Carlo V
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Karl Brandi

Carlo V Introduzione di Federico Chabod Con un saggio di Wolfgang Reinhard

Karl Brandi Carlo V Introduzione di Federico Chabod Con un saggi� Wolfgang Reinhard

Einaudi

Titolo originale Kaiser Kar/ V. F. Bruckmann Verlag, Miinchen 1937 © 1961 e 2001 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Traduzione di Leone Ginzburg ed Ettore Bassan www.einaudi.it ISBN 88-06-15725-6

INDICE

I.:imperatore Carlo V (1500-1558) e Karl Brandi (1868-1946) di Wolfgang Reinhard Introduzione di Federico Chabod

p. XI xxv

Introduzione

3

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Libro primo Dinastia, paesi e regni. Giovinezza dell'imperatore •· 11 13 15 22 29 34 44 51 52 56

61 68 78

1.

Il duca di Borgogna I Paesi Bassi e la Borgogna La cultura di corte Maria di Borgogna e Massimiliano Filippo il Bello e Giovanna di Castiglia Nascita di Carlo (1500) L'arciduchessa Margherita Inizi del governo di Carlo Chièvres (1515)

11. Re di Castiglia e d'Aragona I reami spagnoli Dalla morte d'Isabella (1504) alla morte di Ferdinando (1516) Il cardinal Jiménez Reggenze e politica europea Il ·trattato di Noyon (1516) Carlo in Spagna Riunioni delle Cortés (1517-18) Politica spagnola o politica universale?

Indice

VI p. 83

84 87 102 106 111

121 122 129 136 141 147 152 156

m. Arciduca d'Austria e imperatore romano germanico Massimiliano I I paesi ereditari e l'Impero La successione imperiale (1519) Nuovo raggruppamento delle potenze Convegni regali sulla Manica (1520) Acquisto del Wiirttemberg Incoronazione ad Aquisgrana La Germania e Lutero La Dieta imperiale di Worms (1521) IV. L'idea ereditaria e l'Impero universale Spartizione dell'eredità con Ferdinando Maria in Ungheria Isabella in Danimarca Ascesa e rovina dei « Comuneros » e della « germanfa » Alleanza di Carlo con Leone X (1521) Primo scontro con Francesco I Negoziati di Wolsey a Calais e a Bruges (1521) Elezione di Adriano VI (1522) Ritorno di Carlo in Spagna Le Nuove Indie La circumnavigazione di Magellan� Fernando Cortéz nel Messico

Libro secondo Conservazione della potenza ereditata. Anni di sviluppo 169 170 172 183 189 197

v. L'Impero, gli stati europei e la lotta politica in Italia L'arte militare Gli Stati e il governo dell'Impero Lotte sociali I disordini danesi Carlo V in Spagna Adriano VI e l'Italia (1523) L'avventura di Carlo di Borbone Educazione politica dell'imperatore Papa Oemente VII

Indice La Provenza e Milano Riflessioni di Carlo prima della battaglia di Pavia. ( 1525) La via fatale verso il trattato di Madrid La tentazione del marchese di Pescara

p. 205

210 225

VI. Impero e Papato ( 1526-1530) Isabella Violazione del trattato di Madrid da parte del re di Francia Nuova battuta d'inizio in Italia Dieta di Spira (1526) Ferdinando in Boemia e in Ungheria Il papa sotto accusa Il sacco di Roma (1527) Viaggio e consigli di Gattinara Pubblicistica spagnola Dichiarazioni di guerra dell'Inghilterra e della Francia Lotta per Milano e Napoli (1528) La conclusione delle paci di Barcellona e di Cambrai L'imperatore in Italia Sua incoronazione a Bologna

226 227

233 237 242 252

264

272

282

283 293

306 314

318 323 325

332

341 347 355

361

372

VII

VII.

I protestanti tedeschi Lo stato tedesco, la Riforma e la formazione confessionale La Dieta di Augusta del 1530 Successi e preoccupazioni della Casa d'Absburgo Pace religiosa e lotta contro i Turchi Progressi del protestantesimo La perdita del Wiirttemberg

vm. La politica mondiale Indie occidentali. Venezuela. Peru Idee direttive Il mondo intorno al Mare del Nord Il Mediterraneo, l'Asia e l'Africa La Turchia e la Francia Tunisi, la Sicilia e Napoli A Roma, dinanzi al papa e ai cardinali Armistizio Nizza e Aigues-Mortes

Indice

VIII

Libro terzo La lotta per la Germania. Maturità e vecchiaia di Carlo p. 385

IX.

I negoziati con gli Stati tedeschi La missione di Held (1.537) Progetti avventurosi in Germania, in Inghilterra e contro Turchi Accordo di Francoforte Prima reggenza di Filippo in Spagna Il viaggio di Carlo V attraverso la Francia L'imperatore a Gand Tramonto dell'amicizia con la Francia I colloqui religiosi del 1540 e il caso del langravio d'Assia Ratisbona ( 1.541) La spedizione di Algeri

388 400 412 417 427 436 445 450

X.

464 468

475 486 493 498

506 517 526

.536 542

5.50

Il grande piano del 1543 La Spagna e le finanze imperiali L'imperatore, il papa, la Francia e i Turchi L'inizio della guerra con Kleve e la Francia Tempesta sui Paesi Bassi La seconda reggenza del principe Filippo in Spagna Il testamento politico del 1543 Busseto e Norimberga Il trionfo su Kleve Landrecies e Cambrai Il papa e l'imperatore La Dieta di Spira { 1544) Campagna della Marna e pace di Crépy

452

459

515

Fallimento del compromesso

Xl.

La guerra di Smalcalda, l'Impero e il concilio Guerra ai protestanti, Dieta o concilio? Preparativi religiosi e profani Ratisbona, 1546 La campagna del Danubio L'imperatore vittorioso La guerra nella Sassonia elettorale Attriti con la Curia

Indice Miihlberg, Wittenberg, Halle (1547) La costituzione dell'Impero e i Paesi Bassi La disputa sul concilio e l'« interim » imperiale La dinastia e il testamento politico del 1548

p. 561 568

577

582

XII.

Le delusioni e la morte

616 623 632

Il principe Filippo e la successione spagnola Segni di temporale L'Interim e il concilio La lega dei principi ed Enrico II di Francia Linz e Passau Maurizio, Ferdinando e l'imperatore L'imperatore a Metz Il distacco dall'Impero L'abdicazione di Carlo V e il suo ritorno in Spagna San Jeronimo de Yuste

641

Indice dei nomi

584

594

600 608

IX

L'Imperatore Carlo V (1500-1558) e Karl Brandi (1868-1946)*

Alla domanda degli studenti «Che cosa dovrei leggere sull'Imperato­ re Carlo V all'inizio del Terzo Millennio?» ho potuto rispondere in tutta coscienza: «La biografia di Karl Brandi», per quanto sull'Imperatore in verità siano usciti, e continuano uscire, numerosi studi piu recenti. Di contro, l'opera di Brandi fu pubblicata per la prima volta nel 193 7, e nel frattempo ha avuto sei successive edizioni in lingua tedesca, ed è stata tra­ dotta in francese, inglese, spagnolo, olandese e italiano. Anche nella ri­ cerca, di norma si reputa a priori che il nuovo sia anche il migliore. Nel caso della biografia di Brandi su Carlo V, vi sono però due motivi per fa­ re un'eccezione alla regola. Da un lato, il lavoro di Brandi è e rimane un capolavoro sotto numerosi aspetti, saldamente costruito dal punto di vi­ sta della ricerca storica, contraddistinto da una splendida narrazione e opera di un autore che partecipava forse anche nello spirito di un'affinità con l'Imperatore. Dall'altro, con Carlo V ci troviamo di fronte un mate­ riale oltremodo ostico. Difatti, la mole di fonti, costituita da centinaia di migliaia di documenti e a tutt'oggi rielaborata solo in parte, ci fornisce di volta in volta una cognizione della volontà e della negoziazione politica dell'Imperatore e dei suoi collaboratori, ma ci lascia riconoscere solo in modo indiretto, ammesso che ciò sia possibile, chi fosse la persona di Carlo V e quale il suo mondo interiore. In tale senso, questo sovrano ri­ mane inaccessibile, come già con i suoi contemporanei, non permetten­ do nemmeno a noi di avvicinarlo. È per questo motivo che dal 193 7 ad oggi la ricerca è sicuramente • Traduzione di Giovanna Turrini.

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L'imperatore Carlo V e Karl Brandi

stata in grado di produrre risultati isolati di diverso genere, ma non è riuscita a modificare il quadro complessivo, limitandosi a porre un'enfa­ si nuova su singoli aspetti. Come hanno fatto, innanzi tutto, gli storici francesi, cosi anche Heinrich Lutz nel 1964 ha sottolineato, di contro al­ la concezione piu armonizzante presentata da Brandi, la valenza fonda­ mentale del perenne conflitto di Carlo V con i Valois. Che Carlo, duca di Borgogna, di madrelingua francese, si ostinasse cosi a lungo nella vo­ lontà di riguadagnare la Bourgogne, il paese d'origine, per Francesco I era altrettanto inaccettabile come lo era la cacciata dei francesi dall'Ita­ lia in base al progetto del suo Gran Cancelliere piemontese Mercurino Gattinara, progetto solo moderatamente mitigato dal senso per la soli­ darietà monarchica che animava Carlo e di cui si era a conoscenza, già dal 1915, grazie ai lavori di Carlo Bornate. L'Italia, sin dal 1494, era stata tea­ tro di conflitti tra i predecessori di Carlo e i francesi. Ora la penisola ita­ liana sarebbe dovuta diventare il fulcro di una monarchia universale a livello europeo con a capo Carlo V. La reggenza imperiale, già da tempo ridotta a vuoto titolo onorifico del re tedesco, per mezz0-01Carlo, al qua­ le in un primo tempo, piu che la Germania, interessava la corona d'Im­ peratore, avrebbe dovuto legittimare per l'ultima volta un'aspirazione universale. Tuttavia, tale idea dell'Impero era anacronistica non in quan­ to «medioevale» (Peter Rassow 1932), ma piuttosto perché, per motivi geopolitici, i domini universali in Europa non avevano mai potuto im­ porsi a lungo termine, nemmeno in seguito con Napoleone o con Hitler. In luogo di tale idea, si sarebbe via via affermata, sul modello italiano del xv secolo, la politica dell'equilibrio degli Stati moderni che andava­ no formandosi. Contro la Francia e il Papato (a detta di Paolo Prodi, a quel tempo, vero antesignano di una gestione statale moderna), contro le corporazioni createsi nei suoi paesi, soprattutto in Germania, dove non si trattava assolutamente solo degli Stati protestanti, quanto anche della cattolica Baviera, la monarchia universale di Carlo non aveva alcuna chance. Fu, quindi, il giocoforza della necessità storica a far nascere, dal1'esperimento di universalità di Carlo, le soluzioni «nazionali» dell'Im­ pero spagnolo di Filippo II e della reggenza imperiale, oramai esclusiva­ mente tedesca, di Ferdinando I. L'Italia non divenne, però, il fulcro di

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una monarchia universale, ma un paese satellite della Spagna. La politi­ ca di Carlo non aveva regalato alla penisola soltanto ulteriori guerre e il Sacco di Roma, ma aveva anche gettato le basi per duecento anni di ege­ monia spagnola su un sistema relativamente stabile di Stati di media im­ portanza. Napoli e la Toscana a loro volta, come anche Milano, gli devo­ no la propria progressiva stabilizzazione, e proprio da qui, a partire dal 1934, presero avvio gli studi di Federico Chabod su Carlo V. Come è noto, a livello storico, l'Europa delle Nazioni ha prodotto le corrispondenti storiografie nazionali, le quali, incontrando difficoltà nel1'affrontare l'universalismo di Carlo, reclamano per sé l'Imperatore per fini limitati alla storia del proprio paese. I primi a rendere giustizia alla di­ mensione europeo-universalistica della politica imperiale furono i pro­ tagonisti dell'equilibrio europeo di scuola anglosassone, a partire, nel 1769, da William Robertson, poiché l'Inghilterra era stata toccata solo in­ direttamente dalla politica di Carlo. Nel 1958, l'americano Royall Tyler offrì il proprio contributo basato sulle sue esperienze idealizzate della diplomazia europea, a Versailles e alla Società delle Nazioni; il belga Charles Terlinden non esitò a fare di Carlo V il precursore dell'idea eu­ ropea. A questo riguardo, nella tradizione aperta da Ranke, i tedeschi lo videro, piuttosto, come colui che aveva dominato la Riforma, vale a dire, si concentrarono sulla storia del proprio paese, mentre gli austriaci guar­ darono, più che a lui, a suo fratello Ferdinando I, quale fondatore della monarchia absburgica. D'altro canto, le interpretazioni provenienti dal­ l'Europa meridionale tralasciarono la dimensione mitteleuropea e la Riforma, mettendo in luce piuttosto la politica in ambito ottomano e me­ diterraneo. Gli storici spagnoli ne crearono una vera e propria interpre­ tazione nazionale incentrata sulla storia della penisola iberica, peraltro assolutamente giustificata, ma non perché Carlo V durante la sua lunga permanenza in Spagna, dal 1522 al 1529, fosse diventato in tutto e per tutto spagnolo, come talvolta si è potuto leggere, bensf perché la Castiglia era l'unico dei suoi possedimenti in cui gli fosse possibile, per le condi­ zioni esistenti, contribuire in misura decisiva alla creazione dello Stato moderno attraverso riforme del sistema di governo, come, in effetti, ac­ cadde. Da ciò derivarono e derivano studi importanti, molti dei quali di

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storici spagnoli, che vanno al di là della consueta storia politica, diplo­ matica o bellica. Fra il 1943 e il 1967 Ramon Carande ha pubblicato, in tre volumi, la storia finanziaria della Spagna sotto Carlo V, e sono tutto­ ra in corso le ricerche diJosé Martinez Millan relative alla corte e al per­ sonale dell'Imperatore. In verità, esistono diverse sfaccettature di tale interpretazione. Contro Ramon Menéndez Pidal, il quale, a partire dal 1941, celebrò l'Impero di Carlo quale fondamento per il credito di cui godette la Spagna in tutto il mondo, nel 1956 Claudio Sanchez-Albornoz, di orientamento piu liberale, guardò alla sovranità esercitata da Carlo in terra spagnola, similmente a quanto già osservato da alcuni suoi critici contemporanei, come a una sorta di catastrofe nazionale, in quanto ave­ va istituito un legame tra la politica estera, viziata dall'asservimento a obiettivi estranei alla Spagna e la repressione a livello di politica interna. E perfino Manuel Fernandez Alvarez, moderatamente realista, nei suoi lavori del 1966 e del 1975, riguardo a un'interpretazione europea di Car­ lo V, cercò una correlazione storica tra la Spagna del tardo franchismo e l'Occidente cristiano. Come quarta direzione, si potrebbe aggiungere a quelle anglosassone, tedesca e mediterranea, quella storico-ecclesiastica di HubertJedin, il quale, raffigurando Carlo, piuttosto che i papi, quale effettivo autore del Concilio di Trento, mise in primo piano la questione della natura del «cattolicesimo» dell'Imperatore, con la quale si con­ frontò piu tardi Heinrich Lutz e da ultimo Alfred Kohler nel 1999. Non che il tedesco Karl Brandi nel 1937 fosse al di sopra di tenden­ ze nazionali. Tuttavia, in un periodo in cui soprattutto in Germania una tale visione delle cose non risultava particolarmente vantaggiosa, seppe coniugare in modo equilibrato la prospettiva nazionale tedesca e quella europeo-universale. Tale impresa, per quei tempi stupefacente( fu resa possibile non solo dalle qualità umane di Brandi, quanto, e iii misura maggiore, grazie a una padronanza e vicinanza delle fonti che nessun al­ tro biografo di Carlo ha mai dimostrato di avere, nemmeno Fernandez Alvarez con la sua edizione, tra il 1973 e il 1981, delle fonti spagnole in cinque volumi, oppure Chabod con le sue approfondite ricerche storiche sull'amministrazione. Da questo punto di vista, Brandi si guadagna una posizione chiave nella ricerca su Carlo V, da nessuno ancora superata e

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probabilmente impossibile da superare. Pubblicò, infatti, all'età di ses­ santanove anni, la sua biografia dell'Imperatore, frutto di ricerche plu­ riennali dedicate soprattutto al reperimento e all'analisi delle fonti, alle quali avevano contribuito anche colleghi, collaboratori e allievi. Ad esem­ pio, possiamo citare la decifrazione dei ventiquattro scritti segreti di va­ ria natura riguardanti la corrispondenza dell'Imperatore per mano di Franz Stix nel 1936-37, e lo studio fondamentale di Fritz Walser sul Con­ siglio di Stato dell'Imperatore e la formazione delle autorità centrali spa­ gnole, pubblicato nel 1959 in una versione rielaborata da Rainer Wohlfeil, dopo la morte in guerra dell'autore. Fanno parte, quindi, del volume di Brandi, qui di nuovo presentato, i ventiquattro fascicoli che costituiscono i Berichte und Studien zur Geschichte Karls V, dati alle stampe tra il 1930 e il 1941 nelle Nachrichten der Gesellschaft der Wissenscha/ten zu Gottingen. Philosophisch-historische Klasse, come anche un secondo volume di fonti e note, pubblicato nel 1941, Quellen und Erorterungen che, in 430 pagine, indica le fonti e le citazioni, seguendo pagina per pagina la biografia. Carlo V, quale costrutto storiografico, si lascia decostruire solo con difficoltà anche, come nel caso di Brandi, in presenza di un considerevole numero di fonti. Ciò non è da attribuirsi al fatto che i testi delle fonti di­ rette, a differenza delle opere critiche di tipo biografico, siano per prin­ cipio immuni da una decostruzione. Piuttosto, sono le fonti su Carlo V, quali costrutti dell'Imperatore e del tempo a lui coevo, che oppongono un'efficace resistenza a una completa decostruzione. Come già detto, l'i­ naccessibile Imperatore continua a rimanere in certa misura inaccessibi­ le. Carlo non solo aveva permesso alla propria reputazione di svolgere un ruolo di primo piano a livello politico, ma, ancora in vita, si era espres­ samente adoperato per costruire l'immagine storica delle sue gesta, se­ condo quanto egli stesso aveva stabilito. L'incarico ufficiale di redigere le imprese dell'Imperatore venne affidato a uno storiografo di corte, capa­ ce e provato narratore, dotato di materiali scelti ad hoc, richiamato se­ veramente all'ordine, se fosse giunto a soluzioni narrative eleganti e fio­ rite, ma in aperto contrasto con la verità dei fatti. La volontà di auto-rap­ presentazione da parte di Carlo V fu sempre accompagnata dal timore di essere accusato di peccare di vanità. Parimenti sobrie risultano le anno-

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tazioni che egli stesso dettò nel 1550 in lingua francese, durante il viag­ gio sul Reno da Colonia a Spira, concepite evidentemente a uso familia­ re, con l'intento di istituire una tradizione dinastica, e non per essere di­ vulgate. Sono state definite piu che giustamente Commentaires, dato che si tratta di un freddo resoconto dei fatti, in tutto simile al De bello galli­ co di Giulio Cesare, invero come quest'ultimo tutt'altro che obiettivo. Piuttosto, sono pervase da un rigido dualismo: alla disobbedienza, al­ l'infedeltà, all'opposizione dei francesi, dei prìncipi tedeschi, dei papi, delle potenze italiane, degli ottomani, dei sudditi ribelli si contrappone la pura volontà dell'Imperatore, che, capo supremo delle sue «legioni», lot­ ta per il giusto ordine mondiale. Carlo non aveva sete di gloria, ma di autenticità storica, vedendo chiaramente al suo fianco in ogni momento verità e diritto. Filippo II piu avanti ebbe una venerazione del ricordo del padre, ben calcolata dal punto di vista dinastico e da cui proviene la de­ scrizione storica di Prudencio de Sandoval il quale, nel 1603, dotato del­ l'adeguata documentazione, forni un'opera tendenziosa, ma tuttavia so­ lidamente costruita e attendibile. Al di fuori della Spagna, al contrario, Carlo fu presto dimenticato, fin­ ché l'illuminismo francese e inglese lo riscoprirono quale ca-fautore del si­ stema statale europeo. Ciò si addiceva benissimo al progetto di Leopold Ranke. Questo primo Imperatore dell'èra moderna, con le suddette de­ scrizioni corrette dai resoconti degli ambasciatori e soprattutto attraver­ so i rapporti con Venezia, tenuti in alta considerazione da Ranke, si pre­ stava a essere descritto in modo esaustivo nella sua attività politica, di­ plomatica e militare; coniugava grandi ideali e realismo politico, e\a eu­ ropeo e era pio: una figura che conquistò il fondatore della moderna me­ todologia storica, il quale gli innalzò un monumento nelle sue opere sugli ottomani e sulla monarchia spagnola (1827) e nella sua storia della Rifor­ ma (1839-1847). Al rinnovato interesse per atti e edizioni venne incontro la necessità di legittimazione storica da parte dello Stato belga, costituitosi nel 1831, il quale, di conseguenza, apri alla ricerca le porte del suo n'utrito archivio di Bruxelles. Lo stesso Ranke scopri qui e a Vienna le sue fonti piu im­ portanti. Tra il 1844 e il 1846, Karl Lanz curò tre volumi di corrispon-

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denza e nel 1845 un volume di documenti di stato di Carlo V. Nel 1846 Louis Prosper Gachard pubblicò, tra gli altri, un volume di fonti sulla ri­ volta di Gand contro Carlo V e tra il 1854 e il 1855 tre tomi sull'abdica­ zione e gli ultimi anni a Yuste. Seguirono ulteriori edizioni di fonti pro­ venienti da Vienna e dall'archivio centrale spagnolo di Simancas; tra il 1842 e il 1852, furono pubblicati, provenienti da Besançon, i documen­ ti dei due Granvelle, di cui ·si erano già serviti in circostanze determi­ nanti Carlo V e Filippo II. La fungere Reihe dei Deutschen Reichstagsak­ ten, iniziata nel 1893, era dedicata alla storia tedesca all'epoca di Carlo V. Ma l'attenzione era rivolta in primo luogo alla storia della Riforma e an­ che le rimanenti edizioni a malapena riuscirono a stimolare l'interesse per la persona di Carlo V e la sua impresa in sé e per sé. Significativa­ mente, fu Hennann Baumgarten, specialista tedesco di storia spagnola, a pubblicare per la prima volta, fra il 1885 e il 1892, una nuova biografia di Carlo V, relativa principalmente agli aspetti di storia della diplomazia, opera che poté portare a termine solo fino al 1539. Karl Brandi, dal 1902 ordinario a Gottinga, allievo di Baumgarten al­ l'Università e curatore nel 1896 di un'edizione critica della Pace religio­ sa di Augusta e, tra il 1896 e il 1897, di due tomi contenenti atti della metà del XVI secolo, prese cosi la decisione di proseguire il lavoro di Baumgarten, avviando i lavori preliminari nel 1907. A questo proposito si rivelò una prima fortunata coincidenza il fatto che Brandi, apparte­ nente a una famiglia di storici specialisti in Medioevo, possedesse una formazione rigorosissima in tema di analisi critica delle fonti: la sua tesi di dottorato del 1890 verteva sulle contraffazioni dei documenti del mo­ nastero di Reichenau. Da qui per lui la necessità di una ricerca sistema­ tica delle fonti che, non potendo pit'.i limitarsi al reperimento dei docu­ menti chiave, fu tesa a racchiudere in modo programmatico, durante di­ versi viaggi e con l'aiuto di collaboratori, la trasmissione della documen­ tazione nella sua interezza. Per raccogliere gli atti del Gabinetto e la cor­ rispondenza dei prìncipi avviò il recupero di tutti i registri del Gabinet­ to imperiale, esaminando a tal fine prima di tutto la storia degli archivi, nel tentativo di ricostruire le «autorità» preposte all'emissione di atti, in­ dividuando cosi dove si sarebbe potuto trovare cosa.

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Scopri che gli atti della Cancelleria di Gabinetto fino al 1519 si tro­ vavano a Lille, nel vecchio Archivio Contabile della Camera. Dato che Carlo V, quale ultimo «imperatore errante», non aveva una residenza fis­ sa e si trovava, eccetto limitate interruzioni, per la maggior parte in viag­ gio, la sua corte portava costantemente con sé i registri al completo, con il risultato che nel 1541 una parte colò a picco di fronte ali'Algeria. Il pa­ trimonio bibliografico piu importante rimase quindi nel luogo dell'abdi­ cazione di Carlo, a Bruxelles. Nel 1794, fu portato in salvo a Vienna pri­ ma dell'arrivo dei francesi, e venne poi parzialmente suddiviso, dopo un lungo e annoso processo tra Bruxelles e Vienna, tra i beni dei Paesi Bas­ si e quelli dell'Impero. D'altra parte, furono portati a Madrid per gli sto­ riografi di Corte i documenti dell'archivio principale di Simancas, senza poi essere restituiti. Ma durante l'epoca napoleonica una discreta parte proveniente dalla biblioteca di Madrid, come anche da Bruxelles e da Vienna, giunse a Parigi, dove rimase per lungo tempo. A ciò si aggiunse­ ro, tra molti altri, i patrimoni di Barcellona, di Siviglia e di Roma. La cor­ rispondenza politica dell'Imperatore a tutt'oggi esaminata consta alla fi­ ne di circa 130 000 unità, di cui Brandi sostiene di averne rielaborate in­ torno alle 50 000. Secondo i dati ufficiali, tuttavia, ne furono analizzate «solo» 23 000. Inoltre, sarebbero da aggiungere le fonti storiche di natura economica e sociale, quali ad esempio gli atti finanziari, che Brandi ha so­ lo sfiorato. E qui la sua biografia si dimostra indiscutibilmente lacunosa, per quanto non si limiti soltanto ali'ambito politico e diplomatico. Qi un raffronto delle immense riproduzioni dei documenti imperiali consetva­ ti negli innumerevoli archivi nazionali, regionali e locali, interni ed ester­ ni all'Europa, comprensibilmente, non è dato nemmeno parlare, visto che potrebbe venire preso in considerazione solamente caso per caso in studi specialistici. Invero, fu Brandi stesso a sostenere: «Proprio la mole dei materiali ha ricondotto all'essenziale e ali'approfondimento», considerazione asso­ lutamente insolita per uno storico. Ad ogni modo, i suoi contempora­ nei, viste le ricerche di cosi ampio respiro, non contavano piu su un ri­ sultato e furono stupefatti quando, nel 1937, la biografi.a finalmente fu data alle stampe, tanto piu se si considerano le dimensioni relativamen-

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te ridotte di circa 550 pagine: Baumgarten, per arrivare al 1539, aveva avuto bisogno di tre tomi. Si tratta senza dubbio di un concentrato, che dà molto per sottinteso e relativamente esigente nei confronti del lettore. Ma qui si rivelò la seconda fortunata coincidenza. Nella persona di Bran­ di convivevano da un lato forti esigenze di analisi critica delle fonti e grandissima capacità di resistenza nella ricerca archivistica, dall'altro, senso estetico altamente sviluppato, capacità di formulazione a regola d'arte, l'elasticità e l'ottimismo inossidabile di chi nella vita conosce l'ar­ te d'arrangiarsi. A proposito del felice connubio in Brandi di imposta­ zione scientifica e tocco artistico, il re Ludovico III di Baviera colpi nel segno, per quanto ingenuamente, quando, nel 1917, guidato dal capita­ no Brandi al forte di Metz, esclamò sorpreso: «Siete uno storico, eppure sapete rendere il Vostro racconto cosi interessante!» A ciò si sommavano le qualità di uomo, che hanno fatto di Brandi il biografo connaturale del­ l'Imperatore. Georg Schnath, il migliore specialista della biografia di Brandi, una volta ha constatato «che la grafia di Brandi, specialmente con l'età, mostra una certa affinità con quella di Carlo V». Karl Brandi (1868-1946) nel corso della sua esistenza subi l'influsso dell'Impero tedesco (1871-1918), riconoscendosi, per quanto in modo notevolmente aperto, nei suoi ideali. Fu sostenitore della nazione, ma non nazionalista, fedele all'Imperatore, ma non all'idea monarchica in sé, militare, ma non militarista. Durante l'Impero fu politicamente im­ pegnato nella corrente di sinistra del Partito Nazionaliberale, nella Re­ pubblica di Weimar fu tra i fondatori del Partito Popolare tedesco (Dvp) 1 • Sebbene personalmente avesse sofferto per la caduta dell'Impe­ ro, si mise senza remore al servizio della Repubblica weimariana. Quan­ do nel 1922 fu assassinato il Ministro degli Esteri Walther Rathenau, di origine ebraica, gridò agli studenti riuniti in una manifestazione: «Il suo Stato è il nostro Stato, il suo onore è il nostro onore». Allo stesso tempo, lavorò in modo abile e proficuo perché le discipline storiche tedesche, 1 Deutsche Volkspartei: Partito Popolare tedesco, prosecuzionz del Partito Nazionalibe­ rale e di impostazione filomonarchica, tenuto a battesimo all'Assemblea Costituente della Re­ pubblica di Weimar del 1919 [N. d. T].

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dopo la Grande Guerra messe al bando a livello internazionale, ristabi­ lissero contatti con l'estero. Il pericolo di vedere sfumare tali risultati fu uno dei motivi che lo spinse a prendere le distanze dal nazionalsociali­ smo, nonostante l'opinione nazionale imperante. Anche se non divenne mai membro del Partito, fino all'inizio della guerra poté rimanere attivo a livello internazionale riuscendo a svolgere un importante ruolo di me­ diatore fra posizioni contrastanti, necessità che per lui durò tutta la vita. La famiglia di Brandi, emigrata dall'Italia all'inizio dell'800, apparte­ neva alla borghesia conservatrice. Lo storico, per sua indole cittadino del mondo e gran viaggiatore, amava l'Italia, in particolar modo il Rina­ scimento, cui aveva dedicato tra il 1900 e il 1943 numerose pubblicazio­ ni, sia scientifiche sia divulgative. Inoltre, la famiglia di Brandi era rigo­ rosamente cattolica, una posizione da cui lo storico, nel milieu culturale della Monaco degli anni '90, progressivamente si allontanò, tanto piu sposando nel 1898 la figlia di un professore protestante originaria di Got­ tinga, la zona in cui piu avanti si trovò a operare. Ma non cambiò mai confessione religiosa, preferendo optare piuttosto per un cristianesimo interconfessionale. In questo modo fu in grado di trovare un punto d'in­ contro tra i lavori del protestante Leopold von Ranke sulla Riforma e le opere del vecchio cattolico Moriz Ritter sulla Controriforma, divenendo il primo storico tedesco a scrivere, tra il 1927 e il 1930, una storia della Germania all'epoca della Riforma e della Controriforma, nella quale non vi è quasi piu traccia di qualsivoglia impostazione confessionale. Sul l�t­ to di morte si dichiarò fedele a quell'unica Chiesa, scrivendo: «Sono con­ vinto che solo da qui sia possibile avere il quadro storico universale che, rispetto a Riforma e Controriforma, viene preservato dalla libertà. At­ traverso il corso dei secoli devono rimanere alcuni testimoni della Chie­ sa in generale ed è a coloro che gli storici appartengono». Un'affinità in­ teriore con quella fede nella chiesa di Carlo V, cosi peculiare e non ancora del tutto chiarita, sembra non essere improbabile. Se Jacob Burckhardt, che Brandi tanto ammirava, ha ragione ad af­ fermare che l'oggetto principale della vita dello studioso va messo di con­ tinuo in relazione con gli aspetti piu intimi del suo autore - che ciò ne sia pure causa od effetto -, allora l'esperienza di Brandi nel trattare tensio-

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ni e crisi politico-religiose lo ha reso capace di rappresentare un Impe­ ratore in grado di affrontare le sfide poste da un periodo particolarmen­ te drammatico, rimanendone forse sopraffatto, ma cercando almeno di rimanere fedele a se stesso, in buona parte con esiti positivi. Sicuramen­ te questo legame risulta alquanto sottile, dato che nel testo Brandi si la­ sciò completamente alle spalle le proprie convinzioni politico-religiose. Il che ha a che fare non soltanto con il suo bisogno di armonia, bensi po­ trebbe essere riconducibile alla sua intenzione di evitare, sotto il nazio­ nalsocialismo, qualsiasi aria di familiarità con lo zeitget"st anti-romano e anti-francese del periodo. Al centro del Werden und Schicksal einer Per­ sonlichkeit und eines Weltreiches, cosi recita l'epico sottotitolo dell'ope­ ra, Brandi mise il fenomeno relativamente neutrale del senso dinastico dell'Imperatore, cui premeva prima di tutto mantenere, accrescere e pas­ sare in mani sicure l'eredità familiare. In base alla sua provenienza dina­ stica, però, Carlo V non si considerava né tedesco, né spagnolo, ma piut­ tosto borgognone: in fondo, era stato battezzato col nome del nonno ma­ terno Carlo il Temerario! Il grande stile dell'ambiente di corte e l'identità politica della Borgogna, cioè, di fatto, i Paesi Bassi, a quel tempo erano appena stati oggetto di studi da parte di Henri Pirenne e Johan Huizin­ ga. Brandi li integrò nella sua opera, mentre in Germania, paese ancora sotto l'influsso della polemica anti-imperiale della guerra di Smalcalda, la storiografi.a, per tradizione, considerava Carlo V piuttosto uno spagnolo. A prima vista, questa idea dell'Impero sembra essere in contrasto con il motivo conduttore dinastico, ma, a ben vedere, non se ne discosta. Su questo punto, però, Brandi fu molto prudente, presumibilmente al fine di evitare un'appropriazione indebita di Carlo V da parte del Terzo Rei­ ch, cosa che, infatti, non si verificò. Mentre gli studi spagnoli e anglosassoni su Carlo V, grazie a impulsi nazionali ed europei, proseguirono dopo il 1945 nella maniera in cui si è accennato, in Germania la fine della guerra e la morte di Brandi hanno comportato l'interruzione del grandioso progetto di Gottinga di recu­ pero ed esamina del carteggio politico dell'Imperatore. Ma la storia del Concilio di Trento compilata da HubertJedin tra il 1949 e il 1970, l'opera di Heinrich Lutz del 1964 sugli ultimi anni della politica imperiale e lo

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L'imperatore Carlo V e Karl Brandi

studio di Horst Rabe del 1971 sul contesto della Dieta di Augusta fra il 1547 e il 1548 tennero in vita anche in Germania questo importante ar­ gomento. E già nel 1969 Horst Rabe, lavorando per il suo incarico a Co­ stanza, poté porre mano agli ulteriori reperimenti della corrispondenza politica, adottando metodi nuovi. A conclusione dell'impresa, nel 1999, erano state archiviate quasi 100 000 unità della corrispondenza, suddivi­ se per mittente, destinatario, località, data e luogo del ritrovamento. Da un punto di vista del contenuto, tuttavia, ne è stata esaminata solo una piccola parte, il carteggio tra Carlo V e Ferdinando I, anche se di fonda­ mentale importanza. L'accesso alla totalità dei materiali è possibile via Internet e attraverso un repertorio cartaceo di venti volumi in edizione li­ mitata. Inoltre, è disponibile alla Biblioteca Universitaria di Costanza una notevole raccolta di copie degli scambi epistolari. Significativamente, il reperimento sistematico delle fonti ha prodotto, insieme a una serie di nuovi dettagli di varia natura, soprattutto una co­ noscenza, approfondita rispetto a Brandi, del sistema di sovranità impe­ riale. Continua a rimanere certamente vero che Carlo e i suoi consiglieri negli anni '20 del 1500 non furono ali'altezza di affrontare le sfide e le in­ combenze politiche di un impero mondiale; Alfred Kohler nel 1999 par­ la apertamente di «incapacità decisionale». Di contro, negli anni '30 e '40 Carlo non operò piu in modo frammentario e con fatica, improvvi­ sando di continuo nei suoi vari paesi, ma, attuando una politica di coor­ dinamento, seppe creare una certa continuità. Strumento principale � tal fine furono le reggenze dei membri della dinastia, le quali erano atti­ ve in sua assenza in Spagna, nei Paesi Bassi e nell'Impero e che, grazie a un'immensa corrispondenza, furono tenute sotto un controllo relativa­ mente stretto. Solo nell'ultimo decennio sembra che le difficoltà fossero di nuovo aumentate in proporzione tale da non poter essere superate. E tuttavia si riceve l'impressione che, di fronte al lavoro di tutto ri­ spetto svolto dai compilatori, dopo Brandi l'enorme aumento della no­ stra conoscenza delle fonti di Carlo V non abbia sortito alcun risultato corrispondente all'impegno da essi profuso. Viene confermata l'espe­ rienza di altre edizioni: l'aumento della mole delle fonti accessibili non ha contribuito a produrre alcun guadagno conoscitivo corrispondente,

L'imperatore Carlo V e Karl Brandi

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quanto soltanto un rendimento decrescente delle conoscenze. Nel caso di Carlo V, vi è anche una ragione che riguarda i contenuti: il limitarsi alla corrispondenza relativa alla «grande» politica. In determinati casi, si par­ la anche di aspetti finanziari, ma solo di rado, occasionalmente o per nul­ la di questioni personali e di fede, di città o villani, della scoperta e con­ quista del Nuovo Mondo. In questi settori, come in passato, per man­ canza di dichiarazioni esplicite, possiamo avvicinarci all'Imperatore solo con generiche ipotesi dedotte dalla sua prassi. Anche con oltre 100 000 nuove fonti, Carlo V rimane per noi inaccessibile. In tali circostanze, il capo­ lavoro di Brandi mantiene, nonostante le nuove ricerche svolte, il proprio va­ lore duraturo. WOLFGANG REINHARD

Friburgo in Brisgovia 2001.

