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Italian Pages 186 [180] Year 2003
RICERCHE SULLE LINGUE DI FRAMMENTARIA ATTESTAZIONE collana diretta da PAOLO POCCETTI ★ 2.
1. A. Quattordio Moreschini, Dal miceneo al greco alfabetico. Osservazioni sullo sviluppo delle labiovelari con particolari riferimenti alla lingua epica, 1990. 2. Linguistica è storia. Sprachwissenschaft ist geschichte, Scritti in onore di Carlo De Simone, Festschrift für Carlo De Simone, a cura di S. Marchesini e P. Poccetti, 2003. In preparazione: Scritti minori di Michel Lejeune.
Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Giardini Editori e Stampatori in Pisa, un marchio degli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa ⋅ Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. ★ Proprietà riservata ⋅ All rights reserved Copyright 2003 by Giardini Editori e Stampatori in Pisa, un marchio degli Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa ⋅ Roma. http:://www.giardinieditori.it ISBN 88-427-0304-4
LINGUISTICA È STORIA ★
SPRACHWISSENSCHAFT IST GESCHICHTE Scritti in onore di Carlo De Simone Festschrift für Carlo De Simone A cura di SIMONA MARCHESINI ⋅ PAOLO POCCETTI
CARMINE AMPOLO
Comitato promotore ⋅ FRANÇOISE BADER ⋅ BRUNO D’AGOSTINO
GIARDINI EDITORI E STAMPATORI IN PISA
SOMMARIO Tabula gratulatoria Prefazione, a cura di SIMONA MARCHESINI Bibliografia di Carlo De Simone LUCIANO AGOSTINIANI, Etrusco lauxumes tra lessico e onomastica FRANÇOISE BADER, Une traversée menée à terme: noms de conquérants i.e. en étrusque (Pélasges Tyrrhe¯ nes, Tuscı¯, Etruscı¯, Tarko¯ n, Tarquin) MARIA BONGHI JOVINO, Tipologia, forma e funzione (nugae tarquiniesi) DOMINIQUE BRIQUEL, À propos de l’inscription CIE, 8681: les cataloghi del museo Campana comme source d’information en matière d’épigraphie étrusque GABRIELE COSTA, Heraclitus and Indo-European Fame BRUNO D’AGOSTINO, Scrittura e artigiani sulla rotta per l’Occidente JAVIER DE HOZ BRAVO, Las sibilantes ibéricas ANTONIO FILIPPIN, Miraggi paleobalcanici 3. Albanese grep «amo, gancio, uncino, àncora» MICHEL GRAS, Autour de Lemnos ERIC P. HAMP, Notes from Autopsy of Messapic Inscriptions GERHARD MEISER, Lat. mando mandı¯, ‘kaue’ FILIPPO MOTTA, Gall. karnitu, Lep. karite RENATO PERONI, Marciare divisi per colpire uniti PAOLO POCCETTI, Nuova piramidetta iscritta dalla Daunia MASSIMO POETTO, Una verifica dell’epigrafe peucetta MI 196 DOMENICO SILVESTRI, Due idronimi «Sabini» in Roma arcaica (Ru¯mo¯n e Ve¯la¯brum) HEIKKI SOLIN, Gavidus MARIO TORELLI, «Agalh´tora. pai^da. Tyrrhnoi´ (TLE2 802). Brevi considerazioni su una glossa etrusca JÜRGEN UNTERMANN, Quoius und Valesiosio: zum pronominalen Genitiv im Lateinischen
9 11 13 21 33 51 57 69 75 85 99 107 115 121 127 135 145 157 161 167 171 179
TABULA GRATULATORIA MARIO ALINEI MARIA PATRIZIA BOLOGNA LARISSA BONFANTE ANGELO BOTTINI REMO BRACCHI DOMINIQUE BRIQUEL STEFANO BRUNI ELISA CARONNA LISSI VITTORIO CASTELLANI PIERO CAVICCHI GIOVANNI COLONNA GIUSEPPE DELLA FINA TULLIO DE MAURO ANNA EUGENIA FERUGLIO ANTONIO GIULIANO VINCENZO MANNIELLO BENIAMINO MAZZARIN JEAN-MARC MORET ANNA MORPURGO DAVIES MARJATTA NIELSEN H. W. JOHN PENNEY GIUSEPPE SASSATELLI AGNES SCHERER TIMO SIRONEN MARTA SORDI JANOS GYORGY SZILAGYI BRUNO M. G. TIBILETTI MARIO TORELLI JÜRGEN UNTERMANN FAUSTO ZEVI ANNA ZEVI GALLINA Archäologisches Institut ⋅ Universität Zürich Biblioteca Universitaria Alessandrina ⋅ Roma Dipartimento di Beni Culturali ⋅ Università di Lecce Dipartimento di Linguistica ⋅ Università di Pisa
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TABULA GRATULATORIA
Dipartimento di Scienze Archeologiche e Storiche dell’Antichità ⋅ Università di Macerata Dipartimento di Scienze dell’Antichità ⋅ Università di Milano Dipartimento di Scienze Storiche, Archeologiche e Antropologiche dell’Antichità ⋅ Sezione di Etruscologia ⋅ Roma Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico ⋅ Istituto Universitario Orientale di Napoli Dipartimento di Studi Medievali e Moderni ⋅ Chieti Direzione generale dei Monumenti, Musei e Gallerie Pontificie ⋅ Città del Vaticano Institut für Sprachwissenschaft ⋅ Universität Köln Institutum Romanum Finlandiae Istituto di Linguistica ⋅ Università di Urbino Istituto di Studi sulle Civiltà Italiche e del Mediterraneo Antico ⋅ Roma Musei Civici di Reggio Emilia Scuola Archeologica Italiana di Atene Soprintendenza Archeologica di Pompei Soprintendenza per i Beni Archeologici di Perugia
PREFAZIONE Il titolo di questo omaggio a Carlo de Simone – Linguistica è storia – fu scelto felicemente da Giuseppe Nenci. E basterebbe infatti, da solo, a descrivere l’unico possibile atteggiamento ermeneutico di chi si dedichi allo studio di lingue antiche, ma in particolare di lingue «relitto» come l’etrusco o il messapico. Questi requisiti, questa fortunata congiunzione tra metodi (strutturalismo, funzionalismo, sociolinguistica) e concretezza storico-archeologica sono di fondamentale importanza in un campo come quello delle ‘Restsprachen’, in cui l’esegesi ultima di ogni testo è legata alla sinergia tra impianto strutturale, ricostruzione indoeuropea (dove possibile) e dato contestuale. La formazione linguistica di Carlo de Simone parte dall’impostazione metodologica tedesca della scuola di Hans Krahe, con un forte influsso della linguistica strutturale di Eugenio Coseriu: il tutto è inquadrato in uno storicismo e in un’attenzione al dato archeologico concreto influenzati certo anche dalla scuola di Massimo Pallottino ed aggiornati e convalidati dalle più recenti tendenze della linguistica moderna, come la sociolinguistica, la pragmalinguistica e il cognitivismo. A questa impostazione si devono i meriti di Carlo de Simone e le fortunate proposte di interpretazione testuale che caratterizzano tutta la sua produzione scientifica: per citare solo alcuni esempi si pensi all’interpretazione di tabara nelle iscrizioni messapiche (Darbringerin, sacerdotessa), o alla lettura delle iscrizioni di «Grotta Poesia» di Roca (Taotor Andirah(h)as = Taotor Inferus), o alla più recente interpretazione di uno dei più sensazionali documenti etruschi mai ritrovati, la Tabula Cortonensis. Nell’ambito delle lingue di frammentaria attestazione una posizione particolare negli interessi di studio di de Simone spetta senz’altro al messapico: a partire dal fondamentale contributo alla cronologia delle iscrizioni messapiche (Die Messapiche Inschriften), dove si forniscono per la prima volta un inquadramento storico e una periodizzazione dei testi in base allo sviluppo dell’alfabeto, lo studio delle iscrizioni e della lingua dell’Apulia preromana accompagna tutta la produzione scientifica di de Simone. A lui si deve, oltre ad uno studio sistematico della fonologia e morfologia di questa lingua, anche l’inquadramento di fondamentali aspetti della cultura e dei culti del mondo messapico, definiti a partire da un’analisi di tipo indoeuropeista, ma con un continuo orientamento al dato storico contestuale. Nell’ambito di questa disciplina è suo merito aver definitivamente liquidato la cosiddetta «questione illirica», già impostata dal maestro Hans Krahe, e averla risolta a partire proprio dallo studio onomastico. Nel contributo ai nomi di persona balcanici (L’elemento non greco nelle iscrizioni di Durazzo e di Apollonia) viene, infatti, fornito un quadro di diffusione dell’elemento onomastico «non greco» in area medio-dalmatica, con l’utilizzo degli strumenti più avanzati dell’indagine onomastica. Il lavoro di quasi un lustro sulle iscrizioni messapiche ha portato infine alla redazione dei Monumenta Linguae Messapicae, in cui si fornisce, oltre ad una sistematica riorganizzazione delle iscrizioni e dell’alfabeto, anche un preziosissimo inquadramento grammaticale di oggi singolo lemma fino ad oggi isolato (almeno nella letteratura a disposizione). In quest’opera è raccolto sostanzialmente quanto fino ad oggi si può sapere sull’epigrafia e sulla lingua messapiche. L’altra lingua cui de Simone si è dedicato sin dagli inizi della sua produzione scientifica è l’Etrusco: gli Entlehnungen sono un fondamentale ed insuperato strumento nello studio degli imprestiti greci in Etrusco, utilizzato tanto dai linguisti quanto da altri studiosi di antichità. Contributi ai rapporti tra Etruschi e Italici si trovano nei numerosi articoli sui rapporti tra lingue nell’Italia Antica. Altro caposaldo sostanziale, rivolto soprattutto alla definizione di aspetti etnogenetici, è quello dei Tirreni di Lemnos: l’annosa questione dell’origine degli Etruschi è ripresa ed inquadrata con l’analisi puntuale dei presunti elementi «Urtyrrhenisch», e risolta in funzione di un inquadramento sociolin-
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SIMONA MARCHESINI
guistico delle attestazioni epigrafiche a Lemnos in età arcaica. Nello stesso quadro si ricostruisce l’origine e la diffusione del nome dei Tyrrenoi nel Mediterraneo antico ed in ambito italico. Recentemente la sensazionale scoperta di uno dei più importanti tra i documenti etruschi, la Tabula Cortonensis, lo ha impegnato in uno studio sistematico del prezioso testo, sfociato nell’edizione apparsa in un lungo contributo negli Annali della Scuola Normale di Pisa. Ancora una volta l’impianto strutturale metodologico e la concretezza della visione storica e pragmatica hanno consentito a de Simone di ricostruire il puzzle del testo della Tabula, interpretata come parentatio familiare (atti della confraternita dei Cusu). Terreno «trasversale» dell’indagine linguistica di de Simone è senz’altro quello dell’onomastica (già ricordata sopra), concretizzatosi in numerosi contributi: oltre a singole interpretazioni e ricostruzioni di nomi personali e locali di diverse lingue dell’Italia antica (alla maniera della più illustre tradizione di Namenforschung tedesca) a lui si deve la definizione e descrizione in campo italico della «competenza onomastica multipla». Tale formula ha consentito di gettare una nuova luce sui rapporti tra le popolazioni italiche nella fase di formazione ed attestazione delle gentes: l’intercambio onomastico costituisce uno degli strumenti più tangibili per sancire il passaggio da un gruppo etnico all’altro. I contributi raccolti in questo omaggio, di colleghi linguisti, archeologi e storici di varia formazione e provenienza testimoniano e confermano la ricchezza metodologica e l’interdisciplinarietà che caratterizzano il suo prolifico dialogo con la comunità scientifica. SIMONA MARCHESINI
BIBLIOGRAFIA DI CARLO DE SIMONE a) Articoli e monografie 1) 2) 3) 4)
Un caduceo di bronzo proveniente da Brindisi: AC 8 (1957), 15-23. Ancora sul caduceo bronzeo IG. XIV 672: AC 10 (1958), 102-105. Una nuova iscrizione messapica proveniente da Sepino: IF 63 (1958), 253-272. Bemerkungen zu einer neuen messapischen Inschrift aus Rudiae: IF 64 (1959), 278-279. 5) Ancora sulla nuova iscrizione messapica di Rudiae: IF 65 (1960), 31-34. 6) Contributi messapici: IF 66 (1961), 44-48. 7) Messapico baleCias - greco Bali´ow, balio´w: IF 67 (1962), 36-52. 8) Contributi peligni: AION (L.) 4 (1962), 63-68. 9) Nuove osservazioni sulle iscrizioni messapiche: SE XXX (1962), 205-244. 10) Forschungsbericht: die messapische Sprache (seit 1939): Kratylos 7 (1962), 113-135. 11) Osservazioni sull’onomastica della necropoli di Durazzo: BzN 14 (1963), 124-130. 12) Etr. setiena: SE XXXI (1963), 224-225. 13) Etrusco Vestiricinala - osco Vestirikíúí ed una iscrizione etrusca arcaica di Cere: SE XXXII (1964), 207-211. 14) Zur Geschichte der messapischen Sprache: die Diphthonge: IF 69(1964), 20-37. 15) Die messapischen Inschriften und ihre Chronologie. In: H. Krahe, Die Sprache der Illyrier II (Wiesbaden 1964), 1-151. 16) Griech. Ai¢aw Telamv´niow - etr. Aivas Telmunus: Glotta XLIII (1965), 167-171. 17) Zur Geschichte der messapischen Sprache: Die Diphthonge II: IF 70 (1965), 191-199. 18) Etrusco *usel- «sole»: SE XXXIII (1965), 537-543. 19) Per una cronologia delle iscrizioni messapiche: RStSa 24 (1966), 395- 402. 20) Iscrizione etrusca inedita del Kestner-Museum di Hannnover: SE XXXIV (1966), 395-402. 21) Forschungsbericht: Die Sprachphilosophie von B. Croce: Kratylos 12 (1967), 1-32. 22) Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen. Erster Band. Einleitung und Quellen (Wiesbaden 1968). 23) Zur altetruskischen Inschrift aus Rom (mi araziia laraniia): Glotta XLVI (1968), 207-212. 24) Il nome di Persio: RF 96 (1968), 419-435. 25) Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen in historischer Sicht. In: Disputationes ad MontiumVocabula aliorumque nominum significationes pertinentes. 10. Internationaler Kongreß für Namenforschung I (Wien 1969), 473-480. 26) Gli imprestiti greci in Etrusco: prospettive e problemi. In: Studia Classica et Orientalia A. Pagliaro Oblata II (Roma 1969), 41-63. 27) Iscrizione etrusca da Todi: SE XXXVII (1969), 345-347. 28) Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen. Zweiter Band. Untersuchung (Wiesbaden 1970). 29) Lat. groma (gruma) «Feldmessinstrument»: FL 4 (1970), 121-124. 30) I morfemi etruschi -ce (-ke) e -ce: SE XXXVIII (1970), 115-139. 31) Un’iscrizione etrusca todina del Museo Oliveriano: Studia Oliveriana 17 (1970), 3-6. 32) Die Etymologie von griech. »Eka´bh e∫khbo´low: ZVS 84 (1970), 216-220. 33) Zu einem Beitrag über etruskisch &evru mines: ZVS 84 (1970), 221-223.
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BIBLIOGRAFIA DI CARLO DE SIMONE
34) Per la storia degli imprestiti greci in Etrusco. In: Aufstieg und Niedergang der römischen Welt I,1 (1972), 490-521. 35) Etrusco Tursikina: sulla formazione ed origine dei gentilizi etruschi in -kina (-cina): SE XL (1972), 153-181. 36) Nuova iscrizione di Cere: SE 40 (1972), 421-425. 37) Lo stato attuale degli studi illirici ed il problema della lingua messapica: Studia Albanica 10 (1973) 1, 155-159. 38) La lingua messapica: tentativo di una sintesi: In: Le genti non greche della Magna Grecia. Atti dell’XI Convegno di Studi sulla Magna Grecia. Taranto, 10-15 ott. 1971 (Napoli 1974) 125-201. 39) Etruskischer Literaturbericht: neuveröffentlichte Inschriften 1970-1973 (mit Nachträgen): Glotta LIII (1975), 125-180. 40) Il nome del Tevere. Contributo per la storia delle più antiche relazioni tra genti latino-italiche ed etrusche: SE XLIII (1975), 119-157. 41) Le iscrizioni della necropoli di Durazzo: nuove osservazioni: Studia Albanica 1975 (2) 95-116. 42) Ancora sul nome di Caere: SE XLIV (1976), 163-184. 43) Nota di onomastica italica: i gentilizi in turs-. In: Italia linguistica nuova ed antica 1 (Galatina 1976), 129-126. 44) Il sistema fonologico etrusco. In: Atti del Colloquio sul tema «L’Etrusco arcaico» (Firenze 1976), 56-73. 45) Le iscrizioni della necropoli di Durazzo: nuove osservazioni: SE XLV (1977), 209-235. 46) Messapic Damatira⁄Damatura - Balkanic («Illyrian») Deipa´tyrow: JIES 1977, 355-366. 47) Un nome microasiatico a Vulci: Zarmaie. In: Atti del X Convegno di Studi Etruschi ed Italici. Grosseto-Roselle-Vulci 1975 (Firenze 1977), 83-84. 48) Intervento (cfr. supra Nr. 47): 94-95, 97. 49) I rapporti greco-etruschi alla luce dei dati linguistici. In: Interferenza linguistica. Atti del Convegno della SIG. Perugia 25-26 apr. 1977 (Pisa 1977), 45-54. 50) Nochmals zum Namen »Ele´nh: Glotta LVI (1978), 40-42. 51) A proposito della nuova iscrizione arcaica di Satricum. In: Archeologia Laziale. Incontro di Studio per l’Archeologia Laziale (Roma 1978), 95-98. 52) Un nuovo gentilizio etrusco di Orvieto (Katakina) e la cronologia della penetrazione celtica in Italia: PP CLXXXII (1978), 370-395. 53) Intervento: Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana. in: Atti del Seminario tenutosi a Perugia il 29-30 marzo 1977 (Perugia 1978), 74-76. 54) Nuova iscrizione etrusca da Caere: SE XLVI (1978), 352-353. 55) Sull’esito del dittongo etrusco ai: SE XLVI (1978), 177. 56) Contributi per lo studio della flessione nominale messapica. Parte prima: l’evidenza: SE XLVI (1978), 223-251. 57) Le iscrizioni pre-latine in Italia. Roma, 14-15 marzo 1977 (Roma 1979), 105-117. 58) L’aspetto linguistico. In: C. M. Stibbe - G. Colonna - C. de Simone. H. S. Versnel M. Pallottino: Lapis Satricanus. Archaeological, epigraphical, linguistic and historical Aspects of the new Inscription from Satricum (s-Gravenhage 1980), 71-94. 59) Gallisch Nemetios - etruskisch Nemetie: ZVS 94 (1980), 98-202. 60) Le iscrizioni etrusche di Orvieto: Annali della Fondazione per il Museo «Cl. Faina» I (1980), 27-41. 61) Italien. In: Die Sprachen im römischen Reich der Kaiserzeit (Bonn 1980), 65-81.
BIBLIOGRAFIA DI CARLO DE SIMONE
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62) Graffiti e iscrizioni provenienti dall’acqua Acetosa-Laurentina. In: Lazio arcaico e mondo greco. Il Convegno di Roma: PP CXCVI-CXCVIII (1981), 128-142 (in collaborazione con F. Cordano). 63) L’iscrizione latina arcaica di Satricum: problemi metodologici ed ermeneutici: GIF NS XII [XXXIII] 1 (1981), 25-56. 64) Latino sodalis, un problema di ricostruzione semantica: In: Logos semantikos. Studia linguistica in honorem E. Coseriu 1921-1981. III (Berlin - New York - Madrid 1981), 289-293. 65) Fremde Gentilnamen in Etrurien in archaischer Zeit. In: Die Aufnahme fremder Kultureinflüsse und das Problem des Retardierens in der etruskischen Kunst (Mannheim 1981), 89-93. 66) Die Göttin von Pyrgi - Linguistische Probleme, In: Akten des Kolloquiums zum Thema «Die Göttin von Pyrgi». Archäologische, linguistische und religionsgeschichtliche Aspekte. Tübingen 16-17 Januar 1979 (Firenze 1981), 63-69. 67) Gli Etruschi e Roma: evidenza linguistica e problemi metodologici. In: Gli Etruschi e Roma. Incontro di Studio in onore di M. Pallottino. Roma 11 - 13 dic. 1979 (Roma 1981), 93-103. 68) Hethitisch Tarhu- etruskisch Tarxu-. in: Serta Indogermanica. Festschrift für G. Neumann zum 60 Geburtstag (Innsbruck 1982), 401-406. 69) Onomasticum aletinum: considerazioni generali.In: Atti dell´VIII Convegno dei Comuni Messapi, Peuceti e Dauni. Alezio 14-15 novembre 1981 (Bari 1983), 215-263. 70) L’evidenza messapica: tra grafematica e fonologia: AION (L.) V (1983), 183-195. 71) Su tabaras (femm. -a) e la diffusione di culti misteriosofici nella Messapia: SE L (1983), 177-197. 72) L’influenza greca nell´Italia antica: problemi generali. In: Atti del Convegno di Cortona 24 - 30 maggio 1981 - 30 (Pisa-Roma 1983), 755-784. 73) Celtico *nemeto- «bosco sacro» ed i suoi derivati onomastici. In: Navicula Tübingensis. Studia in honorem A. Tovar (Tübingen 1984), 349-351. 74) Etrusco Sanxuneta: PP CCXIV (1984), 49-53. 75) La posizione linguistica della Daunia. In: La civiltà dei Dauni nel quadro del mondo italico. Atti del XIII convegno di studi etruschi ed italici. Manfredonia, 21-27 giugno 1980 (Firenze 1984), 113-127. 76) Volsinii e i duodecim populi nella documentazione epigrafica: Annali della Fondazione per il Museo «Cl. Faina» II (1985), 89-100. 77) L’ermeneutica testuale etrusca oggi: prospettive e problemi: AION (L.) VII (1985), 23-36. 78) La stele di Lemnos. In: Rasenna (Milano 1986), 723-725. 79) Südpikenisch praistaklasa: Glotta LXV (1987), 125-127. 80) Messapisch no «sum»: ZVS 100 (1987), 135-145. 81) Iscrizioni messapiche della grotta della poesia (Melendugno, Lecce): ASNP III XVIII, 2 (1988), 325-415. 82) Messapico tabaras «sacerdote»: tra significato e designazione: In: Energeia und Ergon. Sprachliche Variation-Sprachgeschichte-Sprachtypologie. Studia in honorem E. Coseriu (Tübingen 1988), 481-483. 83) Gli imprestiti etruschi nel Latino arcaico. In: Alle origini di Roma. Atti del colloquio tenuto a Pisa il 18 e 19 sett. 1987 (Pisa 1988), 27-41. 84) Etrusco Tulumne(s) - lat. Tolonio(s) e le formazioni etrusche in -me-na: AION (L.) 11 (1989), 197-206. 85) L’ermeneutica etrusca oggi. In: Secondo Congresso Internazionale Etrusco. Firenze, 26 Maggio - 2 Giugno 1985. Atti. Vol. III (Roma 1989), 1307-1320.
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86) L’Iscrizione peuceta di Azetium (Rutigliano): Taras 9 (1989), 105-110. 87) L’iscrizione etrusca di Silvano: SE LV (1989), 346-351. 88) Etrusco Acvilna - lat. Aquilius: un Problema di intercambio onomastico: PP CCXLVII (1989), 263-280. 89) Il deittico etrusco -tra («von x her»): AION (L.) 12 (1990), 261-270. 90) L’epigrafia etrusca arcaica di Orvieto: Annali della Fondazione per il Museo «Cl. Faina» IV (1990), 75-79. 91) La posizione linguistica dell’Epiro e Macedonia. In: Magna Grecia Epiro e Macedonia. Atti del ventiquattresimo convegno di studi sulla Magna Grecia. Taranto, 5-10 ott. 1984 (Napoli 1990), 45-79. 92) I rapporti linguistici tra gli Etruschi e gli Italici. In: Rapporti linguistici e culturali tra i popoli dell’Italia antica, Pisa, 6-7 ott. 1989 (Pisa 1990), 129-147. 93) *Numasie⁄Numasio-: le formazioni etrusche e latino-italiche in -sie-⁄-sio-: SE LVI (1991), 191-215. 94) Etrusco Laucie Mezentie: AC XLIII (1991), 559-573. 95) Totor dazinnes: culti gentilizi presso i Messapi?: AION (L.) 13 (1991), 203210. 96) Le iscrizioni etrusche dei cippi di Rubiera (Reggio Emilia 1992). 97) L´Etrusco in Campania. In: La Campania fra il VI e il III secolo a. C. Atti del XIV Convegno di Studi Etruschi ed Italici. Benevento, 24-28 Giugno 1981 (Galatina 1992), 107-117. 98) Sul genitivo messapico in -ihi: ASN III XII, 1 (1992), 1-42. 99) Sudpiceno Safino-⁄Lat. Sabino-: Il nome dei Sabini: AION (L.) 14 (1992), 223-239. 100) Le iscrizioni chiusine arcaiche. In: La civiltà di Chiusi e del suo territorio. Atti del XVII Convegno di Studi Etruschi ed Italici. Chianciano Terme, 28 maggio-1 giugno 1989 (Firenze 1993), 25-38. 101) Messapisch tabaras, -a «Priester, -in» In: Sprachen und Schriften des antiken Mittelmeerraums. Festschrift für J. Untermann zum 65. Geburtstag (Innsbruck 1993), 445-454. 102) Sul nuovo frammento iscritto arcaico di Satricum: RF 121 (1993), 285-288. 103) La lingua messapica oggi: un bilancio critico: I Messapi. Atti del trentesimo convegno di studi sulla Magna Grecia. Taranto-Lecce, 4-9 ott. 1990 (Napoli 1993), 297-322.) 104) L’elemento non greco nelle iscrizioni di Durazzo e di Apollonia, In: P. Cabanes (Ed.): Grecs et Illyriens dans les inscriptions en langue grecque d’Épidamne-Dyrrachium et d’Apollonia d’Illyrie. Actes de la Table ronde internationale. Clérmont-Ferrand, 19-21 oct. 1989 (Paris 1993), 35-75. 105) Messapico haz(z)avas - ant. ind. juho¯ mi: un miraggio: SE LVIII (1993), 201-207. 106) Il nome etrusco del poleonimo Mantua: SE LVIII (1993), 197-200. 107) I Tirreni a Lemnos: l’alfabeto: SE LX (1995), 145-162. 108) Il santuario di Dodona e la mantica greca più antica. In: L’Illyrie méridionale et l’Épire dans l’Antiquité - II. Actes du IIe Colloque intern. de Clérmont-Ferrand (25-27 oct. 1990) (Paris 1995), 51-54. 109) Le più antiche relazioni greco-etrusche alla luce dei dati linguistici. In: L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore (Napoli 1995), 283-290. 110) L’iscrizione dell’ipogeo della Medusa. In: M. Mazzei (Ed.), Arpi, l’ipogeo della Medusa e la necropoli (Bari 1995), 211-212. 111) Lateinisch gens «Geschlechterverband, Sippe» (Stamm genti-): Glotta LXXIII (1995⁄6), 247-256. 112) Il problema storico-linguistico. In: Magna Grecia Etruschi e Fenici. Atti del trenta-
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123) 124) 125) 126) 127) 128) 129) 130) 131) 132) 133) 134)
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A parte il fatto che in una analisi del genere non si collocano i derivati del tipo laux(u)msni (su questo torneremo più avanti), essa deve ora comunque fare i conti, da una parte, con l’incertezza documentale del punto mediano > lauxu-me > del processo postulato; dall’altra, con l’ampiamente documentata presenza di una formazione in sibilante lauxumes, che chiaramente non trova una collocazione nello schema derivazionale suddetto. In queste condizioni, mi sembra vi siano i presupposti per impostare il problema dei rapporti intercorrenti tra le forme in questione su basi diverse. Il confronto tra il tipo lauxumes da una parte e il tipo lauxumna dall’altra sembra richiamare una base comune *lauxum, che potrebbe essere un nominale formalmente inseribile nella ben attestata classe dei nomi inanimati in -um del tipo di meulum «città». Il tema in sibilante lauxumes ne è un derivato, attraverso l’impiego di una formante /-esˇ/ (settentrionale) e /-es/ (meridionale). E alla stessa base *lauxum potrà farsi risalire il tipo lauxumna di (1) e i gentilizi di (2), formalmente assimilabili: la derivazione sarebbe del tipo *lauxum-na, cioè derivazione aggettivale direttamente dal tema in -um, senza passaggio intermedio da un (poco proponibile, come si è visto) lauxume. Questo genere di derivazione, in cui il suffisso -na si lega direttamente con la consonante che precede, è presente già in età arcaica, come mostra, tra i molti altri, il caso del gentilizio pesna, di cui dati recentissimamente acquisiti hanno chiarito la formazione20. Restano i gentilizi del tipo in (3), i quali, come si ricorderà, hanno sempre costituito una presenza imbarazzante nel quadro di derivazione tradizionale21. Essi trovano, viceversa, una spiegazione del tutto naturale nel nostro modello, in quanto derivabili, con la consueta suffissazione aggettivale, dal tema in sibilante: lauxumes-ni > lauxumsni (lauxumsnei nelle designazioni onomastiche femminili), con cancellazione della vocale postonica. 4. Ovviamente, l’analisi proposta, per la quale non si vedono in partenza controindicazioni, necessita comunque di una serie di confronti e di approfondimenti. 4.1. Un primo punto riguarda l’esistenza di una formante -es (/-esˇ/ settentrionale e /-es/ meridionale). Va detto che, a fronte della cospicua e coerente presenza in etrusco di nomi in sibilante (palatale a nord, post-dentale a sud) preceduta da /i/ e /u/22, una finale in si18. RIX 1972, pp. 731-732. 19. Vedi la manualistica e, da ultimo, DE SIMONE 1989-90, p. 195; CRISTOFANI 1991, pp. 554-555. 20. AGOSTINIANI-NICOSIA 2000, p. 102. Sulle modalità di formazione di questo e di altri tipi di derivati, che investono il problema della fonotassi dell’etrusco, in rapporto alla sua collocazione tipologica, conto di tornare in altra sede. 21. CRISTOFANI 1991, p. 555 si limita a citare il gentilizio lauxumsni, rilevandone solo la diffusione nell’agro chiusino. Esplicitamente, Gerhard Meiser (ad REE 50, 15) definisce lauxumsni come derivato da lauxme «mit Einfügung eines in seiner Funktion noch zu bestimmendes -s- vor den Suffix -ni». A mia conoscenza, l’unico tentativo coerente di inserire queste forme in un quadro generale di derivazione si deve proprio al Festeggiato (DE SIMONE 1975, pp. 141-142; 1989-90, pp. 203-204): come lauxu > lauxume > lauxumena (da cui recente lauxumna), così lauxu > lauxume > lauxumese > lauxumesena (da cui recente lauxumsni). Il quadro tracciato da de Simone non si limita a questo tema, ma coinvolge una ricca serie di altre forme, per le quali una trafila del genere può ritenersi valida. Ma lo stesso non può dirsi, per i fatti documentari sopra riportati e discussi, per il tipo lauxumsni. 22. RIX 1963, pp. 267-275; da ultimo, AGOSTINANI 2001, pp. 135-137.
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bilante preceduta da /e/ quale si identifica in lauxumes rappresenta una novità. Il confronto con la parola pes che compare sulla Tabula Cortonensis23 (ad indicare, a quanto pare, un terreno), è problematico: trattandosi di un nome radicale, le condizioni strutturali sono diverse. Assai più attraente – anche se problematico – è il confronto con l’iscrizione sull’anfora al Museo di Würzburg Vc 6.1: kape mukauesa, datata tra la fine del VI e il V secolo a.C. Si tratta, come si sa, di una designazione antroponimica, costituita da un nome personale all’assolutivo, kape, seguito da una forma in cui si riconosce tradizionalmente, da Rix in poi, un etnico in -ue flesso secondo la morfologia del «possessivo»24. Tuttavia, come ha mostrato Colonna25, poiché l’iscrizione va attribuita a Vulci, e poiché non vi sono testimonianze di un impiego del morfo di possessivo per indicare il patronimico in età arcaica al di fuori della Campania, per kape mukauesa non può trattarsi, come pensava Rix, di un nome personale seguito dal patronimico: si tratterà invece di uno schiavo, «Cape (servo) di Mucathe»26. Ferma restando la solidità di questa interpretazione sotto il profilo fattuale, rimangono, a quanto pare, due difficoltà formali: da una parte, la nozione di appartenenza (di schiavo al padrone) resa con il «possessivo»; dall’altra, la scrittura aberrante del morfo di «possessivo»: in età arcaica almeno, non sono particolarmente presenti, a Vulci, oscillazioni nella scrittura delle due sibilanti, per cui interpretare -sa di mukaue-sa come /-sˇa/ rappresenta un ad hoc. Le difficoltà verrebbero rimosse quando si segmentasse non muka-ue-sa (con riconoscimento di un etnico in -ue, del quale peraltro non è mai stata identificata la base derivazionale), ma mukaues-a, con identificazione di un tema in -es con la morfologia di genitivo attesa in età arcaica. La parola mukaues potrebbe ulteriormente analizzarsi come mukau-es, e a sua volta mukau potrebbe intendersi quale nomen agentis, muk-au, formato come snenau, tevarau- o zilau27. Per la base muk- potrebbe richiamarsi il muca, che è presumibilmente un aggettivo28 che può essere deverbale, e il mux (per mux : muca cfr. mlax : mlacas) di CIE 10138: ei: mux: ara: an: ei: seuasri, che essendo preceduto dalla particella negativa ei può ben essere una forma di «imperativo», notoriamente espresso dal tema verbale puro29, che in questo testo sarebbe parallela al «necessitativo», del pari accompagnato da ei, che chiude l’iscrizione30. Ovviamente, il quadro sopra delineato, che pare formalmente corretto, apparirà molto più convincente se e quando potremo determinare il significato di mux/c-, che al momento ci sfugge (vedi anche G. Colonna, ad REE 56, 5): con il che lauxumes uscirebbe dall’isolamento in cui di fatto al momento si trova31. 23. AGOSTINIANI-NICOSIA 2000, passim. 24. RIX 1972, p. 746. 25. COLONNA 1975a, pp. 186-188. 26. Dubbi sullo status servile del personaggio sono stati avanzati da Marina Martelli (ad REE 50, 42), che pensa piuttosto a «un artigiano immigrato, magari di origine campana, come proverebbe la struttura della formula onomastica», «integrato, non necessariamente come schiavo, nella comunità vulcente intorno al 500 a.C». Non possiamo entrare, in questa sede, nel merito della questione. Resta comunque da giustificare, per chi accolga questa ipotesi, la presenza di sigma al posto di sade. 27. PFIFFIG 1969, pp. 169-170; AGOSTINIANI 1997, pp. 10-14. 28. COLONNA, ad REE 56, 4; AGOSTINIANI 1994, p. 17. 29. RIX 1984, p. 232. 30. AGOSTINIANI 1984, pp. 109-110. [Nota di correzione: La recentissima acquisizione alla conoscenza del mondo scientifico dell’iscrizione della tomba di Poggio Renzo: ein &ui ara enan, pubblicata da E. Benelli negli «Annali del Dipartimento di Studi sul Mondo Classico» 5, 1998, pp. 107-108, impone di riconsiderare l’attribuzione dei valori alle unità lessicali: parallelamente a quanto in quest’ultima iscrizione, il verbo cui si correla la particella negativa potrebbe essere non mux ma ara, congiuntivo, per cui in mux si dovrebbe vedere il nominale che funziona da oggetto diretto]. 31. Il graffito Cm 2.77, su kylix a v.n. da località indeterminata della Campania, databile al V secolo a.C. suona: uanes´a sestuminas (COLONNA 1975b, p. 160). La possibilità che la formula onomastica abbia la stessa morfologia della iscrizione di Chianciano Terme qui studiata, e che quindi si possa segmentare uanes´-a sestumina-s, come lauxumes-a katila-s´, con riconoscimento di un uanes´ assolutivo in sibilante, è a mio avviso fortemente compromessa dal fatto che
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4.2. Un secondo punto da trattare (brevemente) concerne la derivazione di lauxumsni direttamente da lauxumes. Essa pare, in partenza, avere dalla sua la forza dell’evidenza e il sostegno di tutta una serie di fatti coerenti (vedi sopra). Si aggiunga poi una considerazione. È vero che, come si è visto sopra, la differenza tra designazione onomastica maschile e femminile è nella fattispecie espressa dall’opposizione tra lauxumsni e lauxumsnei. Ma vale la pena di richiamare la coppia di iscrizioni costituita da Cl 1.1908 e Cl 1.1909. La prima concerne un personaggio maschile denominato vel lauxumes (segue il patronimico e il metronimico vel(u)sa petrual), la seconda un personaggio femminile denominato uania lauxumsnei. Come si vede, il rapporto tra designazione maschile con gentilizio in sibilante e designazione femminile con gentilizio formato dalla stessa base e terminazione -nei (lauxumes/ lauxumsnei) è lo stesso che intercorre tra i membri di coppie come cutlis/cutlisnei o peris/perisnei32, il che corrobora senz’altro la linea di derivazione qui proposta. 5. Riesaminata la documentazione epigrafica relativa, corretta tutta una serie di letture e di segmentazioni dei testi, e stabiliti i rapporti formali che legano le forme attestate, si tratta ora di spostarsi sul piano di una analisi che non sia più solo formale, ma che delle forme attestate investighi anche la funzione e, nei limiti del possibile, il significato. Questo ci porterà a riconsiderare anche quella che è una vexata quaestio in rapporto alle forme suddette, e cioè quella del rapporto con esse del lat. lucumo. 5.1. Richiamiamo prima di tutto un aspetto ben noto della questione, e cioè il fatto che le forme di cui abbiamo trattato possono tutte – con l’eccezione di una, lauxumne-ti, che discuteremo subito sotto – essere interpretate come unità onomastiche. Così il tipo lauxumni e il tipo lauxumsni compaiono in tutte le loro occorrenze nella posizione e con la funzione di gentilizi: come del resto c’era da attendersi, vista la loro struttura. E una funzione onomastica si rileva anche nel nome che è stato qui per la prima volta acclarato, e cioè lauxumes. Ma in questo caso bisogna distinguere tra le diverse occorrenze. Ovviamente, i casi in cui il nome si presenta isolato – OA 2.54: lavuxmes e Cl 1.1907, se da integrare lauxme(s) – sono indecidibili (anche se è certo più probabile che si tratti di un elemento onomastico piuttosto che lessicale). Ma in altri casi la funzione è sicura, per ovvi motivi distribuzionali. Così lauxumes è sicuramente un gentilizio in Cl 1.1908: vel: lauxumes: vel(u)sa: petrual, ma altrettanto è sicuro che nell’iscrizione Campana-Maggiani 1989: larui: cilnei: luvxumesal cilnies: sex: aritinial (nella nostra rilettura), in AS 1.212: lauxumes ut[au]ni cencnal, e, buon ultimo, nell’iscrizione di Chianciano Terme da cui siamo partiti: mi lauxumesa katilas la forma lauxumes occupa, nella formula onomastica, la posizione del prenome33. Questo mette in evidenza, a mio avviso, una sorta di «disponibilità» di questa forma, che impone di chiedersi se essa non avesse anche altre valenze all’interno di una funzionalità onomastica. Così in Cl 1.2067: lar&. perna. lauxumes (se così va letta l’iscrizione) la funzione potrebbe essere quella di un cognomen. E ci si chiede infine – ma questo appare indimostrabile allo stato della documentazione – se la funzionalità di lauxumes non operasse anche al di fuori dell’onomastica: cioè, se la forma non potesse funzionare anche come unità lessicale, e se in alcune almeno delle iscrizioni in cui compare nella posizione di prenome non si tratti in realtà di un epiteto. la grafia indica in uanes´ una sibilante palatale, e non – come ci attenderemmo, in questa posizione, in area meridionale, vedi sopra – una sibilante postdentale. 32. Su questo si veda RIX 1963, pp. 267-269. 33. In due iscrizioni il nome in questione si presenta abbreviato. Si tratta di AS 1.85: la. hepni. laux(m)e(s´) viplialisa e AS 1.1: lar&: nusmuna lauxm(es´), in cui l’integrazione è data negli Etruskische Texte a partire dal presupposto, come si è visto presumibilmente illusorio, dell’esistenza di un nome lauxume. Le due iscrizioni saranno invece da integrare, rispettivamente, la. hepni. laux(m)e(sal) viplialisa e come : lar&: nusmuna lauxm(esal), con riconoscimento di lauxmes con funzione di prenome (del padre).
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5.2. Come accennato sopra, la sola delle forme esaminate che funzioni sicuramente, ed esclusivamente, come unità di lessico è il derivato lauxumna che è testimoniato nel Liber Linteus in una sola occorrenza, LL IX.f2, nell’espressione locativale lauxumne-ti (forma soggiacente laucumna + i + ti)34. Il contesto in cui compare è un incipit di paragrafo trasparente per struttura sintattica e, parzialmente, per valori di significato: ciem cealxus lauxumneti eisna uaxs´eri... «il 27 lauxumneti il rito venga ...to»35. Che in lauxumneti si dovesse riconoscere un’espressione locativale era già chiaro al Torp36, al pari del collegamento della parola con il lat. lucumo, nome etrusco del «re» secondo la tradizione (vedi più avanti). Egli vedeva nel locativo un riferimento non spaziale ma temporale, e traduceva: «(im Monat) lauxumna», ritenendo lauxumna un aggettivo legato alla nozione di «re», passibile di fungere da nome di mese. L’interpretazione era contestualmente tutt’altro che improponibile, per l’esistenza, in altri incipit di paragrafo del Liber Linteus, di riferimenti al mese in cui le cerimonie si devono svolgere37. Tuttavia in questa idea il Torp è stato seguito solo da Whatmough38. Per il resto, si è affermata l’interpretazione di Vetter39, che, sempre richiamandosi al lat. lucumo, vede in lauxumneti una designazione locale, che traduce come «in regia»: stabilendo quella che diventerà, sostanzialmente, una communis opinio40. Ora, se lauxumna è un derivato in -na dalla parola che in etrusco designava il «re»41, e che il latino rende con lucumo, si pone il problema di stabilire come suonasse in etrusco questa parola. Per lo più la si è riconosciuta42 nella forma lauxume che abbiamo sopra discusso. Ma, come si è visto, che una forma lauxume sia mai esistita non è provato da nessuna attestazione sicura. D’altro canto, anche se fosse documentata, non è una forma del genere quella attesa come antecedente etrusco della parola latina lucumo (notoriamente, le uscite etrusche in -e si correlano a uscite latine in -us, secondo il tipo clavti-e: Claudi-us43): ci attenderemmo piuttosto qualcosa come lauxumu44. E si aggiunga, a mio
34. Su questo tipo di strutture sintattiche vedi RIX 1984, p. 224 e, da ultimo, AGOSTINIANI-NICOSIA 2000, pp. 92-95. 35. Vedi da ultimo RONCALLI 1985, p. 52. Non c’è dubbio che in uaxs´eri vada vista una forma di necessitativo (su cui vedi Rix 1984, p. 232). Resta, naturalmente, il problema del significato da attribuire alla base verbale. Il confronto con il uaxs´in attestato in LL VI 5: hamfeui etnam laeti anc uaxs´in ... mostra che si tratta di una stessa base con morfologia diversa. Il fatto che si ritrovi la stessa alternanza morfologica, sempre nel testo del Liber Linteus, tra uezeri(-c), LL VIII 3 e uezin, LL VIII 16 parrebbe indurre a vedere anche in -in, come in -eri, un morfema flessivo (verbale), e non, come sarebbe in partenza ipotizzabile in alternativa, un morfema derivazionale. Una discussione del problema, che implicherebbe una valutazione dell’idea di PFIFFIG 1969, p. 148 che -in sia morfema di mediopassivo, esorbita i limiti di questo lavoro, e si rimanda ad altra occasione. 36. TORP 1902, p. 12. 37. PFIFFIG 1975, p. 93 ritiene che la forma di locativo dell’espressione tenda ad escludere una interpretazione temporale dell’espressione («[lauxumneti] ist nach der lokativischen Form ein Ortbezeichnung ‘‘in regia’’». Ma l’impiego di un’espressione locativale per la dimensione temporale è banale e assai ampiamente documentato nelle lingue del mondo. 38. WHATMOUGH 1931, p. 159. 39. VETTER 1924, pp. 145-146. 40. Concordano Pallottino, Cortsen (con qualche modifica), Pfiffig. Si noti comunque che Vetter stesso tenderà, più tardi (VETTER 1940, p. 153), a sfumare il suo punto di vista, e a ritenere la proposta di Torp una alternativa possibile. 41. La tradizione in proposito (vedi CRISTOFANI 1991, p. 553 e BREYER 1993, p. 131) risale sostanzialmente al commento di Servio all’Eneide: cfr. soprattutto ad II, 278: lucumones, qui reges sunt lingua Tuscorum; VIII, 475: nam Tuscia duodecim lucumones habuit, id est reges. 42. A partire almeno da TORP 1902, p. 12; vedi da ultimo, ed particolareggiatamente, CRISTOFANI 1991, pp. 554-556. 43. Sullo (scarso) valore da attribuire al Lucumus tradito da Verrio vedi CRISTOFANI 1991, p. 555. 44. E in effetti PFIFFIG 1969, pp. 93 e 293 deriva lauxumna da *lauxumu «Lucumo»; e CRISTOFANI 1991, p. 556 richiama la possibilità di un «passaggio diretto da un nome etrusco terminante in -u, appellativo o nome proprio». Lo stesso Cristofani, per la verità, accenna a due spiegazioni alternative a partire da lauxume, delle quali l’una suppone l’inserimento di lauxume nella classe degli accrescitivi latini in -o, -onis, motivato sul fatto che i personaggi designati da lucumo «risultano di primo rango per la loro posizione politica per ricchezze»; mentre l’altra invoca un «passaggio
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avviso dirimente45, il fatto che la formazione di lauxum-es, come abbiamo sopra accennato, non può risalire a una base in vocale lauxume, ma piuttosto ad un lauxum che sarà da porre, vista la labilità documentaria della forma lauxume, anche alla base di lauxumna. 5.3. In queste condizioni, due possibilità si presentano: o si ritiene che lauxumna (sia che la parola designi la «reggia», sia, come voleva Torp, un mese) sia da connettere al lat. lucumo, e allora la base lessicale «re» da cui la parola è derivata dovrà necessariamente riconoscersi in lauxum; oppure si ritiene che lauxumna significhi altra cosa, e allora si tratta di determinare il significato della base lessicale lauxum a cui risale. La prima possibile interpretazione sembra in contrasto con il fatto che, a quanto pare46, quella in -um è in etrusco una classe di nomi inanimati. Naturalmente, il caso di zilc – che designa sì la carica pubblica, ma (al pari del lat. magistratus) può designare anche il personaggio che la riveste47 – mostra che un eventuale uso di lauxum con valore animato non è impossibile. Ma mentre per le nozioni di «magistratura» e «magistrato» le condizioni sottostanti al doppio uso sono chiare (il personaggio come personificazione della struttura cui appartiene, un po’ come nello spagnolo policía), lo stesso non mi pare possa dirsi a proposito della nozione di «re». Certo, si potrà sempre pensare ad un caso di omofonia a livello di uscite di parola: ma si tratta di ipotesi che, allo stato attuale della documentazione, appare del tutto gratuita. Se viceversa si ritiene che alla base di lauxumna non vi sia la parola lauxum con valore «re», allora si tratterà di cercare per lauxum un valore che sia compatibile con la classe dei nomi inanimati, cui formalmente appartiene. È stata recentemente riproposta48 l’idea di Pfiffig49, secondo la quale l’antecedente etrusco del lat. lucumo, al pari sia della serie onomastica etrusca correlata (vedi sopra) formata su l(a)ux-, sia di quella formata su lauc-/luvc- (laucie ecc.), sarebbero da ricondurre, per via di prestito50, alla base italica *louk- (ie. *leuk-) «strahlen, leuchten»: per cui l’antecedente etrusco di lucumo, e lucumo stesso, avrebbe originariamente avuto il valore di «der Leuchtende, der Erlauchte». In un quadro del genere, l’esistenza in etrusco di forme come lextum dal gr. lh´kyuow e di vinum dal gr. ‡oi^now potrebbe indurre a richiamare per lauxum il termine italico *loukos51, che come è noto vale «bosco sacro». Se le cose potessero stare così, il derivato lauxumes potrebbe designare (almeno nel suo valore originario) un personaggio che con il «bosco sacro» ha a che fare52; mentre l’altro derivato lauxumna si riferirebbe a qualcosa (edificio, località da una del nome attraverso il greco». A parte ogni altra considerazione, ambedue debbono comunque confrontarsi con la incertezza documentaria di lauxume. 45. La circostanza che lauxume, se documentato (ma vedi sopra) lo sarebbe esclusivamente con valenza onomastica non costituisce in sé una difficoltà insormontabile: come ha segnalato CRISTOFANI 1991, passim, il valore di lucumo potrebbe sempre immaginarsi sia nato dalla personificazione di un nome proprio. 46. AGOSTINIANI 1995, pp. 19-23. 47. AGOSTINIANI 1997, pp. 11-12 48. BREYER 1993, pp. 308-309. 49. PFIFFIG 1975, p. 46: «Der Lukumonenname selbst ist in der Wurzel italisch, wenn auch lucumo von etr. *lauxumna abgeleitet ist. Trotz lat. lu ˘ cumo stammen beide Wörter von italischen *louk- ‘‘strahlen, leuchten’’. Der erste Tarquinier in Rom nannte sich Lucius; Valerius Maximus (de praenom. 4) erklärt mann nennte Lucius die, ‘‘welche bei Anbruch des Lichtes geboren sind, oder nach den etruskischen Lucumonen’’». 50. Nella misura in cui richiama l’intervento del prestito l’ipotesi si distacca dalla tradizione che accomuna i sostenitori di connessioni genealogiche tra italico ed etrusco: da Goldmann a Brandenstein a Trombetti (BREYER 1993, pp. 308-309, nota 415); e si aggiunga, come vedremo subito sotto, Ribezzo. 51. Notoriamente, il termine è presente il latino (arcaico loucos, da cui il classico lu¯ cus); per il resto dell’italico, si veda UNTERMANN 2000, pp. 439-440. 52. Si recupererebbe così l’idea di Trombetti (1928, p. 172), il quale proponeva di riportare lauxume alla parola italica: ma in un quadro di rapporti genealogici, per cui la forma lauxu- veniva ritenuta «corrispondente» al lat. lu¯ cus (e a quanto ad esso correlato in ambito italico e più generalmente indeuropeo), e di conseguenza «il derivato lauxu-me ‘lucumone’ doveva indicare in origine chi aveva la custodia dei sacri boschi». Analogamente Ribezzo (1929, p. 147): «... a
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parte, spazio temporale (mese) dall’altra) del pari collegato in qualche modo al «bosco sacro». Di fatto, questa ipotesi di prestito53 si scontra con una difficoltà formale: mentre la serie qui discussa (lauxumes, lauxumna ecc.) presenta coerentemente chi nella seconda sillaba, altrettanto coerentemente54 la serie dei nomi propri del tipo laucie presenta il segno per la velare sorda non aspirata, gamma o kappa. Vale a dire che, stando a quanto le condizioni grafiche segnalano, mentre non vi sono problemi per richiamare la base italica per la serie onomastica formata su lauc-/luvc-, secondo quella che è la vulgata in proposito, viceversa le forme in l(a)ux- non possono essere riportate alla stessa base se non ipotizzando una «irregolarità» fonetica; e il richiamo rischia di apparire tanto più ad hoc in quanto – a parte ogni altra considerazione di carattere generale sulla resa fonetica di /k/ italico in etrusco – il fenomeno non si verifica mai nella serie del tipo laucie. A mio avviso, la difficoltà formale non va assolutamente sottovalutata, e il richiamo alla parola italica resta fortemente ipotetico. Ma ove la «irregolarità» fonetica trovasse una spiegazione, l’ipotesi pare abbastanza attraente. Resta, naturalmente, il problema formale di un lat. lucumo che dovremmo far risalire al derivato lauxumes. Si ricordi però che anche se si accolga l’altra possibilità, e si ritenga proponibile lauxum = «re», questo è un antecedente di lucumo che è del pari formalmente anomalo. Riferimenti bibliografici AGOSTINIANI, L. 1983 Aspirate etrusche e gorgia toscana: valenza delle condizioni fonologiche etrusche, in AA.VV., Fonologia etrusca, fonetica toscana. Il problema del sostrato, Firenze, pp. 25-59. AGOSTINIANI, L. 1984 La sequenza eiminipicapi e la negazione in etrusco, «Archivio Glottologico Italiano» 69, pp. 84-117. AGOSTINIANI, L. 1986 Sull’etrusco della Stele di Lemno e su alcuni aspetti del consonantismo etrusco, in «Archivio Glottologico Italiano» 71, pp. 15-46. AGOSTINIANI, L. 1992 Contribution à l’étude de l’épigraphie et de la linguistique étrusque, in «Lalies» 11, pp. 37-74. AGOSTINIANI, L. 1994 Per una riconsiderazione dell’iscrizione etrusca della Tomba dei Claudii a Cere, AA.VV., Studi in onore di Carlo Alberto Mastrelli. Scritti di allievi e amici fiorentini, Padova, pp. 9-19. AGOSTINIANI, L. 1995 Genere grammaticale, genere naturale e il trattamento di alcuni prestiti lessicali in etrusco, AA.VV., Studi linguistici per i 50 anni del Circolo Linguistico Fiorentino, Firenze, pp. 9-23. AGOSTINIANI, L. 1997 Considerazioni linguistiche su alcuni aspetti della terminologia magistratuale etrusca, in AA.VV., Scríbthair a ainm n-ogaim. Scritti in onore di Enrico Campanile, Pisa, pp. 1-16. AGOSTINIANI, L. – NICOSIA, F. 2000 Tabula Cortonensis, Roma. AGOSTINIANI, L. 2001 Un cippo confinario etrusco da Cortona, in AA. VV., 10 anni di archeologia a Cortona, Roma 2001, pp. 134-139. BREYER, G. 1993 Etruskisches Sprachgut im Lateinischen unter Ausschluss des spezifisch onomastischen Bereiches, Leuven. ide.-ital. ou l’etrusco risponde con au, p. es. ital. Loucio-: etr. lavci, lauci (...), ide. louco-s «spazio libero, tratto di paese»: etr. lauxumn- (...), etr.-lat. lucumo». 53. Al pari del richiamo, nell’ipotesi Pfiffig-Breyer, vedi sopra, sia ai nomi del tipo laucie che alla serie formata su l(a)ux-: secondo una idea di intercambiabilità tra segni delle aspirate e delle non aspirate, oggi del tutto improponibile (AGOSTINIANI 1983, pp. 45-58), che era tipica di Pfiffig, e che sembra essere stata ereditata dalla Breyer. 54. Da un conteggio fatto sugli Etruskische Texte e sui numeri della Rivista di Epigrafia Etrusca pubblicati successivamente a quest’opera la prima serie appare costituita da 24 occorrenze, la seconda da 25; non si registra nessuna oscillazione grafica (per il fonema in questione).
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LUCIANO AGOSTINIANI
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UNE TRAVERSÉE MENÉE À TERME: NOMS DE CONQUÉRANTS I.E. EN ÉTRUSQUE (Pélasges, Tyrrhènes, Tuscı¯, Etruscı¯, Tarkho¯ n, Tarquin) FRANÇOISE BADER 1. Morphologie: 1.1. dérivés nominaux hétéroclitiques: 1.1.1. *-s-; 1.2.2. *-u- et ses élargissements; 1.1.3.* -i-; 1.2. formations en nasale: 1.2.1. *-m-, *-n-; 1.2.2. *-ent-; 1.2.3. infixe suffixalisé; 1.2.4. appartenance détermination 2. Phonétique: 2.1. représentations du degré zéro; 2.2. doublet *tark(h)-; 2.2.1. formes; 2.2.2. interprétation 3. Sémantique: évolutions de la «traversée» 4. Noms propres: 4.1. Troie et les Troyens; 4.2. anthroponymes: 4.2.1. indo-iranien; 4.2.2. Asie mineure; 4.2.3. Gaule; 4.2.4. Italie 5. Les Pélasges Tyrrhènes: 5.1. étymologie; 5.2. ethnologie des Pélasges chez Homère et en Italie; 5.3. toponymes et vocabulaire de la construction; 5.4. lyd. Turra, gr. túrannos, túrsis et Tyrsènes 6. Onomastique et migrations: 6.1. changement de nom des Migrants en nom d’exploit, «Victorieux des difficultés de la traversée»; 6.2. onomastique i.e. et langue étrusque; 6.3. onomastique et couches migratoires; 6.4. les Etrusques, peuple de la Mer (Teresh, Taruisha) 7. Onomastique indo-européenne en étrusque: 7.1. théonymes: 7.2. ethniques: isoglosse gallo-étrusque; 7.3. anthroponymes: héritage périphérique; 7.4. éponymes de souches migratoires en Inde et en Italie; 7.5. Tarquin, l’époux de Tanaquil, Superbus
1. Très ancienne, la racine *trh2- «traverser»1 a donné naissance à des formes et sens nombreux. Les examinant ailleurs plus en détail2, je ne garde ici que ce qui est utile à l’explication des noms des Etrusques et de certains de leurs chefs3, parfois éponymes, comme noms de conquérants indo-européens. 1.1. Laissant de côté les formes verbales (types hitt. tarah-zi, skr tiráti, turáti, tárati, lat. tero¯ , radicaux, le premier athématique, les autres thématiques; hitt. taruh-zi4, gr. trú(w)o¯ 5, dénominatifs à suffixe zéro6 du thème en *-u-; hitt. tarna-, etc., à nasale, cf. gr. tetraíno¯ < *te-trn h2 -yo¯ , à redoublement7, infixe, suffixe; etc.), je donne d’abord des dérivés nominaux, essentiellement ceux qui appartiennent au système de Caland-Wackernagel, élargi aux thèmes en *-s-8: 1.1.1. *trh2-e/os: skr. tirás, irl. tar, lat. terebra < *teres-ra; cf. *trh2-s- dans Tuscı¯, Turse¯noí, § 7.2; 1.1.2. *trh2-u-, qui survit dans le dénominatif du type hitt. taruh-zi, a un vocalisme refait dans gr. térus9, et est le plus souvent élargi, en: *-ui- (type lat. sua¯ uis): hitt. tarhui-li-10 «fort, puissant», skr. tu¯´ rvi-; «vainqueur»; noms propres av. Taurvi-, Taurvae¯ ti-, skr. Turvı¯´ti, à second membre *-hli-ti-, «à la venue victorieuse», cf. lat. ue¯ nı¯ (uı¯dı¯) uı¯eı¯, Turvás´a¯ yádu-, note 75 et Tórre¯ boi, note 81; 1.
Je renvoie une fois pour toutes aux dictionnaires étymologiques d’usage; y ajouter RIX et al., 1998, 575-577; UN2000, WERBA, 1997, 291-292. 2. BADER, 2001 b. 3. Entre autres, le nom des Tarquins, sur lequel voir DE SIMONE, 1982. 4. OETTINGER, 1979, 155-156 (qui ne distingue pas le présent radical tarah- du dénominatif à suffixe zéro sur la forme à métathèse *truh2-). Formes hittites nombreuses: TISCHLER, HEG, s. uu. tarh- (véritable monographie), tarra-, tarranu-, tarrawa-, tarrawai-, tarhuili-, tarhunalli-, tarhuntiti, tarma-, tarmatar, tarru-, teri-, teriyalla-, teriyanna-. 5. Dénominatif pour BENVENISTE, 1935, 56, qui a raison (contra, LAMBERTERIE, 1990, 395 n. 5). 6. Sur ce type de dénominatif, SCHWYZER, 1959, 723; RIX, 1995. Il y en a bien d’autres exemples, p.ex., de *tn h2-u-, skr. tanuté, gr. tanúo¯ ; et cf. note 79 pour skr. svárati. l 7. Nombreuses formes redoublées de la racine chez MAYRHOFER, EWAia, s.u. TAR (I 629). 8. BADER, 1975 a; CHANTRAINE, 1967, pour l’extension aux thèmes en *-es-. 9. LAMBERTERIE, 1990, § 151-152. 10. WEITENBERG, 1984, 140-141. TERMANN,
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FRANÇOISE BADER
*-un-: hitt. tarhun-alli-, nom de fonctionnaire; skr. táruna-, plante ou animal nou˙ terúne¯ s, âne ou vieillard veau-nés («qui traversent victorieusement» pour naître); gr. «usés»; torúne¯ «cuiller à pot», cf. hitt. tarawar < *trh2-ew-r/n «pot servant de mesure» (où *h2, ayant coloré la voyelle du degré plein suffixal, est tombée comme consonne, cf. karawar/karaun- «corne» < *krh2-ew-r/n, à côté de karhua, phytonyme); nom propre skr. Turvás´a-< *trh2w-n -ko-, à rapprocher comme gaul. Turancus (§ 1.2.1) des noms des Etruscı¯, de Tarkunia, etc., § 7.3; *-uo-: nomin. Turvás, autre nom de Turvása-; *-ut-: lyd. Tarvt-alli-, papponyme (en *-eh2-li-)11, cf. Tarut-ilius, § 4.2.4; *-us-: skr. tárus «victoire», tárusa- «victorieux», etc.; noms propres en Gaule Ta˙ rus-a¯ tes, Tarus-co¯ , Trus-ci-a¯ cus, § 4.2.3; en Italie, Tarusius, § 4.2.4; alors que *tarus- représente le traitement le plus ancien de *trh2-, avec r >ar devant laryngale12, certaines formes reposent sur la forme à métathèse *truh2- comme gaul. Trusci-a¯ cus (cf. E-tru¯ r-ia, § 7.2), ou, de la famille sémantique de trú(w)o¯ , gr. tru¯ sí-bios (estomac) «qui souffre de moyens de subsistance» tru¯ s-a¯´ no¯ r «qui fait souffrir les hommes»; développement d’un présent en *-s-k- dans tru¯´ skei: tru¯´ khei, Hsch., à vrai dire homophone du dérivé nominal *truh2-s-ko-. Comme bien d’autres de la famille, ces formes illustrent le principe très général selon lequel la forme d’un dérivé perdure au-delà des évolutions sémantiques13. 1.1.3. * trh2-i- survit avec le vocalisme ancien dans gaul. tarinca «clou», en *-n -kocomme skr. Turvás´a-, § 1.1.2, et gaul. Turancus, § 1.2.1; autre vocalisation du degré zéro dans le nom à redonblement skr. táturi- «vainqueur»; métathèse en *trih2- dans les formes de la famille de tero¯ du type lat. trı¯-tu¯ ra; démotivée comme adjectif, la forme est élargie par *-gw- dans des formes verbales, lat. trı¯uı¯, gr. trı¯bo¯ «frotter, écraser». Le dérivé a donné le nom de nombre «trois»14, «qui dépasse» la paire de un et deux, *tr(h2)-i-, cf. *tri- en premier membre de composé, etc.; *trey-es a un degré suffixal plein bâti après la chute de la laryngale; celle-ci survit dans hitt. tar(r)iyan-alli- «qui appartient au troisième», teriya- «troisième», bâtis sur *trih2-, forme à métathèse, dont le *-ih2- > hitt. -iy-15 er, de là, *ter-ih2-. 1.2. Les formes à nasale sont d’origines diverses. 1.2.1. Il en est qui appartiennent au même système hétéroclitique que les noms précédents. Les unes sont en *-m... ’type lat. termen, tero¯ , terminus «terme», hitt. et louv. tarma/i- «clou», gr. tórmos «mortaise, trou pour un tenon», etc., avec *-rh2m- > *-rrm- > -rm- et cf. tra¯ ma § 2.4.1. Les autres sont en *-n-, comme gaul. Turancusiy, *ih2>iy- devant voyelle (dont l’allophone antéconsonantique est ¯ı-, cf. lat. ¯ıtur, à côté de hitt. iy-a-ttari [thématique]).
