKERT, 0.c., IV, pp. 159 e 166-169. La candidatura del Mommsen era stata bocciata già

nel 1867 a favore di G.B. de Rossi e nel 1889 a vantaggio di E. Curtius: WICKERT, ib., pp. 156 e 166-167. Del primo insuccesso il Mommsen non si dolse gran che, mentre non esitò a definire una «grosse Eselei» la condotta degli Accademici nel secondo caso, come si apprende da una sua lettera del 4.10.1890 a L. Bamberger: WICKERT, ib., p. 167. Sulla vicenda si veda anche l'accenno del WuCHER, 0.C., p. 198 nota 62.

15 NAPOLÉON III°, Vie de César, Paris 1865. Non è qui il luogo di riprendere il tema, più volte trattato dalla critica, dei rapporti personali fra il Mommsen e Napoleone III. Basterà ricordare che, mentre l’imperatore dimostrò sempre molta stima per l’insigne studioso tedesco, questi oscillò fra riserve abbastanza severe verso l’opera scientifica del sovrano e riconoscimenti positivi della sua attività politica; ed è noto anche che nel 1860 ebbe non poche esitazioni nell’accettare la Legion d’onore conferitagli dal monarca, come dimostrano sue pungenti espressioni in lettere del

14.6 e del 17.8.1860 a W. Henzen: «die leidige Ehrenlegion» e «die Ordenkomódie»; cfr. WicKERT, 0.c., IV, pp. 139 e 143. Il rapporto con Napoleone II e con gli studiosi francesi è giustamente ritenuto essenziale per la comprensione del Mommsen da A. MomigLiano in «Gnomon», XXX, 1958, p. 2 - Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 423. 16 WICKERT, o.c., IV, p. 160. 17 WICKERT, 0.C., IV, pp. 139-140 e 144-149, 18 Di tutta questa vicenda si trovano eloquenti testimonianze nello scambio epistolare fra il

Mommsen e altri insigni studiosi del tempo. Si ricordino specialmente le lettere del Mommsen al Renan del 13.3.1871 e del 13.1.1872, del Renan al Mommsen del 17.3.1871 e di L. Renier al

Mommsen del 21.2.1872; cfr. WICKERT, o.c., IV, pp. 158-159 e 282-287 note 24-25. 19 Il Mommsen appare infatti regolarmente inserito fra i membri corrispondenti del 1873 nella lista pubblicata in «Mémoires de l'Institut National de France. Académie des Inscriptions et Belles Lettres», XXIX, 1, 1877, p. 199.

190

SEIANO E GAIO:

RIVALITÀ O ACCORDO?

DANIELA

SIDARI

L'avvento di Gaio nel 37 d.C., dopo la cupa repressione che aveva caratterizzato soprattutto gli ultimi anni del principatodi Tiberio, produsse in Roma, in generale, un senso di sollievo che impedi una serena valutazione degli avvenimenti che lo avevano causato e favorì il sorgere di illusioni e di fraintendimenti. Per capire come si era arrivati a questo punto, appare essenziale un esame

della figura chiave del principato di Tiberio dopo la morte di Germanico; Seiano, il quale, dopo un inizio quasi in sordina, campeggia nella seconda metà della prima esade degli Arnali di Tacito, così come Germanico grandeggia nella prima !.

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L’esame in questione non è però dei più facili, perché le fonti in nostro possesso non sempre contribuiscono a chiarire i frequenti dubbi: Velleio, contemporaneo agli avvenimenti, fornisce delle notizie non sempre attendibili e, comunque, poiché l'opera fu pubblicata nel 30 e Seiano ottenne il suo primo consolato, con Tiberio a collega, solo nel 31, nulla ci & dato sapere oltre questa data

su Seiano, sulla sua fine e sui veri motivi che l'hanno causata. Il giudizio su Seiano é sempre positivo, né poteva essere altrimenti, dato che Velleio doveva la sua cartiera a Tiberio e che tutta la sua opera ne costituisce un assai disinvolto panegirico. Dagli altri contemporanei non si ricavano notizie utili al nostro fine, tranne qualche accenno marginale?. Solo Flavio Giuseppe parlando di Erode Agrippa ? alluse all'amicizia di Seiano con la famiglia di Antonia, grazie anche ai legami familiari esistenti con i Giunii Blesi, prima che i rapporti con lei si raffreddassero in seguito al matrimonio o alla relazione di questo con la figlia Livilla. L'opinione di Tacito su Seiano & totalmente negativa: questi era considera-

to «l'anima nera» di Tiberio e già il princeps, come si sa, non riscuoteva le simpatie di Tacito, il quale, essendosi servito principalmente di fonti senatorie, risenti dell’ equivoco che falsó la comprensione dell'immagine tiberiana, per non parlare poi dei punti in cui è evidente l'uso dei Commentari di Agrippina minore, opera a carattere apologetico dell'azione della madre e quindi dichiaratamente ostile a Seiano. Per Svetonio e Dione Cassio, nonostante il secolo di differenza tra i due, valgono quasi le stesse considerazioni: entrambi dedicarono la loro opera a un prefetto del pretorio e quindi trovarono più comodo sorvolare, quanto più era possibile, sull'increscioso paragone 4; per il primo c’è da notare che, come segretario ab epistulis, aveva una maggiore possibilità di consultare gli archivi e nel caso di Seiano questo porta a una totale daznatio memoriae, mentre con difficoltà si puó assegnare all'opera di Dione Cassio il valore di fonte, perché, essendo troppo lontano dagli avvenimenti, si basa essenzialmente sulle Vite dei Cesari di Svetonio e su una fonte usata anche da Tacito. 191

Seiano, nato ἃ Volsinio in Etruria fra il 20 e il 16 a.C. 7, aveva al suo attivo una buona parentela, molto ramificata da entrambe le parti 6: suo padre, infatti, era figlio di Terenzia, la cui sorella era stata la moglie di Mecenate (e già questo potrebbe spiegare la sua posizione più o meno involontaria di emulo o seguace di Mecenate); sua madre poi era una Iunia, sorella di Q. Iunio Bleso, cos. suf. nel 10 d.C.; lo stesso Seiano deve essere stato adottato da un Lucio Aelio 7, probabilmente il prefetto d'Egitto dal 24 al 26. Ma la forza di Seiano fu il raggiungimento della prefettura del pretorio, carica di recente istituzione, analoga peró nella sostanza a quella che già Mecenate aveva tenuto, seppure non ancora istituzionalizzata. Già suo padre naturale, L. Seio Strabone, aveva rivestito questa carica sotto Augusto ? e poi aveva ottenu-

to la prefettura d' Egitto, lasciando al figlio l'incarico impegnativo e onorifico di prefetto del pretorio. In realtà la strada di Seiano non fu né rapida né facile; i suoi primi passi ci sono quasi oscuri: crediamo che abbia accompagnato Gaio Cesare nella sua missione orientale ?, per quanto da Velleio, che fece sicuramente parte della spedizione, non abbiamo alcuna notizia in proposito. Se ne inferisce che, se non fu con Gaio in Oriente, probabilmente fece parte della sua cerchia, cioè del gruppo che orbitava intorno a Giulia Maggiore e che Augusto era stato costretto ad an-

nientare nel 2 a.C.; naturalmente la sua partecipazione a questo circolo ha solo valore indicativo per quest'epoca di una tendenza che si manterrà costante nel corso degli anni; infatti non si puó ancora parlare di una posizione di spicco occupata da Seiano. Sull'attività di Seiano vi é un vuoto per il periodo fra il 4 e il 14 19: di sicuro" si sa che Tiberio, dopo il 14, lo incaricó di accompagnare il proprio figlio Druso, inviato a sedare la ribellione sorta in Pannonia alla notizia della successione di Tiberio 4. La prova fornita da Seiano dovette essere soddisfacente, perché la

sua posizione migliorò gradatamente e la prefettura del pretorio, che poco dopo venne affidata a lui solo 12, divenne nel giro di pochi anni una carica di eccezionale importanza, perché Seiano riuscì a persuadere Tiberio che per la sua stessa incolumità era preferibile che i pretoriani non fossero dislocati in varie baracche, ma stessero tutti uniti in un unico accampamento a garanzia di una maggiore facilità di controllo in caso di necessità !. Dopo il già accennato vuoto nella biografia di Seiano, le notizie provenienti dalle fonti si susseguono senza più gravi lacune: ormai, morto Germanico ad Antiochia nel 19, la figura di Seiano è onnipresente e Tiberio, pur avendo un figlio proprio (che evidentemente non corrispondeva alle sue aspettative), esalta il prefetto del pretorio ad ogni occasione, suscitando oltre al naturale risentimento del figlio anche un pericoloso incremento della già smodata ambizione di Seiano; e sin d’ora in tutti gli avvenimenti oscuri o poco chiari pare sia coinvolto il prefetto del pretorio 14. La fase per noi più importante e più documentata dell’attività di Seiano è senz'altro quella posteriore al 20, perché il concentramento dei pretoriani sul Viminale costituiva una formidabile arma di pressione e faceva di Seiano la persona che non conveniva osteggiare. Tutta la sua attività fu in un primo momen192

to volta a ingraziarsi Tiberio e non vi furono manovre per ottenere potere eccessivo, o comunque non palesemente. Né, d'altronde, Seiano aveva motivo alcuno per tirare la corda a questo proposito: era morto Germanico, ma Druso, figlio di Tiberio, era in età valida per succedere al princeps. La situazione frattanto si evolveva bene al punto che nel 20 la figlia di Seiano, Iunilla, fu promessa in moglie al figlio del futuro imperatore Claudio, Druso, pronipote, quindi, di Tiberio; le insinuazioni che inevitabilmente seguirono

non turbarono Seiano che pareva aver iniziato proprio da quell'anno la sua ascesa verso il potere anche con il conferimento delle insignia praetoria, distinzione insolita per un uomo di rango equestre 15, Poco importava a Seiano che in quello stesso anno il più grande dei figli di Germanico, Nerone, fosse raccomandato da Tiberio al senato 16 e ottenesse cosi oltre al pontificato anche un anticipo di cinque anni per la questura (cosi come era stato per l'attuale imperatore e per il fratello Druso) e che in occasione del suo ingresso in senato fossero effettuate largizioni alla plebe e che grandi manifestazioni di gioia salutassero le nozze di Nerone con Giulia, figlia di Druso, anche perché sembravano annullare le precedenti incomprensioni fra i due rami principali della famiglia imperiale. Due anni dopo, nel 22, Seiano si fece notare ancora per la valida collaborazione fornita nel contenere i danni dell'incendio propagatosi fortuitamente nel teatro

di

Pompeo,

cosa

che

Tiberio

non

mancò

di

lodare,

anche

eccessivamente ! e per la quale il senato concesse al prefetto del pretorio una statua da porsi nello stesso teatro di Pompeo. Le quotazioni di Seiano erano tanto salite che nello stesso anno, quando Giunio Bleso, proconsole d' Africa, ottenne il trionfo, Tiberio volle quasi giustificare questa sua concessione 18 con il ricordo della parentela esistente fra i due uomini e che, pare, fosse una garanzia sufficiente. Indubbiamente meraviglia che Tiberio, divenuto per amara esperienza personale cosi sospettoso, abbia dato senza apparenti riserve la sua fiducia a quest uomo di origine equestre e il tutto mentre il figlio era ancora vivo e per di più in età di collaborare validamente. È importante, a mio parere, ribadire che Tiberio ritenne di aver ponderato tutti i pro e i contra di una simile alleanza e giunse alla conclusione che, dato lo stato di degenerazione morale raggiunto dal senato, era senz'altro meno pericoloso e più utile ai suoi fini approfittare dei servigi di un esponente di rango equestre, che non avrebbe potuto avanzare eccessive pretese alla successione e che forse avrebbe potuto spingere, per emulazione, i senatori a un atteggiamento meno passivo. Tiberio credette di poter fare di Seiano un suo strumento e, poi, di poterlo eliminare o allontanare dalla scena politica, quando fosse venuto il momento della successione di Druso. Ma il figlio del princeps era molto meno ottimista del padre riguardo al carattere temporaneo del potere di Seiano e mostrò a più riprese la sua ostilità nei confronti dell’uomo che intuiva rivale 15 e che egli riteneva ormai a tutti gli effetti ingiustamente assurto al fastigio del potere 2°. Druso costituì, quindi, volontariamente il più grave ostacolo per Seiano, perché ini caso di morte del princeps, avrebbe avuto tutte le carte in regola, oltre che I' età, per aspirare alla successione. Il 14 settembre del 23 Druso morì di una malattia tanto lunga da sembrare 193

dovuta a causa naturale ?!, lasciando Tiberio privo di eredi diretti, se si escludono i due gemelli, ancora troppo piccoli per poter rappresentare un punto fermo in caso di successione, e i primi due orfani di Germanico, visto che anche Druso all'inizio dello stesso 23 aveva assunto la toga virile e aveva ottenuto dal senato gli stessi onori decretati precedentemente per Nerone 22. Tiberio, ormai tetragono ai colpi della sorte, affrontó con virile fermezza questa disgrazia e si comportó senza alcuna acrimonia verso i nipoti sopravvissuti, che si affrettó a raccomandare in senato 25 e con questo gesto contribul a rialzare le quotazioni dei figli di Agrippina presso il popolo e il senato, oltre che le speranze degli interessati. Anche se non vi sono elementi che autorizzano ad attribuire a Seiano la fine lenta ma immatura di Druso, era un fatto che la scomparsa del figlio di Tiberio dava certamente slancio alle nascoste ambizioni del prefetto del pretorio, il quale ormai non aveva sulla sua strada che i figli di Germanico, verso i quali diresse la sua attenzione. Sempre nel 23 mori uno dei due gemelli di Druso; e da questo momento ebbero inizio le «grandi manovre» di Seiano condotte su tutti i fronti: e mentre da un lato stringeva sempre piü i suoi rapporti con Livilla, la vedova di Druso, dall'altro cominciava un'abile e studiata azione di disturbo nei confronti di Agrippina e dei suoi figli, ben programmata e occultata, perché non si ritorcesse contro il suo ideatore. Così Seiano, pur animato da una smodata ambizione personale (mi è difficile credere che egli agisse sin dall'inizio in conformità con i voleri di Tiberio a questo proposito), si impegnó nella costruzione di una ragnatela nella quale far cadere uno dopo l'altro tutti i possibili pretendenti alla successione 24. Ma poiché la prudenza consigliava di non lasciarsi trascinare dalla foga, la sua prima offensiva si svolse indirettamente, per indebolire il circolo di Germanico (cioè il gruppo di amici che si era stretto intorno alla vedova, che cercava vendetta), agevolando il cursus bonorum di chi gradualmente si staccò da Agrippina, creando invece difficoltà d' ogni genere a coloro che le si rivelarono più fedeli ? e infine fomentando rivalità addirittura fra Nerone e Druso, la cui natura, poi, era resa pubblica grazie anche alle compiacenti rivelazioni di Giulia, moglie di Nerone e figlia di Livilla. Tutto ciò acuì in Tiberio il sospetto e il risentimento verso Agrippina e figli, accusati di dividere la cittadinanza in fazioni come ai tempi delle guerre civili 26. Per di più nel 24 i pontefici commisero l'indelicatezza di accomunare anche Nerone e Druso nell’invocazione agli dei in occasione della formulazione dei voti annuali per la salute di Tiberio, provocando il fiero risentimento del’imperatore 27, che li accusò di agire contro il suo volere su istigazione di Agrippina, la quale da parte sua non si attenne alla richiesta fattale dal marito in punto di morte 28 e tenne invece l’atteggiamento meno adatto a procurarle simpatia da parte di chi poteva nutrire diffidenza nei suoi confronti; Agrippina e Nerone fornirono inconsapevolmente e involontariamente il destro alle manovre di Seiano con il loro comportamento azzardato e spesso provocatorio, anche senza motivo, nei confronti di Tiberio, che, peraltro, pur frainteso, cercava di

mantenere al riguardo un atteggiamento quanto più possibile imparziale. 194

Fu cosi che dal 24 in poi iniziarono i processi contro alcuni sostenitori di Agrippina; i processi in realtà non furono poi cosi numerosi, perché in caso contrario avrebbero dato nell'occhio e d'altronde lo scopo non era di processare tutti i sostenitori di Agrippina e figli, ma di intimorire i rimanenti per neutralizzare il circolo. Prime vittime dell'attacco di Seiano furono nel 24 Gaio Silio e Tizio Sabino, ormai in cattiva luce, perché erano stati amici di Germanico 29, Poi l'accusa contro Tizio Sabino fu messa da parte, perché si ritenne più proficuo processare Sosia Galla, moglie di Silio e colpevole di essere una delle più care amiche di Agrippina; accusatore del primo fu il console dell'anno Visellio Varrone, che macchiò la sua precedente onorabilità per soddisfare gli sfrenati odî di Seiano 30, i capi d’accusa, che inizialmente erano molteplici, si ridussero a uno solo, ma

gravissimo: lesa maestà ?!. Silio si uccise, perché il suo nome non fosse macchiato da una tale infamante condanna 32 e Sosia fu mandata in esilio. Toccò poi al nobile Calpurnio Pisone, che, accusato anch'egli di lesa maestà da Q. Granio , si uccise prima di essere giudicato. : Questi processi avevano costituito per Seiano la «prova del nove» della solidità del suo potere: in Roma si stava spargendo un certo timore, che oltre a togliere ad Agrippina buona parte dei suoi sostenitori, ingrossava sempre più il seguito di Seiano, che si sentì fra l’altro rassicurato dalla insolita motivazione data da Tiberio al rifiuto di concedere a Dolabella le insegne trionfali per la vittoria numidica 34. Il 25 costituiì, quindi, sotto certi aspetti, il coronamento soprattutto ufficiale del potere di Seiano: Tiberio volle dare al senato un saggio della forza della guardia pretoriana 55 e quindi dell’auctoritas o, meglio, della potestas di Seiano, il quale, a questo punto, ritenne opportuno verificare l'entità del suo potere e fece a Tiberio la richiesta formale di sposare Livilla 36. Tacito riporta il testo della richiesta elaborato con molta accortezza per mascherare la cupidigia da cui era mosso Seiano: in esso si negava di avere ambizione alcuna di potere, gli sarebbe bastato sposare Livilla e per il resto avrebbe continuato la sua attività immutata e senza ambizioni successorie, quindi senza dare scosse alla struttura imperiale. La risposta di Tiberio appare attentamente studiata nei minimi particolari e nonostante il matrimonio non gli fosse stato concesso, esso non fu neppure apertamente rifiutato. Il princeps temporeggiava, ricordando la lealtà di Seiano e nel contempo i benefici già accordatigli. La ragione di stato impediva questo matrimonio, che avrebbe generato solo discordia, oltre a fomentare l'ostilità, già la-

tente, fra Livilla e Agrippina; ma questo non era tutto, perché a ció si sarebbe aggiunto lo sdegno ancor più pericoloso di chi in quest'unione avrebbe visto un degradamento inaccettabile della famiglia imperiale. Appare evidente da questo discorso che il princeps aveva le idee ben chiare sullo strapotere acquisito da Seiano in quegli ultimi anni, intorno al quale ruotavano gruppi di persone che gli si accostavano per opportunismo o comunque ricorrevano a lui per averne le spalle coperte. Tuttavia il rifiuto del consenso al matrimonio imperiale che lo avrebbe posto de facto.al di sopra di ogni eventuale rivale non scoraggió Seiano: egli in Ro195

ma riteneva di aver raggiunto un'autorità che rasentava una sorta di potestas, ebbene avrebbe potuto consolidarla solo se Tiberio si fosse allontanato da Roma; e così, su questa linea, egli cercò di persuadere il princeps a lasciarela capitale, per stabilire la sua residenza in un luogo pià ameno. La scalata al successo aveva il suo rovescio della medaglia; Seiano si sentiva tra due fuochi: da una parte il vistoso appoggio del suo seguito cui non voleva, né poteva, rinunciare, perché costituiva l'aspetto pià evidente del suo potere, dall'altra, e diretta conseguenza della prima, l'ostilità sempre crescente che egli avvertiva intorno a sé 57. L'insoddisfazione insinuata nell'animo di Tiberio cominció col tempo a germogliare, quanto più la situazione a Roma si faceva tesa e per lui insostenibile: il processo intentato nel 26 a Claudia Pulchra gli eccitó ancor più l’inimicizia di Agrippina, che ne era la cugina ?8, la quale, persa ogni prudenza, lo accusò di voler distruggere gli unici superstiti del sangue giulio, che egli fingeva ipocritamente di onorare celebrando sacrifici a dei simulacri, mentre la natura di Augusto riviveva, seppure minacciata, solo in Agrippina, la quale doveva subire tutte queste offese che la colpivano proprio nel centro dei suoi affetti. Non meraviglia la notizia che Tacito ricava dal memoriale di Agrippina minore,

secondo cui la madre, in occasione di una visita fattale da Tiberio, chiese

al princeps il consenso di rimaritarsi: Agrippina a questo punto voleva fare una verifica delle sue possibilità e la reazione di Tiberio non la rassicurò, perché, anche se non oppose un netto rifiuto, dimostrava che egli non intendeva correre il rischio conseguente all’unione della nipote con dei nobili, che avrebbero potuto aggiungere potere alle pretese successorie dei figli. Le relazioni tra Tiberio e Agrippina raggiunsero il livello massimo di tensione grazie ai sospetti che Seiano le faceva insinuare periodicamente da persone da lei ritenute fedeli, al punto che, in occasione di un banchetto, si rifiutò di toccare cibo, soprattutto se le veniva porto dal suocero, che, amareggiato, si lamen-

τὸ con la madre del provocatorio atteggiamento di Agrippina ??. La paziente attesa di Seiano ebbe il suo premio: nel 26 Tiberio, dopo lunga riflessione, decise di allontanarsi da Roma, ufficialmente per andare in Campania a inaugurare un tempio a Giove presso Capua e uno ad Augusto presso

Nola 4°: ma compiute queste incombenze, non ritornò più a Roma, facendo sorgere in Tacito il sospetto che il suo allontanamento non fosse da attribuirsi solo alle mene di Seiano, ma anche alla volontà dello stesso Tiberio per poter dar sfogo, senza più le limitazioni imposte dalla permanenza a Roma, ai suoi vizî più immondi 41, La partenza, avvenuta sotto una congiunzione astrale che non faceva prevedere il ritorno di Tiberio a Roma, diede luogo a illazioni su una sua fine imminente (di qui una serie di condanne capitali inflitte a chi divulgava queste notizie), tanto più che nessuno avrebbe mai ipotizzato undici anni di regno fuori di Roma 42.

L'assenza del princeps lasciò il campo libero a Seiano, la cui fedeltà e dedizione alla persona di Tiberio, erano state di recente sperimentate 4; se Tiberio

sperò con la sua assenza di responsabilizzare maggiormente i senatori, questa fu solo un'utopia, perchè Seiano continuò a spadroneggiare, servendosi, in caso di necessità, anche dei nobili, che credeva di aver vincolato a sé mediante l’elargizione di beneficî. 196

Di conseguenza nei primi anni di lontananza di Tiberio, l'azione del prefetto del pretorio contro i figli di Germanico fu ancora indiretta: il piü pericoloso per il momento era Nerone e non fu difficile spingerlo, grazie ai clientes o ai liberti, a un atteggiamento troppo spavaldo e tracotante, che Seiano non avrebbe mancato di pubblicizzare, ben ingigantito, alle rassegnate e credule orecchie di Tiberio, aiutato in questo dalla collaborazione pià o meno spontanea di Livilla e di Giulia ^*; il tutto fu poi facilitato dalla nota rivalità esistente fra Nerone e Druso, scontento quest'ultimo della preferenza che Agrippina sembrava mostrare al figlio maggiore: Seiano naturalmente ne approffittò, facendogli balenare la possibilità di ottenere la successione direttamente, se si fosse riusciti a eliminare Nerone ‘.

I processi frattanto continuavano e Seiano si sentiva sempre più sicuro; nel 28 fu la volta anche di Tizio Sabino (contro cui si era lasciata cadere la precedente accusa nel 24) in conseguenza dell’antica amicizia con Germanico e soprattut-

to della fedeltà che aveva continuato a dimostrare, nonostante tutto, ad Agrippina: l’accusa fu di aver complottato contro Tiberio, il quale in un messaggio al senato reclamó la punizione che non si fece attendere ^6. La morte di Livia nel 29 fu determinante per il precipitare degli avvenimenti 4; da quel momento in avanti Seiano potè agire contro i presunti rivali senza più le remore che la presenza a corte dell’ Augusta, sempre vigile, aveva finora creato: per quanto essa potesse avere in passato ostacolato Agrippi-

na e Germanico, non poteva avere più alcun interesse alla totale eliminazione dei pronipoti che da quelli erano nati e che univano la gens Claudia a quella Iulia. Infatti, a breve distanza dalla scomparsa di Livia fu letta in senato una missiva contro Agrippina e Nerone, accusati non di complotto contro Tiberio, ma la prima di arroganza e il secondo di condotta immorale 48, Lo stupore, che fece rimanere senza parole i patres conscripti e li spinse a non prendere decisioni azzardate in proposito (anche perché la stessa lettera di Tiberio non precisava chiaramente il suo scopo), trovò istantaneamente il corrispettivo nell’agitazione che invase il popolo, che si addensò intorno al senato rumoreggiando, dichiarando la lettera un falso ed esprimendo acri giudizi su Seiano. Da ciò, però, il prefetto del pretorio trasse ulteriore motivo per un incrudelimento delle proprie reazioni e di quelle di Tiberio ‘9. Agrippina fu esiliata a Pandataria, dove rimase fino al crollo di Seiano e il figlio Nerone a Ponza; Druso, invece, fu arrestato nel 30 e incarcerato nelle car-

ceri della reggia (evidentemente perché non avesse modo di rivelare gli accordi intercorsi con Seiano negli anni precedenti), dove si lasciò o fu fatto morire di fame dopo la morte di Seiano 0, A questo punto una lunga lacuna negli Aznali di Tacito ci obbliga a ricorrere, come uniche fonti, a Svetonio e a Dione Cassio, oltre che, ma solo fino al 30,

a Velleio. Finora la posizione di Seiano non pareva aver risentito delle atrocità commesse ?!, anzi sembrò consolidarsi ancora di più con il conferimento nel 30 del primo consolato per l’anno successivo 5, che sanciva definitivamente l’ufficialità della figura di Seiano, che da semplice eques diveniva console, tanto più 197

che avrebbe avuto come collega alla pià alta magistratura repubblicana lo stesso princeps, il quale dal 14 aveva tenuto il consolato solo due volte nel 18 e nel 21 con Germanico e con Druso ?. Seiano prendeva ufficialmente il luogo, spariti

ormai da tempo i figli del princeps ed eliminati anche i nipoti, della discendenza di Tiberio, che non appariva più restio a indicarlo come suo gradito coadiutore e, quindi, successore. Inoltre, nello stesso periodo gli fu conferito l'izmperium proconsulare ?^.