INTRODUZIONE

I. Rotta, da parte francese, sulla frontiera delle Fiandre, la tregua di Vau­ celles la notte dell'Epifania, nel gennaio del 1557 Filippo II decide di ra­ dunare un grande esercito per attaccare a fondo il nemico e penetrare in Francia nell'estate: che sarà, di fatto, l'estate di San Quintino. Ma a rac­ coglier truppe - mercenari spagnuoli, tedeschi, italiani - occorron molti soldi; e di soldi il trentenne re di Spagna non ne ha. Unica risorsa, tesoro sembra sicuro, l'oro e l'argento giunti a Siviglia il 3 e il 4 ottobre 1556 da Tierra Firme e dalla Nuova Spagna: e vale a dire da Panama, Vene­ zuela, Colombia e dal Messico': piu di cinque milioni di ducati, si ri­ tiene, depositati nella Casa de Contrataci6n di Siviglia. Una gran parte, certo, non spetta alla Corona, si a mercanti, a passeggeri tornati dall'Ame­ rica su quelle stesse navi che han recato i cassoni pieni d'oro e d'argento, in lingotti e in verghe, persino a «defunti», e quindi ai loro eredi in Spagna. Ma già Carlo V ha contratto l'abitudine - non apprezzata da nessuno - di prelevare, quando ne abbia bisogno, anche la parte de' mer­ canti e de' passeggeri, accordando loro in compenso juros, al cinque o al sette per cento generalmente 2, cioè quelli che oggi chiameremmo titoli di rendita pubblica ( ed era assai magro rifacimento): e Filippo ha dato 1 Con le due flotte, partite l'una il 26 aprile da Nombre de Dios (Tierra Firme) al co­ mando di. Alvaro Sanchez de Aviles, l'altra 1'8 giugno da Vera Cruz (Nueva Espafia), al co­ mando di Pedro Menendez, e giunte a San Jucar (Spagna) il 5 e il 13 settembre (cfr. H. e P. CHAUNU, Séuille et l'Atlantique (1504-16,o), Paris 1955, II, pp. 5.38 sgg. 2 Proprio il 28 agosto del 1557, ordini della principessa Giovanna perché ai mercanti e passeggeri a cui si son prelevati l'oro e l'argento arrivato per loro dalle Indie si diano ;uros, ai mercanti al 14 por milar (poco piu del sette per cento), e ai passeggeri al 18 por milar (circa il cinque e cinquanta per cento). (Archivo Generai, Simancas, Conseio y ]unta de Ha­ zienda, legajo 30 antiguo).

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Introduzione di Federico Chabod

ordine che, anche questa volta, né pur un lingotto esca dalla Casa de Contrataci6n. Cosi, meditando il suo gran piano, spedisce in Spagna il suo favorito, Ruy Gomez de Silva, conte di Melito, che deve premere in loco per l'immediato invio di grosse somme, in Fiandra e pur in Italia, dove la situazione appare inquietante e non si sa che possano combinare papa Paolo IV, i Francesi e quei non pochi Italiani irriducibilmente ne­ mici a Spagna. Senza il minimo indugio, occorrono 1 650 000 ducati per le Fiandre, 800 000 ducati per l'Italia; e ancora altri 600 000 ducati per le piazzeforti spagnuole sulla costa nord-africana, La Goletta e Orano, e per la difesa della frontiera pirenaica: tutti, s'intende, da prelevare sul favoloso oro di Siviglia. Si deve fare uno sforzo supremo, « el ultimo esfuerço », e per sollecitarlo Filippo postilla di propria mano una lettera alla sorella Giovanna 1• Ma a Siviglia non vi sono piu non diciamo i cinque milioni vagheg­ giati a Bruxelles, si nemmeno i poco piu di due milioni risultanti dai computi del Consejo de Hazienda a Valladolid 2: vi si trovano, a dispo­ sizione del sovrano, soli 489 000 ducati, un'inezia, una miseria di fronte alle spese che si preannunziano - nell'estate, la paga mensile dell'esercito di Fiandra ammonterà, da sola, a quasi 400 000 scudi 3• Il resto è stato subito portato via dai mercanti e dai passeggeri, bene attenti a mettere al sicuro i preziosi lingotti. Fu un duro colpo per Filippo. Aveva accarezzato un grande progetto, tale da dargli gloria e onore, quella « 6nrra y reputaci6n » ch'egli, giovane re, alla sua prima grande campagna, doveva gelosamente tutelare e ace,{. scere: dietro a lui, ombra protettrice ma anche ammonitrice, « el mayor caudal que puedo tener>> 4, ma anche pesante esempio da imitare, modello 1 Cfr. le lettere di Filippo alla sorella Giovanna, vedova dell'infante Don Giovanni di Portogallo e in quegli anni sovernatrice in Spasna, del 18 sennaio, 1° e .5 febbraio, 12 marzo; l'istruzione di Filippo al conte di Melito, in data 2 febbraio, da Bruxelles (Archivo Generai, Simancas, sesreteria Estado, legajos .514, ff. 7-9, 1.3-16, 20, 21; .51.5, f. 92). 2 Il Conseio de Hazienda a Filippo Il, da Valladolid, 4 marzo (Archivo Generai, Siman­ cas, Estado, 120, ff. 201-2, cfr. 199 e 210-1'). 3 Filippo Il a Giovanna, 10 asosto 15.57, da Cambray (Archivo Generai, Simancas, Estado, 514, ff. 47-48). 4 Cosf dice Filippo del padre, nell'istruzione sià citata al conte di Melito. Il dolore di Filippo per la morte del padre s'accrebbe, anche perché l'autorità e l'ombra di Carlo V eran

Introduz,ione di Federico Chabod

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ancor vivo, stava pur sempre Carlo V, il vincitore di Pavia e di Muhlberg, il re e imperatore dalle lunghe guerre e dalle luminose vittorie. Tanto piu necessario l'inferire un « gran golpe» alla Francia, dacché negli ultimi anni - a partire dal '52 - gl'insuccessi in Germania e in Italia e a Metz, eran stati maggiori e avevan pesato piu, assai piu delle rare vittorie; e attaccare occorreva, anche « per conservar il credito con tutti, essendo quasi opinione generale che la pace e la guerra siano in potere del re di Francia, per il nostro rimaner sulla difensiva da alcuni anni in qua ». Ed ecco, gli vengon meno d'improvviso i mezzi. « Niuna nuova, scrive alla sorella, - sarebbe potuta giungermi piu angosciosa; è il peggior tradimento che mi si potesse fare, e coloro che ne sono responsabili hanno posto a rischio il mio onore e la mia riputazione, che è la cosa a cui piu tengo, tanto piu essendo questa la prima campagna che devo intrapren­ dere 2 ». Cosi lamentava il giovane re. Ma, da Yuste, sali allora una voce ch'era ben altro che lamento: e fu quella di Carlo V. Dopo l'abdicazione, aveva lasciato la nativa Gand a fine agosto del '56; s'era imbarcato il 13 settembre, a Flessinga e il 28 settembre era sbarcato a Laredo, sulla costa ad oriente di Santander; nel novembre era giunto a ]arandilla, e infine, il 5 febbraio del '57, proprio quando Filippo a Bruxelles sognava ancora l'oro di Siviglia, s'era installato nella residenza in fretta costruita per lui, accanto al monastero di Yuste, nell'Estrema­ dura. Nulla di claustrale nella dimora, riccamente ammobiliata; nulla di propriamente ascetico nel viver quotidiano, ché anche in quest'ultimo asilo di una vita errabonda quale nessun'altro sovrano ebbe mai, Carlo V continuava a esser il gran mangiatore di sempre, a dispetto delle preghiere di medici e di confessori: soprattutto, ed è quel che importa, nessun ri1

molto utili e vantaggiose per le sue cose (Filippo alla sorella Giovanna, 4 dicembre 1558, Ar­ chivo Generai, Simancas, Estado, 516, tf. 86 e 89). 1 Cos{ la principessa Giovanna riferisce a Filippo il parere del Consejo de Estado, l'ul­ timo di febbraio del '57 (Archivo Generai, Simancas, Estado, 121, tf. 52-53). 1 Filippo a Giovanna, 13 aprile '57 (ibid., 514, tf. 24 e 25; cfr. già in F. A. MIGNET, Charles-Quint, son abdication, son s�iour et sa mort au monastère de Yuste, Paris 1855, 2a ed., p. 261).

Introduzione di Federico Chabod

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pudio del mondo e delle sue lotte, e invece l'occhio costantemente fisso alle vicende politiche e militari di Spagna e di Filippo. Proprio in quei primi mesi del '57 Carlo disapprovava apertamente la tregua pattuita dal duca d'A/,ba, in Italia, con papa Paolo IV, il 28 no­ vembre del '56: come gli succedeva nei momenti di cattivo umore, bor­ bottando tra i denti parole incomprensibili, ma sicuramente non gratula­ torie E teneva l'alta mano sulle trattative con Antonio di Borbone, per legarlo a Spagna e aprirsi cosi via sicura ad improvviso attacco al re di Francia da mezzogiorno; prezzo, lo stato di Milano, il « regno di Lom­ bardia», che sarebbe stato creato per Antonio e la consorte di lui, Gio­ vanna d'Albret. Anche all'uomo di Yuste pervenne, dunque, l'infausta notizia dell'oro di Siviglia svanito. E allora, il 31 marzo, egli scrisse alla figlia Giovanna. Non vi s'era deciso prima, si per convincersi che una simile vigliaccata fosse proprio vera, si anche per vedere se, col tempo, gli passasse la gran collera che aveva addosso. Altro che passare! « Ogni giorno mi s'accresce, e mi s'accrescerà sino a quando non saprò che i colpevoli non abbian pa­ gato .la loro colpa. Se fossi in buona salute, andrei io stesso a Siviglia "a ser perquisidor"; e procederei non "por tela ordinaria de ;usticia" ma con tutti i mezzi necessari per giungere a scoprire la verità. Parlo incol­ lerito, e a ragione: perché quand'io nei miei travagli mi trovavo con l'acqua alla bocca (" el agua en çima de la boca") coloro che stavano qui tranquilli non mi avvertivano mai, al giungere dalle Indie di buona quan­ tità di denaro, se non quando il denaro era sparito. Ora, eran giunti setté od otto milioni; poi s'eran ridotti a cinque: e quei signori della Casa de Contrataci6n si son comportati in modo tale che i cinque milioni sono diventati 500 000 ducati. Si proceda dunque; si colpisca senza pietà: altri1



1 Cfr. L. P. GACHARD, Retraile et mori de Charles-Quint au monasth-e de Yuste, Bruxel­ les 1854, I, p. 80. E cfr. la lettera del nunzio cardinale Sfondrato al cardinale Farnese, il 2 ot­ tobre 1547 (nel momento delle difficili discussioni su quel ch'era successo a Piacenza, nel set­ tembre, uccisione del duca Pier Luigi Farnese e occupazione della città da parte di Don Fer­ rante Gonzaga, governatore di Milano, a nome di Carlo V): « Sua Maestà [l'imperatore] gli rispose [a Sforza Pallavicino] in questo tra i denti, di modo che non potea ben compren­ dere» (Nuntiaturberichte aus Deutschland 1533-1559, a cura di W. FRIEDENSBURG, Bèrlin 1907, p. 134).

Introduzione di Federico Chabod

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menti io avvertirò Filippo di provvedere fuor de' termini ordinari di giustizia; e sarò lieto di farlo io, pur tenendo la morte fra i denti ("aunque 1 tenga la muerte entre los dientes ,,) » • Un mese e mez1.0 piu tardi lo sdegno era piu forte che mai: diceva cose durissime, «palabras sangrientas »; e ordinava al segretario Martin de Gaztelu di scrivere a Valladolid, perché i colpevoli fossero prima cac­ ciati in prigione, e poi, a mezwgiorno - per vieppiu umiliarli - venissero fatti uscir da Siviglia, incatenati; e di li sino a Simancas, e a Simancas cacciati in fondo ad una segreta «no en camara ni en torre, sino en una 2 ma1.morra » • Un anno piu tardi, altra e ben diversa, ma per Carlo V non meno rattristante scoperta: di considerevoli nuclei di eretici - «luterani» eran detti - nella stessa Valladolid, sede allora del governo e della corte, a Zamora e a Toro, oltre che a Logroiio; e poi a Siviglia. Nuovo, terribile scatto dell'uomo di Yuste: anche per questi scellerati, se ne avessi forza, scenderei-io a punirli; colpire, colpire con il massimo rigore, senza eccet­ tuar nessuno che sia colpevole. Sdegno e dolore tumultuano nell'animo di Carlo: «non potrei dirvi, - scrive alla figlia Giovanna il 25 maggio 1558, - qual preoccupazione, qual pena susciti in me questa faccenda. Questi regni di Spagna sono stati cosi quieti e tranquilli, mentre io e Fi­ lippo eravamo assenti; ora che vi son ritornato per riposarmi, ecco acca­ dere, me presente, una simile vergogna e vigliaccata ("una tan gran desverguenza y vellaqueria"), ben sapendo quel che io ho sofferto per causa di religione, e patito in Germania tanti travagli e sostenuto tante spese e rovinata la mia salute. Se non fossi convinto che voi, figlia mia, e i Consigli provvederete, forse non potrei impedirmi dal partir di qui a por rimedio. Castigo esemplare; e non si proceda" conforme al diritto comune", ma come contro sediziosi, ribelli, eversori dello stato, in guisa che nessuno si possa"prevaler de la misericordia"». La lettera alla principessa Giovanna del 31 marzo 1557, in Archivo Generai, Simancas, 119, f. 21; pubblicata in GACHARD, op. cit., I, pp. 137-38. La lettera del Gaztelu a Juan Vasquez de Melina, 12 maggio 1557, in GACHARD, op. cit., I, pp. 148-49. 1

Estado, 2

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Inlroduzione di Federico Chabod

Incalzando con Filippo, lo stesso giorno, l'uomo non vecchio d'anni - non piu che cinquantottenne-, ma frusto e consunto di fisico, tormen­ tato da' malanni e ormai non lungi da morte - com'egli stesso aveva detto, con la morte tra i denti -, postillava tuttavia con la mano tormentata

dalla gotta la lettera: « Figlio, questa nera faccenda (" este negro nego­ cio") qui scoppiata mi scandalizza quanto potete pensare. Provvedi, figlio mio, provvedi subito, e con ogni rigore: "muy de raiz, y con mucho rigor y recio castigo" » 1• Cosi è che il 21 maggio del 1559, a Valladolid, presenti la principessa Giovanna e l'infante don Carlos, presente tutta la corte, s'ebbero i primi « auto da fe » del regno di Filippo II: tragica e cupa scena che, a leggerne nei documenti la minuzia dei preparativi e la cura diremmo dell'ornamen­ tazione scenica, palchi eretti e corteo, par quasi cerimonia morbosamente studiata ad eccitar, non pur immaginazioni e pensieri di fede e di dolore, ma sensi ferini. Il furore di Carlo V aveva trovato piena e pronta rispondenza nella corte, nel clero e nei ministri d'ogni grado: e fu, veramente, una pagina negra.

Il. Tale il Carlo V di Yuste: il Carlo V collerico, violento, durissimo, sempre piu irritabile e divenuto aspro col volger degli anni 2• E anche nei due motivi de' suoi scatti imperiosi di quei giorni pareva simboleggiata tanta parte di un'esperienza quasi quarantennale, risalente su su, ai primi suoi cenni di comando. Svanito, ora, il prezioso carico giunto dalle Indie occidentali, e Fi­ lippo II in gran pasticci per tener fede al suo programma e continuare i preparativi militari: ma in lui, Carlo, l'imprevista falla a Siviglia rivol1 Le due lettere di Carlo V a Giovanna e a Filippo, che si trovano pure nell'Archivo Ge­ nerai, Simancas, sono state pubblicate dal GACHARD, op. cii., I, pp. 297-98 e 301; II, pp. 401-2, l'elenco dei «luterani�. Cfr. anche MrGNET, op. cii., pp. 3,8 su. 2 Cfr. nella trattazione del Brandi, pp. 635, 636.

Introdu1.ione di Federico Chabod

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ieva animo e pensieri a tante altre volte quando s'era trovato con « el "gua en çima de la boca», ed era stato costretto a ricorrer agli espedienti piu vari per metter insieme un po' di quattrini. Da quei lontani giorni tra fine febbraio e primi di marzo del '25, quando già i suoi generali. a Pavia avevano sconfitto e addirittura fatto prigioniero il rivale acerrimo, Francesco I re di Francia; ed egli, nulla sapendo del già avvenuto trionfo - la battaglia fu combattuta il 24 febbraio, e la notizia ne giunse a Madrid solo il 10 marzo, tant'era immenso allora il mondo e lento il contatto fra paesi anche d'un solo sovrano -, affidava ad un breve scritto autografo, in francese, le sue preoccupazioni e il suo scontento. E nelle annotazioni balzava anzitutto in luce il bisogno di denaro: « Io mi trovo solo, i miei amici mi hanno piantato in asso, è quasi impossibile trovar denaro... e l'unico vero rimedio è ch'io sposi l'infanta di Portogallo, Isa­ bella, al piu presto, si da ricavar dalla dote la maggior somma possibile di denaro in contanti» 1• La >, vedendo ogni giorno scader prestigio, autorità, forza della dignità imperiale Fossero stati solo i protestanti! Ma anche con i papi aveva dovuto lot­ tare: tenacissimo egli nel richiedere il concilio generale « per il rimedio della Germania e degli errori che si propagavano nella cristianità»,· e i papi, oh i papi!, lesti a promettere e tardi a mantenere, per i loro difetti di carattere, le loro ambizioni personali, i loro segreti disegni 5• Anche con loro aveva dovuto lottare, litigando con i nunzi, dicendo cose cru­ dissime come in quella E infine... infine, l'umiliazione del '52, la fuga da Innsbruck a Villach davanti alle truppe di Maurizio di Sassonia, una volta suo alleato e ora anche lui ribelle. La lettera che il 4 aprile Carlo scrive al fratello Fer­ dinando ( senza poi spedirla) 2, è, forse, il piu drammatico e umano mo­ mento di una vita di grandi battaglie. « Stando qui, con sz scarsi mezzi di difesa, io potrei esser fatto prigioniero una mattina, nel mio letto. E per­ ciò ho deciso di partire. In Germania non posso piu stare: là dove cinque anni innanzi nessuno era piu in grado di resistermi - secondo l'orgogliosa sua affermazione-, ora nessuno piu osa dichiararsi in mio favore, e tutti mi sono contrari, e i miei nemici hanno "le forze nelle loro mani". Ma dove andare? In Italia? Senza forze, senza autorità, col rischio di trovarmi, a Milano, fra soldatesche non pagate e tumultuanti, con popolazioni di­ sperate per i mali trattamenti subiti. Sarei costretto ad abbandonare anche l'Italia per riparare in Spagna: "con quale onore e riputazione, voi potete immaginare; e che bella fine farei, nei miei vecchi giorni,,! « Le vie sono tutte chiuse, se non a costo di porre a rischio la mia persona e di ricevere la piu grande umiliazione che mai principe potrebbe ricevere. « E allora, tutto considerato, raccomandandomi a Dio e rimettendomi nelle sue mani, preferisco prender una decisione che mi faccia apparire un vecchio pazzo (" un vieux fol "), anziché perdermi senza tentar il tenta­ bile: io sono in una situazione tale da dover o subire una gran vergogna, o pormi a gran pericolo; e preferisco la parte del pericolo, in cui Dio può aiutarmi, che non attendere la vergogna. Cosi partirò stanotte per le Fiandre ( il che poi non avvenne). Facendo ciò che devo e posso, avrò 1



1 Verallo al cardinal Farnese, 2-3 febbraio 1'47 (Nuntiaturberichte aus Deutschland, a cura di W. FRIEDENSBURG, Gotha 1899, IX, p. 446). 2 Co"espondenz cit., III, pp. 159-61.

Introduzione di Federico Chabod

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,,,aggior consolazione di terminare i miei giorni - se occorresse - cadendo 11cciso o in prigionia, che prolungarli non facendo nulla». L'aiuto di Dio. Carlo vi si affidava, nel '52 come sempre: gli uomini, ormai aveva· appreso a giudicarli, e sapeva che qualunque cosa facesse, se volgesse in bene sarebbe stata attribuita alla fortuna, e se in male « la colpa ne sarà mia>> 1• Una lunga esperienza, di uomini di molti paesi, fiamminghi e spagnuoli, tedeschi e italiani e francesi, gli aveva tolto ogni illusione; cosi che, se già nel 1525 aveva dovuto annotare che i suoi «amici» l'avevano piantato in asso, nelle distrette, ognuno facendo il pos­ sibile per impedirgli di diventar « piu grande» 2, il 6 maggio del 1543, al momento di lasciar la Spagna per la Germania e le Fiandre, - e non vi sarebbe piu tornato, se non dopo aver deposto lo scettro, - nella istru­ zione segreta al figlio Filippo 3 scolpiva caratteri e umori e appetiti dei suoi maggiori collaboratori con una incisività lucida e disincantata, che attingeva le alte vette dell'arte di governo. I veli dell'ipocrisia e delle ap­ parenze cortigiane sono, di colpo, strappati dalla mano sicura del re che vuol mettere in guardia il figlio ed erede: in pubblico questi cortigiani si faranno mille regali e dimostrazioni di amicizia, e in segreto il contrario; protestano umiltà e son bramosi di potere; ostentano zelo del servizio del re e curano il proprio particolare. Ecco venir innanzi il duca d'Alba, « santinguandose muy humilde y recogido », e in realtà ambiziosissimo, pretendendo > 1, destinata a spegnersi nel febbraio del 58 pochi mesi prima di Carlo V; Maria, vedova del re Luigi d'Ungheria, ch'è invece « amiga de negocios » 2 e ha governato a lungo a nome del fratello i difficili Paesi Bassi, donna di alta politica e tal che, nel 158, Filippo II la supplica di tornare a Bruxelles a riprender in mano le redini del governo - Maria che, sofferente di cuore, non reggerà al dolore per la morte di Carlo V e lo seguirà nella tomba il 18 ottobre del 158, a meno di un mese di distanza. Tre morti, il grande fratello e le due sorelle a lui devotissime; e tutti e tre nello stesso anno, e nella stessa regione. Questa è una famiglia. Ma il fratello, Ferdinando, re dei Romani, suo successore all'Impero! Quali contrasti soprattutto nel 50, quando Carlo V accarezza l'idea di istituire il figlio Filippo come successore di Ferdinando nella dignità im­ periale, a' danni di Massimiliano, primogenito di Ferdinando. 1

1

1 2

Cosi Don Luis de Avila y Zufiiga (GACHAR.D, op. cit., II, p. 315). Cosf Martfn de Gaztelu (ibid., p. 325; cfr. anche I, p. 178).

XXXVIII

Introduzione di Federico Chabod

Anche qui, una lettera riassume bene passioni e contrasti: la lettera che il 16 dicembre 1550 Carlo V scrive alla sorella Maria, solita a far da paciera in simili controversie. Quale penosa discussione tra lui e Fer­ dinando! Aveva dovuto alterarsi e incollerirsi e dirgli crudamente, che insomma uno dei due, o lui o io, aveva ad essere imperatore: , adesso tanto piu giustificata in quanto gli infedeli penetravano temerariamente fin nei porti spagnoli, e minacciavano le comunicazioni fra la Spagna e la Sicilia, vitali soprattutto per l'importazione dei cereali. Nel frattempo Jean d'Albret era entrato in Navarra, senza però superare il passo di Roncisvalle, e fu ricacciato anche da Saint-Jean-Pied-de-Porc, a nord dei Pirenei. Tanto era l'energia con cui il cardinale provvedeva a difendere il paese! Il reggente ottenne i suoi successi a dispetto, talvolta, del governo borgognone. Aveva buone intenzioni quando il 6 dicembre 1516 convocò le Cortés delle diciotto città di Castiglia, ma a un cenno di Bruxelles do­ vette disdirle. Nel marzo 1517 impedf una riunione arbitraria delle Cor­ tés. Ma quando, nell'estate del 1517, una « hermandad » di Burgos, di Le6n, Valladolid e Zamora inviò quattro ambasciatori a Carlo con la ri• chiesta che il giovane re venisse in Spagna, che non si esportassero dal regno metalli preziosi e che non si attribuissero uffici nei Paesi Bassi se non a spagnoli, questi inviati furono amichevolmente ricevuti e ottennero

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qualche promessa, invece di essere rimproverati per la loro arbitraria con­ dotta. Ben presto tutti si sentirono lesi: i grandi perché raramente avevano ragione di approvare la politica del cardinale, anche se alcuni di loro ave­ vano appianato il proprio contrasto con lui; le città, perché erano state illuse, ma non soddisfatte, e si attendevano assai di piu dai Paesi Bassi; infine, il clero, a causa delle imposte. In quel tempo si udirono anche in Spagna serie lamentele contro i «conquistadores» delle Nuove Indie. Il primo a levar la voce in difesa degli Indiani fu Bartolomé de Las Casas, nel 1516; ed a lui si associò Palacios Rubios. Una sola persona sarebbe potuta intervenire, ma era lontana. Perché indugiavano Carlo e il suo governo? Dalla morte di Ferdi­ nando d'Aragona era ormai passato piu di un anno. Il governo di Chièvres evidentemente non si lasciava influenzare dalle notizie spagnole, buone o cattive che fossero. Per ora aveva abbastanza da fare per assestare la sua nuova posizione fra le potenze. La comoda neutralità del 1513, quando l'Inghilterra, l'imperatore e l'Aragona erano ulleati contro la Francia, non era piu possibile. Infatti, la vittoria otte­ nuta dal giovane Francesco I a Marignano, il 13-14 settembre 1515, uveva grandemente accresciuto il prestigio della Francia. La sua posizione di forza in Italia non avrebbe avuto un contraccolpo anche a Napoli? Era questo un monito a tener conto della sua grande potenza, e a guar­ darsi dalla sua minacciosa egemonia. L'Inghilterra, il papa Leone X, e l'imperatore sentivano questo pericolo. Ma i Paesi Bassi non avevano nessuna ragione di farsi trascinare da Massimiliano nel ginepraio italiano. Naturalmente l'imperatore continuava ad occuparsi di tutto, anche nei Paesi Bassi. Il suo impenetrabile gioco con Enrico VIII d'Inghilterra, in l'ui ora faceva la parte del capitano di ventura, ora ammiccava grandioso mn la Corona imperiale, non poteva piu allettare i prudenti politici della rnrte borgognona. Del resto, dalla pace di Parigi del 1515 non erano 1fiatto cessati i conflitti negli stessi Paesi Bassi, provocati da due par­ tigiani della Francia: da Carlo di Egmont in Gheldria e da Robert de La Marck al confine di Liegi. La Gheldria e i territori vicini, rappresentavano un pericolo perma-

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nente per la Frisia e Utrecht, e da essi partivano quei pericolosi agitatori, come Edzard, che tenevano in agitazione il paese. Il duca Giorgio di Sas­ sonia aveva ceduto a Carlo, il 19 maggio 1515, per centomila :fiorini, i diritti sulla Frisia ereditati dal padre Alberto. Il signore di Isselstein era diventato luogotenente della Frisia. Nella sua cerchia, e in quella del si­ gnore di Sedan, si tentò di togliere l'appoggio francese agli agitatori e di paralizzarli per quanto era possibile anche militarmente. Il tentativo non fu senza successo. Nassau, Isselstein e Wassenaer prevalsero, anche se non resero del tutto inoffensiva la Gheldria. Ma Guillaume de Chièvres, con la politica rettilinea che gli era pro­ pria, mirava, non tanto per sentimentale inclinazione verso la Francia, quanto per la convinzione che H era la chiave di vòlta della situazione, a unire tutte le potenze interessate alla politica borgognona al fine di raffor­ zare i buoni rapporti con quel regno. Col suo accorto modo di procedere egli riusci a guadagnarsi, servendosi anche di legami familiari, non sol­ tanto gli antichi oppositori anglofili della sua politica, ma a poco a poco la stessa Margherita e l'imperatore. Il fatto che abbia persuaso quasi tutti e si sia assicurata la loro collaborazione, attesta la fondatezza dei suoi fini. Alcuni fattori favorirono la sua politica: nella corte l'antagonismo fra Castigliani ed Aragonesi aveva ormai perduto ogni significato. Cosi la strada era libera per negoziati contemporanei con la Francia e l'Inghilterra, estremamente difficili, ma condotti con pari abilità. In Inghilterra si presero le mosse dal rinnovo del trattato di commercio, per iniziare a Noyon, dopo i primi risultati positivi, i negoziati con la Francia. Anche questi dovettero essere piu volte interrotti, ma giunsero alla desiderata conclusione il 13 agosto 1516. I Fiamminghi potevano pur sempre gettare sulla bilancia la condotta del loro signore, condivisa an­ che a Napoli, di fronte alla coalizione anglo-elvetico-imperiale. Il trattato di Noyon comprendeva un accordo per il matrimonio di Carlo con Ma­ dama Luisa, figlia di Francesco I, che non aveva ancora un anno, e do­ veva portargli in dote Napoli. In compenso, si prevedeva di soddisfare le pretese della regina-madre di Navarra nel momento jn cui Carlo fosse giunto in Spagna. Per precauzione, in caso di morte prematura della prin­ cipessa, c'era l'impegno di sostituirla con una sorella, che non era ancora

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nata; nel caso che anche questo progetto andasse a monte, si intendeva ritornare al matrimonio con Renata di Francia. È evidente che il contratto era « un'ingannevole apparenza». Non c'era da aspettarsi che il re diciassettenne attendesse sul serio la princi­ pessa di un anno; che, avendo il possesso sicuro, anche se gravato da tributo, di Napoli, dovesse riceverlo in dote dalla Francia, e che per so­ prappiu, dovesse restituire la Navarra, che aveva del pari saldamente in mano. Ma i Francesi evidentemente si accontentarono di questo successo upparente, al quale sembravano corrispondere in tutto le devote lettere di Carlo al futuro suocero e suo attuale sovrano feudale. Solo in Spagna 11e ne fu indignati. Al pari di Jiménez, anche il vescovo di Badajoz espri­ meva la sua delusione col monito di guardarsi dalla Francia: « I Fran­ l'esi non rispettano né la verità né l'amicizia, e tanto meno col nostro so­ vrano, perché sono gelosi che sia piu grande e piu potente del loro re». !,'orgoglio degli Spagnoli si opponeva a ogni sorta di vassallaggio del loro re alla Francia, mentre invece i Borgognoni erano avvezzi a vedervi un diritto a un possibile intervento in Francia. Contemporaneamente ai negoziati con la Francia, volgevano al termine nnche quelli con l'Inghilterra. E fu un brillante successo del giovane Gia­ rnmo di Lussemburgo, signore di Auxy, di aver ottenuto non solo l'ami­ rizia inglese, ma da ultimo anche un prestito notevolissimo per sostenere le spese di viaggio del re dai Paesi Bassi in Spagna. Evidentemente, l'In­ f(hilterra non voleva abbandonare Carlo per intero ai Francesi. I negoziati d'alleanza vennero infine conclusi nelle stipulazioni del 29 ottobre 1516 fra Carlo, Enrico VIII, il papa Leone X e l'imperatore, e coll'adesione di Massimiliano al trattato di Noyon, che avvenne il 3 dicembre a Bruxelles. Un affratellamento generale pareva dunque unire lit cristianità; approfittando di questa situazione, la Casa d'Absburgo vo­ leva prender possesso dei reami spagnoli. Nella primavera del 1517 Mas11imiliano cosi ebbe a dire, dopo un'udienza al nipote, con quel suo fare vivace ed impudente: « Figlio mio, voi siete in procinto d'ingannare i Francesi, io ingannerò gli Inglesi; o piuttosto, - prosegui correggendosi, - farò del mio meglio per riuscirvi». L'esecuzione dei trattati era affidata itll'avvenire.