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rentius; théonyme lyc. Trqqñt-16, sous réserve d’en justifier la dorsale, § 2.2; dans le lexique, lat. tarentum17 «tombe»18; skr. tarantá- «mer»; premier membre de skr. tad-, lequel se rád-dvesa- (Indra) «qui vainc ses ennemis», en *-n t-19 plutôt qu’en *-n ˙ trouve dans le nom du Ceruus Tarandus Linné < *trh2-end-o- «qui traverse rapidement», cf. skr. turá- «rapide», et gr. élaphos «cerf» à côté de elaphrós «rapide». 1.2.3. D’autres noms sont des déverbatifs du présent à infixe (cf. gr. te-traín-o¯ , etc., cf. n. 23), mais à infixe suffixalisé, sans anaptyxe (skr. tı¯rná-< *trh2 -no-) ou avec anaptyxe ˙ (type gr. -áno¯ ), comme dans B. tärkanam, § 2.2.1, ces noms témoignant de la vitalité d’un ˙ présent qui n’existe plus comme tel qu’en tokharien: de *trh2-o-ni-, o-no- viennent gaul. Taranu-(cnos), nom du dieu de l’orage comme Taranis, également anthroponyme, et nom de fleuve «Tarn»: skr. taráni- «qui atteint le but, le terme, qui sauve»; su-taraná«(fleuve) bien traversé», turanya-,˙ dénominatif «se hâter», d’où turanyú- «rapide»; et,˙ du ˙ ˙ thème en -u- auquel est transférée cette formation, skr. turván- «victoire», turváni- «qui ˙ l’emporte»; etc. 1.2.4. Les autres formations en nasale ont un suffixe complexe d’appartenance -détermination20, en *-eh2-no-, qui est celui de Tursa¯ noi´ (§ 5.4) de *trh2s-, et de túrannos de *trh2-; le louv.hiér. tarwana-, titre princier21, peut avoir la même formation, à géminée (-nn-< *-h2n-) non notée, ou être du type de skr. turváni-, § 1.2.3. ˙ 2. La racine *trh2- pose deux problèmes phonétiques. 2.1. L’un réside dans les deux traitements du degré zéro, traitement *tar- pandialectal et archaïque, et traitement *tur-, auquel on ne peut attribuer de couleur dialectale précise, mais qui date d’une époque où la laryngale est assez affaiblie pour que le *r qui la précède soit traité comme celui de hitt. gurta- «citadelle», ou de pél. púrgos (§ 5.3). Ces deux traitements sont illustrés, pour *trh2-, par túrannos et tarwana-, § 1.2.4, ou par le nom-racine qui figure au second membre des composés gr. nék-tar22, skr. ap-túr (qui a le vocalisme de turáti < *trh2-e-ti, en regard de hitt. tarah-zi< *trh2-ti). 2.2. L’autre difficulté est posée par l’existence d’un doublet *tark(h)- pour des formes offrant par ailleurs un radical de *trh2-: il faut souligner cet aspect du problème, qui ne constitue en rien une évolution régulière de *h2: 2.2.1. *trh2-e-, forme verbale thématique: skr. tiráti, etc./ skr. atrhá-, aoriste de trmhá-, ci-dessous (même lien morphologique qu’ entre l’aoriste thématique gr. ékamon ˙ et le présent infixé kámno¯ ); tokh. A tarkas, subjonctif, ancien présent; ˙ ¯ , etc./ skr. trmhá- «écraser» (comme trı¯bo¯ ) / *tr-n -h2, présent infixé: gr. te-traíno ˙ ¯ s, s’il vient de *tärkna¯ s23, alors tokh.B tärkanam, à infixe suffixalisé (cf. § 1.2.3), A tärna ˙ ˙ ˙ sans l’anaptyxe du koutchéen; o o *trh2- -ni-, -no-, déverbatifs de ce présent: gaul. Taranis, etc., § 1.2.3/ gr. térkhnos «jeune pousse» (cf. skr. táruna-, § 1.1.2), térkhnea: entáphia, sans anaptyxe, ce dernier de la famille sémantique de˙ tarkhúo¯ , comme, avec anaptyxe, tarkhánion: entáphion; térkhanon: pénthos, kêdos; *trh2-o-: gaul. -taros, skr. turá- / gr. epítarkhon: epitáphion; skr. s´ata-tárham «broyé cent fois»; 16. Comme louv. Tarhund-, hitt. Tarhunna-, gaul. Taranis, le lyc. Trqqñt- est un nom du dieu de l’orage de *trh2-, désigné métonyquement par la foudre qui «traverse» le ciel: BADER, 1999 c. 17. VETTER, 1958; WATKINS, 1995. 18. Je laisse ici de côté les lu¯ dı¯ tarentı¯nı¯, sur lesquels voir FRAZER, 1929, t. II, 191-200; WATKINS, 1995; SCHEID, 1997. 19. BADER, 1975 b. 20. BADER, 1988. 21. LAROCHE, 1960, no 371, p. 197-198; bibliographie chez TISCHLER, 1991, s.u. tarh-, 161, sur le rapprochement de louv.tarwana- gr. túrannos, étr. turan. 22. SCHMITT, 1967, 186-192. 23. SCHMIDT, 1988. On pourrait se demander si la forme de l’agni n’est pas comparable au hitt. tarna-; ce dernier a chance d’avoir un infixe suffixalisé (sans anaptyxe), *trh2-no- (*-arh- > -arr- > -ar-), car dans la forme infixée ancienne, c’est la nasale qui est voyelle, *trn h2-, cf. gr. (te-)traíno¯ 1.1.
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FRANÇOISE BADER
*trh2-ent-: hitt. tarhant-, etc., § 1.2.2 / lyc. Trqqñt-24, cf. étr. tarxnt-, § 4.2.4; *trh2-i-: gaul. tari-nca, etc., § 1.3 / tárı¯khos25 «momie, poisson séché»26, avec trois traces du *h2 de la forme à métathèse *trih2-: vocalisation *ar de *r comme dans l’ancienne forme sans métathèse, cf. hitt. taruhh-; -ı¯-, de la forme à métathèse *-ih2- devant consonne; -kh- substitut antévocalique de *h2; la seconde de ces marques a disparu de trikhôsai: thápsai Hsch. (comme de gr. trúo¯ , cf. III plur. trúousi en regard de hitt. taruhhanzi); *trh2-u-: § 1.1.2 / formes en -kh-, dans deux familles grecques distinctes par la forme et le sens: avec vocalisme ancien, tarkhúo¯ «rendre victorieux de la mort» (par un monument funéraire oeuvrant pour le non-oubli des générations à venir, l’éventuelle survie de l’âme, l’embaumement du corps, comme le montrent les trois exemples homériques du terme27), dénominatif-factitif d’adjectif du type hitt. newahh-, en *-h2-28; et tru´¯ kho¯ , doublet de trúwo¯ «user» (dénominatif *truh2-e/o-, à suffixe zéro), avec deux traces du *h2, le u¯ antéconsonantique et kh, occlusive substituée à l’intervocalique à la spirante laryngale. Du même *truh2-, avec la même substitution, relèvent aussi lat. trux «cruel»29 et, passif, «mis à mort» dans tru(ci)-cı¯do¯ , cf. v. irl. trú, gén. troich «voué à la mort»30; lett. trúkt, lit. trúkstu, trúkti «se déchirer en deux», lit. tru^ kìs «déchiré»; lit. trunkù «laisser échapper», lat. truncus s’expliquent soit par un transfert de l’ancien présent infixé sur le nouveau rako-, § 1.1.1. dical *tru-n-k-, soit par la formation de skr. Turvás´a- < *trh2w-n 2.2.2. Ce doublet *tark(h)- de *trh2- pourrait s’interpréter par une forme élargie31. Il est plus vraisemblable d’y voir une forme où la laryngale a cédé la place à l’occlusive, sans quoi on ne s’expliquerait pas qu’il n’existe que devant voyelle, comme pour revigorer un ancien groupe *h2 + voyelle (venant ou non d’une sonante *u ou *i) et entraver la métathése. On connaît des exemples de groupes en consonne +h2 où l’action de cette dernière, spirante sourde aspirée, aspire le phonème précédent, s’il est déjà sourd, et, de plus, l’assourdit s’il est sonore: *-th2- (*-th2e, désinence de II sg. moyenne) > -th- (skr., gr. -tha) > -t- (hitt. -tta, a¯ *th>t / -tti conjugaison en -hi), lat. -tı¯; etc.; *-kwh2- (*sokw-h2i-(o)- «compagnon»)> skr. sákhi, lat. socius32; *-gh2- (*m(e)g-h2i- «grand») > -kh- (gr. Akhi(leús), Akhaioí) > h skr. máhi- / -k- (hitt. mekki-, a¯ kh>k /; got. mikils33. r-h3kwo- est un composé à -ro¯ -< *-rh3-; à second membre nom de Gr. ánthro¯ pos < *h2n l’«oeil, visage», grammaticalisé en fonction d’indice taxinomique («de la classe des hom24. MELCHERT, 1994, 282, 283, 285, 300, 306, 309, 310, 320, 323, 328 (mais pour HAJNAL, 1995, 175, Trqqñti h-, les deux noms codant la mort comme «rapt (métophore développeé dans le mythe de Perséphone)». 28. BENVENISTE, 1962, 21-24. 29. ERNOUT-MEILLET, s.u. 30. L.E.I.A., s.u. 31. Ainsi, ADAMS pour tokh. B tärk-. 32. BADER, 1999 b, 374-376; le -c- de socius, au lieu de *sequius, témoigne ainsi de la laryngale; cependant, LEUMANN, 1977, 172, pose ici *-kwy- > -ci-. 33. BADER, 1999 b, 355-356; dans *meg-h2, le *-h2 est suffixal, comme le *-h2i- de *meg-h2i-, d’où, sans *-kh-, megal-, megaíro¯ , etc.: cf. HAMP, 1994.
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mes»); à premier membre nom de l’«homme» où le -th- d’épenthèse est dû à l’action de - y est comparable à celui de *sn-34 (à ceci près que *n > an au *h2-: le traitement de *h2n contact de *h2)35: assourdissement de la nasale au contact de *h2 sourd, et report du trait aspiré de cette dernière, d’où le -th- d’épenthèse; celle-ci est d dans la flexion, type -r-, par nivellement sur les caforts, où la prothèse de *oh2ner- entraîne andr-ós, de *h2n une syllabation a ner, laissant intacte la nasale, sonore et non aspirée. Comparables à ceux de *megh2-, les produits de *trh2- ont dû connaître les mêmes évolutions phonétiques: passage de la spirante sourde aspirée *h2 à l’occlusive *kh, d’abord conservée en grec et sanskrit, avant d’y redevenir spirante, à en juger par les graphies en khi et h, spirantes sourdes aspirées (notant par ailleurs le produit des anciennes sonores aspirées), et conservée comme occlusive ailleurs, mais désaspirée, *k, par neutralisation de l’opposition *-kh-/-k-, au profit du second phonème, de rendement phonologique supérieur. En tout état de cause, *tark(h)- à côté de *trh2- ne résulte pas du traitement régulier d’un groupe: son occlusive, du point d’articulation le plus proche de la laryngale, vient d’une résistance morphonologique à l’amuïssement de *h2, plus apte que la métathèse à entraver la démotivation des dérivés. On pourrait trouver à cela des exemples dans la famille, parallèle, de *krh2- «donner des coups»36. Indiquons seulement ici que le substitut occlusif s’est morphologisé dans le doublet tru¯´ kho¯ de trú(w)o¯ , et dans le type gr. ne¯´ kho¯ 37. 3. La racine *trh2- a connu bien des évolutions sémantiques qu’il nous faut indiquer avant de passer à l’onomastique: des techniques («tarière»: gr. téretron, lat. terebra, v.irl. tarathar; «clou», «tenon»: hitt.louv. tarma/i-, gr. tórmos, gaul. tarinca; etc. voir § 4.1., qui impliquent fait de tourner, usure, frottement, sont issues les notions contenues dans gr. tórnos «tour, compas de charpentier, mouvement circulaire», lat. tero¯ , v.sl. tryti, gr. trú(w)o¯ , trı¯bo¯ , lit. trinù «user, frotter, écraser», tru¯ niù «se corrompre, s’affaiblir»; etc. Quant à la «victoire», qui entraîne la «puissance», elle est à l’origine celle qui est remportée sur les dangers de la «traversée», notamment des eaux38: «puissions-nous par des voies aisées traverser (tarema) tous les points difficiles, trouver aujourd’hui même un gué vers le large», R.V. 10.113.10 (trad. Renou)39; cette «traversée des eaux» fait partie de la «traversée» migratoire des Tyrrhènes et de Turvás´a-, § 7.4. La diathèse factitive «faire traverser» peut rendre compte du sens «sauver» de skr. tra¯ ti, etc., et de celui de «laisser, permettre», de hitt. tarna-. Réussie, une traversée mène à un «terme» (lat. termen, etc.); mais en cas d’échec, on «abandonne», d’où tokh. AB tärk- «congédier» (en même temps «mettre un terme à»). 4. Des noms propres se dégagent divers sèmes, qui aboutissent à une reconstruction culturelle propre, essentiellement, à la «victoire» sur les dangers de la «traversée» migratoire, au cours de laquelle il faut affronter les gués de fleuves aussi redoutables que le Rhône auquel Tarascon p. ex. doit son nom (cf. § 7.2 pour Tarusco¯ ); cette «victoire» d’une «traversée» migratoire menée à son «terme» donne une «puissance» matérialisée par la construction de citadelles, souvent établies au bord de fleuves, comme la lydienne Tursa (§ 5.4) au bord du Cydnos, ou comme Troie auprès de laquelle coulent Scamandre et Simoïs. 4.1. Formellement les noms de Troie, Troía, et des Troyens, Trôes, sont à mettre en 34. LEJEUNE, 1972, 119-120. 35. Traitement de *n > an après laryngale comme avant: BADER, 2001 b. 36. BADER, 1998 a; exemples comparables: karkhe¯´ sia: tà kérata; kérkhana: tà ostéa; kárkhai: karkínoi kaì kókhloi: Sikeloí; etc. 37. CHANTRAINE, 1958, 230-231. 38. Nombreux hydronymes, laissés ici de côté: voir p. ex. HOLDER, 1904; KRAHE, 1925; 1955. 39. RENOU, 1955, 13.
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rapport avec des termes techniques, troía: he¯ króke¯ , «tra¯ ma» (*trh2-ma¯ , à côté de hitt. tarma-/i-, etc. § 1.2.1) «traversée» par le «fil», trôa: harpedóne¯ «qui (la) traverse» grâce à la navette: *troh2-ya (*-h2y->-yy-), et *troh2-s-40 (radical probablement sigmatique, cf. *trh2-s- dans Túrsa, Tuscı¯). Sémantiquement, le nom de Troie proclame la «victoire» sur les difficultés de la «traversée» (migratoire), et la «puissance» de l’établissement choisi, au «terme» des errances, pour son acropole naturelle (Ilion aipeine´¯ n, Il., 15.558, etc.), ensuite fortifiée par une citadelle (púrgos, 8.386, etc.) et des murailles (teíkhea, 20.295), protégeant une terre de culture (eribôlax, 6.315, etc.), fertilisée par le limon et l’eau des fleuves; ces deux composantes expliquent les deux noms de Troie, la «Victorieuse» assurant sa «puissance» par une citadelle munie de «tours», et d’Ilion, la «prairie»41. 4.2. Ne m’arrêtant pas systématiquement aux toponymes et ethniques, cités plus loin seulement en raison de leurs liens étymologiques avec les noms des Tyrsènes et Tuscı¯ (Tursa; § 5.4), et des Etruscı¯ (Tarusco¯ , Trusci-a¯ cus, § 7.2), je donnerai maintenant un échantillonnage d’anthroponymes de la périphérie i.e. 4.2.1. Aux skr. Tarantá- (*trh2-ent-o-), av. Taurvi- (*trh2-ui-), etc., on ajoutera skr. -ko-), particulièrement intéTurvá- (*trh2-u-o-), Tárya- (*trh2-yo-), Turvá-s´a- (*trh2wn ressant pour l’héritage anthroponymique et éponymique commun à ce dernier et à ses correspondants étrusques, § 7.3. 4.2.2. Le hittite a des noms théophores42, composés (Tarhunda-ziti-, -radu-, pija-, etc.) ou dérivés (Tarhunt-issa-, en *-ih2-so-, cf. La¯ rissa); et des noms faits sur *trh2-un- (Tarhun-zili-, -azi-, etc.), *trh2-u- (Tarhu-lara-, -mina-, etc.). Conservant la laryngale consonne, le hittite n’en a pas de substitut. Il n’en va pas de même pour les anthroponymes de la côte sud de l’Asie mineure (Lycie, Pamphylie, Pisidie, Lycaonie, Isaurie, Cilicie), anciennement de langue louvite, tels qu’ils sont transmis par les sources grecques et romaines de l’époque hellénistique43: ne retenons ici que les doublets de Tarhunt- à vocalismes divers (Tarkond-a¯ s, Tarcond-a¯ rius, nom d’un chef galate, Cés., B.C. 3.4.4; Tarkonde¯ mos en Cilicie supérieure, Plut., Anton. 61; Trakond-, Trokond-, Terkand-a¯ s, etc.), et, pour nous rapprocher de l’Italie, le Tárko¯ n emmené par Tyrrhénos de Lydie en Etrurie (Strab., 5.219), à prendre en compte selon Zgusta (1512-17), et doublet occlusif de Taro¯ n, comme Tarkuti, datif de Tarkus ou de Tarkutis (Zgusta, 1512-16), l’est de Tarut- (lyd. tarvtalli-, § 1.1.2); et Tarkunnis, masc., Zgusta, 1512-15 de hitt. Tarhunna- [théonyme]; etc. 4.2.3. Le gaulois offre une situation difficile, non par ses noms en -taros (Brogi-, etc.), mais par ceux en Tarv-: ils peuvent reposer sur le nom du «taureau» tarvos, non sur *trh2-u-44. Cependant, ce dernier, élargi en *trh2u-s-, apparaît dans des noms, Tarusco¯ et Trusci-, qui forment avec E-truscı¯ une isoglosse gallo-étrusque, § 7.2. 4.2.4. En Italie45, on peut dégager des doublets de gentilices en
40. Même forme dans gr. ti-tro¯´ sko¯ á côté de traûma i (comme dans mye. dipa, cf. dépas), et *welnudans hitt. wellu-, v. isl. voı llr «prairie», gr. Elúsion pedíon (PUHVEL, 1958). Toutes proportions gardées, le doublet Ilion / Troie est comparable, par la complémentarité des deux noms, à l’Argos du Péloponnèse, compris comme «Plaine» par les Anciens, et à sa Citadelle Larissa. SHEVOROSHKIN, 1982, interprète Troia par un *tr-eu-s- «gedeihen». 42. LAROCHE, 1941, 89; 1952, 49; 59; 78. 43. ZGUSTA, 1954; HOUWINK TEN CATE, 1955, 117; 119; 125-128; 202; 232-233. 44. A tort, ELLIS EVANS, 1957, 251-252, mêle -taro- (cf. SCHMIDT, 1957, 275-276) et tarvo-. 45. SCHULZE, 1904; SOLIN-SALOMIES, 1994.
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*trh2-: *trh2-i-: *trh2-u-:
TarTarius Tari-cus, -cius, -dius Taru(l)lius
*trh2-ui-: *trh2-unt*trh2-ut*trh2-o¯ n*trh2-n*trh2-ent*trh2-s-
Tarrunten-us, -ius Ta(r)rutius Tarutilius Ta(r)ro¯ nius Tarn-a, -idius Tarentius
TarcTarcius Tarcu-nius, Tarqu-enna, -etius, -ius Tarqui-lius, -tus, -tius
39 Tur(c)Tu(r)rius Turcius
-nius,
Tarcutius Tark(h)o¯ n, Tarc-o¯ nius, -ontius
Turvilius Turuntius Turutius Turro¯ nius Turnus Tursi-us, -dius, -nius, Turselius
Certains de ces noms latins d’origine étrusque46 peuvent être rapprochés des formes anatoliennes: Tarrunte¯ nus de louv. Tarhunt-; Tarquilius de hitt. tarhuili-; Tarutı¯lius de lyd. tarvtalli-; mais aussi indo-iraniennes: cf. Turvilius et av. Taurvi-, ainsi que Tarkunios et skr. Turvás´a-, § 7.3. J’ai pris en compte les deux vocalisations préhistoriques de *trh2-, en tar-, pandialectal, et tur- (cf. § 2.1), et les deux formes en nasale de ces deux vocalismes, Tarna, Turnus, dont les formations ne sont pas nécessairement identiques, -na pouvant être un morphème étrusque. L’étrusque47 a tarxas´, tarxelnas, tarxvetenas; tarxi, tarxia, tarxis, tarxis´ tarxisa, tarxisla; tarx-na, -nai, -nal, -nalui, -nas, -niei, -nis´; tarxnt-es´, -ias´; tarxu, tarxumenaia48; tarxun-ies, -us; tarcnei; tarcs-nei, -te. Des -kh- et -k- de ces formes, le premier peut être un archaïsme onomastique (cf. gr. Akhileús, mais Mégillos) à spirante sourde aspirée *kh substitut de *h2; et -k- peut être dû à une influence du latin où *-kh- > -k- § 2.2.2. Ces noms ont en tout cas, sans aucun doute, une origine i. e. Je vais essayer de déterminer deux strates héritées par les Pélasges d’Italie49, l’une proprement pélasge, l’autre indo-européenne, de manière à vrai dire surprenante: l’héritage concerne non seulement la forme des noms, mais leur caractère de noms de conquérants i.e., aptes à devenir les éponymes de groupes qui ont migré. 5. Les Etrusques ont des composantes pélasges. 5.1. L’étymologie moderne du nom des Pélasgoí «Migrants» par *plh2- «se déployer dans l’espace50» (qui suffit à faire d’eux des hommes de langue i.e. s’ils se sont donné ce nom à eux-mêmes) est confortée par l’emploi, dans les textes relatifs à ces hommes, de quatre formes en rapport étymologique avec leur nom: thème de présent infixé et ses déverbatifs (eplane´¯ the¯ san, D.H. 1.24.3: pláne¯ , 28.4; polú-planon, 1.17.1.); nom de l’un des oiseaux migrateurs de cette racine, non pas peleiás comme la «colombe» qui conduisit des 46. Cf. DE SIMONE, 1989a. 47. Formes prises dans le T.L.E. 48. Cf. DE SIMONE, 1989b. 49. Etudes fondamentales de BRIQUEL, 1984, 1993, 1997, sur l’historiographie ancienne concernant l’origine des Etrusques, pélasge, lydienne, ou autochthone. 50. BADER, 1999a, 22-28; 1994, 68-72.
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Pélasges á Dodone, mais pelargoí «cigognes51» (28.4), par un vieux procédé consistant à changer un nom par la substitution d’une seule consonne52, destiné ici à transformer un ethnique non grec en un ethnique fondé sur une forme du lexique grec, adaptée aux migrations des Pélasges en Grèce (cf. le teîkhos pelargikón d’Athènes, § 5.2, etc.), ce qui constitue l’un des témoignages de la réalité de ces dernières; mention du Péloponnèse (D.H. 1.17.2), «île de Pél-ops», «de la classe(-ops) des Migrants (*pel-); emploi pour la mer, voie de leur migration vers l’Italie (D.H. 1.18.2-3), de pélagos (Str. 5.219), nom de la «mer» conçue comme lieu d’errance (cf. planáomai) ou «se déploie» la migration. 5.2. La voie maritime de leur migration est un trait qui s’ajoute à ceux que nous apprend Homère pour l’ethnologie des Pélasges53, de Troade, puis de Dodone; ceux de Dodone (Il., 16.233-235) nous sont décrits pour leurs habitudes religieuses (adoration de Zeus, confrérie de prêtres «aux pieds non lavés»), et pour leur changement de nom, de Pélasges en Selloí, parallèle à celui de Pélasges en Tyrrhènes (§ 6.1); auparavant, le catalogue d’Il. 2.40-43 les décrit dans leur économie et écologie -ce sont des agriculteurs établis dans des plaines fertiles, qu’ils défendent en choisissant pour s’y établir des lieux munis d’acropoles naturelles que, guerriers et constructeurs, ils munissent de fortifications-, et leur organisation politique, fédérative (phûla Pelasgôn). En un texte si court, nombre de ces traits sont codés par les noms propres, au nombre de neuf: l’ethnique Pelasgós, deux fois; deux mentions guerrières, l’une par la qualification, qui contient un théonyme, ózos Are¯ os, du seul des quatre anthroponymes, Hippóthoos, deux fois; trois autres noms d’hommes: l’un, Lêthos, renvoie à une énigme orphico-pytagoricienne54; des deux autres, celui de l’aïeul, Teutamíde¯ s, est dérivé de la *teuta¯ «totalité politique» (glosée dans le texte par phûla Pelasgôn), et celui de Púlaios appartient au vocabulaire de la construction, par les «Portes» (púlai) qui sont celles de la «Citadelle», dont le nom est le toponyme La¯´rissa55. Il est notable que les deux noms du catalogue qui, avec Pelasgós, sont proprement pélasges, Teutamíde¯ s et La¯´ rissa, se retrouvent pour les Pélasges d’Italie. Cela suffirait à faire des Tyrrhènes des Pélasges, s’il n’y avait, en outre, des traits ethnologiques communs aux premiers et aux Pélasges d’Homère: outre le changement de nom (§ 6.1) et le culte qu’implique le nom de Tin (§ 7.1), les Pélasges d’Italie, comme ceux du catalogue, sont aussi des agriculteurs et des guerriers (D.H. 1.17.3; 25.1), ainsi que des politiques et des constructeurs. Organisateurs politiques, ils fondèrent une confédération qui prend en Italie la forme d’une dodécapole (Str. 5.219; etc.); et de ce trait ils tirent peut-être leur nom étrusque de Rasenna, dérivé d’une sorte de calque étrusque de re¯ s publica56, et peut-être, au-delà, de la *teuta¯ pélasge, tandis que l’un de leurs ancêtres, descendant à la quatrième génération de leur éponyme Pélasgos, est un Teutamíde¯ s (D.H. 1.28.3), nom i.e. auquel correspond peut-être ce Rasenna. Teutamíde¯ s, à nom pélasge, a un fils de nom anatolien, Nanas, sous le règne duquel les Pélasges furent chassés de leur pays, les Grecs traversèrent l’Adriatique et prirent Crotone (Hellanikos, ap. D.H. 1.28.2), et qui porte un nom anatolien (Nanas en Carie, Lydie, Phrygie, Pisidie, Isaurie, Zgusta 1013-10, et cf. Nanos, etc., Zgusta 1013-1 à 45: «eine grosse Sippe von Lallnamen», p. 354, mais plutôt tiré de louv. nani-, lyc. ne^ ni- «frëre»57). Quant à leurs aptitudes de bâtisseurs (qu’ils lègueront aux Romains, comme eux, de plus, grands organisateurs politi51. *Pel(ag)-argoi: BADER, 1994, 67; autres étymologies chez KACZOR-WITCZAK 1991. 52. Ainsi, les noms des dieux de l’orage, en *Trh2-, *Per-h2-, *Ker-h2-; des Pléiades, de *plh2- et, *plhl-; de la source Télphousa et Délphousa; de Pénélope et des «tadornes», khe¯´ nelop-; de la «mandragore», dirkaía et kirkaía; etc.: BADER, 1999c. Pour une raison qui m’échappe, jeu semblable pour tarentum (§ 1.2.2), tombe d’Acca Larentia (à radical La¯ rhomophone de celui de La¯´ rissa, non des La˘ re¯ s: Lar- ‘‘pierre’’??). 53. BADER, 1999a, 19-20. 54. BADER, 1998b. 55. BADER, 1990b. 56. RIX, 1984; DE SIMONE, 1985. 57. HOUWINK TEN CATE, 1965, 142-145; 154-155; 227; 235-236.
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ques, elles transparaissent dans deux faits: les Pélas´ges sont réputés avoir construit à Athènes «le mur pélargique», tò teîkhos... tò Pelargikòn kaloúmenon (D.H. 1.28.4), qui entoure l’acropole; et des toponymes liés aux Pélasges d’Italie ont le sens «Citadelle». 5.3. En voici d’abord trois: l’un pélasge, La¯ rissa (D.H., 1.21.3-4); un autre, i.e. de phonétique pélasge, Pyrgı¯, cf. gr. púrgos < *bhrgh- «haut»; le nom du port de Caere peut être un toponyme importé de Grèce58: il y a deux Pyrgoi en Triphylie (Hdt., 4.148; Strab., 8.348; etc.), donc à l’Ouest du Péloponnèse, d’où viennent les Pélasges selon D.H. 1.17.1; le troisième est Crotone (D.H., 1.20.3), d’une couche lìnguistique i.e. non identifiée (cf. hitt. gurta- «acropole», à traitement ur de *r non hittite, et qui est celui de pél. púrgos entre autres), et les toponymes Gurto´¯ n (en Thessalie, qui a connu un peuplement pélasge), Górtun, Górtus (Crète, Arcadie), Gordion (Phrygie), etc.59. Curtun, nom étrusque de Cortone, a un C-, peut-être étrusque, cette langue ne distinguant pas les sourdes et les sonores (mais cf. Kórtus, Hsch.). 5.4. Un quatrième nom du vocabulaire de la construction peut être celui des Turse¯ noí, si, avec les Anciens, on en fait un «peuple des tours», cf. gr. túrsis «citadelle, tour», lat. turris (D.H. 1.28.2; etc.)60. Les faits sont en réalité plus complexes: tursis (*trh2s-i-) peut être rapproché, dans le contexte culturel de Troie (§ 4.1), du nom de la ville lydienne Tursa/Turra (*trh2s+a), où Gygès prit le titre de túrannos (Et.M. 771.55), apparenté (*trh2- suffixé en *-eh2-no-, § 1.2.4). Ces connexions étymologiques font de Tursa une «Citadelle» siège d’une «puissance» qui est celle de la «tyrannie», objet de la «traversée victorieuse» de Gygès, venu de Bithynie (note 7 de Legrand à Hdt. 1.8) pour s’emparer du pouvoir en Lydie après avoir assassiné Candaule. Ces divers sèmes d’une «traversée victorieuse» menée à son «terme» (un établissement qui est une «Citadelle») s’unissent dans le nom des Tyrse¯ noí (ionien)61, dont la traversée spécifique est celle de Peuples de la Mer (§ 6.4); avec la formation de túrannos, leur nom a le radical de Tursa, túrsis, qui repose sur le dérivé sigmatique (§ 1.1.1), comme ceux des Tuscı¯ (§ 7.2), Trôes (avec un autre vocalisme: *troh2-s-, § 4.1), et peut-être de Tarse en Cilicie (avec une autre vocalisation). 6. Echangé contre celui des Pélasges, le nom des Tyrsènes nous fait passer de l’onomastique pélasge des Etrusques à leurs noms d’exploit, qui sont ceux de conquérants i.e. 6.1. Pour ce changement de nom, Denys cite les avis de Myrsilos (1.23.4), de Thucydide, Sophocle (25.3-4), Hellanicos (28.3), de lui-même (29.1-4). Retenons celui d’Hellanicos: «les Tyrrhéniens étaient auparavant appelés Pélasges ... c’est quand ils s’installèrent en Italie qu’ils reçurent le nom qu’ils portent actuellement» (trad. Fromentin). On peut être Picard, Français et Européen ou, comme les hommes d’Achille (Il. 2.684, Murmidónes dè kaleûnto kaì Hélle¯ nes kaí Akhaioí), avoir un nom spécifique «Fourmilière», substitut, dans la Phthie qui a été pélasge, de la *teuta¯ (cf. Teutamíde¯ s, § 5.2), «totalité politique», cf. lat. to¯ tus, et deux noms de confédérés; l’un politique, Hélle¯ nes, dérivé en -n d’un hélla¯ collectif, comme *teuta¯ , et répondant sémantiquement à ce dernier, puisqu’il vient de la lexicalisation pronominale d’un *sel-no-, cf. osq. sollus «tout»; l’autre guerrier, Maha¯ bha¯ rata62. Pour les Pélasges, le cas est différent du fait qu’on ne peut plus s’appeler «Migrant» une fois qu’on s’est fixé. Le nouveau nom peut avoir des motivations diverses: elle est politique dans le cas des Pélasges établis à Dodone, et qui ont pris 58. Pour BRIQUEL, 1997, 201-211, toponyme fait sur l’appellatif. 59. TISCHLER, 1983, s.u. gurta-; HEUBECK, 1961, 58-63. 60. BRIQUEL, 1997, 192-201 (avec discussion bibliographique); et voir HEUBECK, 1959, 63-64, pour túrsis, Túrra/Túrsa, Turse¯ noí, Tuscı¯, Etruscı¯. 61. Tursa¯ noí, Et.M. 525.40; Turse¯ noí, Hés., Thg. 1016; etc.; Turre¯ noí, Thc. 4.109; Tarse¯ noí, Aél., n.h. 1.20, avec le phonétisme ici proposé pour Tarsós, et qui est celui du lac Trasiméne, Tarsiméne¯ límne¯ , Ptol. 2. 16. 5; etc. 62. BADER, 1999b, 356-360.
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le nom de Selloí (Il., 15.233-234), forme pélasge par son s- non grec apparentée au nom des Hellènes; mais en s’appelant Tyrsènes, les Pélasges d’Italie et de Lemnos63 ont pris un nom d’exploit, celui de la «victoire» sur les difficultés de la «traversée» particulière qu’ont constituée les expéditions des Peuples de la Mer (§ 6.4). Au contraire, les Vénètes ont conservé leur nom, de «désir de conquête»64, en le faisant suivre de leur lieu d’établissement: Vènètes de Paphlagonie, Il. 2.851-852, ou d’Adriatique, Hdt. 5.9. 6.2. Ceux des Pélasges que les Grecs appellent Turse¯ noí se nomment en latin Tuscı¯, Etruscı¯. Je vais essayer de montrer que ces noms, qui remontent au moins au milieu de la seconde moitié du second millénaire (§ 6.4), sont des noms de conquérants i.e., non seulement par leur nature de noms d’exploit, mais surtout par la comparaison du mythe de l’indien Turvás´a, éponyme d’une tribu aryenne (§ 7.4). Mais une remarque préalable s’impose. Doit-on en effet considérer que ces noms sont des emprunts parce que la langue étrusque n’est pas i.e.? ou tirer d’eux la conclusion qu’elle l’est? L’une et l’autre hypothèse, à rejeter, font bon marché de la résistance de l’onomastique aux changements de culture dûs à des migrations. Au cours de ces dernières, les Pélasges ont continué à appeler leurs villes La´¯ rissa, comme les Vénètes ont nommé les leurs Wenéte´¯ en Paphlagonie, Venise en Adriatique, Vannes en Armorique, Gwynedd en Galles, etc., par une tradition onomastique sans lien avec la langue plus ou moins anatolienne, italique, celtique qu’ils parlèrent. Les habitants d’Ithaque, près de Cornell University, ne parlent pas la langue d’Ulysse. De mes deux prénoms, Françoise Sarah, le premier, par hasard, coïncide avec la langue que je parle, le français; le second vient d’une tradition culturelle familiale, sans que je connaisse autre chose de la langue du texte qui nomme mon éponyme, l’épouse d’Abraham, que ses noms propres, anthroponymes, théonyme, toponymes, ethniques. 6.3. L’onomastique des Pélasges, elle, témoigne de la diversité des couches linguistiques qu’ils ont amassées au cours de leurs voyages, diversité qu’on qualifiera d’abord de géographique. Chez Homère, on les trouve en deux endroits de Troade, en un lieu non nommé (parce qu’il s’agit d’un catalogue d’ethniques) en Il., 10.429, et dans la La¯ rissa de ce qui est proprement le catalogue pélasge (§ 5.2). De Troade, certains ont pu aller en Lydie, comme l’indique Hérodote, sans qu’on puisse raisonnablement tirer argument du lien étymologique qui relie leur nom à celui de la ville lydienne Tursa (§ 5.4), dont, a priori, Turse¯ noí pourrait être un ethnique. Les mêmes, ou d’autres, ont gardé de leurs errances en Asie mineure des noms comme Nanas (fils d’un Teutamide¯ s homonyme de celui du catalogue homérique, § 5.2), Tarko¯ n, Tarkunnis (§ 4.2), puis traversé la mer, entre autres vers la Crète (Od., 19.177), et la Grèce (Hdt., 1.57), vers l’Attique où ils prirent le nom grec de Pélarges (§ 5.1) -encore un changement de nom des Pélasges-, la Phthie, la Thessalie, Dodone, ainsi que le Péloponnèse (entre autres l’Arcadie: Hés., frg. 150, 161, M.W.), de l’ouest duquel certains d’entre eux continuèrent leur voyage, emportant près de Caere; comme en souvenir, le nom de Pyrgi, par deux fois attesté en Triphylie. 6.4. L’histoire, elle, permet de préciser les conditions dans lesquelles des «Migrants» ont pris leurs noms d’exploit: la «traversée» qui leur vaut de s’appeler Tyrsènes, Tuscı¯, Etruscı¯, est celle des «Peuples de la Mer»: parmi eux figurent des Teresh et Taruisha, qu’on a reliés aux Tyrsènes et Etrusques65 et dont nous rapprocherons les noms, en *trh2-s- et *trh2-ui-s-, de ceux des Tuscı¯, Etruscı¯ (§ 7.2). La participation de leurs bandes (cf. agélas, D.H. 1.28.4) aux expéditions de ces peuples (pirates, comme ils continuèrent à 63. DE SIMONE, 1995; 1996. 64. BADER, 1994, 68-72. 65. SANDARS, 1978, 111-112 (et 200) pour cette association; les Teresh attaquent l’Egypte, sont faits prisonniers, et enrôlés dans l’armée égyptienne pour combatre ceux qui furent leurs alliés, en particulier les Libyens (pp. 158, 114, 119, 106, 157); les Taruisha (Ta-ru(u)-i-sa) sont nommés dans un texte hittite de l’époque de Tudhaliya IV [1250-1230] près de la Troade ou de ce qui sera plus tard la Lydie (on en discute); Teresh et Taruisha agissent de concert (163).
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l’être), jette une lueur sur leur langue: au contact de langues de diverses origines, l’étrusque a pu devenir une sorte de créole ou de pidgin66, gardant des composantes i.e., au moins dans sa typologie67, et son onomastique. 7. L’onomastique étrusque a divers éléments i.e. 7.1. Aux toponymes de sens «Citadelle» (§ 5.3), dont l’un, La¯ rissa, est proprement pélasge, avec une formation i.e. (*-ih2-sa), on ajoutera d’abord deux théonymes, Turan et Tin. Turan «Aphrodite» est la «puissante»68, par calque étrusque d’épithètes fonctionnelles de la déesse, basíleia Emp., déspoina Eur., despótis A.P., pótna Ther., etc., un calque apparenté à túrannos, et finalement au nom des Tyrrhènes (§ 5.4). Tin69, lui, est le nom du dieu invoqué à Dodone avec son nom grec, Zeus, auquel est apparenté le nom étrusque70, avec assourdissement du *d- des termes i.e. apparentés: lat. (nu¯ n-, peren-)dinus, skr. (puru-, etc.) -dína-, sl. di˘n «jour» etc. Quant aux anthroponymes, on laissera de côté la souche de Man-ius, Manilius, etc.: on ne peut montrer qu’elle est apparentée à lyd. mane-, maneli-71, etc., ni que l’un ou l’autre le soient au nom de l’«homme», skr. mánu-, etc. (cf. Manu-sius en Italie). Mais analysons pour finir les ethniques, et anthroponymes apparentés, des Pélasges d’Italie. 7.2. Des ethniques, qui ont des antécédents dans les noms des Peuples de la Mer du -XIIIème s. (§ 6.4), sont, comme eux, bâtis sur deux radicaux: *trh2-s-> Tursa¯ noí (cf. Tursa, etc., pour le radical, § 5.4, túrannos pour le suffixe, § 1.2.4), et Tuscı¯, ombr. TURSKUM, de *trh2-s-ko-, cf., sans *-ko- Taresh; *trh2-u-s-> E-truscı¯, cf. Taruisha-, de *trh2ui-s-, sans le *-ko- ni la métathèse en *truh2-s-ko- de Etruscı¯, métathèse assurée par le u¯ de Etru¯ ria. Le E- est une voyelle de prothèse ou le préverbe *e/o, cf., de la racine, gr.o-tru¯´ no¯ «pousser à, exciter» (même formation dans lit. tru¯ niù «s’affaiblir») et skr. a¯ tar- «traverser, vaincre». Mais le plus important ici est l’isoglosse gallo-étrusque: le gaulois a, avec le phonétisme ancien de skr. tárus, etc. (§ 1.1.1), un ethnique Tarusates, peuple d’Aquitaine, sans *-ko-, et avec *-ko-, Tarusco¯ «Tarascon»; et avec le phonétisme de Etruscı¯, Trusci-a¯ cus (auj. Drugeac, dép. du Cantal)72. 7.3. Pour les anthroponymes, on commencera par comparer aux ethniques étrusques les anthroponymes skr. Turvás´á- (§ 1.1.2), gaul. Turancus (§ 1.2.1), tous bâtis sur des dérivés à formes étudiées, en *-u-s-, *-u-n- (§ 1.1.2), *-s- (§ 1.1.1), *-n- (§ 1.2.1), avec adjonction de *-ko-: *trh2-s-ko-> Tuscı¯ (cf. Turse¯ noí) (Ta*trh2-u-s-ko-> Etruscı¯ rusco¯ , Trusci-) -ko-> Turvás´á-ko-> Turancus. *trh2-w-n *trh2-n En Turvás´á-, Turancus s’unissent les deux formations dissociées en étrusque entre les ethniques, en *-ko-, et les anthroponymes, en *-n- (et dont certains ont le substitut occlusif de *-h2-, § 2.2): *trh2-n-> Turnus/*trh2-o¯ n> Tarkho¯ n (suffixe alternant -n-/-o¯ n); 66. Formes linguistiques ayant joué un grand rôle dans l’indo-européanisation, selon ZIMMER, 1990 (avec bibliographie), 27-30. 67. AGOSTINIANI, 1993; BADER, 1993. 68. Pour Turan, voir E. VETTER, R.E., VII A 2 (1948), 1307-71, avec bibliographie des interprétations proposées pour le nom, notamment par he¯ ánassa, cf. túrannos; rapprochement de turan, túrannos, hiér. tarwana- chez PINTORE, Festschrift Meriggi, 1979, cité par TISCHLER, 1991, s.u. tarh- 161. J’ai laissé de côté ici le nom de la déesse ombrienne Tursa, homonyme de la ville lydienne, et dont j’ignore l’étymologie. 69. Et Tinascliniiar, calque de Dióskouroi: DE SIMONE, 1970, II 331. 70. Voir BUGGE, 1909, 230 sq., cité par WUST, R.E. VI A2 (1937) 1513, s.u. Titho¯ nós (pour l’emprunt étr. Tinuun à ce dernier, DE SIMONE, 1970, II 137-138). 71. GUSMANI, 1964, 163; GUSMANI - POLAT, 1999, 154. 72. Tout se passe comme si les noms en *-s-ko- comme Tarusco¯ ou E-truscı¯ étaient de déverbatifs d’un présent en -sko-, cf. tru¯ skei, § 1.1.2.
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*trh2-u-n-> Tarkunia / * trh2-u-i-n-> Tarquinius73 (avec qoppa devant u), sur le thème en -u-, et sur sa forme élargie en -ui- qu’ont par ailleurs hitt. tarhui-li-, mais aussi Tarui-sha, peuple de la mer74. Ces correspondances dépassent de loin l’isoglosse gallo-étrusque des ethniques: elles appartiennent à un archaïsme reliant les périphéries de l’Inde et de l’Occident de Gaule et d’Italie. Ces anthroponymes sont des noms de «Chefs» (cf. túrannos et louv. tarwana, § 1.2.4), aboutissement sémantique de la «puissance» conférée par la «victoire» sur une «traversée» de migrants, dont ces chefs peuvent être éponymes. 7.4. L’indien Turvás´a a été amené avec Yádu à travers la mer et les rivières par Indra, patron des migrations aryennes, selon une tradition qui peut remonter à la préhistoire de ces dernières; et tous deux sont des héros éponymes de deux tribus aryennes, en rapport soit d’amitié soit d’hostilité selon les versions75. De même, les Etrusques sont venus par la mer; d’autre part, Turnus (qui finit par se réfugier à Caere), roi des Rutules à l’arrivée d’Enée, est tantôt l’allié d’un éponyme, Latı¯nus76, contre Enée, tantôt son ennemi, en allié d’Enée (qui vient de Troie, au nom apparenté à ceux de Tursa et de l’Etru¯ ria). Enfin, l’emploi d’un nom de *trh2- comme éponyme est représenté, chez les Pélasges d’Italie, par les Lydiens Tyrrhénos, qui donna son nom à la Tyrrhénie, et par son frère Tarko¯ n «qui a donné son nom à la ville de Tarkunia», Str. 5.219, laquelle est réputée avoir donné le sien aux Tarquins. 7.5. Le dernier à porter ce nom avant la fin de la royauté étrusque offre encore une particularité linguistique i.e., indépendamment du nom qu’il porte: le couple Tarquin - Tanaquil (étr. uanaxvil, uanxvil, uancvil, etc., qui pourrait être en *-h2-ui-l. s’il possédait une étymologie)77 comporte des allitérations conformes à une tradition onomastique i.e.78, cf. les époux Ménélas/Heléne¯ : -enel-/-elen-79, de plus organisées phonologiquement: liquides et nasales r...n/n...l, en chiasme et avec une paire phonologique r/l; u/t, en paire, et q, occlusives dont on ne peut savoir si elles sont complétées par la paire p/b du cognomen latin (qui de plus offre la spirante s). Si ces allitérations sont un héritage i.e., ce cognomen offre un témoignage de la romanisation grandissante, puisqu’il est comme une glose latine du nom du Chef nétrusque: fils de ce Lucumo80 qui échangea son nom de chef local étrusque contre celui de Tarquinius, chef «Puissant» et éponyme, pour devenir un Lucius Tarquinius
73. Tarquinius de tarxna? DE SIMONE, 1989 c; et cf. note 1. 74. Indications bibliographiques sur le rattachement de Tarquin à *trh2- chez TISCHLER, 1991, s.u. tarh-, à compléter p. ex. par LÉVI, 1938, 125-126. 75. MACDONELL, 1897, 64; cf. p. ex. R.V. 1.174.9: «Du, Indra, der Tosende, setztest die tosenden Gewässer in Bewegung, die strömen, wie die Flüsse (gewöhnt sind). Wenn du über das Meer fahren kannst, o Held, so fahre den Turvas´a and Yadu heil hinüber» (Geldner). Dépourvu d’étymologie, Yádu peut être expliqué par *hly-n d-u-, dérivé en -ud’un adjectif verbal en -n d- (cf. de *trh2-, tarandos, § 1.2.2, de *hiey-, lat. eundo-, et avec *-n t- skr. yát-, etc.) de *hli->*ih2- «aller». Les deux noms, parfois unis en un dvandva Turvás´a¯ yádu¯ -, sont alors comparables à Turvı¯´ti-, § 1.1.2 «ue¯ nı¯...uı¯cı¯», «qui traverse et arrive», victorieux. 76. Autre association, de deux éponymes, Latînon...Turse¯ noîsi, Hés. Thg. 1013... 1016. Elle est comparable à celle des deux éponymes Yádu et Turvás´á. 77. A côté de *trh2-, *tn h2- «traverser (et) s’étendre» (mêmes racines en français), cf., parallèle à *trh2-u(i)- (§ 1.1.2), *tn h2-u(i)-, cf. *tn h2-u-, n. 6, tenuis, etc. Alors, association comparable à skr. Turvása¯ yadu¯ , note 75, du point de vue typologique; Reimwortbildung (servant à structurer un champ sémantique [BADER 2002a], remplacée par une allitération dans ue¯ ni¯...ui¯di¯); et association au nom en *trh2- d’un second nom comme non seulement dans Turvás´á¯ yádu, mais dar l’av. Taurvi zairicˇa (nominatif duel) «les deux (Daeva), T. et Z.», V. 19.43. 78. BADER, 1999d, 306. 79. Et même -enel... w- (Menélawos)/-Welen- dans l’étymologie donnée par DE SIMONE, 1978, à Heléne¯ , rapproché de skr. svárati, de *swel- (verbe pour moi dénominatif à suffixe zéro du nom du «soleil», cf. lat. so¯ l, etc. [BADER, 1995] parce que *-el- y est un suffixe nominal). 80. Sur la glose de lucumo¯ ne¯ s par re¯ ge¯ s, cf. DE SIMONE, 1987.
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TIPOLOGIA, FORMA E FUNZIONE (NUGAE TARQUINIESI) MARIA BONGHI JOVINO Spero molto che il collega Carlo De Simone voglia gradire ugualmente questa spigolatura archeologica in margine a realtà complesse perché è inversamente proporzionale all’amicizia nutrita per lui, «Mente saggia fa prudente la bocca, e più persuasiva la sua dottrina»1. Mi soffermerò pertanto su una questioncella di lettura rivolta a collegare un piccolo reperto frammentato alla funzione dell’oggetto di appartenenza. In tempi recenti il dibattito tra tipologia, tecnologia, stile e funzione dei manufatti archeologici si è ravvivato attraverso molte indagini che ne hanno indicato gli spunti più interessanti relativi al significato sotteso in più direzioni, rapporti di lavoro, stile, mentalità, credenze, comunicazione2. Orbene, oggetto di questa breve nota è un ‘piccolo pezzo’ che lo scavo archeologico ha messo allo scoperto e che merita qualche appunto dal momento che si inserisce espressamente nella problematica del rapporto, intercorrente nel materiale archeologico, tra tipologia e funzione, rapporto che, a sua volta, coinvolge il significato dei contesti. In realtà questa correlazione ha investito soprattutto la produzione vascolare in quanto in essa si annida buona parte delle difficoltà di lettura dovute alla frammentarietà del materiale di abitato. Mi soffermo, per ovvie ragioni, su Tarquinia ove tale rapporto è stato sviscerato nell’ambito delle varie classi di materiale provenienti dal «complesso monumentale» della Civita3 limitandomi a citare gli approfondimenti di C. Chiaramonte Treré che si è posta il problema enunciato in due tempi, dapprima in un Convegno a Bologna4, dopo nel primo volume dei materiali per quel che concerne la ceramica d’impasto arcaica e di G. Bagnasco Gianni che ha affrontato la questione per le ceramiche depurate5. In seguito ho ulteriormente ripreso l’argomento segnalando gli aspetti che attengono alla ceramica di impasto dalla fase tardo-protovillanoviana fino all’Orientalizzante Antico maturo6. Ora, nella copiosa massa di materiali ceramici venuti a luce nel «complesso monumentale» si annovera anche una piccola testina di ariete in impasto abbastanza depurato (Fig. 1). Essa è stata prelevata, a sud dell’edificio beta, in una grande trincea, residuo di un 1. Pro. 16, 23. 2. A partire dagli anni Novanta in una letteratura ormai relativamente ampia e che tenta di rispondere a differenti domande, v.: sulla fisionomia degli artigiani: M. BONGHI JOVINO, Artigiani e botteghe nell’Italia preromana. Appunti e riflessioni per un sistema di analisi, in Artigiani e botteghe nell’Italia preromana, a cura di M. Bonghi Jovino, Roma 1990, pp. 19-60, M. BEDELLO TATA, Botteghe artigiane a Capua, ibidem, pp. 97-122; sulla ipotesi di indicazione del rango: J. WHITLEY, Style and Society in Dark Age Greece: the Changing Face of a Pre-literate Society, Cambridge, 1991; sullo scopo progettuale a monte degli oggetti: M. SHANKS, Style, Technology and Function: some Design Principles for Archaeology, in Theoretical and Metodological Problems, XIII International Congress of Prehistoric and Protohistoric Sciences, a cura di A. Bietti, A. Cazzella, Forlì 1996, pp. 43-50; sulla semantica: F. CHIESA, Demoni alati e grifi araldici, Lastre architettoniche fittili di Capua antica, Roma 1998, in part. pp. 53 ss. 3. M. BONGHI JOVINO - C. CHIARAMONTE TRERÉ, Tarquinia. Scavi sistematici nell’abitato. Campagne 1982-1988, Roma 1997 (Tarchna I). 4. C. CHIARAMONTE TRERÉ, Ceramica di impasto della Cività di Tarquinia. Corpi ceramici e destinazione funzionale delle forme, in Il contributo delle analisi archeometriche allo studio delle ceramiche grezze e comuni. Atti della 1o giornata di archeometria della ceramica (Bologna 28 febbraio 1997), Bologna 1997, pp. 31-36; EADEM, La ceramica di impasto arcaica, in Tarquinia. Scavi sistematici nell’abitato. Campagne 1982-1988. I materiali 1, a cura di C. Chiaramonte Treré, Roma 1999 (Tarchna II), pp. 43 ss. 5. G. BAGNASCO GIANNI, ibidem, pp. 99 ss. 6. M. BONGHI JOVINO, La ceramica, gli utensili e gli oggetti d’uso in impasto dall’orizzonte protovillanoviano fino all’Orientalizzante Antico maturo, in Tarquinia. Scavi sistematici nell’abitato. Campagne 1982-1988. I materiali 2, a cura di M. Bonghi Jovino, (Tarchna III), Roma 2001, pp. 1-136.
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crollo di epoca ellenistica, che era riempita di ogni sorta di reperti tra i quali frammenti di tegole (tipi Ciaghi 6, 11, 15, 17-18, 23) e coppi (attestato il tipo Wikander III B), frammenti ceramica di impasto, acroma e a bande, di buccheri, di ceramica attica e a vernice nera, decorazioni in stucco a disegni floreali o vegetali7. Non sussistono pertanto elementi stratigrafici indicativi a fini cronologici.
Fig. 1 Tuttavia l’esemplare, frammentato al collo e modesto per esecuzione, è di un certo interesse e consente nella sua genericità qualche annotazione sul tema predetto. È ben noto come teste e protomi di ariete siano presenti in tutta l’area mediterranea con particolare riferimento alla sfera divina, propiziatoria e cerimoniale8. Le si trovano in area etrusco-italica anche su oggetti di metallo pregiato e di alto livello esecutivo come documenta, tanto per esemplificare, il bastone di comando dalla necropoli di Casale Marittimo9. Esse sono largamente diffuse e impiegate nelle terrecotte architettoniche per le quali rimando al saggio di G. Aversa che ne ha dato una panoramica preliminare10 e nelle terrecotte votive largamente attestato in molti santuari11. G. Aversa ha per l’appunto nuovamente sottolineato come l’idea originaria di applicare teste di leone in ambito architettonico sia stata a parere unanime attribuita al mondo greco e come, al contrario,
7. M. BONGHI JOVINO, Settori A, B. Lo scavo a sud dell’edificio beta, in Tarchna I, p. 47, 95/129 e non 59/129, strato 160, tav. f. t. 4. 8. Dall’Egitto (Lexikon der Aegyptologie, VI, 1986, s. v.: Widder) agli oggetti preziosi del Vicino Oriente (ad es.: Von Babylon bis Jerusalem, Die Welt der altorientalischen Königsstädte, catalogo della mostra a cura di W. Seipel - A. Wieczorek, Reiss-Museum Mannheim und Kunsthistorisches Museum Wien, Milano 1999, vol. 2, p. 127, n. 192, dall’Anatolia occidentale) alla Grecia (LIMC, s. v.). 9. A. M. ESPOSITO (a cura di), Principi guerrieri. La necropoli etrusca di Casale Marittimo, Milano 1999. 10. G. AVERSA, Le protomi di ariete nell’architettura etrusco-italica: una panoramica preliminare, in Deliciae fictiles, Proceedings of the Second International Conference on Archaic Architectural Terracottas from Italy held at the Netherlands Institute in Rome, 12-13 june 1996, Scrinium XII, Amsterdam 1997, pp. 3-10. 11. Tra i testi recenti: S. PESETTI, Capua preromana, Terrecotte votive VI, Firenze 1994, p. 72 ss., tav. VII.
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teste di ariete, grifi e pantere, nella decorazione degli edifici, appaia meglio documentata in ambito etrusco-italico come ho avuto modo di rilevare12. In realtà presso i popoli dell’Italia antica protomi e testine di ariete si trovano, com’è largamente acquisito, anche in vario genere di vasi, come attestano le anse plastiche dei kantharoi visentini della prima metà del VII secolo a. C. e i coevi prodotti falisci13, in una serie cospicua di produzioni d’uso tra cui vanno annoverati gli alari di cui ricordo, ad esemplificazione, soltanto quelli di area atestina14 e, in area etrusca, i fornelli di Acquarossa e nella stessa Tarquinia, i magnifici «lacunari» bronzei15. Dato il largo e svariato impiego della tipologia nasce pertanto spontanea la domanda circa la funzione dell’oggetto cui apparteneva il pezzo tarquiniese. Andando per esclusione, va scartata ogni ipotesi di applicazione architettonica. Basti pensare, in primo luogo, alla consistente documentazione capuana: alla protome di ariete che, dipinta, decorava un coppo16 per notare che le misure, superiori ai 20 cm per la larghezza della testa, lasciano escludere ogni possibile confronto con la testina tarquiniese le cui dimensioni sono piuttosto piccole17; alla protome con occhi a bulbo e marchio a punzone pertinente ad un coppo di falda anch’essa di formato non compatibile18; alla serie di testine di arieti attinenti a sime laterali19 che si presentano con dimensioni doppie rispetto all’esemplare tarquiniese. Le stesse indicazioni provengono dalle sime di Murlo benché non vi siano arieti ma felini20. Escluso quindi ogni rapporto con oggetti di pregio data la fattura in impasto dell’esemplare tarquiniese e ogni ipotesi di decorazione plastica architettonica, per esso sembra quindi necessario rivolgersi ad altre categorie di oggetti. Alcune considerazioni: il fatto che l’ariete sia a tutto tondo è prova evidente che non poteva essere applicato sul vaso in analogia con quanto si osserva, ad esempio, nel cratere tetransato in bucchero di Poggio Buco, sporadico, della metà del VI secolo a. C., ove intorno al labbro sono disposte una serie di testine di ariete21 o nel caso dell’idria sempre in bucchero e dallo stesso sito22. L’esemplare tarquiniese è di piccole dimensioni ma tuttavia abbastanza grande per escludere parimenti che possa trattarsi del decoro dell’orlo di un calice su piede come nel caso dell’esemplare in bucchero, sporadico, da Poggio Buco della metà del VII secolo a. C. (Fig. 2)23, né di altro genere di sostegno. Testine di ariete sono presenti su olle. In questo senso i confronti da invocare sarebbero svariati ma è sufficiente citare alcuni casi di aree culturali diverse e lontane. Uno di essi è 12. M. BONGHI JOVINO, Aspetti dell’Etruria campana. Sistemi di copertura fittili degli edifici capuani, in La presenza etrusca in Campania meridionale, Atti delle giornate di studio Salerno-Pontecagnano, 16-18 novembre, Salerno 1990, Firenze 1994, pp. 485-496. 13. Il Museo Archeologico G. C. Mecenate in Arezzo, Arezzo 1987, 137, inv. 990; L’arte dei popoli italici, Roma 1993, cat. 43. 14. G. FOGOLARI, La cultura, in G. FOGOLARI - A. L. PROSDOCIMI, I Veneti antichi. Lingua e cultura, Padova 1988, p. 153 (ma v. anche quello in pietra a p. 122). 15. CH. SCHEFFER, Acquarossa II, 1. Cooking and Cooking Stands in Italy 1400-400 B. C., Stockholm 1981, figg. 80-81; N. SCALA, I «lacunari» bronzei tarquiniesi, in Miscellanea etrusco-italica I, a cura di M. Cristofani, Roma 1993, pp. 167-175. 16. M. BONGHI JOVINO, La decorazione architettonica di Capua. Peculiarità, itinerari e modelli, in Deliciae fictiles, in Proceedings of the First International Conference on Central Italic Architectural Terracottas at the Swedish Institute in Rome, 10-12 dec. 1990, AIRRS, L, Stockholm 1993, pp. 45-54. 17. Le misure sono di circa 4,0 cm di larghezza x 4,8 di altezza e 5,0 di profondità; in particolare la distanza tra le corna misura 1 centimetro circa. 18. Largh. mass. cm 14,0; alt. mass. cm 18,0; lungh. mass. cm 16,0; distanza tra gli occhi cm 5,0, misura particolarmente indicativa. 19. BONGHI JOVINO 1994, tavv. VIII-IX. 20. H. DAMGAARD ANDERSEN, The feline waterspout of the lateral sima from the upper building at Poggio Civitate (Murlo), in Opuscula Romana XVIII:4, 1990, pp. 61-98. 21. G. BARTOLONI, Le tombe di Poggio Buco nel Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1972, fig. 98, p. 197. 22. BARTOLONI 1972, fig. 39, n. 43, p. 86. 23. BARTOLONI 1972, fig. 99, n. 7, p. 198.
