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Italian Pages 630 [663] Year 1967
ANTONIO MADDALENA
Storia della letteratura greca o dell'idealismo greco Nel delineare lo svolgimento della letteratura greca da Omero ai primi tempi dell'era cristiana, l'autore ha voluto soprattutto cogliere quella costante che unisce come in un rutto omogeneo, pur nella loro originalissima varietà, le opere che il genio greco ha dato alla civiltà umana: il loro particolarissimo carattere idealistico. Di pagina in pagina, mentre si viene svolgendo la trama fantastica della civiltà delle lettere greche, il lettore prende coscienza di quei valori di ordine, di armonia, di giustizia, di libertà, di conoscenza che furono il più grande dono che la Grecia abbia offerto agli uomini. Ed è una presa di contatto diretta, poiché quei temi non solo sono posti in risalto e illuminati dall'autore nel suo discorso, ma sono documentati in una ricca esemplificazione di brani che stanno alla base della sua costruzione critica.
ANTONIO MADDALENA
Storia della letteratura greca o dell'idealismo classico Con 32 tavole fuori testo
U. MURSIA & C.
Copyright O 1967 U. Mursia &: C.
721/AC ·Milano· Vii T11dino, 29
PREFAZIONE
Scrivendo, tra il '60 e il '62, con la collaborazione di mia moglie, una st~ ria della letteratura greca, mi accadde di insistere in modo particolarissimo sul comune carattere idealistico di opere pur diversissime: ad esempio dei canti epici dell'Iliade e dell'Odissea e dei canti lirici di Archiloco e di Pindaro e delle meditazioni tragiche di Eschilo e di Sofocle e delle meditate storie di Erodoto e di Tucidide e dei 11acati discorsi di Isocrate e delle appassionate orazioni di Dem~ stene e delle speculazioni filosofiche di PMmenide e di Platone. Perché appunto questo accomuna i massimi spiriti della Grecia, la certeua che ci sono valori eterni ideali (ordine, armonia, conoscenza, giustizia, libertà, magnanimità... ), e che per vivere in armonia con tali valori nessun sacrificio, neanche quello della vita, è troppo costoso. Ora, riscrivendo la storia della letteratura greca per la casa editrke Mursia, ho voluto che questo carattere particolarissimo della grecità risultasse evidente anche dal titolo. Di tale lavoro assumo l'intera responsabilità: ma non posso non dire qui la mia vivissima gratitudine a mia moglie, per il prezioso aiuto che m'è venuto dalla sua collaborazione alla prima redazione dell'opera.
Amomo
MADDALENA
I passi dell.'Iliadt s-ono riportati nella versione del Monti, quelli deJJ.'Odi.ssea nella versioue del Pindemonte. Le traduzioni di Giovanni Pascoli riponate in queslo volume sono tratte dalle P~sit (Mondadod, Milano 1948); quelle di Salvatore Quasimodo dai Lirici greci (Mondadori, Milano 19,:S); quelle di Euore Romagnoli da I l,,ici gmi (trad. di E. R., Zanithelli, Bologna 194,:) e da Lt commtdit di ARISTOPANE (tr&d.. di E. R., Zanichelli, Bologna 1924, voli. I, II e Vì; quelle di Manara Vs.lgimigli da StJ/fo e /Jltri lirici grtci (trad. di M. V., Mondadori, Milano 19,4), da La Ortstea di EsCHJLO (trad. di M. V., Sansoni, Firenze 1948), da Epigrammi dtll'AntologitJ P1JIIJti1111 (traci. di M. V., All'Insegna del Pesce d'Oro, Milano 1964) e dai DitJfoghi di PLATONE, vol. I (trad. di M.V., Laten1, &ri 1921). Agli Au10ri e agli &litori esprimiamo il nostro ringraziamento per la gentile ooncessione.
I brani dei poemi omerici riportati $000 indicati secondo i. numerazione dei versi dd testo greço preceduta da una Jeuera dell'alfabeto greco (maiuscola per l'Iliade e minuscola per l'Odisst4) indicante il libro del poema secondo b. suddivisione tradizionale: ad es., per l'Iliade A= I. I; B = I. Il; r = I. III ecc.; per l'Odima, et= I. I; I)= I. Il; y = I. III ecc. La lctter11 D che att0mpagna la numerazione dei frammenti dei lirici indica che essi sono numerati secondo l'edizione di E. DIEHL, AntologÙI Ly,ù:a G,aw1,' Lipsia 1949. I frllllUDettti dei filosofi presocratici sono citati secondo la numerazione di DIELS Kl:ANz, Die Fragmente de, Vorsolmtiker,' Berlino 1951-.52; quelli degli storici secondo la raccolta di F. JACOBY, Die F,agmtnte de, (J.fitch. Histo,ike,, Leiden 1923-58. L'inno a Zeus di Clante ~ citato d,, I. PownL, CoUectanea altxand,i1111, Oxford 1925 (P).
Il periodo ionico
Introduzione La letteratura greca si suole dividere in tre periodi: il primo, dal IX alla fute del VI sec. a. C., si suole denominare ionico; il secondo, che s'estende per il V cd il IV sec. a. C., si suole denominare attico; il terzo, che s'estende dal III sec. a. C. al V dopo Cristo, si suol dire ellenistico-romano. Anche si può dire che il primo periodo va da Omero ai primi Pitagorici, il secondo da Simonide e da Eschilo ad Aristotde e Teofrasto, il terzo da Callimaco e Apollonia agli ultimi Neoplatonici. In gran parte oscura è la storia politica dei Greci nel periodo che diciamo ionico. Certo è che, etnicamente divisi in -stirpi ( Dori, Ioni, Eoli, Achei), essi erano politicamente divisi in un grande numero di Stati o città ( poleis), qualche volta alleate le une contro le altre, qualche volta neutrali, sostanzialmente sempre divise, anzi sempre in guerra o in attesa di guerra tra loro; che nella Grecia propriamente detta due città si resero, durante questo periodo, più forti delle altre, destinate a diventare egemoni: la dorica Sparta, divenuta padrona di una gran parte del PelopoMeso, e la ionica Atene, città di non vasto territorio ma in felice posizione sul mare, con porti eccellenti; che la costituzione di Sparta per lungo tempo, quasi dalle origini, rimase ben ferma, facendosi modello di costituzione aristocratica, e che Atene, vissuta a lungo tra le tempeste delle lotte intestine, riusd a darsi una costituzione vigorosamente democratica, modello alle altre democrazie della Grecia; che le altre città, della Grecia e delle isole e della Ionia e della Magna Grecia, le une con regimi democratici le altre con regimi oligarchici, per lo più con regimi alternantisi, caddero spesso sotto la signoria di tiranni; e che, sulla fine di quel periodo, mentre libere da dominio di barbari restavano le città della Grecia e dell'Italia e della Sicilia, dove gran forza, sotto la tirannide di Gelone, aveva acquistato Siracusa, in dominio dei Barbari caddero le città dell'Asia Minore o Ionia, proprio quelle che, fino alla metà del VI secolo a. C., avevano avuto maggior ricchezza e vigore, quelle che avevano creato civiltà più splendida. Della Ionia fu infatti Omero, della Ionia furono i primi poeti lirici, della Ionia i primi filosofi e i primi scienziati. Per questo chiamiamo ionico il primo periodo della letteratura greca, anche se poeti sorsero anche tra gli Eoli ( Esiodo e Saffo ad esempio) e se eoliche sono forse le prime canzoni, le canzoni preomeriche, e se tra i Dori per primi si sviluppò il canto corale, una tra le più splendide creazioni della poesia greca.
Omero I.
I CANTI DEGLI AtDI E LA LEGGENDA OMERICA
Nel primo libro dell'Odissea il poeta racconta che, dopo la decisione, presa dagli dèi in un concilio solenne, di far tornare in patria Od.isseo, Atena, pren· dendo il sembiante d'un vecchio ospite dell'eroe lontano, scende dal cielo in Itaca, s'avvicina a Telemaco, e, da questo sùbito benevolmente accolta, entra nella reggia. Sùbito dopo entrano nel palazzo anche i cosiddetti Preci, i ricchi e nobili giovani di Itaca e delle isole vicine che si coqtendono le nozze di Penelope e il regno di Itaca. Banchettano: e poi... tosto che in lor dd pasteggiar fu P180, pago dd bete il natural talento, volgeano ad altro il core: al canto e al ballo, che gli ornamenti son d'ogni convito. Ed un'ergen1ea cétera l'araldo porse
al buon Femio.
Femio è un cantore, un aèdo. Invitato dai Proci, canta quel canto che gli dèi gli ispirano; e gli dèi gli suggeriscono di raccontare il triste ritorno degli eroi greci vincitori di Troia. Taciti sedean questi, e nell'egregio vate «mve.rsi tenean gli occhi; e il vate quel dif!i.cil ritorno, che da Troia Pallade ai Greci destinb crucciata, della cetra d'argento al suon cantava. Nelle superne vedovili stanze Penelope, d'kario la prudente figlia, raccolse il divin canto, e scese... • Feroio, - din'elia, e lagrimava - Femio, bocca divina, non hai tu nel petto storie infinite, ad ascoltar soavi, di mortali e di Numi imprese altere, per cui toccan la cetra i saai vati? Narra di quelle ... •
Quasi in quello stesso giorno Odissea è nell'isola dei Feaci, benevolmente accolto da Aldnoo. Anche nella reggia d'Alclnoo si banchetta. Poi ... ... e furo speod appena della bme i desiri e delia sete, che il sauio Ulisse tali accenti sciolse: ,,e Demodoco, io te sopra ogni vivente sollevo, te, che la canora figlia del sommo Giove o Apollo stesso Wpita.
12 Tu i casi degli Achivi, e dò che opraro, ciò che sollriro, con estrema cura, quasi visto l'avessi o da quc' prodi guerrieri udito, su la tetra poni... • Demodoco, che pieno era del nume, d'alto a narrar ptendea, come gli Adrivi, gittato il foco nelle tende, i legni parie saliro e aprir le vele ai venti, pane sedean col valoroso Ulisse ne' fianchi del cavallo entro la rocca ... A tali voci, a tai ricordi Ulis.sc
sau~asi deJltro ...
Femio e Democloco sono nomi di fantasia. Ma la fantasia rispecchia una realtà.
Quando il poeta componeva il suo poema, nei palazzi dei re e dei grandi signori, dopo i banchetti, a rallegrare i convitati, gli aèdi, accompagnando il canto con la cetra, raccontavano le gesta di antichi e di recenti guerrieri, e insieme nanavano storie di dèi, a volte amici, a volte nemici di guerrieri e d'eroi. La letteratura greca, anzi la civiltà greca comincia cosl, per quanto noi possiamo congetturare, con questi canti di dèi e d'eroi. E un canto, lungo e complesso, d·eroi e di dèi, è l'Iliade; un canto, lungo e complesso, dell'impresa di un eroe, amico agli dèi, è l'Odissea. Dagli antichi cantori ai tardissimi, dal mitico Pernio, da] mitico Demodoco, o forse dagli ancor più mitici Odeo e Lino ed Eumolpo, a Teocrito ( negli epilli) e a Callimaco e ad Apollonio, anzi a NoMo e a Quinto Smirneo, sempre o quasi sempre, agli dèi e agli eroi è innalzato il canto del poeta greco, se pur in modi infinitamente diversi si riMovano, nei secoli e nei singoli poeti, le immagini degli dèi e le immagini degli eroi, e se pur sempre diverso è l'animo col quale i poeti guardano, nei tempi diveni e per i diversi cuori, agli dèi o agli eroi.
La critica modema ha individuato un'origine eolica ai canti, tra lirici ed epici, degli antichi aèdi, e ha visto in essi le premesse ai gtandi poemi omerici: certo a ragione. Ma se in quei canti sono le premesse, per noi la letteratura greca, anche se ci son pervenuti documenti dell'età micenea anteriori all'Iliade e all'Odissea, comincia solo con Omero, i cui poemi conosciamo. Chi sia Omero, quando sia vissuto, dove sia nato, per quali vicende sia passato, noi non sappiamo. Conosciamo soltanto la leggenda, tramandataci da Proclo, un grammatico del II sec:. d. C.: Molti furono j poeti epici: i più grandi sono Omero, Esiodo, Pisandro, Paniassi, Antimaco. Quali fossero i genitori, quale la patria di Omero, noi non sappiamo, perché lui non ce ne parla, e quelli che ne parlano non sono d'accordo tra loro; cosi, mancando notizie sicure, ciascuno pott attribuire la nascita di Omero alla città che voleva. E ,ltwù lo . Obbedl il prode messaggiero. Al piede s'avvinse i talar belli, aurei, imm.or1ali, che sul mare il portavano e su i Ca!llpi della tena infiniti a par col vento. Poi l'aurea verga nella !DIIIl recassi, onde i mortali dokemen1e assoM1, quanti gli piace, e li dissonna ancora, e con quella tra man l'aurc fendea. Come presi ebbe di Pihia i gioghi, si calò d'aho, e si giuò sul mare: indi !'acque radca vdocemcnte, simile al laro che pe' vasti golfi s'aggira in uacda de' minuti pesci, e spesso nd gran sale i vanni bagna. Non alttimenti sen venla, ni:dendo molle onde e molte, l'Arg!cida Ermete. Ma tosco che fu all'isola remota, salendo allor dagli azrurrini flutti, lungo il lido ei sen gla, finché vicina l'offerse a lui la spazl:osa srona, ,oggi.omo della Ninfa il ain ricciuta, cui trOVÒ il Nume alla wa gro1ta in seno•
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Calipso, inclita Dea, non ebbe in lui gli occhi affissati, che il conobbe; quando,
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L'ODISSEA
per distante che l'un dall'aluo .!bcrghi, c:darsi l'uno all'aluo i Dei non panno. Ma nell1'groua il generoso Ulisse non ert: mesto sul deserto lido,
cui spesso si rcndca., sedeasi; ed ivi con dolori, con gemiti, con pianti struggcasi l'alma, e l'inf«-0ndo mare sempre agsuardava, lagrime stillando, La Diva il Nume interrogò, cui postO 111 mirabile avea seggio lucente: « Mercurio, Nume venerato e aro, c:he della verga d'òr la man guemisci, qu,l mai cagione a me, che per l'llddietro non vis.itavi, oggi t'addusse? Parla. Cosa ch'io valga oprar, n~ si sconveg:m., disdini io non saprei, se il pur volessi. Su via, ricevi l'ospitai convito; poscia favellerai». Detto, la menu., che ambrosia ricoprla, gli pose avanti, ed il purpureo ~tiare versògli. Questo il Celeste messaggiero e quella prendea; né prima nelle fone usale tornò che aprla le labbrt in tali accenti: « Tu Dea me Dio dunque richiedi} Il vero, poiché udirlo tu woi, schietto io ti narro. Questo viaggio di Saturno il figlio mal mio grado mi die'. Chi vorrla mai varcar tante onde salse, in.finite onde, dove città non sorge e sagrifici non v'ha chi ci oflrt ed ecatombe illustri? Ma il precetto di Giove a un aluo Nume ni violar, né obbliar Iice. Teco, disse l'Egidamiato - i giomi mena l'uom più gramo tra quanti alla cinade di Priamo innanzi eombattean nove anni, finché il decimo al fin, Troia COIIlbusta, spiegaro in mar le ritornanti vdc. Ma nel cammino ingiuriir Minerva, che destò le bufere, e immensi !lutti conlra lor sollevò. Tutti perlro di quest'uomo i compagni; ed ci dal vento venne e dal fiotto ai lidi tuoi portato. Or tu costui congederai di botto: ché non morir dalla sua terra !unge, ma la patria bensl, gli amici e l'alto riveder suo palagio è a lui destino i.. · lnorridl Calipso, e, con alate parole rispondendo; « Ah, Numi ingiusti, sdamò - che invidia non più intesa è questa, che se una Dea coo maritale amplesso si congiunge a un mortai, voi noi sofirite? Quando la tinta di rosato Aurort Orione rapi, voi, Dei, cui vita facile scorre, acre livormordea, finch.éinOrtigia il rintracciò la casta dal seggio aUJeo Diwa, e d'improvvisa morte il colpi con invislbil dardo ...
94 Cosl voi Dei, con invid'occhio al fianco mi vedete un eroe da me serbato, che solo stava in su i meschini avanzi della nave, che il telo igneo di Giove nel mare oscuro gli percosse e sciolse. lo raccogliealo amica, io lo nutria gelosamente, io prome1ceagli eterni giorni dal gel della vccchic:zza immuni.
Ma quando troppo
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ver che alcun di Giove
precetto violare a wi altro Nume non lice od obbliar, parta egli e solchi, se il comandò l'Egldarmato, i c1.1Dpi non seminati. lo no! rimando ceno;
cho!ò navi a mc non sono e non t"Ompagni, che del mare il carreggino sul tergo. Ben sovverrògli di consiglio, e il modo gli additerò che alla sua dolce tcrr. su i perigliosi flutti ei giqa illeso,._
La vendetta di Posidone su.i Feaci ( u 125-184)
Ciascun dio ha, nel mondo degli dèi, un suo diritto: Posidone, o Nettuno,
il dio del mare che in molti modi rivela la sua potenza, anche col sommergere navi la mostra, Chi salva sempre i naufraghi, in qualche modo contrasta a.Ila sua gloria. Diritto ha dunque, il dio, di punirli: e il suo diritto è rispettato da Zeus. Nettuno intanto, che serbava in mente le minacce che un dl contra il divino Laenlade scagliò, cosi il pensiero ne spiava di Giove: e O Giove padre, chi più tra i Dei m'onorerà, se onore nieganmi i Feacesi, che mortali sono, e a me dcon l'origine? Io ctedea che della sua nativa isola ai sllSSi giunger dovesse tra gli affanni Ulisse, CW non invidi'ava io quel ritorno che ru gli promettesti, e del tuo capo confennasri col cenno. Ma i Feaci dormendo il trasponlll su ratla nave, e in Itaca il deposero, e il colmaro di doni.
"'O della terra SCIJOtitor possente, il nubiadunator Giqve rispose qual parola parlasti? Alcun de' Nu.mi te in dispregio non ha, né lieve fara dispregiar Dio si poderoso e antico. Ma dove uo111 troppo di sue forze altero t'osasse ingiuriar, rune puoi sempre, qual più t'aggr:adirà, prender vendetta ,i,, « Mi starei forst:, o nubipadre Giove, - Nettun riprese - s'io dal tuo corruccio non mi guardassi ogqora? lo de' Feaci, perché di ricondur gli ~piti il vezzo perdano al fin, strugger vorrei nel mare
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L'ODISSEA l'inclita nave ritornante; e inoltre grande alla lor dttà montagna imporre». « Cib, - replicava il nubipadre - il meglio, ottimo Nwne, anco a me sembra: quando iFeacesiscorgeran dal lido venir la nave I tutto corso, e poco sarà lontana, convertirla in sasso che di naviglio abbia setnbiama, e oggelto si mostri a ognun di maraviglia; e in oltre grande alla lor città montagna imporre», Lo Scuotiterra, udito questo appena, si portò a Schcria in fretta e qui fermossi. Ed ceco spi.aia dagi'illustri remi su per !'o.ade venir l'agile nave. Egli app""'50lla e convertilla in suso, e d'un sol tocx:o della man divina la radioo nel fondo. Indi scomparve. Molte allor dc' Fcaci in mar famosi filr le alterne parole: « Ahi, chi nel mare lesò la nave che vér noi solcava l'acque di volo, e che apparla gll tutta1 » Cosl, gli occhi voJsendo al suo vicino, favellava talun; ma ricnanca la cagi.on del portento a rutti ignota. Se non che Aldnoo a ragionar tra loro prese in 1al foggia: ., Oh Dei! ~lto io mi vcgo, qual dubbio v'ha?, dai vaticini antichi del padre, che dicca come sdegnato Nettun fosse con noi, perché securo rironduciam su !'acque ogni mortale. Dicea che insigne de' Feaci nave, dagli aluu.i nel rcdire ai porli suoi, distruggerla nell'oscure onde, e q\1C$ta. cittade coprirla d'alta montagna. C.osl arringava il vecchio, ed oggi il tutto si compie. Or via, sottomcttiamci ognuno: dal ricondur cessiam gli ospiti nostri, e dodici a Nettuno eletti tori &acri6.chi1lln, perché di noi gl'incruca, né d'aho monte la ciuà ricuopra ». Disse. Penetrò in quelli un 1lll!Ol' sacro, e i cornlgeri tori apparcccbi.aro.
Odi:rseo nel paese dei Ciconi ( L 39-66)
Il racconto, con quelli che sono raccolti dopo questo, fa parte della lunga narrazione delle peregrinazioni d'Odissea. Sempre spicca, in questi racconti, la magnanimità dell'eroe accorto e paziente, che si rivelerà maggiormente più tardi, quando egli sarà tornato in patria. Ad Ismaro, de' Cconi alla lede, mc, che lasciava Troia, il vcnco spinse. Saccheggililacittà,susgemenai degli abitanti; e si le 1110lte _robe dividemmo e le donne, che alla preda
96 ciascun ebbe ugual parte. Io gli esortava partir subilo e in fretta; e i forsennati, dispregiando il mio dir, peçore pingui, pingui a scannar tonocornuti tori, e larghi nappi ad asciugar sul lido. S'allontanaro in questo mezzo e vcx:e diC:ro i Ckoni ai Gironi vicini, che più addentro abitavano. Costoro, che in numero vincean gli altri ed in forza, e bauagliare a piè, rome dal carro, sapean del pari, mattutini, e tanti quante son fronde a primavera e fiori, vennero; e ailor di cielo a noi meschini riversò addOMO un gran sinistro Giove.
Lieti nel cor della schivata morte, e de' compagni nella pugna uccisi dolenti in un, ci allargavam dal lido; ma le ondivaghe navi il lor cammino non proseguìan, che tre fiate in prima non si fosse da noi chiamato a nome ciascun di quei che giacean freddi addietro.
Odisseo tra i Lotofagi ( i 82-107) Per nove infausti dl sul mar pescoso i ven1i rei mi uuportaro. Al fine nel decimo sbarcammo in su le rive de' Lotofàgi, un popolo a cui cibo ~ d'una pianta il florido germoglio. Entrammo nella terra, acqua anignemmo, e pasteggiammo appo le navi. Estinti della fame i desiri e della sete, io due scelgo de' noslri, a cui per teno giungo un araldo, e a investigar li mando quai mortali il paese alberfthi e nu1ra. Partiro, e s'affrontaro a quella gente che, !unge dal voler la vita loro, il dolce loto a savorar lor porse. Chiunque l'esca dilcttooa e nuova gus1ato avea, con le novelle indieuo non bramava tornar: colà bramava starsi, e mangiando del soave loto, la contrada n111ia sbandir dal petto. E. ver ch'io lagrimosi al mar per forza li ricondussi, entro i cavati legni li cacciai, gli annodai di sotto ai banchi; e agli altri risalir con gran prestez2a le negre navi comandai, non forse ponesse alcun nel dolce loto il dente, e la patria cadessegli da[ core. Quei le navi sallano e sovra i banchi sedean l'un dopo l'altro, e glan bauendo co' pareggiali remi il mar canuto.
1.
Testa di toro in steatite. da Kato Zakro. Sec. Xl\. a.C. (Musco di H.:raklion).
2 . .4
.,ini,t,-u: .mfort" Lkl ,cc. Xl\' J.C.. rin,·t"nU!c
J
Kato Z:ikro (.\lu)co di Hcr:ikli(Jn),
.'I· So. Sa:odcmmo a terra, acqua attigncmmo e I IDCDSII
presso le navi ci adagi&mlllo. Estinta del cibarsi e del bel' l'innata voglia, io con un de' compagni e con l'araldo m'inviai d'&lo lllla magion superba; e tra la dolce sposa e i figli cari banchcnantc il trovai. Sul limiwc sedevam della porta. Alto stupore mostrato i figli, e con parole alate: « Ulisse, - lni dicC1111 - come vcnlatu? Qual t'assali dbnonc avverso? Certo coK non fu da noi lasciata i.Qdieao perché alla patria e al tuo palagio, e ownque ti talenta.ssc più, salvo giungessi! • E.cl io COD petto d'amarczz« colmo: « Tristi compagni. e u.a sonno infausto a i.le condotto m'hanno. Or voi sanate, l..llUCi, ché il potete, tal piaga •. In questa guisa le anime loro raddolcir ternai. Quelli ammuW'Q, Ma il crucciato padre: « Via - rispose - rla questa isola, e tosto, o degli uotoi.ni tutti il più malvagio: ~ a me né atc6i, né rimandar con doni lice un 1JJOrtal., che degli Eterni ~ in Ìtll. Via, poiché l'odio lor qua ti condusse», Cosi Eolo sbandla iDe dal suo tcm,, che dc' gemiti miei tutto sonava. Mesti di nuovo prendevl!JI dell'alto: ma si staDcavan di lottar con l'onda, remigando, i conipagni., e del ritorno morla la speme ne' dogliosi petti. Sei dl navigiivamo e notti sci; e col settiioo sol della sublime città di Lama dalle larghe porte, di Lestrigònia, pervenimmo a vista.
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Contenti dello scampo, e in un doglios.l per li troppi compagni in sl crudele suisa. periti, navigammo .avanti, e &U l'a0la Eèa sorgemmo, dove Circe, diva tenifiile, dal crespo aine e dal dolce canto, avea soggiomo. Suora germana del prudente llta, dal Sole aggiomator o.acque, e da Pena, dell'antico Oceàn fisliuola illustre. Taciti • tena. ci atcolltammo, entrammO, oon senza un Dio che ci guidusc, il cavo porto, e sul lido iucimmo; e qui due ,iorni giacevamo e due notti, il cor del pari la stanchma rodeiidoci e la doglia.
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L'ODISSEA
c.ome recato ebbe il dl terzo l'Alba, io, presa l'asta cd il puqcntc brando, rapidamente andai sovu. UD'alt=s, se d'u'omo io vedessi opra, o voce udiaL Fermato il piè lil1 la scoscesa cima, scèni un fumo sali.t d'infra una sdva di quctce annose, che in UD vasto piano di Circe alla magion sorgeano intorno. Entrar disposi .sema indugio in via, il paese cercar: poi, ripensando, al legno invece riYOltare i passi, cibo dare ai com~gni, e alcuni prima a esplorare inviar mi parve il meglio.
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Ma sorta del mattin la toSea figlia, tutti io raccolsi a ~rlamcnto, e dissi: "'Compagni, ad ont11 di guai t1111ti, udite. Qui, d'onde l'Austro spira o l'Aquilone, e in qual pane il sole alz.a, in qual dcclum.. noto non è. Pur consultare or wolsi qual consiglio da noi prender si debba, se v'ha un consiglio: di che forte io temo. lo d'in su alpc:strc poggio isola vidi cinta da molto mar, tbc bassa giace, e nel cui m=o un nereggiante fumo d'infra un bosco di querce al ciel si volvc ». Rompere a questo si scntiro il core, d'Antifatc mcmbrando, e del Ciclope la ferocia, i misfatti e le nefande della carne dcll'uom mense imbandite. Strida mene.no e discioglicansi in pianto. MA del pianto che pro? che delle strida? Tutti in due schiere uguali io li divisi e diedi ad ambo un duce: all'una il s.ggio Eurlloco, e mc all'altra. Indi nel cavo rame dell'elmo agitaw.m. le soni, cd Eurlloco uscl che in via si pose 5cnz11 dimora. Ventidue compagni, lagrimando, il scgulan; n~ affatto asciutte di noi, che rimancnuno, crm le guance. Edificata con lucenti pietre di Circe ad essi la magion s'offerse, che vagheggiava una feconda valle. Montani lupi e !con falbi, ch'ella mansucfatti avca con sue bevande, st11vano a guardia del palagio eccelso, n~ lor già s'avventavano; toa in vece lusingando scotcan le luqhe code, e su !'anche s'crgcano. E quali i ani blandiscono il signor, che dalla mensa si leva e ghiotti bocconcclli ha in mano; tal quelle di forte unghia orride belve gli ospiti nuovi, che smarriti al primo vederle s'arrctruo, ivm blandendo. Giunti alle porte, la Dccssa udiro · dal ben torti capci, Cirt-c, che dentro
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OMERO
canterdlava con leggiadra voce, ed un'ampia teuea, lucida, fina, muavigliosa, immortal tela, e quale dclla man delle Dive uscir può solo. Polite allor, d'uomini capo, e molto piùcaroeinpregio a mc che gli altri tutti, scioglia. tai detti: « Amici, in queste mura
souiorna io non so ben se donna o Diva, che, tele oprando, del suo dolce canto tutta fa risentir la casa intorno. Voce lll&ndiamo a lei». Disse, e a lei voce toandaro; e Circe di là b»to ov'era levossi, e apd le luminose porte, e ad entrare invitavali. In un groppo la segulan tutti incautamente, salvo Eurlloco, che fuor, di qualche inganno sospettando, restò. Ll Dea li J>OiC
sovra splendidi seggi e lor mescea il pramnio vino co.n rappreso latte, bianca farina e mM recente, e un succo
giungcavi e:s.izial, perdi!!, CO.D questo della patria l'obblio ci11SCUD bevesse. Preso e votato dai meschini il nappo, Ciru batteali d'una verga, e in vile stalla chiudeali: avellll di porw lesta, corpo, setole, voce; ma lo spirco Sctbavm dcCltro, qual da prima, intq;tO.
Nunzio vencc dell'iDiausto uso, venne rapido Eurl!oco alla nave.
Ma non porca per iterati sforzi la lingua disnodar: gonfi portava di pi11.D.10 i lumi, e un violento duolo
l'alma gli percotea. Noi, ligurar:ido sventure nel pensier, con maraviglia l'in1enog11D11Do; ed ei l'eccidio al fine de' compagni. narrò: « Nobile Ulisse, attraversato delle querce il bosco, COtDe tu comandavi, eo:oci a fronte D!Agion coostrutta di politi ma:mi, che di m= a una valle al.10 s'erga.. Tessc:a di dentro una srm tela, e canto, doMa o Diva, chi 'l '8.?, stridulo alzava. Voce maudaro a lei. Levossi, e aperse le porte, e ne invitb. Tutti ad un coipo nella magion disavvedutamente segulllllla: io no, che sospetta.i di frode. Svaniro insieme tutti; e per istarmi luogo ch'io feci, ad esplorare 11Ssiso, tracia d'alcun di lor più non m'apparve a, Disse; ed io grande alle mie spalle e acuta 5p&da d'argento bullettata appesi, appesi w:i valid'UtO, e ingiunsi a lui che innllllZi per la via stessa mi gissc. Ma Eurlloco, i ginocdu ad ambe ma.ni strinaendomi e pi1111endo: « Ahi mal mio grado, -
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L'ODISSEA con supplici gridb parole alate li non guidano.i, o del gran Giove alWU10, don~, non che altri ricondur, tu nesso ritornar non potrai. Fuggiam, fuggiamo senza indugio con questi, e la vicina Para schiviam, finché schivarla è dato», « EurUoco, - io rispo5i - e tu rimanti di carne e villo a riempirti il ventre, lungo la nave. lo, cui severa stringe ncttSsitate, andrò i>. Ciò dette, a tergo la nave nqra io mi lasciava cil mare.
Giunto alla Diva dall~ belle trecce,
la voce alzai dall'atrio. Udimmi, e ratta levOS$i, e aprl le luminose porte, e m'invitava: io lii scgula non lieto. Sovra un distinto d'argentini duovi ~ a grand'arte fatto, e vago assai, mi pose: lo sgabcllo i piè reggca. Quindi con alma che pensava mali, la lllista prcparommi in aureo nappo bevanda incantatrice, cd io la presi dalla sua man, e bevvi; e non mi nocquc. 1 Però in quel che la Dea mc della lunga verga percosse, e: « V,mnc, ·- disse - e a tcrn co' tuoi compasni nella stalla giaci"'• tirai dal fianco il brando, e contra lei, di trafiggerla in atto, io mi scagl.i.ai. Circe, mandando uc.a gran voce, corse rapida sotto il colpo, e le ginocchia con le braccia aficrrommi, e queste alate parole mi dri.uò, non senza pianto: « Chi sei tu? donde sci? la patria dove? dove i parenti a te? Stupor m'ingombra che l'incanto bcwto in te non possa, quando io non vidi cui pusassc indarno per la chiostra dc' denti il mio veleno, Certo un'anima invitta in petto chiudi. Saréstu forse quel sagacelllilisc, che Mercurio a mc sempre iva dicendo dover d'Ilio venir su negra nave?
Per fermo sci. Nella vagina il brando riponi, e wi il leuo mio: dal core d'cntrambi ogni sospcuo amor bandisca•-
« Circe, -
risposi -
che da mc richiedi?
lo cortese vf;r te che in soae belve mi trasformasti sli uomini? Rivolgi tacite frodi entro te stessa; ed io la tua pcnctttd, stanza secreta, onde, poiché m'avrai l"armi spogliate, del cot la fon.a tu mi spogli ancoro? No, se non giuri prima, e con quel ,rande
' Da Erme., o Mercurio, Odissea ncva avuto un farmaro ll!Qico, che prinva d'Ol"i c:Scada l farmathidieiffc.
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OMERO
degl'i.mmo[tali Dei giuro, che nulla più non sarai per matthinarm.i a danno ,i,. Dissi e la Dea giurò. Di Circe allora le belle io salsi maritali piume.
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Circe usd tosto con in man la verga, e dalla stalla gl'infelici trasse, che di porci novenni avean l'aspett':l. Tutti le stavan di rincontro; e Circe, d'uno aU'aluo passando, un pi:-ez"ioso
sovra lor distendea benigno unguento. Gli odiati peli, che la taua infesta produsse, a terra dalle membra loro ca.devano; e ciascun, più che non era, grande apparve di corpo, e assai più fresco d'e1ade in faccia, e di beltà più adorno.
Mi ravvisò ciascuno, cd afferro.mmi la destt'l; e un cosi tenero e sl forte o:,mpianto si levò, che la magione ne risonava orrend1Unente, e punta sentlasi di pietà la stessa maga. Ella, standomi al fianco: « O sovrumano di Laerte figliuol, provvido Ulisse, coni-diceami-allatua nave,ei.a secco la tira, e cela nelle cave grotte le rkcheize e gli arnesi; indi a me toru, e i diletti compagni adduci t«o i.. M'entro il suo dir nell'alma. Al lido io corsi, e i compagni trovai, che appo 1a nave di lagrime nutrlansi e di sospiri. Come, se riedon le satolle vacche dai verdi prati al rusticale albergo, i vitelli sahellano, e alle madri,
cM più senaglio non ricienli o chiostra, con frequente muggir corrono incorno; cosi con pianto a me, vistomi appena, in1omo s'aggiravano i compagni, e quei mostravan su la faccia segni, che vi si scorgerlan, se il dolce nido, dove nacquero e crebbero, se l'aspra Itaca avesser tocca. • O, - lagrimando ditean - di Giove alunno, una tal gioia sarebbe a stento in noi, se d accogliesse d'Itaca il porto. Ma, su via, l'acerbo fato degli altri raccontar ti piaccia•. Ed io con dolce favellar:· • La nave si tiri in secco, e nelle cave grotte
le rio:hezze si celino e gli uncsi. Poi seguitemi in fretta; cd i compagni nel tetto ,acro dell'illume Cil'C'e vedrete, assisi ad una mensa, in cui di là d'ogni desio I• copia rqna .,_ Pronti obbcdiro. Ripugnava Euriloco solo, cd or questo m'arrestava, or quello, Iridando: • Sventurati, ove ne andiatn0? Qual mai vi punse del diustro sete,
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L'ODISSEA
che discendiate alla maliarda, e wlti Wlte in leoni, in lupi, o in sozzi vmi, il auo.palagio II custodir dannati? L'ospizio avrete del Ciclope, quando alaro i nostri nella grolla, e questo prode Ulisse guidavali, di cui morte ai tniseri fu lo stolto ardire ... Cosl Eurlloco; ed io la lunaa spada cavar pensai della vagim, e il capo dal busto ai piè sbalzargli in su la polve, benché viDco1 di sangue a me l'unisse. Ma tu.ttiquillC:i ritenearu:ni e quindi con favella sentii: .. Di Giove alunno, costui sul lido, se ti piace, irl guardia della. nave rimangasi, e alla sacra magion J1oi guida ... Detto ciò, dal uwe meco venlan, né restò quegli indietro, tanto della min~ia ebbe spavento. Cura prendeasi Circe in questo mezzo degli altri, che lavati, Wlti e di buone tuniche cinti e di bei manti furo. Seduti a mensa li trovammo. C.Ome si sguardaro l'un l'altro, e sul pu51to con la mente tornato, in pianti e in grida davano; ne gemcan pareti e volte •
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Scilla e Cariddi 0lt:repass&1e, in fllCda la feconda ci apparve isola amena ove il greae del Sol pm:e, e l'annento; e ne giungean dell'ampie swle a noi i belati su l'aurc ed i muggiti. Gli avvisi allor mi U svegliaro in inente del teban vate e della maga Cin:e,
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ch'io l'isola schivar del Sol dovessi, di cui rallegra ogni vivente il raggi.o. Ond'io: .. Compagni, - lor dicea - per quanto siate ansosciati, la sentenu udite del teban vate e della maga Cire-e, ch'io l'isola schivar debba del Sole, di cui rallegra ogni viVCD.te il raggio. Circe affermava che il DlBggior de' guai quivi c'incoglierla. Lasciarla indietro ci convien dunque con la negra nave ... C.Olpo tai deui fOr quasi morule. Né a molestarmi Eurlloco in ul guisa tsrdava: (I Ulisse, WI barbaro io ti chiamo, perch,! di fona abbondi, e mai non cedi, n,! 6braèin teche non sia ferro; a' tuoi co.niendi il toccar terra, e di non para cena sul lido ristorarsi. Esigi che in mezzo le notturne ombre su questo pèlago a caso erriam, benché la none gravi produca disastrosi veoti, Or chi fussir potrà l'ultimo danno dove reperite un procelloso !iato di mezzodl ci assaJ&a, o di ponente,
104 che, dc' Numi llDCO ad ontfl, il legno sperda? S'obbedisa oggi alla divina notte, e la cena nell'isola s'appresti. Come il dl spunti, salircm di nuovo la nave, e nd.l'immeosa onda entreremo•. Questa favella con applauso accolta fu dai compagni ad una; e io beo m'avvidi che mali un geni.o prepotente ordla. « Eurlloco, - io risposi, - oggimai troppa, tutti contra ad un 10!, fona mi fate. Giurate almeno, e col più saldo giwo, che se greggi troviam, troviamo armenti, non sia chi, spinto da stoltcua iniqua, giovenca UQ1;id11, o pecorella offendi; ma, tranquilli, di ciò pasteggerete che in don vi porse la benigna Circe •. Quelli giuraro, e non sl tosco a fine
l'inv'iolabil giuro cbber condono, che la nave nd porto appo una fonte fennaro, e ne smontaro, e lauta cena solcrccmcnte apparccxhiir sul lido.
Paga delle vivande e dc' licori la naturale avidità pungente, risovvenlansi di color che Sci.Ila dalla misera nave alto rapiti vorossi, e li piangcan, firlch(!: discese su gli oa;hi lagrimosi il dolce sonno. Già corsi avca del $\10 cammin due terzi la notte e dechinavano le stelle, quando il cinto di nembi Olimpio Giove destò un gagliardo turbinoso vento, che la terra coverse e il mar di nubi, e la notte di cielo a piombo cadde. Ma come poi l'orocrinita Aurora colorò il ciel con le rosate dita, tirammo a terra il legno, e in cavo 1peco de' seggi omato delle Ninfe, ch'iri i lor balli tessean, l'introducemmo. Subito io tutti mi raccolsi intorno, e; e Compagni, - diss'io, - cibo e bevanda 1C$WK:i ancor nella Vcl(ICC nave. Se non vogliam perir, lunsi tenete le man dal gregge e dall'armento; al Sole, turibil Dio, che tutto vede cd ode, pasc0no i monton pingui e i bianchi tori». Dissi; e aa:hctirsi i generosi petti. Per un intc10 mese Austro giammai di spirar non restava, e poscia fiato non sorgea mai, che di Levante e d'Austto. Pinchi il pm non falll loro cd il vino, ubbidienti e della vita avari, rispenav1U1 l'armento. E già i. uve nulla contenea più. Giravano adunque,
come il bisogno li pungca, dupeni per l'isola, d'augclli e pesci in traccia, con archi cd ami, o di quale altra preda lor venisse alla man, pero che forte
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L'ODISSEA
rode.ali, dentro, l'importuna fame. Io, da' compagc.i scevro, Wlll remota cercai del piede solitatia piaggia, gli Ettt!li a supplicar, sealcu..n la via mi dimostrasse del ritorno; e in parte giunto, che d'aura JJ.011 ~tl11$i colpo,
sparsi di limpid'o11da e a tutti alzai gli abitanti del cielo ambo le palme. Ni guari andb, che d'un tranquillo SOllllO petto riempi~rmi i Numi. Eurlloco fratw1to un mal t"ODSiglio pose innanzi ai compagni; «O da st acerbe aciagure oppressi, la mia voce udite. Tutte odiose cetto sd uom le moni: ma nulfa tanto, che il perk di fame. Oie più si tarda? Meni.am via le belle giovenche, e sagri.6ci ai Numi offriamo. Ch~ se aflelTaf ci sarà dato i lidi nativi, al Sole Iperione un ricco tempio illustre aheremo, appenderemo molti alle mura preziosi dooi, E dov'ci, per li buoi dalla superba
sii occhi ed il
crucciato, sperder voglia il legno, n~ alcun Dio sii contrasti, io tolgo l'alma pria tra i ftutti esalar, che, su deserta iaola stando, intisichir più a lungo •· Disse: e tutti asscntlano. lncon1anente del Sol cacciare le più belle vacche di fronte laraa e con le coma in arco, che dalla nave non pascean lontane, stavano ad esse intotn0; e «lite priim, pe:r difetto che avean di candid'orzo, tenere foglie di sublime quercia, voti feano agli Dei. Compiuti i voti, levittime11~,elescoiaro, e, le cosce tagliatene, di zitbo le copriro doppiate, e i audi brani sopra vi collocaro. Acqua, che il rosso vino scusasse, onde patlan disagio, veutvan poi su i Uòcrifici ardenti, e abbrosdan tutti gl'intestini. Quindi, le CO$Ce omai combuste, cd assaggiate le interiora, tutto l'altro in pezzi fu messo, e in.6tto negli acuti spiedi. E a me usd dalle ciglia il dolce sonno. Soni, e alla nave in fretta io mi conduss.i. Ma vicina del tutto ancor non m'era, ch'io mi sentii dall'avvampate cami muovere incontro un odoroso vento, e gridai, lamentando, a' Numi eterni: « O Giove padre, e voi, Dei sempre stanti, certo in un a-udo e fatai sonno voi mi seppelliste, se doveasi intanto compier da cotestoro un tal misfatto •· Nunzia non tarda cleU'ucciso annento, Lampezi.c al Sole andò di lungo peplo coperu. Il Sole, in grande ira montato, testa
si volse ai Numi., e: « Giove, - disse, - e voi tutti, im.mor1ali Dei, paghino il fio del Laeniade Ulisse i rei compago.l, che le giovenche trucidarmi osuo, della cui vista, o ch'io per la stellata volta salissi, o discenclessi, nuovo diletto ciascun dl prendea. il mio core. Colpa e pena in lor sia d'una misura: o caletti nella maglon di Pluto, e al popol mono panetti mia luce», E il nimbifcro Giove a lui rispose: « Tni gl'lmmortali, o Sole, ed i mortali vibra su l'alma terra e in ciclo i raggi. Io sem:a indugio, d'un $01 tocco lieve del fulmine .Socato il lor naviglio t&acelleiò del negro mar nel seno»,
Dall'isola di Calipso all'isola dei Fetld (E 149-381)
Il racconto dell'ultima peregrinazione d'Odisseo precede l'arrivo suo nell'isola dei Feaci, ove l'eroe dirà le sue peripezie: benché stanco di tante calamità, l'eroe rifiuta il dono dell'immortalità sulla terra, pronto a soffrire ancora dolori tremendi. L'augusta Ninfa, del Saturnio udita la scveni imbasciata, il prode Ulisse
per cercar s'avviò. Trovollo IISSiso del mare in su la sponda, ove le guance di lagrime rigava, e consumava col pcnsier del ritorno i suoi dolci lllllli,
cM della Ninfa non pungealo amore: 1511iJidiassboesuin,mitiscogli, con dolori, con gemiti, con pia.Dti struggeSi l'alma, e l'infecondo mare, J.griine spesse lagrima.Ddo, agguarda. Calipso, illustre Dea, standogli appresso: « Sciagurata, -gli disse - in questi pianti più non mi dar, ~ consumare i dolci tuoi begli annicosl: la dipartita, non che vietarti, agcvolani io penso, Su via, le travi nella selva tronche, larga e con alti palchi a te congegna i.tteni,cliesul mar fosco ti porli. Io di candido pan, che l'importuna fame rintuzzi, io di purissim'onda
e di rosso licor, gioia dell'alma, la carcherò: ti vestirò non vili panni, e ti ou1J1derò d. tergo un vento, che alle contrade tue ti spinga illeso, sol clic d'Olimpo agli abitanti piaccia, con tui di senno in prova io già non vcgno ». Roccaprkciossi a quc:slo il non mai vinto dalle sventure Ulisse, e: • O Dea, - rispose con alate parole - altro di fenno, non il congedo mi.o, tu volgi in mente, che vuoi ch'io varchi 1u tal barca i groal
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L'ODISSEA
del difficile mar 8uttl tttmendi, cui le navi più ratte, e d'uguai fianchi munite, e liete di qud vento amico che·& Giove partl, varcano 1ppm1. No, ,u buca sl fatta, e a tuo dispetto, noo 611.iW, dove tu pria non degni giurare a me con giutameoto gramfe che nessuno il tuo cor danno m'ordisce•· Sorrise l'Atlandde, e, della mano divina categgiandolo, le lingua sciolse in ui voci; « Un cutivdlo sei, né ciò che per te fa scordi giammai.. Quali parole mi parlasti! Or 511ppia dunque la terra, e il Ciel superno, e l'atta, che sotterra li volve, acqua di Stige, di cui oé più solenne han, né più sacro gl'lddii betiti giuramento, sappia che nessuno il mio cor danno t'ordisce. Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io tOrrei per me, se in cotant'uopo io fossi. Giustizia reae la mia mente, e un'alma p.ieto511, non di fem,, in me s'annida•· Ciò detto, abbandonava il lido in fretta, e tni.sse la segula. Giunti alla grotta, colà dond'eu l'Argidda sono, s'adagiò il Laenlade; e la Dea molti davanti gli mettea ébi e licori, quali ricever può petto mortale. Poi gli s'assise a fronte, e a lei k ancelle l'ambrosia e il rosso nhtare imbandito. Come ambo paghi della mensa furo, con tali ecttnti cominciava l'alta diCalipwbeltade:«Odi~rte figlio divi.cl, molto insegnoso Ulisse, CO$! tu parti adunque, e alla nativa tena.e alle case de' tuoi padri vai1 Va', poiché si t'agsrada, e va' felice. Ma se tu SCQtsef dd pensier potessi per quanti danni ti coma.nda il Fato prima passar che al patrio suolo arrivi,
questa. casa
COD
me sempre vorresti
custodir, ne aon certa, e immortal vita da Calipso accettar: benché sl viva brama t'accenda della tua C'OtlSOl'te, a cui 1iomo non è che non 50spiri. Pur non cedete II lei né di sta.tura mi vanto, né di volto: umana donna mal può con una Dcia, le s'addice di persona giostrare o di sembianza•· « Venerabile lddia., - riprese il ricco d'ingegni Ulisse - non voler di questO meco sdegnarti: appie:a conosco io stesso che la s ~ Penèl.ope tu vinci di penona non men che di sembiama, giudice il guardo tbe ti stit di contn. Ella nacque mortale, e in te né morte può né v ~ . Ma il pensiero è questo,
°'
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OMBRO
questo il desio che mi tormenta sempre: veder quel giorno al fin che alle dilette piage del mio natal mi riconduCll. Che se alçun me percotetà dc' Numi per le fosche onde, io solfrirò, chiude:ndo forte contra i disastri anima in petto. Molti sovr'euo il mar, molli fra !'anni gil ne sostenni e sosterronne ancora "'· Disse; e il sol cadde, ed an.nottb. Nel flCDO li ritiraro della av:a grotta più interno e oscuro e, in dolce sonno avvolti, tutte le cure lot mandaro in bando. Mli crune del mattin la figlia, l'alma dalle dita di rose Aurora apparve, tunica e manto alle sue membra Uliue, e Calipso alle sue larga ravvolse bella gonna, sottil, bianca di neve;
si strinse al fianco Il.D'aurea fascia, e un velo $Ovtl1, l'òr crespo della chioma impose. N~ d'Ulisse a ordinar la dipa.i:ti.ta tardava. Lleto l'eroe dell'innocente vento, la vela dispiegò. Quindi al timone sedendo, il corso dirigea con ane, n~ gli cadea su le pal~bre il sonno, mentre attento le Pl~iacli mirava, e il tardo a uamontar Boòte, e l'Ors.11 che detta ~ pure il Carro, e là si gita, guardando sempre in Odone, e sola nel liquido Oceàn sdegna lavani; l'Orsa, che Ulisse, navigando, a manca lasciar dovca, come la Diva inaiucise. Dieci pellegrinava e sette giorni sui ClllJlpi d'Anfiuite. Il dl novello, gli sorse incontro co' suoi monti ombrosi l'isola de' Feaci, 11. cui 111. str11da conducealo più corta, e che 11.pparla qU11.Si uno scudo alle fosche onde sopra. Sin dai monti di Sòlima lo scorse veleggiar per le sabe onde tranquille il possente Nettun, che ritornava dall'Etiopia, e nel profondo cote più aucciato che llllli, squassando il capo: te Poh! disse dentro 11. ~ - nuovo decreto, mentr'io fui tra gli Etiopi, intomo 11. Ulisse ffr dunque i Numi~ Ei glil la terra vede: de' Fetd, che il Fato 11. lui per meta delle sue lunghe disventure assegna. Pur molto, io credo, a tollerar gli i:esta », Tacque, e, dato di piglio 11.I gran tridente, le nubi radunò, sconvolse l'acque, tutte incitò di tutti i venti !'ire, e la terra di nuvoli covene, roverse il mar: notte di ciel giù scese. S'avventaro iul IDllt quasi in un gt0ppo ed Euro e Noto, e il celere Ponente
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e Aquilon, che pniinc aspre su l'ali reca, ed immensi flutti inoalza e volvc. ~isd&[ sentissi le gi.Docchia e il core di LRhtc il figliuol, che tal si dolse nd scacto dell'alma: « Ahi mc infcliccl Che di mc sarà omaii' Temo non tol"Di verace troppo della Ninfa il detto, che al pauio lido io giungerci per mczro delle fatiche solo e dcll'angosce. Di quai nuvole il ciclo ampio inghirlanda Giove, ed il mar conauba! E come tutti fremono i venti! A certa morte io corro.