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Con quale fervore la Corte di Borgogna si preparasse ai suoi nuovi compiti lo mostra anche la festa dell'Ordine del Toson d'oro, celebrata con la tradizionale magnificenza nel tardo autunno del 1516. I festeg­ giamenti durarono dal 25 ottobre al 6 novembre, con interruzioni per la continuazione delle trattative con gli inviati francesi. Ancora una volta la pace fu solennemente confermata. Carlo ricevette dalla Francia l'Or­ dine di San Michele, Francesco I il Toson d'oro, venendo al tempo stesso espressamente dispensato da alcuni obblighi statutari. L'esame della con­ dotta dei cavalieri nel Capitolo dell'Ordine diede occasione a qualche ri­ prensione; al contrario don Juan Manuél si vide accordare intera ripara­ zione per il torto fattogli. Ma la cosa piu importante fu che si stabiH di coprire non solo i quindici seggi vacanti, ma, considerando « la potenza grandemente accresciuta della Casa di Borgogna», di rivolgersi al papa perché autorizzasse un aumento del numero dei cavalieri. Cosf furono eletti numerosi tedeschi al servizio degli Absburgo e, per il futuro, ven­ nero presi in considerazione dieci spagnoli. Per riguardo a Massimiliano, fu scartato il suo antico avversario Filippo di Kleve, signore di Ravestein� Ma l'infante Ferdinando, il conte palatino Federico, il margravio Gio­ vanni di Brandeburgo, che piu tardi doveva sposare Germana di Foix, i conti di Werdenberg e di Mansfeld vennero subito eletti. Fra i Borgo­ gnoni Philippe e Antoine de Croy, signori di Porcean e di Sempy, An­ toine Lalaing, signore di Montigny, Charles de Lannoy, signore di Sanzel­ les, Giacomo di Lussemburgo, ora signore di Gavre, Adolfo di Borgogna, signore di Beveren e Vere. I posti vacanti erano riservati ai futuri co­ gnati di Carlo, i re di Portogallo e d'Ungheria, e poi ai signori di Rap­ poltstein e di Wolkenstein, come pure a Fiamminghi delle province set� tentrionali, Gaesbeck, Wassenaer, Zevenbergen ed Egmont. Si conservava ancora l'antica tradizione borgognona; tuttavia, si vedevano molte facce nuove. La prima metà dell'anno 1517 passò in esasperanti indugi. La guerra di Gheldria, che volgeva alla fine, costava oltre tutto anche somme conside­ revoli. Soltanto in autunno tutto sembrò pronto per la partenza per mare verso la Spagna. Ma si dovette attendere per settimane il vento favorevole. Si viveva vicino al mare nelle dune di Middelburg, ove si svolse l'ul-

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timo atto di un piccolo dramma, che aveva già lunghi precedenti. Carlo ,lisponeva con grande cautela non solo della propria persona, ma come l'Rpo maggiorenne della sua Casa, anche della sorella maggiore, Eleonora, l'he era sempre stata tenuta di riserva come preziosa pedina della sua po­ litica matrimoniale. Aveva adesso diciotto anni, e dopo che a Bruxelles r a Vienna era stata discussa la questione del suo matrimonio, si erano 11ià fatti avanti numerosi pretendenti. Sembrava tuttavia che la giovane 1,rincipessa volesse mandare in aria tutti i calcoli politici con quello che 11i suol chiamare un matrimonio d'amore. Il conte palatino Federico, già educato nella Corte di Borgogna, dal 1513 era di nuovo in strette relazioni con essa. Era stato reggente, piu volte incaricato di importanti missioni, ed era diventato cavaliere del To11on d'oro. Massimiliano lo giudicava politicamente molto utile; ma Fe­ derico era un amabile camerata e, come abbiamo veduto, un audace ama1ore di tornei. Il conte palatino deve aver còlto le rare occasioni che gli 11i offrivano nelle feste di corte e nelle cacce per avvicinare la principessa. Alla fine le sollecitò una decisione con una lettera; ma Eleonora fu sco­ ptrta al momento di riceverla. Ella la nascose in seno. Il suo reale fra­ tello, subito informato, le impose di consegnargliela e se ne appropriò. Strana lettera, che non fu mai letta da colei cui era destinata, ma che oggi In compenso si trova agli atti, accessibile a tutti, e ci permette di gettare uno sguardo sul vero stile amoroso del tempo e su quell'amore principe­ NCO. Federico dice tutto, chiama la principessa « ma mie, ma mignonne», � pronto a tutto e non desidera altro « che appartenerVi e Voi a me». Chiama in aiuto Dio e la Santa Vergine. Invano. La lettera fu allegata, quale prova, agli atti notarili con i quali i due innamorati dichiararono dinanzi a testimoni di non aver contratto un matrimonio segreto e che vi rinunciavano. Il conte palatino, nonostante tutte le intercessioni, fu ban­ dito dalla corte borgognona, e gli inviati stranieri riferiscono che fu molto 11pprezzata l'inesorabile fermezza di Carlo. D'altronde, in quell'affare di famiglia la decisione spettava solo a lui. Eleonora chinò il capo quando 1I pretese che sposasse suo zio, il re del Portogallo. In quel periodo Carlo manifestò chiaramente, anche in altri casi, la propria ferma volontà. A Margherita sembrava un altro .uomo. Fu allora,

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per quanto sappiamo, che Carlo decise di presentarsi in Germania come pretendente alla corona imperiale, cioè come successore di Massimiliano. Il nonno aveva appena fatto un lungo soggiorno nei Paesi Bassi; Carlo non lo doveva piu rivedere. 1'8 settembre, il vento contrario cedette a una brezza favorevole; Carlo e sua sorella Eleonora, con un gran seguito e tutto il pomposo ap­ parato della corte borgognona, salparono da Flessinga su quaranta navi. Il viaggio fu disagevole; e quando, dopo dieci giorni, essi giunsero sotto le coste spagnole, non riuscirono a trovare un porto. Furono costretti a sbarcare, con tempo cattivo, sulla ripida costa, non lungi dalla borgata di Villaviciosa. Gli abitanti della costa, spaventati, si erano già muniti di armi per marciare contro i forestieri sconosciuti.

Carlo in Spagna. Riunioni delle Cortés (1517-18).

Siamo stati abituati da certi libri a una rappresentazione idealizzata della storia e a figurarci la vita dei principi, almeno nelle grandi occasioni, secondo tale visione. L'ingresso di Carlo nella terra di sua madre fu ve­ ramente disastroso. Sebbene il principe diciassettenne avesse sopportato discretamente i disagi della traversata, tuttavia l'inospitalità dei paesi ri­ vieraschi, dove era capitato con una parte del suo seguito, la mancanza di alloggiamenti adatti, il faticoso viaggio lungo la costa per scogli e mon­ tagne, tutto ciò, insieme con l'assoluta mancanza di ogni comodità, fin{ visibilmente col danneggiare la sua salute. Bisognò fermarsi piu volte per giorni interi in mezzo alle montagne. Comunque sia, è singolare che non si sia raggiunto in breve tempo una strada maestra, che non si sia riusciti a trovare Santander, in fin dei conti assai vicina, o, proseguendo il cam­ mino, le città, anch'esse non lontane, di Le6n, di Burgos, di Valenza, e che da ultimo avessero perfino oltrepas�ato Valladolid. Cosi, a proposito di questa lentezza sorsero di buon'ora dei sottilis­ simi sospetti; si disse in particolare che furono gli sforzi del signore di Chièvres ad impedire che Carlo venisse a contatto col cardinal Jiménez, il quale, come luogotenente del regno, era venuto incontro al suo sovrano,

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•'era ammalato in viaggio e giaceva infermo a Roa, non lontano da Val­ l11dolid. Certo, il piu ardente desiderio del vegliardo ottantenne era di vedere ancora il suo re, di aiutarlo ancora col suo consiglio; mentre l'am­ hiente nobiliare della corte borgognona non apprezzava nel suo giusto valore tali intenzioni né la grandezza dell'illustre prelato. Ma mettere a repentaglio, per timore di lui, la salute del re con lunghe marce montane e tenere per settimane tutta la corte esposta ai piu gravi disagi, sarebbe 1tato pagare a troppo caro prezzo un'azione cosi inutile. La verità è piu 1cmplice e naturale, anche se la diffidenza avvelenò lo stato d'animo da una parte e dall'altra. Una volta trovato l'approdo, ci fu una certa confu1lone in seguito alle notizie sulla diffusione di malattie infettive nel paese; l'rcbbero poi le difficoltà e i conseguenti disagi. Inoltre, giacché le navi erano approdate in punti diversi, era necessario riunire i membri della corte in una sola località. Prima d'ogni altra cosa, Carlo e la sua sorella vollero naturalmente recarsi a Tordesillas per visitare la madre, la regina Giovanna; e questo prima di ricevere l'omaggio del paese. Prima di compiere qualsiasi atto di sovranità su suolo spagnolo, Carlo doveva sincerarsi personalmente delle condizioni della madre, che ancora non conosceva. Il 4 novembre I regali figli comparvero nel castello, davanti alla madre e alla sorella di dicci anni. Il cronista Vital poté accompagnare Carlo fino alla soglia della camera reale; ma quando, curioso, volle entrare per assistere al colloquio, Carlo lo mandò via. Carlo rinnovò spesso le sue visite. Non sappiamo quali fossero i suoi sentimenti; certo si è che, con l'intimo orgoglio del suo temperamento, egli ebbe sempre la medesima riverenza e sollecitudine per quella donna malata, che doveva vivere fino al 1555. Della sua par­ tecipazione al governo del paese non era piu il caso di parlare; e neppure di un cambiamento del suo modo di vivere. I due fratelli cercarono piut­ tosto di allontanare la piccola Caterina dall'atmosfera di ospedale del ca1tcllo. Dei testimoni notarono come accanto a Eleonora, « favolosamen­ te,> acconciata, la piccola Caterina sembrasse una beghinuccia: avrebbe ,lovuto essere tenuta in modo piu principesco. Ma, siccome la madre sof­ friva troppo per la sua lontananza, alla principessa fu concessa una piccola L'orte presso la madre.

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VB novembre, quattro giorni dopo quella visita, il cardinale mori a Roa. Non era stato piu in condizione di recarsi a Mojados, a sud di Val­ ladolid, dove sarebbe dovuto avvenire l'incontro col re. Comparve invece l'infante don Ferdinando, sul quale, dopo la morte del re d'Aragona, il cardinale aveva vigilato con la piu grande cura. Dopo aver vista per la prima volta la propria madre, Carlo si trovava soltanto ora col fratello, ormai quasi quindicenne, che non aveva mai veduto. Ferdinando scese da cavallo per salutare il re. E, come già aveva fatto per lettera, Carlo si diede premura di assicurarlo dei suoi sentimenti fraterni. Poco dopo, il fatto che prima di mettersi a tavola, Ferdinando porgesse la sai.. vietta a Carlo, mentre si lavava le mani, non fu un'umiliazione, ma, dal punto di vista cortigiano, l'esercizio di un alto privilegio. Egli prese an­ che parte con gli onori dovuti al grandioso ingresso a Valladolid, con cui si rinnovò per gli Spagnoli lo spettacolo dei giorni di Filippo il Bello. Il re, con una splendida armatura e ricoperto di ricche vesti, adorno di pie­ tre preziose, cavalcava un focoso cavallo, saldo e imponente come sem­ pre: tanta era la sua disciplina interiore. Del resto, era stato pattuito già da un pezzo che Ferdinando dovesse lasciare la Spagna, appena Carlo vi fosse arrivato. Non doveva sussistere la possibilità di parteggiare per l'infante nato ed allevato in Spagna; ma, nel grande retaggio absburgico, egli ·avrebbe trovato una conveniente si­ stemazione. Ferdinando si preparò subito alla partenza e approdò senza danno nei Paesi Bassi, dove la zia Margherita, la cui casa era rimasta vuota, accolse amichevolmente il principe, male avvezzato in Spagna, ma, a quanto sembra, molto amabile. Per lo spirito e il comportamento dei Borgognoni, ancor piu signifi­ cativo dello splendido ingresso a Valladolid fu il primo torneo, che fu organizzato con ostentata compiacenza, « per mostrare agli Spagnoli la grande audacia di questi signori». I signori di Beaurain e di Sanzelles, di Porcean e di Fiennes, rampolli delle famiglie di Croy, di Lannoy, e di Lussemburgo, misero in campo sotto la loro guida trenta cavalieri per parte: « ogni cavaliere era come un san Giorgio», e loro stessi erano co­ perti di preziosi broccati d'oro e d'argento, con pennacchi e cimieri che ricadevano fin sulla groppa del cavallo. Prima venivano gruppi di tre ca-

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valieri, quindi tutta la schiera che combatteva all'arma bianca. Quando le lance si spezzarono, essi si lanciarono gli uni contro gli altri con la spada in pugno. Vi furono cavalieri è cavalli feriti; presto ci furono dieci cavalli morti; i cavalieri combattevano a piedi. Quando il sangue comin­ ciava già a scorrere a fiotti e gli spettatori, specialmente le dame, grida­ vano: «Gesu, Gesu», Carlo proibi che i combattimenti continuassero. Ma i combattenti erano animati da tanto furore che si dové separarli con la forza. Segu(, nondimeno, un gran ricevimento e un ballo a corte, e si parlò ancora a lungo del «mirabile torneo». Si allestirono ancora numerosi spettacoli e caroselli, e anche tornei; forse non piu all'arma bianca, perché il re l'aveva proibito, ma sempre rnn incredibile dispendio e lusso. Lo stesso Carlo compariva spesso, an­ che lui in ricchissimo abbigliamento borgognone, con un'enorme schiera di tamburi, pifferi, timballi e un imponente corteo di paggi, che porta­ vano i suoi colori. Un giorno egli si presentò con uno scudo recante la scritta: «Nondum» (Non ancora): era l'interpretazione giovanile del piu orgoglioso: «Plus ultra». Egli sentiva già in sé grandi possibilità future, e se ne inebriava nella sua giovanile baldanza, ancora penetrata della sen­ suale bellezza della vita cortigiana. Ripensava con nostalgia ai Paesi Bassi e ai vecchi amici. Nel gennaio 1518 scrisse da Tordesillas a Enrico di Nassau, in uno stile affatto spontaneo e personale. Voleva rispondere di Nua mano, «con la sua bella mano», alla sua ultima «pazza» lettera. Va­ rie allusioni a Lalaing e alle gite in slitta lo conducevano a parlare delle dame, che in Spagna gli piacevano poco, tranne una, che purtroppo s'im­ hellettava tremendamente. Se non chiacchierava piu spesso «col suo caro Enrico>>, sarebbe diventato savio come Salomone; e questo certamente �li poteva servire, con tutti i supersaggi che qui lo assediavano. Cos( egli vedeva ancora il mondo. Nell'abituale stile cortigiano si sentiva libero t' a suo agio. Ma come andavano le cose per quanto concerne la sua attività di go­ verno? Il nostro racconto deve abbandonare a poco a poco il festoso mondo cortigiano nel quale il regale giovinetto si moveva con una certa sicurezza, e cercar di stabilire fino a che punto egli partecipasse agli affari, nei quali

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abusi. La moderna concezione dello Stato rappresentata dai funzionari colti, che, a differenza della Borgogna, in Spagna si era già affermata, si esprime qui ormai con un suo chiaro linguaggio.«Avere Dio davanti agli occhi»: con tale monito comincia questo Specchio dei Principi. Al suo giovane re, Pedro Ruiz propone come modello il sovrano che dedica ogni giorno due ore alla preghiera, due allo studio, due all'amministrazione della giustizia e due alle cose militari. Raccomanda di accoppiare giusti­ zia e clemenza, sull'esempio del Re dei re: anche con l'assoluzione si sod­ disfano le esigenze della giustizia. I calunniatori devono essere condan­ nati alle stesse- pene dei colpevoli. Va curata anche l'Inquisizione, purché sia nelle mani di giudici esperti. La cosa migliore è di non dover mai ri­ correre alla confisca dei beni; se ciò non è possibile, bisogna ricorrervi soltanto quando vi sia la testimonianza di quattro testimoni oculari, e il reo abbia confessato senza tortura. Le arti dei giudici per estorcere com­ pensi arbitrari sono inesauribili: bisogna abolirli. Anzitutto, non lasciare ai giudici nessuna partecipazione alle sostanze confiscate: quand'anche agissero onestamente, rimarrebbe pur sempre il sospetto; del resto, era noto che, al massimo, solo un terzo dei beni confiscati entrava nelle casse dello stato. Occorre rendere difficile il ricorso negli affari di poca impor­ tanza; ma per le cause di maggior rilievo devono essere creati nuovi tri­ bunali d'appello. Nelle concessioni di favori da parte di funzionari che hanno acquistato la loro carica una parte delle somme ricavate deve es­ sere devoluta alla cassa dello stato. Pedro Ruiz non si limitava a denunziare gli inconvenienti dell'ammini­ strazione giudiziaria. Andava molto piu in là, giungendo a parlare di scarsa giustizia sociaì� e di ineguale ripartizione degli oneri. A proposito della stima dei beni per le imposte, parlava dell'enorme svalutazione della moneta di conto, il«maravedi >>: originariamente una moneta d'oro, era diventato in seguito d'argento, e il suo valore era sceso da un terzo di «real», a un settimo, a un quattordicesimo, e infine a un trentaquattre­ simo di «real». Egli chiedeva anche ordinanze contro i ricchi che occu­ pavano col loro bestiame ampi tratti dei territori comun�li; lamentava che su cinquanta contadini soltanto uno o due fossero in buone condizioni economiche. Bisognava rivedere gli oneri che pesavano sugli abitanti per

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Mli alloggi delle truppe (prima la Corte pretendeva un terzo, da ultimo la metà dei redditi): in caso di lunga permanenza era necessario pagar loro un'indennità. Tutta la politica finanziaria doveva tendere alla riduzione delle imposte per il benessere del popolo minuto. Per le truppe perma­ nenti, circa 1000 cavalieri pesanti, 500 cavalleggeri e 2000 fanti,. basta­ vano 190 000 ducati l'anno; per altri 9000 uomini in servizio ausiliario, 90 000 ducati. Per un personale di corte di 500 persone dovevano essere ,mflicienti 100 000 ducati, graduando adeguatamente le spese. Tutte que11te cifre non erano affatto utopistiche; erano anzi superiori a quelle spese dai re cattolici, ma certo erano state da molto tempo largamente superate dulla corte borgognona. L'autore ripete di continuo che tutte queste spese non gravavano soltanto sui sudditi, ma in primo luogo sulla coscienza del principe. Particolarmente interessanti sono le sue richieste riguardanti il diritto rnnonico. Il pàpa avrebbe dovuto trasferire al re le regalie e taluni diritti del clero; il pontefice sarebbe stato forse disposto ad accondiscendere, dato d1e, recentemente, « tanti Spagnoli avevano versato il sangue per papa (;iulio, per non parlare delle prestazioni in danaro». Non bisognava sot­ t rnrre i chierici (tranne i preti consacrati) alla giustizia secolare, giacché In tal modo molti delinquenti rimanevano impuniti; non bisognava con­ Nncrare sacerdoti, se prima non fossero stati loro assicurati i mezzi di Nostentamento. Pedro Ruiz si spinse anche piu in là, deplorando l'ecces­ Nlvo numero di giorni festivi e proponendo di accordare l'indulgenza ple­ nnria una volta l'anno e sul letto di morte a tutti coloro che compivano veramente i loro doveri ecclesiastici. Bisognava sorvegliare i decreti di Interdetto, e, piu in generale, istituire un tribunale regio per gli affari rcclesiastici; non ci doveva essere la possibilità di ricorrere a Roma, dove, rnm'era noto, troppe cause finivano in niente. Bisognava impiegare - le • nnnate» 1 per combattere gli infedeli e migliorare le condizioni dei 1,overi. Tutte le forze del paese, invece di disperdersi in funeste fazioni r discordie dovevano raccogliersi contro gli infedeli. Questi consigli attestano una notevole perspicacia, ma non ci dànno 1 ( Contributi pagati al papa].

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certo un quadro ottimistico delle condizioni generali, sia nelle città che nelle campagne. Non sappiamo in che misura il re sia venuto a conoscenza di questo memoriale. Non ci stupisce, tuttavia, che i memoriali stesi pid tardi da Carlo concordino in qualche punto con quello di Pedro Ruiz ed altri simili scritti dei suoi consiglieri, improntati a un nobile desiderio di riforme e a un serio cattolicismo. Comunque il governo del re, di fronte alle precise rivendicazioni delle Cortés del febbraio 1518, fu costretto a prender posizione altrettanto chiaramente. Uno dei procuratori di Burgos, il dottor Zumel, nonostante tutti i tentativi di intimidazione, difese con coraggio i diritti delle Corté1, dapprima opponendosi alla nomina a loro presidente del cancelliere Sau• vage, poi domandando che le Cortés prestassero omaggio di fedeltà e il re giuramento. Il loro desiderio prevalse. Il 5 febbraio ebbe luogo l'atto solenne, e il 7 segui l'omaggio dei grandi e del clero. Le Cortés presentarono le loro richieste in ottantotto articoli, alcuni dei quali non facevano che ripetere il pensiero di assemblee precedenti: le dichiarazioni del 1469 sul re come mandatario del popolo oltre a di­ versi provvedimenti economici, come il divieto d'esportazione dell'oro, dell'argento e dei cavalli e di alienazione dei beni della Corona. Altri punti, analoghi alle richieste di Pedro Ruiz, domandavano l'abolizione degli abusi dell'amministrazione giudiziaria, l'esercizio normale dell'In­ quisizione, la regolare concessione da parte del re di udienze giornaliere, e la riunione periodica dei Consigli. Identico carattere hanno la richiesta di limitare le predicazioni d'indulgenze, le considerazioni contro le tasse dei tribunali ecclesiastici e contro la concessione di benefici da parte del papa in favore di stranieri. Il resto si riferisce direttamente a preoccupa­ zioni dell'ora. Le Cortés desideravano che la regina fosse trattata con dignità e pregavano il re di ammogliarsi presto e di lasciare l'infante nel paese fino alla nascita di un erede del trono. Tutto questo aveva un'into­ nazione strettamente dinastica. Ma le Cortés rinnovarono la pretesa, avanzata già ai tempi di Jiménez, che il re non conferisse né cariche né benefici ecclesiastici a stranieri; che il nuovo arcivescovo di Toledo risie­ desse in Spagna; che nella corte prestassero servizio soltanto spagnoli. Personalmente al re era rivolta la preghiera di parlare spagnolo. Imba-

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r11zzante fu il richiamo all'eredità e alle ultime volontà del cardinale liménez. Migliore accoglienza ebbe il loro desiderio, fortemente sotto­ lineato, di conservare la Navarra, definita la chiave del reame. Che le Imposte fossero riscosse dalle città stesse, e non per mezzo di appaltatori_ rra una loro richiesta fondamentale, alla cui soddisfazione era subordi­ nata la concessione di un « servicio » straordinario di 600 000 ducati, ripartito in tre anni. Il governo del re rispose in modo conciliante su tutti i punti; in modo rlusivo quando non poteva fare altrimenti, come a proposito della par­ tenza dell'infante, da lungo tempo fissata. Le proteste contro le interfe­ renze della Curia romana nella vita e nel patrimonio della Chiesa spagnola rrano conformi allo spirito di quella Chiesa di Stato, che si andava raf­ forzando. La dichiarazione riguardante la difesa della Navarra era dop­ piamente gradita al governo; ormai, esso vi era obbligato dal paese stesso! Il 22 marzo Carlo lasciò Valladolid, diretto in Aragona e in Castiglia, Jove passò attraverso le stesse feste, le stesse cerimonie, le stesse diffi­ mltà, ma anche attraverso i medesimi successi. Dato il rapporto di gran­ dezza tra la minuscola Aragona e la Catalogna da un lato, e la Castiglia dall'altro, i 200 000 ducati ottenuti da Carlo a Saragozza e i 100 000 11vuti piu tardi dalle Cortés catalane a Barcellona risultavano somme assai considerevoli. Comunque sia, le trattative con gli Aragonesi erano assai lliu difficili, e andavano per le lunghe, attraverso meschini formalismi. Cosi i Castigliani si fecero molto cattivo sangue, vedendo che la Corte, la quale si era fermata a Valladolid solo quattro mesi e non aveva giudi­ cato opportuno visitare nessun'altra città del vasto reame, trascorreva il resto dell'anno a Saragozza, e quasi l'intero anno successivo (1519) a Barcellona, consumando cosi i propri redditi in Aragona. Ma anche in Aragona c'era ogni sorta di malumori. L'arcivescovo di Saragozza si doleva di non esser stato ammesso a Tordesillas a visitare la regina, sua sorellastra; fatto che diede adito a interpretazioni arbitrarie. Le lamentele sull'avidità degli stranieri seguivano anche qui il passaggio della Corte, come alte nuvole di polvere visibili anche di lontano. Natu­ ralmente, i negoziati che andavano per le lunghe, specialmente a Barcel­ lona, tolsero al governo ogni desiderio di esporsi agli stessi inconvenienti

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nella terza terra della Corona aragonese, Valenza; il che doveva produrre altre e piu gravi conseguenze. La partecipazione personale del re nel corso di quelle trattative fu pressoché nulla: tranne che, ancora una volta, nella sfera della vita di corte. A Barcellona, nel Capitolo del Toson d'oro dove furono finalmente eletti cavalieri otto castigliani delle maggiori famiglie, oltreché un arago­ nese e un napoletano, Carlo si oppose ripetutamente alle opinioni e ai desidert di Guillaume de Chièvres, come attestano i protocolli dell'Or­ dine. Ma nel campo politico Carlo cominciava appena allora ad assumere la sua parte di responsabilità. Prestò giuramento, ricevette gli omaggi, e prese parte diretta a tutti gli atti del suo governo. Ma, pur garantendo cos{ l'unità d'azione del governo, non attirava ancora sulla sua persona i risentimenti e le critiche. Se la riservatezza fu sempre una delle massime virtu dei principi, Carlo seppe farne uso, forse spinto dalla necessità, a beneficio del proprio avvenire. Politica spagnola o politica universale? Bersagli di tutti gli attacchi e le proteste restavano, come prima, i capi responsabili del suo governo: Chièvres e Sauvage. Fu quindi in un certo senso un evento fortunato che il gran cancelliere Sauvage morisse, quasi improvvisamente, il 7 giugno 1518, recando con sé nella tomba una parte dell'odio degli Spagnoli. Gli succedette Mercurino di Gattinara, un uomo destinato a stabilire col passar degli anni migliori rapporti con gli Spa­ gnoli, ma che, in pari tempo, avrebbe dato un maggior respiro al govern() di Carlo, spostando i suoi interessi dal limitato mondo borgognone o spagnolo alla visione di una politica universale. Il suo ingresso negli af­ fari, e nella cerchia ristretta dei consiglieri di Carlo, fu infinitamente piu importante di tutte le minuziose trattative con le Cortés, in cui, tuttavia, si possono riconoscere le difficoltà del momento e il germe dei futuri avvenimenti. Gattinara doveva esercitare il proprio influsso non solo sulla grande politica, ma piu ancora sulla stessa personalità di Carlo, come il solo Chièvres prima di lui e nessun altro dopo. Fu una coincidenza, peraltro oltremodo significativa, che il piemon-

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tese Mercurino di Gattinara entrasse nel governo, come « gran cancelliere di tutti gli stati e i paesi del re», proprio nel momento in cui stavano per aprirsi le trattative per la successione dell'Impero. Egli, infatti, a diffe­ renza di tutti i consiglieri che Carlo aveva avuti fino allora, era un uomo dichiaratamente universale. Da alcuni anni noi possediamo la sua auto­ biografia e una gran quantità di memoriali, stampati e manoscritti. La sua natura era limpida e sistematica, com'era chiara e netta la sua scrittura di umanista. La sua personalità, formatasi alla scuola della logica giuridica e impregnata a un tempo delle antiche concezioni dello Stato e della mo­ rale cristiana, irradia uno spirito che trascende cose e persone. A Carlo, cresciuto nella tradizione dinastica borgognona e che solo a fatica si an­ dava adattando alla nuova struttura secolarizzata dello stato spagnolo, Gattinara doveva fornire per primo, con la sua concezione umanistica dell'imperatore e dell'Impero, lo strumento indispensabile per governare in modo unitario tutte le sue terre e i suoi popoli. Nella fusione dell'idea dinastica con quella imperiale stava la soluzione del problema fondamen­ tale di Carlo. Egli radunava e accresceva in sé gli onori dei suoi antenati, e a ognuno dei suoi stati conferiva un po' dello splendore dell'Impero. Certo, non si può dimenticare che· tanto l'esaltazione dell'idea dinastica 4uanto il primato conferito all'« universale » rappresentavano l'opposto dell'ideale degli stati nazionali in via di formazione nell'Europa occiden­ tule. Questo antagonismo doveva accompagnare la vita di Carlo e la sua opera anche oltre la morte. Mercurino Arborio di Gattinara era nato a Vercelli nel 1465, da fa­ miglia di piccola nobiltà; salito in fama come giureconsulto, era entrato 11ssai presto al servizio del duca di Savoia, e Margherita l'aveva portato rnn sé, come consigliere giuridico, nella Franca Contea e nei Paesi Bassi. Presidente del Parlamento di Dole, in un affare personale che aveva perse­ Muito con un'ostinata coscienza giuridica, che ricorda quella di Jiménez, rgli aveva pur dovuto cedere alla fine alla nobiltà, guidata dal maresciallo di Vergy. Aveva conservato, però, la fiducia di Margherit.t; e anche Massi­ miliano gli aveva affidato importanti missioni, che già una volta, nel 1510, l'avevano condotto per un anno intero in Spagna, alla corte di Ferdi­ nando II. Ora, il fatto che dopo la morte di Sauvage ci si sia rivolti, senza

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alcuna esitazione, a Gattinara, attesta l'influsso tuttora notevole di Mar­ gherita e la perspicacia di Guillaume de Chièvres. VB ottobre egli arrivb in Spagna, e il 15 prese possesso dei sigilli. Le linee della grande politica rimasero da principio immutate; e Gat­ tinara non poté eliminare i malumori che regnavano in Spagna né mi­ gliorare le relazioni con la Francia. Quando la Corte ricevette a Lérida, con la posta del 28-29 gennaio 1519, la notizia della morte di Massimi­ liano, tornarono paurosamente alla ribalta le difficoltà di politica estera. Si venne subito a conoscenza degli sforzi del re di Francia per ottenere la corona imperiale. I negoziati di Montpellier per l'esecuzione del trat­ tato di Noyon, interrotti anzitempo nel maggio 1519 per la morte im­ provvisa del primo delegato francese Arturo Gouffier, « grand maitre de France», erano inevitabilmente condannati a fallire. La grandezza del governo di Carlo consistette perciò in quel momento nel non lasciarsi distogliere, nel suo nuovo orientamento nel campo della politica europea, dalle contrarietà e i pericoli della situazione interna dei reami spagnoli. Certamente, se nei due anni e mezzo trascorsi in Spagna, il contegno della Corte fosse stato diverso, molte cose sarebbero andate meglio; ma in nessun caso sarebbero state rimosse le difficoltà interne. Un errore della vecchia storiografia pragmatistica, dai contemporanei in poi, fu di scorgere principalmente nelle singole azioni e nel contegno personale dei governanti le cause di movimenti che viceversa avevano origini assai piu profonde. Naturalmente, come sempre, le circostanze personali inasprivano quelle generali. Il governo di un cortigiano borgognone, abituato a trarre pro­ fitto personale dalle alte cariche ricoperte, accanto a una regina-madre incapace di governare e a un giovane re estraneo ai luoghi e alle persone come agli affari pubblici; il peggioramento di giorno in giorno dei rap­ porti con la Francia; l'esclusione delle migliori forze nazionali, che in parte erano temute e in parte non si sapevano apprezzare; i disordini e le meschine rivalità tra i reami e le caste rivali; la concessione di un altro « servicio» a un re costretto ad abbandonare nuovamente il paese, privo di un governo stabile da piu di sedici anni, senza neppure la certezza di un erede; tutto ciò doveva rendere profondamente inquieti gli Spagnoli

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dotati di coscienza politica. In primissima linea si trovavano, anche se non aole, le città della Castiglia organizzate nelle Cortés. Fu cosi che da queste città e dai loro contrasti interni, nacque la rivo­ luzione, le cui prime avvisaglie si erano già manifestate quando la corte, alla notizia che Carlo era stato eletto re dei Romani, rinunciando all'o­ maggio di Valenza, mosse sollecitamente dalla Castiglia verso la costa settentrionale, con l'intento di raggiungere la Germania attraverso l'In­ ghilterra e i Paesi Bassi. Sembra che il Gattinara avesse previsto, senza l'he il suo monito potesse ancora prevalere contro l'opinione di Guil­ laume de Chièvres, che la convocazione delle nuove Cortés rischiava di fomentare anziché calmare l'agitazione delle città e che con la richiesta di un nuovo « servicio» prima della liquidazione dell'antico si spingeva l'opinione pubblica alla rivolta. Contro ogni consuetudine, le Cortés di Castiglia furono convocate nella lontana Santiago, e furono congedate a fatica, non sempre con buone maniere, nella città portuale di La Corufia. Ma a Valenza già da tempo era scoppiato un grave conflitto fra la nobiltà e una germania piccolo-borghese, provocato da contraddittori prov­ vedimenti del governo. Nel maggio 1519, infatti, il re aveva incoraggiato le corporazioni ad armarsi per difendere la costa contro i pirati; e seb­ bene le loro trionfali sfilate in armi avessero assunto un significato per lo meno ambiguo, col rescritto di Praga del 31 gennaio 1520 egli aveva ufficialmente appoggiato la loro lega, provvedendo con fiducia al loro 11rmamento. Le stesse corporazioni, del resto, vedevano ancora la monar­ chia come fonte di giustizia. E i loro capi, il lanaiolo Juan Lorenzo, il piu appassionato Sorolla, l'abile confettiere Juan Caro e Jeronimo Coll avevano avuto dei contatti anche a corte, assicurandosene in una certa misura l'appoggio. Nel frattempo anche i nobili si erano rivolti alla corte, e chiedendo al re, « per sgravio della coscienza di Sua Maestà», di acco14liere il loro omaggio personale, avevano avuto una risposta altrettanto favorevole. Le corporazioni furono esortate a tenere un contegno piu cauto. Tuttavia, le ultime istruzioni date ad Adriano di Utrecht e al vicerè di Valenza consigliavano nuovamente di favorire la germania (o confra­ ternita), che si era diffusa in tutto il reame, e che, sia nelle città come nelle campagne, prendeva posizione contro la nobiltà.

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In Castiglia, la partenza del re, divenuta palese, e il contegno favo� revole al governo di singoli procuratori alle Cortés furono il segnale di insurrezioni popolari, che ben presto assunsero forme violente e finirono col trascinare nel loro vortice, in un modo o nell'altro, tutte le classi SO• ciali; alla loro testa troviamo perfino dei membri dell'alta nobiltà. Una delegazione di Toledo, guidata da Pedro Laso de la Vega, non era stata ricevuta. Era assai diffusa l'opinione che la corte, lungi dal curare i loro interessi, asserviva i reami spagnoli a una politica straniera; a Valladolid, mentre la corte si metteva in viaggio erano state suonate le campane a stormo: solo grazie a fortunose circostanze essa poté effettivamente rag• giungere la porta della città. I negoziati delle Cortés si svolsero perciò in uno stato di crescente tensione. I borghesi e la loro « Comunidad » avevano avuto la meglio a Toledo, al principio di aprile, e il regio « cor­ regidor» aveva dovuto abbandonare la città. Ancor piu gravi episodi av• vennero a Segovia e a Zamora; finché, il 29 giugno 1520, a Davila, le città piu interessate decisero di stringersi in una Santa Junta. La Corte s'era imbarcata a La Corufia fin dal 20 maggio. Poiché le città stesse erano tra loro discordi e poiché i Comuneros si volgevano ovunque sia contro la nobiltà che contro i funzionari regi, ben presto il paese fu coinvolto in una generale e rovinosa guerra civile, di fronte alla quale il cardinale Adriano di Utrecht, lasciato come reggente dal re, si trovò, fin dal principio, perplesso e impotente. Era stato molto comodo per Guillaume de Chièvres, come già negli ultimi mesi di vita di Ferdinando d'Aragona, approfittare del profondo legame di Carlo col suo maestro spirituale per scaricare su questi un compito questa volta davvero inattuabile. D'ora innanzi dovremo occuparci di quel nuovo simbolo di potenza che, non senza influsso del Gattinara, tanta forza d'attrazione esercitava sul giovane principe: la dignità imperiale. « Essa - stava scritto nelle istruzioni ad Adriano - è cosi grande ed elevata da offuscare tutte le altre dignità di questa terra». Questo era il motivo che spingeya la Corte ad abbandonare tanto in fretta, e per tre lunghi anni, i reami spagnoli in piena rivolta.

III.

ARCIDUCA D'AUSTRIA E IMPERATORE ROMANO GERMANICO

Scarso conto si è tenuto fin qui del fatto che il re di Castiglia e di Aragona, in quanto figlio di Filippo di Borgogna e nipote di Massimiliano d'Austria, era anzitutto l'erede delle antiche terre absburgiche. Suo padre, rnme abbiamo già visto, aveva compiuto poco prima del suo matrimonio 11pagnolo, una visita a Innsbruck; Carlo, invece, non aveva ancora messo piede né sul suolo tedesco, né tanto meno nei paesi ereditari austriaci dell'alto Reno e del Danubio. Erano per lui eredità tanto lontane quanto le Nuove Indie, che proprio allora Cortéz andava ampliando attorno alla Nuova Spagna. Né Carlo parlava ancora l'altotedesco; si limitava ad in­ dudere nel lungo elenco dei suoi titoli i numerosi nomi stranieri delle 1ue terre tedesche. Fra esse vi erano i paesi d'origine degli Absburgo alla svolta dell'alto Reno, vicino alla Franca Contea, il langraviato situato in Alsazia col centro amministrativo di Ensisheim, le signorie intorno alla sempre piu forte Confederazione svizzera, le contee nella Brisgrovia, nella Svevia, nel Vorarlberg e nel Tirolo, dove a Innsbruck aveva sede l'amministrazione preposta a tutti i paesi dell'Austria anteriore; e, infine, l'Austria, la Stiria, 11 Carinzia, la Carniola e la Marca di Windisch, rette dall'amministra­ ilone di Wiener Neustadt. Tutti paesi ricchi e produttivi, anche nelle wne montagnose, per i metalli preziosi e le miniere in esercizio; e impor­ tinti per i loro valichi internazionali: l'Arlberg, il giogo di Worms e il Brennero. C'erano inoltre il vescovato di Bressanone, racchiuso nel Tirolo, e il limitrofo vescovato di Trento, che si estendeva sino ai margini delle Alpi. Da qui in avanti, verso est, le contrade alpine circondavano la terra­ ferma veneta, antico dominio dell'Impero e costituente un tempo la marca

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veronese, che soltanto nell'ultimo secolo era stata conquistata, pezzo per pezzo, dalla repubblica di San Marco. Misero risultato delle ultime co­ stose guerre di Massimiliano, erano rimaste agli Absburgo, dopo la rinun­ zia a Verona, soltanto Riva e Rovereto, oltre ad insignificanti rettifiche di confine. L'Austria propriamente detta, da Linz a Vienna, con la via del Da­ nubio, geograficamente e politicamente cosi importante e situata com'era fra i regni di Boemia e di Ungheria, traeva da questa vicinanza a un tempo rischi e prospettive importanti di politica estera e interna. Dopo un pas­ seggero governo del partito nobiliare, che anche in Austria rappresentava pur sempre un pericolo, i regni confinanti erano di nuovo finiti nelle mani dei Jagelloni; essi perciò vanno considerati nella loro unità dina­ stica con la Polonia.