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costituito dall’olla della tomba 320 della necropoli di Capua, pertinente all’Orientalizzante Recente, sulla quale è stata applicata una teoria di protomi di arieti ma esse sono di dimensioni di gran lunga minori24. Maggiormente compatibili sono altri confronti. È il caso di un’olla stamnoide di impasto della metà del VII secolo a. C. da Poggio Buco25 (Fig. 3) e di altre due olle consimili dalla stessa località, sporadiche, datate intorno alla metà del VII secolo a.C. ove sono presenti, al centro delle due facce, tra motivi curvilinei, testine di ariete26. Tuttavia, a parte le dimensioni più o meno corrispondenti, c’è da dire che il tipo di frattura del reperto tarquiniese esclude una sua appartenenza ad un vaso siffatto in quanto la rottura al collo dell’animale avrebbe comportato una sia pur minima presenza di parte del ventre del contenitore.
Fig. 2
Fig. 3 24. W. JOHANNOWSKY, Materiali di età arcaica dalla Campania, Napoli 1983, p. 167, tav. 21 a. 25. BARTOLONI 1972, fig. 90, n. 82, p. 182. 26. BARTOLONI 1972, fig. 101, n. 29, p. 208, tav. CXLIII a.
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Per l’esemplare della Civita, la resa del collo e la lavorazione ‘a pieno’ della testina potrebbero far pensare molto più verosimilmente ad un animale completo, plastico, a se stante come i cavallini da un pozzo di Monterozzi che secondo H. Hencken potevano aver fatto parte di carri o ancora pensare all’ariete come pertinente a un modellino, vale a dire ad un animale trainante, come nell’esemplare della tomba Selciatello Sopra 4427. Ma le dimensioni anche in questo caso rendono la ricostruzione improbabile. Verosimile sarebbe anche l’ipotesi che l’esemplare possa aver costituito un’ansa tenendo presente l’occorrenza a Tarquinia di vasi con anse a forma di animali, come attestano ben note testimonianze, se le dimensioni fossero adeguate: il vaso doppio sormontato da un’ansa zoomorfa e un secondo vaso con ansa quadrupede entrambi al Museo Nazionale Tarquiniense28. In definitiva tuttavia mi sembra preferibile optare per un vaso configurato con protome animale. E qui le possibilità sono diverse: potrebbe trattarsi di un askòs simile a quelli ben conosciuti della tomba Selciatello Sopra 179 e da Monterozzi oppure di un ‘contenitore bello’ analogo al vaso ad anello con la superficie rossastra e brillante da una tomba a fossa ancora da Monterozzi29 (Fig. 4). Tale eventualità è resa più probabile dalla tecnica nella quale è stato plasmato l’esemplare dalla Civita che è tuttavia da riportare, anche in virtù del corpo ceramico, al periodo arcaico. In ogni caso si tratterebbe di un oggetto rituale in assonanza con le attività che si celebravano nell’‘area sacra’.
Fig. 4 La scelta dell’ariete non è infatti casuale qualora si pensi alla sua ampia sfera di significazione presso i popoli dell’antichità. L’animale assume, come largamente acquisito, ta27. 378; 28. 29.
H. HENCKEN, Tarquinia,Villanovans and Early Etruscan, Cambridge Mass. 1968, p. 337, fig. 338 a; p. 388, fig. p. 292, fig. 280 d. Gli Etruschi di Tarquinia, a cura di M. Bonghi Jovino, Modena 1986, p. 76, fig. 56; p.231, fig. 232. H. HENCKEN, op. cit., p. 79, fig. 65 h; p. 261, fig. 244; p. 388, fig. 377.
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lora valore simbolico di potere, di forza e di dominio con riferimento alla guida degli armenti e in altri casi di offerta e di sacrificio duraturi30. Se si arretra nel tempo ci si imbatte anche in rituali di liberazione sui quali si è soffermato W. Burkert citando il comportamento degli Ittiti nel caso di una pestilenza e nell’ipotesi che «l’avesse provocata qualche dio nemico»: «... scelgono un ariete. Intrecciano insieme lana blu, rossa, gialla e bianca, ne fanno una corona e incoronano l’ariete. Spingono l’ariete sulla strada che porta al nemico ...» e mentre fanno ciò recitano una lunga preghiera per placare «qualsivoglia dio della terra nemica abbia causato questa peste», quindi, in ultimo «spingono il solo ariete incoronato verso il nemico»31. Posto dunque il rapporto tra la tipologia, forma e funzione, per concludere queste brevi annotazioni potrei dire che con ogni verosimiglianza siamo in grado di percepire la ritualità sottesa all’oggetto ma nello stesso tempo non abbiamo strumenti efficaci per definirne un più specifico significato e una più circoscritta funzione.
30. 31.
V. le proposte interpretative differenziate in G. AVERSA, art. cit., p. 11 (intervento e risposta). W. BURKERT, Mito e rituale in Grecia, Bari 1987, in part., p. 97.
À PROPOS DE L’INSCRIPTION CIE, 8681: LES CATALOGHI DEL MUSEO CAMPANA COMME SOURCE D’INFORMATION EN MATIÈRE D’ÉPIGRAPHIE ÉTRUSQUE DOMINIQUE BRIQUEL Une coquille typographique fait qu’on pourrait croire, d’après la notice du fascicule du CIE consacré aux inscriptions du Latium et de Campanie, paru en 1996, que l’inscription no 8681, telle que l’a publiée A. Fabretti dans son Corpus Inscriptionum Italicarum de 1867, a appartenu à un «Museo Campano» («in Museo Campano» Fabretti). En fait l’inscription n’a jamais appartenu à ce qu’on risquerait d’être tenté de reconnaître sous ce nom, c’est-à-dire au Museo Campano de Capoue et, comme suffit à le rétablir la consultation du CII, A. Fabretti a parlé du «Musée Campana», que le marquis collectionneur avait établi dans sa villa près de Saint-Jean-de-Latran à Rome (fuit in museo Campana)1. L’objet, réputé trouvé à Capoue, est connu depuis la publication que G. Minervini en a faite en 1854 dans le Bullettino Archeologico Napolitano2. Il faisait alors partie d’une collection privée de Rome, celle du chevalier Carlo Bonichi, qui avait envoyé le dessin de l’inscription qu’il portait à G. Minervini. Mais la précision donnée par A. Fabretti montre que l’objet avait ensuite changé de propriétaire. Il était ensuite entré en possession du marquis Campana. L’indication donnée par ce savant paraît s’appuyer sur une information personnelle. Cette inscription ne semble en effet pas avoir fait l’objet d’autres études dans la littérature savante que celles de Minervini et de Garrucci, qui datent du temps où elle appartenait encore à C. Bonichi, et nul autre auteur ne semble l’avoir jamais décrite alors qu’elle avait appartenu à la collection Campana, ou serait passée dans une autre collection qui l’aurait acquise à partir du «Musée Campana» lors de la dispersion de celui-ci. Par exemple ni G. Conestabile, dans le Second spicilegium de quelques monuments écrits ou épigraphes des Étrusques, publié à Paris en 1863, où il décrit plusieurs pièces de la collection Campana qu’il avait examinées à Paris en 1862 lors de leur exposition provisoire dans le cadre de l’éphémère Musée Napoléon, qui avait accueilli, pour un temps, les objets de cette collection acquis par la France3, ni A. Fabretti, qui dans son deuxième supplément, paru en 1874, fait état d’objets de cette provenance passés dans les collections du musée du Louvre, qu’il avait vus lors d’une visite effectuée en août 1872, ne mentionnent cette pièce. En fait cette inscription paraît aujourd’hui perdue: nul chercheur ne l’a signalée depuis – ce qui justifie sa collocation par R.S. Conway, dans ses Italic Dialects, de 1897, au sein de la série de celles portées «on vases of the same class (précision renvoyant à la série précédente: «other vases, mostly from Nola»), now lost»4 – et nous pouvons ajouter que nos recherches personnelles, tant parmi les pièces de la collection Campana conservées au Louvre que parmi celles envoyées dans les musées de province que nous avons pu examiner, ne nous ont pas permis de retrouver trace de cet objet. Cependant il existe un témoignage qui paraît confirmer que l’objet a bien appartenu à la collection du marquis Campana: celui, qui n’a pas été pris en compte à propos de cette 1. Sur la villa-musée du marquis Campana à Rome, voir l’étude de G. NADALINI, «Le musée Campana: origine et formation des collections. L’organisation du musée et le problème de la restauration», dans L’anticomanie, sous la direction de K. Pomian, Montpellier-Lattes 1988 (Paris, 1992), p. 111-121. 2. Voir «Bull Arch Nap», n.s. 2, 1854, p. 110, avec pl. V, 3. Le même fascicule de la revue comprend un commentaire de l’inscription par R. Garrucci, avec une lecture différente (mamerge au lieu de mamerce), à la p. 164. 3. Sur le Musée Napoléon, voir G. NADALINI, La collection Campana au Musée Napoléon III et sa première dispersion dans les musées français (1862-1863), «Journal des Savants», juillet-décembre 1998, p. 183-225. 4. Voir R.S. CONWAY, Italic Dialects, II, Cambridge, 1897, p. 526. Dans la notice qu’il consacre à l’inscription (no 24*, p. 527), le savant anglais se réfère uniquement aux articles de Minervini et de Garrucci.
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inscription, des Cataloghi del Museo Campana. Cette description – bien sûr partielle et fautive – de la collection Campana alors qu’elle était encore exposée dans la villa-musée de Rome signale en effet un certain nombre d’inscriptions portées sur des objets appartenant au marquis. Or l’une d’elles semble correspondre à CIE, 8681. Le catalogue de la série VIII des vases (classe 1 de la collection, celle intitulée «Vasi dipinti etruschi ed italo-greci»), regroupant les «vasi fittili», comportait en effet un objet, exposé dans la salle I et y portant le numéro 214, décrit comme «tazza – vernice nera lucida», pour lequel est signalée une inscription portée «al disotto del piede» pour laquelle est proposée une transcription qui peut se lire, en écriture sinistroverse, cunie mimamarceasi. Nous sommes apparemment assez loin du texte de CIE, 8681 (= Cm 2.9 du recueil Etruskische Texte). Mais il est clair que la lecture des Cataloghi demande à être corrigée. On reconnaît bien évidemment une séquence mi Mamarce, c’est-à-dire le début d’une formule d’«inscription parlante» avec le pronom de première personne au cas direct suivi d’un élément onomastique – en l’occurrence le prénom Mamarce5. Des deux éléments du texte en dehors de cette formule, cunie pourrait à la rigueur former un élément autonome, peut-être onomastique – bien qu’il ne ressemble à rien de connu. Et un Asi est attesté comme gentilice dans deux inscriptions de Pérouse (Pe 1.423 et 616 de Etruskische Texte). Mais la structure du texte ne serait alors guère satisfaisante. Il nous semble beaucoup plus légitime de reconnaître dans ce texte celui même de l’inscription CIE, 8681. Ce qui a été lu asi doit en réalité être le début de l’Asklaie de cette inscription, dont la lettre K aura été décomposée en un I et un C. Il faut en effet tenir compte de ce que, dans cette inscription, le K est formé de deux traits nettement séparés. Cette particularité avait d’ailleurs conduit R. von Planta, dans sa Grammatik der osko-umbrischen Dialekte, à lire non pas une lettre K, mais une séquence CI: il proposait une lecture asiclaie6. Mais la présence d’un K, et donc celle d’une dénomination Asklaie, dans laquelle C. De Simone a su reconnaître le rendement étrusque d’un «Asklai^ow grec (en tirant de cette constatation les conséquences sociales qu’elle impliquait)7, sont assurées. La lecture Asiclaie n’est donc évidemment pas à retenir. Nous pouvons remarquer que R. von Planta a fait la même erreur d’interprétation que celle que nous sommes amené à supposer dans les Cataloghi Campana: ceux-ci en effet paraissent également avoir décomposé le K en deux éléments, I et C. Car le cunie qui est écrit au début de la transcription peut fort bien être la partie finale du texte (c’est-à-dire la partie postérieure du K et le groupe laie qui suit), avec des erreurs graphiquement assez faciles à expliquer8: le L, dont la haste verticale est effectivement fortement inclinée, aura été pris pour un U (de forme V), et le A qui suit aura été pris pour un N, par omission du trait supérieur légèrement oblique. Si on omet ce trait, le A a en effet la forme d’un N. On retrouve donc, si on interprète les faits ainsi, la séquence IC à la place de K qu’envisageait également R. von Planta. Mais, dans le cas du dessin des Cataloghi Campana, se serait ajoutée une disjonction complète de ce I et de ce C, le terme cunie qu’on 5. Sur les inscriptions parlantes en général, étude fondamentale de L. Agostiniani, Le iscrizioni parlanti dell’Italia antica, Florence 1982; celle qui apparaît ici comporte un nom au cas direct et non pas au génitif, particularité qui a été étudiée par G. COLONNA, Identità come appartenenza nelle iscrizioni di possesso, «Epigraphica», 45, 1983, p. 573-587. 6. R. VON PLANTA, Grammatik der osko-umbrischen Dialekte, II, Strasbourg, 1897, p. 177-178. 7. Nous pouvons citer ce que C. DE SIMONE écrivait à la p. 115 de sa communication L’etrusco in Campania, La Campania fra il VI e il III secolo a.C. Atti del XIV Convegno di Studi Etruschi e Italici, Bénévent 1981 (Galatina 1992), p. 107-117: «L’appositivo Asklaie non è un antico gentilizio, ma corrisponde al greco «Asklai^ow. Si tratta dunque del caso di integrazione sociale di un meteco (o simile) che ha assunto secondariamente il proprio nome individuale («Asklai^ow) come gentilizio». Cf. aussi Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen, II, Wiesbaden 1970, p. 216. 8. Nous rencontrerons des exemples précisément de ces erreurs pour d’autres inscriptions signalées dans le catalogue.
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avait cru pouvoir lire se trouvant rejeté en début de texte. Une telle disjonction peut trouver une certaine justification dans le fait que l’inscription est portée sur un support circulaire, et qu’on a pu imaginer que le texte commençait non pas avec mi mais avec ce prétendu cunie9. Ainsi on peut penser que le texte de l’inscription CIE, 8681 se dissimule derrière l’énigmatique formule cunie mimamerceasi qu’offrent les Cataloghi Campana. Le marquis Campana aurait donc acquis cet objet auprès du chevalier Carlo Bonichi, comme il l’a fait pour d’autres qui avaient auparavant été en possession d’autres collectionneurs10. Il est même probable qu’il avait fait procéder à une restauration: alors que Minervini faisait état d’un pied de vase, le catalogue du «Musée Campana» évoque un vase complet, décrit comme tazza. On sait à quelles acrobaties se sont parfois livrés les restaurateurs du marquis11. Il est à penser qu’ils se sont ici empressés de pourvoir d’une vasque le pied auquel semble s’être réduit l’objet décrit par Minervini. Cette confirmation, que nous croyons pouvoir faire à partir des Cataloghi Campana, que l’inscription a bien appartenu à la collection du marquis ne permet malheureusement pas de la retrouver: nos recherches, au Louvre ou dans d’autres musées français, sont – jusqu’à présent tout au moins – restées vaines12. Mais elle nous permet de relever que ce catalogue, quelles que soient ses erreurs – indéniables et nombreuses –, reste une source d’information sur les inscriptions étrusques qu’il ne convient pas de négliger. Bien sûr les lectures qu’il propose demandent à être contrôlées, confrontées à celles faites par d’autres savants – ce qui n’est pas toujours possible, vu qu’il s’agit parfois de documents pour lesquels il constitue notre seule possibilité d’information. Il n’en reste pas moins qu’ils constituent une source qui mérite d’être prise en compte et qui, parfois, paraît révéler des documents qui sont restés inconnus du reste de la littérature épigraphique. Aussi voudrions-nous faire ici un rapide tableau de ce qu’on peut trouver en matière d’inscriptions étrusques13 dans les Cataloghi Campana, en classant les inscriptions par catégories14. 9. Il est vrai que cunie est alors séparé de la séquence mi mamerce... par un long intervalle. Mais le peu de fidélité à l’original de beaucoup de transcriptions des Cataloghi Campana – point que nous allons amplement constater – font que même une distorsion aussi forte par rapport au modèle n’est pas impossible. 10. Parmi les objets épigraphes de la collection aujourd’hui au musée du Louvre, l’urne qui porte l’inscription CIE, 2084 (= Cl 1.1590) a d’abord appartenu au chanoine Pasquini de Chiusi. Pour l’inscription marces portée sur le vase Cp 3495, si on l’identifie, comme le propose M. Pandolfini Angeletti, avec CII, 2170 (voir CIE, 11173), on peut aussi retracer l’histoire de l’objet: il a appartenu à la première collection Durand, avant d’être acheté par Millingen, membre actif de l’Institut de Correspondance Archéologique (voir nos remarques dans REE, no 45, SE, 56, 1989-1990, p. 332-337): celui-ci l’aura ensuite cédé à Campana. 11. Sur la question, R. TÜRR, Fälschungen antiker Plastik seit 1800, Berlin 1984, p. 106-108, G. Nadalini, dans L’anticomanie, p. 120-121 (art. cité supra, n.1). Pour un exemple étudié récemment (coupe de Vulci provenant des fouilles de Lucien Bonaparte aujourd’hui au musée de Florence), voir F. CURTI et A. MAGGIANI, dans Vasi attici figurati con dediche a divinità etrusche, Rome, 1997, p. 27-30. 12. L’objet ne se trouve pas non plus dans la partie de la collection achetée par la Russie: on n’en trouve pas trace dans L. STEPHANI, Die Vasen-Sammlung der kaiserlichen Ermitage, Saint-Pétersbourg 1869, et A. I. CHARSEKIN, Etruskische Inschriften in den Museen der UdSSR, dans Untersuchungen zur römischen Geschichte, sous la direction de F. Altheim, Francfort 1963, III, p. 70-81. 13. Le catalogue ne distingue pas, dans ses translittérations et fac-similés, entre les inscriptions étrusques, grecques ou latines; nous tiendrons compte ici des inscriptions qui paraissent nettement étrusques, sans nous dissimuler que d’autres peuvent se cacher derrière des transcriptions peu claires des Cataloghi. 14. Le catalogue ne comprend pas des transcriptions de toutes les inscriptions que comportait la collection Campana. Ainsi, pour nous en tenir au cas des inscriptions vasculaires, nous avons eu l’occasion d’examiner un graffite s`u porté sur un stamnos attique du Vème siècle du musée de Clermont-Ferrand et deux inscriptions parlantes, l’une au musée du Louvre (mi venelus sur un fond de vase attique à figures rouges) et l’autre au musée de Rouen (mi larisa sur le fond d’une olpè de bucchero), pour lesquels on verra nos notes dans la REE, resp. no 106, 103, 107, SE, 64, 1998, p. 439-440, 437, 440. Outre de telles omissions (qui paraissent avoir été assez sensibles dans le cas des urnes), il faut tenir compte de ce que les objets exposés ne représentaient qu’une partie de ce que possédait le marquis. On notera par exemple le cas des inscriptions jumelles mi qutum karkanas (Cr 2.18 et 19), portées sur deux oenochoés italo-géométriques du musée du Louvre (ainsi que de Cr 2.20, mi karkanas uahvna, qui devait leur être associée); ces vases venaient sans doute seulement d’être retrouvés au moment de l’arrestation du marquis et se trouvaient donc encore dans
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Ce document présente déjà un certain nombre d’inscriptions étrusques qui auraient été portées sur des vases15: en dehors de celle que nous avons envisagée au début de cet article, on peut en relever au moins dix-neuf16. Une des séries d’inscriptions vasculaires les mieux représentées dans la collection Campana et donc dans ce catalogue est formée par des occurrences du mot s´uuina, éventuellement abrégé, indiquant l’appartenance de l’objet au mobilier d’une tombe. Il s’agit principalement de cinq vases aujourd’hui au musée du Louvre, qui sont tous de fabrication attique et présentent une graphie de la sifflante initiale forte avec un sigma à quatre traits qui montre qu’ils proviennent de tombes de Caeré17. Ils ont fait l’objet de diverses publications et les inscriptions ont été bien commentées par M. Pandolfini dans une notice de la Rivista d’Epigrafia Etrusca de 197218: – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 25 de la salle A, avec transcription (REE, no 88, p. 467-468 = Cr 4.6); graffite s`uuina, transcrit par erreur avec une sifflante initiale dextroverse. – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 45 de la salle A, avec transcription (REE, no 86, p. 466-467 = CII, 2604e = Cr 4.13); graffite s`uuina, transcrit par erreur en sens dextroverse. – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 68 de la salle A, avec transcription (REE, no 87, p. 467 = CII, 2604g = Cr 4.14); graffite s`uuin(a), transcrit par erreur en sens dextroverse et avec une sifflante initiale de type S et un T. – Cataloghi, série XI, no 42 de la salle K, avec fac-similé (REE, no 83, p. 465-466 = CII, 2604f = Cm 4.219); graffite s`uuina, rendu à peu près correctement. – Cataloghi, série XI, no 56 de la salle K, avec fac-similé – pour lequel est donné par erreur le no 59 (REE, no 84, p. 466); texte réduit à la syllabe initiale s`u(uina), rendu correctement. À ces exemples correspondant à des objets connus, il convient probablement d’en ajouter un, porté sur une amphore à figures rouges qui ne paraît pas avoir été signalée depuis: Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 30 de la salle A, avec transcription et un fac-similé difficile à interpréter; le catalogue donne une lecture s`uti, qui a toutes chances de correspondre à une autre inscription de ce type (notée peut-être par erreur en direction dextroverse). Beaucoup des inscriptions sur vases que mentionne le catalogue offrent, comme on peut s’y attendre, des noms propres. C’est le cas en particulier d’une série à laquelle ce document réserve un traitement particulier, puisqu’il s’agissait d’objets qui auraient été rele magasin où étaient entreposées les pièces en attente de présentation ou de restauration, si du moins il faut les reconnaître dans ce passage du rapport de la commission de répartition de la collection Campana récemment publié par G. NADALINI (art. cité supra, n.1, p. 218): «Un magazin n’a pas encore été inventorié, et dont aucune pièce n’est portée au catalogue... contient un nombre considérable de petits vases, dont quelques-uns sont très curieux: nous avons retiré de caisses qui n’avaient pas encore été déballées deux oenochoés d’une date très reculée portant des inscriptions étrusques». 15. Il est à noter que les notations épigraphiques sont assez inégalement réparties. Elles se rencontrent pour les vases à décor peint des séries IV à VII et les vases à boire des séries IX et X du catalogue, alors qu’on n’en rencontre aucune pour la série III, qui comprenait la plupart des vases en bucchero. C’est pourtant cette catégorie qu’appartenaient des vases comme l’oenochoé qui porte l’inscription mi Larus (CII, 2610; voir REE, no 30, SE, 58, 1992, p. 299-305) ou l’olpè du musée de Rouen avec mi Larisa (REE, no 107, SE, 64, 1998, p. 440). 16. Le nombre peut être supérieur. Outre des inscriptions signalées qu’on ne peut plus reconnaître comme étrusques, l’ouvrage est susceptible d’avoir donné des transcriptions qui ne laissent plus de reconnaître de véritables inscriptions. Tel est le cas de Cataloghi, série IV, V, VI, VII, no 199 de la salle A, pour lequel est donné un fac-similé illisible: mais la notice sur cette amphore à figures noires du Louvre faite par E. POTTIER, CVA, 5, Louvre, Paris, 1928, pl. 54, 3-6, montre qu’il s’agit d’un graffite cai en écriture dextroverse, vraisemblablement étrusque. 17. Sur ce point, voir notre étude REE, no 17-21, SE, 61, 1995, p. 337-339. 18. Voir REE, no 83-88, SE, 40, 1972, p. 465-466 19. Sur la provenance de Caeré et non de Nola de ce vase et du suivant, voir nos remarques dans REE, no 17-21, SE, 61, 1995, p. 337-339.
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trouvés dans une même tombe, située près de l’endroit où avait été découvert le sarcophage des Époux conservé au Louvre, décrit comme Monumento Pelasgico o Lidio. Présentés dans le catalogue à part des autres vases, avec à chaque fois une description du support et une transcription du texte, ces documents ont été bien étudiés par M. Lejeune dans son article sur les vases avec inscriptions étrusques du Louvre20. Cette série comprenait: – Cataloghi, serie nona, no 19, p. 32 (Lejeune, VII = CII, 2568bis a = Cr 1.176); la transcription uanxvil: peiunai: meuina n’est à corriger que pour la ponctuation qui comporte un point et non deux et qui n’existe pas entre les deux derniers mots, écrits sur deux lignes distinctes. – Cataloghi, serie nona, no 20, p. 32 (Lejeune, VI, p. 90 = CII, 2568bis b = Cr 0.47); la transcription meuina est exacte, mais n’a pas à être précédée de points de suspension, l’inscription étant complète. Cette inscription, peinte, est distincte de celle, portée sur un vase comparable mais gravée, offrant le même mot meuina; les Cataloghi Campana, qui donnent une transcription correcte de l’inscription (publiée aussi comme Lejeune, X, p. 97 = CII, Suppl. 2, 127 = Cr 0.48), répertoriaient l’objet dans les séries IX et X des céramiques et il était exposé sous le no 387 dans la salle G. – Cataloghi, serie nona, no 21, p. 32 (Lejeune, V, p.90 = CII, 2568ter a = Cr 1.177); la transcription du catalogue laris: nulaues: velus`a est exacte, si ce n’est pour l’ajout de la première ponctuation. – Cataloghi, serie nona, no 22, p. 32 (Lejeune, IX, p. 97 = CII, 2568ter b = Cr 1.178); la transcription du catalogue ranuula: nului pèche par ses points doubles et par l’oubli du A de nulaui. – Cataloghi, serie nona, no 23, p. 32 (Lejeune, XI, p. 97 = CII, 2623bis = Cr 1.179); la transcription du catalogue manui uanxviu a rendu les L de manli et uanxvil par des U (de forme V) et a amis le point de réparation entre les deux mots. Si on prend en considération les autres inscriptions vasculaires que présente le catalogue, on y reconnaît déjà deux exemples d’inscriptions parlantes avec mi suivi du génitif (en plus de celle dont nous sommes parti). Il signale en effet les deux documents suivants: – Cataloghi, séries IX et X, no 62 de la salle I (OA 2.25, avec lecture à corriger; REE, no 73, SE, 56, 1989-1990, p. 350-356). Il s’agit de l’inscription mi laucies mezenties, aujourd’hui au musée du Louvre, dont la transcription donne une lecture dextroverse (ce qui montre que le texte a été lu à l’envers, ce que confirment les inversions du S de laucies et du M de mezenties), qui donnerait un texte muaucies meiertiex, avec un dernier signe en forme de gamma majuscule, bien évidemment erroné. – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 149 de la salle A. L’ouvrage donne un fac-similé de cette inscription, qui n’a pas été relevée dans les recueils d’épigraphie étrusque. Il s’agit, compte tenu des deux premiers A déformés et rendus illisibles, d’un graffite qui se lit mi tarnaial, actuellement exposé au musée du Louvre21. D’autres inscriptions, notées dans le catalogue, correspondent à des noms isolés, mis au génitif. Rentrent dans cette catégorie quatre cas: – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 99 de la salle A: graffite portant le nom étrusque Uenus, incisé sous le fond d’un vase exposé au musée du Louvre: là encore cette inscription n’a pas été prise en compte dans la littérature épigraphique22. Le catalogue en donne 20. M. LEJEUNE, Note sur les vases de terre cuite avec inscriptions étrusques du musée du Louvre, SE, 26, 1958, p. 85-101. 21. On verra à ce sujet notre note REE, no 105, SE, 64, 1998, p. 438-439. 22. Une note de notre part concernant cette inscription est parme dans REE, no 104, SE, 64, 1998, p. 437-438.
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un fac-similé, avec un sigma quadrilinéaire alors qu’il s’agit d’un S normal à trois traits. – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 113 de la salle A (REE, no 78, SE, 56, 1989-1990, p. 361-362); l’objet est la coupe bilingue d’Oltos portant sous le pied un graffite xarus – interprétable soit comme un anthroponyme, soit comme le nom du démon Charun23. Le fac-similé que donne le catalogue est correct. – Cataloghi, séries IV, V, VI, VII, no 230 de la salle A (REE, no 66, SE, 44, 1976, p. 252 = Cr 2.73); M. Martelli a étudié dans la REE de 1976 cette inscription (teiuurnaial) à partir de la publication que M. E. Eisman avait donné de ce kyathos attique à figures noires du Louvre24. Les Cataloghi Campana en fournissaient déjà une transcription, mais assez fautive (oubli du I, retournement du U, confusion du L final avec un U de forme V). – Cataloghi, série IX et X, no 217 de la salle I. Nous avons publié ce document dans la Rivista d’Epigrafia Etrusca de 1989-1990 (REE, no 45, SE, 56, 1989-1990, p. 332-336). Depuis M. Pandolfini Angeletti en a admis l’identification avec CII, 2170 = Vc 6.14 (voir CIE, 1173), ce qui permet d’entrevoir l’histoire préalable de l’objet, qui a fait partie de la première collection Durand, puis a été acheté par Millingen avant d’entrer dans la collection Campana25. Le texte se réduit au seul nom peint, marces, avec un tracé de forme circulaire et une ponctuation à trois points superposés. La transcription du catalogue a omis la lettre R. Enfin, on peut mentionner une dernière inscription vasculaire étrusque présentée dans les Cataloghi Campana: une inscription peinte, sur un vase du Louvre étudié par M. Lejeune dans son article de Studi Etruschi de 1958 (Lejeune, no III, p. 90 = Cr 0.46), qui porte un mot peu clair, ruta. Une transcription, présentée par erreur en sens dextroverse et avec un R de forme D alors qu’il a la forme P, en était donnée dans les Cataloghi, dans les séries de vases IX et X, sous le no 60 de la salle I. Les Cataloghi Campana fournissent également de nombreuses transcriptions d’inscriptions étrusques relevant d’une autre catégorie: celles portées sur des urnes de terre cuite (appartenant à la production chiusienne des IIème/Ier siècles av. J.-C.) ou sur des urnes ou sarcophages de pierre (originaires de Chiusi ou de Volterra)26. On voit ainsi signalées seize autres inscriptions étrusques. Douze d’entre elles, portées sur des urnes de terre cuite, sont présentées dans la «serie ottava, sarcofagi e urnette cinerarie etrusche» de la classe 4. Comme dix d’entre elles appartiennent aux collection du Louvre et une à celles du musée de Marseille, un contrôle des lectures nous a été possible dans leur cas. Il s’agit de: – Cataloghi, no 23, p. 27 (CII, 2624bis e = CIE, 3204 = Cl 1.2599). La transcription, difficilement interprétable, pourrait se lire xastntpu: sl xxx, ce qui est bien évidemment incompréhensible. Mais H. Rix a su reconnaître, déformé, un gentilice du type h/fastntru, ce que l’autopsie confirme (mais le groupe qui suit serait vl plutôt que sl). – Cataloghi, no 47, p. 28 (CII, 2554quater = CIE, 1783 = Cl 1.1291). Le texte est ataine: ves´us´a:, correctement transcrit. – Cataloghi, no 57, p. 28 (CII, 2624bis c = CIE, 3107 = Cl 1.1673). Le relevé, malaisé à interpréter, donne ici une lecture particulièrement peu satisfaisante, qui serait ...ur vtv: 23. Pour la discussion à ce sujet, voir en dernier lieu A. MAGGIANI, dans Vasi attici figurati con dediche a divinità etrusche, Rome, 1997, p. 41 (penchant pour un anthroponyme). 24. Dans Attic kyathos production, «Archaeology», 28, 1975, figure p. 77; cf. aussi E. POTTIER, Musée national du Louvre. Catalogue des vases antiques de terre cuite, III, Paris, 1905, p. 775. 25. Voir plus haut, n. 10. 26. Nous nous contenterons ici de notes rapides sur ces objets, que nous étudions par ailleurs dans le cadre d’une publication à laquelle M.-F. Briguet nous a fait l’amitié de nous associer pour la partie épigraphique (Les urnes cinéraires étrusques de l’époque hellénistque, Musée du Louvre, Paris, 2002).
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arva. uuaiaz: là encore les propositions de lecture de H. Rix ([a]u: vete: ar: veluurial:) sont conformes à la réalité de l’objet. – Cataloghi, no 67, p. 29 (CII, 724 = CIE, 2084 = Cl 1.1590). Le catalogue donne une transcription peu satisfaisante de l’inscription (au: veiza: u: cixal), qui a été mieux notée par G. B. Vermiglioli et G. Conestabile27, et dont le texte est au veiza: lu: cainal. – Cataloghi, no 68, p. 29 (CII, 2624bis b = CIE, 2455 = Cl 1.1636). La transcription est ici encore fautive; elle donne un texte qui serait arsca: pel: els´u: pierual, alors que la fin est à comprendre comme vels´u: petrual, comme cela avait été relevé dans le CIE, et le début arnza, comme cela a été suggéré dans Etruskische Texte. Ce prénom arnza est suivi d’un gentilice tite. – Cataloghi, no 69, p. 29 (CII, 2570bis = CIE, 3121 = Cl 1.2234). La transcription est peu satisfaisante: ...sa: seati...unta... pour un texte qui est uana: s´eiati: unial, comme cela figure dans le CIE (avec cependant un uania) et les Etruskische Texte. – Cataloghi, no 82, p. 29 (CII, 2624 puis Suppl. 2, 125 = CIE, 1830 = Cl 1.1413). Le ua: vainei: s´ininei du catalogue a été corrigé à juste titre en ce qui concerne cainei par A. Fabretti à la suite de sa visite au Louvre en 1872 (mais il a eu le tort de rétablir la forme complète uana, qui est abrégée dans l’inscription). – Cataloghi, no 93, p. 29 (CII, 2569bis = CIE, 2730 = Cl 1.2217). Le catalogue donne une transcription à peu près exacte de l’inscription (fasuz: s´ urnei: ucrislanesa), la seule véritable erreur concernant le I final du prénom, rendu par Z; en outre les deux points finaux manquent. – Cataloghi, no 114, p. 29 (CII, 2617bis = CIE, 2298 puis CIE, II, p.119 = Cl 1.1806). Le catalogue aboutit à une leçon impossible (ilapu: fe: ine: ulu: larual: canal). Aussi le CIE avait-il préféré la lecture de Conestabile, faite lors de sa visite au Musée Napoléon et consignée dans le Second spicilegium de 1863 (laru. uxu. larual. cainal). Mais celle-ci aussi est inexacte et le texte est à lire comme Danielsson l’avait proposé dans le tome II du CIE, à la suite d’une autopsie datant de 1909, selon une lecture qui a été à juste titre retenue dans Etruskische Texte (laru. herine fulu. larual. cainal). – Cataloghi, no 115, p. 29 (CII, 2624bis a = CIE, 3126 et aussi CII, Suppl. 2, 126 = CIE, 3205 = Cl 1.2127). Le catalogue donne une transcription qu’on peut comprendre (compte tenu de la forme donnée aux M et A du dernier terme) uana. lauti. ste stnal. remnis´a. Dans le CIE (pour le no 3205) avait été proposée, avec raison, une forme de matronyme svestnal. Mais H. Rix (qui a compris l’identité des deux inscriptions CIE, 3126 et CIE, 3205) avait noté l’étrangeté du gentilice lauti, qu’il proposait de compléter en [p]lauti. En fait il y a là une lecture erronée des Cataloghi pour larci, que l’examen effectué par A. Fabretti en 1872, très insuffisant (il ne s’est pas avisé de l’identité de l’inscription qu’il voyait alors à Paris et qu’il allait publier dans son deuxième supplément et de celle qu’il avait relevée dans le CII de 1867 à partir des Cataloghi Campana), n’avait pas permis de corriger. – Cataloghi, no 79, p. 29 (CII, 2558bis = CIE, 1870 = Cl 1.1424). Le relevé donne un texte peu satisfaisant (uana: cainie: ua: nena...), pour lequel Fabretti avait déjà envisagé une lecture du gentilice cainei, puis que Pauli, dans le CIE, a proposé de corriger en uana: cainei: uansina[l], proposition reprise dans Etruskische Texte. En réalité, le texte de cette inscription, qui se trouve au musée de Marseille, est uana: cainei: hax sesa. Dans tous ces cas, les inscriptions ont été retrouvées, ce qui permet de donner des lectures assurées – et de constater les fautes des transcriptions du catalogue Campana. Il n’en va pas de même pour une dernière inscription de cette série, qui ne paraît correspondre à aucun objet que nous ayons vu au musée du Louvre ou dans ceux des musées de e
27. Respectivement dans F. INGHIRAMI, Lettere di etrusca erudizione, Fiesole 1828, p. 78 et Archivio Storico Italiano, n.s., 13, 1, 1858, p. 13, n. 2.
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province ayant reçu des pièces de la collection Campana que nous avons pu jusqu’à présent visiter28. Cette inscription est: – Cataloghi, no 96, p. 29 (CII, 2572ter = CIE, 2083 = Cl 1.1587). Le catalogue offre un texte larui: veuie..., que les points de suspension laissent supposer incomplet (ce qu’indiquerait aussi, si on suit cette lecture, la terminaison masculine d’un nom Veuie après le prénom féminin Larui). Les Etruskische Texte, qui donnent une lecture larui veune tinas´a, paraissent confondre cet objet (qui est une urne) avec un autre (qui serait une olla). Dans ce cas, la disparition de l’original interdit de donner une lecture sûre, et donc de corriger le texte, certainement fautif, des Cataloghi Campana. Il reste enfin une dernière série d’inscriptions à relever parmi celles notées dans le catalogue: celles, regroupées dans la classe 4 dans la «serie decimaterza», qui comprend les «sculture etrusche in alabastri e pietre indigene». C’est là qu’on trouve les urnes et sarcophages en pierre, éventuellement en albâtre. Pour quatre de ces objets des inscriptions sont mentionnées. Comme ces quatre objets sont entrés dans les collections du musée du Louvre, nous avons donc pu confronter les lectures des Cataloghi Campana aux originaux, et constater une fois de plus la présence d’erreurs: – Cataloghi, no 3, p. 42 (CII, 341bis et 737 = CIE, 162 = Vt 1.158). Le texte porté sur cette urne de pierre – à laquelle le catalogue attribue indûment une origine volterrane alors qu’on a affaire à une production de Chiusi – est correctement noté (laru: trepus´: larual), si on excepte la forme de V donnée à la première lettre L. – Cataloghi, no 5, p. 42 (CII, 839bis z = CIE, 2770 = Cl 1.2257). Comme le notait déjà A. Fabretti, on a affaire à un titulus male transcriptus. La transcription ne donne rien de clair: u ...unpinir pipumer ...IICxx et l’hypothèse de Pauli (u[ana. sa]unei. arn. cumer[unia]), qui avait bien identifié le cognomen, doit être améliorée pour le début, où apparaît le gentilice s´entinati, reconnu par Rix. Mais en fait cette inscription ne fait qu’une avec celle lue par G. Conestabile au Musée Napoléon et notée par lui dans son Second spicilegium de 1863 (et examinée ensuite en 1888 par M. Bréal au Louvre), devenue CII, 2570quater = CIE, 2768 = Cl 1.2256, dont G. Colonna a donné récemment une lecture améliorée29: u[ania:] s´entinati: cumer[un]ia...vels´is´a. – Cataloghi, no 7, p. 42 (CII, 788 = CIE, 1447 = Cl 1.363). L’inscription de ce sarcophage de marbre de la tombe des Umrana de Chiusi, publiée déjà dans l’Etrusco Museo Chiusino de F. Inghirami et D. Valeriani, de 1833, puis reprise par G. Conestabile dans son Second spicilegium, de 1863, est venza: umrana: arnualis´a. La transcription qu’en donnent les Cataloghi est assez approximative; elle se laisserait lire: vvnla umran arn uaiisa30. – Cataloghi, no 8, p. 42 (CII, 2624bis d = CIE, 3206 = Cl 1.1618). Le relevé aboutit à un texte lvel ei larualv, repris tel quel dans le CII puis le CIE, et pour lequel les Etruskische Texte avancent une proposition de restitution [laru]i vel[n]ei larual v[ (contradictoire avec le caractère masculin, noté dans le catalogue, du défunt représenté). Mais il convient d’identifier cette inscription avec celle, relevée par M. Bréal au musée du Louvre en 1888, qui est devenue CIE, 2131 = Cl 1.1634, 28. Nous avons pu jusqu’à présent nous rendre dans les musées de Lille, Beauvais, Rouen, Lyon, Marseille, Aix-en-Provence, Avignon, Bordeaux, Poitiers, Tours, Grenoble, Auxerre, Bourges, Annecy, Clermont-Ferrand, Riom, Metz, Nancy, Colmar, Épinal, Langres, Besançon, Reims, Nîmes, Montpellier, Nice, Angoulême, Rennes, Le Mans, Nantes, Chartres, Orléans, Limoges, Tarbes, Amiens, Boulogne, Laon, Soissons, Saint-Omer, Bernay, Evreux, Alençon. La Russie n’a acquis aucun objet de ce type provenant de la collection Campana. Voir A. I. CHARSEKIN, Etruskische Inschriften in den Museen der UdSSR, dans Untersuchungen zur römischen Geschichte, sous la direction de F. Altheim, Francfort 1963, III, p. 70-81. 29. Dans REE, no 34, SE, 59, 1993, p. 280-281. 30. Cette inscription a également été étudiée récemment par G. COLONNA; voir REE, no 33, SE, 59, 1993, p. 280.
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et que ce savant lisait vel. ve... larual. visce. La fin du texte est il est vrai très érodée. Le catalogue signale enfin une inscription étrusque portée sur un objet d’une catégorie différente, le casque de bronze découvert dans une tombe de Bolsena aujourd’hui exposé au musée de l’Ermitage. Il figure sous la rubrique Altri elmi et armi disgiunte, comme no 5 à la page 3, dans la partie consacrée à la Classe II, dei bronzi etruschi e romani, au sein de la sezione prima, armi offensive e difensive etrusche e italo-greche. L’inscription, publiée par A. I. Charsekin31 et maintenant dans le fascicule du CIE consacré à l’instrumentum de la région de Volsinies sous le no 10864 (= ET, Vs 4.97), se réduit au mot s`uuina. La notice, qui définit inexactement l’objet comme étant fait en argent (magnifico elmo etrusco di piastra di argento), donne la bonne lecture, mais avec une transcription peu fidèle dans le détail (N de sens dextroverse dans cette inscription sinistroverse, A de type latin usuel).
31. Voir «Etruskische Inschriften in den Museen der UdSSR», dans Untersuchungen zur römischen Geschichte, sous la direction de F. ALTHEIM, Francfort, 1963, III, p.79, no 16 et Two Inscribed Objects from Hermitage Museum of Leningrad, SE, 27, 1959, p. 151-153.
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HERACLITUS AND INDO-EUROPEAN FAME* GABRIELE COSTA As E. Hussey has recently pointed out1, there is still a need for the systematic application of textual and linguistic expertise to the whole corpus of the fragments of Heraclitus. This paper aims to begin to bridge the gap. In fragment 29 D.-K. a™irey^ntai e£n a∫nti` a™pa´ntvn o™i a£ristoi, kle´ow a∫e´naon unhtv ^ n. o™i de` polloi` keko´rhntai oçkvsper kth´nea.
«the best choose one thing in exchange for all, everflowing fame among mortals; but most men have sated themselves like cattle»2 we can find one of the two attestations in Greek literature of the iunctura ‘name plus epithet’ kle´ow a∫e´naon «everflowing fame». From a philological point of view the text of the fragment, transmitted by Clemens Alexandrinus, Stromateis, V, 59, 5 (II, p. 366, 11-13 Stählin-Früchtel), does not present any real difficulty3. From a textual point of view only the syntactical ambiguity of the genitive unhtv^n gave some trouble to scholars4, but generally speaking, the meaning of the fragment is quite clear, which is not very common in the case of Heraclitus. I shall return briefly to the general interpretation of the fragment later. The syntagm kle´ow a∫e´naon occurs elsewhere only in Simonides, Fr. 531,9 Page, the famous threnos for the Fallen at Thermopylae. In addition some scholars have also quoted as a possible echoing of this syntagm a∫e´naon tima´n in Pindar, Olympian, XIV, 125. In my view the vexata quaestio ‘who is quoting whom’ is here a false question. Let us see why: 1) The terminus post quem for Simonides’ poem is of course August 480 BCE, when the battle between Leonidas and his brave comrades against the Persian army took place, but at that time Heraclitus was probably already dead6. So Heraclitus cannot have quoted Simonides. 2) Pindar wrote his fourteenth Olympian for Asopichos, from the Boeotian city
* Carlo De Simone was my mentor during the two years (1997-98) I spent in Tübingen as A. von Humboldt-Stiftung fellow: it is for me an honor to congratulate here the scholar and a pleasure to celebrate the friend. The present article is part of a research project on preplatonic language I was able to develop thanks to a fellowship at Harvard University ‘Center for Hellenic Studies’ in Washington DC during the academic year 1999-2000. I am grateful to Greg Nagy and Cal Watkins for their generous support. 1. Cf. HUSSEY, 1999, p. 109. On preplatonic language, after B. Snell’s studies, see at least: TRAGLIA, 1952, DEICHGRÄBER, 1963, ADRADOS, 1973, PFEIFFER, 1975, PIERI, 1977, CAVALLI, 1982, CAPIZZI, 1987, CERRI, 1998, 1999, MOST, 1999a, 1999b. 2. Translation by KAHN, 1979, p. 73. 3. Clemens’ manuscript has e∫nanti´a pa´ntvn the correction eÇn a∫nti` a™pa´ntvn is by COBET in «Mnemosyne», 9, 1860, p. 437, and accepted by all editors. 4. Interpreting unhtv^n as a subjective genitive (see HUMBERT, 1972, pp. 267 ff., and cf. Empedocles, Fr. 3,6 D.-K. ey∫do´joio ...a¢nuea timh^w / pro`w unhtv ^ n I agree here with Wilamowitz, Snell, Burnet, Kirk - Raven, KAHN, 1979, DIANO, 1989, COLLI, 1996, etc., against MARCOVICH, 1978, and others. 5. See e.g. KAHN, 1979, p. 330. 6. The most probable dates for Heraclitus’ life are 540-480 BCE: cf. now LONG, 1999.
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of Orchomenos and son of Cleodamos, in honor of his stadion victory on 488 BCE7. Therefore Pindar cannot have quoted Simonides either. 3) It was ‘politically incorrect’ for Simonides to quote the Theban Pindar in his Thermopylae threnos, even indirectly, because of Thebes philo-Persian policy8. 4) For chronological reasons it is also quite unlikely that Heraclitus could have known Pindar’s poem and quoted it. Finally it is even possible that both Simonides and Pindar in their poems were echoing Heraclitus’ language, but I believe there is an easier way to explain where all three authors took these formulas independently from, i.e. from the heritage of Indo-European poetic language9. On the importance of the notion of ‘imperishable fame’ for Indo-European society, culture, and poetry, it is sufficient here to refer to R. Schmitt’s book10. Around this theme11 – «perhaps the central Indo-European theme»12 – is built a large set of formulaic expressions, which we have to attribute to the common poetic language. For example13: Ved. áksiti s´rávas ˙ máhi s´rávas vásus´ravas
kle´ow a¢fuiton me´ga kle´ow14 kle´ow e∫sulo´n kle´ow e∫yry´
urus´rávas / urus´ámsa
˙
prthú s´rávas / di¯rghas´rút ˙ ey∫kleh´w sus´rávas / sus´ruta a£sbeston kle´ow amrkta s´rávas15 ˙ a∫gh´raon / a∫gh´raton kle´ow16 s´rávas ajuryá / ajára a∫ua´naton kle´ow s´rávas amrta / amrtyu. ˙ ˙ 17 C. Watkins was able to demonstrate in his recent book , that »kle´ow + adjective’ is part of a larger, inherited, traditional verb phrase, whose semantics it is possible to model as thleklyto´w
Pro + BE / HAVE
IMPERISHIBLE
GET
UNQUENCHABLE
WIN
GOOD
GRANT
GREAT
etc.
etc.
FAME
(FOREVER)
7. Asopichos’ victory is wrongly dated by the scholia to 476 BCE, but see rightly among others PONTANI, 1976, p. 392. 8. The story is well known: see for ex. Lesky, I, pp. 260 ff. 9. After SCHMITT, 1967, on the Indo-European poetic language one can see: DURANTE, 1971-6, BADER, 1989, CAMPANILE, 1990, WATKINS, 1995, COSTA, 1998, 2000. 10. Cf. SCHMITT, 1967, Kap. II: Der ‘Ruhm’ als Zentralbegriff indogermanischer Heldendichtung. To find other literature on this topic, see WATKINS, 1995, COSTA, 1998. Still useful GREINDL, 1938, 1940. 11. Following NAGY, 1990, p. 4, note 14, I define theme as ‘a traditional unit of composition on the level of meaning’, and formula as ‘a traditional unit of composition on the level of wording’. See also COSTA, 1998, pp. 88ff. 12. Quote from WATKINS, 1995, p. 176; italics by the A. 13. For the Vedic and Greek passages and variants, and the comparisons with other Indo-European languages here unnecessary, see SCHMITT, 1967, pp. 61ff. 14. Cf. also me´ga ky^dow in Homer and other Authors. 15. On this comparison see CAMPANILE, 1990, p. 89. 16. Cf. ky^dow a∫gh´raon in Pindar, Pythian, II, 52. 17. See WATKINS, 1995, pp. 173-8.
HERACLITUS AND INDO-EUROPEAN FAME
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The word meaning EVER, expressed by different forms (EVERLASTING, ETERNITY, LIFETIME, etc.) is optional, and kle´ow can be substituted by synonyms such as timh´18, ky^dow, do´ja, o¢noma19, ey®xow or fa´tiw. In such passages as Il. VII, 91: e∫mo`n kle´ow oy¢ pot« o∫lei^tai and Od., XVI, 241: v® pa´ter, h® toi sei^o me´ga kle´ow a∫ie`n a¢koyon we have two variants of the basic phrase structured thus:
PROgen
poss
FAME
N-EVER
PERISH / HEAR.
Hence our formulas kle´ow a∫e´naon and a∫e´naon tima´n also appear to be just a different lexical variant of the same semantic model: NAME
(gen)
FAME
EVER
FLOW.
Or in a different way: kle´ow
a¢fuiton (a∫ei´)
→
a¢fuitow timh´
kle´ow
a∫e´naon
→
a∫e´naon tima´n20.
↓
∀
↓
The metaphorical aura behind the basic model and its variants with a∫e´naow is also the same. In its few other archaic attestations a∫e´naow is an adjective of ‘perennial waters’ as in Od., XIII,109: yçdat« a∫ena´onta21 Hesiod, Opera et dies, 550: potamv^n a∫ienao´ntvn Id., ibidem, 595: krh´nhw t«a∫iena´oy Simonides, Fr. 581,2 Page: a∫enaoi^w potamoi^os« Theocritus, XV, 102: a∫ena´v «Axe´rontow Herodotus, I, 93: li´mnh ...a∫e´nnaon Id., ibidem, 145: potamo`w a∫e´nnaow22. but it is also used of fire in Pindar, Pythian, I, 6: a∫ena´oy pyro´w. The metaphorical transfer is rather clear. Fame is everflowing, unquenchable, eternal as natural phenomena like water, fire, the ocean or the sun: see e.g. a∫sbe´sth flo´j in Il., XVI, 123, or «Vkeanoy^ pa`trow a¢sbeston po´ron in Aeschylus, Prometheus, 532; but cf. also a∫ka´maw / a∫ka´maton py^r in Il., XVI, 122 etc., and «He´lion d«a∫ka´manta in Il., XVIII, 239, 484, to 18. On the Greek concept of timh´, see Benveniste, 1969, pp. 321ff. 19. On the equivalence between ‘fame’ and ‘name’, see CAMPANILE, 1990, Cap. III: Il concetto di gloria nella società indoeuropea. 20. Cf. ey∫do´joio... timh^w in Empedocles, Fr. 3,6 D.-K. 21. In this passage and in the following one the form is a a∫e´navn, -oysa, ov. 22. Cf. also Pindar, Nemean, XI, 8, and Cratin, Fr. 20 D.
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GABRIELE COSTA
compare with Vedic syntagms as ájasra / ajára agní, but also with ajára / ájasra Su¯ rya23. It is not difficult to frame this kind of natural metaphor in Heraclitus’ philosophy, and together with whole fragment it is easy to include it in his ethical Weltanschauung24. But ‘the best choose fame in exchange for all’, because in the Indo-European world and then in the Greek one too, fame everflowing like a river awarded by poetry was the only available form of immortality for human beings25. Pindar says it best of all in his Isthmian, IV, 30-43: tv ^ n a∫peira´tvn ga`r a¢gnvstoi sivpai´, e¢stin d« a∫fa´neia ty´xaw kai` marname´nvn pri`n te´low a¢kron ™ike´suai. tv ^ n te ga`r kai` tv ^ n didoi^. kai` kre´sson« a∫ndrv ^ n xeiro´nvn e¢sfale te´xna katama´rcais« ¢iste ma`n Ai¢antow a∫lka´n, foi´nion ta`n o∫ci´aı e∫n nykti` tamvn` peri` v ı© fasga´nv ı , momfa`n e¢xei pai´dessin Ella´nvn, oçsoi Troi´and« e¢ban. a∫ll« çOmhro´w toi teti´maken di« a∫nurv ´ pvn, oÇw ay∫uoy^ pa^san o∫ruv ´ saiw a∫reta`n kata` pa´bdon e¢frasen uespesi´vn «epe´vn loipoi^w a∫uy´rein. toy^to ga`r a∫ua´naton fvna^en eçrpei, e¢i tiw ey® eçipW ti. kai` pa´gkarpon e∫pi` xuo´na kai` dia` po´nton be´baken e∫rgma´tvn a∫kti`w kalv ^ n a¢sbestow a∫iei´.
«For those who make no trial have an inglorious obscurity, and, even when men strive indeed, fortune does not show herself until they reach the final goal. For she gives of this, and of that; and ere now has the skill of weaker men overtaken and overturned a stronger than they. Verily you know of the valorous form of the bloodied Aias, which at the dead of night he pierced by his own sword, thus bringing blame on all the sons of the Greeks, as many as went to Troy. But Homer has honored him among men, and having set forth all his prowess, he showed to descendants how to play it with the bar of divine epic verses. For whatever one has well said goes forth with a voice that never dies, and thus, over the fruitful earth and athwart the sea, has passed the light of noble deeds unquenchable for ever»26.
23. See DURANTE, 1976, p. 93, and CAMPANILE, 1990, p. 89. 24. See among others KIRK, 1979. 25. About this topic see COSTA, forth. 26. Translation by SANDYS, 1978, with same modifications by the author of this paper.
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Heraclitus’ cryptic, oracular27, aphoristic, paradoxical prose28 still strongly depends on early Greek epic, but it is also in many way independent of Homer and Hesiod, of the archaic Greek literature that survives. Heraclitus’ language is still within the living heritage of Indo-European poetical tradition, its culture, enigmatic style29, and techniques, just like Simonides’ and Pindar’s poetry. Beginning to investigate preplatonic language systematically as a whole, we also need to keep this fact in mind. BIBLIOGRAPHY ADRADOS, 1973 = F. R. ADRADOS, El sistema de Heráclito: estudio a partir del lexico, «Emerita» 41, 1973, pp. 1-43. BADER, 1989 = F. BADER, La langue des dieux, ou l’hermétisme des poètes indo-européens; Pisa, Giardini, 1989. BATTEGAZZORE, 1979 = A. M. BATTEGAZZORE, Gestualità e oracolarità in Eraclito, Genova, Pubbl. dell’Ist. di Fil. Clas. e Med., 1979. BENVENISTE, 1969 = E. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, Paris, Minuit, 1969, Ital. Ed. Torino, Einaudi, 1976, voll. I-II. BOLLACK - WISMANN, 1972 = J. BOLLACK - H. WISMANN, Héraclite ou la séparation, Paris, Minuit, 1972. CAMPANILE, 1990 = E. CAMPANILE, La ricostruzione della cultura indoeuropea, Pisa, Giardini, 1990. CAPIZZI, 1987 = A. CAPIZZI Trasposizioni del lessico omerico in Parmenide ed Empedocle. Osservazioni su un problema di metodo, «Quaderni Urbinati di Cultura Classica» 25,1, 1987, pp. 107-118. CAVALLI, 1982 = M. CAVALLI, Note sul testo e sullo stile di Eraclito, «ACME» 35,1, 1982, pp. 29-47. CERRI, 1998 = G. CERRI, L’ideologia dei quattro elementi da Omero ai Presocratici, «Annali Istituto Orientale di Napoli, sez. Fil.- Lett.» 20, 1998, pp. 5-58. CERRI, 1999 = G. CERRI, Parmenide di Elea. Poema sulla Natura, Milano, Rizzoli, 1999. COLLI, 1996 = G. COLLI, La Sapienza greca. III. Eraclito, Milano, Adelphi, 1996 2nd Ed. COSTA, 1998 = G. COSTA, Le origini della lingua poetica indeuropea. Voce, coscienza e transizione neolitica, Firenze, Olschki, 1998. COSTA, 2000 = G. COSTA, Sulla preistoria della tradizione poetica italica, Firenze, Olschki, 2000. COSTA, forth. = G. COSTA, Altre espressioni indeuropee dell’eternità, in print. DEICHGRÄBER, 1963 = K. DEICHGRÄBER, Rhythmische Elemente im Logos Heraklit, Wiesbaden, Steiner, 1963. DIANO, 1989 = C. DIANO - G. SERRA, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, Milano, Fond. L. Valla - Mondadori, 1989 3rd Ed. DURANTE, 1971-6 = M. DURANTE, Sulla preistoria della tradizione poetica greca, Roma, Ateneo, 1971 vol. I, 1976 vol. II. FLOYD, 1992 = E. D. FLOYD, Why Parmenides Wrote in Verse, «Ancient Philosophy» 12, 1992, pp. 251-265. GREINDL, 1938 = M. FR. GREINDL, KLEOS, KYDOS, EYXOS, TIMH, FATIS, DOJA. 27. See also BATTEGAZZORE, 1979, and PUCCI, 1996. 28. See also FLOYD, 1992. 29. See BADER, 1989.
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SCRITTURA E ARTIGIANI SULLA ROTTA PER L’OCCIDENTE BRUNO
D’AGOSTINO
Con Carlo De Simone, nella fraterna amicizia – antica come gli anni della nostra giovinezza – ho condiviso anche la passione per Itaca, luogo della memoria. Nel rendere omaggio allo studioso, mi è sembrato naturale ritornare con l’amico lungo rotte a noi care. Lo spunto per queste riflessioni nasce dalla lettura dell’ultimo libro di A. Snodgrass1: si condividano o no fino in fondo le sue conclusioni relative al rapporto tra Omero e gli artisti, non si può non riconoscere che esso pone su un livello elevato e criticamente fondato la riflessione sull’iconografia del periodo geometrico. Rimandando a un’altra occasione la discussione che il libro merita, vorrei riprenderne qui solo un aspetto: quello relativo alla scarsa presenza di iscrizioni dipinte nella ceramica, anche quando l’uso della scrittura incomincia a diffondersi tra la metà dell’VIII e i primi decenni del VII sec. Io credo che Snodgrass abbia ragione quando sostiene che, avessero o no la capacità di leggere e scrivere, comunque gli artigiani dell’epoca non possono essere rimasti totalmente estranei all’uso della scrittura2; ciò non significa naturalmente che essi dovessero essere tutti alfabetizzati, a prescindere dal ruolo e dal luogo. Quando, riprendendo una idea di Robertson, egli accenna al carattere centrale dell’artigiano che crea e dipinge i vasi nel periodo geometrico, chiaramente egli ha in mente i pittori dello stile del Dipylon e la Atene dell’VIII sec. Lasciando per il momento da parte questi distinguo, che torneranno utili in seguito, mi sembrano comunque convincenti entrambi le motivazioni che egli adduce per spiegare l’assenza di iscrizioni sui vasi di stile geometrico: la volontà «arcaizzante», che si manifesta anche in alcune scelte iconografiche3, e il desiderio di affidare per intero la fruizione dell’immagine alla appercezione della composizione, lasciando libero lo spettatore di «costruire storie intorno alle immagini», come del resto fa Omero quando descrive lo scudo di Achille4. Se si vuole, un punto debole nella costruzione di Snodgrass, sta proprio nella sua ipotesi di fondo. Egli sottolinea la differente condizione del ceramista rispetto al cantore: il primo intento a costruire ex novo un linguaggio figurativo, mentre il poeta poteva contare su cinque secoli di tradizione epica. La necessità di «inventare» una tradizione iconografica avrebbe spinto il pittore a puntare tutto sulla composizione, accettando così di limitare la sua capacità espressiva. Se ho ben compreso il pensiero dell’illustre studioso, mi sembra che questa impostazione faccia riemergere – in un’opera così avanzata e innovativa – un involontario residuo evoluzionista. Non è il caso di ricordare che stile e tipi sono intrinseci all’espressione artistica e non possono condizionarla, ma piuttosto ne sono condizionati5 o in ogni caso esiste tra questi aspetti un rapporto dialettico. A mio avviso, il discorso di Snodgrass funziona, a condizione di riconoscere, come suggerisce la Ahlberg-Cornell6 e come del resto si evince dal suo stesso discorso, che la scelta del mezzo stilistico dipenda da un sostanziale disinteresse dell’artigiano per l’a1. SNODGRASS 1998. Il libro è il coronamento di una lunga riflessione sui temi iconografici e iconologici. 2. SNODGRASS 1998, p. 160, ma cfr. anche pp. 50 ss., 101. 3. Si veda ad esempio la frequente rappresentazione di «eroi» con lo scudo bilobato, già da tempo caduto in desuetudine. 4. SNODGRASS 1998, p. 161. 5. E. PANOFSKY, Il significato nelle arti visive, 1955, trad.it. Torino 1962, pp. 29 ss. 6. G. AHLBERG-CORNELL, Myth and epos in early Greek art – Representation and interpretation, SIMA, Jonsered 1992, p. 179.