Oh, tre fiatc fortunati e quattro, cui perir fu concesso innanzi a Troia, per gli Attldi pugnando! E perché allora non uddi anch'io, che, al morto Achille Intorno, wite i Troiani in mc lance sagliaro? Sepolto i Greci co' funèbri onori m'avrlano, e alzato ne' lor canti al ciclo. Or per via "°5l infausta ir dcggio a Dite•· Mentre cosi dolcasi, un'onda grande venne d'alto con furia, e unò la bal'ta, e rigìrolla; e lui, che andar lasciossi delle mani il dm.on, fuori ne spinse. Turbine onendo d'aggruppati venti l'albcw a mezzo gli fiaccò: lontane
vela ed antc:nna caddero. Ei gran tempo stette cli sotto, mal potc:Ddo il capo levar dall"onde impetuose e grosse; ché le VC$ti gr11vavanJo, che in dOJlO da Calipso ebbe. Spuntò tardi, e molta dalla boetagliuscia, gli piovee. molta dalla testa e dal crine ond• s.lata. Non però della zana il prese obbllo: ma, d• sé i !lutti respingendo, ratto l'apprese, e già cli sopra, il fin di morte schivando, vi sedea. Raplala il fiotto qua e là pct lo golfo. A quella guisa che sovra i campi il tramontan d'autunno fascio trabaln d'annodate spine, i venti trabalzàvanla sul mare. Or Noto da portare a Borea l'offre, ed or, perché davanti a sé la cacci, Euro la cede d'occidente al vento. Labcllailvidcdaltallondipcrla figlia di Cadmo, Ino chiamata al tempo che vivca tra i mortali: or nel mlll' gode divini onori, e Lcucot~ si noma. Compunta il cor per lui d'alta pictade,
s'alzò dell'onda fuor, qual mcrgo a volo, e su le travi avvinte Pssisa, oosl sli favellò: « Pcn:hé, meschino, s'accc-sc 1nai con te d"ira sl accd,a lo scuotltor della terrena mole, che ti scmin• i mali~ Ah! non li.a certo ch'ei, per quanto il desii, spenga i tuoi giorni. Fa', poiché vista m'hai d'uomo non folle,
110 ciò ch'io t'ir15egn0. I panni tuoi svestid, lascia il n,viglio d. portffli ai vaiti, e a nuoto cerca il feaccse lido, che per meta dc' guai t'assegna il Fato. Ma questa prendi, e la t'avvol,gi. al petto, fascia iiomortal, né temer morte o danno. Tocoo della Feacia il lido appCilll, spogliala, e in mar dal rontincntc lungi la gitta, e torci .nel gittarla il volto•. Gò dcno, e a lui l'ùnmonal fascia data, rientrò, pur qual mergo, in seno al fosco matt ondeggill!ltt, che su lei si chiuse. PcnsQSO resta e in forse il pazlente Laenlade divino, e con se stesso, raddoppiando i sospir, tal si consiglia: « Ohimè! che nuovo non mi tcss.a inganno de' Stmpiterni alcun, che dal mio legno pu:Ul' m'ingiunge. Io cosl t01òto penso non ubbidirgli; ché la terra, dove di scampo ci m'affidò, troppo è lontana. Ma eçco quel che ottiino parmi: qll.lilto congiunte rimarran tra lor le travi, llOll abbandonerolle, e co' disastri fermo io combatterò. Siorrallc il Butto? Ponommi a nuoto, né veder so meglio 11-. Tai CO!C in ~ volgea, qumdo Nettuno ,oll~ un'onda immensa, orrenda, gnvc, di monte in guisa, e la sospinse. C.ome
disperse qua e là vanno le secche paslic, di cui sorgca gran mucchio in prima, se mai le investe un furioso turbo, le tavole pel. mar disperse andaro. Sovra un sol trave a cavalcioni Uli5SC montava: i panni, che la Dea Calipso dati gli avea, svestl, s'avvalse al petto l'immortll bemi•, e $1 gittò ne' gorghi boccoo, le braccia per nuotare aprendo. Né già s'ascose dal ceruleo Iddio, la te6t• aollando: « A questo modo erra, - dicea tra sé - di flutto io flutto dopo tante sciqun:, e • geo.ti arriva da Giove 1.1111ce: benché speme io porti che oé tra quelle brillerai di gioia •· Cosl Nettuno; e della verde sferza
me,
toccò i cavalli alle lqgi.adtt chiome, che il condussero ad Ega, ove gli splende nobile altezza di real pabgio.
L'ospitalità di Alcinoo ( 1J 230-333) Sempre, dal momento in cui ha lasciato l'isola di Calipso, Odisseo, dove appare, suscita impressioni fortissime, di reverenza nei buoni e di spregio e di paura insieme nei protervi: qui sùbito Aldnoo riconosce in lui un uomo mirabile, e lo invita a restare e gli offre in moglie la figlia. Ma Od.isseo resiste alla tentazione.
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L'ODISSEA
Solndlarqgia.rimaneasiUlisse, e presso gli sedellflo Alcinoo e Arete, mentre le ancelle del convito i vaai dalla mensa toglicano. lite prima gli favellò, come colei che il manto
riconobbe e la twuca, leggiadre vesti che di SWI man te&SUle l'ICI con le sue fanti, e che or vcdeagli in dosso. «Stranicr,-glidisscC'O.Dalatevoci.,di questo io te ccn::ar voglio la prima: Chi sei N? Donde sci? Da chi tai panni?
NoncifaicrcderNchcainostrilidi miscm, errante e naufr1g0 approdasti? ... Eils.ggio Ulissercplicollc: «Forte, regina, è i mali raccontar che molti m'inviaro gli Dei. Quel che più brami 511per, io tocdictò. Lontana giace un'isola nel mar, che Ogigia è detta. Quivi d'Atlante la fallace figlia
dai ben toni capci, Calipso, alberga, tcrribil Dea, con cui nessun dc' Numi conversa o dc' mortai.i. Un Genio iniquo con lei mc solo a dimorar costrinse, dappoi che Giove a mc per l'ondc oscute la rana nave folgorando sciolse. . Tutti morti ne furo i miei compagni; ma io, con lllllbe i:tllill ali. carena della nave abbracciatomi, per nove giorni fui aasportato, e nella fosca decima notte all'isoletta spinto della Dea, che m'accolse e a.mi.camcnte mi trattava e nodriva, e promettca da morte assicuranni e da vecchiez-u; né però il cor mi piegò mai nel petto. Sene anni. inticri io mi vcdca con lei, e di perenni lagrimc i divini panni bagnava, che mi porse in dono. Ma tosto che l'ouavo anno si volse, la Diva, o fosse impcrial messaggio del figliuol di Saturno, o di lei stC$1ia mutameo.10 improvviso, alle mie cuc ritornar confortava.mi.. Su travi da molteplici nodi in un aiJJSiunte, ain molti doni accommiacommi .
F.cl. Alcinoo rcpcntc: • Ospite, in questo la mia figlia falll, cM non condusse te ain le aneel.lc alla magion, quannmquc ru a lei primicra 5Upplicato aveffi Jo. • Eccelso ewc, non mi biasmar - riepose lo scaltro Ulisse - per cagion sl lieve la incolpabil fanciulla. Ella m'iogiunse di seguitarla con le ancelle; cd io men guardai, per timor che il tuo vedermi t'infiammasse di sdegno. Umana, il sai, ruu noi si.amo al sospettare inchina •· Ed Aklnoo di nuovo: « Ospite, un'alma
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OMERO
già non ùllDida in me, che fuow plCl!da sl prontamente. Alla rqionc io cedo, e quel che onesto è più, sempre io tnscdgo. Ed oh piace5$e a Giove, a Pall& e Il Febo, che, qu.1 ti scorgo, e d'un parer O)II, meoo, sposa volessi a te far la mia figlia, genero mio chiamarti, e la tua stanza fermar tra noi! Case otterresti e beni da me, dove il restar non ti sgnidisse: ché ritenerti a fona, e l'ospitale Giove olti:ISiiar, nullo qui .6.a che ardisca. Però cosl su l'alba il tuo viasgio noi dispormn, che abbandonarti al SOD110 nella nave potrai, mentre i Feac:i
l'azzurra oilma ro111perap co' temi, né ccssenn che 11dla patria messo t'abbiano, e ovunque ti verrà desio i.•
. Giol . .a tai. detti. il. paziente . . Ulisse, . .
e le braccia levando: « O Giove padre, sdamò - tutte adempir le sue promesse possami Aklnoo! Ei gloria eterna avranne, ed io pomi nelle mie cue il piede»,
Il pianto dell'eroe ( 1' 57-92, 454-586) Già i portici s'empict.n, s'cmpica.o.o i chiostri, non che ogni stanza, della varia gente che s'accogliea, bionde e canute teste, WUI tuiba infinita. Il te quel giorno diede al s.crocoltcldodiciagnelle, otto COl'J)i di veni ai bianchi denti, e due di lori dalle torlc oorna. Gli scoiir, gli ac-conciir, ne apparetthiaio convito invidiabile. L'araldo ritorno fco, per man guidando il vate, cui la Musa portava immenso amore, bencM il ben gli temptaSSe e il male insieme: degli occhi il vedovò, ma del più dolce
canto arricchil.lo. li bandi.tor nel mez:w sedi.a d'argento borchiettata a lui pose, e l'afiisse ad una gran colonna: poi la cetra vocale a un al.llCO chiodo gli appese sovra il capo, ed insegnogli come a succar con mano indi l'avel!ise, Ciò fauo, un desco gli cJ.istel!ie avanti con panier sopra, e 11t11. capace tazza, ond'ei, qual volta nel pungea desio, del ven:niglio licor scaldasse il petto. Come la fame rintuzza11, e spenta fu la sete in ciastWI, l'egresio vate, che già tutta sen1lasi in cor la Musa, de' forti il pregio I risonar si volse, sciogliendo un unto, di cui sino al cielo salse in que' dl la fama. Era l'antica tenzon d'Uli5se e del Peliade Achille,
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L'ODISSEA
quando di acerbi detti ad un soknne convito sacro si fedro entrambi. Il re de' prodi Agamennon giola tacitamente in SI!'., visti a contesa vellire i prua.i degli Achei: ~ qu,sto
della caduta d'Ilio era il segrule. Tanto da Febo nella SacN Pito, varcato appena della soglia il marmo, predirsi allora udl, clic di que' mali, che sovra i Teucri per voler di Giove rovesciars.i doveano, e su gli Acllivi, ,i collllllciava a dispiegar la tela.
A ui memorie il l..aeRlade, preso l'ampio ad ambe le man purpureo manto, sei Ui1S$C in testa e il nobil volto ucose, vergognando clic lagrirne i Feaci vedessetlo stillar souo le ciglia. Tacque il cantor divino; ed ci, rasciutte le guance in fretta, dalla testa il manto si tolse, e, da10 a una ritonda coppa di piglio, libò ai Numi. I Feaces.i, cui gioia erano i carmi, a ripigliarli il poeta eccitavano, che aprla aovamentc le labbra; e novame:Dte coprirsi il volto e ta,rimare U1issc , Lavato ed unto per le scorte ancdle, e di manto leggiadro e di leggiadra tunica cinto, alla gioconda mensa da' lepidi lavacri Ulinc giva. Nauslca, cui splendea tutta nel volto la beltà degli Dei, della superba sala fcr111ossi l11le lucenti porte. Sguardava Ulisse, e l'umnirav1, e queste nandavagli dal sea parole alate: • Felice, ospite, vivi, e ti ricorda, come sarai nella natia tua terra, di quella onde pria VCIIDC a te salute ». • Nauska, del pro' Aklnoo indita figlia, Ulisse rispondeale - oh! cosi Giove, l'altisorwue di Giunon mari10, voglia clic il di del mio ri1omo spwi.d, com'io nel dolce ancor nido nativo
SC.DJprc qual Dea t'onorcttl: ~ fostl la mia salVC221 tu, fanciulla illusae ». Già le carni. plll'llansi, e ndlc coppe gli umidi vini ei mcsceano. Ed ecco il banditor venir, guidar per mano l'onorato da tutti 11nabil vate, e adagiarlo, &cendogli d'un'alta colonna appoggio, ai convitati in mezzo. Ulisse allor dall'abbrostita e ghiotta Khiena di pingue dentibianco veno tagliò un florido brano, ed all'araldo: « Te' - disse - questo, e al vale il porta, ond'io rendagli, bcncht! aBli1to, un qualche onore.
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OMBRO
Chi ~ che in pregio e in riverenza i vati non tenga? i vati, che ama tanto, e a cui sl dolci melodie la Musa impara•· Portò l'araldo il dolio, e il vate il prese, e per l'alma. gli andò tacita gioia. Alle vivande intanto e alle bevande poracan la mano; e f1lro spenti appena dcUa fame i desiri e della sete, che il saggio Ulisse tali accenti sciolse: « Ocmodoco, io te sopra ogDi vivente sollevo, te, che la canora figlia de.I sommo Giove o APQllo stesso inspira. Tu i casi degli Acbivi, e ciò che opraro, ciò che soffriro, con estrema cura, quasi visto l'avessi o da que' prodi guerrieri udito, su la cetra poni. Via, dunque, sicgui, e l'cdi.fu:io canta del gran cavallo, thc d'intestc travi, con Pallade al suo fianco, Epco construsse, e Ulisse penetrar fco nella rocc::a datdania pregno (stratagemma insigne!) degli eroi per cui Troia andò in faville. Ciò fedelmente mi racconta, e tutti sclaro1r m'udranno ed attestar che il peno di tuUa la sua fiamma il Dio t'aettndc "'· Demodoco, che pieno era del Nume, d'alto a .nartar pttndca, come gli Achivi, gittato il foco nelle tende, i legni
parte saliro e aprir le vele ai venti, parte sedean col valoroso Ulisse ne' fianchi del cavallo entro la roo:e. I Troi, standogli sotto in cen:hio assisi, molte cose dicean, ma incerte tutte, e in tre sentenze divideansi: o il cavo legno intllgliato lacerar con l'armi, o addurlo in cima d'un.a ,:upe e quindi prttipitarlo, o il simulacro enorme llgli adirati Nwni offrire in voto. Questo prevalse alfui: poiché destino era che allor perisse Ilio superbo, che ricettata nel suo grembo avesse l'immens11 mole intesto, ove de' Greci, morte lii Troi per recar, sedeano i api, Nmava pur come de' Greci i figli, fuor di quella versatisi, e lllsci11te le cave insidie, 111 cittade a tem. gittaro; e come, mentre i lor compagni 1111astavano qua e là pakei e templi, Ulisse di Deifobo all11 cas11 col divin Menelao corse, quai Marte, e un duro v'ebbe a sostener conflitto, donde uscl vincitore, auspice Pall11, A talivoci,11tai ricordi Ulisse 1truggcasi dentro, e per le smorte suance piovea !agri.me giù dalle palp~bre. Qual dono11 piange il molto amato sposo, che alla aua terra innanzi e lii cittadini
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L'ODISSEA
cadde e -.i pargoli suol, da cui lontano volca tener l'ultimo giorno; cd ella, che .Qloribondo il vede e palpitante, sovn.-"lui s'abbandona cd uda e suide, mentre ha di dietro chi dell'asta il tergo le va battendo e gli òmcri, e le intl.llla schiavitù dura e gran fatica e strazio, al che già del dolor la miserella stDunto ne porta e didiorato il volto; CO$}Uluscdisottoallepal~ consumatrici lagriine piovca. Pur del suo pianto non s'accorse akuoo, salvo re Alcinoo, che sedeagli appresao, e geJJ1cre il $C1ltla; però ai Fcac.i: « Udite, - disse - condottieri e prmd. Deponga il vate la sonante cetra, ché a tutti il canto suo grato non giw:ige. Dal primo istante ch'ci toccolla, in pianto comincib a ro.lllptt l'ospite, a cui si~ certo un'antica in $Cli. cura .tllordace, La mano adunquc dalle corde astenga; e lieto allo stranier del par che a noi che il rkcttammo, questo giorno c,da.. Consiglio altro DOJ1 v'ha. Per chi tal fata? Per chi. la scorta PRParata, e i doni, d'amisll pegni, e le accoglieiu.c oneste? Un supplice straniero ad uom, che pllDto scorga diritto, l di fratello in vec-c. Ma tu, di qud ch'io domandarti intendo, nulla celarmi astutalJICnte: meglio torncranne a te stesso. Il nome dimmi
con che il padre aolea, solea la tnadte e i citw:lin chiamarti cd i vicini: ché senza nome uom non vive in terra, 6ia buono o reo, ma, come apcrae gli occhi, da' genitori suoi l'acquista in fronte. Di.mmi il tuo suol, le genti e la ci.tiade, sl che la nave d'intelletto piena prenda la mira, e vi ti porti. I legni della Feaciadinocchier JnC$ticri DOD han, né di timon: mente hanno, e tutti sanno i dbcgni di chi &tavvi sopn1. Tu mi racconta, né fraudarmi il vero, i 11U1ri SCOrsi e i visitati lidi. Parlami delle genti, e delle terre che di popol ridondano, e di quante veder t'avven.ae nazioni agresti, crudeli, ingiuste, o agli stnnieri amiche, a cui timor de' Numi alberga in petto. Né mi tacer perché $CCteto piansi, quando il fato di Grcd.a e d'Ilio ascolti.
Se venne da,li Dei strage cotanta, lor piacque ancor che degli eioi le morti
fossero il cao.to dell'età future. Ti ped forse un del tuo sangue a
Troia, scneio PJ'l)Cle, o suocei:o, i più dolci
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OMERO
nomi al cor nostro dopo i figli. e i padri? O forse un lido, che ndl'&mla entrarti sapea, compagno egregio? :S qual mltdlo l'uom che sempre usa tcco, e a cui.fornito
d'alta prudmza l'intd.letto i Numi».
Odis:reo in Itaca (v 217-.360)
Odisseo è stato deposto in Itaca mentre dormiva. Quando si sveglia, una nebbia profonda gli nasconde i segni della sua terra: li vedrà quando Atena disperderà la nebbia. Ora intanto si rivela ancora qual è: dominatore di se stesso, più forte della gioia, com'è stato più forte del dolore. Deue tfl aise, i tripodi superbi contava, e !'urne, e l'oro, e le tessute vesti leggiadre; e non falllagli nulla; ma la sua pauia sospirava, e molti
lungo il lido del mar romoreggi.ante passi e lamen1i fea. Pallade alfor.11,
di pastorello dcli01to in forma, quale un .figlio di re mostrasi al guardo, $'offerse a lui: doppia e ben fatta veste avea d'in1orno ,gli omeri, cahari sotto i piè molli, e nella destra un dardo, Giol Ulisse a mirada, e incontancntc le mosse incontro con tai detti: « Amico che qui primiero mi t'aflacçi, salve! Deh, non mi t'affacciar con ahna ottile: ma questi beni a me serba, che abbrat'cio le tue ginocchia, e te qual Nume invoco. Che terra ~ questa? che città? che gente? Una dell'ondicinte isole forse? o di fecondo continente spiaggia, che scende in sino al mar? Schieuo favella•· • S1olto sci bene, o di lontan venisti, la Dea rispo5,e dall'S22Ui:ro sguardo, se di questa contrada, ospite, chiedi. Cui non ~ noia? La conosce appieno qual ver l'aurora e il sol, qual ver l'oscun notte soggiorna. Alpestra so~e, e male visicavalca,~Ustcndeasslli. Sterile non pttt) torna: di grano risponde e d'uva, e la. rugiada sempre bagnala e il nembo; ottimo pasco i buoi e le capre vi trovaoo, verdeggia d'ogni pianta, e perenhe acqua l'irriga. Sin d'Ilio ai campi, che dal suolo acheo, come sentii narrar, molto distanno, d'Itaca siunge, o forestiero, il nome•. AI nome della patria, che su i labbri dcll'immortal sonò figlia di Giove, s'empi~ di gioia il Laeniade, e tardo a risponder non fu, benchi!'., voliendo nel suo cor sempre gli artifici usati, contraria al vero una novella ordisse.
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L'ODISSEA
Sorrise• questo la. degli occhi azzurra, e con man careggiollo; e uguale • donna bdla1 di gran sembiante, e di f1m1»i la.voti espcru., in un mOIDento app.uve, e• oosl fatti accenti il volo sciolse: • Certo sagace anco tra i Numi e solo colui sula che d'ingannar nel.l'arte te superasse! Sciagurato, scaltro, di frodi insaziabile, non cessi dunque nl!, in patria dai fallaci detti, che ti piaccion cosl sin dalla culla? Ma di questo no.o. più: chi!, d'astuzie ambo maestri siam; ru di gran lunga nmi d'inventive i mortali e di parole sorpassi, tutti io di gran luoga i Numi. Dunque la figlia ravvisar di Giove ru non sapesd, che a te assisto sempre nelle rue prove, e te O)rulervo, e grazia ti fei trovare appo i Feaci? E or venni per ammonirti, e per celare i fatti col mio SOfXO?SO a te splendidi doni, non che narrarti cib che per desti.Do nd No palagio a sopponar ti ttSta. · Tu soffri, bencM astretto; e ad 1101110 o a dolllll l'arrivo tuo non palesar, ma tieni chiusi nd petto i tuoi dolori, e solo col silenzio rispondi a chi t'oluap •· E tosto il ricco di comigli Ulisse: « Difficilmente, o Dea, pub ravvisarti mortai cui t'appresenti, ancor che saggio, tante forme rivesti. Io ben rammento che visitar tu mi degnavi un giomo, mentre noi, figli degli Achivi, a Troia ooinbattevam: ma poichl!, !'alte torri rulnammo di PrillfflO, e $Il le navi pani.tnmo, e un Dio l'achiva oste dispcne, più non ti scbrsi, o del Tonante figlia, Di m'avvidi unqua che m'entrassi in nave, per cavamii d'affanno. Abbandonato solo a me stesso e afflitto io gh1 vagando, fine~, pria che il tuo labbro in ua i Feaci mi confortasse, e nella lor cittade m'introducessi ru, le mie sventure gl'Immonali finire. Ora io ti priego pel ruo gran padre, quando in terra estraili, non nella patria mia credomi, e temo che tu di me prender ti voglia gioco, ti priego dirmi, o Dea, se veramente degli occhi Itaca io veggio e dd piè calco». E la Dea che rivolge az:zuni i lu.ml: « Tu mai te stesso non obblii. Quind'io non pD$W ai mali abbandooarti in preda, tal mostri ingegno, tal facondia e senno. Altti, che dopo error molti giungesse, sposa e qli mirar vorrla repente; e a te nulla sapere o chieder piace, 1e con gran cura non ISSll8IP e tenti
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OMERO
prima la tua, che invan t'aspett•, e • cui scorro.D .acl pianto i dl, scorron le notti. Dubbio io llOll ebbi mai del tuo ritorno, bc.IlCM rit(!mo solitario e t?Uto; se non che al zio Nc:ttwl, con te cr\lC(Ulto del.l'occltlo che spcgoestl al figlio in fronte, rcpugiiar 11on vo.lea, Ma or ti mostro d'Ittica il sito, e a aedermi io ti sforw. Ecco il portO di Fòtcine, e la verde frondosa oliva che gli sorge io cima. Ecco non !unge l'opaco antro ameno, llllc: Nàiadi sacro: la t'Onvessa spelonca vasta riconosci, dove eouombi Jegiuime alle Ninfe
sagrificar solevi. Ecco il sublime Nùito monte che di selve ondeggia-.. Disse, e ruppe la nebbia, e il sito apparve. Giubilò Ulisse alla diletta vista del.la sua patria, e baciò l'alma terra. Poi, levando la tnaD, subiWileiltc
le Ninfe supplicò: ., Nàiadi Ninfe, non credea rivedervi, e con devote
labbra invece io i8lu1ovi, o di Giove nate; a cui doni prugercm novelli, se me io vita conserva, e dl felici a Telemaco IDio coDCede amica la bellicosa del Saturnio figlia-.,
Il cane Argo (p 290-327) C.Osl dicean tra lor, quando Argo, il cane ch'ivi giacu del paziente Ulisse, la testa ed ambo soUevò gli orc,;dU. Nutrillo un giorno di sua man l'eroe, ma c6mc:, spinto dal suo fato a Troia, poco frutto poté. Bensl condurlo contra i lepri ed i t'CfVÌ e le silvC$tri capre solc:a la gioventù robusta. Negletto allor giaces. nel molto 6mo di muli e buoi splll'SO alle porte innanzi.,
finchl'!, i poderi I fecondar d'Ulisse, nel togliessero i servi. Ivi il buon cane, di rurpi zoxhe pien, corcato stava. Com'egli vide il suo signor più presso, e, benché tra que' cenci, il riconobbe, 1quassb la coda festeggiando, ed ambe le o~e. che drizmte avea. da prima, cader lasciò; ma incontro al suo signore muover, siccome un dl, gli fu disdetto. Ulisse, riguardatolo, s'astene con man furtiva dal]a guancia il pianto, celandosi da Eum«J, cui disse tosto: « Eum«I, quale stupor! Nel 6mo giace COIC$to, che I me par cane sl bello. Ma non so 1e del pari ei fu veloce, o nulla valse, come quei da mensa,
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L'ODISSEA
Cl.li nuuon per bcllezu i lor padroni ... E tu cosl gli rispondesti, Ewnèo: « Dd m.io re lungi mono ~ questo il cane. Se tal-fosse di corpo e d'atti, quale lasciollo, a Troia veleggiando, Ulase, sl veloce a vederlo e 5l gagliardo, gran maravi,glia ne trarresti: fiera non adocchiava, che del folto bo$CO gli sfuggisse nel fondo, ela c;\U traccia perde6se lllli. Ot l'infortunio ei. sente. Peri d'Itaca IUJl8e il suo padrnne, né più curan di lui le pigre ancdle, ché pochi di stanno in cervello i servi, quando il padrone lor più non impera, L'onniveggente di SaNrDo figlio mezza toglie ad un uom 1s sua vinude, come sopra gli giunga ildl ser11ile•, Cib deno, il pi~ nd sonNOso albergo mise, e avviossi drittamente ai Proci; ed kgo, il fido can, poscia che visto ebbe dapo dieci anni e dicci Ulisse, gli occhi nel sonno della morte chiuse,
L'incontro con Telemaco (-rt 11-219)
Telemaco è tornato a Itaca da Pilo e da Sparta, ove è andato a cercar notizie del padre; ed è sfuggito, al ritorno, a un agguato dei Proci. È giovane, ma non fanciullo: robusto di corpo, e nobile nell'anima: degno figlio d'Odissea. A lui Odissea può ben rivelarsi, come vogliono gli dèi. Non era Ulisse al fin di questi detti, che nell'atrio Telemaco gli apparve. Balzò Eun::ièo srupefano. e a lui di ma110 i vasi, ove mescea l'ardente vino, caddero: andò,gli inconao, e il capo ed ambi gli baciò i rilucenti occhi e ,e mani, e un largo pianto di dolcczu ~pane. Come tenero padre UD. figlie abbraccia, che il dedm'anno da remota pi.aggia ritorna, unico figlio e tardi nato, per cui soflrl cento d01ori e cento: non altrimenti Euo.co, gittate al collo del leggiadro Telemaco le braccia, tutto baciollo, quasi allora uscito dalle branche di morte, e lagrimando: « TclcmllCO, - gli disse - amato lume, venisti adunque! Io non avca più speme di te veder, poiché volasti a Pilo. Su via, diletto figlio, cnttu ti piaccia, sl ch'io goda mirarti, or che d'altronde od mio soggiorno capitasti appena. Raro i campi tu visiti e i pastori: ma la cit1à riticnti e la funesta turba de' Proci, che osservar ti cale ... e Entrerò, babbo mio, - quegli rispose -
120 ~ per te, per vederti, e le tue voci per 11$COltue, al padiglione io vegno. Restami nel palagio ancor la madre? o alcun de' Proci disposolla, e nudo
dicoltriestra.tieai=.iaragnii.aprcda, giaçc dd figlio di Laerte il letto?•. • Nel ruo palagio - ripi11liava Eumèo riman con al.ma intrepida la madre,
bencM nel pianto a lei passino i giorni, passin le notti, cd ella viva indarno"'· Ciò detto, l'asta dalla man gli prese, e Telemaco il pi~ metlca sul marmo dclla soglia, ed CD.trava. Ulisse a lui lo scanno, in cui scdea, cesse: ma cali dal lato suo non consentlalo, e: • Statti,
foresticr,-disse-assiso;u.naltroseggio noi trovettm nella capano.a nostu., Ni!i quell'uomo ~ lontan, che dar md. punte>.
Ulisse, llldietro fattosi, di nuovo scdca. Ma il saggio guarlllan distese vjrgulti verdi e una vellosa pelle, e il garz:on vi adagiò. Poi le rimaste del giorno addietro abbrustolate carni lor rewsui uglieri; e, ne' canestri posti l'un sovra l'altto in fretta i pani, eilrossovinonelle tazze infuso, ad Ulisse di contra egli s'assisc. Sbramato della mensa ebbero appena
il desiderio natural, che queste Telemaco ad EUlllCO drizzò parole: « Babbo, d'onde quest'ospite? In c:he ,uiM e quai nocchieri ad Iuca il menato?
Omo a piedi su l'onda ci qua non venne ... E tu cosl gli rispondesti, E ~ : « Nulla, figliuol, ti celerò. Natio dell'ampia Creta egli si vanta, e
dic.e
molti paesi mando aver trascorsi per volontà d'un Nume avverso. AlfiDe si calò giù da una tesprozia nave, e al mio tugurio trasse. lo tel consegno. Quel che tu vuoi ne fa': sol ti rammenta ch'ei di tuo suppliC1.11.1e ambisce il nome». « Grave al mio cor - Telemaco ripte$C parola, Eum~, tu proferisti. Come l'ospite riceuar nella patema magion poss'io? Troppo io son verde ancora, né respinaer da lui con .questo braccio chi primo l'essalisse, io mi confido. La madre sta fra due, se, rispeuando 11 comun voce e il maritai suo tetto, viva col figlio e la magion governi, o a quel s'unisca degli Achei che doni le presenta più ricchi ed è più prode. Bensl al tuo forestier tunica e manto, e una spada a due tagli, e bei calzari dar voglio e là inviarlo ov'ei desii. O.e se a te piace ritenedo e cura
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L'ODISSEA
prenderne, io vesti e d'ogni sorta cibi, perché le non consumi e i tuoi compagni, qua i:uanderò. Ma ch'ei s'accos1i ai Proci, che d'ingiurie il feriscano e d'oluaggi con dolor mio, non s!llà mai ch'io soffra. Che potrla contro a tanti e Il valenti nemici un sol, bcncM aniJno50 e fonc? •
Non' p!ll~l ddla ~ta\l; il buo~ cu~tod~, che l'annlgcra Dea DOn se ne 1ddcssc. Scese dal ciclo e somiglian1c in vista 1 bella e grande e dc' più bei lavori femmina es~rta, si fcrtnò alla porta del padiglion di con1re, e a Ulisse apparve. Telemaco non vidcla: ché a tutti non si mosm1r1 gl'Iddii. Vidc1a il padre, e i mas1ini 11 videro, che a lei non abbai~r, ma del corti! nel fondo trepidi si cclaro e guaiolanti. Ella accennò co' sopr:accigli, e il padre la intese, cd uscl fuori, e innanzi stette nella corte alla Dea, che si gli disse: « O Leenlade generoso e accorto, tempo ~ che al tuo 6gliuol tu ti palesi, onde, stermini.o meditando ai Proci, moviate uniti alla citù. Vicina, cd accinla a pugnar, tosto m'avrete._, Tacque Minerva, e della verga d'oro toccollo. Ed ceco circondargli a un tratto belle vesti le mClllbra, e il corpo fusi più grande e più robusto; le guance stendeni, e già ricolorani in bruno, e all'azzuno tir!ll !N ~r lo mento i peli, che parean d'argento in prima. La Dea sparl, ricn1rò Ulisse; e il figlio da meraviglia preso e da terrore, chinò gli sguardi, e poscia: « Ospile, - disse al1rodaqucldiprimaorrnitilll0$trl, altri panni tu vesti, cd a te stesso più non somigli. Alcun per fermo sci degli abitmti dell'Olin:ipo. Amico guàrdanc, acciò per noi vittime grate, grati s'offrano a te dooi nell'oro ron arte srulti: ma tu a noi perdona ... « Non so.no alcun degl'Immorial.i - Ulisse gli rispondca. - PcrcM agli Dei m'agguagli? Tuo padre io son: quel per cui tante soffri nella rua fresca età. sciagure cd onte•. Cosl dicendo, baciò il figlio, e al pianto, che dentro gli occhi avea costantemcote ritcnu10 sin qui, l'uscita aperse. Telemaco d'aver su gli occhi il padre acdcrc ancor noo sa. « No, - replicava Ulisse tu, tu il gcniror non sci, ma per maggior nria pena un Dio m'inpom. Tai cose oprar ooo vale uom da se stesso, cd ~ mesticr che a suo talento il voglia
=
122 rinsiovanire, od invecchiarlo, un Nume, Bianco i capei testé, tw:pe le vesti eri, ed ora un Cellcola pareggi». « Telemaco, - riprese il saggio eroe poco per vcritadc a te s'addice, mentre possitdi il caro padre, solo maraviglia da lui trarre e spavento: cM un altto Ulisse aspetteresti indarno. Sl, quello io son, che dopo tanti affanni dunti e tanti, nel vigesim'a.a.no la mia patria rividi. Opra fu quei;ta della Tritonia bellicosa Diva, che qual più aggrada a lei, tale mi forma, ora un caDUto mendicante, e quando giovane con bei panni al corpo intorno: petti che ab.are un dc' manali al cido, o negli abissi porlo, ~ lieve ai Numi ». Cosi detto, s'ass.isc. Il figlio allora del gmì.cor s'abbandonb ,ul collo, in lagrime :scoppiando ed in singhiozzi.. Ambi un vivo desir sentlan del pianto: né di voci si flebili e stridenti risonar s'odc il-saccheggia10 nido d'aquila o d'avvoltoio, a cui pastore rubb i iisliuoli non ancor pennuti, come dc' pi11.D.ti loro e delle grida miseramente il padiglion sonava.
Od isseo e Antinoo ( p 360-46.5)
I Proci sono nella reggia, quando, dopo tanti anni, vi ritorna Odisseo. Uno spicca tra tutti, come Euriloco tra i compagni.; Antinoo. t come il loro cattivo genio. Gli altri possono ancora avere, qualche volta, pietà d'un mendico, e possono ancora aver paura, qualche volta, della punizione divina: Antinoo no. Poi anche gli altri saranno compiutamente accecati, e insulteranno, e, resi folli dagli dèi, rideranno del mendico. In quel momento la vendetta avrà compimento. SuepitavlUlO i Proti entro la sala; ma Palla, al figlio di Laerte apparsa, l'esortò i pani ad eccauu dai Proci, tastando chi più asoonda, o men triste:zza, benché a tutti la Dea scempio desii.Di. Ei volse a destra, e ad accattar da tutti gla, stendendo la man, cqme se mai esercitato non avesse altr'ute. Mossi a pie1ade, il soccorreano, e forte nupiano, e domandavansi a vicenda, chi fosse, e donde il forestier venisse. • • Gli alui cortesi gli eran pur d'alcun che, sl th'ei trovossi di carni e pani la bisaccia colma. Mentre alla soglia, degli Achivi i dO.Di per g,mar, ritornava, ad Antinoo li fermò imww, e disse: « Amico, nulla
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L'ODISSEA
dunque mi porgi? Degli Achivi il primo mi sembri, come quei che a re somiglia. Quindi,. più arK"Or che agli altri, a te s'addice largo mostrarti: io le tue lodi, il giuro, per tuua spargerò l'immensa terra. Tempo già fu ch'io, di te al par felice, belle Cll$C abitava, e ad un ramingo, qual fos$C e in quale stato a mc venisse, del mio largla: molti avca servi, e nulla di cib falllacni onde gioiWln quelli che ricchi e fortunati il mondo chiama. Giove, il ~ ci ne sa, strugger mi volle, ei, che in Egitto per mio mal mi spinse con ladroni moltivaghi; viaggio lungo e funesto. Nell'Egitto fiume fermai le ratte navi, cd ai compagni ttstarnc a guardia ingiunsi, e qucll'igi:10ta terra il'C alcuni ad esplorar dall'alto. Ma questi da un ardir folle e da un c:icc:o desio portati, a saccheggiar le belle campagne degli Egizi, a via menarne le doMe e i 6gli non parlanti, i grami coltivatori a uccidere. VolollllC tosto il rornore alla città; ~ pIWI l'alba s'imporporò che i cituidini vennero, e pieno di cavalli e fanti fu nmo il campo e dd fulgor dcll'lttmi. Cotale allora il Fulminante pose dcsir di fuga dc' compagni in petto, che un sol far testa non osava; uccisi ffk parte, e parte pl:'CSi e ad opl'C dure sforzati; e ovunque rivolgcansi gli occhi, un disastro apparla. Mc conscgnaro a Dcmctorc Jasidc, che in quelle parti era giunto e dominava in Cipro, dond'io, carco di mali, al fin qua venni», E di nuovo cosl d'Eupitc il tiglio: « Qual Genio avverso uoa si fatta luc, le nostre mense a conturbar, ci addusse? Tienti nd mezzo e dal mio desco !unge, se un'alna Egitto amara, e un'altra Cipro trovar non brami in I taca. lo JDC11dico mai non conobbi più impudente e audace. T'offri a ciascun l'un dopo l'altro, e allarga ciucun per te la man SCllZll consiglio: ché rotto cade ogni ritcpo, dove regna la copia e dell'altrui si dona». « Poh! - replicava il Lm:ziadc, indietro ritirandosi alquanto, - alla sembianza poco l'animo adunquc in te risponde. Chi mai creder potrla che pur di sale a supplicante tu daresti un pno dalla tua mensa, tu che un frusto darmi dalJ'altnri non 5apcsti, e cosl tkca? ». Montb Antinoo in più furia, e, torve Ul lui fiasando le pupille: « Ora io non penso che uscirai quinci con le membra sane,
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OMERO
poscia che all'onte ne venisti•. Disse:, e afferrò lo sgabdlo, cd avventollo, e in su la punta della destra spalla percosse il foiestiero. Ulisse fCIID.o steue qual rupe, n(!; d'Antinoo il colpo smosselo: bensl tacito la 1csta aollò, agitando la vendetta in core.
L'ingiuria di Ctesippo e il folle rUo dei Proci (u 281-394) Quo.r vult perdere, Deus prius amentat: appare qui il tema della cecità, che ritornerà vigorosamente nelle tragedie di Eschilo e di Sofocle e d'Euripide. Tutto presagisce l'imminente rovina dei Proci, ma essi non vedono, e, ciechi, ridono, follemente ridono, in quello ch'è il loro ultimo banchetto, l'ultima colpa. Patte uguale con gli altri
llllC(I
ad Ulisse
fu posta innanzi dai ministri, come volle il caro figliuol; n(!; degli oltraggi. però Minerva consentia che i Proci rimettessero un punto, acdoccM al rcgc l'ira più addentro penetrasse in petto. V'era tra loro un malvagio uom, che avea nome Ctesippo e dimorava in Same. Costui, fidando ne' tcsor patemi, la consorte del re con gli altri ambiva. Surse, e tsl favellò: « Proci, PSCO!tate. Il forcstier, qual conven\asi, otteMe parte uguale con noi. Chi mai vorr\1 di Telemaco un ospite fr1udamc, chiunque fo53e? ON io di fargli intendo un nobil don, ch'egli potrà in mercede dar poscia o al bagnaiuolo o a qual tr1I i serri sli piacerà dell'immortale Ulisse •. Cosi dicendo, una bovina zampa levò su da un canesUO, e con gagliudl llWlO avventolla. L'inconcusso eroe sfuggilla, il capo declinando alquanto, ed in quell'ano d'un cotal suo riso s.rdonico ridendo; e il pi~ del bue a percuotere andò nella parete,
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Disse, e Minerva inestinguibil riso destò ne' Proci, e ne tnivolsc il senno. Ma il riso era strMicr su quelle guance; ma sanguigne inghioulan delle $iOZZBle bestie le cai:ni, e poi d9gll occhi a un tratto QOrgava loro un improvviso pianto, e di previsa disvenrura il duolo ne' lor peni regnava. E qui lcvossi Tcoclirneno, il gran profeta, e disse: e Ah miseri, che vcggio? E qual v'inCODtra caso funesto? Al corpo intorno, intorno d'atra notte vi gira al capo un nembo. Urlo ti.ero scoppiò; bagnansi i volti d'involontaric !egri.mc; di sangue tingonsi le pareti ed i bei palchi;
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L'ODISSEA
l'atrio s'empie e il conii d'ombie, che in fretta giù disccndon nell'Erebo; disparve dal ciclo il sole, e degli aerei campi una cttiisa caligine indOD.Dossi ». Tutti beffarsi del profeta, e QUClite voci Euriinaco sciolse: « Il forestiero, che qua VCllfle testé non so da dove, vaneggia, io penso. Giovani, su via, mettetel fuori, ac:ciocdié in pi~ ei vada, poscia che qui per none il giorno prende ». E l'indovino: « Euriinaro, - rispose COIClite guide, che woi danni, tienti. Occhi ho in testa ed orecchi e due piè sotto e di teUlpra non vile un'alma in petto. Con tai soccorsi io sgombrerò, scorgendo il .mal che sopra voi pende, e a cui 16rsi non potù un sol di voi, che gli stranieri oltraggi.aie e st1.1di11te iniquitadi nella magion del pari ai Numi Ulisse•· Ciò detto, usd da loro, ed a Pii:èo, che di buon g{&.do il ricevé, s'addusse, Ma i Proci, riguardandosi a vicenda, e belle d'ambo i forestier facendo, provocavan Telemaco: « Non havvi talun dicea - chi ad ospiti stia peggio, Telemaco, di te. L'uno è un mendico enante, ormai di fame e we mono, senza prodezza, SCIIZ8 industria, peso disutil della terra; e l'altro un pau.o, che, per far del profeta, in piè si leva, Vuoi tu questo seguir, ch'io ti propongo, HDO partito? Ambo gittiamli in nave, e li mandiamdcllaSiciliaai lidi. Più giove{&.nno 11 te, &e tu li vendi », Telemaco di lui nulla curava, ma levati tenta tac:i.10 gli occhi nel genitor, sempre aspetta.ndo il punto, ch'ei fauo contra i Prod impelo avrebbe. In faccia dells. sala, e I.Il ru la porta del ginccèo, da un suo lucente seggio tutti i lor detti la regina ud.la. E quei, ridendo, il più soave e lauto, però che molte avean vittime uccise, convit0 celebrir: ma più ingioconda ocn. di quella non fu mai, che ai Proci, degna mertt della nequizia loro, at11wn per imbandir Palla ed Ulme.
Ul prova dell'arco e l'inizio della vendetta (cp 42-X 16) Penelope promette di sposare quello dei Proci che tenderà l'arco, ch'era stato di Odisseo, ma nessuno ci riuscirà. Solo il deriso mendico vincerà la prova: e sarà questo il suo modo di svelarsi e di cominciare l'opera della vendetta.
Come pervenne alla sectetll stanza l'egregia doM&, e il limitar di quercia llll consttutto I squadra e ripolito
126 da fabbro industrc, che adattovvi &DCON le imposte ferme e le lucenti porte, tosto la fune dell'anello sciolse,
e introdusse la chiave, ed i serrami respiase: un rimugghiar, romc di tauro che di rauco boato empie la valle, s'udi, quando le pone a lei s'apriro, Ella montò su l'elevato palco, dove giaceano alle bcll'archc in grembo le profumate vesti, e, distendendo quindi la man, dalla caviechia l'arco con tutta distaccò la luminoa vagina, entro cui stava. Indi s'assise; e, quel posato su le sue ginocchia, ne' pianti dava e oc' lamenti: alfi...e
dalla custodia $UII l'arco fu.or trasse. Ma poi~ fu di lai saz.ia e di pianti, e dc' Proci nel cospeuo venne, quello in man sostenendo, e la faretra gravida di mortifere saette: mentre le ancelle la segulan con cesta del ferro piena, che leggiadro a Uli&se di fona esercizio era e di destte22a.
SCC$e,
Giunta ove quei sedean, fermava il piede della saladedaleainsulasoglia tra l'una e l'altra ucclla, eco' sonill veli del crine 8IIlbo le guance 0tnbrava. Poi sciogliea tali w:eI1ti: « O voi, che in questa
wa, lontano Ulisse, a forza entraste gl'in1cri giorni a consumu tra i nappi, ~di talt1:itàmigliotdifC$a 11pes1c addur che le mie nozze, udite: quando sorse il gran dl, CM la mia mano ritener più non degsio, ecco d'Ulisse l'arco, che per certfflle io vi propongo. Oii tcnderallo e passerà per tutti con la freccia volan1e i ferrei CCl'CN, lui seguir non ricuso, abbandonata questa si bella e di ricchc:z:ic colm.a mag.ioD dc' miei verd'I.D.DÌ, ond'anchc in sogno dovermi spesso ricordare io penso». Disse; e, chia.cna.10 Eumco, recare al Proci l'arco gl'ingiunsc e degli a.Dclli il ferro. Ei legrimando il prese, e nella ula dcposclo; e Filczio in alua pane, vista l'arma del re, pianlO versava. Ma ssridavali Antlnoo in tai parole: olo: • Infelice, perch6 ti lamcn1i1 ti tiene uno molto più forte; dove vordl dovri.i venire, e • nulla ti varri il tuo can.10: da me dipende fare di te U11 boccone, oppur luciarti andare. Stolto l chi vuole contendere con uno più forte: l vinto, e alla veqoana auilll!IC il danno 1t. Cosi disse lo spa.rvieio velot-e. Ma tu, o Perse, segui giustizia: fa' che 11011 cresca in te prepotenza: essa l funena al debole; e neanche il fotte pub sa&tenerla, ma dal suo peso l schiacciato, quando incontn sventura. Prefo. !ibile l la 1trada che mena a giustizi.a, chll!: alla fine il castiao s'abbatte sul prepotente e lo stolto unpara1sue1pese,
La legge di Ze,u (vv. 274-292) O Perse, questo imprimiti in meme: segui ai,ustizla e aempn utientl. da opere violente. Questa leue impose .,ti uomini il figlio di Clono, che i pesci e le fiere e ali uccdli si divorino tra loro. chll!: fra essi non c'~ ai,ustizia; ma qli uomini diede al,ustiaia, il sommo del beni. A chi COnc>k:e e obbedisce a giustizia Zeus omaivqsente dona prosperità; • chi illvece 1peqiura e afferma il fallO, e violando ai,ustizia irrimediabile colpa commette, 11N distru.tu la stirpe nei uri disceJkienti; di chi ouerva il a,iuramenlO prospererà la pn,aenie... Il male, fadlmente e 1n pan copia ponimo a'ffl:lo: piana l la via e a noi mnlto vicimi,
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LE OPEll E I GIORNI
Ma il bene gli dèi immortali vogliono che çol sudore lo conquistiamo: lunp cd erta è la via che vi meua e liSpra in principio; ma giunti in cime, la via difficile diVC11ta facile.
Il lavoro (vv. 308-326) Col lavoro gli uomini acquistano ricchei:ia di greggi e di beni; e moho più cari il lavoro ll rende agli d~. Il bvoro non è vergogna, vergogna è l'ozio. Se lavori, presto diventerai ricco e t'invidierà l'ozioso: a ricchezza s'accompagnui gloria e virtù ... La ricchezza COIICCS5a dagli dèi vale molto di più di quella rubata. Se qualcuno acquista ,rande ricchC2:ZB. con la violenza, o con la frode, come avviene speS$0 quat1do il guadagno accieca la mente degli uomini e l'impudenza soppianla il pudore, facilrnen1e gli dèi annientano lui e LI sua casa., e poco dura la sua fortuna..