Massimiliano I. I paesi ereditari e l'Impero.

Massimiliano I aveva ricevuto dal padre, Federico III, una cattiva eredità. La reputazione e la effettiva potenza della sua Casa erano state seriamente compromesse. Egli seppe tuttavia trarre nuove grandi possi­ bilità da questa successione fallimentare, pur lasciando fortemente gravati i paesi ereditari. Era incostante, aveva progetti in soprannumero, poca pa­ zienza e scarsissimo denaro. Ma quelli che si aspettano o esigono da lui il successo in ogni campo, commettono lo stesso errore di coloro che rim­ proverano a Massimiliano ogni sorta di sbagli. Il figlio di Federico III e di una principessa portoghese, Eleonora, lo sposo di Maria di Borgogna e piu tardi di Bianca Maria Sforza, apparte• neva, in senso assai diverso dagli antichi imperatori tedeschi, al mondo europeo, venutosi nel frattempo allargando. Egli sostenne con bravura e disinvoltura ogni parte richiesta dal momento; ed è significativo che pur avendo trascorso gli anni della giovinezza nell'inebriante atmosfera corti­ giana della corte borgognona, egli si abbandonasse con lo stesso spirito romantico ai gusti umanistici del Rinascimento. Da queste due sorgenti egli trasse la concezione di un impero universale, brillante e cavalleresco,

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rnn tutta l'irrealtà delle sue pretese e delle sue guerre, che troppo spesso rrano una sfida alla ragione e simili a strepitosi tornei. Nella piu straor­ dinaria confusione turbinavano nella sua mente il pensiero della Casa tl'Absburgo e della sua magnificenza, e quello della dignità imperiale, 111cra sopra ogni altra cosa; come pure fantastici doveri di lotta contro ili infedeli e la confusa concordanza di questi due concetti con l'onore r l'interesse della nazione tedesca. Inoltre, aveva visto abbastanza da vi­ rino e per tempo il mondo anglo-fiammingo e il moderno mondo italiano per sapere che maestà, onore e denaro erano, di necessità, strettamente rnllegati. E, siccome nei suoi inizi il secolo era molto piu ricco di progetti 1,olitici che di realtà formate, cosf anche lo spirito e il carattere di Mas1lmiliano affermarono molto piu di quanto potessero conservare ed asse1tare. Ciò si riflette in modo assai istruttivo, e spesso grottesco, nelle sue fantasie letterarie e nella sua partecipazione alla pubblicistica ufficiale del aoverno. Massimiliano si compiacque di rivolgersi agli Stati del Sacro Romano Impero chiamandoli« Corpo cristiano», e di esortare alla guerra un principe dell'Impero con queste parole: « in nome del dovere e del­ l'ubbidienza, dalla quale sei legato a Dio nostro Creatore e alla sua santa Fede e a Noi come a Suo magistrato e tuo naturale Signore, che tu da quest'ora in poi ci sovvenga del tuo aiuto, come ti suggerisce la salvezza Jell'anima tua e anche l'onore e il dovere». Il suo sentimento nazionale era un oscuro miscuglio di formule religiose, di coscienza dell'unità lin11uistica e dei destini imperiali, il tutto orientato principalmente contro la Prancia conforme alla visuale borgognona. « Gli Stati,-: disse nel 1509, devono considerare che noi, come sovrani d'Austria e di Borgogna, ab­ biamo sostenuto e sofferto per lunghi anni un fardello assai pesante, e fatiche e spese a causa dei Francesi, degli Svizzeri, dei Gheldri, degli Ungheresi e dei Turchi». Eppure lo stesso principe che arruolava « per la loro lingua» gli Svizzeri contro i Francesi, e che sosteneva di combat­ tere nei Paesi Bassi « perché nessuna gente di lingua straniera penetrasse nella nazione tedesca», con i suoi due unici figli parlava e scriveva sol­ tanto in francese. Egli, che per primo in un rescritto ufficiale scese in rampo contro la Francia come« nemico ereditario» e che considerò risolu-

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tamente Carlo Magno come un tedesco, non ebbe, per molti anni, altra ambizione che di sposare l'erede della Bretagna e di diventare cosf due volte vassallo del· re di Francia. Un po' come sovrano dell'Impero, m1 piu ancora per ostilità contro la Francia, rivendicò Milano; e anche contro Venezia mosse in guerra in parte per questa sua disposizione antl• francese, e in parte per certi contrasti di frontiera verso sud-est, sull1A• driatico. Non fa meraviglia che gli Stiinde o Stati tedeschi, che gli avevano strappato la riforma dell'Impero, mostrassero scarsa propensione a se• guirlo nei suoi progetti saltuari e mutevoli, spesso geniali e fantastici mi sempre insufficientemente fondati. Egli ebbe moltissimi torti verso la na• zione tedesca, ed era troppo domandare che i principi, al pari di lui, ve­ dessero senz'altro fusi in un sol tutto gli interessi dei paesi ereditari, della Casa d'Absburgo e dell'Impero. Nonostante il suo insensato progetto di diventare re di Svezia, Massimiliano sub{ alla fine un pieno insuccesso nel Nord-Est e in Prussia, per ciò che concerneva l'Ordine teutonico. Non ebbe fortuna con i nemici ereditari della sua Casa, gli Svizzeri, n� per lo piu in Italia. Ma, in fin dei conti, non si deve dimenticare che, nonostante qualche tensione, Massimiliano fini coll'adempiere in Borgo­ gna, grazie alla sua particolare ostinatezza, un compito estremamente difficile; che lasciò l'Impero mirabilmente regolato nel suo ordinamento rispetto a quel che era prima, con la sua «pace territoriale perpetua i. (ewige Landfriede), un Tribunale camerale (Kammergericht), in cui erano rappresentati _i vari Stati, la suddivisione in «circoli» imperiali (Reichs­ kreise) e utili disposizioni di carattere monetario, come il «Pfennig co­ mune» o la «matricola», anche se queste concessioni gli vennero strap­ pate. Massimiliano portò la sua dinastia non solo a impossessarsi dei reami spagnoli, ma glieli assicurò congiungendo alle sue ardite pretese di collaborare alla reggenza un'intelligente capacità di adattarsi al carattere di Ferdinando d'Aragona. Fu certamente lui che, riallacciandosi a passate trattative, pose, durante le solenni giornate viennesi del luglio 1515, gli ul­ timi fondamenti dell'acquisto dell'Ungheria e della Boemia. Il documento del 20 luglio, col quale Massimiliano adottò come figlio Luigi Jagellone di Boemia, figlio di Ladislao, e invitò gli elettori ad eleggerlo imperatore,

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rimane incontestabilmente uno dei piu straordinari della storia tedesca; 111cora piu strano fu il duplice contratto di nozze in forza del quale Luigi venne unito da una formale promessa di matrimonio a Maria di Absburgo e sua sorella Anna allo stesso vecchio Massimiliano, che doveva essere 1utorizzato a prendere subito possesso di Anna per la Casa di Absburgo. Massimiliano non poteva supporre che queste fantastiche combinazioni 11vrebbero prodotto cosf presto conseguenze molto tangibili. Egli parteci­ puva a un processo storico quando raccoglieva in una unità dinastica tutte le forze che si opponevano ai Turchi, avanzanti minacciosi nell'Europa \Cntro-orientale fin dalla metà del secolo precedente. Certo tutto ciò non era affatto politica «nazionale►>, nel senso otto­ l'Cntesco del termine. Eppure, la condotta di Massimiliano non solo influf 1ulla storia successiva per secoli, ma indicò soluzioni che, per vaste parti ,lcll'Europa, sono altrettanto storicamente giustificate, come possibilità eterne, quanto l'idea dello Stato nazionale. Associando Ferdinando a ,1ueste prospettive ereditarie, Massimiliano determinava già in anticipo l'assetto che sarebbe stato piu tardi stabilito da Carlo, mediante una spar­ tizione di domini fra lui e suo fratello. La suecessione imperiate ( 1519) .

La sovranità nelle terre austriache e nell'Impero tedesco, ancor piu rhe nel ducato di Borgogna o anche nei reami spagnoli, aveva, per i suoi presupposti politici, un carattere molto medievale: un'accolta disorganica di possedimenti personali e di sovranità usufruttuarie, in mezzo a una Rran varietà, formalmente vassalla, ma in realtà indipendente, di principi, di signori, e di comunità cittadine accanto a loro, e nei loro territori. I titoli dei vari signori - duchi, margravi e conti - si distinguevano giuri­ ,licamente tanto poco fra loro quanto i medesimi titoli in Spagna o in Borgogna. Perfino la differenza tra la dipendenza da un principe territo­ riale e quella immediata dall'Impero doveva acquistare la sua importanza davvero significativa soltanto nelle lotte confessionali e religiose della generazione successiva. Ma tutti questi territori dell'alta e bassa nobiltà

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avevano già una configurazione piu organica di quella dell'Impero. An­ che modesti presagi di una piu elevata idea statale erano nati in questi Stiinde, o Stati, in parte attraverso un'amministrazione paternalistica e in parte attraverso le lunghe lotte per la riforma dell'Impero; e avevano ricevuto varie caratteristiche formulazioni per opera di dotti funzionari. Mancavano invece linee chiare nella politica imperiale, come non esi­ steva una politica estera tedesca. I sette elettori, i tre ecclesiastici di Magonza, Colonia e Treviri e i quattro laici di Boemia, del Palatinato, di Brandeburgo e di Sassonia, oltre a piu estesi privilegi nei confronti del governo imperiale, avevano, nei periodi di vacanza del trono, un'importanza molto superiore alla loro potenza territoriale. Poiché il nipote di Massimiliano era duca di Borgogna e re di Spagna e gareggiavano con lui per la Corona tedesca i re d'Inghilterra e di Francia, l'importanza degli elettori negli ultimi anni di regno di Massimiliano era diventata addirittura europea. Ciò veniva ancor piu accentuato dall'interesse della Curia romana per ogni possibile imperatore, e del papa, come sovrano dello Stato della Chiesa, per il re di Francia, da poco diventato strapotente nell'alta Italia, e per il re spa­ gnolo di Napoli. Per Francesco I l'Impero significava il consolidamento giuridico della sua posizione in Italia, il massimo appagamento delle sue ambizioni e l'orgogliosa soddisfazione di rendere due volte suo vassallo il giovane Carlo. Ma che Enrico VIII (il quale, secondo il tradizionale antagonismo con i Valois, aveva appoggiato le coalizioni contro Luigi XII e Francesco I, non solo in Borgogna e in Navarra, ma anche nell'alta Ita­ lia, e che tuttavia alla fine aveva mutato rotta, meditando un matrimonio di sua figlia col Delfino di Francia) avanzasse anche lui la propria candi­ datura alla corona imperiale, mostra quanto lontana fosse ancora in quel tempo la stessa Inghilterra da una realistica politica nazionale e come anche i primi Tudor avessero ancora una mentalità universalistica me­ dievale. Certo, dopo i regni dei principi del Lussemburgo e dei tre principi d'Absburgo, l'ereditarietà del regno di Germania dove.va essere di nuovo considerata normale, come nell'alto Medioevo. Ma il re Carlo di Spagna anche se era nipote di Massimiliano e se i suoi sostenitori facevan valere

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in tutti i modi questa discendenza-, era in fondo altrettanto lontano dai principi tedeschi quanto i re d'Inghilterra e di Francia. Massimiliano non si faceva illusioni in proposito. Tuttavia, quando, nell'effusione di nuove amicizie o in un momento di tensione col governo ili Borgogna o in una delle solite difficoltà finanziarie, egli promise la corona imperiale una volta al minorenne re di Boemia e d'Ungheria, un'altra a Enrico VIII d'Inghilterra, non si può seriamente mettere in dubbio che, in fondo, egli non cessava di pensare alla propria dinastia. Ancora nel 1551 il conte palatino Federico ricordava assai vivacemente rnn Veltwyk gli scoperti maneggi di Massimiliano nel 1513. Con perfetta ingenuità, secondo la sua maniera, egli non perdette mai di vista i van­ taggi pratici dell'Impero e il profitto che si poteva trarre dal denaro spa­ ttnolo o borgognone per i suoi paesi ereditari. Fu questo interesse perso­ nale a render piu aspra la sua critica alle prime mosse del governo di Carlo che, attraverso un'ambasceria del signore di Courteville, aveva sol­ lecitato la successione ereditaria dell'Impero. Non bisognava far assegnamento sulla parentela, egli scriveva il 18 marzo 1518; l'unico argomento decisivo era« molto denaro». E, siccome I paesi ereditari avrebbero acquistato maggior valore con la corona impe­ riale, non bisognava lesinare. Con le cambiali non si rendeva servizio a nessuno; soltanto la moneta sonante contava. I principi avrebbero cre­ duto di piu all'oro dei Francesi che non a tutte le buone parole. All'elet­ tore palatino bisognava pagare 80 000 fiorini d'oro come risarcimento per Il baliaggio di Hagenau, che, a dir vero, apparteneva all'Impero, ma era Ji grande vantaggio ai paesi ereditari. Al duca di Sassonia andava pagata la somma, del resto modesta, di 30 000 fiorini d'oro per la rinuncia alla Frisia. Voler ingraziarsi i principi ecclesiastici con benefici era un'illu1lone: anche per loro i 4000 fiorini stanziati per gli elettori laici costi­ tuivano certamente il minimo, poiché qualcuno già da tempo aveva rice­ vuto molto di piu dalla Francia. Oltre che agli elettori bisognava pensare 1I principi, e specialmente al margravio Casimiro; e, siccome la Francia 1vcva offerto al figlio dell'elettore di Brandeburgo la mano della princi1>essa Renata (che abbiamo già incontrata piu volte), si poteva offrire, in 1ua vece, la mano di Caterina, sorella di Carlo. Anche per Franz von

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Sickingen occorreva non solo una pensione, ma anche (cosi era detto, quasi sfacciatamente) la riparazione dei danni da lui recati ai cittadini ·dJ Worms, ammontanti a 20 000 fiorini d'oro. Poiché il duca Luigi di Ba• viera rifiutava di ammogliarsi con la regina Giovanna di Napoli, biso­ gnava offrire a lui la figlia di Gonzalo Hernandez e a suo fratello Gu• glielmo la principessa Eleonora, la cui unione col vecchio re del Porto• gallo non era desiderata .da lui, Massimiliano. Soltanto con mezzi simili cl si poteva opporre alle « terribili pratiche» dei Francesi nell'Impero. Agli Svizzeri, data la grandiosità con la quale s'erano presentati i Francesi, non si poteva mandare Courteville; c'era bisogno d'un gran signore come Zevenbergen. Effettivamente, alcune settimane dopo, arrivarono nuove istruzioni per Courteville, e nell'estate, gli elettori si radunarono personalmente ad Au• gusta intorno a Massimiliano, tranne il re di Boemia ancora minorenne, che però fu rappresentato da plenipotenziari del suo piu prossimo colla• terale: il re di Polonia. Il 7 agosto tutti dichiararono all'imperatore d'es• sere disposti a eleggere imperatore suo nipote Carlo, tranne gli elettori di Treviri e di Sassonia; l'uno s'era probabilmente impegnato troppo a fondo con la Francia, l'altro si richiamò al veto della Bolla d'oro. Tuttavia la corte imperiale continuò a sperare di guadagnarli entrambi alla propria causa. La morte di Massimiliano, avvenuta il 12 gennaio 1519, aveva annul­ lato tutti gli accordi fra lui e gli elettori e scatenato piu viva che mai la lotta per la corona imperiale. In quel momento, oltre al gabinetto di Carlo, esistevano altri due go­ verni absburgici nei Paesi Bassi e in Austria. Entrambi ricevevano le loro istruzioni dalla Corte, ma per la grande distanza di questa erano costretti ad agire con una certa indipendenza. La loro competenza ed operosità eb­ bero grande importanza. Il governo dei paesi ereditari austriaci era appoggiato da Matthaeus Lang, vescovo di Gurk, dal 1511 cardinale e piu tardi arcivescovo di Sa­ lisburgo, dove già dal 1514 era coadiutore. Allora, e anche in seguito, ebbe fama di uomo duro, poco socievole, e piu di uno dei consiglieri borgognoni lo dichiarò inadatto a condurre le trattative per la corona imperiale. Al suo

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fianco c'era Michael von Wolkenstein, particolarmente prediletto da Mas1lmiliano: il suo nome ci è tramandato da un'iscrizione che ancor oggi 1aluta il visitatore all'ingresso del castello dei suoi discendenti, sopra Bressanone. Cancelliere era Cyprian von Serntein, da gran tempo in ca­ rica, al pari del tesoriere Villinger e di Hans Renner. A questo governo, rafforzato dai vescovi di Trieste e di Trento, da Dietrichstein, Roggen­ clorf e da alcuni altri consiglieri, Carlo aveva riconfermato i pieni poteri. Agli uomini di fiducia che gli Absburgo avevano nell'Impero apparte­ nevano inoltre il conte palatino Federico, nonostante il suo precedente forzato allontanamento dalla corte borgognona, e il margravio Casimiro del Brandeburgo, anche lui già da noi ricordato; oltreché il vescovo di Sion, Mathias Schinner, elevato alla porpora cardinalizia nel 1511. Oltre a questi principi e consiglieri tedeschi, gli Absburgo utilizzavano da molto tempo anche le loro forze borgognone: tra la nobiltà tedesca, anzitutto il conte Hugo von Mansfeld, e, nei Paesi Bassi, Maximilian Berghes, signore di Zevenbergen, che, insieme con Mansfeld e Wolken1tein, era appena stato insignito del Toson d'oro, e perciò fu assai coster­ nato quando gli parve di venir sottoposto al governo di Innsbruck. In 1cguito alle sue rimostranze la cosa fu subito accomodata, e anche Ni­ kolaus Ziegler fu rimesso in onore e preso in considerazione per la carica di vicecancelliere dell'Impero. Inoltre, nella cerchia di persone a lei piu llrossime, Margherita aveva scelto e inviato ad Augusta nei primi giorni ,li febbraio, perché si opponesse alle sollecitazioni francesi, il segretario Marnix zu Zevenbergen; egli doveva ammonire i principi tedeschi a stare In guardia dal denaro francese, che avrebbero poi dovuto ripagare a caro prezzo. Un altro consigliere di alta condizione, Hugo Marmier, si recò, press'a poco nello stesso tempo, presso gli elettori di Treviri e Magonza. Piu si avvicinava la data dell'elezione, e piu zelante si faceva l'arcidu­ t·hessa. Intorno a lei, costituivano il Consiglio di Stato Filippo di Kleve, Charles de Croy, principe di Chimay, Enrico di Nassau, Antoine Lalaing 1ignore di Hoogstraeten e il suo vecchio fedele Jean de Berghes. Questo governo mise a poco a poco in linea i suoi uomini migliori; dopo Zeven­ bcrgen, anzitutto Enrico di Nassau, il migliore amico di Carlo, che solle­ citò i conti renani e poi, insieme con Gérard de Pleine, signore di La

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Roche, visitò gli elettori di Treviri e di Colonia, e piu tardi, insieme con Johann von Armerstorff si recò sin nella Sassonia e nel Brandeburgo, Armerstorff era già stato dall'elettore palatino e dagli elettori di Trevirl e di Magonza. Inoltre Margherita volle impiegare in Germania anche il vescovo di Liegi, Eberhard de La Marck, che doveva ricevere il cappello cardinalizio. Tutti questi signori e i loro segretari svolsero una febbrile attività, t i loro rapporti, spesso giornalieri, ci mostrano l'eccitazione degli animi in quella memoranda primavera del 1519. Notizie fondate sulle intenzioni dei Francesi si mescolavano con voci confuse. Si diceva che Francesco I non risparmiasse né denaro né truppe; che, attraverso la Lorena, volesse raggiungere il Reno con le armi in pugno e che avesse già aderenze nel paese. Dal canto loro, gli elettori renani si sentirono costretti a chiedere l'aiuto degli Absburgo, per assicurare la libertà dell'elezione. Il pericolo francese si fece tangibile per i Paesi Bassi e per l'Impero quando si sparse la J?.Otizia che l'antico protetto della Francia, Carlo di Gheldria, si era nel frattempo sposato a Celle con la figlia del duca del Liineburg Enrico il Medio e gli offriva il suo appoggio. In�ero il duca Enrico stava a fianco del vescovo di Hildesheim, della famiglia dei duchi di Sassonia-Lauenburg, nell'aspra sua lotta contro la recalcitrante nobiltà del vescovato, e specialmente con la famiglia di Saldern. Ma la nobiltà, dal canto suo, aveva trovato appoggio presso il duca Erich von Calen­ berg e i suoi nipoti, il duca Enrico il Giovane di Wolfenbiittel e il duca Francesco, vescovo di Minden. E poiché di quella lotta devastatrice fin allora aveva fatto le spese soprattutto il vescovato di Hildesheim, gli amici del vescovo si volsero contro il vescovato di Minde, che, dopo la caduta del castello di Petershagen, cadde ben presto nelle loro mani. Cosf, nella Bassa Sassonia, in quella regione di contadini e di cavalli, destinata a restare anche nelle generazioni future una terra privilegiata per il reclu­ tamento di cavalleggeri e di lanzi, il partito francese aveva, per cosi dire, un esercito vittorioso a portata di mano. Ma anche gli Absburgo avevano i loro appoggi militari. Un antico strumento della loro politica, nell'Oberland bernese, era la Lega sveva: in origine una lega difensiva per proteggere gli Stati minori dell'Impero, ca-

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valieri e città, contro la politica locale dei signori del Wiirttemberg. Una nuova occasione di mobilitare la Lega fu data dall'assalto a Reutlingen ,lcl duca del Wiirttemberg, Ulrich, sul quale già pesava la colpa dell'ucci1lone di Hans von Hutten. Guastatosi con la moglie, il duca s'era ini­ micato anche i fratelli di lei, duchi di Baviera. Gli aiuti della Francia non furono sufficienti. Una breve campagna portò all'occupazione del paese. Nuovi rinforzi degli Svizzeri al duca furono impediti dall'abile rolitica di Zevenbergen a Zurigo; gli Svizzeri compresero il pericolo di un accerchiamento francese e pretesero perciò anch'essi l'elezione d'un re ,li stirpe tedesca. Sicché alla fine di maggio del 1519 le truppe della Lega aveva, divenute disponibili, poterono essere direttamente assoldate dagli Absburgo. Insieme ai suoi primi rappresentanti presso le truppe federali, la politica austriaca otteneva con Franz von Sickingen una forza militare rarticolarmente temuta, sottraendola cosf alla Francia. Tale la situazione in Germania nella primavera del 1519. Ma tutti gli intelligenti ed energici provvedimenti della politica absbur­ aka dipendevano, in definitiva, dalla volontà e dai mezzi del giovane so­ vrano, che si trovava in Spagna. Ora, noi lo vediamo per la terza volta Intervenire di persona e coprire anche le enormi spese dei suoi commis­ mi ed agenti per quanto riguardava gratificazioni, risarcimenti e pen1loni. In definitiva, l'elezione costò circa -un milione di fiorini d'oro, circa la metà del quale fu spesa in donativi agli elettori e ai loro consiglieri. La casa Fugger, di Augusta, anticipò la parte maggiore di questa enorme 1omma, e i suoi libri di conti recano ancor oggi testimonianza delle spese; easa si risard da parte sua con l'acquisto di sempre nuovi diritti di pro­ prietà e di sovranità imperiali e absburgici nella Svevia e nel Tirolo. Carlo ebbe occasione di prender posizione quando, un certo giorno, nella corte dei Paesi Bassi, fattasi timorosa, sorse il timido pensiero che, In caso di insuperabili difficoltà riguardanti la sua persona, come re di Spagna, si dovesse proporre la candidatura dell'arciduca Ferdinando o ,1uella di un altro principe tedesco; e s'era parlato dell'elettore di Sassonia e dell'elettore palatino. Evidentemente Margherita e i suoi consiglieri non pensavano che ad ostacolare in qualsiasi modo l'elezione di Francesco I. Ma anche la piu sommessa allusione a possibilità di questo genere urtava

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nell'appassionata reazione di Carlo. Il 5 marzo egli inviò una persona di sua particolare fiducia, Adrien de Croy, signore di Beaurain, proprio allori insignito del Toson d'oro, con accurate istruzioni e con una lettera per 11 zia. Il nipote di Massimiliano rivendicava l'eredità degli avi con impetuo11 gelosia. Egli faceva sapere che non pensava affatto, in considerazione delle grandi prospettive che gli si aprivano, e in particolar modo delle buone disposizioni precedentemente manifestate dagli elettori, di permettere l'elezione di chiunque altro; gli elettori avrebbero potuto considerare l'e­ ventuale appoggio a Ferdinando come un segno di dispregio e una vio­ lazione di impegni già assunti. I suoi consiglieri dovevano sapere che egli era pronto ad arrischiare tutto, perché nulla gli stava piu a cuore. Trat• tandosi della sua reputazione e del suo onore, aveva dato istruzioni al suoi commissari di non lasciar niente di intentato. Voleva anche dimo­ strare che la sua amicizia valeva almeno quanto quella del re di Francia. Rifiutava bruscamente il suo consenso persino al viaggio che Ferdinando avrebbe dovuto compiere in Germania per prendere possesso dei paesi absburgici: l'idea poteva derivare da un lodevole zelo, ma egli non poteva fare a meno d'esprimere tutta la sua meraviglia dinanzi a progetti cosf arbitrari; essi avrebbero dovuto riflettere meglio su tutto questo. Egli aveva già provveduto per inviare truppe in Germania e a Napoli, e, ap• pena felicemente eletto, si sarebbe recato subito a farsi incoronare. Una volta imperatore, avrebbe avuto ben altre possibilità anche per suo fra­ tello. Dividere fin da ora la potenza degli Absburgo era proprio quello che desiderava la Francia. Perciò, tutto quello che era stato ordinato o ac­ cennato per l'elezione o la comparsa in Germania di Ferdinando doveva venire immediatamente ed esplicitamente annullato. In un poscritto autografo Carlo affermava ancora una volta che tutto questo egli lo voleva fermamente. Scrisse inoltre di suo pugno una lettera al fratello, per met­ terlo in guardia contro le insinuazioni e per assicurarlo d'essere pronto, piu tardi, a una ragionevole spartizione dell'eredità. Ancora piu minuziose dei suoi scritti erano le istruzioni date a Beau­ rain. In esse per la prima volta è prospettata chiaramente la possibilità dell'elezione di Ferdinando a re dei Romani dopo l'elezione imperiale.

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Certo vi si vede affiorare anche il timore di una macchinazione della Francia, diretta a separare da lui il fratello con un matrimonio francese. Perdinando non avrebbe mai potuto conservare l'Impero, poiché già il loro nonno Massimiliano, nonostante i suoi grandi talenti e i suoi suc­ ressi, non si era mai potuto sbarazzare delle sue gravi preoccupazioni. Soltanto l'unificazione di tutti i loro stati poteva dare all'Impero tanta forza da spaventare qualsiasi avversario e da assicurare la salvezza della fede e la difesa della cristianità. Era, nel senso piu profondo, il pro­ �ramma del regno. Si avverte qui in modo assai chiaro il mescolarsi delle pretese dinasti­ L·he e dello spirito da crociato del cavaliere borgognone con un piu ele­ vato concetto dell'Impero, in cui bisogna sospettare l'intervento non mlo delle idee, ma anche della penna di Gattinara. Carlo aspirava a una vocazione di onore e di gloria, mentre Gattinara concepiva la potenza politica dell'Impero come un fattore di pace per la cristianità. Le opinioni del gover.Qo absburgico erano fondamentalmente uniformi in tutti i suoi rappresentanti, a Innsbruck e ad Augusta, alle Corti tcde­ ,che, nei Paesi Bassi e in Spagna, sebbene fondate su basi diverse, e piu J meno vivaci secondo i vari temperamenti. Rimane da domandarsi come i loro progetti e propositi si potessero attuare nell'ambito della politica mropea. Carlo non era forse legato dalla santità dei trattati alla Casa che :na si opponeva cosi fieramente alla sua elezione? Non c'erano inoltre indizi che la Francia si sarebbe riaccostata all'Inghilterra, dopo che la lneve campagna del 1513 era stata per cosi dire annullata dalla restitu­ r.ione di Tournais alla Francia? E il papa Leone X non si era forse già da molto tempo riavvicinato alla Francia? Nel conferimento della dignità reale in Germania il papato, a causa della corona imperiale, aveva sin :!al secolo XIII una forte voce in capitolo, nonostante tutte le dichiarazioni fntte al tempo di Ludovico il Bàvaro. Ma la politica papale aveva sempre, 1d un tempo, un carattere universale e una connessione con quella degli altri stati italiani. Dopo che· le conversazioni di Montpellier si erano arenate per l'im­ �rovvisa morte del plenipotenziario francese, Parigi aveva mostrato poca �ropensione a proseguire le trattative; il papa teneva un atteggiamento

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poco amichevole, e l'Inghilterra era incerta. Il capo della politica inglese, l'intelligente ma ambizioso arcivescovo di York, cardinale Wolsey, prodi­ gava a tutti buone parole, e riceveva per questo adeguati donativi. Egli stesso aspirava a farsi arbitro della cristianità e ad ottenere la dignità imperiale per il suo signore. Leone X gli comunicò, per mezzo del suo legato Campeggio, che era d'accordo con l'Inghilterra nel non desiderare come imperatore né il re di Spagna né il re di Francia, ma che, contraria­ mente all'Inghilterra, stimava piu pericolosa non l'elezione del Francese, bensf quella dello Spagnolo. Enrico VIII in cuor suo confidava da un pezzo su quell'invito a presentare la propria candidatura; e certamente dichiarò da parte sua che, nel dubbio, desiderava l'elezione del Francese ancor meno di quella di Carlo. Cosf, essi concordarono di mostrarsi con­ cilianti verso entrambe le parti, ma, in realtà, per opporsi ad entrambe. In questo senso furono redatte, il 30 maggio, le istruzioni per Richard Pace, inviato in Germania. Con questa politica, si sperava di poter fare fra i due litiganti la parte del terzo che gode. Ma il papa non si attenne ai patti: anzi, assicurò al re di Francia il suo piu caldo appoggio, facendogli sperare la concessione del cappello cardinalizio agli elettori di Treviri e di Colonia e della dignità perma­ nente di legato pontificio al cardinale di Magonza, se essi si fossero dichiarati per Francesco; mandò perfino in Germania, dove già si trova­ vano il Caetano e Caracciolo, il nunzio Orsini, fautore convinto degli in­ teressi francesi; e nella riunione degli elettori renani a Oberwesel fece dichiarare che Carlo, come re di Napoli, non era eleggibile a imperatore, secondo un impegno contratto un giorno da Ferdinando d'Aragona. Con ciò veniva squarciato il velo che aveva ricoperto fin allora la politica pa­ pale. Il governo di Carlo protestò subito a Roma, dopo di che il papa non nascose piu neppure all'ambasciatore spagnolo la sua avversione all'ele­ zione di Carlo. Cosf nel maggio le carte erano ormai scoperte. In apparenza, tutte le potenze erano contro Carlo; gli elettori tedeschi tentennavano. In realtà, proprio questa situazione agf in favore di Carlo. La troppo scaltra politica inglese si era neutralizzata da sé. Richard Pace non ottenne nulla, e pot� soltanto annunziare la rapida caduta delle probabilità francesi. Ma l'aperta

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collaborazione fra il papa e la Francia era il mezzo piu sicuro per procu­ rare agli Absburgo i voti degli elettori. I modi arroganti dei Francesi, la loro abitudine di sottolineare la potenza e i mezzi del loro sovrano dove­ vano rendere diffidenti i Tedeschi; e l'autorità del papa in quei primi anni Jcl movimento luterano era in evidente diminuzione. Inoltre, il senti­ mento nazionale, che nasceva dallo sviluppo dell'umanesimo, soprattutto In Alsazia e sul Reno, diveniva di giorno in giorno piu consapevole del 1uo contenuto politico antifrancese e favorevole alla dinastia dell'ultimo Imperatore. Massimiliano, con i suoi modi affabili, cordiali, gioviali e rnvallereschi, si era conquistato principi e popolo. Quel che c'era da di111pprovare nella sua politica era stato dimenticato. Il suo ritratto, dif­ (uso in tutto il paese su innumerevoli fogli, era rimasto vivo nella me­ moria; e il suo giovane nipote, sul quale non pesavano né la minacciosa potenza né le pretese personali del vicino Francese, godeva, certo imme­ ritatamente, di ciò che si può chiamare «popolarità». Anche di lui ven­ nero diffusi ritratti popolari in silografia; e la canzone affermava: Spero che la cosa andrà bene: cosi Carlo, nobile sangue, prende la cosa per sé.