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spetto «narrativo» (nel senso di raccontare una storia determinata): nella poesia e nei vasi, l’oggetto della rappresentazione è comunque lo stesso mondo cantato da Omero, che il ceramista illustra in immagini «tipiche», e il cantore dell’epica – per le sue esigenze espressive – individualizza e storicizza. Proprio dalla lettura del libro di Snodgrass questa differente «formularità» emerge con tutta chiarezza. L’uso della scrittura è dunque estraneo a questo tipo di poetica, se inteso come un supporto interpretativo alla rappresentazione, e rimane sostanzialmente estraneo alla ceramografia dell’epoca anche in altre funzioni, salvo a diventare esso stesso oggetto autonomo di rappresentazione, come in una oinochoe da Itaca, sulla quale ritorneremo in seguito7. Da questo caso occorre distinguere alcune altre rare eccezioni, nelle quali il testo dipinto è la firma dell’artigiano autore del vaso. Poichè si tratta di oggetti molto noti8, ci si limiterà a fornire solo la bibliografia essenziale:
Fig. 1 – Ischia. Museo - Frammento di cratere di produzione locale con figura di sirena. 1 – Pithekoussai (Ischia) – Frammento di cratere di produzione locale (fig. 1) dalla loc. Mazzola, con iscrizione retrograda: [- -]inow m« e∫poi´e¯ se. Anteriore al 700 ca. a.C.9. 2 – ‘Candeliere’ di fabbrica locale (fig. 5) da Aetos (Itaca) con iscrizione intorno al collo: kalikle´aw poi´ase. Secondo Robertson e la Benton, l’alfabeto è una variante locale dell’Acheo10.
7. V. infra nota 20. 8. Cfr. da ultimo GUARDUCCI EG III, pp.471 ss.: «Firme di artisti». Su alcune delle iscrizioni cui si farà riferimento nel corso di questa nota sono ritornati di recente M.L. Lazzarini e A.C. Cassio in G. BAGNASCO GIANNI e F. CORDANO edd., Scritture Mediterranee tra il IX e il VII sec. a.C., Milano 1998. 9. POWELL 1991, pp.128 s. n.10; BARTONE˘ K-BUCHNER 1995, p. 177 B1, Abb. 43. G. Buchner annota che, rispetto alla datazione al 700 ca. indicata da JOHNSTON 1983, p. 64 fig. 4, si deve presumere che il frammento sia un po’ più antico. 10. ROBERTSON, in BSA XLIII, 1948, pp. 88 s.n. 534 tavv. 38-39, 107 ss.; S. BENTON, in BSA XLVIII, 1953, p. 328 nota
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3 – Dinos di Smirne con iscrizione dipinta sull’orlo: Istrokles11. 4 – Cratere di Aristonothos12. 5 – Frammento di cratere dall’isola di Naxos con iscrizione ...afsen13. 6 – Aryballos ovoide protocorinzio d’imitazione, a Boston, con iscrizione di Pyrrhos14. In tutti questi casi è evidente una intenzione ostentatoria: le firme sono infatti collocate in posizione di grande evidenza, a complemento della zona figurata. Il carattere enfatico di questa collocazione è reso più evidente dal contrasto con l’unica iscrizione dipinta di natura diversa: ej &eo¯ 15 su un cratere euboico rinvenuto nella celebre tomba della coppa di Nestore a Pithekoussai; questa è infatti situata sul piede del vaso, quasi nascosta all’interno dello spartito decorativo. Si tratta dunque di enunciazioni forti, che sembrano voler esibire ad un tempo l’orgoglio dell’artigiano e la sua competenza scrittoria che, a un livello cronologico così antico, deve ritenersi tutt’altro che scontata. Sotto questo profilo l’aryballos di Pyrrhos rappresenta il caso limite, dal momento che la firma è l’unica decorazione che campeggia sul corpo del vaso. È per lo meno singolare che due tra le firme più antiche provengano da luoghi come Pithekoussai e Aetos, che segnano tappe essenziali nella rotta verso Occidente. La spiegazione del fenomeno sembra da ricercare nella condizione degli artigiani in questi particolari insediamenti16. Per adoperare le parole di M. Giangiulio17, il loro distacco dalle casate aristocratiche consentì lo sviluppo di momenti competitivi e di «scatti» dell’autocoscienza professionale, più difficili e rari nelle poleis aristocratiche della madrepatria. Anche le altre iscrizioni dello stesso tipo provengono da aree esterne alle grandi poleis agrarie della Grecia propria, dove la marginalità dell’artigiano doveva essere più forte. In tutti questi casi, l’uso della formula e∫poi´hse indica che le figure del ceramista e del decoratore sono in questo momento ancora indistinte. La prima comparsa della figura autonoma del decoratore risale alla metà del VII ed è documentata dal già citato frammento di cratere di Nasso18. A Pithekoussai come a Itaca, colpisce l’interesse per la scrittura, al quale si accompagna il gusto per l’epica. Famoso è il caso della coppa di Nestore19; meno noto quello di Aetos, con l’oinochoe conica di fabbrica locale con iscrizione che corre sul ventre da sinistra a destra ]ma´lista ho`n[...j]e´nFow te fi´low kai` p[is]to`w e™tai^row20. A Itaca il caso non è isolato, come documenta un’altra oinochoe ˙di˙ fabbrica locale da Aetos (Itaca) con breve iscrizione di lettura incerta21. Il riferimento all’epica è realizzato, nei due testi leggibili, in maniera diversa: nella coppa di Nestore, l’iscrizione si pone in una sorta di contrappunto ironico con il testo omerico. Per quella di Itaca si è supposto che essa conservi – piuttosto che un epigramma 506; JEFFERY 1961, pp. 230 ss. n.2 tav. 45; GUARDUCCI EG I, pp. 275 s. n. 2 fig. 126. 3; POWELL 1991, pp. 139 s.n. 33. 11. GUARDUCCI EG I, pp. 270 ss., n. 11 fig. 123; POWELL 1991, pp. 140 s.n. 35. 12. JEFFERY 1961, p. 239 ss.n. 24 13. GUARDUCCI EG III, p. 473 fig. 186. 14. JOHANSEN 1929, p. 171 fig. 113 note 6-8; JEFFERY 1961, pp. 82, 88, n. 22 tav. 6; GUARDUCCI EG III pp. 477 s. nota 5. 15. BARTONE˘ K-BUCHNER 1995, p. 177 n. 44. 16. B.D’AGOSTINO, «La funzione dell’artigianato nell’Occidente greco dall’VIII al IV sec. a.C.», in Atti XII Convegno Taranto 1972, Napoli 1973, pp.207-236; MELE 1979; GIANGIULIO 1981. 17. GIANGIULIO 1981, p. 153 n. 5, che cita Mele 1979, pp. 70-71. 18. V. supra n. 5 nota 13. 19. HANSEN 1983, pp. 252 s. n. 454; POWELL 1991, pp. 163 ss. n. 59; BARTONE˘ K-BUCHNER pp. 146 ss., n. 1: il vaso è di fabbrica greco-orientale; l’iscrizione è di tipo euboico. 20. ROBERTSON, in BSA XLIII, 1948, pp. 79 ss. n. 490 tav. 34; JEFFERY 1961, pp. 230 ss. n. 1 tav. 45.; HANSEN 1983, pp. 251 s. n. 453; POWELL 1991, pp. 148 ss. n. 46. 21. ROBERTSON, in BSA XLIII, 1948, pp. 79 ss. n. 529 tav. 32; JEFFERY 1961, p. 231 n. 1.
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– una piccola parte di un poema sconosciuto22. Eppure non è sfuggita l’analogia tra questo testo e quello di uno dei graffiti attici dal Monte Imetto, su un frammento di coppa che – proprio per questa somiglianza con l’iscrizione di Itaca – è stato datato da R.Young all’inizio del VII sec.23. Nell’oinochoe di Itaca, il legame tra l’iscrizione e il vaso è diretto: qui come per l’altra oinochoe da Aetos, come del resto per le firme d’artista sopra ricordate, l’iscrizione si identifica con la decorazione del vaso. Si può dire che il vaso rifletta su sè stesso, sulla propria funzione, come sembra voler suggerire la sua immagine riprodotta in pittura sul suo fondo. La sua funzione, attraverso il trascorrere del vino di coppa in coppa, è quella di consolidare legami di pistis tra etairoi: siamo dunque anche in questo caso nel mondo del simposio, cosa che del resto è probabilmente vera per la stessa oinochoe del Dipylon24. Lo scenario relativo a questo importante monumento è stato ricreato con maestria dal Powell: «il compositore delle parti metriche dell’iscrizione deve essere stato un poeta orale, un aoidos come Omero...perchè il linguaggio è omerico e i cantori di versi Omerici sono aoidoi». Egli è chiamato ad intervenire, come Demodokos nella reggia di Alcinoo, quando i convitati alla dai´w sono invitati a dimostrare la loro abilità nella danza. Come Alcinoo tiene a sottolineare (Od. VIII vv. 248 ss.): ai∫ei` d«h™mi^n dai´w te fi´lh ki´&ari´w te xoroi´ te. Beninteso, la dai´w non è ancora il simposio così come il xoro´w non è il komos. Ma nessuno potrebbe negare il legame che esiste tra queste situazioni. Nell’oinochoe del Dipylon, come in quella di Itaca, un aoidos ha creato i versi: non possiamo dire se lo abbia fatto per l’occasione. Molto probabilmente si trattava di versi inseriti in un testo più ampio, ma ricorrenti in maniera formulare in contesti analoghi a quelli evocati dal canto, come sembra dimostrare l’analogia tra l’iscrizione di Itaca e quella dell’Imetto. Non sono un epigrafista (e me ne rammarico): stando alla bibliografia, sembra comunque che – nei versi dipinti o graffiti sui vasi nel contesto della dai´w e del simposio – la mano che ha tracciato i segni fosse euboica. La cosa è fuori discussione per la coppa di Nestore, e per il suo péndant da Eretria25, ma è anche probabile per l’iscrizione sull’oinochoe di Aetos, come suggerisce la Jeffery per la forma caratteristica del lambda26. Perfino sull’oinochoe del Dipylon, l’iscrizione che conserva il più antico documento letterario greco è stata probabilmente tracciata da un forestiero: forse un visitatore proveniente dall’Eubea, come propone il Powell riprendendo una suggestione della Jeffery27. Lo stesso quadro si ripropone almeno per alcune tra le firme di artigiano: oltre a quella di ...inos sul cratere di Pithekoussai, bisogna infatti aggiungere forse anche quella di Pyrrhos sull’aryballos di Boston, che la Guarducci propone di attribuire a Cuma28. A favore dell’origine dei due vasi da uno stesso ambiente potrebbe essere invocato il fatto che in entrambi, e solo in essi in quest’epoca, il vaso medesimo si riconosce come fonte dell’enunciazione29. Più difficile è il caso di Aristonothos. L’assegnazione della firma a un alfabeto euboico coloniale è solo una suggestione della Jeffery30, che propone di attribuire il vaso a Cuma. Di fronte alla mancanza di elementi epigrafici dirimenti, non può non pesare, in questo caso, l’ipotesi della Guarducci, che propone invece di assegnare il vaso a 22. HANSEN 1983, pp. 251 s. n. 453. 23. JEFFERY 1961, p. 69 n. 5. 24. HANSEN 1983, pp. 239 s. n. 432; POWELL 1991, pp. 158 ss. n. 58. 25. A.W. JOHNSTON-A.K. ANDRIOMENOU, «A Geometric Graffito from Eretria», in BSA 84, 1989, pp. 217-220. 26. JEFFERY 1961, p. 230. 27. POWELL 1991, p. 162 n. 107. La Jeffery (p. 16) pensava a un Greco di Al Mina. 28. V. supra nota 14. 29. Questo carattere è reso evidente dalla presenza del pronome (m’) che si pone come oggetto di e∫poi´e¯ se. 30. JEFFERY 1961, pp. 239 ss. n. 24. La Guarducci (EG III p. 477), pur riconoscendo che mancano elementi decisivi, propende invece per Siracusa.
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Siracusa31. Come ha infatti rilevato a suo tempo lo Schweitzer32 nel magistrale articolo dedicato al cratere ceretano, sono notevoli i debiti di Aristonothos verso l’ambiente della Sicilia nord-orientale. Se dunque la spinta ad apporre la firma in posizione enfatica su un vaso nacque probabilmente in ambienti, come Pithekoussai e Itaca, per le circostanze socio-economiche alle quali si è in precedenza accennato, quest’uso fu favorito dal feeling che in ambito euboico si era stabilito tra la scrittura e il vaso, sullo sfondo del simposio. Anche la elaborazione culturale del simposio trova in quest’ambiente le sue precoci attestazioni. Infatti, proprio alla luce della iscrizione sulla coppa di Nestore, O. Murray è giunto a supporre che l’affermazione di questo costume in Grecia dovesse retrodatarsi agli ultimi decenni dell’VIII sec.33. Il problema viene riproposto in maniera inquietante da una straordinaria tomba di guerriero da Eretria, databile al secondo quarto del IX sec. e pubblicata solo in questi giorni34: infatti, con una scelta eccezionale per il mondo greco35, il suo corredo comprende l’intero servizio per il consumo del vino, con almeno un cratere, l’oinochoe e lo skyphos36. Quest’uso della firma e della stessa scrittura come parte essenziale della decorazione del vaso travalica rapidamente lo stretto ambito euboico; nella stessa Itaca, esso coinvolge l’ambiente locale: il ‘candeliere’ di Kallikleas reca infatti una iscrizione in alfabeto encorio di tipo acheo. Probabilmente l’esempio euboico ha funzionato come modello culturale anche in casi come il cratere di Aristonothos, radicandosi – sia pure in misura modesta – in ambiti marginali rispetto al mondo greco. Questa nota si potrebbe concludere qui: forse è opportuno tuttavia chiedersi ancora quale criterio abbia guidato i primi artigiani nella scelta dei vasi sui quali apporre la loro firma. Il problema non si pone per il cratere di Aristonothos, dove il programma iconografico – strutturato e complesso – giustifica di per sè l’orgoglio dell’autore37. Tuttavia, fatte le debite proporzioni, anche nei due casi più antichi, di Pithekoussai e di Itaca, il soggetto della scena figurata è inusuale, e non trova confronto in alcun altro vaso dell’epoca. Il caso pitecusano (fig. 1) è più semplice38: a prescindere da fantasiose elucubrazioni39, sia l’editore che gli altri studiosi hanno suggerito di riconoscervi «la testa barbuta di un essere alato, forse una sfinge» (Orlandini): è una strana testa40, con le trecce che discendono sui due lati e una sorta di «corona», o forse un piumaggio che la sormonta. La posizione di prospetto, con le ali spiegate, conviene forse più a una sirena che a una sfinge, e la sua duplice natura potrebbe essere evocata dalla strana forma «a becco d’uccello» della parte inferiore del volto. Nessuno si è chiesto che cosa rappresentasse la linea arcuata circondata di puntini di31. GUARDUCCI EG III, p. 477. 32. Il quadro a suo tempo tracciato dallo Schweitzer ha trovato ulteriori conferme nei rinvenimenti successivi all’articolo stesso. 33. O. MURRAY, «Nestor’s cup and the origin of the Greek symposion», in Apoikia – Scritti in onore di Giorgio Buchner (AION ArchStAnt n.s. 1), 1994, pp. 47-54. 34. BLANDIN 2000. Purtroppo si tratta di una tomba scavata in maniera incompleta, senza poter stabilire l’esatta posizione degli oggetti nella deposizione. 35. Cfr. MURRAY 1994; ad esempio i crateri non compaiono normalmente nelle tombe a Lefkandi: cfr. BLANDIN 2000, p. 137 n. 14 né in quelle di Pithekousai. 36. Questo nuovo dato non deve indurre a conclusioni affrettate, ma è solo la spia della necessità di riaffrontare gli aspetti archeologici del problema. 37. Da ultimo M. MENICHETTI, Archeologia del potere, Milano 1994, pp. 50 s. 38. Per una buona riproduzione del frammento, cfr. P. ORLANDINI, in Megale Hellas, Milano 1983, pp. 332-3, fig. 282 (foto); G. BUCHNER, «Recent work at Pithekoussai (Ischia), 1965-71», in Archaeological Reports 1970-71, p. 67 fig. 8 (disegno). 39. Come quella di E. PERUZZI, «Le scimmie di Pithecussa», in PP 47, 1992, pp. 115-126. 40. Non sono certo che la testa sia barbuta: la campitura nera al disotto del volto potrebbe rappresentare il collo. Ma non mancano, in Oriente, sfingi e sirene barbute.
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pinta a sinistra del busto, al di là di quella che potrebbe essere ancora parte della figura alata41. Non conosco nessun motivo decorativo che le assomigli; non posso invece fare a meno di pensare all’aplustre di una nave, in una stilizzazione simile a quella adottata su di un frammento da Lefkandi42, più antico di almeno un secolo.
Fig. 2 – Lefkandi - Frammento con prora di nave (da Lefkandi I) Più elaborata è l’altra rappresentazione di nave dallo stesso sito43, sulla quale – sarà un caso? – incombono due uccelli. Ma il confronto iconografico più calzante mi sembra offerto dall’anfora ceretana (figg. 3-4) eponima del Pittore della Sirena-Assurattasche, edita dalla Martelli44 e databile al 630 ca. a.C.: la somiglianza è tale da far supporre che le due scene possano dipendere da un modello comune, nonostante la notevole distanza cronologica che le separa. Se dunque nel frammento pitecusano si deve riconoscere proprio una sirena, non può sfuggire la suggestione di un rapporto con le tradizione mitiche più antiche della Campania grecizzata. Sfinge, o piuttosto sirena, l’essere mitico si distingue per la sua posizione di prospetto dalle figure che hanno un mero valore decorativo, e si configura come soggetto impegnativo e colto per la produzione dell’epoca. Più elusiva è la scena sul ‘candeliere’ di Itaca (fig. 5). Prima di descriverla, vale forse la pena chiarire le circostanze del rinvenimento. Secondo il Robertson45, i pochi esemplari di questo singolare tipo di vaso proverrebbero da un tempio. La Benton46, in base a un suggerimento del Dunbabin, pensa ad un sacello di Odisseo. Queste ipotesi si fondavano sull’assunto che l’intero complesso dei materiali rinvenuti ad Aetos tra i muri 6 e 7 derivasse dallo scarico di depositi votivi provenienti dall’area del tempio. Oggi, quando la stessa localizzazione del tempio viene rimessa in discussione, sembra preferibile prescindere da questa pur suggestiva cornice, e affidarsi unicamente all’analisi iconografica. Come è noto, la fascia che comprende la firma di Kallikleas è collocata in bella mostra, al passaggio dalla decorazione lineare del collo alla zona figurata. Questa occupa quasi 41. L’estremità dell’altr’ala? 42. Lefkandi I, p. 267, tavv. 274 (918), 284 (11). 43. M. POPHAM, «An early Euboean ship», in OJA 6.3, 1987, pp. 353 ss. 44. M. MARTELLI, «Del Pittore di Amsterdam e di un episodio del nostos odissaico. Ricerche di ceramografia etrusca orientalizzante», in Prospettiva 50, 1987, pp. 4-14, figg. 17-20, che suppone una derivazione diretta dagli ‘Assurattaschen’ 45. BSA 43, 1948, pp. 88 ss. 46. BSA 48, 1953, p. 328.
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per intero il corpo del vaso; i motivi sono resi a figure nere, con dettagli incisi. Sotto l’ansa è una figura femminile nuda, seduta su uno strano supporto. Essa è rivolta verso sinistra, le gambe rattratte e rese come un unico volume; il braccio sinistro è avanzato e piegato, mentre il destro, filiforme, si allunga fino a portare la mano, resa ad incisione, a contatto con i glutei. Una linea orizzontale incisa, leggermente arcuata, separa questa parte dal resto del corpo, ingenerando il sospetto che l’artigiano volesse rappresentare la figura seduta entro un bacino sostenuto forse da un basso tripode. L’unico tratto distintivo di questa figura sono i seni, con il contorno e il capezzolo incisi, che stanno a sottolineare la sua natura femminile e la sua nudità.
Figg. 3-4 – Milano. Museo Civico. Anfora da Cerveteri - Rappresentazione di nave e sirena (da Prospettiva). Il carattere grottesco del personaggio ha indotto il Robertson a identificarlo con una scimmia47: io credo che l’ipotesi non regga, poichè non conosco scimmie rappresentate con marcati caratteri femminili, e per dippiù sedute su un supporto. A volte le figure di comasti possono assumere atteggiamenti simili a quello della «signora» itacese, e in una resa semplificata possono confondersi con scimmie, ma l’accostamento è improponibile, anche perchè l’elaborazione del motivo, tipica della ceramica corinzia, è successiva al ‘candeliere’ di Itaca48. Nel nostro vaso, la povertà
47. M. ROBERTSON, in BSA XLIII, 1948, pp. 107 ss. (p. 111). Egli ricorda che questa identificazione è stata ripresa da Mc Dermott, The Ape in Antiquity (non vidi). Una scimmia seduta in una posa che ricorda vagamente quella del vaso di Itaca, su un frammento di anfora a rilievo da Tinos, cfr. N.M. KONTOLEON, Aspects de la Grèce Préclassique, Paris 1970, p. 30 tav. XVIII.1. 48. Cfr. p. es. il fregio sul labbro dell’anfora inv. 16618 con Centauromachia di Eracle, , dalla necropoli arcaica di Eretria: E. SAPOUNA-SAKELLARAKI, Eretria, Atene 1995, pp. 80 s. fig. 61. Sui comasti cfr. A. SEEBERG, Corinthian Komos Vases, BICS Suppl. 27, 1971.
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dello stile si spiega immaginando che per questa figura il modesto pittore itacese49 non disponesse di modelli. Non è un caso se, nel motivo araldico che forma la parte principale del fregio figurato, la resa diviene più decorosa, e quasi compassata: è evidente infatti la dipendenza da modelli protocorinzi, con qualche traccia di influenze cretesi50. La scena si compone di due sfingi, sedute e contrapposte, ai lati di un motivo vegetale complesso, nel quale deve riconoscersi l’albero della vita. Le sfingi hanno il volto risparmiato, in outline, mentre l’albero della vita è reso con una pennellata sottile e regolare, enfatizzata da una linea mediana incisa. Anche questa convenzione grafica, che desta l’irritazione del Robertson, è un chiaro indizio della ascendenza protocorinzia del motivo51. Essa è confermata dal tipo stesso dell’albero: formato da motivi curvilinei contrapposti, impilati l’uno sull’altro in un aereo fiore di loto, esso trova confronto in aryballoi del Protocorinzio Antico52. Si tratta di una resa innovativa, che interviene in un momento in cui il motivo, di origine orientale53 ha già una sua tradizione nella ceramografia greca. In Oriente, il motivo delle sfingi ai lati all’albero della vita ha una lunga tradizione, sulla quale è tornato in varie occasioni il Barnett54. In particolare egli ha sottolineato l’importanza che vasi come la coppa d’argento da Tell Qatiné55 certamente hanno avuto nella diffusione dello schema in Occidente. L’immagine della sfinge si diffonde nella ceramografia greca a partire dalla fine dell’VIII sec.56, e solo dal secondo quarto del VII secolo57 ricorre la sua rappresentazione seduta; a questa data si deve attribuire anche il nostro vaso, come dimostra tra l’altro il profilo delle teste dei due esseri mitici, che trova confronto nella produzione corinzia dell’epoca58. Il vero problema consiste, naturalmente, nello stabilire se tra la figura femminile situata sotto l’ansa, dovuta all’invenzione dell’artigiano itacese, e il gruppo composto dalle sfingi e dall’albero della vita intercorra un nesso: questo non può certo essere «narrativo», dal momento che il gruppo araldico ha un carattere «formulare», chiuso. Vale tuttavia la pena di osservare che, in due kotylai protocorinzie da Perachora59, proprio nel periodo al quale si data il ‘candeliere’ di Itaca, si vedono figure femminili che interagi49. Il Robertson riconosce altre opere della stessa mano tra i vasi di Aetos. 50. La dipendenza del vaso dallo stile protocorinzio, affermata dal Robertson, in BSA 43, 1948, p. 110, è invece negata recisamente da S. Benton, in BSA 48, 1953, p. 328 n. 506. Agli elementi di influenza cretese già rilevati dal Robertson si può forse aggiungere la terminazione «a fior di loto» delle code delle sfingi, cfr. JOHANSEN VS, p. 59 figg. 37-39. 51. p. 110: «the repulsive technical device of emphasising a thin line of paint by incising a thin line down the middle of it»: ma cfr. l’oinochoe protocorinzia in BOARDMAN EGVP, fig. 167. 52. BOARDMAN EGVP fig. 166.1-2, dell’Evelyn P., = C.W. NEEFT, Protocorinthian subgeometric aryballoi, Amsterdam 1987, C3 p. 66 fig. 15a. 53. BARNETT 1957, pp. 243 ss.; P.P. KAHANE, «Ikonologische Untersuchungen zur griechisch-geometrischen Kunst», in AK 16, 1973, pp. 114-138. In Attica una nuova formulazione del motivo compare con il Pittore Stathatos (LGIIb, 720-700 a.C.) insieme a un nuovo bestiario, che comprende leoni, capri alati e centauri; spesso questi si dispongono in schema araldico ai lati dell’albero: COLDSTREAM GGP, pp. 62 ss.; ROMBOS 1988, pp. 41 ss. Sulla storia del motivo, cfr. N. KOUROU, «The sacred tree in Greek art. Mycenaean versus Near Eastern traditions», in S. RIBICHINI-M. ROCCHI-P. XELLA edd., La questione delle influenze vicino-orientali sulla religione greca, Monografie Scientifiche CNR – Serie Scienze Umane e Sociali, pp. 31-53. 54. R.D. BARNETT, A catalogue of the Nimrud ivories, London 19752, pp. 85 ss; H.W. CATLING, Cypriot bronzework in the Mycenaean world, Oxford 1964, pp. 196 s. n. 14 tav. 29 c,d,e. La stessa associazione si riscontra anche in ambito miceneo: cfr. F.H. STUBBINGS, Mycenaean Pottery from the Levant, Cambridge 1951, tav. 9.6. 55. BARNETT 1957. 56. ROMBOS 1988, pp. 244 ss.; JOHANSEN VS, pp. 130 ss.; Zafeiropoy´loy 1985, p. 56 ss.. 57. JOHANSEN VS, pp. 130 ss.. Zafeiropoy´loy 1985, p. 57. 58. F. CROISSANT, «Tradition et innovation dans les ateliers corinthiens archaïques: Matériaux pour l’histoire d’un style», in BCH CXII, 1988, pp. 91 ss. (pp. 99 s., figg. 15-17), si parva licet.... La datazione coincide con quella proposta da S. BENTON, in BSA 48, 1953, che accosta la resa del volto delle sfingi ai profili dei volti negli aryballoi PV, tavv. 10-11. 59. Perachora II, pp. 57 s., tav. 21. Entrambe le kotylai sono frammentarie e lacunosa: il senso generale della scena pertanto ci sfugge.
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scono con sfingi: nella kotyle n. 394 una donna tocca il mento di una sfinge in gesto di supplica; nella n. 397 invece una sfinge seduta nella stessa posa di quelle di Kallikleas leva la zampa, in un gesto di colloquiale deferenza, verso una figura femminile seduta. Nel fregio trovava posto una seconda sfinge. In entrambi i casi le donne sono vestite, e quindi l’analogia con la scena di Itaca è molto generica. Le kotylai di Perachora ci aiutano tuttavia almeno a comprendere donde Kallikleas abbia tratto lo spunto per accostare soggetti privi di evidenti relazioni tra loro. Col beneficio dell’inventario si può infine ricordare che, nell’unica coppa attica tardo-geometrica nella quale compare l’immagine delle sfingi affrontate60, queste sono inserite, come determinativo simbolico, in una scena di corteo cerimoniale, al quale assiste una figura femminile in trono. Fatte salve le differenze di stile, il soggetto non era dunque molto diverso da quello della kotyle Perachora n. 397.
Fig. 5 – Vathy (Itaca). Museo - ‘Candeliere’ di fabbrica locale con sfingi affrontate (da BSA 1948). Sulla base di queste suggestioni, mi viene in mente un’ipotesi ardita: esiste nella tradizione greca una figura femminile nuda, seduta su un supporto inconsueto; è la Pizia, che – seduta sul tripode – parla con la voce di Apollo61. Come è noto si tratta di un soggetto quasi del tutto assente nell’iconografia greca, perchè protetto da un riserbo quasi misterico62, e tuttavia ben presente nell’immaginario antico. Se per avventura quest’ipotesi cogliesse nel segno, l’accostamento della figura alle sfingi comporrebbe una scena analoga a quella delle due kotylai di Perachora sopra ricordate ma si tratta di una mera ipotesi, non essenziale alla economia del discorso. Resta comunque il fatto che, proprio per la sua originalità, la scena tradisce una notevole ricercatezza: l’artigiano vi ha apposto la sua firma certo di avere fatto il suo piccolo sfoggio di cultura e di ermetica erudizione. E proprio questo carattere accomuna il ‘candeliere’ di Itaca al cratere di Pithekoussai: la possibilità che un artigiano firmi la sua opera 60. B. BORELL, Attisch geometrische Schalen, Mainz a. Rh. 1978, pp. 8, 62 n. 24 tav. 20. 61. Sull’argomento cfr. G. SISSA, La verginità in Grecia, Bari 1992, pp. 9 ss 62. Cfr. F. LISSARRAGUE, «Delphes et la céramique», in A. Jaquemin ed., Delphes cent ans après la grande fouille – Essai de bilan, BCH Suppl. 36, 2000, pp. 53-67.
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resta un fatto eccezionale, possibile solo lontano dalle poleis aristocratiche della madrepatria: in qualche modo essa si giustifica per l’importanza del soggetto che vi si rappresenta. Ed eccezionale rimarrà ancora, fino al volgere del VII secolo, l’accesso degli artigiani alla scrittura. BIBLIOGRAFIA BARNETT 1957 = R.D. BARNETT, «A Syrian silver vase», in Syria XXXIV, 1957, pp. 243-248. BARTONE˘ K-BUCHNER 1995 = A. BARTONE˘ K-G. BUCHNER, «Die ältesten griechischen Inschriften von Pithekoussai (2 Hälfte des VIII. bis 1. Hälfte des VII. Jhs.)», in Die Sprache 37.2, 1995, pp.129-237. BLANDIN 2000 = B. BLANDIN, «Une tombe du IXe siècle av.J.C. à Erétrie», in AK 43, 2000, pp.134-146. BOARDMAN EGVP = J. BOARDMAN, Early Greek vase painting, London 1998. COLDSTREAM GGP = J.N. COLDSTREAM, Greek geometric pottery, London 1968. GIANGIULIO 1981 = M. GIANGIULIO, intervento in Nouvelle contribution à l’étude de la société et de la colonisation eubéennes, (CCJB VI), Napoli 1981. GUARDUCCI, EG = M. GUARDUCCI, Epigrafia Greca, I-III, Roma 1967-1978. HANSEN 1983 = P. HANSEN, Carmina epigraphica graeca saeculorum VIII-V A.Chr.N., Berlin 1983. JEFFERY = L.H. JEFFERY, The local scripts of Archaic Greece, Oxford 1961. JOHANSEN VS = K.F. JOHANSEN, Les vases sicyoniens, Paris-Copenhagen 1923. JOHNSTON 1983 = A. JOHNSTON, «The extent and use of literacy: The archaeological evidence», in R. Hägg (a cura di), The Greek Renaissance of the Eighth Century B.C.: Tradition and Innovation, Stockholm 1983, pp. 63-68. MELE 1979 = A. MELE, Il commercio greco arcaico – Prexis ed emporie, (CCJB IV), Napoli 1979. MURRAY 1994 = O. MURRAY, «Nestor’s cup and the origin of the Greek symposion», in Apoikia – Scritti in onore di Giorgio Buchner (AION ArchStAnt n.s.1), 1994, pp. 47-54. PV = H. PAYNE, Protokorinthische Vasenmalerei, Berlin 1933 POWELL 1991 = B.B. POWELL, Homer and the origin of the Greek alphabete, Cambridge 1991. ROMBOS 1988 = TH. ROMBOS, The iconography of Attic late geometric II pottery, (SIMA pocket-book 68), Jonsered 1988. SNODGRASS 1998 = A. SNODGRASS, Homer and the artists, Cambridge 1998. F. ZAFEIROPOY´LOY, Problh´mata th^w mhliakh^w a∫ggeiografi´aw, «A&h´na 1985.
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1. La lengua ibérica, escrita desde el siglo V o IV a.C hasta al menos época augústea en casi toda la costa mediterránea española y en el Languedoc francés, y en los dos últimos siglos a.C. en algunas zonas interiores, en particular el valle del Ebro, y sin duda lengua vernácula de al menos algunas regiones del Levante español, nos es conocida por textos en tres tipos de escritura, la greco-ibérica, simple adaptación del alfabeto jonio para escribir ibérico, y la levantina o ibérica en sentido restrictivo y la meridional, dos escrituras de la familia paleohispánica caracterizada por combinar elementos silábicos y alfabéticos1. La transcripción de las sibilantes es en todo caso siempre alfabética. Podemos leer las inscripciones ibéricas porque dos de las tres escrituras mencionadas han sido descifradas, y en el caso de la meridional el desciframiento está relativamente avanzado. El conocimiento de la lengua es sin embargo muy rudimentario por falta de datos externos o comparativos al tratarse de una lengua sin parientes conocidos, pero sí podemos hacernos una idea razonable de su estructura fonética gracias a la variedad de transcripciones disponibles. Otras fuentes para el conocimiento del ibérico son las transcripciones de nombres de persona (NNP en lo que sigue) en textos latinos y griegos, y la utilización de la escritura levantina para transcribir otras lenguas de cuya estructura fonética tenemos alguna información. El análisis de la fonética ibérica se mueve por lo tanto en límites bien conocidos en el estudio de las lenguas fragmentariamente atestiguadas, a las que Carlo de Simone ha dedicado la mayor parte de su espléndida obra, y en particular se enfrenta a problemas similares a los que nuestro amigo tuvo que resolver en su insustituible Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen (I-II, Wiesbaden1968-70). 2. La lengua ibérica poseía dos silbantes que transcribimos habitualmente por s y s´2. La letra que representa a la primera constituye una innovación de la escritura ibérica y no coincide en forma con la de la escritura meridional, más antigua y probable modelo de la ibérica, mientras que s´ coincide en forma en ambas escrituras; los creadores de la escritura greco-ibérica solucionaron el problema de la segunda sibilante utilizando, junto a la sigma, la letra sampi. Afortunadamente las correspondencias entre escritura greco-ibérica y escritura ibérica son coherentes y permiten afirmar terminantemente que sigma equivale a s´ y sampi a s, contra lo que parecen indicar algunas transcripciones basadas más en consideraciones sobre la mayor o menor rareza de las formas de los signos o las relaciones entre éstas que sobre la función de aquéllos. Michelena demostró sobradamente en 1955 cuál era la auténtica relación entre los signos ibéricos y greco-ibéricos, estableciendo una lista de correspondencias a la que se podría añadir hoy alguna entrada. Si pretendemos precisar los datos de distribución, buscando razones filológicas que expliquen, al menos en algunas posiciones, el uso de una u otra sibilante, tropezamos con las limitaciones del corpus, pero podemos beneficiarnos de una serie de estudios de los que creo se deben resaltar algunos: una contribución de Michelena, ya citada, que representa el paso más importante en la historia de la cuestión, una importante recopilación de 1. MLH I-III es el corpus epigráfico de referencia. MLH III 1 constituye la presentación del ibérico más amplia de que disponemos; otras obras generales Los íberos; CORREA: 1994: «La lengua»; DE HOZ, J.: 1987: «La escritura»; 1993: «La lengua»; en prensa (1995): «La epigrafía»; en prensa: «Hacia»; MICHELENA: 1979: «La langue»; UNTERMANN: 1987: «Repertorio»; 1987: «La gramática»; VELAZA: 1996: Epigrafía. 2. MICHELENA: 1955: «Cuestiones»; 1979: «La langue»; MARINER: 1985: «Sibilantes»; SILES: 1976: Sobre; 1979: «Über»; DE HOZ: 1987: «La escritura»; QUINTANILLA, A.: 1998: Estudios, 255-9; SILGO: 2000: «El problema»; CORREA: en prensa: «Las silbantes».
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datos de Siles, un intento de clasificación de los problemas planteados por las transcripciones latinas, buscando a la vez valorarlas para interpretar la fonología ibérica, obra de Mariner, que aunque discutible en algunos puntos representa un trabajo decisivo en otros; yo mismo me he ocupado de algunas cuestiones de detalle, y Untermann, Quintanilla, Silgo y Correa han sistematizado recientemente los materiales3. En lo que sigue utilizo estos trabajos sin discutir todos los detalles. Por otro lado avances posteriores en campos no estríctamente ibéricos han repercutido sobre la cuestión y deben ser tomados ahora en cuenta. 3. Desde el trabajo de Michelena es claro que existe en ibérico una oposición fonológica entre dos sibilantes transcritas s (greco-ibérico convencionalmente s en vez de la transcripción de la sampi utilizada en esa escritura) y s´ (s´ en vez de la habitual transcripción de sigma, que es el signo utilizado en greco-ibérico), que esa oposición parece neutralizarse en algunas posiciones, especialmente tras r y l, y que la base fonética de la oposición podría ser de dos tipos, modo de articulación, es decir, sonora frente a sorda, o punto de articulación al estilo de la opoisición vasca entre ápico-alveolares y dorso-alveolares. La contribución fundamental de Mariner, curiosamente nacida de una confusión de los hechos ibéricos con los aquitanos y galos, estriba en haber mostrado que la aparente arbitrariedad de las transcripciones latinas del sonido ibérico s´, que incluyen S y SS4, puede ser reducida a coherencia; los latinos habrían utilizado grafías que tenían en común un recalco frente a la grafía utilizada para la otra sibilante, es decir s = S, excepto en aquellos casos, como inicial o final de palabra, en que las propias reglas latinas no admitían esas grafías recalcantes. Mariner se inclina a pensar que ese recalco implica que la oposición entre las sibilantes ibéricas se basaba en el modo de articulación, pero no excluye que pudiera hacerlo en el lugar. 4. Donde creo que el profesor Mariner ha sido confundido por la variedad de datos reunidos por Siles, ha sido al admitir una transcripción DS que en realidad no existe como transcripción latina de una forma ibérica. Aquí es necesario distinguir netamente entre las palabras ibéricas que los propios íberos transcribían con s, y que por tanto, cuando fueron a su vez transcritas con S por los latinos, nos permiten decir que s ibérica se transcribía con S latina, y las palabras galas que fueron transcritas de oído, en escritura ibérica con s y en escritura latina con SS o DS (la exposición muy escueta de Mariner da la impresión de que considera la transcripción DS equivalente de SS). En este caso estamos ante un problema particular de la fonética gala, que una vez convenientemente estudiado puede aportar algún indicio a la solución de los problemas ibéricos, pero que no debe ser mezclado con los datos relativos a las transcripciones latinas del ibérico. Lo importante es que una vez separado el material galo nos encontramos con que s se transcribe sistemáticamente en latín por S, excepto en un único caso, kese (A.12)5, citada por Tito Livio como Cissis (21, 60.1) y relacionada posiblemente con la Cessetania de Plinio (N.H. 3, 21). Pero hay que tener en cuenta que la primera mención de este topónimo es griega, de Polibio (3, 16.5), bajo la forma Kíssa, y que tanto en Tito Livio como en Polibio la ciudad es mencionada en relación con las primeras operaciones de los romanos en Hispania, al comenzar la segunda guerra púnica, es decir a propósito 3. Referencias en la n. anterior. 4. Mariner acepta también X y DS; X se limita a transcripciones de segmentos aquitanos que coinciden con segmentos ibéricos (vid. infra; sobre DS vid. también infra). La supuesta transcripción CT que cita Mariner (417 y 419 en particular) parece ser una confusión a partir de SILES: 1979: «Über», 87, donde la mención de Advectius no está relacionada con las sibilantes ibéricas. 5. Cito las inscripciones paleohispánicas por MLH; las inscripciones monetales (A) se encuentran en el primer volumen, las del sur de Francia (B) en el segundo, las ibéricas de España (C-H) en el tercero, y las celtibéricas (K) en el cuarto.
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de acontecimientos y regiones para los que existía una tradición historiográfica y geográfica griega. Hay en efecto en los nombres indígenas citados por las fuentes literarias una serie de problemas mucho más complejos que los que se dan en la fuentes epigráficas, ya que su relación con el nombre original suele ser mucho más mediata. Existen transcripciones griegas y transcripciones latinas, pero un autor griego puede tomar directamente de una fuente latina un nombre indígena, en cuyo caso no nos da una transcripción griega sino una transcripción latina en letras griegas, y naturalmente ocurre lo mismo a la inversa como creo que es el caso de Cissis/Cessetania6. La transcripción latina de ibérico es por lo tanto S, como se advierte en el NL usekerte (A.26, )/Osicerda7, y los NNP Baesadine, Baesisceris, Tannepaeseri, ]espaiser, Nesile, Tascaseceris, ]iesecel, Sosinasae, Sosinaden, Sosimilos, Cacususin y Suisetarten que contienen los formantes antroponímicos ibéricos baise (MLH III 1 § 7.23)8, nes (§ 7.92)9, seke (§ 7.100), sosin (§ 7.109) y suise (7.110). Por supuesto los casos en que en la transcripción aparece S inicial o final, o S ante o tras consonante, no deben ser tomados en cuenta puesto que la grafía latina no admitía SS en esas posiciones, y por lo tanto no se daba la posibilidad de distinción10. En cuanto a ibérico encontramos, como hemos mencionado, alguna transcripción «recalcada»: ies´o (A.10) = tema Iesso- atestiguado en adjetivos y como NL en Tolomeo (vid. infra). Encontramos también S: NNL aus´esken (A.7)/Ausona, es´o en el supuesto inseguro de que se trate de Aeso11, NP Bileseton sobre el formante beles´ (§ 7.31). De hecho no hay ningún testimonio epigráfico de una sibilante ibérica en un NP transcrita con SS, aunque las transcripciones del aquitano demuestran sobradamente que la grafía geminada era admisible y Iesso- es forma epigráfica. En conjunto no se puede garantizar que a oídos latinos la pronunciación de ibérico resultase más extraña que la de , pero hay ciertos indicios de que era así y que por ello los romanos tendieron, aunque no de forma sistemática, a utilizar una transcripción «recalcada», con lo que podríamos admitir la interpretación de Mariner ya citada a pesar de que sea necesario prescindir de la mayor parte de los testimonios por él aducidos. 5. En griego ya hemos señalado la elección de sampi en el alfabeto greco-ibérico para ibérica, y la doble sigma utilizada por Polibio, posiblemente dependiendo de una tradición griega anterior, en Kíssa; es decir que en este caso parece ser el fonema correspondiente al grafema ibérico el que recibe una transcripción recalcada. Esperaríamos por lo tanto sigma como transcripción griega de ibérico, que es efectivamente lo que encontramos en greco-ibérico, pero por otro lado carecemos prácticamente de otros datos utilizables y el testimonio del único de los NNP ibéricos con sibilante intervocálica cita-
6. De la misma forma que la leyenda keesse (A.12-4-6), completamente aberrante desde el punto de vista ibérico, no es sino una transcripción «alfabética (cf. kee por ke) del latín al ibérico que confirma la geminada latina. 7. Las referencias a las fuentes griegas y latinas que citan los topónimos pueden encontrarse en TOVAR, A.: 1974, 1976, 1989: Iberische 1-3, y en los correspondientes fascículos de la TIR. N(N)L = nombre(s) de lugar, N(N)P = nombre(s) de persona. 8. En lo que sigue las referencias a la documentación sobre NNP corresponden siempre a MLH III 1 § 7, a no ser que se indique otra cosa. 9. La forma nes es la habitual, pero existen un par de casos de nes´. 10. Baesadine (Liv. 33 44) y Viseradin (CIL II 4450) podrían haber sido útiles, pero el primer componente del NP no está atestiguado en escritura ibérica, a diferencia del segundo, y no sirve por lo tanto para nuestros fines. Tampoco Enasagin porque el único testimonio ibérico (§ 7.97) resulta ambiguo. 11. La cita de Plinio Aessonenses en TIR K/J-31, 32, es un error. Ninguno de los testimonios de Aeso lleva geminada: SILES: 1976: Sobre, 28.
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dos en el plomo griego de Pech Maho12, Basigerrow, resulta ambiguo ya que contiene el elemento ibérico bas(i) o bas´ (§ 7.27), del que desconocemos si se trata en realidad de dos formantes fonéticamente diferenciados o de formas alternativas de un único elemento morfológico. Por el contrario sí tenemos un dato aparentemente contradictorio en la transcripción de ies´o (A.10) ya citada, la forma tolemaica Iessós (Ptol. 2 6.71). Creo sin embargo que aquí estamos ante la inversión del caso de Cesse, dado que Tolomeo escribe en un momento de avanzada romanización y dependiendo en buena medida de informaciones romanas, y no hay motivos para pensar que la ciudad en cuestión, arquoelógica y numismáticamente no atestiguada antes de finales del s. II a.C.13, fuese conocida y menos aún tuviese una transcripción griega normalizada con anterioridad a la penetración romana en la Lacetania. De nuevo cabe pensar, aunque ciertamente sobre la base de indicios tenues, que en griego se transcribió sistemáticamente el sonido de ibérico con sigma y de forma asistemática se pudo recalcar ocasionalmente el sonido de con una transcripción geminada. En todo caso, a diferencia de lo que ocurre con el alfabeto latino, en el griego contamos con el dato sistemático e indiscutible de la utilización de sampi frente a sigma codificada en la escritura greco-ibérica. 6. A la vista de los datos anteriores creo que podemos postular la hipótesis, aun reconociendo que se basa todavía en pocos datos, de que las transcripciones griega y latina de las sibilantes ibéricas eran opuestas; en latín el recalco gráfico como hemos visto corresponde a ibérico , en griego por el contrario tenemos de un lado el uso de sampi en el alfabeto greco-ibérico para representar ibérico y de otro la geminación en la transcripción helenística de ese mismo signo. Parece pues que en cada caso se eligió como sonido no extraño, no digno de recalco gráfico por lo tanto, una sibilante distinta, lo que me hace pensar que la oposición no debió ser de sonoridad ya que en ese caso griegos y latinos habrían probablemente utilizado s y S simples para el mismo sonido ibérico. El problema estriba en determinar qué diferencia fonética existía entre ambas sibilantes ibéricas, y en esto no nos ayuda ni la propia epigrafía ibérica ni las trascripciones latinas y griegas, que como hemos visto sólo permiten llegar al resultado negativo de que no es probable que la oposición fuese de sonoridad. Afortunadamente contamos con otros testimonios externos que pueden ayudarnos, aunque todos ellos tienen la contrapartida de ser bastante problemáticos; me refiero a las transcripciones en escritura ibérica de NNP galos en el sur de Francia y griegos o latinos en esa y otras zonas, las transcripciones en alfabeto latino de NNP tal vez relacionados con los ibéricos en zonas donde existían usos más o menos estables para transcribir formas vascoides, y la adaptación del alfabeto ibérico para escribir celtibérico que a su vez da pie para examinar la transcripción hecha por los celtíberos de ciertos NNP ibéricos. 7. Los NNP galos que aparecen en las inscripciones ibéricas son reconocibles porque están también atestiguados en escritura galo-griega, en inscripciones galas en alfabeto latino o en inscripciones simplemente latinas con onomástica indígena14. Ese conjunto de testimonios permite identificar en galo una sibilante /s/, que puede aparecer geminada, y 12. LEJEUNE, M., J. POUILLOUX & Y. SOLIER: 1988 (= 1990): «Étrusque»; LEJEUNE: 1991: «Ambiguïtés»; DE HOZ: 1999: «Los negocios». 13. TIR K/J-31, 89-90. 14. La identificación de los NNP galos en escritura ibérica se debe a UNTERMANN, J.: 1969: «Lengua»; vid. posteriormente MLH II; UNTERMANN: 1992: «Quelle langue»; CORREA, J. A.: 1993: «Antropónimos». Sobre la onomástica gala SCHMIDT, K. H.: 1957: «Die Komposition»; EVANS, D. E.: 1967: Gaulish; LUJÁN, E. R.: e. p.: «Addenda», y el repertorio de BILLY, P.-H.: 1993: Thesaurus.
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una probable africada para la que se utilizaron distintos sistemas de transcripción y que habitualmente representa el avatar céltico de grupos etimológicos como /ds/ o /st/15. Aunque el número de ejemplos que permiten determinar con seguridad la forma gala no son numerosos, parece que se observa regularmente la utilización del grafema ibérico , aunque con algunos ejemplos de , para transcribir la africada gala, y el grafema , aunque con algunos ejemplos de , para transcribir el fonema galo /s/16: = /s/: s´uate (B.1.67), galo Coutusuati gen.; s´enikate (B.1.286), galo senikioW (RIG G-219); = /ss/: katuis´ar (B.1.20), tema antroponímico katu- popular en galo y sufijo -isso-/-issa17, que a pesar de las dudas sobre su origen me inclino a considerar formado con una geminada y no a partir de *-is-to-18; = /ts/?: ]+uas´e[ (B.1.184), uas´ile (B.1.352), NNP galos sobre la base *vasso- «servidor», atestiguada como nombre común desde las leyes francas y cuya probable etimología es *wo-stH-. = /s/: suake (B.1.68), galo Aucus con prefijo su-. = /ts/?: asetile (B.1.44), galo Adsedilus; tesile (B.1.351), galo Ted¯d¯iillos, con una base atestiguada también en la forma Teuui-. 8. Los NNP clásicos atestiguados en escritura ibérica son escasos; en el caso del griego en realidad inexistentes excepto en la versión celtibérica de la escritura ibérica, ya en pleno momento de romanización, lo que resulta extraño teniendo en cuenta no sólo las viejas relaciones mercantiles de griegos e íberos sino sobre todo la doble epigrafía de Ampurias, griega e ibérica. NNP latinos están atestiguados en un par de inscripciones de España y sobre todo, aunque por desgracia abreviados, en la serie de dipintos sobre ánforas de origen italiano importadas en Vieille-Toulouse a través de la costa de Languedoc19, económicamente iberizada: s´es´te como transcripción de Sextus muestra el mismo comportamiento que las transcripciones del galo, pero hubieramos esperado, a juzgar por la aparente adecuación de S latina al sonido ibérico representado por , *seste o ses´te. Las inscripciones de Vieille-Toulouse sin embargo contiene NNP galos, es posible incluso que en parte estén escritas en galo20, y aunque s´es´te es claramente por su morfología una forma iberizada podría haber sido escrita por un galo que utilizaba el ibérico como lengua escrita21, pero que dejaba que sus propios hábitos fonéticos interfiriesen en su pronunciación del latín y en su notación en escritura ibérica. Estos fenómenos de interferencia, dada la complejidad del uso del ibérico como lengua vehicular, han podido jugar un papel mayor del que llegamos a percibir con los datos de los que disponemos. En todo caso por no poder valorar adecuadamente ese factor de interferencia es por lo que prescindo de utilizar aquí
15. WATKINS, C.: 1955: «The Phonemics», 14-5; EVANS, D. E.: 1967: Gaulish, 410-20; LAMBERT, P.-Y.: 1994: La langue, 44. Bibliografía completa sobre la supuesta africada en ESKA, J. F.: 1998: «Tau», que pone de manifiesto algunas dificultades de la interpretación usual. 16. CORREA, J. A.: 1993: «Antropónimos», 105 y pp. 107-16 s. vv en el orden de las inscripciones en MLH. Varias de las formas que se suelen citar como adaptaciones ibéricas de NNP galos no aportan información útil para nuestros objetivos porque la etimología de las formas galas plantea dificultades no resueltas; vid. por ej. sobre cassi- (kasike B.1. 117-8) Evans, D. E.: 1967: Gaulish, 167-71. 17. WEISGERBER, L.: 1969: Rhenania, 87-9; LAMBERT, P.-Y.: 1994: La langue, 31 y 33; DE BERNARDO, P.: 1999: Nominale, 340-1. 18. se utiliza también para el grupo galo /ks/: lituris´ (B.7.21, 34) y auetiris´ (B.1.15) son compuestos con el conocido elemento -rix. 19. VIDAL, M., & MAGNOL, J. P.: 1983: «Les inscriptions»; LEJEUNE, M.: 1983: «Vieille-Toulouse»; LUJÁN, E. R.: 1998: «Una nota». 20. LUJÁN, loc. cit. 21. DE HOZ: 1993: «La lengua».
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el testimonio de los NNP griegos, atestiguados en escritura ibérica pero en contexto lingüístico celtibérico, del tercer bronce de Botorrita22. 9. El material aquitano es bastante más ambiguo, y ni siquiera resulta seguro que sea pertinente para la cuestión que nos ocupa. En aquitano existía una oposición entre /s/ y /ts/, expresada en grafía latina por S frente a recursos diversos para /ts/, sobre todo X y SX, y doblada tal vez por una segunda oposición también de sibilante y africada aunque con distinto modo de articulación, que carecería de notación propia. Por otro lado existen algunos elementos antroponímicos aquitanos similares a elementos antroponímicos ibéricos, lo que plantea su posible identidad via relaciones de préstamo o de otro tipo23, aunque de momento no se puede excluir una pura coincidencia. Los elementos que podrían ser comunes y en los que aparece una sibilante no son muy numerosos, y a veces, dadas ciertas incoherencias de las grafías aquitanas, no resultan utilizables, pero hay que señalar el caso significativo de BELEXS frente a beles´24, aunque dado que se trata de la pronunciación en final de palabra podrían intervenir factores perturbadores que de momento se nos escapan o incluso distintas formaciones sobre una misma raíz. 10. Finalmente contamos con el testimonio celtibérico, que tampoco deja de plantear serias dudas. Villar demostró que existía una distinción fonológica entre los sonidos celtibéricos representados en la adaptación de la escritura ibérica utilizada para escribir esa lengua que básicamente era de sonoridad25, siendo la representación de la sorda /s/ y de la sonora /z/, avatar de una antigua /s/ en ciertas posiciones, sobre todo entre vocales26. Secundariamente Villar admite que en ciertos casos una realización fricativa de /d/ ha podido ser transcrita también con el signo . Para Untermann sin embargo no hay tal oposición de sonoridad sino una única sibilante sorda, heredera de la sibilante del celta común, y una fricativa /∂´/ heredera sistemática de /d/ del celta común, representada por 27, posición esta que me parece no conciliable con los datos existentes. Por su parte de Bernardo ha completado la tesis de Villar con algunas propuestas verosímiles sobre el origen del fonema representado por , que procedería no sólo de la sonorización de /s/ sino también del grupo IE*-dy- /_V y de céltico común /∂´∂´/28. La cuestión que queda así abierta es la de si esas evoluciones alternativas habían desembocado en /z/ o si el celtibérico contaba con una africada sonora, en parte similar a la gala, que, a falta de un signo más adecuado fue transcrita con el mismo signo utilizado para /z/. Si en el momento de la adaptación de la escritura ibérica para escribir celtibérico en esta lengua existía una oposición de sibilantes /s/∼/z/ pero no una fricativa o africada sonora, al menos con valor fonológico, la opción de signos podría ser poco significativa a no ser que el ibérico contase con esa misma oposición; a partir de signos para dos sibilantes sordas ibéricas podría haberse optado convencionalmente por uno de ellos para representar la sorda y otro para la sonora. Alternativamente el punto de articulación representado por ibérica podría coincidir con la /s/ celtibérica, mientras que se habría sen22. BELTRÁN, F., DE HOZ, J. & UNTERMANN, J.: 1996: El tercer bronce de Botorrita (Contrebia Belaisca), Zaragoza; MLH IV K.1.3. 23. TOVAR, A.: 1954: «Sobre»; MICHELENA: 1979: «La langue», 37-8; GORROCHATEGUI, J.: 1984: Estudio, vid. índice y p. 379. 24. GORROCHATEGUI: 1984: Estudio, 156-61, especialm. 157; MLH III 1 § 7.31. 25. Son raros los autores que habían mantenido la existencia de una distinción fonológica. LEJEUNE, M.: 1955: Celtiberica, 46-9, que en cierto modo se había aproximado bastante a la solución del problema, había aceptado un excesivo juego de la acción analógica. 26. VILLAR, F.: 1993: «Las silbantes», con matizaciones posteriores en 1995: Estudios´ 1996: «Fonética», y VILLAR, F. & ARBOLEDAS, P.: 1999: «Sobre». 27. MLH IV, donde en la transcripción se utiliza en vez de . Discusión de las propuestas alternativas en MEID, W.: 2000: «Altkeltische», 17-24. 28. DE BERNARDO e. p.: «Sull’origine»; e. p.: «Grafemica», § 3.
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tido como extraño el sonido /z/ por lo que se habría elegido el signo a falta de un signo ibérico que representase algo similar. La respuesta celtibérica habría tenido la misma base que la que subyace a las trascripciones griegas del ibérico, y hasta cierto punto a la del galo. Si por el contrario el celtibérico tuviese una sorda sibilante y una africada o fricativa sonora a veces realizada como sibilante, cabrían dos alternativas. La oposición ibérica podría ser de tipo completamente distinto, en cuyo caso volveríamos en lo esencial al caso anterior, o el ibérico opondría igualmente una sibilante a una fricativa, o en su caso a una africada, con lo que tanto la respuesta celtibérica como la gala serían obvias; en este caso se habría optado por la sibilante ibérica para las sibilantes célticas y por la fricativa para las fricativas o africadas. Luego volveremos sobre la probabilidad de este escenario. 11. Para completar los testimonios con que contamos cabe aún mencionar un caso en que no se trata de una transcripción sino de las posibles bases fonéticas de una etimología popular. La ciudad de Sagunto no emplea jamás en su propia epigrafía monetal ese nombre, casi exclusivo de las fuentes clásicas29, sino la forma arse (A.33). Los romanos conocían una leyenda según la cual Sagunto había sido fundada por gentes procedentes de Ardea en el Lacio30, y se ha supuesto con cierta verosimilitud que el origen de esta totalmente improbable historia fundacional esté en el parecido entre los nombres de ambas ciudades31, lo que una vez más apuntaría a una pronunciación ibérica próxima a una fricativa o africada. El nombre Saguntum y sus formas griegas podrían ser también datos a tener en cuenta en relación con las sibilantes ibéricas, pero prefiero no utilizar esa información puesto que desconocemos si realmente se basa en una forma ibérica, y en cómo se escribía en ibérico, si es que se hacía32. 12. La imagen que nos deja el conjunto de los datos de que disponemos es bastante confusa. Una serie de indicios apuntan a la posibilidad de que ibérica represente una fricativa o africada pero las transcripciones latinas parecen contradecir esa idea. Por otra parte el caso más claro de adaptación al contexto fonético de que disponemos está en total desacuerdo con ella: beles´ y bels parecen ser formas alternativas, con síncopa vocálica o sin ella, con lo que en la hipótesis fricativa la sibilante no sería posible tras lateral pero sí la fricativa no sibilante, algo fonéticamente difícil de explicar, y en contradicción con los datos aquitanos que suelen citarse como paralelos: Belex equivaldría a ibérico beles´, mientras que la variante incorporada en Harbelsis equivaldría a bels33. Pero como hemos visto representa la africada aquitana, relacionada con las africadas vascas, mientras que representa la sibilante. En estas condiciones es imposible plantear una interpretación sólida de las sibilantes ibéricas, pero aun así merece la pena adelantar con toda prudencia y a título de mera hipótesis de trabajo una propuesta que permita salvar las contradicciones señaladas. Antes es preciso sin embargo replantear la cuestión en términos más generales. 13. Que el ibérico contase al menos con una sibilante sorda realizada con la parte anterior 29. La forma griega parece ser Za´kanua, la latina Saguntum, que es transcrita sin más por algunos autores griegos. En el plomo de Ampurias EGH 2.14 aparece una forma Saiganuhi (dat.) en la que se ha querido ver el nombre de Sagunto: SANTIAGO, R. A.: 1990: «En torno». La hipótesis, aunque plausible, no puede considerarse demostrada, cf. SANTIAGO: 1994: «Enigmas», 53. 30. Liv. 21 7.2; Sil. 1 291-3. Según una leyenda alternativa, que también debe tener como origen una etimología popular, la ciudad era una fundación de colonos de Za´kynuow: Ap. Ib. 7; Sil. 1 288-90, etc. 31. Ya así por ej. en HÜBNER, E.: 1893: Monumenta, 46. 32. Aunque no existe una etimología segura de Saguntum es frecuente que se de por válido su origen indoeuropeo. 33. GORROCHATEGUI, J.: 1984: Estudio, 156-7.