L'a,aJu,a (vv. 448-57; 485-90) Bada, allorcM della gru tu odi LI voce nell'alio, che di lassù, dalle nubi, ogni anno il clangor suo lnlbda, Dell'aratura ti porta il segnale, ed il 1empo ti mosin già delle pioggie, ed il cuore, se noe1 hai bovi, ti morde. Tempo di pascere i bovi di pel liscio, entt0 la stalla. Facile chiedere: ., Presumi il paio de' bovi ed il carTO »; facile ancora rispondere: "' I bovi han pres10 che fare». L'uomo ch'è savio per st, può dire: « Mi fabbrico un arro »; bimbo, clic non st1 già: "'Son cen10 gli ,ggeggi del carro cui prorurar fa d'uopo da prima ed avere per asa • ... E se pur tardi arerai, medicina può esserci: questa: quando tu senti il cucù del cuculo tra i rami del lecci.o, la prima volta che gli uomini via per la terra rallegra, prega che venga di lt a due giorni una pioggia, m~ spiova prima ch'empisca n~ meno n~ più d'un'unghiata di bove: quello è un arare sul lardi che agguaglia l'arare per tempo.
( tnd. di G. Pascoli)
111 sementrJ (vv. 465-72) Prcg11 ncll'a.niroa il dio di sottern., e la dea della wn nel cominciar l'aratura, nel prendere in mauo la 5tiva, quando ti metti alla coda de' bovi attaccali al timone per il cavicchio del giogo; W10 schiavo garwne ti segua con un marrello che metta, agli. uccelli che bc«ano, impucio, e la 6Cf!1Cnta ticopra; perdi!!, pazienza gli è il meglio cb'abbiano gli uomini in tcrn, e l'llllpazicn:a gli è il peggio.
(trad.diG.Puaili)
L'inverno (vv. 504-3') Mese dei lbrcoli, dl ben tristi, che spellano i bovil IUl?datene! Sulla terra si formlllO allora, al soffiare del tramontano, per tutto i ghiaocioli molesti alla gente. ES$O uaverso la Tracia che pasce pollcdri, $l leva, soffia ncll'amplo mare, e la iena ne mugola e il bosco: roveri molte che ID alto frondcggiano, abeti ramosi e' nelle forre dc' mo.nti diradica e getta per terra,
162 foro avventandosi, e l'innwt1enbilc ~ ne Jridti, Rabbrividiscono i bruti e si serrano al ventre 11 coda. Hanno 11 pelle bcnsl tlltt'ombra di laDlll, ma pure gelido penctr-a il vento attraverso le pancic vcllose: anche dal cuoio de' buoi via passa, che nulla lo tiene: anche alle capre ei ,iungc, da1 pendulo vello; le greggi.e, no, eh 'han lana pcrc:nne, non passa la forza del vento di tramontana; e il vec:chictto ttottar fa gobbo in istrada. E non uriva alla dolce fanciulla dal tenero corpo, che se ne sta nella casa, vicina alla cara sua madre, nella stagione invcroalc, allo~ 'I Senz'ossa' il suo piede là nella lugubre osa, ove fuoco non arde, si rode, eh~ non il sole gli mostra la vi, dc' suoi pascoli; il sole che per il popolo e per la città degli uomini neri Vl)lge5i ancora, e per più breve ora apparisce aJli Ellùii. Ecco i dormenti alla macchia, wmigeri e senza le corna, via, con un dirugginio delle zanne, per folle qucrcetc fuggono, come smarriti, cM sol hm tutti in pensiero
di ritrovarsi al coper10 dov'hanno le soffici lane o le incavate spelonche. Ecco gli uomini simili al v«cl:tlo ch'ha tre piedi, e la schieaa spezzata, ed il capo che a terra guuda: cosi se ne vili.fio, schermendo Ll candida neve. (trad. di G. Pascoli)
Altro è il mondo de Le opere e i giorni da quello della Teogonia: mondo di uomini, non mondo di dèi; ma, poiché, se gli dèi possono vivere senza gli uomini, gli uomini non stanno senza gli dèi, la costruzione stessa del poemetto si fa più complessa; c'è un ampio preludio in cielo col racconto della contesa tra Prometeo e Zeus e del fatale dono di Pandora, e un grande preludio sulla terra col racconto del succedersi delle varie generazioni create e distrutte da Zeus. La poesia, la grande e nuovissima poesia delle Opere, ha due toni fonda. mentali, che già s'avvertono nei prologhi, e più s'avvertono dopo: risuonano or l'uno or l'altro a seconda che Esiodo guarda alle aspre contese degli uomini ingiusti o alla serena fatica degli uomini giusti. Ma il secondo prevale sul primo: perché il poemetto di Esiodo è nella sua intima sostanza un iMo sereno alla pace, posta di contro al triste mondo dell'avida colpa: in cui la poesia si rivela più per le impressioni che suscita che per i pensieri che esprime, a volte anzi per le impressioni che nascono dallo stesso silenzio. Si guardi, ad esempio, alla novelletta dello sparviero e dell'usignuolo: Esiodo la racconta per trarne spunto a rivolgere a Perse, il fratello colpevole ed avido, questo ammonimento: « Ma tu, o Perse, segui giustizia: fa' che non cresca in te prepotenza: essa è funesta al debole; e neanche il forte pub sostenerla, ma dal suo peso è schiacciato ». Ora, c'è come un salto tra la novelletta e l'ammonimento, perché la novella non mostra il danno della prepotenza: nessuna pena colpisce lo ~parviero feroce. GU è che Esiodo, mentre, quando pensa e ragiona, è convinto, o vuol essere convinto, che alla colpa segue il castigo, dentro di sé sente che la colpa è un male per sé, è brutta per sé, detestabile per sé: ed è questo sentimento che gli suscita il ricordo dello sparviero e dell'usignuolo, è questo sentimento che è fatto rivivere dalla poesia. Esiodo infatti parla non di due uccelli senza nome, ma proprio dello sparviero, l'uccello che vive di preda, e dell'usignuolo, l'uccello dal canto triste e dolcissimo, l'uccello tra tutti il più caro ai mortali. E sa che la vittoria sarà dello sparviero feroce ed ingiusto, I
[I polipo.
LE OPERE B I GJOJI.NI
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non dell'infelice usignuolo: ma sente, e fa sentire, che compassione desta l'usignuolo ghermito dagli artigli dello sparviero, e disamore suscitano le aspre parole dello sparviero prepotente: -« Infelice, perché ti lamenti?... dove vorrò dovrai venire, e a nulla ti varrà il ruo canto ». È un breve squarcio, ma rivelatore del mondo spirituale del poeta, e del modo della sua poesia, Poi c'è, sl, una pena nel mondo. Esiodo la conosce questa pena, la sente, la fa sentire: e « Oh - esclama, - non fossi io nato nella quinta generazione, ma fossi morto prima o nato dopo! La generazione nostra è di ferro. Né di giorno né di notte cesseranno fatiche e miserie»; e ha momenti di amarezza angosciata, quasi impeti di ribellione, e « Non voglio essere giusto tra gli uomini - grida, né che lo sia mio figlio, se l'ingiusto uionfa »; e soffre e fa sentire la sua pena al vedere che sulla terra tanti sono gli ingiusti, che tanti padri sono spregiati e privati di nutrimento dai figli, che è calpestato il giuramento, che la forza è fatta diritto, che ogni sentimento puro è negato o rinnegato. E la sofferenza amara gli suggerisce visioni apocalittiche, come là dove egli dice dei mali che si estendono e s'aggravano nelle città, con le donne che son fatte sterili, con la fame e la peste e la guerra che infieriscono e devastano il mondo. Cosl profonda è l'amarezza, e cosl viva la rappresentazione, che perfino quel grandissimo tragico che fu Sofocle, nel suo tragicissimo Edipo, prende a prestito i suoi colori da Esiodo. Ma gli sdegni e la tristezza e l'amarezza servono da sfondo: in piena luce è la visione serena d'un mondo di pace. Già nelle prime pagine c'è un accenno che prepara il grande canto, una nota di preludio, là dove Esiodo descrive la beatitudine della stirpe nata nell'età antichissima dell'oro; e ancor prima, là dove, parlando degli uomini che commettono ingiustizia: « Stolti - esclama, - stolti, che non sanno... quanta ricchezza è nella malva e nell'asfòdelo ». Poi, dopo il prologo in cielo e sulla terra e dopo la rappresentazione dei mali, è la visione del mondo migliore, del mondo degli uomini laboriosi in pace feconda, dove il vicino è amico al vicino, dove l'uomo dona e riceve, lieto di ricevere e lieto di donare: ~ L'uomo che dona volentieri, anche se molto dona, è lieto del dono che fa, felice nel suo cuore»; dove l'uomo lavora e rispetta le leggi di Zeus e cospira con Zeus; e scruta il cielo, e amico lo sente. Ogni gesto, ogni fatica, ogni strumento dd contadino acquistano allora per Esiodo, per il sentimento di Esiodo che ama la pace e la campagna e il lavoro, valore religioso: tanto che li nota con cura non minore di quella con cui Omero descrive le sacre cerimonie e racconta le imprese degli eroi cari al cuore di Zeus. Ecco: -« Abbi anzitutto una casa, una donna, un bue per l'aratura: non parlo della sposa, parlo di una donna acquistata che sì curi dei buoi: e prepara nella casa gli strumenti che ti possono servire ... Quando il sole non brucia più e Zeus versa le piogge autunnali ... allora taglia la legna per prepararti gli attrezZi.. Taglia un monaio di tre piedi e un pestello di tre cubiti, e un asse di sette piedi. È il meglio. Anzi, se lo tagli di otto, ne puoi ricavare un martello ». Mondo, si suol dire, umile: ma mondo religiosamente amato, che conosce la pena, che sopra la pena gode la pace. Esiodo ha amato, ha. sentito, ha poeticamente rivelato lo splendore della pace, in modo che lo stesso grandissimo Virgilio ha talvolta, come Sofocle, accolto da lui i suoi colori.
I lirici Non cessa, con Esiodo, la creazione di poemi epici o di poemi religiosi: del
resto alcuni poemi del ciclo sono posteriori a lui, Ma a noi resta soltanto qualche nome e qualche titolo. Nel VII e nel VI secolo acquista invece vigore un altro genere letterario, che non è racconto, come era l'epopea, né rappresentazione, come saranno la commedia e la tragedia; ma è, come dire?, esortazione, ricordo, effusione, meditazione: insomma lirica. Lirica era, per gli antichi, la poesia cantata con accompagnamento musicale:
anzitutto con accompagnamento della lira, o cetra, poi con accompagnamento di uno strumento a fiato, forse un flauto, forse un clarinetto o un oboe. Gli antichi, entro il più ampio genere lirico, distinguevano da una parte l'elegia e il giambo, da principio canti accompagnati dal flauto, poi recitati, e dall'altra la melica, rimasta
costituita da poesie cantate, a volte da un solo cantore ( melica monodica), a volte da un coro ( melica corale). Ora è uso che nelle storie letterarie si raggruppino insieme i poeti elegiaci, i poeti giambici, i poeti melici monodici, i poeti melici corali. In quest'uso c'è un che di schematico, che falsa la prospettiva: si pensi infatti ad Archiloco e a Solone: Archiloco è forse il più antico scrittore di elegie che noi conosciamo; e Solone scrisse trimetri giambici e tetrametri trocaici oltre che elegie. Ma Archiloco compare nelle storie come poeta giambico, e Solone come poeta elegiato. Tale uso risale ai grammatici alessandrini, che avevano rigidamente classificato i vari poeti nei loro canoni: il carattere della poesia d'Archiloco ad essi appariva segnato soprattutto da.lla violenza dei giambi, quello della poesia di Solone segnato soprattutto dalla pacata meditazione delle sue elegie: e :0sl Archiloco è divenuto poeta giambico, Solone poeta elegiaco. Forse sarebbe preferibile ordinare i poeti cronologicamente: ma chi sa di preciso l'ordine cronologico? e, anche se riuscissimo a distinguere entro il VII e il VI secolo il poeta nato prima, come potremmo dire se quel determinato frammento di Tirteo è anteriore o posteriore a quel determinato frammento d' Archiloco? Dunque forse è necessario accettare la tradizione, e raccogliere e dividere secondo l'antico schema, pur non dimenticando che si tratta di una convenzione: ogni poeta del resto ha una sua nota, un suo sigillo personale; e vale essenzialmente per quella nota, per quel sigillo.
I.
GLI ELEGIACI
Mirabile verso era l'esametro dattilico. Omero se n'era servito per raccontare le magnanime imprese degli eroi, Esiodo per raccontare la genealogia degli dèi. Nei discorsi dell'Iliade e dell'Odissea l'esametro aveva poi anche mirabilmente espresso i timori e l'appassionata ansia di Andromaca e di Penelope, l'implacata collera di Achille, il disperato pianto di Ecuba, l'affetto devoto di Eumeo, le magnanime risoluzioni di Ettore d'Odissea di Sarpedone; e ne Le opere e i giorni di Esiodo era stato mirabilmente usato ad ammonire l'empio e a descrivere l'opera pacata del contadino. Era dunque un verso adattissimo anche a quella che noi diciamo espressione lirica. Ora il distico elegiaco è una brevissima strofe di due esametri; il secondo, impropriamente detto pentametro, lievemente e stabilmente diverso dal primo. Tale strofe, meno adatta ad ampi svolgimenti, fu usata per quei brevi componimenti lirici che noi appunto diciamo elegie. CALLINO E TIRTEO
Forse fu Archiloco il primo poeta elegiaco, forse, anzi pià probabilmente, Callino di Efeso, città dell'Asia Minore. Durante la vita di Callino una popolazione del nord, i Cimmeri, invase l'Asia: e Callino esorta in un componimento elegiaco i suoi concittadini a difendere la patria. Ma, per quel poco che ci resta, Callino è per noi poco più che un nome: tanto più che di quel frammento, che solo è ampio, è contestata l'autenticità, Il primo poeta elegiaco di cui possiamo farci un'idea, se si prescinde da Archiloco, è per noi Tirteo, vissuto anche lui nel VII secolo, più di preciso durante la seconda guerra messenica. Alla guerra messenica s'ispirano, per gran parte, le elegie che possediamo, esortazioni ( V:im&fptal) rivolte agli Spartani, a combattere valorosamente. Ma Tirteo forse non era spartano. La leggenda riferita da Pausania, scrittore del II sec. d. C., raccontava che gli Spartani, non riuscendo a vincere i Messeni, avevano interrogato l'oracolo, che l'oracolo aveva loro comandato di chiedere ad Atene un capitano, e che gli Ateniesi, per scherno, avevano mandato a Sparta quale capitano un maestro di scuola, per di più zoppo: appunto Tirteo. Era dunque ateniese Tirteo? o cli Mileto, come è in un'altra testimonianza antica? Licurgo, oratore ateniese del V sec. a. C., credeva che in gran parte da Tirteo venisse l'educazione, lo nail3da di Sparta. Certo è, comunque, che, fosse ateniese o spartano o milesio, le elegie cli Tirteo mirabilmente s'adattano al popolo di Sparta, come noi lo conosciamo da tutte le nostre fonti. Dicevamo, nel capitolo su Esiodo, che due grandi maestri ebbe la Grecia, Omero ed Esiodo, esaltatore dell'eroismo il primo, della giustizia il secondo. Tirteo s'avvicinava piuttosto a Omero che a Esiodo, almeno nella maggior parte dei frammenti che ci sono pervenuti (ma un accenno alla necessità della giustizia c'~ nel frammento di un'elegia, che doveva portare il titolo di Eunomia). Motivo
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fondamentale delle elegie è infatti questo: siano coraggiosi i giovani, combattano vigorosamente, non fuggano mai: bello è morire in battaglia, miserevole la vita del vile ch'è fuggito e dovrà andarsene in esilio. Tuttavia c'è UJ)a diversità profoDda tra Omero e Tirteo: ed è diversità di concezione e rpo~rnero e Tirteo conoscono del pari gli à'QurrnL, i nobili appartenenti alla classe politica imperante nelle città: ma quanta differenza tra uomo e uomo Omero sapeva scorgere (e quale mirabile molteplicità di motivi, di temi, di contrasti, di toni ne nasceva!) entro la classe politica! come emergevano sugli altri alcuni eroi: Aiace, Od.isseo, Diomede, Sarpedone! e quale meraviglioso eroe d'infinita purezza, modello degli eroi, era quell'Ettore, che pur era destinato alla sconfitta! e come sullo stesso Ettore s'alzava Achille! e com'era sostanziato di dolore o di malinconia l'eroismo e di Ettore e d'Achille (e quale nuova ricchezza di poesia nasceva dalla rappresentazione del dolore magnanimo e della magnanimità dolorosa o melanconica)! Tirteo invece quasi non vede che la classe, e ignora il dolore e la malinconia dell'eroe: « O giovani, su, combattete, saldi restando gli uni vicini agli altri». L'individuo è quasi sommerso nella classe o nella città: non spicca, non s'alza, e, se spicca, non ha un suo nome, un suo volto, un dramma suo proprio (e la poesia si fa monocroma, senz'ampio respiro). Poi: davanti a una scelta è posto l'uomo per Tirteo come per Omero. Ma si pensi alle parole di Ettore quando Andromaca lo prega di non scendere in campo, in nome del suo amore e di una serena vita nella casa: « Anch'io - dice Ettore, anch'io patisco come te: ma penso ai Troiani e alle Troiane che mi direbbero vile: e poi, da quando ho imparato a combattere davanti agli altri, l'animo mio stesso non mi permette di star lontano dal campo ». E si ricordino le parole di Sarpedone a Glauco: « Bella è la nostra vita, onorata, raffinata - dice in sostanza l'eroe; - ma è breve, non immortale. E che vale il caduco a paragone dell'eterno? Dunque si rinunci alla gioia breve per la gloria eterna»-. Dice invece Tirteo: « Miserevole è la vita del fuggiasco: sarà disonorato e mendico; bella è invece la sorte del valoroso: avrà, se vive, vita gioconda e onorata, e avrà gloria dopo la morte. Dunque si rinunci alla miseria in vita e dopo la morte per avere gioia in vita e gloria dopo la morte». Al paragone della scdta magnanima di Sarpedone o d'Ettore o d'Achille, quella di Tirteo è scelta mediocre. Gli è che Tirteo sembra non conoscere gli dèi. La gloria per Omero veniva all'uomo dal dio, quando l'uomo si faceva simile al dio. Per Tirteo invece la gloria all'uomo viene dalla città. Sicché l'eroe omerico obbedisce a un imperativo divino, il valoroso di Tirteo obbedisce a un comando della città. Per dire tutto in breve: c'è una mistica in Tirteo e c'è una mistica in Omero. Ma la mistica di Tirteo è politica, la mistica della città che, mentre esalta, anche invilisce il sacrificio del cittadino, comandato, non spontaneo; la mistica d'Omero è invece quella religiosa che esalta e santi.fica senza deprimerlo il sacrificio spontaneo e generoso dell'eroe,
Bello l morire per la patria ( D 6) Bello ~ all'uonio valoroso mori~ combanendo per la patria nelle prime file, cosa la più ttiste del niondo lasciare 11 città patria e i campi opimi, e andare per la terra mendico e vagabondo con la dileua niadre e il vecçhio padi:e e i piccoli figli e la giovane sposa. Uno smniero qli ~. dovunque vada, spinto dall'odiosa niiseria e dal bisogno; e mao:hia la s~a stirpe, deturpa il suo decoro, ed ogni infamia, ogni miseria l'accompagna. Se dunque nessun bene può godere, ni aku.n rispetto, l'uomo che va randagio, n~ lui n~ la sua stirpe, per questa terra combattiamo t'Oll t"Oraggio, e pei figli moriamo, pei fisii facciamo il saawio della vita.
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Esortazione ai giovani (D 7) O giovani, su, c:omb11tc1c, saldi renando gli uni vicino agli altri, e da fuga vergognosa trattenetevi vincendo la paura. Grande e forte fate nel petto il cuore, e con ardore combattete, né vi freni l'amore della vir11. Non fuggite, non abbandonate i vecchi, le cui. ginocchia vacillano: tutpe cosa è che un vecchio, cadendo nelle prime file, giaccia davanti ai giovani, c. bianchi i capelli e la barba, nude le membra, esali nella polvere l'anima fone, mentre tiene nelle mani le vergogne insanguinate - infamia e sdegno a chi lo vede. Al giovane ogni cosa è bella, finché si uova nello splendido fiore dell'amabile giovinena; =irato dagli uomini, amato dalle donne se vive, bello se giace nelle prime file. Resti dunque ben saldo, piantati i piedi al suolo, le labbra mordendosi coi denti.
Il coraggio e la gloria ( D 9) Non serberei memoria, nessuna stima avrei d'un uomo che pur foue valente nelle. corsa o nella lotta; né se avesse la forza dei Ciclopi e vincesse nella corsa il tucio Boreii, né se fosse più bello di Titone, più ricco di Mida e di Cinira; n~ se fosse più resaJe di Pelope Tantalide e oon
voce melodiou ,I par d'Adrasco; n~ se avesse tutta la gloria, ma noa avesse poi l'ardir di un cuore intrtpido. Non è in guerra valoroso chi non soppotta la vista della strage s.anguinosa, e i nem.id non oolpisce assalendoli da presso. Questo è valore, questo è tra gli uomini massimo premio, i! più bello cui un giovane possa aspirare, gloria comune è questa per la città e per il popolo: chi ben saldo rimanga combauendo ndle prime file senza mai meditare uisto la fuga, ma animo forte opponga e cuor ben saldo, e oon la parola assista e incoraggi il vicino: questo è l'uomo prode. E subito disperde irte falangi di nemici, e pronto frena l'onda della battaglia. E s'egli muore cadendo nel.le prime file, procurando sloria alla patria e alla sua genie e al padre, tcmpeslati di colpi lo scudo ombclicato e la corazia, trafitto il peno da molle ferite, lui piangono insieme giovani e vecchi; tutta la città geme accorata e lo rimpiange; e il suo &epolcro e i figli tra gli uomini saranno insisni, e i figli dei figli e la tllroll progenie. N~ mai perisce la sua gloria eccdsa, ~ il suo nome; ma pur sotterra vive immortale chi, resistendo valorosatnente e combauendo per la patria e i figli, cade nella mischia. Che se al destino doiol'OSO di morte invece si sottrae, splen• elida gloria di guena vincitore oonsegue, da tutti onorato, giovl.D.Ì e vecchi, e dopo molle gioie 5tende nell'Ade; vecchio, eccelle tra i cittadini, n~ alcuno ne tocca l'onore e il ditino, ma tutti quanti, giovani e vecchi, dai seggi s'alzano e il posto gli cedono. Al soro.mo di ques10 valore osnuno cerchi di giungere: n~ tema in suo cuore la IJUCffil.
Monocroma, non ricca, non profonda, dicevamo, è la poesia di Tirteo: ma non è priva di un suo vigore. Tirteo ha avuto vivo il senso della desolazione dell'uomo bandito dalla società, vigoroso il senso dell'onore e della gloria. E il sentimento etico, il suo sentimento del bene e del male, egli lo ha fatto vivere nelle sue elegie col plastico contrasto di due immagini, quella del vile costretto all'esilio, misera squallida figura vagabonda, straniero dovunque vada, quasi un maledetto che attrae la miseria anche sui suoi oltre che su di sé, e quella del valoroso che è splendido, splendido quali che siano i lineamenti del suo volto, in vita e in morte, perché tutt'uno è lo splendore dell'animo eroico e lo splendore della vita onorata e gloriosa. Per questo vigore di poeta, ch'è congiunto al vigore del sentimento civico, Tirteo è stato ed è il poeta dei tempi in cui il fato della guerra vuole che sentimento d'onore e amor di patria si fondano e dominino nella vita dell'uomo.
MIMNERMO
Di Colofone, nella Ionia. Visse tra la fuie del VII e il principio del VI secolo. Sicché vide dapprima, probabilmente, la sua città ancora libera, e sicuramente
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visse poi sotto il dominio dei Lidi. Scrisse due libri di elegie, l'uno dei quali prese il nome di Nannò, nome di una flautista amata dal poeta. Con Mimnermo il" distico elegiaco prende un'inflessione nuova, non innaturale tuttavia all'esametro dattilico. Già nell'Iliade Sarpedone aveva detto a Glauco, dopo aver ricordato le gioie della vita e degli onori e dei conviti: (( noi non viviamo in eterno, né siamo perpetuamente giovani». E Glauco aveva cosl parlato a Diomede: • Quale è la generazione delle foglie, tale è la generazione degli uomini.. Le foglie, il vento le strappa e le disperde; altre poi nascono nella 8orida selva a primavera. Tali sono le stirpi degli uomini: l'una nasce, l'altra scompare». Sono due tristi melanconiche note quelle degli amici fidissimi, Glauco e Sarpedone. Ma, mentre nell'Iliade la malinconia è soverchiata dalla certezza dell'immortalità della gloria concessa a chi pone l'obbedienza all'eterno imperativo sopra i godimenti della vita mortale, Mimnermo, che riprende le due note, insieme le isola: triste è la vita, che ha una sola stagione piacevole, quella della giovinezza; triste è la vita in cui anche la giovinezza è insidiata dalla vecchiaia e dalla morte. Insomma, ~n_tre pur parla della giovinezza e la dice gradevole, Mimnermo rinnega ogni gioia vitale e ogni salda speranza. È un segno mirabile: grande era, possente l'idealismo della più alta civiltà ellenica; ma i Greci stessi potevano accoglierlo oppure respingerlo. Mimnenno che non conosce, come Omero ed Esiodo, il divino, che neanche conosce, come Tirteo, la città, vive tristemente il suo momento breve, chiuso in se stesso, esprimendo, con molle vigore di poeta, la tristezza di chi sente vana la vita.
E le dolcissime offerte (D 1) Che è mai la vita, quale dolcezza t'è, senza l'aurea Afrodite? Ch'io muoia quando più non IDi piatda un amore funivo, e i dolci doni e il letto, fiori fugaci di giovin=a per gli uomini e per le donne. Quando la vecdùaia dolo,:osa lo raggiunge e lo fa insietae brutto e fastidioso, sempre da mali affanni un uomo ha ,:oso il euore, né lo rallcgr•no i rqgi del sole, e inviso è ai fanciulli e spregiato dalle donne: canto penosa il Dio ha fatto la vecehiaia!
La vita dolorosa (D 2) Come le foglie, thc la primavere. fiorita fa germogliare e subilo crescono ai raggi del sole,
cosi siamo noi: per breve tempo godiamo il fiore della giovinezza, ignari dei beni e dei mali che gli d~i d destinano. Le nere Pw:he ci stanno daa:anco, e l'una la triste vecchiaia d appresta, l'altra la morte: dure. poco il frutto deUa giovinezza, non più the un gi,:o di sole intorno alla terre.. Dileguata la bella stagione, val JDCglio mori.re the vivere. Perché molti mali allora contristano il euore: e questo va in ,:ovina la casa, e dolorosa mi,cria l'opprime; un altto è privo di 6.gli, e vivo fimpianto scn porca sotterra neU'Ade; ua altro la malattia lo tormenta. Non v'è uomo rui Zew non mandi mali in gran copia.
Giovinezza e vecchiaia (D ') Breve come un sogno ~ la tara giovinezza: sul eapo incombe, e pteSto ti ragiun,e, la veechiaia dolorosa e tetra, odi06& e spregiata, ehe dell'uomo deturpa l'aspetto, e l'avvolge, e gli e la mente gli offusca.
occhi
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I URICI
SOLONE
La grande nota dell'idealismo greco, affievolita in Tirteo, muta in Mimnermo ( e in chi sa mai quanti ignoti poeti scomparsi anche nel ricordo), ritorna a risonare possente nell'opera poetica di Solone, il grande legislatore d'Atene. Solone visse press'a poco tra il 640 e il 560 a. C.; fu della nobilissima famiglia. dei Codridi, di medio censo: esercitò da giovane la mercatura. Poi si dedicò alla vita politica: e la sua opera di poeta, se s'eccettuano pochi canti, ebbe origine da tale attività. Era ancora giovane quando esortò (e abbiamo frammenti di un'elegia, intitolata appunto Salamina, che l'attestano) gli Ateniesi a impad~ nirsi della piccola isola che, stando di fronte al Pirco, poteva bloccare il traffico d'Atene e soffocare la vita della città. Ma la principale opera sua di politico Solone la svolse cercando di rendere meno aspre le contese tra ricchi e poveri, meno gravi le ingiustizie sociali, in modo da dar vigore, nella concordia e nell'ordine, allo Stato, o x6Àtç, bene comune a tutti i cittadini: e fu quest'attività che più diede impulso alla sua meditazione e spunto alla sua poesia. Lo squilibrio enorme tra ricchi e poveri, che sempre più s'accresceva, impoverendosi sempre di più i secondi ed arricchendosi sempre di più i primi, rischiava di distruggere la classe sociale dei meno abbienti, e quindi Io Stato, e quindi anche, alla fine, la stessa classe dei ricchi. Dunque la fatica cui l'uomo si sottopone per ottenere ricchezza fu il primo oggetto della meditazione di Solone: è fatica empia, fatica condannabile? Solone non lo crede: la ricchezza è mezzo di vita; e l'uomo vuole vivere per istinto suo profondissimo. Potrà sperare invano, potrà far male i suoi calcoli, l'uomo: ma non sbaglia ad affaticarsi, perché non può sbagliare la natura. 11 male non è nella fatica: il male nasce soltanto quando, mentre s'affatica, l'uomo dimentica la legge morale, e distrugge per parte sua la giustizia voluta dagli dèi. Insomma, come Tirteo, rivolgendosi ai soldati di Sparta, s'era ispirato alla morale d'Omero, cosl Solone, rivolgendosi agli Ateniesi, s'ispira a quella d'Esiodo. Ma Solone, riprendendo la morale di Esiodo, sempre meglio l'approfondisce, la rinnova, la ricrea. Tre sono i momenti della meditazione del poeta legislatore: e già nel primo, quando scrive l'Elegia alle Muse, Solone mostra di credere a un dio che ha perduto ogni residuo d'irrazionalità e di malvolere per gli uomini. Il secondo momento della meditazione soloniana è segnato dall'elegia che porta il nome di Eunomia ( o Buon governo), scritta quando il poeta stava per diventare il legislatore d'Atene. La città, Solone vi osserva, può essere ben governata o mal governata: se è ben governata, vive in pace e prospera e s'arricchisce; se è.mal governata, vive nella discordia, e la discordia è causa di guerra, la guerra di morti, le morti di miseria e distruzione. Anzi Solone ricorda ai cittadini che la loro città, Atene, è amata dagli dèi, protetta da Atena, la dea figlia di Zeus. Ma la salvezza che gli dèi vogliono, il poeta wol bene che gli Ateniesi sappiano, anch'essi devono volerla: e salvezza ci s:arà soltanto se le due volontà, degli uomini e degli dèi, cospireranno; ci sarà, si può anche dire, se gli uomini saranno giusti come sono giusti gli dèi. Questo è il contenuto dell'Eunomia: e introduce una novità grandissima. Solone, mentre crede ancora che i giusti siano premiati e gli ingiusti castigati, ora crede che premio e castigo vengano per un processo naturale, senza alcun diretto intervento degli dèi. Per tal modo il concetto del dio, come Solone l'ha elaborato, ora s'approssima a quello di norma ideale, di idea di giustizia. Più ancora. Divenuto reggitore d'Atene fra il 594 e il 590, e composte con la massima equità possibile le contese tra ricchi e poveri, Solone sperimentò che la sua equità lo aveva reso oggetto di scherno ad alcuni, oggetto d'odio ad altri,
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anzi oggetto d'odio ad entrambe ]e classi sociali, sdegnata l'una per quello che aveva perduto, irritata l'altra per quello che non aveva ottenuto. Quindi il problema della giustizia e il mistero degli dèi si ripresentarono in forma nuova alla sua meditazione: in questo modo. Se lui, Solone, che aveva obbedito agli dèi, e giusto, mirabilmente giusto, s'era mostrato, vincendo perfino la tentazione di farsi tiranno onnipotente d'Atene, aveva ricewto come compenso al suo giusto amore per la patria odio e scherni, c'era giustizia nel mondo, eran giusti gli dèi? Tale fu la nuova domanda che Solone si. pose. E la risposta fu di nuovo dettata dalla sua fede, profondissima: c'è giustizia nel cosmo, sempre giusti sono gli dèi. Perché, se premio della città giusta è la pace e la prosperità, il premio del buon cittadino, di lui ad esempio ( è la grande scoperta di Solone) è la gloria: la gloria che il buon cittadino, l'uomo consapevole, trova dentro se stesso, quale che sia il giudizio o la gratitudine degli uomini, nell'intimo della coscienza non ignara della legge e del volere degli dèi. E quanto leggiamo in un frammento in trimetri giambici, e più limpidamente ancora in un altro frammento in tetrametri trocaici, i frammenti che portano i numeri 24 e 23 nell'antologia curata dal Diehl.
Alle Mure (D 1) Di Mnemosine e di Zeus illustri figlie, Muse Picridi, ascoltate la mi,q preghien&. Felicità mi conttdano gli dèi beati, e buona fama possa io godere, sempre, presso gli uomini tutti: cosi sarò dolce agli amid, amaro a.i nemici, onorato da quelli, temuto da quC$ti. Ricchezze dC$ìdero avere, m.11 non voglio 1cquistarle con opere ingiuste, cM sempre, prima o poi, viene il castigo. La ricchezza che viene dagli dèi, dura saldamente all'uomo, quella che gli uomini acquistUIO con la violenza, ricchezza ingius11, sconciamente tu la possiedi; e presto li è causa di male, che, come il fuoco, nasce da 1cnue favilla, debole dapprima, violen10 alla fui.e. Non a lungo l'uomo conserva quel che ha oucnu10 con la violenza. Zeus di tutte le cose preordina la fine; e Lr, fine giwige improvvist.". Corae il vento di primivera tutt'1 un tratto disperde le nubi, dopo aver agitnto i flutti del mate infecondo e sconvolto gli abissi e distnitto sulla terra ferace le ricche messi; poi, risalendo neU'aho dclo, sede degli dèi, riporta il sereno, e lieto sulla grassa terra torna a risplendere il sole vigoroso, e nessuna nube si scorge più: cosi giunge il casligo di Zeus. Zeus non s'accende d'ira per ogni cosa come un ITIOtlale, ma chi è colpevole non pub sperare di evitare il castigo: alla fine ogni colpa viene alla luce. Uno espia sùbito, un altro dopo; e se uùora il colpevole sfugge al suo fato, la pena giunge tuua\tia, inesorabile: innocenti scontU\O le colpe dei padri i figli o i tardi discendenti. Tuici noi, uomini moriali, i buoni e i cattivi, molto di noi presumendo prima dell1 sventura, finiamo col piangere; ma prima d lasciamo lusingare da vane spcrU12e. Chi è colpito da gravi malat1ie pensi di riacquistare un giorno sanità; chi è vile crede d'aver coraggio, chi è bnitto d'essere bello; chi è povero, oppresso dalla miseria, SOIJllll di avere prima o poi grandi ricch=e. Chi s'affanna in un modo, chi in un altro: questi erra pel mare pescoso sbattuto da venti impetuosi, incurante d'ogni pericolo, nella spcrama di tornar ritt0 in patrii; un altro per annua mercede lavora \1 icrra alberata con 1'11ratro ricurvo; un altro, che conosce i lavori di Atena e dell'industre Efesto, con le mani si guadagni da vivere; un altro conoKe i doni delle: M\1$e Olimpie e gli è dolce compagnia la sapienza; un altro, fatto indovino da Apollo 1n:ierc, se l'assistono gli dèi prevede il m.11le che giunge all'uomo di lontano, mandato dlilg(i dèi.; ml né presagio né sacri.fido scornano il destino. Altri, esperti nell'arte di Peone guaritore, esercitano la medicina, ma non sempre hanno fortuna: da piccolo male spesso nasce gran morbo, che nessun provvido farmaco riesce a guarire; e I volte chi è tr11vagliato da grave in.fennità ricupera salute solo 1 toccarlo,
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Il buon governo ( D 3) No.o per decreto di Zeus, non per volontà degli dèi beati immortali perirà mai la nostra città; tale magnanima dea la protegge, Pallade Atena, figli& del sotnmo pRm. Sono i cittadini stessi accecaii da brama di ricchezze, è l'iniqua mente dei capi a.i quali molti dolori prepara la grande lor 1nicotanza, che distruggeranno la grande città con la loro colpevole stoltezza; ~ non sanno contenere l'avidità, né godere nella pace dei conviti le gioje concesse...
Opere inique non esitano a compiere per arricchirsi... Tutto depredano, non rispanniando ru! beni sacri né beni pubblici; e le sante leggi di Dikc, che conosce il presente e il p11$SIIO, non custodiscono; e Dikc tace, ma wl tempo, come suole, fed vendetta. Questa inguaribile ferita colpisce offllai Il città: e presto cade in trista servitù, scoppia la rivolta, si riaeccndc la guerra, molti periscono nel fior degli anni. Ecco, già in tristi convegni i nonki preparano rovina all'amatissima città. E mentre questi mali s'aggirano qui nel paese, molti poveri sono venduti, trascinali in terra straniera in ceppi vergognosi ... O»l la pubblica sciagura penetra in ogni casa. Né possono tenerla lontana le pone, ma d'un balzo supera l'alto ripBJ:O, e rqgiunge anche chi ha cercato rifugio nel talamo nascosto. Queste cose m'incita il cuore a dire agli Ateniesi: moltissimi mali arreca alla città il mal governo, ordine e concordia viene dal buon governo, che mette in ceppi i malfattori, appiana le asprcue, frena la cupidigia, annienta la superbia, di.ssoxa i liori di Ate ancora in boccio, coneue le sentenze ingiuste, tempeta le prepotenze, reprime la discordia, placa la collera delle violente contese, ridà agli uomini ordine e senno.
L'opero. compiuto. (D 24) Quanto promisi al popolo, non l'ho tutto compiuto? Dinanzi al tribunale del Tempo ~ testimone l'eccelsa madre degli dèi dell'Olimpo, la nera Tetra, di cui divelsi i termini fisu.ti in molti luoghi: prima schiaV11, ora libera. Ricondu.ssi ad Atene, patria divina, molti Ateniesi, venduti schiavi o secondo la legge o contl"O la legge, e altri ancora, dal bisogno costretti all'esilio, che l'attico più non parlavano, per tanto errar di terra in tena. E anche a chi misero schiavo eta qui, e tremava dinanzi ai padroni, resi la libertà. Questo io feci conciliando forza e giustizie., e compii la promessa. E diedi leggi uguali a tutti, poveri e ricchi, a ognuno secondo giustizia. Che 6C al timone dello S1110 un al11"0 si fosse trovato, un uomo male intenzionato e avido, non avrebbe tenuto a freno il popolo... Se avessi voluto ciò che allora volevano gli uni e poi ciò che gli altri macchinavano contl"O di essi, di molti uomini sarebbe or priva la nostra città. Perciò, resistendo da ogni parte, m'aggirai come un lupo in me220 ai cani.
Il premio eterno ( D 23) Chi veniva per rubare, gnmdi. speranze nutriva in cuore di procacci11tSi molte ricchez2e; pensavano che io avessi usato dolci lusinghe, per tirar fuori le unghie più tllt'di.. Allora pensavano da stolti; ora tutti son pieni di collera e mi guatdano con occhi bicçhi come un nemico; a tono. lo compii le mie promesse con l'aiulo degli d~i; e nulla fcçi a caso, ch6 non mi piace agire da tiranno, n6 a nobili e plebei dar parte uguale del ricco suolo della patria... Uno stolto fu Solone, uno sciocco: gli dèi-gli offrirono una buona 0tt11sione, e non la colse. Aveva la preda nella rete, ma rimase sbalordito e non la trasse: mancò di ardire e di scalnezza. A mc sarebbe bastato essere signore d'Atene un giorno solo, e .-:cumulare gr111di ricchezze: poi mi scuoiassero pure, e mandassero pure in malora tutta la mia stirpe.
Se risparmiai la terra patria, se non volli farmi tiranno, se m'astenili dalla violenza amara, se non macchiai il mio nome, non mi vergoino; ancor meglio, cosl, m'alzerò su tutti gli uomini.
All'insuperato vigore dell'ispirazione etica non risponde forse, in Solone, altrettanto vigore nella rappresentazione poetica. Ché non sempre la fantasia trasforma
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e ricrea in immagini quello che il cuore detta: talvolta, nelle elegie di Solone, l'immagine lascia il passo al discorso, dirci quasi alla predica. Ma poeta è Solone, anche se poeta minorc;_.e qua e là riesce a creare quadri. vigorosi., a evocare nel lettore il sentimento che vive in lui.. Già nell'Elegia alle Muse il vivo sentimento religioso trova espressione nella solennità della preghiera, breve ma intensa: "Di Mnemosine e di Zeus illustri figlie, Muse Pieridi, ascoltate la mia preghiera». E vigoroso e ampio è il quadro degli uomini che si affaticano, chi percorrendo i mari, chi lavorando la terra, chi dedicandosi alle arti, per ottenere prosperità. E bellissima è l'immagine del castigo divino simile all'uragano, che dapprima sconvolge e tetta e mare, ma poi spazza le nubi e fa risplendere di nuovo il sereno. Ecco: c'è la terra, la bella terra lavorata dagli uomini, la terra mi1,1oi;p6Qoç, la terra che dona il frutto che compensa le fatiche durate dall'uomo, e c'è il vento di primavera che, come 6n nel profondo del mare agita le acque, cosl colpisce la terra e distrugge le messi nei campi: yi'jv xatà m,eoi;p61,1ov lÌTJH6aaç xal.à l1,1ya; ma è un momento; il vento che scende, poi anche risale, il vento che distrugge, anche purifica: e la terra è di nuovo allietata, di nuovo il sole risplende: -tl-eWv llìoç almiv txcivei oìieav6v ... J..ciµnu S'fiEl(oLO µivoç xatà :1tlova yttiav xaMv, Ò.tàe vei;pÉwv oMèv lt' Ecmv llìeiv. Ma maggior unità, più sobria compiutezza ha il dittico dell'Eunomia, coi due ampi quadri che ricordano Esiodo anche per il modo della composizione e dd contrasto oltre che per il pensiero che li ha suscitati, il quadro dei mali e il quadro dei beni. Ritorna nel primo di essi l' al.l.o{tf.v à'Uo; dell'elegia alle Muse, ma non a suscitare l'immagine di un mondo affaticato, sl quella di una nefanda follia di rapina, che distrugge insieme la città e gli stessi suoi distruggitori: e c'è nel secondo l'ampia conttastante rappresentazione di un mondo migliore, il mondo della città operosa e giusta, dove, come dice il poeta, ncivttt ,i.at"'dv-tl-QWno1.1ç à'ena xttl mwtd, dove insomma è ordine e armonia. Poeta politico come Tirteo, Solone, per la più alta ispirazione religiosa, coglie meglio di Tirteo l'individuo singolo, il cittadino che nella città ha un suo proprio sentire, una sua propria coscienza. Ed ecco balzar fuori dai suoi trimetri e dai tetrametri a Foca, e grandeggiare, un uomo che ha un volto suo, con lineamenti inconfondibili, e contrapporsi lui solo alla innumerevole turba dei senza nome, non già dei semplici, ma degli avidi e degli ingiusti: è la figura di lui, Solone, rappresentato con vigore non facilmente superabile, nell'intima sua certezza di probità che s'afferma di contro alla deformazione stolta degli uomini impuri. Sl, il pensiero spesso sovrasta sull'immagine fantastica; ma tanta è la profondità del sentimento nutrito di pensiero, che cerca esso stesso l'immagine, e spesso la trova: e si fa poesia.
FOCILIDE E TEOGNIDE
Forse contemporaneo di Solone ~ Focilide; più tardo di Solone, del VI sec. a. C., è forse Teognide. E Facili.de e Teognide, e anche Solone, sono detti poeti gnomici, per il carattere sentenzioso, a volte moraleggiante della loro poesia. Focilide è per noi poco più che un nome: restano di lui pochi distici e pochi esametri isolati, enuncianti qualche sentenza, per lo più preceduta dalla formula: (( Anche questo è di Focilide ». Basti qualche esempio: (( Anche questo è di Facili.de. Una piccola città su di uno scoglio, ma ben governata, val meglio di Nini.ve
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I LIRJCI
folle~; « Anche questo è di Focilide. Gente malvagia sono i Lerii, tutti i Lerii, non uno sl e l'altro no: tranne Prode, che pure è di Lero ». Ben più che un nome è invece Teognide, poeta vigoroso, appassionato e pensoso ad un tempo. Era di Megara, di famiglia aristocratica: fu nemico della plebe e dei tiranni; sofferse l'esilio. Le sue elegie, dirette a un giovane, Cimo, dicono la sua duplice pena: di cittadino che vede o crede mal governata la città e sovvertiti i buoni costumi e calpestate le buone leggi; e di uomo relisioso e giusto che vorrebbe vedere la giustizia e la gioia trionfanti nel mondo, e s'accorge che trionfano ingiustizia e dolore. Purtroppo le elegie di Teognide ci sono pervenute in una raccolta ( divisa in due libri), dove i componimenti non sono staccati l'uno dall'altro, e dove, con le elegie di Teognide, sono distici o componimenti di altri poeti, a volte forse contemporanei, a volte più tardi. Sicché è difficile individuare quello che è suo e quello che non è suo: e insieme è difficile discernere e comporre armonicamente gli elementi che costituiscono la sostanza della sua personalità di uomo e di poeta. Questo è, ad ogni modo, quanto ci pare che si possa dire di lui. Vissuto in un tempo in a.ii a Megara la classe che prima era povera, arricchitasi col commercio e fattasi potente, lottava per impadronirsi del potere ch'era nelle mani dei proprietari terrieri, Teognide, aristocratico di nascita e ostile per educazione ai nuovi ricchi, ben fermo a credere buone le antiche costumanze, scoperse due cose: che anche tra i nobili della sua casta c'erano uomini che non univano alla purezza del sangue rettitudine d'intenti, e che nel mondo non sempre trionfano i puri. Teognide insomma trasse dalla sua partecipAZione alla vita politica e dalla sua meditazione sulla storia la stessa conclusione a.ii era pervenuto Solone. Sennonché, mentre Solone aveva trovato, di là dalla tristezza degli occasionali sconforti, consolazione integra nella certezza che il trionfo dei mali è vano e che supremo compenso del giusto è la testimonianza della coscienza, Teognide non trovò consolazione, ma soltanto amarezza. Sua è la disperata sentenza: (( Meglio non esser nato; nato, morire al più presto ». Dunque quella dell'amarezza è nota fondamentale delle elegie di Teognide, sia di quelle che più dicono il suo tormento di uomo politico, sia di quelle che meglio rivelano il suo tormento d'uomo religioso. Tuttavia chi si fermasse a notare tale amarezza, pur fondamentale, non definirebbe compiutamente Teognide. Anche deluso, anche amareggiato, Teognide non rinnega la sua fede, ma vi rimane fermamente, quasi ostinatamente, quasi disperatamente aggrappato. E fu questa ostinata e dolorosa fermezza quella che gli dette la forza di vivere e poetare e ammaestrare il giovine amato, nonostante la triste amarezza del credente deluso.
Il sigillo (vv. 1'-26) Muse e Grazie, liglie di Zeus, un giorno, alle nozze di Cadmo, una bella parola can11s1e: « Quel ch'è bello m'è caw; il bnmo m'è odioso•- Questa parola divina allor prolleriste: sia sigillo,
o Cirno, a questi miei versi meditali: nessuno, c:osl, poni di nascosto rubarmeli, nessuno mutare il buono in cattivo. Ognuno dirà: « Di Teognide Mcgarese son questi versi, di Teognide a tutti ben noto ... Certo, a tutti i cinadini esser gr:edito non poSK1; né ~ strano, o figlio di Polipao: neppure Zeus, quando manda o non manda la pioggia, fa cou a tutti aradita.
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GLI ELEGIACI
L'educazione 11ntica (vv. 27-38) Perché ti voglio bene1. o Cimo, quello che io stesso· da fanciullo dai buoni apprcsl, t'insei"erò. Sii saggio e non c:ercan: onori o lodi o ricchezze con opere turpi o inique. Ti~o bene in 1I1ente: coi malvagi non t'accoinpagnan:, va' sempre coi buoni: con quel.li bevi e 1I1angia, con quelli siedi, a quelli sii amico, che hanno gran cuore, perché dai buoni cose buone apprenderai: se invece t'unisci ai inalvagi, anche il senno perderai. Dunque coi buoni 11CC01I1pagnati, e un giomo dirai ch'io so ben consigliue gli amici.
La gloria si conquista (vv. 463-464) Né molto né poro a dli
fus8e
fati.ca concedono gli d=; con la E.ti.ca s'acquista la gloria.
La rovina imminente (vv. 39-52) Cimo, pregna è questa città; vedrai che il oasciruro ci farà pentire ddle nostre male colpe. Sagsi sono ancora i cittadini, ma i capi in grande sciqura stanno per farci c:adere. Nessuna città, o Cirno, mai rovinarono i buoni, ma quando i malvagi soverchiano e corrompono il popolo e per gli iniqui parteggiano mossi da cupidigia di danam e di potere, quando con danno pubblico ricercano ,uadagno, non sperare che a lungo resti in pace queUa cittill, anche se ora pare uanquilla. Pen::hé allora nascono dis«irdie e lolle intestine e tiranni. Oh, che questo mal non avvenga in questa
cittill!