Uno studioso tedesco ha tentato, anni or sono, di distruggere questa « leggenda absburgica ». Non c'è riuscito, perché la tradizione tedesca parla un linguaggio troppo persuasivo. Avvenne cos{ quel che doveva avvenire, dopo che i governi absburgici avevano preparato, in piena concordia, l'elezione, avevano condotto pru­ clcntemente le misure militari, senza farne sentire la pressione, e non ave­ v,mo risparmiato denaro. Quanto ancora mancava, sembrava procurarlo Il contegno degli avversari. In quel frangente, la politica papale ricorse difatti ad un mezzo estre­ mo. Non stimando piu possibile l'elezione del re di Francia, volle almep.o Pttacolare quella di Carlo: riprese, dunque, a sostenere la candidatura dl un elettore tedesco. Venne preso in considerazione soltanto il piu stimato di loro: Fede­ rico il Saggio di Sassonia. Il suo nome era stato fatto già una volta, anni

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prima, ma egli era stato poi interamente eclissato dagli altri potenti mo­ narchi. Inoltre, quell'uomo cauto e severo era allora oggetto del generai, interessamento, come sovrano del monaco agostiniano che insegnavi all'università di Wittenberg e combatteva, con tanto profonda serietà e cosf grande dottrina, contro la vergogna delle indulgenze papali e cho ora da quel problema particolare si sentiva spinto ad attaccare tutta 11 chiassosa vita della Chiesa, retta da mani straniere, guidata dall'avidità di potere, e che aveva ormai ben poco in comune con lo spirito del Van, gelo, inteso come la lieta novella dell'intima riconciliazione dell'umanità peccatrice con Dio. Federico il Saggio aveva assunto di fronte alle sollecitazioni di Mas, similiano un contegno molto riservato. Anche piu tardi altre offerte deglJ Absburgo avevano urtato contro la sua ferma resistenza: non gli si addi, ceva di entrare in trattative per l'elezione imperiale. L'idea pur sempre attraente per la sua corte di un matrimonio absburgico per suo figlio, il principe ereditario, con una dote ragguardevole, i donativi ai consiglieri e le grandi offerte alla cassa elettorale furono considerate come cose non aventi nulla in comune con il problema dell'elezione imperiale e i paga­ menti furono considerati solo come l'estinzione di un « vecchio debito». Non c'è dubbio che in quel pudore si manifestava una coscienza piu deli­ cata che non nel comportamento degli altri elettori: ove si pensi che quello di Magonza accettò per sé e per i suoi consiglieri 113 200 fiorini d'oro, quello di Colonia almeno 52 800, l'elettore palatino, compreso il risarci­ mento per Hagenau e la gratificazione al conte palatino Federico, 184 100 fiorini d'oro; tutti senza arrossire, e anzi avendo fatto salire la somma fino a quell'altezza con astuti negoziati. La somma totale per la Sassonia elettorale ammontò pur sempre, secondo la contabilità dei Fugger, a 70 000 fiorini. Sicché tutti, compreso l'elettore di Treviri e quello di Sas• sonia, ebbero ciascuno la loro parte; soltanto l'insaziabile elettore di Brandeburgo rimase a mani vuote, perché si appoggiò sino all'ultimo alla Francia, sebbene, nel frattempo, si fosse tanto avvicinato alla politica degli Absburgo che il matrimonio del principe ereditario con la lmpero. Un ultimo tentativo presso gli Stati del Jutland chiarf pienamente al re la sua situazione, ormai disperata. Egli si affrettò ad armare Copenaghen per la difesa, ma il 14 aprile 1523 fuggf per mare con la moglie e i figli. Con poco piu di una dozzina di navi e quattro o cinquecento persone si recò nella patria di Isabella e, rinunciando al suo primitivo disegno di entrare nello Zuider Zee, approdò, col consenso del• , l'ammiraglio Adolfo di Borgogna, a Vere, nell isola di Walcheren, ospite poco gradito per la famiglia della moglie e per gli interessi dei Paesi Bassi. Tutti i suoi sforzi di arruolare e armare truppe per il suo ritorno in patria fallirono. Il luogotenente d'Olanda, Hoogstraeten, gli disse di no quasi bruscamente. Anche Margherita, pur facendo un,accoglienza com• movente ai tre fanciulli Hans, Dorotea e Cristina, fu costretta a rimanere politicamente riservata: non era certo suo interesse rovinare di nuovo de­ liberatamente, legandosi alla causa del re fallito, il commercio fiammingo, che sempre piu fioriva nel Mar Baltico. Si può dire che allora tutte le potenze baltiche fossero contro Cristiano II. Si capisce, per converso, che Lubecca e i suoi alleati temessero un aiuto dell'imperatore e dei P·aesi Bassi in favore di Cristiano; in quel caso il pericolo della concorrenza fiamminga sarebbe diventato davvero grandissimo. Ma essi s'ingannavano sui mezzi di cui disponeva l'imperatore e sull'intelligenza, nonostante tutta la sua vivacità, molto realistica di Margherita. I Paesi Bassi avevano troppo bisogno di cereali e di legname del Baltico per prender le cose alla leggera. Perciò il segretario di Lubecca Paul von Felde ricevette un'accoglienza piu amichevole che non re Cristiano. Alcuni porti dei

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Paesi Bassi esercitarono rappresaglie per la chiusura del Sund, che mirava 11 proteggere il blocco di Copenaghen; ma questo non durò a lungo. Cristiano avviò conversazioni anche con l'Inghilterra; ma non ne rice­ vette che buone parole. Ancora minori furono i risultati del suo tentativo di legarsi con la Scozia e la Francia, di cui si andava parlando. Migliori Nperanze egli riponeva nella Germania settentrionale, forse nel cognato, l'elettore di Brandeburgo, o nei suoi correligionari luterani. Ad Amburgo era stata convocata una conferenza, alla quale dovevano essere rappre11entati anche il papa e l'imperatore, l'arciduca Ferdinando ed i vicini. Intanto Isabella tentò di farsi prestare 20 000 fiorini da suo fratello Fer­ dinando. Lo stato d'animo nei riguardi di lei era riservato, ma non privo di comprensione; suo marito era invece respinto. Gli Stati erano prevenuti dalle accuse rivoltegli da Federico di Holstein. L'8 giugno 1523 questi era stato eletto re dai Danesi a Roeskilde; e lui stesso aveva scritto agli Stati tedeschi il 6 gennaio 1524. Hannart racconta che la regina rispose con dignità alle domande sulle scelleratezze del suo consorte; ma altri confermarono le accuse. Ferdinando si scandalizzò molto quando a No­ rimberga la sorella fece la comunione sotto le due specie. Da questa vi­ suale va intesa anche la critica di Lutero agli avversari di Cristiano. Ma non per questo Norimberga o altri correligionari anticiparono alla regina il denaro da lei desiderato. Un errore fondamentale di Cristiano Il, avente origine nel suo temperamento, era stata l'ostentazione dei suoi mezzi fi­ nanziari, che aveva indotto per un certo tempo principi e condottieri a vasti armamenti e i suoi avversari a prendere provvedimenti difensivi, sia al confine del Holstein che a Lubecca. Ma tutto rovinò in modo tanto piu inesorabile quando venne in chiaro che il re era diventato in realtà · un pover'uomo bisognoso di aiuto. La resa di Copenaghen (6 gennaio 1524) non poté essere impedita; cosi, l'ultimo punto d'appoggio che Cristiano II aveva in Danimarca era venuto meno. Egli viveva con la sua famiglia, come un emigrato cui si guarda con diffidenza, nella cittadina di Lierre, in una proprietà che da allora è designata col nome di « Corte (Hof) di Danimarca». Alcuni dei suoi servitori, come Johann von Weeze, arcivescovo eletto di Lund, ori­ ginario del basso Reno, e il segretario Cornelius Schepper passarono piu

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tardi al servizio dell'imperatore. La sventurata Isabella vide la riapertura del Sund e la pace fra i Paesi Bassi e la Lega anseatica (fine del 1524 ), ma non il ritorno in Danimarca. Mod il 18 gennaio 1526. Sua zia Mar• gherita s'incaricò per la seconda volta di dirigere una famiglia di orfani. Anche per Carlo V il problema danese rimase una grande preoccupa­ zione. Egli voleva difendere in qualche forma i diritti dinastici della sua famiglia; e già nelle trattative del 1524 fece parlare di alta sovranità im­ periale. Ma questa non faceva effetto nemmeno sulla Lega anseatica: figuriamoci poi sugli stati nordici! Gli inviati di Margherita si accorda­ rono con i loro avversari danesi, nell'interesse del commercio dei Paesi Bassi, «sotto gli occhi dei rappresentanti imperiali», sicché fin da allora risultò con incresciosa c;:hiarezza che i «desiderata» economici dei paesi ereditari erano incompatibili con i contrapposti interessi delle città libere e delle città anseatiche dell'Impero. Che gli Stati dell'Impero prendessero in considerazione l'elezione di un re dei Romani, lo si capisce fin troppo bene, a causa della crescente inquietudine dei vari paesi dell'Impero. Infatti, tutti gli Stati erano in fermento. I conti, i signori e i cavalieri avevano assediato la Dieta con le loro richieste e doglianze; Franz von Sìckingen, che per vari aspetti era tra essi la figura piu moderna, condottiero di stile quasi italiano cui mancavano solo i ricchi committenti, aveva lasciato di nuovo il servizio dell'imperatore senza essere stato soddisfatto nelle sue ultime e conside­ revoli richieste. Egli riun{ intorno a sé una folla di cavalieri in agitazione e una gran quantità di lanzichenecchi, che, come prima, accorrevano a lui. Insieme a Ulrich von Hutten, pensava alla confisca dei beni della Chiesa in favore dei valorosi cavalieri. Era proprio fuor di luogo parlare a questo proposito degli interessi della nazione tedesca e del tutto abusivo iniziare, col pretesto di «aprir la via al Vangelo», una feroce guerra con­ tro i preti; eppure, avremo ancora occasione di vedere la parte destinata ad avere anche nella nuova confessione dalla lotta contro i principati eccle­ siastici. Sickingen, dopo avere, nell'agosto 1522, dichiarato guerra a Ri­ chard von Greiffenklau, arcivescovo di Treviri, lo attaccò, nel settembre. Passata la prima sorpresa, gli uomini dell'arcivescovo resistettero. Poi, vennero loro aiuti dai principeschi colleghi dell'Assia e del Palatinato.

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Il governo imperiale condannò sia l'uno sia l'altro modo di farsi giustizia da sé. Anche l'imperatore era sdegnato con Sickingen. E i principi, avendo raccolto maggiori forze, rimasero vincitori. Le case e i castelli dei cava­ lieri furono assaliti e distrutti; ultimo, il Landstuhl, presso Kaiserslautern, dove si era rifugiato Sickingen. Quando, il 7 maggio 1523, i principi en­ trarono nel castello ridotto in rovine e arso, trovarono Sickingen morente In una cantina: impressionante fine di tutta una classe che nei nuovi tempi non poteva aver altra sorte, se non si fosse adattata al nuovo servizio dei principi nelle carriere amministrativa e militare. Non è qui il luogo di descrivere i moti della piccola borghesia e dei rnntadini, che guadagnavano ancora terreno, àssumendo infinite forme e alimentandosi a fonti molteplici, giacché l'imperatore non· ebbe da occu­ parsene direttamente, e non fu colpito dalle loro reazioni in modo diverso che dall'inasprirsi del sentimento ostile contro i movimenti ereticali nei Paesi Bassi e in Austria, come anche dalla limitata libertà d'azione di Fer­ Jinando nel Tirolo, la quale non sfuggi ai Veneziani. Tutte le formule alle quali si è voluto unilateralmente o prevalentemente ridurre il movi­ mento della cosiddetta « guerra dei contadini» sono inadeguate. Esso trasse origine da cause di ordine economico, e piu ancora sociale e senti­ mentale, oltreché, in senso lato, politico. Il contrasto con le potenze ter­ ritoriali che si venivano formando esercitava anche qui un influsso che non va sottovalutato. È fuor di dubbio che lo stato d'animo generale della nazione, di cui la Riforma nel suo complesso può essere considerata sia una conseguenza che una causa, ebbe una parte di capitale importanza nel generalizzarsi del movimento e nella formulazione delle richieste dei con­ tadini. Il confronto della guerra dei contadini in Germania col movi­ mento precedente, e prevalentemente politico, dei Comuneros castigliani e col piu violento movimento della germania di Valenza, in cui entrarono anche contrasti di razza, è molto istruttivo per rendersi conto dell'essenza pur sempre in prevalenza agraria del movimento tedesco e, insieme, della sua primitiva religiosità. Se nel 1522 dall'Alsazia giungeva già voce del « sorgere dello zoccolo», cioè della causa contadina, che metteva sulle proprie bandiere quel simbolo del vestire contadinesco, piccole solleva­ zioni scoppiarono in alcuni luoghi già nel co�so degli anni 1523 e 1524,

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nell'altipiano svevo, e sfociarono poi nei disordini che nell'inverno 1524-25 investirono tutta la Germania sud-occidentale e centrale. I lan• zichenecchi esperti della guerra che facevan parte delle turbe contadine davano loro a volte una forza spaventosa. Ma la mancanza di capi fece fallire in tutta la regione fra il Danubio e il medio Reno, dinanzi al1'azione risoluta dei principi, anche quella insurrezione. Per la continuità del nostro racconto è importante ribadire che quel vecchio sostegno della potenza bavarese ed absburgica che era rappresentato dalla Lega sveva si confermò allora uno strumento politico oltremodo efficace, anche per la conservazione del Wiirttemberg: piu efficace dell'assemblea dei ve­ scovi della Germania meridionale tenuta nel luglio 1524 insieme ai rap• presentanti della Baviera, e lodata nell'autunno da Carlo per bocca di Ferdinando. Quanto alla Germania inferiore, essa non fu seriamente impegnata n� nella questione danese né nella guerra dei contadini. Anche l'agitazione bellica esistente nei Paesi Bassi, sulla soglia del vescovato di Miinster, si estese tutt'al piu solo nella Frisia orientale. Ancora minore fu l'influsso dei moti religiosi, che nei Paesi Bassi erano altrettanto frequenti come nel resto dell'Impero. Certo, la guerra intestina infierf in modo atrocis­ simo per molti anni nei territori settentrionali, ma per altri motivi. Nella Frisia dovette essere rifatto tutto il lavoro compiuto dal duca Alberto ai tempi di Massimiliano. Ma l'energia di Georg Schenk von Tautenburg e di Josse von Cruningen fini col dominare la situazione e gli incessanti intrighi del duca di Gheldria. Nel 1522 l'Overijssel, nel 1524 la Frisia poterono essere di fatto pacificati e incorporati nei Paesi Bassi. Meno fa. vorevole si svolgeva la vecchia guerra di frontiera franco-fiamminga del­ l'Artois. Quei territori di frontiera erano inoltre da piu di una genera­ zione teatro dei contrasti franco-inglesi, al pari di una parte disputata della Borgogna. Con ciò ritorniamo agli affari europei. Nella sua avvedutezza di uomo di Stato, Wolsey avrebbe voluto che il suo paese non scendesse in guerra. Come abbiamo visto, il suo tentativo era fallito. Ma, per lo meno, la guerra doveva essere differita fino al 1523 o magari al 1524; cosi voleva, del resto, anche il Consiglio di Stato tenuto

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11 Bruges. Le feste di corte e i colloqui personali dei due monarchi e di lJUanti li attorniavano sembrano però aver messo tutto di nuovo sotto1iopra. Stimolati dal contegno del duca di Albany in Scozia, e forse ancor piu dal proprio entusiasmo, si era ricominciata la guerra ancora nell'au­ tunno del 1522, proprio senza motivo. Truppe inglesi comandate dal ronte di Surrey e truppe dei Paesi Bassi comandate dal Biiren, dopo 11ver vanamente assediato Hesdin, penetrarono in profondità nel ter­ ritorio indifeso, finché l'inverno, le malattie e il logorio dei mezzi co­ minsero l'esercito a un'ingloriosa ritirata; sicché fu davvero una delle rnratteristiche campagne inutili, mal ideate e perciò molto costose di quel tempo. Margherita ebbe parecchio da penare nelle sue trattative rnn le province per le spese di guerra, e piu ancora in quelle con gli Stati Henerali, tenuti a Malines nella primavera del 1523. Con la sua rabbiosa energia voleva imporsi con la forza agli Stati, e in particolare alle recalci­ tranti città del Brabante; per di piu ella commise l'imprudenza di gover­ nare senza tener conto dei potenti signori del Consiglio, cosa destinata a procurarle, come in passato, amari contrasti. Ma Wolsey cercava di uscire rapidamente dalla guerra contro la Francia, in quanto già nel settembre 1522 c'era stato da parte della Scozia un attacco all'Inghilterra, che a prima vista era sembrato serio. Esso non durò. Ma l'ardore bellicoso di Enrico VIII si rianimò subito, fortemente, quando cominciarono a mol­ tiplicarsi i segni che il primo pari di Francia, il conquistatore di Hesdin, il conestabile Carlo di Borbone, sarebbe insorto contro il suo re, per fare a pezzi la corona di Francia schierandosi al fianco dell'Inghilterra e della Spagna. Carlo V in Spagna.

Intanto Carlo si era dedicato interamente ai suoi reami spagnoli. Egli doveva soggiornare in Spagna sette anni interi, dall'estate del 1522 al­ l'autunno del '29. Si suol dire che, in quegli anni, diventò uno spagnolo: la cosa è vera solo in un senso limitato. Infatti, anche la Spagna risentiva l'influenza della cultura borgognona

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e italiana, e la sperimentava ogni giorno. Il cronista Santa Cruz dà, per quei primi anni di vita spagnola, una particolareggiata descrizione del1'aspetto esteriore di Carlo, di tutte le parti del suo corpo con i colori, le forme e le proporzioni: tipica espressione di quell'età che scoperse « il mondo e gli uomini» e si dilettò non poco, - come nel libro del Firen­ zuola, I Discorsi della bellezza delle donne, - della bellezza formale del corpo umano, inclinando a farsi un'idea dell'anima attraverso il suo in­ volucro visibile, e si riallacciava cosf, secondo quel che si può osservare per ogni dove, all'età gotica. Al suo ritorno sul suolo di Spagna Carlo V era stato salutato dall'am­ basciatore veneziano Gasparo Contarini con la speranza che le sue armi vittoriose avessero a entrare un giorno anche a Costantinopoli; quel ri­ flessivo uomo del Rinascimento fu poi, come teologo laico e come car­ dinale, uno dei pionieri della Controriforma. Un rappresentante ancora piu splendido del primo Rinascimento, che proprio allora toccava la sua acme, Baldassar Castiglione, l'autore del Cortegiano, il quale aveva punti di contatto sia col Firenzuola sia con Contarini, doveva presto soggior, nare presso la corte imperiale come nunzio del papa. Non passò molto tempo che Carlo fra gli snelli edifici di Granada, che incantano come opere della natura, costruf, cosciente opera umana, un palazzo del Ri­ nascimento. Sul suolo di Spagna il cavaliere borgognone diventò cosf, per opera del destino e dell'ambiente, quasi una figura rappresentativa del Rinasci­ mento: certo, non fu per nulla t6cco dal suo paganesimo; piuttosto dal suo potenziamento di tutte le doti umane, destinato a condurre allo stile eroico della Controriforma. Il carattere pomposo del cerimoniale borgo­ gnone fu introdotto in Spagna, ma la sua lieta varietà di colori a poco a poco cedette il posto a una composta solennità, se già il Castiglione dava la preferenza al vestito nero degli Spagnoli per la sua distinzione. Carlo adesso era piu che cavaliere o duca o imperatore, nel romantico impreciso senso di Massimiliano. I suoi ministri si rivolgevano a lui come alla « Sa­ cra Caesarea Maiestas». Anch'essi avevano colpa dell'esagerato concetto della monarchia del loro signore, ma avevano ancora abbastanza libertà interiore da lamentarlo, e anzi'da parlare alla sua coscienza.

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Nell'ambiente che lo attorniava molte cose erano mutate. La corte era rimasta pletorica, nonostante il mutamento delle persone. C'era ancora Nassau, come primo ciambellano, al posto di Chièvres; ma il fatto che, rimasto vedovo per la seconda volta, egli adesso sposasse, con la magni­ ficenza della vecchia Borgogna, fra banchetti e tornei, una spagnola di gran casato, Menda Mendoza, marchesa di Zenete, di cui abbiamo già conosciuto il padre a Valenza, va considerato come un simbolo dell'intima trasformazione della cerchia piu vicina a Carlo. Anche questa cerchia si rinnovava, assumendo aspetti borgognoni e spagnoli, dell'Impero e del Rinascimento. Gattinara, il quale dava al suo pensiero una gotica imma­ ginosità e un'italiana pompa imperiale, stava diventando piu che mai la figura caratteristica di quella corte, che con tutti i suoi elementi ispano­ borgognoni aveva pur sempre un carattere internazionale. Anche gli Spa­ gnoli cominciavano a godere dello splendore dell'Impero; ancor oggi si trova dappertutto, sugli edifici e i monumenti di Spagna, il grande stemma imperiale. Un'ultima cosa merita d'essere notata. Il vecchio amico dei tornei, Lannoy, era già stato destinato fin dall'aprile 1522 a Napoli come vicerè, dopo la morte di Ram6n de Cardona ( 1 O marzo); ma gli altri nobili si­ gnori borgognoni erano rimasti nel loro paese. I grandi di Spagna, i mem­ bri cioè dell'alta nobiltà, che dopo minute ricerche genealogiche era stata fissata in venti famiglie castigliane con circa venticinque titoli di mag­ giorasco, erano onorati, ma tenuti lontani dal Consiglio. Invece, nella cerchia dell'imperatore erano diventati predominanti la piccola nobiltà, meno arrogante, ma piu facilmente devota al servizio del principe e al­ l'idea dello Stato, e il vecchio alto ceto dei funzionari. Assisteremo ben presto a una seduta segreta del Consiglio, in cui, oltre a Nassau e a Gat­ tinara, incontreremo Charles de Poupet, signore di La Chaulx, uno dei piu antichi servitori di Carlo, Gérard de Pleine, signore di La Roche, nipote di un cancelliere della vecchia Borgogna, Laurent Gorrevod, che Margherita aveva portato con sé dalla Franca Contea, e, unico spagnolo, Hernando de Vega. In mezzo a loro non c'era neppure un tedesco; in genere, la pretesa rappresentanza di tutti i paesi nel Consiglio di Stato non c'era. Come segretari, dovevano prendere crescente importanza La-

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lemand, signore di Bouclans, dei Paesi Bassi, e lo spagnolo Francisco de Los Cobos, che aveva sposato una Mendoza. Lalemand conservò il suo alto posto di fiducia fino al tardo autunno del 1528, quando, sospettato di aver leso gli interessi imperiali, fu improvvisamente arrestato e lasciò la carica. Cobos invece giunse ad essere segretario di Stato per la Spagna e primo consigliere di Carlo negli affari finanziari. Le costituzioni di Castiglia e di Aragona erano molto diverse l'una dall'altra, e non solo in singoli punti. Le Cortés di Aragona erano costi• tuite da quattro Stati, e si dividevano poi secondo i reami minori di Ara­ gona, Catalogna e Valenza; Carlo prese l'abitudine di convocarle non piu separatamente nelle varie capitali, ma di raccoglierle insieme a Monz6n sulla Cinca, a nord-ovest di Lérida. I loro dibattiti si aggiravano per lo piu su concessioni di denaro e su contropartite richieste dagli Stati; queste erano piene di ripetizioni, e, in genere, sono meno istruttive che circostan­ ziate, anche nel modo in cui sono messe per scritto. Le Cortés di Castiglia, che prima ci hanno interessato piu da vicino, erano costituite solo dai rap­ presentanti di diciotto città: il che significava una partecipazione molto ineguale delle diverse province. Ma le loro frequenti riunioni, la conces­ sione delle indennità già desiderate per i delegati, la nomina di una « de­ putaci6n » delle Cortés presso la Corte negli intervalli fra le sessioni te­ nevano il re in un contatto sempre piu stretto col suo popolo. I dibattiti delle Cortés offrivano l'occasione di esporre le direttive di Carlo, anche nel campo della politica estera, e ispiravano agli Spagnoli le piu elevate idee sulla loro missione storica universale. Al contrario, particolari tec­ nici, come il riscatto della vecchia « alcabala » col testatico, l' « encabeza­ miento » e la sua mutevole regolamentazione, rimangono secondari. L'amministrazione regia, nel senso di Ministero dell'Interno, era data ai due Consigli di Aragona e di Castiglia; l'amministrazione finan­ ziaria ai « contadores mayores », i grandi tesorieri, e al « Consejo de la hacienda », il Ministero delle Finanze. Gli affari esteri rimanevano riser­ vati al gabinetto, cioè al gran cancelliere e al Consiglio di Stato, e in so­ stanza all'imperatore in persona. Giacché anche il Consiglio di Stato non era un Ministero degli Esteri, ma soltanto !'accolta dei piu intimi con­ siglieri del monarca, in cui convergevano le fila di tutto l'Impero. E Carlo,

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dopo la morte di Chièvres, si era abituato a conservare nelle sue mani anche i particolari del servizio: fatto che abbastanza spesso conduceva alla disperazione i suoi collaboratori, dato che egli non era né un lavo­ ratore rapido né un uomo che si risolvesse facilmente. I suoi amici intimi, particolarmente quelli del Toson d'oro, dovevano riprenderlo spesso per questo. Un vivo desiderio degli Spagnoli era, da lungo tempo, il matrimonio portoghese. Da anni il segretario Barroso negoziava a questo proposito a Lisbona. Perciò le sue relazioni sono di una stancante monotonia, in quanto da anni egli doveva dire sempre lo stesso: che il re del Portogallo, don Manuél, desiderava molto l'unione di sua figlia Isabella con l'impe­ ratore; che, continuamente stimolato da Barroso, era anche pronto a concedere la ragguardevole dote di un milione di ducati, di cui era pronto a pagare una parte perfino prima delle nozze; che occorrevano soltanto i mandati necessari, e naturalmente lo scioglimento degli impegni francesi (cui subentrò poi il timore dell'impegno inglese); che, infine, il re era pronto a differire la conclusione del matrimonio fino al ritorno di Carlo in Castiglia. Della regina Eleonora l'ambasciatore aveva da riferire molte notizie. Nel giugno 1521 le era nata una figlia, ma il 13 dicembre ella rimase ve­ dova. Accanto al pensiero dell'unione di Carlo con Isabella si era affac­ ciato inoltre quello di un'unione del giovane re con l'infanta Caterina, sebbene da principio Barroso osservasse con spaventosa freddezza che il matrimonio della regina vedova col suo figliastro sarebbe stata certa­ mente la soluzione migliore e piu conveniente. Per inciso, parlava di intrighi francesi e del legame matrimoniale con i Savoia. Come poteva Carlo, adesso che l'amicizia inglese sembrava avere toccato il suo mas­ simo ardore, sciogliere senza motivi di stringente necessità il solenne fidanzamento con la principessa Maria Tudor? Cosf la soluzione di quel­ l'importantissimo problema dinastico fu di continuo differita. Le grandi istruzioni preparate nella primavera del 1522 per La Chaulx, che andava in Portogallo, contengono bensf la preghiera di Carlo al gio­ vane re di non assumere per allora impegni matrimoniali e di aderire pos­ sibilmente alla grande alleanza con l'Inghilterra, la Danimarca e i Jagel-

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Ioni contro i Turchi; ma soltanto nella giustificazione dei suoi stretti legami con l'Inghilterra, contratti per assicurarsi la traversata, c'era un tacito accenno al desiderio di legarsi lui stesso al Portogallo. Inoltre, Carlo faceva trasmettere il suo piu caldo saluto alla sorella Eleonora, come a colei che « amava piu di tutti al mondo». Il desiderio piu immediato del governo spagnolo doveva essere la li­ quidazione delle turbolenze interne, sostanzialmente già vinte. Il 2 novem­ bre 1522 Carlo pronunciò a Valladolid, con fastoso apparato, la sentenza contro i capi dei Comuneros. Disse che lasciava trionfare la clemenza, ma che duecentonovanta colpevoli nominativamente designati dovevano ancora essere affidati al braccio della giustizia. Poco prima, a Palencia, erano stati giustiziati sette membri della Santa Junta. Tuttavia, prima e dopo, al re furono raccomandati la clemenza e il perdono, ed egli ne tenne anche conto; ma, per principio, nell'amministrare la giustizia dimostrò la medesima meticolosità che abbiam vista in lui nei Paesi Bassi nei con­ fronti di altre questioni. Del resto, si diceva anche che, con i molti nobili e abbienti che c'erano fra i condannati, il tesoro dello Stato avrebbe tratto un enorme guadagno dalle confische. La cosa piu spiacevole fu che l'esecuzione della sentenza venne piu volte differita a tempo indeterminato; parecchi degli « excep­ tuados» erano riparati all'estero; Barroso ebbe conversazioni in proposito in Portogallo; un emissario di Gattinara in Francia doveva occuparsi di Pedro Taxo, Fernando de Avalos e Juan de Mendoza. Ma molto tempo dopo si cominciò a permetter loro di estinguere il debito politico con una transazione. Del resto, col provento delle confische furono risarcite anche le vittime di quelle turbolenze. Nel territorio in cui era avvenuta la sollevazione della germania riap­ parve, a causa dei battesimi forzati dei Moriscos, il vecchio problema di coloro che ricadevano nell'infedeltà e perciò della necessità di una loro definitiva conversione. In questo caso erano, dunque, da consegnare alla giustizia sia i sediziosi che le loro vittime. Nel dicembre 1523, dopo lunga esitazione, Carlo affidò questo duplice tremendo compito alla re­ gina vedova Germana, che prima aveva sposato il margravio di Brande­ burgo e ora diventava viceregina di Valenza a fianco del suo terzo marito,

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(Fate per questa volta del Vostro meglio per me, ché altrettanto voglio fare io per Voi. Carlo). Una postilla simile si trova assai di rado. Come a suo tempo Carlo aveva raccomandato al fratello di « sottrarsi alle richieste» del re di Francia, si è fondatamente pensato che l'imperatore desiderasse anche dai principi tedeschi soprattutto un appoggio morale. Nello stesso senso va inteso il rinvio della Dieta, che era stata con­ vocata per il 16 aprile a Ratisbona, città nelle buone grazie di Ferdinando. Con esso l'imperatore voleva evitare, in considerazione degli sforzi com­ piuti per migliorare la sua posizione in Europa, spiacevoli chiarimenti su questioni controverse. Su questo sfondo si svolgeva intanto la guerra in Italia. Qui, e non nella corte né negli ambienti diplomatici, troviamo i migliori collaboratori dell'imperatore. Se c'era qualcuno, - dopo Lannoy, Frundsberg e Pe­ scara, ormai scomparsi, - che si conducesse nel modo piu onorevole, questi era certamente l'ultimo di quella generazione di anziani: Antonio de Leyva, da anni massimo sostegno dell'imperatore in Lombardia. Egli possedeva qualcosa della qualità piu apprezzata in quel tempo: l'energia virile nelle decisioni, la « virtu», congiunta ad una indefettibile devo­ zione all'imperatore. Eppure, proprio lui, come suol accadere, divenne l'oggetto delle accuse di cupidigia mosse contro i generali, e delle lamen­ tele per gli atti di violenza compiuti da quelle truppe che erano a lui unite per la vita e per la morte. Il grosso delle truppe si era proprio allora rovesciato su Roma. Il resto, il Leyva lo teneva insieme in Lombardia con pena e sacrificio, dato che i « grandi introiti» di quei generali non rap­ presentavano spesso se non riserve per pagare le truppe, quando le auto­ rità responsabili non inviavano i fondi necessari. Che il comandante riu­ scisse a tenere insieme i suoi uomini, sebbene le sue richieste e le sue lamentele restassero spesso senza risposta, e denaro ne giungesse anche piu di rado, era già una gran cosa; che poi con tali truppe, come sempre

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era avvenuto, egli riuscisse vittorioso, resta il suo piu alto titolo di gloria. [n ogni tempo, nonostante le mutevoli lamentele dei «giusti» sia nel presente sia nel futuro, le personalità del suo stampo sono state le pre­ Jilette della storia. I primi di agosto del 1527 il Leyva aveva inviato all'imperatore- un ampio rapporto sulla condotta di Francesco Sforza, contro il quale, nono­ stante le esitazioni di taluno, egli aveva aperto un'inchiesta; aveva altres1 riferito intorno ai meriti dei comandanti, venuti da ogni paese a servire sotto le bandiere imperiali. Aveva dato notizia della cattiva eredità mo­ rale lasciata dal Borbone, che se ne era andato da Milano insieme col Morone, e dell'aiuto prestatogli dal protonotaro Caracciolo nel governo del ducato; nonché di mille particolari circa l'organizzazione militare del paese; infine, riferiva quanto era venuto a sapere circa l'imminente nuova offensiva dei Francesi. Finché poté, Antonio de Leyva tenne con esigue forze tutti i centri importanti, e, solo quando si trovò nel massimo imbarazzo, dové di ne­ cessità limitarsi al centro piu importante di tutti, Milano; e anche qui, come sempre, con successo. Da principio ebbe da tener fronte ai Vene­ ziani e ai Francesi sotto Pedro Navarro, poi allo stesso Lautrec. Anche quest'ultimo dovette abbandonargli Milano, quando, sui primi del 1528, pard verso il Sud, « a liberare» il papa, che era liberato già da un bel pezzo: in realtà, a conquistare Napoli. Anche il duca di Ferrara e il mar­ chese di Mantova erano passati dalla parte dei Francesi. Antonio de Leyva poteva ben lamentarsi: tutto era inutile, ed inutile il sacrificio dei piu fedeli in pro d'un sovrano che nulla di loro sapeva e nulla per loro faceva. In realtà, di nuovo viene da ripensare al marchese di Pescara. Ma che cosa mai legava all'imperatore tutti quegli spagnoli, napole­ tani, borgognoni e tedeschi, che da cinque anni compivano nell'Italia settentrionale prodezze su prodezze? Coloro che gli vivevano accanto, nella corte o nell'ambito degli affari, disperavano della sua forza di de­ cisione; e coloro che si trovavano sulla linea di combattimento dispera­ vano dei suoi mezzi e della sua grazia. Ma tanto gli uni quanto gli altri si sentivano dominati dall'idea imperiale e regia, che l'imperatore rap-

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presentava cosi superbamente e spesso cosi orgogliosamente. Lo si atten• deva con pazienza alimentata dalla commozione, poiché tutto raggiungeva in lui la piu alta espressione. Per gli Spagnoli il servire l'imperatore rap• presentava il momento mirabilmente culminante della loro storia. Quante volte l'imperatore aveva progettato di recarsi di persona in Italia! Dalla primavera del 1525 vi pensava seriamente; le sue dichiara• zioni autografe anteriori a Pavia ce lo attestano. Non c'è dubbio che, per lui, a quel viaggio si accompagnasse, dopo la vittoria di Pavia, la visione del suo prossimo trionfo vitale; e ciò, nelle sue manifestazioni personali, sempre sotto l'aspetto dell'onore e della gloria, per i quali in realtà nulla ancora egli aveva fatto. Il ritardo era nello stesso tempo una sfida al de­ stino e al Gattinara, che avrebbe voluto rifarsi ai giorni della fortuna per rendere l'Impero, conforme alle idee di Dante, una garanzia di pace per l'Italia e, quindi, per il mondo. Ciò era stato reso inattuabile in un primo tempo, oltre che dall'irresolutezza spesso spaventosa dell'impera• tore, dalla prigionia in Spagna del re di Francia, poi dal fiacco anda­ mento delle trattative con lui, e, piu tardi, dalla nuova minaccia della Lega di Cognac, oltreché sempre dalla mancanza di denaro. Inoltre sino all'ultimo ci furono evidentemente da superare delle re• sistenze di principio da parte tanto del Consiglio di Stato quanto della Corte. Il Gattinara ebbe a dire piu volte che proprio su quel problema aveva molti avversari. Dobbiamo ammettere che ce n'erano anche nella stessa famiglia imperiale; il Navagero ci parla di lagrime dell'imperatrice. Il Gattinara fece espressa menzione della scarsa comprensione di Manuél per le cose d'Italia; ma anche altri Spagnoli si mostrarono riservati, so­ prattutto il presidente del Consiglio di Castiglia, l'arcivescovo Juan Pardo de Tavera, che ritroveremo ancora fiero avversario della politica mon­ diale dell'imperatore. Perciò il cancelliere ebbe in quegli anni da com­ battere una doppia battaglia: contro la Francia e per l'intangibilità del­ l'Italia, anzi, ancor piu per l'intervento personale dell'imperatore in Italia, e, su questo punto, contro gli Spagnoli. A questo proposito vi fu una serie di travolgenti e ininterrotti attacchi contro l'imperatore e il suo cancelliere, una pioggia di rapporti, di doglianze e di reclami dall'Impero, dall'Austria e dall'Ungheria, come anche dai Paesi Bassi. Infine, vi si