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de la lengua era esperable puesto que así ocurre en la mayoría de los idiomas del mundo, posiblemente más de un 80%34 Esa sibilante puede ser dorso-alveolar o ápico-alveolar, pero este último tipo parece ser el más frecuente. La sibilante sonora más frecuente es /z/, pero hay aún un par de fricativas sordas, una de ellas la sibilante /∫/, más frecuentes que /z/, y en general existe una tendencia a evitar un único par de fricativas diferenciadas por sonoridad35, por lo que no es extraño que si el ibérico poseía dos sibilantes éstas no se configurasen en una oposición de sonoridad36. Si pensamos en una oposición por el punto de articulación, las alternativas más probables serían ápico-alveolar frente a dorso-alveolar o uno cualquiera de esos fonémas frente a /∫/ o, menos probablemente, frente a /s/. Claro está que en el caso del ibérico no tenemos una seguridad absoluta de ˙ que la oposición se de entre dos sibilantes y no entre una sibilante y otra fricativa o una sibilante y una africada; en ese caso desde luego no se trataba del tipo de oposición más común, /s/∼/f/. Ateniéndonos a la probable oposición entre sibilantes, lo cierto es que a pesar de la frecuencia de apical y dorsal en las lenguas del mundo, la presencia de ambas en un mismo sistema es más bien rara. Maddieson a partir de las lenguas recogidas en la UCLA Phonological Segment Inventory Database (UPSID) sólo señala cuatro casos, celdala (tzeltal), karok, diegueño y guaraní, todas ellas lenguas amerindias, y tres pertenecientes a familias relacionadas37; sin embargo sus datos son inexactos porque entre las lenguas recogidas en la UPSID se encuentra el eusquera, al que Maddieson atribuye además de la sibilante palatalizada una alveolar y una retrofleja siguiendo al parecer la descripción del dialecto de Maya debida a N’diaye38, cuando en realidad tanto el protovasco reconstruido como los dialectos actuales, con la excepción de algunos que han eliminado la oposición confundiendo sus dos elementos, cuentan con una sibilante apical y otra dorsal. En todo caso es evidente que se trata de una oposición poco frecuente, sin duda por la proximidad de ambos fonemas que implica una distinción poco visible y explica la confusión producida en parte de los dialectos vascos, pero a pesar de todo es una oposición cuya posibilidad en el caso del ibérico debe ser considerada seriamente. Es en efecto un hecho frecuentemente señalado la gran semejanza entre el sistema fonético del ibérico y el que se reconstruye para el vasco antiguo39, lo que aconseja buscar la identificación de las dos sibilantes ibéricas en primer lugar en las sibilantes que existían en vasco antiguo. No hay ningún indicio de que alguna de ellas fuese palatalizada, aunque hay que reconocer que esos indicios difícilmente podrían aparecer a través del tipo de datos que tenemos dada la inexistencia de sibilantes palatalizadas en griego o latín, pero tal vez sí los haya de que la oposición ibérica enfrentaba una dorsal y una apical. 14. Hemos visto que existe la posibilidad de que griegos y latinos hayan sentido de forma diferente lo familiar y lo extraño en las sibilantes ibéricas; para los griegos lo extraño fue lo que transcribimos , para los latinos lo que transcribimos . De ser así obviamente estaban condicionados por algún rasgo de sus propias sibilantes que era diferente en una y otra lengua, y ese rasgo ha podido ser precisamente el punto de articulación, apical en griego y dorsal en latín. Para el griego antiguo no hay indicios claros sobre la pronunciación de , y de hecho los estudios sobre la cuestión se suelen contentar con 34. MADDIESON, I.: 1984: Patterns, 44. En general sobre las sibilantes, LADEFOGED, P. & MADDIESON, I.: 1996: The Sounds, 145-64. 35. MADDIESON, I.: 1984: Patterns, 53. 36. La frecuencia mayor o menor de las distintas fricativas está relacionada al parecer con su intensidad y sobre todo con la perceptibilidad de ésta: MADDIESON, I.: 1984: Patterns, 49-52. 37. MADDIESON, I.: 1984: Patterns, 44. 38. MADDIESON, I.: 1984: Patterns, cuadro de la p. 419. 39. QUINTANILLA: 1998: Estudios, 35-9.
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indicar que se trataba de una sibilante sorda dental en sentido amplio, sin precisiones40, y la mejor fuente que tenemos sobre la pronunciación antigua, un texto de Dionisio de Halicarnaso, resulta ambigua desde nuestro punto de vista41, pero la pronunciación del griego moderno es claramente apical42, y ninguno de los cambios sufridos por la sibilante sorda clásica puede ser considerado indicio de una pronunciación propiamente dorsal43. En cuanto a la del latín, su pronunciación era claramente dorsal, como precisamente demuestran los préstamos antiguos en vasco que sistemáticamente adoptan las formas latinas utilizando la dorsal vasca y no la apical44. Esa articulación es la que se ha mantenido en francés y en italiano mientras que en gran parte del español ha sido sustituida por la apical. Los indicios que hemos visto de que griegos y latinos encontraban extraña una sibilante ibérica diferente coincidirían así con la hipótesis de que las sibilantes ibéricas se articulaban de forma similar a las del vasco antiguo; ibérica representaría una sibilante dorsal mientras que representaría una apical. Los creadores de la escritura greco-ibérica habrían utilizado sigma lógicamente para la apical mientras que, a falta de un signo realmente apropiado, habrían reciclado la sampi para representar la dorsal. En los casos de transcripción no sistemática griegos y latinos no habrían vacilado en identificar respectivamente la con la sigma y la con , mientras que para la sibilante alternativa habrían podido optar por distintas soluciones, no distinguirla gráficamente, como ocurre en el plomo de Pech Maho, o recalcarla de algún modo, en particular por la geminación que encontramos en algunas transcripciones de fecha avanzada. 15. En cuanto a la transcripción de formas célticas, es de suponer que la sibilante sorda era apical por lo que se eligió para representarla . La utilización de para la sonora celtibérica probablemente se justifica por mera oposición, y lo mismo pudo ocurrir en el caso de la africada gala, pero es posible que haya que contar además con otro factor. Cuando una lengua posee una sibilante y una africada sibilante coronales el punto de articulación de ambas no tiene por qué ser el mismo; en los dialectos vascos en que se ha perdido la distinción de apical y dorsal las antiguas sibilantes se han confundido en la apical, mientras que las africadas lo han hecho en la dorsal45. Si en galo la sibilante era apical y la africada dorsal, la elección de signos ibéricos era obvia, tan obvia que en realidad resulta un tanto sorprendente que existan algunos casos de = /s/ y = /ts/. No existe sin embargo información que yo conozca que permita precisar cómo era la articulación de los sonidos galos en cuestión, ni en general datos sobre frecuencias relativas de sibilantes y africadas apicales y laminales. 16. Aún existe otro posible factor a tener en cuenta en la interpretación de los signos ibéricos para sibilantes, pero se trata de una cuestión que exigiría una investigación indepen40. ALLEN, W.S.: 19742:Vox, 43, habla de «a sibilant sound not unlike that of English alveolar s», pero la realización de la s inglesa es variable según hablantes, para unos es apical, para otros dorsal: LADEFOGED, P. & MADDIESON, I.: 1996: The Sounds, 146. 41. Dion. Hal. De Comp. 14.79, p. 54 UR: «en la s la lengua toda avanza hacia el cielo de la boca pasando el aire entre ambos y arrancando entre los dientes un débil y ligero silbido» (trad. de V. Bécares en Dionisio de Halicarnaso, La composición literaria, Salamanca1983, 30, o Dionisio de Halicarnaso, Tres ensayos de crítica literaria, Madrid 1992, 156). Dionisio no presta atención a detalles muy precisos de la posición de los órganos, aunque hay que reconocer que en el caso de rho sí se refiere a la punta de la lengua. 42. MACKRIDGE, P.: 1985: The Modern, 26-7. 43. Agradezco al Prof. Méndez Dosuna el haberme proporcionado información sobre algunos aspectos de su obra inédita sobre las sibilantes; por supuesto que no es en absoluto responsable del uso que he hecho de esa información. 44. MICHELENA: 1965: «Lat. S». 45. TRASK, R. L.: 1997: The History, 84.
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diente y aquí no es posible sino dejarla señalada. Una de las probables coincidencias entre el sistema fonético paleovasco y el ibérico es la oposición entre consonantes fuertes y débiles; es seguro que en las oclusivas ibéricas dentales y velares se daba una oposición de modo de articulación que sin embargo sólo fue sólo representada en la escritura en una variedad local; las transcripciones clásicas interpretaban esta oposición como oposición de sonoridad46. En un trabajo reciente he presentado los indicios que apuntan a que esa oposición fuese en realidad una oposición de tensión, en la que se integrasen fonemas fuertes, representados en las escrituras clásicas como sordos, y débiles, representados como sonoros47. En general sin embargo la escritura ibérica no recogía la diferencia y representaba ambos modos de articulación con los mismos signos. En paleovasco la oposición de tensión no estaba restringida a las oclusivas sino que afectaba por igual a todas las consonantes excepto la nasal o nasales y la posible aspiración. La cara fuerte de las sibilantes estaba representada por africadas. Cabe preguntarse por lo tanto, ya que la escritura ibérica no recogía la diferencia de tensión, si no existirían en ibérico al igual que en paleovasco dos fonemas dorsales y dos apicales con un único signo para representar cada par. Se explicaría así más fácilmente el que se adoptase la sampi, cuyo nombre en la época posiblemente conservaba una pronunciación de tipo /ts/, ya que sería lógico que cuando el antiguo fonema representado por esa letra pasó a /ss/ en posición intervocálica y la letra dejó de usarse excepto en el sistema numeral, se procurase mantener en la pronunciación de su nombre su peculiaridad distintiva frente a sigma. También se explicaría el uso de para representar el grupo céltico /ks/, es decir una combinación de oclusiva y apical que difícilmente podía sentirse próxima a /s/ pero no así a /ts/, y el de para galo /ts/ de acuerdo con lo dicho más arriba. Hay sin embargo argumentos fuertes en contra de esta teoría. En greco-ibérico se utilizaron los grafemas griegos para oclusivas sordas y sonoras para marcar la probable distinción de fuertes y lenes, pero no se habría buscado una distinción similar en el caso de las sibilantes. En la transcripción del aquitano se dió prioridad a la distinción de africada frente a sibilante débil, pero sin embargo en el caso del ibérico se habría establecido la prioridad inversa. Finalmente ya he indicado que existe una variedad local de escritura ibérica que ha desarrollado un sistema —un trazo extra en los grafemas para fuertes — para representar la oposición de tensión, pero no parece que en esa variedad existan variantes sistematizadas en la representación de las sibilantes. El paralelo aquitano y en cierta medida las transcripciones de lenguas célticas en escritura ibérica podrían hacernos pensar que en realidad el factor distintivo que se buscó expresar en ibérico fue una oposición de tensión. En ese caso el uso de para la africada gala y la posible fricativa celtibérica, así como su equivalencia con sampi, implicarían que ese grafema correspondía al par fuerte de la oposición mientras que correspondería al débil, pero las transcripciones latinas en general y el uso de para /ks/ contradicen esa alternativa. 17. Todavía existe una dificultad adicional. Los datos que estamos utilizando no sólo corresponden a distintas situaciones de contacto e involucran a lenguas variadas sino que se extienden a lo largo de posiblemente cinco siglos, por lo que no sería imposible que por ejemplo la situación representada en la creación del alfabeto greco-ibérico y la representada en la adaptación de la escritura ibérica para escribir celtibérico correspondiesen a dos estadios en la evolución de la lengua entre los que se hubiese producido algún cambio significativo en el sistema de las sibilantes. En conclusión debo insistir de nuevo en que los testimonios disponibles no permiten zanjar el problema, pero que apuntan como hipótesis más acorde con los datos a la exis46. CORREA, J. A.: 1992: «Representación»; QUINTANILLA, A.: 1998: Estudios, 263-6. 47. DE HOZ: en prensa: «Hacia».
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tencia de una oposición sibilante apical∼sibilante dorsal, similar a la existente en vasco, sin que haya base suficiente por el momento para postular una paralela oposición de tensión. BIBLIOGRAFIA Actas del II Coloquio sobre lenguas y culturas prerromanas de la Península Ibérica (Tübingen, 1976): 1979: Salamanca. Actas del III Coloquio sobre lenguas y culturas paleohispánicas (Lisboa, 1980): 1985: Salamanca. Actas del IV Coloquio sobre lenguas y culturas paleohispánicas (Vitoria, 1985): 1987: Vitoria/Gasteiz = Studia Paleohispanica, Veleia 2-3. Actas VIII: 2001: Actas del VIII coloquio sobre lenguas y culturas hispanas prerromanas (Salamanca 1999) = F. VILLAR & MA P. FERNÁNDEZ eds., Religiún, lengua y cultur prerromanas de Hispania, Salamanca. ALLEN, W.S.: 19742: Vox Graeca, Cambridge. DE BERNARDO, P.: 1999: Nominale Wortbildung des älteren Irischen, Tübingen. –: 2001: «Sull’origine delle sibilanti in celtiberico: una modifica alla teoria di Francisco Villar», P. Lambert & G.-J. Pinault eds., Gaulois et celtique continental. –: 2001: «Grafemica e fonologia del celtiberico», Actas VIII, 319-34. BILLY, P.-H.: 1993: Thesaurus Linguae Gallicae, Hildesheim-Zürich-New York. CORREA, J. A.: 1992: «Representación gráfica de la oposición de sonoridad en las oclusivas ibéricas (semisilabario levantino)», AIVN 14, 253-93. –: 1993: «Antropónimos galos y ligures en inscripciones ibéricas», Studia palaeohispanica J. Untermann, 101-16. –: 1994: «La lengua ibérica», RSEL 24, 263-87. –: 2001: «Las silbantes en ibérico», Actas VIII, 305-18. EGH = de Hoz, M. P.: 1997: «Epigrafía griega en Hispania», Epigraphica 69, 29-96. ESKA, J. F.: 1998: «Tau Gallicum», Studia Celtica 32, 115-27. EVANS, D. E.: 1967: Gaulish Personal Names, Oxford. GORROCHATEGUI, J.: 1984: Estudio sobre la onomástica indígena de Aquitania, Bilbao. DE HOZ, J.: 1987: «La escritura greco-ibérica», Actas IV, 285-98. –: 1993: «La lengua y la escritura ibéricas, y las lenguas de los íberos», Actas del V Coloquio, 635-66. –: 1998: «La epigrafía ibérica de los noventa», REIb 3, 127-51. –: 2001: «Hacia una tipología de la lengua ibérica», Actas VIII, 335-62. HÜBNER, E.: 1893: Monumenta Linguae Ibericae, Berlin. Los íberos. Príncipes de occidente : 1998: Barcelona (= Les Ibères: 1997: Paris; Die Iberer: 1998: Bonn). LADEFOGED, P. & MADDIESON, I.: 1996: The Sounds of the World’s Languages, Oxford. LAMBERT, P.-Y.: 1994: La langue gauloise, Paris. LEJEUNE, M.: 1955: Celtiberica, Salamanca. –: 1983: «Vieille-Toulouse et la métrologie ibérique», RAN 16, 29-37. –: 1985: Recueil des Inscriptions Gauloises I. Textes gallo-grecs, Paris. –: 1988: Recueil des Inscriptions Gauloises. Vol II 1. Textes gallo-étrusques. Textes gallo-latins sur pierre, París. –: 1991: «Ambiguïtés du texte de Pech-Maho», REG 104, 311-29. LEJEUNE, M., J. POUILLOUX & Y. SOLIER: 1988 (= 1990): «Étrusque et ionien archaïques sur un plomb de Pech Maho (Aude)», RAN 21, 19-59.
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MIRAGGI PALEOBALCANICI 3. ALBANESE GREP «AMO, GANCIO, UNCINO, ÀNCORA»* ANTONIO FILIPPIN 0. Presento al festeggiato, sperando di fargli cosa gradita, il tentativo di risolvere una spinosa questione etimologica balcanica, nella consapevolezza che, nell’arco della sua vasta produzione scientifica, non poche sono state le incursioni in questo bacino linguistico, fecondo di interferenze e innovazioni. 1. A proposito del (relativamente) nutrito pacchetto lessicale di esclusiva comunanza romeno-albanese, Grigore Brîncus¸1 afferma che «die Erklärung dieser Elemente durch das Albanische bedeutet nicht etwa, daß sie das Ergebnis des Einflusses des Spätalbanischen auf das Rumänische wären, vielmehr stammen diese Elemente in beiden Sprachen aus dem Thrakischen, denn das Albanische ist seinem Ursprung nach höchstwahrscheinlich ein thrakisches Idiom mit starken illyrischen Einflüssen». La storia metalinguistica di romeno grapa˘ e albanese grep è in buona parte sostanziata della convinzione, chiaramente esposta dalle parole sopra citate – che pur posseggono una loro legittimità -, che i due termini, qualora non siano frutto di interferenza e sfuggano ad altro etimo, rappresentino la continuazione di qualcosa di non attestato, che sia appartenuto ad una delle tradizioni della Penisola balcanica (a noi note sostanzialmente2 solo tramite l’onomastica e poche glosse), delle quali conosciamo i nomi assai meglio della struttura linguistica3. 1.1 Se è comunemente ascritto a merito di Henrik Baric´ 4 l’accostamento di alb. grep m. ‘amo, uncino, àncora’5 a rom. grapa˘ f. ‘erpice’6 (quindi un graticcio dentato per la protezione del seminato), riguardo all’origine dei termini7 non è mancata una loro assegnazione al sostrato * Miraggi paleobalcanici 1. Albanese shtázë «bestia», in «Studi Orientali e Linguistici» 5 (1999) [2002], pp. 321-325; Miraggi paleobalcanici 2. Albanese bubréc, buburréc ‘scarafaggio, formica’, in «Ponto-Baltica» 10 (2000), pp. 13-18 1. G. BRÎNCUS¸, Über die einheimischen lexikalischen Elemente im Rumänischen, in «RESEE» 1 (1963), p. 317. 2. Le quattro iscrizioni in lingua tracia (da Ezerovo, Kjolmen, Duvanli) sono raccolte e commentate da I. DURIDANOV, Die Sprache der Thraker, Neuried 1985, pp. 88-103. 3. Per un quadro generale, si vedano R. KATICˇ ic´ , Ancient languages of the Balkans, The Hague-Paris 1976; V.P. NEROZNAK, Paleobalkanskie jazyki, Moskva 1978. 4. H. BARIC´ , Lingvisticˇke studije, Sarajevo 1954, p. 98; il merito di Baric´ è, in realtà, quello di aver offerto una interpretazione della differenza nel vocalismo; ma l’identificazione dell’isolessi risale almeno a A. ROSETTI, Istoria limbii române. II: Limbile balcanice, Bucures¸ti 1938, p. 104 («grapa˘ s.f. ‘herse’: alb. grep s.m. ‘Angelhaken, Haken’»). 5. Riporto le prime 7 accezioni del termine riportate da A. Kostallari (kryred.), Fjalor i gjuhës së sotme shqipe. Tiranë 1980, p. 572: «GREP, ∼I m. sh. ∼A, ∼AT. 1. [amo] Copë e vogël teli të fortë, me majë të mprehtë si shigjetë e të ktyher si grremç, që lidhet në fund të një spangoje a filli tjetër të hollë dhe përdoret si mjet për të zenë peshk. Grep çeliku. Grep me një majë (me dy maja). Si grep. Peshkoj me grep. 2. [uncinetto] Shtizë e hollë metali, me majë pak të ktyher, që përdoret për të thurur triko, çorape, dantella etj. Grep i madh (i vogël). Punon me grep. E punon grepin di të punojë me grep. Dantellë e punuar me grep. 3. [scalmo, àncora] Kunj prej metali ose prej druri, me majë të ktyher, që shërben për të varur a për të kapur diçka; çengel; kanxhë. Grepi i kandarit. Grepi i mishit. Grepi i pusit. Var në grep. 4. [àncora] det., bised. Çengeli i anijes. Lëshoi grepin. 5. [forcone] Sfurk plehu. Grep plehu. Ktheu plehun me grep. 6. [forchetta] arb. Pirun. Ha me grep. 7. [spillone da capelli] Karficë flokësh. I mban flokët me grep». La parola è antica nel lessico albanese, come testimoniato dalla presenza in arbëresh, ove è produttiva (v. E. GIORDANO, Fjalor i arbëreshvet t’Italisë/Dizionario degli albanesi d’Italia. Bari 1963, p.136). 6. «Unealta˘ agricola˘ formata˘ dintr-un gra˘ tar cu dint¸i sau cu rot¸i dint¸ate sau dintr-o lega˘ tura˘ de ma˘ ra˘ cini, care serves¸te la ma˘ runt¸irea s¸i netezirea pa˘ mîntului arat s¸i la acoperirea semint¸elor»: D. Macrea (dir.), Dict¸ionarul limbii romîne moderne, Bucures¸ti 1958, p. 344. L’arumeno grepu è prestito dall’albanese, cfr. T. Capidan, Raporturile albano-române, in «Dacoromania» (Cluj) 2 (1922), p. 552. 7. Per rom. grapa˘ , da scartare le ipotesi di un rapporto con lat. crates (Lesicon romanescu-latinescu-ungurescu, Buda 1825, p. 242) o crepare (R. DE PONTBRIANT, Dict¸ionaru româno-francesu, Bucures¸ti-Göttingen 1862, p. 294); con psl. grabiti, grablja (A. DE CIHAC, Dictionnaire d’étymologie daco-roumaine, vol. II: Éléments slaves, magyars, turcs,
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paleobalcanico. Secondo Rosetti, in caso di congruenza lessicale esclusiva tra romeno e albanese, piuttosto che tentarne una interpretazione nel senso del frutto di interferenza8, compito per il quale «criteriile [...] lipsesc», conviene riconoscere che «de fapt, aces¸ti termeni provin, în amândoua˘ limbile, dela o limba˘ vorbita˘ odinioara˘ în Peninsula Balcanica˘ s¸i care a la˘ sat drept urma˘ a existent¸ei sale aceste elemente în vocabularul limbii române»9. Pus¸cariu, ipotizzandone un’origine tracia, evidenzia il differente vocalismo di rom. grapa˘ e alb. grep giustificandolo col fatto che «de sigur ca˘ deosebiri dialectale existau la Traco-geto-daci»10; la posizione dei due accademici è condivisa da Russu, secondo cui11 «se impune concluzia ca˘ populat¸ia romanica˘ (autohtona˘ romanizata˘ ) din zona carpato-balcanica˘ avea în graiul sa˘ u o serie de cuvinte nelatine, provenite din substrat», senza tuttavia precisare la precisa provenienza linguistica – né sarebbe possibile farlo, stante la povertà quantitativa e qualitativa del materiale a noi noto – di questi termini non latini12. 2. Il ricorso al sostrato per la risoluzione di aporie etimologiche, particolarmente in casi di povertà documentaria delle lingue modello (ché di questo si tratta, inquadrando il fenomeno nella dinamica interlinguistica) è spesso, come è noto13, frutto della desperatio del ricercatore, derivante dall’assenza di conferme o riscontri euristici ad ipotesi pur ragionevoli e, nella loro relazione ai paradigmi prodotti, con progressivi aggiustamenti ed integrazioni, dalla ricerca, verosimili. Esperire percorsi diversi, e valutarne l’eventuale plausibilità, rappresenta un tentativo doveroso e scientificamente onesto. 2.1 Precedente all’agnizione dell’isoglossa rom. grapa˘ ∼ alb. grep è l’interpretazione del termine albanese come prestito dall’italiano grappa/grappo ‘rampone di ferro’14. L’ipotesi risale a Gustav Meyer15, il quale, relativamente al vocalismo, vi identifica un effetto metafonico dovuto alla presenza di un morfema di plurale *-i, in base al cui esito sarebbe nata una retroformazione singolare grep (quindi *grap-i > *grep-i > grep). Grep apparterrebbe dunque alla classe lessicale dei «plurali singolarizzati» esaurientemente studiati da Eqrem Çabej16.
grec-modernes et albanais, Frankfurt am Main 1879, p. 126); con bulg. graba, grebla˘ , hrapati (A. SCRIBAN, Dict¸ionaru limbii românes¸ti, Ias¸i 1939, p. 572). Resta convinto della validità dell’ipotesi slava A. CIORANESCU, Diccionario etimológico rumano, fasc. 2o: Cerc-Farm, Madrid 1959, p. 377/3865. 8. Come pensa invece il Dicit¸onarul limbii române dell’Accademia Romena, II/1 F-I, Bucures¸ti 1913-1934, p. 299: «Existînd s¸i la albanezi grep (grap) este probabil ca˘ noi l-am primit prin mijlocirea albaneza˘ ». 9. Op. cit., p. 91. 10. S. PUS¸CARIU, Limba româna˘ . Volumul I: Privire generala˘ . Bucures¸ti 1940, p. 178. 11. I. I. RUSSU, Limba traco-dacilor. Bucures¸ti 19672, p. 201 s. Sul dacio, aggiornato e con ricca bibliografia, v. A. VRACIU, Limba daco-get¸ilor, Timis¸oara 1980. 12. I. I. RUSSU, Op. cit., p. 203 n. 2: «Lipsind atesta˘ ri antice, nu se poate preciza în ce ma˘ sura˘ acea limba˘ dispa˘ ruta˘ trebuie sa˘ fie numita˘ exclusiv ‘traco-dacica˘ ’, ori ‘illirica˘ ’, eventual cu termenul de compromis ‘traco-illirica˘ ’, dupa˘ cum e deocamdata˘ echivoc aportul fieca˘ ruia din cele doua˘ grupe mari grupe etnice s¸i lingvistice ale Peninsulei Balcanice, ca˘ ci înca˘ nu poate fi determinata˘ baza etnica˘ din antichitate a albanezilor: illiri neromanizat¸i sau traci neromanizat¸i, ori eventual un amalgam traco-illiric (dardanic, peonic) din zona centrala˘ a Peninsulei Balcanice». Alla p. 204 segue la lista dei 72 termini (tra cui grapa˘ ; su cui v. anche I. I. RUSSU, Elemente traco-getice în Imperiul Roman ¸si în Byzantium, Bucures¸ti 1976, pp. 203 s., ove sono elencati «cuvintele române autohtone care au un corespondent de origine indo-europeana˘ s¸i autohtona˘ în albaneza˘ ») inclusi da Russu in questa categoria (contro i 90 di A. ROSETTI, Istoria limbii române de la origini pîna˘ în secolul al XVII-lea, Bucures¸ti 1968, pp. 264-76, basatosi, con aggiunte e correzioni, sull’inventario redatto da A. PHIDIPPIDE, Originea românilor. II: Ce spun limbile româna˘ ¸si albaneza˘ , Ias¸i 1928, pp. 695-743). 13. Un panorama accurato della questione in D. SILVESTRI, La teoria del sostrato – Metodi e miraggi, 3 voll. (Biblioteca della Parola del Passato, 12), Napoli 1977-1982. 14. S. BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana. VI: FIO-GRAU. Torino 1970, p. 1062: «Grappa1, sf. Rampone di ferro, di forma variabile, che viene inserito, come elemento di rinforzo o di sostegno, in una struttura muraria allo scopo di tenerne uniti gli elementi, o per sostenere parti architettoniche esterne (balconi, cornici, stemmi) e oggetti sospesi (lampadari, targhe ecc.)». 15. G. MEYER, Etymologisches Wörterbuch der albanesischen Sprache, Strassburg 1891, p. 129. 16. E. ÇABEJ, Shumësi i singularizuar në gjuhën shqipe, Tiranë 1967 (si tratta della raccolta, con revisioni e aggiornamenti, di quanto già pubblicato in «LPosn» 7 [1959] pp. 145-200 e 8 [1960] pp. 71-132); su grep, v. p. 30 e n. 58 e E. ÇABEJ, Ältere Stufen des Albanischen im Lichte der Nachbarsprachen, in «ZBalk» 2 (1964), p. 10. La cronologia del feno-
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2.2 L’italiano grappa, attestato nel 1598 col significato di «pezzo di ferro di svariate fogge, per collegare fra loro conci in lavori di muratura, parti di costruzioni, legnami»17, viene interpretato come deverbativo di grappare ‘aggrappare/rsi’, documentato già nel ‘20018. È però probabile che sia grappare ad essere un denominale di grappa, vista la diffusione panromanza di quest’ultimo termine, pur con una gamma di significati piuttosto variegata19, cui non credo sia estranea l’interferenza (talvolta anche formale) con il tipo lat. graphium20. Grappo21 è, comunque, un maschile secondario (antico: XIV sec.), forse come nomen actionis, da grappa22. 2.2.1. Da un punto di vista etimologico, l’it. grappa è la continuazione, mediata dal latino volgare, come testimonia la sua diffusione nella Romània, di un germanico *krappa ‘uncino’23 con l’esito /kr/ > /gr/ di grotta < CRUPTA, grasso < CRASSU, grata < CRATA ecc., accanto a /kr/ di credere < CREDERE, croce < CRUCE, crudo < CRUDU24; va osservato che nei prestiti germanici la sonorizzazione della velare è pressocché regolare, in particolare in area italoromanza e spesso gallo-romanza25. 2.3. Il confronto di rom. grapa˘ con it. grappa, sp. grapa ecc. risale alla seconda metà dell’Ottocento26, è inteso come isoglossa del romanzo comune («gemeinromanisch») da Tiktin27 ed è
meno è di epoca storica: alta (V-VI sec. d.C.) secondo S. Demiraj, Singularizimi i shumësit të emrave në gjuhën shqipe, in «SFil» 39/4 (1985) pp. 13-22 (= Singularisation du pluriel des noms dans la langue albanaise, in «SAlb» 23/2 (1986) pp. 127-138). Un equilibrato status quaestionis in A. LANDI, Gli elementi latini nella lingua albanese, Napoli 1989, pp. 28-38. 17. M. CORTELAZZO-P. ZOLLI, DELI-Dizionario etimologico della lingua italiana, a c. di M. Cortelazzo e M. A. Cortelazzo, Bologna 19992, p. 687. 18. C. BATTISTI-G. ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, III: FA-ME, Firenze 1952, p. 1862. 19. Fr. grappe ‘Weintraube’ è un’evoluzione dal significato primario, cfr. grap(p)in (1376) ‘Enterhaken’ (> it. grappino «Ancorotto senza ceppo, a quattro marre (e talvolta cinque), adoperato per ormeggiare imbarcazioni e barche da pesca, o per rastrellare il fondo [...] 2. Amo con due o tre uncini, adoperato nella pesca con la lenza», 1798 [Battaglia, op. cit., p. 1063]); prov. catal. sp. grapa ‘eiserne Klammer’, sp. port. grapa ‘Hufgrind der Pferde’; altri ess. (comprensivi dei derivati) in W. MEYER-LÜBKE, Romanisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg 19353 (rist. 1992), p. 386/4760. 20. Ibid., p. 328/3847. È alla base di it. graffio (Dante), prestito dal gr. grafi´on ‘stilo per incisione, scrittura’ (: gra´fv).
21. Nella locuzione dar di grappo, dare grappo: ‘afferrare, arraffare’: BATTISTI-ALESSIO, op. cit., p. 1862; BATTAGLIA, op. cit., p. 1063. 22. Il rapporto di derivazione che collega grappa/grappare/grappo dev’essere analogo a quello intercorrente tra graffa ‘unghia’ (: lat. medievale graffa ‘uncino’, 1247; l’attestazione, in questo significato, negli Statuti di Mergozzo [Ossola] va espunta dal dossier, dovendosi leggere boves a grassa: R. Arena, Noterelle su alcune forme degli Statuti di Mergozzo, in «SMV» 37 [1991] p. 223 [rist. in R. ARENA, Scritti filologici e linguistici, Milano 1999, p. 319]), graffiare e gráffio (tutti attestati dal ‘300). Si noti, per gráffio, la duplice accezione di ‘(s)graffio’ e ‘uncino’ (BATTISTI-ALESSIO, op. cit., p. 1853), v. anche n. 59. 23. Gotico? Certo la fonetica pare escludere un ambiente tedesco e comunque longobardo. In ogni caso non attestato, e meritevole del’asterisco, di cui lo privano, assegnandolo al gotico tout court, CORTELAZZO-ZOLLI, op. cit., p. 683 s.v. gràffa mentre, p. 687 s.v. grappa1, l’asterisco è presente. Per gràffa, Cortelazzo-Zolli rimandano a longobardo *krapfo ‘uncino’ (cfr. aat. krapfo ‘id.’). 24. Sulla loro distribuzione areale, v. G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti. Fonetica, Torino 1966, p. 245 s.; similmente, fr. gras ma croix, sp. grada ma cruz. 25. Come in germ. *krattan : it. grattare, fr. gratter: documentazione in MEYER-LÜBKE, op. cit., pp. 386-388. 26. A.T. LAURIANU-I.C. MASSIMU, Glossariu care cuprinde vorbele din limba româna˘ stra˘ ine prin originea sau forma lor, cumu s¸i cele de origine indouioasa, elaboratu ca proectu, in Idem, Dict¸ionariulu limbii române, Bucures¸ti 1871, p. 1306. 27. H. TIKTIN, Dict¸ionar român-german, Bucures¸ti 1903-1911, p. 697. L’ipotesi di Tiktin è confermata dal fatto che, nelle attestazioni romanze, la costante resa di germ. */kr/ con /gr/ non può far pensare a prestiti indipendenti: il romeno, ad esempio, avrebbe dovuto mantenere la velare sorda germanica, allo stesso modo in cui conserva analoghe articolazioni del latino (rom. creasta˘ < CRIˇSTA, cres¸tin < C(H)RISTIANU, cruce < CRU˘ CE), dello slavo (rom. crai < sl. kralı˘, criva˘¸t < bulg. krivec, croznie < bulg. kronsˇja [v. G. MIHA˘ ILA˘ , Împrumuturi vechi sud-slave în limba romîna˘ . Studiu lexico-semantic, Bucures¸ti 1960]) e del greco (rom. crivat < ngr. krebba´ti, crin < kri´non [altri ess. in H. MIHA˘ ESCU, Influent¸a greceasca˘ asupra limbii române pîna˘ în secolul al XV-lea, Bucares¸ti 1966]). Non sembrano pertanto giustificati i dubbi di MEYER-LÜBKE, op. cit., p. 386/4760: «Wie sich rum. grapa ˘ ‘Egge’, ‘Klammer’, ‘Kralle’ zu den germ., rom. Wörtern verhält, ist nicht klar».
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accettato da Russu nel suo lavoro di sintesi sul lessico ‘autoctono’ del romeno28, benché, in realtà, se l’ipotesi romanzo-germanica coglie nel segno, di autoctono, in rom. grapa˘ , vi sia ben poco; tanto più che Çabej ritiene29 che anche alb. grep sia un prestito dall’italiano o faccia parte dell’elemento latino dell’albanese. 3. Le ipotesi che nascono dal riscontro della affinità formale e semantica di rom. grapa˘ e alb. grep sono quindi: 1. quella di una sopravvivenza lessicale attribuibile al sostrato del romeno e, rispettivamente, alla continuità che l’albanese oggi rappresenterebbe rispetto a quanto in romeno è un fatto di sostrato; 2. quella di un antico prestito germanico nel latino volgare, la cui permanenza è riscontrata in modo formalmente congruente e semanticamente produttivo in buona parte delle lingue romanze, ivi compreso il romeno, e nella Romània perduta, così come rappresentata dall’elemento latino dell’albanese, di cui grep farebbe parte a buon diritto. Semanticamente, va però notato che il rom. grapa˘ ha il significato di ‘erpice’, mentre l’alb. grep, nelle sue accezioni (‘amo, uncino, àncora’), non ha mai un referente agricolo. 4. Può essere utile, per la corretta valutazione di questi problemi, il ricorso ad un elemento sinora ignorato. In greco antico è attestato (Soph. Ichn. 18330), come nome di un satiro31, (o™) Gra´piw32, che Pearson33 interpreta come ‘wrinkled’, ‘rugoso’, sulla scorta del seguente materiale lessicografico34: Hsch. g 1001 L. gra´pin. gh^raw te´ttigow, hç o¢fevw, kai` tv^n e∫kdyome´nvn. kai` ei®dow o∫rne´oy. kai` r™ysso´n, a∫po` toy^ gramma`w e¢xein ta`w r™yti´daw. oç&en kai` h™ gray^w h∫tymolo´ghtai35
E.M. 239, 31-32 grapi´w (rectius gra´piw). o™ e∫rrytidvme´now. a∫po` toy^ katagegra´f&ai tai^w r™yti´si
A questi testimoni Maltese36 aggiunge Eust. Il. 633, 56s. «Iste´on de` kai` oçti e∫k toy^ gra´fein eiçrhtai para` toi^w palaioi^w kai` o™ gra´ptiw o™ r™ysso`w kai` v™sanei` katagegramme´now h¢goyn gramma`w tinaw e¢xvn e∫k tv ^ n r™yti´dvn
4.1. Nelle tre fonti è presente la stessa (par)etimologia: ‘rugoso’, come è l’aspetto di una cicala, 28. I. I. RUSSU, Elementele autohtone în limba˘ româna˘ . Substratul comun româno-albanez. Bucures¸ti 1970, pp. 168 s., cui si rimanda per una bibliografia completa. 29. E. ÇABEJ, Studime etimologjike në fushë të shqipes. Bleu IV: DH-J. Tiranë 1996, pp. 284-285. Il ghego grremç ‘àncora’ è un diminutivo di grep (Çabej, op. cit., p. 298). 30. Seguo la numerazione dell’ultima edizione dei Tragicorum Graecorum Fragmenta, vol. 4: Sophocles, curata da S. Radt, Göttingen 1999, p. 287 (stessa num. di E. V. MALTESE [cur.], Sofocle, Ichneutae [Papyrologica Florentina, X], Firenze 1982); la corrispondenza è con il v. 177 delle edizioni di A. C. PEARSON (The fragments of Sophocles, Cambridge 1917 [rist. Amsterdam 1963], p. 249) e V. STEFFEN (Satyrographorum Graecorum Fragmenta [Poznan´ skie Towarzystwo Przyjaciól⁄ Nauk, Wydzial⁄ Filologiczno-Filozoficzny. Prace Komisij Filologicznej, Tom XI Zeszyt 5], Poznan´ 1952, p. 184). 31. Il riconoscimento si deve a C. ROBERT, Zu Sophokles’ «Ixneytai´, in «Hermes» 47 (1912) p. 548 s. 32. Per Gra´piw il papiro non dà problemi testuali, contrariamente al precedente Dra´kiw, in cui r e a sono dubbie. D’altra parte, il fatto che Dra´kiw ∼ Gra´piw costituisca una coppia isosillabica allitterante omoteleutica rappresenta una conferma stilistica alla plausibilità della lettura Dra´kiw. A proposito di quest’ultimo, Maltese (op. cit., p. 83) rifiuta ogni connessione con il pers. Dra´khw di Aristofane, Lys. 254 ed eccl. 293 per pensare invece ad un accostamento a Do´rkiw, pure escluso da P. Chantraine (Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots, I, Paris 1968, p. 265) in rapporto a de´rkomai (possibile solo paretimologicamente, come per dorka´w rispetto a zorka´w di Hdt. 4, 192 < ie. *jork-o-, cfr. corn. yorch, cimr. iwrch: HJ. FRISK, Griechisches etymologisches Wörterbuch, Bd. I: A-Ko, Heidelberg 1973, p. 410).
33. Op. cit., p. 250 n. 178. 34. Le fonti che seguono sono citate secondo le edizioni qui indicate: ESICHIO – Hesychii Alexandrini Lexicon recensuit et emendavit K. Latte. Volumen I: A-D. Hauniae 1953; Etymologicum Magnum – Etymologicon Magnum seu verius Lexicon [...] recensuit T. Gaisford. Oxonii 1848 (rist. Amsterdam 1994); EUSTAZIO – Eustathii Archiepiscopi Thessalonicensis Commentarii ad Homeri Iliadem pertinentes [...] edidit M. Van Der Valk. Volumen II, Lugduni Batavorum 1976. 35. Segue para` to` ei∫w gh^n r™e´ein che viene espunto da Schmidt, cui Latte si conforma. Forse l’espunzione non è necessaria: può trattarsi di una paretimologia acrofonica (GRay^w come se fosse para` to` ei∫w Gh^n R™e`ein).
36.
Op. cit., p. 83.
MIRAGGI PALEOBALCANICI
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di chi cambia pelle (gh^raw te´ttigow ... kai` tv^n e∫kdyome´nvn), come se questa fosse ‘segnata’ (a∫po` toy^ gramma`w e¢xein, a∫po` toy^ katagegra´f&ai tai^w r™yti´si, katagegramme´now ... gramma`w tinaw e¢xvn e∫k tv ^ n r™yti´dvn), tant’è vero che anche la ‘vecchia’ viene così spiegata (kai` h™ gray^w h∫tymolo´ghtai).
4.1.1. Alcuni rilievi di ordine fonetico e morfologico-derivazionale rendono problematico un ipotetico rapporto di gra´piw con gra´fv ‘tracciare una linea’37, se non per via paretimologica. Esiste in greco una serie di deverbativi in -i-, interpretabili come nomi d’agente38 con vocalismo radicale o, ad es. tro´xiw ‘corridore’ (: tre´xv; Eschilo), stro´fiw ‘individuo scaltro’ (: stre´fv; Aristofane) ecc. Un analogo derivato di gra´fv (< ie. *gérbh-/grbh-)39 dovrebbe presentarsi dunque come *go´rfiw; in ogni caso, quand’anche realizzato sul grado 0 del pres. gra´fv, non si vede la ragione per cui, in questo contesto fonico, /ph/ dovrebbe presentarsi come /p/, con perdita dell’aspirazione40, che ad es. in stro´fiw è regolarmente conservata, come lo è in derivati fonotatticamente simili quali grafh´, gra´fhma, grafey´w, grafi´w, grafi´skow, -gra/a´fow41; tanto più se fosse una formazione recente, metalinguisticamente coniata su gra´fv. 5. Quanto all’etimologia remota, la presenza di germ. *krappa (che, come si è visto, sta alla base del tipo romanzo grappa/graffa) in mat. krapfo, nederl. medio krappe, ol. krap42 ‘uncino’, sved. dial. krabbe ‘amo’ ha indotto a ricondurre questi appellativi, insieme a rom. grapa˘ e alb. grep, ad un ie. *ger- ‘avvolgere, attorcigliare’, con un ampliamento *g(e)re-p- (?)43; Çabej pensa invece, per alb. grep, ad una «creazione elementare»44 alla stregua di germ. *krappa non escludendo, al tempo stesso, l’ipotesi di una trafila indeuropea e, in tal caso, rigettando l’idea di un prestito dall’italiano o dal latino. 5.1. Per gr. gra´piw, come personale (Sofocle), Chantraine45 pensa a «celui qui griffe, déchire», salvo poi affermare che si tratta di un «terme populaire dont l’étymologie est donc obscure»46 e giudicarlo, a mio avviso a torto, come un derivato di gra´fv attraverso gra´ptiw47. È tuttavia evidente, quale ne sia l’etimologia, che una forma /grap#i/, identificabile in gra´piw, sta alla base di alb. grep, plurale metafonico singolarizzato48. Il significato dell’alb. grep ‘amo, uncino, gancio, àncora’ rappresenta un nomen instrumenti rispetto a gr. gra´piw «celui qui griffe», 37.
Lo Chantraine (op. cit., p. 235) ritiene gra´piw un ipocoristico di gra´pthw del passo cit. di Eustazio. Ma, a parte il fatto che la lezione corretta in Eustazio è gra´ptiw (si vedano le osservazioni di Van Der Valk ad Eust. Il. 633, 56s.), è a mio avviso probabile che, di fronte a gra´pin/w di Esichio e dell’Etymologicum Magnum, gra´ptiw sia un adeguamento formale, dovuto a Eustazio, a un paradigma verbale derivazionale con identificazione della regolarità morfologica in una serie quale gra´fv: grapto´w. 38. V. P. CHANTRAINE, La formation des noms en grec ancien, Paris 1933 (rist. Paris 1979), p. 112. 39. LIV – Lexikon der indogermanischen Verben. Die Würzeln und ihre Primärstammbildungen. Unter Leitung von H. Rix, Wiesbaden 2002, p. 187. La stessa agnizione di una radice ‘indeuropea’ per gr. gra´fv, vista la povertà dei confronti (anglosassone ceorfan ‘abschneiden, eingraben’ e lituano gerbiù ‘ehren’ (!), per di più dubbio) è ai confini ultimi della ragionevolezza. 40. Normale, al contrario, avanti consonante: grapth´r, grapto´w, e¢graca. Non giurerei che dipenda derivazionalmente da . gra´fv anche grapty´ew (Omero, Aristofane; anche HSCH. g 903 L. grapty^w ta`w a∫myxa`w kai` katajy´seiw tv ^ n a∫kan&v ^ n), come pensa invece Frisk, op. cit., p. 325: su questo v. sotto, § 5.2.
41. sere 42. 43. 44. 45. 46.
Come si vede dagli esempi, la condizione accentuale è del tutto irrilevante e non può neppur marginalmente eschiamata in causa per giustificare /p/ di gra´pin contro /ph/ di gra´fv. Cfr. A. A. WEIJNEN, Etymologisch dialectwoordenboek, Assen 1996, p. 103. L’ipotesi è di Giuglea, confermata da RUSSU, Elementele... cit., p. 169 con bibl. «nje ‘krijm elementar’»: ÇABEJ, Studime... cit., p. 285. Dictionnaire ..., cit., p. 235. La pensa analogamente FRISK, op. cit., p. 323: «volkstümliches Wort unklarer Bildung», collegandolo tuttavia a
gray^w, gh^raw ecc., il cui «rapprochement [...] ne présente aucune vraiesemblance ni pour le sens ni pour la forme» (CHANTRAINE,
47.
op. cit., p. 235).
V. sopra e nn. 37, 40 e 41. Sempre sulla base di gra´ptiw, A. van Windekens (Dictionnaire étymologique complémentaire de
la langue grecque. Nouvelles contributions à l’interprétation historique et comparée du vocabulaire, Leuven 1986, p. 57) fa risalire gra´piw a ie. *gr kw - di psl. s gr cˇiti seı ‘ritirarsi’, bulg. g rcˇa se ‘mi piego’ ecc., giustificando l’esito /p/ della labiovelare ie. dinnanzi a /i/, invece dell’atteso /t/, come analogico della /p/ di gra´pthw (cioè gra´ptiw), su cui già si è detto.
48.
V. sopra, § 2.1.
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ANTONIO FILIPPIN
nomen agentis (come personale) e ‘rugoso, rigato’ come aggettivo. Che gra´piw possa avere un valore attivo è avvalorato dal suo accostamento, nel passo cit. di Sofocle, a Dra´kiw: se questo, collegato derivazionalmente o paretimologicamente a de´rkomai49, allude all’azione del ‘guardare’50, esso può garantire anche per Gra´piw un valore agentivo (attivo), associandovisi, oltre che formalmente51, anche semanticamente, avendo, accanto al satiro ‘che guarda’, quello ‘che graffia, squarcia’, azione ben confacentesi alla natura semibelluina di tale figura. D’altronde, al v. 184 si trova un satiro di nome Oy∫ri´aw, il quale non è difficile pensare rimandi lo spettatore all’azione dell’oy∫rei^n. 5.2. Non sembra dunque improbabile attribuire all’agg./sost.52 gra´piw, oltre al valore passivo di ‘rugoso, segnato’ (e ‘il rugoso’) assicurato dalle glosse sopra citate, una valenza attiva. Esichio (g 902 L.) ha un grapi´nhw. oi®now traxy´w = E.M. 239, 32 (in coda a gra´piw) kai` grapi´nhw, oi®no´w tiw traxy´w. Se pure la morfologia non è chiara53, è trasparente il collegamento di grapi´nhw con gra´piw54. Ora, difficilmente si potrà dire, di un vino, che è ‘rugoso’; non è improbabile che possa essere acido, aspro, quello che nel tecnoletto degli enologi è ruvido, e quindi che graffi, raschi la gola55: d’altra parte, ad ‘aspro’ riconducono tutte le accezioni di traxy´w56, che è detto anche delle spine. A tale riguardo, mi sembra difficilmente separabile da gra´piw e grap´inhw anche grapty^w. ta`w a∫myxa`w kai` katajy´seiw tv ^ n a∫kan&v ^ n ‘i graffi e le raschiature delle spine’: grapty^w si spiega facilmente come un nome d’azione in -tu¯ -57 costruito su un radicale /grap/. 5.3. A mio parere questo dossier greco è strettamente legato alla parola albanese grep ‘amo, uncino, gancio, àncora’. La forma albanese risale a un /grap#i/ analogo a gr. gra´piw, appartenente ad una famiglia semantica rappresentante il ‘graffiare’ in senso attivo e passivo. Questo non può stupire, se solo si pensi che it. graffio risale ad un lat. gra˘ phiu(m) ‘stilo per incidere la cera delle tavolette da scrivere’ (< gr. grafi´on)58 e che indica sia l’oggetto sia il prodotto della sua azione59. Il romeno grapa˘ , per il vocalismo e il significato, va considerato separato dalla serie dei termini albanesi e greci e considerato piuttosto il continuatore di un germ. *krappa già acclimatatosi nel latino volgare, come dimostra la diffusione del tipo di it. grappa nelle lingue romanze. È evidente che l’affinità formale con il germ. *krappa può far pensare che sia nel giusto Çabej60 a ritenere gli appellativi germanico e albanese ‘creazioni elementari’; non mi
49. V. n. 32. 50. «il tipo del satiro che porta la mano alla fronte per poter vedere lontano è diffuso nell’arte vascolare [...]; si può aggiungere che tale atteggiamento doveva rientrare nel repertorio di movenze della si´kinniw: danze satiresche caratteristiche erano lo skopo´w [...] e lo skv´teyma [...]; in Plin. n. h. 35, 138 è menzionato, tra le grande pitture parietali di Antifilo, il ritratto di un satiro quem aposcopeuonta appellant; anche il nome di satiro Sko´pa che compare su una peli´kh a figure rosse [...] può forse esser ricondotto alla stessa sfera»: MALTESE, op. cit., p. 83.
51. 52. 53.
V. n. 32. Esichio lo ha in entrambe le funzioni. È formato come kegxri´nhw ‘un tipo di serpente’ (NIC. Th. 463 [ma v. A. CRUGNOLA (ed.), Scholia in Nicandri Theriaka
cum glossis, Milano-Varese 1971, p. 189]), kentri´nhw ‘squalo spinoso’ (ARIST. fr. 310), spa&i´nhw ‘cervo giovane’ (HSCH., EUST. 711, 38), dor. taxi´naw ‘coniglio, cervo’ (AEL. NA 7, 47, Hsch.); agg. (?) tamisi´nhw ‘(formaggio) di caglio’ (DIOCL. fr. 138). Sul suffisso, CHANTRAINE (Formation ... cit., pp. 203 ss.) osserva che «on observe sans doute une collision entre un suffixe indo-européen et une finale méditerranéenne».
54. V. PISANI (Recensione di HJ. FRISK, Griechisches etymologisches Wörterbuch, Lief. 4, Heidelberg 1956, in «Paideia» 12 [1957] pp. 297 s.) esclude invece la connessione e pensa a termine mediterraneo, come anche per it. grappa, grappo, grappolo ecc. 55. Lat. acidus, ace¯ re, ace¯ tum si confrontano, difatti, con gr. a∫kh´ ‘punta’, cimr. hogi ‘appuntire’, norv. dial. agge ‘spina’, arm. asel⁄ n ‘ago, spilla’ ecc.: J. POKORNY, Indogermanisches etymologisches Wörterbuch, Bern 1959, pp. 18-22. 56. H. G. LIDDELL-R. SCOTT (eds.), A Greek-English Lexicon, rev. by H. S. Jones with a supplement (1968), Oxford 1990, p. 1812. 57. CHANTRAINE, Formation ... cit., pp. 291-293 58. CORTELAZZO-ZOLLI, op. cit., p. 683; cfr. anche graffietto (1681) «strumento di acciaio tagliente usato dagli argentieri e dai falegnami». 59. BATTAGLIA, op. cit., p. 1022 (documentato senza interruzione da Guittone a Pascoli). 60. v. n. 44.
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sentirei di escludere la possibilità di un prestito greco in albanese61, sempre che non si tratti della presenza di un elemento ‘paleobalcanico’ o addirittura ‘mediterraneo’62. Credo possa essere comunque di un qualche interesse un parallelo tipologico italo-greco. Si è visto come gr. gra´piw abbia, tra le numerose accezioni, quella di ‘rugoso’. Ora, Rosèo da Fabriano (1546)63 utilizza in questo senso l’agg. grappato: «Giulio Cesare... avea... la faccia, ancora che fosse giovane, grappata, di color pallido». Che grappato risalga a grappa o al suo denominativo grappare ‘afferrare, strappare’64, quel che conta è che il significato è il medesimo di gr. gra´piw, e che alla base vi sta quanto corrisponde esattamente, per la semantica, ad alb. grep ‘uncino’.
61.
La questione non è priva di importanza per l’identificazione della sede originaria degli albanesi: v. P. DI GIOLa lingua albanese tra mondo latino e mondo greco antico nella penisola balcanica, in R.B. FINAZZI-P. TORNAGHI (a c. di), Lingue e culture in contatto nel mondo antico e altomedievale. Atti dell’VIII Convegno Internazionale di Linguisti (Milano, 10-12 novembre 1992), Brescia 1994, pp. 273-280. 62. Come pensava PISANI, cit. alla n. 54: ma comprendendovi ora anche gra´piw. 63. MAMBRINO ROSÈO DA FABRIANO, Istituzione del Prencipe Cristiano, Venezia 1546, p. 166: cfr. BATTAGLIA, op. cit., p. 1063. 64. Presente già in Guittone e nei Fatti di Cesare: BATTAGLIA, op. cit., p. 1063. VINE,
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AUTOUR DE LEMNOS MICHEL GRAS Pourquoi revenir encore sur Lemnos, après tant d’années ? Parce que Lemnos a besoin du débat scientifique. Parallèlement aux recherches sur le terrain – essentielles – Lemnos doit être sortie de son isolement historiographique, elle qui est au centre de la mer Egée. Dans cet hommage pour Carlo De Simone, il y a d’abord ce désir de saluer sa contribution pour un retour de l’Histoire à Lemnos1. Peu importe que nous soyons en accord total ou partiel. La recherche ne progresse que par le débat. Et si les questions ne sont pas mûres, la seule façon de les faire mûrir, c’est d’en parler. Rien de pire que le silence. Et le silence a longtemps pesé sur Lemnos, comme une chape de plomb. Je me souviens d’avoir vu la dédicace qui accompagnait l’envoi par Jacques Heurgon à Massimo Pallottino de son premier article sur Lemnos2: «à Massimo Pallottino, en tremblant» écrivait Heurgon qui avait alors 77 ans. La question de Lemnos est essentielle pour comprendre le fonctionnement de la Méditerranée archaïque. 1 – Pour Homère qui ne connaît pas les Tyrrhéniens3 il y a des Sintiens à Lemnos, là où Héphaïstos arrive en tombant du ciel4. Mais les Sintiens, contrairement à ce qu’on dit souvent, ne sont jamais présentés comme la population indigène de Lemnos: ils sont bien localisés en un site de l’île, lié à Héphaïstos: c’est dans cette ville sintienne – la future Héphaïstia – que le dieu feint de s’isoler après avoir tendu un piège à Aphrodite, son épouse infidèle5. Les Sintiens sont donc une tribu particulière de Lemnos, même si des sources postérieures notent les liens avec la Thrace. L’étymologie péjorative de leur nom («ceux qui nuisent») serait liée selon Hellanicos au fait qu’ils fabriquent des armes de guerre6. On retrouve ici la cohérence avec les données homériques et le lien avec Héphaïstos. L’ensemble Sintiens-Héphaïstos-métal est indissociable. C’est cela qui explique la définition de Lemnos comme «la fumeuse» (aithaleia7): ce nom est aussi celui qu’Hécatée8 donne à l’île d’Elbe face à l’Etrurie. La ville d’Héphaïstia, qui est évoquée indirectement par Homère9, est connue d’Hécatée10 et citée par Hérodote11. Chez Homère, les Pélasges ne sont cités qu’à propos de la Troade, toute proche12. Dès l’époque homérique, Lemnos est insérée dans l’épopée de la guerre de Troie par le biais de l’aventure de Philoctète, abandonné dans l’île, lors de l’escale des Achéens en route pour Troie13. Parallèlement, Homère connaît l’étape des Argonautes à Lemnos puisqu’il sait que Eunéos est le fils de Jason et de la lemnienne Hypsipile14. L’île est alors un relais dans des parcours maritimes et on ne saurait s’en étonner puisqu’ elle est visible à l’oeil nu à la fois des côtes asiatiques et de la Chalcidique. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.
DE SIMONE 1993; DE SIMONE 1996; DE SIMONE 1997; DE SIMONE 1998. HEURGON 1980. HEURGON 1988; DE SIMONE 1996. Iliade, I, 594. Odyssée, VIII, 294. FGr Hist 1 F 71a. Iliade, XXIV, 753. FGr Hist 1 F 59. Odyssée, VIII, 294. apud Etienne de Byzance, s.v. Lemnos. VI, 140. Iliade, II, 840-843. Iliade, II, 716. Iliade, VII, 467sq.
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On n’oubliera pas que le souvenir mythique de l’arrêt des Argonautes à Lemnos est connu à Cerveteri peu après le milieu du VIIème siècle15. L’histoire de Lemnos s’accélère donc à partir du VIIIème siècle. Là encore rien que de banal. Les circulations de personnes et de biens s’intensifient alors: derrière les phénomènes grossièrement définis par les historiens comme «expansion phénicienne» ou «colonisation grecque» il y a toutes ces mobilités. Rien à voir avec des migrations de peuples à travers la Méditerranée qui ne relèvent que des constructrions historiographiques. Tout cela montre que l’on ne peut comprendre Lemnos en faisant abstraction des modèles historiques utilisés dans l’ensemble de la Méditerranée archaïque. Et en particulier des déplacements, des rencontres et des systèmes d’échange. Lemnos est enfin dans le circuit du vin: Eunée, descendant des Argonautes, ravitaille l’armée achéenne pendant le siège de Troie16. A ce titre, une confirmation supplémentaire vient du texte homérique évoquant le passage des Phéniciens offrant au roi Thoas de Lemnos un cratère en argent avec ciselures, fabriqué à Sidon17. Ce n’est qu’au Vème siècle, après la conquête de l’île par Athènes, que s’élabore le mythe d’une Lemnos anciennement déserte. Ce sont les premiers vers du «Philoctète» de Sophocle évoquant cette île «où ne demeurent ni ne passent les hommes» et surtout la fameuse tirade de Philoctète expliquant qu’aucun marin n’aborde volontiers dans cette île «sans havre (ormos)» et où il n’est possible ni de faire du profit (kérdos) ni de contracter des liens d’hospitalité18. On voit que le regard sur l’île a complètement changé: c’est le début d’un certain silence sur Lemnos. 2 – Les Tyrrhéniens constituent évidemment le point sensible de la question de Lemnos. Ce qui a été dit montre que les Tyrrhéniens ne constituent pas la population primitive de l’île. On insistera pour dire que l’historiographie grecque du Vème siècle a, malgré les apparences, une vision cohérente de la situation de Lemnos de ce point de vie. Il faut revenir sur le texte d’Hérodote19 qui évoque les Pélasges de Creston qui se trouvent «au delà» (y™pe´r) des Tyrrhéniens. On peut donner un argument supplémentaire dans ce long débat pour savoir s’il y a là une référence à une ville de Thrace ou à la Cortone italienne20. En effet, si l’on part de l’idée qu’Hérodote nous fournit une indication géographique précise, en tant que Grec d’Asie ou en transmettant des traditions élaborées dans les villes grecques de l’Ionie, on comprend que la mention «au delà des Tyrrhéniens» peut dire clairement deux choses: d’abord que des Tyrrhéniens sont à Lemnos; ensuite qu’au delà se trouvent les Pélasges de Creston dans cette Thrace et cette Chalcidique qui sont visibles à l’oeil nu de Lemnos. Ici Hérodote transmet une information qui relève d’un périple maritime. Hérodote décrirait ainsi une situation antérieure à la conquête athénienne de Lemnos à la fin du VIème siècle. En revanche Thucydide21 se situe après cette conquête: pour lui, les Tyrrhéniens sont avec les Pélasges en Chalcidique, terre de refuge. Pour Hellanicos de Lesbos22, dont le propos est rapporté par Etienne de Byzance23, des Tyrrhéniens vont à Lesbos lors de la fondation de la ville de Metaon par le Tyrrhène 15. RIZZO MARTELLI 1993. 16. Iliade, VII, 467-475. 17. Iliade, XXIII, 743. 18. Sophocle, Philoctète, v. 1 sq. et v.100-104. 19. I, 57. 20. Bibliographie dans BRIQUEL 1984. 21. IV, 109. 22. FGr Hist 4 F92. 23. s.v. Metaon.