Il sovvertimento avvenuto (vv. 53-60) O Cimo, la città è ancora la stessa, ma altro è il popolo: quel.li che prima non conoscevano né usanze né leggi, ma intorno ai fianchi logoravano pelli di capra, quelli che fuori della città pascolavano si come cervi, ora - ora son essi i capi, o Polipaidc; e quelli che prima erano nobili ora non contano più. Chi resisterebbe a tal vista? S'ingannano e 1i deridono l'un J'altto, e dei beni e dei inali coscienza non hanno.
Impossibile trasformare l'uomo (vv. 429-438) Generare e allcvue un uomo è più facile che educarne la mente. Nessuno è mai riuscito a questo, a far saggio lo stolto e buono il cattivo. Se agli Asclepiadi il dio concedesse di guarire dalla malvagità c rischiarare le cicche menti degli uomini, molti e grandi profitti essi ne avttbbcro. Se f05se possibile fabbricare il senno e infonderlo nell'uomo, ncssuo padre buono avrebbe .6gli cattivi, ché l'educherebbe coi suoi saggi consigli. Ma gli insegnamenti oon renderanno mai buono il cattivo.
Lo strano destino dell'uomo (vv. 731-7'2) Padre Zeus, oh se gli dèi costringessero i malvagi ad essere superbi... oh se i suped,i pagu-sero essi la pena delle loro colpe e le colpe del padre non colpissero i figli! no, chi ha animo reuo, o Zeus, e teme la rua collera e opera giusti:zia nella ciuà, non dovrebbe scontare le colpe del padre: questo dovrebbero volere gli d= beati. Ora invece dli fa il male scampa alla pena, e un altro paga per le sue colpe. E anche ques10, o re degli dèi, come può giusto, che un UOlllO mondo da opere inique, alieno da superbia, non colpevole di spergiuro, ma giusto, patisca insiusti:zia? Chi, chi mai, a tal vista, vorrà più onorare gli dèi? e quale animo può avere un uomo, quando l'ingiuslo ed empio, l'ira degli uomini e degli dèi spregiando, spadroneggia, c:olmo di beni, mentre il giusto 1i consuma in ttllte povertà?
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Meglio non essere nati (vv. 425-428) Meglio per i mortali non essere nati e non aver mai visto la viva luce del sole: nati, le porte dell'Ade ,al più presto varare, e sotto un gra..a mucduo di terra giacere.
Il buono e il ,,,alo (vv. 319-322) O Cimo, l'uomo buono limpida sempre conserva la mente, e nei beni e .cei mali ha cuore sereno. Ma UD. tristo, se un dio gli dà vita e ricchezza, esce di senno; e non 5B tollerue sventura.
Ama la virtù (vv. 465466) Rit"Crea virtù ed
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giustizia: disdegna i turpi guadagni,
Poeta gnomico si suole e più si soleva definire Tcognide: e, certo, molte e molte sentenze si trovano nella sylloge teognidea ( ma molte sono certamente interpolate). Non Il però, nell'enuncia:zjone della sentenza, è il centro della poesia tcognidea, ché anzi Tcognidc è uno dei poeti più vivamente lirici della Grecia, Non è, certo, poeta immaginoso come Pindaro; neanche è poeta di accenti molteplici come Archiloco. Monocorde è la sua lira: ma quale vigore di evocazione ha quella corda! Rare sono, dicevo, le immagini: ma dai suoi lamenti, dai suoi sdegni, dai suoi ammonimenti sempre è fatto sentire a noi, in modo chiarissimo, che il centro del canto è lui stesso, il poeta tormentato, Teognide. Perché questo è il segreto della poesia di Teognide, che, se egli non parla mai di sé, come faMo Archiloco e Ipponatte e Saffo, noi tuttavia sempre lui abbiamo dinanzi, soltanto lui. Si ricordi, ad esempio, l'elegia in cui parla della città pregna che sta per partorire: ci sono, dopo l'immagine vigorosa, alcune osservazioni dettate da un'antica esperienza, e tià entrate nella letteratura per opera di Esiodo e di Solone, che gli uomini mali rovinano e i buoni salvano la città; osservazioni non certamente originali per il loro contenuto; ma in Teognide esse haMo un accento nuovo: perché Teognide vive tutto nella città, con una veemenza di passione politica, quale difficile è trovare in altri lirici antichi: solo alla sua città egli sa pensare, a « questa l> ( 't'[18E ) città; e solo delle sue ansie ( 8Uiou,a) egli sa parlare, e delle sue paure ( µ'fl fhEo ), del suo desiderio disperato ( & 1t6Àn µ~non -rfi8E à'8oL ) che la città, la sua città, ._ questa » città si salvi dalla tirannide. L'immagine del poeta, che balza fuoti nitidissima dalle elegie, è quella di un uomo non ancora vecchio ma non più giovane, di un uomo scontroso e amareg. · 3iato e solitario, che non sa parlare ai molti, che non ha speranza nell'azione sua nella città, ma che, per l'amarezza profonda, che è tanto grande quanto è grande il suo amore alla città, non può non parlare a qualcuno. Forse per un errore fu creduto che il sigillo di cui parla Teognide sia la tante volte ripetuta invocazione, « O Cirno », « o Polipaide ». S'io non interpreto erroneamente, sigillo sono le parole del divino canto delle Muse alle nozze di Cadmo, rivelanti la sostanza morale, l'ispirazione profonda della poesia di Teognide: e tuttavia quelle invoca· zioni rinnovate, ch'egli pronuncia perché ha bisogno di rivolgersi a qualcuno che egli ben conosce, anzi spesso perché ha bisogno di sfogarsi con un amico, si posson dire in qualche modo un altro sigillo, il sigillo poetico degli sctitti appassionati, l'espressione naturale di una necessità interiore. Forse, anzi probabilmente, Teognide deformava la realtà: forse quei contadini che erano divenuti reggitori, non erano o non erano tutti malvagi e avidi e ingiusti
GU ELEGIACI
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come egli credeva. Ma tali egli li credeva, e ne soffriva: per la città ne soffriva, che non era più come un tempo ben governata: « O Cirno, la città è ancora Ja stessa, ma altro è il popolo: quelli che prima non conoscevano né usanze né leggi ... ora - ora son essi i capi, o Polipaide; e quelli che prima erano nobili ora non contano più ». Tale è la profondità della sofferenza, tale è la sincerità dell'amarezza, che si finisce con l'amarlo, quest'aspro uomo scontento, anche chi è certo che egli non capiva il vero, chiuso com'era nel suo mondo ristretto, nel mondo rimpianto del bel tempo che fu.
II
I GIAMBOGRAFI
ARCHILOCO
Nacque a Paro, da padre nobile e da una schiava. Fu poeta e soldato. C.Ombatté per la conquista dell'isola di Taso; mor( combattendo contro Nassa. In un suo canto è ricordata una eclissi; che pare fosse quella del 648: visse dunque nel VII secolo. Autore di elegie, di giambi, di epodi, di tetrametri trocaici. Famosi sopra tutti furono nell'antichità i giambi scagliati contro Neobùle, la fanciulla un tempo amata, e contro Licambc, il padre della fanciulla, che prima gliela aveva promessa in isposa e poi gliel'aveva rifiutata. Tali giambi agli antichi parvero tanto violenti, che ne nacque la leggenda che tutta la famiglia di Licambe ne fu indotta al suicidio. Archiloco è, per quello che possiamo giudicare, poeta vigorosissimo: uno dei poeti antichi più schiettamente lirici in senso moderno, un poeta che nel verso effonde con immediatezza sobria tutto ciò che sente: amore, odio, affanno, preghiera. Anzi è un poeta che tutto colora d'una passionalità veemente, anche quando accoglie quello che è precetto tramandato. Un solo esempio: era precetto della morale greca, che l'uomo ha il diritto e il dovere cli fare male ai nemici. Or ecco come Archiloco lo ripete e rinnova: « Una sola cosa io so, grande: far gran male a chi mi fa male». Quella vigorosa introduzione: « una sola cosa io so, grande», e quell'aggettivo introdotto nel precetto: « gran ma.le», trasformano la sentenza tramandata in un esasperato e insieme soddisfatto grido di vendetta. Questa nota cli schiettezza passionale nasce da un bisogno raro di sincerità. Anzi è da dire che la sincerità è la nota più schietta della poesia d'Archiloco, il bisogno primo della sua anima. Perché Archi_lom DDO dispregia,. nan. di.screde la morale tramandata, ma la rivive intima.rÌÌente; e prova disdegno per chi Pr0Tessii giustizia e non vive secondo'}liustizia, ma agisce e giudica e loda e biasima senza conoscere: insomma per i mediocri e gli ipocriti. Fortuna wole che abbiamo due frammenti, nell'uno dei qua.li egli parla d'una sua fuga in battaglia, e in un altro d'una vittoria alla quale ha awto parte. Orbene, della fuga parla, quasi vantandosene con amaro sarcasmo, in questo modo: « Ho perduto lo scudo. Mi dispiace: era cosl bello! Ma ho salvato la vita. In malora lo scudo. Ne comprerò un altro, più bello». Della vittoria parla, ancora sarcasticamente, con tono di spregio: « Li raggiungemmo e sterminammo!. .. erano in sette ... noi in mille». Gli è che Archiloco ~a ch'è facile condannare il soldato fuggiasco, ma ch'è stoltezza o ipocrisia quella di condannare senza conoscere. E sa del pari che è facile lodare il vincitore, ma che ancora è stoltezza o ipocrisia lodare senza conoscere. La sincerità d'Archiloco ha insomma. l'aspetto cli una ribellione all'ipocrisia di chi accoglie e ripete, ma non rivive, la legge morale, come la rivive lui. E invero, se schietti sono gli accenti di ribellione, se profondo è il sarcasmo, non meno vigorosi e convinti e appassionati sono i versi dove Archiloco esorta sé e gli altri a patire fortemente, e ad agire da forti; né meno schietto è l'abbandono agli dèi nelle preghiere, né meno schietta è la sua tristezza quando vede tradito il giuramento.
179 Soldato e poeta (D 1) Servo.io sono d'Ares signore,
e delle Muse conosco i bei doni.
Il mestiere d'Archiloco (D 2) C.On la lancia mi procuro il pane, con la lancia il vino d'Ism.uo: bevo appoggiato alla lancia.
Lo scudo abbandoMlo ( D 6) Del tnio scudo si fa vanto uno dei Sai. L'ho lasci.io in un ccspualio. Peccato! era si bello!
Ma ho salvato la pelle. Che m'importa dello scudo? Vada in malora. Un altro scudo comprerb, anche più bello.
Soffrire da forti (D 7) Lutto e pianto, Pericle! di lieti conyjci più non aodrà la città, M i cittadini, tali uol!lini travolse l'onda del mare in tempesta! D'amba.scia il cuore è ricolmo. Ma gli d~, o l!mico, pazienza e fottCZla ci diedero a rimedio dei mali irreparabili. Chi prima chi dopo, tutti colpisce sventura: ora s'è abbattuta su noi; sanguina la ferita e noi gemiamo; ad altti poi toccherà. Ma onù, sopportate il doloi:e, e non pianae1e più tOme donne.
S; godeva ella... ( D 25)
Si sodeva ella di
avere
un rametto di mino cd una bella rosa; e i capelli
le adombravano gli omeri e le spalle. (trad.di M. Vlllaimiall)
Il destino dell'uomo (D 58) Negli d~ riponi il tutto: bene 1pesso di tra' guai l'uomo che giaceva per la nera terra alzano su, bene spesso un altro curvano e rovesciano, che sl ch'er11 in pmbe e fiero, ed ecco che una gra.n calamità viene, ed cali va ramingo, senz'lilveri e fuor di sé. (tnd.diG. Pascoli)
Coraggio, o mio cuore (D 67) Cuore, cuor rumultu11nte per un turbine di guai,
su! difenditi
II piè fermo, petto 11vanti, o cuore: va. C'è un qgu11to di nemici: ru rimani in ,kunà, fiero; e poi vittorioso DO.ti DWW1le vampo, né
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I LIRICI
vinto dcvi chiuso in casa piuigue o butwti già; ma sioisci delle gioie, ma ratnismi de' guai, pw DOP uoppo: ricoll0$Q ques~ vit• quale ell'~
(tnd.diG.Pascoli)
Dalla favola dell'aquila e della volpe (D 88-95) Padre Licambe, che mai dicesti? chi ti tolse la mente, che un tempo pur avevi? di te ora ridouo e ridono i duadini... Una favola d'uomini ~ questa, cbe l'aquila e la volpe strinSCIO alleanu. ... Imbandl ai 6gli orrido pasto... « Vedi quell'alta rupe aspra e scoscesa? su essa me ne sto e le tue minacce non curo »... « O Zeus, Zeus, padre, tua ~ la forza del dclo, tu vedi le opere degli uomini, le empie e le 11iuste, tu vedi gli animali che compiono violenza a chi vive segucPdo ii,unizia »... Un solenne giuramento violasci, violasti il sale e la mensa.'
SEMONIDE
Dei grammatici antichi gli uni lo credevano anteriore, altri posteriore ad Archiloco. Deve essere, su per giù, dello stesso secolo, il VII, forse un po' più giovane di Archiloco. Era di Samo; ma lo si conosce come Semonidc d'Amorgo, perché ad Amorgo condusse una colonia. Scrisse giambi ed elegie. Restano alcuni frammenti, di cui uno solo è ampio, quello che contiene una satira contro le donne, che fu tradotto dal Leopardi. Satira sopra le donne ( D 7) Giove la mente de le doMe e l'indole in principio formò di vario genere. Fe' tra l'alne una donna in su la tempera del dacco; e le sue robe tnl la polvere per i;asa, ruuolando, si calpeuano. Mai non si lava né 'I corpo né 1'1bi10, lll8. nel sozzume impingua e si rivohola. Formò da l'empia volpe un'altra femDJina che d'ogni cosa, o buona o mala o siasi qual che tu vogli, ~ doua; Wl modo un animo non serba; e parte ha buona e parte pessima. Dal can ritrasse una donna malediai che wol tutto vedere e tuno intendere. Per ogni canto si raggira e specola, baiando s'anco non le occom: un'anima; ~ pct minacce che 'I marito adoperi, né se d'un sasso la ritrova e cacciale di bocai i denti, né per vei:zi e placide parole e guise, né d'alieni e d'ospiti ' ~ una aeric di irammcmi, quasi ccrtllDCntç di uno 11c11SO componim,:nto. Llcambc ha tndito la parola, violando il giuramento e t1it1s1iiia. A lui Archiloco ricorda la f•vola dell'1q11il1 che ha insann110
la volpe. L'aquila prepotcmc si aedeva sicura, ma Zeus, che 11 volpe prq11, pro1cuc l'otlcso e punisc-= l'ofl'cn1ore. L,. favola ci ~ raççoo1a1a intera nell1 tl(Ullta delle ftvolc esopichc.
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I GlA.MBOGllAPI sedendo in compagnia, non posa un attimo che sempre a vbto noa digrigni e strepiti. ca~all~ ~~ e 'mo;bick nacque tcnen donna che de l'opere servili è sclùva e l'atfannarc abomina. Morir torrebbe innanzi. ch'a la macina por mano, abburattar, trovare i bl'U$COli, $brattarla ca5a.No11$'u:disce assistere al fumo, per timor de la fuliggine. Pw, com'è forza, ditl marito impacdasi. Quattro e sci 6.ace il gion10 si chiarific:a da le brutture, $i profuma e pettina sempre vezzosamente e lungo e nitido s'infiora il crine. Aluui vago spettacolo sarà certo costei, ma gran discapito a chi la ticn, se re non fosse o principe, di quei eh 'hanno il talento a queste ciuffole.
D·~
Ma ~ do~n• dt·a· l'a~e è ~migli~le · beato è chi l'ottien, che d'ogni biasimo sola è disciolta, e seco ride e prospera la monal vita. In catiti reciproca, poi che bella e sentii prole crearono, ambo i consorti dolcemente invecchiano. Splende fra tutte; e la citoonda e seguita non so qual garbo; né con l'alue è solita goder di novella.ri osceni e fetidi. Quei;ta, che dc le donne è prima ed ottima, i numi alcuna volta ci lugiscono. Ma tra noi l'altre tutte anco s'albe[(lano, per divin fato .. ,
(trad. di G, Leopan:li)
La satira contro le donne è di derivazione esiodea. Di Semonide è forse la trovata di paragonare vari tipi di donna a vari tipi di animali. E il paragone, instaurato dapprima sul fondamento delle qualità etiche, suscita poi immagini, a volte graziose, sempre appropriate e vive, di donne male. Certo è che l'immagine, anzi lo schizzo, è 6ne a se stesso. E la poesia di Semonide è poesia minore, se pur si può chiamare poesia. Interessante è tuttavia l'elegia, perché è uno dei più antichi documenti di quelle raffigurazioni realistico-comiche, che, se pure non come 6ne a se stesse, avranno tanta parte nella commedia di Aristofane, e più tardi saranno riprese, ancora come 6ne a se stesse, nei mimi di Eroda.
IPPONATIE
Si suol dire: dopo la satira impersonale di Semonide, lpponatte ritorna a un modo soggettivo di poesia, simile a quello d'Archiloco. E si dice il vero. Ma tra la poesia d'Ippona.tte e quella d'Archiloco esiste un abisso. lpponatte era di Efeso, forse di famiglia nobile e ricca, ma cacluta in miseria per causa d'un avo del poeta, scialacquatore. Visse nel VI sec.; e lasciò Efeso per Clazomene, quando in Efeso fu fatto reggitore, come vassallo del re dei Persiani, Atenagora. Compose carmi in trimetri giambici, in tetrametri trocaici, in esametri
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I LIRICI
dattilici, e in altri tipi di versi: ma è famoso soprattutto per l'uso degli scazonti, trimetri e tetrametri, cioè trimetri giambici in cui l'ultimo giambo era sostituito da un trocheo ( o da uno spondeo) e tetrametri trocaici in cui il settimo trocheo era sostituito da uno spondeo: il ritmo ne diveniva come zoppicante, dando l'unpressione di uno che inciampasse. Centro della poesia di lpponatte è il suo io: la sua miseria, i suoi desideri, i suoi odi. Nello stesso modo il proprio io è il centro della poesia d'Archiloco. Ma Archiloco scava in se stesso e lpponatte non scava. Archiloco, poeta di sentimento, viveva cosl profondamente quello che sentiva, che nel sentimento coglieva a un tempo sé e il mondo, e distingueva con certezza non vacillante, vero assertore lirico dell'idealismo greco, il bene dal male. lpponatte coglie solo se stesso: s'accorge d'aver freddo ai piedi, ha pena d'essere senza un focolare, odia un tale che gli dà fastidio: e dice il suo freddo ai piedi, e prega Ermes che gli procuri un paio di babbucce, e domanda un po' di denaro, e impreca contro colui che odia (celebri erano, nell'antichità, i g!ambi contro Bupalo, uno scultore che l'aveva ritratto malignamente): ma non va mai oltre le sensazioni immediate, il desiderio immediato, la collera immediata. Anzi si potrebbe dire che non coglie neanche se stesso, ma l'aspetto esteriore di se stesso:··tanto che-è com.e se si veda dal di fuori,_se_ p~rli di sé come d'un altro; e infatti non « io » usa dire, m.i, spesso, rinunciando àll'uso del pronome di prima persona, « lpponatte », u lppònatte », « lpponattC ». In lpponatte insomma, in quello che di lpponatte possediamo, non c'è un'ombra sola dell'idealismo greco. Eccoli, lpponatte ed Archiloco, di fronte ai medesimi temi. D'Archiloco abbiamo un frammento su una fanciulla: « Si godeva ella di avere un rametto di mirto ed una bella rosa; e i capelli le adombravano gli omeri e le spalle». :B un ricordo delicatissimo; Archiloco vede nella fanciulla una creatura con una sua vita, una fanciulla ch'egli può amare e da cui può desiderare d'essere amato, ma che egli anzitutto riconosce come creatura umana. lpponatte, se vede una fanciulla, non sa scorgere in essa che il proprio desiderio: « Oh fosse mia quella verginina cosl bella e tenerina ». Un altro esempio: Archiloco avventa i suoi giambi contro Licambe, lpponatte contro Bupalo: lpponatte vorrebbe rompere un occhio a Bupalo, vorrebbe farlo andare in galera, vorrebbe fargli patire il tormento del capro, ma in Bupalo non ci indica alcun'altra colpa che quella d'essere nemico suo; Archiloco assale Licambe, ma nei suoi giambi, con l'ira, c'è amarezza profonda, perché Licambe, violando il giuramento fatto a un amico, lo ha colpito nella sua fede. ·Insomma Archiloco crede nella lealtà e nell'amicizia, come crede nel coragsio e nella fortezza del cuore; lpponatte non crede in niente: non negli dèi, non nella virtù, non nella vita. C'è un lirismo di lpponatte, sincerissimo; e c'è una poesia d'lpponatte, realissima. Ma è poesia adeguata al poeta, chiusa in se stessa, incapace di penetrare in quel mondo interiore in cui il poeta, cogliendo se stesso, coglie anche la realtà profonda dell'uomo, l'umanità perenne,. la perenne possibilità. concessa a chi è venuto al mondo di creare un'armonia, di capire e adeguarsi a una legge morale, di rinnovare in sé l'eterno, scegliendo la lealtà piuttosto che la slealtà, la solidarietà piuttosto che la contesa, la verità piuttosto che la menzogna. lpponatte vive come immemore. Unico riscatto, unica catarsi, se tale si può chiamare, è la poesia. Perché della sua vita e delle sue miserie, cosl come del linguaggio appreso nei vicoli e nei bordelli e nelle taverne, Ipponatte si serve a creare componimenti di compiuta perfezione formale, di quella che è la sua perfezione, di osservatore attento, di pittore vivace, di letterato pieno di talento. Tale perfezione della forma tiene, in lui, il luogo dell'idea.
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I GlAMBOGRAFI
Preghiera ( D 24-25) Ermes, Ermes mio caro,. signore di Cillene, figlio di Maia, ti scongiuro, son tutto brividi: dl un man1cllo a lpponatte, e una tunkhctta e zottolc1ti e babbucce e sessania stateri d'oro; pren• dili al mio vicino, Da' un mantello ad lpponatte: &OD tutto infreddolito e bano i denti. A mc non hai dato mantello di pelo I ripato dal freddo invcmale, ~ i piedi ha.i calzato con scarpe fdpate COD.UO i
acioni.
Pluto (D 29) Quel cieco di Pluto - ~ proprio cieco! - DOD ~ mai vc:nuto in casa mii natte, eccoti trenta mine d'argento e più! ». Disgraziato!
I
dirmi: c lppo-
U colpe dell'a1Jo (D 39) Bea1amen1e, sguazzmdo in toMO e ulse. tutti i giorni come un eunuco di Lam.psaco, uno d'essi scialacquò l'eredità: cosi io debbo ora uppare ... mangiando un po' di fichi e pue d'ono, cibo d,, servi ... e non pernici e lepri e hi1ri con SCSlilllO e focacce spalmate di micie.
Supplica (D 42) La finirò ques11 mia vita grllffll, se non mi mandi subito un mcdimno d'ono, per fare una brodaglia dove dogare questa misui.l.
A Bupalo (D 70) Tenetcm.i. il mantello; voglio dare un pugno a Bùpalo nell'occhio. lo sono bravo; i colpi non li sbaglio. (,nd. di M. Vag;ari&li)
Maleditione ( D 77) Il figlio di Eurimcdonte, cloaca marina, venire insaziato, che senza ritegno s'ingozza, canlluni, o Musa, d che il tristo per pubblica condanna muoia sul lido del mare infecondo, di mala morte.
Oh fosse mia ... (D 79) Oh fosse mii qudl1 vergin.im.
cosl bella e tcnerina. (tmf. di M. Valgimigli)
III.
LA MELICA MONODICA
In dialetto ionico erano scritte le elegie, anche quando il poeta elegiaco era di stirpe non ionica. Ma Archiloco e Callino e Solone e forse Tirteo erano di stirpe ionica, e l'esametro, verso dell'elegia, era stato il verso dell'epica ionica. L'uso del dialetto ionico per l'elegia è dunque dovuto a tradizione. Lo stesso si può dire per il giambo, già usato, insieme con l'esametro, nel Margite, e divenuto strumento mirabile alle invettive d'Archiloco e di Semonide e d'Ipponatte, tutti poeti di stirpe ionica. In altri dialetti sono scritti invece i carmi melici: prevalentemente in eolico le monodie, in dorico i canti corali: ché di Lesbo sono i primi e più grandi poeti monodici, e soprattutto tra i Dori si diffonde l'uso dei canti corali. Grandissima è la varietà dei versi; infinita, soprattutto nei canti corali, è la varietà delle strofi in cui i versi si compongono a formare unità. Si può dire che ogni poeta per ogni canto si costruisce liberamente la sua strofe, col suo ritmo e con la sua melodia, secondo che meglio gli pare che s'add.ica al canto, Il primo poeta melico di cui abbiamo sicuro ricordo è Terpandro di Antissa, città di quell'isola di Lesbo che è il maggiore centro culturale della stirpe eolica. Di lu1 si ricorda una importantissima innovazione nella musica, ché alle quattro corde della cetra egli ne aggiunse tre, sostituendo l'eptacordo al tetracordo. Da Lesbo Terpandro si trasferl a Sparta, dove vinse una gara musicale nella festa di Apollo Carneo tra il 676 e il 673 a. C. Fu autore soprattutto di nòm;, canti in onore di Apollo ( ma nulla in sostanza ci rimane di lui): nella parte centrale di questi nòmi, detta 3µcpcù..6;, era un racconto mitico, in un'altra, detta aq:,Qay(ç, erano accenni del poeta a se stesso. Si potrebbe in qualche modo dire che nell'3µqial6ç è il germe della poesia corale, ché in tutti i canti corali han grande sviluppo i racconti mitici, e nella o- questo movimento di rotui.one che ora compiono gli astri e il sole e b. luna e l'aria e l'etere scpuantisi. Questo movimento stesso fa sl che si separino: e dal raro si separa il denso, &ù freddo il caldo, dall'oscuro il chiaro, dall'umido il secco... (S9 B 12 Dids).
DA FILOLAO
I numeri e il cosmo La natura del cosmo ~ composta di elementi illimitati e di dementi limitanti: sia il cosino nel ruo insieme che tutte le sue parti ( 44 B 1 Dicls). Tutte le cose sono necessariamente o limitanti o illimitate o limiwiti e illimitate. Soltanto cose illimitate (o soltanto cose funitanli) non ci potrebbero essere. Ordunque, csSCDdo evidente che le cose che sono non possono essere compos1e solta.Dto da dementi limitanti n~ sol1anto da elementi illimitati, è anche evidente che il cosmo e tulle le cose che sono in esso furono composti da clementi limitanti e da dementi illimitati. Lo proV11 quanto ICCllde nei fatti: perch~ ciò che è formato da dementi limitanti è limitato, ciò che è composto da dementi lmµtanti e da dementi illimitati è illimitato e limitante, ciò che è composto da dClllcnti illimitati apparirà illimitato (44 B 2 Dicls). ll numero ha due spede sue proprie, il dispari e il pari: e terza è il parimpari, formato da queste due mescolate. Molte forme ci SOilO dell'una e dell'altra, ed ogni t'Olia pet se ste55a le rivela (44 B 5 Diels). Nessuna mcnzollllll accolgono iD sd la natura del numero e l'armonia.: non è loro la mcnzo. gna. La menzogna e l'invidia partcdpano della natura dell'illimitato e dell'inintelligibile e dell'irrazionale. Nd DUIDCto non penetra menzogna; percM la menzogna è avversa e nemica alla natura, cosi come la verità è COMaturata e propO* alla specie dei numcti (44 B 11 Dids).
Il.
ATOMISTI E SOFISTI
Della cosiddetta scuola atomistica iniziatore è, secondo la tradizione, Leucippo, forse di Abdera, forse di Mileto. Ma raramente gli antichi parlano di lui separatamente: sempre o quasi sempre il suo nome è congiunto con quello di Democrito, il massimo degli atomisti, autore di un numero notevolissimo di scritti, l'unico atomista di cui ci restano copiosi frammenti (ma per lo più precetti e sentenze,
dei quali mal si vede o non si vede affatto il nesso col resto della dottrina, e che in parte forse sono spuri). Di Leucippo si diceva ch'era discepolo di Zenone di Elea; Democrito, di Abdeta, pare che sia nato intorno al 460. L'atomismo, dunque,
è dottrina sorta nella seconda metà del V secolo. Del resto i problemi degli àtomisti furono appunto quelli del V secolo: il problema della singolarità e il problema del movimento.
I due problemi furono risolti insieme in questo modo: non un solo ente esiste - gli atomisti pensarono, - un ente che sia identico come credevano gli Eleati; ma c'è un numero infinito di enti, che, movendosi e unendosi e componendosi, danno origine a.lle infinite singole cose che noi percepiamo e conosciamo. Sono, questi enti impercepibili o atomi ( indivisibili), diversi di forma, e prendono posizioni diverse, e diversamente si ordinano nel movimento che da sempre li trascina e non cesserà mai di trascinarli. Insieme con essi c'è poi, nell'universo, un'altra realtà, contrapposta o antitetica, che, come antitetica ad essi, deve essere denominata vuoto se gli atomi sono definiti come pieno, non ente se gli atomi sono definiti come enti, Questo elemento antitetico è necessario, perché senza esso, vale a dire senza il vuoto, ciascun atomo si troverebbe impedito tutt'intorno dagli altri atomi, e nessun atomo potrebbe muoversi, anzi nessun atomo si distinguerebbe dagli altri, e uno e unico sarebbe l'ente. La singolarità delle cose nascenti e periture fu per tal modo cercata fuori di elementi determinati ab aeterno, come l'acqua e l'aria e il fuoco e la terra di Empedocle, o come le omeomerie di Aaassagora: e l'ordine disordinato del cosmo, sottratto a forze che, benché concepite come logiche (l'Amicizia o la Mente), avevano tuttavia, in quanto agenti e dunque non immote, una troppo stretta parentela con la realtà del divenire, fu concepito più rigorosamente come disordine. Restava, fondamento all'esistenza delle cose singolari nascenti e periture nell'infinitamente mosso mondo della storia, la purissima antitesi parmenidea dell'ente e del non ente, l'antitesi più schiva di determinazioni sensibili, quindi, almeno apparentemente, la più logica: ma essa assumeva un senso nuovo, e perdeva di vigore e limpidezza. Perché i termini dell'antitesi di Parmenide erano diversamente teali, ente che è e non ente che non è: e invece i termini dell'antitesi atomistica erano medesimamente reali, ente che è e non ente che è. Cosl il predicato comune contaminava la sostanza genuina della diade, e, mentre rompeva l'ente in pluralità mossa, negava ogni stabilità, ogni assolutezza, ogni unità (anche quella dd non ente o woto, frantumato e diviso dagli atomi raggruppantisi nei modi più diversi). Democrito distingueva una conoscenza oscura (dei sensi) e una conoscenza genuina: ma quella ch'egli chiamava conoscenza genuina pare che dovesse essere
=
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I PILOSOFI DBL V SECOLO
conoscenza della inesistenza d'ogni stabilità, dunque della impossibilità d'ogni com· prensione di valori eterni. Del medesimo quinto secolo, particolarmente attivi nella seconda metà, sono i Sofisti. Filosofi e oratori e retori alcuni, ma anche, altri, conoscitori di varie scienze ed arti, i Sofisti noi li conosciamo soprattutto dalla rappresentazione di Platone, che li giudicò pseudo6loso6, e li contrappose a Socrate, il filosofo vero, il filosofo cercatore del vero, il filosofo vivente nel vero. Vale la pena di riportare, appunto di Platone, un gustoso passo, tratto dall'Ippia Minore, dialogo in cui sono interlocutori Socrate e Ippia di Elide, sofista celebratissimo. Parla Socrate: Ceno, arco! non c'è uomo che conosca più arti di te, né c'è uomo che i.n ciascuna arte sia più $11pientc di te, Mi rico«lo di avertelo sentito dire una volta nella pi-, davanti ai banchi dei cambiavalute, quando esponevi tutui la tu.a grande e invidiabile sapienza. Dicevi - ricordo, - d'essere andato una volta ad Olimpia vestito di cose rune fatte da te: fatto da te era l'anello - da qutllo cominciasti - che portavi, perché tu sai, dicevi, incidere anelli, e open tua era un altro sigillo, tuoi un raschiatoio e un'ampolla; e i cahari che portavi, ru stesso, dicevi, li avevi tagliati, e tu, tu stesso avevi tessuto il mantello e la runica: ma il segno massimo della tua grandissima sapienza, il più straordinario a giudii.io di tutti, era questo, che la cintura della tunica, non meno lussuosa delle più lussuose cinrurc persiane, dicevi d'averla intrecciata ru stesso. E oltre questo dicevi di aver portato con te delle composizioni poetiche (canti epici, tragedie, ditirambi) e discorsi in prosa in grande quantità e dei generi più divcni...
Quali maestri di sapien2:a o di scienza (di tutta la sapie11Z11, di tutte le scienze) si presentavano insomma, per lo più, questi Sofisti, conferenzieri che giravano di città in città, e spesso si fermavano a lungo in alcuna a dar lezioni ai giovani ricchi, aristocratici o plebei, che sentivano, se non l'esigenza, il desiderio d'una cultura che potesse loro servire nelle necessità della vita, soprattutto della vita politica. Per di più, mentre si professavano maestri di sapienza o maestri di virtù, vale a dire mentre insegnavano l'arte del discorrere e confutare e persuadere, anche ricercavano e insegnavano le arti sussidiarie dell'oratoria, l'arte di disporre i periodi, l'arte di usare le parole appropriate, l'arte di rendere gradevole di suono la clausola, la frase, il periodo; insomma l'arte della retorica. Per opera loro la cultura, ch'era di pochi, si diffuse: e diverse, anzi contrapposte furono le reazioni che questo diffondersi della cultura provocò nelle città, nei giovani e nei vecchi, nei novatori e nei conservatori. Maestri del mal fare, del mal pensare, dell'ingannare, dell'adulare li considerarono i conservatori, ben convinti che era un delitto e che portava a rovina la convivenza politica il mettere in dubbio, come i Sofisti sembravano mettere in dubbio discorrendo e discutendo, la validità assoluta delle norme tramandate, delle leggi stabilite, della religione ereditata; maestri di vera sapienza li giudicarono per lo più i giovani che li ascoltavano, a cui un mondo nuovo, il mondo della critica audace, sembrava dischiudersi. Ed avevano torto, a noi pare, e gli uni e gli altri. Avevano torto i denigratori, perché, se si legge il discorso di ProdiCO, il sofista di Ceo, come a noi è tramandato da Senofonte, o si ricorda che Protagora (nella memoria dello stesso Platone, il più implacato e profondo critico della sofistica) parlò di un senso di giustizia innato agli uomini, oon si può dire che i Sofisti (se non forse quel Trasimaco che pare affermasse che il giusto è l'utile del più forte) fossero negatori d'ogni vinù etica (e forse non avrebbero avuto la fortuna che ebbero, se fossero stati dissolvitori scoperti d'ogni legge, in Atene non che in Sparta). E tuttavia la critica platonica e quella sofoclea (se non quella ottusa dei conservatori delle varie città) non erano infondate, anzi colpivano il segno nella sostanza più segreta, Perché i Sofisti, nella pur immensa divergenza ch'era tra i
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ATOMISTI E SOFISTI
singoli, in questo s'accordavano tutti, nel credere che non c'è una misura trascendente che guidi l'uomo nel virtuoso operare. La proposizione fondamentale della Sofistica è infatti quella di Protagora, che l'uomo è la misura di tutte le cose, misura dell'esistenza e della inesistenza delle cose (che sono veramente o realmente reali solo se l'uomo le pensa reali, veramente irrea1i se l'uomo non le pensa reali). Or se pur è vero che la proposizione di Protagora non voleva signi6care che l'uomo singolo, ciascun uomo, è misura delle cose (innato in tutti - Protagora pensava - è il sentimento o il concetto del giusto; innato in tutti è il senso della vergogna che prova nell'intimo cuore chi viola l'innato senso della giustizia), ma che misura è l'uomo in quanto uomo, potremmo dire il genere umano ( cioè l'uomo in quanto ha ingegno, anzi in quanto è fornito di ragione), non inadeguata fu 1a critica di Platone, che giudicò falsa filosofia, dissolvente l'etica nel relativismo più sconclusionato, l'umanesimo sciolto dal divino, insomma la filosofia panumanistica dei Sofisti. Platone infatti osservava che diversamente sembra parlare la ragione negli uomini diversi; sicché l'esaltazione della ragione umana come misura gli parve che dovesse coincidere (alla 6ne) con l'affermazione che misure sono le opinioni disparate degli uomini diversi. Prima di Platone aveva poeticamente mosso la stessa critica ai Solisti Sofocle, certo, nella sua fede, che, quando non si àncori a un valore assoluto (a quel va1ore ideale che è anche reale, anzi che è, perché ideale, l'unico valore realmente reale), la ragione si sgretola e dissolve; e anche certo che, sgretolata e dissolta, la ragione distaccata dal divino è causa della rovina spirituale dell'uomo, della rovina storica delle città.
DA DEMOCRITO L'incerteua dell'uomo Anche questo disco= mostra che di nessum
COSI
sappiamo niente di vero, ma che labile
è l'opinione d'ognuno (68 B 7 Dieh).
Sarà dunque chiaro che è difficile conoscere come sia realmente ci11SCW11 cosa ( 68 B 8 Dicls). Noi in realtl nulla di vero cogliamo, ma solo il mutue secondo la disposizione del oorpo e dclle cose che sopravvengono e gli resistono (68 B 9 Dicls). Vi sono due forme di oonoscenza, una genuina, l'altra oscura; e dell'oscura partecipano nmi i SC!llli, vista udito odorato gusto e tino; la genuina è separata da questa ... (68 B 11 Dids). Nulla conosciamo in verità, perchl! la verità è nel profondo (68 B 117 Diels). Secondo l'uso il colore, il dolce, l'amuo, secondo vetitl gli 110.mi e il vuoto ... (Poi fece aggiunge Galeno che riporta il passo democriteo - che le sensuioni ,i rivolgessero alla cagione dicendo: ., Povera mente, ti fondi su di noi e poi ci abbatti? 11 nostra rovina è insieme la tua.,) (68 B 125 Dids).
La realtiJ delle cose Come esistono le cose, cosi esiste il nulla (68 B 156 Dicls). Dal tutto si acpara un vortice, di C05e d'ogni genere (68 B 167 Dicla).
Saggeua e insipienza
11111\*1',·c·'·.-.
--·-·
· La ragione s'avvezza I trarre godimc:nto solo da se stessa (68 B 146 Dicls) (Il viver male - scrive Porfirio che ripona il passo democriteo - Demoaito diceva che... ) oon è vivtl' male, ma morire per un lungo tempo (68 B 160 Dids).
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I PILOSOFI DEL V SECOLO
Non cerar di sapere tutte le cose, se non vuoi ignorarle tutte (68 B 169 Did11). Felicità ed infelicità appartengono all'anima (68 B 170 Diels). Dalle stesse cose da cui ci vengo.llO i ben.i possono venirci anche i mali; ma possLuno ovviare ai mali. C.osl l'acqua profonda, che in molti casi ~ utile, l anche dl.D.D.OSI, pcttM: può affogarci. S'~ quindi trovato un rimedio: insegnare a nuotare (68 B 172 Dìds). Gli d~ dànoo e diedero sempre agli uomini ami i beni: tutto ciò che ~ malefico e daru::ioso, n~ prima nt: ora ~ dato agli uomim dagli dèi, ma gli uomini stessi v'incorro.no per cecità e stoltcna (68 8 175 Diels). Il meglio per l'uomo l vivere serbando il più possibile animo sereno e affiiggendosi il meno possibile. E questo può octeflCl'e se non ripone la sua gioia nelle cose caduche (68 B 189 Dids), Gli uomini, per giustificare la loro s10ltelU, mectOM imwlzi il caso; ma di rado il ca,o contrasta con la saggezza; il più delle volte nella vita ~ buona suida l'intdliaenza ICllta (68 B 119 Dieb).
OA PROTAGORA
Protagora, di Abdera, nacque probabilmente tra il 490 e il 480 e morl tra il 420 e il 410: tenne corsi di lezioni in molte città, ma visse soprattutto in Atene, donde dovette fuggire per evitare un processo per empietà (come era accaduto già ad Anassagora). Sue opere principali sono una Verità (o, anche, Discorsi di confutazione: M'ta~cill.ovtti;, se. Aéyo~) e un'opera Sugli dèi, L'uomo misura (80 B 1 Diels) L'uomo
~
misura di tutte le cose; esso è che stabilisce che sono le cose che
IO.DO,
e che non
sono le cose che non sono. Il dubbio (80 B 4 Diels) Degli dèi non posso sapere ni che sono né che non sono ni come sono. Molte cose mc l'impediscono: l'oscurità e la vita bieve dell'uomo.
Il mito di Zeus e il senso della giustiV/J ( 80 C 1 Dicls)
Non è un passo protagoreo, ma un discorso fatto da Platone con lo stile e secondo il pensiero di Protagora (in Protagora 320 C segg.). Vi fu un tempo in cui esistevano gli d~, ma non le specie mortali. Quando giunse il momento che anche queste dovessctO nascere, gli d~i. nelle viscere della terra, le plasmarono me$«1lando terra e fuoco e tutte le materie Che sono mescolanza di fuoco e di terra. Prima di portarle alla luce, ordinarono a Prometeo e a Epimctco di fom.itle adc,uatamcnte di mezzi di difesa. Epimcteo chiese a Prometeo di lasciar fare a lui la distribuzione, dicendo: ., quando l'avrò faua, verrai a vedere•, e, persuaso Prometeo, s'accinse all'opera. Alcun.i animali li fece forti ma non veloci, e fece veloci i più deboli; alcuni li armò, ma altri, lasciandoli inermi, li fornl di qualche altro mczw di difesa ... Ma, poco accorto com'era, non s'avvidc che distribuiva rutti i me22:i di difesa a&li animali irragionevoli; aicch' ne rimase sprovvista la 5pccie w.aana, ed cgll non sapeva come fare. Or ecco che, mc.atte se ne stava preoccupato, giUDSC Prometeo ad esaminare come era stata fatta la distribuzione, e vide che gli altri animali erano fomiti convcnic.atemcnte d'ogni cosa, mentre l'uomo era nw:io, scalm, sePZ& coperte e se..az'an.ai, Ed era 011IW Jiu.ato il giorno in cui
ATOMISTI B SOPISTI
anche l'uomo doveva Uldre dalla aerra alla luce. Allou Prometeo, llOD sapmdo quali mmi di difeu escoaitare per l'uomo, Nbb lei Efato e Id Atena l'abilità tecnica e imiane. il fuoco (cM: senza il fuoco wd,be impossibile imparue o servini delle arti), e li ~ .U'uomo. In questo modo l'uomo acquis~ la upiema pntica, ma DOD la uaaz,a politica; quella era ad potete di Zeus... Coni'~ l'uomo imparàprmo I servini della V«e per articolare puoSe, e I fabbricud caeevestiti e scarpe e 00perte, e I ttme dalla tetta il nutrimento. Ma Plll' oosl provvisti, .in principio gli uomini vivevano sparsi, .enza città; e venivano uocisi dalle fiere delle quali erano tantopihdeboll,cMla conoscenza clelleani aerviva I plOCUD?eiCllo ilnutrimento,1111D011. • combattere le fiere: infatti mancava loro IDCOtl l'arte politica, di cui fa parte l'arte mili~ Ceramno allora di riunirsi e metteni al riparo fondando città; ma um. volta riuniti si ~ vano l'un l'aluo, essendo ancora igoui dcll'arte pollric:a; e cml si disperdevano di nuovo e perivano. Zeus allora, temendo che 11 nostra stirpe perisse del tuno, mandò Ermes I portare agli uomini 11 Vergogni e l1 Glmrizil, pac:M fOAerO onwnento delle città e vintoli d'amicizia. Ermes domancRI I Zeus in quale modo doveva distribuite Il Gius1izil e la VerSo&M tgli uomini: e Devo distribuirle come sono s1a1e distribui1e le 1r1i, per le quali si ~ seguito questo criterio: un medico per molti, e cosl per le altre professioni? Allo staso modo disrribulrb fn gli uomini Il Giustizia e la Vergogna o le distribuirb I tutti?• «A Ntti - disse Zeus - e mtti ne abbiano parte; altrimenti, se ne fossero prowi,ti solo pochi, com'à per le arti, aon vi san:bbero città; e d1 parili: mia s11bilisci quesu Jeue, che chi DOD 1a ispjnn;i I vergogna e aiustizi1 sii ucciso skmmr: modio ddla ciltài,.
DA PRODICO
Prodico, di Ceo, era probabilmente pib: giovane cli Protagora; pare che impar· tisse lezioni a maggiore e lezioni a millOJ' prezzo. Platone fa che Socrate scherzo. samente dica d'aver ascoltato solo quelle a buon mercato. Doveva essere accuratissimo nelle distinzioni (delle parole più che dei concetti, nella parodia di Platone). Gii furono attnbuite due opere, una Sull• n•tur11 e una intitolata "Qecu (forse « Ore », forse « Stagioni dell'anno », forse « Stagioni della vita .. ). Non possediamo nulla oltre la parodia di Platone e il rifacimento senofonteo di un discorso su Eracle e la virtù. Bwzcle e
la.,,;,,• (84 B 2 Diels: da XENoPH., Mem. Il, 1, 21-28)
Prodico il sapiente, nel llbzo su Eracle, che va mostrando a miti, espone le sbSR idee sulJa vim, dicendo press'1 poco C01l, per quanto ricordo. Eracle, nell'età che 111 tra fanc:iullezza e adolescena, quando i p0vaai, ormai liberi di lii:, rivdano se nella vlu RgUiranno l1 vii della virtb o quella del vizio, p.tnlO in un luogo deserto, li pose I ledere, incerto su.Ila vii da p,endere. Gli si fecero allora incontto due donne di pnde 1t1tura, l'una di bell'upetto e di oobile DISCita, di colorito naturale, dallo sguardo pudko. dal portamento modesto, ve;titl di bianco; l'altta ptosperOSI e molle, col viso imbdlr:t· uto più bianco e più. rosso del vero, am. un portamento da sembrare più. diritti del naturale, cona)i ot'Chi splWIClld.,eonwt 1bitoche mtttevl in risalto li bellezza delCO!pO: e spcuo si pardava e 1piava se altri la pwduscro, e 1peaso si volgeva • guardate li sua ombra. Quando furono vicine ad Eracle, la primi conseMI la IICSSa mdatura, l'alua, per prevellirll, eone veno di lui e gli dluc: « Eracle, ti vedo incerto sulla via da seguire mlii vita. Se d fai mio llllico e mi segui, io ti condurrb per li vii più piacevole e pià flci1e, e DOD ci sarà piacere che non psteni, e vivrai ipro di ogni pena. Anzitutto non d. darai pensiero Dli di auerre ~ di afari, m1 penserai tolo I procurarti qualliui cibo o bevmda. d piacei•, o quello che appaghi la 1111. visu e l'uditn e l'odonm e il tatto, e I rkercue ali amori che ti diano m,aior ,odimento, e i leni pià 108ici... •
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I FILOSOFI DEL V SECOLO
Udito questo, Eracle le domandò: « Donna, qual è il tuo nome? ,. Ed essa, « I miei amici - disse, - mi cl-JllIIl1lflO Felicità, ma quelli che mi odiano, per sruzzicumi, mi chiamano Vizio•. Frattanto sopraggiunse l'altra donna e disse; « Ecoo, Eracle, sono qui anch'io. So chi sono i tuoi geni1ori e so qual indole hai mostrato mentre ti allevavano; quindi sono sicura che, se
seguirai la mia strada, compirai belle e nobili azioni, e ne venl a me onore ancor inaggiore e splendoi:-e d'opere buone. Non ti lusingherò promettendoti piaceri, ma ti esporrò le CO$e secondo verità, oosl come le disposero gli dèi. Niente di quello che è buono e bello gli d~ concedono a,li uomini senza loro fatica e cura, ma se vuoi che gli d~ ti siano propizi, dcvi onorarli; se vuoi essere amato dagli amici, dcvi beneficarli; se desideri essere onorato da una città, dcvi esserle utile; se vuoi essere IUIIIJlllllto per la virtù da nma la Gm:ia, devi cen:are di farle del bene; se vuoi che la terra ti produca frutti abbondanti, dcvi lavorarla; se vuoi arricchirti con le greggi, dcvi prendertene cura; se brami accrescere il tuo potere con la guerra e vuoi avere la possibilità di libetare gli ami.ci e assoggcnare i nemici, devi apprendere le arti militari da chi ne ~ esperto ed csctcitarti a servirtene; e se vuoi aver corpo vigoroso, dcvi abituarlo a obbedire alla mente e tenerlo in eserci2io con fatiche e sudore..