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itMgiunsero anche gli affari delle Nuove Indie. L'imperatore aveva appena 11ccolto con grandi onori, nonostante tutte le trame dei suoi nemici, il rnnquistatore del Messico, Hernan Cortéz, nominandolo cavaliere del­ l'ordine di Santiago, marchese della Val d'Oaxaca e capitano generale della Nuova Spagna, quando dal centro del continente si fece avanti Francisco Pizarro, che, con suadente eloquenza, si offri di conquistare il Peru; Carlo, a differenza dei suoi rappresentanti a Panama, non gli impedf di tentare quest'impresa. Nel frattempo, gli imperiali dovevan subire l'ultima e piu grave prova nella lotta per Napoli. Il Lautrec dalla Romagna aveva marciato lungo la costa adriatica e già si trovava negli Abruzzi, quando Hugo de Mon­ cada, Philibert d'Orange, e il marchese del Vasto, Alfonso d'Avalos, ni­ pote del Pescara, accorsero in gran fretta in difesa del reame. La Puglia non tardò a cadere in potere dei Francesi; il marchese del Vasto poté difendere Troia, ma nulla piu. Il 16 marzo 1528 sarebbe dovuta avvenire quella battaglia decisiva che il Lautrec, nonostante la sua superiorità nu­ merica, aveva sempre procrastinata. Ma l'Orange si sottrasse abilmente all'accerchiamento. Agli imperiali ormai non restava quasi se non la città di Napoli: cattivo inizio per il Moncada, cui l'imperatore invero ancora rifiutava il titolo di vicerè, pur lasciandogli la piena responsabilità degli affari del reame. Sempre nuovi pericoli si addensavano. In Spagna già dal dicembre si era informati dell'avvicinarsi di vascelli nemici, soprattutto genovesi, senza aver potuto mettervi riparo. La popolosa città e la forte guarni­ gione correvano pericolo di essere affamate, dato che il porto era bloccato e la città assediata dal lato di terra. Il Moncada si sforzò di importare grano dalla Sicilia e si avventurò in una battaglia navale, affiancato dal fiore dei suoi ufficiali. Ma la battaglia ebbe un esito disastroso. Il Moncada vi perdette la vita, mentre il marchese del Vasto cadde prigioniero. Cos{ tutto il peso della situazione venne a gravare sulle spalle del giovine Philibert de Chalon, principe di Orange. Nell'ultima seduta se­ greta del Consiglio del dicembre 1527 si era rimasti d'accordo di prendere in considerazione per la carica di comandante supremo di tutte le truppe imperiali il duca di Ferrara, Alfonso I (passato poi nel campo avversario),

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con l'Orange come suo luogotenente; e questi si sarebbe dovuto appog• giare all'esperto Alarcon. Per la carica di vicerè, aveva detto l'imperatore, l'Orange era ancora troppo giovane. In realtà l'Orange aveva appena venticinque anni, ma era maturato precocemente. Suo padre era morto poche settimane dopo la sua nascita, e Filiberta del Lussemburgo, sua madre, l'aveva fatto vivere per tempo nel gran mondo di Parigi e, dopo il 1520, in Spagna. Essa amministrava altresi'. le sue vaste proprietà nella Franca Contea, nella Bresse, nella Bor­ gogna e in Fiandra. L'unica sorella di lui era divenuta seconda moglie di Enrico di Nassau, e, in forza di tutti questi rapporti familiari com­ presa la parentela con la famiglia dei duchi di Borgogna, il giovane ot• tenne ben presto l'ordine del Toson d'oro, il grado di ufficiale e la parteci­ pazione a campagne di guerra. Egli si era già fatto una ricca esperienza di vita, si era spesso esposto a cimenti, era stato ferito e fatto prigioniero, quando l'impeto aggressivo delle soldatesche lo portò davanti a Roma. Nuovamente e gravemente ferito davanti a Castel Sant'Angelo, aveva tentato invano di metter freno agli orrori del sacco della città. La lotta per il possesso di Napoli fece di lui un vero e proprio con­ dottiero. Mentre il porto era ancora bloccato, la guarnigione, come dc Leyva tante volte aveva fatto a Pavia, cercò di farsi largo con ardimen­ tose sortite che misero a dura prova l'esercito francese, gravemente col­ pito da epidemie. Ma, per intere settimane, la sua situazione fu asso­ lutamente disperata per la mancanza di denaro e di viveri, perdurando un blocco completo. Di rinforzi non era il caso di parlare. Di dove del resto sarebbero potuti giungere? Tutte le richieste di soccorsi si perde­ vano nel vuoto, come era accaduto al Leyva. In quel momento gli assediati si avvantaggiarono in modo· del tutto inatteso per il mutamento di fronte di Andrea Doria, il cui nipote Filippino con le sue galere dominava il porto. Non avendo trovato profitto nel collaborare con la Francia, il vecchio Genovese passò al servizio del­ l'imperatore e ritirò le sue navi il 4 luglio 1528. Il giorno dopo, il mare apparve agli assediati del tutto deserto di navi. Poco dopo l'Orange ap­ prese da alcune lettere intercettate particolari sulle tristi condizioni degli

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medianti; e prese allora a incalzarli con maggior veemenza, riportando piu frequenti successi e riuscendo nuovamente ad approvvigionarsi. Un bel giorno lo stesso Pedro Navarro cadde prigioniero dei suoi compatrioti. Ma solamente con l'inattesa morte di Lautrec (16 agosto) ebbe fine l'as­ aedio vero e proprio. Il centro di gravità della guerra si spostò nuova­ mente verso nord. Qui la situazione degli imperiali, a differenza di quella di Napoli in quel momento, si andava facendo sempre piu pericolosa. Invero si era riusciti a guadagnare al servizio dell'imperatore in Italia un principe te­ Jesco, il duca Enrico il Giovane di Braunschweig-Wolfenbiittel; e molto d si riprometteva di ottenere dalle sue fresche truppe, che già nel maggio si trovavano nel Trentino. Ma proprio la sorte di questo principe ci mo­ stra quanto denaro, esperienza e abilità nel trattare gli uomini occorre­ vano in quel tempo per stare alla testa delle truppe. Il duca arrivò fino alla regione di Brescia, ma, qui giunto, fu oggetto di minacce da parte dei suoi stessi soldati e nel luglio dovette prendere la fuga. Importanti somme erano state cosi spese invano. Invece il conte di Saint-Pol sin dall'autunno fu in condizione di con­ durre in Italia un nuovo esercito francese di 10 000 fanti, che contese nuovamente ad Antonio de Leyva il possesso della Lombardia, tenuto con tanta fatica. Ciò minacciava un prolungamento all'infinito della guerra, nonostante le notevoli perdite subite dai Francesi nell'impresa di Napoli. Però Andrea Doria aveva riaperto agli imperiali anche il porto di Genova, riconquistando il dominio della città. Le prospettive per il viaggio dell'imperatore apparivano perciò piu favorevoli che mai. La guerra non era ancora finita; l'imperatore po­ teva ancora raccogliere personalmente gloria e onori. In realtà, nel corso del 1528, e in evidente connessione col rinnovarsi della dura lotta in Lom­ bardia, Carlo sembrava divenuto sempre piu impaziente. Nell'aprile scri­ veva al fratello che «nulla desiderava piu di ciò [del viaggio]», anche per lui: se non altro, in considerazione della «riforma» della Chiesa in Germania e dell'incoronazione, da cui entrambi avrebbero tratto grande vantaggio. Solo gli mancava il requisito principale - il denaro. L'aver egli finalmente accolto nel maggio 1528Ypmaggio, cosi a lungo ritardato,

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di Valenza, valse a sodisfare gli ultimi giustificati desideri della Spagna, e costituf insieme una sua personale decisione. Le sue lettere autografe al Balançon, che in segreto doveva darne co• municazione al principe d'Orange, e al Montfort, dell'autunno del 1528, rivelano in ogni frase il suo ardente desiderio di partire. In quel momento gli premeva soprattutto tale programma: « intendo dire il mio viaggio», aggiungeva con gran rilievo. Era suo proposito partire, scriveva da To­ ledo al Montfort, « anche se dovessi mettere in vendita questa città,., Si lamentava delle trattative finanziarie col Portogallo: « Esse sono per me roba troppo da mercatucci ». Siamo informati dei suoi discorsi nel , Consiglio di Stato, fors anche dinanzi a piu vasti uditori, nel maggio e nel settembre a Valenza e a Madrid, poi nel novembre a Toledo. L'ultima di tali allocuzioni ci è conservata dalla Cronaca di Santa Cruz. È evidente che i concetti e la linea maestra sono opera del Gattinara, che deve averne fornito la traccia all'imperatore, dato che spesso questi ci si presenta con un foglietto in mano. In quelle circostanze, il senso sempre piu forte del suo potere si ma• nifestava nel fatto che egli non domandava piu ai suoi intimi se dovesse intraprendere il suo viaggio (punto ormai stabilito), ma solo come dovesse organizzarlo. Seguendo una linea del tutto propria al Gattinara, egli osservava, fin dalle prime frasi, di non avere la minima paura della Lega, dato che Dio gli aveva sempre concesso la vittoria su di essa, e neppure del papa, che da molto tempo era piu agitato contro la Francia di quanto non lo fosse stato per il sacco di Roma; né aveva preoccupazioni per la Spagna, dove, a differenza di ciò che era avvenuto al tempo della sua prima assenza, avrebbe ora lasciato la reggente e gli eredi. Le spese non avevano importanza di sorta; come aveva trovato denaro per otto anni di guerra, non gliene sarebbe mancato adesso per il viaggio e per l'inco­ ronazione. Esso non doveva del resto servire soltanto all'incoronazione, cerimonia che il papa avrebbe potuto celebrare anche in Spagna; tanto meno, a rendergli possibile di vendicarsi dei suoi nemici, compito che spettava alla Provvidenza; e meno che mai a conquiste territoriali, poiché egli in numerose occasioni aveva fatto vedere che pretendeva solo i beni suoi propri, quelli che aveva ereditato dai suoi maggiori, e non già quelli

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degli altri. Di fatto, egli si sarebbe recato in Italia per costringere il papa a convocare il concilio, ad agire contro le eresie e per la riforma della Chiesa, a sanare le ferite provocate dalla guerra; e, infine, come era com­ pito di un pastore quello di condurre il suo gregge al pascolo, cosi era compito suo di far visita ai suoi stati e ai suoi vassalli. La decisione definitiva fu presa però solo grazie a un'abile manovra tattica del Gattinara, da lui riferita nella sua autobiografia. Il cancelliere, come gli capitò spesso, si era ammalato dalla rabbia. L'imperatore si recò a trovarlo, e portò il discorso sulla flotta, dicendogli che sarebbe stata pronta per Natale, cosf da poter prendere il mare verso la metà del gen­ naio 1529. Il Gattinara sorrise incredulo. L'imperatore: Il cancelliere era in contraddizione con se stesso, dato che si era sempre mostrato fa­ vorevole al viaggio. E il Gattinara: Si, ma poi ne aveva abbandonato la speranza, perché ogni volta veniva a mancare ogni cosa. Anzi di recente, a differenza del passato, si era addirittura pronunciato contro l'idea del viaggio; e ciò perché gli Spagnoli lo tenevano in sospetto e lo avevano minacciato per l'interesse da lui portato all'Italia. Egli per di piu doveva aggiungere che l'imperatore andava incontro a grandi pericoli, che non si poteva fare affidamento su quel vecchio pirata di Andrea Doria e che anche in Italia si sarebbero dovute affrontare gravi difficoltà. Perciò, come aveva detto, non si sentiva piu di approvare il viaggio. Come narra il Gattinara, l'effetto di quel discorso sull'imperatore fu quello che egli aveva previsto. Ogni parola spinse Carlo V a contraddirlo. Come un nobile animale si sente in massimo grado eccitato dagli ostacoli che gli si presentano innanzi alla mèta, cosi l'imperatore non si poteva piu trattenere. Tuttavia, i preparativi della spedizione in Italia durarono ancora molti mesi. Pur avendo conferito già sin dal 28 aprile 1528 i pieni poteri di governo all'imperatrice, diramando altresf direttive ai singoli collegi di consulenza, di cui si era già trattato anni prima (nel giugno 1525) in un promemoria del dottor Lorenzo Galindez de Carvajal, Carlo redasse sol­ tanto il 3 marzo 1529, con la cooperazione del Loaysa, il suo secondo testamento, piu tardi distrutto. Nello stesso giorno preparò le ultime istruzioni per Isabella, contenenti ogni particolare circa gli affari di Stato

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e il loro pratico disbrigo. Il giorno dopo, parti'. da Toledo, e si recb per la via di Aranjuez e Siguenza a Saragozza. Alla fine di aprile era 1 Barcellona, dopo un annò di ostacoli e di esitazioni. Nel frattempo la guerra nell'Italia settentrionale si era contro ogni pre• visione conclusa. Da Genova erano giunte al Leyva truppe spagnole, met• tendolo in condizione non solo di mantenere le sue posizioni, ma anche di seguire passo passo il Saint-Po}, quando questi si dispose a prendere Genova dalla parte di terraferma. Il 21 giugno il Leyva sconfisse i Fran­ cesi' presso Landriano, facendo prigioniero lo stesso Saint-Pol. Questi ul­ timi avvenimenti fecero :finalmente maturare anche in Francia la volontà di pace che, per amore dei Paesi Bassi, la duchessa Margherita si era da lungo interessata di alimentare. La conclusione delle paci di Barcellona e di Cambrai. Nel frattempo, il papa si dibatteva con difficoltà, a Orvieto e Viterbo, tra l'Impero e i suoi vecchi alleati. I Veneziani, occupando Ravenna e Cervia, si erano impadroniti di antichissimi domicl della Chiesa. La Lega non dava pace al pontefice affinché lasciasse quelle città alla nobile repub­ blica di San Marco. Clemente VII vi era attaccato quanto a Parma e a Piacenza, ma soprattutto alla perduta Firenze. Cosi, nello stesso campo c'erano discordia e malcontento, anche per il fatto che i cardinali erano trattenuti cosi a lungo a Napoli come ostaggi. Il Contarini, ambasciatore veneto, ebbe i piu energici e costruttivi colloqui col papa circa la neces­ sità che rinunziasse a cose terrene, in un momento in cui erano in gioco il bene della cristianità e la dignità della Chiesa; ma il papa si �entiva uomo troppo profondamente politico per essere disposto a cedere senza contropartite. Clemente VII possedeva scarsa forza di volontà, ma sufficiente intel­ ligenza per rendersi conto che per lui tutti i vantaggi erano di nuovo, da qualche tempo, nel campo dell'imperatore. Da qualche mese il padre generale dei Francescani, Francisco Quifiones, della casa dei conti di Luna, che per un certo tempo, a quan'to pare, era stato anche confessore di

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( :urlo V, aveva agito come mediatore tra questi e il papa. Clemente VII lo elevò alla dignità di cardinale di Santa Croce, rafforzando cosi la sua posizione, già di per sé abbastanza neutrale di fronte all'imperatore. Forse per questo la Spagna ricorse a un personaggio che doveva adoperarsi non 1unto per una mediazione quanto per l'immediata ed accorta tutela degli Interessi politici dell'imperatore: l'aragonese Micer Miguél Mai, il cui modo di agire è stato paragonato non a torto a quello di don Juan Manuél. Egli fece apertamente il calcolo di tutti i mezzi di cui poteva disporre per influire sul pontefice, e trarlo con tanta maggior facilità dalla parte dell'imperatore in quanto sapeva discernerne i personali desideri e sodi11farli. Mettersi dalla parte dell'imperatore voleva dire però per il papa buttare a mare la Lega, la quale, da parte sua, cercava di esercitare ogni Morta di pressioni su di lui. Ma non l'aveva essa forse ignominiosamente nbbandonato nei momenti piu gravi? L'Inghilterra, la Francia, Venezia, e piu di tutti Firenze? Cosi il gioco venne condotto su un duplice scac­ chiere. Ora, il papa aveva affermato piu volte di voler recarsi in Spagna Jall'imperatore, ma il Mai ne intui il segreto pensiero, opinando che egli volesse soprattutto tener lontano l'imperatore dall'Italia. Clemente era Jisposto anche ad acconsentire alla « cruzada ►> per la Spagna, pretendendo però, come scrisse il Mai, « nella sua meschina concezione», una parteci­ pazione di 30 000 ducati. In generale, influirono sulle disposizioni pacifiche della Curia il peri­ colo rappresentato dai Turchi in Ungheria, oltreché la domanda di aiuto recata per incarico di Ferdinando da Andrea da Burgo, naturalmente con l'appoggio dell'ambasciatore imperiale, quando Solimano stava già risa­ lendo il Danubio con formidabili forze. Due cose furono per Clemente di decisiva importanza. Il fatto, anzi­ tutto, che gli ambasciatori lo liberarono dalla paura della convocazione del concilio. Il Mai e il da Burgo procedettero, in proposito, con piena consapevolezza, certo non interamente nel senso della politica mondiale del Gattinara, sebbene anche questi, come ben ricordiamo, avesse una volta parlato della richiesta di convocare il concilio come di un mezzo di pressione da esercitare sul papa. Il risultato apparve ben chiaro, quando un giorno l'inviato di Ferdinando parlò cos{ al papa: Sua Santità non

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aveva da nutrire timori per un concilio, perché Sua Maestà l'imperatore attribuiva maggior valore alla pace del mondo e in Italia che non all1 condotta sempre imponderabile d'un concilio universale; un imperatore amico lo avrebbe difeso, e dei luterani ci si sarebbe sbarazzati con altri mezzi. Nel qual proposito vediamo affiorare per la prima volta l'idea di conversazioni sul tema religioso. L'ambasciatore aveva appena terminato di parlare che il papa si levò dal suo seggio come alleggerito e disse: « In fede mia, Voi parlate sinceramente e saggiamente; in questo caso si po­ trebbero far loro tranquillamente alcune concessioni». L'altro mezzo, forse ancor piu efficace, per guadagnarsi il papa, fu l'accoglimento dei suoi desideri per Firenze: dove si doveva ripetere quanto era avvenuto nel 1512. Cosi, tutto tendeva a una pace separata del papa. Dopo la morte im­ provvisa a Toledo, nel febbraio '29, del Castiglione, il pontefice fin dal 16 aprile aveva inviato in Spagna il suo maestro di camera, il vescovo di Vaison, come nuovo nunzio, con vasti poteri e le desiderate autoriz­ zazioni. Con la collaborazione del Gattinara, di de Praet e del Gran• velle, furono preparati a Barcellona gli articoli, che il 29 giugno servirono di fondamento al trattato di pace. Con questo trattato di Barcellona il papa e l'imperatore, - cosi si esprime il documento· nel suo enfatico stile, - « si davano la mano, stante il loro dolore nel vedere dilacerata la cri­ stianità, per difendersi dai Turchi e per gettare le basi di una pace gene­ rale». Il papa si vedeva assicurare Ravenna, Cervia, Modena, Reggio e Ru­ biera; l'imperatore, nuovamente l'investitura di Napoli e la concessione di benefici ecclesiastici. Re Ferdinando fu compreso nella pace, avendo l'imperatore e il papa dato assicurazione di voler procedere contro gli ere­ tici, qualora essi non avessero prestato ascolto ai moniti del Sommo Pa­ store e alle diffide del loro sovrano. Quanto a Milano, gli altissimi sovrani si sarebbero messi d'accordo. Chiunquè avesse sostenuto i Turchi era mi­ nacciato dalla scomunica papale; viceversa, erano assolti dal pontefice quanti avevano combattuto con le armi in Italia contro lo Stato pontificio. Poche settimane dopò la conclusione della pace, il 16 luglio, il- papa iniziò a Roma l'esame della causa inglese di divorzio. Con ciò non si po­ teva piu dubitare che la sentenza della Chiesa sarebbe stata conforme

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ai desideri dell'imperatore. Il « defensor fidei » doveva ora diventare un nuovo pericoloso nemico della Chiesa romana. Parlando delle vicende d'Italia e del papa, abbiamo momentanea­ mente perd�to di vista le vicende politiche che si svolgevano sulle rive della Manica. In realtà, anche dopo le dichiarazioni di guerra del 1528, non si ebbero nei Paesi Bassi veri combattimenti, salvo i penosissimi riflessi dello stato di guerra formale sulla sicurezza delle strade nelle re­ gioni di confine e sul complesso degli scambi commerciali. I grandi litigi che Margherita, morta la nipote Isabella, era costretta a sostenere con Cristiano II di Danimarca, nulla avevano a che fare con le questioni anglo-francesi. Margherita diede prova dell'antica sua energia, in quanto coraggiosamente e piu volte affrontò di persona il re, condonandogli, forse in memoria di Isabella, parte dei suoi debiti, rifiutando però con altrettanta risolutezza di intervenire per altri. Inoltre pretese per sé i fanciulli regali, quando non riusd a impedire che quell'indomabile av­ venturiero se ne andasse altrove, portando con sé ogni cosa, compreso, con orrore di Margherita, il calice che giornalmente usava. Piuttosto si sarebbe potuto considerare come una conseguenza della discordia tra l'imperatore e la Francia la guerra di Gheldria, anche se questa volta, ancor piu di prima, il centro della lotta era Utrecht. Inoltre, la contesa era di natura cosf strana che prima la regione di Utrecht, specie l'Overijssel, poi tutte le zone vicine, quale con maggiore, quale con minore libertà e zelo, cercarono l'aiuto dell'imperatore. Anche gli stati del Bra­ bante e dell'Olanda, che d'altronde erano sempre contrari a concessioni, si adattarono, dopo un'amara esperienza, ma in parte di loro iniziativa, a dar il loro aiuto, takhé alla fine, con l'aiuto di quegli stessi paesi, fu riconosciuta la sovranità su Utrecht dell'imperatore, come conte d'Olanda, col trattato di Schonhooven ( 1527); sull'Overijssel, come duca di Brabante e perfino sulla Gheldria, col trattato di Gorcum del 3 ottobre 1528. Che Giovanni di Kleve fosse occasionalmente intervenuto con proprie pretese sulla Gheldria, e che Martin van Rossem, maresciallo di Gheldria, avesse dato prova di sfrenatezza e indisciplina in un selvaggio attacco all'Aja del 6 marzo 1528, furono fatti che preannunziarono future lotte. Su tutto ciò influi tuttavia, alla fine, anche qualcosa di piu generale e profondo.

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La reggenza di Margherita mostra la tendenza, affatto moderna, al­ J >instaurazione di uno Stato chiuso, autoritario, opposto a quanto restava dell'età feudale, - analogamente ai governi dei« re cattolici» e dello stesso Carlo V in Spagna, - mediante l'incorporazione di piccoli domini sovrani, la formazione di un capace corpo di funzionari e l'abbassamento dell'alta nobiltà con le sue ambizioni particolaristiche. Il fatto che da quei circoli giungessero alla corte lamentele contro l'arciduchessa; che Carlo V in­ viasse nei Paesi Bassi a farvi da conciliatore un uomo dell'autorità del signor de Praet, conferma la nostra visione della politica orgogliosa e piena di sé dell'arciduchessa, la quale, come ci è noto, agiva senza molti scrupoli anche in materia di privilegi delle città, quando l'interesse del suo imperiale nipote glielo facesse apparire necessario. Le sue giustifica­ zioni hanno in sé alcunché di grande e di nobile; ed è significativo del suo principesco sentire che essa non abbia acconsentito ad accettare altro me­ diatore fuor che l'imperatrice Isabella. Nulla essa avrebbe abbandonato dei diritti imperiali di sovranità, nulla dei suoi possessi o dei suoi redditi; tutt'al piu, aveva fatto ricorso ai mezzi propri, a differenza dei signori, la cui avidità essa coraggiosamente flagellava. D'ispirazione moderna era anche la sua comprensione delle necessità economiche del suo paese, e, con esse, della necessità di buoni rapporti con l'Inghilterra. Come in passato, la guerra tra gli Inglesi e l'Impero era, sia nei Paesi Bassi che tra gli artigiani e i mercanti inglesi, estremamente impopo­ lare. Fu un atto molto abile da parte dei rappresentanti dell'imperatore l'aver messo in rilievo a Londra che la guerra aveva la sua causa nelle ambizioni del Wolsey (notevolmente scosso nella sua posizione), e non già nelle tendenze bellicose del re o del popolo. Viceversa, un giorno, ci fu da parte dell'imperatore la minaccia di dare grande sviluppo alla guerra navale, anticipando le giornate della famosa « Armada». In un memoriale del gennaio 1528, immediatamente dopo la dichiarazione di guerra di Burgos, il Gattinara si fondava sulla promessa di un aiuto na­ vale del Portogallo, per studiare come si potessero riunire navi porto­ ghesi, castigliane e fiamminghe, per vibrare un grosso colpo contro la flotta inglese e per sbarcare in Inghilterra, allo scopo di vendicare il torto recato alla regina Caterina e di tutelare il diritto alla successione della

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principessa Maria. A tal 6ne ci si sarebbe anche potuti unire agli Scoz­ zesi. Non solo: ma anche Guglielmo di Montfort avrebbe dovuto senza esitazioni arruolare seimila lanzichenecchi tedeschi per il 6 febbraio. È questo il primo piano concreto di uno sbarco su suolo britannico offertoci dalla storia moderna; tuttavia, esso non giunse a compimento. Soprat­ tutto, gli sforzi di Margherita, sorretti dall'ambasciatore imperiale Ifiigo Mendoza, vescovo di Burgos, condussero già il 15 giugno 1528 all'armi­ stizio di Hampton-Court e, piu tardi, alla pace. Dall'altro lato, furono nuovamente le tradizioni del piccolo ambiente di corte a facilitare l'opera mediatrice dell'arciduchessa, adesso anche nei confronti della Francia; oltreché, forse, le relazioni mondane della du­ chessa di Vendome, che proprio allora stava entrando in possesso d'una parte dell'eredità del signore di Ravenstein, suo cognato. L'avvio alle con­ versazioni venne dato il giorno in cui l'inviato di Margherita, Des Barres, si send domandare, durante una festa a Parigi, da Luisa di Savoia, madre del re e cognata di Margherita, se la sua sovrana e lei stessa non dovessero prendersi a cuore la causa della pace, da ogni parte sospirata; e l'iniziativa portò tanto piu rapidamente al successo in quanto Margherita, tenendo intelligentemente un'attitudine riservata, si fece ancora pregare. Piu volte comparve da lei un personaggio che già conosciamo, il vescovo di Avranches, Gilbert Bayard; vi furono proficui scambi di lettere, le quali stanno ora dinanzi a noi, raccolte in grossi pacchi; e si ebbe finalmente l'incontro personale delle due principesse il 5 luglio 1529, a Cambrai, dove Margherita, servendosi con grandissima abilità di tutte le circostanze di natura personale e di fatto, condusse infine in porto quella « Pace delle Dame» del 3 agosto 1529, che fu cosi vantaggiosa per l'imperatore. Luisa di Savoia, nella sua qualità di madre e di nonna, era sotto la duplice impressione della prigionia del figlio e dei nipoti e degli ultimi insuccessi in Italia. Margherita, da parte sua, non disconosceva quel che la situazione aveva di favorevole per lei, ma, come sempre, dette prova di sicura conoscenza delle cose e di risolutezza. Essa, inoltre, si era assicurata già da molto tempo (fin dal 31 dicembre 1528), attraverso i rapporti del suo fido Rosimbos e del Des Barres, il consenso dell'imperatore su tutti i punti sostanziali.

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La pace cli Cambrai rappresentò un'espressa conferma della pace di Madrid, tranne la cessione della Borgogna, riconosciuta ineseguibile, ma col mantenimento nei suoi confronti di tutti i diritti dell'imperatore. Il documento è assai voluminoso, dato che vi dovettero essere regolate innumerevoli questioni di natura territoriale, in ispecie quelle dei reci­ proci sudditi. Di capitale importanza fu il riconoscimento della sovranità francese sulla Fiandra e l'Artois, oltreché il completo abbandono di tutte le pretese dei Francesi su Milano, Genova e Napoli, per cui i re di Francia avevano combattuto con grandissimi sacrifici e talora con brillanti successi. Furono anche sacrificati tutti i partigiani della Francia, specialmente in Italia (ciò che riusd assai comodo al papa) e in Germania: ciò che para­ lizzò la Gheldria e Robert de La Mark. Per converso, re Cristiano II fu compreso nella pace. Per la liberazione dei principi la Francia doveva pagare un riscatto di due milioni di «soli»; con il che essa si assunse anche il debito del­ l'imperatore verso l'Inghilterra, il che rappresentò per Carlo V un grande alleviamento, interno ed esterno. La regina vedova Eleonora, legata al re di Francia da un formale fidanzamento e che da anni si trovava perciò in una condizione ibrida e penosa, doveva ormai veramente salire al trono con lui: fatto, questo, assai importante e sostanziale per il sentimento dinastico di Carlo, e certamente non privo d'importanza per la sua poli­ tica, come si doveva far chiaro piu tardi. Cos{ i medaglioni con i ritratti di Eleonora e del suo reale consorte, sorretti da geni, ornano i sostegni principali del camino, magnificamente intagliato in legno di quercia e tripartito, del salone dell'Alta Corte di Bruges, che stava allora per essere completato. A destra e a sinistra, le figure in grandezza naturale dei creatori della potenza absburgico-borgo­ gnona-spagnola: l'imperatore Massimiliano I e Maria di Borgogna, Ferdi­ nando II d'Aragona e Isabella di Castiglia. Davanti al trono, recante i ri­ tratti dei suoi genitori, la giovanile figura dell'imperatore, adorno del Toson d'oro, la spada del potere levata quasi al cielo. Lo sfondo è tutto coperto dagli stemmi dei paesi. Negli spazi vuoti, i busti del Lannoy e dell'arciduchessa Margherita; il tutto, fastoso simbolo dei sublimi sensi di quell'età, che avevano avuto le loro radici a Pavia e a Cambrai.

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Come gli esperti consiglieri imperiali giudicassero il successo di Cam­ brai è attestatp da una lettera amichevole del de Praet, che era stato in­ viato a pacificare l'Italia, al Granvelle. Egli giudicò cosi'. vantaggiosa la pace da pensare, in un primo momento, a un inganno. Pur considerando la possibilità che essa venisse nuovamente violata, stimò tuttavia che la situazione nell'insieme fosse tale da consigliare senz'altro la ratifica del trattato. Charles de Poupet, signore de La Chaulx, il secondo in ordine d'importanza del piu ristretto circolo del Consiglio di Stato, scrisse nel settembre 1529, dalla Savoia, direttamente all'imperatore, esprimendosi in termini analoghi. Poco dopo, nell'ottobre, La Chaulx e Des Barres si incontrarono a Parigi; e ambedue, il 21, riferirono le splendide accoglienze ricevute. Il re li aveva accolti nel maggior salone del Louvre, circondato da tutta la corte. Quale contrasto con le riunioni dell'anno prima, che avevano visto sfide e dichiarazioni di guerra! Il re di Francia avanzò nel bel mezzo della sala incontro agli ambasciatori e, senza attendere la fine del discorso del La Chaulx, si dette subito ad elogiare le nobilissime dame che avevano condotto in porto la pace. Suo desiderio adesso - disse - era quello di vivere e morire da vero fratello ed amico dell'imperatore; questi poteva interamente disporre di lui e dei suoi mezzi; ed altre belle frasi. Rientrato nei suoi appartamenti, Francesco I parlò poi della questione turca, espri­ mendo il suo vivo desiderio di aiutare re Ferdinando e proponendo un piano di guerra, in cui si sarebbero dovuti mettere in campo 60 000 fanti, cavalieri e artiglieri, dei quali l'imperatore sarebbe stato, naturalmente, il comandante supremo, mentre il re di Francia avrebbe avuto il comando dell'avanguardia. Denaro purtroppo non ne poteva fornire, dato che do­ veva versarne già tanto all'imperatore. Ma ben presto, attraversando la Savoia e il Piemonte, si sarebbe recato da questi, per conferire maggior rilievo all'impresa. Il 20 ottobre, dopo una messa celebrata nella cattedrale di Notre­ Dame, con l'ampio intervento di nobili signori e degli ambasciatori d'In­ ghilterra, di Venezia, di Milano, di Firenze e di Ferrara, intervenuti piut­ tosto contro voglia, fu consacrata la pace. Poi, il re offri'. agli ambasciatori una colazione nel palazzo vescovile. La sera, furono ospiti del gran mae-

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stro di palazzo, che ancora una volta si dette da fare, specialmente in favore del duca di Ferrara, cognato del re. Negli stessi giorni e con eguale solennità anche Carlo V, a Piacenza, prestò da parte sua giuramento di osservare la pace, davanti all'ammiraglio di Francia. L'imperatore in Italia. Sua incoronazione a Bologna.

Nel frattempo, l'imperatore aveva potuto infatti intraprendere final­ mente il su� viaggio in Italia. A Barcellona erano giunti i quaranta muli ansiosamente attesi, col denaro proveniente dal Portogallo e dalla Casti­ glia. La Corte vi aveva altresi avuto notizia della sconfitta del Saint-Poi presso Landriano, « come se - osservò il Gattinara - la causa dell'impe­ ratore fosse stata mirabilmente tutelata da Dio stesso». C'erano tutte le premesse per un favorevole andamento del viaggio. Prima della partenza per l'Italia giunse a Carlo un ultimo monito di Margherita. «Mio signore, il Vostro ardimento e la Vostra magnanimità esigono il viaggio in Italla, e a me, come a tutti questi Vostri servitori, codesta sollecitudine per il Vostro onore e la Vostra reputazione, la Vostra sicurezza e i Vostri stati, ha causato profonda sodisfazione. Tuttavia, i pericoli che minacciano la Vostra persona e le difficoltà dell'impresa c'ispirano insieme ansie ed esi­ tazioni». L'imperatore avrebbe dovuto intraprendere il viaggio solo quando fosse stato provveduto a dovizia di denaro, di truppe e di vetto­ vaglie; altrimenti, poteva accadergli come a Carlo VIII di Francia, che arrivò felicemente in Italia, ma che già a Roma si trovò a soffrire per la penuria di denaro e dové poi ritorn.arsene indietro, compromettendo il suo onot:e. Ma tutto era già in pieno movimento e quelle obiezioni erano talmente note e risapute dall'imperatore che non potevano certo piu trattenerlo, senza dire che buona parte delle preoccupazioni di Margherita erano state nel frattempo superate. Alla fine di luglio ci si imbarcò, approdando il 6 agosto a Monaco, il 9 a Savona, il 12 a Genova. Di qui, per Tortona, Voghera e Piacenza, si procedette attraverso territori già pacificati, quasi a deludere il giowane imperatore, verso .Bologna, dov'egli fece il suo in­ gresso solenne il 6 dicembre.