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Métas24. Metaon ne correspond à aucune des villes grecques de l’île connues par Hécatée et Hérodote. Thucydide25, de son côté, évoque un port servant de marché (agora) dénommé Malea sur les côtes de Lesbos26. De toute façon, le passage d’Hellanicos montre que l’activité des Tyrrhéniens consistait dans des installations ponctuelles et que la question des Tyrrhéniens ne se pose pas que pour Lemnos: c’est la conquête athénienne de Lemnos qui a donné aux Tyrrhéniens de Lemnos une importance particulière dans l’historiographie grecque. Par ailleurs, ce sont les Modernes et non les Anciens qui parlent d’une civilisation «tyrrhénienne», d’un art «tyrrhénien», d’une nécropole «tyrrhénienne»ou d’un faciès «tyrrhénien» de Lemnos. Rien n’autorise à relier un faciès culturel connu par la documentation matérielle à une mention dans les sources. Ces appellations sont donc inexactes. Il y a à Lemnos des faciès archéologiques «lemniens» et rien d’autre. Il serait plus utile de chercher à dégager les différentes identités culturelles de l’île à partir de sa documentation archéologique en cherchant à ne pas traiter l’ensemble de l’espace insulaire de manière globale mais en essayant de comparer, voire d’opposer, les différentes régions de cette île dont la superficie est dix fois supérieure à celle de l’île d’Ischia. Lemnos a des faciès indigènes comme tous les autres territoires. Ces faciès n’isolent en rien l’île par rapport aux rivages proches du nord-est de la mer Egée. Les données de fouilles conduites par la «Scuola archeologica italiana di Atene» sont claires de ce point de vue27. 3 – Il convient de relier ce débat à une autre discussion centrale pour la compréhension des mobilités en mer Egée. Le texte d’Hérodote28 sur la migration des Lydiens vers l’Etrurie a été souvent analysé29. Il est toutefois possible d’ajouter quelques notations utiles. Comme on le sait, deux options fondamentales existent pour comprendre les lieux et les conditions d’élaboration de cette tradition. Hérodote aurait-il travaillé à partir d’une information lydienne30 ou au contraire à partir d’une information grecque31? En fait, le débat ne se pose pas en termes d’alternative mais de «collage» entre des éléments incontestablement lydiens (la question de l’invention des jeux) et d’autres qui s’inscrivent non pas dans un cadre grec général de «colonisation» mais – et c’est cela qui n’ a pas été assez souligné – dans une filière bien précise de traditions sur les départs d’émigrés grecs sous la pression perse32. Quand Hérodote indique que ceux des Lydiens qui avaient été tirés au sort pour partir prirent la mer, à Smyrne, il ajoute: « ils chargèrent sur ces navires tout ce qu’ils possédaient d’objets mobiliers et de valeur». On retrouve ici, de manière très précise, la description hérodotéenne du départ des Phocéens vers la Corse33 («ils embarquèrent leurs femmes, leurs enfants et tous leurs biens mobiliers») mais aussi celle du départ successif à
24. BRIQUEL 1984, p. 283; GRAS 1985, p. 643; DE SIMONE 1996, p. 75-77; BRIQUEL, 2000. 25. III, 4 et 6. 26. L’historiographie hellénistique a été prolixe sur Maléos: BRIQUEL 1984; GRAS 1985. 27. BESCHI 1985; BESCHI 1993. 28. I, 94. 29. En particulier BRIQUEL 1991 avec toute la bibliographie antérieure. 30. Position de BRIQUEL 1991. 31. On est tenté de suivre ici la position de LOMBARDO 1990, p. 181 évoquant «la possiblità che ambienti e gruppi sociali lidi più o meno ellenizzati ed ellenizzanti, o ambienti misti greco-lidi presenti verosimilmente in diverse città micrasiatiche (si pensi ad Efeso) abbiano svolto un ruolo significativo sia come contesti di elaborazione e trasmissione di tradizioni presentate come lidie, sia come fonti e referenti, almeno parziali, della lettura erodotea delle realtà lidie in chiave di assimilazione a quelle greche». 32. Sur cette question GRAS 1991. 33. I, 164.
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partir de la Corse34 («ils embarquèrent les enfants et les femmes et tout ce qui put tenir de leurs biens sur les navires»). Ces trois récits sont – avec le récit du suicide collectif par le feu des Lyciens de Xanthos assiégés par Harpage qui brûlèrent «femmes, enfants, trésors et esclaves»35 – à l’origine du topos du désespoir dont P. Ellinger a analysé le succès dans le milieu phocidien36. Certes, le départ des Lydiens est censé résoudre la question de la famine. Et il n’y a pas d’allusion directe chez Hérodote à une pression des Perses puisque le récit est situé dans un passé très lointain (à l’époque mythique du roi Atys, fils de Manès) mais il ne faut pas oublier que c’est dans le contexte général de la pression perse sur la Lydie qu’Hérodote nous parle des Lydiens. A ce stade, on voit bien l’existence d’une tradition élaborée pour des motifs de propagande qui, à partir d’un contexte historique bien précis (les départs des émigrés vers l’Occident sous la pression perse) met en place un schéma tendant à montrer que les Lydiens avaient été les premiers à émigrer vers l’Etrurie. Qui avait intérêt à une telle présentation, sinon les Lydiens eux-mêmes mais aussi les Grecs d’Asie qui leur étaient très proches (géographiquement et politiquement) et dont de nombreux parents s’étaient embarqués au milieu du VIème siècle vers l’Occident en général et l’Etrurie en particulier ? Cette propagande se gardait bien de parler de Phocée mais évoquait Smyrne, certes l’accès naturel à la mer pour les Lydiens mais aussi une ville d’abord éolienne puis ionienne37 et qui avait été prise vers le début du VIème siècle par le lydien Alyatte38. On voit donc que le récit de la «migration» lydienne a toutes les chances d’être un récit de propagande et le nom du prétendu «oikistès» (Tyrrhénos) confirme évidemment les soupçons. Ce fondateur porte en effet un nom tout à fait artificiel, dérivé du terme géographique de l’expédition (la Tyrrhénie). La formation de cette «doctrine» doit donc être reliée au contexte des émigrations politiques du VIème siècle. On sait qu’Hérodote a connu dans le détail de telles traditions pour l’histoire de Phocée39. Le passage sur le départ des Lydiens pour l’Etrurie n’est qu’une version de ces émigrations qui donne un statut mythique et «fondateur» à un départ ancien d’un Tyrrhénos. Il y a là une construction idéologique qui donnait à des émigrés du VIème siècle une légitimité à être accueillis en Etrurie et qui mettait les Lydiens sur le même plan que les fondateurs des apoikiai du VIIIème siècle qui partaient par manque de terres après un tirage au sort. Je soupçonnerais donc des milieux grecs de l’Eolide ou de l’Ionie (phocéens?) d’être à l’origine de ce mythe: Phocée ne pouvait revendiquer une action colonisatrice au VIIIème siècle; dès lors elle l’attribuait aux voisins et amis lydiens. Certes, les noms d’Atys et de Manès ainsi que l’invention des jeux proviennent de traditions lydiennes40 mais ces références sont «collées» artificiellement au récit de la migration. Les Lydiens semblent être ici utilisés pour cautionner une opération grecque. Dans une telle perspective, on voit que la tradition sur l’origine orientale des Etrusques repose sur des bases totalement artificielles. Mais bien d’autres éléments ont permis depuis longtemps d’enlever tout crédit à cette thèse. 4 – Revenant à Lemnos, il faut donc dire qu’on ne saurait se fonder sur le récit d’Héro34. I, 166. 35. I, 76. 36. ELLINGER 1993; cf. GRAS 1997, p. 64. 37. HÉRODOTE I, 149-150. 38. HÉRODOTE I, 16. On n’aborde pas ici la difficile question de la date précise de cet événement. 39. I, 163 sq. 40. BRIQUEL 1991.
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dote et le départ très ancien d’un Tyrrhénos lydien pour l’Etrurie pour reconstruire l’histoire des Tyrrhéniens de l’Egée et de Lemnos en particulier. Le récit d’Hérodote ne peut être utilisé pour penser à une présence tyrrhénienne très ancienne (âge du Bronze) en mer Egée et en Lydie. Le débat sur Lemnos a probablement été faussé à partir de 1885, date de la découverte de la stèle de Kaminia. Sans cette découverte exceptionnelle et l’introduction dans le débat des rapports entre le lemnien de la stèle et l’étrusque, les discussions sur Lemnos auraient été banales. Il est paradoxal de constater que les traditions sur la présence de Tyrrhéniens⁄Etrusques dans les îles de Lipari et peut-être de Madère, véhiculées par des sources tardives (Diodore de Sicile, Strabon, Pausanias) n’ont jamais vraiment été remises en cause alors que les indications a priori plus fiables d’Hérodote, de Thucydide et d’Hellanicos sur les Tyrrhéniens de Lemnos et de Lesbos l’ont été. La conjonction entre le récit d’Hérodote sur la migration conduite par Tyrrhénos à partir de la Lydie vers l’Etrurie et l’existence à Kaminia d’une stèle portant une inscription proche de l’étrusque a conduit certains à rejeter toute l’histoire des Tyrrhéniens de l’Egée dans un passé lointain tandis que d’autres tentaient de donner de tout ce dossier une vision hellénistique. Ce fut le mérite de J. Heurgon que de remettre la stèle dans un contexte historique, celui de la fin du VIème siècle41. La connaissance archéologique que nous avons de Lemnos donne-t-elle une solution ? Certainement pas et la qualité et l’intensité des recherches conduites ne sont pas en cause. Rappelons-nous que Lemnos a une superficie de 477km2, c’est-à-dire dix fois celle d’Ischia. Et l’essentiel des données archéologiques pour les VIII-VIème siècles provient du site d’Efestia (en dehors de la stèle de Kaminia). Les autres sites côtiers sont mal connus. Or, quelle serait notre vision de l’Etrurie sans la connaissance de Pyrgi et de Gravisca, c’est-à-dire de sites d’une superficie très réduite mais d’une importance capitale? Qui plus est, dans le passage d’Hérodote sur la conquête athénienne de Lemnos42, la cité d’Héphaïstia est clairement désignée comme habitée par les Pélasges puisqu’elle obéit aux Athéniens, suivant en cela les prescriptions de l’oracle; en revanche, l’autre ville (Myrina) entre en résistance. Et il y a consensus pour identifier Myrina avec la Murinail mentionnée dans l’inscription de la stèle de Kaminia43. Cette ville de Myrina est connue d’Hécatée44; elle est «situata in posizione fortissima su un promontorio scosceso della costa O., fiancheggiato da due buoni ancoraggi»45. On y connaît un sanctuaire d’Artémis et des terres cuites féminines archaïques, ainsi que des restes d’ateliers de céramique46. Des fouilles récentes ont été conduites par la Surintendance grecque47. Or, c’est cette Myrina qui est toujours reliée aux circulations emporiques: c’est à Myrina, on ne l’a pas assez remarqué, que les Argonautes sont accueillis48; Myrina est la ville du roi Thoas mais aussi de son frère jumeau Eunéos: tous deux sont fils de Jason et c’est Eunéos qui fournit en vin l’armée achéenne pendant le siège de Troie et qui demande en échange du bronze, du fer brillant, des peaux de boeufs, des boeufs sur pied, des esclaves49; et c’est encore Eunéos qui reçoit des Phéniciens un cratère d’argent ciselé par les
41. 42. 43. 44. 45. 46. 47. 48. 49.
HEURGON 1980. VI, 140. DE SIMONE 1996, p. 38. apud ETIENNE DE BYZANCE, s.v. Lemnos et Myrina. L. BERNABÒ BREA in Enciclopedia dell’Arte antica, s.v. Lemno. Bilan dans BESCHI 1993 p. 28 avec bibliographie; cf. aussi BESCHI 1998, p. 67 n. 72. BESCHI 1993, p. 28 n. 25. APOLLONIOS DE RHODES, I, 604 et 634. Iliade, VII, 467 sq.
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Sidoniens et le cède à Patrocle pour acheter le fils de Priam, Lycaon50. Ainsi, c’est clairement Myrina qui est toujours, dans la tradition, le lieu de l’échange, le milieu ouvert face à Héphaïstia, la ville sintienne puis pélasge qui travaille le métal. On ajoutera que ce n’est sûrement pas un hasard si le nom de Myrina est aussi celui d’une ville éolienne toute proche51. Mais Myrina est particulièrement liée à la Thrace: l’ombre de l’Athos s’étend jusqu’elle52. Et l’on ne force pas le texte en suggérant que la référence d’Hérodote sur les Pélasges de Creston situés «au delà» des Tyrrhéniens53 peut tirer son origine de la situation géographique de Myrina. Lemnos, comme toutes les autres îles de la Méditerranée archaïque, a été confrontée aux trafics archaïques et notamment au commerce prexis et à l’emporiè, tels qu’A. Mele nous les a fait connaître54. Il y a eu des emporia à Lemnos (malgré Sophocle) comme à Lesbos, comme à Chios (où J. Boardman a fouillé un site appelé Emporeios si l’on en croit une inscription médiévale)55; de leur côté, les Chiotes avaient refusé aux fugitifs phocéens une installation dans les îles Oinoussai de peur qu’ils n’y établissent un emporion56. Lemnos n’est pas une exception historique en dépit de la stèle de Kaminia. Il reste à retrouver dans cette île des traces archéologiques des structures de l’échange. Alors seulement on pourra dire si de telles données nous permettent d’expliquer les mentions des sources antiques sur les Tyrrhéniens de Lemnos.
* Depuis la rédaction de cette note, la bibliographie sur Lemnos s’est beaucoup accrue. Citons en particulier les travaux de L. Beschi et G. Messineo dans Un ponte fra l’Italia e la Gracia. Atti del simposio in onore di A. Di Vita (Ragusa 1998), Padova, 2000, p. 75-84 et 85-94; d’A. M. Biraschi dans Geografia antica, V, 1996, p. 163-169, de M. Giuffrida e D. Bonnano, dans Ormos (Quaderni dell’Istituto di storia antica, Palermo), 1, 1999, p. 7-37 et 113-143. Et surtout C. De Simone et G.F. Chiai son revenus sur la «stèle» de Kaminia (Studi Micenei e Egeo-Anatolici, XLIII/1, 2001, p. 39-65. BIBLIOGRAPHIE BESCHI 1985: L. BESCHI, Materiali subgeometrici e arcaici nel Nord-Egeo: esportazioni da Lemno, «Quaderni de «La Ricerca scientifica», CNR», 112, 1985, pp. 53-64. BESCHI 1993: L. BESCHI, I Tirreni di Lemno alla luce dei recenti dati di scavo, «Magna Grecia, Etruschi, Fenici. Atti del trentatreesimo convegno di studi sulla Magna Grecia», Taranto 1993, pp. 23-50. BESCHI 1998: L. BESCHI, Arte e cultura di Lemno arcaica, «La Parola del Passato», 298, 1998, pp. 48-76. BOARDMAN 1967: J. BOARDMAN, Excavations in Chios 1952-1955. Greek Emporio, Londres 1967. BRIQUEL 1984: D. BRIQUEL, Les Pélasges en Italie. Recherches sur l’histoire de la légende, Rome 1984. 50. Iliade, XXI, 40 sq. et XXIII, 746-747. 51. HÉRODOTE I, 149. 52. APOLLONIOS DE RHODES, op.cit. 53. I, 57, cf. supra. 54. MELE 1979. 55. BOARDMAN 1967, pp. 253 et 256. 56. HÉRODOTE, I, 165.
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BRIQUEL 1991: D. BRIQUEL, L’origine lydienne des Etrusques. Histoire de la doctrine dans l’Antiquité, Rome 1991. BRIQUEL 2000: D. BRIQUEL, Pélasges et Tyrrhènes en zone égéenne, Akten des Kolloquiums zum Thema «Der Orient und Etrurien» (Tübingen 1997), Pisa-Roma, 2000, p. 19-36. DE SIMONE 1993: C. DE SIMONE, Il problema storico-linguistico, «Magna Grecia, Fenici, Etruschi. Atti del trentateesimo convegno di studio sulla Magna Grecia», Taranto 1993, pp. 89-121. DE SIMONE 1996: C. DE SIMONE, I Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche, Firenze 1996. DE SIMONE 1997: C. DE SIMONE, I Tirreni a Lemnos: paralipomena metodologici (nonchè teorici), «Ostraka», VI, 1, 1997, pp. 35-50. DE SIMONE 1998: C. DE SIMONE, Etrusco e «tirreno» di Lemnos: «Urverwandtschaft»?, «RFIC», 126, 1998⁄4, pp. 392-411. ELLINGER 1993: P. ELLINGER, La légende nationale phocidienne, Paris 1993. GRAS 1976: M. GRAS, La piraterie tyrrhénienne en mer Egée: mythe ou réalité ?, «Mélanges offerts à Jacques Heurgon», Rome, 1976, pp. 342-369. GRAS 1985: M. GRAS, Trafics tyrrhéniens archaïques, Rome, 1985. GRAS 1991: M. GRAS, Occidentalia. Le concept d’émigration ionienne, «Archeologia Classica», XLIII, 1991, pp. 269-278. GRAS 1997: M. GRAS, L’Occidente e i suoi conflitti, «I Greci. Storia, cultura, arte, società. II,2: Una storia greca. Definizione», pp. 61-85. HEURGON 1980: J. HEURGON, A propos de l’inscription «tyrrhénienne» de Lemnos, «CRAI», juillet-octobre 1980, pp. 578-600. HEURGON 1988: J. HEURGON, Homère et Lemnos, «CRAI», janvier-mars 1988, pp. 12-30. LOMBARDO 1990: M. LOMBARDO, Erodoto storico dei Lidi, «Hérodote et les peuples non grecs» (Entretiens de la Fondation Hardt XXXV), Vandoeuvres-Genève 1990, pp. 171-203. MELE 1979: A. MELE, Il commercio greco arcaico. Prexis ed Emporiè, Napoli 1979. RIZZO MARTELLI 1993: M.A. RIZZO – M. MARTELLI, Un incunabolo del mito greco in Etruria, «ASAA», n.s. L-LI, 1988-1989 (1993), pp. 7-56.
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NOTES FROM AUTOPSY OF MESSAPIC INSCRIPTIONS ERIC P. HAMP During August 1996, accompanied and helped by my wife Margot, I was able for the first time in my life to visit museums in Lecce, Brindisi (and Taranto) and libraries in Lecce (the University), Brindisi (the Museo Francesco Ribezzo), and Manduria, and to view and study their rich array of Messapic inscriptions at first hand. I thank here the friendly staffs of these institutions for their cordial and hospitable welcome and their help in making my crowded time so profitable and pleasant. I thank especially Professor C. Pagliara for his generous and enthusiastic reception of my sudden and unannounced visit, and for all his help, advice, and friendship in guiding me to the most fruitful use of my time; and in particular for introducing my wife and myself to the endless fascination of the Grotta Poesia at Roca. I present the following notes from my viewings in the order in wich the places and inscriptions were visited and viewed; this should preserve any results of bias from my experience in seeing and becoming accustomed to these texts. Inscriptions wich offered to my sight no difference of palpable interest receive no comment. These comments were restricted initially to comparison with Parlangèli’s work (mostly 1960) so as to give them a sort of consistency and base. Therefore a half-dozen short items seen in Brindisi which come from more recent finds are not mentioned. Subsequently the range of comment was expanded to embrace the important and indispensible Messapische Inschriften of de Simone (1964). These precious texts demand as much careful scrutiny and considered observation as we can manage. Without a solid background in such contact attempts at analysis of these puzzling, opaque, and fragmentary discourses are doomed to vagueness, and risk irrelevancy. An entire rich and sophisticated civilization is at stake, and a fascinating segment of history. Alezio 25.16 Of what Parlangèli 1960 prints (p. 205) as stabova (so too de Simone, 52, with [s/os]) I could read only as TA o‡A There were faint traces of loops for a B, wich one expects, but no vertical to confirm one’s expectation. Note that in Parlangèli’s Tav. XI the B loops seem much less deeply incised. In de Simone’s Abb. 52 the loops are angular and the vertical is a fracture. Every detail of this inscription is of capital importance because we value its digamma so highly. I saw the orizontal of the second A as slightly curved. Vaste 22.11 Others have read anda. Parlangèli’s drawing shows the second A (broken) with curved horizontal. I could see ˙only x, a seemingly asymmetric cross with a perhaps fortuitous crossbar. So it appears also in de Simone’s Abb. 261. An A is of course a likely phoneme, and epigraphic shape, here. But the linguistic constituency seems dubious. Ceglie 7.17 (de Simone, 32) Both words are equally clear, though of different height. If kelonihi was an afterthought it might be more natural as an ethnic than a gentilic. It is a pity we do not know more about the name of Kaili´a ∼ Celia. The sigla at the end seems to me more clearly kp than sp. ˙ ˙
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Carovigno 5.11 (de Simone, 4) I saw the first letter as 1, ant not as ⊕2. After the sequence la my notes are very poor and show little correspondence with Parlangèli, p. 62. After la I have a space and then I instead of si; then instead on nn I have ni, in agreement with de Simone on the i, and I ˙ an a. There then follows a sequence of good cannot say that the next tilted ˙ lambda is agreement, orinas. Thereafter the only agreement I find is a geminate pair of reverse n’s; ˙ followed by what can be an archaic serif’d z. Beyond that I do not have and these are enough strokes or shapes to match other readings. I offer these disorderly fragments for what they are worth. We clearly have here an archaic specimen, a monument of grat worth. Perhaps the u and z are of enhanced value that has been understimated; the h is certainly old, and I seem to have a Y after orinas. ˙ Alezio 25.11 (de Simone, 134) TooR IHI[. For section a I saw The presumed lambda had a space after it, and the final ihi was easily legible. This account differs also from what de Simone transcribes and describes, and it fits his photo poorly. I am puzzled. Ceglie 7.110 The first u is of course expected once one recognizes the stem of this word form, but in my notes I recorded the fact that the circular shape was a deep hollow with no place for a central mark. The second u is expected if one reasons that an enclitic is appropriate after the inflecion -ihi; but here I simply saw no dot in the middle of the circle. On the last point de Simone, 127 differs. Valesio 14.113 I read an | stroke after the B below the fracture in the stone at the right-hand margin, in agreement with de Simone, 126. Soleto 20.11 My results agree with Droop, 1905-6: the letter A appears in two shapes, A and . But the curious thing is that the drawing in Parlangèli (p. 177), presumably that of Casotti 1861, reverses the two shapes. My notes show A followed by , in agreement, I find, with de Simone’s Abb. 190. If we assume that the stone cutter was engaging in archaising, i.e. in aspiring to high style, he might have writtern A (i.e. the prevalenty earlier shape) first, remembering his goal of elegance. Then for the second instance, forgetting his plan and slipping into habit, his practiced hand cut the newer and everyday shape and wrote . It would take a and then to find a reason more complex program to begin with the recent and routine to switch to the formal or mannered or aristocratic or retrospective obsolescent A; the change might also destroy the object of the archaisation or conservatorism3. Rudiae 16.111 were not visible to me because of surface chipping. The essential lower portions of The bottom tips of ri have likewise suffered, but not so as to vitiate reading. I did not see 1. Cfr. Vereto 27.11 (DE SIMONE 7), Daunia 1.18 (DE SIMONE 77). See DE SIMONE 1964, p. 21, fn. 74, 75. 2. Cf. Francavilla Fontana 8.11 (DE SIMONE, 105) and Valesio 14.115, IF 70 (1965) 187. See DE SIMONE 1964, p. 21. 3. The drowing of 16.113 (p. 162) shows A’s with crossbars much more curved than my notes or DE SIMONE’S Abb. 29 show.
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the as to complete ao. Here we see the value of earlier readings. We realize from de Si˙ 189 that a correct reading can come only from further informed conjecture. mone, Rudiae 16.110 I could not see the bottom stroke of T z, and I perceived a wide space between I and M; I also saw M as longer on the right-hand side. I failed to see the raised i, and the following h was lost by surface abrasion; the word-final i was, however, clear to me. The result was˙ that most of dazima[ih]i was invisible to me, and the syntax of the phrase remained beyond reach. ˙ My problem in reading the balance, i.e. the next word, is that of resolving a conflict between epigraphic reading and derivational morphology. Parlangèli’s (p. 160) reading of vastiuaihi satisfies the spaces and symbols he discerns; but the morphology of -u- is ˙˙˙ ˙ to me. The morphology of Ribezzo’s ( ) and Krahe’s ( ) vastoaihi is excellent obscure for a u-stem *u astu- > *u astu(u )-o-s. But my reading ‡ast[ ]oaihi appears to leave room ˙ where a patch of abrasion intrudes. We should gratly desire to retrieve the morphology of this phrase. But I cannot agree with de Simone, 12 in simply ignoring the space between the t and the o; perhaps the ˙ space in the first word was induced by the pock mark in the stone. Rudiae 16.28 This inscription is worth rescuing if in fact it is a copy on stone as has been claimed. My copy in my notes differs from Parlangèli, 169 in a few fetails: the ligature is reversed as BT; the indipendent B does not join in the middle; my is not so vertical, and the second s should be superscript. The break in the stone now leaves only the tops of inihi (as I would write it), and I conjectured the ihi from grammatical knowledge. Abb. 187 ˙of ˙ ˙ de Simone supports my notes. I would, on˙reflection, ˙˙ not call BT a «ligature»; it now seems clear to me that «der Einschub des Beta» (de Simone, p. 105) should refer rather to «des Tau», which was necessary (though neglecting to erase the misplaced beta), after the cutter saw that the sequence sba had been anticipated within sbab or sbaba. We can then explain the cramped superscript s as the final inserted correction. Rudiae 16.114 Ribezzo notion of a continuation from the left is attractive, but this does not remove the difficulty of final rio. We get no further help on this from de Simone, 242. Rudiae 16.112 The reading of the first name is perfectly clear even if the syllabic values are possibly ambiguous. But the rest of the text is very puzzling. My notes show MOAD. AHTAO. I did not see the final s; on the other hand, I saw a clear punct wich others do not record. I am unable to reconcile the four characters in the drowing (p. 162) with Parlangèli’s ahe, ˙ ˙ of ˙ as a ligature but these four also fail to match my punct + two. Since originally read a and h, my ah plus H (as e¯ !) would surprisingly match ahe and Krahe’s ahia; but I do ˙ ˙˙ not know how these were all justified. Informed opinion˙ ˙seems to regard plausibly the first a as an error for l. The most likely reading might be mold.ahe¯ taos. The macron on the e simply has an ar˙ of the punct remain to be explored or bitrary distinguishing value; the status and value confirmed. The epigraphic observations of de Simone, 29 and myself agree closely, but our interpretation diverge. I may have to revise my views on the «ligature» (vs! «error» which I considered but discarded) and on the adventurous «e¯ ta». Muro Leccese 23.11 The reading of this important inscription - its importance far exeeding its brevity- is
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perfectly clear. The focus of interest must be the tantalizing MA. The preceding nominative and accusative, the latter being a deity forming a natural grammatical direct object as can be inferred from other inscriptional contexts, call strongly for a transitive verb. Thus Ribezzo and Krahe have offered a compelling conjecture. We return elsewhere to this verb and its structure. It is reasonable that the purpose of de Simone’s 1964 left its author little opportunity to treat this clear incised text other than to chronologize it as No. 19; see also p. 23 fnn. 91, 97, and p. 43 fn. 293. Vaste 22.14 What I conjectured as the second o is actually only partly visible on the right-hand side. The letter which, I agree, should be r looked to me also as a possible B. Certainly at this place a reading BAS looks attractive if the next letter is t and not gamma; yet this leaves ueoto- in an opaque grammatical state. So it seems that r is strongly to be preferred. These ambiguities do not arise in de Simone’s 182. Inscriptions from Lecce 15.120 The o is now damaged and misshapen. The A which I read had a crossbar, but what Parlangèli shows is a presumably erroneous lambda. Although de Simone, 200 had no trouble with the o he regards the a as damaged and problematic. The P could be ˙ early. 15.17 For Parlangèli’s reading daza (where I would write no underdot) his drawing shows one tail of the second a; here˙ I see only a hollow pit, which I had imagined might have resulted from an o. I read M above z instead of ni. My readings seem close to de Simone, ˙ 215. 15.115 The shape ∈ is noteworthy (cf. 15.118), and whereas according to Parlangèli’s (p. 142) «le lettere del r. 2 sono, verso la fine, poco chiare», for what he draws EF I have seen as ∈ . It is note worthy that he transliterates g. I would have written simply anega, with no underdots; I did not see the final s, just as I˙ did not notice the hooked crossbar on the H. My observations agree with de Simone, 110 and pp. 28, 32. 15.111 I saw the r not as P but as R. In the feminine name the second was abraded, but on an optical hint I conjectured an . These are confirmed by de Simone, Abb. 96a and 96b. 15.112 I saw a space after, but nor before, as. Perhaps I was prejudiced by morphological conjecture. I was; see de Simone, Abb. 201. a. 15.11 I noted the reading of the final portion as being perfectly clear. OP’s remark on a possible Late Messapic [ai] is important. It also seemed clear to de Simone, 223. 15.16 I have but I do not know what to make of this; it looks very Tarentine, and so would remove the underdot. I presume that I am in aagreement with de Simone, 205.
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15.19 (de Simone, 202) for the two lambdas. The & reminds us For I show the T quite long. For II I have of 2.112 (de Simone, 266). Abb. 202 a and b confirm my notes. 15.110 I saw the k quite clearly, and the lower right stroke on the r as longer; de Simone, 206 confirms this. 15.12 (de Simone, 225) De Giorgi, Vetter, and Parlangèli are clearly right. Perhaps the letter z and ∈ (cf. 15.115 above and 118 = de Simone, 213), misled Whatmough, but the mention of u represents simple confusion. 15.113 I saw A with a bar. Therefore kerpam[. Abb. 251a of de Simone confirms this, but also ˙ shows ni for m. ˙ 15.121 My viewing of this beautiful inscription revealed abrasion damaging the left-hand corner of the first s. Since the stonecutter was presumably directed to correct the fourth letter to A (cf. also de Simone, 217), one wonders whether by mistake he also did the same to a lambda at the seventh letter. Inscriptions in Brindisi Museo Francesco Ribezzo Valesio 14.111 The evidence given in the photo Parlangèli 1960, tav. VII (de Simone, 31) is admirably clear. Krahe’s initial g is not al all what I see, and the initial p seems to me assured. Pisani LIAOL # 73b speaks of a »variant» form in -l-; this is merely slovenly speculation (*hosti-polis could, of course, involve a shred of plausibility under the assumption of dissimulation), and really explains nothing; it is simply a paraphrase for the observation that l is not t. I thought I saw a longer left-hand stroke on the lambda. The equation of pres- with Indic puras- is also bad Indo-European phonology. Valesio 14.110 (de Simone, 83) What I saw agrees exactly with the account of Parlangèli, 130, except that I made no conjectures. One might also note the graceful curve on the tail of R. For the stroke within the u cf. Lecce 15.19 (de Simone, 202a). ad 14.114 The unlabelled inscription which I saw as TABA RADAMATRI◊ with a plausible [as, reminds one of Parlangèli’s 14.114. See more recently on such phrases de Simone, 1984. Ceglie 7.11 (de Simone, 91) I intend to discuss elsewhere some matters of the scholarship on this famous and important inscription, now in the wonderful, hospitable, yet needy Biblioteca Comunale «Marco Gatti» of Manduria. But I would record here that I am satisfied that the top line ends in &anaap, with an incomplete slightly slanted crossbar in the single a.
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Abbreviazioni bibliografiche: CASOTTI DE SIMONE 1982
DE
SIMONE
DROOP 1905-6 KRAHE 1955 PARLANGÈLI 1960 PARLANGÈLI 1965 PISANI LIAOL RIBEZZO 1944
F. CASOTTI, «ArchStorIt» 13, 1861. C. DE SIMONE, Su tabaras (femm. -a) e la diffusione dei culti misteriosofici nella Messapia, «StEtr» 50, 1982, pp. 177-197, esp. 178-182. C. DE SIMONE, Die messapischen Inschriften und ihre Chronologie, in: H. Krahe, Die Sprache der Illyrier II, Wiesbaden 1964. J.P. DROOP, in, «BSA» 12, 1905/06, pp. 139-147. H. KRAHE, Die Sprache der Illyrier I, Wiesbaden 1955. O. PARLANGÈLI, Studi Messapici, Milano 1960 O. PARANGÈLI, in «IF» 70, 1965, pp. 183-4. V. PISANI, Le lingue dell’Italia Antica oltre il Latino, Torino 1953. FR. RIBEZZO, Nuove Ricerche per il Corpus Inscriptionum Messapicarum, Roma 1944.
LAT. MANDO MANDI ‘KAUE’ GERHARD MEISER 1. Lat. mando wird von den etymologischen Wörterbüchern WH II 24 und IEW 732 zu einer Wz. *menth- ‘kauen’ gestellt1, die außerdem noch in der german. Wortsippe ‘Mund’ etc. (got. munlos, ahd. mindil ‘Gebiß am Zaum’ u.a.), ir. métal ‘paunch, belly, maw’2 < *mn th-la¯ , aind. math- ‘fressen’3 und griech. ma´uyiai. gna´uoi ‘Kiefer’ Hes., th-ıa¯ - ‘kaue’) greifbar sein soll. (wozu masa´omai < *mn 2. Diese auf den ersten Blick einleuchtende etymologische Verknüpfung enthält bei näherer Betrachtung einige Probleme. Es sind dies: a) der Ablautvokal der Wurzel – a nach lat. mando, e nach ahd. mindil, b) das Fehlen eines charakterisierten Perfekts im Lat. – zu erwarten wäre entweder ✝ma¯ nsı¯, welches freilich durch Homonymenflucht (Pf. ma¯ nsı¯ zu maneo) gemieden sein könnte – oder ✝memendı¯, allenfalls noch ✝manduı¯, c) der Ansatz einer Tenuis Aspirata (TA) -th-, der die Entsprechung von aind. -th-, griech. - u-, lat. -d-,
ir. t /d/ < urkelt. -t- und vorurgerman. -t- erklären soll.
Die ersten beiden Punkte können die vorgeschlagene Etymologie von mando schwerlich widerlegen: es könnte das Paradigma mando mandı¯ als Reimbildung zu pando pandı¯ entstanden sein. Der Ansatz einer Reduktionsstufe *manth-, ist schwer zu begründen (etwa: Reflex eines ursprünglich athematischen, ablautenden WPr?), aber auch nicht zwingend auszuschließen. Hingegen ist durchaus strittig, ob es in der Grundsprache überhaupt Tenues Aspiratae mit Phonemstatus gegeben hat4. Die meisten, vorzugsweise aus dem Altindischen und Griechischen hierfür vorgebrachten Beispiele haben sich als Folgen von «Tenuis + h2» erwiesen. Strittig ist weiterhin die Vertretung einer uridg. TA bzw. Gruppe «Tenuis + h2» im Latein5. Das Beweismaterial ist spärlich, jedoch geht sie nach verschiedentlich geäußerter Meinung mit derjenigen der uridg. Mediae Aspiratae (MA) ganz oder teilweise parallel6. Wenn also uridg. *dh hinter n im Lat. unzweifelhaft als d erscheint7, würde sich mando, wenn < *manth-o¯ , zwanglos dieser Regel fügen. 3. Allerdings ist mando das einzige (scheinbar) unproblematische Beispiel für dieses Lautgesetz8. Da die TA th bzw. die Folge -th2- in anderen Kontexten – etwa inter-
1. In neuerer Zeit etwa Olsen 1988: 5 Anm. 8. Zweifelnd EM 382: «rapport ... indéterminable». Anders CH 669: «lat. mando qui serait un *madh- nasalisé». FR II 180, Leumann 1928: 313 (bei Leumann 1977 nicht mehr berücksichtigt). 2. Vgl. DIL M-117. VE M-44 stellt fest: «Le rapprochement de lat. mandere ‘ma¯ cher’ ... ne convient pas guère pour le sens». 3. Gegen den etymologischen Zusammenhang von aind. math- und mando explizit KEWA II: 567. Im EWAia wird mando s.v. math- Bd. II 298f. nicht mehr erwähnt. 4. Vgl. MAYRHOFER 1986: 91f. (ablehnend). 5. Zum Problem der TA im Lat. vgl. SOMMER 1914: 173f., SOMMER-PFISTER 1977: 136, LEUMANN 1977: 172, B. OLSEN, l.c. 6. Vgl. STURTEVANT 1941: 1ff., B. OLSEN, l.c. 7. Vgl. SOMMER 1914: 178, LEUMANN 1977: 167. 8. In sabell. (osk.?) mamphur Paul. Fest. 132 M (wohl: /manfur/) ‘(beim Drechseln verwendeter, mit einem Lederriemen umwickelter) Bohrer’ setzt -f- nicht die Folge -t-h2- in *menth2- ‘quirlen’ fort (so Sommer 1914: 1973; zur Wz. siehe im folgenden), sondern die Dentalgruppe -t-t-, manfur also < *mn t-tor-, quasi ‘Quirler’. Zur Entwicklung n > an im Sabellischen vgl. G. Meiser 1986: 69, zu -tt- > -f- gegenüber der üblichen Normalvertretung -ss- in den italischen Sprachen läßt sich trauorfi ‘transverse’ < *trans-u rt-te¯ d vergleichen (UN 758), vielleicht auch noch (etymolog. unsicheres) umbr. mefa ‘Art Opferkuchen’ ∼ lat. me¯ nsa ‘Tisch; Fladen’ < *mend-ta¯ -, vgl. UN 463f.
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vokalisch – als t vertreten ist9, ist zu fragen, ob nicht t auch hinter n als reguläre Kontinuante zu erwarten wäre. Eine Bestätigung für diese Annahme könnte möglicherweise lat. mentula ‘männliches Glied’ liefern, dessen Deutung als ‘kleine Minze’ WH II 72 zwar lautlich und morphologisch möglich ist, semantisch indessen kaum befriedigt. Hingegen wird ein Anschluß an die Wz. *menth2- ‘umrühren, quirlen’ (LIV 395, *menth- IEW 2lah2-, 732; vgl. aind. mánthati) – mentula also < *mentala˘ - *mentla¯ - letztlich ein Ergebnis ✝mencla zu erwarten wäre (vlat. mencla < *mentla ThLL VIII, 782, 42f. ist rezenter Synkope und sekundärem Wandel -tl- > -kl- verdankt). Mithin vermag auch mentula das Schicksal von uridg. -nth2- im Lateinischen nicht zwingend zu erweisen12. Wie immer aber die Natur des wurzelschließenden Dentals beschaffen war: es können mentula und mando nicht dieselbe Lautgruppe fortsetzen. Zeigt mentula tatsächlich die reguläre Entwicklung *-nth2- > -nt-, kann mando nicht zu einer mit *menth2- (bzw. in der Lesung des IEW: *menth-) ‘quirlen’ homonymen Wz. *menth2- (bzw. *menth-) ‘kauen’ gehören. Es ist somit entweder der Wurzelansatz zu korrigieren oder aber lat. mando zu einer anderen Wurzel zu stellen. 4. Unter der Prämisse, daß als Wurzelvokal als a oder e, als Auslautkonsonant d oder dh gemäß den üblichen Regeln der historischen lateinischen Lautlehre angesetzt werden kann, und der Nasal Wurzelbestandteil oder aber Infixkonsonant sein mag, läßt sich mando potentiell zurückführen auf *(h)mand-, *(h)mandh-, *(h)mad-, *(h)madh-, *(h)mend-, *(h)mendh-, *(h)med-, *(h)medh-. IEW und LIV verzeichnen hierzu folgende Einträge: Wz. *mad- ‘naß sein’ (lat. madeo) IEW 694f., LIV 421, *mand- ‘Rutenverflechtung’ (aind. mandura´¯ - ‘Pferdestall’) IEW 699, *med- ‘messen’ IEW 705, LIV 423, 2.*med- IEW 706, LIV 423 ‘voll, satt werden’, *mend- ‘säugen’ IEW 729, *mend- ‘Körperfehler’ (lat. mendum) IEW 729, *mendh- ‘seinen Sinn richten auf’ IEW 730 (eigentlich: m(e)n-dheh1-). Keine einzige dieser Wurzeln bietet semantisch eine Anschlußmöglichkeit an ‘kauen; essen’ o.ä.13. 5. Die Möglichkeiten der lautlichen Herleitung sind allerdings mit den vorgenannten Ansätzen noch nicht ausgeschöpft. Beim Reimwort pando pandı¯ geht -nd- auf eine uritalische Gruppe -ten- zurück, die ihrerseits aus der Folge «t + antevokalischer silbischer Nasal n » < -tn h+V- entstand: pando ‘öffne’, innerhalb des Lat. gleichsam Kausativum zum Essivum pateo ‘stehe offen’, ist Nasalinfixpräsens zur Wz. *peth2- ‘ausbreiten’ (IEW -h2- lauten; die 824f., LIV 478f.). Die grundsprachliche Bildung mußte *pt-ne-h2- / *pt-n phonetisch schwer realisierbare Schwundstufe *pt- ist in griech. pi´tnhmi ‘breite aus, i öffne’ als pit- wiedergegeben, im Italischen als pat- (lat. pateo, osk. patít -ndh- > -nd- vorausgesetzt, müßte das uridg. thematische Präsens *menth2e/o(s.o.) im Italischen ✝menda- bzw. thematisiert ✝mende/o- gelautet haben. Es bliebe dann zu erwägen, ob nicht eine Beeinflussung des davon abgeleiteten Nomen instrumenti und seine Umbildung zu ✝mendula zu erwarten wäre. 13. SCHRIJVER 1991: 222 stellt nach dem Vorgang von R. Beekes mando (zusammen mit griech. ma´uyiai) zu einer als *mh2dh- angesetzten, anderweitig nicht nachweisbaren Wz. Freilich sollten Neuansätze von Wurzeln erst nach Ausschöpfung aller anderen Möglichkeiten vorgenommen werden; im vorliegenden Fall geht zudem die Anschlußmöglichkeit von lat. matticus (s. u. 6.) verloren.
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*pat-n -h2- im Uritalischen als *patna¯ -, vor Vokal dagegen als *paten-; eben diese Stammgestalt bewahrt osk. patensíns ‘panderent’ < *paten-e-se¯ -nt. Für die weitere Entwicklung hin zu lat. pando sind Binnensilbensynkope *patene- > *patne-, Sonorisierung t > d und Metathese -dn- > -nd- anzunehmen14. Es sind dies triviale bzw. anderweitig etablierte Lautgesetze des Lateinischen; zur Metathese vgl. unda ‘Welle’ < *udna¯ (sekundäres Kollektivum zu *u ed-r / *ud-n- ‘Wasser’15), zur Sonorisierung lat. signum < *sekno- (*sekh -no-? Vgl. LIV 524). In jedem Fall ist der Anschluß von lat. pando an die Wz. *peth2- unstrittig. Es ist daher zu erwägen, ob nicht in analoger Weise mando zu einer Wz. *meth2- (oder *math2-? Vgl. griech. ma´uyiai) zu stellen wäre. 6. Bei dieser Annahme eröffnet sich für mando bereits eine innerlateinische Verknüpfungsmöglichkeit, nämlich bei Paul. Fest. 126 M überliefertes mattici («m. cognominatur homines magnarum malarum atque oribus late pandentes»). matticus, eigentlich ‘das Maul aufgerissen habend’, könnte mordicus ‘bissig’ (Leumann 1977: 337) nachgebildet sein und letztlich auf einem Nomen *matto- < *mato- ‘Maul’ o.ä. (mit «expressiver» Geminate und wohl eher vulgären Charakters) basieren. Allerdings ist es von J. Vossius als Bildung zu ins Lateinische entlehntem (dort freilich nicht bezeugtem) griech. ma´uyiai aufgefaßt worden. C. Pauli 1869: 7 stimmt dieser Erklärung zu, «da sich innerhalb des Lat. keine befriedigende Etymologie für matticus aufstellen läßt». Die Anknüpfung von matticus an mando erledigt diesen Vorbehalt. ma(s)sare ‘dentibus comminuere’ (ThLL VIII, 428,73ff.) ist – wenn nicht aus griech. masa´omai ‘kaue, verzehre’ entlehnt – vom PPP ma¯ (n)sum abgeleitet, ebenso ma¯ sucius Paul. Fest. 139 ‘edax’. 7. Die versuchsweise Bestimmung von mando als Nasalinfixpräsens zu einer Wz. *meth2- (oder *math2-? S.o.) wird gestützt durch die Existenz einer entsprechenden Bildung mathna¯´ ti im Altindischen (aind. Wz. *math-; Wurzelaorist Ind. máthı¯s, -t, Konj. máthat) J. Narten 1960: 121ff. hat als Bedeutung der aind. Wz. ‘mit Gewalt an sich reißen, mit sich reißen’ eruiert (Narten 1960: 129). Im Rigveda mit math- charakterisierte Situationen sind der Raub eines Lammes durch den Wolf (vrkas´ cid ... ura¯ máthir 8,66,8), ˙ Kleidung durch den Dieb des Somas durch den Adler (1,93,6; 9,77,2; vgl. 6,20,6), der (vastramáthim 4,38,5), der Opferspeise durch Dämonen (ya¯ tu¯ na¯´ m ... havirmáthı¯nam 7,104,21), schließlich des Feuers durch Ma¯ taris´van16 (1,71,4; 1,148,1). 8. Die geläufige Bedeutungsangabe ‘kauen’ von mando scheint damit unvereinbar. Sie wird freilich dem Befund, wie ihn der ThLL VIII: 269ff. ausbreitet, nicht völlig gerecht. In der Tat gilt sie für die klassische Zeit. Präzise meint mando: ‘Nahrung mit den Zähnen zerkleinern’, vgl. Lucr. 4,617f. «... sucum sentimus in ore, cibum cum / mandendo exprimimus» (weitere Belege für diese Bedeutung ThLL 269,71-270,41). Unproblematisch ist die Erweiterung hin zu neutralem ‘essen’ in der Kaiserzeit, vgl. Plin. Nat. 8, 210 «in principio [cenae] bini ternique pariter apri manduntur» (Belege ThLL 270,42ff.). In älterer Bedeutung bezeichnet mando hingegen das Reißen und Zerfleischen einer Beute durch Raubtiere (bzw. mit diesen verglichenen Ungeheuern), vgl. Liv.Andr. 39 14. Vgl. RIX 1995: 405, MEISER, 1998: 122. 15. Gegenüber älterem *u edo¯ r, vgl. J. Schindler, BSL 70 (1975) 4f. – Der Bezug von unda auf das Nasalinfixpräsens *u-né-d-ti (vgl. aind. unátti / undánti ‘benetzen’ EWAia I 279), wie ihn etwa IEW 79, EWAia l.c. und LIV 658f. vorschlagen, erscheint weniger plausibel: im Italischen bestand das ererbte «Wasserwort» ausweislich von umbr. utur, Abl. une /udur, unne/ (UN 815f.) nasallos fort – anders als bei den zum Vergleich herangezogenen baltischen «Wasserwörtern» apreuß. unds m. wundan n., lit. vanduo^ «Wasser». – Einen weiteren Beleg für die durch pando im übrigen gesicherte Metathese liefert das Gerundivsuffix lat. -ndo- < *-dno-, vgl. Meiser 1993: 255ff. 16. Der Name des griech. Heros promhuey´w (dor. ma¯ u-) ist allerdings eher zu griech. manua´nv e¢mauon zu stellen, vgl. Schmidt 1975: 1983ff. Zum dort p. 186 angenommenen innergriech. Wechsel a / a¯ vgl. sowie zu griech. Promhuey´w demnächst O. HACKSTEIN, Die Sprachform der homerischen Epen, Wiesbaden 2002:227f.
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Buechner «cum socios nostros mandisset impius Ciclops»17, Enn. Ann. 138 V. «vulturus in spinis miserum mandebat homonem», vgl. auch Acc. trag. 230 «ipsus hortatur me frater, ut meos malis miser manderem natos», sowie die weiteren vom ThLL 269,38-70 angeführten Belege. Die Bedeutungsentwicklung hin zu ‘kauen’ hebt den beim Zerfleischen wesentlichen Aspekt des Zerkleinerns mit den Zähnen heraus, vgl. Cic. N.D. «dentibus ... manditur atque ab is extenuatur et mollitur cibus». Eine andere Richtung der Bedeutungsentwicklung demonstrieren die Ableitungen mando, -o¯ nis Lucil. 946, mandu¯ cus ‘Vielfraß’, die das Moment des Unmäßigen, Gierigen generalisieren: übrigens konstatiert der Thesaurus noch für den nachklassischen Gebrauch von mando: «saepe subauditur notio quaedam ferinae aviditatis» (270,44f.). Das von mandu¯ cus abgeleitete Verbum manduca¯ re ergibt bekanntlich das «Normalwort» für ‘essen’ der romanischen Sprachen, vgl. frz. manger, italien. mangiare usw. 9. Das Schlagen von Beutetieren – etwa eines Schafes durch einen Wolf – dürfte mithin eine der charakteristischen Situationen gewesen sein, wofür die uridg. Wz. *meth2- gebraucht wurde. Das Altindische hat hieraus das Moment des Raubens, Wegschleppens generalisiert, das Lateinische – und wie aus der Nominalbildung ma´uyia ‘Kiefer’ hervorgeht, auch das Griechische – demgegenüber das Moment des Zerreißens, Zerfleischens. Indessen sind es nur einige wenige Fragmente altlateinischer Dichtung, die diesen Zusammenhang vermitteln. 10. Als Fortsetzer des im aind. Aor. máthı¯t (s.o.) greifbaren uridg. Wurzelaorists *meth2-/ *meth2- (vgl. LIV 442) ist für das Uritalische ein Aorist *meta-/*mata- anzusetzen. Im Lat. wäre er entweder als ✝metuı¯ bzw. ✝matuı¯ fortgesetzt oder aber durch das Perfekt *memat- > ✝memitı¯ substituiert worden. Der paradigmatische Zusammenhang zum Präsens mando muß in jedem Falle nachhaltig verdunkelt worden sein. Wie eine Reihe von Verben mit Stammauslaut -nd- hat mando daher ein «Einfaches Perfekt» mandı¯ entwickelt, vgl. pando pandı¯, offendo -ı¯, ascendo -ı¯, accendo -ı¯ sowie prehendo -ı¯18. 11. Durch die Verknüpfung von aind. math- und lat. mando mit der Wz. *meth2- (oder *math2-?) ‘Beute schlagen, reißen’ entfallen wesentliche Stützen für den Ansatz einer Wz. *menth- (bzw. *menth2-) ‘kauen’, die mit *menth2- ‘quirlen’ (s.o. 2.) homonym wäre. Griech. ma´uyiai ‘Kiefer’ (einschließlich der weiteren Ableitungen) stellt sich ebenfalls zu *meth2-; a mag hier – wofern die Wurzel als *meth2- anzusetzen wäre – den «Samprasa¯ rana»-Vokal (statt ✝auo < *m th2-) vertreten; zur Entwicklung -th2- > griech. u vgl. jetzt Peters 1993: 91-101. Was die german. Sippe ‘Mund’ (s.o. 1.) betrifft, läßt sie sich unter Annahme eines Bedeutungsübergangs ‘Kinn’ => ‘Mund’ mit der Wz. *men- ‘emporragen’ (IEW 726, LIV, 437) verbinden, vgl. lat. e¯ mineo, mentum ‘Kinn’, kymr. mant ‘Kinnlade, Mund’, ebenso ir. métal (vgl. VE M-17). Die im IEW angesetzte Wz. *menth‘kauen’ ist mithin zu streichen (und ist im LIV auch nicht mehr berücksichtigt). BIBLIOGRAPHIE CH: P. CHANTRAINE, Dictionnaire étymologique de la langue Grecque. Paris 1980. DIL: Dictionary of the Irish Language based mainly on Old and Middle Irish materials. Dublin 1913-1976. 17. Dieser (auch) als Hexameter lesbare Vers gilt als pseudolivianisch, vgl. BUECHNER 1982 zur Stelle, TRAGLIA 1986: 191. Für gleichwohl hohes Alter spricht die (dann notwendige) Langmessung -e¯ t in der 4. Senkung, vgl. die Einordnung bei Buechner: «non multo post Ennium exarata». 18. Die Gleichheit von Präsens- und Perfektstamm dürfte bei ascendo accendo und prehendo durch Verlust der Reduplikationssilbe im Kompositum (also *ad-sce-(s)cend- usw.) entstanden sein.
LAT. MANDO MANDI
‘KAUE’
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GALL. KARNITU, LEP. KARITE FILIPPO MOTTA La forma verbale karnitu (pl. karnitus) compare cinque volte nel corpus epigrafico gallico, in quattro epigrafi su pietra1: 1) RIG G-151 (Saignon,Vaucluse; alfabeto greco in scriptio continua): ]oyeimatikan[ ]lioyeikarnitoy[2 2) RIG *E-5 (digrafa-bilingue opistografa di Todi; alfabeto latino3 e alfabeto di Lugano): ateknati trutikni karnitu lokan koisis trutiknos: «di Ategnatos figlio di Drutos eresse (costruì)4 la lokan Coisis figlio di Drutos» ateknati trutikni karnitu artuasˇ koisis trutiknos «di Ategnatos figlio di Drutos eresse (costruì) le artuasˇ Coisis figlio di Drutos» 3) RIG E-1 (S. Bernardino di Briona, Novara; alfabeto di Lugano): tanotaliknoi kuitos lekatos anokopokios setupokios esanekoti anareuisˇeos tanotalos karnitus «i figli di Dannotalos, Quintos legatus, Andocombogios, Setubogios e i figli di Exandecottos Anareuiseos, Dannotalos eressero5 (la tomba)6 4) Iscrizione in alfabeto di Lugano reperita a Gozzano (Novara), durante scavi del 1996/’97, non ancora edita (prima notizia e lettura in Gambari 1998): autesai karnitus petua[ Il corpus leponzio7 presenta una forma karite ripetuta due volte nella stessa iscrizione: 5) PID 3008 (Vergiate; alfabeto di Lugano) pelkui : pruiam : teu : karite : isˇos : karite : palam. «A Belgos eresse (fece)9 la bruia Deone; lo stesso fece la pala».
1. Ringrazio gli amici R. Ambrosini, R. Lazzeroni e S. Sani per gli utili suggerimenti che mi hanno fornito nella stesura di questo contributo. Un debito particolare lo ho contratto con Patrizia De Bernardo Stempel, senza il cui incoraggiamento non mi sarei deciso ad avanzare la presente proposta, della quale, comunque, porto per intero la responsabilità. 2. L’iscrizione, mutila ai lati e danneggiata anche nelle parti che si leggono più agevolmente, fa intravedere il resto di una prima riga, di cui rimangono solo poche lettere e che non apporta nulla all’intelligenza del testo. 3. Le versioni latine, mutile, recano rispettivamente (faccia lokan) ATEGNATI DRVTI F. COISIS DRVTI F. FRATER EIVS MINIMVS LOCAVIT STATVITQUE e (faccia artuasˇ) ATEGNATEI DRVTEI F. COISIS DRVTEI F. FRATER EIVS MINIMVS LOCAVIT ET STATVIT 4. Traduzione provvisoria e generica ricavata dalla vulgata; per un relativo approfondimento v. oltre, nel testo. 5. V. n. precedente. 6. L’oggetto della dedica era contenuto, con ogni probabilità, come quello del destinatario, nella prima linea dell’iscrizione, di cui si conservano solo tracce di lettere, fra le quali la sequenza –an che potrebbe ben essere la terminazione dell’acc. sing. di tale oggetto. 7. Continuo ad usare questa comoda etichetta per un gruppo di testi omogenei per alfabeto, tipologie dei supporti (in modo particolare le pietre pala) e area di diffusione, mentre è oggi in discussione se tali testimonianze siano da ascrivere ad un dialetto celtico autonomo o ad una varietà arcaica e periferica del gallico (v. oltre, nel testo, dove la questione viene comunque ripresa alla luce della proposta avanzata nel presente lavoro). Per un recente inquadramento delle varie problematiche poste dal corpus leponzio cfr. Motta 2000. 8. Cfr. anche p. 630. 9. Cfr. n. 4.
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La lettura qui riportata è quella fornita dal De Marinis10, dopo un restauro del calco conservato a Gallarate11 che ha fatto riconoscere definitivamente, nel terzo carattere del sesto elemento dell’epigrafe12, una «aperta» (senza, cioè, la chiusura fra i due uncini), la stessa reperita successivamente nell’iscrizione di Mezzovico13 e che ormai va considerata una vera e propria variante14 nell’alfabeto leponzio. L’iscrizione, pertanto, presenta un solo verbo, karite, in entrambe le proposizioni; è quindi da espungere definitivamente dal corpus il **kalite che era stato letto nella seconda dal Lattes (con Nogara)15, dal Rhys16 e confermato dalla Tibiletti Bruno17, la cui lettura dell’intera iscrizione è stata consacrata dall’autorità di M. Lejeune18 mentre non è stata più presa in considerazione, nei commenti successivi ai Lepontica, la restituzione alternativa karite di Giussani19 e Conway20 e, di conseguenza, tutti gli studiosi che si sono occupati in seguito dell’iscrizione hanno continuato e continuano a cimentarsi in interpretazioni di un verbo che semplicemente non esiste21. In ognuno dei casi sopra ricordati siamo di fronte ad un epitafio, dove compaiono (o comparivano) dedicante, destinatario, il verbo di dedica, appunto, e, almeno ai nn. 1, 2, 5, anche l’oggetto o gli oggetti della dedica, i quali probabilmente erano menzionati anche nelle due rimanenti iscrizioni22. I due verbi appartengono, dunque, al formulario delle dediche funerarie. Se lo sfondo referenziale generale è perspicuo, molto meno identificabile è, ovviamente, date la quantità e la qualità delle attestazioni, un significato preciso da attribuire alle due voci verbali, com’è, del resto, per i lessemi che da quelle dipendono23. Ciò che pare certo (da Todi e da Vergiate), comunque, è che tanto karnitu che karite, evidenti preteriti in dentale, siano in grado di menzionare momenti diversi del rito funebre, così come gli accusativi retti dai due verbi sono certamente i diversi oggetti pertinenti a tale rito: a Todi il dedicante karnitu «fece, eresse, ecc.» sia la lokan24 (acc. sing.) che le artuasˇ25 10. Si veda DE MARINIS 1990-1991, p. 207; cfr. anche MEID 1999, pp. 14-15. 11. L’originale (al Museo Archeologico di Milano) è in condizioni di lettura pessime. 12. Nella zona più compromessa del testo, che corrisponde alla seconda proposizione. 13. Si veda DE MARINIS–MOTTA 1990 -1991; contra: TIBILETTI BRUNO 1997, pp. 1013-1014. 14. In MOTTA 1990–1991, p. 220 n. 10, a proposito della di Mezzovico, in mancanza di altri esempi di «aperte», ipotizzavo un mancato completamento del carattere e non parlavo ancora di variante poiché non avevo visto il nuovo disegno di Vergiate di cui il De Marinis (cfr. n. 10 del presente lavoro) avrebbe corredato la parte da lui redatta del nostro articolo: stonature imbarazzanti ma che capitano nei lavori a quattro mani! 15. Cfr. LATTES 1913 e 1914. 16. Cfr. RHYS, J. 1913-1914. 17. Cfr. TIBILETTI BRUNO 1967 e 1969. 18. Cfr. LEJEUNE 1971, pp. 88. 19. Cfr. GIUSSANI 1913. 20. PID II, p. 630. Il Whatmough (p. 106) considerava illeggibile questa porzione dell’epigrafe. 21. Esemplare il caso di SOLINAS 1994, p. 371 che, pur fornendo la lettura —ite per il sesto elemento dell’iscrizione, commenta poi kalite. 22. Infatti, la prima linea dell’iscrizione di Briona, molto mal conservata, parrebbe recare un nome in –an (v. n. 6), quindi acc. sing. come lokan, palam, pruiam, matikan; a Gozzano l’oggetto funerario, se non contenuto anche qui nella parte andata perduta, potrebbe essere rappresentato da petua[ se questo è da integrare con una desinenza di accusativo. 23. Il fatto è che, come è ben noto a chi si occupa di Restsprachen, si lavora anche qui soprattutto in base a comparazioni etimologiche interlinguistiche, dalle quali non solo si pretende, con tutti i rischi del caso, di ricavare un significato preciso per la forma di volta in volta presa in esame ma anche di individuare quelli delle parole sintagmaticamente pertinenti, adoperando cioè l’etimologia di x per confermare o respingere l’etimologia (e la semantica!) di y. Cfr. comunque le nn. seguenti (per le possibili etimologie degli appellativi) e più oltre, nel testo (per quelle delle due forme verbali). 24. Vi è un accordo generale ad etimologizzare lokan a partire da *legh- «giacere» e a tradurlo con «giaciglio funebre, sepolcro»: cfr., inter alios, PISANI 19642, p. 331; LEJEUNE, cit., p. 36; RIG E, p. 49; TIBILETTI BRUNO 1978, p. 159; 1981, p. 197; LAMBERT 1994, p. 76; SOLINAS, cit, p. 383. 25. Per questa voce sono tre le etimologie possibili più accreditate: con lat. artus, arm. ard «struttura, costruzione»: cfr. PISANI, cit., p. 332, TIBILETTI BRUNO 1978, p. 159 (cfr. anche 1981, p. 197); con ant.irl. art «pietra» del Glossario di Cormac: cfr. LEIA A-91; MEID 1992, p. 13; con lat. arduus, irl . ard «alto»: cfr. LEJEUNE cit., p. 37, RIG E, p. 49 che
GALL.
karnitu, lep. karite
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(acc. pl.), così come a Vergiate lo stesso verbo, karite, regge tanto pruiam26 che palam la quale ultima, come si sa, indica la stele tombale, recante l’iscrizione stessa27. Infine, la presenza di matikan (acc. sing.) a Saignon, ancorché tale voce non abbia ancora interpretazione28, e forse anche il petua[ di Gozzano29 conferma(no) ulteriormente l’ampiezza dello spettro semantico del verbo di dedica funeraria. La ricerca più recente, quella cioè che è da fare iniziare con la fondamentale sistemazione della questione «leponzio» rappresentata dai Lepontica del 1971 di Michel Lejeune30 si è soprattutto confrontata, da una parte, con la questione dell’origine dei vari preteriti in dentale nel celtico continentale e del loro problematico rapporto con quelli insulari31 e, dall’altra, con il problema della diversità della finale fra il lep. karite e il gall. karnitu32. Mentre la prima questione è ora, dopo il lavoro di K. H. Schmidt sul verbo celtico, se non definitivamente risolta, almeno correttamente impostata con la classificazione delle varie tipologie di formazioni preteritali celtiche continentali33 e con la persuasiva ricostruzione del processo formativo di quelle che qui interessano34, è tuttora aperto il secondo problema, quello cioè della distribuzione di –e e –u, che riguarda anche i preteriti originati da antichi perfetti a raddoppiamento come lep. tetu e gall. dede e si intreccia, come è intuibile, con la questione della posizione dialettale del leponzio perché viene spiegata da taluni come una delle isoglosse che separano questo (con karite) dal gallico (con karnitu)35 o come variazione che percorre tutto il gallico, leponzio compreso36 (cfr. toberte, tosˇokote, dede, karite, ecc. vs. ieuru, lubitus, karnitu, tetu)37, alla quale non saranno estranei fenomeni di metaplasmo38. Ma non è questo l’oggetto della presente nota che vuole affrontare da un altro punto di vista il rapporto fra karnitu e karite, anche se la proposta qui avanzata potrebbe avere qualche conseguenza con la problematica della posizione dialettale del leponzio. Prima di passare alla sua illustrazione, tuttavia, mi pare utile richiamare l’analisi morfologica proposta da Schmidt39 e sostanzialmente accolta da Eska (con puntualizza-
vede una connotazione dell’oggetto come pertinente alla parte superiore, elevata della tomba (laddove lokan [v. n. precedente] menzionerebbe quella interrata). Cfr. anche LAMBERT, cit., p. 76; SOLINAS, cit., p. 383. 26. Per questa voce è generalmente accettata l’etimologia di PISANI, cit., p. 286 che la collegava al gall. briva «ponte» e a parole germaniche con lo stesso significato o con quello più generico di «costruzione fatta con tavole»; a Vergiate alluderebbe dunque ad un manufatto (non necessariamente in legno) e potrebbe corrispondere, dal punto di vista delle componenti del monumento funebre, più alla lokan che alle artuasˇ (v. n. precedente); cfr. LEJEUNE, cit., pp. 89-90; TIBILETTI BRUNO 1978, p. 141. 27. Per il leponzio pala, voce di probabile origine non indoeuropea, ricorrente, oltre che a Vergiate, in una piccola classe di iscrizioni funerarie dalla struttura «pala per X» (eventualmente seguito da patronimico) cfr. per tutti LEJEUNE cit., p. 85 ss.; cfr. anche, per l’intera bibliografia pertinente, HIRUNUMA 1990 e SOLINAS, cit., p. 321. 28. Cfr. RIG G, p. 200; LAMBERT, cit., p. 55. 29. Cfr. n. 22. 30. Cui sono da aggiungere LEJEUNE 1972a e 1972b. 31. Ma anche di altre lingue indoeuropee, tanto che karite e karnitu, ad esempio, confrontati dal LEJEUNE 1971, p. 96, con got. sokida, lagida, ecc. vengono spesso sbrigativamente denominati «verbi deboli». 32. Per una efficace presentazione di entrambe le problematiche e per la storia delle due questioni v. ESKA 1990. 33. Da antichi aoristi, da perfetti raddoppiati, in dentale: SCHMIDT 1986; cfr. anche il lavoro di Eska citato alla n. precedente, con tutta la bibliografia pertinente. V. anche oltre, nel testo. 34. Considerate come indipendenti dalle formazioni in dentali di altre lingue indoeuropee (cfr. a tale proposito LEJEUNE, loc. cit.). 35. Cfr. RIG E, p. 6; DE HOZ 1992, p. 227. 36. Il quale, in tale prospettiva, non ha rilievo di unità discreta ma unicamente di attestazione arcaica e geograficamente marginale dello stesso gallico: cfr. ESKA 1998, p. 6; cfr. anche MC CONE 1996, p. 69, UHLICH 1999, p. 280. 37. Cfr. ESKA 1990, p. 86 n. 38. 38. A questo proposito cfr. PROSDOCIMI 1986, pp. 245-250. 39. Cfr. SCHMIDT, cit., pp. 177-178.