DA GORGIA
Gorgia era di Leontini, colonia cakidese in Sicilia. ~ uno dei massimi Sofisti, quello che più di tutti associò l'indagine metafisica e la cura dell'oratoria: fu anche uno dei primi studiosi di retorica (già di retorica avevano scritto, in Sicilia, Corace e Tisia nella prima metà del V sec:.; e altri e altri scriveranno poi: su tutti si riversa l'ironia di Platone nel Fedro). Opera principalissima di Gorgia doveva essere un libro Sulla natura, che aveva anche un secondo titolo, Sul non ente. In tal opera ci sono tre negazioni: nulla c'è; se qualcosa ci fosse, non si conoscerebbe; se anche lo conoscessimo, non potremmo comunicare ad altri la nostra conoscenza. Gorgia, negando l'ente e la sua conoscibilità e comunicabilità, parla, non mi par dubbio, della sostanza dell'ente, di quella sostanza identica che sola era pensabile secondo Parmenide: è di questa sostanza ch'egli dice che è incomunicabile, anzi inconoscibile, anzi irreale. Insomma l'uomo per lui è chiuso in se stesso, chiuso dentro l'àmbito della sua ragione; la qual ragione non coglie mai l'essenza delle cose (essenza che non c'è) ma sempre solo se stessa. Il discorso in difesa di Elena (la mitica sposa di Menelao), mentre vuol essere un modello oratorio, anche riflette, se non erro, tal pensiero di Gorgia. Nessuno sa, nessuno può sapere perché Elena abbia seguito Paride: se per amore o per violenza o perché convinta da parole suasive. Ma la difesa d'Elena, tutta fondata sulla ragione, quella ha valore anche se noi non conosciamo l'animo cli Elena. Perché Gorgia non dubita che sia vera la conseguenza d'ogni pur ipotetica premessa: innocente è certamente Elena se vinta dall'amore; innocente se convinta da parole suasive; innocente se costretta dalla forza. Quello di Gorgia è, non meno di quello di Protagora, un pamlmanesimo.
L'Elogio di Elena (82 B 11 Diels) Tutti sanno che la doM1 di cui parlo era, per nascita e per stirpe, prima m i primi, e uomini e doMe: sua madre fu Leda, il padre vero un dio e quello putativo un uomo, Zeus e Tindaro (dei quali il primo fu creduto padre perché lo era, l'altro fu giudicato padre perché asseriva di esserlo}, che erano l'uno il più polente degli uomini, l'altto il signore dell'universo, Nata d1 tali genitori ebbe bellezu divina, che non rimase nascosta: e grande desiderio di amore suscitò in moltissimi., e con la sua persona attrwe eroi gloriosi, dei. quali alcuni V11Dtavano
ATOMISTI E SOFISTI
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grande ricchezza, altri antica nobiltà di nascita, altri vigoria di corpo, altri forza di sapiacqujs.ita. Tutti vetlllero I lei mossi da ambWo,o amore e d.a invincibile desiderio di gloria. Non dirò chi e pc~ e come, prendendo Elerui, appagò il 6UO desiderio d'amore, cM, dicendo a coloro che sanno quel che già sanno, si è, sl, creduti, ma non si porta diletto: ma, tralasciando di parlare di quel tempo, darò inizio al mio discorso ed csponò le cause per cu.i la pllnenza di Elena per Troia no.a po~ non avvenire. Essa fece quello che fece o pc! cieco volere della fonuna e il consaputo volere degli dU e un decreto del fato, o ~ rapita con la violenza, o pe~ persuasa dalle parole, o perdi~ presa d'amore. Se lo fece per la prima ragione, bisogna accusare chi ne fu causa, cM la previdenza umana non può contrastare al volere del dio. t legge di natura che il più forte no.a sia impedito dal debole ma il più debole sia domi.Dato e trascinato dal forte, che il forte guidi e il debole segua: ora il dio è superiore all'uomo e per fona e per sapicm.a e per tutto ... Se fu t111pit1 con la forza e subl violenza e fu oltraggiata ingiuswnente, è chiaro che ha colpa chi la t111pl, in quanto usò violenza, menuc essa che fu rapiti, i.n quanto subl violenza, fu sventut111t1 ... Se poi furono le parole a persuadere e ad ingannare l'animo suo, neppure in questo caso è difficile difenderla e discolparla. Il discorso è un possente s.ignore che, benc:M di corpo piccolissimo e invisibile, compie cose divine: può toglier la paura, annullare il dolore, suscitare gioia e infondere pietà ... Passo a trattare della quarta causa. Se fu l'amore a fare tuno questo, facilmente esst sarà assolta dalla colpa che le si auribuistt. Le cose che vediamo non hanno la natura che vogliamo, ma quella che loro è toccala, e 1ttraverso la vista l'anima è variamente sollecitata. Cosl, se vediamo nemici 11:musi contro nemici con un'armatura di broruro e di ferro ... la vista si turba, e turba l'animi, in modo che spesso fuggono entrambe auerrite dal pericolo futuro come se fosse presente, perché la consuetudine d'obbedire alla legge è come ba.adita dalla paura suscitati dalla vis11; questa infatti, sopraggiungendo, fa dimenticare il bello stabilito dalla legge e il bene che s'otticne con la vittoria. Alcuni, al vedere cose che li spaventano, subito escono di senno, tanto la paun sconvolge e oscura il men1e; e molti cadono io vani lffanni e gra,vi malattie e ingu1ribili follie, cosi vivamen1e 11 vista imprime nella loro me.aie le immagini deUe cose vedute. E molte cose spaventose tralascio, che so.a si.mili a queste. E i pittori, quando con mohi colori raffigurano in modo perfetto Il.ti corpo e una figura, dileuano la vista; e similmente offrono asi.i occhi uno spettacolo piacevole le statue e le immagini degli scultori. Cosi è naturale che la vista ora s'amisti e ora s'allegri. Insomma molte souo le cose che suscitano i.n molti 1more e desiderio di molte cose. Se dunque sii occhi di FJena, provando dileuo al vedere Alessandro, ispirarono all'animi desiderio e travaglio d'amore, che c'è da mcnvisliani? E se l'amore, ch'è dio, ha potenza divina, come potrebbe respingerlo od opporglisi uno che sii sia inferiore? Che se invece è infermità dell'uomo cd errore dell'anima, non si deve biuimare come se f0$5C una colpa, ma considerarlo una sventura; venne come veMe, per insidil del caso, no.a per deliberazione deU1 mente; venne per nccessid, e non per 1rcifici. Come dunque si può stimar giusto il biasimo di cui è vittima Elem, che, se ha fatto quello che ha fatto perché innamorata o persuasa dalle parole o t111pit1 con la forza o coure111 d.agl.i dèi, è in ogni caso innocente? Cosi con le parole ho liberato la donna dalla sua oattiVI fama secondo la premessa del mio discorso: e ,forzandomi di distruggere l'ingiustizia di un'infamia e l'ignoranza di una opinione, questo discorw ho voluto ac:rive:re, non solo per elogiare Elella, ma perché fOS&C • me di p11$$atel.apo,
III
SOCRATE
Nacque nel 470-69: fu condannato a morte nel 399 a. C. Non lasciò scritti, ma l'esempio di una vita vissuta nell'amore del vero. Nella vicenda di Socrate culminano insieme la miseria politica della Grecia (dove la più liberale e colta delle città condannò a morte, come ateo e corruttore, l'uomo spiritualmente più alto e libero tra i Greci) e lo splendore dell'idealismo, per la serenità con cui il filosofo accettò la morte per servire all'Idea. Poco sappiamo dd suo pensiero, o meglio della sua formulazione dell'eterno Vero, perché la testimonianza di Senofonte è spesso superficiale, e quella di Platone è imprecisa (a Socrate, interlocutore dei suoi dialoghi, facendo spesso Platone esporre il pensiero suo proprio), e quella di Aristofane deformata dalla caricatura. Ma questo par certo, che Socrate si distaccò medesimamente dai Sofisti esaltatori dell'ingegno umano e dagli adoratori delle forrnole tramandate: dai Sofisti, perché fu certo della validità assoluta della Verità, e dai nemici dei Sofisti, perché fu convinto che la Verità non s'accoglie passivamente per mezzo di formule o leggi, ma ha vita nell'animo dell'uomo che la cerca e la trova. Sappiamo ch'egli spesso parlava di un demone ch'era in lui e lo consigliava, e che divino egli diceva quel demone: noi siamo soliti di parlare della voce purissima della cosciema. Sono modi diversi di dire la stessa cosa: che l'uomo s'alza su se stesso e s'eterna solo quando ascolta, nel profondo dell'anima sua, la Parola vera ch'è unica per tutti, Gli Ateniesi, dicevamo, condannarono a morte il filosofo che non bramava ricchezze, che sdegnava il successo, che non aspirava a essere potente nella città, ma solo ricercava ed obbediva al Vero; parve ad essi che tal uomo, che parlava soltanto ai singoli e indagava e non accettava le opinioni comuni senza averle esaminate, fosse a un tempo superbo e pernicioso, Ma, nella realtà profonda, la loro era una rivolta della superbia vana e inconsapevole contro l'umiltà consapevole: destino del mondo. L'obbedienza alla legge morale Non essendoci pervenuto di Socrate alcuno scritto, vale la pena di riportare alcune pagine dell'Apologia di Socrate di Platone, che sono tra le più sublimi giunte a noi dall'antichità. Quello che vi dicevo anche prima, ch'io son venuto in gran odio, e a molti, sappiale eh'~ vero. Ed ~ questo che mi farà condannare, se mi farà condaMate: non Meleto né Anito, ma le calunnie e l'invidia dei molti, che già molti e.Itri uomini valenti han distrutto, e ancor ne distrug• aeranno, io credo; perdi~ non si può pensare che si fermino I me. Forse qu.akuno mi didi: « Non ti vergosni, Socrate, di aver fatto cose per cui ora rischi di morire? »-. Io a questo risponderò secondo giustizia: « Non parli bene, uomo, se credi che debba far conto del vivere e dd morire uno che può, anche poco, giovare, e non piuttosto guardare a una sola cou, quando agisce, se è giusto o insiusto quello che fa, se le sue opere sono degne di un uomo dabbene o son opere mf:Ie. Uomini dappoco aarebbero, suondo il tuo
355 discono, i 1emidci che sono morti a Troia, e tra gli altri il fislio di Teti, che tanto spregib il pericolo al paragone della vergogna, che, quando egli bramava d'uccidere Ettore, alla madre dea cl1': gli parlò presso a poco cosi: •o figlio, se vendicherai la monc di Panoclo e uccideNi Eitore, anche tu morrai, petchi la tua morte seguirà subito qucllA di E11ore~, lui, udite queste parole, spregiò morte e pericoli, e, più della morte temendo il vivere una vita di codardo, e non vendicare l'lllllico, •venga subito, - disse, - la morte, quando io abbia punito l'olferuorc, cMi io non voglio restare qui, presso le concave navi, oggetto di riso, pe,o della terra." Credi tu ch'egli si desse pensiero di pericolo e di morte? • Cosi stanno le cose, o Ateniesi, in verità: dove uno s.i pone, pensando che quello sia il posto migliore per lui, o dove uno sia posto da chi comanda, ivi egli deve restare, secondo ch'io credo, e correr rischi e non fu conto 111! della mone nl!: di altn cosa, ma solo dell'onore. Sarebbe cosa mana, o Ateniesi, .se io, che, quando i comandanti da voi scelti a comandarmi mi 1$1Cgnarono un posto di combattimento, a Potidea e ad An.6poli e a Delio, rimasi, come tanti altri, nel posto che: mi fu auegnalO e rischiai la vita, io ora, quando il dio mi ha ordinaio, secondo ch'io credo e penso, di vivere filosofando e di esllDlinarc e mc e gli altri, ora, dico, per paura della morte o d'altra cosa, abbandonassi il posto. Sarebbe davvero cosa Strana! E avrebbe ragione eh.i mi ttascinuse in giudirio accusandomi di non credere nell'esistenza di dèi, ~. facendo questo, disobbedirei al vaticinio e temerci la morte e crederci d'essere sapiente scru:'esserlo. Perché temere la morte, o cittadini, è appunto credere d'essere sapiente senz'esserlo, credere di sapere: quello che s'ignora. Puchi!: nessuno sa, della morte, se non sia forse per l'uomo il massimo dei beni, e la temoo come se sapessero ch'è il massimo dci mali. Or noo è ignoranza o:itesta, l'ignoranza che sola merita biuimo, il pensar di ,aperc: quel che s'ignora? Appunto in questo, o cittadini, in questo forse io mi distacco dalla gran pfflt degli uomini, e se dovessi dire d'essere più sapiente di altri, i.a questo dirci che lo sono, che, come non so gNn che delle cose dcll'al di 11, cosl anche so di non sapcdc. Ma far opera ingiusta e disobbedire a chi è migliore di me, sia dio sis uomo, -io so ch'è cosa vergognosa e turpe. E dunque, per ticnorc di mali che so C:$$etc ma.li, io non fuggirò mai e non temern mai quelli che non so se non siu forse beni. Per questo, se voi ora rifiutaste di dar ascolto ad Anito, che disse che o non si doveva fanni il proc;e$So, o, se si faceva, non si poteva non condannarmi a morte, perché, s'io fossi assolto, ormai - cosl egli disse - i vostri 6gli avrebbero seguito l'insegnamento di Socrate corrompendosi tutti; se voi, dico, non ascoltaste Anito e mi assolveste e mi diceste tuttavia: « Socrate, noi non vogliamo dar ascolto ad Anito, ma ti assolviamo: mettiamo petò una condizione, che: tu non continui in cotesta rua ricerca e non faccia filosofia; se dunque ti uoveremo a continuarla, ti condanneremo a morte», io vi ditci: • Ateniesi, io vi aon grato e vi voglio bene, ma darò ascolto al dio piuttosto che a voi, e, fiochi!: avrò respiro e forza, continuerò a filosofare e ad ammonirvi e • istruire chiunque m'accada d'incontrare, ripetendo il solito discorso: "Brav'uomo, tu sei Ateniese, della città più grande e famosa per sapienza e forza: e dunque non ti vergogni, mentre cerchi d'ammassare quante più ricchezze puoi e d'ottenere gloria e onori, di non curarti dcUa tua mente e della verità, e di non pensare a migliorare l'anima tua quuto più puoi?~ E se qualcuno di voi dubitasse e dicesse che se ne cura... non subito per questo mc ne andrei e lo lascerei andare, rna gli rivolgerci domande e l'esaminerei e discuterci, e se mi sembrasse ch'egli non sia virtuoso ma dica d'esserlo, lo rimprovererei di non far conto delle cose che più importano e di prendersi più cura delle cose che contan meno. E questo fare.i oon chiunque m'avvenisse d'incontrare, giovane o vecchio, straniero o cittadino: rna più coi cittadini, in qulll\tO mi son più vicini. C,osl, sappiate, il dio mi romanda. E io non credo che ci sia mai stato bene magiorc nella città di questo mio servizi.o al dio. • Perdi!!: null'altro io faccio nel mio camminare per la città se non questo, cercar di persuadere voi, giovani e vecchi, a non curarvi del vostro corpo e delle v05trc ricchn:ze più o altrct• tanto che dell'anima vostra per farla migliore: lo faccio dicendo che non dalle ricchezze nasce la virtù, ma dalla virtù le ricchezze e ogni altro bene che conOSCIDO gli uomini, pubblico o privato. Oie se, C01JI parlando, corrompo i giove.ni, farei certo un gran mal.e: ma se qualcuno afferma ch'io pulo in modo diverso da questo, non dice il vero. E dunque - vi di.rei - date ascolto, Ateniesi, ad Anito oppure no, e assolvetemi oppure no, ma 11pendo ch'io non fitti null'altro che questo, anche se dovessi morire più volte». Non fate rum.ore, Atenit11i, e uoora concedetemi quello di cui vi ho pregati, di non far rum.ore, qualunque cosa io dica, ma di ascoltarmi: ~ l'ascoltarmi, io aedo, vi gioverà. Sto
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l FILOSOPI DEL V SECOLO
per dire cox per cui forse voi avrete voglia di gridare: ma non f.tdo. Sappiate dunque che, se condannerete me, uomo che sono come vi dico, noD tanto a mc farete danno, ma a voi. A me non fan danno né Meleto né AD.ilo: né lo pouebbero, perché, penso, gli d~i non pennettono che uno migliore riceva danno da uno peggiore. Posson forse farmi condannare a morte o all'esilio o alla perdita dei diritti civili, e costui, e altri con lui, forse aede che questi siano gran mali: io non lo credo, ma molto più aedo che sia male quello che ora fa lui, di cercare di dar morte a un uomo contro giustiz.ia. Ora dunque, Ateniesi, non tanto per me, come quakuno può credere, io mi difendo, ma per voi, che non disperdiate, condannandomi, il dono del dio. Perché, se voi mi ucciderete, non troverete UD altro uomo, lo dico senzt modestia anche se vi parrà cosa risibile, dal dio messo accanto alla città come a un cavallo grande e generoso, ma per la sua grandezza un po' pigro e biso~ d'essere stimolato da un assillo: perché proprio «1mc un assillo il dio ,;ni ha dato alla citùi, un uomo che non cessa di s1imolarvi e persuadervi e rimprovenrvi uno per uno, sempre e dovunque vicino a voi. Un altro cosl non lo troverete facilmen1e, o cittadini: e dunque datemi a.scolto e risparmiatemi. Voi forse, infastiditi come un donn.iente ch'è risvegliato, darete ascolto ad Anito e nell'ira mi condannerete: ma poi dormirete per tutto il resto della vita, se un dio per amor vostro non mandCN qualcun altro. E ch'io sia inviato da un dio alla città, voi lo potete capire da questo, che non è conforme all'uso degli uomini, ch'io tascuri rutti gli affari miei e lasci andare la mia casa come va, da tanti anni, per occupanni di voi, privatamente avvicinando CÌB$CU.llO di voi, come può fare un padre o un fntello più vecchio, a tentar di convincervi a vivere secondo virtù. E se traessi vantaggio o lucro da questi miei ammonimenti, forse avrei una qualche ragione umana: ma vedete voi stessi che i miei accusatori, che nelle loro accuse non hanno avuto alcun pudore, non son potuti giungere a tanta svergognatezza da portare un solo testimone, che dicesse ch'io ho chiesto o ottenuto una mercede mai. E prova evidente ch'io dico il vero, penso, è la mia povertà. F= potrà sembrare strano che io oon tanto zelo dia questi consigli in privato andando in giro per la città, e non osi presentarmi alle vostre assemblee e dar wnsigli alla città pubblicamenie. La causa è quella che m'avete sentito spesso dire in molti luoghi, che mi accade qualche cosa di divino o demonico, oome Meleto scrisse nella sua accusa facendosene beffe. t una voce, ch'io ho comincialo a sentire fin da fanciullo, una voce che, quando mi si fa udire, 5Clllpre mi distoglie da quello che sto per fare, e non mai mi incita a fare qualche cosa. t questa che s'oppone a che io faccia vita politica. E ben a rag.ione mi si oppone; perché voi ben sapete, Ateniesi, che, se da tempo mi fossi dedicato alla vita politica, da tempo sani morto, e non avrei giovato in niente né a voi né a mc. E non adiratevi con me, che dico il vero: perçhé 110n c'è uomo che possa salvarsi, quando s'oppone generosamente a voi o ad altra moltitudine per impedire che nella città si compiano, come spesso accade, opere ingiuste e illegali; chi wol a>mbattere veramente per il giusto, se vuole anche per breve tempo salvarsi, deve vivere wme cittadino privato, non come uomo politico. Io ve ne posso portare grandi prove, e non cli parole ma di fatti, che voi più stimate. Sentite dunque quello che m'è accaduto, e vedrete che per timore della morte io non sono disposto a cedere, e a compiere opere ingiuste, neanche una, e che, non cedendo, subito perderci la vita. Vi dirò cose uiviali e giudiziarie, ma vere. lo non ho eseteitato, Ateniesi, alcun'altra magistratura, ma fui buleuta; e la nostra tribù Antiochidc s'è trovata ad avere la pritania quando voi decideste di giudicare tutti insieme gli Strateghi che non avevano raccolto i naufraghi della battaglia navale; illegalmente, wme più tardi tutti voi riconosceste. Allora io mi opposi a voi, solo dei pritani, pct impcclirvi di fare cosa illegale, e votai contro. E mentre i politici volevano trarmi in giudizio e imprigionarmi, e voi gridavate e li incitavate, io preferii risdtlare la vita rispettando legge e giustizia all'approvare, per paura cli carcere o di morte, le cose ingiuste che voi volevate. Questo accadde quando la dttà era ancora governata a democruia, Poi, quando ci fu l'oligarchia, i trenta mi wnvocarono con altri quattro nella Tolo, e mi comandarono cli and~ ad arrestare a Salamina Lconte salaminio, per farlo morire: cose che anche a molli altri in gran numero ordinarono, per rendere loro complici qUllOti più cittadini potevano. E allora io, non a parole, ma coi fatti, mostrai che della morie, lo dico anche se è grossolano dirlo, non m'importa un bel nieate, ma che questo m'impona soltanto, di non commettere azioni ingiuste ed empie. Perché quel governo, pur cosi duro, D0Il mi spaventb, ~ poté costringermi a fare opera ingiusta: ma, usciti dalla Tolo, gli altri andarono a Salamina e vi arrestarono Leontc, e io ritornai a cw. E forse per que,10 w:ei morto, se quel governo non fosse stato dopo poco abbattuto: di questo
357 potete trovare molti teslimoni. Credete dunque ch'io sarei vissuto tmti 6Mi, se mi fossi dedicato alla vita politica, seguendo, come deve fare un uomo dabbene, giustizia, e ponendo questa, come bisogna fare, sopra (lgni altra cosa? No, certamente, o Ateniesi: n~ io né alo.in altro. E, in tutta la mia vita, pubblica e privata, troverete c.'i'io sono stato sempre lo stesso, troverete che non ho mai commesso opera ingiusta cede.odo ad alni, neanche a quelli che i miei calunniatori dicono che sono miei discepoli.
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Orbem:, ci1tadin.i, queste 50no press'a poco, e alue in qualche modo simili a queste, le cose ch'io posso Wl'e in mia dilesa. Ma forse qualcuno potrebbe sdegnani con me ricordando la sua condotta, se s'è trovato a subire un processo anche meno grave di questo, e ha pregato e supplicato i giudici con molte lacrime, e facendo qui venire i suoi figlioletti per suscitare più compassione, e inoltre molti altri congiunti e llmici, mentre io non voglio fare lo stesso, pur correndo, come pare, l'estremo pericolo. Qualcuno, in verità, vedendo questo, può essere sdegnato con mc, e per questo date il suo voto nella collera. Ora, se qualCUDo di voi è in questo stato d'animo - io non lo credo, ma nel caso che qulcuno lo sia, - io a questo dirò senza iattanza: « Anch'io, amico, ho qualche congiunto. Perché vale anche per mc la parola d'Omero, che neanch'io son nato da quercia o da roccia ma da uomini, siccM anch'io ho dei congiunti e dei 6gli, tre 6g]i, uno già ragano e due fanciullini. E tuttavia non farò venire ne:;;suno per farmi assolvere. Perché? Non per spavalderia, Ateniesi, n6 per disprezzo di voi. Se io ho o non ho paura della morte, è a1tro discorso: ma non mi sembra che sia bello per la gloria mia e vostra e di tutta la città, ch'io faccia di tali cose, alla mia età e col nome che ho: perché, falsa o verace che sia, è fllm2 che Socrate si distacca in qualche cosa dai molti. Ora, se quelli di voi che si distinguono per sapienza o valore o altra virtù faran cosi, sarà cosa vergognosa: e io spesso ne ho visli, che avevano fama d'aver qualche valore, e tuttavia, quando affrontavano un giudii.io, faccvan cose straordinuie, come se credessero un male intollerabile la lllOtte, e che sarebbero vissuti eternamente se voi non li condannavate: or costoro, a me sembra, disonorano la città, facendo pensare agli suanieri che i più virtuosi Ateniesi, quelli che gli Ateniesi stessi giudican meritevoli di onori e di comandi, non son che donnicciole, Questo, Ateniesi, non lo dovremmo far noi che abbiamo fama d'essere qualcosa, e voi, se noi lo facessimo, non dovreste permetterlo, ma mostrare che condannate chi viene qui a rapprcsenwc drammi pietosi, rendendovi ridicoli, assai più che chi se ne sta tranquillo. E anche a non tener conto della fama, cittadini, non mi par giusto né pregare il giudice né salvarsi con le pteghiere, ma piuttosto esporgli come stanno le cose e persuaderlo. Perché il giudice non siede qui per far dono degli atli di giustizia, ma per giudicare quel ch'è giusto: anzi egli ha giurato di non far favori a chi gli piaccia, ma di giudicffc secondo le leggi. Quindi non dobbiamo né noi abituar voi a spergiurare né voi lasciarvi abituare, perché non =mmci pii né noi né voi. Dunque non pretendete, Ateniesi, ch'io faccia davlLllti a voi cose che non considero n~ onorevoli né giuste né pie, soprattutto, per Zeus, que.ndo appunto sono accusato d'empietà da cotesto Meleto. Pcrch6, se cercassi con le preghiere di far fotta a voi che avete giurato, in verità tenterei di insegnarvi a non credere che sii dèi ci sono, e senza dubbio, mentre mi difendo, accuserei me stesso di non credere in essi. Ma le cose non stanno cosl: io aedo, Ateniesi, come nessuno dei miei accusatori, e affido a voi e al dio di giudicare nd modo che sia migliore per me e per voi.
La storiografia nel IV secolo I.
DA CTESIA A TEOPOMPO
Della prima metà dd IV secolo è Senofonte, forse il massimo storico del secolo, certo il meglio conosciuto da noi: e sono anche Ctesia e Filisto e forse Cratippo (e altri e altri). Ctesia era un medico, divenuto prigioniero di guerra dei Persiani, e vissuto onoratamente alla corte di Artaserse per molti anni: scrisse in ionico una storia della Persia ( ITegau,d ). Filisto era un generale di Siracusa, prima onorato, poi mandato in esilio dal tiranno Dionisio I, infine richiamato in patria da Dionisio II: scrisse un'ampia storia della Sicilia. Cratippo scrisse una storia della Grecia in continuazione della storia di Tucidide: forse suo, forse di Teopompo, forse d'altri è un ampio frammento che va sotto il nome di Storie elleniche di Ossirinco (perché trovato in un papiro d'Ossidnco). Della seconda metà del secolo IV sono Eforo e Teopompo, scolari cli Isocrate. Che scolari di Isocrate divenissero 'storici, e che interpretassero la storia da un punto di vista etico (o, più spesso, moralistico), non può meravigliare: i discorsi epidittici cli Isocrate erano appunto interpretazioni della storia della Grecia (e in particolare della storia d'Atene e di quella di Sparta) che avevano l'intento cli guidare Stati e uomini delle varie città. Eforo, di Cume, nell'Asia Minore, nato poco prima del 400 e morto intorno al 330 a. C., compose una Storia delle comuni imprese dei Greci e dei Barbari, in 30 libri, cominciandola dal ritorno degli Eraclicli e continuandola fino all'assedio di Perinto (da parte di Filippo) nel 340: riprendeva dunque in qualche modo il disegno erodoteo di una storia universale, ma, per quanto pare, con una cura IT1aggiore per la storia delle singole città. Teopompo di Chio, oratore epidittico come il maestro oltre che storico, vissuto all'incirca tra il 375 e il 305 a. C., compose, come Cratippo e Senofonte, una Storia ellenica, in continuazione di quella di Tucidide fino al 394; e poi una Storia filippica, sulle imprese di Filippo, ma con numerose e ampie digressioni sulla storia delle città della Grecia (una di queste, sulla storia della Sicilia, occupava tre libri). Notevoli storici furono anche Anassim.ene cli Lampsaco, Callistene e An~ zione. Ma di questi come degli altri scrittori di storie ci resta pochissimo. L'unico storico del IV secolo di cui possediamo intera l'opera è Senofonte.
II.
SENOFONTE
Nato ad Atene tra il 440 e il 430 e morto tra il 360 e il 350 a. C., Senofonte vide, fanciullo e adolescente, la guerra del Peloponneso; e la giovinezza e la maturità, fino alla vecchiaia, passò tra le rinnovate guerre dei Greci. Periodo di storia tristissimo: dapprima tutte le città della Grecia continentale combattono contro Atene 6no a che ne fiaccano la resistenza e ne distruggono le grandi mura; poi Atene è in balla dei trenta tiranni; poi, mentre Atene, cacciati i tiranni, ricupera forze e ricchezza (senza tuttavia riacquistate, ormai più, l'antico splendore), Tebe si stacca da Sparta e s'avvicina ad essa; ma alla fine Atene si separa da Tebe divenuta egemone e s'avvicina a Sparta. E intanto, dovunque, guerre: guerre di tutti contro tutti: Corinto ora sta con Tebe ora con Sparta; gli Argivi, discordi tra loro, ora s'uniscono alle une ora alle altre città; e similmente gli Arcadi. E lontano e vicino sta il re della Persia, debolissimo e potentissimo: e cresce il potere di popoli un tempo spregiati o quasi: dei Tessali dapprima, e poi dei Macedoni. Orbene, Senofonte scrisse nelle Elleniche la storia di questo confuso periodo, cominciando là dove Tucidide aveva interrotto la sua narrazione (battaglia di Abido, dell'autunno del 411 a. C.) e finendola col racconto delfo battaglia combattuta dai Tebani (nel 362) a Mantinea, contro Spartani ed Ateniesi insieme. Strano uomo, Senofonte. Da giovane aveva ascoltato Socrate conversare sul bene e sul male, sul giusto e sull'ingiusto, ma di Socrate, di cui pur conservò ricordo come d'un uomo giusto e santo, e di cui difese la memoria in una o due opere, i Detti memorabili, in 4 libri, e l'Apologia di Socrate (la cui autenticità è però estremamente dubbia), ammirò più che il distacco spirituale dalle cose del tempo, il forte equilibrio mostrato nella vita del tempo; tanto ch'egli difese la sua memoria soprattutto dalle accuse politiche, e la difese non tanto rivelando la forza spirituale che alzava il singolare filosofo sopra le miserie del mondo, quanto mostrando che la vita e le parole di lui erano utili a chi, in questo mondo, voleva vivere la vita del mondo. Perché bramoso di vivere, di vivere in questo mondo di lotte e di paci e di gioie e di dolori, era anche lui, Senofonte, l'affezionato scolaro di Socrate: uomo incline al ben fare piuttosto che al mal fare, ma non vigorosamente consapevole, non filosofo, non poeta, non contemplatore. Tanto è vero che, prima ancora della morte del maestro, quando, nel 401, fu invitato a partecipare (più, per cosl dire, come giornalista che come combattente) alla spedizione che, con l'aiuto di mercenari greci, Ciro si preparava a condurre nell'Asia per privare del trono il fratello Artaserse, egli non esitò: e parti per l'Asia, incurante del giusto e dell'ingiusto, ma ben desideroso di vedere nuove terre e paesi, pur nella guerra, tra le devastazioni e le rapine. Poco dopo il ritorno dalla spedizione egli incontrò Agesilao, re di Sparta, e ne divenne amico e protetto: e al fianco d'Agesilao combatté a Coronea (nel 394), lui, lo scolaro di Socrate, contro le fone congiunte di Tebe e di Atene, la patria sua (Socrate, benché condannato ingiustamente, aveva rifiutato di fuggire dal carcere per non disobbedire alle leggi della sua città); e, condannato all'esilio, visse, dopo Coronea, a Scillunte, in un vasto possedimento donatogli dagli Spartani; e a Scillunte rimase 6no a che essa
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non fu presa dagli Elei, nel .370; da allora visse a Corinto, benché gli Ateniesi, divenuti amici degli Spartani, avessero revocato il bando, Tale fu Senofonte, lo strano scolaro di Socrate: uomo del suo secolo, benché anche uomo d'ogni secolo. Uomo del secolo, egli s'accinse a scrivere un racconto e un'opera storica:' il racconto della spedizione di Ciro (nella Spedizione di Ciro o An11basi), e la storia delle vicende della .Grecia (nelle Elleniche dianzi citate). Artisticamente più riuscito è il racconto dell' An11b11si, che in realtà, più che racconto della spedizione di Ciro (terminata presto, con la vittoria a Cunassa dei mercenari greci di Ciro, ma, insieme, con la morte di Ciro), è resoconto minutissimo e fedelissimo della ritirata dei diecimila Greci, tra difficoltà e durezze e pericoli, da Cunassa alle città greche della costa, in un lungo e faticoso giro. Senofonte, il letterato filosofeggiante, che era diventato, dopo l'eccidio proditorio dei comandanti dei mercenari greci compiuto dal re dei Persiani, uno dei capi dei Diecimila, nel racconto rivive la fatica sua e dei soldati, ma con compiacenza piuttosto che con affanno: lieto appunto d'essersi salvato, d'aver aiutato gli altri Greci a salvarsi, ma soprattutto lieto di poter raccontare, d'avere un argomento nuovo e attraente, un materiale - potremmo dire con gergo giornalistico - di primissima scelta da sfruttare. Perché Senofonte è narratore brillantissimo: il suo periodare ha una semplicità di costruzione che si fa splendidissima grazia; la scelta dei particolari è cosl appropriata che si fa colore vivacissimo; l'asciuttezza, in tante parti, è cosl opportuna, da dar sapore al racconto colorito e pieno di grazia. Ecco, ad esempio, il racconto della presa di un forte: sono accostate e hanno medesimo tono, ma creano un contrasto di grande effetto coloristico, la narrazione di una gara di valore tra Greci e la brevissima rappresentazione di scene spaventose nel forte conquistato: poi, alla fine, il racconto è chiuso da una notizia in poche parole, saporosissima: Allora s'avanzarono Chirlsofo e Senofonte e Callimaco parrasio, comandante di compagnia: ché, tra i comandanti della retroguardia, a lui spettava in quel giorno il comando, mentre gli altri dovevano restare al sicuro. Condotti dli costoro, circa settanta uomini si distaccarono dal grosw, oorrendo a ripararsi sotto gli alberi, non ruu'insieme ma ciascuno per conto suo, gust· dandosi quunto poteva: intanto Egesia stinfalio e Aris1onimo metridiese, anch'essi comandanti di compagnia della retroguardie, se ne stavano fuori del J:'ecin10 alberato, che non poteva contenere più d'una compagnia. Fu allora che Callimaco escogilb uno stratagemma: usciva dal riparo dell'albero, faceva due o tre passi, e rapidillDente balzava indietro quando gli erano 1ettate addoS$o le pietre: a ogni Sllll uscita venivano consumati più di dieci carri di munizioni. Egesia, vedendo Callimaco far questo alla presenza di tutto l'esercito, e temendo di non riuscire ad entrare per primo nel forte, senza chiamare né Aristonimo ch'era Il vicino né Euriloco lusiese, entrambi suoi amici, avanza wlo e supera tutti. Callimaco, quando lo vede passare, si afferra all'orlo del suo scudo: e intanto Aristonimo metridiese e Euriloco lusiese commo dietro di loro, e li superano entrambi: tutti volevano essere i più valorosi. Cosl gareggiando tra loro, prendono il forte: perché dal momento che avevano cominciato a oom:rc, nessuna piena era stata più tirata su di loro. Si assistette allora a uno spettacolo terribile: le don.ne gettavano i figli aiù dalle roca:, e poi anch'esse si precipitavano giù; e gli uomini ugualmente ... Pochissimi uomini furono fatti allora prigionieri, ma furon presi molti buoi e asini e capre... ' Senofonre scrisse inoltre \lRII specie di romanzo diducali,:,:, ru CiM il Vecchio, la Ci,oprdi4, in otto libri: e numcr1>11i opu,iço[j: l'Eo:-onomico, · · · · · familiui e sull'agri,:,:,ltun.; il Convivio, \lD dialogo sull'amOfC; il G"ont, un dialogo I nide sull'ortimo principe; l'A,esi/ao, elogio dd R amico; la Coslil~iont dt,li Sparlani; finanze d'Atene; l'bP•· ,h1'o, sul modo di comandare la cava.lleri1; un u,matello CintttllCO, sulla cateia. Finalmente • lui attribuita cl.ùl1 rr.dizione manoscritta ~ la dtdi Altnitti.
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Orbene, questo Senofonte, cosl accurato, come osservatore, ad annotare stati d'animo e particolari significativi, cosl abile, come scrittore, a raccontare e a descrivere, cosl pronto, come capitano, a scorgere i pericoli, a incoraggiare i dubbiosi, a ridare speranza, :ragionevole speranza ai disperati, è come cieco, e quando scrive l' Andbasi e quando scrive le Elleniche, di fronte a un paradosso storico, al più grnnde paradosso storico dei tempi suoi. Perché un paradosso storico è quello della potenza dei Persiani, che, politicamente deboli per le frequenti discordie dei satrapi mal frenati o mal dominati dal re, e militarmente ancora più deboli ( tanto da non riuscir a impedire la ritirata dei Diecimila privi dei comandanti), tuttavia poterono costringere le città greche a riconoscere l'incondizionato dominio persiano nell'Asia, e poterono obbligarle a obbedire agli ordini del re, dopo che, con Antalcida, Sparta aveva accettato di essere la vassalla esecutrice dei suoi comandi. Orbene Senofonte, che più e più volte accenna alla debolezza militare della Persia, e ne vede una prova certissima nella ritirata da lui raccontata nell'Anabasi, non rileva il paradosso né nell'Anabasi né nelle Elleniche: tanto che, quando racconta di quel convegno delle città in cui il satrapo Tiribazo, dopo gli accordi con Antalcida, lesse il comando del re(« Il re giudica che ... e a chi non accetta le amdh:ioni di pace, farà la guerra » ), il suo tono non muta, la sua penna non vibra, il suo pensiero non gli suggerisce alcuna notazione. Gli è appunto che, uomo del suo secolo, egli non coglie il problema storico delle libere città della Grecia: non vede quello che aveva visto Tucidide, che la libertà si può difendere solo con la forza, e che in Grecia la forza, una forza salda e durevole, poteva essere ottenuta soltanto da una città imperiale (o da una confederazione che disciogliesse i limiti delle città chiuse in se stesse). Sicché, non scorgendo il problema, non vede il male profondo, non si sofferma a notare il paradosso e a indagarne le cause, ma racconta di paci concluse e di guerre subito riprese, di alleanze strette e subito sciolte, come di eventi cosl naturali, da non aver bisogno cli spiegazione, anzi da non essere degni d'alcuna notazione. Più ancora: se una spiegazione al sorgere della prima alleanza antispartana egli la trova, la trova nel fatto che il re, volendo costringere Sparta a richiamare dall'Asia Agesilao per difenderla, si serviva del suo oro per corrompere, nelle singole città, alcuni caporioni; e non pensa che quell'oro, certamente speso, era reso efficace non dalla sola malizia di alcuni, ma dal fatto che le città greche, cupide di libertà ma incapaci di solidarietà se non momentanea, sempre erano bramose di opporsi al più forte, come erano sempre, quando ne avevano la possibilità, pronte a costringere le altre con la forza, non mediante una legge comune. L'incomprensione della storia greca nasce, in realtà, da una incomprensione più profonda, voglio dire dalla incomprensione delle eterne leggi ddla storia, Erodoto aveva rivolto il suo sguardo al destino dell'uomo che per natura brama felicità nella storia, e, palesataglisi illusoria la speranza, aveva giudicato misterioso il corso degli eventi, irrazionale la storia. Tucidide aveva rivolto lo sguardo alla vita consociata degli uomini nelle città, delle città negli imperi: e aveva visto che alcune leggi regolano il corso degli eventi, almeno nella maggior parte dei casi, accadendo per lo più (e anzi sempre, se il più forte è molto più forte) che chi ha più forza vinca il più debole; ed accadendo per lo più che la consociazione salvi il singolo meglio che il suo isolamento. Pertanto aveva giudicata razionale la storia, se pure di una razionalità insidiata dal caso o paralogo. Sopra l'irrazionalità e l'insidiata razionalità Tucidide ed Erodoto avevano poi scorto una più certa, anzi una certissima razionalità, q~ella ch'è viva nell'uomo che conosce le leggi
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della storia, e vince la brama, e s'alza sul tempo (Leonida hl Erodoto, Pericle in Tucidide), Senofonte per cori:tro non vede li.topidamente né la razionalità tucididea né l'irrazionalità erodotea: e va come incerto e vacillante. Cosl, ad esempio, poche volte egli giudica le cause dei fatti, e gli effetti di una scelta; ma quando Tebe riesce a cacciare gli Spartani dalla rocca di Tebe, non dubita che siano intervenuti gli dèi a punire l'empietà di chi s'era impadronito col tradimento di quella rocca. Insomma egli coglie l'infrazione alla norma, ma non vede l'errore e la colpa maggiori di Sparta: l'errore di non avere fatto nulla per unire piuttosto che per dividere la Grecia negli animi, cercando leggi comuni; e la colpa di aver voluto sacrificare l'altrui libertà alla sua tirannica egemonia. Quindi non vede che la reazione contro Sparta nasceva naturale in chi amava la libertà, anzi più naturale in quelle città greche che volevano ciasruna la loro autonomia anche col sacrificio di una più moderata ma più solida libertà confederale. Si potrebbe anche dire che egli, mentre non si serve dell'idea del divino per interpretare la storia, ma si richiama a una superstiziosa credenza in interventi divini per spiegare qualche singolo evento dovuto a cause chiaramente umane, ha mala conoscenza del divino e imperfetta conoscenza dell'umano. Tuttavia c'è, di là da questa incomprensione, e merita d'essere messa in risalto, anche in Senofonte una luce: una luce che, se pur solo balenante, è tuttavia luce d'idealità. La scorgiamo là dove Senofonte si ferma, mentre racconta i contrasti e rivela le passioni degli Ateniesi durante il cosiddetto processo delle Arginuse, a notare che un uomo, solo tra tutti, s'alzò a sfidare la collera di tutti, non perché mosso da brame, ma per testimoniare il dovere, ch'era suo e di tutti, di rispettare le leggi scritte e le leggi non scritte; e là dove, lui aristocratico (o uomo di destra come noi diremmo), loda Trasibulo democratico (o uomo di sinistra, come noi diremmo); e là dove, raccontando i contrasti tra il tiranno Crizia e il pur oligarchico Teramene, e biasimando del medesimo biasimo l'eccesso demagogico (ch'è falsa libertà popolare e reale tirannide di pochi demagoghi) e l'eccesso oligarchico (ch'è falso amore dell'ordine e reale despotismo di pochi tiranni), mostra di giudicare suprema virtù civile la moderazione: che è appunto vittoria della ragione sulla passione, rispetto dell'altrui come della propria libertà, affermazione di una libera solidarietà. Il processo dopo la ba/taglia delle Arginuse (Hellen. I, 7, 4-35) Si teMe quindi la seduta ·dell'Assemblea, nella quale Teramene, sostenuto da altri, accusò gli strateghi di non aver raccolto i naufraghi: di questo, egli diceva, essi dovevano rendere conto. E una prova che non avevano giustificazione egli la indicava nel rapporto mandato da loro stessi al Consiglio e all'Assemblea, dove oessun'altra ragione avevano addotta se non la tempesta. Cill$0.ID0 degli strateghi si difese brevecnente (ché, in contrasto con la legge, non fu loro concesso di preparare il loro di.scorso) esponendo ciò ch'era avvenuto: mentre essi movevano conuo i nemici, avevano ordinato di raccogliere i naufraghi ad alcuni trierarchi, uomir:ii. capaci e che erano gil stati strateghi, come Tera.mene e Trasibulo e altri di pari merito; se gli Ateniesi volevano trovare dei responsabili, nessun aluo dovevano accusare se non quelli che ue avevano avuto l'ordine: « Ma - aggiunsero, - benché essi ci IICO.!Sino, noi non diremo, men• tendo, che essi sono colpevoli, perché fu la violenza della tC'lllpesta che impcdl di raccogliere i naufraghi. Testimoni di quanto affenniamo sono i piloti e gli altri ch'erano a bordo•· Queste parole stavano per persuadere il popolo, e già molti cittadini. s'alzavano per farsi garanti, quando fu deciso il rinvio a un'altra sedura, col pretesto che allora era tardi e non si sarebbero potuti
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contare i voti per alzata di mano: presentasse il Coruiglio,' previa delibcruionc, una 111.ozione sul modo di giudicare gli imputati. In oçcasione delle fcs1c Apaturie, in cui i membri delle fratric e i parenti si riuniscono, Tcramene e i suoi amici orgfllizurono una manifesta.ione di questo modo: uomini veuiti di nero e col capo rasato (ricorrendo la festa, ve n'erano molti) dovevano presentarsi all'Assemblea fingendosi parenti dei morti; e inoltre pem1amo Callisseno ad accusare nel Consiglio gli
stra1cghi. Quando linal.ruentc l'Assemblea fu di nuovo convocata, il Consiglio presentb la propria mozione, redatta, su proposta di Callisscno, in questi termini: « Avendo gli Ateniesi udito nella precedente assemblea le accuse mosse agli strateghi e la loro difesa, tutti i cittadini votino divisi per tribù, si pongano due urne per tribù e per ogni tribù l'ualdo proclami che quelli che
giudkano gli strateghi colpevoli pu non aver raccolto i vinci1ori della battaglia navale, depongano il loro VQtO nella prima urna, quelli che non li giudicano colpevoli, nella seconda. Se sono giudicali rolpevoli, siano condannati a morte e consegnati agi.i Undici; e siano confiscati i loro beni e assegnata la dodma alla dea•· Si presentò allora all'Assemblea un 110mo che raccontò d'essersi salvato su di un barile di farina: direva che i naufraghi lo avevano incaricato, qualora si fosse salvato, di informa.re il popolo che- gli strateghi non avevano raccolto quelli ch'erano stati i migliori difensori della patria. Eurittòlemo di Pisianatte ed altri c:hies1:ro che fosse messo in istllo d'accusa Callisscno per aver redatto una mozione illegale. Alcuni del popolo li approvaVllllO, ma la folla tumultuosamente protestava che era intollerabile che non si volesse permeucre al popolo di fare ciò che voleva. E quando poi Licisco propose che con lo stesso voto con cui venivano Jiudicati gli strateghi fossero giudicati anch'essi se insistevano nell'accusa, di nuovo la folla rumultuando approvò, sl ch'essi furono costretti a lasciare l'accusa. Poich~ alcuni pritani rifiutavano di meltete ai voti questa procedura di scrutini.o come illegale, subito Callisseno risali sulla tribuna e mos.sc contro loro le ste$C accuse; e la folla gridò di me1tere in ìstato d'accusa i nuovi oppositori. I pritani spaventati accettarono allora, all'unanimità, di mettere ai voti la proposta. cccctto il solo Socrate, figlio di Sofronisco, che si ri6utò di disobbedire alle legai. Poi Eurittolemo sali sulla tribuna e parlò in difesa degli strateghi: « O Ateniesi, sono qui sia per accusare Pericle, bench~ mi sia congiunto da legami di paren• tela e di familiarità, e Diomedonte, congiunlo a me da legami di amicizia, sia anche per difenderli, e consigliare quello che mi sembra il miglior partito per la città. Li accuso di avere dissuaso i loro colleghi dal mandare al Consiglio e a voi la dichiarazione che essi volevano fare, d'avere ordinato a Teramene e a Trasibulo di raccogliere, con quarantasette triremi, i naufraghi, e che questi non l'avevano fatto. Essi ora si trovano a dividere la tesponsebilità con quelli ehe sono i soli colpevoli: in cambio della generosità mostrata allora, per le insidie loro e di alui corrono ora pericolo di !POi:te. No, ciò non avverrà, se mi presterete ascolto e agirete in conformità delle leggi umane e divine: conoscerete cosl meglio la verità, e noa avrete poi da pentirvi di aver mancato gravemente dinanzi agi.i dèi e din1n2i a voi sin~. « Il consiglio ch'io vi do, per non essere ingannai.! n~ da me ~ da altri e punire i colpevoli con cognizione di CIU$11, sia individualmente sia colleuivemenle, è che voi concediate loro anche solo un giorno, non di più, per difendersi, e non vi fidiate di altri più che di voi stessi. Ben sapete, Ateniesi, che è tuttora validissimo il decreto di Cannono, per il quale chi ha fatto danno al popolo degli Ateniesi, deve fare la sua difesa dinanzi al popolo, individualmente; riconosciuto colpevole, deve essere condannato a morte e precipitato nel baratro e i suoi beni confiscati e assegnata la decima alla dea. Secondo questo decrelo propongo che siano giudicati gli straleghi, e Pericle per primo, che mi ~ parente, se cosl · vorrete; ché far più conto di lui che della cinà mi sarebbe di disonore. Oppure, se lo preferite, giudicateli secondo la legge dei sacrileghi e dei traditori, per la quale chi tradisce la città o ruba gli oggetti sacri, se, giudicato in tribunale, ~ riconosciuto colpevole, non è seppellito nell'Attica e i suoi beni sono confiscati, Secondo quella che vorrete di quesle due leggi, o Ateniesi, giudicate gli uomini, individualmente, dividendo il giorno in tre par1i: la prima per riunirvi e votate sulla procedura da seguire nel giudicarli, li reputiate colpevoli o no; la seconda per l'accusa; la tena per la difesa. Cosl i colpevoli saranno 1 Le deliberazioni clovnUJO Camera Alu.
eAete
prae dall'Aacmblea o Camera Buu. Il Co.iu.idlo ~ la
36S puniti severissimammtc, e gli innocenti saranno assolti e non s&n11110 condannati a morte ingiu-s1amcn1c. Giudicandoli in confonnità ddla. legge, rispetterete il giuramento e agirete piamente; .mandandoli invece a morto scm:a giudizio in conttll$lO con la legge, vi schiererete a fianco degli Spartani contro quelli che li hanno vinti, e han catturato loro settanta triremi. « Quale timore vi spinge ad aver tanta fretta? A meno che il vostro timore non sia quello di non poter mandare a morte secondo arbitrio e di dover assolvere quando giudidiiatc seguendo la legge, mentre potete utciderc seguendo una proceduza illegale, com'è quella del V01o u.nico che Callisscno ha persuaso il Consiglio di proporre al popolo. Mandando a morte un uomo e per di più iMOCcntc, un giorno forse vi pentirete; e ricordate che, se il pentimento è sempre doloroso e nefasto, più ancora lo è se l'cnore è costato la vita ad un uomo. E iniquo sarà se, mcnuc ad Arist,uco, che abhatté il governo delllocratiw e consegnò Enoe ai Tebani nostri nemici, deste un giorno per difendcni e concedeste tutti gli altri diritti previsti dalle leggi, dei loro diritti priverete gli strateghi che hllMo cscgui.to tutti i vostri ordini e hanno vinto i nemici. « Ateniesi, rispettate le leggi che voi stessi vi deste e che vi han fatto potenti, e IIOD. agite contro di e-sse. Riesaminate gli avvenimenti che avtebbero dato occ:as.ione alla colpa degli urateghi, Ritornati a terra dopo la vittoria navale, Diomedonte propose di muovere tutti insieme in colonna per raccogliere i relitti delle navi e i naufraghi, ed Eraslnide consigliò di muovere a tutta veloci1à contro i nemici rifugiati a Mi1ilene; Trasillo allora fece osservare che si potevan fare e l'una e l'altra cosa, lasciando sul luogo una parte ddla Botta e movcndo col resto contro i nemici, se ogni stratega cedeva tre navi della propria divisione (gli strateghi erano otto) e se H aggiungevano a queste le dieci navi dei tassiarchi e le dieci dei Sami e le tre dei navarchi (in tutto quarantasette navi, quattro per ognuna delle dodici navi naufragate). Lasciarono dunque $Ul posto i 1a.ssiuchi, tra cui Trasibulo e Teramc:ne, che nella assemblea precedente ha accusato gli strateghi: e col resto delle navi mossero contro i nemici. Quale errore o mancanza fu commessa? Se è giusto che dell'insuccesso delle operazioni rispondano quelli che ne hanno la responsabilità, giusto è che siano chiamati in giudizio per non aver raccolto i naufraghi quelli che, incaricati del salvataggio, non hanno eseguito gli ordini. Ma in difesa degli uni e degli altri devo dire che fu la tempesta ad impedire di fare quanto gli strateghi avevano disposto. Ne sono testimoni quelli che si sono salvati da soli, e tra questi proprio uno dei nosui strateghi, uno che si salvò sulla ' nave che stava per alfondare, e che ora volete giudicare con lo stesso voto con cui giudicate quelli che non hanno eseguito gli ordini, lui che doveva essere raccolto da essi. « Perciò, o Ateniesi, poich~ avete la fortuna d'esser vincitori, non fate come quelli che hanno la sfortuna di essere vinti, e riconoscete che quello che è accaduto era nell'ordine delle cose voluto dagli dèi, e non chiamate tradimento quella che fu solo impossibilità di ~ gli ordini ricevuti a causa della violenza della tempesta. I vincitori è più giusto, molto più giusto onorarli con corone, che punirli con la morte per istig!ll:ione di uomini malvagi». Dopo questo discono Eutittolcmo redasse una mozione, nella quale chiedeva che gli impu· tati fossero giudicati ciascuno separatamente secondo il decreto di Cannono, mentre la mozione presentata dal Consiglio chiedeva che fossero giudicati tutti con un voto solo. Messe ai voti le due mozioni per alzata di mani, dapprima fu approvata quella di Euriuolcmo; ma, avendo Menecle intentato un'azione d'illegalità,' fu fa1ta una seconda votazione e fu approvata la mozione del Consiglio. FIUOno quindi condannali gli olio strateghi della battaglia navale: i sci che si trovavano in Atene furano giustiziati. Poco tempo dopo gli Ateniesi si pentirono e votarono the quelli che avevano ingU111ato il popolo, tra cui Callisseno, fossuo chiamati in giudizio e indicassero dei gaunti, fino al momento del giudizio. F1UOno chian;iati in giudizio Gtllisseno cd altri quattro; i loro g:armti li fecero imprigionare; ma poi, durante una rivolta, essi fuggirono prima del giudizio.