‚Ma l’orizzonte cominciò ad oscurarsi con l'improvviso richiamo a Capri dell’ormai diciottenne Gaio, unico superstite dei figli di Germanico. Si avvicinava il momento dell’ epilogo, che avrebbe avuto l'impronta oscura e tormentosa, della personalità di Tiberio: la notte del 17 ottobre 31 Nevio Sutorio Macrone 55 entrò in Roma da Capri con istruzioni segrete che rese note solo a Memmio Regolo, console designato, e a Grecino Lacone, prefetto dei vigili. Alla fine della riunione del senato venne data lettura di una lettera di Tiberio, che determinava l'improvviso capovolgimento della posizione di Seiano. Non si trattava della concessione della tribunicia potestas, speranza che Macrone gli aveva fatto poco prima balenare: tutt'altro: Tiberio non lo condannava direttamente, ma lo rimproverava e ordinava che fosse posto sotto controllo e che due consoli,

suoi adepti, fossero condannati "6.

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Il princeps non aveva voluto far scoppiare il caso Seiano improvvisamente: aveva forse voluto saggiare le reazioni dei senatori, le più importanti e certo le pià imprevedibili, dato che Seiano aveva sin'allora contato su un non trascurabile appoggio senatorio. C'era poi il ríschio, da non sottovalutare, costituito dalla reazione dei pretoriani, sui quali Seiáno, a torto o a ragione, aveva contato moltissimo. Tutto andò secondo le previsioni del princeps: in senato si ebbe la prima verifica della fragilità della posizione di Seiano: tutti si allontanavano da lui, inclusi quelli che ne avevano ottenuto agevolazioni anche notevoli, mentre la reazione popolare fu entusiastica, perché tutti sí sentivano finalmente liberi da un in. cubo. I pretoriani, che avrebbero potuto costituire la spada di Damocle in tutta questa situazione, non ebbero alcuna reazione avventata per salvare Seiano e quindi, visto che tutto sembrava andare de plano, il senato si riunì il giorno dopo nel tempio della Concordia e lo condannò a morte 57. Il suo corpo fu poi lasciato in balìa del popolo inferocito e la tragedia si abbatté indiscriminatamente anche sui figli di quello, l'ex moglie Apicata si suicidò e il loro patrimonio fu confiscato 58, La fine di Seiano non produsse alcun contraccolpo in Roma. Il Senato, che nel passato più recente era sembrato appoggiare il prefetto del pretorio, non era stato scosso dai traumatici avvenimenti, non solo, ma taluni dei suoi membri collaborarono per accelerare la fine di Seiano. Questi non aveva compreso — come spesso accade a chi raggiunge troppo in fretta un importante traguardo — che le manifestazioni di appoggio che gli provenivano e dal Senato e dai pretoriani erano contingenti e limitate, cioè, al conseguimento di favori che egli per la sua posizione era in grado di far ottenere e non erano conseguenza di una considerazione o stima personale. Chi mal tollerava un princeps di ascendenza nobilia198

re, non avrebbe accettato un coadiutore e probabile successore nella persona di un prefetto del pretorio di rango equestre. Questi i fatti. Ma cosa aveva spinto Tiberio a uscire dal suo isolamento? La versione ufficiale, che si ricava da iscrizioni ?? e da altri accenni 69 descrive Seia-

no come un rivoltoso colto sul fatto e di conseguenza crudelmente eliminato dal princeps per evitare il dilagare della sedizione 91. Giuseppe Flavio 9 e Dione Cassio accennano a due lettere che Tiberio ricevette, la prima di Antonia, l'altra, posteriore, di Apicata 9. In essa Antonia denunciava al cognato Tiberio, di

cui godeva piena fiducia, l'azione di Seiano divenuta ormai scopertamente pericolosa soprattutto nel suo attacco contro la discendenza di Germanico.

.

Lalettera di Antonia, dunque, sbloccò la situazione e attirò l'attenzione di

Tiberio sulle azioni di Seiano: Gaio, di conseguenza, fu immediatamente chia-

mato a Capri, ma per il momento Tiberio rifiutò di agire in maniera più incisiva, in attesa dell’inevitabile evolversi degli avvenimenti, nonostante sapesse che lo strapotere di Seiano era divenuto insostenibile 9. Evidentemente riteneva che questo sarebbe stato sufficiente a far commettere passi falsi a Seiano, tali da giustificare l'efferata repressione che segul. Dione Cassio, infine, esclude categoricamente che Seiano abbia organizzato una congiura durante il suo consolato $*, tranne che per congiura non si intendano quella serie di manovre affrettate e poco coerenti dettate dal desiderio di autoconservazione, da collocarsi cronologicamente dopo il richiamo di Gaio a Capri, quando Seiano sentì vacillare la propria posizione. La tendenza della critica attuale prosegue sulla linea interpretativa di Dione e ritiene che tutt'al pià si possa parlare di una contromisura di Seiano tentata negli ultimi giorni della sua vita 9.

Comunque, poiché dopo la morte di Seiano, la situazione di Agrippina, Nerone e Druso non subi alcun miglioramento, si puó affermare che l'azione di Tiberio contro il prefetto del pretorio non fu dettata da desiderio di giustizia e di effettuare una tardiva riparazione dei torti commessi in passato contro degli innocenti, nonostante Svetonio citi un passo 56 in cui Tiberio dichiaró nella sua autobiografia di essere intervenuto contro Seiano per punirlo dello sleale comportamento tenuto contro i figli di Germanico. Il fatto stesso che i pretoriani, che a Seiano dovevano tutto, non abbiamo mosso un dito per aiutare o vendicare il loro capo, ma che anzi, per rifarsi una credibilità, abbiano incrudelito nelle repressioni contro adepti e familiari del prefetto del pretorio 9, quasi a dimostrare la loro estraneità a eventuali piani sovversivi, induce a rifiutare l’idea della congiura. D'altronde basterebbe a escludere l'idea del complotto un'analisi più attenta della posizione politica occupata nel 31 da Seiano: il consolato, concessogli forse a coronamento dell'avvenuto matrimonio con Livilla 68, lo poneva in una posizione di prestigio tale che pensare che egli volesse organizzare un complotto contro Tiberio, per sostituirglisi, è una supposizione priva di ogni credibilità politica 9. Le aspirazioni autocratiche di Seiano potevano avere esito positivo, solo se avesse avuto il buon senso di pazientare: Tiberio aveva ormai più di settant'anni, la sua fine non si sarebbe fatta attendere a lungo e allora, dopo tanti 199

anni di «fedele servizio», Seiano avrebbe avuto le migliori possibilità di realizzare i suoi ambiziosi sogni. Mi pare improbabile che Seiano volesse uccidere Gaio, per lasciare in vita il solo Tiberio Gemello, di cui era divenuto tutore, per le prevedibili reazioni che un gesto del genere avrebbe suscitato nell'opinione pubblica e, forse, in Tiberio stesso; inoltre, se tutto fosse andato secondo le aspettative, il princeps avrebbe preferito nel giro di pochi anni designare alla successione il proprio nipote diretto piuttosto che Gaio. A questo punto mi pare opportuno esaminare con maggiore attenzione la figura di Gaio: perché questi fu l'unico superstite della famiglia di Germanico? Non sarebbe stato meglio per Seiano eliminare anche lui e lasciare strada libera a Tiberio Gemello? Diversi furono i motivi che spinsero Seiano a non eliminare anche Gaio: il più ovvio, innanzitutto, fu la necessità di non far sembrare come una persecuzione dettata da motivi politici quella che doveva apparire una misura punitiva dettata da istanze di carattere morale e di mantenimento dell'ordine costituito. Nulla, & vero, ci impedisce di credere che Seiano avesse deciso di dare il

colpo di grazia ai due figli più grandi di Germanico, riservandosi, se necessario, di intervenire contro Gaio in un secondo momento; ma poiché in due anni non fece nulla del genere, neppure dopo essere stato ulteriormente innalzato nella scala sociale dal matrimonio con Livilla, non & tanto azzardato supporre che in fin dei conti Seiano avesse trovato piü utile stringere un accordo con Gaio, nonostante la sua giovane età (così come, d'altronde, aveva fatto con il fratello

maggiore di Gaio, Druso, per poter attaccare meglio Nerone) e che fra i due si fosse creato un legame piü stretto e, almeno da parte di Gaio, non solo di natura opportunistica. Seiano, col passar degli anni, soprattutto da quando l'assenza di Tiberio gli permise maggiore libertà di manovra, era venuto via via accostandosi a idee teocratiche di stampo ellenistico, le uniche concezioni che in quel frangente poteva. no giustificare le sue sfrenate ambizioni di potere. Questo & coerente alla posizione da lui occupata sin dall'inizio della sua carriera: egli infatti fece parte, per la sua origine equestre, di un circolo d’impostazione /ato sensu mecenatiana, al cui interno confluivano zobiles scontenti dell'autocrazia augustea, e maggiormente di quella tiberiana, alla ricerca di un potere personale, ed eguites, ancora privi in quest'epoca di una loro precisa identità, che credevano di poter trovare mediante un'alleanza con la classe pià ricca e potente 70, Si giunse così al paradosso — ma è poi un paradosso? — che l’eliminatore spietato dei due più grandi figli di Germanico assunse in pieno — o, almeno, ci si provò — l'ideologia divinizzante di Germanico, che era stata mantenuta viva dalla vedova Agrippina e poi dal senato contro le presunte minacce di Tiberio. Questo mutava i termini delle posizioni esistenti: l'abile manovra di Seiano, in-

fatti, fece presa sui sostenitori di Agrippina, togliendole l’unica forza su cui ella poteva contare; così si vide costretta a staccarsi dalla sua base per cercare appoggio nella fascia più tradizionalistica del senato (l’unica che non si era fatta corrompere dalle azioni di Seiano), che fece di Germanico il vessillo della propria 200

opposizione al tiranno Tiberio. Di conseguenza la base, libera o priva dell'imponente figura di Agrippina, si rivolse a Seiano, che accettó e cercó di mettere in pratica alcune delle idee tradizionalmente germaniciane. Sarebbe, quindi, credibile che Gaio, nel quale il ricordo del padre era vago e senz'altro idealizzato dalla madre, vissuto nella sua infanzia e nell'adolescenza in un'atmosfera avvelenata dai dissidi della madre con Tiberio e dei fratelli maggiori con la madre, dirigesse il suo astio solo contro Tiberio, poiché Seiano non era ancora comparso all'orizzonte (comunque non in posizione di rilievo) quando Germanico era morto. Gli anni trascorsi nella casa della nonna Antonia lo misero in contatto con idee di stampo orientale ed ellenistico, che Gaio credette di trovare impersonate proprio in Seiano, col quale ebbe occasione di avere non pochi contatti, poiché il prefetto del pretorio godette per un certo periodo - dell’amicizia di Antonia; se poi Seiano persuase Gaio che l’azione contro Nerone e Druso era conforme alla sola volontà di Tiberio e che egli avrebbe invece cercato di proteggerlo da eventuali attacchi del princeps, allora i conti tornano. L’allontanamento di Gaio da Roma e il suo richiamo a Capri rappresentarono un tentativo di Tiberio di sottrarre Gaio, sulla scorta dell’avvertimento di Antonia, alla nefasta influenza di Seiano e di riabilitarlo in vista della probabile successione.

Ma forse l’influenza di Seiano aveva già fatto i suoi danni nell’influenzabile mente del giovane Gaio: infatti la politica da lui attuata nei primi due anni di regno appare dettata da un deciso desiderio di contrapposizione alla linea conduttrice della politica tiberiana: alcuni membri della robilitas precedentemente legati a Seiano e sopravvissuti alla reazione di Tiberio e di Macrone, ottennero un immediato incrementodi potere, al punto che Calvisio Sabino divenne governatore della Pannonia ?!, che la sorella prediletta di Gaio, Drusilla, fu data in

sposa a M. Emilio Lepido, amico di Annio Viniciano 72 e che il figlio adottivo di L. Apronio, L. Apronio Cesiano, fu console nel 39 75, A coronamento di tutto ciò ecco nel 38 l’ordine di uccidersi inviato a Macrone e a sua moglie, al momento in cui questi lasciava la prefettura del pretorio per assumere quella d’Egitto74: vendetta tardiva per avere Macrone tradito Seiano, al quale doveva probabilmente la sua ascesa politica 75 o semplicemente, memore dello strapotere di Seiano, desiderio di eliminarne il successore per timore che questi gli creasse problemi o addirittura decidesse di appoggiare il probabile rivale, Tiberio Gemello? Ma nel 39 vi fu un brusco cambiamento di indirizzo politico con conseguente netta inversione di tendenze 76: di qui i primi tentativi di congiure contro Gaio, organizzati dalle persone che fino a poco tempo prima avevano applaudito in lui il fautore di una politica diversa da quella di Tiberio. È difficile dipanarei fili di queste matasse intrecciate, che corrono da Seiano a Tiberio e da questi a Gaio. Quel po’ che conosciamo potrebbe forse aiutarci. L’ascesa di Seiano era stata rapida, perché voluta da Tiberio, del quale riusci a divenire la /onga manus; col passar del tempo aumentarono il suo rango, la sua ricchezza e la sua potenza e egli ormai era convinto che tutto gli fosse permesso dal princeps, anche l'attacco alla famiglia di Germanico. 201

Ma sia Tiberio che Seiano erano sottoposti ad altri impulsi che derivavano dalla loro posizione personale: lo strapotere di Seiano provocava reazioni negative e proteste negli ambienti senatori ed un'eco di ciò giungeva sino a Tiberio: le lettere di Antonia e di Apicata non furono certamente le sole a dare notizie attendibili al princeps sull'attività di Seiano in Roma. Ad onta della fiducia che egli dimostrava, piena, verso quest'uomo, non poteva Tiberio non rendersi conto delle coincidenze fortunate che punteggiavano l'ascesa del prefetto del pretorio: la morte di Druso, di uno dei Gemelli, l'eliminazione dal gioco successorio dei due figli di Germanico, tutte queste situazioni inducevano Tiberio ad essere forse più attento alle intemperanze del suo rappresentante in Roma. Seiano, da parte sua, avvertiva che, al di là dell'adulazione e dell'opportunismo tra i quali si muoveva, la sua posizione era mal tollerata dal Senato e che la famiglia di Germanico, Agrippina in particolare, era la sua peggiore nemica perché vedeva in lui lo strumento di Tiberio, che considerava il nemico della sua famiglia. Tra tante ostilità dirette e riflesse, Seiano comprese che, indipendentemente dalla sua subordinazione a Tiberio, egli doveva preoccuparsi, per il momento, di mantenere solida la sua posizione, tentando di neutralizzare gli impulsi negativi che gli provenivano da Agrippina e dal «circolo» dei suoi fedeli che poi erano i rappresentanti degli ideali germaniciani. Questo era il momento del Seiano «diplomatico» che riuscì ad inserirsi nel circolo di Agrippina e ad apparire al superstite dei suoi figli, Caligola, come l’esempio vivente e virile, cui riferirsi, avendo egli ricevuto quel viatico ideale dalla nonna e dalla madre. Agrippina, ormai esautorata, era fuori gioco e Seiano diveniva, in un certo senso, il rappresentante di Gaio; ma Gaio odiava Tiberio, come lo odiavano gli altri membri della sua famiglia; ed al princeps erano addebitate le loro più recenti traversie, e questo sentimento trasse forse alimento dalle affermazioni di Seiano che attribuiva a Tiberio anche tutto ciò che egli medesimo aveva operato nei loro confronti. Il gioco era molto intricato e Tiberio intervenne sottraendo Gaio al controllo di Seiano. Questo significava che egli aveva mutato atteggiamento e politica verso il suo prefetto del pretorio. Questo nuovo pseudo «tutore» di Gaio, che si atteggiava ad assertore di ideali ellenistici mal tollerati in altri personaggi, peraltro più qualificati, e che tentava di instaurare relazioni con gruppi senatorî a lui ostili, non convinse il «tenebroso» Tiberio. Si era ritirato a Capri per vivere tranquillo, ma non intendeva che questo ritiro fosse un paravento al di là del quale ogni gioco fosse ammesso a sua insaputa e nel suo nome. Anche dopo essersi ritirato a Rodi, nel passato, si era trattato al di sopra di lui e per poco non gli si impedì di rientrare in Roma. Quindi l'intervento del princeps fu deciso nei riguardi di Caligola e traumatico e definitivo nei riguardi di Seiano e dei suoi adepti. Non è dato sapere se Caligola facesse parte di un piano più attento e organizzato di Seiano; è sembrato, tuttavia, che il giovane figlio di Germanico ve-

desse in Seiano quanto nessuno, forse, era riuscito a vedere.

202

! Cfr. R. SvME, Tacitus, Oxford 1958 (= trad. it. Brescia, 1967), vol. I, p. 412; H.W. Brgp, L. Aelius Seianus and His Political Significance, in «Latomus», XXVIII, 1969, p. 64.

.? Cfr. E. MEISSNER, Sejan, Tiberius und die Nachfolge im Prinzipat, Erlangen 1968, pp. II-II. 3 Jos.,

A J., XVII, 6.

^ Septicio Claro è il prefetto del pretorio a cui è dedicata l'opera di Svetonio, C. Fulvio Plautiano è quello a cui è dedicata l'opera di Dione Cassio, cfr. Dro, LVIII, 14,1. 5 Cfr. von RoHDEn, in R.E., c. 529. $ Cfr. F. ApAMs, The Consular Brothers of LXXVI, 1955, pp. 70-76;Z. STEWARD, Sejanus, pp. 70-85; R. SEALEY, The Political Attachments of 97-114; G.V. SUMNER, The Family Connections of

Sejanus, in «American Journal Gaetulicus, and Seneca, ibidem, L. Aelius Seianus, in «Phoenix», L. Aelius Seianus, ibidem, XIX,

of Philology», LXXIV, 1953, XV, 1961, pp. 1965, pp. 134-

145. VELL., II, 127,3...Seianum Aelium, principe equestris ordinis patre natum, materno vero genere

clarissimas veterasque et insignes bonoribus complexum familias, babentem consularis fratres, consobrinos, avunculum...

? Cfr. SUMNER, art. cit., p. 140-41; questa tesi è accettata anche sulla base di un'accusa Aelii Galli amicitia che Tacito considera alla pari con l'accusa Seiani amicitia (Ann., V, 8): Elio Gallo de-

ve essere stato il più vecchio dei figli di Seiano e il suo nome completo deve essere stato (L?) Elio Gallo Strabone, per ricordare con Strabone il nonno naturale. 8 Tac., Ann., I, 24,2; Dro, LVII, 19. ? Tac., Ann., IV, I, 2,...et prima iuventa Gaium Caesarem divi Augusti nepotem sectatus. 10 BIRD, art. cit., p. 63 sostiene che Seiano doveva aver servito con Tiberio al nord, prima di

. ricevere l'incario dell'importante missione pannonica.

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1 Tac., Ann.,1, 24; Dro, LVII, 19; la rivolta in Pannonia rappresentò un segno — e non fu

l'unico — dell'insoddisfazione generale che gli avversari avrebbero cercato di sfruttare a loro vantaggio.

7? Anche in questo campo, quindi, Tiberio non fece altro che prendere atto di uno stato di fatto preesistente, che non mutó quasi per nulla; analogamente & stato notato che negli anni 15-23

il rapporto novi homines - nobiles giunti al consolato è simile a quello degli ultimi anni del principato augusteo; cfr. SEALEY, art. cit., p. 110. 3 Tac., Ann., IV, 2, 1, Vim praefecturae modicam antea intendit, dispersas per urbem cobortis una in castra conducendo, ut simul imperia acciperent numeroque et robore et visu inter se fiducia ipsis, in ceteros metus oreretur, Dio, LVII, 19,6 che data quest’avvenimento al 20. 14 Ad esempio, in occasione del processo contro Pisone, Tacito (Azz., IIT, 16,1) riferisce di aver avuto notizia da persone piü anziane di una poco chiara partecipazione di Seiano tendente a

far sparire le prove che Pisone diceva di avere contro Tiberio. 5 Tac., Ann., III, 29,4; secondo Dro, LVII, 19, 7 σύμβουλον καὶ ὑπηρέτην πρὸς πάντα conformemente alla sua convinzione che il 20, anno successivo alla morte di Germanico, segni il giro di boa del regno di Tiberio; Tacito invece preferisce fissare l'inizio della fase più negativa del principato di Tiberio al 23, anno della morte di Druso. 16 Tac., Ann., III, 29,1, Per idem tempus Neronem e liberis Germanici iam ingressum iuventam commendavit patribus, utque munere capessendi vigintiviratus solveretur et quinquennio quam per leges quaesturam peteret non sine inrisu audientium postulavit.

maturius

1? Tac., Ann., III, 72,2-3. 18 Tac., Ann., III, 72,4, Neque multo post Caesar, cum Iunium Blaesum pro consule Africae triumpbi insignibus attolleret, dare id se dixit bonori Seiani, cuius ille avunculus erat. Ác tamen res Blaesi dignae decori tali fuere. 19 Si arrivò fino a un diverbio in pubblico; cfr. TAc., Ann., IV, 3, 2, Placuit tamen occultior via et a Druso incipere, in quem recenti ira ferebatur. Nam Drusus impatiens aemuli et animo commolior orto forte iurgio intenderat Seiano manus et contra tendentis os verberaverat. 20 Tac., Ann., IV, 7,2; Dio, LVII, 21,4.

21 Fino a che otto anni dopo non furono rivelati dei particolari piuttosto insoliti sulla causa della morte di Druso: egli sarebbe stato vittima di un complotto di Seiano e di Livilla e il veleno gli ‘sarebbe stato propinato dall'eunuco Ligdo (TAc., Azz., IV, 10-11). Alcuni studiosi, però, hanno manifestato delle riserve soprattutto riguardo al motivo che poteva aver spinto la futura imperatrice a tradire il marito e addirittura a complottarvi contro, rinunciando a una successione certa, con-

203

tro una molto remota e infamante possibilità di regnare al fianco di Seiano; cfr. A. GARZETTI,

L'imperio da Tiberio agli Antonini, Bologna 1960, p. 55. 22 E in quest'occasione Tiberio aveva pronunciato in senato una lode del figlio Druso che si era comportato nei confronti dei nipoti con molta equanimità; cfr. TAc., Azz., IV, 4,1, Nam Drusus, quamquam arduum sit oedem loci potentiam et concordiam esse, aequus adulescentibus aut certe non adversus babebatur. 2 Per la forza d'animo dimostrata da Tiberio cfr. TAC., Ann., IV, 8,2-3; per la raccomandazione dei nipoti al senato, TAc., Arn., IV, 8, 4-5. 24 Tac., Ann., IV, 12,2-4.

25 E infatti fra coloro che in questi anni ottennero il consolato sono molto pochi gli amici di Germanico. 26 Tac., Ann., IV, 17,3, Instabat quippe Seianus incusabatque diductam civitatem ut civili bello: esse qui se partium Agrippinae vocent, ac ni resistatur, fore pluris; neque aliud gliscentis discordiae reme-

dium quam si unus alterve maxime prompti subverterentur. 27 Tac., Ann., IV. 17,1-2; SUET., Tib., LIV, 2. 28 Tac., Ann., II, 72,1, ...per memoriam sui, per communis liberos oravit exueret ferociam, saevienti fortunae summitteret animum, neu regressa in urbem aemulatione potentiae validiores inritaret.

2 Tac., Ann., IV, 18,1, amicitia Germanici perniciosa utrique. 30 Tac., Ann., IV, 19,1,...odiis Seiani per dedecus suum gratificabatur. A Tac., Ann., IV, 19,2-3.

32 Ma nonostante ciò il suo patrimonio non fu salvo e si ebbe così la prima grave manifestazione dell'avidità di Tiberio verso i patrimonî altrui (TAc., Arz., IV, 20,1, Ea prima Tiberio erga pecuniam alienam diligentia fuit.). Da Var. Max., IX, 12,7 risulta che già ai tempi di Cicerone il suicidio e la morte naturale ostacolavano allo stesso modo la condanna e la confisca dei beni: cosi si

spiega il gran numero di suicidi che caratterizza drammaticamente l'epoca tiberiana, nonostante in alcuni testi giuridici il suicidio sia considerato alla stregua di un'ammissione di colpevolezza. 3 Tac., Ann., IV, 21,1-2; ma il Sv (Some Pisones in Tacitus, in «Journal of Roman Studies», XLVI, 1956, p. 20) preferisce leggere O. Veranius al posto del pzsonemque gravius dato dal

Mediceus primus, successivamente emendato dal Lipsius in Pisonem Q. Granius. ^ Tac., Ann., IV. 26,1, Dolabellae petenti abnuit triumpbalia Tiberius, Seiano tribuens, ne Blaesi avunculi eius laus obsolesceret. 5 Dro, LVII, 24,5. 36 Tac., Ann., IV, 39,1-4. 37 Tac. Ann. ‚IV, 41,1, Rursum Seianus non iam de matrimonio sed altius metuens tacita suspicionum, vulgi romorem, ingruentem invidiam deprecatur. 98 Tac., Ann., IV, 52,1-4.

? '[AC., Ann., IV, 54,1-2; Suer., Tib., LIII. ^) 'l'AC., Ann., IV, 51,1. a TAC., Ann. IV, 57,2, et Rhodi secreto vitare coetus, recondere voluptates insuerat; Dio, LVIIL 1,1 = XIPH., 142, 18- 21; Suer., Tib., LXI ss. 42 Tac., Ann., 58, 2 ss. 4 Tac. | Ann., IV, 59,1, Ac forte illis diebus voblatum Caesari anceps periculum auxit vana rumoris praebuitque ipsi materiem cur amicitiae costantiaeque Seiani magis fideret. 4. Tac., Ann., IV, 60,2. ^ Tac. ‘ Ann., ‚IV, 60, 2, qui fratrem quoque Neronis Drusum traxit in partis, spe obiecta principis loci si priorem aetate et iam labejactum demovisset. 4 Tac., Ann., IV, 70,1, Sed Caesar sollemnia incipientis anni kalendis Ianuariis epistula precatus venit in Sabinum, corruptos quosdam libertorum et petitum se arguens, ultionemque baud obscure poscebat.

47 Tac., Ann., V, 1 per uno schizzo sinteticamente efficace della personalità di Livia Augusta. 48 Tac., Ann., V, 3,2,... sed non arma, non rerum novarum studium, amores iuvenum et impudicitiam nepoti obiectabat. In nurum ne id quidem confingere ausus, adrogantiam oris et contumacem: animum incusavit...

^9 Tac., Ann., V, 4,4,

204

Unde illi ira violentior et materies criminandi.

50 Tac., Ann., VI, 23,2 ove è anche riportata la notizia che Macrone era stato autorizzato a servirsi di Druso, qualora Seiano avesse opposto resistenza armata; Dio, LVIII, 13,1; SuET., Tib.,

54,1. 51 D’altronde il fatto che nell’opera di Velleio, pubblicata nel 30, non vi sia traccia alcuna di dissenso nei confronti del prefetto del pretorio, dimostra che la sua posizione era ancora sicura e che Tiberio non aveva o credeva di non avere motivo di sospettare di Seiano (VELL., IT, 127-28;

Dro, LVIII, 2,7). 32 Dro, LVIII, 4,3.

» Cosi come Augusto aveva riassunto il consolato altre due volte per la deductio in forum dei figli adottivi Gaio e Lucio Cesare. 54 Dro, LVIII, 7,4.