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zioni)40 per karnitu e karite41 perché di fatto compatibile con la nuova mia interpretazione del rapporto fra le forme verbali gallica e leponzia42: 1) karnitu da *karne + -ye- (> i) di presente + desinenza secondaria -t- + desinenza di perfetto –u43; 2) karite (= garite) da *g´ hr - + -ye- + -t- + -e; 3) kalite da *kl- + -ye- + -t- + -e. È curioso che negli studi recenti siano stati lasciati cadere alcuni ormai remoti accenni (cui, beninteso, non fu dato sviluppo neppure da chi li aveva fatti)44 alla evidente somiglianza formale fra karite e karnitu45: una sottovalutazione, negli uni e negli altri, che almeno in parte, è forse imputabile allo spettro di **kalite che ha messo in ombra il fatto dell’identica ampiezza semantica del verbo di dedica funeraria a Vergiate e a Todi. È invece proprio questa polivalenza, insieme alla vicinanza formale fra karite e karnitu che legittima un tentativo di vedere nelle due forme diverse manifestazioni dello stesso verbo. Vorrei, a questo proposito, avanzare due ipotesi, premettendo fin da ora che sono disposto a dare più credito alla seconda e che non mi pare rilevante, in questa sede, la questione della variazione -e/-u. L’interpretazione più accreditata46 di karnitu ne fa un denominativo di un celtico *karna¯ /*karno-47, da cui anche irl. carn «mucchio di pietre», »tumulo», cimr. carn, bret. Carnac. Riprendendo un’antica spiegazione di irl. carn che indirettamente aleggia anche nel LEIA (C-39-40)48 e motivandola con solide argomentazioni di ordine metodologico, E. Campanile49 ha mostrato essere la base *karna¯ (irl. e cimr. carn) e la sua variante *karra¯ (cfr. cimr. carreg, bret. karrek, corn. carrek) dallo stesso significato, ancorché generico, di «pietra», una delle poche assegnabili con sicurezza al lessico di origine non indoeuropea nel celtico e non solo nel celtico. La prima forma è quella attestata da irl. carn e gall. karnitu mentre la seconda potrebbe essere rintracciata nel leponzio karite. Le due forme, in definitiva, potrebbero, secondo me, risalire entrambe a *karna¯ /*karra¯ tramite il suffisso -ye- dei denominativi più -t- di preterito ed il significato originario del verbo sarebbe, dunque, quello di «fare con le pietre», «fare un oggetto di pietra»50, anche se si dovrà ammettere in via di principio che karite e karnitu nel formulario funerario abbiano assunto un significato assai più ampio e generico di quello iniziale, dato che non è accertato che tutti gli accusativi retti dal verbo si riferiscano a oggetti in pietra. Esiste, comunque, una possibilità alternativa e, a mio parere, più convincente per sostenere l’identità lessicale delle due forme karite e karnitu. Si potrebbe partire per entrambe da un celtico *kar- (vedremo dopo a quale radice indoeuropea assegnarlo) che si sarebbe realizzato con -ye- di presente a dare in leponzio il presente-attuale *kariti (III sing.) e il presente atemporale (con desinenza secondaria.) 40. Cfr. ESKA, cit., pp. 83-84 (ho omesso le note): «The motivation for the affixation of 3.sg.perf. –u or –e (not discussed by Schmidt) presumably was the need to recharacterise the imperfect (durative preterite) as a simple preterite following the early apocope of primary –i in Celtic»). 41. E **kalite, ovviamente, dato che entrambi continuavano a prenderlo in considerazione. 42. Non entro qui nell’etimologia tradizionale che viene riportata dai due Autori per gli elementi radicali, dei quali il terzo non ha più consistenza mentre per gli altri due propongo due possibili spiegazioni unitarie: v. oltre, nel testo (e n. 54). 43. Per –u di perfetto cfr. ESKA, cit., p. 83 e n. 19 (con citazione di WATKINS 1969). 44. Cfr. PISANI, cit., pp. 285, 332; TIBILETTI BRUNO 1967, p. 20 n. 14; LEJEUNE, cit., p. 91 n. 325. 45. Cfr. tuttavia MEID 1990, p. 14 (ma anche qui, niente più di un accenno). 46. Cfr. LEIA C-40 (con bibliografia precedente); cfr. anche LEJEUNE, cit., pp. 37-38; LAMBERT, cit., p. 73. 47. Per l’etimologia v. qui di seguito, nel testo. 48. Dove, a proposito di carn, non si prende posizione circa l’origine remota del «radicale *kar-» ma si rimanda, tuttavia, a carrac «roche» (cfr. LEIA C-42) per il quale si suggerisce chiaramente una spiegazione in termini sostratistici. 49. Cfr. CAMPANILE 1976, p. 134. 50. Ovvero, come nei fattitivi gotici in *-ya- del tipo di domjan «urteilen» (da doms «Urteil»), quello di «fare una pietra»: questo sembrerebbe un significato particolarmente appropriato nel caso di karite palam di Vergiate (v. anche sopra, nel testo e nn. 25, 26, 27.
GALL.
karnitu, lep. karite
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*karit (entrambi da *karye-), dal quale poi si farà un vero e proprio preterito rideterminandolo con -e. La forma karnitu si spiegherebbe anch’essa a partire dal «presente generale/non-attuale» *karit, rideterminato, in gallico, come preterito in -u (*karitu) e in corrispondenza di un presente in nasale *karniti. In particolare, le possibilità di spiegazione sono due: a) si tratta di un rimodellamento, per incrocio con il lessema di sostrato *karna¯ , del tema *kari- ( -un- di *barnami)52 «che rende giustizia» del piombo del Larzac. In un secondo momento l’affisso nasale si estese anche al di fuori del presente53 e di conseguenza si ebbe karnitu. Resta da stabilire quale può essere la radice cui assegnare quello che ormai è da considerare un unico verbo54. Io continuo a pensare che sia plausibile anche la possibilità di vedere in karite (e, quindi, nella mia prospettiva, anche in karnitu) il corrispondente etimologico di sscr. krnoti, cimr. paraf «fa», come aveva accennato il Pisani55, il quale tuttavia, sottolineava che˙ per accettare un simile collegamento occorreva presupporre una «labiovelare delabializzata», ipotesi rigettata dal Lejeune56 a motivo, evidentemente, del ben noto esito p della labiovelare in leponzio. Ora, come si sa, a fronte di fatti di ordine generale57 e delle coppie Atecua/Atepu58 in leponzio e Epona/Equos del gallico, da un lato non si è più disposti a dare troppo peso come tratto dialettale individuante all’isoglossa, che per la parte leponzia si fondava del resto sull’unica testimonianza costituita dall’enclitica –pe del vaso di Latumaro59, mentre si tende sempre più a considerarla un fatto allofonico che percorre sia gallico che leponzio o da spiegare, eventualmente, in termini di maggiore conservatività (conservazione della labiovelare) vs. innovazione (labializzazione)60. In tale contesto, allora, c’è spazio anche per una realizzazione delabializzante eventualmente attestata da karite e karnitu. Il vantaggio di tale etimologia sarebbe quello di restituire un verbo dalla semantica generica («fare», appunto) fin dall’inizio, particolarmente adatto a reggere oggetti diversi, anche se ciò non è indispensabile vista la possibilità di ampliamenti semantici del lessico formulare. Un’altra possibilità la offre la radice che viene data nel LIV come *kreh2 e che alterna al presente come *kreh2/*krh2 ; si tratta della stessa radice che il Pokorny dà come *kra¯ [u]-, *kreu-, kru- ecc. a formare verbi e nomi aggirantisi intorno ai significati di 51. Dal punto di vista formale, cioè, la nasale venne inserita nel tema *kari-. 52. Identico al cimr. barnaf «giudico»; cfr. LAMBERT, cit., p. 170. Per il tipo di derivazione attestato dall’irlandese barn «giudice» cfr. DE BERNARDO STEMPEL 1999b, p. 74 53. Si tratta, come è fin troppo noto, di un fenomeno diffuso nelle lingue indoeuropee: si pensi ai perfetti latini come iunxi, finxi, agli aoristi greci come «eta´nysa, h¢plyna, ecc. o all’intera quarta classe dei verbi deboli gotici (dove l’elemento nasale viene funzionalizzato a creare intransitivi-incoativi ed esteso a tutto il paradigma). In ambito celtico si vedano il futuro toncsiiontio e il sostantivo toncnaman (cfr. irl. tongid «giura», presente in nasale) del testo magico gallico di Chamalières (cfr. LAMBERT, cit., p. 156). 54. Ovviamente, se è giusta la mia ipotesi che karnitu (dove l’attestazione in caratteri greci esclude possa iniziare con la sonora) e karite siano lo stesso verbo è ormai da escludere la tradizionale etimologia di questo con *g´ her (di lat. hortus, gr. xo´rtos, ecc.) cfr. LEJEUNE, cit., p. 90; SCHMIDT, cit., p. 177; ESKA, cit., p. 86 n. 39; MEID 1999, p. 14 e altri. 55. Cfr. PISANI, cit., p. 285. 56. Cfr. LEJEUNE, cit., p. 90 n. 319. 57. Cfr. SIMS-WILLIAMS 1997, pp. 380-382 (con bibliografia). 58. Sulla quale si veda in modo particolare DE BERNARDO STEMPEL 1990, p. 31 che per prima, a quanto mi consta, ha attirato l’attenzione su una variazione da spiegare in termini di arcaicità vs. innovazione. 59. PID 304; SOLINAS, cit., 128 (con bibliografia). 60. Cfr. VILLAR 1997, p. 451; MOTTA 2000, p. 191. Non sarà un caso, dunque, che il vaso di Latumaro (con l’esito labializzante) appartenga alla fase più recente delle attestazioni leponzie (cfr. UHLICH, cit., p. 301)
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«Haufen, aufhaufen», ecc., tra cui l’ant. ir. cráu, cró, «enclosure»61, cimr. crau, corn. crow62. In particolare karite e karnitu sarebbero formati dal grado zero *krh-, il quale davanti a -ye- darebbe in celtico regolarmente kar-63. Il problema, a questo punto, è come «salvare» (se va salvato e sempre che abbiamo accettato l’ipotesi [b]) ant. irl. carn, giacché *kr-no implica una sonante lunga che avrebbe dato **cra¯ n (cfr. grán da *g´r-no)64. Per mantenere il collegamento, come mi pare si debba fare, piuttosto che postulare una variante anit della radice, proiettando cioè l’alternanza in una remota antichità che non si giustifica metodologicamente vista la grande distanza temporale fra le attestazioni gallica e leponzia da una parte e quella irlandese dall’altra, penserei piuttosto, per irl. carn, ad un deverbativo o, meglio, secondo la classificazione adottata dalla De Bernardo, ad un nome postverbale ricavato con derivazione retrograda65 comportante l’estensione anche ai sostantivi della stessa nasale del presente di cui abbiamo discusso sopra. Se questa proposta coglie nel segno si configura ancor meglio la posizione linguistica del leponzio rispetto al gallico secondo alcune recenti tendenze della ricerca66, perché quelli che erano tradizionalmente considerati due verbi diventano uno solo e quindi leponzio e gallico acquisiscono un nuovo, forte elemento di omogeneità, particolarmente importante in quanto pertinente ad un settore specifico del lessico, quello, cioè, delle formule di dedica funeraria. Sarei meno propenso, invece, a dedurre da questa vicenda un nuovo argomento a favore della maggiore arcaicità del leponzio rispetto al gallico, che certamente esiste e che forse è presente anche qui ma dimostrabile ad una condizione purtroppo per noi, allo stato della documentazione, non verificabile: l’assenza di –n– nel preterito leponzio karite, rispetto al gallico karnitu, come è ovvio, sarebbe in qualche modo rilevante da questo punto di vista solo se il verbo leponzio aveva, al presente, l’ampliamento in nasale implicato dalla forma gallica67 e, di conseguenza, fossimo sicuri che si tratta di una mancata estensione al preterito dell’ampliamento e che non siamo di fronte ad uno dei soliti esempi di polimorfismo del sistema del presente indoeuropeo. BIBLIOGRAFIA CAMPANILE, E. 1976 Indo-european and non-indo-european elements in the Celtic dialects, JIES 4. DE BERNARDO STEMPEL, P. 1987 Die Vertretung der indogermanischen liquiden und nasalen Sonanten im Keltischen, Innsbruck. DE BERNARDO STEMPEL, P. 1990 Einige Beobachtungen zu indogermanischem /w/ im Keltischen, in Matonis, A. T. E.–Melia, D. F., Celtic Language, Celtic culture. A Festschrift for Eric P. Hamp, Van Nuys (California), pp. 26-46. DE BERNARDO STEMPEL, P. 1999a Nominale Wortbildung des älteren Irischen. Stammbildung und Derivation, Tübingen. DE BERNARDO STEMPEL, P. 1999b Zur Methode der Wortbildungsanalyse von Korpussprachen (anhand keltischen Materials, in Anreiter, P. – Jerem, E., Studia Celtica et Indogermanica. Festschrift für Wolfgang Meid zum 70. Geburtstag, Budapest, pp. 61-77. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67.
Cfr. DE BERNARDO STEMPEL 1999a, p. 220. Cfr. LEIA C-240; DE BERNARDO STEMPEL, loc. cit.. Cfr. DE BERNARDO STEMPEL 1987, p. 47. Cfr. DE BERNARDO STEMPEL, cit, pp. 40 ss., 118-119. Cfr. DE BERNARDO STEMPEL 1999a p. 567ss. (in partic. pp. 578-580), V. sopra e nn. 7, 36. In parte diversamente, cioè, da quanto ho ricostruito sopra.
GALL.
karnitu, lep. karite
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FILIPPO MOTTA
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MARCIARE DIVISI PER COLPIRE UNITI RENATO PERONI Com’è – o dovrebb’essere – da tempo ben noto anche al di fuori del più o meno circoscritto ambito specialistico, attraverso un lunghissimo periodo l’intera Etruria – anche se certamente più la parte corrispondente all’odierna Tuscia che quella relativa all’attuale Toscana – fu contraddistinta da un’ininterrotta continuità d’insediamento e di tradizione culturale. In genere, si può asserire che ormai da parecchio tempo gli studiosi di preistoria e protostoria che si occupano di queste regioni considerano tale constatazione come tranquillamente scontata, senza che i loro sonni risultino troppo turbati da tradizioni antiche e teorie moderne relative ad un’immigrazione etrusca dall’Asia Minore. Tuttavia, poichè altrettanto non sembra valere per etruscologi, linguisti e antichisti in genere, appare doveroso che i primi si sforzino di illustrare e rendere un pò più accessibili le proprie ragioni ai secondi. Lo spazio di tempo cui si fa qui riferimento corrisponde a quelle che convenzionalmente vengono chiamate età del bronzo (2300-1000 a.C.) e prima età del ferro (1000-700 a.C.). Il lettore non costantemente aggiornato in fatto di preistoria e protostoria resterà magari un pò perplesso in presenza di queste date assolute, forse alquanto differenti da quelle cui lo hanno abituato le sue letture precedenti: si tratta della cronologia ‘alta’, ormai comunemente adottata per l’Europa continentale da quando le datazioni radiometriche ‘ricalibrate’ hanno trovato conferma in ampie serie di determinazioni dendrocronologiche – fondate cioè sul conto degli anelli annuali degli alberi – effettuate sui legni restituiti dagli scavi. La data convenzionale del 2300 a.C. appare utile al nostro discorso, perchè coincide con una significativa cesura storica, quella che separa il cd. ‘orizzonte del bicchiere campaniforme’ (un fenomeno che ha investito ampi settori del continente europeo) dalle fasi iniziali dell’età del bronzo. Con una schematizzazione e una generalizzazione un pò eccessive, ma che fondamentalmente corrispondono a dati effettivi, si potrebbe affermare che questo momento nel tempo rappresenta il punto di partenza di un progressivo processo di stabilizzazione delle collettività umane di gran parte d’Europa nei loro comportamenti storicamente reali, ma anche delle testimonianze archeologiche che esse ci hanno lasciato. In altre parole: è a partire grosso modo da questo momento che siamo per lo più in grado di distinguere intervalli e discontinuità nei comportamenti delle comunità antiche da lacune accidentali nel record archeologico. Gli elementi di fatto su cui fermeremo la nostra attenzione non sono solo quelli, cui si è fatto cenno all’inizio, che ci rivelano una continuità insediativa e di tradizione culturale nel tempo; ma anche, e in un certo senso soprattutto, quelli che ci attestano per un verso un continuum culturale nello spazio rispetto alle regioni circostanti, per l’altro una non omogeneità culturale all’interno del territorio dell’Etruria storica. Sebbene il fenomeno della continuità insediativa non si manifesti in modo massiccio nell’area medio-tirrenica se non a partire dagli inizi del Bronzo medio, non pochi sono i tipici abitati su altura naturalmente fortificata i cui inizi risalgono a questa fase, destinati poi ad una fioritura durata secoli e secoli: valga per tutti il caso della Castellina della Civita di Tarquinia, molto più tardi verosimilmente punto di partenza dei gruppi umani che occuperanno gli adiacenti pianori della futura città etrusca. Anche più rivelatrice di un ininterrotto popolamento è la continuità di utilizzazione di parecchie grotte di culto, a cominciare dal celebre complesso di Belverde di Cetona; continuità non solo nei luoghi, ma anche nelle forme rituali, tra le quali frequentissima quella della deposizione cultuale, soprattutto di recipienti (ed è di singolarissimo interesse la circostanza che alcune tra le fogge vascolari per le quali è documentata una stretta continuità di sviluppi tipolo-
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gici tra Bronzo antico e medio siano proprio tra quelle più spesso deposte nelle grotte). Fin da una fase piuttosto arcaica del Bronzo antico, quella che Daniela Cocchi Genick considera iniziale, denominandola 1A, si manifesta nell’area medio-tirrenica – anche se in modo scarsamente evidente, certo da ricondurre per un verso alla natura alquanto evanescente del record archeologico, per un altro alla reale notevole frammentazione locale che contraddistingue il quadro culturale proprio dell’epoca – una peculiare configurazione territoriale. Durante tale fase, troviamo in Toscana e nelle regioni limitrofe una costellazione di gruppi locali, tutti più o meno ‘di tradizione campaniforme’ – dunque sicuramente non esogena –, legati tra loro da significativi rapporti (Tanaccia in Romagna e nel Bolognese, Sesto Fiorentino e Asciano in Toscana, Torre Crognola nel Lazio). Se però fermiamo la nostra attenzione in particolare sul gruppo di Torre Crognola, notiamo che nel suo ambito i rapporti con i gruppi più settentrionali, ampiamente attestati nell’Alto Lazio, lo sono molto più raramente nei siti a Sud del Tevere (ad esempio in quelli attorno a Torre Spaccata ad Est di Roma), dove invece sono presenti tipi che trovano analogie nella facies meridionale di Laterza – Cellino S. Marco (COCCHI GENICK, 1998, pp. 307 ss., in particolare p. 320). Ci troviamo cioè in presenza di un’entità culturale i cui limiti geografici, se grosso modo coincidono verso Sud ed Est con quelli dell’Etruria propria, li travalicano ampiamente verso Nord. Veniamo ora alle fasi iniziale e piena del Bronzo medio, durante le quali si assiste nell’area medio-tirrenica alla fioritura della facies detta di Grotta Nuova (COCCHI GENICK et al., 1995, tav. 1). La Toscana si trova nuovamente al centro di un ambito territoriale, questa volta però molto più vasto. Il suo limite meridionale si è infatti spostato verso Sud, e viene a tagliare il Lazio lungo i margini della pianura pontina, incorporando così non solo la parte settentrionale della regione (corrispondente all’antica Etruria meridionale), ma anche la parte centrale (l’antico Latium vetus). L’ambito in discorso, inoltre, oltre al territorio canonicamente assegnato alla facies di Grotta Nuova, comprendente anche Bolognese, Romagna, Marche ed Umbria, abbraccia in realtà pure i gruppi convenzionalmente ‘terramaricoli’ di S. Pietro in Isola e La Tesa nell’Emilia centrale (BERNABO’ BREA, CARDARELLI, 1997). Si è più sopra anticipato che è soprattutto a partire da queste fasi che il fenomeno della continuità insediativa assume nell’area medio-tirrenica una forte rilevanza. Si tratta di un processo di notevole complessità, in cui alla occupazione continuativa dei siti si intreccia una tendenza che, nelle grandi linee, può essere definita ‘verso una progressiva selezione e concentrazione dell’insediamento’. Sebbene già agli inizi del Bronzo medio l’interesse prevalente che influisce sulle scelte ubicative risulti essere di tipo tattico-strategico (esigenze difensive e di controllo del territorio), e gli stanziamenti possano ormai definirsi per la maggior parte come ‘abitati di altura’, si assiste col passare dei secoli da una parte all’accentuarsi dei relativi caratteri (acclività, altezza relativa, raggio di visibilità), dall’altra al crescere della dimensione dei siti e al rarefarsi della densità della loro distribuzione sul territorio. Nelle zone meglio esplorate, le fasi iniziale e piena del Bronzo medio, ma in qualche misura anche quella tarda, appaiono contraddistinte da una distribuzione ‘a grappolo’ degli stanziamenti, e spesso all’interno di tali piccole concentrazioni spicca un sito maggiore e meglio difeso, cui forse si può attribuire una funzione di ‘central place’: e molti degli insediamenti destinati a sopravvivere a lungo nelle fasi successive, fino al termine dell’età del bronzo, appartengono proprio a questo tipo, mentre i siti minori tendono più spesso a scomparire. Come negli organismi viventi, il fatto che le singole cellule vengano di quando in quando sostituite non toglie che il tessuto nel suo insieme si conservi, pur modificandosi e sviluppandosi. Un particolare curioso, forse non del tutto privo di significato: alcuni di questi antichissimi insediamenti ‘maggiori’ d’Etruria – ma il fenomeno ricorrerà anche durante il Bronzo finale – sono contraddistinti, proprio come quelli di età storica, dalla compre-
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senza di una pluralità di aree sepolcrali tra loro coeve, distribuite in diverse direzioni nel territorio attorno al centro abitato, a volte anche ad una certa distanza da esso. Durante la fase tarda del Bronzo medio l’area della futura Etruria ci appare incorporata in un’unità geografica ancora più vasta, quella, comprendente quasi per intero l’Italia centro-meridionale, in cui è diffusa la facies cosiddetta ‘appenninica’. All’interno di tale facies si distiguono, in modo invero piuttosto sfumato, più varietà o gruppi; tra questi ci interessa qui quello medio-tirrenico, che rispetto alla facies di Grotta Nuova mostra uno spostamento significativo del suo centro di gravità verso Sud: mentre infatti nel Lazio il suo territorio continua ad arrestarsi ai margini della pianura pontina, verso Nord ed Est esso si contrae fortemente, limitandosi alla parte meridionale della Toscana, e precisamente al versante a Sud dell’Ombrone e dell’Amiata (COCCHI GENICK et al., 1995, tav. 2). Scendendo al Bronzo recente, il quadro non muta di molto, se non per un ulteriore spostamento verso Sud dell’area che ci interessa. Nell’ambito della facies ‘subappenninica’, che come è noto interessa l’intera penisola italiana e anche una parte dell’area padana, è chiaramente possibile individuare un gruppo a sé, caratterizzato in particolare da un articolato repertorio di anse ornitomorfe, i cui limiti territoriali coincidono grosso modo con quelli dell’attuale regione del Lazio, senza distinzioni di qualche rilievo tra la parte a Sud e quella a Nord del Tevere (PACCIARELLI, 1979), quest’ultima anche stavolta con una limitata estensione nel basso Grossetano, come ci mostra la dovizia di anse ornitomorfe a Scarceta (SOFFREDI, POGGIANI KELLER, 1999). Quanto al resto della Toscana, non siamo attualmente in grado di definire nel suo ambito un altro gruppo che si possa contrapporre a quello laziale, e questo, come ha recentemente evidenziato Antonio Zanini, soprattutto a causa della progressiva rarefazione verso Nord delle presenze con caratteri ‘subappenninici’ tipici (ZANINI 1997). È con questa fase che appare ormai completato il processo di dissoluzione delle piccole concentrazioni di insediamenti minori, e affermato un nuovo assetto, rappresentato da centri più consistenti uniformemente distribuiti sul territorio, a ciascuno dei quali sembra far capo un distinto comprensorio. L’ipotesi che ora, come pure durante il successivo Bronzo finale, tali centri siano stati sede di piccole unità politiche a carattere cantonale rette da nuclei di aristocrazia gentilizia appare avvalorata dalla presenza – localizzata nel territorio dell’Etruria meridionale – di magioni e sepolcri monumentali e di importazioni micenee. Al di sotto del velame rappresentato dal termine fittizio di ‘protovillanoviano’, durante il Bronzo finale il territorio etrusco fu attraversato da una importante frontiera culturale, quella che separava la facies medio-tirrenica del Bronzo finale dalla facies o gruppo di Pianello. La facies medio-tirrenica (PERONI 1996) era presente con il gruppo di Tolfa-Allumiere nell’Alto Lazio – non senza però, in evidente continuità rispetto alla fase precedente, una robusta testa di ponte nel Grossetano, al di qua e al di là del Fiora, nel territorio di Pitigliano e Manciano-, con il gruppo di Roma – Colli Albani nel Lazio centrale, con il gruppo di Terni nell’Umbria sud-orientale, con il gruppo del Fucino nell’Abruzzo sud-occidentale, con il gruppo del Volturno nella pianura campana: la sua estensione geografica corrispondeva dunque in buona parte a quella che avrebbe poi contraddistinto l’omonima facies del primo Ferro. Il gruppo di Pianello – che con il progredire degli studi tende sempre più a configurarsi come una vera e propria facies (BIANCO PERONI, PERONI, VANZETTI, 1999), entro cui fra l’altro si riassorbono anche i vecchi gruppi Marecchia-Chienti e del Trasimeno di una classificazione per forme metalliche risalente ormai a circa vent’anni fa (PERONI et al., 1980) – si estendeva nell’Italia centrale adriatica (Marche e molto probabilmente anche Romagna – certe impressionanti affinità si spingono addirittura fino a Frattesina di Fratta Polesine non lontano da Rovigo) e interna (gran parte dell’Umbria, con i sepolcreti di Panicarola sul Trasimeno e di Monteleone di Spoleto), spingendosi sul versante tirrenico almeno nella Toscana interna, soprattutto
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nel Senese (Chiusi, Cetona) (PERONI, 1980; ZANINI, 1996), mentre tuttora mal definita resta la situazione per la Toscana centrale marittima. Gruppo di Pianello e facies medio-tirrenica si differenziavano tra loro soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione delle comunità. Nella seconda sono molto più frequenti che nel gruppo di Pianello insediamenti fortificati su altura di considerevole estensione (5 e più ettari), ripostigli di bronzi attestanti forti concentrazioni di ricchezza, corredi funebri di composizione anche complessa che documentano articolazioni e dislivelli sociali. È molto interessante osservare che successivamente, con la prima età del ferro, mentre lungo la fascia tirrenica – che abbraccerà ormai l’intera Etruria – nasceranno parecchi centri protourbani, e nei secoli successivi un gran numero di città, nell’area interna e medio-adriatica questi fenomeni si manifesteranno con un notevole ritardo e una fortissima attenuazione, per cui molte zone conserveranno ancora in piena età storica una struttura territoriale sparsa del tipo detto ‘paganico-vicano’. Sarebbe a rigore legittimo domandarsi se e in che misura diversità socio-economiche e socio-politiche tanto profonde potessero aver anche rispecchiato forme di differenziazione etnica. La risposta non pare possa essere che recisamente negativa: anche se ovviamente non conosceremo mai la loro precisa dislocazione territoriale durante l’età del bronzo, tutto ci autorizza a supporre che i supposti progenitori degli Etruschi, dei Latini e degli Umbro-Sabelli convivessero confusi disinvoltamente assieme non solo all’interno delle stesse facies culturali, ma persino a cavallo tra una facies e l’altra. Le distinzioni etnico-linguistiche evidentemente non avevano, durante l’età del bronzo, almeno in Italia Centrale, una grande rilevanza socio-culturale. Se pure volessimo riferire il gruppo di Tolfa-Allumiere agli antenati degli Etruschi, quello di Roma – Colli Albani agli avi dei Latini, non potremmo non stupirci che ad una diversità linguistica tanto radicale facesse riscontro una differenza culturale così sfumata. Ad un primo e più elementare livello di lettura, che tenesse conto soprattutto delle evidenze archeologiche più appariscenti e quantitativamente consistenti, le manifestazioni culturali che si colgono durante la prima età del ferro sul territorio dell’Etruria propria – corrispondente alla Toscana a Sud dell’Arno e all’Alto Lazio, o Tuscia – potrebbero apparire, sotto l’etichetta di ‘villanoviane’, abbastanza unitarie ed omogenee. Almeno in un primo momento prevale ovunque come rito funebre quello della cremazione, con le ceneri del defunto deposte entro un pozzetto, raccolte in un ossuario di forma il più delle volte biconica, decorato a incisione, come il suo coperchio e pochi altri vasi di corredo accessori, in un particolarissimo stile decorativo (DE ANGELIS, 2001) che gioca con innumerevoli variazioni su di una gamma circoscritta di temi, essenzialmente la barca solare, il meandro retto ed obliquo, la svastica. Accanto al biconico, sebbene di gran lunga più rara, abbiamo però anche l’urna a capanna. All’interno dell’ossuario, assieme alle ossa cremate, troviamo – se e quando non siano stati distrutti dal rogo, o magari non vi siano stati esposti – alcuni oggetti minori, soprattutto in bronzo, sia di ornamento, come le fibule e i fermatrecce, sia di uso personale e con funzione di simbolo di status, come la fusaiola e il rasoio, mentre le armi, salvo poche ma vistose eccezioni, sono rigorosamente bandite (IAIA, 1999). L’unità culturale incarnata da questo appariscente, ma in fondo esiguo, massimo denominatore comune non è però nè in sè conchiusa, nè organica (PERONI, 1989, 1996). Non conchiusa, perché rituale e stile ‘villanoviani’ si riscontrano anche presso altri gruppi, che sembrerebbero presentarsi alla stregua di ‘isole’ culturali, a Bologna e dintorni, a Verucchio in Romagna, a Fermo nelle Marche (PERONI, 1992), ma che in effetti non costituiscono affatto dei corpi estranei a quelle zone, essendo invece profondamente radicati nelle diverse realtà locali. Più complicato, come vedremo, è il caso dei gruppi ‘villanoviani’ della Campania. Non organica, giacché per un gran numero di altri aspetti l’Etruria meridionale fa
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corpo con la facies medio-tirrenica del primo Ferro, nell’ambito della quale gravita assieme a svariati altri gruppi, come quelli di Terni-Colfiorito (Umbria sud-orientale) (LEONELLI, 1997; PONZI BONOMI, 1997), Roma – Colli Albani (BETTELLI 1997) e l’articolata costellazione della Campania. Quest’ultima comprende tre gruppi che a vario titolo sono stati etichettati come ‘villanoviani’. Il primo tra essi è quello di Capua, che in effetti mostra alcune significative affinità con il gruppo di Bisenzio-Vetralla (PERONI 1996, IAIA 1999) nella Tuscia, paradossalmente l’unico dell’Etruria meridionale a non presentare caratteri ‘villanoviani’ nel senso sopra illustrato; il secondo è quello di Pontecagnano sul golfo di Salerno, strettamente collegato con i grandi centri ‘villanoviani’ dell’Etruria meridionale – in particolare con Cerveteri-, dei quali costituisce con ogni probabilità un’emanazione, forse una sorta di ‘colonia’; il terzo è il gruppo di Sala Consilina nel Vallo di Diano, di tutti i gruppi ‘villanoviani’ d’Italia quello in assoluto in cui le caratteristiche canoniche si presentano nella forma più generica e atipica (PERONI, 1994). Ai vari gruppi, ‘villanoviani’ o meno, che gravitano nell’ambito della facies medio-tirrenica sono dunque comuni numerosi elementi, che viceversa in Toscana sono molto rari o del tutto assenti. In primo luogo l’affermarsi precocissimo – in molte zone fin dal principio dell’età del ferro –, accanto a quello incineratorio, del rito funebre dell’inumazione in posizione distesa entro tombe individuali a fossa, spesso con le pareti foderate di pietrame. Il rituale dell’inumazione implica altresì una concezione e composizione – anche quantitativa – del corredo funebre profondamente diverse da quelle connesse alla cremazione (e ai suoi effetti distruttivi); e ciò non manca di riflettersi pure sugli aspetti che seguono. La metallurgia del bronzo presenta, nei vari gruppi locali che costituiscono la facies medio-tirrenica, caratteri, se non uniformi, certo strettamente interconnessi; e ciò vale particolarmente per le parures femminili. Se infatti si esaminano queste, la foggia e il numero dei singoli elementi – con particolare riguardo a quelli che, come le fibule, oltre ad una funzione ornamentale, ne avevano anche una di accessori dell’abbigliamento – ci mettono spesso in grado di ricostruirne ordine e disposizione, e di ipotizzare, sia pure sommariamente, le caratteristiche d’insieme del costume femminile, constatando così una certa affinità tra i costumi propri dei diversi gruppi della facies medio-tirrenica. Altrettanto vale per il vasellame fine da mensa, sia per quello fabbricato a mano in ceramica d’impasto, sia per quello – certo di gran lunga più raro – in ceramica figulina tornita e dipinta, o importata dalla Grecia già svariati decenni prima degli inizi della colonizzazione ellenica, o prodotta in Italia ma ispirata a quegli stessi modelli greci, sia per forma e decorazione, sia – adottando fogge indigene – solo per lo stile decorativo. Sia detto per incidens : non è affatto privo di significato il fatto che questi primissimi traffici ed influenze greche abbiano investito in pieno l’area medio-tirrenica, includendo l’Etruria meridionale, ma escludendo – proprio come le importazioni micenee dell’età del bronzo – per intero o quasi il territorio dell’attuale Toscana (PESERICO, 1995 p. 431, Abb. 9), nonostante che in esso fossero ubicati importanti centri commerciali marittimi come Vetulonia e Populonia, e sebbene il minerale ferroso dell’Elba giungesse fino alla più antica colonia greca d’Italia, Pithecusae sull’isola d’Ischia. Per un numero più circoscritto di altri aspetti della cultura i caratteri propri dell’area medio-tirrenica investono però anche la Toscana: l’esempio più interessante è offerto dalle urne a capanna (BARTOLONI et al., 1987). Un altro caso assai curioso, in cui il verso dei rapporti è evidentemente capovolto, è quello degli elementi provenienti dalla Sardegna nuragica, diffusi in tutta l’Etruria, ma concentrati soprattutto a Populonia e a Vetulonia (LO SCHIAVO 1994). Viene qui a proposito ricordare due importantissime forme dell’architettura monumentale funeraria ‘villanoviana’ peculiari dell’ Etruria settentrionale – e che oltretutto attestano una in parte precoce formazione di élites egemoni –, ma del tutto estranee a quella meridionale: i ‘circoli’ di Vetulonia e le tombe a camera a falsa volta in pietrame ‘a secco’ di Populonia. Mentre infatti alla ricerca di riscontri per i primi dobbiamo allonta-
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narci parecchio, arrivando fino alla zona umbro-sabellica (cfr. da ultimo D’ERCOLE, CAIROLI, a cura di, 1998), per le seconde dobbiamo ad una recente geniale intuizione di Fulvia Lo Schiavo (Lo SCHIAVO, c. s.) l’accostamento con alcune strutture cultuali della Sardegna nuragica. Nel complesso, tuttavia, si può ben affermare che, nella stessa misura in cui l’Etruria meridionale gravita verso Sud, l’Etruria centro-settentrionale guarda piuttosto al Nord. Prendiamo ad esempio la più comune delle fogge ‘villanoviane’: il biconico. In Etruria, tale foggia presenta un ampio campo di variabilità riguardo alle proporzioni tra le sue varie parti, diciamo tra i ‘coni’ superiore e inferiore, o più precisamente tra collo e corpo, e, nell’ambito di quest’ultimo, tra spalla e ventre. In generale, si può affermare che nei ‘classici’ biconici ‘villanoviani’ il ‘cono’ superiore tende sempre ad uno sviluppo più marcato rispetto a quello inferiore. Procedendo attraverso l’Etruria dal Sud al Nord si rileva però comunque un progressivo accentuarsi di tale tendenza: il collo si allunga, il corpo è fortemente compresso, la spalla meno ampia, e viceversa tali caratteri si attenuano andando in senso opposto. Sotto questo aspetto, i biconici dell’Etruria centro-settentrionale (alcuni esempi mirati: nell’ordine: CYGIELMAN, 1994, figg. 17; 12,1; 4; ZANINI 1997, fig. 108,3) ricordano gli esemplari bolognesi (nell’ordine: MÜLLER-KARPE 1959, Taff. 60, Q3; 80, B3; 79, A9; 61, K2) molto più che la massima parte di quelli dell’Etruria meridionale, e al contrario questi ultimi (nell’ordine: FALCONI AMORELLI, 1983, figg. 5,8; 8,12; 4,6; 22,32) richiamano piuttosto i biconici della Campania (nell’ordine: KILIAN, 1970, Taf. 63, II 3; D’AGOSTINO, GASTALDI, 1988, fig. 38, 194⁄1; KILIAN, 1970, Taff. 173, 4; 166, II 1). Consideriamo ora la più diffusa tra le famiglie tipologiche di fibule maschili del primo Ferro italiano, quelle serpeggianti ad occhio con staffa a canale. Dalla Sicilia alla Tuscia troviamo ampiamente diffusa la foggia della cosiddetta ‘serpeggiante meridionale’ (un esemplare tipico: SUNDWALL, 1943, p. 149, Abb. 214), con la staffa asimmetrica e allungata, la parte dell’arco che costituisce il braccio di raccordo tra occhio e staffa alquanto sviluppata, lo spillone più o meno fortemente ricurvo. Una volta entrati in Toscana, questa foggia non la troviamo più: il suo posto è stato preso da quella a corta staffa simmetrica semicircolare, braccio di raccordo più breve, molla spesso ampia, spillone di norma più diritto (un esemplare tipico: CATENI 1997, fig. 149) che trova anch’essa ampio riscontro a Bologna (un buon campionario del campo di variabilità in MÜLLER-KARPE, 1959, Taf. 58). Per chi voglia caratterizzare la prima età del ferro della Toscana, il processo protourbano presenta una importanza socio-culturale e storica di gran lunga maggiore rispetto agli elementi rituali, e a quelli attinenti il costume e la produzione artigianale passati finora in rassegna. Tale processo ha interessato, in tempi e modi diversi, gran parte del territorio italiano, soprattutto nel suo versante tirrenico; ma è in Etruria che esso si manifesta nelle forme più tipiche e chiare. Sintetizzando all’estremo, si tratta di questo (DI GENNARO 1982): nel periodo a cavallo tra Bronzo e Ferro, abbandonando la massima parte dei siti precedentemente occupati, per lo più appartenenti al tipo geomorfologico dell’insediamento su altura dell’estensione di pochi ettari, spesso intorno ai 5, in posizione dominante, naturalmente difesa da ripide pareti perimetrali od erti pendii, la popolazione simultaneamente si concentra in alcuni pochi centri dotati delle stesse caratteristiche, ma di dimensioni di gran lunga maggiori (fino a 30 volte). Praticamente nella totalità dei casi, questi centri sono localizzati nello stesso sito su cui sorgeranno tra qualche secolo le future città-stato etrusche. Tutto ciò denota il carattere progettuale di tale grandiosa trasformazione: fin dall’inizio, i nuovi centri, nonostante il loro assetto di giganteschi villaggi, del tutto privi di infrastrutture urbanistiche e di costruzioni a carattere monumentale, erano già concepiti come forme embrionali di città, nucleo di entità politiche protostatali. Come si è accennato, il processo protourbano si manifestò in forme diverse a seconda delle regioni che ne furono investite. Nel Sud, ad esempio, le sue prime manifestazioni –
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nel senso di una precoce selezione e concentrazione dell’insediamento – furono talmente anticipate, e dunque più graduali che radicali, da provocarne paradossalmente l’infittirsi e il rallentamento, finchè la colonizzazione greca non venne ad interromperlo, o meglio a portarlo ad un diverso compimento: le prime città-stato nell’Italia meridionale furono insomma realizzate dai Greci a spese degli indigeni. Questa variante del processo protourbano, rallentata, diciamo così, per intasamento, si coglie molto bene nella regione anticamente abitata dai Latini, il Lazio centrale, dove non venne obliterata dalle colonie greche. Qui la densità che contraddistigueva l’assetto insediativo del Bronzo finale è rimasta sostanzialmente invariata, ma proprio per questo motivo i singoli centri, non potendo ingrandirsi a spese dei vicini, non sono cresciuti più di tanto: a parte Roma, che ha la stessa stazza dei grandi abitati della Tuscia, quasi nessuno di essi presenta una superficie superiore ai 50 ettari. In Etruria meridionale la situazione ci appare perfettamente capovolta: ad una notevolissima densità insediativa durante il Bronzo finale fa riscontro, come abbiamo visto, un fortissimo diradarsi dell’occupazione del territorio con il primo Ferro. A parte la sopravvivenza di alcuni pochi siti minori, il popolamento si coagula quasi integralmente nei 6 centri protourbani di Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Bisenzio e Orvieto, tutti superiori ai 50 ettari, i primi 4 ai 100. Ancora più dispersi e distanziati l’uno dall’altro ci appaiono i centri protourbani dell’Etruria centro-settentrionale, 6 anch’essi ma su di un territorio di gran lunga più vasto: Vetulonia, Populonia e Volterra verso il mare, Chiusi, Perugia e Cortona all’interno; ma nessuno di essi supera i 50 ettari di superficie (PACCIARELLI, 1994 a, fig. 1). Le analogie e le differenze tra le due Etrurie – che per semplicità abbiamo chiamate Tuscia e Toscana – mi sembrano evidenti. Certo, per la Toscana non disponiamo di un quadro dell’insediamento del Bronzo finale e del primo Ferro che sia lontanamente paragonabile per completezza, sistematicità e organicità e per accuratezza della documentazione a quello ormai attestato per la Tuscia (DI GENNARO, 1979, 1982, 1986 a, b, 1988, 1990, 1995, 1996, 1997, 1998, 1999; PACCIARELLI, 1990, 1991, 1994 a, b, 1997; IAIA, 1999; IAIA, MANDOLESI, 1995; MANDOLESI, 1999; NEGRONI CATACCHIO, 1977, 1985, 1987; NEGRONI CATACCHIO, a cura di, 1998); tuttavia quello che conosciamo è più che sufficiente per consentirci di affermare che anche in Toscana al passaggio tra Bronzo e Ferro si assiste ad un tempo al diradarsi e al concentrarsi dell’occupazione del territorio. Dal punto di vista geopolitico, il processo protourbano deve essere stato analogo a quello che ebbe luogo nella Tuscia, tant’è vero che, come s’è visto, dette origine ad entità protostatali di ragguardevole stazza territoriale, dell’ordine di qualche migliaio di chilometri quadrati. Per incidens: nonostante che, come abbiamo visto, i Greci fossero fin dall’inizio estremamente interessati alle risorse minerarie della Toscana, essi non tentarono neppure di mettere piede nelle regioni in cui si era sviluppato alla grande il processo protourbano: non si spinsero infatti mai a Nord dell’arcipelago flegreo (Ischia) e della costa prospiciente (Cuma), evidentemente inchiodati dalla precedente, tempestiva fondazione in Campania ad opera degli Etruschi dei due grandi centri protourbani di Capua e Pontecagnano. Ben reale sotto l’aspetto geopolitico, l’analogia tra Toscana e Tuscia lo fu molto meno dal punto di vista demografico e socio-economico. Possiamo approssimativamente stimare la popolazione di un centro protourbano dell’Etruria centro-settentrionale come mediamente equivalente ad un terzo circa di quella di uno corrispondente dell’Etruria meridionale. Poiché la principale funzione economica di quegli aggregati fu la creazione di forme – certo ancora embrionali – di mercato, ne segue una fortissima differenza di potenziale produttivo. Ciò spiega il mancato ruolo egemone dell’Etruria centro-settentrionale nel corso del processo protourbano, nonostante la sua superiorità schiacciante in fatto di risorse minerarie; spiega invece per la Tuscia lo sviluppo di gran lunga anticipato e maggiore dell’artigianato specializzato nella fabbricazione di oggetti di grande
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prestigio; spiega soprattutto la complessiva precocità nell’Etruria meridionale – nonostante quegli embrionali inizi a Populonia – e l’intensità crescente che là si ebbe della fioritura dell’aristocrazia gentilizia. Si è visto che attraverso tutto questo lunghissimo periodo l’intera Etruria con le regioni contermini fu contraddistinta da un’ininterrotta continuità d’insediamento e di tradizione culturale. Per secoli e secoli gli antenati degli Etruschi hanno dunque convissuto fianco a fianco con i progenitori di varie genti di ceppo linguistico italico, spesso nell’ambito della stessa unità culturale, o forse piuttosto sotto la stessa etichetta, che poi – occorre non scordarlo – siamo noi stessi a mettere. Comunque sia, per secoli e secoli, nel corso di tutta l’età del bronzo, confini linguistici e configurazioni socio-culturali non furono affatto correlati, e nulla dunque ci autorizza a ritenere che lingua e cultura si fondessero insieme, dando luogo ad aggregazioni etniche tanto significative da incarnarsi in consapevolezze. In effetti, quel percorso che, a partire dal primo Ferro, sarebbe infine sfociato nel formarsi della nazione etrusca, era a lungo stato un grandioso processo d’incivilimento interetnico e transculturale. BIBLIOGRAFIA BARTOLONI G., BURANELLI F., D’ATRI V., DE SANTIS A., 1987, Le urne a capanna rinvenute in Italia, Firenze. BERNABÒ BREA M., CARDARELLI A., 1997, Le terramare nel tempo, in Le terramare, la più antica civiltà padana, Modena, pp. 295-309. BETTELLI M., 1997, Roma, la città prima della città, Roma. BIANCO PERONI V, PERONI R., VANZETTI A., 1999, La necropoli di Pianello di Genga, in I Piceni, popolo d’Europa. Culture preromane delle Marche e dell’Abruzzo adriatico. Catalogo della mostra. CATENI G., 1997, Volterra – Le Ripaie, in Dal Bronzo al Ferro. Il II millennio a. C. nella Toscana centro-occidentale, Livorno, pp. 181-185. COCCHI GENICK D., 1998, L’antica età del bronzo nell’Italia centrale, Firenze. COCCHI GENICK D., DAMIANI I., MACCHIAROLA I., PERONI R., POGGIANI KELLER R., 1995, Aspetti culturali della media età del bronzo nell’Italia centro-meridionale, Firenze. CYGIELMAN N., 1994, Note preliminari per una periodizzazione del villanoviano di Vetulonia, in La presenza etrusca nella Campania meridionale, Firenze, pp. 253-292. D’AGOSTINO B., GASTALDI P. 1988, Pontecagnano II. La necropoli del Picentino. 1. Le tombe della prima età del ferro, Napoli. DE ANGELIS D., 2001, La ceramica decorata di stile «villanoviano» in Etruria meridionale, Soveria. D’ERCOLE V., CAIROLI R., a cura di, 1998, Archeologia in Abruzzo. Storia di un metanodotto tra industria e cultura, Montalto di Castro. DI GENNARO F., 1979, Contributo alla conoscenza del territorio etrusco meridionale alla finedell’età del bronzo, in Atti XXI Riunione Scientifica I.I.P.P., pp. 267-274. DI GENNARO F., 1982, Organizzazione del territorio nell’Etruria meridionale protostorica: applicazione di un modello grafico, «Dialoghi di Archeologia»: 1982, 2, pp.102-112. DI GENNARO F., 1986 a, Forme di insediamento tra Tevere e Fiora dal Bronzo Finale al principio dell’età del ferro, Firenze. DI GENNARO F., 1986 b, Aspetti regionali dello sviluppo dell’insediamento protostorico nell’Italia centro-meridionale alla luce dei dati archeologici e ambientali, «Dialoghi di Archeologia», 1986, 2, pp. 193-200. DI GENNARO F., 1988, L’età del bronzo e la prima età del ferro a Orvieto. I materiali
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NUOVA PIRAMIDETTA ISCRITTA DALLA DAUNIA PAOLO POCCETTI Caro Carlo, a te a cui si devono contributi determinanti all’epigrafia e alla storia linguistica della Daunia mi è caro dedicarti questo munusculum attinente una breve iscrizione che si aggiunge al povero, quanto variegato, dossier documentario di questa regione.
L’area archeologica dell’antica Teanum Apulum nei pressi dell’odierna S.Paolo di Civitate, a nord di S.Severo, ha recentemente restituito un nuovo documento epigrafico su piramidetta fittile che si aggiunge alla scarsa e scarna documentazione di età preromana attestata in questo sito. La piramidetta è stata rinvenuta in modo sporadico ed occasionale nel 1998 nel quadro delle ricerche topografiche condotte da Elena Antonacci1 nel territorio dell’antica Teanum Apulum e precisamente in località Coppa Mengoni, dove è stato ubicato un santuario di età sannitica. Dall’area di Teanum Apulum si dispone finora, oltre all’epigrafia municipale romana2, di un manipolo di iscrizioni in lingua ed alfabeto osco campano-sannita, unicamente su oggetti strumentali, cioè bolli laterizi, ceramica vascolare, piramidette fittili3. La nuova piramidetta rientra nella tipologia consueta dei cosiddetti pesi da telaio di forma troncopiramidale e presenta le seguenti dimensioni: altezza cm 9,3; base inferiore cm. 5,5 × 4,9; base superiore cm. 3,4 × 3,7. Reca un motivo circolare impresso nella base superiore e un foro passante lungo il lato dove si trova l’iscrizione. La scritta, consistente in una sola linea composta di 9 segni, corre lungo il senso dell’altezza e risulta abbastanza centrata nella direzione longitudinale della faccia della piramidetta. La linea, infatti, dista circa 2 cm dalla base inferiore e 2,7 cm dalla base superiore. I primi due segni ad iniziare dal basso sono equidistanti dai margini laterali (rispettivamente circa 2 cm), mentre nel prosieguo, man mano che si sale verso l’alto, la linea assume una sensibile inclinazione verso sinistra, così che negli ultimi segni (cioè quelli più vicini alla base superiore) la distanza dal margine sinistro si riduce a 1,5 cm e raggiunge 2,5 cm rispetto al lato destro. L’incisione è stata effettuata prima dell’essicazione dell’argilla, in modo non accuratissimo, con irregolare distanza tra i caratteri e con irregolare profondità. Non sono affatto di immediata evidenza né l’identificazione dei segni né la loro pertinenza alfabetica. Non è neppure perspicua la direzione della scrittura. Non si palesa, infatti, alcun segno come, per esempio, quello per che ne rende inequivocabile l’orientamento. Né, d’altra parte, emergono inoppugnabili elementi linguistici che offrono forti appigli per una lettura interpretativa del testo. L’iscrizione diventa, pertanto, un banco di prova di metodo epigrafico e di procedura ecdotica. La presentazione di questo testo non può disgiungersi dalla cornice più specifica della definizione della cultura che lo ha espresso in rapporto al contesto storico-topografico del suo rinvenimento e dall’inquadramento tipologico di questo genere di iscrizioni strumentali, al cui dossier, notevolmente accresciutosi nel corso
1. Ringrazio sentitamente la Dott. Elena Antonacci del Museo di Foggia per avermi messo a disposizione il manufatto a fini di studio. 2. Cfr. RUSSI 1976. 3. La raccolta dei documenti oschi da Teanum Apulum apparirà in POCCETTI, in stampa, dove si segnala l’incremento del dossier rispetto ai vent’anni precedenti: cfr POCCETTI 1980.
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dell’ultimo ventennio, soprattutto in area apula e lucana, è stata dedicata particolare attenzione con lavori d’insieme e di riconsiderazione generale4. In assenza di inequivocabili elementi che permettano di identificare il tipo alfabetico, occorre partire da alcune considerazioni generali sulla cui base possono circoscriversi le soluzioni più ragionevoli. Il ductus grafico rappresenta un dato oggettivo per l’accertamento della direzione della scrittura. Sotto questo profilo si mettono immediatamente in risalto due capisaldi: a) la linea di scrittura è vistosamente inclinata verso sinistra. La stessa inclinazione si manifesta sia posizionando verticalmente la piramidetta sia coricandola orizzontalmente su un fianco; b) i tratti verticali dei singoli caratteri sono inclinati, in modo più o meno accentuato, verso sinistra. In sostanza, l’inclinazione della linea di scrittura e l’inclinazione dei caratteri sono entrambe concordemente orientate verso il lato sinistro. È possibile che le due circostanze siano tra loro indipendenti: per esempio, l’inclinazione dei tratti verticali dei caratteri potrebbe essere collegata ad una tendenza alla corsivizzazione e l’andamento obliquo della linea iscritta potrebbe essere scaturito dal timore dell’incisore di non avere sufficiente spazio in orizzontale oppure dal timore che la linea di scrittura, seguendo l’orizzontalità, finisse per addossarsi al foro passante, che doveva preesistere alla realizzazione dell’epigrafe, in quanto requisito per l’uso strumentale dell’oggetto. Tuttavia, al di là delle ipotetiche valutazioni della psicologia dell’incisore, resta, comunque, il fatto che l’inclinazione dei caratteri è generalmente coerente con la progressione della scrittura. Poiché l’iscrizione è stata certamente apposta posizionando la piramidetta in orizzontale, l’inclinazione della linea di scrittura verso il basso procedendo da destra a sinistra appare coerente con la naturale tendenza dei caratteri inclinati a scendere sotto la riga. Tutte queste argomentazioni convergono concordemente a favore della progressione sinistrorsa della grafia. Altre considerazioni che riguardano l’impaginazione epigrafica e che sono, di per sé, meno cogenti ai fini dell’identificazione della direzione della scrittura, convergono con tale conclusione. L’estremità destra della linea iscritta si presenta ben centrata rispetto alla superficie disponibile della faccia della piramidetta. Così non è, invece, per l’estremità opposta, a motivo dell’inclinazione che fa accostare la linea di scrittura verso lo spigolo sinistro. Far coincidere, dunque, l’inizio dell’iscrizione dal lato dove i caratteri appaiono centrati rispetto alla superficie con perdita successiva di centratura implica una realizzazione programmata dell’iscrizione. Al contrario, il percorso inverso comporta di necessità che la scritta sia stata inizialmente concepita senza alcun rispetto per l’impaginazione per terminare, invece, (solo con gli ultimi caratteri) in posizione centrata. Inoltre, se la direzione della scrittura fosse destrorsa, riuscirebbe difficilmente comprensibile la ragione per cui la progressione della linea si inclina in senso contrario all’inclinazione dei caratteri. Oltretutto, se la direzione fosse destrorsa sarebbe stato più semplice e naturale far partire la scrittura in allineamento con il foro preesistente: in tal modo la linea epigrafica sarebbe corsa nel senso dell’altezza determinando la perpendicolarità rispetto alle due basi. Tutte queste considerazioni unicamente legate alla ‘forma esterna’ della scrittura orientano decisamente a favore della direzione sinistrorsa dell’iscrizione. In questo caso, tra le possibili tradizioni alfabetiche (greca, osca e latina) che possono essere chiamate in causa, una chiave di lettura secondo l’alfabeto osco campano-sannita 4. Per quanto riguarda le piramidette messapiche, in SANTORO 1967 sono sostanzialmente raccolte le piramidette che recano segni non alfabetici e segni alfabetici (singoli e in nessi), mentre in MARCHESINI VELASCO 1995 sono prese in considerazione quelle recanti testi più complessi. A ciò sono da aggiungere il catalogo dei pesi da telaio nel Museo di Bari (con inediti e riletture di testi editi) in FERRANDINI TROISI 1986, 99 ss. e la serie interessante rinvenuta nei pressi del Monte Serico presso Genzano di Lucania in prossimità del confine con la Puglia, raccolta in CARRABBA 1989 e CARRABBA 1996.
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appare quella più compatibile sia con la cronologia del documento sia con il contesto topografico. Infatti, nell’ipotesi tanto dell’alfabeto greco, anche nelle sue varianti di area apula e messapica, quanto dell’alfabeto latino, riesce difficilmente concepibile un andamento sinistrorso tra il III e il II secolo a.C., epoca in cui deve approssimativamente collocarsi il manufatto. D’altro canto, un documento di questo genere in alfabeto osco campano-sannita non è fuor di luogo nel sito di Teanum Apulum, che vanta un dossier, pur misero, ma significativo di documenti in lingua osca redatti nello stesso tipo alfabetico, e, per di più, di tipologia analoga a quello in questione5. Il fatto che, come già accennato, alcuni segni restano di non perspicua identificazione sussiste anche nell’ipotesi di lettura in base ad altri alfabeti. Su queste premesse la presentazione del testo non può che procedere dalla graduale combinazione delle diverse possibilità di identificazione dei segni, che vengono qui sotto analizzati singolarmente secondo la progressione da destra verso sinistra implicata dalle considerazioni di ordine epigrafico svolte più sopra. I segni vengono qui esaminati singolarmente. I numeri si riferiscono alla loro progressione da destra a sinistra sulla superficie del manufatto. 1. Non si palesano altre alternative all’identificazione del segno nella forma canonica all’alfabeto osco, pur realizzato in forma corsiveggiante e con leggero arrotondamento dei tratti. 2. Il segno, tra i più problematici, è elemento-chiave, poiché è l’unico che pare ripetersi con fattezze omologhe nell’iscrizione, ripresentandosi anche in posizione finale (n.9). Consiste in una freccia con angolo rivolto verso l’alto a sinistra e il tratto centrale non congiunto con l’angolo stesso ed inclinato verso il basso. A questa forma corrispondono nell’alfabeto osco il segno per (con il diacritico costituito da un tratto centrale) e nell’alfabeto latino medio-repubblicano quello per . Qui, tuttavia, il segno, rispetto alla posizione consueta nell’uno come nell’altro alfabeto, si presenta ruotato. Infatti, nell’alfabeto osco il segno per ha l’angolo rivolto verso il basso, mentre la dell’alfabeto latino medio-repubblicano ha l’angolo rivolto verso l’alto. Il rovesciamento dei segni per e è, invece, comune nelle iscrizioni sudpicene. 3. Il segno è costituito da due tratti formanti un angolo rivolto verso il basso. L’inclinazione fa propendere più per ad uncino che per : le forme di entrambi i grafemi sono comuni sia all’alfabeto osco sia a quello latino medio-repubblicano. La soluzione è incompatibile sia grafologicamente sia fonotatticamente con l’identificazione del segno precedente con . 4. Segno reso altamente problematico dalla ‘sbavatura’ dello stilo verso il basso e dal danneggiamento della superficie della piramidetta. È prudente limitarsi a dare alcune alternative in ordine di decrescente probabilità nell’ambito dell’alfabeto osco:
, , . 5. Forma regolare del digamma senza asta prolungata, consueta all’alfabeto osco con valore di . 6. Tratto verticale da identificarsi inequivocabilmente con . 7. Appaiono netti due tratti uniti ad angolo aperto verso sinistra, a cui superiormente si congiunge un tratto più piccolo e con angolazione più ristretta. In base alla considerazione della pertinenza o non pertinenza di tale tratto sono possibili nell’alfabeto osco le seguenti alternative: , . Nel primo caso il piccolo tratto superiore sarebbe in eccesso, forse risultante da sbavatura dello stilo; nel secondo caso, invece, sarebbe in difetto in quanto più ridotto ed irregolare rispetto agli altri due inferiori. Teoricamente possi5. Per il dossier epigrafico preromano riferibile al territorio di Teanum Apulum si rimanda a POCCETTI in stampa.