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11 Rinascimento fece sfoggio in suo onore di tutta la sua magnificenza. La bella città, nello splendore dei suoi arazzi e ornamenti, dei suoi capo­ lavori di scultura e delle improvvisate architetture, sembrava far rivi­ vere nei suoi archi di trionfo, dinanzi agli occhi curiosi della gente, tutta la risorta antichità in una interpretazione storica di uomini e cose. Il cuore del sessantaquattrenne Gattinara, che aveva ricevuto nel frattempo la porpora cardinalizia promessagli fin dal 1525, dovette battere piu forte, quando egli scorse le figure degl'imperatori romani Cesare, Augusto, Tito e Traiano accanto allo stemma della Sua imperiale Maestà. Egli cavalcava al seguito immediato dell'imperatore, accanto ad Enrico di Nassau, ad Alessandro de' Medici e al marchese del Monferrato, conte e marchese di un feudo imperiale in Piemonte. La notizia della gloriosa cacciata dei Turchi, che avevano investito Vienna con furiosi attacchi, rese piu bril­ lante per il cancelliere quel giorno di realizzazioni. Già in precedenza Clemente VII si era recato nel luogo del convegno; e per qualche settimana si poterono cosi vedere riuniti in colloqui confi­ denziali quei capi della cristianità che poco prima erano sembrati irre­ conciliabili nemici. I loro appartamenti nel Palazzo di Città comunica­ vano per mezzo di usci segreti. Il soggiorno di Carlo a Bologna durò quasi quattro mesi, dal dicembre 1529 fino verso la fine del marzo 1530. Riesce difficile farsi ragione di una cosi lunga sosta, quando si pensi che Ferdinando domandava con crescente insistenza che l'imperatore si recasse a prestargli aiuto contro i Turchi. Che cosa trattenne cosi a lungo a Bologna, apparentemente inattivo, l'imperatore? Mentre maturava la sua grande decisione, egli si era figu­ rato il viaggio in Italia in modo affatto diverso; e ora si sentiva quasi ve­ nire le vertigini alla vista di una situazione politica che mutava di giorno in giorno, sembrando prendersi gioco delle sue decisioni, che tanta fatica gli erano costate. Egli senti il bisogno di giustificarsi di fronte al fratello, e lo fece in una lettera assai esauriente e confidenziale dell'l 1 gennaio 1530. Nel far ciò egli segui ancora una volta, se non andiamo errati, i concetti del Gattinara, cui lo stile naturale e un po' sentenzioso dell'im­ peratore nulla toglievano dell'originale forza e splendore. Tutto ciò co-

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stituiva un tentativo, molto piu maturo di quello del 1525, di rendersi conto nell'insieme della sua assai difficile situazione. Carlo esprimeva il desiderio che la sua lettera potesse volare e che la risposta potesse giungergli in un baleno. Alla richiesta di Ferdinando di un'alleanza contro i Turchi, egli replicava freddamente che da soli non possedevano i mezzi per lottare vittoriosamente contro il sultano, e che gli altri principi non avrebbero fornito nessun aiuto degno di tal nome. L'idea di una pace, anche se avesse importato qualche sacrificio, non era da trascurare. Ma in tal caso, tutti avrebbero sostenuto di aver avuto l'intenzione di compiere meraviglie, e avrebbero rinfacciato ad entrambi il proposito, ripetutamente espresso, di voler combattere gli infedeli. Il sultano avrebbe potuto pensare che Ferdinando avesse bisogno di pace e che sarebbe bastata ancora un po' di tenacia per conseguire maggiori ri­ sultati; ovvero che, avendo il fianco coperto dal lato di Ferdinando, si sarebbe potuto gettare a fondo contro l'imperatore. Tuttavia, le ragioni che militavano in favore della conclusione di un trattato di pace erano piu forti di tali preoccupazioni. Senza dubbio il papa, valendosi dei diploma­ tici accreditati presso di lui, stava rivolgendo ai principi e alle potenze l'incitamento a respingere i Turchi; ma le risposte sarebbero state lente a giungere e avrebbero potuto suonare: « Perché dovremmo aiutarvi, quando state facendo la pace? » Inoltre, dacché era bene attendere per vedere come si mettessero le cose in Germania, egli consigliava per il momento di temporeggiare col sultano (non però per mezzo di un'amba­ sceria), giustificandosi del ritardo ed esprimendo la buona disposizione a trattare, anziché far ricorso alle armi. Per quanto poi concerneva la sua ulteriore condotta e il suo viaggio in Germania, Carlo V chiedeva consiglio circa tre diverse possibilità (quasi volesse utilizzare per sé la ricetta proprio allora somministrata). Farsi incoronare subito e recarsi poi senza indugio in Germania; oppure farsi incoronare a Roma e compiere il viaggio in Germania nel maggio o nel giugno successivo; o, infine, ove la situazione tedesca l'avesse reso possibile, cercare prima di regolare le cose a Napoli e recarsi in Ger­ mania soltanto nell'autunno. Perché Ferdinando potesse vederci piu chiaro, Carlo desiderava riassumergli di nuovo ogni cosa; sia i motivi del

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suo viaggio in Italia che i cambiamenti poi sopravvenuti, e, in terzo luogo, la situazione attuale. Il principale motivo del suo viaggio era stato che, agendo come fino allora si era agito, in Italia non si sarebbe mai fatta pace né messo fine alla guerra, mentre le sue risorse si andavano esaurendo; le grandi eresie in Germania portavano con sé la possibilità pericolosa di un altro re dei Romani, mentre egli, Carlo, solo quando fosse stato incoronato imperatore, avrebbe potuto adoperarsi in favore di Ferdinando. Infine, se possibile, egli intendeva visitare Napoli. Era, infatti, sua intenzione di ristabilire la pace in Italia. Volerla dominare del tutto significava com­ battere « in perpetuo», cioè non ottenere mai la desiderata amicizia del papa. Per quanto molti lo sconsigliassero, egli aveva preso le sue de­ cisioni. Ora, però, varie cose avevano preso una piega differente da quella da lui prevista. Molti erano contrari al viaggio in Italia e il denaro porto­ ghese si era fatto attendere a lungo, sicché i preparativi avevano subito un ritardo. La sopraggiunta notizia della pace con la Francia, aveva allon­ tanato la prospettiva di una guerra in Italia. D'altro canto, Ferdinando aveva mandato liete notizie circa l'andamento della guerra contro i Tur­ chi; e l'una e l'altra circostanza gli permettevano di dedicarsi piu attiva­ mente a metter ordine in Italia, sicché pensava di restare ancora lontano da suo fratello e di non recarsi subito nel Veneto. Egli aveva, insomma, accentuato il suo atteggiamento pacifico; ma, giusto come « quando si desidera ardentemente una cosa, si ottiene per lo piu l'effetto contrario», cosi era accaduto anche in quel caso. Il papa esigeva l'adempimento della sua promessa di fargli riavere Firenze. Gli era stato detto che tutto sa­ rebbe stato pronto in quindici o venti giorni; poi, che occorreva molto piu tempo, e la faccenda andava ancora per le lunghe, non si capiva bene se con le buone o con le cattive. Nel frattempo, Carlo V aveva concluso i trattati con Venezia e col duca di Milano. Pretendere qui a un dominio per sé o per Ferdinando non sarebbe stato possibile, a meno di volere una guerra « che non fosse ces­ sata mai». Restava sempre incerto, infatti, se la Francia avrebbe vera­ mente conservato la pace. Essa si sentiva attratta verso l'Inghilterra, dove

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il re voleva separarsi da sua moglie - loro zia - senza il consenso del pontefice. Francia e Inghilterra si sarebbero astenute dal far guerra, se avessero visto un'Italia restituita alla pace (anche questo era un pensiero di schietta marca del Gattinara). Napoli egli la teneva di nuovo in pugno, con 21 000 uomini a sua disposizione. Restavano ancora le preoc­ cupazioni per Firenze e Ferrara, ed era consigliabile spegnere anche le ultime scintille infocate. Tale si presentava la situazione del momento. L'imperatore inten­ deva mantener fede alla parola data al papa, benché ognuno si attendesse da Clemente VII ogni sorta di atti sleali; inoltre aspettava di conoscere il comportamento della Francia, che aveva cominciato ad adempiere le clausole della pace riguardo a Napoli, Stenay e Hesdin. In molti, pe­ raltro, sussisteva il sospetto che il re di Francia proseguisse nei suoi ma­ neggi in Italia - a Firenze e Venezia - e che avrebbe nuovamente violato la pace, prima o dopo la liberazione dei figli. Quanto all'Inghilterra, il papa non intendeva appagare le scandalose pretese del re, ma d'altro canto voleva evitare di perdere l'obbedienza di quel paese. Certamente Enrico VIII avrebbe commesso delle sciocchezze, e queste avrebbero offerto motivi sufficienti per una guerra. Il contratto con Andrea Doria sarebbe scaduto in maggio o giugno, ma si sperava di rinnovarlo. Da tutto ciò nasceva l'interrogativo se a Carlo restasse il tempo di farsi coro­ nare a Roma, punto che alcuni consideravano essemiale, o se l'incoro­ nazione dovesse avvenire a Bologna, affinché egli potesse al piu presto portarsi in Germania. In tal caso Ferdinando avrebbe dovuto dire che cosa era necessario fare circa il problema luterano e l'elezione regia, che doveva compiersi a qualunque costo. La lettera si era fatta lunga e di carattere confidenziale, ma molti punti « erano rimasti nella penna»; ed egli, Carlo, sperava di trattarne durante il loro prossimo incontro. Cosi'., dunque, vedeva l'imperatore, a metà gennaio, la situazione. Roma e Napoli non erano ancora definitivamente uscite dai suoi progetti, allorché le ripetute insistenze di Ferdinando determinarono il tracollo della bilancia. Anche Margherita dai Paesi Bassi ammoniva a non spre­ care tempo e denaro per amore del papa, in un momento in cui Ferdi­ nando aveva cosf urgente bisogno di aiuto contro i Turchi. « Voi, capi

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della cristianità, - scriveva al nipote, - non potreste mai procacciarvi costà tanto onore, quanto ne perdete trascurando la lotta contro i Tur­ chi». Per procurarsi denaro, non rimaneva, a suo giudizio, che alienare una parte dei beni ecclesiastici in tutta la cristianità e anche in Prussia, specie quelli degli ordini cavallereschi, dacché i principi tedeschi, soprat­ tutto quelli luterani, li incorporavano con la massima naturalezza. Il papa avrebbe dovuto dare il suo aiuto. Poiché un'assemblea generale della cri­ stianità avrebbe dato troppo da fare, Margherita raccomandava di indire tre grandi assemblee: una, presieduta dall'imperatore, per l'Italia e la Spagna; un'altra a Cambrai, sotto la di lei presidenza, per la Francia, l'Inghilterra e la Scozia; e una terza per tutta la Germania e i paesi vicini, con a capo Ferdinando: il tutto per affrettare i provvedimenti in vista della grande spedizione contro i Turchi. Tale progetto di crociata di pretto stile borgognone era, in pari tempo, degno di Massimiliano I: una spartizione a tre dell'Europa sotto i fratelli di Casa d'Absburgo. A Bologna non si nutrivano certo simili propositi; e il papa pensava a ben altro che a sacrificare i beni della Chiesa. Dei particolari delle sue conversazioni con l'imperatore ben poco sappiamo; piu eloquente di ogni altro documento è uno di quegli appunti che Carlo soleva scrivere in parte di sua mano, conservato per caso a Simancas. Esso reca in testa: «In merito alla regina d'Inghilterra» (sappiamo di che si tratta); poi: «Conferma della bolla riferentesi all'estensione del regio patronato e al­ l'unione dei tre grandi magisteri»; poscia: «un " breve " che autorizzi a poter disporre delle rendite ancora per nove anni dopo la mia morte, per la salvezza della mia anima». Tali idee dunque accompagnavano l'im­ peratore anche allora, nel fiore della sua giovinezza. Tra queste erano, l'istanza di una modificazione del «breve» recante l'assoluzione per il sacco di Roma, e una serie di cose interessanti l'imperatore in proprio, o la Corona di Spagna e la Chiesa, come ad esempio le prebende tratte dal papa sulla chiesa di Toledo, e il problema dell'inquisizione - sulla quale, affermava Carlo, «posseggo un memoriale». Risulta da altri promemoria dell'imperatore che si parlò anche del concilio; e su questo punto ritorneremo presto. Evidentemente, gli affari italiani apparvero in quel momento ai due

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sovrani come i piu urgenti. Francesco Sforza, dopo aver avuto modo di giustificarsi, fu formalmente investito del ducato di Milano. Del resto, come poteva l'imperatore considerarlo colpevole, dopo esser venuto a un'intesa col papa, tanto piu gravemente colpevole? Venezia, per opera del Contarini, gli venne incontro in tutto. Quanto al duca di Ferrara, con lui si ebbero difficoltà, ma non contrasti. L'incoronazione dell'imperatore fu fissata per il giorno del suo gene­ tliaco. A causa della situazione tedesca, si rinunciò definitivamente a Roma. Il desiderio cli Carlo di vedere intorno a sé in quella solennità i principi tedeschi non poté essere soddisfatto per mancanza di tempo; solo il giovane conte palatino Filippo, nipote del principe elettore e del conte palatino Federico, era presente; nel solenne corteo in chiesa egli incedette recando dinanzi all'imperatore fl « globo dell'Impero» e al­ meno uno dei simboli del Palatinato elettorale e del Sacro Romano Im­ pero di nazione tedesca. Il 22 febbraio Carlo ricevette dalle mani del papa la corona ferrea dei re longobardi; il 24, la corona imperiale: anche questa, con una fastosa cerimonia. Per l'ultima volta, il mondo vide le due supreme dignità, quella pontificia e quella imperiale, nel loro pieno splendore, cosi come le raffiguravano numerosi affreschi nelle chiese e nei palazzi italiani. L'ultimo compito che ancora attendeva i generali dell'imperatore in Italia era anche il piu ingrato. Clemente VII insisteva nel voler sotto­ mettere Firenze. Un ultimo, e non molto degno, rampollo della stirpe del vecchio Cosimo fu preso in considerazione come futuro duca; e Carlo V pensava di dargli piu tardi in moglie la figlia naturale Marghe­ rita, che aveva al1ora soltanto otto anni. Perciò, tre anni dopo il sacco di Roma, le truppe imperiali mossero contro la molto piu nobile Firenze, per conquistarla di viva forza e co­ stringerla a ritornare sotto la signoria dei Medici. Col fiore dell'arte, an­ che le ultime virtu civili eran destinate a perire. Non si venne a capo della resistenza della città se non dopo una lunga lotta, che si svolse sia in aperta campagna sia sotto le mura di Firenze (alla cui difesa collaborò come architetto militare lo stesso Michelangelo) e a prezzo di gravi per­ dite d'ambo le parti. Anche all'imperatore quell'impresa costò un grande

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sacrificio, per la morte del piu giovane e del piu promettente dei suoi generali, Philibert de Chalon, principe d'Orange, colpito a morte in bat­ taglia, il 3 agosto, a Gavinana, non lungi da Pistoia, nella mischia delle opposte cavallerie. Sua madre gli fece erigere un monumento opera di Konrad Meit, lo scultore delrarciduchessa Margherita. I suoi titoli furono ereditati da Renato, figlio di sua sorella Claudia e di Enrico di Nassau; e cosi Orange si aggiunse a Nassau. Intanto l'imperatore aveva già da un pezzo abbandonato l'Italia. Nel­ l'aprile, maggio e giugno, attraverso Mantova, Peschiera, Rovereto, Trento e Innsbruck, s'era avviato verso la Germania. Entrò nella terra del suo destino, e, come se i vecchi tempi volessero abbandonarlo, il 5 giugno perdette ad lnnsbruck, non del tutto di sorpresa, il suo gran can­ celliere, Mercurino Gattinara, che aveva consacrato la propria vita alla Casa imperiale, e che nel tramonto della sua giornata terrena aveva ve­ duto attuarsi ciò che era stato lo scopo della sua esistenza: l'incoro­ nazione dell'imperatore e la pacificazione dell'Italia. La morte del Gattinara fu una svolta determinante nell'intima evolu­ zione di Carlo. Da quel giorno nessuno esercitò piu su di lui un'influenza decisiva. Già da tempo non si poteva piu parlare di un gran camerlengo quale era stato lo Chièvres. Per contro, per circa tre anni l'imperatore fu accompagnato dai consigli epistolari del suo antico confessore Loaysa, che un giorno egli aveva abbastanza rudemente allontanato dal Consiglio di Stato e che adesso, sebbene innalzato alla porpora, si sentiva a Roma come in esilio. Egli scriveva con lo stile aulico e devoto dell'uomo che ogni giorno sarebbe stato lieto di vedersi richiamato: « Se la mia lonta­ nanza da Vostra Maestà ha per contropartita la continuazione del Vostro bene, considererò il mio castigo come una gioia». Carlo V, che apprez­ zava l'intelligenza del Loaysa ed evidentemente lo incoraggiava di conti­ nuo a scrivergli, non lo riammise però mai piu nel suo seguito. Comunque sia, fu il Loaysa a raccomandare a Carlo, in sostituzione del Gattinara, due uomini che, di fatto, divennero da allora in poi i suoi migliori consiglieri: Cobos e Granvelle. « Ho sempre desiderato - scriveva il Loaysa - che il Cobos fosse lo scrigno del Vostro onore e dei Vostri segreti, si da rime­ diare a qualche Vostra lacuna ed alleviare gli oneri del suo sovrano. Egli

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non spende, come altri, molto spirito in finezze e motti arguti. Ma, in compenso, non brontola mai contro il suo signore, ed è caro a tutti. Il signor di Granvelle è un abile avvocato e un buon latinista, una persona­ lità, un buon cristiano, pratico degli affari. Nel suo fare, non è amabile quanto il segretario di Stato, ma, quando avrà il suo ufficio, diverrà anche lui paziente. La mia aspirazione sarebbe, dunque, che Vostra Maestà fosse il gran cancelliere di se stesso, ma frattasse tutti gli affari insieme con le dette due persone ». Il nome del successore del Lalemand come segretario di gabinetto, Antoine Perrenin, compare già nell'omologazione del codicillo del 1532 accanto al Cobos come segretario e pubblico notaio, senza stargli perb alla pari negli affari politid, essendo stato messo completamente in se­ condo piano dal Granvelle per tutti gli affari non spagnoli. Da parte sua, Granvelle non fu mai segretario, bensf diplomatico e uomo di Stato. Nato nel 1486 a Ornans, nella Borgogna, al pari del Gattinara aveva compiuto la sua carriera passando per Dòle, per il servizio dell'arciduchessa Mar­ gherita e un'ambasceria in Francia; egli divenne il vero architetto della grande politica. Le particolari qualità del Cobos si manifestarono invece nel campo delle finanze, dove da abile uomo di affari egli non trascurò i suoi inte­ ressi. Di modeste origini, aveva instancabilmente progredito; uomo già indispensabile allo Chièvres, quest'andaluso abile e ordinato seppe riu­ nire a poco a poco nelle sue mani i segretariati dei piu importanti mini­ steri della Castiglia. Al pari dello Chièvres, ricavò dalle sue cariche in­ genti profitti, con la differenza che i suoi redditi erano piu scaltramente connessi sotto l'aspetto tecnico con le originali sorgenti finanziarie. Cosf, come segretario del Consiglio per le Indie, si assicurò il controllo della fusione dei metalli nobili, con una sua partecipazione dell'uno per cento, nonché quello di analoghi proficui diritti sul sale in tutte le colonie d'America: il che gli assicurò formidabili entrate. Piu che problemi di persone, i consigli del Loaysa riguardavano, come in passato, la vita privata dell'imperatore. I suoi giudizi, sovente appa­ rentemente duri, si annullavano talvolta per la loro eccessiva severità. Comunque, essi sono molto indicativi dell'austera concezione morale,

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rigidamente cattolica, in cui si muoveva l'imperatore. Egli - scriveva il cardinale - poteva in ogni momento risollevarsi dalle fangose profondità del peccato, e in ogni momento « iniziare un nuovo libro mastro per la sua coscienza». « Possa Vostra Maestà persuadersi che Dio non dà ad alcuno un regno senza imporgli con ciò maggior obbligo di amarlo e di seguire i suoi precetti». « Sempre nella Vostra regale persona furono in conflitto la pigrizia e la gloria. Spero che la grazia divina Vi conceda di vincere in Germania i Vostri naturali nemici: la vita di piaceri e lo sperpero del tempo». Tali consigli debbono aver impensierito l'imperatore. Contro la sua aspettazione, non gli era stato concesso di ottenere la gloria guerriera in Italia. Forse l'onore e la reputazione gli avrebbero arriso in altri campi. Fin allora, spesso dopo prove terribili, i suoi sogni piu arditi erano stati alla fine coronati da favolosi successi. Perché non sarebbe riuscito a ri­ condurre all'ovile i traviati e, con l'aiuto di Dio, ad abbattere gli infe­ deli? Al Loaysa egli aveva un giorno confessato che aveva vivo desiderio di mettere in gioco la propria vita. Il confessore si riferiva a ciò: l'occa­ sione adesso era giunta.

VII.

I PROTESTANTI TEDESCHI

Come un giardino bene inaffiato e un temporale che disseti i campi sitibondi, si fronteggiavano con aria beffarda la pia devozione dell'impe­ ratore alla Chiesa e l'ardente aspirazione dei luterani tedeschi alla sal­ vezza religiosa. Il concetto religioso che sull'anima umana agissero potenze terribili, divine e profane, fu sentito e sofferto da Martin Lutero nel modo piu tremendo, prima che egli riuscisse a trovare la via verso il lieto messaggio della salvazione. Il fatto che il bisogno e la dolcezza della santa aspetta­ zione si manifestassero in lui attraverso i concetti della vecchia teologia e le interpretazioni letterali delle Sante Scritture, non faceva che celare il contenuto eterno della sua esperienza, aumentandone l'azione vitale sul popolo tedesco di quel tempo e per la posterità, poiché ogni fede religiosa è legame anche con l'umana tradizione. Ma la tempesta che egli scatenò scosse fino alle fondamenta l'edificio costruito dal clero, colpendo direttamente in Germania anche l'ordine laico delle cose, che oscillava incerto da secoli tra l'universale e il nazio­ nale. In verità, per Lutero, legato ai concetti universalistici del regno di Dio di cui l'Impero recava su questa terra l'immagine riflessa,. le faccende puramente nazionali erano solo un mezzo per risolvere i grandi come i piccoli problemi temporali del mondo ecclesiastico. Ma una volta consa­ pevole dell'insolubile contrasto fra le autorità tradizionali e la sua nuova coscienza religiosa, Lutero vide chiaramente quel che c'era di estraneo e di derivato, anche alla luce della storia tedesca, nella Chiesa romana, scor­ gendo nei rafforzati principati tedeschi un punto fermo, in cui la forma della comunità cristiana avrebbe potuto trovare i propri punti di appog-

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gio: sempre, naturalmente, col rispetto per l'« Impero», nel quale tutto il popolo tedesco aveva trovato per la prima volta la propria unità. Con ciò Lutero veniva inconsciamente a trovarsi all'unisono con lo stato piu caratteristico di tensione della storia tedesca, che da secoli si era servita del concetto universale dell'Impero per far mettere radici nel popolo ger­ manico alla civiltà cristiana come attuazione morale dell'ordine eterno creato da Dio, e, in pari tempo, per tenere insieme in un'unica comunità di popolo quelle stirpi e comunità tedesche cosi vive nella loro tenacia, ma che di continuo si dissolvevano. Inoltre, quanto piu compiutamente la potenza della lingua lo riempi di sé, facendone uno strumento della storia, con tanto maggior sicurezza egli scopri l'intima natura dei suoi Tedeschi prediletti, anticipando per cosf dire quella che doveva esserne l'intima comunità nazionale: sia pure senza nessuna possibilità di contri­ buire con qualche cosa tratta dal suo proprio mondo interiore all'este­ riore ricostituzione politica della nazione. Ciò nonostante, dal momento in cui il curatore d'anime Lutero si sentf responsabile delle sorti della sua comunità cristiana, e cominciò a manifestare a viva voce i suoi timori e la sua gioia, la sua impresa aveva acquistato natura politica. Da quando si era affermato a Worms, era di­ venuto un segnacolo di raccolta, intorno al quale gli uomini si ricono­ scevano.

Lo stato tedesco, la Riforma e la formazione confessionale.

Alcuni principi e alcune città accolsero quel vessillo; una parte dei nascenti stati territoriali tedeschi e delle città, che erano ancora a loro subordinate nello sviluppo, riconobbero, nel senso di Lutero, la missione di un'autorità cristiana di attuare la volontà divina, ciò che non riusd loro difficile, mentre il loro governo si veniva configurando sotto la pressione degli umori dell'« uomo comune ». Cosi si spiegano le reiterate obie­ zioni dei vari stati contro la possibilità di applicare l'editto di Worms del 1521, e, parimenti, le mosse tempestive per ottenere l'intervento delle

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autorità contro misure troppo precipitose della Chiesa e in favore di ordi­ namenti positivi dei principi e delle città in materia religiosa. Senza troppo sacrificare la propria potenza spirituale, il movimento luterano divenne perfino il piu importante fermento di questa trasfor­ mazione statale della Germania, che poté assurgere cosi dalla gretta ri­ strettezza e dall'egoismo sino all'altezza morale dei concetti di dovere e di responsabilità. Ma l'idea pura, come dappertutto, si sarebbe attuata attraverso svariati legami, portando con sé ogni sorta di vacue concettua­ lità e molti elementi di rozzo attaccamento alle cose terrene. Da ciò deri­ varono, fino ai nostri giorni, tutte quelle ipertensioni e quelle lotte che conosciamo come espressioni anche del campo spirituale. Intorno al 1529 ci si immerse sino in fondo in queste discussioni; e già si avvertivano interne reazioni, che entravano in gioco come nuove forze. Il pericolo iniziale di un'affermazione estremistica e fanatica delle istanze religiose individuali e di una turbolenta distruzione di tutta la vecchia tradizione ecclesiastica poteva ormai considerarsi superatò. Pa­ rimenti, se anche non senza interno discapito, si andava ormai attuando l'amalgama tra le esigenze d'un presunto diritto divino e i movimenti so­ ciali del mondo contadinesco e piccolo-borghese della Germania meridio­ nale e centrale. Tuttavia, in Lutero e nei suoi amici era rimasta, come conseguenza, una profonda diffidenza verso tutte le tendenze spirituali­ stiche e sovvertitrici. Sorgeva ora un nuovo pericolo: quello del dogma­ tismo dottrinale settario, che, come retaggio della vecchia teologia, im­ pregnava di sé, come un sedimento, gli ambienti religiosi. L'affissione delle Tesi luterane contro le indulgenze e, piu tardi, la condanna di alcuni ,passi dei suoi scritti, rientrarono per forza in queste forme. Ciò che faceva leva sui cuori era la vivente parola di Lutero; ciò di cui si disputava fra teologi, apparteneva al mondo della documentazione giuridica per qual­ cosa di inafferrabile. Già mille anni prima le cose non erano andate al­ trimenti. Di nuovo, si trattava ora di costituire dei gruppi, in parte sorti in modo spontaneo, in parte consciamente spinti a rafforzare le proprie convinzioni e ad attuarle nel campo degli ordinamenti giuridici; tuttavia, con molteplici gradazioni di rapporti ideali e organizzativi. Tra i riformatori umanisti,

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che, come Erasmo, non osarono scuotere sin dalle fondamenta il concetto della Chiesa cattolica, e i fanatici spiritualisti e battisti che lo demolirono del tutto, c'erano dei punti di contatto, anche se sembrava che Lutero s'interponesse tra loro. Dall'altro lato, perfino tra i suoi piu intimi amici, da quelli di Wittemberg sino al zurighese Zwingli, che era sotto il suo influsso, anche se aveva elaborato la sua dottrina indipendentemente da lui, c'erano lievi differenze dottrinali, tanto piu distintamente avvertite quanto piu erano vicine le une alle altre. Altrettanto si dica, seppure in minor misura, dei gruppi cattolici; anche qui c'erano parentele spirituali tra il vecchio e il nuovo: cosa sin troppo comprensibile, dato che tutte provenivano dalla stessa fonte. Per contro, nei due campi, la pubblica­ zione d'innumeri scritti polemici inaspriva i contrasti dottrinali e l'umore dei contendenti. Tutti i disputanti erano di per sé piu o meno impolitici. Il problema del momento era di sapere quali dottrine avrebbero guadagnato o con­ servato i loro sostegni politici, e con quali raggruppamenti e organizza­ zioni avrebbero potuto rafforzarsi. È perciò che il tema « formazione confessionale e politica religiosa » è divenuto - e non da oggi - og­ getto di fecondi studi, su cui dobbiamo indugiare un po', perché pro­ prio essi ci consentono di renderci conto della situazione politica che l'imperatore si trovò di fronte nell'estate del 1530. La politica tedesca aveva preso le mosse per la formulazione delle dottrine dal decreto della Dieta imperiale di Norimberga del 1524, se­ condo il quale gli Stati provvisti di scuole superiori dovevano far com­ pilare« dai loro dotti, onorevoli, esperti e assennati consiglieri, un estratto di tutte le nuove dottrine e dei libri, dove ci fosse materia di disputa»; esso sarebbe stato sottoposto al progettato Concilio nazionale. Già con questo i Tedeschi avevano gettato del tutto a mare le deliberazioni del­ l'editto di Worms, con la sua persecuzione degli eretici, e avevano aperto la via del libero esame e della comparazione delle -varie fedi o « confessio­ ni » religiose. Su questa via s'impegnò per primo, a quanto sembra, il mar­ gravio Casimiro di Brandeburgo-Ansbach, un vecchio amico degli Ab­ sburgo, morto al loro servizio nel 1527, dopo aver nutrito per qualche tempo una notevole inclinazione per il luteranesimo. Egli fu seguito dal

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fratello ed erede, il margravio Giorgio, che, a causa delle sue terre di Jagerndorf nella Slesia, aveva anche lui bisogno di rimanere amico degli Absburgo, ma che, nel suo intimo, nutriva sempre piu, e conservava sem­ pre piu insistente, la sollecitudine per il Vangelo. Inoltre, l'intesa politica stretta tra i principi in occasione della guerra dei contadini aveva riavvi­ cinato, anche sotto l'aspetto confessionale, la Sassonia, l'Assia e anche i Brandeburgo nella Franconia. Il principe elettore Giovanni fece indire un Consiglio brandeburghese a Wittenberg, che doveva esaminare i nuovi ordinamenti ecclesiastici, trovando il consenso di Lutero, Melantone, Jonas e Bugenhagen, che si dimostrarono i loro piu autorevoli fautori. Cosf sono già caratterizzate le condizioni fondamentali dei successivi sviluppi. Da allora in poi, le cose procedettero di pari passo, natural­ mente non senza contrasti: da un lato, la coalizione confessionale; dal­ l'altro, un'unione di forze per il mantenimento della libertà politica, an­ che in materia religiosa. Si ebbero ora notevoli deviazioni in ambedue i campi, a causa degli accomodamenti di tutti i gruppi con i cattolici, e analoghe coalizioni tra di questi, tanto sotto l'aspetto ecclesiastico quanto sotto quello politico. Ciò conferf gran copia di possibili soluzioni alle combinazioni con cui i sagaci consiglieri dell'imperatore dovettero supe­ rare le difficoltà quotidiane; e in esse è certo che abbastanza spesso si toccavano argomenti morali, che recavano con sé tentazioni tanto piu difficili da vincere, in quanto i limiti di ciò che per amor di pace si dovesse temporaneamente o durevolmente sopportare venivano determinati non solo da elementi interni, ma, in egual misura, da una fredda valutazione dell'avversario e delle circostanze. Due avvenimenti avevano frattanto dato uno speciale impulso alla for­ mazione di gruppi confessionali politici, aumentando le agitazioni e inasprendo i contrasti: i maneggi di Pack del 1528 e la Dieta di Spira del 1529. La sedicente alleanza militare cattolica, una falsificazione dovuta a Otto von Pack, avventuroso consigliere aulico di Giorgio di Sassonia, indusse nel marzo 1528 il langravio Filippo d'Assia a mettersi sulla difen­ siva, o piuttosto alla controffensiva, appoggiandosi alla Sassonia elettorale, alla nuova Danimarca, alla Francia e a Giovanni Zapolyai: tutti avversari

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degli Absburgo. Il prematuro attacco del langravio, l'aver egli imposto contribuzioni alle città sue vicine, Magonza e Wiirzburg, fecero un'im­ pressione tanto piu disastrosa, in quanto la sconsideratezza cui si doveva la falsificazione fu ben presto scoperta. La Sassonia elettorale subito si ritirò, il Palatinato elettorale si mise a negoziare e il tutto si ridusse, in definitiva, a un energico e brutale avvertimento. Comunque sia, alla con­ troversia dei teologi delle antiche e nuove correnti e all'eccitazione popo­ lare si era ora aggiunto per la prima volta il conflitto degli stessi potentati dell'Impero, cui da allora in poi, e sino alla guerra dei Trent'anni, do­ vevano connettersi tutti i contrasti locali e ben presto anche europei, sia grandi che piccoli. Molto piu notevoli furono gli effetti della Dieta di Spira del 1529. Quando essa fu convocata, e poi aperta il 15 marzo, l'imperatore non si era ancora liberato delle ultime preoccupazioni per le cose d'Italia. Tuttavia, la sua situazione a Napoli e in Lombardia era notevolmente migliorata: ciò che non mancò di avere le sue conseguenze in Germania, dove, dopo i maneggi del Pack, si formulavano circa la missione del pre­ vosto di Waldkirch le piu fantastiche supposizioni. Sicuramente ciò an­ dava di pari passo col fatto che i cattolici, attaccati alle vecchie concezio­ ni, per la prima volta destati di soprassalto dalla paura, presero maggior interesse alla resistenza; e re Ferdinando, come rappresentante dell'im­ peratore, osò assumere un tono piu risoluto. Nella Dieta di Spira la politica imperiale fu nuovamente rappresen­ tata e sostenuta da quel gruppo di principi che avevano eletto Carlo V e che dieci anni prima lo avevano salutato in terra tedesca: gli stessi principi elettori ecclesiastici Alberto di Brandeburgo, arcivescovo di Magonza, Er­ manno di Wied, arcivescovo di Colonia e Riccardo di Greiffenklau, arci­ vescovo di Treviri. Tra i laici, Giovanni di Sassonia aveva preso il posto di suo fratello Federico il Saggio; non molto piu giovane di lui, gli era spiri­ tualmente affine, se anche piu manifestamente luteraneggiante. Ludovico del Palatinato, il fratello maggiore del conte palatino Federico, in politica religiosa moderato, era incline a una via di mezzo. Gioacchino di Bran­ deburgo, di spiccate tendenze cattoliche, - la cui consorte danese aveva abbandonato la Corte ( sia pure non solo per le sue tendenze filoluterane)

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e viveva sotto la protezione della Sassonia elettorale, - non comparve alla Dieta; si disse a causa della sua relazione con la moglie di Wolf Homung. Tra i principi elettori laici non intervenne egualmente alla Dieta di Spira il piu risoluto avversario di Lutero, l'albertino Giorgio di Sassonia, uomo appassionato e dotto in teologia, ma non ben disposto allora verso gli Absburgo. Dei Guelfi mancavano quelli di Liineburg; il duca Fran­ cesco si fece vedere solamente il giorno della chiusura. Viceversa, vi com­ parve il loro antagonista, l'uomo dalle mille faccende, Enrico di Wolfen­ biittel, che in passato aveva spontaneamente offerto i suoi servigi a Carlo V perfino in Spagna, senza riuscire a compiere nulla di importante né allora, né quando tentò poi di intervenire nella guerra d'Italia. Di par­ ticolare importanza, a causa del contrasto tra il loro atteggiamento poli­ tico e quello religioso, erano i due Wittelsbach, Guglielmo e Lodovico: pieni di risentimento contro re Ferdinando per la sconfitta subita nell'ele­ zione boema, ma entrambi dichiaratamente cattolici, e molto solleciti del­ l'unità religiosa dei loro ducati. Perciò, sebbene fossero gelosi del re, auspicavano una lega cattolica. La Casa di Wiirttemberg restava inattiva. Il margravio Filippo del Baden era cattolico. Per converso, i rami cadetti del Palatinato erano fautori della Riforma. I Brandeburgo della Fran­ conia erano rappresentati dal margravio Giorgio. L'Assia, uno dei piu giovani nella serie dei principati, era tuttavia abbastanza ricco da conce­ dere al suo venticinquenne langravio, Filippo, il seguito piu eletto. Costui, e sotto l'aspetto religioso e per solidarietà politica, si era sempre piu &\·vi­ cinato al principe elettore di Sassonia, senza naturalmente rinunziare per ciò ai legami con i suoi vicini cattolici. Gli Absburgo lo tenevano in so­ spetto, non soltanto per la sua condotta francamente favorevole alla Ri­ forma, ma anche per i suoi contrasti con la Casa di Nassau, per tacere dei maneggi del Pack. Entrando a Spira, Ferdinando lo aveva casualmente incontrato e salutato assai freddamente. La maggioranza cattolica della Dieta non era affatto dominata dai vescovi, molti dei quali erano assenti, o neppure regolarmente rappresen­ tati; tuttavia, ne intervennero abbastanza, scossi dagli avvenimenti del­ l'anno prima. Le città, nonostante le proteste presentate alle Diete pre­ cedenti, non avevano a Spira la posizione desiderata; le maggiori e piu