5 Cfr. F. DE VIsscHER, La caduta di Seiano e il suo macchinatore Macrone, in «Rivista di cultura classica e medievale», II, 1960, pp. 245-257.

56 Dro, LVIII, 10,1. ? Dro, LVIII, 11,4. 58. Dio, LVIII, 11,5-7. 59 ].L.S., 157, Providentiae Ti. Caesaris Augusti... sublato boste perniciosissimo; 158; 604. € SuET., Tib., 65,1, Seianum res novas molientem...; 65,5, oppressa coniuratione; Tacito accenna ai processi tenutisi contro i presunti complici di Seiano (Arz., V, 8,1; 11,1; VI, 14,1).

6 Mail rapido intervento di Tiberio non fu sufficiente a rassicurarlo se è vero che ancora per nove mesi continuó a temere ripercussioni in Roma e anche nella stessa Capri, cfr. SuET., Tib., 65,5.

€ ]’exmoglie di Seiano alla notizia dell’uccisione dei suoi figli, prima di suicidarsi, inviò una

lettera a Tiberio in cui accusava Livilla di essere la complice di Seiano, sin dalla prima delle sue azioni delittuose, e indicava questo e la moglie di Druso responsabili anche della morte di quest'ultimo.

6 Suer., Tib., LXV, 1, Quamvis iam et natalem eius publice celebrari et imagines aureas coli passim videret.

64 Dro, LVIII, 6,4; 8,2. 65 Cfr. SyME, Tacitus, Oxford, 1963, (trad. it., Brescia, 1971), vol. II, p. 753; M.P. CHARLESWORTH, Tiberius, in C.A.H., X, Cambridge, 1934, p. 637; F.B. MansH, The Reign of Tiberius, Oxford, 1931, p. 306; A. ΒΟΡΡΙΝΟΤΟΝ, Sejanus. Whose Conspiracy?, in «American Journal of Philology», LX XXIV, 1963, pp. 7-8. F. DE VisscHER, La politique dynastique sous le regne de Tibère, in Synteleia V. Arangio - Ruiz, Napoli, 1964, p. 58. 6 SuET., Tib., LXI, 1, (Tiberius) ausus est scribere «Seianum se punisse, quod comperisset furere adversus liberos Germanici filii sui». 67 Dio, LVIII, 12,2; analogamente gli stessi senatori, che in tante occasioni avevano adulato e circuito Seiano, si allontanarono da lui e ne favorirono la cattura, dando la prova dell'opportunismo dilagante all'interno del senato (Dro, LVIII, 12,4-5). : 8$ Il matrimonio fu reso possibile dal superamento dell'ostacolo costituito fino a poco tempo prima da Agrippina; cfr. E. ΜΕΙΞΕ, Untersuchungen zur Geschichte der julisch-claudischen Dynastie,

München, 1969, p. 81. $ Anche perché non mi pare si possa accettare l'affermazione del MEISSNER, op. cit. , p. 25, che accomuna i casi di Claudio e Seiano; ὃ pur vero che entrambi erano di rango equestre, ma solo in Claudio le truppe potevano vedere un giulio-claudio, non certo in Seiano, perché non è possibile mettere sullo stesso piano i rapporti di sangue con quelli di parentela acquisita. ? Cfr. SEALEY, art. cit., p. 114. . 1 Tac., Hist, 1,48,2: Dro. LIX, 18,4. 72 Per il matrimonio cfr. Dro, LIX, 11,1; LIX, 22,6; per l'amicizia, Jos.. A.J., XIX, 1,3; 1,8. 3 Dro, LIX, 13,2. "^ SUET., Cal., 26; Dro, LIX,

10,6.

75 Cfr. E. KoEsTERMANN, Der Sturz Seyans, in «Hermes», LXXXTII, 1955, pp. 364, 372. 76 Cfr. SEALEY, art. cit., p. 114.

205

ALESSANDRO

MAGNO, MARTA

I GALLI

E ROMA

SORDI

Nella trattazione dei rapporti fra Alessandro Magno e l'Occidente, a cui P. Treves ha dato un importante contributo, non è stata per lo più considerata una notizia che permette, forse, di far risalire assai prima del 323 e perfino del 334 l'interesse del Macedone per l'Italia. Si tratta del fr. 2 Jacoby di Tolomeo Lago, citato, sembra attraverso Posidonio, da Strabone (VII, 3,8-301/2) e riportato più ampiamente — e io credo direttamente — anche da Arriano (An. I, 4,6 sgg.): nel corso della spedizione contro i Triballi, nella primavera del 335, il giovane Alessandro, che era appena salito al trono, ricevette sull'Istro, oltre ad una

ambasceria di Sirmo re dei Triballi, un'ambasceria dei Celti che abitavano «sull' Adriatico», secondo Strabone (περὶ τὸν 'Aópíav), «sul golfo Ionio», secondo Arriano (ἐπὶ ᾿Ιονιῳ κόλπῳ). Essi chiedevano di stabilire con lui amicizia: Alessandro li accolse amichevolmente e domandó loro che cosa temessero di più, aspettandosi che indicassero lui stesso. I Galli invece, che abitavano lonta-

no e in luoghi δύσπορα (Arrian. ib. I, 4,8), risposero che temevano solo che il cielo cadesse loro sulla testa. Alessandro — aggiunge Arriano — dopo aver osservato che i Galli erano dei grandi fanfaroni, li rimandó indietro φίλους t£ Óνομάσας καὶ ξυμμάχους!. |

Il primo problema che la notizia di Tolomeo οἱ pone è la zona di provenienza di questi Galli: il fatto che la nostra fonte spieghi la loro mancanza di timore nei riguardi di Alessandro con la circostanza che «essi abitavano lontano e in luoghi nei quali era difficile passare», induce a pensare che essi provenissero da oltre il mare e, quindi, dalla sponda occidentale dell' Adriatico: si tratta, dunque, certamente dei Galli d'Italia?. Si sa che nel III secolo i Galli abitavano nella zona già etrusca di Adria e di Spina e nel contiguo ager Gallicus: Potrebbero essere questi i Celti che si incontrarono con Alessandro: sappiamo peró che appena 10 anni dopo questa ambasceria, nel 325/4, gli Etruschi avevano ancora delle basi sull Adriatico ed esercitavano da tali basi la pirateria a danno dei Greci 3: sembra pertanto, o che essi non fossero stati ancora estromessi dai Galli dalla zona costiera o che, approfittando della caduta della tirannide siracusana, avessero riconquistato le loro posizioni o che, infine, avessero stabilito con i Galli rapporti di convivenza *. La terminologia usata dalle nostre fonti, d'altra parte, non sembra indicare l'alto Adriatico: è ᾿Αδρίας, che nel V secolo indicava solo l' Adriatico settentrionale, indicava nel IV tutto l'attuale Adriatico, mentre ᾿ἰόνιος κόλπος, che nel V indicava

solo l'Adriatico

meridionale,

indicava

nel IV quasi esclusivamente

lo

Ionio 5. Purtroppo non sappiamo con esattezza se Tolomeo usasse l'espressione di Strabone.o quella di Arriano, ma l'ampiezza maggiore e il carattere diretto della citazione arrianea inducono a propendere per la seconda ipotesi e a suppor207

re che nel testo originario si parlasse di ’Iöviog κόλπος e che si indicassero le

coste adriatiche della Puglia o, addirittura, quelle ioniche della penisola salentina, la Iapigia dei Greci. La presenza di Galli in Iapigia & attestata da Diodoro (XIV, 117,6) fin dal

386 e Livio rivela che essi continuarono ad essere presentiin tale regione (egli parla di Apulia e di mare inferum) almeno fino al 348 varr.(= 344): si tratta dei

Galli che avevano stabilito, secondo Giustino (XX, 5,4 sgg.), un accordo con Dionigi I, e che, arruolati come mercenari dai tiranni di Siracusa, continuarono

per tutta la prima metà del IV secolo e fino alla caduta della tirannide siracusana a fare incursioni dalla Puglia contro il Lazio e contro l'Etruria 6. In Puglia Dionigi II fondò due colonie per rendere più sicura la navigazione sul canale d'Otranto (Diod. XVI, 5,3): in esse egli si trovava ancora nel 357/6 al tempo, dell'attacco di Dione (ib. 10,2) e di là fu costretto, allora, a richiamare anche Filisto (ib. 11,3). E probabile che in queste colonie siano stati stanziati i mercenari

gallici 7. "ἢ Nel vuoto di potenza creatosi nell'Italia meridionale dopo la definitiva caduta della tirannide siracusana nel 343 e dopo l'abdicazione di Timoleonte dalla strategia autocratica nel 337/6, di fronte al pericoloso risveglio dei Lucani e degli indigeni della penisola sallentina, che aveva provocato nel 338/7 l'intervento e la morte di Archidamo *, il tentativo dei Galli, già mercenari di Siracusa, di

stabilire rapporti col nuovo egemone della Grecia, non solo non desta alcuna sorpresa, ma si spiega anzi assai bene alla luce, sia dei rapporti esistenti fra la Siracusa di Timoleonte e la corte di Macedonia ?, sia della politica anticartaginese ed antietrusca che Timoleonte, facendosi continuatore di Dionigi, aveva ripreso con la massima energia dopo l'allontanamento del tiranno !9. L'invio da parte dei Galli di un'ambasceria ad Alessandro subito dopo la sua ascesa al trono (ricordiamo che l'ambasceria fu costretta a raggiungere il giovane re sull'Istro solo perché egli si trovava là impegnato in una campagna militare, ma che la sua destinazione originaria doveva essere Pella) ha tutta l'aria di una regolare «presentazione di credenziali» in occasione di una successione: essa sembra pertanto presupporre una conoscenza precedente e precedenti rapporti fra questi Galli e la corte di Macedonia. Tolomeo, che scriveva dopo la morte di Alessandro e alla luce del suo mito, attribuiva al giovane figlio di Filippo la speranza che il «suo grande nome» fosse arrivato cosi lontano e che i Galli temessero lui pià di ogni altra cosa; lo stesso Tolomeo sentiva il bisogno di spiegare l'assenza di timore dei Galli con la loro lontananza e con il fatto che essi vedevano Alessandro occupato altrove. In realtà i Galli, che erano giunti all'Istro nella primavera del 335, dovevano essere partiti dal loro paese subito dopo aver ricevuto la notizia della morte di Filippo e non potevano sospettare ancora niente della futura grandezza del ventunenne Alessandro. Essi dovevano essere mossi solo dal desiderio di stabilire dei rapporti col successore di Filippo, in quanto, appunto, successore di Filippo, signore della Macedonia e della Grecia. La loro richiesta di amicizia, affermano ambedue le nostre fonti, fu accolta: Arriano, che dipende, come si é visto, in modo piü diretto da Tolomeo e che lo 208

riassume con più ampiezza, afferma addirittura che furono proclamati non solo amici, ma alleati. Già nel 335, dunque, Alessandro ebbe degli alleati in Italia e proprio fra quei Galli con i quali Siracusa aveva stabilito fin dalla loro discesa nella Penisola rapporti di amicizia: la ricerca dell’alleanza con la Macedonia nasceva per questi Galli dagli stessi motivi che avevano spinto negli anni immediatamente precedenti Taranto (che al pari dei Gali della costa pugliese aveva impostato la sua difesa e legato la sua sopravvivenza all'appoggio dei tiranni di Siracusa) a invocare, dopo la caduta della tirannide dionisiana, l’intervento di Archidamo e, che la spinsero, ancora, dopo la morte del re spartano, avvenuta pro-

prio nella penisola Salentina,

a Manduria, nel 338/7, a chiedere l’intervento di

uno stretto parente di Alessandro, il suo cognato e zio, Alessandro il Molosso. Io credo che l’alleanza stabilita nel 335 dai Galli d’Italia con Alessandro

Magno sia strettamente collegata con l'intervento — sollecitato nello stesso periodo e nella stessa zona dai Tarantini — del Molosso: si sa che il Molosso venne in Italia certamente dopo l’estate del 336, quando egli sposò a Pella Cleopatra, sorella di Alessandro (Diod. XVI, 91,4; Iust. IX, 6,1), e che era già in Italia nell'autunno del 333, poco prima di Isso, quando fuggì presso di lui Taurisco, complice di Arpalo (Arr. Az. III, 6,7). Il 334 sembra la data più sicura per l'arrivo del Molosso in Italia 11: dopo aver risolto con una pace — sembra vittoriosa — la guerra con gli Apuli e con i Lucani, si urtò con i Tarantini, dai quali era stato chiamato, e riprese i combattimenti contro i Lucani e i Bruzi, ora appoggiati dai Sanniti: in questa occasione, come è noto, egli stipulò con i Romani un trattato,

che per Livio è di pace, per Giustino di alleanza e di amicizia 12. Livio data questo trattato sotto il 332 varr. subito dopo la notizia, senza seguito, di una guerra gallica (VIII, 17, 6 e 10). La fama Gallici belli è uno dei duplicati liviani caratteristici di questi anni: essa ritorna sotto il 329 varr. a VIII, 20,2 ed & uno dei pochi casi in cui il confronto del duplicato liviano con il calcolo di anni di Polibio, dipendente da Fabio, permette di stabilire con certezza la data dell'avvenimento e di riconoscere senza possibilità di contestazioni la genesi precisa del duplicato stesso !: secondo Polibio II, 18,6 sgg. infatti, dopo la presa di Roma del 386, i Galli avevano attaccato di nuovo i Romani nel 30? anno,

poi ancora 12 anni dopo; infine, 15 anni dopo, vedendo la potenza dei Romani, εἰρήνην ἐποιήσαντο καὶ συνθήκας (ib. 18,9). Questa pace, dice sempre Polibio (IT, 19,1), duró 30 anni e cessó nel 299, 4 anni prima della battaglia di Senti-

no: con diverso computo, con o senza gli anni dittatoriali, il trattato concluso 30 anni prima del 299, fu collocato dagli annalisti preliviani sotto il 332 varr. o sotto il 329 varr. e regolarmente duplicato da Livio stesso nella versione di una guerra gallica mancata. In realtà tale trattato, concluso 55 anni dopo il 386, spetta al 331 a.C.; allo stesso anno spetta — secondo Livio — il trattato fra i Romani e il Molosso, indicato da Giustino Trogo — vale la pena di rilevarlo — con la stessa formula con cui Polibio indica il trattato con i Galli: foedus amici-

iamque definisce Giustino (XII, 2,12) il trattato fra il Molosso e i Romani, i Pedicoli e i Metapontini, che Livio (VIII, 17,10) definisce pacem; εἰρήνην καὶ ovvθήκας definisce Polibio (IT, 18,9) il trattato fra Romani e Galli.

I Galli, che avevano dopo il 386 continuato contro i Romani gli attacchi di 209

cui Fabio, fonte di Polibio, conservava il ricordo e la data con il calcolo per intervalli di anni, erano i Galli che partivano dalle basi apule e ad esse ritornavano 14: è probabile pertanto che anche i Galli con i quali i Romani trattarono nel 331, nello stesso anno che col Molosso, fossero i Galli dell’ Apulia. L'accordo del Molosso con i Romani, dice Giustino, comprese anche altri popoli abitanti nell'Italia meridionale 15. Io credo che l'intesa raggiunta nel 331 fra Roma e i Galli passasse, anche per questi ultimi, attraverso il Molosso. Venuto in Italia nel 334, con obiettivi di conquista affini a quelli con i quali Alessandro il Macedone era passato, nello stesso 334, in Asia (Iust. XII, 2,1), il Molosso aveva trovato come alleati in Ita-

lia, oltre agli infidi Tarantini, quei Galli con i quali il nipote e cognato Macedone aveva nel 335 stabilito appunto un'alleanza: l'intesa con i Galli, stanziati dal

386 nel mezzogiorno di Italia, sembra aver costituito dunque fin dall'inizio un punto di partenza importante per il progetto di espansione in Italia che il nuovo signore della Macedonia progettó fin dal 335 e lasció, per il momento, al sovrano d’Epiro. Che Alessandro di Macedonia non intendeva disinteressarsi egli stesso dell'Italia lo rivela del resto la protesta da lui inviata ai Romani nel 334 per porre fine alla pirateria anziate ed etrusca e ai danni che essa arrecava ai Greci di Italia: la lettera di Alessandro ai Romani, che un frammento di Memnone

di

Eraclea (fr. 18 nr. 434 Jacoby) permette di datare al momento del passaggio in Asia (cioé nella primavera del 334) e che era nota a Clitarco 16, riguardava appunto, come risultá da Strabone (V, 5,5), che qui dipende probabilmente da Timeo, i danni che i pirati Anziati, sebbene già sottomessi dai Romani, infliggevano, insieme agli Etruschi, ai Greci d'Italia, ed affermava che non era giusto στρατηγεῖν te ἅμα τῆς ᾿Ιταλίας καὶ ληστήρια ἐκπέμπειν 17. L'intervento di

Alessandro era motivato dalla sua funzione di egemone dei Greci e faceva appello ai doveri degli egemoni. I Romani fecero cessare la pirateria degli Anziati — dice Strabone — e, addirittura, mandarono ad Alessandro una corona d'oro (come dice Memnone

di

Eraclea). Livio conferma la notizia di fonte greca con un particolare che rivela, nel suo contesto cronologico esatto, tutto il suo significato: sotto il 338 varr., che corrisponde appunto per Livio, che non ha gli anni dittatoriali, al 334 a.C., egli ricorda l'invio di una colonia romana ad Anzio ed aggiunge (VIII, 14, 8) «naves inde longae abactae interdictumque mari Antiati populo est et civitas data» 18,

Lungi dal sottovalutare l'intervento di Alessandro a favore dei Greci d'Italia e il suo richiamo agli obblighi di chi intendeva esercitare un'egemonia, i Romani accettarono dunque nel 334 tale richiamo ed ottemperarono con sollecitudine alle richieste del Macedone, ponendo le basi per quei buoni rapporti con la dinastia che deteneva l'egemonia della Grecia, di cui abbiamo visto gli sviluppi nel trattato con Alessandro il Molosso e nella cessazione contrattata delle incursioni galliche dal sud. Un'eco di questa intesa, che tanta importanza dovette avere per i Greci dell’Italia meridionale, ci è giunta, come è stato di recente sostenuto — e io credo con ragione ?? nell’ Alessandra di Licofrone, il cui autore, 210

attingendo a Lico di Reggio e all'opera da lui dedicata ad Alessandro il Molosso, unisce in un'unica esaltazione lo stesso Molosso, che da Alessandro di Macedonia ha ricevuto la sua potenza, e i Romani, che, concludendo con lui (v. 1448 sgg.) πόντου τε καὶ γῆς ... διαλλαγάς, saranno ritenuti 1 migliori tra i suoi

philoi e divideranno con lui le spoglie della guerra. L’accenno alle διαλλαγάί per terra e per mare e alla philia si intende assai bene se consideriamo la vicinanza cronologica fra l'accordo per la cessazione della pirateria, concluso fra i Romani e Alessandro di Macedonia nel 334, e la

philia, conclusa qualche anno più tardi dagli stessi Romani col Molosso: il secondo trattato deve essere considerato, con ogni probabilità, uno sviluppo del primo, il punto di arrivo di un rapporto che l'interessamento di Alessandro Magno per l'Italia, già dal tempo dell'ambasceria gallica del 335, aveva avviato. La morte prematura del Molosso agli inizi del 330 o alla fine del 331 2° e la lunga lontananza di Alessandro in Asia fecero sí che i rapporti avviati nel 334 non avessero seguito: la pirateria anziate e etrusca riprese e nel 325/4, quando Alessandro era ancora lontano, gli Ateniesi furono costretti ad affrontare — pare senza seguito — il problema etrusco sull’ Adriatico, mentre verso la fine del IV secolo Demetrio Poliorcete tornó a protestare con i Romani (Strab. loc. cit)

per le azioni che Anziati ed Etruschi compivano a danno dei Greci sul Tirreno. Roma intanto si era disinteressata del mare ed aveva ripreso la sua espansione verso l'Italia meridionale intervenendo, sollecitata dagli Apuli minacciati dai Sanniti, nella zona di Arpi, Salapia, Luceria, dove si diffuse la monetazione

romano-campana, di zecca napoletana e di ispirazione timoleontea con Apollo e

il cavallo libero ?!. La tradizione risalente a Fabio Pittore e confluita in Velleio (I, 14) poneva la fondazione della colonia di Luceria nel 322 a.C. (= 325 varr.,

anziché nel 315 varr. o 314 varr. come nella tradizione pià tarda) 22, e concordava con la notizia, attestata dall'elogiuzz, che faceva di Papirio Cursore, console del 326 varr. (cioè del 323), il conquistatore di Luceria. Con la datazione al 323

della vittoria di Papirio Cursore, poi confuso con Papirio Mugilano e spostato erroneamente al 319 varr. 25, si capisce l'impostazione dell'elogzuzz, che vede in Papirio Cursore l'antagonista da opporre ad Alessandro, nel caso che costui, sottomesso l'Oriente, si volgesse contro l'Occidente: in effetti è il 323 l'anno in cui si diffuse in tutto il mondo la voce dei progetti occidentali di Alessandro e furono inviate a lui, a Babilonia ambascerie di molti popoli, fra i quali autori tardi ponevano anche i Romani 24. Se i Romani fossero o no a Babilonia fra i vari ambasciatori desiderosi di scrutare le intenzioni di Alessandro, ora non interessa: qui vorrei invece richiamare l'attenzione sull'atteggiamento che Livio (IX, 14) attribuisce ai Tarantini durante l'assedio di Luceria (da datare, come si & visto, nel 323 a.C. e non nel 320 varr.): mentre i Romani e i Sanniti stavano per darsi battaglia, si presentarono davanti alle due parti ambasciatori dei Tarantini, ordinando ut bellum omitterent: per utros stetisset quo minus discederetur ab armis, adversus eos se pro alteris pugnaturos.

L’intervento tarantino, condotto nello stile delle potenze garanti delle paci comuni del mondo greco, da Artaserse a Filippo, sembra presupporre da parte di 211

Taranto una fiducia nelle proprie forze, che la situazione militare della città e la sua tradizionale debolezza non giustificano e che si spiegano invece assai bene con la certezza dei Tarantini di un imminente intervento in Italia di un potente alleato del mondo greco: le voci relative ai progetti di Alessandro e l'insistenza delle fonti (Diod. XVIII, 4,4; Curt. 10,1,18; Arr. VII, 1,3) sulla Puglia e la co-

sta del basso Adriatico come uno dei principali obiettivi dello stesso Alessandro 25 si accordano assai bene con l'atteggiamento attribuito da Livio ai Tarantini al tempo dell'assedio di Luceria e con la previsione, attestata nei Romani dall'elogio di Papirio, di dover fronteggiare un attacco del Macedone. Qualsiasi cosa si pensi dell'ambasceria, mi sembra certo che la prospettiva di uno scontro con Alessandro si presentó effettivamente ai Romani nel 323: l'espansione in Apulia e nell’Italia meridionale non era indifferente ai Romani come la sorte della pirateria anziate e su questo punto essi erano decisi a non cedere a nessuno. La morte improvvisa di Alessandro rinviò di parecchi anni lo scontro tra Roma e il mondo greco. 26.

! Strabone (VII, 3,8-302) dice che i Galli vennero φιλίας καὶ ξενίας χάριν ed insiste piü

avanti sulla sola φιλία. Il carattere indiretto della citazione di Tolomeo in Strabone è rivelato anche dal commento tipicamente posidoniano sulla ἁπλότης dei barbari (Sirmo e i Galli), riferita peraltro con l’indicativo e al di fuori della citazione stessa. In Arriano, invece, che almeno in que-

sto caso ci conserva a mio avviso la citazione diretta di Tolomeo — non condivido pertanto su questo punto le conclusioni di M.A. Levi, Introduzione ad Alessandro Magno, Milano 1977, p. 44 sgg. che esclude l'uso diretto di Tolomeo da parte di Arriano — il commento attribuito ad Alessandro si riferisce ai soli Galli e li qualifica come ἀλαζόνες. | 2 Diversamente da Tolomeo, Diodoro (XVII, 113,2) pone il primo incontro fra Alessandro e

i Galli nel 323 e, facendo di questi Galli i vicini dei Traci, mostra di credere che essi venissero dal-

le coste orientali dell’ Adriatico («mandarono ambascerie...anche gli Illiri e la maggior parte di quelli che abitano intorno all' Adriatico, i popoli della Tracia e dei vicini Galli, che furono conosciuti allora per la prima volta da Greci»). Anche Arriano (VII, 15,4) parlando delle ambascerie ri-

cevute da Alessandro a Babilonia nel 323, ricorda con un λέγεται anche «i Celti e gli Iberi, i cui

nomi e le cui usanze furono conosciuti allora per prima volta dai Greci e dai Macedoni». Si tratta, evidentemente, della stessa fonte, diversa da Tolomeo e da Aristobulo, usata in modo indipenden-

te da Diodoro e da Arriano: è interessante osservare che questa fonte conosceva l’esistenza di un'ambasceria gallica ad Alessandro, ma la collocava, a torto, nel quadro ecumenico delle ambascerie giunte a Babilonia. Su questo problema o. ora M. SORDI, I solli in Agulia, in «Invigilata Lucernis», III/IV 1981/2, p. 5 sgg.

3 Tod, 200 1. 223 sgg. Sui Tyrrenoi dell'iscrizione, nei quali M.L. ToRELLI, in «La Parola del Passato» XXX 1975, p. 417 sgg. ha proposto di riconoscere non gli Etruschi di Italia, ma i Tyrrenoi ancora esistenti nell' Egeo orientale, v.ora, L. BRACCESI, La Grecità adriatica, Bologna 19772, p. 287 sgg., che propende — e io credo con ragione — per gli Etruschi dell'alto Adriatico e della Padana. 4 Così BRACCESI, op. cit., p. 292/3, che ricorda l'intesa, ormai attuata alla fine del IV secolo,

fra Etruschi e Galli contro Roma. 5 Per questa terminologia v. A. Roncont, in «St. It. Fil. Class.» IX, 1931, p. 270 sgg. e, ora, L. BRACCESI, op. cit., p. 64 sgg.

6 La più antica menzione di Galli nell'Italia meridionale risale al 386 e riguarda l’intesa fra i Galli «che pochi mesi prima avevano incendiato Roma» e Dionigi I di Siracusa (cfr. IusriN. XX, 5,

212

4 sgg. che deriva probabilmente da Teopompo). Sotto il 387/6 --- ma la notizia dovrebbe essere posteriore di qualche anno — Diodoro (XIV, 117,6) ricorda un attacco contro Roma e contro Cere dei Galli che si erano recati eig τὴν ᾿Ιαπυγίαν (cfr. Strab. V,2,3). Dal 367 varr. al 348 varr. Livio

parla di Galli che vengono o che tornano in Campania e in Apulia: i Galli si ritirano in Apulia in Liv. VI, 42,8 (367 varr.); si riuniscono per Apuliam (VII, 1,3 sotto il 366 varr.); si dirigono verso Apuliam ac mare inferum (VII, 26,9 sotto il 348 varr.). In quest'ultimo caso i Galli usano nella fu-

ga le navi greche (ib. 32,9): si tratta, io credo, dei Galli arruolati dai tiranni di Siracusa e da loro stanziati in Puglia sul basso Adriatico (cfr. M. Soroı, I rapporti romano ceriti e l'origine della civitas sine suffragio, Roma 1960, p. 154 sgg.). 7 Sull’ubicazione delle colonie apule di Dionigi v. L. BRACCESI, op. cit., p. 237 sg. e infra n. 26.