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bile, per quanto più remota, è la soluzione , presumendo l’irregolarità del tratto verticale. Pertanto si ammetteranno in ordine di decrescente probabilità paleografica ,,. 8. Il segno, a forma di occhiello rivolto verso sinistra, ammette due alternative: ed . Si ricorderà che la variante della ad occhiello, fin quasi da confondersi con il segno per , non è ignota all’alfabeto osco ed è, perfino attestata in area prossima al sito di Teanum Apulum: appare, infatti, nella Frentania sull’iscrizione dedicatoria apposta su una chiave bronzea (Herettates súm / Agerllúd)6. 9. Il segno ha fattezze analoghe a quelle del no 2, seguendone le stesse sorti per le possibilità di identificazione. Per la costituzione del testo non si può, dunque, che procedere scalando le diverse alternative di lettura elencate per i singoli segni, le quali sono riassumibili nel seguente prospetto: m 1
ú/a 2
l/u 3
p/d/a 4
v 5
i 6
g/s/t 7
r/a 8
ú/a 9
Una prima scrematura tra le alternative di lettura proposte viene indicata dall’inammissibilità della simultanea identificazione di nei segni 2, 4, 8, 9. Infatti, per motivi di coerenza epigrafica, le sensibili differenze tra i segni 2 e 9 (tra loro omologhi), da una parte, e 4 e 8 (tra loro diversi), inducono ad escludere che grafi diversi nella stessa iscrizione possano avere lo stesso valore. Di conseguenza, si dovranno necessariamente scartare le seguenti combinazioni: 1) 2) 3) 4)
m m m m
a a a ú
l/u l/u l/u l/u
a v a v p/d a v
i g/s/t a a i g/s/t r a v i g/s/t a a i g/s/t a ú
Pertanto, il novero delle possibilità epigrafiche ammissibili si restringe a: 1) m ú l/u a v i g/s/t r ú 2) m a l/u p/d v i g/s/t r a 3) m ú l/u p/d v i g/s/t a ú Su queste tre diverse opzioni si commisurano le ipotesi interpretative, per le quali occorre partire da due serie di considerazioni. La prima riguarda il tipo di testo che è da attendersi in questa categoria di manufatti. Come è noto, la natura di un testo è correlata allo scopo comunicativo connesso alla funzione dell’oggetto nel momento in cui il testo è stato concepito. Purtroppo, su questo punto si presenta una difficoltà preliminare. Infatti, proprio i confronti tipologici con le forme di scrittura apposte in questo genere di manufatti mettono in evidenza che sotto il generico comune denominatore di piramidette fittili, unicamente dettato dalla forma geometrica, alberga un’ampia varietà di scopi e di funzioni. Il dossier delle piramidette iscritte in lingue classiche e in lingue non classiche annovera un variegato ventaglio di testi di disuguale estensione, oltre che di simboli e di segni alfabetici isolati o in combinazione con testi. In generale, si tratta di oggetti di produzione seriale e di scarso pregio artigianale, destinati, nella stragrande maggioranza, all’uso strumentale come pesi, ma che si assoggettano a forti istanze di personalizzazione da parte del fabbricante e/o del proprietario, anche in funzione di scopi secondari. 6.
VE 172; LA REGINA 1972, 263; SANNIO 1980, 318.
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Sotto questo riguardo per le piramidette si suole operare una distinzione tra una funzione primaria, appunto riconosciuta in quella di peso, e funzioni secondarie, individuate nella destinazione votiva, nell’uso apotropaico, nello scopo puramente decorativo7. Come pesi, tali oggetti erano impiegati più frequentemente nella tessitura, dove fungevano da contrappesi a cui erano attaccati nel telaio i fili dell’ordito, ma, sporadicamente, sembra che avessero anche un uso in ambito commerciale, ove deve presumersi o un effettivo valore ponderale o un valore simbolico come contrassegni o come ‘sigilli di garanzia’8. Occorre, comunque, tener presente che la distinzione tra funzione primaria e funzione secondaria discende quasi sempre dall’interpretazione (spesso non inoppugnabile) dei testi, dei segni, dei simboli e delle eventuali decorazioni e raffigurazioni apposte (per lo più impresse con stampi prima della cottura). Per quanto riguarda il rapporto con il testo le due funzioni possono presentarsi in alternativa, ma anche scalarsi in successione diacronica. In altre parole, una piramidetta può passare dalla sua utilizzazione pratica come peso (da telaio o commerciale) alla condizione di dono votivo. Ciò riesce a spiegare la concentrazione di oggetti di questo tipo rinvenuti in luoghi di culto, come nel caso dell’area santuariale di Coppa Mengoni nel territorio di Teanum Apulum, da dove proviene la nostra piramidetta insieme ad altre iscritte e anepigrafi. In altri casi, la natura votiva del testo è resa perspicua dalla presenza di teonimi o formule dedicatorie9. In diversi casi, tuttavia, riesce difficile decidere tra le coordinate contestuali e le circostanze pragmatiche che hanno determinato l’apposizione del testo. Per esempio, nell’occorrenza, tutt’altro che infrequente, di un nome personale non appare di per sé perspicuo il riferimento ad una persona in veste di fabbricante, di committente, di utente e/o proprietario o di offerente. Ovviamente la distinzione tra committente, proprietario/utente ed offerente non investe la designazione personale, ma attiene solo il contesto situazionale in cui è stato apposta l’iscrizione. Nella nostra piramidetta l’incisione prima dell’essicazione induce a presumere la neutralizzazione dell’opposizione tra committenza ed utenza. Le epigrafi di una certa estensione apposte su questo genere di oggetti consistono tanto di nomi personali sia maschili sia femminili (caso più frequente) quanto di teonimi (più raramente), e talvolta, di formule di dedica. Gli antroponimi si presentano con varietà di designazioni onomastiche, che spaziano dal modulo istituzionale bimembre o trimembre, con indicazione, oltre al nome individuale, della filiazione o del gentilizio, laddove esiste, a semplici sigle che potrebbero essere anche non onomastiche. Quanto alla funzione di queste sigle (onomastiche e non) è stata presa in considerazione anche la possibilità che, oltre alla designazione del fabbricante o dell’utente/proprietario, esse servissero a marcare o ad identificare l’oggetto stesso, vuoi come una sorta di marchio di fabbrica10 vuoi come riconoscimento in relazione alla sua utilizzazione pratica: per esempio per le lettere singole o in coppia si è supposto che queste potrebbero indicare «l’ordine con cui i pesi erano attaccati ai fili dell’ordito»11. Ci sono poi gruppi di piramidette che contengono alfabetari12 ed altre che contengono espressioni numerali. L’indicazione numerica è stata messa in relazione alla quantificazione degli oggetti ai quali il peso veniva apposto, come,
7. Per la discussione di queste funzioni cfr. MINGAZZINI 1974; FERRANDINI TROISI 1986; CARRABBA 1989. 8. Cfr. FERRANDINI TROISI 1986. 9. Cfr. MARCHESINI VELASCO 1995. 10. Per questo aspetto di trade mark cfr. MARCHESINI VELASCO 1995, 1362. 11. Così FERRANDINI TROISI 1986, 93. 12. Una piramidetta, recante le prime quattro lettere dell’alfabeto osco ciascuna delle quali è incisa su una singola faccia, proviene dalla stessa area archeologica di Coppa Mengoni nel territorio di Teanum Apulum: cfr. ANTONACCI SANPAOLO 1995, 88; POCCETTI, in stampa.
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per esempio, la quantità ponderale di una merce, ma anche il prezzo o la corrispondente tassa da pagarsi13. Su questa premessa generale si inserisce il secondo ordine di argomenti che attiene l’analisi più tecnicamente linguistica. Per l’epigrafe della nostra piramidetta anche un’impressione sommaria porta ad escludere tanto l’alfabetario quanto una indicazione numerale. L’ambito onomastico appare, dunque, come ipotesi interpretativa più probabile. In questo caso la sequenza di ben nove lettere è difficilmente riferibile ad un unico nome anellenico monomembre. Un idionimo così lungo è sconosciuto al repertorio antroponimico sia sannita sia apulo. Acquista, invece, maggiore verosimiglianza l’identificazione di due elementi onomastici che potrebbero (anche se non necessariamente) far parte della stessa designazione personale. Alla medesima conclusione induce la scarsa plausibilità di alcune delle catene fonotattiche che risultano dalle possibili combinazioni delle letture contemplate in base alla coerenza epigrafica: 1) múl/uavig/s/trú 2) mal/up/dvig/s/tra 3) múl/up/dvig/s/taú In altre parole, sequenze del tipo múuavisrú oppure múlpvitaú o múldvitrú riescono avere un senso accettabile solo nell’ipotesi della presenza di più elementi onomastici consistenti, in tutto o in parte, di sigle o di abbreviazioni. La possibilità di riconoscere forme onomastiche non troncate o abbreviate è subordinata all’individuazione di plausibili confini morfologici. Tale risultato si raggiunge accordando al terz’ultimo segno la lettura di con cui si rende riconoscibile una terminazione -vis che potrebbe appartenere ad un nominativo maschile di un tema in –io, in accordo con le consuete regole morfologiche dell’osco. In siffatta condizione, le due lettere che seguono -vis (nelle alternative di lettura rú, ra, aú) non potrebbero che essere iniziali o sigle di altro elemento onomastico. In sostanza dall’isolamento morfologico di una delle sequenze múl/uavis, mal/up/dvis, múl/up/dvis si renderebbe possibile una segmentazione: 1) múl/uavis rú 2) mal/up/dvis ra 3) múl/up/dvis aú In questo novero sono, innanzitutto, da scartare i nessi aú (no 3) e au (no 2) come grafie di dittonghi, in quanto ragioni di coerenza con le regole ortografiche della scrittura campano-sannita inducono ad aspettarsi piuttosto av. Per lo stesso motivo sono da escludere úu e ua nel caso che si legga múuavis (no 2 e 3) tanto come unità quanto nelle ipotesi di suddivisione mú uavis oppure múu avis. La rosa si restringe allora drasticamente alle seguenti soluzioni: múlavis rú e malp/dvis ra. Un’ulteriore agnizione morfologica consiste nel riconoscimento della lettera finale di tutta la sequenza come morfema in entrambe le alternative di lettura /ú/ e /a/. In presenza di una terminazione in –ú o in –a non si fuoriesce dall’ambito della flessione italica dei temi in –a¯ . La lettura /ú/ comporta un nominativo singolare secondo il consueto trattamento italico dei temi in –a¯ , mentre per l’alternativa /a/ non si può fare a meno di ricorrere allo scioglimento con –a(s) (come genitivo singolare) o con –a(m) (come accusativo singolare). Avremmo, dunque, una designazione femminile, la cui la marca morfolo13.
Cfr. FERRANDINI TROISI 1986, 95, 102.
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gica più probabile è quella di nominativo o di genitivo singolare (per indicare l’appartenenza dell’oggetto). A tal proposito è opportuno ricordare che la presenza di nomi femminili su questo tipo di oggetti è tutt’altro che anomala ed insolita: l’attività di tessitura, al cui ambito si riconduce una delle precipue funzioni delle piramidette come pesi da telaio, rientrava tra le mansioni tipiche delle donne14. Assolutamente preponderanti sono nomi femminili nel folto dossier delle piramidette di area apula15, ma anche in quelle note in ambito etrusco e latino16. Anche dalla stessa area archeologica di Coppa Mengoni pertinente all’antico territorio di Teanum Apulum proviene un’altra piramidetta con un nome probabilmente muliebre in lingua osca17. In questa soluzione, si apre il problema della natura e della composizione della designazione personale. Partendo dall’identificazione morfologica del segmento finale -rú, -ra, e andando a ritroso, le catene fonotattiche più accreditabili appaiono vigrú, vigra, vitrú, vitra. Per la parte precedente, in base alle considerazioni di coerenza grafica già esposte, si dovrà contemplare: múla, malp/d, múlp/d. Ragioni di incompatibilità grafematica già esposte inducono ad escludere la combinazione múla vigra (o vitra). Restano, pertanto, in piedi malp/d vig/tra oppure múla vig/trú. Se si tratta di una designazione costituita dal solo idionimo, le due alternative di base, cioè múlavig/trú o malp/dvig/tra, non possono che appartenere ad una designazione muliebre monomembre. Designazioni femminili costituite dal solo idionimo sono abbastanza comuni nelle iscrizioni sia osche18 sia messapiche19. Altra possibilità è una designazione bimembre, ovviamente sempre femminile. In questo caso la suddivisione múla vig/trú o malp/d vig/tra potrebbe trovare un appiglio nell’evidenza epigrafica offerta dallo spazio leggermente maggiore che sembra intercorrere tra il 4o e il 5o segno. In questo caso la possibilità di un nome bimembre costituito da prenome + gentilizio sembra scontrarsi con la mancanza di marche morfologiche di gentilizio (più tipico –io e i suoi succedanei, ma anche altri suffissi di appartenenza). Non è, tuttavia, irragionevole presumere un’abbreviazione per troncamento dei due elementi, a cui facilmente induce proprio l’assenza di veste morfologica: così, per esempio, vig/tra potrebbe rappresentare vig/tra(sio-). L’ipotesi precedentemente adombrata di un morfo di genitivo di un nome femminile in –a¯ senza notazione di -s potrebbe applicarsi tanto alla lettura múla vig/trú quanto a malp/d vig/tra. Pertanto nell’opzione múla vig/trú potrebbe riconoscersi un genitivo singolare múla(s), seguito dal nome personale vig/trú al nominativo. Nell’opzione malp/d vig/tra(s) avremmo la determinazione genitivale nel secondo elemento. Nell’una come nell’altra ipotesi, una soluzione soddisfacente sembra essere rappresentata da una designazione servile costituita dall’idionimo e dal nome del proprietario, che, a motivo della flessione secondo i temi in –a¯ , è probabile che sia un nome femminile, identificando, dunque, una donna. La lettura múla(s) vig/trú metterebbe di fronte ad una designazione femminile (vig/trú), che potrebbe riferirsi ad una schiava alle dipendenze di una donna (múla). Tale situazione non è affatto improbabile nel contesto di attività di tessitura, dove era impiegata manodopera servile di donne, come ci attestano un graffito latino
14. 15. 16. un 17. 18. 19.
Cfr. MOREL 1976, 299 ss.. Dopo SANTORO 1967, più recente rassegna per l’area apula in MARCHESINI VELASCO 1995. Per il latino si veda l’esemplare di recente pubblicazione in LAMBRECHTS-RIX 1996, dove (p.142) si riporta anche repertorio di analoghi esempi etruschi. Cfr. POCCETTI 1980. Cfr. LEJEUNE 1976, 57 ss. Cfr. UNTERMANN 1964 177 ss.
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di Pompei e iscrizioni da Amiternum e da Canosa che ricordano conservae lanipendiae20. Per quanto riguarda le rispettive strutture di formula onomastica servile si hanno esempi sia di genitivo anteposto sia di genitivo posposto all’idionimo. Il genitivo del nome del padrone precede il nome personale nelle designazioni delle schiave documentate dalla tegola osco-latina di Pietrabbondante, ove gli idionimi sono preceduti dal nome del loro comune padrone (Hn. Sattiieís Detfri / Herenneis Amica)21 o dalla formula parallela dell’iscrizione di S. Croce del Sannio (Velieís Duiíeís Dít)22. D’altra parte, proprio la stessa iscrizione sulla colonnina di S.Croce del Sannio sembra contestualmente offrire un esempio inverso di posposizione del genitivo, se come tale è da identificarsi la morfologia dell’ultimo elemento (Lúkídel Staíis Basías). In pratica, nelle due formule giustapposte si determina un’inversione della posizione del genitivo rispetto al nominativo, che non può essere casuale. Se si tratta di designazioni servili, il rovesciamento di posizione del genitivo del nome del padrone potrebbe essere in funzione rispettivamente della designazione di una donna alle dipendenze di un uomo (Velieís Duiíeís Dít) e di un uomo alle dipendenze di una donna (Lúkídel Staíis Basías)23, creando, così un effetto di chiasmo nel loro accostamento. Che questa inversione non sia del tutto arbitraria si rivela anche dalla circostanza che analoga condizione sembra riproporsi in latino, dove accanto alla comune posposizione del nome del padrone (tipo Retogenes Stati s(ervus)) si hanno esempi di anteposizione del padrone in genitivo in presenza di nomi femminili come si verifica in un peso da telaio di età repubblicana da Artena di recente pubblicazione: [Po]plili Gaia24. Un genitivo anteposto è previsto anche tra le ipotesi interpretative della formula onomastica sulla piramidetta rinvenuta, oramai da tempo, nell’area santuariale di Coppa Mengoni a Teanum Apulum, [ ]nut( ) Míínat( ) Ídza25, nella quale potrebbe confermarsi la regola dell’anteposizione del genitivo qualora sia da identificare nel primo e/o nel secondo elemento una designazione maschile in genitivo (bimembre o monomembre) del padrone, alle cui dipendenze è la schiava identificata dall’idionimo ídza. Posposizione del nome del padrone rispetto al nome individuale di donne di condizione servile è documentata in etrusco (mi Velias [P]umpus «ich (bin Besitz) der Velia, (der Sklavin) des Pumpu»26 a Orvieto27) e in messapico: tra l’altro, la designazione messapica Valla Moldahias «Valla, (schiava) di Moldahia»28 ci pone di fronte alla designazione di una donna alle dipendenze di altra donna, il cui nome segue l’idionimo della schiava. Un diverso tipo di struttura onomastica comportano le letture alternative malp/d vigra (o vitra) e múlp/d vigrú (o vitrú), per le quali occorre presumere una designazione bimembre, di cui resta, però, ardua l’identificazione della natura e della funzione dei due elementi. È prudente limitarsi a segnalare che nella lettura vitra o vitrú può rintracciarsi la base di gentilizi come Vitrasius e Vitruvius29 secondo lo stesso rapporto intercorrente, per esempio, tra Numa e Numasio-/Numusio-. Come si vede, nessuna delle possibili combinazioni si presta a confronti diretti con antroponimi appartenenti all’area onomastica osca. Tale circostanza, tuttavia, non stupisce 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29.
CIL IV 1507; IX 321; IX 4350: su ciò cfr. MOREL 1976, 300. PO 21. ST Hi 7. Si veda il commento di DE BENEDITTIS 1981, 294. Cfr. LAMBRECHTS-RIX 1996. Cfr. POCCETTI 1980; POCCETTI in stampa; ST Fr 11. Traduzione di H. Rix in LAMBRECHTS-RIX 1996, 142. CIE 10563 Cfr. PARLANGELI 1960, n.25.25 ; DE SIMONE 1981, 233. Cfr. SCHULZE 1904, 380.
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non solo per l’intrinseca caratteristica del repertorio antroponimico osco di costituire (rispetto ad altre tradizioni dell’Italia antica) un ‘sistema aperto’ soprattutto nell’inventario dei prenomi, ma anche in rapporto sia all’area di rinvenimento sia alla probabile condizione sociale della persona designata. Se si tratta di una designazione servile la probabilità di reperire elementi di confronto si riduce fortemente per la banale ragione che l’onomastica degli schiavi è, in generale, assai meno nota rispetto a quella delle persone libere. Tale scarsità di documentazione si verifica proporzionalmente anche nelle lingue di frammentaria attestazione. Idionimi di schiavi in area sannitica costituiscono di fatto degli unica (esempi sono Detfri di Pietrabbondante, Dít e, forse, Basía a S. Croce del Sannio). D’altro canto, la tipologia del documento non agevola l’identificazione dell’area onomastica di riferimento, se si tiene conto sia del fatto che questi oggetti, agevolmente amovibili, potevano spostarsi con le persone sia del fatto che la lavorazione della lana direttamente connessa all’economia pastorale, che forniva la materia prima, seguiva il ciclo della transumanza che inevitabilmente comportava mobilità personale. Del resto confronti con iscrizioni di analoga tipologia documentaria anche ristretti all’ambito osco non fanno altro che mettere in evidenza varietà di strutture designative e hapax onomastici. La già ricordata piramidetta rinvenuta nella stessa area archeologica di Teanum Apulum presenta una formula trimembre, i cui componenti hanno una natura composita, condividendo elementi sia di area campano-sannita (Míínat( ) e forse [ ]nut( ) sia elementi altrimenti ignoti agli ambienti italici, come Ídza, che rinvia piuttosto all’area apulo-messapica con possibili confronti con le forme messapiche Et&etoa, Et&eta e le attestazioni latine Hezzius, Hezzia (gentilizio da Lucera), Itzia (da Taranto). Ancora all’area onomastica apula rimanda il solo idionimo Vunia[?]30 riportato in alfabeto osco su una piramidetta da Arpi31, da dove provengono altre piramidette in alfabeto apulo32. Più a nord nella contigua regione dei Frentani una piramidetta, rinvenuta in località Guglionesi, reca una formula apparentemente bimembre (probabilmente maschile stando alla terminazione del primo elemento), ma di cui non riesce perspicua la rispettiva identificazione dei due componenti tanto nella lettura G-lis Gusie-33 quanto nella lettura Cais Cusies34. In effetti, i testi di questi documenti, sia in virtù delle diverse possibili ragioni contestuali che li motivano (alle quali si è già fatto cenno in apertura) sia in ragione del loro uso strumentale non pregiato sia in virtù delle intersezioni diastratiche e diatopiche di coloro che li esprimono, si assoggettano, assai meno di altre tipologie testuali, ai canoni delle designazioni ufficiali e alle convenzioni epigrafiche. A ciò si collegano, nel caso specifico della nostra piramidetta, anche le difficoltà di identificazione dei segni propri di una scrittura occasionale con tendenza corsiveggiante. Sotto un altro aspetto, però, la concentrazione di questo genere di documenti specialmente in area dauna e peuceta ci pone di fronte ad un contesto socio-economico che è indiscutibilmente legato alla lavorazione della lana e a quanto si connette a questo ambito produttivo, cioè, da una parte, l’allevamento ovino, che ne fornisce la materia prima indispensabile e, dall’altra, la fabbricazione di tessuti e di capi di vestiario. I terminali estremi di questo ciclo produttivo sono, da un lato, le zone interne del Sannio abruzzese-molisano che si collegano attraverso i tratturi alle pianure apule nell’economia della transumanza e, dall’altro, l’area che va da Canosa a Taranto, in cui una densa tradizione antica ubica una rinomata attività di confezionamento di tessuti e di vesti di lana, confermata 30. Cfr. MARCHESINI VELASCO 1995, 1369 ss. 31. Sull’aspetto alfabetico cfr. SANTORO 1982, 408. 32. Cfr. SANTORO 1982; MARCHESINI VELASCO 1995. 33. Proposta dal primo editore: cfr. DE BENEDITTIS 1993, 329; 34. Lettura Rix: cfr. ST Fr 10.
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anche dalle iscrizioni35. In tale sistema la Daunia costituiva un passaggio obbligato negli spostamenti transumanti, oltre ad avere essa stessa diverse sedi di attività laniera citate da fonti antiche, come, per esempio, Lucera e il Gargano36. Anche per questa ragione, nella Daunia, più fortemente che nel resto dell’Apulia, fin da epoca predocumentaria si concentrano tensioni interetniche e intrecci plurilingui. Lasciamo qui da parte il complesso problema della valutazione delle tradizioni confluite nelle fonti letterarie e delle stratificazioni onomastiche che legano l’ethnos dei Dauni ora alle culture transadriatiche ora alle etníe dell’Italia antica (Latini e Italici) con privilegio più accentuato di relazioni con il Lazio e la Campania37. È, invece, un fatto indiscutibile che in piena età ellenistica in area dauna si fronteggiavano le due entità etno-linguistiche rappresentate dal mondo osco-sannita e da quello apulo, sia pure nella varietà delle rispettive sfumature e componenti. Al cospetto di Luceria, Ausculum e di Teanum Apulum, che erano realtà ufficialmente oscizzate, come rivelano le leggende monetali e la presenza di altre iscrizioni, nella zona garganica (Vieste) si attestano documenti che presentano indubbie connessioni linguistiche ed alfabetiche con l’area peuceta e con quella messapica38. In questo contesto topografico erano certamente agevolati i contatti interetnici, che dovevano concretizzarsi in una sostenuta mobilità personale, di cui costituisce testimonianza proprio l’attestarsi incrociato di antroponimi nei due diversi ambiti onomastici. Così, per esempio a San Severo in prossimità del territorio dell’antica Teanum Apulum una piramidetta reca in alfabeto greco il nome Dazia39 che appartiene alla «famiglia onomastica rappresentata da Dazes (-ya) e varianti, che è prenome maschile creato in messapico come forma ipocoristica di Dazimas/Dazomas»40. Viceversa nella monetazione greca di Salapia, a nomi di magistrati come Trvsa´ntiow e Py´llow, che trovano confronti, più o meno diretti, nell’area onomastica messapica41, si affiancano nomi di chiara pertinenza italica come Plv´tiow Non c’è, dunque, troppo bisogno di insistere sul quadro, ormai sufficientemente acclarato sotto vari aspetti, che delinea peculiarmente l’area dauna come crocevia e come terreno permeabile all’interazione tra cultura italica e cultura iapigio-messapica, nel quale ruolo centrale svolgevano le vie della transumanza e del mondo produttivo ad essa connesso. Di questi contatti, che sfociano in forme di commistione e di integrazione sociale presso le varie comunità, si colgono significativi riflessi attraverso l’onomastica. In specifico, l’insediamento di Teanum Apulum, particolarmente esposto ai flussi della transumanza e ai contatti con il mondo sannitico a motivo della prossimità al territorio frentano, con cui condivide caratteristiche comuni e analogie nel processo della romanizzazione42, si riflette nel pur misero dossier prelatino che conosciamo da questo sito. La piramidetta qui presentata, insieme a quelle già precedentemente note43, ne costituisce un piccolissimo quanto prezioso tassello. BIBLIOGRAFIA ANTONACCI SANPAOLO 1995 = E. ANTONACCI SANPAOLO, Ricerche archeoambientali nella Daunia antica. Paesaggio vegetale e allevamento tra documentazione archeologico-let35. 36. 37. 38. 39. 40. 41. 42. 43.
Cfr. MOREL 1978; VOLPE 1990, 74. Cfr. DE BENEDITTIS 1978; VOLPE 1990. Su cui cfr. BRIQUEL 1974; DE SIMONE 1984. Cfr. PARLANGELI 1970; SANTORO 1973; DE SIMONE 1984. Cfr. RUSSI 1978, 334. Citazione da DE SIMONE 1993, 38. Cfr. messapico Trohan&es e Pollihi: cfr: SANTORO 1973, 288 ss. Per Trohan&es diversamente DE SIMONE 1981, 259 ss. Cfr. DE BENEDITTIS 1987. Cfr. POCCETTI 1981; POCCETTI in stampa.
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RUSSI 1976 = A. RUSSI, Teanum Apulum. Le iscrizioni e la storia del municipio, Roma 1976. RUSSI 1978 = A. RUSSI, Nuovi documenti epigrafici della Daunia preromana e romana, in: Studi storico-epigrafici in memoria di M. Zambelli, Macerata 1978, 331-342. SANNIO 1980 = Sannio. Pentri e Frentani dal VI al I secolo a.C., Catalogo della mostra (Isernia, ottobre-dicembre 1980). SANTORO 1967 = C. SANTORO, Piramidette messapiche, Annali Facoltà Magistero Bari 6, 1967, 283-345. SANTORO 1973 = C. SANTORO, Problemi linguistici della Daunia preromana, in: Atti del IV Convegno dei Comuni Messapici, Peuceti e Dauni (Trinitapoli, 3-4 giugno 1972), Bari 1973, 287-309. SANTORO 1982 = C. SANTORO, Nuove epigrafi messapiche, ASP 35, 1982, 401-413. SCHULZE 1904 = W. SCHULZE, Zur Geschichte lateinischer Eigennamen, Abhd. K.Ges.Wiss.Göttingen, N.F. V,5, 1904. ST = H. RIX, Sabellische Texte, Heidelberg 2002. UNTERMANN 1964 = J. UNTERMANN, Die messapischen Personennamen, in: H. KRAHE, Die Sprache der Illyrier, II, Wiesbaden 1964. VE = E. VETTER, Handbuch der italischen Dialekte, Heidelberg 1953. VOLPE 1990 = G. VOLPE, La Daunia nell’età della romanizzazione. Paesaggio agrario, produzione, scambi, Bari 1990.
UNA VERIFICA DELL’EPIGRAFE PEUCETA MI 196 MASSIMO POETTO La nota scritta — una formula dedicatoria — mistilingue «greco-messapica» con incipit artos atotios, apposta su una delle facce della piastra bronzea (tavv. I-II) rinvenuta a Ruvo nel 1907 (cf. Jatta 1908) — classificata da Carlo de Simone come nr. 196 (con relativa tavola a p. 320) nella sua raccolta (1964) del materiale iscritto dalla Puglia (MI, p. 113, ad «Republikanische Phase (II.-I. Jh. v. Chr.)») — , è andata reiteratamente soggetta a letture — e, di conseguenza, esegesi — sotto molteplici rispetti discordanti tra loro: vd. il resoconto in Parlangèli 1960, pp. 45-46 sub 2.24 e, ultimamente, in Ferrandini Troisi 1992, pp. 111-112 sub nr. 99; s’aggiunga Arena 1994 / 1999 (q. v. infra). Siffatta disomogeneità mi ha spinto, nel marzo del 1998, a effettuare presso il Museo Archeologico di Bari — dove il reperto è conservato (nr. d’inventario 4405) — un ripetuto esame autoptico del documento1, teso a stabilire anzitutto la veridicità grafica testuale. L’incisione è del tipo punteggiato2, disposta su quattro righe. I caratteri si configurano come greco-«apuli». Quale base di riferimento verrà qui in particolare assunta la dettagliata revisione effettuata da Arena 1972, sulla quale tuttavia risultano doverosi vari rilievi: 1) se alla r. 2, quinta lettera da sinistra, trova conferma l’identificazione (ibid., p. 213) delle tracce di A3 entro un ben percepibile incavo prodotto da martellamento, nel tentativo di rimuovere il segno per sostituirlo con O, resta nondimeno da dimostrare che ciò possa essere indizio di riutilizzazione della targa (ibid., p. 215, con ripresa in 1994, p. 3a / 1999). Questo vale anche a proposito della 2) individuazione (1972, p. 215; in piú 1994, p. 3a / 1999) d’una «serie di punti, che paiono i resti di una lettera preesistente», a ridosso del quinto carattere (E) e parzialmente sovrapposti al sesto (N) di r. 3. Tali residui rappresenteranno la modificazione d’un componente grafico — nella fattispecie il riposizionamento a livello dei segni circostanti d’un apparente N (destrorso)4, collocato troppo in alto da parte dell’incisore5 — , piú compiutamente riuscita rispetto alla correzione apportata 3) sulla penultima lettera della medesima linea, un S di partenza trasformato alla bell’e meglio in E6. 4) Infine, il lessema di r. 4, letto di volta in volta «oupave»7 (/ «ougave»), «&ugave», «dugave» e (vd. infra) «dupave». Arena (ibid., pp. 218 / 217) propone «ypa‡e» < «[a]ypa‡e», 1. Grazie alla cortesia della Direttrice, Dott.ssa Palma Labellarte. Desidero altresí esprimere viva riconoscenza alla Dott.ssa Giuseppina Agresti, funzionaria del Museo, per l’assistenza fornitami unitamente a proficui ragguagli tecnici, e al Dott. Giuseppe Andreassi, Soprintendente per i Beni Archeologici della Puglia (Taranto), per l’autorizzazione alla ripubblicazione dell’oggetto medesimo. 2. Una tecnica già impiegata in area peuceta per un’altra epigrafe «mobile» (su un portagioielli), MI 165, pp. 96 / 296 (tavola) = PARLANGÈLI 1960, p. 38 ad 2.12. 3. Per un’ipotesi esplicativa della quale vd. ibid., pp. 213-214. 4. Rispetto ad ARENA, ibid., p. 215 n. 15: «Non sono in grado di stabilire se si tratti di resti di lettera scritta in direzione sinistrorsa, come potrebbe sembrare». 5. Il quale di fatto — con ARENA, ibid., p. 217 n. 23 — «non sembra avere grande dimestichezza con i segni alfabetici». 6. Questa, unanimemente, la lettura; meno risoluto ARENA, ibid., p. 217, donde la trascrizione «penskl(e)n». 7. Cosí, in ultimo, FERRANDINI TROISI 1992, p. 111 (dov’è inavvertitamente attribuita questa lettura pure ad Arena: ma vd. sotto).
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con omissione del primo segno cosí motivata: «La lettera iniziale della quarta riga sembra una A incompiuta ed è probabilmente da intendersi come un errore grafico, che l’incisore tentò di eliminare con piccoli colpi di scalpello8. Di essa quindi non si dovrà tener conto nella interpretazione del testo». A una piú approfondita analisi, tuttavia, siffatta conclusione si rivela assolutamente inconsistente: il grafema iniziale è di fatto A, con il tratto inferiore della «gamba» destra omesso, in perfetta specularità rispetto a quello interno alla sequenza HAI della riga precedente. Le sottili fenditure contigue, però, non rappresentano delle scalfitture praticate con uno strumento appuntito allo scopo di annullare la suddetta lettera; esse si caratterizzano invece nettamente come screpolature prodottesi per reazione durante il processo di consolidamento — ossia nel corso della fase di raffreddamento — del metallo, qualunque sia stata la ragione del suo riscaldamento: l’intento di renderlo malleabile nell’àmbito della fabbricazione / lavorazione della placca, o altro. Tale segno va dunque reintrodotto a tutti gli effetti, consentendo — e garantendo — la (ri)acquisizione dell’originaria lezione aupave9. Peraltro, a sorpresa e del tutto arbitrariamente, Arena 1994 / 1999 ritorna alla sua iniziale (1969, p. 439 ad fig. 1 e n. 14) proposta (presto abbandonata) «dupave» (cf. avanti). In coda, si segnalano ancora — per amore di precisione — due nuovi dettagli grafici: il puntino fuori allineamento (ulteriore indizio d’imperizia nell’incisione) a ridosso dell’angolo superiore del S in artos; l’elemento terminale dell’iscrizione, che delimita il tratto vuoto dopo aupave, costituito da 4 — non 3, come riportato finora — punti incolonnati10. En passant, risalta il considerevole prolungamento del «braccio» superiore dei componenti la desinenza di aupave, soprattutto di E, quasi a riempire ad effetto il segmento sufficiente a contenere almeno un paio di segni. La qual cosa indurrebbe a pensare che la «barra» verticale in questione fosse stata predisposta quale chiusa della scritta, sicché le proporzioni predefinite riguardo all’estensione della stessa non sarebbero state rispettate; ciò parrebbe per di piú arguibile dallo spazio libero sulla destra di pensklen e dalla discrepanza nel formato — ovvero dal progressivo rimpicciolimento — dei caratteri. Il testo ripristinato suona quindi nell’ensemble: artos atotios / tai &oi tai günake¯ /ai pensklen / aupave Se per la gran parte si è raggiunta un’esegesi soddisfacente — idionimo e patronimico del dedicante (entrambi con uscita ellenizzante) seguiti dalla divinità destinataria della dedica (la dea [preposta alla sfera cultuale] femminile, h™ &eo`w h™ gynaikei´a in versione propriamente greca)11 — rimane da precisare il significato degli epicori pensklen (acc. sg., retto da) aupave (preter. 3a sg.). 8. Ribadendo in sostanza quanto asserito a p. 215: «[...] colpi di scalpello che interessano particolarmente la prima lettera da sinistra della quarta linea [...]: essi sono stati assestati dopo l’incisione della nuova iscrizione [Indimostrato! Cf. supra, sub 1 (M. P.)] e parrebbero un tentativo, piuttosto mal riuscito, di cancellatura». Peraltro, di segno (impropriamente inteso come «O») «assai danneggiato a destra [?!] dai colpi di un oggetto contundente» parlava a sua volta RIBEZZO 1934, p. 111. 9. Con contestuale assicurazione di p (cf. parimenti FERRANDINI TROISI 1992, p. 112 n. 2), a piú riprese dichiarato incerto (piuttosto, mal letto: vd. supra sub 4). 10. Chiaramente distinguibili anche sulla foto di JATTA 1908, p. 86 fig. 1. 11. ARENA 1969, pp. 438-439; 1972, p. 217; 1994, p. 2c. Sull’equiparazione del teonimo al lat. Bona Dea cf. ID., 1969, p. 439; 1972, pp. 214-216; 1994, pp. 2b, 3b / 1999. Spetta invece a DE SIMONE (1964, pp. 45, 47, 113) — come evidenziato pure da ARENA 1969, p. 438 / 1994, p. 2b — il riconoscimento del valore e¯ (monottongazione di ei) del segno indigeno H.
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A titolo di mera cronistoria si possono menzionare per il primo la vecchia proposta12 ‘sacellum’ (motivata dall’associazione a o. pestlúm [e varr.], in passato interpretato come ‘templum’, invero di senso indeterminato13), ricusata da Arena (1972, p. 218) per un preteso rapporto con la radice *pend- di lat. pendo¯ / pondus ‘peso’, «che in area italica [...] ritorna tra l’altro nel messapico argorapandes [‘*argento-pondius’]»: «l’oggetto in sé può costituire un donativo di una certa consistenza», «un’offerta alla divinità», da intendersi «non più come targa affissa al dono vero e proprio, bensì come dono in se stesso», un «pane di bronzo14 [che] aveva, come si può presumere, valore monetale» (ibid., pp. 216 / 218); «successivamente mi sono chiesto» — prosegue Arena nel suo incomprovabile tentativo ermeneutico — «se pensklen, che suppongo continui un originario *pensiklom, non lo si ritrovi nel lat. pensiculo [‘soppeso, pondero’] attestato da autori del II secolo d.C. Non escluderei pertanto che con questo termine si indicasse il peso stesso» (1999)15. Quanto al verbo, il ventaglio d’ipotesi muoveva da un generico ‘fare, preparare’ a un piú specifico ‘costruire, erigere’ e sim.16 (sulla scorta del collegamento con la radice *o¯ p[*h3ep- ‘herstellen’: LIV2, pp. 298-299] di o. oypsenw, u(u)psens, ecc.), per «assumere, così come lat. operor, anche una particolare sfumatura religiosa» (Arena 1972, p. 218), sino a giungere a ‘battere, martellare’: soluzione, quest’ultima, affacciata nuovamente da Arena (1994, p. 3a / 1999) sul fondamento dell’incongruente riesumazione della falsa decodificazione «dupave» (vd. supra ad 4) — «un’altra forma greca in veste «barbara»?» (1999) — derivante dall’accostamento all’assonante (denominativo) gr. typo´v ‘imprimo’ a fianco di *typa´v ‘colpisco’: da ciò emergerebbe che l’autore del testo, «artigiano esperto nell’arte di battere il bronzo[,] dichiara di aver battuto [...] il blocchetto di bronzo [cf. supra, ad 1] su cui risulta l’incisione» (1999; ≅ 1994, p. 3a)! A ben comprendere, invece, il recupero della lectio aupave (verosimilmente con au- = ao-, contratto o-, in alfabeto messapico stricto sensu17) non dovrebbe spostare troppo la realtà semantica – fermo restando l’intendimento votivo – della voce dalla sfera appunto del ‘fare / dedicare’ e affini, qualsivoglia cosa pensklen índichi in concreto (e. g. la lamina medesima) o in astratto (‘offerta / consacrazione / ricordo / devozione’, ecc.). BIBLIOGRAFIA ARENA R. 1969: «Di un complesso mitico greco e dei suoi riflessi in area italica», in: La Parola del Passato 24/129 (1969), pp. 437-461 (pp. 437-439: «Formula greca in iscrizione dauna?»). [Cf. anche sub 1994 / 1999] ARENA R. 1972: [Intervento], in: Le genti non greche della Magna Grecia – Atti dell’undicesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia. Taranto, 10-15 ottobre 1971 (Napoli 1972), pp. 213-218. [Cf. anche sub 1994 / 1999] ARENA R. 1994 / 1999: «Da [recte: Di] un culto greco a Ruvo», in: Il Rubastino 19/2, Luglio 1994, pp. 2-3. La seconda metà circa dell’articolo è ripresentata, in forma rima12. Per non rievocare l’originaria: ‘opera, lavoro’ e sim. (CECI 1908, pp. 88 / 89). 13. E probabilmente disgiunto da u. persklum (e varr.) ‘preghiera’: cf. (con rinvii) UNTERMANN 2000, pp. 548-549, 540. 14. Cosí analogamente in 1994, pp. 2a principio, 3a in basso. 15. Cf. altresí 1994, p. 3a: «Il significato del blocchetto di bronzo con iscrizione all’interno del santuario della dea feminea resta incerto: più che di un’offerta penserei trattarsi di un peso norma su cui adeguare gli altri pesi di uso, per così dire, profano». 16. Da cassare, comunque, l’ascrizione ad Arena da parte di FERRANDINI TROISI 1992, p. 112, della resa «pose un sacello». 17. Cf., i. a., klauhi ‘audi!’ (Grotta della Poesia, iscriz. 2 rr. 1/3, 3 r.1) a petto di klaohi (ibid., iscriz. 6 rr. 1/3 e altrove accanto a) klohi (cf. DE SIMONE 1988, pp. 329, 337 ad II e passim; PARLANGÈLI 1960, p. 323); o ancora, la grafia Ay∫zantinow vs. aozen, ozan, troncamento dell’antico nome di Ugento o dell’etnico (PARLANGÈLI 1960, pp. 261-262).
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neggiata, alla p. 108 del trittico di lavori — gli altri due riproducono le trattazioni del 1969 («Formula greca in iscrizione dauna?», pp. 437-439) e del 1972 — intitolato «La &eo`w gynaikei´a», in: Scritti filologici e linguistici (Milano 1999), rispettivamente pp. 101-103 / 103-108 / 109 fig. 1. CECI L. 1908: [«Intorno all’iscrizione messapica – Lettura e interpretazione»: ad JATTA 1908], in: Atti della R[eale] Accademia dei Lincei, Serie V/5 – Notizie degli Scavi di Antichità (1908), pp. 88-89. DE SIMONE C. 1964 Die messapischen Inschriften und ihre Chronologie, in: H. KRAHE, Die Sprache der Illyrier, II (Wiesbaden 1964), pp. 1-151. DE SIMONE C. 1988: «Iscrizioni messapiche della Grotta della Poesia (Melendugno, Lecce)», in: Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa 18 (1988) [1989], pp. 325-415. FERRANDINI TROISI F. 1992: Epigrafi «mobili» del Museo Archeologico di Bari (Bari 1992). JATTA A. 1908: «REGIONE II (APULIA) – VII. RUVO — Iscrizione messapica», in: Atti della R[eale] Accademia dei Lincei, Serie V/5 – Notizie degli Scavi di Antichità (1908), pp. 86-87. LIV2 = Lexikon der indogermanischen Verben2, a cura di H. RIX et all. (Wiesbaden 2001). PARLANGÈLI O. 1960: Studi messapici (Milano 1960). RIBEZZO F. 1934: «Note e aggiunte ai tre volumi di Conway, Whatmough, Johnson [, Prae-Italic Dialects of Italy]», in: Rivista Indo-Greco-Italica 18 (1934), pp. 103-114. UNTERMANN J. 2000: Wörterbuch des Oskisch-Umbrischen (Heidelberg 2000).
¯ MO ¯ N E VE¯ LA ¯ BRUM) DUE IDRONIMI «SABINI» IN ROMA ARCAICA (RU DOMENICO SILVESTRI 1. Ru¯ mo¯ n L’idronimo, in quanto designazione concorrente del Tevere, è attestato due volte nel commento di Servio all’Eneide: VIII,63 stringentem ripas]radentem, inminuentem: nam hoc est Tiberini fluminis proprium, adeo ut ab antiquis Rumon dictus sit, quasi ripas ruminans et exedens VIII, 90 nam ut supra diximus, Rumon dictus est: unde et ficus ruminalis, ad quam eiecti sunt Remus et Romulus Sia la prima sia la seconda testimonianza (di altre non disponiamo) vanno accolte con le dovute cautele, proprio perché entrambe viziate da un palese tentativo di agnizione etimologica, nella prima svolto in senso retrospettivo (quasi ripas ruminans et exedens), nella seconda condotto invece in senso prospettivo (unde et ficus ruminalis) con le ovvie ulteriori implicazioni eziologiche riguardanti Romolo e Remo. Questa riserva tocca anche l’ipotesi emessa in tempi moderni che con il nome in questione si volessero sottolineare le qualità attribuite al fiume di «Nutritore» (degli onnipresenti gemelli, appunto). L’altra ipotesi, anch’essa moderna, di una connessione a quota indeuropea con una radice dal valore generale di «scorrere, fluire», merita invece maggiore attenzione, sia per una sua indubbia plausibilità sul piano referenziale sia per certe sue apprezzabili implicazioni circa un accertato plurilinguismo (Latini, Etruschi, Sabini) nella protostoria linguistica di Roma, su cui torneremo più avanti1. Per quello che ne so, non è stato invece finora sottolineato e pienamente sfruttato, ai fini di una più sottile agnizione culturale, l’assetto morfologico di questo nome. Accanto alla parte radicale residuale (Ru-, con fonetica non latina, da i.e. *sreu-, a sua volta analizzabile, come si è visto, a quota protoindeuropea), va infatti apprezzata la presenza del suffisso -mon con grado apofonico forte rispetto all’altra possibilità (del grado medio o ridotto, appunto2) presente invece - e l’esempio non è casuale!- in lat. flu¯ men3. Possiamo constatare infatti che sia il nucleo designativo di base (*sreu-) sia l’espansione affissale (*-mon) presentano condizioni morfologiche, in particolare apofoniche, che sono congruenti con altre istanze di significazione lessicale della stessa sfera istituzionale (quella del «sacro», appunto). Valga, a puro titolo di esempio, l’indubbio parallelismo formale tra la sequenza morfemica *sr-eu del nucleo designativo di base di Rumon e la sequenza morfemica *di-eu del nucleo designativo di 1. La radice viene normalmente citata sotto la forma *sreu-, che in realtà rappresenta un ampliamento tematico con originaria radice *ser- che si presenta al grado zero (*sr-) e conseguentemente con suffisso al grado pieno (*-eu) secondo i noti schemi benvenistiani. Per la documentazione canonica si rinvia a J. POKORNY, IEW, s.v. ser- «strömen, sich rasch und heftig bewegen» e s.v. sreu- «fliessen». 2. In realtà ridotto, come mostra il confronto stringente con analoghe istanze di significazione lessicale caratteristiche del greco antico (cfr. specialmente gr. r™ey^ma < *sreu-mn-, che sembra avvalorare l’ipotesi della persistenza anche in latino del grado ridotto nel suffisso). 3. Nel dizionario etimologico del latino di Ernout e Meillet è sintomatica l’esitazione nel separare tutta la famiglia di fluo¯ e, in particolare, flu¯ men dai derivati di *sreu-. A nostro avviso tuttavia l’invocata omofonia con il gruppo di fruor (ma fru¯ men è in ogni caso termine tecnico e raro) non spiega tutto: se è vero che sr- in latino dà fr- (cfr. frı¯gus rispetto a gr. r™^igow), è altrettanto vero che l’assetto morfologico di flu¯ men ne fa la significazione complementare di Rumon (v. avanti, nel testo).
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DOMENICO SILVESTRI
base di gr. Zey´w ( -ii- wird, wie gesagt, nur durch die übliche etymologische Herleitung von quoius und eius gestützt13. Überall, wo sonst i vor Vokal an s antritt, wird dies, wie im Lateinischen regelmässig hinter allen Konsonanten, zu vokalischem i und das s wird zu r: in dem soeben erwähnten Valerius, wie auch in haurio, fe¯ riae (osk. fı¯sia¯ -), nefa¯ rius, periu¯ rius usw. und im Suffix -a¯ rius (osk. -a¯ sio-)14. Beiläufig angemerkt sei, dass man auch für die zwei anderen Ausnahmen von der eben genannten Regel, maior und peior aus *mag-io¯ s- und ped-io¯ s-, nach alternativen Erklärungen gesucht hat: maior als *mag-io¯ s- zu der in osk. mais, got. mais, ahd. me¯ r enthaltenen Wurzel *mai-15 und peior als *pei-io¯ s- zur Wurzel *peie-16 in ai. piyati ‘schmäht’, got. fijan ‘hassen’17; als einziges Beispiel bleibt aio ‘ich spreche’ < *ag- o i ¯ übrig, dem die Nominalableitung Aius, aber auch prodigium und adagio zur Seite stehen. Wenn es sich um einen lautgesetzlichen Wandel handeln würde18, müsste ermittelt werden, warum sich fugio, mu¯ gio, sa¯ gio und vagio anders verhalten. Man kann lat. quoius statt mit ai. kásya auch mit dem griechischen Pronominaladjektiv poi^ow, -a, -on in Verbindung bringen und wie dieses auf *quo-i-io-s zurückführen19, also auf den Pronominalstamm *quo-, ein ‘deiktisches’ i oder ¯ı (wie im lat. N.Sg. und Pl.m. quı¯ < quo + i) und dem Adjektivsuffix -io-20, das hier wie in patrius, re¯ gius oder in den römischen Gentilnamen possessive Bedeutung hat (patria potestas, domus regia, via Aemilia, lex Iulia), woraus sich ‘wem gehörig’ als etymologische Bedeutung ergibt. Zu klären bleibt die abweichende Bedeutung des griechischen Worts21: vielleicht darf man an eine sekundäre Einengung der erfragten Objekte denken, also nicht schlechthin ‘wem gehörig’, sondern ‘welcher Klasse, welchem Typ, welcher Art und Weise zugehörend’, vielleicht zeigen lateinische univerbierte Folgen wie cuiusmodı¯, istı¯modı¯ (zur Form s. weiter unten), wie eine solche Spezialisierung sich angebahnt haben könnte. Daraus kann sich dann, zusammenfassend und vereinfachend, für *quoiios > poi^ow die Bedeutung ‘wie geartet, wie beschaffen’ ergeben22. 12. Als Beleg hierfür wird Titoio, einzige Aufschrift eines Gefässes aus Ardea (CIL I2 552 = Ve. 364a), datierbar in das 3. Jhdt. v. Chr. angesehen: LEUMANN 1977, 412, MEISER 1998, 117 (andere Erklärungsversuche bei Ve. 332 [ad tit.], DE SIMONE 1969, 262 [N.Sg. Titoio(s)]; vgl. auch BLÜMEL 1972, 134). Noch unwahrscheinlicher ist die Deutung von Taseio (CIL I2 555 = Ve. 366h) als G.Sg. (so RISCH 1986/92, 18); in der gleichen Inschrift steht der N.Sg. Taseos (ohne i !), also sicher richtiger Vetter (ad tit. = 1953, 337): adjektivisches Patronymikon im N.Sg. Nicht hierher gehört Mettioeo Fufetioeo, Ennius Ann.126, das gut in die Homerimitation dieses Dichters passt, zumal es eine typisch homerische metrische Figur widerspiegelt: SOMMER 1914, 340, DEVINE 1970, 12-14, LEUMANN 1977, 425 (anders z.B. RISCH 1986/92, 18 Anm. 29, KLINGENSCHMITT 1986/92, 98, MEISER 1998, 133: ererbte lateinische Form). 13. Angeführt wird noch (zuletzt von MEISER 1998, 117) der mensis Maius, der im Oskischen Maesius heisst (P. ex F. u 121 Li.), aber niemand fragt, unter welchen Bedingungen in der gleichen Sprache *qosi o- zu poiio- geworden und in lat. *mais-i¯o- das postkonsonantische ¯i nicht in î übergegangen ist; Maesius kann eine vom Lateinischen unabhängige Ableitung von osk. mais ‘mehr’ sein (Bibl. in WOU 443). 14. Vgl. dazu DEVINE 1970, 98f., BLÜMEL 1972, 135. 15. MEILLET 1926, 232f. 16. In LIV 415 als *peh1i - oder *pih1- angesetzt. 17. AUFRECHT 1854, 202, SCHULZE 1885, 426. 18. Vielleicht ist von Belang, dass aio, ais, ait, ain’ nur in der ‘niederen’ Umgangssprache verwendet werden. 19. BUCK 1892, 150, SOLMSEN 1911, 177 Anm.2, MULLER 1926, 376. Merkwürdigerweise wird W. SCHULZES (1904, 435 Anm. 3) komplizierte und lautlich schwer durchführbare Verknüpfung von gr. poi^ow mit got. hyaiwa ‘wie’ und ai. eva‘Gang’, ahd. e- wa ‘Gesetz’ von Wackernagel 1912/13, 269, WH, Leumann 1963, 290 und anderen widerspruchslos akzeptiert und als Argument gegen den Vergleich mit lat. quoius geltend gemacht. Für andere Versuche zu gr. poi^ow, toi^ow s. Frisk II 908. 20. So oder ähnlich AUFRECHT 1852, 232f., SOLMSEN 1911, 177 Anm. 2, MULLER 1926, 376. 21. Hierin sieht Leumann den entscheidenden Einwand gegen diese etymologische Verknüpfung. 22. LEJEUNE 1968, 122, geht - umgekehrt - von einer Bedeutung ‘wie beschaffen’ aus, die im Lateinischen durch die
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Die etymologische Kontroverse ist verflochten mit der Frage, ob es wahrscheinlicher ist, dass eine pronominale Genitivform wie das erwähnte *quosio mit zusätzlichem Genitivkennzeichen -s mit der Bedeutung ‘wessen’ zum Ausgangspunkt eines Adjektivs wird, indem man -os zur Endung des N.Sg.m. umfunktioniert, oder dass der N.Sg.m. eines Adjektivs mit der Bedeutung ‘der wem gehörende’ aus dem Paradigma ausscheidet und als genus-unabhängiger Ausdruck für den G.Sg. in die Paradigmen der Fragepronomina quis und quo-/qua¯ eingegliedert wird. Beide Alternativen sind in der bisherigen Forschung als ‘einzig möglich’ deklariert worden23. Beachtenswert ist jedenfalls der Hinweis24 auf das Personalpronomen, in dem in einigen Sprachen die Genitivformen aus dem Paradigma des Possessivpronomens übernommen wurden, im Lateinischen in der Form des maskulinen Genitivs, mei, tui, nostrum, vostrum, der im Paradigma des Personalpronomens genus-indifferent wird. Die Mechanismen des ‘Erstarrens’ der Kasusform eines Paradigmas zum Bestandteil eines anderen Paradigmas sind in jedem Fall ungeklärt und wohl zu verschiedenartig denkbar, als dass sich die Suche nach einer eindeutigen Hypothese lohnen würde25, Dass ein solcher Vorgang möglich ist, wird jedenfalls durch die erwähnten Formen des Personalpronomens deutlich. Im Lateinischen kommt die Frage hinzu, wie man sich die Ausdehnung der Genitivform des Fragepronomens auf die gesamte Pronominalflexion vorzustellen hat. Zunächst ist daran zu erinnern, dass das Interrogativum dadurch eine zentrale Stellung in der Syntax und Semantik der Pronomina einnimmt, dass es als solches oder wenn es, wie im Lateinischen, als Relativpronomen verwendet wird, in mannigfachen korrelativen Aussagen verwendet werden kann, - ‘wer ..., der’, ‘das ..., was’, ‘dieser ..., welcher’, ‘jenes ..., welches’ -, wodurch sich günstige syntaktische Voraussetzungen für eine wechselseitige Angleichung der Kasusmorphe ergeben haben können. Im speziellen Fall von lat. quoius ist noch einmal auf gr. poi^ow zurückzukommen, dem ein korrelierendes toi^ow ‘so beschaffen’ gegenübersteht. Dessen genaue Ensprechung könnte sich im Lateinischen in istius < *is-toiios (entsprechend im Dativ *is-toiiei) verbergen. Noch ist freilich nicht endgültig klar, wie sich im Lateinischen der Diphthong oi in nebentoniger Stellung verhält: analog zu ai sollte man die Abschwächung zu ei > ¯ı erwarten. Dagegen sprechen zwar communis und impu¯ nis, die aber beide dem Verdacht ausgesetzt sind, u¯ < oi der vollbetonten Form in das Kompositum übernommen zu haben26. Ein aus *is-toiios entstandenes istı¯us wäre dann das Vorbild für die strukturähnlichen Pronomina illı¯us, ipsı¯us geworden, ebenso wie *quoios, quoius, cuius die Entstehung von *hoios, huius veranlasst haben könnte. Offen bleibt, welches Muster in *eiios, eius zur Wirkung gekommen ist. Die u.a. bei Cato belegten Zusammenrückungen illimodi, aliimodi, wahrscheinlich mit langem ¯ı an zweit- und drittletzter Stelle, können den noch nicht von istı¯us beeinflussten nominalen Genitivausgang zeigen (der dann umgekehrt auch von dem formelhaften istı¯modı¯ übernommen wird); dies wird zwar bezweifelt27, da gleiche Formen auch mit dem Femininum verbunden werden (istı¯ formae, to¯ tı¯ familiae, aliı¯ reı¯). Indessen kann aber auch hier ein ‘Erstarrungs’-Vorgang in Betracht gezogen werden, wenn man nicht sogar noch mit der fossilisierten Bewahrung des indogermanischen Zugehörigkeitssuffixes rechnen will, das sowohl im lateinischen und keltischen Genitiv der -o-Deklination, als Konkurrenz von qualis zurückgedrängt worden sei; -io- ist aber primär ein Suffix, das Zugehörigkeit zum Ausdruck bringt und keine Bedeutungskomponente ‘welcher Art’ aufweist. 23. Genitivform primär: z.B. WACKERNAGEL 1912/13, 269, SOMMER 1914, 443, SZEMERÉNYI 1944, 208, LEUMANN 1977, 477; Adjektiv primär: AUFRECHT 1852, 232f., BRUGMANN 1911, 330. 24. BÜCHELER 1884, 105, BUCK 1892, 151, BRUGMANN 1911, 330; weiteres bei DEVINE 1970, 100f. 25. Unzureichend scheint mir jedenfalls Wackernagels Argument (1912/13, 269), es sei nicht einzusehen, warum aus Folgen wie quoius grex - quoia vox - quoium pecus die maskuline Form ausgewählt worden sei; die ‘Erstarrung’ muss nicht im Bereich der adjektivischen Bedeutung (quoius, -a, -um = qui, quae, quod) stattgefunden haben, sondern kann in einer optionalen Verwendung von quoius im Sinne von quis gesucht werden. 26. Vgl. dazu MEISER 1998, 70f. 27. SOMMER 1914, 444.
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auch in dem allbekannten Motionssuffix (im Lateinischen verbaut in re¯ gı¯na, gallina und im Typ victrix, victricis) greifbar wird28. u os Bewährt sich die hier wieder neu befürwortete Vergleichbarkeit von italisch *qoii und gr. poi^ow, dann entfällt für das Lateinische erstens eine Sonderentwicklung der Folge -si- + Vokal zu -ii - + Vokal: i vor Vokal wird dann auch hinter s, wie hinter allen Konsonanten, ausnahmslos zu silbischem i; und zweitens entfällt der Widerspruch zwischen einer in uritalischer Zeit aus -osio-, -esio- entstandenen Folge -oiio-, -eiio- in lat. quoius, eius und der viel später bezeugten Genitivendung in faliskisch Kaisiosio, Euotenosio, Anaiosio und lateinisch/latinisch Popliosio Valesiosio. BIBLIOGRAPHIE AGOSTINIANI 1982: LUCIANO AGOSTINIANI. Le ‘iscrizioni parlanti’ dell’Italia antica. Firenze. AUFRECHT 1852: THEODOR AUFRECHT. Das lateinische j im Inlaut. KZ 1, 224- 234. AUFRECHT 1854: THEODOR AUFRECHT. Pejor, pessimus, Feind. KZ 3,200-203. BLÜMEL 1972: WOLFGANG BLÜMEL. Untersuchungen zu Lautsystem und Morphologie des vorklassischen Lateins. München. BONFANTE 1966: GIULIANO BONFANTE. Il valore della lettera z in Falisco. AGI 51,1-25. BRUGMANN 1911: KARL BRUGMANN. Band II,2 in K. Brugmann - B.Delbrück. Grundriss der Vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen. 2.Auflage, Strassburg 1897-1916. BÜCHELER 1884: FRANZ BÜCHELER. Miszellen. ALL 1,102-114. BUCK 1892: CARL DARLING BUCK. Der Vocalismus der oskischen Sprache. Leipzig. DE SIMONE 1967: CARLO DE SIMONE. Rezension von Pisani 1964. IF 74,246-263. DE SIMONE 1980: CARLO DE SIMONE. L’aspetto linguistico. In. C.M.Stibbe u.A. Lapis Satricanus. s’Gravenhage, 71-94. DEVINE 1970: ANDREW MACKAY DEVINE. The Latin thematic genitive singular. Stanford. FRISK HJALMAR FRISK. Griechisches etymologisches Wörterbuch. 2 Bände, Heidelberg 1960-1972. GIACOMELLI 1963: GABRIELLA GIACOMELLI. La lingua falisca. Firenze. HERBIG 1917: GUSTAV HERBIG. Rezension von Sommer 1914. IAnz.37,18-40. KLINGENSCHMITT 1986/92: GERD KLINGENSCHMITT. Die lateinische nominalflexion. In: O. Panagl und T. Krisch (Hsg.) Lateinisch und Indogermanisch. Akten des Kolloquiums der Indogermanischen Gesellschaft (Salzburg 1986). Innsbruck 1992, 89-135. LEJEUNE 1968: MICHEL LEJEUNE. Notes de linguistique italique. XXV - XXVII. REL 46,98-129. LEUMANN 1963: MANU LEUMANN. Lateinische Laut- und Formenlehre. München. LEUMANN 1977: MANU LEUMANN. Lateinische Laut- und Formenlehre. München. LIV: HELMUT RIX (HSG.). Lexikon der indogermanischen Verben. Wiesbaden 1998. MARINETTI 1985: ANNA MARINETTI. Le iscrizioni sudpicene. I. Firenze. MEILLET 1926: ANTOINE MEILLET, Sur des formes supplétives del adjectif signifiant ‘grand’. BSL 27, 232-233. MEISER 1998: GERHARD MEISER. Historische Laut- und Formenlehre des Lateinischen. Darmstadt. MULLER 1926: FREDERIK MULLER JZN. Altitalisches Wörterbuch. Göttingen. 28.
Ausführlich zu diesem Morph zuletzt KLINGENSCHMITT 1986/92, 99-104.
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