La morte di Teramene (Hellen. II, 3, 15-55) Crizia, che nel principio andava d'ac-cordo cd era amico di Tcramc:ne, ben presto, non potendo dimenticare di essere staio esiliato dal rqime demoetatitO, cominciò a mandare a morte molti cittadini. Teramene cercava di frenarlo, dicendo che non era giusto mandare a mone un
dopo
' Uno procedur:t. poteva e:ssere interrotta con l'acicusa di illeaaliti: natunlmeotc veniva ripresa l'cr.me.
366 uomo, soltanto perchl!: eta stato onorato dal popolo, sema che avesse fatto dcw:t male ai nobili: « Anche noi - diceva, - abbiamo detto e fauo molte cose pet' in,rmarci la cittl »: ma Ctuia (chi!: ancora trattava familiarmente Tcrameae) gli ribatteva che ehi aspira al potere deve sbaraz. zaffi soprattuno di quelli che potrebbero impedirglielo: « Se per il fatto che 1i1m0 trenta e non uno, tu credi che dobbiamo esercitare questo potere co!Ile se non fosse una tirannide, sei proprio ingenuo». Quando poi, a causa delle molte ed ingiuste esccuz.io.cii., molti cominc:i&rono a radunarsi pubblicamente e a domandarsi pieni di spavento quale sorte sarebbe toccata alla repubblica, Tcrameac riprese a dire che l'oligarc::hia non si poteva mantenere se non si chiamava a partecipare 11.gli affari pubblici un numero sufficiente di cittadini: e Crizia e gli altri trenta, il cui maggior timore era ormai che i cittadini si ratrogliesscro intorno a Tcramene, ne scelsero tremila. I Trenta radunarono i Tremila nell'agorà e radunarono gli altri, quelli che erano fuori della lista, in luoghi diversi; poi, fatti venire i soldati della guarnigione e un certo numero di cim1dini che parteggiavano per loro, disarmarono tutti ttanne i Tremifa, portarono le armi sull'actopoli e le ammassarono nel tempio, Qui.ndi, potendo ora fare quello che volevfflo, mandarono a morte molti cinadini, gli uni per inimicizia e gli altri per impadronirsi dei loro beni; poi, per poter mantenere la guarnigione, deliberarono di impadronirsi ciascuno di un meteco da mandare a morte e confiscarne i beni. Anche a Teramene ordinarono di impadronirsi di chi voleva; ma Teramene rispose: • Non mi sembra che ci faccia onore commenece ingiustizie peggiori di quelle dei sicofanti, mentre diciamo di essere i migliori dei cittadini. Essi, almeno, quelli che depredavano li lasciavano vivere; noi invece uccidiamo chi non ci ha fatto alcun torto, per depredarli. Non è questa una iniquità peggiore di quelle dei sicofanti? ,. I Trenta allora, temendo ch'egli impedisse loro di fare quello che volevano, cominciarono ad accusarlo subdolamente presso i singoli membri del Consiglio, dicendo che voleva far cadere il regime. Alla fine, dopo aver disposto che alcuni giovani noti per la loro temerità intervenissero armali di pugnale, convocarono il C.Onsiglio. Giunto Tera.mene, Crizia si alzb e disse: « O signori del C.Onsiglio, se qualcuno di voi pensa che ci sono più esecuzioni di quanto richiedano le circos1ame, osservi che sempre ve ne sono dove avvengono mutamenti di regime; e qui è inevitabile che molto più numerosi che altrove siano i nemici dell'oligarchia, e perché la nostra città è la più popolosa della Grecia, e perché il popolo vi è staio allevato in regime di libertà per lungo tempo. Noi, sapendo che per voi e per noi la democrazia è un regime deleterio, e che la democrazia non sar~ mai ben vista dagli Spartani che ci haMo salvati, mentre l'oligarchia avrà sempre la loro fiducia, pt-rcib abbiamo instaurato questo governo, col loro consenso. Ora, se coi vediamo qualcuno contrario all'oligarchia, sbatuzia.mocene; e quando è proprio uno di noi a insidiare questo regime, tanto più ci sembra giusto pwùrlo. Qui ora c'è Teramcne, che cerca di rovinare noi e voi in ogni modo. Potete rendervene certi, se riflettete che nessuno pitl di lui biasima lo stato presente, ni di più ci contrasta, quando voaliamo sbarazzarci di qualche capo del partito democratico. « Se egli avene pensato eosl fin dal principio, sarebbe noslrO nemico, ma non potremmo a ragione giudicarlo un reprobo. Ma è stato lui ad iniziare la politica di fiducia e di amicizia con gli Spartani, lui a dare il primo colpo al regime dcmoa-atico, lui a incitarci vivamente a punire i primi che ci venivano deferiti; cd ora, ora che noi e voi siamo divenuti aperta.mente nemici del popolo, disapprova quanto avviene, per mettersi lui al sicuro e lasciare noi nel pericolo. C.Osl bisogna vedere in lui non solo un nemico, ma ançhe il traditore nostro e vostto ... N~ è cosa nuova quella che fa, ché egli è traditore per natura; basta ricordare il suo passato. Benvoluto in principio dal popolo per i medti del padre Agnone, faVorl con ardore il mutamento dalla democruia al governo dei Quatirocento; e in questo governo era dei primi. Però poi, quando si accorse che sorgeva un partito avverso all'oligarchia, si mise a capo del popolo contro i Quattrocento. E perciò gli fu dato il nome di coturno, eh~ il coturno $CIDbni adattatsi all'uno e all'altro piede... • Se è vero che tutti i rivolgimenti apportano morti, tu coi tuoi continui cambiamenti sei responsabile della morte di moltissimi oligarchici per mano dei dcmocnitici e di moltissimi democratici per mano degli oligarchici ... Come dunque si può aver riguardo di uno che notoriamente mira solo a trar profitto da ogni situazione, senza farsi scrupolo alcuno ni della giustizia n~ degli amici? C.Onosccndo la sua facilità a passare da una parte all'altra, come non guardarsene, perché non possa fare lo stesso contro di noi? Noi dunque lo accusiamo davanti a voi di insidiare: e tradire e noi e voi ... Quindi, se volete CSIICtt saggi, non risparmiate lui ma salvale voi stessi,
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ulva:za farebbe imbaldanzire molti dei VO&tri 1vvenll'i, mentre la tua mane tnmspcnme e dei cittadini e degli stnaieri •. DctlO questo, sedett,e. S'elzb allora Teramene, e disse: « ... In quCNO 10D0 d'accordo coa Crizia, che, se qualc:uno VI.Iole 1bbat1C1e il WIIUO potere e raforza quelli che cospirano CIOIIUO di voi, deve essere puni10 col mauimo castigo. Ma per p)ter ben aiudiolre I chi questa 1CCW11 li posu muovere, cons.iderate la condotta passata e quella ptttente di noi due. • Pino • che si ~ trattato di far entrare voi nel Umsiglio e di eleggere magi1uati e di citare in IP,udwo quelli che erano sicofanti certissimi, tuui eravamo d'l0COl'do; ma quando COStolO cominciarono I impadronirsi di uomini nobili e di penane dabbene, allora ClOJninciai I oppormi loro. PercM sapevo che, mandando a morie Leonte di Sawnma, persona d'india:utibile va1on: e di condona inccccpibile, i suoi piri a,,rebbeio awto paura, e spinti dalla paura si sarebbero schierati contro questo governo; e pensavo che, arrestando Nicàaio 6glio di Nicia, ch'era ricco e D01I aveva mai pccato cli demagogia ni lui n4i 1110 padff:, i suoi pari ci si sarebbero fatti ncmid. E upcvo che, mandando I mot1e Antifonte, che durante la guerra ci foml due eccellenti triremi, anche quelli che avevano dato la loro opera per il bene della città avrebbero cominciato a sospettare di noi. E mi opposi anche quando ci ordinarono di arrestare ciascuno UD meteco: mi sembnva evidente che, se avessimo ucciao costoro, tutti i meteci ci si sarebbero messi 011nuo. Mi opposi 1111COra, quando fu,:oQO tolte le anni al popolo, ~ peuMVO che non ,i dovesse indeboliM la città: pensavo che neanche gli Spar11ni ci aveaero Wvato perché, ridoni a pochi, non potessimo e5Sel'e loro d'alcun aiuto; chi, se avessero voluto questo, avrebbero potuto dis1rugerci tutti, luciandod ancora per poco patir la fame. E non mi 1C1Pbrava opportuno assoldate corpi di auardia, potendo trarre dalla no5lra parte un tal numero cli ciuadini. da poter poi facilmente, noi capi, dominare i sudditi. E mentre vedevo nella ciuà molti conttari a questo governo e molti costtt:ui a esulare, non approvavo che fossero banditi dalla città ni!i Trasibulo ni!i Anito Diii Alcibiade: sapevo che cosl l'opposiz.ioue si sarebbe rdorzata, se davamo ,al popolo capi valenti e a chi bramava. il potere mostravamo il numero dei suoi alleati. Or chi dava apenamente tali mnsigli, biqna considerarlo amico o traditore? O Criz.ia, non quelli che cerano cli ridw-re il numero dei nev;iici ni!i quelli che si procuWIO molti alleati, raflorzano i nemici, ma piutlOSIO quelli che inciustamente si appropriano dei beni alttui e mandano a IDOrte gli innocenti: q11e5ti IICCte&COnO il numero dei nemici, e tradiSCOJIO non solo gli amici ma anche se stessi per Wll ignobile sete di lucro. La YCl'ità di quello che dico vi apparirà chiaramente da questa considerazione, se non ~ possibile altrimenti: Trasibulo ed Anito e ali altri esuli, KCOado voi, preferirebbero che le cose qui in Atene andusem come io vorrei o come YllhDO? Essi ora, io credo, penw»o di aYete alleati downque; se invece ci fosse amica la maaiore e la miglior parte dei ciuadini, stimerebbero difficile aaalire anche un punto solo della città. « Crizia dice ch'io non faccio che cambiare partito; ebbene, riflettete. Il aovemo dei Quattrocento fu votato, sl, dal popolo, che sapeva che gli Spartani si satebbeto fidati di qualsiasi governo piuttoato che della democrazia; ma come quelli non cedevano e 'fu chiaro che gli straieghi Aristoccle e Melanzio e Aris1arco fort:i&cavano il molo per accogliervi i nemici e impaclronini essi e i loro amici della città, io, come me ne aca>m, CCICai d'impedirlo. Si pub dire che qumo l tradueglillllici? « C.OStui mi chiama coturno percM cerco cli adattarmi agli WU. e agli altri; ma chi ~ malvisto dagli uni e dagli altri, questo, per gli da, come bisoana, chiamarlo? Tu infatti sotto il govemo democradco pusavi per il mqgiore nemico del popolo, sotto il perno aristocratico sei divenuto il peuiore nemico dei nobili. Io, o Crizia, sono sempre stato e sono tuttora contrario a quelli che non credono che vi tia vera democ:razia 6no a quando non abbian parte al governo anche i servi e qudli che per miseria venderebbero la patria per una dramma, e sono sempre contrario a quelli che non credono che vi s:ia vera oligudrla fino a quando non abbiano ridotto la città a subire la tirannia.di pochi. Gil prima pensavo che il miglior partito fosse quello cli formare un 80\ICl'hO con quelli che possono difenderlo e coi cavalli e con ali scudi, e sono ancora dello sreuo parere. Se puoi dire, o Crizia, quando mai io cac,i, in iqime democratico o tirannico, cli privare dei diritti politici gli uomini dabbene, parla: du!, se si potti provare che io ora faccio questo o che l'ho fatto in passato, convengo con voi cli meriwe la mone, dopo i peggiori supplizi"· Terminalo il discorso, essendo evidente che il C-onsiglio l'approvava, Crizia, pensando che, se permetteva che si venine ai voti, Teramcae si sarebbe salvato, scambiate alcune parole coi Trenta, uscl, e colhlllldb qli UOD!ini armati di pugnale di porsi bene in vista presso la balaustra. Quindi rientrb, e disse: « Credo, o si,nori del Consia)io, che tia compito di ua buon capo, se
chcrà
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LA STORIOGRAFIA NEL IV SECOLO
vede ingannati gli amici, non tollentrlo. Cosl farò io; e questi che sono qui dav111ti a noi dkono che, se ]11SCCrcmo libero uo. uomo che agisce apenamentc cono:o l'oliglll'Crull, non lo tollereranno. Le nuove leggi stabiliscono che nessuno dei Tremila può CS5Cl'C mandato a morte senza un vostro voto, mentre ru quelli che non sono nella lista i Trenta hanno potere di vita e di morte. Ebbene, io, col VO$tro consenso, capcello dalla lista questo Teramene. E noi lo manderemo a morte». Udito ciò, Teramene con un balzo si rifugiò presso l'altare, e gtidò: « O cittadini, vi domando la cosa più legittima del mondo, che non sia in potere d'UII Ctizi.a di cancellare dalla lista né il mio né il nome cli chi vuole di voi, ma clic ed io e voi siamo giudkati secondo la legge stabilita per quelli della lista. So, sl, thc a nu.!Li mi vard. questo altare: tuttavia voglio mostrarvi che costato non solo sono i più iniqui dinanzi agli uotni.ni, ma anche i più empi dinanzi agli dèi. Di voi, o sente dabbene, tni stupisco, che non soccorriate voi stessi, ben sapendo che il mio nome DOD ~ più fatilmente çancellabile di quello di ognuo.o di voi». Allora l'araldo dei Trenta comandò agli Undici di pr~dere Teoonene. Entrati costoro con gli agenti condotti da Satiro, l'uomo più impudente e tracotanle di tutti, Crizia disse: « Vi consegniamo questo Teramene giudicato secondo la legge. Prendc1elo, e, condottolo dove bisogna, fate quello che dovete ». Quindi Satiro e i stJOi agenti lo 1tr11pparono dall'altare, mentre egli resisteva e invocava d~ ed uomini a testimoni della violenza che subiva. Ma il C.Onsiglio stava fermo, vedendo che gli uomini presso la balauma enno della stessa risma di Satiro, e che l'ingresso della sala del C.Onsiglio era pieno di guardi.e, che sapevano armate,
L'ultima pa,ola (Hellen. VII, 5, 26-2,) L'esito di questi avvenimenti fu conuario a quello che tutti ,'aspettavano. Quando gli uomini di quasi rutta la Grecia furono accampati gli uni contro gli altri, era persuasione di tutti che dopo la banaglia i vincit0ri avrebbero dominato, e i vinti sarebbero stati assoggettati. Ma il di.o fea che entrambi alzassero un trofeo come vincitori senza che m l'uno né l'altro lo impedisse, e che entrlllilbi, come vinti, chiedessero il permesso di seppellire i morti. Ma sebbene dicessero cnuarnbi d'aver vint0, non risuharono né l'uno né l'altro, né per territorio né pu numero di ciuà né per autori1l, inaegiorl di quanto fossero prima della battaglia. E il disordine e la confwione in Grecia furono, dopo la battaglia, maggiori di prima ...
Gli oratori I.
LISIA E GLI ORATORI FORENSI
L'oratoria ~ arte antichissima, e destinata a vivere fine~ g]i uomini &i raccoglieranno in città o società, vigorosamente esercitata soprattutto nei liberi Stati,
dove, nelle assemblee deliberanti, chi SOitiene la necessità cli una legge, di una misura, di una politica, deve persuadere i suoi pari con la parola; ma esercitata anche in città non libere, dove il sovrano, pur assoluto, consulti i suoi consiglieri, ed esercitata per altro modo in ogni paese, downquc ci siano e leggi e giudici e giudizi, e gli accusatori devano provare la verità dell'accusa e gli accusati devano mostrare la propria innocenza. t forse per questo, per questa necessità eterna dell'oratoria, che nulla ci resta di tanti discorsi pronunciati in tanti secoli di storia greca, in tante e tanto illustri città: percM il discorso, considerato una necessità, non era anche giudicato un'opera d'arte; né d'altra parte, pronunciato per ottenere un effetto immediato in circostanze ben determinate, pareva che potesse suscitare, quando fosse scritto e pubblicato, qualche interesse in lettori lontani nello spazio o nel tempo come un'opera
poetica o scientifica o filosofict.. Solo dopo che Corace e Tisia e i Sofisti cominciarono a studiare l'oratoria come un'arte, e a suggerire abbellimenti ed ornamenti, e solo o quasi solo in Atene, oratori forensi e orttori politici cominciarono a pubblicare i loro discorsi, le loro arringhe, le loro requisitorie, prima come modello prarico ai futuri oratori, poi come opere d'arte. Per tal modo, mentre neJSun discorso ci resta dei grandi politici ateniesi dei primi settant'anni del V secolo e dei secoli che lo precedettero ( di Temistocle e di Pericle, di Solone e di Clistene) e dei politici delle altre città (Archidamo o Stenelaida, Ermocrate o Aclimanto), molti discorsi ci restano di oratori forensi e d'oratori politici del IV secolo. Del V secolo, tra il 42, e il 411, sono soltanto le orazioni di Antifonte; e, scritte negli ultimissimi anni, alcune di Andocide e di Lisia. Antifonte, del demo attico di Ramnunte, avvocato e uomo politico, partecipe del governo oligarchico dei Quattrocento, fu, dopo la caduta dei Quattrocento, processato e condannato a morte.' Del discorso pronunciato in sua difesa resta soltanto un frammento. Interi restano tre discorsi scritti da lui per i clienti (era uso in Atene che accusatore e accusato pronunciassero personalmente i loro discorsi d'accusa e di difen: e dunque gli avvocati aiutavano i clienti solo col consiglio e col preparare i discorsi che i clienti dovevano pronunciate; e per questo ad essi, usando un'antica parola con un significato più ristretto e tecnico, veniva dato il nome di logogr11~ scrittori di discorsi); e altre dodici orazioni su cause :6.ttizie, raccolte in tre tetralogie (ciascuna composta da un discorso d'accusa, da una difesa, da una replica dell'accusa e da una replica della difesa). Segno che ancora i discorsi erano pubblicati con l'intento di essere modello di scuola, non come opere letterarie da essere tramandate ai po,steri. Neanche di tutti gli oratori ateniesi del IV secolo ci ~ conservate, intc-
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ramente o parzialmente, le orazioni pubblicate: a noi sono giunte, e solo in parte, quelle degli oratori che i grammatici alessandrini scelsero come eccellenti, quasi modello e norma e canone dell'oratoria, degli oratori - e furon dieci - che formarono appunto, come si disse e si dice, il «canone». Tra questi è un oratore che non tenne discorsi politici se non una volta, e non fu né avvocato né maestro d'arte oratoria, insomma uno che parlò in persona propria per sostenere cause sue proprie, Andocide. Andocide era un giovane aristocratico, di vita dissoluta, implicato negli scandali dei misteri e delle enne (i misteri profanati e le statue sacre sacrilegamente mutilate nel 415); divenuto delatore e poi esiliato, ma rientrato in Atene dopo l'amnistia del 403, egli dovette difendersi, quando nel 399 fu rinnovata contro di lui l'accusa d'empietà; ci resta appunto il discorso Sui misteri, che fu il discorso suo di difesa. Una difesa, la difesa del suo diritto al ritorno in patria, costituisce anche il discorso Sul ritorno del 407. Sono, questi, i discorsi più interessanti rimastici di Andocide; il terzo è un discorso politico, dove sono esposte le condizioni di una pace con Sparta negoziata da lui stesso per Atene; il quarto, intitolato Contro Alcibiade, è considerato spurio dagli studiosi. Discorsi forensi, discorsi d'avvocati, composero quasi tutti gli oratori del canone, anche quelli che furono poi oratori politici o dottrinali (come Demostene e Isocrate); ma li composero soltanto negli inizi della loro attività. Avvocati o logografi puri sono soltanto Lisia e Iseo. Né è strano, perché sia Lisia che Iseo erano meteci (cioè stranieri - Lisia era figlio di un Siracusano, Iseo era di Calcide tesidenti in Atene): e quindi esclusi dalla vita politica. Più giovane è Iseo, logografo attivo tra il 390 e il 340 a. C., ricordato anche come maestro di Demostene: grande civilista, versato soprattutto nd diritto riguardante le eredità. Era avvocato tanto sottile, che gli antichi dissero, mettendolo a paragone con Lisia, che, mentre Lisia persuadeva anche quando difendeva la causa ingiusta, egli suscitava dubbi anche quando difendeva la causa giusta: di lui ci restano interi soltanto dieci discorsi. Lisia, più vecchio d'Iseo (nato forse intorno al 445 a. C.), è di tutti i logografi il più famoso, il meglio conosciuto per il gran numero delle orazioni rimasteci, il più apprezzato dagli antichi, che in lui videro il modello dell'oratore giudiziario, per la semplicità della sua esposizione, pes la chiarezza dell'argomentazione, per la purezza della lingua. Ricco industriale (possedeva col fratello una grande fabbrica di scudi), Lisia fu per la sua ricchezza perseguitato dai trenta tiranni: riuscì, corrompendo a gran p1ezzo uno dei Trenta, a fuggire a Megara, mentre il fratello veniva ammazzato. S'unl quindi a Trasibulo; poi, ritornato in Atene, denunciò Eratostene, appunto uno dei Trenta, per la morte del fratello. Il discorso Contro Eratostene è il solo pronunciato da lui; e, sembra certo, il primo da lui composto. Par quasi che l'aver dovuto affrontare il dibattito giudiziario gli abbia suggerito la scelta della professione, quando a una professione fu costretto a dedicarsi per la perdita della gran parte del patrimonio. Del resto, quella dell'avvocato era professione a lui congeniale: tanto è vero che già prima del 403 (anno dell'orazione contro Eratostene), quando s'era stabilito a Turi nella Magna Grecia, aveva ascoltato il maestro di retorica Tisia, e che qualche discorso per diletto egli aveva già scritto e pronunciato in una ristretta cerchia d'amici (se si deve credere a Platone). C'è, e non può non esserci, in tutte le orazioni, di tutti gli oratori forensi, qualche cosa di comune, tutte le orazioni pronunciate nei dibattiti giudiziari avendo il fine ben preciso di dimostrare qualche cosa, tutte dovendo anche, a confermare la dimostrazione, confutare la dimostrazione dell'avversario. Il criterio cui si attengono, in tutte le orazioni, tutti gli oratori, non può pertanto non essere quello
LISIA. E GLI ORATORI FORENSI
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della verosimiglianza: è verosimile che l'accusato abbia commesso la colpa che gli viene imputata? è verosimile éhe la sua giustificazione sia attendibile? è verosimile che il suo alibi sia verò? è credibile che i testimoni siano sinceri? Le differenze tra oratore e oratore non nascono da diversità di criteri o di princlpi, ma dalla semplicità maggiore o minore dell'esposizione, dalla maggiore o minore ricchezza e rutidezza ddl'argomentazione, dal maggiore o minore calore della parola; insomma dall'arte più che dal pensiero. Or in questo appunto Lisia eccelle su tutti, nella nitidezza, nella semplicità, nel calore: già gli antichi lo lodarono per la sua etopèa, f!Oo:co~La, vale a dire per la capacità che egli aveva di prendere le vesti del personaggio che moveva un'accusa o presentava una difesa, vivendo la sua paura, sen· tendo il suo sdegno, soffrendo la sua pena: e la lode è adeguata. Per questa virtù le sue orazioni sono infatti, spesso, quadretti di vita, bozzetti, sc:hw:i, oltre che essere quello che devono essere, discorsi d'accusa o di difesa. Per la somiglianza sostanziale dei discorsi giudiziari e per l'eccellenza di Lisia, crediamo che basti, a mostrare il modo ddl'oratoria forense, far conoscere un discorso di Lisia. Quello che segue fu scritto per un invalido, che, per la sua infermità, godeva una pensione dello Stato; la legge voleva che, per riscuotere una pensione, uno fosse veramente invalido e povero; e lasciava facoltà a tutti i cittadini di intentare un processo a chi godeva ingiusti6catamente della sua pensione.
Il discorso per !'invalido O sigoori del Consiglio, quasi quasi devo esset grato al mio acoisatore, clic mi ha intentato questo processo: perch - Esattamente, rispose. - E di sciogliere, come diciamo, l'anima dal corpo si dànno pensiero sempre, sopra tutti gli altri e anzi essi soli, coloro che filosofano dirittamenle; e questo appunto è lo studio e l'esercizio proprio dei filosofi, sciogliere e separare l'anima dal corpo. O JJo.n è cosl?
-tchiaro. - E allora, come dicevo al principio, non sarebbe ridicolo che un uomo, il quale per tutta la vita si apparecchi a vivere in tal modo, tenendosi più vicil'lo che può al morire, quando poi questo morire arriva, se ne rammaricasse? - Sarebbe certo ridicolo; come no? - t dunque vero, egli disse, o Simmia, che coloro i quali filosofano dirittamente si esercitano a morire, e che la 1I10rte è per loro cosa assai meno paurosa che per chiunque altro degli uomini. Rifletti bene su questo. Se veramente i filosofi sono per ogni rispetto in discordia col corpo e hanno desiderio di essere soli con la propria anima; se costoro, quando questo lor desiderio si avvera, fossero presi da paura e da dolore, non sarebbe wa grande conuaddizione? se
403 ci~, dico, no.a fossuo lieti di andare colà dove giunti hanno fede di ottenere quello che in vita liLDlal'Ono - e amarono la sapienza - e quindi di sentirsi disciolti dalla compagnia di ciò appunro con cui furono in discordia? O che forse, mentre e'~ molti i quali, se p~rdono o mogli o figli, amori di creature umane, V0gliooo da se medesimi andarne in «rea nell'Ade, sospinti d,, quesra lor fede di rivedere colà quelli che amarono e di trovarsi con essi; chi fu schiettamente amico della sapienza e nutd in cuore eguale e siçura fede che in niun altro luoso potrà trovare codesta sapienza nella SUl intc=- se non nell'Ade, costui dunque si rammaricherà di morire e non sarà lieto di andare colà? Io devo pur erodere, o amico, che sia cosl, se real.mente costui ~ filosofo. Perché egli si sarà pur formata la convim.ione «rta che in nessun altro luogo potrà ino:muarc la pura e perletta sapienza se non ('Qll, E se questo ~ cosl, non sarebbe, coine dicevo or ora, una grande contraddizione che un uomo di tale animo avesse paura della morte? - Grande certamente, egli disse. (traduz. di M. Valgimigli)
III.
ARISTOTELE
Duplice aspetto aveva la dottrina di Platone per la concezione del mondo trascendente come mondo di Idee di cui le cose di quaggiù sono immagini-o parvenze, di cui anzi in qualche modo le cose di quaggiù partecipano. Perché le Idee - ferme eterne perfette - da una parte si distinguevano cosl compiutamente dalle cose di quaggiù - mosse mortali imperfette - da potersi considerare antitetiche, e dall'altra potevano, proprio perché modelli e molteplici, essere considerate sublimazioni delle cose di quaggiù. La stessa etica assumeva due aspetti, la contemplazione dell'eterno apparendo nell'un caso liberazione dal caduco {che comportava la finale negazione d'un elemento della diade), dall'altra apparendo sublimazione (ciò che ancora comportava la finale distruzione della diade). Parve ad Aristotele, il massimo dei discepoli di Platone, che l'antitesi in quel modo formulata, oltre a presentare una duplicità di aspetti mal conciliabili, implicasse l'impossibilità (intelligibili essendo nella realtà solo le Idee) di ogni intellezione delle cose di quaggiù ( e dunque anche dei rapporti tra le cose, e delle relazioni tra gli uomini); e insieme l'impossibilità di graduare le virtù degli uomini, sola virtù essendo la contemplazione delle Idee e dunque il distacco dal mondo di quaggiù. Aristotele era di Stagira, piccola città nella Calcidica tracia. Venuto ad Atene alla scuola di Platone nel 367, quando aveva didassett'anni (era nato nel 384-83), vi rimase fino alla morte del maestro (nel 348-47). Poi andò ad Asso, nella Misia, con un altro scolaro di Platone, Senocrate. Figlio di Nicòmaco, ch'era stato medico di Aminta di Macedonia, aveva - è da credere - mantenuto sempre qualche relazione coi re di Macedonia; e nel 342 Filippo lo volle precettore del figlio Alessandro. Poi, divenuto Alessandro re, Aristotele ritornò in Atene, dove fondò nel Liceo una nuova scuola, che prese nome di Peripato dal viale ( :n:tQLnatoç ) dove Aristotele passeggiava insegnando e discutendo coi discepoli: e Peripatetici si chiamarono i 610s06 che accolsero la filosofia d'Aristotele. Morl nel 322 a. C., dopo che, intentatogli un processo per empietà dopo la morte di Alessandro, aveva abbandonato, per sfuggire a una condanna, Atene per Calcide. Scrisse opere numerosissime in ogni campo del sapere, dalla filosofia alla storia naturale, dalla retorica e da.Ila poetica alla fisica, dalla speculazione più astratta alla raccolta di dati particolarissimi. Le sue opere - sappiamo - erano di due generi diversi, le une essendo destinate al pubblico più vasto (e si dicevano essoteriche) e le altre ai discepoli (e si dicevano esoteriche o acroomatiche). A noi sono rimaste soltanto le opere esoteriche: tra esse sono gli otto libri della Fisica, i tredici libri della Metafosica, cosl denominati perché posti dopo i libri della Fisica ( µttà tà cpu1nxci) nell'ordinamento dei Peripatetici ( riguardavano quella che Aristotele chiamava la filosofia prima, vale a dire lo studio dei principi primi della realtà), i libri dell'Elica Nicomachea (aristotelica nel contenuto, ma dovuta ad Eudemo è forse l'Etica Eudemia; di un aristotelico che mal comprendeva il maestro.~ probabilmente la Grande Etica), e quelli della Politica e la Poetica e la Retorica e i Parva Naturalia; e i libri sulla logica (Categorie, Sull'interpretazione, Analitici ed altri) chiamati complessivamente Organon. Degna di ricordo è anche l'operetta storiografica La costituzione degli Ateniesi.
ARISTOTELE
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40,
Aristotele, dicevamo, non fu convinto che fosse accettabile la separazione totale delle Idee dalle cose (e forse proprio dalle sue critiche il maestro fu indotto a cercare d1 restituire in qualche modo un qualche valore, quel valore ch'era stato sostanzialmente negato nel Pedone, alle cose di quaggiù, alla realtà diveniente, al divenire, che infatti nel Sofista, opera tarda, è dichiarato partecipe dell'essere): se nelle Idee si doveva scorgere l'intelligibilità delle cose (non concepiva Platone le Idee appunto come intelligibili? e d'altra parte non le diceva simili alle cose percepibili? dunque non era vero che per lui le cose si conoscevano, per quel tanto che si conoscevano, per il fatto che rassomigliavano o partecipavano delle Idee intelligibili? insomma non costituivano le Idee in qualche modo, oltre che l'intelligibile in sé, anche l'intelligibilità delle cose, quella intelligibilità senza la quale non sarebbe stato neanche possibile un discorso sulla realtà diveniente di questo mondo?), essa doveva essere non superna, trascendente, separata, ma immanente nel mondo di quaggiù. Dunque c'è, sl, il movimento, che sembra non aver principio né termine, che tutto modifica e trasforma sempre e da sempre; ma se noi sappiamo che il movimento c'è, ciò avviene perché di volta in volta lo riconosciamo come questo movimento di questa cosa ch'è mossa; e se c'è il mutamento che appare infinito, anche esso noi lo conosciamo di volta in volta come questo mutamento di questa cosa mutevole: insomma è da dire che, per quanto mutevoli e mosse siano le cose, esse son conoscibili, individuabili, individuate. In esse il movimento e il mutamento hanno un limite, e questo limite è appunto quello che rende conoscibile la cosa, è l'intelligibilità della cosa, è, si potrebbe dire, l'idea non separata: Aristotele lo chiamò forma. Per tal modo la diade della speculazione greca fu riconfermata da Aristotele: fu diade di movimento illimitato e di limite, di materia mossa e infinita e di forme ferme e finite, di potenza (come Aristotele anche disse) e di atto. E la forma che limita la materia fu, benché non fuori del mondo, sopra la materia, dunque in qualche modo trascendente: potremmo dire trascendentale. Insomma la diade di Aristotele, diade di materia e di forme non separate, ma congiunte, ripeté il ritmo della diade dei Pitagorici di Filolao, diade di illimitato e di limite congiunti, di pari e di dispari congiunti: cosl come la diade di Platone, di divenire e d'idee separate, aveva ripetuto la diade d'infinito e di alternanza d'Anassimandro, d'uno e di molteplice di Pitagora. Sennonché un problema sorgeva: come possiamo noi nella singola cosa, o sinolo secondo che la chiamava Aristotele, distinguere la materia-sostrato e la forma che avvolge il sostrato, la materia limitata e la forma trascendentale limitante, se non sappiamo già la trascendentalità del limite? perché, per esempio, parliamo di un Socrate di ieri e di oggi e non diciamo (come diceva Epicarmo scherzosamente) che il Socrate di ieri non ha nulla a che fare col Socrate di oggi, o, ch'è lo ste550, che non c'è alcun Socrate, ma tanti Socrati quanti sono i momenti della vita mossa e mutevole di quello che erroneamente diciamo Socrate? perché parliamo di una unità formale di là dalla molteplicità materiale, piuttosto che di questa sola molteplicità? o, ch'è lo stesso, perché parliamo di una intelligibilità che s'accompagna e trascende la percepibilità piuttosto che parlare della sola percepibilità? Aristotele vide il problema e lo risolse: noi parliamo di forme - egli pensò - perché conosciamo a priori la Forma, parliamo di atti perché conosciamo a priori l'Atto, parliamo d'intelligibile perché conosciamo a priori l'Intelligibile: c'è, sl, c'è una Forma pura, un Atto puro, un Intelligibile puro, quella Forma, quell'atto, quell'Intelligibile, quel Bene supremo cui diamo nome di Dio. Intelligibile che è anche Intelligenza, come quello ch'è Atto puro; Intelligenza che pensa l'Intelligibile, Pensiero che pensa il Pensiero, Pensiero che pema se stesso, e, pensando, rutto muove restando fermo, Motore immobile.
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LA PILOSOFIA NEL IV SECOLO
Due specie di. beni ci son dunque nell'universo: il bene delle forme attuate, quando sono perfettamente attuate, cioè quando avvolgono secondo la giusta misura, senza eccesso né difetto, 1a materia mossa e mutevole, o anche si può dire quando limitano compiutamente, senza eccesso né difetto, la materia indefinita; e il bene della Forma perfettissima, dell'Atto purissimo, del Motore che non si muove, del Pensiero che pensa senza errore o confusione se stesso. Analogamente ci sono due specie di virtù per l'uomo: la specie delle molte virtù, della temperanza della mitezza del coraggio della magnanimità della liberalità e insomma di tutte quelle virtù che l'uomo esercita o può esercitare nel mondo, in quanto è nel mondo dove sono pericoli e tentazioni e relazioni con altri uomini o altre cose; e la specie della Virtù suprema, la Virtù della contemplazione, vale a dire la Virtù del pensare il pensabile eterno, che il sapiente esercita non in quanto vive in questo mondo di pericoli e tentazioni e relazioni, ma in quanto - alzandosi sopra le passioni suscitate dai pericoli e dalle tentazioni - vive contemplando con la mente, ch'è cosa divina in lui. Le virtù, le molte virtù, sono in qualche modo delle medietà, come dice Aristotele: vale a dire che, non diversamente dalle forme molteplici, esse sono in atto solo quando ogni eccesso e ogni difetto sono banditi (per tal modo il coraggio è scevro da paura - che è difetto - e da temerità - che è eccesso; - e la prudenza è scevra di paura - che è eccesso - e di temerità - che sarebbe difetto -: sicché alla fine il coraggio è prudente e la prudenza coraggiosa). La Virtù suprema, quella della sapienza, è invece sublimazione, oon potendo mai essere in eccesso, per quanto compiuta essa sia. Le virtù, le molte virtù, s'esercitano mediante la cpQciVIJ(Hç, che noi diremmo ragione, facoltà di distinguere l'eccesso e il difetto: la suprema Virtù s ·esercita mediante il voiiç, la mente che coglie il vero immediatamente. Le virtù sono subordinate alla Virtù, nel senso che chi è sapiente è anche virtuoso; ma sono anche autonome, in quanto ciascun uomo può essere virtuoso anche se non è sapiente. E son causa, e le une e l'altra, di felicità, di due specie di felicità, una umana e l'altra divina; si potrebbe anche dire di una felicità in senso lato, essendo felice, umanamente felice, l'uomo virtuoso che sa sopportare con magnanimità le sventure, e una felicità in senso stretto, essendo la felicità divina attività secondo la più perfetta Virtù. E questa felicità divina è separata, come dice Aristotele, vale a dire trascendente, e cioè autonoma, rara, energica, concessa a ciascun uomo, perché in ogni uomo c'è, come ancora Aristotele esplicitamente dichiara, « qualche cosa di divino». Separata trascendente divina rara: ma pur realissima, anzi la più reale, la sola compiuta, la non delusoria. La scienza suprema. ( Meta.ph., I, 1.2) Tutti gli uomini per narura desiderano conoscere: ne ~ prova l'amore ch'essi hanno per le sensazioni. Queste, infatti, le amiamo per se stesse indipendentemente dall'ulilità che possiamo trarne, soprattutto quelle che ci vengon dalla' vista. E in verità le sensazioni della vista, noi le desideriamo più delle altre, e non solo per poter agire, ma anche quando di agire non abbiamo intenzione: ne ~ C11usa il fatto che esse ci fan conoscere più delle altre, ch4! più delle altre ci mostrano le differenze che sono tra le cose. Ora, se per ne.tura tutti gli animali nascono provveduti di sensi, dalle sensu.ioni in alcuni nasce la memoria, in altri no. Più capaci di intendere e d'imparare sono i primi dei secondi. Capaci d'intendere, ma non anche d'imparare, sono quelli che non odono i suoni, come le api e gli altri esseri viventi, se ce ne sono, che siano simili ad esse: imparano invc,;:e quelli che, oltre ad aver memoria, hanno anche il senso dell'udito. Ora, mentre alcuni animali hanno memoria e capacità di rappresentarsi le cose, ma poca 01,pacità di acquistare esperienza, il genere UJDIIJlO possiede la facoltà di costruirsi le arti e di fare
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ragionllllenti. t mediante la memori• che gli uomini aequ.istano esperienu, eh~ un'esperienu MSCe dai molti ricordi d'Wla s1essa cosa. Par forse che resperienza sia simile all'arte e .U. conoscenza, ma arte e conosceiµa nascono da essa: e io verità, come dice Polo, è l'esperienza che genera !'arie, mentre dall'inesperienza nasce la fortuna. L'arte, mfatti, nasce quando da molte no.iioni dovute all'esperienza si for1111 un unic:o concclto universale su casi simili. Dell'esperienza è, ad esempio, il COOO$Cere che questa medicina giovò a Callia, quando aveva que\ls malattia, e a Socrate e singolarmente a molti altri, quand'erano ammalati di quella stessa malattia; ma dell'arte è sapere che quella medicina giova a tutti quelli che son definiti medesiman>ente secondo una sola specie, c:ome ammalati della stessa malattia: ad esempio ai flegmatici, agli itterici, ai febbricitanti. Ora, in rapporto all'azione, nessuna differenza pare che ci sia ira l'esperienza e l'arte: ami nd.l'azione gli empirici riescono meglio di quei conoscitori deU·ar1e che non hanno anche esperienza, perch~ !'esperie= è conoscenza della c:osa singola, mentre l'arte è conoscenza dell'universale. e tutte le azioni e gli accadimenti riguardano le cose singole: il medico, ad esempio, non cura l'uomo, se non per a,;,;iden1e, ma cura Callia o Socrate o altre persone singole, cui accade d'essere uomini. E dunque, se uno conosce l'arte ma è privo d'esperienza, e conosce l'universale ma ignora il caso singolo contenuto nell'universale, spesso sbaglia la cura, perch~ è un singolo quello ch'egli deve curare. E tutlavia noi pensiamo che il conoscere e l'intendersene siano piuttosto dell'arte che dell'esperienza, e più sapienti giudichiamo i conoscitori dell'arte che gli empirici, essendo la 58.pienza propria di quelli che sanno piuttosto che di quelli che non sanno, quelli conoscendo la oausa e questi no. E in verità gli empirici conoscono l'esistcma e non la oausa, e i possessori dell°arte con=no la causa, il perché. Per la stessa f11gione apprezziamo di più e crediamo che conoscano di più e siano più sapienti gli architetti che gli artigiani, percru! qudli conoscono le cause di quello che fanno, e questi agiscono al modo di alcune cose inanimate, che fanno senza sapere quello che fanno, come, ad esempio, il fuoco che brucia senza sapere: con questa differenza, che le cose inanimate fanno quel che fanno per natura, e gli artigiani per abitudine. Ordunque quelli nol giudichiamo più sapienti, non perché siano più abiJi nel fare ma perché possiedono la teoria e conoscono le cause. L'elemento che distingue, in generale, chi sa da chi non sa, è la capacità che il primo ha di insegnare e l'altro no; ed è appunto per questo che noi consideriamo scienza l'arte piuttosto che l'esperienza, eh~ gli empirici non possono insegnare e gli altri si. E ancora: nessun.i senuzione noi consideriamo sapienza, bench~ le sensazioni siano le conoscenze più proprie delle cose singole: ma appunto esse non ci san dire il perché, ad esempio perché il fuoco sia caldo, ma soltanto questo, che è caldo. t dunque naturale che chi, al di là delle sensazioni, ha scoperto un'arte, quale che essa si sia, sia ammirato dagli uomini, non solo come sc»pritore di cosa utile, ma come sapiente, come uomo ch'è al di sopra degli altri: e naturale è che, molte essendo le arti, riguardanti le une le ne«ssità della vita e le altre il viver bene, sempre siano giudicati più sapienti i conoscitori di queste che i conoscitori di quelle, perché le loro conosce02C non hanno come fine il necessario. Ora, dopo che furono portate a compiutezza quest'arti, furono trovate quelle altre scienze, che non riguardano né le necessità della vita né i piaceri: e furono trovate dapprima in quei luoghi dove ci furon uomini con tempo libero per ricei:tare: in Egitto sorsero infatti le arti matematiche, perché ivi la casta sacerdotale aveva tempo libero. Delle differenze tra arte e conoscenza e alrre cose dello stesso genere, ho già parlato nell'Etica: la rasionc per cui ora ne parlo è questa, che tutti son concordi nel giudicare che quella che è propriamente dena sapienza riguarda i principi e le cause prime. Insomma, come ho già detto, l'empirico sembra più sapiente di coloro che han solo sensazioni, il possessore dell'ane più sapiente dell'empirico e rarchiteuo dd.l'artigiano: e la scienza teoretica sembra più sapiente di quelle pratiche. Chiaro è ÌnSOIIIInil che la sapienza è scienn di principi e di a.use. Ora, poiché que,ta è la scienn che cerchiamo, dobbiamo vedere di quali «use e di quali principi è Kienza la sapienza. E forse meglio pouemo vederlo, se esaminiamo le nozioni comuni intorno al sapiente. Anzitutto pensiamo che il sapietite conosca tutto, ma .nel modo in cui è possibile, d!X senza che deva aver conoscenza di ogni singola cosa. Poi sapiente diciamo colui che può giungere I conoscenza di cose difficili, non a tutti comprensibili: l'aver sensazioni, ad esempio, è comune a tutti e non è cosa difficile, e dunque non è proprio del sapiente. Poi, in ciascuna scienza, consideriamo più sapiente chi ha conoscenze più csaue e sa insegnarle meglio. Poi, consideriamo &apienza quella delle scienze che si cerca per se stessa, per amor del 58.pere, e non per l'utile che
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se ne può ricavere, e guelfa che comanda pi11ttos10 che quella che serve: il sapicale, infatti, non dl'Ve ricevere ordini, ma dame, e non ascoltare altri, ma dai meno sapienti essere ascoltato. Queste sono le nozioni che si huino ~I saplerate e della sapienza. Ora è ovvio che 111cgho conosce nmo colui che possiede meglio la scienza universale, pen::hé costui in qualche modo conosce ciò che ad essa è subordinato; poi, le conoscenze più universali son le più difficili, percM sono le più lontane dalle sensazioni; poi, le scienze più esatte son quelle dei principi primi, ché più esatta è una scienza costituita su di un minor numero di elementi che que.lla in cui ai primi son aggiunti altri elementi (più esatta è, ad esempio, l'aritmetica della geometria); poi, più insegna la scienza teoretica dclle CIIUM:, pe~ quelli davvero insegnano, che indicano la causa di ciascuna cosa; poi, il sapere e il conoscere son cercati per se stessi soprattutto da chi vuole la conoscenia del massimamente conoscibile, ché dù cerca il conoso:r per se nesso vorrà quella conoscenze. che più è conoscem.a, e questa è la conoscenza di ciò che sopratrutto è conoscibile, e conoscibili sopra ogni ahra cosa sono i princlpi primi c le a.use, perch6 per mezzo di questi, e da questi movcodo, $'ottiene conosc:e112B del resto, m~1re non si giunge a conos,;enza dei princlpi movcndo da ciò che è subordinato; infine, massimamente sov.:ana tra le sciemc, maggiormente signora di quelle che servono, è quella tbc conosce il fine d'ogni azione: e questo è, per ciascuna cosa, il bene, e, nel.l'universale, quello che è il ma5liimo bene in tutta la natura. Da rutto quel tbc s·è detto si rieava che il nome di sapicaza, sul quale indaghiamo, s'addice sempre alla medesUilll $CÌenza: questa deve essere dunque la scienza teoretica dei principi primi e delle cause: il bene e il fine sono infatti una delle cause. Che essa non sia scie112B pratica, è mostrato anche da quelli che pct primi fecero filosofia. ra fanno filosofia) mossi dalle loro ina:r-
della luna e domande, è uno che giudica di non sapere (ed è per ques10 che in qualche modo l! filosofo l'amatore dei mili, peJ:Ch6 da cose strane è composto il miro): siccM, se è vero che fea:ro 6.losofia per fuggire l'ignora112B 1 riesce evidente tbc per amor del sapere a:rcaron di conoscere, e non per averne utile alcuno. E lo provano i fatti stessi, peKh(!: tal ria:rca cominciò solo dopo che s'ebbe il necessario e quanto serve ad una vita agevole. E dunque evidente che non per averne alcun utile cerchiamo quella scienza; ma, come diciamo libero un uomo quando esiste per se stesso e non per altri, cosl quella scienza la cerchiamo come sola libera ua tutte le scienze: sola infatti è fine a se stessa. A r118ÌOne dunque il suo possesso si può considerare più che umano, peKh6 per molti modi non è libera la natura dell'uomo, e bene dice Simonide, quando dichiara che « solo il dio ha questo privile,io »; Sl«M può sembrare che non sfa bene che un uomo cerchi una scienza cbe è oltre la sua condì:iione di uomo. E se fosse vero e conforme a natura quel che dicono i poeti, che il Dio è invidioso, del sapienle soprattutto dovrebbe esserlo; e infelici dovrebbero essere soprattutto i sapienti. Ma non può essete invidi050 il Dio, e, cotne dia: il proverbio, JDOlte menwgae dicono i cmtori; anzi nessun'altra scie112B merita d'essere onorata più di questa. PeJ:CM queUa ch'è più divina, anche è più venenbile. E divina è essa sola, per due modi: peJ:Ché divina è la scienze che un dio possiede, e divina è la scienza di cose divine. Or solo tal scienze ha entrambe queste qualità: pcJ:Ché Dio è un principio e una causa universale; e una tal scienza la possiede solo il Dio o Lui massimamente. Dunque più necessarie di questa po~no CS8ere tutte le altre 5cienze, ma migliore d'essa non è
La felicità dell'uomo I nel pensiero (Eth. Nich., X, 7) Se la felicità è attivid. secondo virtù, deve essere attività secondo la virtù più eccellente, vale a dire secondo la virtù della parte migliore di noi. Sia la men.te o sia altra cosa quella che per natura sembra comandare e guidare e avere intelligenza delle cose bel.le e divine, in quanto essa stessa è divina o la più divina delle cose che sono in noi, la sua attività, secondo la virtù che le è propria, costituirà la felicità perfetta. Abbiamo già detto che questa è l'attivitÌI. rcore1ica ... L'attività teoretica è l'attivitil. per eccellenza pcrch6 la mente è la più ecccllenrc delle coso che sono in noi, e perché delle cose conoscibili le più eccellenti sono quelle che solo 1s mente coalie, E inoltre I: 1s più continua, perché, mentre possiamo contemplare inintcrrottam~tc,
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nessun'alm attività poss1amo esercitare con continuitl; e pensiamo che alla felicità debba açcomp-.gnarsi il piaçcrc, e tutti convengono che la più piacevole delle attività secondo virtù è qudJ& della sapienza. Piaceri meravi.gliosi per purezza e durata sembra procurare la ricen:a filosofica, e P-1turalmen1e il vivere è più dolce per quelli che sanno che per quelli che cercano ancora. E la cosiddetta autarda' si ritrova soprattutto nell'attività teoretica. Pen:hl!, se delle cose necessarie per viver~ hanno bisogno e il &11piente e il giusto e tutti gli altri, poi, quando ne siano sufliden1emente provvisti, il giusto ha bisogno di uomini cui rendete giustizia e coi quali escn:itarla, e il temperan1e e il forte e ciascuno degli altri han similmente bisogno di qualche cosa; il sapiente, invece, anche se è solo pu~ contemplare, e tanto più quanto più è sapiente; meglio, forse, se ha compagni, ma ad ogni modo essi non gli sono indispensabili. Solo l'attività teoretica sembra che sia amata per se stessa; cM nulla da essa si ottiene ollre la contemplazione, mentre dalle attivitl pratiche, più o meno, qualcosa ricaviBJ110 oltre l'attività stessa ... Se la mente, in confronto col resto, è cosa divina, anche la vita che è secondo la mente, in confronto con la vita umana, è divina. Non bisosna pensar solo, come consigliano alcuni, alle cose urnane perché siamo uomini e alle cose mortali pen::hé siamo mortali, ma, per quanto è p0$SÌ· bile, fan:i immortali e fare di nmo per vivere secondo quella parte che in noi è la migliore, pcn:hl!, se css.a è piccola per quantità, per potenza e dignità supera di sran lunga tutte le altre; e poiché è la parte più importante e la migliore, potremmo dire che ciascuno di noi è questa parte stessa. Sarebbe dunque assurdo che uno scegliesse di vivere non già la propria vita ma quella di un altro ... Quello che per natura è proprio a ciasCUDO è per ciascuno la cosa migliore e più dolce; dunque per l'uomo la ~ migliore e più piacevole è vivere secondo la mente, poiché l'uomo è soprattutto mente.