8 Drop. XVI, 88,324 sotto il 338/7. La battaglia avvenne a Manduria, nella penisola salentina. Sull'intervento di Archidamo, v. R. CATALANO, La Lucania antica, Salerno 1979, p. 52 sg. ? Su Demareto (o Demarato) di Corinto, che nel 344/3 soccorse insieme a Dinarco Timoleon-

te in Sicilia v. PLUT., Tim. 16,3; 21,3 cfr. Dion. XVI, 69,4. Per i suoi rapporti con Filippo e Alessandro, attestati da PLuT., Alex. 9, 6; ARR. I, 15,6 etc. v. H. Berve Das Alexanderreich auf Prosop.

Grundlage, Monaco 1926, p. 133 nr. 253; cfr. M. SorpI, Timoleonte, Palermo 1961, p. 10 sgg. - Y La ripresa da parte di Timoleonte della politica anticartaginese dei tiranni siracusani è ben nota (cfr. SORDI, op. cit. p. 21 sgg.). Per gli Etruschi, Diodoro (XVI, 82,3) ricorda sotto il 5539/8 che Timoleonte mise a morte come pirata Ποστόμιον τὸν τυρρηνόν (su cui v. R.J.A. TALBERT, Timoleon and revival of greek Sicily, Cambridge 1974, p. 200).

1! Per il 334/3 come data di inizio della spedizione del Molosso in Italia v. E. MANNI, Alessandro il Molosso e la sua spedizione in Italia, in «Studi Salentini», XIV, p. 345 sgg.; M. SORDI, Roma e i Sanniti nel IV sec. a.C., Bologna 1969, p. 25; R. CATALANO, op. cit., p. 57. 12 Liv. VIIT, 17, 10; IusriN. XII, 2, 12, Sul problema v. L. BRACCHESI, op. cit., p. 279 sgg. 3 cfr. J. BELOCH, Róm. Gesch., p. 137; M. Sorpi, Sulla cronologia liviana, in «Helikon» V, 1965, p. 3. 14 cfr. infra n. 26.

15 Just. XII, 2,12: Gessit (scil. Alexander) et cum Bruttiis Lucanisque bellum multasque urbes cepit; cum Metapontinis et Poediculis et Romanis foedus amicitiamque fecit; Da Livio (che peraltro duplica qui la notizia dell'ambasceria lucana a Roma VIII, 19,1 e 25,3) risulta che, in concomitanza con le vicende del Molosso, anche i Lucani trattarono con i Romani (cfr. M. Sorpi, Sulla cronologia liviana, cit., p. 30 sgg.; sull'azione del Molosso in Lucania v. ora R. CATALANO, op. cit. p. 64 sgg.).

16 cfr. PLIN., N.H. III, 57: Clitarchus... legationem tantam ad Alexandrum missam. P. TREves, I] mito di Alessandro e la Roma di Augusto, Milano Napoli 1953, p. 27/8 n. 7 (con bibliografia)

difende la storicità della tradizione clitarchea, ma la riferisce al 323. Per lo spostamento al 334 cfr.

M. Sorpi, Alessandro e i Romani, in «Rend.Ist. Lomb.Sc.Lett.» IC, 1965, p. 448 sgg. L. BRACCESI,

Op. cit., p. 250 sgg., P. GOUKOWSKY, Essai sur les origines du mythe d "Alescandre, I, Nancy, p. 288 n. 129 (che parla peró di contatti tra gli Etruschi e Alessandro).

17 Strabone parla, oltre che di Alessandro, anche di Demetrio Poliorcete; che la battuta relativa ai doveri di chi esercita l'egemonia va riferita ad Alessandro ἃ confermato da Memnone che & ancora piü esplicito sul contenuto della lettera di Alessandro γράψαντι ἢ κρατεῖν, ἐὰν ἄρχειν δύνωνται, ἢ τοῖς κρείττοσιν ὑπείκειν.

18 La notizia è inserita da Livio nel contesto della pace fra Roma e i Latini. In realtà, come risulta da VELLEIO I, 14,2 sgg., che dipende probabilmente da Fabio Pittore (cfr. M. SORDI, L’excursus sulla colonizzazione romana di Velleio, in «Helikon» VI, 1966, p. 627 sgg.), le misure che Livio

riferisce sotto un solo anno spettano a vari anni consecutivi. 19 G. AMIOTTI, Lico di Reggio e l'Alessandra di Licofrone, in «Athenaeum» 1982, 60, p. 452

sgg. 20 y. AESCHIN., contra Cts. 242. Per la data cfr. MANNI, art. cit., p. 345 sg. (che pensa all’estate del 331) M. Sorpi, Roma e Sanniti, cit. p. 25 (autunno 331 o primavera del 330). 21 Per queste monete seguo la datazione di L. BREGLIA, La prima fase della coniazione romana dell'argento, Roma 1952, p. 37 sgg. cfr. M. SorDI, Roma e i Sanniti, cit., p. 40 sgg.; CATALANO, op.

cit., p. 58.

213

22 Nella cronologia di VELLEIO I, 14,4 (che risale a Fabio cfr. supra) Luceria risulta fondata 4 anni dopo Terracina, nel 322 a.C. ( - 325 varr.).

3 Livio riporta la vittoria e il trionfo di Papirio Cursore sotto il 319 varr. (IX, 16,11), ma sa (VIII, 23,17) che c'era stato uno scambio in alcuni annali fra Papirio Cursore e Papirio Mugilano (che egli colloca nel 326 varr.). Sul problema v. M. Sorpı, Roma e i Sanniti, cit. p. 41 sgg. 24 Arr., Anab. VII, 15,4 sgg. attribuiscead Aristo e ad Asclepiade la menzione dei Romani. Su queste ambascerie v. M. Sorpi, Alessandro e i Romani, cit., p. 445 sgg. 2 Curt. Rur. X, 1,18 Italiaeque oram, unde in Epirum brevis cursus est; ARR., Arab. VII, 1,3 ἄκραν ’Ianvyiav cf. L. BRACCESI, op. cit., p. 273.

26 Dopo il 331 dei Galli di Puglia non si parla pià: isolati rispetto all'ambiente essi finirono presumibilmente con l'essere assorbiti da esso, tanto pià che, essendo mercenari, poterono forse passare senza difficoltà al servizio di Taranto, fino alla definitiva sottomissione di Taranto stessa ai Romani. Vale la pena tuttavia di domandarsi se essi non abbiano lasciato qualche traccia di sé nella toponomastica locale. Se l'indicazione di Diodoro ἃ esatta essi erano stanziati, negli anni dopo il 386, nella penisola salentina, la Japigia greca: ora ἃ interessante osservare che proprio nella Penisola Salentina i centri di Galatone e di Galatina sembrano conservare nel loro nome il ricordo dei Galli. Essi si trovano ambedue in provincia di Lecce, il primo fra Lecce e Gallipoli, a 7 km dal-

lo Ionio, la seconda nel centro della penisola salentina, in prossimità sembra dell'antica Soletum (nominata solo da PLIN., N.H. III, 99/100, che la dice desertum); quest'ultimo è luogo di ritrovamenti romani (due iscrizioni: cfr. G. Susmi, Fonti per la storia greca e romana del Salento, Bologna 1962, nr. 30 e 31). Su questo problema, v. ora M. SoRpi, in «InvigilataLucernis», cit., p. 8 sgg.

214

SU UNA

CHIOSA

DI GIANFRANCO A CIL, T, 2123

GIANCARLO

TIBILETTI

SUSINI

La tradizione codicologica e l'autopsia di una pietra iscritta che tuttora si conserva nel Museo nazionale di Sarsina hanno consentito alla dottrina la restituzione di un importante testo dell'epigrafia giuridica romana, ed in particolare del diritto sepolcrale !. Datato dalla scrittura e dall'analisi linguistica attorno alla metà del I secolo a.C. , il testo illumina su aspetti etici dei rapporti civili tra i ceti dell’antico municipio, e sulla struttura sociale della comunità sarsinate: si ricordi poi che l’archeologia e l’epigrafia hanno restituito l’immagine coeva di un cospicuo nucleo di famiglie di notabili, alle quali si devono sia la cortina muraria e sia una necropoli monumentale sulla destra del fiume Savio 2. L'iscrizione reca anche dati importanti proprio per la topografia cemeteriale sarsinate, laddove indicai limiti della necropoli comune — il campo dei poveri, oggetto della munificenza di Horatius Balbus, il personaggio del testo — inter pontem Sapis et titulum superiorem qui est in fine fundi Fangoniani: a questo riguardo, nell'occasione della ricerca sul toponimo fondiario , mi è accaduto di osservare che — secondo il testo e sulla base dei dati archeologici — il campo dei poveri precedeva topograficamente, per chi si muoveva da Sarsina lungo la via verso settentrione, la necropoli monumentale. Proprio sui significati e sui problemi posti dalle indicazioni topografiche che si leggono sull’iscrizione si è soffermato Gianfranco Tibiletti: il compianto studioso ha appuntato alcune sue riflessioni su una scheda, di cui qui si darà conto traendone alcune considerazioni. Dopo avere osservato che loca sepulturae equivale ad area destinata ai singoli morumenta, il Tibiletti si chiede perché di questo campo dei poveri siano indicati nel testo solamente due termini, cioé il pons Sapis e il titulus superior qui est in fine fundi Fangoniani (e perché non semplicemente finis fundi F. o fundus F.? annota inoltre il Tibiletti); «i due altri confini — prosegue la scheda — saranno stati evidenti!» Ancora: «L'iscrizione conservata è il titulus apud pontem Sapis (al quale era gemello il titulus superior qui etc.), oppure l'iscrizione conservata era unica, e ##4/us significa solo terminus? Se era unica era esposta in qualche posto evidente del cimitero, senza riguardo ai confini di esso». Il Tibiletti conclude la scheda soffermandosi sui possibili significati di Zitulus, anche con riferimenti glottologici (sporgenza, e poi cartello). A mio parere il Tibiletti ha colto uno dei problemi di fondo per intendere il testo, confermando ancora una volta che non si perviene ad una completa e corretta esegesi epigrafica se non si individua quello che chiamerei il germe di ogni

iscrizione, cioé la destinazione concettuale del monumento iscritto rispetto ai

suoi lettori. Occorre anzitutto riflettere sul motivo che ha condotto l'estensore del testo ad indicare i confini del cimitero non semplicemente dalla ripa Sapis o 215

fluminis, e soprattutto perché per l'altro termine ha ritenuto necessario specificare il Ztulus superior e non già solo il finis fundi o il fundus: ció si spiega solo proponendo che l'iscrizione, oltre al fine eulogico di perpetuare il ricordo della munificenza di Horatius Balbus, avesse il fine preciso di fungere da avviso chiaro, inequivoco per chi, superato appunto il ponte sul fiume, entrasse nell'area. Cosi come erano elencate le categorie di defunti escluse dalla fruizione dei loca sepul turae, con altrettale evidenza i portantini della salma (del cinerario, o del corpo da bruciare in un ustrino magari presso il sito della stele) apprendevano, cioé veniva loro ricordato, che potevano disporre di un quadrato sul terreno che non andasse oltre «quel ‘cartello lassù»; per intendere l’iscrizione, bisogna quindi penetrare il suo significato didascalico e pratico: occorreva anzitutto indicare un punto visibile come limite dell’area, senza rinunciare peraltro a precisare che quel punto, quel cartello, quel segnacolo, quel titulus era sul confine del fondo Fangoniano.

Per queste considerazioni la grossa stele sarsinate doveva essere collocata in un punto centrale del cimitero, superato l'ingresso venendo dal ponte (la stele porta le tracce di grappe laterali che dovevano collegarla ad un muro o ad una recinzione: l’ustrino?); non era quindi un ferzzinus (o almeno non lo era necessaria-

mente), mentre lo era con ogni probabilità il zitulus superior: anzi proprio perché del cimitero non si-danno su questa stele altre indicazioni terminali, ὃ probabile che — almeno là dove il confine non fosse naturalmente imposto da un elemento fisico come la ripa fluminis — esistessero più termini, uno dei quali, quello più in alto, ben visibile dal sito della stele, era superior rispetto a tutta l'area, rispetto al luogo dove si trovava il lettore e quindi anche la stele, rispetto al pozs Sapis; senza che — come aveva intuito il Tibiletti — il Zitz/us recasse addirittura una copia del testo, ma forse solo una riduzione del testo, o qualche indicazione terminale — un cartello, insomma — o anche nulla, un segnacolo.

Cosi interpretata, l'iscrizione CIL, 12, 2125 aggiunge qualcosa alla conoscenza della realtà sociale del municipio sarsinate sul finire dell'età repubblicana: ἃ il momento in cui il ceto emergente, che costruisce i prestigiosi monumenti a cuspide e a tamburo, predispone una legislazione egalitaria per i meno abbienti, o i più poveri, disciplinandone anche la fruizione attraverso un testo che è insieme apologetico e normativo; proprio la semiosi gestuale, il carattere didascalico di quel Zitulus superior lascia supporre che i più leggessero o almeno sapessero compitare la scrittura latina. Del tutto impregiudicata resta la questione dell'ubicazione del cimitero, anche se & recentissima — e non ancora resa pubblica — la scoperta sulla riva destra del fiume, qualche centinaio di metri a monte del sito della necropoli monumentale

(Pian di Bezzo), di almeno un'arcata di un ponte romano,

forse di

struttura tardorepubblicana, con profondi solchi di carreggiate sul piano viabile: poiché il relitto & parallelo all'attuale filo della corrente del Savio, bisogna supporre che in età antica il fiume, superata la strozzatura tra le rupi proprio a sudest del pianoro su cui sorgeva l’antica città, descrivesse un’ ampia curva verso levante (dove si registra infatti un alto strato alluvionale) per poi tornare verso

216

ponente in direzione di Sorbano: ne deriva che per l'area della necropoli monumentale fu scelto un terreno un poco più a valle verso la confluenza del Fanante, mentre il suolo subito dopo il ponte, forse in parte a ridosso del greto e in parte in declivio verso la dorsale tra il Savio e il Fanante, fu oggetto della munificenza a favore dei poveri. Ricordo qui l'ipotesi da me recentemente formulata sul percorso della via romana a valle di Sarsina, quella cioè che attraversava la grande necropoli monumentale: non verso Cesena, ma piegando da Pian di Bezzo in salita diritta (un tracciato ancora oggi recuperabile) verso Murginaglie seguiva il corso del Fanante per scendere nel Marecchia e giungere a Rimini, collegando : così la metropoli sapinate soggiogata nel 266 a.C. alla colonia latina del 268 a.C. ?.

1 Anche CIL, XI, 6528; Inscr.Lat.sel., 7846; ILLRP, 662: [-] Horaltius - f(ilius)] Balb[us? ---] / municipibus [su] [eis incoleisque [lo] [ca sepulturalel s(ua) p(ecunia) dat | extra au[ct]orateis et / quei sibei [la]gueo manu(m) | attulissent et quei | questum spurcum | professi essent, singuleis | in fronte p(edes) X, in agrum p(edes) X | inter pontem Sapis et titu[lum superiorem qui est in | fine fundi Fangoniani. | In quibus loceis nemo bumajtus erit, qui volet sibei | vivous monumentum fajciet; in quibus loceis hu/mati erunt, ei d(um)t(axat) quei | bumatus erit postereis/que eius monumentum | fieri licebit. 2 SUSINI, in «Rend. Lincei», Sc.mor., s. VIII, X (1955), pp. 235-286; in «Atti mem. Dep. Storia patria Prov. Romagna», VIII (1956-57), pp. 171-183.

3 [n «Studi Romagnoli», XX (1969), pp. 333-339.

^ Cf. CIL, IX, 5570, cit. ILLRP, II, p. 115. | 5 In «Atti mem. Dep. cit.», XXIX-XXX (1978-79), pp. 25-28: beninteso, si trtta della via pià antica, laddove nelle età successive fu aperta anche la strada carreggiabile verso Caeseza.

217

ΓΡΑΦῊ

ΠΑΡΑΝΟΜΩΝ

FUORI

DI

ATENE

JEAN TRIANTAPHYLLOPOULOS

Ho scritto ! che la γραφὴ παρανόμων non è un'istituzione esclusivamente ateniese. Α questo proposito Hans Julius Wolff 2 asserisce che non giustifico ? la mia affermazione. Vale perció la pena di esaminare la γραφὴ παρανόμων fuori

di Atene ^.

|

Si riscontra la γραφὴ παρανόμων ad Alessandria Troade 5, a Demetriade di Tessaglia 9, a Labraynda ? e forse a Lindo 5. Esiste anche una simile istituzione penale (storica?) a Marsiglia ? e forse a Siracusa 19,

Altrove è stabilita una pena per una trasgressione legislativa o per l’abolizione di un decreto 11, Questa tuttavia differisce dalla γραφὴ παρανόμων per il fatto che è vigente tanto in ordinamenti giuridici che ignorano quanto in quelli che riconoscono la γραφὴ παρανόμων, che comprenderebbe anche questo ca-

so. Istituzione opposta alla γραφὴ παρανόμων era il προσνομοθετεῖν, cioè quando, in casi di particolare urgenza, si promulgava un decreto od un decreto suppletivo di una legge (donde προσνομοθετεῖν, cf. ἐπεισηγεῖσθαι 12, che tuttavia si riferisce, come sembra, ad un emendamento di decreto). Ma se questi si trovavano in contraddizione colla precedente legge da supplire o — caso abbastanza comune — con un precedente decreto temporaneo 15, per evitare il pericolo eventuale di una γραφὴ παρανόμων (laddove era in vigore) o di una con-

donna, specialmente in affari finanziari e di bilancio della polis 14 — a cui gli antichi Greci erano particolarmente sensibili —, dovevano essere convalidati da una commissione legislativa (nomotetica) 77. È ‘dunque molto plausibile che laddove si rinvengono tali commissioni legislative, deve essere presupposta una istituzione come la γραφὴ παρανόμων, come si è esposto sopra — e questo non

solo per il principio greco lex prior derogat legi posteriori. Altrimenti non avrebbero ragione d’essere tali commissioni legislative. In tal caso, il numero degli ordinamenti giuridici greci che ammettevano la γραφὴ παρανόμων od un provvedimento simile, aumenterebbe considerevolmente (cfr. supra). Naturalmente, tutto ciò in regimi di tirannide non aveva mo-

tivo di esistere, come prova un'iscrizione del tempo dei Trenta 16, a prescindere dal fatto che questi ultimi, come prima di loro i Quattrocento, avevano, a quanto pare abolitola γραφὴ παρανόμων 17. Ricapitolando, la γραφὴ παρανόμων annulla un decreto illegale, mentre il

προσνομοθετεῖν convalida un decreto altrimenti illegale, il quale, nelle città che ammettevano la γραφὴ παρανόμων od un'istituzione affine, sarebbe stato

invalidato. D'altra parte le γραφαὶ ἀδικίου 8 od ἀδικίας 15 non avevano alcun rapporto con la γραφὴ παρανόμων. 219

1 Γραφὴ παρανόμων, Atene 21962, p. 1: εἶναι θεσμὸς κατ᾽ ἐξοχήν, εἰ καὶ οὐχὶ ἀποκλειστικά, 'A0nvaikóc; L’amministrazione della giustizia in Tutto su Atene classica, Firenze, Bemporad

Marzocco, 1966, p. 240: «L'accusa di illegalità, istituto preminentemente, se non (scribendum: ma non) esclusivamente ateniese». 2 «Normenkontrolle» und Gesetzesbegriff in der attischen Demokratie, Akad. Wiss.», philos.-hist. Kl. 1970/2, p. 8, n. 5.

in «Sb. Heidelberg.

3 Vedi ora J. TRIANTAPHYLLOPOULOS, Rechtsphilosophie und positives Recht in Griechenland, in Symposion für Griechisches Recht, Rheda 1971, böhlau, K x oln wien 1975, p. 34, n. 30. ^ In favore dell’esclusivo vigore della γραφὴ παρανόμων ad Atene E. GERNER Παρανόμων γραφή, Rechtsinstitut in Athen, in RE XVIII, 4 (1949), c. 1281 e c. 1293. 5 Inschr. Priene 44, 18: ai δίκαι τῶμ παρανόμων: H. WEBER Attisches Prozessrecht in den at-

tischen Seebundsstaaten (Studien zur Geschiche und Kultur des Altertums I 5 [1908]) p. 46; AJ. Reinach, Bull. épigr., in «REG» 22, 1909, p. 162; J. e L. ROBERT, Bull. (1951) 2, in «REG» 64, 1951, p. 121; L. ROBERT, Les juges étrangers dans la cité grecque, in Πανεπιστήμιον ᾿Αθηνῶν, Ἐπίσημοι Λόγοι 1972- 1973, Atene 1974, p. 445. $'À. FLOROS ᾿Ανέκδοτοι

Èἐπιγραφαὶ Φθιώτιδος, iin «Πλάτων»

10, 1958, p. 284, no 11,12

(SEG XXIII 405, 12): ὑπὲρ ψηφίσματος ὡς παρανόμου (vedi l'espressione κατηγορεῖν τοῦ ψηφίσματος ὡς παρανόμου:

περὶ Αἰσχίνου [Αἰσχίνης MARTIN - de Bupé, CUF, vol. I p. 6];

Puor., bibl. cod. 61, 20a, 18 seg. [HENRY I 59]: J. e L. ROBERT, Bull. (1960) 194, in «RÉG» 73,

1960, p. 165; G. DAUX, Notes de lecture. Un décret de Démétrias, ‘in «BCH» 92, 1968, p. 252 seg.; J.e L. RoBERT, Bull. (1969) 327, in «REG» 82, 1962, p. 470; L. ROBERT (n. 5) 445. 448; B. HerLy, Décrets de Démétrias pour des juges étrangers, in «BCH» 95, 1971, pp. 554 sgg.; F. Quass, No-

mos und psephisma. Untersuchung zum griechischen Staatsrecht, Zetemata 55, 1971, p. 42; fotografia dell’iscrizione: «BCH» 91, 1967, p. 696, fig. 8; 95, 1971, p. 556; « ᾿Αρχαιολουικὸν Δελτίν» 19, 1964, II, tav. 287ὃ. 7 [nscr. Labraunda 56, 2 seg.: αἱ &[x τοῦ] παρανόμου ψηφίσματος δίκαι: non si tratta di

processi per la trasgressione del decreto, ma di processi derivanti direttamente dalla natura del decreto come illegale, cioè di γραφαὶ παρανόμων, cf. la formulazione differente in Inschr. Kalchedon 16, 19 seg. το[ὺς πα]ρὰ τὸ ψήφισμά τι (ti è oggetto del seguente) παρανομῶντας: qui si tratta effettivamente della violazione del decreto. 8 Arg. IG, XII1 761, 7.41: A. MoMIGLIAND, Note sulla storia di Rodi (1936), in Contributo alla Storia degli Studi Classici e del Mondo Antico (Ed. Storia e Letteratura, 47 [1955], 77 [1960], 108-9 [1966], 135-6 [1975], 149-50 [1980]) V, 526.

9 Lucıan., Tox. 24: J. DELZ, Lukians Kenntnis der atbenischen Antiquitäten, Diss. Basel 1950, p. 175.

10 Vedi K. von FRITZ, Platon in sizilien und das Problem der Philosophenherrschaft, (1968), pp. 95 segg., 129: 1 G. GLOTZ,

Paranomön graphè (Παρανόμων

γραφή),

in Dic. Antig.

Grecq.

et Rom.

IV

(1907-1911), p. 327; A. WILHELM, Neue Beiträge zur griechischen Inschriftenkunde YI (1912), in Kleine Schriften (Opuscula 8 [1974]), I1, pp. 118 seg.; L. ROBERT, Sur des inscriptions de Chios (1933), in OMS (1969-1974) I, pp. 478 seg.; Epigrapbie et antiquits grecques in «Annuaire Collège de France» 73, 1972-3, p. 477; D.M. Lewis, Entrenchment-clauses in Attic decrees, in Φόρος. Tri-

bute to Benjamin Dean Meritt, 1974, pp. 81 segg. 12 Inschr. Ephesos (Repertorium) 1381a, 9. 13 Τὸ ἐπὶ τῆς διοικήσεως ψήφισμα: Inschr. Erythrai, 112, 14 seg. (n. 15); 114, 32 (n. 15); (24, 21); L. LAURENZI, Iscrizioni dell’Asclepieio di Coo, in «Clara Rhodos» 10, 1940, p. 27 no 1, 10; A. WILHELM, Neue Beiträge zur griechischen Inschriftenkunde, VI (1921), in Kleine Schriften (n 11) I1, pp. 359 seg.; L. ROBERT, Decrets de Smyrne sur des juges étrangers, in Hellenica, 7 (1949) 177 segg.; cfr ἐγκύκλιος διοίκησις (Aristot. ᾽Αθ. πολ. 43, 1; IG XII5 653, 56.62 seg. Syros), κοινὴ

διοίκησις (IG XII5 715, 9; 716, 13; va(àro-, δια-, κατα-) τάττειν: J. e L. d'Asie Mineure (Hellenica 9 [1950],) pp. nn. 2,3; Nouvelles inscriptions de Sardes, ᾿Αφαιρεῖσθαι: M. Mrrsos, ᾿Ἐπιγραφαὶ 92-93, 1953-4 (Εἰς μνήμην Γεωργίου

220

717, 12 Andros). Ψήφισμα περὶ τῆς διατάξεως, àROBERT Inscriptions de Lydie in Inscriptions et reliefs 14 segg.; L. ROBERT, in «Gnomon» 35, 1963, pp. 56, 56, I (Archaeological Exploration of Sardis, 1964), pp. 16 seg. ἐξ ᾿Αμφιαραείου II, in «᾿Αρχαιολογικὴ "Egnpepíc» Οἰκονόμου) II, p. 159 no 1, 10 = B. PeTRAKOS, ‘O

"Oponoóg καὶ τὸ ἱερὸν τοῦ ᾿Αμφιαράου (Βιβλιοθήκη ᾿Αθήνησιν ᾿Αρχαιολογικῆς Ἑταιρείας ‘63 [1968]), p. 184 no 42, 10, p. 1832: no» parallele dell’iscrizione(J. e L. ROBERT, Bull. [1958] 251, in «REG» 71, 1958, pp. 250 seg.). Ἐξαιρεϊν-ἐξαιρεῖσθαι: A. WILHELM, Attische Urkunden V (1942), in Kleine Schriften ( n. 11) Il, pp. 728 seg., 738, 740, 742 seg. Τὸ [κεφάλαιον τὸῦ ἀ-] ναλώματος - τὸ ψήφισμα τὸ κυρωθέν -τῶι Κατὰ τὸν] τῆς οἰκονομίας νόμοι, in B. PETRAKOS (supra), pp. 189 seg. no 45, 37.45.51.