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considerate, - Strasburgo, Norimberga, Augusta, Ulma, con le città sveve sue vicine, - avevano tutte accettato di recente in modo affatto palese le innovazioni in materia religiosa, e con ciò si erano sempre piu allon­ tanate dal governo imperiale. Re Ferdinando aveva accanto a sé, oltre all'oratore imperiale, il pre­ vosto di Waldkirch, anche il suo rappresentante, conte palatino Federico, e il suo cancelliere Bernhard von Cles, vescovo di Trento, piu tardi inviato presso l'imperatore Carlo V a Bologna e da questi molto lodato. Sta di fatto che Ferdinando, nella sua qualità di re di Boemia e d'Un­ gheria, si trovò allora, come piu tardi, nell'imbarazzante condizione di dover cercare presso quelle stesse autorità, davanti alle quali avrebbe vo­ luto prendere nella questione religiosa un contegno da padrone, una so­ luzione conciliante, perché sperava nel loro aiuto contro i Turchi. Si trattava certamente d'una questione che interessava tanto la cristianità quanto la nazione tedesca, ma il re appariva tuttavia come il piu diretta­ mente interessato e come l'ammonitore. Ad ogni modo, nella questione confessionale, egli si mostrò molto piu reciso del suo imperiale fratello, il cui gabinetto, sotto l'influsso dello spirito laico erasmiano, delle cattive esperienze avute con la Santa Sede e della scarsa conoscenza della situa­ zione tedesca, si manteneva visibilmente riservato. Si è accertato che a Spira, �ontrariamente alle apparenze, non venne data lettura del testo della proposizione imperiale, giunta troppo tardi, ma di quella, assai piu risoluta, formulata da Ferdinando in nome dell'imperatore: fatto che esercitò naturalmente una notevole influenza sullo svolgimento dei dibat­ titi. Qui basta registrarne i risultati. Fatto decisivo fu che il testo progettato dalla Dieta condannò espres­ samente l'interpretazione, largamente diffusa, dell'ultima deliberazione della Dieta di Spira del 1526, secondo la quale gli Stati avrebbero avuto il diritto di innovare in materia ecclesiastica; sembrava perciò che ormai fosse loro sottratta ogni base giuridica. Inoltre, il progetto esigeva in modo altrettanto esplicito che venisse ammesso in tutti i territori il com­ plesso degli ordinamenti religiosi conformi all'antico sistema: il che signi­ ficava sbarrare il cammino all'instaurazione integrale di un nuovo confor­ mismo religioso in tali Stati. Esso proibiva ogni altra innovazione e mi-

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nacciava di sradicare totalmente non solo le dottrine degli anabattisti, ma anche quelle di Zwingli. Ciò colpiva nel vivo parecchie delle piu po• tenti città della Germania settentrionale, aderenti alle dottrine di Zurigo, La risposta di coloro che erano stati cosi colpiti fu la protesta del 19 aprile 1529, con la quale principi e città tedesche di notevole importanza protestarono contro quel deliberato, con la motivazione, formulata d1l consigliere brandeburghese Giorgio Vogler, che«nelle materie riguardanti ronore da rendere a Dio e la salvezza delle anime nostre, ciascuno deve stare solo in cospetto del Signore e a Lui rendere conto, sicché nessuno possa trovare giustificazioni in altrui maggiori o minori azioni o decreti». Sottoscrissero la protesta la Sassonia elettorale, l'Assia, il margravio Giorgio, il principe di Anhalt, le delegazioni dei duchi di Liineburg, e I delegati di sedici città. I protestatari, o «protestantes», come da quel momento si chiama• rono, con il loro coraggioso contegno si misero fuori della protezione di quella maggioranza che era stata fino allora determinata dai piu disp•• rati motivi. Non si trattava piu, come in passato, di un'opposizione gene• rale contro ogni specie di manifestazioni del vecchio potere religioso, dove ciascuno si richiamava sempre a motivi e autorità diverse, bens{ del­ l'unione di un gruppo che stava bene in piedi, che aveva piena coscienza di trovarsi in posizione esposta. Perciò una parte dei detti protestatari non tardò a stringersi, il 22 aprile, in una lega, con cui intendevano pre­ starsi reciproco aiuto, qualora fossero stati attaccati a cagione della pa­ rola di Dio; di essa fecero parte la Sassonia elettorale, l'Assia, Strasburgo, Ulma e Norimberga. Gli altri si astennero. Del resto, proprio tra i mem­ bri di questa prima coalizione non mancarono i contrasti confessionali. Per il momento, le divergenze furono messe da parte, e -tutti si richia­ marono alla «parola divina». Se vi si fossero fermamente attenuti, sa• rebbero diventati il nucleo centrale di quella grande, ma non mai com­ piuta, unità storica «evangelica», fondata non piu sulla tradizione, ci� sulla forma storicamente plasmata dalla Chiesa di Roma, ma su altro fondamento cristiano, sulla coscienza e sulla Sacra Scrittura, come Lu­ tero aveva affermato a Worms. Comunque sia, si deve riconoscere che questo principio era già stato

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fonte di profondissime divergenze e scissioni; e che perciò era compren11ibile che si cercassero altre proposizioni comuni piu rigidamente formu­ late, quali si sperava di trovarne nelle professioni di fede. Che per questa via si potesse scivolare nuovamente verso insanabili contrasti confessio­ nali, è cosa che già abbiamo osservata. Ci si trovava dinanzi al compito infinitamente difficile di trovare for­ mule universalmente accettabili in rapporto a sistemi dottrinari unilate­ ralmente costituiti, cui già internamente si era conferita la santità di con­ vinzioni definitive e concrete. Che il chiaroveggente ed energico langravio di Assia sia riuscito a riunire, nel giorno di san Michele del 1529, nel suo castello di Marburgo, un imponente convegno di teologi provenienti da tutta la Germania, da Zurigo a Wittenberg, rimane sempre un fatto stu­ pefacente; sappiamo che solo le sue energiche insistenze riuscirono a su­ perare anche le resistenze di Lutero. Fatto ancor piu grande; oggi, nel presente stato delle nostre indagini, possiamo dire che il suo lavoro non fu inutile, che gli insuperabili contrasti sulla questione dell'eucaristia non impedirono che si avesse un certo avvicinamento tra le varie tendenze e che gl'intervenuti lasciassero Marburgo in uno stato d'animo ottimistico, e quasi fraterno. «I nostri amichevoli colloqui di Marburgo sono finiti e ci sentiamo d'accordo quasi su ogni punto», scrisse Lutero a sua moglie, il 4 ottobre. È confortante per le possibilità offerte al buon volere e importante per la giusta attribuzione delle responsabilità che l'intesa sia nuovamente venuta meno non nel castello del langravio, e per colpa dei teologi, ma nell'assemblea politica tenuta ai primi di dicembre, a Smalcalda, poiché la Sassonia elettorale, il margravio di Brandeburgo e Norimberga ritor­ narono egoisticamente alla loro vecchia professione di fede. I dibattiti si svolsero «irosamente»; tutto fu tentato ancora una volta invano dal langravio di Assia. Iakob Sturm, dotto in teologia e civico magistrato di Strasburgo, s'intrattenne in una speciale assemblea con i suoi colleghi laici di Sassonia e di Brandeburgo, per non suscitare nuovi contrasti con­ fessionali. Ma il principe elettore si era piu di ogni altro irrigidito: « Le città, tenute in tal guisa lontane dai sacramenti, commettono scientemente peccato contro la parola di Dio e quindi contro lo Spirito santo; nessun

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peccato fortuito può paragonarsi a questo». E Vogler, cancelliere del Brandeburgo, che, nel frattempo, aveva ammonito « a non tirare in ballo in modo tanto impegnativo la propria coscienza», scrisse il giorno dopo: « Non abbiamo potuto in alcun modo intenderci con tranquilla coscienza con la parte avversa, né tanto meno consentire ulteriori adattamenti di fronte all'imperiale Maestà». Furono questi i due punti, coalizione e presa di posizione comune di fronte all'imperatore e al Reich, che provocarono la scissione dei coa­ lizzati. La piu grande Germania cui pensava Filippo d'Assia e il suo prote­ stantesimo europeo furono sopraffatti dalla tendenza politica statale del­ l'elettore di- Sassonia, sempre piu chiaramente riconoscibile, la quale rite­ neva di racchiudere in sé il piu rigido luteranesimo e intendeva affermarsi rimanendo in pace col governo dell'Impero. Il principe elettore Giovanni non aveva ancora ricevuto formalmente l'investitura del suo stato, seb­ bene regnasse già dal 1525; egli si sentiva compromesso per aver parte­ cipato, sia pure in modesta misura, ai maneggi del Pack;· e già dalla Dieta di Spira aveva mandato messaggi all'imperatore a Barcellona. Il risultato era stato assai modesto: le decisioni finali (gli era stato risposto) sareb­ bero state prese al ritorno dell'imperatore in Germania. Intanto però la Sassonia elettorale aveva ripreso contatto con successo con la corte im­ periale per mezzo del conte di Nassau-Dillenburg, fratello del primo gen­ tiluomo di Carlo, Enrico di Nassau. Il conte Guglielmo, padre del « Ta­ citurno», tendeva ormai verso la Riforma, appoggiandosi volentieri, nella sua contesa con l'Assia, alla Sassonia elettorale. Nel febbraio 1530, in una riunione tenuta ad Arnstadt, egli raccomandò ai Sassoni di « far buono e completo rapporto all'imperatore» davanti alla Dieta; suo fra­ tello avrebbe appoggiato la cosa. Al che sembrò corrispondere la convoca­ zione della Dieta imperiale ad Augusta per 1'8 aprile. Si disse che l'impe­ ratore vi avrebbe ascoltato, « con amore e con bontà, l'opinione, l'avviso e il parere di ciascuno». Insieme con i conti di Nassau e di Neuenahr e con un imponente .appa­ rato fu inviato incontro all'imperatore Hans Dolzig, come rappresentante della Sassonia elettorale; ciò con l'espressa intenzione di separarsi dagli

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altri protestatari. Il principe elettore, che era partito anticipatamente per Augusta, aveva in animo di recarsi a rendere omaggio all'imperatore a Innsbruck. Ma Carlo V dette maggior prova di tatto che non i Sassoni: capf che non conveniva entrare in trattative separate con singoli principi prima della Dieta. La scissione dei protestanti appariva a tutti evidente. La Dieta di Augusta del 1530. Cosf si presentava la situazione quando, nel giugno, l'incoronato im­ peratore si recò, passando per lnnsbruck, ad Augusta. A Innsbruck si incontrò col fratello Ferdinando e con la sorella Maria di Ungheria, oltre­ ché col cognato Cristiano di Danimarca, che rinnegò tutto il suo passato, ritornando tutto contrito alla Chiesa romana sotto gli occhi del legato pon­ tificio Campeggio allo scopo di guadagnarsi la grazia e l'aiuto imperiale per la riconquista dei suoi stati nordici. Già col trattato di Lierre (8 feb­ braio) aveva impegnato se stesso e la sua corona al servizio dell'impera­ tore: avrebbe sempre seguito la volontà dell'imperatore, di re Ferdinando e dell'arciduchessa Margherita; sarebbe «rimasto» fedele, lui e i suoi stati, alla fede cattolica, se, con l'aiuto imperiale, vi fosse stato reinte­ grato, e si sarebbe comportato come fedele alleato contro tutti i nemici, per mare e per terra, in ispecie contro i Turchi. Ai sudditi dell'imperatore avrebbe concesso libertà di traffici in tutto il Nord. Prospettive ancor piu liete arridevano all'imperatore: nello stesso momento anche l'Inghilterra si gettava ai suoi piedi. Enrico VIII era cosf intestardito nella volontà di divorziare da compiere tutti gli sforzi possibili per raccogliere pareri teologici e giuridici a lui favorevoli; l'importante era però di ottenere il consenso dell'imperatore, dacché da esso dipendeva la condotta del papa. Verso il Natale del 1529 egli aveva fatto sapere all'inviato imperiale Chapuys che era pronto a mettere ai piedi dell'imperatore tutta l'Inghil­ terra, se egli lo avesse aiutato. Carlo aveva accettato la sottomissione del sovrano danese, in quanto ciò rientrava nella sua linea di condotta; ma nell' «affare» inglese condi-

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videva troppo i sentimenti di corruccio della sua famiglia per potersi interessare anche un solo momento a tali brighe amorose. Perciò, già nella sua prima lettera dalla Germania, scrisse alla sua imperiale consorte in Spagna, perché, da parte sua, facesse ricorso in difesa della zia Caterina a tutti i teologi e giuristi, dotti e Università: e ciò «con ogni diligenza e prontezza! » Ma a prove ben piu gravi doveva sottoporlo il problema tedesco. In fondo, la sua opinione in materia di Chiese e di eresie non era minima­ mente mutata dai giorni di Worms. Senonché, da gran tempo egli non aveva piu di fronte un eretico, bensi tutto un gruppo di personaggi alto­ locati, che, per mezzo non tanto di attacchi dogmatici quanto di innova­ zioni d'ogni sorta nel campo dell'organizzazione ecclesiastica, respingendo editti e decreti delle Diete, si presentavano come «ribelli». Per tal via, anche per l'imperatore la questione religiosa era passata nella sfera poli­ tica, in cui si mercanteggiava, si illudeva la gente, si cercava di cogliere le occasioni favorevoli. Abbiamo già conosciuto singolari proposte di sospensive o di impunità in compenso di aiuti politici. Cosi anche adesso le idee circa «i mezzi per rimediare» restavano molto incerte. Si poteva negoziare con le buone oppure ricorrere alla forza; oppure valersi dell'uno e dell'altro ·mezzo, guadagnandosi l'animo dei teologi e dei principi, secondo il consiglio del Loaysa, con doni e con buone parole, usando invece col popolo la forza: « Solo la forza aveva messo fine alla ribellione della Spagna al suo sovrano; solo essa metterà termine alla infedeltà dei Tedeschi verso Dio». Infine, c'era un terzo mezzo: la deci­ sione cosi spesso invocata di convocare un concilio. Ma questa dipendeva dal papa, e si sapeva che egli era ostile al concilio: proprio per questo il gabinetto imperiale, nel tempo in cui Carlo V era in lotta con lui, ne aveva apertamente richiesto la convocazione. Lo stesso imperatore vi era favorevole, anche perché in un concilio ecumenico a lui, nella sua qualità di difensore della Chiesa, sarebbe toccata una parte di straordinaria importanza. Quando Carlo V aveva comunicato al papa il suo rifiuto di convocare un'assemblea nazionale tedesca, nel luglio 1524, lo aveva consigliato di prevenire quell'assemblea riunendo presto un concilio ecumenico. E aveva

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aggiunto: «Poiché i Tedeschi chiedono che esso venga tenuto in Ger­ mania, Vostra Santità potrebbe scegliere la città di Trento, che essi con­ siderano tedesca, sebbene in realtà sia già terra italiana »; piu tardi si sarebbe potuto trasferirlo in altra località. Si era allora annunziato, in vista della Dieta di Spira (1526), che l'imperatore e il papa si erano messi d'accordo per un concilio; e anzi, nella corte imperiale, si pensò per qualche tempo perfino a un concilio nazionale. Carlo scrisse il 23 di­ cembre 1528 al fratello, circa la proposta di una nuova Dieta, che gli erano venuti degli scrupoli riguardo al concilio nazionale, « poiché, quan­ to piu la nazione tedesca si troverà con se stessa, tanto piu sarà portata ad errare». La stipulazione della pace di Barcellona era stata senza dubbio non poco facilitata dal riserbo dell'imperatore sulla questione del concilio; il papa intendeva perciò venire incontro ai Tedeschi «sotto altra forma»: frase, questa, piena di significato. Ma, secondo il suo diario, l'imperatore a Bologna aveva tuttavia ripreso a occuparsi di quel tema; e i suoi suc­ cessivi carteggi col Loaysa e il papa ce ne dànno la conferma. Evidente­ mente, egli pensava che si dovesse concedere ai Tedeschi la sodisfazione di un concilio ecumenico, ma che, fino a quel momento, i «secessionisti» avessero a riprendere a vivere in conformità ai precetti della Chiesa, e, in primo luogo, sotto la giurisdizione dei vescovi; il che, per i Tedeschi, era inaccettabile. Tutto dipendeva dalle impressioni che Carlo personalmente avrebbe riportato in Germania. A Innsbruck Carlo e Ferdinando attesero, con i loro consiglieri, agli ultimi preparativi per la Dieta. Adesso l'imperatore aveva presso di sé, oltre al Granvelle, i segretari di Stato Cobos e Perrenin; Ferdinando, il cancelliere Bernhard von Cles. Il legato pontificio Lorenzo Campeggio consegnò all'imperatore il suo memoriale, redatto in termini di intran­ sigente rigore; le opinioni erano ancora affiancate senza mediazioni. Da Innsbruck si giunse, passando per Monaco, ad Augusta, dove i principi erano affiuiti in gran numero, nell'attesa di grandi cose; questa volta erano presenti anche il facondo Gioacchino del Brandeburgo e il duca Giorgio di Sassonia. Secondo il rescritto imperiale del 21 gennaio

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1530, si voleva « metter da parte i motivi di discordia, rimettere al nostro Salvatore i passati errori e ascoltare, intendere e soppesare con bontà ed amore l'opinione di ciascuno, vivendo con tutti in fraterna comunanza e unità nella Chiesa». Ispirava fiducia il fatto che l'imperatore volesse of­ frire la sua cooperazione per « comporre tutte le opinioni in un'unica verità cristiana, eliminando quanto non fosse bene esposto o ben trattato per ambedue le parti ». I primi provvedimenti non corrisposero del tutto a tale promessa. Scriveva l'imperatore 1'8 luglio alla consorte: « Passai attraverso la Ba­ viera, ove i duchi, i fedeli familiari e i servi mi fecero buone accoglienze. Ad Augusta giunsi la vigilia del Corpus Domini (16 giugno), ricevuto so­ lennemente dai principi elettori, principi ed ambasciatori. Il giorno dopo si tenne la processione, che da vari anni piu non si teneva. lo vi parte­ cipai, secondo il mio solito. E sebbene alcuni luterani non vi prendessero parte, fui nondimeno accompagnato da molte persone, perché i fedeli saldi nella fede sono di gran lunga piu numerosi degli altri. Si è già co­ minciato a trattare la questione della fede, per estirpare sin dalle radici l'eresia. Ciò che qui in città ha fatto il maggior danno sono stati i predica­ tori dei principi luterani. Perciò, con la generale approvazione, è stato reso noto che, a scanso di punizioni, solo i predicatori da me autorizzati avranno facoltà di predicare. Ciò ha costituito un buon inizio. L'inaugu­ razione della Dieta è avvenuta il 20 giugno e il testo della proposizione comprendeva tre punti: il primo, il piu importante, concerneva la fede; il secondo, l'invasione turca e l'Ungheria; il terzo, il governo della Ger­ mania. Spero in Dio che tutto verrà compiuto saggiamente». Questa era l'immagine piuttosto esteriore dei fatti, quale l'imperatore se la rappresentava in quei giorni. Nel profondo però si scontravano le diverse tendenze, tentativi in sensotonciliativo, testarde affermazioni di se stessi e l'onorevole preoc­ cupazione di mantenere l'unità religiosa e la pace. Adesso, anche i catto• lici erano meglio armati e piu violenti nelle loro esigenze: non solo il legato, ma anche i teologi tedeschi ed i principi, che nel gennaio erano stati indotti dalle vivaci istanze di Ferdinando a combattere le dottrine eretiche e le loro male conseguenze. Il frutto piu importante di tali sforzi

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furono i quattrocentoquattro articoli d'un professore di lngolstadt, il dottor Johannes Eck, da lui rimessi all'imperatore insieme con una me­ moria il 14 marzo 1530. Ad Augusta detti articoli pervennero anche nelle mani di Melantone; ed è presumibile che abbiano influito sulle sue de­ terminazioni, quando egli si accinse, per incarico del suo principe elet­ tore, a formulare la professione di fede.· Tutt'e due le parti scesero quindi in lizza armate di tutto punto. Il 25 giugno il principe elettore Giovanni di Sassonia, il margravio Carlo di Brandeburgo, i duchi Ernesto e Francesco di Liineburg, il langravio Fi­ lippo d'Assia, il principe Volfango di Anhalt, il conte Alberto di Mans­ feld e gli inviati delle città di Norimberga e Reutlingen consegnarono la loro professione di fede nella forma stilata da Melantone. Il langravio vi si era associato non senza esitazione. Le città della Germania del Nord non vi aderirono; esse si fecero innanzi qualche tempo dopo con la dichiarazione di fede « delle quattro città», o « tetrapolitana », che però non venne accolta dall'imperatore al pari della 1, 259. Monluc (Blaise de Lasseran-Massencome, si­ gnore di), 467, 626. Montepulciano, nunzio apostolico, 463, 467. Montezuma II, re azteco del Messico, 155, 162, 163, 330. Montfort (Guglielmo di), 262, 269. Montmorency (Anne, duca di), 206, 215, 223, 335, 371, 377, 378, 592, 610. Moro (Tommaso), 49. Morone (Giovanni), cardinale, 398, 409, 427, 429, 440. Morone (Girolamo), gran cancelliere del duca Francesco II Sforza, 143, 215-18, 257. Mosè, 100, 200. Mota (Pedro Ruiz), vescovo di Badajoz, 39, 73. Mulert (Gerhard), consigliere fiammingo, 344. Muxetula, 305. Najera (abate di), 209. Narvaez (Panfilo), conquistatore spagnolo, 162, 163, 326. Nassau-Breda (Enghelberto di), 27. Nassau-Dillenburg (Enrico, conte di), 27, 44, 47, 48, 64, 71, 91, 115, 117, 141, 145, 146, 164, 185, 240, 250, 251, 260, 273, 279, 292, 317, 335, 336, 351, 371, 372, 376, 386, 387. Nassau-Dillenburg (Guglielmo), fratello di Enrico di Nassau, 292. Nassau-Dillenburg Orange (Guglielmo), ni­ pote di Enrico di Nassau, 586, 628, 630, 631. Nature} (Philibert), 45, 141. Nausea (Friedrich), teologo cattolico, 430. Navagero (Andrea), ambasciatore e storico di Venezia, 240, 258. Navarro (Pedro), 57, 61, 191, 257, 261. Naveros (Herman de), 328. Naves (Johann von), vicecancelliere impe­ riale, 387, 395, 401, 402, 426, 431, 441, 453, 459, 502, 503, 519, 539, 566, 621. Nerone, 505. Nicolò V, papa, 20. Noprola, conte, ambasciatore austriaco, 349. Noircarmes, ambasciatore di Carlo V, 335, 351, 387. Nuiiez (Cabeza dc Vaca Alva1·0), conquista­ tore spagnolo, 326.

Obernburger, segretario imperiale, 539. Oldenburg (Cristoph, conte di), 343, 344, 545, 565. Orange, vedi Chalon e Nassau. Orange-Nassau (Guglielmo d'), 465,469,471, 472, 474. Orléans (Carlo d'), duca d'Angouleme, figlio di Francesco I, 360, 422, 423, 464, 469, 487, 489, 499, 510, 512, 513, 517, 518, 524, 525, 541, 626. Orley (Bernard d'), 36, 152. Orsini (Roberto) arcivescovo e nunzio apostolico, 96, 240. Osiander (Andreas), 430. Osorio (Alvaro), vescovo di Astorga, 51. Osorno (don Garda Fernandez Manrique, conte di), 483, 484. Ottone, duca di Lilneburg, 125. Ottone III, imperatore e re di Germania, 153. Oxe (Torben), 128. Pace (Richard), ambasciatore inglese, 96, 102. Pacheco (Pedro), cardinale-vescovo di Jaen,

527.

Pachs (don Pedro de), 135. Pack (Otto van), consigliere di Giorgio di Sassonia, 286-88, 292. Padilla (Juan Lopez de), capo dei Comuneros, 130, 132, 133. Paolo III, papa, vedi Farnese (Alessandro). Paolo IV, papa, 626, 627, 635. Paride, 17. Pavye (Miche!), 39, 49. Pefialosa, commendatore, 211, 227. Periz (Vicente), 134, 135. Perrenin (Antoine), segretario di stato, 212, 280, 295. Perrenot (Nicolas), signore di Granvelle, 221, 228, 254, 255, 266, 271, 279, 280, 295, 302, 351, 352, 355, 359, 360, 378, 387, 395, 430-36, 438, 439, 451, 459, 461-63, 466, 473, 484, 485, 488, 490-93, 495, 496, 499, 501, 503, 504, 509-11, 518, 519, 522, 525, 532, 534, 535, 559, 590. Pescara (Ferrante Francesco d'Avalos, marchese di), vedi Avalos (Ferrante Francesco). Petrarca (Francesco), 216. P.flug (Julius), vescovo di Naumburg, 438. Pietro Martire, vedi Anghiera. Pigafetta (Antonio), 157.

Indice dei nomi Pighino (Sebastiano), arcivescovo di Siponto, nunzio apostolico, 590. Pipino III il Breve, re di Francia, 196. Pizarro (Francisco), 259, 325, 329-32. Pizarro (Hernando), 332. Plaven (Heinrich Reuss von), gran cancelliere di Boemia, 601. Pleine (Gérard de), signore di La Roche, 45, 91, 104, 149, 175, 185, 193, 200-5, 387. Poggio (Giovanni), nunzio apostolico, 376. Pole (Reginalde), arcivescovo di Canterbury, cardinale, 409, 526, 590. Pollheim (Siegmund von), 236. Poma (Guaman), 159. Ponce de Le6n (Costantino), teologo protestante, 638. Poppenheim (conte di), 390. Porcéan, vedi Croy (Antoine de). Poupet (Charles de), signore di La Chaulx, 38, 149, 153, 185, 187, 189, 200, 203, 211, 214, 2.50, 251, 271, 387. Praet (Louis de), 198, 212, 219, 221, 227, 228, 240, 250, 266, 268, 271, 311, 333, 335, 387, 435, 437, 439, 445, 451, 466, 472, 616. Presseu (de), ambasciatore francese, 378. Pucci (Lorenzo), cardinale, 307. Pyn (Lievin), cittadino di Gand, 419, 421. Quesada (Gonzalo Ximénez de), 325, 329. Quijada (don Luis Mendez de), 634, 637, 638. Quiiiones (Francisco), cardinale di Santa Croce, 154, 228, 251, 264. Quixada (Gutierre), 132. Rabenhaupt (Niklas), 236. Regia (Juan de), confessore di Carlo V, 634. Reiffenberg, capitano di ventura, 545. Rembrandt (Harmenszoon van Rijn), 31. Renanus (Beatus), umanista, 412. Renard (Simon), 624. Renata di Francia, duchessa di Ferrara, Modena e Reggio, 47, 65, 89, 205, 334. Renata di Lorena, duchessa di Baviera, 437. Renner (Hans), 91. Riccardo di Cornovaglia, re dei Romani, 127. Riccardo di Greiffenklau, arcivescovo di Treviri, 287.

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Rincon, ambasciatore francese, 349, 446, 460. Robertet (Florimond), membro del consiglio di Francesco I, 227, 255. Roberval, vedi Rocque (Jean de la). Rochlitz (duchessa di), sorella di Filippo d'Assia, 557. Rocquc (Jcan de la), sire di Roberval, 513. Rodolfo I d' Absburgo re di Germania, 11. Roeulx, vedi Beaurain (Adrian). Roggendorf, capitano di ventura, 91. Ronquillo, 132. Rosimbos, consigliere fiammingo, 269. Rossem (Martin van), maresciallo di Gheldria, 267, 424, 465, 469, 470, 474. Rubios (Palacios), 63. Ruiz de Villena (Pedro), 73-75. Sadoleto (Jacopo), cardinale, 475. Sailer (Hieronymus), 327, 328. Saint-Marceau, ambasciatore francese, 138. Saint-Mauris, ambasciatore di Carlo V, 387, 525, 539. Saint-Poi (François II de Bourbon-Vendo­ mc, conte di), 261, 264, 272. Saint-Poi (Luigi di Lussemburgo, conte di), 27. Salamanca (conte di Ortenburg), consigliere di Carlo, 173. Salinas (Martin dc), ambasciatore d'Austria, 174, 250. Sallustio, 583. Salomone, 71, 200, 501. Salviati (Giovanni), vescovo di Fermo, car­ dinale, 227, 300. Santa Cruz (Alonso de), navigatore e croni­ sta spagnolo, 72, 184, 262, 358, 374, 375. Sanzio, segretario imperiale, 439. Sauva1e (Jean dc), signore d'Escaubeque, 1ran cancelliere, 45, 72, 76, 78, 80, 160. Schcnk von Schwcinsberg, 308. Schcnk von Tautenburg (Georg), 182, 311. Schcppcr (Cornclius), signore di Ecke, con1i1licrc fiammingo, 179, 348, 353, 376, 377, 388, 431-33, 472, 5.52. Schertlin von Burtcnbach (Sebastian), capitano di ventura, 543-45, 547. Scheurl (Crl1toph), 361, 370. Schlnncr (Mathla■), cardinale, 91. Schllck (G11p1re), 594. Schllebcn (Eu■tach von), consigliere del Bran­ deburgo, 444.

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Indice dei nomi

Schombcrg (Nikolaus von), arcivescovo di Capua, 204, 207, 363. Schore (Ludwig van), 376, 419. Schweiss (Alexander), 239. Schwcndi (Lazarus von), consigliere impe­ riale, 602, 60,, 613. Scipione, 3'9. Scorf (Hieronymus), rappresentante di Lu­ becca, 34,. Sebastiano, infante, poi re del Portogallo, 623, 636. Seld (Georg Sigismund), vicecancelliere del­ l'Impero, 387, 566, 567, 590, ,94, 606, 617, 621. Selve (Jean de), 223. Sempy (Michel de), 4,, 47. Seneca, 100, 202. Serntein (Cyprian von), cancelliere di Mas­ similiano, 91. Sfondrato (Francesco), nunzio e cardinale, 498, 499, ,02, 569, 570. Sforza (Bianca Maria), imperatrice, 84. Sforza (Francesco), vedi Francesco II Sforza, duca di Milano. Sforza (Massimiliano), duca di Milano, 37. Sforza di Santafiore (Guido Ascanio), nipote di Paolo III, 363, 627. Sickingen (Franz von), 90, 93, 117, 144, 146, 149, 180, 181, 2.33, 234. Siebenbiirgen, 123. Sigbritt Willems, 128. Sigismondo d'Absburgo, duca del Tirolo, 11. Sigismondo di Lussemburgo, re d'Ungheria, imperatore, 20, 236, 337, 521. Silla, 489. Simonetta (Jacopo), cardinale, .363. Sleidanus (Johannes), storico, 595. Soderini (Francesco), cardinale, 192, 196. Solimano o Sulaiman I, detto il Magnifico, sultano ottomano, 127, 176, 235, 265, 317, 443, 446. Solone, 302. Sorolla; capo dei Comuneros, 81. Soto (Pedro de), confessore di Carlo V, 52830. Spengler (Lazarus), teologo di Norimberga, 308. Starhemberg (Hans von), 2.36. Stavele (Philippe de), signore di Glajon, 472. Stein (Albrecht von), capitano di ventura, 190.

Strozzi (Pietro), 506, 549, 626. Stuart (Giovanni), duca d'Albany, 1.51, 183, 207. Sturm (Jacob), borgomastro di Strasburgo, 291, 438, 444, ,.33, 556. Svetonio, 527. Szakmui (Giorgiy), arcivescovo primate di Strigonia, 127. Szalkay (Ladislao), vescovo di Eger, 127. Tavera (don Juan Pardo de), arcivescovo di Toledo, 258, 315, 354, 355, 416, 478. Taxo (Pedro), 188. Thermes (de), 637. Tiepolo, ambasciatore veneziano, 408. Tito, 100, 19,, 273. Tiziano Vecellio, 226, 339, 487, 563, 580, 639. Traiano, 195, 273. Transilvanus (Maximilian), consigliere impe­ riale, 175, .344. Trotha (Thilo von), 562. Truchsess di Walburg (Ottone), vescovo di Augusta, cardinale, 503, 537. Tunstal (Cuthbert), vescovo di Londra, 140, 219. Ulloa (Magdalena), 6.37. Ulrich, duca del Wiirttemberg, 9.3, 107, 320, 391, 552, 554, 592. Vaca (Luis) vescovo di Canarias, 37. Vaison, vescovo, 266. Valdés (Alonso), segretario imperiale, 238, 2.39, 245-47. Valdés (don Hernando de), presidente del consiglio di Castiglia, 478. Valdés (Juan), 246, 247. Van der Gheenst (Johanna), 152. Vargas (Francisco), consigliere imperiale, 538, 572, 630. Vasquez (Antonio), 132. Vasto (marchese del), vedi Avalos (Alfonso d'). Vaudemont (conte di), 535. Vega (Garcilaso de la), 358. Vega (Hernando de), gran commendatore di Castiglia, 185, 200, 203. Vega (Juan de), ambasciatore di Carlo V, e

Indice dei nomi vicerè di Sicilia,490,501, 520, 526,528-30, 556, 569,591. Vega (Pedro Laso de la),82, 1.32. Velasco,procuratore,572. Velasco (Bernardino),conestabile di Castiglia, 53. Velasco (don liiigo), conestabile di Castiglia, 132,244. Velazquez (Diego Rodriguez de Silva y), 160, 162,164. Veltwyk (Gerhard), consigliere imperiale, 89, 388,434, 435, 439, 441, 488, 518, 594. Vèly (de), ambasciatore francese, .360, 377. Vendome (Antonio di Borbone, duca di), 469. Vendome (duchessa di), 269. Venier, ambasciatore veneziano, 408. Verallo (Girolamo), arcivescovo di Rossano, 559. Verboczy (Stefano),12.3. Vergerio (Pier Paolo),363, 396. Vermeyen (Jan),.358. Vesalius (Andrea), medico personale di Car­ lo V,468. Veyre (Pierre de), signore di Mont-Saint-Vincent, ambasciatore di Carlo V, 248-51. Viamonte (don Francisco de), 377. Victoria (Francisco de), .337. Villers,balivo di Digione,510. Villiers de l'Isle Adam (Philippe-Auguste­ Mathias), gran maestro dell'ordine di San Giovanni,197. Villinger,91. Visconti (Gian Galeazzo Maria), 189. Visconti (Valentina),duchessa d'Orléans, 189. Viseu, cardinale di, 475. Vital, cronista di Carlo V, 69. Vlaten (von), 494. Vogler (Giorgio), cancelliere del Brandeburgo, 290,292. Volfango di Pfalz-Zweibriicken, conte palatino,491. Vorst (Peter). nunzio apostolico, .397. Vozmediano (Juan de), 222. Waldkirch (prevosto di), vedi Merklin. Wasa (Gustavo). re di Svezia,128, 343. Wassenaer, 64,66. Weeze (Johann von), arcivescovo di Lund, 179,344,378, .387, 392,395,403,410,411, 426, 431. 437. Weissenfelder (Johann von), consigliere del duca di Baviera Ludovico. 308, 392. Werdenber� (Felix, conte di), 199. Wlicel,teologo,428. Wied (Ermanno di), arcivescovo e principe elettore di Colonia, 111,287,494, 532, 5.38. Wiele (Adrian), 37. Wingfield, ambasciatore inglese, 219.

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Winkelried (Arnold), 191. Wolkcnstein (Michael von), 91. Wolsey (Thomas), arcivescovo di York, cardi­ nale, 96, 104, 105, 138, 14.3, 145, 147-51, 155, 182,183,21.3,219,220,243, 252, 253, 268,341. Wotton, ambasciatore inglese, 501. Wullenweber (Jilrgen),borgomastro di Lubec­ ca,343,345. Zamora, vescovo di, vedi Acuiia (Antonio de). Zapolyai (Giovanni), principe di Siebenbilr­ gen, 236, 2.37, 286,317,318,360,.388,4.30. Zasius (Johann Ulrich), consigliere austriaco, 619. Zevenbergen (Marnix zu), segretario di Mar­ gherita,91. Zevcnbergen (Massimiliano), signore di Ber­ ghes,66, 90,91,93,107, 108, 554. Ziegler (Nikolaus), cancelliere imperiale, 91, 255. Zuiiiga, duca di Bejar, 457. Zuiiiga (Francisco de), conte di Miranda, 311. Zuiiiga (Juan de), 45, 244, 478-81, 483, 484. Zumel, procuratore di Burgos,76. Zurita,72. Zwichem (Viglius van), 513,576. Zwingli (Ulrich), 285,290, 297, 309.

Stampato per conto dello. Casa editrice Einaudi presso Mondadori Printing S.p.A., Stabilimento N.S.M ., Cles (Trento) nel mese di luglio 200I C.L. r5725

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