Sulle varie costituzioni poliliche (Polil., III, 6-9) La costituzione d'una città consiste nell'ordinamento dei poteri, e, prima di tutto, del potere sovrano. Sovrano è, dovunque, il governo, e dunque nella forma del governo sta la costituzione. Ad esempio, sovra.no nelle democrazie è il popolo, nelle oligarchie sono i pochi ... Ho detto già, nel trattato sull'economia e sulla signoria, che l'uomo per natura è animale politico; è per questo che, anche se non hanno bi.wg.no di aiu10 rcciproc:o, gli uomini desiderano di vivere con altri: e tuttavia è vero che anche l'utile li unisce, in quanlO contribuiKC al viver bc:nc. Questo è dunque il fine precipuo, per tutti insieme e per cia50.lnO separatamente ... Bisogna ora esaminare quanle e quali sono le CO$titw:ioni, e, prima di tutto, quali sono le costituzioni buone, perché, delin.ite ques1c, si riconosceranno subito anche le loro comaioni. Ora, essendo la stessa cosa governo e costituzione, e indicando il govemo il potere sovrano delle città, e potendo tal governo essere esercitato dall'uno o dai pochi o dai molti, costituzioni buone saranno quelle in cui l'uno o i pochi o i molti governano per il bene comune, e costituzioni corrotte quelle dove l'uno o i pochi o i molti cercano l'utile lor proprio; perché, o non si devono dire cittadini quelli che pur fan parte della città, oppure devono aver parte all'utile comune della città. Or dei SoVerni che cercano l'utile comune chiamiamo regno quello che è esercitato da un uomo solo, aristocrazia quello ,esercitato da pochi (o perché sono i migliori o perché cercano il meglio per la città e i ciuadini). Quando poi govemano i molti cercando l'utile comune, gli diamo il nome che s'usa per tutte le costituzioni, quello di governo costituzionRle... Le corruzioni di queste dan luogo, alla tiranni.de quella del regno, all'oligarchia quella dell'aristocrazia, alla democrazia quella del Sovemo costituzionale. Mentre, infatti, la tirannide è una monarchia che guarda all'interesse del monarca, e l'oligarchia cerca l'utile degli abbienti, e la democrazia quello degli indigenti, nessuna di queste cen:a l'utile comune... E. dunque evidente che a formare una città non bastano la comune residenza in un luogo e la tutela contro le reciproche in11iurie degli abitatori e la possibilità degli scambi commerciali: se tutto questo è ncccssBlio a una ciuà, non è bastevole a costituirla. Per csscrc veramente una città, la consociazione deve rendere facile la vita delle famiglie 'Il bastat. te ,tessi.
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e delle stirpi, fornendo tutto quello ch'è necessario al viver bene. Questo, tunavia, non è possibile, se i cittadini non abitano in uno s1esso luogo e non si sposano tra loro: per questo si sono strette paren1cle e costituite fratrie e stabiliti sacrifici e feste comuni, cose tune che sono dovute all'amicizia: è l'amicizia, infatti, che induce a vivere insie111e. E in verità, se fine della città è viver bene, queste cose giovano a 1al fine. LII città è dunque una partecipazione comune di genti e di villaggi a una vi1a agevole e bastevole, ci~ a un vivere fclkcmcnte e bene. Una comunità politica è costituita non per il solo viver insieme, ma per vivete bene. Veramente cittadini son dunque coloro che contribuiscono a ule !IlodO di vita comune, più di quelli che, se pure sono per stirpe e libertà uguali o maggiori, sono inferiori in virtù politica, e di quelli che, se sono più ricchi, son meno virtuosi.
La fine del IV ~ecolo MENANDRO E TEOFRASTO
Dopo Bacchilide e Pindaro la lirica e l'epica quasi scomparvero: si ricordano tuttavia alcuni autori di ditirambi e di nòmi, come Timoteo di Mileto, lirico e musicista vissuto tra il 450 e il 360, e Filosscno di Citera, vissuto tra il 435 e il 380; e poeti elegiaci come Ione di Chio ed Eveno di Paro del V s~lo, e Antimaco di Colofonc, vissuto tra il V e il IV secolo, autore di una raccolta d'elegie intitolata Ude, oltre che cli un poema epico (intitolato Tebaide); e poeti epici, come Paniassi
di Alicarnasso, del V secolo, e Cherilo di Samo, pure del V secolo, e Antimaco or ora citato. Più durò la commedia, che, dopo Aristofane, ebbe il nome di Commedia
:i:o::~M~~!~~.·u:rii~:;:;~~- cp:m; ::dt1niV~cc~lo~:n~ :~
~==~::!E~:;~~
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~:;i:m~. s~: ~rem!ndice~~~~ t:t::~:~= si distingue dalla Commedia antica (di Cratino e d'Eupoli e d'Aristofane) per un 5
distacco sempre maggiore dai temi suggeriti dalla vita della polir. Più conosciamo la c.ommedia nuova, sia per le rielaborazioni dei comici latini, sia per conoscenza diretta di scene e frammenti, e sia per il fortunato ritrovamento recente, in un papiro del III secolo d. C., di una commedia intera (salvo poche lacune) di Menandro (soltanto frammenti ci sono invece pervenuti degli altri comici, tra i quali massimi, dopo Menandro, dovettero essere Difilo e Filemone). Menandro, ateniese, visse tra il ;4; e il 292; dunque quando ormai era scomparsa la libertà politica, anzi quando sembravan dimenticati gli antichi ideali, quando, si può anche dire, nel mondo greco, pur divenuto parte di un mondo più largo, ciascuno ricercava la quiete piuttosto che la gloria, il piacere piuttosto che la
ì:comporre ~i:::~t';~fu, !i':onTd~~';e~~t~e~~:e:~t::a~~!ossi~ commedie; e continuò la sua attività, sempre in Atene (benché per la sua 1
rinomanza fosse stato invitato da Tolomeo I Soter a trasferirsi in Egitto), fino alla morte. Secondo le testimonianze degli antichi compose pita di cento commedie. Noi possediamo quasi intero il D:,scolos o Misanthropos, e gran parte degli Epitllpontes (l'A,bit,ato ): notevoli sono anche i resti della Samia, della PericirlJmene (la Donn, dalle chiome recise) e dell'Heros. Nel Discolo o Misantropo un giovane ricco, Sostrato, si innamora di una fanciulla e vorrebbe sposarla, ma non può neanche avvicinarsi al padre di lei, Cnemone, un rustico misantropo, che ha in odio il mondo perché à convinto che tutti gli uomini sian avidi ed egoisti, e vive separato anche dalla moglie e da un figlio di lei; Sostrato petti diventa amico di questo .6.gliastro, che ha nome Gorgia, e Gorgia, che salva Cnemone quando costui cade in un pozzo, riesce alla fine a convincere il patrigno a concedere la figlia a Sostrato; a sua volta Sostrato convince il padre a concedere la figlia a Gorgia. Negli Epitùpontes un giovane, Carisio, ha sposato una fanciulla, Panfila, ch'egli ignora gravida d'un 6glio; Panfila, durante un'usenza del marito, dà alla luce un
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LA l'INE DEL IV SECOLO
fanciullino e lo fa esporre in un bosco: Carisio, quando viene a conoscenza dei fatti, si dà ai bagordi con una etèra e con alcuni amici; si pente tuttavia quando apprende che la moglie, benché vivamente sollecitata dal padre ad abbandonare la casa, vuol continuare a vivere con lui, che pur le fa ingiuria: alla line si scopre che Panfi.la è stata violentata durante una festa proprio da lui ubriaco, e che dunque il figlio di Panfila, che intanto è stato ritrovato, è suo; e la pace ritorna nella famiglia. Commedia di carattere la prima, commedia d'intreccio la seconda: o meglio, commedia in cui sull'intreccio prevale il disegno d'un carattere la prima, e commedia in cui l'intreccio sembra prevalere sul disegno dei caratteri la seconda. Entrambe le commedie, comunque, sono più vicine all'antica tragedia che alla commedia d'Aristo-
fane, dove i personaggi sono cosl trasfigurati da apparire pupazzi, e dove l'intreccio non ha alcun contatto con la vita degli uomini nel mondo (si pensi agli Acarnesi dove Diceopoli fa da solo la pace con gli Sparta.ili, o agli Uccelli, dove Pistetero ed Evèlpide creano una città d'uccelli sulle nuvole, o alle Rane, dove Euripide ed Eschilo vengono a gara nella casa di Ade e giudice è un Dioniso da burla): della tragedia è il rivolgimento ddla situazione, della tragedia i riconoscimenti, della tragedia il vario soffrire e godere e sentenziare dei personaggi. Anzi dalla tragedia Menandro ha mutuato anche il prologo, recitato per lo più da un dio, mentre ha abbandonato quello che era l'elemento più proprio della commedia, la parabasi (della commedia è invece l'abbandono d'argomenti tratti dal mito: ma anche Agatone aveva composto una tragedia senza personaggi mitici). Di più: della tragedia c'è anche, in qualche modo, ma indebolito e attenuato, lo spirito. Ecco, ad esempio, come Gorgia, il fratello della fanciulla amata da Sostrato, parla a costui quando crede che voglia insidiar la purezza della sorella: lo credo che per rutti gli uomini, fortunati o disgraziati, ci sia un li.mite, e che, se qud limite è varcato, muti la loro sone: credo che al fortunato la fortuna duri finch~ sa usarne senza fax male, ma che poi, se, tras,:;inato dalla prosperità, giunse a far male, in pe38ÌO muti il suo desiino; e che il povero, se nel bisogno non fa nulla di male ma sopporta nobilmente il suo destino, deva nutrire sperenu che col tempo la sua sorte touteri. Che voglio due? Che tu DO.D confidi troppo nella tua ricchezza spregiando ooi poveri, ma piuttosto ti mostri a chi ti ossei:va degno della forru.na che hai.
!:: l'esaltazione della costante fermezza dell'anima di là dalle vicende del tempo. Ed ecco, ancora, come Sostrato parla al padre che non vorrebbe concedere la figlia a Gorgia, perché povero: Tu parli dd denaro, che ~ bene inuabile. Orbene, se sei ricuro che l'avrai per sempre, tientelo stretto senza farne parie con nessuno. M• se ru non ne sei padrone certissimo, 9C quel che hai ~ della fortuna prima che tuo, non esserne avaro, o padre. Essa può toglierlo a te e darlo a un altro, a uno che non lo merita,
Anche questo è un tema di uagedi~, non di commedia, se per commedia intendiamo la commedia aristofanesca: si pensi alle alternanze delle fortune d' Agamennone e di Edipo e di Fedra. Ma è tema indebolito, quasi sommesso: Agamennone precipita dal trionfo alla morte per mano di una donna, Edipo da re diventa mendico, Fedra precipita dall'onore di regina al suicidio e all'infamia; Sostrato, invece, pensa soltanto alla perdita degli averi di un uomo ricco. E indebolito è il tema della costanza: Menandro parla di un povero mediocremente povero che sopporta la sua mediocre povertà, e di un ricco che non insuperbisce per la sua buona fortuna, là dove Sofocle, per portare un esempio, mette sulla scena un uomo medesimamente pio nella gloria e magnanimo nell'obbrobrio di delitti non voluti e di pene inaudite.
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Se, dunque, nella commedia nuova ritornano, qua e là, i temi dell'antica tragedia dell'uomo nel mondo, la misura è mutata: l'eroe ha lasciato il suo posto all'uomo dabbene; cosl co'me il gran peccatore ha lasciato il suo posto al misantropo che non fa male a nessuno, o al galante che pur ama la sposa, e cosl come il dramma immenso della storia dolorosa ha lasciato il suo posto alla vicenda quotidiana di mediocri contrarietà alternantisi con mediocri fortune. In una parola, la tragedia eroica ha lasciato il posto alla commedia che si suol dire borghese. Il vero è che Menandro, se pur conosceva le virtù, non conosceva l'eroismo; e del resto non più lo conosceva il pubblico d'Atene a.I quale il poeta si rivolgeva, quel pubblico di abitatori di una città che non viveva più nei grandi contrasti di partiti avversi e di competizioni gigantesche, quel pubblico di abitatori di Atene che si chiamavan cittadini, ma ormai vivevano come in un borgo, volti tutti alla ricerca di un bene privato, d'una quiete pacifica, di una vita tollerabile. Il modo dell'arte di Menandro è condizionato da questa fede mediocre in mediocri virtù. E in verità quello ch'era il nucleo delle tragedie di Eschilo e di Sofocle, e anche di- Euripide, l'evento fatale vissuto da un eroe, in Menandro diventa intreccio, vale a dire una congiuntura di casi senza una loro intima ragione, senza un nesso che superi quello della instabile fortuna. Cosl, per esempio, mentre io Eschilo AgameMone non poteva non ritornare vittorioso in patria per scontarvi le colpe sue proprie e le colpe dei padri, a placare i mani di Tieste e l'anima d'Ifigenia, mentre in Sofocle Edipo non poteva non uccidere suo padre e sposare sua madre per capire il dramma eterno e ricevere dagli dèi l'onore d'un culto, e mentre in Euripide Ippolito e Teseo e Fedra dovevano subire un destino tristissimo perché fosse placata la collera d'un dio, nessuna necessità c'è che, nel Misantropo, Cnemone cada in un pozzo perché Gorgia lo salvi, se per necessità non s'intende il bisogno che il poeta ha di trovar un mezzo a concludere con lieto 6ne la commedia, facendo lieti i suoi spettatori. Restano i caratteri: che sono disegnati con mano felice anche nelle commedie di intreccio (cosl Panfila, la sposa infelice e fedde, e Carisio, lo sposo irato e innamorato della sposa, e Smicrine, il padre furente per l'oltraggio che la figlia subisce); e resta l'eleganza attica del linguaggio, del disegno, dd taglio delle scene, In questo Menandro è artista finissimo. Un medesimo indebolirsi dell'idealismo antico è nella filosofia della fine dd IV secolo. Nella direzione dell'Accademia a Platone succedono dapprima Speusippo, suo nipote, e poi Senocrate di Calcedone: e di entrambi pare che, pur volendo rimanere fedeli al maestro, accentuassero la ricerca d'una conciliazione tra il mondo ideale e quello storico 6no al punto di rinnegare la diade originaria, Speusippo ponendo accanto alla conoscenza razionale una conoscenza percettiva, là dove Platone aveva contrapposto conoscenza e opinione, e Senocrate ponendo accanto alla sostanza noetica (conoscibile dalla mente) una sostanza estetica (conoscibile mediante le percezioni), là dove Platone aveva contrapposto l'idea-sostanza noetica e l'immagine percepibile e opinabile. Ma entrambi ci sono mal conosciuti, ché nessuna opera loro ci è pervenuta. Meglio conosciuto, se pur anch'esso imperfettamente, ci è Teofrasto di Ereso, il successore di Aristotele nella direzione del Peripato dal 322 al 287 a. C. Fu autore di opere copiosissime, sugli argomenti più diversi (6loso6a e musica e diritto e psicologia e storia naturale e altri ancora): della gran parte conosciamo solo titoli o frammenti (Metafisica, Fisica, Problemi, Analitici, Sulla felicità, Sull'amicizia, Sui metalli, Sugli animali e altri e altri); ci restano invece una Storia delle piante, un'opera Sulle cause delle piante, e la raccolta, che doveva far parte di un corso sull'etica, dei Caratteri.
414 L'impressione che si riceve dai frammenti delle opere 61oso6che o dossografiche, vale a dire riportanti le opinioni dei vari 610s06, è questa, che in Teofrasto la terminologia del maestro si sia cristallizzata. Ora si ricordi come, pur ridicendo la certezza della diade fondamentale, Anassimene innovasse rispetto ad Anassimandro sostituendo l'aria all'infinito (cosl come Anassimandro aveva sostituito l'infinito all'acqua), come Pitagora rinnovasse la terminologia sostituendo l'uno all'aria e il molteplice alle cose; e poi Parmenide parlasse di ente e di non ente, Eraclito di logo e di cose, Empedocle d'Amicizia, Anassagora di Mente, Platone di [dee, Aristotele di forme; come perfino in seno ai Pitagorici Filolao innovasse e dicesse parimpari l'uno: e verrà il sospetto che il cristallizzarsi della terminologia sia indWo dell'indebolirsi della ispirazione fondamentale: or come ci può essere idealismo vigoroso là dove l'ispirazione, se non è spenta del tutto, s'è fatta fredda? lnsomma pare che si deva ripetere per quell'elegante scrittore che fu Teofrasto, quanto s'è detto per quell'elegante commediografo che fu Menandro: in lui v'è una eco dell'idealismo, ma l'idealismo non più. I Caratteri, dove sono ritratti vari tipi d'uomini, sembrano confermare l'impressione. Vale forse la pena di ripetere quello che uno studioso moderno (il Pasqua.li) scrisse su di essi: ~ La maggior parte degli uomini qui dipinti non sono malvagi; quasi nessuno è macchiato di colpe abominevoli o anche soltanto gravi: essi peccano più contro le convenienze che contro l'ordine sociale, e piuttosto per rusticità congenita, non sradicata né temperata dall'educazione, che per volontà indirizzata al male; sono animati e dominati non da passioni delittuose, ma da manie innocue. I più tra questi caratteri non sembrerebbero ad Aristotele nemmeno viziosi, ma eticamente indifferenti: ridicoli sono tutti, e si scorge chiaro che Teofrasto si è lasciato guidare dall'intenzione di far sorridere il suo pubblico alle spalle dei suoi eroi. Il suo ideale non è più quello del virtuoso, ma della persona che si sa portare ammodino in compagnia, del gentiluomo. Quanto a lui, egli non si sdegna mai, sorride talvolta a fior di labbra, per lo più rimane scrio, come ogni perfetto umorista •· Questo si deve tuttavia aggiungere, che, scomparso il virtuoso, è scomparso l'eroe, colui che dall'abisso s'alza fino al cielo, che dal nulla s'eleva fino al tutto: colui che, da Omero fino a Socrate, da Socrate fino a Demostene, e anche ad Aristotele, aveva cercato al di là della vita mortale il senso della vita.
DA MENANDRO
Lo scena dell'arbitrato (Bpitr., vv. 41-188)
Il fanciulletto abbandonato da Pan.fila, è stato ritrovato da Dao (un servo), e questi l'ha consegnato a un altro servo, Sirisco, tenendosi l'anello messo da Panfila tra le vesti del bimbo come segno di '.riconoscimento. Per quest'anello Sirisco e Dao vengono a contesa: e affidano (di Il il titolo ot ~n:LtQé1tovtEç) il giudizio a Smicrine (cioè proprio all'ignaro nonno dd fanciullino). SiRISCO. ti: un'ingiustizia cotesta. DAo, Non è vero, sciagurato; quello che non è tuo, non devi tenertelo. S!RlSCO. Chiamiamo un arbitro. DAo. Chiamiar:aolo. Su1.1sco. E chi prendiamo? DAo. Chi vuoi. Mi sta bene; pcrch~, come mai r:a'è venuto in mente d'impicciarmi con teÌ' S!RISCO. Ti va bene costui?
415 DAo. Bene. Suusco (no alcun male per me. Pensa invece che ogni giorno progted.isC'O nella via della feliciù, perché né poche né insignificanti sono le cose che rendono la mia condizione uguale a quella degli '*i, e la mia monalità non mi mette al di sotto della natura incorrotta e beata. Mentre vivo, godo come gli ~ ... pensa che di tali beni io sodo seuipre e sii fiera di quello che faccio.
Poeti, romanzieri e oratori del periodo romano I.
I POETI E I ROMANZIERI
Pochissimo ci è rimasto della produtione poetica di tutto il periodo che va dal I sec. d. C. a Giustiniano. Conosciamo, sl, nomi di poeti, e possediamo anche frammenti di poesia o di scrittura in versi, ma le opere giunte complete fino a noi sono pochissime, e, qud.Ie poche, di scarso valore. Continuarono a fiorire in questi secoli, quale più e quale meno a lungo, i vari generi poetici, se cosl li vogliamo chiamare; soprattutto continuò a fiorire l'epigramma: notevoli tra gli epigrammatisti furono Rufino, forse vissuto nel II secolo, autore di epigrammi d'amore, a volte licenziosi e a volte ironici, certo non mai appassionati, neanche là dove l'autore finge ardente amore, ché la finzione è palese, palese il gioco;' e Pallada, un maestro di scuola povero, vissuto tra la fine del IV e il principio del V sec., autore di epigrammi vari (d'amore, d'ammonimento, conviviali, sepolcrali e altri e altri), arguti alcuni, tristi altri, nella gran parte amari, di quell'amarezza che nasce dal vano desiderio d'un mondo meno ingiusto, governato dalla ragione piuttosto che dalla cieca fortuna. Q son poi pervenuti, scritti tra il IV e il V sec., due vasti poemi epici, e, con altri, un grazioso poemetto, di sapore ellenistico benché forse posteriore alle Dionisiache, sull'amore di Ero e Leandro, appunto l'Ero e Leandro di Museo.' Il primo di questi, intitolato le Postomeriche ( t"à µe1}' "OµT)QOV ), di Quinto di Smirne, racconta, in quattordici libri, gli eventi dal seppellimento di Ettore alla partenza dei Greci da Troia distrutta, anzi al naufragio della flotta dei Greci vincitori. Vuol essere, come l'Iliade, poema di dèi e d'eroi: ma se ci sono gli dèi, manca, nel poema di Quinto Smimeo,' il divino; e, se ci sono gli eroi, manca l'eroico; e se ci sono gli uomini, manca l'umano: cosl come, se c'è il fato, manca il senso del destino. In realtà le Poslomeriche sono un racconto di fatti che si succedono; ma il perché non si capisce; o, meglio, il poeta ci dice che il fato volle quella successione, ma poi non sa perché la volle. Anche per Omero era fatale che Troia cadesse ed era fatale che Ettore perisse per mano d'Achille, come per Quinto è fatale che Achille sia ucciso da Apollo. Ma in Omero tali eventi fatali hanno un senso ben chiaro, rientrano in una visione ben netta della vita degli uomini, in una concezione limpidissima dell'essenza degli 1 Del II $CC. SOiio an~. ncll• 1f11D parti!, qudlc brevi liriche, che, per il tema aiill cuo ,d A~ote, furon dette A11«ru,ntrr, e son giunte fino I noi; e PCIVffluti ci soDO alcuni in!Ù, due dei ~ i 1QusiC11ti, di Adriano, MESOMUII; e, forse dd Il II forse del III scc., dei rifacimenti ID veni dcllc · · · l,lll giro i.ntomo alla temi, o e, del II =· o del principio
di un favole
' i questi secoli d sono' pctVflluti anche al~i inni, )mc quelli del filosofo oeop]uooico Pa_oc1.0, e inni e JX)Cllletli di ispiruionc otnùl, e descrizioni in veni (come, per dare un euinpio, una Deicmionc dcllt 1111,., dd ~tidddlo Ztu•ippo ,rt/ ,;1111osio pubblico, di un certo CR1sroooao), e un pocmello, Lrt p,,ra di Troia, di TRIFIODOao, e un aluo, Il rallo d'Elena, di Ccn.1.uro, un caiz.iano co~e Nonno e Trifiodoro. ' Quinto ~ conosciuto ,mchc ('O!llC Quinto Calabro, pcrch~ il primo manoscntto dd $UII poema fu iWPfflO ndl',mtiClll Cal&bria (nel $Ct'olo quindka.imo, dal JriDme ri deve s&riwre J41 s/r,,io e il ùuif.,,e,
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POETI, ROMANZIERI E ORATORJ DEL PERIODO ROMANO
riducendolo alle sue linee essenziali, o scegliere tra i miti quelli più strani sen7.a cercarvi un senso, o notare le contraddizioni che non mancan mai nei miti. Ecco, ad esempio, il mito di Prometeo: del mito di Prometeo aveva parlato Esiodo, sul mito di Prometeo Eschilo aveva costruito una trilogia mirabile. Luciano, nel suo Prometeo, accoglie alcuni elelllenti del mito esiodeo, ma soprattutto wole ricordare la trilogia eschilea: anzi da Eschilo trae la scena e i personaggi del dialogo, da Eschilo prende a prestito alcune immagini. Ma lo spirito è diverso: appunto in questo è diverso, che, mentre Eschilo del mito si serve a esprimere una sua fede, Luciano, mentre, mostrando le assurdità e le incongruenze del mito, si fa beffe di credenze vane, non fa brillare alcuna fede che sostituisca quelle credenze. Eschilo aveva avvertito che c'è, o ci può essere, nel cuore dell'uomo, un contrasto tra il suo senso di giustizia che vuole punito ogni infrangimento delle leggi, e la compassione che perdona ogni colpa: e con la trilogia del Prometeo, incentrata sul contrasto tra il Dio della giustizia e il Dio della compassione, aveva espresso la sua certezza che il contrasto può essere composto, se la giustizia si faccia compassionevole e la compassione non distrugga l'ordine ch'è tutela dei viventi. Luciano mette ancora di contro Zeus e Prometeo; ma Zeus non è più il dio della giustizia, sl un tiranno stolto e meschino, e Prometeo non è il dio della generosa compassione, ma un dio burlone o interessato, ad ogni modo un eccellente avvocato, un abile sofista. Ecco, infatti, come il Prometeo di Luciano si difende dalle accuse che gli sono mosse. Ha lui ingannato Zeus, come raccontava Esiodo, ponendogli innanzi ossi di bue avvolti di grasso? Non una colpa di frode si doveva vedere in quest'inganno, ma uno scherzo: e, se fallo era, era fallo piccolo, e dunque perdonabile: Tali burle da convito, o Ermes, neanche bisogna ricordarsele: che se anche nel bere si commette qualche fallo, si deve tenerlo per uno scherzo, e deporre l'inl subito, ancor Il, pl'UDa che
il banchetto sia finito. Serbar odio e ricordan.i l'offesa e non deporre l'ira, non è degno degli d~. e neanche d'un re ... Nessun uomo farebbe aociliggerc il cuoco, se, men~ lessa la carne, intinge il dito mtl brodo e se lo lc:ccu, o se, 111Cnuc prepara un arrosto, ne stacc11 un po' e se lo mangia:
gli uomini perdonano questi falli.
Ha lui dato, poi, vita agli uomioi, come anche si raccontava? Ma non era una colpa, cotesta: anzi dovevano essergli grati, per questo; gli dèi, perché prima nessuno li onorava, e invece, dopo la creazione dell'uomo, « dovunque ci sono altari e sacrifici e templi e feste». Infine, ha lui, Prometeo, portato il fuoco agli uomini violando l'ordine stabilito e i diritti degli dèi? Ebbene: che male aveva fatto? erano stati privati gli dèi, per questa opera sua, del fuoco, o continuavano anch'essi ad averlo? e, del resto, non avevano essi, gli dèi, tratto vantaggio dal dono fatto da Prometeo agli uomini? Abbiamo forse perduto il fuot'O noi, di quando esso è po5$Cduto anche dagli uomini~ Non puoi dir questo ... t invidia, cotesta, di non.voler far parte a chi ne ha bisogno di ciò che a voi non costa nulla. Eppure gli dèi dovrebbc,o essere, se fosseJO buoni, largitori di bene e pdvi d'ogni invidia. Tanto più che non vi avrei fatto gran danno neanche se avessi portato tutto il fuot'O sulla terra sottraendolo a voi, chi voi non ne avete bisogno per cuocere l'aaibrosfa o per cacciare il freddo o farvi lume. Per gli uomini invece il fuot'O è necessario a molte cose e, tra !'altre, ai sacri.6ci... e io vedo che voi, del fumo dei saai6ci, godete assai ...
La religione nascosta nel mito viene per tal modo svuotata d'ogni contenuto, e, svuotata del contenuto, appare stoltezza. Come la religione, cosl la filoso6a, almeno la filosofia di quei pensatori che sp& culavan sulle cause eterne. Ecco Pitagot11. Pitagora aveva cercato l'uno, l'identico,
ELIO AlllSTIDE E LUCIANO
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l'eterno di là dal molteplice, dal vario, dal caduco: e il bene aveva identi.6cato con l'uno, con l'identico, con l'eterno, con l'armonia espressa dal numero immutevole. Mal conosciuta, certo;· era la filosofia di Pitagora nel II sec. d. C., ma forse non tanto da potersi ignorare, chi avesse idea dell'eterno, che nell'identico, eterno ed uno, Pitagora aveva cercato e trovato il riscatto dell'uomo, anzi il fine della vita. Or e«o come, nella Vendita delle vite all'asta, Luciano fa parlare Pitagora ( ch'è stato messo, nella fantasia gioconda, all'asta) a chi lo wol comprare: Non ti inse~ nulli, ma ti farl> ricordare ... rendendoti prima l'anima pura col togliere dt. essa ogni S022UN ... Imparerai qual è il movimento e qua1 è la forma della terra e dell'aria e dell'acqua e del fuoco ... e saprai che il Dio è numuo e mente e llnnOni. ... e ancora uprai che tu sembri uno, ma altro appari e a1tro sei ...
Ed ecco come parla Eraclito: Penso, straniero, che la vit• degli uomini sia miserevole e lagrimevole, in ogni modo soggetta alla morte. Per questo ho compassione degli uolllioi, e piango, e giudico meschino il presente e doloroso il futuro ... Per questo pia.ago, e perché nulla è fermo, ma tutto è mescolato: una medesima cosa son gioia e dolore, COI\OSCCIWl e ignorama, grmde e piccolo, che si muovon ru e giù e mutano nel gioco del tempo.
Ecco, infine, come risponde Socrate, il Socrate interlocutore dei dialoghi platonici, quando il compratore gli domanda qual è il nucleo della sua sapiell%a: Nucleo sono le idee e gli esemplari delle a,se che sono: di tutto quello che vedi, la terra e ciò che è sopra la terra e il cielo e il mare, ci sono delle lllUlllljpJ1i invisibili fuori dell'wiivcno,., Tali immagini no.a stanno i.a nessun luogo: perch.!;, se fouero in qualche luogo, no.a sarebbero... Io vedo d'ogni cosa l'immagine, e un te invisibile, e un altro me, e insoDllD.II vedo tutto doppio.
Il vero è che Luciano non crede nella sapienza, anche se apprezza le virtù, o meglio la probità degli uomini dabbene. Tanto che, quando, nel Pescatore, si giustifica d'aver burlato i filosofi, e spiega d'aver voluto beffare i settari seguaci delle varie sruole filosofiche e non i maestri di quelle (Socrate e Platone, Crisippo e Aristotele, Diogene e Pirrone), egli, protestando il suo rispetto e la sua devozione agli antichi maestri, non per la loro ricerca di valori eterni li loda, ma appunto per quella probità in rui per lui consiste la perfezione dell'uomo: E la cosa più strana è questa, che la mauior parte di costoro conosce benissimo i vostri precetti, ma vive come se li studiasse e li imparasse solo per fare il con1Nrio. PacM bello e saggio e veramente ammirevole è, per Zeli$, tutto quello che dicono, che bisogna spregiare fauna e ricchezza, e considerar buono soltanto l'onesto, e non abbaudolllll"Si all'U'III, e spregiare questi rkco.ai, e parlar loro con dignità: ma poi, e proprio per cotesti i.asegaamenti, vogliono una mercede, e a..mmi.ruto i ricchi, e stanno a bocca aperta davanti a1 denaro, e so.a più ringhiosi dei bacoli, più vili delle lepri, più adulatori delle scimmie, più lussuriosi degli asini, più rapt.d dei ptti, più battaglieri dei galli. È un motivo che ritorna frequente, questo della probità: quasi quanto il motivo della stoltezza dei cercatori di pompe, dei vanagloriosi, dei superbi. Ecco, ad esempio, quello che Cratete, nell'undicesimo dialogo dei morti, dice al suo maestro Diogene: Quello di cui avevamo bisogno, tu l'ereditasti da A.atisWle, ed è bene più prezioso e grande dell'impero della Persia. - Qual bene dici? - Sapien%a e iDdipeodei:w. e sincerità e schiettezza e libenà.
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POETI, ROMANZIERI E ORATORI DEL PERIODO ROMANO
Probità, ch'è in Luciano virtù umana piuttosto che divina od eroica. Tanto lontano, invero, è Luciano dal conoscere la virtù eroica, che si fa beffe non solo degli antichi eroi dd mito, Achille e Aiace ed Eracle, ma anche di Socrate: e nel sacrificio di Socrate vede una ostentazione vanagloriosa e menzognera, e Socrate rappresenta spaventato davanti alla barca di Caronte e alle fauci di Cerbero: Da lontano, o Menippo - diec Cerbero - pareva che avanza9sc con volto intrepido e che non avesse paura della morte, e che volesse dirlo a quelli che stavano fuori della porta. Ma come s'affacciò all'abisso e vide il buio, e come io lui esitante morsi con la cio.ita e trassi giù per un piede, allora come un fanciullino si mise a piangere, e a gemere sui ruoi figli, e non e'~ cc»a che non facesse. - Dunque quell'uomo era un sofista e non dispiezuva veramente la morte? - No: ma, come la vide inevilabile, volle mo.mani audace come se subisse di buon grado quello che non poteva evitare, affinchi gli spettatori l'ammirassero.
Rari scrittori ebbero la limpidezza e la grazia di Luciano, pochi ebbero la sua eleganza nel motteggio, pochi furono altrettanto misurati nell'arguzia. Ma in quel suo moralistico motteggio è assente ogni amor di perfezione, ogni aspirazione magnanima. L'idea dell'eterno, viene in mente, mancò ad Euripide; ma Euripide, mal pago della probità mediocre, soffcnc, per questa mancanza, un'angoscia inesausta, e creò, per tale angoscia, la Medea, l'Ippolito, l'Eracle; Luciano, che fu pago della probità mediocre, divenne motteggiatore arguto e scrisse i vaghissimi, non tragici, Dialoghi.
DA ELIO ARISTIDE
I.a pace imperiale (Ora/., XIV, 60-70) Ni il mare Il~ I,. grande dis1ania da Roma iui.pcdisce di C!isctc cittadini tolllani; e l'Asia e l'Europa in questo non differiscono. A tutti sono apct!C tutte le suade, né straniero è colui, chiunque egli sia, che merita comando o .fiducia. t davvero Il.DI democrazia universale, retta e guidata dall'uomo migliore. Qu.i tutti convengono, pel' ricevere ci11SCUD0 quello che merita, come se questa fosse, di ciascuno, la sua propria città. · Quello ch'è una città per le terre e le C'illllpagne che la citcondano, è l'Urbe per tutto il mondo, perché essa ne è come la roccaforte: è come dire che tutti i popoli, come se fossero perieci disuibu.iti in villaggi, convengono qui, in questa sola acropoli; ed essa non respinge nc"11110, ma, come il suolo della terra sostiene tutti, cosl C$sa aa;oglie chiunque da qualunque luogo, come il mare i .fiumi; anche questo ha in comune col J:llllle, che, come il mare non diviene più grande per l'afllusso dei .fiumi, cosl neppur essa. Dicevo che voi, come siete grandi, cos1 avete fatto grande la vostra città, e che mirabile l'avete resa non già .negando altczzosamcn1e agli altri di fame parte, ma cerando di popolarla degnamente: il nome romano è infatti divenuto il nome non di una città, ma di tutta una nazione, non UDO fra tanti ma uno di contro i tutti gli ahri. Petchi non in Gro:i e Barbari voi distinguete gli uouiini (basta, a rendere ridicola questa distinzione, l'aver voi fatta la vostra città più popolosa di tutta la Grecia), ma in Romani e non Romani: tanto avete esteso il vosuo nome. In ogni città ci sono, infani, molti che hanno la ciuadinanza vostra oltre quella della loro gente, alcuni anche senza aver mai visto questa cinà. Sl che non c't bisogno di porre p,esldi nelle 11Cr0poli, ché in ogni città gli uomini più ragguardevoli e più potenti vigilano per voi. Per due modi dunque voi tC.Dece legate a voi le città, col governo cli Roma e con quello dcllc città medC$ime. Ni akuno è gdoso dd vostro po1erc: ché voi slessi 5iete stati i primi a non C$scrnc gelosi, facendo parttt:ipi tutti dei vostri diritti, e dando la possibilità, a chi ae aveva la capacità, di govcruare oltre che d'esser governato. Ni quelli che 50n lasciati da parte serbano r81lCOrc, perché,
.ELIO ARISTIDE E LUCIANO
,1,
essendo l'ordinamento politico comune a rutti, qua.,i gDVCl'llo di una sola cittl, i govema11ti aovernano concittadini, non stnmicri conquistati. E inolue le popolazioni sono difese di contro al prepotere dei capi, perché l'ira, vostra e il vostro casligo subilo si abbattono su di loro, se osano coromeuerc ingill5tizic: e poveri e ricchi accolgon volentieri que9to ordinamento che è utile a tutti, e non desiderano a11ro modo di vita. Si è ettalo per tal modo un armonico ordinamento di tutti, sl che dò che in passato sembrava impossibile s'è avverato per opera vostta ... Le città sono senza prc:11ldi; ali e coorti baswio ella tutela di tutti i popoli, e non sono stanziate nelle ciuà in gran numero, ma sparse nelle regioni, secondo le vuie necessità, cosl che molti popoli igo.ot1mo dove si trova il contingente che li presidia. E se una città per aoppa grand=a non sa govcmarsi modestamente da ~. voi non ricusate di mandarvi prefetti e governatori. E rutti pagano a voi i tributi più volentieri di quanto li riceverebbero essi da altri; cd è narurale. Perché comandare non è scnu rischi per chi non ha forza, meone essere comandati da chi è forte è, dicono, la seconda navigazione: l!lzi ora da voi è stato mostrato che è la prima navigazione. Tutti, quindi, si tengono uniti e non desiderano staccar.;i da voi più che i naviganti non vogliano restare scnza nocchiero; ma, come i pipistrelli nelle grotte si aggrappano gli uni llgl.i altri e elle rocce, cosl tutti i popoli si tcDgOno uniti a voi, timorosi e prcott11pari di non uscire dalle vostre file; e tanto sono lontani dall'abbandonarvi, che temono d'cs~ abbandonati da voi. Invece di contendersi il dominio e la supremazia, che fu causa un tempo di guerte, gli uni si godono una beata tranquillità come acqua che $COttC silcn.iosa, CODttllti che siano finite le fatiche e le sventure, acconisi finalmerite che combattevano invano con ombre; altri non sanno né ricordano l'impero che avevano, ma ... le città che, per cosl dire, giacevano sul rogo pct le loro contt5t e le discordie, accolta b vostra egemoni.a, subito rifiorirono a nuova vita. C.ome 5iaJ:io giunti a questo, non sanno dire, anzi guardano srupiti la situazione prese.o.te, come chi si sveglia e ritorna in sé e d'un tratto non si cura più dei sogni appena fatti. Le guerre, se mai ci futono, neanche si crede che ci siano state, e se ne part. come di favole .. ,
DA LUCIANO
Mercurio e il Sole (Deor. dial., X) MERCUlllO. O Sole, Giove dic-c, non uscirai né oggi, né dimani, né dimui l'altro, ma ti rimami dentro, e intanto sia una sola nolte lunp: onde le Ore sciolgano i cavalli, N spegni il fuoco, e riposati un pezzo. IL SoLE. Tu mi porti nuova e strana ambll$data, o Mercurio. Non mi i,are d'aver deviato dal cono, né guidato il carro oltre i li.miti: perché sdegnasi egli mcco, e vuol fuc una notte triplice del giorno? MERCUIUO. Niente di questo, né S11rà sempre cosl. Egli ha on. bisogno che ci sia una notte più che lunghissima. IL SOLE- Dove~? e donde ti mandò a mc con questa ambasciata? MERCURIO. ~ in Beozia, o Sole, e stuscnc COD. la moglie di Anfitrione, della quale è innamorato fradicio. IL SOLE- E non gli basta una notte? MERCU11to. Altro! Da qud congiungimento dovtl cascetc un grande e divino miracolo d'atleta; impastarlo in una notte sola è impossibile. IL Sol.a L'impasti col buon pro. Ma queste cose, o Mercurio, non accadevano quando c'cra Sarumo (siam fra noi, e possiamo parlare); quegli non lasciava mai Rea sola nd leuo, ni!: abbandonava il ciclo per and•rc a dormire in Tebe: il giorno era giorno, e la notte misurat•meote propor.i:ionata alle stagioni: non ci cran novilà e mutazioni: nl!! mai egli fece comunella con donne mor1ali. Ora per una misera femminella si deve stravolgere il mondo: i cavalli divcninni ritrosi per ozio, la strada guastarsi per non essere battuta tre dl, cd i poveri uomini vivere nc1lc tenebre. Ecco il frutto che godranno degli amori di Giove, star corc.ti ad aspettare ch'egli compia l'atleca che tu dici, ricoperti di si lungo buio. Mucu110. Zitto, o Sole, che non ti colsa male per la lingua, Io vommenc dalla Luna e dal
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POETI, ROMANZIERI E ORATORI DEL PERJODO li.OMANO
Sonno, a dire quello che Giove m'ha C!llillllesso: alla Luna che non 5'affreul di troppo; e al Sonno che 110.D wci gli uomini, affincM non s'accorgano d'una notte sl l1.1.11g1.
(trad112:. di L. Settembrini)
Menippo e Mercurio (Dial. mori., XVIII) MENIPPO. Dove sono i belli e le belle, o Mercurio? MenaIIU a loJO, ch'io ci son nuovo qui. Mucuuo. I' non ho tempo, o Menippo; 111a rigwirda costi. a destra, che v'è Jacinto, Nardsso, Nireo, Achille, e Tiro, ed Ele11a, e Leda, e insomma tulCe le bellezze antiche. MENIPPO. Io vedo solo ~ e cranii scamati, quasi tutti si.miglie.cr,ti fra loro. MERCUIUO. Ed ecco quello di che tutti i poeti cantano le maraviglie, le GSsa, che tu mostri di spregiare. MENIPPO. AlmC!IO additami Elena: chi! da me DOD la potrei disocmere. MERCUUO. Questo cranio è Elena. • MENlPPO. E per qucslo mille navi sciolsero da tutta la Greci., tanti Greci caddero e tanti Barbari, e ta.Dte città rovinarono? MERcu110. Mlii tu non la vedesti viva, o Menippo, questa donna: avresti detto anche tu · per cotal doD..Dlll fu sofferto tanto.
che Dltritamente
Se uno vede fiori secchi. e scoloriti, certo gli paion hNtti, ma quando han vita e colore ci sono belliswn.i. MENIPPO. E di questo io mi lllffllviglio, o Mercurio; come gli Achei non capirono che si affaticavano per cosa che sl breve dura, e presto sfiorisce. M:e1cuR10. Io non ho tempo di filosofar 1ecu, o Menippo. Onde scegliti qual luogo pià t'aggrada, e vi ti adagia: io vado 11, tragittar altri morti. (mduz. di L. Se1cemhrini)
IV.