^ E. SzANTO, Zum attischen Budgetrecht (1893), in Ausgewählte Abhandlungen (1906), pp. 108 segg., vedi anche L. RoBERT, Inscriptions d’Aiolide (1933), in OMS, (n. 11) I, pp. 440 seg.; A. WILHELM, Beiträge zur griechischen Inschriftenkunde. Mit einem Anbange über die öffentliche Aufzeichnung von Urkunden (Sonderschriften Osterr. Archäol. Inst. Wien 7 [1909]), p. 54. 5 Per esempio: IG, II-III2, 140, 32 = DITTENBERGER-KIRCHNER, Syll3 200, 32; IG, IL-IIT?, 222, 41 = DITTENBERGER-KIRCHNER, Syll? 226, 41; IG, II-II 330, 20; 333, 13 (cf. 1202, 10-12); IG, VII 4254, 39 seg. = DITTENBERGER-KIRCHNER, Syll. 3 298, 39 seg. = POUILLOUX,

Croix d’inscriptions grecques, Bibl. Fac. Lettres Lyon 4 1960, 2, 39 seg.; IG, IX1 694, 137 segg.; IX1 ? 176, 11 segg.; 186, 4 seg.; 192, 16 seg.; Inschr. Magnesia/M, 14, 5 segg.; 44, 34 seg.; Inschr. Erytbrai 112, 12 segg. (n. 13) con commento; 114, 30 segg. (n. 13) con commento; 117, 28 segg.;

Inschr. Kyme

12, 12 (νομοθετικὸν δικαστήριον)

con commento

e bibliografia (aggiungere

K.M.T.ATKInson, Athenian legislative procedure and revision of laws, in «Bulletin of the John Rylands Library» 23, 1939, p. 38); DEMOSTH., XX 137. Cfr. L. RoBERT (n. 5), p. 442. 16 P. KnENTZ, SEG, XXI, 80 and tbe rule of tbe Thirty, in «Hesperia» 48, 1979, p. 551. Ab 5 =

SEG, XXI 80 Ba 5 κα] τὰ ψήφισμα

βολῆς, p. 56.

17 ARISTOT., "AO. πολ. 29,4; THucyp., 8, 67, 2; DeMosTH., XXIV 154; AEscHIN., III, 191. 15 ArIsTOT., 'A0. πολ. 54, 2; PLUT., Pericl. 32, 4; PoLLUX, 8, 31; HEsYcH., A 1134 ἀδικίου (LATTE, I, 42); Harpocr. ᾿Αδικίου (DINDORF, I, 10, 10 seg.); &tuu. μέγ. ᾿Αδικίου, (GAISFORD, 17,

46); etym. Sym. a 140 ἀδικίου (Sell 60); Kleidemos FGrHist 323 F 4 (vedi vol. IIIb suppl. Text 64) = Phot. lex. 362.365 ᾿Αδικίου /I 42 seg. THEODORIDES); BEKKER, Ancd., 199 seg. ᾿Αδικίου; 341, 29 segg. ᾿Αδικίον; 7. DELZ (n. 9), pp. 175 seg.; E. GERNER, Historisch-soziologische Entwicklungstendenzen im i attischen Recht, in «ZSSt/R» 67, 1950, p. 24. 19 Schol. in Aristophan., Acharn. 378 (Scholia in Aristophanem I/IB, 59, 23 Wirson); Th.

GELZER, 12) Aristophanes, in RE Suppl. XII (1971), c. 1399.

221

LUCILLIO

E I NOMI

DI ALCUNI

BraAcio

ATLETI

VIRGILIO

Il libro XI della Anthologia Palatina contiene, fra l'altro, un certo numero ‚di epigrammi satirici attribuiti a Lucillio (probabilmente originario di Napoli, e vissuto a Roma all'epoca di Nerone e forse anche poco oltre !) aventi per tema sapide e iperboliche parodie di atleti. Lo studio magistrale di Louis Robert ha consentito ormai di riconoscere che tali parodie si fondavano sopra una conoscenza assai attenta e precisa dei concorsi atletici; che Lucillio parodiava con eccezionale familiarità e abilità sia il vocabolario tecnico proprio delle competizioni atletiche sia i temi propri . dell’elogio degli atleti; che i nomi imposti da Lucillio ai suoi atleti non erano nomi reali ma fittizi e di fantasia: a volte banali (Marco, Aulo: Anth. Pal. XI, 85;

258), spesso solenni, altisonanti e ricchi di suggestioni (Olympikos, Stratophon, Apollophanes, Kleombrotos, Apis, Androleos, Erasistratos, Perikles, Onesimos, Menekles, Hylas, Eutychidas: Arth. Pal. XI, 75; 77-81; 83; 86; 161; 163; 208), a volte [411 44 richiamare alla mente atleti famosissimi del passato (Milone:

Antb. Pal. XI, 316), onde maggiormente fare risaltare la pochezza e la ridicolaggine dell' atleta preso di mira dalla fantasia di Lucillio?. La scelta del nome dell'atleta (sulla quale avranno avuto una qualche influenza, pur limitata e in ogni caso non determinante, anche le esigenze della metrica) é& dunque frutto della fantasia di Lucillio e di un suo più o meno evidente giuoco di reminiscenze e di contrasti che il nome dell'atleta parodiato doveva evocare al lettore. Particolarmente significativo & il caso del lottatore Milone (Anth. Pal. XI, 316), unico atleta presentatosi alla gara e quindi premiato senza avere combattuto. Ma chiamato per la premiazione l'atleta cadde, e la folla contestava perció che costui dovesse essere premiato. Milone replicó alla folla che egli era caduto una sola volta e non tre (al terzo atterramento il lottatore era dichiarato battuto), e, in mancanza di avversari, sfidava qualcuno del pubblico ad atterrarlo ?. Un lottatore cosi becero e incapace, tanto da cadere da solo, non

poteva però avere nome più illustre e impegnativo: quello di Milone, leggendario lottatore crotoniate della seconda metà del VI sec. a.C., che aveva collezionato un numero impressionante di vittore alle Olimpiadi, alle Pitiche, alle Istmie, alle Nemee

*. La nullità dell'atleta di Lucillio era cosi iperbolicamente

messa in ridicolo anche mediantela scelta per lui del pià glorioso nome di lottatore mai esistito.

.

Un altro epigramma, attribuito a Lucillio dal Robert, contiene la satira di ‘un corridore incapace (Arth. Pal. XI, 86), ed è foggiato a guisa di parodia di un epigramma in onore del celebre corridore argivo Ladas ?: qui Lucillio peró ha rinunciato a riproporre per il suo atleta lo stesso nome del famoso corridore argivo 223

(come invece aveva fatto per Milone), e ha scelto un altro nome, quello di Peri-

kles, che evoca gloriose suggestioni storiche $ I due casi finora segnalati di Milone e di Perikles-Ladas forse non sono i soli casi di epigrammi nei quali la satira di Lucillio & costruita sulla parodia di una gloriosa realtà atletica del passato. Mi sémbra che su questa stessa linea possano essere intesi anche altri due epigrammi: quello nel quale Lucillio ridicolizza I’ ex pugile Kleombrotos (Anth. Pal. XI, 79), e quello nel quale è ridicolizzato un anonimo pentathleta (Antb. Pal. XI, 84). Der l'epigramma relativo a Kleombrotos Louis Robert, riconosciuta la precisione e la pregnanza del vocabolario tecnico ivi utilizzato 7, ha ritenuto che Lucillio avesse maliziosamente attribuito al suo ex pugile, picchiato da una vecchia moglie rissosa, un nome glorioso e «storico», Kleombrotos, lo stesso nome cioé del re spartano cui toccó di essere battuto a Leuttra dagli ancora oscuri Epaminonda e Pelopida 8. Ma non è possibile suppore che il nome dello sfortunato pugile sia stato esemplato da Lucillio sul nome di quel Kleom(b)rotos, probabilmente di Sibari, vincitore a Olympia all'inizio del VI sec. a.C. nel pugilato o nella lotta o nel pancrazio? ? Se cosi fosse avremmo in questo epigramma un caso analogo a quello del lottatore Milone: l'atleta preso in giro da Lucillio ha lo stesso nome di un celebre atleta del passato. Nell'epigramma che ridicolizza un anonimo pentathleta, nullo in tutte le cinque specialità del pentathlon, Robert ha riconosciuto un elogio alla rovescia, un contro-elogio 19, L’atleta qui è anonimo: ma la specialità nella quale l'atleta è cosi incapace, il pentathlon, e soprattutto il disco, lo stadio, il salto, fanno venire alla mente il nome di un celeberrimo pentathleta di Crotone, Phayllos, attivo

fra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C., raffigurato su un'anfora a figure rosse, di Euthymides (post 510 a.C.), nell'atto di lanciare il disco, e le cui imprese atletiche erano divenute proverbiali fin nella tradizione più tarda !!. Se Kleombrotos e Phayllos possono essere evocati da questi due epigrammi di Lucillio (i casi di Milone e di Perikles-Ladas confortano in tal senso), allora al

preminente giuoco metodico della fantasia dell'autore si potrebbe moderatamente accostare un giuoco, anch'esso metodico, di evocazioni e di satira costrui-

te da Lucillio sulla parodia di celebri realtà atletiche del passato. Lucillio probabilmente contava che tale giuoco, misto di fantasia, di evocazioni e di parodie, potesse essere colto dal pubblico dei concorsi atletici del suo tempo, al quale egli anche si rivolgeva.

1 L. ROBERT, Les épigrammes satiriques de Lucillius sur les athlètes. Parodie et réalités, in 1." épigramme grecque «Entretiens Fond. Hardt» XIV, Vandoeuvres-Genève 1969, pp. 179- 291, parti-

col. p. 181 e pp. 286-287. Per le scarne notizie biografiche su Lucillio vd. anche Antbologie Palatine. Livre XI, par R. Aubreton, Paris (Les Belles Lettres) 1972, pp. 61-64. 2 L. ROBERT, art. cit.

224

3 Per tutti i reconditi significati del vocabolario di questo epigramma vd. L. ROBERT, art. cit.,

pp. 246-254.

4 Vd. L. MORETTI, Olympionikai, in «Memorie Acc. Lincei», VIII, 1957, pp. 72-76 nn. 115, 122, 126, 129, 133, 139.

5 L. ROBERT, art. cit., pp. 278-279. Su Ladas vd. L. ΜΟΒΕΤΤΙ, op. cit., p. 96 n. 260. 6 Vd. L. ROBERT, art. cit., p. 279.

7 L. ROBERT, art. cit., pp. 220-222. Sul doppio senso di alcuni termini vd. anche Anth. Pal. XI, parR. Aubreton, cit., p. 244. 5 L. ROBERT, art. cit., p. 222. ? Per tale Kleombrotos interessa qui rimandare solo a L. MoRETTI, Supplemento al catalogo degli Olympionikai, in «Klio», LII, 1970, pp. 295-303, particol. pp. 295-296. 10 L. ROBERT, art. cit., pp. 237-242.

11 Vd. B. Virciio, Atleti in Erodoto. Tradizione orale e (possibile) tradizione epigrafica, in «Rend. Ist. Lombardo (CI. Lettere)», CVI, 1972, pp. 451-468, particol. pp. 464-465.

225

TWO

MISPLACED POLYBIAN PASSAGES FROM THE SUDA (XVI. 29.1 AND XVI. 38) FRANK

W.

WALBANK

1.

The partial reconstruction of the text of the fragmentary books of Polybius (VI-XXXIX) rests primarily on the correct arrangement of the passages preserved in the excerpta antiqua and in the surviving sections of the collection of historical excerpts made c. A.D. 950 on the instructions of the emperor Constantine VII Porphyrogenitus !. Of the original 53 titles under which the extracts were arranged there survive however only the De Virtutibus et Vitiis, the De Sententis, the De Insidiis and the De Strategematis, each dependent on a single manuscript and some only partially preserved ? and the De Legationibus gentium ad Romanos and the De Legationibus Romanis ad gentes, each of which has several manusctipts?. Of the remaining titles about a score are known. A little has been done to fill the gaps in the text of Polybius which the loss of these 47 sections of the Constantinian Excerpts has left by attempts to identify and locate the quotations stated or assumed to be from Polybius contained in the encyclopaedia known as the Suda ^, which was compiled c. A.D. 976 5. The Suda contains passages from various sources, but in a comprehensive and definitive analysis de Boor $ showed (1) that in assembling the historical fragments from most of the authors used, and certainly from Polybius, the compiler drew only on the Constantinian excerpts, not on the original works; 7 (2) that in making his selections he restricted himself to a very small number of the available sections of the Costantinian collection; 8 in the case of Polybius, for example, he used only the De Vzrtutibus et Vitiis among the surviving sections; (3) that of the lost (or mainly lost) sections he made considerable use of the De Strategematis and some use of the Περὶ ἀνδραγαθημάτων and the Περὶ &«kAn-

σιαστικῶν (the latter, on church affairs, being of course irrelevant for Polybius) and, probably, one or more sections dealing with military affairs. This restriction in its choice of sources renders the Suda less useful than it might have been for filling in gaps in the text of Polybius; and its value is further impaired in several other respects. The first of these is that only a minority of the fragments are stated to be from Polybius. There is accordingly a primary problem of identifying those fragments which are likely to be from his work, though unnamed. From the time of Casaubon and Valesius onwards editors of Polybius have sought to extend the list of such fragments and though, of the identifications thus made, by no means all can be accepted as firmly established, many must rank as certain. 227

The task is occasionally complicated by the fact that even where fragments are assigned to authors the compiler of the Suda was often curiously erratic in naming these and reference to complete texts of authors, where these were extant,

has frequently shown his assignments to be false ?. A further difficulty in using the entries in the Suda arises from the inertia of later editors, who have sometimes left them in that place in Polybius to which Schweighaeuser originally assigned them, despite the fact that their historical context has since become known and requires them to stand elsewhere 19, Finally, there are a few fragments which, from the time of Schweighaeuser onwards, have been placed in the wrong place because they have been taken to refer to some event or context with which, for one reason or another, they cannot possibly be connected. Tt is two such passages, both at present standing in the sixteenth book of Polybius, !! that I wish to discuss here. The result I offer to the discriminating judgement of Piero Treves as a small token of a friendship which has lasted close on fifty years. 2. Polyb. XVI. 29.1 = Suda (ed. Adler) no. 2224 s.v. ἐπιβάθρα. Ὃ δὲ Φίλιππος ἐβούλετο παρελέσθα᾽ Ρωμαίων τὰς £v TOLTOIG toic τόποις ἀφορμὰς καὶ τὰς ἐπιβάθρας.

In the Suda, which specifically attributes this passage to Polybius, it is followed by another passage, also attributed to Polybius: Polyb.XVI. 29.2 - Suda (ed. Adler) no. 2225 s.v. ἐπιβάθρας. Ἵνα, ἐὰν πρόθηται διαβαίνειν αὖθις εἰς τὴν ᾿Ασίαν, ἐπιβάθραν ἔχοι τὴν ᾿Αβυδον.

There is no reason to question the accuracy of the Suda's attributions to Polybius, and both fragments were placed in their present position by Schweighaeuser, who saw that the second must refer to Philip V's advance on Abydus in 200. 12 He printed both fragments in the order in which they appear in the Suda with the marginal caption «Abydum petit Philippus» and in his commentary (Vol. VIL, 284) he remarks on the two fragments: «Sicut posterius manifeste ex ea narratione decerptum est, cuius maiorem partem excerpta antiqua hic serva-

runt [i.e. Polyb. XVI. 29.3-34.12], sic prius ex eadem narratione esse desumtum probabili coniectura collegi posse visum est». The second passage states that Philip attacked Abydus in order to have a bridgehead in Asia in the event of his wishing to cross over again in the future; but the first states that he wished to deprive the Romans of resources and jumping-off points «in those parts». 3 Schweighaeuser's attribution of XVI. 29.1 to the same context as 29.2 has led to the assumption that Philip's Thracian campaign was thus partly intended to forestall an attack by the Romans on Macedonia from the Aegean. 1 There is nothing of this in Livy’s account of Philip’s campaign. 15 And it seems in fact highly unlikely that in the summer of 200 Philip envisaged a Roman attack on Macedonia from the direction of the Hellespont. The reason for 228

attacking Abydus — and, evidently, for the campaign leading up to that attack — is stated clearly in XVI. 29.2: it was to establish a bridgehead should Philip seek to invade Asia in the future. It would of course also give him a useful grip on the Straits. XVI. 29.1 has no place.here. It stands here only because of its proximity to 29.2 in the Suda: and the reason for that proximity is that both entries are commenting on the same word, ἐπιβάθρα. Even if both passages had appeared under one lemma, it would not follow that they both came from adjacent areas in the text of the excerpta Constantiniana. But in fact they appear under two lemmata (though both different cases of the same word) and in each the

Polybian citation is preceded by another illustrative quotation which Adler attributes to Iamblichus. But the earlier editors of Polybius (e.g. Gronovius, Amsterdam, 1670, and Ernesti, Leipzig-Vienna, 1763-4) both quote only the Polybian passages, which they print as one fragment; indeed Ernesti has somewhat misleadingly separated them only by a comma. It is no doubt influenced by this that Schweighaeuser decided to treat them as coming from a single context (though he offers no argments in support of his «probabilis coniectura») and to assign them both to book XVI, to which the second clearly belongs. For XVI. 29.1, however, another context seems clearly required. The campaign of 200 seems excluded. Livy XXXI. 16.1 prefaces his account of the attack on Athens and the Thracian campaign with the words 'ne Romano quidem quod imminebat bello territus»; but he nowhere suggests that the subsequent campaign was intended as a defensive measure against that war. Indeed, had Philip regarded the warning reluctantly delivered by. the Roman envoys to his general Nicanor in the vicinity of Athens !6 as an indication that war with Rome was imminent, he might have been expected to concentrate on securing Illyria and the Epirote coast and confirming the loyalty of his Greek allies rather than advance on Thrace and the Hellespont. It was in fact only with the ultimatum delivered at Abydus, 17 that Philip became convinced that the Romans were determined on war, and therefore only from then onwards that his policy gave any indication of being concerned with thwarting Roman aims. Can XVI. 29.1 refer, then, to some point in the war after the ultimatum at Abydus? There are indeed one or two occasions which might seem relevant. Livy XXXI. 28.6 describes Philip's seizure of Sciathus and Peparethus in 200/199, an event to which XVI. 29.1 might be held to refer; but the section of Livy (XXXI. 22-47) in which it appears is based on Polybius' res Graeciae from Ol. 145,1 - 200/199, and that is known to have been contained in Polybius XVII, which was lost before the tenth century. The Constantinian Excerpts contain no fragments from that book and so none were available to the compiler of the Suda. The lost book XVII contained not only the events of 200/199 but also those of 199/8. Hence if XVI. 29.1 refers to the Second Macedonian War, it must fall in 198/ 7. But a fairly full account of that year down to Cynoscephalae is contained in Polyb. XVIII. 1-27 and Livy XXXII. 32- 40; XXXIII. 1-10, and this provides no suitable place for the action of Philip described in XVI. 29.1. From this it follows that the fragment must refer to the First Macedonian War. 229

There are two occasions in that war when Philip could have been described as pre-empting the Roman occupation of key positions. One is in 211/10 when Livy relates how, on hearing of the Roman compact with Aetolia, Philip attacked Oricus and Apollonia. 15 There is nothing in this passage of Livy (which is derived from the res Graeciae of O1. 142,2, contained in Polyb. IX) corresponding to XVI.29.1; but Livy could have compressed the original 19 If so, the correct place for XVI.29.1 would be immediately before IX.40.4, which refers to the Ácarnanian resistance to an Aetolian attack, an event concurrent with Phi-

lip's northern campaign following his attack on the Illyrian towns 29, Alternatively, the reference may be to Philip's campaign in Illyria leading to the capture of Lissus, probably in 213; 21 and on the whole this seems the more likely, since Philip's land attack down to the Adriatic after the loss of his fleet in 214 22 was clearly designed to cut away the hinterland of the coastal areas under Roman control. ? This location for the Suda passage cannot, it is true, be regarded as certain; nor is it clear from which section of the Constantinian excerpts it derives. But since, as de Boor has shown, ?^ the De Strategematis included passages concerned with every aspect of a general's activity except actual fighting, this fragment, which is commenting on Philip's strategy, could appropriately have figured in this collection. Either occasion, however, is possible and would provide a context in which Polybius! remark is not absurd, as it is when linked to Philip's advance towards Abydus in the late summer of 200.

3.

Polyb. XVI. 38 = Suda (ed. Adler) no. 3557 s.v. εὐλαβῶς.

Ὁ δὲ Φίλιπ-

πος ὁρῶν τοὺς ᾿Αχαιοὺς εὐλαβῶς διακειμένους πρὸς τὸν κατὰ Ῥωμαίων πόλεμον, ἐσπούδαζε κατὰ πάντα τρόπον ἐμβιβάσαι αὐτοὺς εἰς ἀπέχθειαν.

This passage from the Suda is not assigned to Polybius, but was identified as Polybian by Valesius. 2 The language is certainly Polybian and the identification seems wholly plausible. 26 In its present position under Ol. 144,4 = 201/0, the fragment apparently refers to the situation in the autumn of 200, following the Achaean expedition against Nabis 27 described in XVI. 36-37 (from the excerpta antiqua). That passage contains no suggestion that Philip was concerned to change Achaean attitudes at this time. The attack on Nabis is described in an extract from Polybius' account of Peloponnesian affairs which followed his description of Macedonian events down to the Roman ultimatum at Abydus; but it belongs to the campaigning season of 200 well before the last events described in the Macedonian section. Α divergence of interest between the Achaeans and Philip had, it is true, become apparent shortly after Abydus fell, when an Achaean embassy at Rhodes urged the Rhodians to make peace with Philip, but the Roman envoys persuaded them to «have regard for their friendship with Rome». 2 But XVI.38 230

shows Philip seeking to influence opinion in Achaea directly, and it is not clear when that could have happened before the events in Abydus and the end of Polybius' Olympiad year 201/0. It was no doubt for this reason that both Schweighaeuser and Nissen hesitated to assign the fragment to book XVI. Schweighaeuser ? put it in that book but with the qualification that it might either belong in the context of Livy XXXII:5.4-5, which describes how in 199 Philip sent envoys to Achaea to restore Orchomenus, Heraea and Triphylia to Achaea and Alipheira to Megalopolis and so succeededin strengthening the Achaean alliance, ?! or alternatively in the context of Livy XXXI.25, which describes a meeting held at Argos in autumn, 200, at which Philip tried unsuccessfully to involve Achaea against Rome in return for his help against Nabis. ? But neither suggestion can be accepted, since both passages of Livy are based on the res Graeciae of Polybius XVII which, as we now know and as Nissen himself — somewhat inconsistently — points out, ? was already lost by the tenth century. 34 There are thus serious objections to leaving XVI.38 in its present position. One possible way out, which would enable it to remain in 200/199, would be to assign it, not to Polybius, but to Diodorus (the most likely alternative source). But this is an improbable solution, since the Suda makes very little use of Diodorus. ? As we have seen, the fragment has every mark of being by Polybius; and since, like XVI.29.1, it is hard to fit into the part of his account of the Second Macedonian War which was still extant in the tenth century, one must consider whether it too may not more suitably be referred to the First Macedonian War.

|

Two possibilities present themselves. One is Philip’s visit to the Achaean assembly at Aegium in the summer of 208, 36 when he originally promised to restore Heraea, Triphylia and Alipheira. On that occasion he delivered a speech ?7 denigrating Attalus of Pergamum, Sulpicius and Machanidas of Sparta, encouraging the Áchaeans to new efforts and promising an early victory. Alternatively a suitable context is provided by a speech which Philip delivered at Aegium the previous year (209) at what seems to have been an Achaean assembly expanded to include representatives of the other Macedonian allies?* On that occasion Philip's object was to limit the Greek side of the conflict, which the Ro-

mans were trying to extend; and the danger to Greece was therefore represented as coming from Pergamum and Rome. ?? In fact the attempt failed, for reasons which do not concern us here. But the fragment XVI.38 would fit very well into the context of this meeting. Its position in Polybius’ text would be immediately before X.25. Clearly neither of these contexts is certain as a location for the Suda fragment. But both provide occasions absent in the short period available in book XVI before the end of the Olympiad year 201/0. It follows that XVI.38 should be removed from its present place in our texts and no longer associated with the beginning of the Second Macedonian War.

231

4͵ The historical implications of our investigation into the assignment of these: two Polybian passages from the Suda are not entirely negligible. Their removal from book XVI also removes two supposed pieces of evidence relating to the early stages of that war. The first (XVI.29.1) has been used to support the view

that when he advanced through Thrace to Abydus in the later summer of 200, Philip was already envisaging war with Rome. That view, which had never seemed very convincing, must now be abandoned. The second (XVI.38) showed Philip concerned, immediately after the Roman ultimatum, to ensure Achaean loyalty in the forthcoming conflict. There is no reason to think that this was not important in his calculations; but is is not attested. And rash hypotheses assigning the fragment to later parts of the war must be resolutely abandoned. Finally, these two instances, taken from a small area in the text of Polybius XVI,

suggest that more still remains to be done in locating the Polybian fragments

preserved in the Suda.

1 See U.P. BorssEvAIN, C. DE Boon, T. BürrNER-Wossr, Excerpta Historica iussu Imp. Constantini Porphyrogeniti confecta, Berlin 1903-06. 4 vols; T. BÜrTNER-Wossr, «Die Anlage der historischen Encyklopádie des Konstantinos Porphyrogenitos», Byz. Zeitschr. XV (1906), 88-120; J.M. Moore, The manuscript tradition of Polybius (Cambridge, 1965), 127-9. .? See MOORE, op. cit. (n.1), 130-6; there are also two nineteenth-century copies of T (Par.

suppl. Grec. no. 607), the MS containing what survives of the De Strategematis, but they have no independent authority. C. DE Boon, Byz. Zeitschr. XXI (1912), 403-6, queried the identification of the passages in T as part of the De Strategematis, and suggested that they formed part of a collec-

tion of theoretical works on tactics with practical illustrations, made perhaps on the authority of Constantine VII, but quite distinct from the historical collection. The MS P (Turonensis 980) con-

tains only the first half of the Excerpta de Virtutibus et Vitiis (including Polybius); the second half is

ost.

?^ MOORE, op. cit. (n.1), 137-65.. 4 For various hypotheses on the origin and meaning of this title see H. GARTNER, «Suda», Der Kleine Pauly, V. 407. The Suda used to be thought to be the author's name (Suidas). The standard edition is Suidas Lexicon, ed. A. Adler (Leipzig, 1928-1938), 5 vols. > C£. T. BOTTNER-Wossr, art. cit. (n.1), 88-90.

$ C. DE Boon, «Suidas und die Konstantinische Excerptsammlung», Byz. Zeitschr. XXI

(1912), 381-424; 13 (1914/1919), 1-127; cf. ADLER, op. cit. (n.4), XIX; RE, «Suda», cols. 700 ff. ? This had been recognised, for Polybius, as early as 1634 by H. Valesius; see Polybii Diodori Siculi Nicolai Damasceni Dionysii Halicar. Appiani Alexand. Dionis et Ioannis Antiocheni excerpta ex

232

collectaneis Constantini Augusti Porpbyrogenetae Henricus Valesius nunc primum Graece edidit, Latine vertit, notisque illustravit (Parisiis, 1634), praefatio. But de Boor produced the first complete and detailed demonstration. 8 This de Boor showed from an analysis of the use made by the Suda of fifteen authors in the collection. Many of the extracts can be identified only by deduction from subject matter, linguistic criteria etc. | ? For Polybian fragments attributed to Aelian and fragments attributed to Polybius which are in fact from Appian, Dionysius, Theophylactus, Johannes Antiochenus and Plutarch see DE BooR, Byz. Zeitschr. XXI (1912), 416-19; as he observed, there must be many more examples of this, now unidentifiable, since the originals from which they were taken are no longer extant.

10 E.g. IX.40.4 and 40.5-6 (and several other passages from the Suda) should stand between IX.27 and IX.28; see B. ΝΊΕΞΕ, Geschichte der griechischen und makedonischen Staaten (Gotha, 1899), 11.477 n. (from p. 476); FW. WALBANK, Historical Commentary on Polybius (Oxford, 195779) ii.13, 182.

11 Cf DE Boon, Byz. Zeitschr. XXIII (1914/1919), 81, «Bei den wenigen dem 16. Buch des Polybios zugeteilten Zitaten ist der Zusammenhang nicht hinreichend deutlich».

2 Cf, Livy, XXXL16. ^ ἀφορμαί can be either «bases» or «resources». 14 Cf. NIESE, op. cit. (n.10), 11.593, «sich von dieser Seite her gegen einen feindlichen Angriff zu schützen»; B. FERRO, Le origini dellaII guerra macedonica (Palermo, 1960), 110, «protegge-

μι ND

μ᾿ “J

re... anche la Macedoniada ogni eventuale invasione da Oriente». 5 Livy, XXXL 15.11, 16.5 ff. 16 Polyb. XVI.27.1-5. Polyb. XVI.34.3-4. 18 Livy, XXVI.25.2. As he did in his account of the Aetolian attack on Acarnania (Livy, XXVI. 25.9-17). There

is nothing in Livy directly corresponding to Polyb. XVI.40.5-6, which clearly belongs here. 20 Livy, XXVI.25.3-8 (northern campaign), 9-17 (Aetolian attack on Acarnania).

21 Polyb. VIIL 13-14. On the arguments for dating this passage to 213 rather than 212 (so DE Sancrıs, Storia dei Romani [ Turin, 1917] iii.2.440) see WALBANK, op. cit. (n.10) ii.6. 2 Livy, XXIV.40; Plut. Arat. 51.1; Zon. IX.4.4; cf. WALBANK, Philip V of Macedon (Cam-

bridge, 1940), 75-6. 2 Cf. WALBANK, op. cit. (n.22), 80. 24 S.B. Berlin, 1899, 931; Byz. Zeitschr. XXIII (1914/1919), 38 £.; cf. T. BorTNER-WOBsT, Byz. Zeitschr XV

(1906), 115.

25 Op. cit. (n.7), 242; cf. Gronovius, Polybii historiarum quae supersunt (Amsterdam, 1670),

ii. 1562 fg. 29.

26 For εὐλαβῶς διακειμένους cf. III.52.4; for ἐμβιβάσαι τινὰ εἰς cf. X.22.7. ἐμβιβάσαι is a correction of the MS ἐκβιβάσαι, attributed by Mauersberger to Reiske, but in fact already in Valesius. ἀπέχθεια is common in Polybius; it often means no more than «hostility» rather than «hatred» (see Mauersberger, s.v.).

27 Polyb. XVI.36-7. 28 Polyb. XVI.35. On the meaning of στοχάζεσθαι τῆς τούτων φιλίας see WALBANK, op. cit. (n.10), ii ad loc.

29 Polybii bistoriarum quidquid superest (Leipzig, 1789-1795), vii. 296-7. 30 H. Nissen, Kritische Untersuchungen über die Quellen der vierten und fünften Dekade des Livius (Berlin, 1963), 133 n. 31 Livy, XXXII.5.5, «cum Achaeis quidem per haec societatem firmabat». I wrongly accepted this date for Polyb. XVL38 in Philip V (above n.22), 148 n.5. 2 So A. AvMARD, Premiers rapports de Rome et de la confederation achaienne ( 198-189 avant J.-C) (Bordeaux-Paris, 1938), 67 n. 90; he does not consider the objection that this would put the

fragment in Polyb. XVII.

33 Op. cit. (n.30), 326 (table of dates); see above, p. (= CF 28 6.

34 For the same reason one must exclude the occasion described in Livy, XXXII.19.12, when Philip's representatives attended the meeting at which the Achaeans were persuaded to

233

abandon Macedonia for Rome. Moreover by that date the cleavage of sympathies in Achaea had gone so far that it could no longer have been summarised in the phrase εὐλαβῶς διακειμένους πρὸς τὸν... πόλξδμον. 35 See ADLER, RE, «Suidas», col. 702; DE Boon, Byz. Zeitschr. X XIII (1914/1919), 90, listing no examples from books I-V, XI, XII, XVI and XVIII and only ten from books XUI-XV, XVII

and XIX-XX. ?6 Livy, XXVIII.8.6. The promise was not fulfilled until 199/8; see above, n.31.

37 Livy, XXVIII.8.2-5. 95 Livy, XXVIII.30.9-10; the passage Polyb.X.25.1-5 is probably from a speech delivered then. Livy calls the meeting concilium Acbaeorum ($12), but elsewhere he seems to be describing a

meeting of allies($ 9, sociorum concilium; S15, [Philippus] concilium dimisit). 3° Cf. WALBANK,

234

op. cit. (n.22), 90.

NOCHMALS: ZUR FÜNFTEN HIPPARCHIE FAST ÜBERFLÜSSIGE ERWAGUNGEN ZUM ARRIANTEXT GERHARD

WIRTH

Die Forschungen zur Alexandergeschichte sind in der letzten, neuesten Phase ganz offenkundig zu ihrem ursprünglichen Metier, der Quellenkritik, zurückgekehrt!. Freilich hat sich solche für frühere Generationen fast ausschließlich auf die Überlieferung bezogen, Abhängigkeiten und die traditionsbedingte Deformation von Nachrichten, und sich mit den Autoren bescháftigt, die diese bestimmten. An ihre Stelle ist nun offenkundig mangels von Besserem ? und der Möglichkeit grundlegender neuer Ansätze die Prüfung des Sachlichen, des Inhalts unserer quellen und ihrer Darstellung, gatreten. Auch sie aber führt zu den autoren zurück. Psychologisch gesehen, ergibt sich damit wieder einmal eine Perspektive sich gleichsam verselbständigender Intelligenz, die sich ihre Betätigungsmöglichkeiten sucht. Das eigentliche Objekt, Alexander selbst, gehört nach wie vor gleichsam zu anderen Interpretationsbereichen und figuriert eher am Rande. Mit anderen Worten, ein Kreis hat sich geschlossen. Was sich allerdings verschoben hat und damit der wissenschaftsgeschichtlichen Entwicklungslinie den Charakter einer Serpentine gibt, ist jetzt der — allerdings grundlegend — veränderte Erfahrungshintergrund der Forschenden selbst 3, der den bisheringen wissenschaftlichen, weitgehend philologisch meßbaren Methoden den Sinn nahm. Daß sich der allgemeine Wandel des Wissenschaftsverständnisses von hier aus auf Alexander noch kaum auswirkte, mag mit seiner eigenartigen, fast nu vom Biographischen her faßbaren Rolle zu tun haben und dem Mangel an Erweiterungsmöglichkeiten über das lediglich Psychologische hinaus. So sichert

die Sterilität aller Induktionsmöglichkeiten der Alexandergeschichte eine Zeit-

lang wohl noch die Rolle Exzeptionellen?*, ja Exotischen. Was auch hier eines Tages die nicht aufzuhaltende Deduktivität von Allgemeinverbindlichem bringen wird, ist abzuwarten; ein Brennpunkt historischer Fragenkomplexe, wie er in der Bemühung um «Selbstverständnis» die Voraussetzungen dialektischer Deutung behandelt, aber ist angetan, gerade hier in der Verzerrung genug zu zerstören, was besser erhalten bliebe.

So haben vergangene Generationen etwa in Arrian * den zuverlässigsten der Alexanderhistoriker ? gesehen und seit Droysen seine Maßstäbe zur Grundlage ihrer Beschäftigung mit Alexander genommen 9. Die Gründe hierfür, nicht zuletzt das irreführende Selbstbekenntnis am Anfang der Anabasis, mögen dabei ausgeklammert bleiben. Doch liegt es gleichsam in der Natur der Sache, daß 235

er als erster einer Umwertung der Werte zum Opfer zu fallen droht. Es ist aber weniger die Fragwürdigkeit seines Ansatzes als vielmehr dessen Durchführung, die nun neuen Perspektiven nicht mehr genügen will: Zwar hat einschlägige Sachkritik, wie angedeutet, kaum andere Methoden zu Gebote als die vorausgehenden Forschergenerationen. Aber bei veränderter subjektiver Disposition vergrößert sich eigenartig die Distanz zur Person des Autors mit ihren mehr oder weniger klaren Einzelzügen wie auch die zum eigenen Engagement für sie oder ihr Anliegen. Sie läßt rigoroser als zuvor auf Defekte hinweisen und daraus die Folgerungen ziehen. Bei allgemeinem, zwangsläufigem Verlust an Fähigkeit zur sentimentalen Anhänglichkeit an Ideale wie geschlossene Menschenbilder, wird es denn leicht, Fragwürdigkeiten und Lücken nachzuweisen, die von dem Menschen aus nicht mehr zu erklären und daher noch weniger zu rechtfertigen sind. Und der Weg vor heir zu den charakteristischen fragwürdigen Umstánden

des Objektes der Geschichte wie auch den fremden, abstoßenden Zügen der

Persónlichkeit Alexanders selbst ist dann nicht mehr weit ?. Nicht, daß Arrian bewußt falsche Darstellung der Fakten nachzuweisen wáre und er etwa jenes credo quia absurdum bewußter Verzeichnung aus welchen Gründen auch immer ins Spiel bráchte. Auch fehlt die Penetranz philosophischer Nebenabsichten, der der antiken Überlieferung nach alles recht ist, um als ethologisches Exempel verwendet zu werden. Wie er im 2. Jhdt. n. Chr. seinen Helden sieht und darstellen will, sagt er selbst. Sein Alexanderbild ist der letzte bewußt durchzuführen gesuchte Gegensatz zu einer Tradition, deren Wurzeln im einzelnen schwer zu verfolgen sind, deren Tendenz ins Märchenhafte er jedoch nicht mehr aufzuhalten 8 in der Lage war. Daß er mit seiner Absicht allein stand, scheint am ehesten damit zu erklären, daß er zu spät kam, und war Arrian überdies klar. Der Alexander

der späten Antike ist der des Alexanderromans ?, und er blieb es auch das Mittelalter hindurch. Daß die Sachkritik, vom Dargestellten auf den Darstellenden rückwirkend, damit sich selbst beschränkt, ist nicht zu übersehen. Denn dieser Darstellende bleibt gerade in der Perspektive des vorwiegend Fragwürdigen amorph. An seiner Stelle tritt ein lediglich literargeschichtliches Fixum, das für eine Deutung des hier Spezifischen und noch weniger des Verhältnisses von Zweck und Mittel ausreicht. Um die damit neu klaffenden Lücken zwischen Autor und Objekt zu schließen, bedarf es demnach stärker als zuvor wenngleich von anderer Basis aus der eigenen Wünschbarkeiten und Vorstellungen des Prüfenden, die Maßstäbe für Denkbares wie Undenkbares zu schaffen vermögen. Distanz hat allemal ihre Gefahren; der Weg der Objektivität führt ein Stück weit, endet aber dann in Selbstgerechtigkeit auf der einen und Beziehungslosigkeit auf der anderen Seite. Und mit der wachsenden Freude an der Polemik aus der myopischen Klarheit als letzter Konsequenz droht allzu leicht der Impuls, d.h. das Interesse an der Sache selbst, verloren zu gehen. Von hier aus denn scheint erneut zu fragen, wie man es sich erklären soll,

daß Arrians Terminologie weder in sich geschlossen noch vollständig oder gar 236

konsequent durchgeführt ist, falsche Namen auftauchen, Beziehungen sich ergeben, die so nicht zutreffen können, Fahrlässigkeit scheinbar derart ins Auge springt 19, daß die Anabasis trotz ihrer Ambitionen fast auf keiner Teubnerseite der kritischen Prüfung standhält. Die Frage, was auf Quellen zurückgeht und was Arrian selbst sei !!, wurde immer wieder gestellt, aber nie erschöpfend beantwortet, doch auch die Erkenntnis, selbst ein Ptolemaios 12 habe mit eigenen Interessen keineswegs hinter dem Berge gehalten, hilft nicht weiter. Sind es hier in der Tat nur Insuffizienz, Gleichgültigkeit und Adiaphorie 35, die wirken, oder waltet eine andere, gleichsam höhere Vorstellung von Wesentlichem und Unwesentlichem, mit der Spätere nicht mehr zurechtkommen? Aber wenn, wie erklärt sich die schematismushafte Fülle von Detailangaben, die anderseits doch ohne Zuverlässigkeit ist, von Vollständigkeit 14 zu schweigen? Oder sind es etwa vorwiegend Erfahrungen und Anschauungen der Kaiserzeit, die wie in anderen Schriften des Autors auch hier wirken, für die aber vieles, was diese Späteren interessieren könnte, im Nebel versunken war und selbst an historischer Faktizität nur zählte, was zu eigenem Nutzen als effektiv gelten durfte? Konsequenzen zeigen sich bald. Daß sie fast den Charakter eines Generationsproblems haben, mag die aus ihnen zwangsläufig resultierenden Gegensätze ein wenig relativieren; gelöst werden sie dadurch nicht. Für Bosworth ist es der jugendliche Skribent 15, der sich ohne die nötigen Vorkenntnisse, dafür aber voll falschen Selbstgefühls an die Alexandergeschichte machte — und so ohne es zu wollen, für die Nachwelt einen großen Wurf tat, dabei trotz besten Willens mehr verdarb als verbesserte. Ich selbst möchte dabei bleiben, eine Rei-

he von spontanen Selbstzeugnissen scheinte gerade in ihrer abstoßend Offenheit zu echt, um nur als rhetorisch gedeutet zu werden: Der Arrian der Alexandergeschichte müsse ein langes Leben bereits hinter sich haben, um so zu schreiben. Und selbst scheinbare Fragwürdigkeit lasse sich vielleicht nicht so sehr aus Indolenz erklären wie aus einem Bemühen um Klarheit, ein undurchdringliches Knäuel von Nachrichten, Angaben und Deutungen der Überlieferung zu durchdringen. Wer von sich rede wie dieser Arrian der Alexandergeschichte, der habe wohl mehr aüfzüweisen als frühreifes Literatenrenommée, und selbst offenkundigen Fehlern náhme ein prononciertes Autoritätsbewußtsein einiges an Gewicht. Wo Arrian aber von sich selber spricht, scheinen seine Worte anzudeuten 16, daß er sein Ende nahe sieht 17. Sie als bloße Rhetorik zu deuten, konstruiert mir einen falschen Triumph von Wissenschaftlichkeit. Überlieferungsfragen zum erhaltenen Text scheiden als Kriterien hier aus. Von allen freilich, die Arrian kritisieren, hat das Original der Wiener Arrianhandschrift keiner vor Augen gehabt (übrigens auch Schmieder nicht). Soweit ich das Überlieferte selbst nachzuprüfen Gelegenheit hatte, trüge es denn auch zur Klärung hier anstehender Fragen wenig.bei. Der Text ist dem Duktus der Schrift nach von einem hochqualifizierten Abschreiber erstellt, dem man Zuverlässigkeit zutrauen sollte: Der Eindruck aber kann täuschen, ein Vergleich mit der Suda ergibt, beide müßten von einem Archetyp mit überwiegender Verwendung schwer lesbarer Siglen ausgehen: die Tatsache, daß der Sudatext für 237

ausgezogene Arrianstellen gelegentlich mehr Worte enthält, gibt Zweifel auf 18, die Roos in seiner Analyse 1912 nicht beseitigen konnte. Sie machen auch die Wiener Handschrift mir letztlich doch fragwürdig, ja passen vielleicht zu den graphologisch verwertbaren Indizien für den Schreiber selbst, die zur Vorsicht warnen. Zweifel weiter zu vertiefen freilich erscheint, wenigstens an dieser Stelle kaum als statthaft: Über die Suda hinaus ist es kaum móglich, die Tradition zurückzuverfolgen; die constantinischen Exzerpte geben so gut wie nichts aus, Photius ist Wiedergabe aus dem Gedächtnis. Impulse etwa der These H. Tonnets, zur sprachlichen Deutung des Textes, im Druck befindlich, sind abzuwarten 19, Über die sachlichen Aporien hinaus freilich scheint einiges an jenen berechtigten Ausstellungen der Kritik von einer anderen Voraussetzung aus zu erklären. Dies wäre die mangelnde Vollendung des Werkes, auf die sich in der Tat am ehesten alles zurückführen ließe. Eine solche These wiederum paßt zwangsläufig zur Annahme hohen Alters: Die auf die Anabasis folgende Indike bräuchte dem nicht zu widersprechen, ja könnte indirekt Bestätigung sein, so, als sei es dem Autor darum gegangen, sein Werk als Ganzes wie versprochen zu vollenden ?* und den dann nicht mehr verfügbaren Rest seiner Zeit zum Ausfeilen zu benutzen. Denn es ist nicht so sehr der bloße Sachverhalt des Geschilderten, der zu Hypothesen zwingt: Wichtiger sind hier wohl formale Eigenheiten, die längst erkannten deutlichen inneren Widersprüche, Dubletten, Wie-

derholungen und überflüssigen Parallelen. Sie mögen, naiv genommen, wie sie auf den ersten Blick scheinen, eine gewisse Betulichkeit ausdrücken und wären so vielleicht als ein Senilitätssymptom zu werten. Die Gesamtkomposition stören sie und können so, wie sie im Kontext stehen, kaum beabsichtigt gewesen sein. |

Ein Beispiel scheint bezeichnend, dies vorausgesetzt, die Überlieferung ist

korrekt und der erhaltene Text spiegele die ursprüngliche Fassung. Sie ist viel besprochen 2°, bleibt aber immer wieder lehrreich für jeden Aspekt. 7, 6 ff. enthält die Kritik der Makedonen an Alexanders neuer Heeresordnung von 224, die offensichtlich die Zahl von 8 Hipparchien in Indien auf 4 verringerte ?!, wohl um von hier aus erstmals einen festen Schematismus der Kavallerie zu erstellen. Auslösendes Moment der Mißstimmung ist die Ankunft der Satrapen mit den ausgebildeten Epigonen 22, Dabei wird es schwer, zu entscheiden, ob die sich anschließende Digression, die in indirekter Rede steht (7,6,2 εἶναι yàp οὖν - τετιμημένους), aus einem Quellenwechsel zu erkláren ist

oder lediglich Reflexionen Arrians enthält ?: Man möchte letzteres annehmen, denn der erste Teil (εἶναι yàp οὖν... Μηδικὴν τὴν ᾿Αλεξάνδρος στουὴν ἄλγος οὐ σμικρὸν Μακεδόσιν ὁρωμένην) ist fast wórtliche Wiederholung von 4,7,4, (. ἐσθῆτα Μηδικὴν ἀντὶ τῆς Μακεδονικῆς τε καὶ πατρίου Ἡρακλειδης ὧν... ... οὐδὲν τούτων ἐπαινῶ...), daher für 324 trotz des

ὁρωμένην wirkungslos 24. Der zweite Teil, der Ärger über die Hochzeit, hat dort zwar Parallelen nicht, rückt aber als gleichsam paralysierende Ergänzung zur eindrucksvollen Schilderung 7,4,4 ff. diese nachträglich in ein schiefes Licht und erweckt überdies Zweifel an der moralischen Grundlage makedoni238

schen Verhaltens. Formal wird Zusammengehöriges zerrissen 25, ohne daß eine Verbindung sichtbar wáre, und beide Teile verlieren ihren Wert als Bestandteil einer Gesamtkomposition. Den Eindruck schlecht verarbeiteter und stórender Ergánzungen setzt auch das Beispiel des Peukestas mit seinem βαρβαρισμὸς fort: Πευκέστας τε ὁ Περσῶν σατράπης τῇ τε σκευῇ καὶ τῇ φώνῃ περσίζων ἐλύπει αὐτοὺς, ὅτι τῷ βαρβαρισμῷ αὐτοῦ ἔχαιρεν ᾿Αλέξανδρος (vgl. 6,30 ᾿Αλέξανδρος ἐπήνει αὐτὸν καὶ οἱ Πέρσαι... ἔχαιρον).

D. h., Arrian wiederholt an keineswegs weit auseinanderliegenden Stellen die gleiche Tatsache mit wenig unterschiedlichen 2° Worten; dabei erweckt das ἔχαιρεν - ἔχαιρον obzwar für verschiedene Subjekte den Eindruck einer ste-

hengebliebenen Gedächtnishilfe und könnte einiges an der Arbeitsweise des Autors andeuten 27, Auch hier scheint die Komposition den sachlichen Hintergrund zu verwischen, muß aber, als endgültige Fassung gesehen, die gegenteilige Wirkung erzielen. Hat das Sachliche vielleicht seine Berechtigung, die Stereotypität der jeweils entscheidenden Formeln ist es, die den Text allein als Zusammenstellung von Material verstehen läßt, der letzte stilistische Verarbeitung fehlt. Dazu nun kommt, daß im folgenden (6,3 ff.) der Aufbau der Stelle vol-

lends unverständlich zu werden scheint. Auffallend unvermittelt mit lediglich einem καὶ fortfahrend, berichtet Arrian von der Einordnung der Baktrer, Sogdianer, Arachoten Drangianer, Areier 28, Parther und persischer Evakt in die Hetairenkavallerie und ihren Qualifikationsskriterien, darauf (6,4) v on der einzelner Perser in das Agema. 6,5 wird von einem ἡγεμὼν ἐπὶ τούτοις und den

τοὕτοις ausgegebenen makedonischen Waffen anstelle persischer gesprochen. Der Schluß ergänzt das Bild: ..Taùta nävra ἐλύπει τοὺς Μακεδόνας ὡς TÙVIN δὴ βαρβαρίζοντος τῇ γνώμῃ ᾿Αλεξάνδρου, τὰ δὲ Μακεδονικὰ νόμιμά τε καὶ αὐτοὺς Μακεδόνας ἐν ἀτίμῳ χώρᾳ ἄγοντος. Wiederholung

wie oben ist dabei das ἐλύπει, das βαρβαρίζοντος τῇ γνώμῃ und das £v ἀτίμῳ χώρᾳ ἄγοντος, obzwar in gewisser Variation des Ausdrucks. Jedesmal aber

schwácht die Formulierung wieder den früheren Zusammenhang ab und verwässert das dort gezeichnete bild, und zwav nicht zuletzt gerade durch die Dichte einschlägiger Wiederholung. Dazu’aber kommt die Stelle selbst. Sie scheint als Ganzes ihrem Aufbau nach in der vorliegenden Form auch sachlich ohne Sinn. Dabei ist relativ belanglos, daß Arrian von vier Hipparchien vorher nicht sprach, so daß das πεμπτή ?? 6,4 gleichsam in der Luft hángt; ungeklärt bleibt, ob dies auf Mangel eines entsprechenden Pronomens, ‚Ausfall eines anderen Hinweises oder lapsus calami zurückzuführen und der Überlieferung zur Last zu legen ist - auf den Autor selbst bezogen, paßt die Stelle zu obigen Vermutungen. Sachlich ist eine Klärung kaum schwer und einfachste faktische Logik. Man wird mit dem καταλοχισθέντας Raám etwas anderes als die Neuaufstellung einheimischer Verbände in Stärke von Ilen und Lochen annehmen können, die nach dem Rückmarsch zu den Kerngebieten des persischen Reiches neu ausgehoben und als solche in die Hetairenreiterei eingegliedert wurden. So entstanden 4 Hipparchien gemischter Verbände aus Makedonen und Orientalen, 239

wie dies taktischen Erwágungen und Erfahrungen entsprach, wobei nirgends gesagt ist, daß etwa die ganze makedonische Reiterei in ihnen aufging ?. Daß die Hipparchien dem entscheidenden Kaderverband nach. als makedonische Einheiten galten und wohl auch makedonische Führer hatten, läßt die Stelle indirekt noch erkennen, dafür aber, daß etwa die Perser damit Hetairen im altma-

kedonischen Sinne wurden 55, gibt es keinen Anhaltspunkt. Bei solchen Prámissen nun wird fraglich, auf wen sich das ..ócot αὐτῶν.. (S. 347 Z.2 Roos-Wirth)

bezieht. Sind mit ἱππεῖς die S. 346 Z. 25 oder nur die S. 347 Z. 1 genannten gemeint? Hángt im ersten Falle das zweite ἱππεῖς als überflüssig in der Luft und verwirrt, so wird noch zweifelhafter, auf wen das folgende ἐπὶ τούτοις (S. 347

Z. 4) zu beziehen ist. Badians Konjektur, die das der Zeile durch «μόνον» ob ergänzt, hilft nicht zuletzt deshalb kaum weiter, da der Gedanke bereits mit. dem ..κατελέγησαν éc αὐτὸ τῶν βαρβάρων.. endet. Mangel von Konjunktur, Subjekt oder wenigstens brauchbarem Prádikat zerstört jede Möglichkeit, einen Aufbau zu erkennen; das ..ἐλύπει.. S. 326 Z. 24 ist einfach zu weit entfernt, um glauben zu machen, ein Satzungetüm von einer ganzen Teubnerseite kónnte selbst bei getragenem Schwung der Darstellung in der Absicht des νέος Ξενοφῶν gelegen haben; zu solchem Schwung aber liegt hier weder subjektiv noch objektiv ein Grund vor. Auch das ..taüta πάντα.. S. 327 Z. 15 wiederum ist ebenfalls zu weit von dieser Stelle mit ihren wechselnden Inhalten entfernt, um ein organisches Ganzes wiederzugeben. Dabei scheint eine sinnvolle Ordnung dieses sachlich durcheinandergehenden Gefüges von Einzelteilen nicht einmal schwer. Ende des 326 Z. 24 mit dem ..Koi oi.. beginnenden ersten Gedankenganges ist das ..£raupımtv.. S. 347 Ζ. 2; daran schließt sich logisch sofort das πεμπτὴ S. 327 Z. 4 ff. Das nach ..évoipi-

Kijv.. ausfalende ὅσοι αὐτῶν.. ἐφαίνοντο wiederum stört sachlich und scheint ohne Sinn an dieser Stelle. Es schlósse sich aber besser an das βαρβάρων S. 327 Z. 6 an: Damit erwiese sich die 5. Hipparchie als besonderer Eliteverband, und dessen Mannschaften als ὑπερφέροντες κατ᾽ ἀξίωσιν καὶ

κάλλει τοῦ σώματος ἢ τῇ ἄλλῃ ἀρετῇ. Eine andere Deutung oder die Ubernahme der Stelle in der überlieferten Form ergibt hingegen weder sachlich noch kompositorisch irgendeinen Sinn. M. E. wäre damit auch Badians erwähnte Konjektur überflüssig 34. Wie angedeutet, die Stelle handelt ausschließlich von Barbaren, so daß das ..οὗ Bappapui] fj πᾶσα... als Einschränkung der bisherigen, nur auf solche zu beziehen-

den Stelle ab S. 346 Z. 24 und zugleich als indirekt klärender Hinweis auf den Hipparchienaufbau, Makedonen und Orientalen, zu verstehen wáre. Sind nach dem .. τὴν ἵππον τὴν ἑταιρικὴν... (S. 347 Z. 1-2) diese Barbaren nur Bestandteil der 4 Hipparchien, so wäre ein μόνον où unnötig. Anderseits scheint mir die innere Gegensätzlichkeit zum Vorausgehenden gegenüber Badians Absicht, eine erláuternde Anreihung zu konstruieren, syntaktisch durch das folgende ἀλλὰ notwendig, das durch das anreihende μόνον οὗ («beinahe») seinen Sinn verlóre. 1,19,2 und 1,21,6 als heranzuziehende Belegstelle helfen nicht weiter. Vorziehen würde ich οὗ «μὲν» («Zwar bestand auch sie nicht völlig aus Barba-

240

ren. Indes hatte man bei Vermehrung...») ?. Dazu aber kommt noch anderes. S. 347 2. 12-15 (... καὶ ἡγεμὼν ἐπὶ τούτοις... 600évta...) geht es um den

Baktrer Hystaspes. Handelt es sich dem Sprachgebrauch Arrians nach um den Führer einer Einheit, so kann sich der Terminus nicht auf die lediglich 7 na4mentlich genannten hochadligen Perser beziehen, die man ins Agema aufnahm, und die als individuelle Ausnahme keinen. eigenen Kommandeur brauchten 6. Eine Einheit, für die dies zutrifft, aber nun ist die erwähnte fünfte Hipparchie: Bezieht man das ἐπὶ τούτοις Ζ. 14 auf sie, so liegt nahe, der Satz sei hinter dem ..ÜTEPPEPOVTEG ἐφαίνοντο anzubringen. In solchem. Zusammenhang würde die Verschiebung bedeuten, der Baktrer sei der Kommandeur der neuen Truppe geworden57, und zwangsläufig damit auch die makedonischen Kaderabteilung der Hipparchie unter das Kommando eines Orientalen geraten 38, Somit aber ergäbe sich ein logischer Aufbau wie folgt: 7,6, 3 Koi οἱ Βακτρίων — ἑταιρικὴν καὶ πέμπτη ἐπὶ τούτοις ἱππαρχία προσγενομένη o0 βαρβαρικὴ «μὲν» ἡ πᾶσα, ἀλλ᾽ ἐπαυξηθέντος γὰρ τοῦ παντὸς ἱππικοῦ κατελέγησαν ἐς απυτὸ τῶν βαρβάρων, καὶ ἥγεμων ἐπὶ τοῦτοις "Y στάσπης . καὶ τούτοις δόρατα δοθέντα, τῷ τε ἀγήματι προσκαταλεγέντας Κώφης te — Μιθροβαῖος. Ταῦτα πάντα --- ἄγοντος.

Daß

das

sich

als

partizipiale

Konstruktion

anschließende

ποοσκαταλεγέντας.. (7,6,4-5) nach wie vor den Satz zum Ungetüm macht,

bleibt freilich unbestritten. Es verwundert kaum, daß Arrian wenig variiert und die Mehrzahl der Argumente 7,8,2 in nächster Nähe noch einmal wiederholt. So entspricht dort das ὑπερορώμενοι dem ἀτίμῳ χώρᾳ, während gleich darauf ὅτι πολλάκις ἤδη ἐλύπει αὐτοὺς ἥ τε ἐσθὴς ἡ Περσική.... Altbekanntes an nahe gelegener Stelle zum dritten Male bringt. Gleiches’ gilt für die ἐπιγόνων κόσμησις und zuletzt die ἀνάμιξις τῶν ἀλλοφύλων ἱππέων ἐς τὰς τῶν ἑταίρων τάξεις. Daß der τάξις - Begriff, für Reiterei ungewöhnlich, hier noch mehr an

Verwirrung schafft, wurde stets registriert, fállt aber für den Zusammenhang arrianischer Eigenwilligkeiten kaum mehr auf. Gemeint sein kann nur die Hipparchie 55. So setzen sich die Wiederholungen fort, und daß dies gerade im letzten Buch sich häuft, stärkt unsere Vermutung zum Prosivoriumscharakter des arrianischen Werkes. | Nimmt man freilich 7,6 für sich, so ergibt sich dazu noch ein eigenes Bild eines Durcheinanders von Einzelbestandteilen, das jeden logischen Aufbau vermissen läßt und weder inhaltlich noch formal sich etwa mit Saloppheit oder aber dem Bemühen um geballte Tatsachendarstellung erklären läßt. Fakten und Reflexionen stehen vielmehr kau, verbunden nebeneinandev,

und wie im Großen, so scheint auch im Detail die Verarbeitung zu vermissen. Die Grenzen selbst dessen, was seinerzeit Bosworth registrierte, scheinen damit weit überschritten.

Enthielt bereits das Manuskript Arrians diesen Text, so kann er nur ein Konzept, kaum aber ein in sich vollendetes Werk wiedergegeben haben. Mag an Einzelkriterien vieles noch Buch 4 seinen Sinn haben und organisch ein241

geordnet sein, hier kam der Autor offensichtlich nicht mehr dazu, stilistisch die Unterschiede herauszuarbeiten, Gedankenfetzen und Bruchstücke sind ungeordnet nebeneinander stehen geblieben. Es waren dann möglicherweise nur Pietát und das Bemühen um Abschluß und Vollständigkeit, dazu vielleicht noch die literarische Bedeutung von Autor und Werk, die dennoch die Publikation bewirkten.

1 S. dazu bes. B. BoswortH, «CQ» XXVI, 1976, 117ff.; dazu «Entretiens Fondation Hardt» XXII, Genf 1976, 1ff.; dazu die Diskussion N.G.L. HAMMONDS, «CQ» XXVIII, 1978,

146ff., vgl. E. ΒΑΡΙΑΝ, «JHS » LXXXIX, 1965, 160f. als kritische Auseinandersetzung richtungweisend. 2 Novum ist diese Sachkritik nicht, sondern eher Rückkehr zu Intentionen des 16. und 17. Jahrhunderts. Und auch die Intensitát, sieht man vom gewachsenen Umfang des zu bearbeitenden

Materials ab, hat Vorläufer. Hervorgerufen ist sie für die Alexandergeschichte nicht zuletzt durch die ermöglichte Zuhilfenahme topographischer, geographischer und archäologischer Voraussetzungen und das nie zuvor gekannte Hilfsmittel der Autopsie, deren Impulse sich zwangsläufig auch auf die Quellenforschung auswirkten und erwähnte neue Art von Verhältnis zur Uberliefe-

rung ermóglichten. ΑἹ] dies scheint durch die allgemeine weltpolitische Entwicklung freilich nach wenigen Jahren wieder zerschlagen, und nach den gewonnenen Ansátzen bleibt abzuwarten, wie sich die erzwungene Rückkehr zum Buchwissen weiter auswirken wird. ? Am auffallendsten dies in den Arbeiten E. Badians seit 1960. 3° Ein rührender Versuch, diese Barriere zu überwinden, bei H. WARTH, Epoche und Repràsentation. Zum Verfall mythologischer und philosophischer Erfahrungen im Oikumenismus Alexanders

der Großen, Studienreihe Humanitas, Frankfurt 1974. Alles Sachdienliche und Einschlägige einschließlich der Kausalitäten ist längst bekannt und an anderer Stelle klarer, eindeutiger dargestellt. So wird in der Dilettanz das Bemühen, Neues zu gestalten, die Synkrisis hier zwangsläufig

zur Platitüde. Das sprachliche Experiment allein reicht nicht aus. ^ Am ausgeprägtesten bei E. KoRNEMANN, Die Alexandergeschichte des Königs Ptolemaios I. v. Ägypten, Leipzig 1935. 5 Überblick bei J. SEIBERT, Alexander d. Gr., Darmstadt 1972, 38 ff., s. dazu zuletzt G. SCHEPENS, «Ancient Society» II, 1971, 245 ff., dazu zuletzt Pu. STADTER, Arrian of Nicomedia,

Chapel Hill 1979. 6 S. dazu BoswonTH, «Entretiens», S. 2 f., dazu bereits A. FRANKEL, Die Quellen der Alexanderbistoriker, Breslau 1883 (Nachdr. Aalen 1969), bes. 8 ff. ? Bezeichnend für den neuen Stil etwa R. LANE Fox, Alexander the Great, London 1973. 5 Dazu bes. P. TREvES, «RFIC» XXXIII, 1955, 250 ff. als Analyse von Hintergründen und

Entwicklungsgrundlagen, záletzt L. CRAcco Rucemir, «Athenaeum» 1965, 1 ff. zur Entwicklung innerhalb der spátantiken Literatur und Geistesgeschichte. Eine Begründung aus den erarbeiteten Prämissen indes ist Desiderat, zu dem die Arbeiten F. Pfisters (z.T. gesammelt zuletzt in: Kleine Schriften zum Alexanderroman, Meisenheim 1976) das meiste an Material bringen, vgl. SEIBERT, S. 219 ff. Daß auch für die historiographische Auswertung dieses Zweiges der Alexanderüberlieferung fast alles noch zu tun ist, scheint ein ebenso bekanntes wie ignoriertes Faktum zu sein. ? Zu Curtius jetzt J.E. ArkiNsoN, Q. Curtius Rufus’ Historiae Alexandri Magni, Books 3 and 4,

Amsterdam 1980, Preface. Die im Vergleich zu Arrian gelegentlich besseren bzw. besser weil offenkundig gründlicher ausgewerteten Materialquellen gleichen sich durch eine großzügigere Auf-

fassung des Plausiblen wieder aus. So ergibt sich eine Zwischenstufe. 242

10 Zu Lücken und Einseitigkeit drastisch BoswoRTH, «Entretiens» 1976, S. 17 ff.; zur Bela-

gerung von Halikarnaf und Tyros im Vergleich zu anderer Überlieferung vgl. jetzt auch ders. ‚A. Commentary on Arrian’s History of Alexander, Oxford 1980, 143 ff; 239 ff. Ich halte diese Einsei-

tigkeit für bewußte Beschränkung auf das Effektivitätsprinzip (vgl. RE XXIII, 2468 ff.). 1 S. dazu H. STRASBURGER, Piolemaios und Alexander, Leipzig 1934, 2 ff. 2 S. dazu C.B. WELLES, Mel. Rostagni, Turin 1962, 101 ff., mit verhältnismäßig milden

Verdikten und Versuchen einer Entschuldigung; schärfer R.E. ERRINGTON, «C.Q.» LXVIII, 1969, 233 ff. Gezielte Tagespropaganda für die Zeit nicht lange nach Machtübernahme in Ägyp-

ten vermag ich allerdings einschlägigen Stellen nicht zu entnehmen. Das Vorgebrachte paßt eher als immanente Rechtfertigung für die Zeit gegen Ende der Regierung, vgl. auchJ. SEIBERT, Urtersuchungen zur Geschichte Ptolemaios’ I, München 1969, 1 ff. 3 Bezeichnend hier m. E. ab Beispiel BosworTH, 1976, S. 124, vgl. aber dazu jetzt HamMOND, «CO» 1978, 146 ff.; ich halte die Betonung der kavalleristischen Leistung für das Entscheidende; Arrian hatte möglicherweise topographische Kenntnis. Nicht zu übersehen allerdings sind die Fehler in Darstellung der Schlachten am Granikos und bei Gaugamela, vgl. «Entretiens», S. 10 ff. Ahnliches gilt vielleicht für Arrians eigenartige Verlegung der makedonischen Olympien nach Aigai (vgl. BosworTH, 1976, S. 119 ff. vgl. Commentary, S. 97). Die Nachricht ist so offenkundig falsch, eine plausible Erklärung der Stelle gibt es nicht (vgl. etwa N.G.L. HAMMOND, A

History of Macedonia, II, Oxford 1978, 150; Trennung von θυσίαι und Spielen befriedigt nicht), eine Anderung der Praxis ist weder für die Zeit Alexanders noch für spater bekannt. Eine gewisse Lösung bóte vielleicht das διέθηκε in der Bedeutung bloßer Anordnung der

Spiele (vgl. 2,5,8; 6,28,3), was Aufenthalt und Opfer in Aigai nicht auszuschließen braucht. Vom Syntaktischen her gibt auch das allzu ellipitische. ..tòv ἀγῶνα ἐν Αἰγαῖς διέθηκε... Rätsel auf; «τὸν» ἐν Aiyaic ἀγῶνα oder ἐν Aiy. τὸν ἀγῶνα zeigte klarer, was Arrian wirklich meint und würde die Kritik als berechtigter erscheinen lassen. Möglich wäre überdies auch, ...£v Aiyaic..

sei Glossem eines Ignoranten. Zu Bosworths sachlich an sich plausibler Argumentation ließe sich auch 3, 16, 9 (vgl. 1976, S. 121) anführen. Mazaros als Alexanders Hetaire fällt auf, obzwar allein

der persisch klingende Name es ist, der Zweifel errgt. Es liegt nahe, daß es sich um den Verwalter thesaurierter Schätze unter den Achämeniden handelt, den Alexander beibehielt (vgl. Commenta ry, S. 319), die militärischen Kommandanten haben, dies bei aller Widersprüchlichkeit der Überlieferung, griechische Namen. Eigenartig unarrianisch freilich scheint mir an sich das ..τῶν ἑταίρων.. unmittelbar mit dem Namen verbunden, eine brauchbare Parallele ist mir nicht erin-

nerlich. Anderseits halte ich für möglich, es könnte sich in Mazaros um einen der Renegaten aus dem Satrapenaufstand handeln, dev anders als Memnon oder Artabzos, in Makedonien geblieben war. Bosworths Hypothese von der Münzprägung Münzstätte von zentraler Bedeutung war nur einer Münzverwalter und Festungskommandant könnten sche Kommando Archelaos inne hatte. Von den bei Curtius (5, 2, 16 ff.) erwähnten 21,1) nicht erwähnt,

bräuchte dies nicht zu widersprechen, eine zuverlässigen- Persönlichkeit anzuvertrauen. identisch gewesen sein, während das militäriNamen ist Kallikrates sonst (vgl. Diod. 20,

für Xenophilos bleibt man besser bei BERvE, Alexanderreich, IL, nr. 578:

Recht eigenartig wirken an dieser Stelle die 1000 makedonischen Veteranen, was ebenfalls auf die Zeit nach Alexanders Tod verweist.

14 Bezeichnend hier die Überlieferung der Griechenentlassung in Ekbatana, die BoswonTH, 1976, S. 133 bezweifelt. Unklar ist dennoch, ob Alexander selbst auf die Gefahr des Zeitverlustes hin dieses Zentrum auslassen konnte; die Entlassung selbst braucht nur angeordnet worden zu

sein. Ist die Erwähnung der ἱπποτοξόται 6,5,5 nicht Schreiberversehen; so wäre möglich, daß vor 6,5,6 und dem neuen Befehl an Hephaistion einiges an Operationen und Anordnungen ausfiel und die Truppen wieder bei Alexander waren. Das .. ἱπποτοξότας te πᾶντας... 6,6,1 scheint mir einen Gegensatz zur vorausgehenden Erwähnung zu betonen (vgl. BADIAN, 1965, 161). 5 1976, 118 ff., dazu «Entretiens», S. 6 ff., zuletzt Commentary S. 5 ff. bes. S. 11. Dem Exkurs 1,12 nach ist Arrian als Literat gesehen, ohne das Bosworth die möglichen, seit je als selbst- verständlich geltenden historiographischen Implikationen berücksicht: Der Historikerberuf

darf Arrian für die Anabasis nicht abgesprochen werden. Das Pragmatische der hier angewandten Historiographie liegt im Taktisch-Strategischen, vgl. SCHEPENS, S. 261 ff.; bes. 265..the man of

243

action.. Angesichts der Bedeutung des Objektes blieb Arrian nur die Monographie, und die ließ

kaum eine andere Darstellungsfrom zu, sieht man von der Auseinandersetzung mit anderer Überlieferung und den eigenen Reflexionen ab, die Exkurscharakter besitzen. 16 Vgl. dazu STADTER, 5. 179 ff. 17 6,28,6 halte ich für naive Ehrlichkeit in Vorausschau auf künftige Dispositionen. Die Chronologie der arrianischen Spätwerke beruht auf Phot. cod. 93, 73 a., wonach die Anabasis

vor Indike und Bithynica verfaßt worden wäre (vgl. E. Schwartz, RE, II, 1237). Ich ging von diesem Hinweis in früheren Arbeiten aus, halte aber jetzt diese Anhaltspunkte für zweifelhalft. Läßt das ..paiveron.. Zweifel auch des Photios vermuten, der demnach offensichtlich klare Angaben nicht besaß, so ist nicht zu erkennen, daß mit jenem τετάρτην wie auch dem ...μετὰ yàp τὰ

κτλ... eine zeitliche Reihenfolge und nicht die bloße Aufzählung gemeint sei. 18 Vgl. Anm. 17; die Frage, was an Fehlern im Text auf Arrian zurückgeht, ist nicht so zu lósen, daß vorgebrachte Sachkritik in jedem Falle als berechtigt zu erweisen wäre. Doch fällt die Mübelosigkeit sich anbietender Athetesen auf. Zu 6,15,5 m. 6,17,5 s. BoswonTH, 1976, 129. Athetieren ließ sich sowohl das .. Οξυάρτην καὶ.. 6,15,4 wie das διὰ τῆς ᾿Αραχοτῶν — γῆς (15,5) als Glossem oder aber Fahrlássigkeit eines Schreibers; für ersteres spráche Just. 12,10,1, für letzteres der Gegensatz Δραγγῶν - Zapayyaíov, wobei der Schreibende noch 3,28,1 in Erinnerung haben könnte. Gegen bewußten Einbau in den arrianischen Text spricht m. E. das vorausgehende . a 016... Welcher Quelle Arrian folgte, ist schwer zu erkennen; ist das Δραγγῶν ptolemaische Schreibweise, so ließe die Nachricht 6,17,5 wohl ein Gemisch aus verschiedenen

Traditionszweigen vermuten. Detailangaben legen dabei nahe, für das spátere Datum trotzdem auf Ptolemaios Ζὶ schließen. An eine Dublette 6,15,4 und 15,7 vermag ich nicht zu glauben: Die

Befestigung in der Sogderstadt (.. καὶ ἐνταῦθα - ἄλλην..) nimmt m. E. Alexander persönlich vor. S. dazu BRELOER, Alexanders Bund mit Poros, Berlin 1942, 35 ff. Wirkliche Klarheit vom Geographischen her ist m. E. nicht zu gewinnen, vgl. auch PH. EGGERMONT, Alexanders Campaign in Sind and Beluchistan and the Siege of tbe Brabmin Town of Harmatelia x, Löwen 1975, 5 ff. (freilich vage Lokalisierung der Stadt 15,7 bei Alor: Identität mit der 15,4 ist in nichts nachzuwiesen).

19 Recherches sur Arrien, sa personnalité et ses ecrits atticistes (vorerst dact. 1979) zur Historio-

graphie s. 456 ff.

?* Anders sind die Verweise 5,6,8 und 6,16,5 kaum zu verstehen. 20 Zuletzt BADIAN, 4.4.0. 21 BERVE, Alexanderreich, I, 108 ff; 111, s. dazu P. BRunT, «JHS» LXXXIII, 1963, 27 ff: bes. 42 ff., G. T. GRIFFITH, dies. Ztschr., S. 68 f. Ob planmäßige Halbierung vorliegt, ist nicht zu erkennen und auch angesichts unbekannter, überdies wohl flexibler Stárke der einzelnen Hipparchien ohne Belang. Zweifel S. HuTZELs, From Gedrosia to Babylonia. A Commentary on Arrian’s Anabasis Alexandri 6.22 - 7,30 Diss. Indiana Univ. 1974, 182 sind nicht zu erhärten; es genügt m.

E., daß die 8 Hipparchien sich folgern lassen. Ob sie stets nebeneinander bestanden, scheint mir eine andere Frage. Den Versuch N.G.L. HAMMONDS «CQ» XXX, 1980, 465 ff., die Gesamtzahl auch in Indien auf 4 zu reduzieren, ist schwer nachzuvollziehen, angedeuteter, offensichtlich als rotierend gedachter Kommandowechsel gerade vor der Hydaspesschlacht mir unwahrscheinlich. 22 Dazu mit Recht ΒΑΡΙΑΝ, S. 160 B; die Ausbildung und wohl auch damit verbundene Ziele müssen dem Heer seit Jahren bekannt gewesen sein, so daß sachliche Hintergründe für Arrians

Reflexionen hier ebenso fehlen wie für andere Klagen (vgl. Curt. 8,5,1; Diod. 17, 108, 2, BERVE, I, 152). Arrian hátte, wáre es ihm um einen sehr wohl móglichen jetzt erst berichteten Ausbruch von Áversion gegangen, dies sicher betont. 2 So lapidar KORNEMANN, S. 91 f., Strasburger hingegen verweist auf Aristobul, doch scheint mir Beziehung auf 7,23,1-4 nicht zu genügen. Erwägungen helfen sachlich nicht weiter: Daß Arrian die Stelle benutzt, um den Bericht auf den Höhepunkt, Abkehr der Makedonen und Opisrede hinzustilisieren, ist klar; vgl. HuTzer, S. 178, in der vorliegenden Form der Darstellung ist an psychagogische Taktik indes kaum zu denken. 24 S. dazu BADIAN, a.a.O. 2 Auffallend hier das «νόμῳ Περσικῷ... 7,4,6; 7,6,2 als geradezu konstruierter innerer

Widerspruch.

244

|

26 S. dazu HUTZEL, 4.4.0.

Arrian bezieht sich auf Zurückliegendes; Peukestas kann um diese Zeit nicht beim Heer gewesen sein; ähnliches muß bereits für 7,5,5, gelten. Es bleibt zu fragen, warum Arrian die Verlei-

hung der Kránze erst and dieser Stelle bringt. 27 Vgl. Anm. 25; die Methode scheint die gleiche. 28 Zum Sachlichen s. BADIAN, 4.4.0. τος Baktrer und Sogdianer sind bereits 4,17,3 im Heer, bedeuten dennoch kein Novum. Dazu kommt 2,14,7, Erwähnung orientalischer Hilfstruppen bereits 332, die Arrian kaum ohne Quel-

len gewagt hat; man fragt sich selbst für diese Zeit nach dem Verbleib der schon 334 in Kleinasien stationierten Verbände aus den Oberen Satrapien (Diod. 17, 19, 2ff.); bzw. ihrer Angehörigen;

die mit solchen Erwágungen zu verbindende Diskussion um die Einrichtung der Hipparchien bleibe hier unerórtert (Überblick zuletzt bei Hutzel S. 179ff).

Ich móchte entsprechende Organisation bereits für die Zeit annehmen, als Alexander sich über die notwendige Eroberung der Oberen Satrapien im klaren war. Die Verfänglichkeit der Terminologie (3, 27, 4) stört kaum. Doch wird der ἵππαρχος - Titel später bezeichnenderweise

nicht mehr angewendet. Für die häufig an dieser Stelle gerügten verweisenden Doppelbedeutungen hat gerade im Militárischen die Antike Beispiele genug und strotzt die lebendige Militársprache an den analogen Beispielen. Stárkere Wirkung hátte auch hier Arrian wohl durch Verweis auf die Dauer dieser Angelegenheit erzielt, (etwa durch «πάλαι» καταχοχισθέντας): ich möchte daher glauben, die Stelle beziehe sich auf eine nunmehr vorgenommene Neustrukturierung der Reiterei. Ersatz nach den Verlusten in den Kámpfen (zu Baktrern u. Sogdianern s. 5, 11, 3; 5, 12, 2) liegt nahe; anderseits mochte angesichts zu erwartender friedlicherer Entwicklung für die nächsten Jahre eine Festigung des Zustandes beabsichtigt sein, wobei die damit verbundene Integrierung den Makedonen in der

Tat Grund zur Sorge für den eigenen Sonderstatus gab. Vgl. BRUNT, S. 43, der freilich gemischte Verbände vor 324 bezweifelt und in den Hipparchien ausgehend von der Hypothese ständigen Nachschubs nur makedonische Soldaten annimmt (vgl. aber GRIFFITH, S. 68ff); J. HAMILTON, in: Arrian. Tbe Campaigns of Alexander ransl. A de Selincourt, London 1971 (Penquin Books o. N.), 400 f.

2 Der Name kommt allein an dieser Stelle vor, seine genaue Bedeutung ist nicht zu ermitteln. Der Stelle nach handelt es sich um die ausgehobene Mannschaft der Persis. 30 Vgl. dazu BRUNT, 5. 39 ff. Ein Parallelbeispiel für möglichen Ausfall scheint mir das ..tÙv στρατιὰν τὴν ἐκ Μακεδονίας ..4,18,3: Was stört ist hier der Artikel. 31 Anders GRIFFITH, S. 72 («integration»), der die Möglichkeit individueller Eingliederung einzelner in die makedonischen Ilen für möglich hält. Die betonte Anwendung dieser Prozedur

für das Agema widerspricht dem m. E.; ich hielte es übrigens für eine sinnlose Maßnahme.’ Eine Operation wie 5,13,4 aber scheint nur móglich, wenn dem Verband einzelne Einheiten entzogen und erneut als solche eingesetzt werden.

32 Gleiches hat wohl auch für die Orientalen zu gelten: Über ἱπποτοξόται... ἱππακοντι-

σταί... etwa wissen wir dieser Zeit nichts; daß man diese Verbände auflöste, ist indes nicht zu

glauben. Hatten früher diese nationalen Verbände gelegentlich für sich operiert, die Integration im Taktischen ist ein Fortschritt, der in seinen Konsequenzen der Einrichtung der ἱππαρχίαι ζθρ Leite ovent θνδ co γεδαψητ cap. Aw ερςᾶηντε Σψηεματισιερθνγ vox vipyegvóo Epgänvt, ÀAüt cwm apep αθσ dep Βετονθνγ eıvep Epotev Hurzapwmnie οφφενσιψητλιψη αλσ Δισποσι-

tiovow@epßavs deo Ψηιλιαρψηεν 33 Zwar

muß

εινσψηλιξεέν.

es nach wie vor als das Recht des Königs der Makedonen

gegolten haben,

Fremdstámmige zu Hetairen zu ernennen und so in ein personalrechtliches Verhältnis zu diesen zu treten. Zu den möglichen Folgen eines Massenschubs, wie er hier vorgenommen sein müßte,

vgl. aber BosworTH, «JHS» C, 1980, 1 ff., bes. 20 f. Es gab pragmatische Erwägungen genug, Alexander vor einen solchen Gewaltakt zu warten 7, 11, 1; 11,6 sehe ich in den ξυγγενεῖς einen

Kompromif. 34 Wenn ich recht verstehe, will BADIAN, a.a.O. S. 161 die Stelle S. 347 Z. 2 - 3 (6501 — ἐφαίνοντο) athetieren. Ich kann mir nicht helfen, dies scheint mir zuviel. Vgl. HUTZEL, a.a.O.

35 Schwer zu verstehen scheint mir auch die von BoswortH, 1980, S. 21 als quite drastic 245

surgery bezeichnete Konjektur ..ἐς «t» αὐτὸ «τοῖς Μακεδόσιν» τῶν βαρβάρων...

Für eine Erklärung des nicht zu verstehenden ἐς ταὐτό genügt die lokal zu beziehende Belegstelle 5, 25, 3 («an ein - und demselben Platz») m. E. nicht.

?6 Ausnahme scheint auch die Ausbildung mit makedonischen Waffen, die die völlige Integrierung bedeutet, für die Orientalen der anderen Hipparchien demnach nicht zutraf. Zum Hegemon vgl. BERVE, I, S. 202 37 Zu den Hipparchienkommandeuren s. BRUNT, S. 30. Handelt es sich mit Ausnahme des bald nicht mehr nachweisbaren Demetrios (BERvE, II, 256) um die hochqualifizierten, zur Füh-

rung größerer und gemischter Verbände befähigten Freunde Alexanders, so fällt der unprofilierte Hystaspes aus dem Rahmen (vgl. BERVE, II, ur. 763). Brunts Deutung als Politicum scheint einzige Möglichkeit, die Ereignisse zu verstehen.

38 Nicht zu klären sind Status und Rang des Kommandeurs. Ist er ἑταῖρος Alexanders geworden? . 39 Zum τάξις - Begriff s. 3, 24, 1. Zu den makedonischen Kadern 7,8,2 vgl. Brunt 42 ff. Ich zweifle jedoch für den Feldzug an fixierter Zahl wie fixierter Zusammensetzung, jja halte für nicht

bewiesen, daß es sich nicht um Augenblicksverbánde ad hoc handle, wofür die Kumulation der Funktionen einzelner Kommandeure spráche (umgekehrt BERVE, I, S. 109 und sein Vergleich mit neuzeitlichen Regimentschefs). 4,4,6 läßt indes vermuten, daß auch τάξις - Einheiten als Kader von

Hipparchien verwendet wurden, was einer zweifellos beabsichtigten hellenischen Integrationsbewegung entspráche. Die Verwendung auch orientalischer Reiterei im Rahmen der Hipparchie láfst sich nicht beweisen, liegt aber nahe.

246

DEL

OSSERVAZIONI SUL PRESUNTO MODELLO « COME SI DEVE SCRIVERE LA STORIA » DI LUCIANO GIUSEPPE

ZECCHINI

Il «Come si deve scrivere la storia» di Luciano & l'unico opuscolo di metodologia storica pervenutoci dall'antichità e, pur nel rispetto per l'originalità del suo autore, potrebbe risultare interessante risalire al modello, che egli tenne presente nel suo appassionato richiamo ai canoni della storiografia tucididea. Ció fece il Wehrli, che in un articolo del 1947 identificó la fonte di Luciano nel περὶ ἱστορίας di Teofrasto !;; ora, non c’è dubbio che l'esaltazione di Tucidide dal punto di vista formale e retorico, per il suo stile tragico-poetico, risalga in ultima analisi agli scritti del primo peripato, dal περὶ λέξεως di Teofrasto ai due περὶ ἱστορίας di Teofrasto e di Prassifane di Mitilene 2; dal punto di vista contenutistico, però, è meno sicuro che Tucidide fosse lo storico preferito da

Teofrasto e comunque, anche se il Wehrli avesse ragione a negare la nota teoria di Schwartz e Jacoby, secondo cui dagli scritti teorici di Teofrasto deriverebbe la cosiddetta storiografia tragica?, resta certo che lo scritto di Luciano si distacca talvolta dalle teorie aristoteliche: in particolare, la contrapposizione tra il χρήσιμον, a cui deve mirare la storiografia, e il τερπνόν, che deve restarle estraneo (cap. IX), discende da Thuc. I, 22,4, ma si urta col tentativo di conci-

liare tra loro i due concetti, propugnato da Aristotele a più riprese (Εἰ. Nicom.

1105 a 1; 1155 b 19; Rbetor. 1378 a 3) *.

Di conseguenza, dopo il Wehrli, ci si è mossi alla ricerca di un'eventuale fonte intermedia, che avrebbe dearistotelizzato Teofrasto e da cui avrebbe attinto direttamente Luciano: l'Avenarius pensó genericamente agli sconosciuti maestri di retorica di Luciano, cioè in sostanza alla v4/gata culturale del suo tempo, rinunciando a stabilire le varie tappe dell'evoluzione da Teofrasto al II secolo d.C. della metodologia storica; la Homeyer invece sostenne l'identificazione della «Mittelquelle» con un anonimo epicureo del I secolo a.C.; il Macleod infine, recensendo la Homeyer, ha propugnato l'originalità della meditazione lucianea sulla storia ?. Ora, nessuno vuole negare a Luciano la capacità di pensare in proprio, ma & difficile credere che, pur non essendo uno storico, abbia elaborato un'originale

metodologia della storia; ὃ pià probabile che egli abbia riecheggiato idee diffuse ai suoi tempi; d'altra parte queste idee, se erano diffuse nel II secolo d.C., dovevano essersi formate prima: più che ricercare una vera e propria «Mittelquelle » lucianea, risulta quindi opportuno tentare di determinare l'età e l'autore, che hanno trasmesso al II secolo d.C. una concezione della storiografia tucididea sia ‘nello stile (come in Aristotele-Teofrasto), sia nei contenuti (diversamente da Aristotele-Teofrasto). ' | 247

Moderata in questi termini, la proposta della Homeyer merita, a mio avviso, rinnovata attenzione e ulteriore approfondimento; essa si fonda infatti essenzialmente su un duplice zerminus post quem e su un terminus ante quem: innanzitutto la Homeyer ricorda che la contrapposizione in chiave tucididea del χρήσιμον al τερπνόν presuppone l'influsso di colui che la riscopri in età ellenistica, cioé Polibio; in secondo luogo, nel cap. LVII dello scritto di Luciano ricorre la menzione di Partenio di Nicea, il poeta elegiaco ispiratore dei poetae novi e di C. Cornelio Gallo, che riporta alla metà del I secolo a.C.; infine i non trascurabili punti di contatto tra l'opuscolo lucianeo e l’ Ars poetica di Orazio inducono a sospettare che negli stessi ambienti, in cui si era formato Orazio, cioé in quelli epicurei del I secolo a.C., vadano ricercati questi modelli di trattazione teorica della poesia come della storiografia6. Questi argomenti addotti dalla Homeyer sono certo piuttosto generici e offrono solo qualche suggestione riguardo al problema preso in esame, ma credo che si possano rinforzare, partendo dalle interessanti analogie (che la stessa Homeyer registra nel suo commento senza valorizzarle) 7 tra il testo di Luciano e alcune opere di Filodemo di Gadara. Nei capp. XI-XII Luciano critica la κολακεία degli storici, che distribuiscono lodi e biasimi solo per compiacere il potente di turno; lo stesso motivo ricorre per gli oratori politici in Filodemo (περὶ ῥητορικῆς IV, 213 sgg. Sudhaus); nel cap. XLIX Luciano critica quelle narrazioni storiche, in particolare descrizioni di battaglie, in cui si smarrisce la visione d'insieme per soffermarsi sulle gesta di un singolo personaggio; il medesimo concetto compare in Filodemo (περὶ ποιημάτων V, col. 32 Jensen); nel cap. LI Luciano paragona il lavoro dello storico a quello dello scultore: ambedue devono plasmare una materia predeterminata, l'uno i fatti, l'altro il metallo e simili; uguale metafora si trova in Filodemo (περὶ ποιημάτων III, 190-191 Sbordone); infine lo stesso genere letterario prescelto da Luciano per il suo opuscolo & quello diatribico, di cui Filodemo si servi con particolare frequenza ὅ. Sin qui quanto ha osservato la Homeyet; si potrebbe aggiungere che, se anche non é attestato nessun περὶ ἱστορίας filodemeo, il filosofo di Gadara scrisse almeno un περὶ κολακείας e un περὶ παρρησίας, quest'ultimo su di una

virtù, a cui Luciano attribuì sempre la massima importanza dal «Nigrino» al «Come si deve scrivere la storia» e che considerava fondamentale per lo storico (cap.

XLI)?,

e si occupò

diffusamente

nella

sua

'Ῥητορική

dell'encomio

nell'oratoria politica, il che puó risultare interessante alla luce della rigida distinzione di Luciano tra ἱστορία ed ἐγκώμιον (cap. VII) !9. Lo stato di conservazione dell'opera filodemea non permette di andar oltre sulla base del confronto testuale; piuttosto due fattori di carattere generale potevano rendere attraente per Luciano la figura e l'opera di Filodemo: il suo epi.cureismo, giacché quando pubblica il suo scritto sulla storia Luciano si è già pienamente convertito a tale filosofia !!, e le sue simpatie per la causa repubblicana intesa come causa della libertà, che lo portarono a presentare M. Antonio come il tiranno per eccellenza nel suo περὶ θεῶν del 44 (I, col. 25 Diels), giacché Luciano nel suo opuscolo non perde occasione per sfogare il suo livore antiromano 248

e il suo disprezzo per la storiografia cortigiana e adulatoria fiorita in occasione della guerra partica di L. Vero 12. | Due altri sono peró i motivi, che secondo me porterebbero ad individuare in un'opera perduta di Filodemo o almeno nella produzione della sua scuola il momento, in cui si mise a punto quella metodologia della storia poi prescelta a proprio modello da Luciano. Il primo motivo è l'affinità con Orazio, a cui già si è accennato, ma che ri-

vela pià di quel che ne ha ricavato la Homeyer: & noto che Orazio segue da vicino nella sua Ars poetica l'opera di un peripatetico del IV-III secolo, cioè della prima generazione, Neottolemo di Pario; sin qui c’è perfetto parallelismo con la fonte indiretta di Luciano, che & Teofrasto; peró, mentre in Luciano noi abbia-

mo un Teofrasto dearistotelizzato, in Orazio Neottolemo & rimasto qual era in origine; quest'apparente discordanza sarebbe forse rimasta insuperabile, se nel 1918 Chr. Jensen non avesse pubblicato i frammenti del V libro del περὶ ποιημάτων di Filodemo 15: in tale libro il filosofo di Gadara svolge una critica

puntuale e serrata dell'estetica peripatetica di Neottolemo, che é dunque assunto come modello «negativo» di metodologia poetica !4, e ci fornisce la prova concreta che la sua attività critica era rivolta proprio a demolire quelle opere, che rappresentavano la summa del pensiero peripatetico nei vari settori della produzione letteraria: quel che Filodemo fece con Neottolemo per la poesia, avrebbe potuto farlo (o ispirarlo) con Teofrasto per la storiografia; che poi l'Orazio maturo dell’Ars poetica a differenza di Luciano abbia deciso di non accogliere le critiche di Filodemo, alla cui scuola pure si era formato 15, e di restar fedele a Neottolemo appartiene all'evoluzione spirituale del poeta romano, come già rilevó il Rostagni, e come tale non ci riguarda in questa sede 16, Il secondo motivo è rappresentato dagli sviluppi che la teoria storiografica subisce nella cultura romama nel corso del I secolo a.C., in concomitanza cioè col magistero esercitato da Filodemo in Italia. Nata nel segno di un seguace della scuola isocratea come Timeo 17, la storiografia romana non si era affaticata molto in elaborazioni teoriche e anche la grande lezione polibiana era stata appena recepita da annalisti come Q. Sempronio Asellione !3; a metà del I secolo a.C. e per l'esattezza alla fine del 55, peró, Cicerone scrive il De oratore, che contiene a II, 62-64 ]a prima sintesi latina di metodologia storica; essa verrà ribadita nel pià tardo De legibus del 45 (I, 1,5-2,7), ma già nella celebre lettera a L. Lucceio del 56 (Ad fam. V, 12) Cicero-

ne si riferiva a quelle /eges bistoriae, che allora intendeva far violare a Lucceio in suo favore, ma che avrebbe esposto appunto l'anno successivo con esemplare chiarezza !*^5, Le leges historiae di Cicerone sono quelle di Luciano: nel De oratore per la prima volta il principio tucidideo e polibiano del χρήσιμον, snaturato dagli aristotelici, viene fuso con l'esigenza di uno stile pure tucidideo, cioè accurato e, se

necessario, patetico, che gli aristotelici avevano propugnato ed invece Polibio aveva del tutto trascurato; questo pieno accordo tra Cicerone e Luciano, rilevato sia da uno studioso lucianeo come l'Avenarius, sia da uno studioso ciceronia-

no come il Petzold 15, deve far riflettere: esso implica una fonte comune ai due, 249

giacché non e pensabile che Luciano abbia attinto al De oratore, e Filodemo, di cui Cicerone aveva alta stima 29, potrebbe ben adattarsi a questo ruolo. Questa conclusione urta contro l’obiezione dell’ Avenarius, secondo il quale non era accessibile nessuna opera apposita di metodologia storica al tempo in cui Cicerone scriveva il De oratore, giacché egli vi dichiarava che «seque eamli.e. historiam]reperio usquam separatim instructam rbetorum praeceptis» (II, 62); di con-

seguenza, secondo l'Avenarius, Cicerone avrebbe sviluppato la sua teoria storiografica solo sulla base degli insegnamenti retorici del suo maestro, Apollonio Molone 21. Il passo di Cicerone però è stato frainteso dall’Avenarius: sia il Mazzarino che il Petzold hanno osservato con più attenta esegesi che Cicerone vuol soltanto dire di non trovare nessun trattato di retorica, che prescriva per la storiografia regole specifiche e appositamente formulate 22. quanto ad Apollonio Molone, si sa che egli non aderiva a nessuna corrente filosofica tanto che scrisse un’opera κατὰ φιλοσόφων ? e sarebbe strano che fosse merito suo l'acuta critica a Teo-

frasto secondo l’esempio polibiano, che va presupposta nel modello di Cicerone e di Luciano; inoltre c’è forse un altro argomento per riconfermare che tale modello va ricercato non negli ambienti dei maestri di retorica, ma in quelli epicurei.

Poco dopo il De oratore, tra il 50 e il 40 ca., un altro prestigioso intellettuale romano, M. Terenzio Varrone, dedicò un suo /ogistoricus alla storia, intitolan-

dolo Sisenna de bistoria 24: di questo scritto ci è rimasto solo il titolo e ne ignoriamo quindi il contenuto, ma è necessario domandarsi come mai Varrone scelse proprio Sisenna quale personaggio da abbinare, secondo la consuetudine dei /ogistorici, al concetto di historia. Certo Sisenna non seguì nelle sue Historiae nessun modello tucidideo-polibiano; Cicerone ne era ben conscio, giacché gli rimproverava nel De legibus (I, 2,7) di aver imitato Clitarco, lo storico «romanzesco» per antonomasia 25; d'altra parte lo stesso Cicerone non esita a riconoscere

nel medesimo passo che «Sisenna... omnis adbuc nostros scriptores...facile superavit»: in effetti, per quanto poco «scientifico» fosse in realtà, egli ne aveva avuto probabilmente almeno la pretesa tanto da essere il primo autore latino, che intitoló la sua opera col termine greco di «Historiae» invece di «Annales» o «Res gesiae» 26.

|

In Sisenna dunque Varrone intese onorare il primo storico di Roma nel senso letterale e per cosi dire ellenistico del termine: ora noi sappiamo da Sisenna stesso (frr. 5 e 123 Peter) che egli era un epicureo 27 e, dato il tempo in cui visse (120 ca.-67) e le sue relazioni personali (era tra l'altro amico di Attico) 28, non

mi sembra arbitrario supporre contatti tra questo storico e il circolo di Filodemo, che giunse in Italia negli anni 70 2. In ogni caso la fioritura di interessi intorno alla teoria della storiografia, che investe la cultura romana verso la metà del I secolo a.C., come ci testimoniano Cicerone e Varrone, e che sfocerà di B a poco nei capolavori «tucididei» (tucididei, si badi, per stile e contenuto) di Sallustio 39, non può esser stata suscitata

da un pur prestigioso maestro di retorica come Apollonio Molone: essa esigeva uno stimolo alla riflessione storiografica più vicino e più originale, quale invece 250

Filodemo avrebbe potuto offrire: il fatto che in un altro campo, quello poetico, sia stato proprio un epicureo allievo di Filodemo come Orazio a darci la prima trattazione teorica de arte poetica della letteratura latina è un’indiretta, ma significativa conferma di questa ipotesi.

1 Fr. WEHRLI, Die Geschichtsschreibung im Lichte der antiken Theorie, Eumusia, Festgabe

f.E.Howald, Zürich 1947, pp. 54-71. 2 Sul περὶ λέξεως di Teofrasto, sul quale sarebbe poi stato modellato anche. il περὶ ἱστορίας, ha posto l’accento H. HoMEvzR (ed.), Lukian. Wie man Geschichte schreiben soll, München 1965, pag. 50-51; sul περὶ ἱστορίας di Prassifane, ricordato da Marcell. Vita Thuc. XXIX

cfr. W. Ary in RE XXII-2 Praxiphanes, coll. 1769-1784, soprattutto col. 1777. 3 Il Wehrli e con lui la Homeyer e F.W. WaALBANK, Tragic History. A Reconsideration in «BICS» 1955, pp. 4-14 si schierano in sostanza sulle posizioni di B.L. Utt MAN, History and Tragedy, in «TAPhA» 1942, 25-53, ma la teoria formulata da E. ScHwARrTZz, in RE V, Duris n. 3, coll. 1853-56, soprattutto col. 1855 e accolta a suo tempo da F. JacoBv, Die Fragmente der griechischen

Historiker, II C, Berlin 1926, p. 117 è ora recuperata da K. von Fnrrz, Die Bedeutung des Aristoteles für die Geschichtsschreibung, in Histoire et Historiens dans l'Antiquité, «Entretiens Hardt» IV, Genève 1956, pp. 85-145. 4 Cosi già HoMEYER, Lukian..., pp. 188-190. 5 G. AvENARIUS, Lukians Schrift zur Geschichtsschreibung, Meisenheim 1956, pp. 165-178; HOoMEYER, Lukian.... pp. 63-81; M.D. MacrEop, in «CR» 1967, pp. 284-285. 6 Sui tre «termini» cfr. rispettivamente HOMEYER, Lukian..., pp. 57-58, 273-274 e 63-81.

? Cfr. rispettivamente HoMEYER, Lukian..., pp. 195-196, 263 e 266-267. 8 Sullo stile diatribico dell'opuscolo di Luciano seguo HoMEYER, Lukian...., p. 24 (status quaestionis precedente alle pp. 14-15); sulle diatribe di Filodemo cfr. R. PHILIPPSON, in RE XIX-2, Philodemos n. 5, coll. 2444-2482, soprattutto coll. 2467-2474. ? Sul περὶ κολακείας cfr. PurLIPPSON, Philodemos..., coll. 2468-69; del περὶ παρρησίας cfr. l'edizione teubneriana di A. OLIVIERI, Lipsiae 1914; l'elogio della παρρησία nel «Nigrino» è al cap. XV. 10 La trattazione filodemea dell'encomio è in περὶ ῥητορικῆς IV, 213-222 Sudhaus. 11 La conversione di Luciano all'epicureismo, î nuce nel 157, all'epoca del «Nigrino», diviene definitiva dopo il 160 e il «Come si deve scrivere la storia» è del 166: cfr. J. SCHWARTZ, La «conversion» de Lucien de Samosate, in «AC» 1964, pp. 384-400 e, per la data dell’opuscolo sulla storia, J. F. GILLIAM, The plague under Marcus Aurelius, in «AJPh» 1961, pp. 225-251, p. 229. 12 Sul passó del περὶ θεῶν rimando ad A. ROSTAGNI, L'Arte poetica di Orazio, Torino 1930,

pp. XXIX-XXX; sull’antiromanesimo di Luciano, a cui non credono HoOMEYER, Lukian..., p. 37 nota 56 e J. SCHWARTZ, Biographie de Lucien de Samosate, Bruxelles 1965, p. 99, io mantengo la posizione classica di A. PERETTI, Luciano, un intellettuale greco contro Roma, Firenze 1946, ripresa ora da M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Bari 1973, p. 430. - Ri-

torherò altrove sul problema. 13 Chr. JEnsEn, Neoptolemos und Horaz, in «Abhandl.Preuss. Akad. Wiss.» 1918, Berlin 1919; Ip., Philodemos über die Gedichte fünftes Buch, Berlin 1923. 14 Basti qui il rinvio a RosTAGNI, L'Arte poetica..., p. XCIV-CVII (ove bibliografia precedente); nessuna novità in questo senso nella grande edizione dell’ Ars poetica di C.O. BrInK, Horace on Poetry, Cambridge 1963-71, I, pp. 43-150.

D Per l’ipotesi di rapporti tra Filodemo ed Orazio cfr. sempre ROSTAGNI, L'arte poetica..., p. XXIX (con la nota 1). 16 RoSTAGNI, L'Arte poetica..., pp. CVIII-CXII.

251

‘17 In genere cfr. da ultimo K. HANELL, Zur Problematik der älteren römischen Geschichtsschreibung, in Histoire et Historiens dans 1 " Antiquité, «Entretiens Hardt», IV, Genéve 1956, 147-170. 18 È ovvio il riferimento al celebre fr. 1 Peter. 18 bis Sulla lettera a Lucceio cfr. A. GUILLEMIN, La lettre de Cicéron à Lucceius (Fam. V, 12), in «REL» 1938, 96-103 e ora G. PuccionI, I problema della monografia storica latina, Bologna 1981,

che vi ravvisa una teorizzazione dell’bistoria modica = monografia contrapposta all’historia perpetua: la tesi è degna di nota, anche se infarcita di giudizi gratuitamente sprezzanti e maleducati nei confronti di studiosi come Reitzenstein, Ullman, Walbank ecc.. 1? AvENARIUS, Lukians Schrift..., pp. 165-178; K.E. PETZOLD, Cicero und Historie, in «Chi-

ron» 1972, 253-276, pedissequamente seguito da PuccionI, I/ problema della monografia..., pp. 5157 tranne laddove — a torto — questi vuole escludere ogni influenza del pensiero peripatetico sulle idee storiografiche di Cicerone. 20 Cfr. in particolare Cic. De finib. II, 119: familiaris nostros, Sironem dicis et Philodemum, cum optimos viros, tum bomines doctissimos.

21 AvENARIUS, Lukians Schrift..., pp. 165-178; medesimo errore già in M. RAMBAUD, Ciceron et l’histoire, Paris 1953, p. 15. 22 5. MAZZARINO,

I] pensiero storico classico, Bari

1966, II, 2, pp. 8-10; PETZOLD,

Cicero

und..., pp. 260-261. 2 Scbol. ad Aristopb. Nub. 144 c (p. 41 Holwerda). 24 Unica menzione in AUL.GELL. N.A. XVI, 9,5; per la datazione dei logistorici nel loro com-

plesso cfr. H. DAHLMANN, in RE Supplb. VI, Terentius n. 84, coll.

1172-1277, soprattutto col.

1262.

2 [s [i.e. Sisenna]tamen neque orator in numero vestro umquam est babitus et in bistoria puerile quiddam consectatur, ut unum Clitarchum neque praeterea quemquam de Graecis legisse videatur, eum tamen velle dumtaxat imitari... . 26 Seguo infattiH. PETER, HRR, Lipsiae 1914, I, p. CCXLIV nel ritenere che il titolo

dell'opera di Q. Sempronio Asellione fosse Res gestae e non Historiae (anche se il termine historiae era certamente già usato da Asellione:.cfr. fr. 2 Peter). 27 Cfr. in particolare il fr. 123 dal IV libro: ...utrumne divi cultu erga se mortalium laetiscant an superna agentes bumana neglegant. 28 Sull’amicizia con Attico cfr. Cic. De legib. I, 2,7; Brut. 260; sulla sua cronologia cfr. B Nrese in RE IV, Cornelius n. 374, coll. 1512-1513.

2. Cfr. PHILIPPSON, Pbilodemos... , coll. 2444-2445. 30 Sul tucididismo di Sallustio basti qui il rinvio a R. Syme, Sallustius, Berkeley-Los Angeles 1963.- Brescia 1968, pp. 270 sgg. e a MAZZARINO, I} pensiero storico.. „1, p. 517; II, 1, p. 372.

252

INDICE

PRESENTAZIONE

(Gustavo Traversari)

Aurelio Bernardi, Yl Divino e il Sacro nella montagna dell'Italia antica Fulviomario patria

Broilo,

Nuovi

decurioni

di

Forum

Corneli

fuori

Luciano Canfora, Sallustio e i triumviri

Filippo Càssola, Erodoto e la tirannide Michele Cataudella, Il programma dei Poroi e il problema della copertura finanziaria (III, 9)

»

Sebastiana Consolo Langher, Zankle - Dalle questioni della kzisis

ai problemi dell’espansionismo geloo, samio e reggino .

»

Umberto Cozzoli, Sul nuovo documento di alleanza tra Sparta e gli Etoli

»

Francesco Della Corte, La furia nella « saeva Pelopis domus » .

»

Paolo Desideri, Lettura storica del « Dialogus de oratoribus»

»

.

Vincenzo La Bua, Su Silosante I e II, Anacreonte e IG T7, 834..

»

Cesare Letta, La data fittizia del « Dialogus de oratoribus » .

»

105

»

111

»

121

Gabriele Marasco, Cherone di Pellene:

un tiranno del IV secolo

a.C.

Attilio Mastrocinque, Osservazioni sui rapporti tra i diadochi e le città d’Asia minore .

Silvio Panciera, In operis publicis esse - Tra Cremona, Concordia e l'Asia Minore sul finire dell'età repubblicana

pag.

129

»

141

»

151

»

169

Francesco Paolo Rizzo, Per una interpretazione storica del denarius

»

175

Franco Sartori, Theodor Mommsen radiato dalla Société des Antiquaires de France .

»

185

Daniela Sidari, Seiano e Gaio:

.

»

191

.

»

207

»

215

»

219

Biagio Virgilio, Lucillio e i nomi di alcuni atleti

»

223

Frank W. Walbank, Two misplaced Polybian passages from the Suda (XVI. 29.1 and XVI. 38). MM

»

227

Gerhard Wirth, Nochmals zur Fünften Hipparchie flüssige Erwägungen zum Arriantext .

Fast überE

»

255

Giuseppe Zecchini, Osservazioni sul presunto modello del « Come si deve scrivere la storia» di Luciano

»

247

Mario Pani, La polemica di Seneca contro le artes (Ep. 90). Un caso di sconcerto

Massimiliano Pavan, Storia ciclica degli antichi e linearità progressiva dei moderni in uno scritto giovanile di Friedrich Schlegel Luigi Piccirilli, Suicidio eroico e suicidio politico. Il caso del nomoteta greco arcaico .

rivalità o accordo?

Marta Sordi, Alessandro Magno,

i Galli

e Roma

Giancarlo Susini, Su una chiosa di Gianfranco Tibiletti

2123. Jean

254

Triantapbyllopoulos,

a CIL, I°,

] Γραφὴ

παρανομὼν

fuori

di Atene

ERRATA CORRIGE alla pag. 190, nota 15 - riga 8

anziché Napoleone II

leggasi Napoleone III.