GLI ORATORI DEL IV SECOLO
Poco sappiamo degli oratori, poco della sofistica del III sa:olo, il secolo della grande anarchia militare. Più conosciuto e più notevole è il quarto secolo, quel quarto secolo in cui, mentre si rinnovano e s'aggravano gli assalti dei popoli oltre confine, e riprendono, dopo la breve pausa della tetrarchia di Diocleziano, quasi incessanti le guerre intestine degli imperatori, un evento nuovo sembra trasformare, almeno in uno dei suoi aspetti, il mondo governato nel nome di Roma: l'appartenenza alle comunità cristiane, un tempo considerata delitto, ora è dapprima tollerata e poi è consideI"9ta titolo di merito; e si cominciano a distruggere i templi degli antichi dèi, e i pagani son guardati con diffidenza. Mutamento grandissimo: ma gli imperatori cristiani non sono più concordi tra loro che non fossero gli imperatori pagani, e l'amministrazione dello Stato non è men corrotta, e gli assalti dei Barbari non sono meno pericolosi, e il gravame delle tasse e delle esazioni non è meno funesto; anzi sempre più s'aggrava, mentre ricchissimi si fanno pochissimi burocrati, l'immiserimento della classe più povera, e di quella classe media ch'era stata un tempo il nerbo e il sostegno di Roma e dell'Italia e dell'impero. Qual meiaviglia, dunque, se un giovane studioso, che leggeva nei libri della cultura pagana le lodi della moderazione e della temperanza e della concordia e d'ogni altra virtù, che dai moralisti degli ultimi secoli imparava che il successo era il premio concesso dagli dèi agli uomini virtuosi e pii, trovava la causa d'ogni male nel duplice oblio dell'antica pietà e delle antiche virtù, e, divenuto imperatore, si sforzava di restaurare l'antica religione e insieme di combattere la corruzione funesta, insomma tentava di far rinascere quegli antichi costumi e quelle antiche credenze che avevano creato e poi difeso l'impero di Roma? e qual meraviglia che accanto a lui stessero, per la gran parte, gli uomini di cultura, gli oratori, i sofisti, i filosofi, che leggevano nelle scritture dei cristiani l'inaudita parola di un Verbo fatto carne, di un Dio crocefisso, di un corpo spirituale, e che di contro alla asciutta oratoria e alla non elaborata prosa e ai semplici canti della nascente letteratura cristiana trovavano le poesie sublimi di Omero e dei tragici, la prosa nervosa e ricca di Tucidide, l'oratoria incomparabile di Demostene? Le voci più notevoli, e meglio conosciute da noi, di questa rinascita dell'antico paganesimo sono, insieme con quella dell'imperatore Giuliano (detto l'Apostata), le voci degli oratori, soprattutto di Imerio e cli Temistio e di Libanio. Oratore più freddo è Imerio, vero professore d'oratoria, autore, oltre che di discorsi d'occasione, di discorsi fittizi (indizio del voluto ritorno all'antico), discorsi quali avrebbero potuto scrivere (secondo che Imerio credeva) Demostene e Temistocle e Iperide. Più filosofeggiante, ma ugualmente privo di genio filosofico, è Temistio, oratore e uomo politico, o, meglio, dignitario sotto vari imperatori: di lui è la rinnovata lode di quella che già in Plutarco e in Cassio Diane e negli altri. scrittori dei primi secoli dopo Cristo era apparsa la suprema virtù dell'uomo politico, la filantropia; e di lui è la proclamazione netta del diritto che ciascuno ha d'adorare il Dio o gli dèi secondo la sua fede, e del dovere che tutti hanno di rispettare la fede altrui. Il più fecondo e il più facondo, e anche il meglio noto a noi, il più ammirato
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POEn, ROMANZIERI E ORATORI DEL PERIODO ROMANO
dai suoi contemporanei e dai posteri, fu però Libanio, maestro di Giu1iano e, anche, di oratori cristiani, come Giovanni Crisostomo e Basilio e Gregorio di Nazianzo. Oratore sofistico, capace cli lodare in un'occasione Antiochia come la città, non solo più bella e più fortunata del mondo, ma anche più amata dagli dèi, e di dire, in un'altra occasione, che nessuna città era più d'Antiochia in odio agli dèi, Libanio fu tuttavia sincerissimo in tre cose: nella sua fede negli antichi dèi, nella certezza che buone erano le virtù lodate dai padri, nel suo giudizio su Giuliano, l'imperatore che aveva ricostruito i templi degli dèi e vinto nell'Occidente i Germani e combattuto con grande valore contro i nemici orientali dell'impero. Sincerissimo anche, per dire tutto, nella sua ammirazione per l'antico idealismo; ma appunto nell'ammirazione. Perché l'idealismo non diventa sangue del suo sangue, anima dell'anima sua. Sessantacinque sono i discorsi pervenutici di Libanio, alcuni brevi, altri lunghi o lunghissimi: alcuni contengono la lode di questa o quella virtù, come il discorso Sull'insaziabilità; altri son discorsi fittizi, o esercitazioni o declamazioni, come l'Apologia di Socrate, l'Ambasceria di Menelao, l'Ambasceria di Odisseo, la Difesa di Oreste; altri, e sono i più notevoli, son discorsi d'occasione. Tra tutti spicca l'orazione pronunciata in lode di Giuliano dopo la sua morte, l'Epitafio di Giuliano, ch'è il discorso in cui Libanio, per esprimere l'idea sua del hene e del male, idealizza Giuliano cosl come Tucidide e Isocrate avevano idealizzato Atene. Veramente uomo divino è, per Libanio, Giuliano, {kioç dvfig: egli possiede tutta la sapienza, ha tutte le virtù, è animato da una incomparabile pietà. Sapientissimo perché, avendo un giorno incontrato i filosofi platonici e avendoli uditi esporre le loro dottrine « sui demoni e sugli dèi che hanno veramente fatto l'universo e lo mantengono », e « sull'anima, donde viene e dove va», e su « ciò che per l'anima è carcere e ciò ch'è libertà», cacciò « fuori di sé ogni vacuità, e v'introdusse 1a bellezza della verità». Piissimo verso gli dèi perché « non ne onorava soltanto alcuni trascurando gli altri ... ma a tutti quelli che i poeti ci han fatto conoscere, padri e figli, dèi e dee, governanti e governati, a tutti offriva libagioni, sugli altari di tutti sacrificava agnelli e buoi». Pio del pari verso i parenti: tanto che, morto Costanzo con cui era in guerra e che l'avrebbe ucciso se avesse potuto, « vedendo la guerra terminata cosl felicemente, e udendo la morte di quell'uomo che aveva verso di lui animo di porco selvaggio, non s'abbandonò a gozzoviglie, né indulse al piacere degli spettacoli dei mimi»; anzi, « quando in suo possesso erano la terra e il mare, e nessuno alzava lo sguardo contro lui ma tutti l'accoglievano come signore d'ogni rosa, quando nulla poteva costringerlo a fare quello che non voleva », egli « si volse al pianto », e seppelll e onorò quel morto che gli era stato a un tempo parente e nemico. E anche temperante e giusto e compassionevole era Giuliano, che, appunto t)Cr la sua temperanza e giustizia e bontà, alleviò l'insopportabile peso delle tasse, soppresse l'uso delle concussioni, migli~rò l'amministrazione della giustizia. Tanto virtuoso di tutte le virtù, che Llbanio non esita a lodarlo una volta perché, pure sforzandosi di convincere i cristiani che solo l'antica religione era verace, usò tolleranza, nella certezza che, « se i corpi si possono curare con farmaci, non si può cacciare dalle anime la falsa fede negli dèi bruciando e tagliando; perché, mentre la mano sacrifica, l'animo la biasima, e, attribuendo il sacrificio compiuto alla debolezza del corpo, continua ad ammirare quello che anche prima ammirava»; e a lodarlo un'altra volta perché si servl, quando vide che le parole non bastavano a convertire i soldati, dell'oro e dell'argento (« non bastando i discorsi, oro ed argento contribuirono a persuaderli, sl che i &0ldati, per mezzo di quel piccolo
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guadagno, ne fecero uno maggiore, acquistando, per quel denaro, l'amicizia degli dèi signori delle guerre ,. ). Virtuoso di tutte le. virtù dell'antica etica, Giuliano fu, nella lode sincera di Libanio, ammirevole soi,rattutto perché amò anche, più dell'attività poUtica, più delle guerre sostenute a difendere contro i barbari predoni le terre dell'impero, la cultura, l'oratoria, la lettura di buoni libri: E questo egli faceva interrompendo la lettura dei :ruoi libri: anzi ~ meglio dire clic con questi andava contro i netnki. Perché nelle man.i aveva se11Jpre libri o armi: giudicava infaui che la sapienza giovasse molto nella condona della guerra, e che un re capace di pensare fosse assai superiore a un re cap11Ce di combattere.
Nel suo epitafio Tucidide s'era soffermato su uno o due momenti della storia d'Atene, quei momenti in cui gli Ateniesi avevan conquistato una libertà sicura e acquistato un impero glorioso; nel suo Panegirico Isocrate si era del pari soffermato su pochi momenti della storia della città lodata, quelli in cui Atene aveva dato inizio, e impulso, e compimento alla creazione d'una singolare civiltà: Libanio segue invece, nel suo Epitafio, Giuliano impresa per impresa, opera per opera, momento per momento, di volta in volta notando una virtù, un pregio, una lode, finché giunge all'ultima esaltazione, quella della serenità con cui l'uomo divino aveva accettato la morte. È in questa lode che massimamente si svela l'ammirazione per l'antico idealismo, e insieme anche si svela che l'ammirazione di Libanio non si tramuta in vita interiore. Piangevano tutti, Libanio racconta, intorno a Giuliano morente, ma non piangeva lui, anzi rimproverava gli altri perché stoltamente piangevano: non era lui vissuto 1>antamente? non era dunque cosa certissima che non nel Tartaro sarebbe sprofondato, ma accolto nelle isole concesse ai beati? A Libanio pare che Giuliano, in quella sua morte, s'assomigli a Socrate: La tenda assomigliava al carcere che aveva accolto Socrate, i presenti eran come quelli che avevano assistito alla mone di Socrate, e la ferita ricordava il veleno, le parole ricordavan le parole: e come Socrate, solo tra tutti, non aveva pianto, cosl solo tta tutti non piangeva Giuliano.
Qual lode maggiore a Socrate di quella di prendere lui come termine di paragone della costanza nel momento della morte? e qual lode maggiore dell'idealismo che quella di considerare l'ultima parola di Socrate come insegnamento sublime? Tuttavia quella parola Libanio l'intende male (cosl come nella sua Apologia di Socrate mostra di intendere male le ragioni vitali della missione socratica). Perché nelle parole ch'egli dice pronunciate da Giuliano nel mo.mento di morire e in quelle che egli immagina rivolte a lui dallo stesso Giuliano apparsogli dopo la morte, la seretùtà dell'imperatore appare originata da una certezza diversa da quella di Socrate, Dice infatti Giuliano: Piangendo per la mia ferita e per la morte in giovin=a, voi, se credete che sia peggio vivere con gli dèi che con gli uomiai, pensate male; se pensate ch'io non andrò in quella regione, conoscete male me .•. E non vi sembri tenibile ch'io sia morto in guerra colpito dal ferro: cosl ~ morto Leonida, rosl Epaminonda, cosl Sarpcdone, cosl Mcmnone, figli dì da.. E se v'alBigge la morte in giovincz:ia, vi può consolate Alessamho, fi&lio dì Zeus.
Soaate aveva parlato in altro modo ai giudici. Non aveva detto con certezza assoluta che sarebbe andato a vivere con gli dèi, ma aveva prospettato due ipotesi, che la morte fosse annientamento completo, e che la morte fosse principio di una
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vita accanto ad altri defunti (e lui sareb~ allora andato a conversare con Aiace e Palamede, con Omero e con Esiodo): aveva cosi mosuato di credere che la soluzione del problema del modo di vita che segue la morte non fosse essenziale alla sua serenità. La sua certezza, spirituale certezza, era questa, che, mentre nessuno sa se la morte sia un bene oppure un male, un male indubitabile era la disobbedienza al Dio (e alla voce interiore della coscienza), un bene l'obbedienza al Dio (e alla voce concorde della coscienza). Il premio, il vero premio, la vera ricompensa eterna, per Socrate era Il, nella serenità che accompagna chi vive e muore concorde col Dio, in pace con la coscienza; cosl come la condanna dell'uomo malo era 11, nell'inquietudine che accompagna chi è lontano dal Dio e non ode la voce della coscienza. Habent mercedem suam: ll era il vero più vero, 11 era la certezza assoluta di chi conosceva e se stesso e gli dèi. Che importava, allora, vivere a lungo o viver poco? morire in casa propria o in un carcere, di ferita o di malattia? Non c'era bisogno, no, di pensare ai morti del passato per trovar consolazione alla morte in giovinezza o alla morte per ferita. Libanio invece ha bisogno di consola2:ione, anche se parla, con certezza che par sicurissima ed è vacillante, d'una perduranza dopo la morte e di una vita beata nell'oltretomba. Anzi è da dire di più. Libanio cerca, ma non trova consolazione. Isocrate, che viveva mentre Atene era tormentata da guerre continue e mortali, e ne soffriva, che soffriva, anche, scorgendo la corruzione dei costumi della sua città, Isocrate, quando s'alzava a contemplare l'eterno con occhio fermo e giudicava secondo l'eterna idea, trovava consolazione integra di là dalla pena, e cantava la grande vittoria, precaria nel tempo ma eterna nell'idea, della civiltà sull'inciviltà, dell'ordine sul caos originario. Tucidide, che scriveva dopo la sconfitta d'Atene e 1a dissoluzione dell'impero, poteva, del pari contemplando la storia dall'alto dell'idea, alzare un inno gioioso di lode al compimento d'Atene, sereno nella sua certezza che la felicità vera sta nella libertà, e la libertà nella magnanimità sottratta al tempo. Platone, infine, poteva parlare ancora e ancora del maestro amatissimo, accusato e processato e condannato e ucciso, senz'ombra di mestizia: perché sapeva Socrate assunto nell'eternità dal pensiero verace, Libanio, dopo aver paragonato Giuliano a Socrate, si lamenta e piange: Io credevo che non cosi gli d~i avrebbero onotato quell'uomo menviglioso, ma col dono di figli, con una lunga vecchiaia, con un lungo ttgno. I re dei Lidi, o Zeus, ligli di Gi.se dalla mano impura, dunron l'uno trentanov'llllni, l'aluo cinquantasette, e trentotto lui stesso, l'empio doriforo; a lui invece, a Giuliano, concedesti di restare sul UODO maggiore solo due anni ... Che C0$8. avevate da rimprovcratt, d~i e d~moni, all'animo suo? ... quale delle opere sue non era degna di lode? Non ha alzalo altari? non ha costruito 1empli? non ha onorato splcndidamenle d~i eroi ètere ciclo terra matt fonti fiumi? non ha combauuto CODtro chi vi ha combattuti? non~ s1ato più continente d'Ippolito, giusto al paragone dello stc.sso Rada.manto, più intelligente di Temiuocle, più valoroso di Brasida?
Tale è il pianto di Libanio! Gli è che egli ha gli occhi troppo adusi alla terra, sl che può essere bensl percosso d'ammirazione alla vista dello splendore del sole e delle stelle quando li alza al cielo, ma poi non può sostenere la vista di tanta luce, e torna a guardare alla terra, e nella terra, sempre, il male prepondera, il pianto vince. Quel contrasto tra Ia riccrc:a dell'idea e l'amore del mondo terreno ch'è iu Libanio, ch'era stato negli storici da Appiano e da Arriano a Cassio Diane e a Erodiano, ch'è del resto, a volte profondissimo e a volte attenuatissimo, in ogni
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uomo vivente, ba una sua nota particolarissima in Giuliano, l'imperatore educato a.I cristianesimo e ritorna;o alla religione degli antichi padri, ammiratore di Alessandro Magno e più di Mare' Aurelio, studioso sincerissimo degli antichi filosofi e capitano valoroso d'eserciti, panegirista di Costanzo e suo nemico in armi: Giuliano ebbe destino singolarissimo. Figlio d'un fratello di C.Ostantino il grande, cugino di Costanzo Il, fu dal cugino imperatore privato del padre e d'un fratello quand'era ancor fanciullo (e poi d'un altro fratello, Gallo, quand'era poco più che adolescente), e confinato per lungo tempo ora in questa e ora in quella città dell'Oriente: finché quel medesimo cugino imperatore non lo elesse (come aveva eletto Gallo prima di farlo morire) suo Cesare, per poi tramargli insidie, mosso insieme da paura e gelosia. Più ancora: quando C.Ostanzo cercò subdolamente di sottrargli le legioni migliori, quelle legioni proclamarono Augusto lui, Giuliano; e quando tra lui e Costanzo la decisione stava per essere lasciata alle anni, la morte gli tolse di mezzo il nemico, lasciando lui imperatore unico, signore assoluto dell'Occidente e dell'Oriente. Dalla solitudine del confino alla porpora imperiale, dalla tranquillità degli studi al tumulto delle guerre, dalla meditazione all'azione: tale fu il destino di Giuliano. Perché negli anni della sua solitudine egli non s'era intristito nell'inerzia, ma aveva, quando gli era stato possibile, letto le opere degli antichi filosofi, degli oratori, degli storici; e aveva ascoltato maestri di retorica e maestri di filosofia. Aveva per tal modo conosciuto le antiche dottrine, imparato le antiche massime, ascoltato gli antichi insegnamenti. E le antiche dottrine, le antiche massime, gli antichi insegnamenti l'avevano consolato nella tristezza dell'isolamento e nei rinnovati dolori. Or la fede in quelle dottrine non l'abbandonò mai più: non mai l'abbandonò, voglio dire, la certezza (idealistica certezza) che, piuttosto che nei beni che la fortuna gli concede, la sostanza dell'uomo è nell'animo suo; la certezza, si può anche dire, che verace ed eternante e liberatrice è soltanto la virtù. Scrive, infatti, nel primo Panegirico a Costanzo:' L'esito della gran pane delle azioni, l1JlU di quasi tulte, ~ determinato dalla fortuna, dai dorifori, dalle falangi dei soldati, dagli squadroni di cavalleria; ma le opere della vi.ttù sono wltanto dell'uomo virtuoso; del virtuoso è la lode che ne sururisce, )1 sola lode verace.
E scrive nel secondo Panegirico a CostfZ11zo: Noi siamo ottenebrali dalla ricchC'lU, ouenebrati dalla forza e dalla bellc:zza dei corpi, ottenebrati dal potere ereditato dai padri. Ottenebrati, non distinguiamo, am.i non volgiamo lo sgua«lo all'anima; ma è l'anima che ci differenzia dagli altri animali, sl che solo guardando all'anilJll. noi possiamo ben giudicuc della nobiltà di qualcuno. Lo capirono gli antichi, per una mirabile intuizione naturale piuttosto che per Wll intelligenza acquisita com'è la nostra, filosofando spontaneamente piuttosto che per educazione ricewta, e dissero figlio di Zeus Eracle, e nelio stesso modo lodarono i due figli di Leda e il legislatore Minosse e Radamanto di Cnosso... Perch(!; guardavano all'anirn& e alle opere, non alla ricchezza grande ed antica o al potere ricevuto in eredità dai noDni e dai bUnonni.
Fortuna e virtù: è l'antitesi antica, di Tacito e di Livio, di Platone e di Tucidide. E presuppone, questa antitesi, l'altra fondamentale antitesi, dell'eterno e del tempo, di cui partecipa l'uomo mortale. Giuliano non ignora quest'altra 1 Di G1ut.JANO restano 1kvn_i discorsi (tra i qUAli p,mieolarmentc notevoli sono i d1.1t Pt111tiirid_ 11 Co111111io, il discorso Contro i d11,ci ii11or11111i, W>B Como/ttr.iont II Jt rttsso per 14 p,1t11111 dtll'am,co
~f!f~io!J,11~~~ 1::i:e, e « non sema un dio infuria twl. ,. ) , qua.si che CW facciano delle passione il pungolo e lo strumento della ragione ... Pertanto non diremo, come Scnocrate, che la matematica apre la via alla filosofia, ma che gli impulsi, pudore desiderio pentimento piacere dolore ambizione, sono gli sproni dei giovani, e che la rll8ionc e la legge, disciplinando tali impulsi in modo convenie.are e salutare, guidano con profitto il giovane sulla rena via. Aveva quindi ragione il pedagogo spartano, quando diceva di voler educare il giovane a godere delle a)SC oneste e ad aborrire le mse twpi; eh~ questo si pub dice il maggiore e il migliore fine di una educazione liberale.
DAARRIANO
L'ammonimento di CalliJtene (Anab., IV, 10-12) Alessandro s'era accordato coi sofisti e coi più illustri dei Pcrsia.ni e dei Medi ch'erano con lui, di far cadere il discorso, durante il convito, sul suo diritto d'essere odorato come dio. Cominciò Anassate0, e disse ch'era molto più giusto considerar dio Ale$$andro che Dioniso ed Eracle, non solo per il gran numero e la grandez:za delle imprese compiute da Alessandro, ma anche perché Dioniso, essendo tebano, non aveva nulla in comune coi Macedoni, ed Eracle, argivo, era ugualmente estraneo ai Macedoni, eccetto per quel che riguardava l'origine di Alessaruko, ~ Alessandro era della stirpe d'Eracle; perciò era più giusto che i Macedoni uibutassero onori divini al loro re. Del testo, non c'era dubbio che, motto, lo avrebbero onorato come dio: non era dunque giusto onorarlo da vivo più che da mono, se tcono non ne avrebbe avu10 nessun godimento? Quando Anassarco ebbe delto queste e altre cose simili a queste, quelli che s'erano accordali con lui approvarono le sue parole, ed eran pronti a prosternarsi dinanzi ad Alessandro; 111a Ja maggior parte dei Macedoni era di parere conuario, e taceva. Allora prese la parola Callistene, e « O Anassatco - disse, - io dichiaro che di nessun onore che s'addica a un uomo è indegno Alessandro; ma gli onori umani si distinguono dagli onori divini in molti modi, ché agli dèi si costruiscono templi e si erigono statue e si consacrano terreni e si offrono sacrifici e si versan libagioni e si ahano inni, mentre agli uomini spettano le lodi; e, sopramnto, gli dèi s'onorano col rito della prosternazione, mentre gli uomini si salutano baciandoli. Il dio sta più in alto e non è lecito toccarlo; di qui la prosternuione, di qui l'uso d'onorarlo con danze e pcani. Né c'è da meravigliauì, tanto più che gli d~i stessi non sono onorati tutti 11ello stesso modo, e diveni da quelli divini sono gli onori tributati agli eroi... « Neppure ad Eracle, fin che fu vivo, furono tributali onori divini dai Greci, e neppur dopo la mone prima che fosse ordinato del Dio di Dcln di onorarlo qual dio. Che se, quando si è in terra straniera, bisogna adouarc il modo di pensare degli stranieri, io, o Alessandro, ti esorto a ricordarti della Grecia, ché per unire l'Asia alla Grecia hai fatto questa spedizione. Rifletti dunque: ritornato in Grecia, cosningerai alla prosternlWone anche i Greci che sono il popolo più libero del mondo, o ccccttuerai i Greci e infilggerai tale &onore ai Macedoni, o gli onori saranno distinti d che dai Greci e dai Macedoni tu riceva onori umani secondo il costllllle ellenico, e dai Barbari onori divini secondo il costume barbarico? Che se si dice di Ciro, figlio di Cambise, che fu il primo era gli uomini a essere onorato con la prostemuionc, e poi quesl'uso illiberale fu mantenuto çlai Persiani e dai Medi, bisogna riCOrdare che poi gli Sciti, gente povera ma libera, lo ridussero alla ragione, e che altri Sciti fecero altrettanto con Dario, e gli Ateniesi e gli Spartani con Serse, e Clem:o e Senofonte e i diecimila coo Attascrse: e c:hc altrcuacto hai fatto tu, o Alessandro, con questo Dario, quando non eri adorato come un dio» ... Per conio mio, io disapprovo non solo l'arroganza di Alessandro ma anche l'imprudenu di Callistenc, e dico che, quando uno ha accettalo di seguire un re, deve rispettare le convenienze ed accrescere per quel che è possibile il suo prestigio; non a torto quindi Callistene venne in odio ad Alessandro per la sua inopportuna libertà di parola e la sua insolente uacotana.
PLUTARCO, AltRtANO, APPIANO
DA APPIANO
La necessità della clemenza (Pun., 57-60) I Romani si rallesrarono !OOlto di aver vinto quella città che aveva causato loro tante pene e aveva occupato il s«ondo o il terzo posto tra gli imperi del 100ndo. Ma discordi erano i pareti: gli uni ardevano ancora di collera contro i Cartaginesi; gli altri onn.ai oc avevano compassione e stimavllllo che nelle sventure altrui non si dovesse venir meno alla propria dignità. S'alzò uno degli amici di Scipione, e disse: « Non si tratta, o cittadini, della salvezza dei Cartaginesi, ma della fede dei Romani negli dèi, e del loro buon nome tra gli uomini. Non componiamoci più crudelmente dei Cartaginesi, noi che ne condanniamo la crudelù., e non abbandoni,uno nei grandi eventi quella moderazione che abbiamo sempre usat11 negli eventi minori: tanto più che, per la gravità delle deliberazioni, la cosa non può neppure passare inosservata; ché, anzi, per tutta la terra si diffonderà e rimarrà per sempre la fama che noi abbiamo ,fotruuo una ciuà potente che imperò su molte isole e ru tutto il mare e su più di metil della Libia, e che nelle lotte combattute contro di noi fu spesso esempio di fortuna e di potenza. Con essi bisognava lottare finché erano nostri rivali: ora, caduti, bisogna risparmiarli: cosi gli atleti non colpiscono chi è caduto, e anche le fiere spesso risparmiano le fiere 11bbattute. :e bene, nella buon.a fortuna, guardarsi dalla vcndettlil degli dèi e dall'invidia degli uomini. Che se esaminiamo attentamente il male che ci han fauo, vedremo che in questo appunto si rivela massimamente quanto la fortuna è terribile, che ora essi supplicando ci chiedono salvezza e solo salvezza, essi che ebbel'O la possibilità di fate a noi quello che volevano, essi che, or non è molto, ci contesel'O valorosa• mente la Skilia e la Spagna. Ma le colpe passate le h11nno già scontate; le uhime imputano alla fame, il male più terribile, che può togliete agli uomini la stessa facoltà di ragionare. « Non ch'io voglia parlare in difesa dei Cartaginesi; sarebbe inopportuno, ché ben so ch'essi violarono altri patti prima di questi; piunosto ricorderò a voi quello che sapete benissimo, per quale modo, con quali scelte, fatte in circostanze simili, i nostri padri pervennero a tanta fortuna. Spesso tutti ques1i n!Htri vicini si ribellarono, e più volte ruppero i patti; IJll1 non per questo essi li spregiarono, né i Latini n/ gli Etruschi né i Sabini. E fecero guerra agli Equi e ai Volsci e ai Campani, anch'essi nostri vicini, e a tutti gli altri popoli dell'Italia che violarono i trattati, e tuttavia perdonarono alle colpe: e il popolo dei Sanniti, che ben tre volte tradl l'amicizia e l'alleanu coi Romani e che per ottant'anni guerreggiò ostinatamente contro di noi, non lo distrussero; e neppure gli altri che chiamarono Pitro in Italia. Noi stessi, or non è molto, non distrug· gemmo quei popoli che si unirono ad Annibale, n~ i Bruz.1 che combattcl'Ono nelle sue file fino alla fine; ma, privatili sohanto del territorio, lasciammo lol'O il resto; giudietndo non solo misericordioso, ma anche vantaggioso non distruggere gli uomini, ma soltanto correggerli. Che cos'è mai avvenuto, che dobbiamo mutare nei riguardi dei Cam1gincsi la nostl'l natura, quando, seguen. dola, abbiamo ottenuto tanta prosperità? Forse perché si tratta d'una città più grande? Anzi proprio per questo, a maggior ra11ione, bisogna risparmiarla. Forse perch~ più volte violarono i patti? Ma anche altri, quasi tutti, lo fecero. E non ne pagano ora dolorosamente il fio? sono lol'O rolte tutte le navi tranne dieci; consegnano gli elefanti, che costituiscono il nerbo delle lol'O forze; pagano diecimila ralenti euboici; si ridrano da tutte le ciuà e dal territorio che gli appartiene fuori delle Fosse Puniche; non possono arruolar soldati; le prede che han fatte spinti dalla fame, le restituiscono mentre hanno ancora fame; e di ciò ch'è controverso è giudice Scipione, che condusse la guerra contl'O di loro. Per la gravità e la quantità di tali imposizioni lodo Scipione, ma chiedo che voi risparmiate i Cartaginesi, considerando l'invidia e l'instabilità delle cose umane. Se non concludiamo la pace, essi hanno ancora molte navi e molti elefanti; e Annibale, espenii;. simo uomo di guerra, ha un esercito, e Maaone ne conduce 11.t1 altro numeroso di Galli e di Liguri; e Vermina, figlio di Sifacc, è loro allc.to, e alleate son anche altre genti di Nomadi; e inoltre hanno gran numero di schiavi. Ora, di tutti questi mciii, se le condizioni non saranno accolte, si serviranno senza risparmio; e nei combattimenti, dove anche il dio è incostante e invidioso, niente è più fonc della disperazione. « Sembra che questo timore l'abbia avuto anche Scipione, se ha voluto farci conoscere il suo pensiero, e ha aggiunto che, se noi tireremo in lungo le cose, concluderà lui la pace coi Cartaginesi. Or è da credere che egli, che ha condotto la guerra, possa valutare e comprender meglio di noi la situuione. Non tenendo conto dd suo avvertimento, farcmmo torto a 11.t1 uOIIlO che IIDll la
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STORIOGRAPIA. E STUDI VARI NEL PERIODO ROMANO
patria, • un eccellente condottiero che, quando noi non volevamo pware in Li'bia, 1 questo ci incitò, t che, non avendo ottenuto un esercito, se lo creò da X, a un uomo che poi condusse laggiù le cose a un punlo che neanche speravamo. Stnno è che voi, che movcstc a questa guerra tanto svoglia1amcnte, vogliate ora protrarla con tanta peninacia. Che se poi, pur approvando tulio questo, qualcuno teme che i Cartaginesi violino ancora i trattati, è molto probabile ch'essi ormai, dopo aver provalo le conseguenze della violazione, abbiano compreso la necessità di rispettarli, e che, tntti a rovina dalla loro empietà, per il futuro avranno timore degli dèi. Non pub una UC$SII persona indurci ora a disprez2att i Canagincsi come impotenti e ora a temetti come cepaci di ribdlione. Del resto a noi è più facile impedire .ad futuro che ricuperino forze, che distruggerli ora, perchi essi ora combatterebbero spinti dalla disperazione, mentre poi sarebbero dominati dlllla paura... •.
LA dittatura di Silla (Bel. civ., I, 98-101) Silla, che era divenuto re o tiranno non per elezione, ma con la forza, volendo dar parvenza di legali1à al suo pa1ere, si servl di queslO espediente. Anticamente i Romani eleggevano i re per la loro virtù; e quando moriva uno di essi, reggevano lo Stato i seruitori, l'uno dopa l'altro per cinque giorni, finch~ il popolo non avesse eletto un altro re. E quello che teneva il patere per cinque giotni lo chiamavano interd, che sarebbe a dire re provvisorio. Erano sempre i consoli uscenti a indire i comizi consolari, e se per caso mancavano i consoli, anche allora per l'ek:r.ione dei consoli veniva eletto questo interr6. Silla si servl di questa consuetudine, e, non essendovi consoli perchi! erano morti Carbone in Sicilia e Mari,:, a Prencs1e, $i allontanò un poco da Roma, ordinando al senato di nominare il cosiddetto inten~. Il senato nominò Valerio Fiacco, sper11J1do che avrebbe indetto i comi:r.i consolari. Ma Silla ordinò a Valerio Fiacco di f11: sapere al popolo ch'egli considerava utile alla città in quel momento la magistratura decta dai Romani dittatura, alla quale non si ricorreva più da quattrocent'anni, e voleva che l'eletto tenesse il potere non per un tempo determinato, ma fino a che avesse ridato stabilità alla ciul e all'Italia e a tutto l'impero scosso da sedizioni e da guerre. Non si poteva non pensare che Silla, fa«ndo tale prnposta, alludesse a se stesso, tanlO più che, senza alcuno scrupolo, egli nella fine della lettera di«va apertamente di credere che in quel i:noJ:11Cnto nessuno più di lui poteva esser utile alla città. Questo dunque egli ordinava. E i Romani, che già da tempo non elessevano i magistrati liberamente e secondo la legge, e sti.mavano che la scelta non fosse più cosa [oro, nelle difficoltà in cui si trovavano, accogliendo questa parvenza e Jinz.ione di libenà, elessero Silla signore assoluto per 1uuo il tempo che voleva. Assoluto era il potere dei dittatori anche prima, ma limitato nel tempo; allora per la prima volta, tolto ogni limite di tempo, divenne vera e propria tirannide. Tuttavia, per salvare una qualche apparenza di digniù, aggiunser0 che lo nolllinavano dittatore perché proponesse le leggi che giudicava opportune e ristabilisse la costituzione. Cosi i Romani, che avevano avuto governo monarchico per più di sessanta olimpiadi e che dopo, per altre cento ollinpiadi, si erano retti a democra::r.ia COD a capo consoli annuali, tornavano a sperimentare il regno ... Silla, per una finzione di ossequio alla costituzione dei padri, acconsenti che fossero nominati i consoli, che furono Marco Tullio e Cornelio Dolebella. Ma egli, con potere resio, come dittatore sovrastava ai consoli (infatti lo pi:ea:devano ventiquattro littori, come avveniva con gli antichi re, e lo accompagnava una numerosa guardia del corpo). Aboll quindi una parte delle leggi esistenti e ne diede di nuove: vietò che fosse esercitala la pretura t,rima della questura e il consolato prima della preture, e che fosse ricoperta la stessa carica prima che fossero passati dicci anni. E llllllullò quasi il potere dei tribuni, sia con l'indebolirlo grandemente, sia col vietare per legge a chi en slato tribuno di accedere a qualsiasi altra magistratura, si che tutti quelli che eccellevano per fama o per nobiltà, da allora, si astennero dal chiedere quella magistratura ... E al senato, ridono di numero dalle sedizioni e dalle guerre, aggiunse circa trecento membri, scelti tra i più illustri cavalieri, affidandone l'dczionc alle nibù. Liberò e iscrisse tra i plebei più di diecimila schiavi desii uccisi, i più giovani e i più validi, e li fece cittadini romani e dal suo nome li chiamò Comeli, per aver sempre pronti ai suoi ordini diecimila cittadini. E volendo avere alni fautori anche in Italia, alle venti1K legioni che aveva avuto al suo comando distribul, come ho già detto, molla terra nelle varie città, patte non ancora divisa, parte togliendola alle citti. per castigo...
PLUTAllCO, AlUtlANO, APPIANO
Silla col tenore impetÒ a mo arbitrio ... E trionfò pel' !& guerra mitridatica. Alcu.ai, motteggiandolo, chiamavano il suo governo « regno riliutato », perché gli mllllc&va soltanto il nome di re; altri, gi=gendo dai fatti fl. una dtfi.n.iziooe opposta, lo dicevano « tirannide dichiarata».
IV.
CASSIO DIONE, ERODIANO, ZOSIMO
Plutarco, Arriano e Appiano avevano scritto le loro opere nel periodo più felice e più prospero dell'impero, mentre non era grave la pressione dei Germani e dei
Parti ai confini, e in concordia sembravano vivere i cittadini e i popoli all'interno, e illuminati, non tiraMici, erano i governi degli imperatori. Cassio Diane Cocceiano,
di Nicea in Bitinia, venuto a Roma nel 180, quando imperatore era Commodo, divenuto poi pretore e console, console per la seconda volta nel 229 quando impe-
ratore era Severo Alessandro, conobbe invece tirannidi, e guerre tra imperatori rivali, e assalti più minacciosi di Germani e di Parti. Più gravi erano i mali del tempo; e i mali del tempo, se non uccisero, tuttavia gravarono l'animo suo.
Ampia è la Storia di Roma di Cassio Diane: dalle origini all'anno del suo secondo consolato. Era divisa in 80 libri: a noi son rimasti interi, o pressoché interi, solo i libri .36-60, che raccontano la storia dal 68 a. C. al 47 d. C.; per il resto, ed è mala ventura, abbiamo soltanto o epitomi (di Zonara e Xifilino) o frammenti staccati dal contesto. Più incerto ne riesce il giudizio, più diflicile la definizione. Appiano, scrivendo di Bruto e di Cassio, aveva notato come erano mal fondate le loro speran2e d'aver l'aiuto dei Romani nella difesa dell'antica costituzione democratica, essendo morto nei cuori dei cittadini l'amore per la libertà; e aveva giudicato vana l'opera loro, e utile la 6nale pacificazione per opera del principato. Tuttavia, pur trovando necessario e utile e benefico il principato, Appiano, come Tacito, aveva sentito che più splendida era stata l'antica storia del popolo romano, quando, se la prosperità era minore, magnanimo era l'amore della libertà, generosa la carità di patria. Or Cassio Dione, raccontando, come Appiano, la storia delle guerre civili, di Cesare e Pompeo, di Bruto ed Ottaviano, di Ottaviano ed Antonio, e insieme acceMando alle ragioni di Cesare e di Pompeo, di Bruto e d'Antonio, d'Antonio e del secondo Cesare, non si discosta di molto da lui, come non si discosta dagli storici più antichi: ma l'animo suo è in qualche modo più triste; più pessimistica la sua concezione della storia. Sembra che egli non creda o mal creda all'uomo e alla virtù dell'uomo. Ecco un esempio. A Cesare egli fa pronunciare davanti a soldati superbi e predatori un discorso ispirato al mos maiorum, a quel costume antico ed eccellente dei padri, in cui consisteva per Livio la sostanza più genuina della grandezza di Roma: Non dovete credere, no - Cesare prodama. - d'essere da più dei cittadini che stanno nelle loro oise per il fatto che voi combauete ed essi no: Romani siete voi e Romani son essi, e come voi anch'essi han combattuto e combatteranno. N~ dovete credere che vi sia dato di fare soprusi percM siete armati; più potecti di voi sono le leggi, e le armi un giorno le deporrete,
E continua: Non voglio dilungarmi: ma anche a questo voi dovete pensate, che noi siamo venuti qui per
CASSIO PIONE, ERODIANO, ZOSIMO
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portare soccorso alla patria oluaggia1a e per respingere chi la conculca; perch~, se la patria non foue in pericolo, 11~ saremmo venuti in Italia, eh~ non sarebbe staio led.lo, nl: avrmimo lasciata imperfetta l'opera nostra De!lt Gallie e nella Briwm.ia.
Cosl Cassio Dione fa parlare Cesare: ma per lui le parole di Cesare sono soltanto parole: alla purità degli intenti, o, anche, a una conciliazione di ambi2ioni private e di amore della patria, egli non crede. Tale è infatti il suo giudizio su Cesare: Esli decideva ed agiva, come spesso ho già detto, mettendo innanzi il nome: del duiuo ... ma nella realtà delle cose volendo solo conquistare il potere. Perché cos\ da W1a parte come dall'altra si d.kevan nemici della patria quelli che facevan parie del partilo •vveno, e si dichiuava di com· baucre in dife:5a ddla repubblica; ma ciaSCU110 cercava solo l'utile proprio e intanto dis1ruggeva il bene comune. ... Pompeo e Cesare in questo differiv.ano, che Pompeo non voleva e:5sere secondo a nessuno, mentre Cesare voleva essere primo di tutti, e l'uno cercava d'ottenere onori e di governare e d"esscre amato da cittadini consenzienti, l'altro era pronto a com.andare anche con1ro il consenso, e a governare anche su cittadini che l'odiassero, e a procurll1'$i da $t stesso gli onori. Ma, se differivano per i desideri, s'uguagliavano nelle opere con cui cercavano di soddisfare .ai loro desideri.
t una nota costante, questa di Cassio Dione, almeno nella parte dell'opera che a noi è rimasta: e ha una delle punte più acute là dove, parlando di Cesare e dei Romani, Io storico scrive che « a chi riceveva o sperava di ricevere » era gradito quanto Cesare faceva, ché solo al proprio interesse e non agli interessi comuni ciascuno pensava; e che mal tollerato era il dominio da tutti gli altri, da chi non riceveva o non sperava di ricevere: e infine che apertamente dichiarava la sua avversione al principe solo chi « poteva farlo senza pericolo ». Ora, con quest'animo e questa triste certezza, come poteva egli giudicare il trapasso dalla repubblica al monarcato, dalla libertà civile al governo assoluto? Perché Cassio Dione non ignora il problema della repubblica e del principato, che può essere posto in questi termini: è preferibile cercare libertà o volere ordine e pace? è più opportuno il governo democratico (o, come Cassio Dione più spesso dice, ripetendo un'espressione erodotea, l'isonomia) o è da preferire il governo monarchico? Il problema, che si ripresenta a chiunque faccia storia d'una crisi, aveva avuto da Livio e da Tacito, come aveva avuto da Tucidide e avrà dal Manzoni, questa soluzione, che la libertà non può andar dissociata dall'ordine, perché la libertà è sicura solo dove l'ordine è saldo, e l'ordine è vero solo dove è sostanziato di libertà; insomma che non nel sistema del monarcato o nelle forme della democrazia sta la perfezione dello Stato, ma negli animi dei cittadini che non rinuncino alla libertà per l'ordine e non sovvertano l'ordine per la libertà, ma li conci.lino. Orbene, per Cassio Dione, che non giudica possibile la conciliazione magnanima perché non crede alla virtù generosa e sapiente degli uomini, la soluzione è diversa: meglio il monarcato che la democrazia, meglio l'ordine che la libertà. La democrazia - egli scrive - ha un bel nome, e sembra che con l'uguaglianza delle leggi conceda a tutti uguali diritti; ma la realtà è in contrasto col nome; sgradevole è al contrario il nome di monarca, ma in rcaltl il governo monarchico è il più utile di ru1ti i governi.
Tale giudizio è pronunciato nel principio del libro IlIV, là dove lo storico, raccontando della congiura di Bruto e di Cassio, condai:ma e Bruto e Cassio. Perché Dione condanna e Bruto e Cassio non già, o non solo, perché pensi che essi fossero mossi da inv:idia, ché, se anche, con quel suo animo, egli non poteva non crederli invidiosi, egli li giudica anzitutto amanti della libertà (e altrove egli parla d'essi in
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questo modo:. « Quando essi seppero dell'accòrdo dei triumviri e furono informati di quanto essi facevano, si riunirono e agirono ancor più concordemente di prima, perché avevano le stesse ragioni di guerra, e correvano gli stessi pericoli, e volevano difendere la libertà dd popolo»); e neanche perché giudichi che Bruto e Cassio, credendo di difendere la democrazia, difendessero in realtà il privilegio dei Romani di Roma, i quali, senatori e popolani votanti nei comizi, determinavano da soli la politica dello Stato di cui facevan parte tutti gli abitatori dell'Italia (ché tal problema egli neanche lo conosce); né infine soltanto perché dalla morte di Cesare dovevan nascere nuove guerre e stragi e distruzioni, anche se in questo egli trova un ulteriore motivo di condanna: ma li condanna soprattutto perché essi non volevano quella forma di governo ch'era per lui la più utile. Monarchia e democrazia, ordine e libertà; tali pare che siano i termini della scelta politica per Cassio Diane. In realtà però i termini sono, per lui, quelli di buona e di cattiva amministrazione, risolvendosi per lui l'ordine nella buona e la libertà nella cattiva amministrazione. Perché è più facile trovare un uomo buono che nova.me molti, e se perfino questo ad alcuni $embra difficile, bisogna convenire che trova.i: molti buoni è impossibile, percM l'essere virtuosi non è di molti ... ché maggiori e più numerosi beni ebbero le città e i privati dai governi regali che dai govemi popolari, e di più mali son cause le oclocrazie che le monarchie.
Insomma non etico, e non ideale, è il criterio di giudizio dello storico, ma il criterio dell'utile. Più che una consociazione d'uomini uniti da un comune sentimento, da una legge comune, da solidale amore della libertà, la città pare che per lui sia un'azienda d'uomini cointeressati alla prosperità, e dunque bisognosi d'un amministratore savio. Tanto che, se egli ammette che talvolta può esistere una vera democrazia, una democrazia in cui libertà e ordine siano felicemente conciliati, anzi se ammette che tale democrazia è esistita in Roma prima che la' città divenisse troppo ricca e potente, non per questo egli preferisce la democrazia, anche la eccellente democrazia, al regno; perché di breve durata è l'ottima democrazia, e dà origine, quando vacilla, a disordini e lotte. Ora si pensi a Tucidide. Tucidide, che scriveva la sua storia dopo il crollo dell'impero ateniese e dopo la fine della democrazia periclea, di breve durata e quello e questa, lodava la democrazia d'Atene e l'impero d'Atene d'immensa lode, e proclamava eterna la gloria di chi aveva sacrificato la vita per quella democrazia e quell'impero. Che importava, per Tucidide, se e impero e democrazia avevano avuto brevissima durata, e se dolori e sciagure ne avevano accompagnato la fine? Non dal tempo e dall'utile la lode era misurata, ma dalla forma, l'incomparabile forma della intelligente democrazia d'Atene che aveva conciliato tutti i termini opposti del vivere politico, e l'incomparabile forma dell'impero civilissimo d'Atene, che, se non aveva eliminato l'ineliminabile ingiustizia ch'è nella storia, l'aveva attenuata tanto quanto nessun altro popolo era riuscito ancora a fare. Alla forma, all'idea guardava Tucidide, e lodava la democrazia intelligente (e il civile impero) d'Atene; alla durata e all'utilità guarda Diane, e nega la lode alla più magnanima democrazia di Roma. Solo dentro questo limite, il limite dell'utilità, può essere usata, per Cassio Dione, una misura etica a distinguere questo governo da quel governo monarchico: è la misura che troviamo in tutti gli storici dell'età imperiale, la misura della filantropia. L'etica della filantropia è esposta, nel racconto di Diane, da Livia ad Augusto:
I governi - dice Livia ad Augusto, - sono istituiti a salve:,,:u. dei sudditi, affinché i sudditi non abbiano danno dagli stranieri, e non si danneggino tra loro, non, per Zeus, perché abbian
CASSIO DIONE, ERODIANO, ZOSIMO
danno da essi: e gloria grandissima ~. non gili uccidere gran numero di cittadini., ma, se fosse possibile, salv11rli tutti. Bisogna dunque educarli, con leggi e llllllIIODimenti e bendic:i, a viver 5aggÌamentc, e inoltre sorvcglilirli e impedirli, se volessero f11re dd male.
E la stessa Livia ancora dichiara: Meglio si correggono i sudditi con la 6lantt0pia che con la crudeltà.
Filantropia: eh'~ uso moderato della forza, uso per il bene e non per il male. Sembra l'ideale di Tucidide: e, certo, qualche cosa dell'idealismo greco vive ancora in Cassio Dione. Ma appunto solo qualche cosa: un ricordo, anche se un ricordo accolto con animo sincero. Perché per due modi altra è la moderazione filantropica di Cassio Dione dalla moderazione politica di Tucidide. Tucidide, nel grande discorso su Atene e la storia d'Atene e l'etica d'Atene, dopo aver fatto dire agli Ateniesi: « Degni di lode siamo noi, che, pur esercitando dominio conformemente alla natura umana, siamo più giusti di quanto le nostre forze potrebbero permetterci», vuole che essi osservino come i sudditi dei Medi fossero più ossequienti ai Medi prepotenti di quanto i sudditi degli Ateniesi moderati non fossero osseq1:1ienti agli Ateniesi: in altre parole, vuole che essi mostrino di sapere che più utile sarebbe stato agli Ateniesi l'esercizio immoderato del potere: non la considerazione dell'utile, ma la fede nella moderazione, insomma una ragione ideale, Tucidide wole che sia guida dell'uomo. Dione per contro fa che il discorso di Livia, suscitato dalle preoccupazioni di Augusto timoroso dei sudditi, sia, anche se noD coincidente col criterio dell'utile, sostanziato dal concetto dell'utile. Meglio si correwno i 1udditi - dice Livia - con la filantropia che con la ctudcltà. Perché non solo quelli cui si sia usata pietà amano il reggitore indul11ente e vogliono concraccambi11rgJi il beneficio, ma anche gli altri lo onorano e lo venctano e non vogliono fargli del male: e per contra il reggitore dalla coUera implacabile non solo è odiato da quelli che lo temono, ma ~ mal tollerllto anche dagli altri: di Il, per non essere prive.ti della vita, ordiscono congiUle.
Inoltre, la moderazione di cui Tucidide parlava era quella della città, non quella del cittadino reggitore che avesse prima, per propria ambizione, conculcato ogni diritto altrui, e provocato guerre e proscritto nemici, per Tucidide sola legge del cittadino essendo l'amore della patria; Cassio Dione invece loda la filantropia di quel Cesare che, nel suo giudizio, solo per privata ambizione aveva intrapreso una spaventosa guerra civile, e la filanuopia di quell'Augusto che, anche lui per privata ambizione, aveva partecipato a guerre civili e proscritto i suoi nemici. Per dir tutto in breve, la virtù di Tucidide comportava una rinuncia, un sacrificio: la virtù di Cassio Diane o era un sentimento di benevolenza naturale o era un utile mezzo di salvare vita e potere, e non comportava rinunce e sacrifici. L'idealismo moderno, convinto che la storia è necessario progresso infinito, rifiutava allo storiografo il criterio del bene e del male. L'idealismo greco (e latino) per la convinzione che la storia è agone dell'uomo e delle città per il bene e per il male, poneva allo storico l'idea qual criterio d'ogni giudizio. Cassio Dione, che distingue e bene e male, s'accosta all'idealismo classico: ma, mentre già Omero aveva intuito che la virtù comporta una rinuncia, sul modello della rinuncia di Zeus a una prolungata vita del figlio Sarpedone, egli non conosce o mal conosce rinuncia o sacrificio. Per tal modo la pace ideale diventa in lui quieto vivere, il cosmo ideale diventa buon ordine, la generosità magnanima scade a benevola e utile indulgenza; e la libertà diventa un nome vano. Per il criterio di giudizio non si distacca dagli altri storici dell'epoca imperiale
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STORIOGRAPIA E STUDI VARI NEL PERIODO ROMANO
Erodiano, un Siro vissuto tra la fine del II e la prima metà del III sec., autore di una Storia dell'impero dopo Marco, dove sono raccontati, in otto libri assai brevi, gli eventi dell'impero romano da Commodo a Massimo e Balbino, dal 180 al 238 d. C. È, quello di cui Erodiano fa storia, uno dei momenti di crisi più evidente: dalla felice età degli imperatori illuminati l'impero precipita nell'anarchia militare, preparatrice dell'ultima scissione e della 6ne dell'impero romano: momento di storia che poteva suscitare problemi e problemi, ma che non ne suscita alcuno in Erodiano. Egli racconta fatti, ricorda colpe e follie di questo o quell'imperatore, propone esempi di mitezza o esempi di perfidia, parla di guerre di discordie d'astuzie, e mai, o quasi mai, si domanda le cause dei fatti e delle guerre, mai o quasi mai cerca di vedere se e come e perché sian mutate le condizioni dell'impero (anche se qua e là, per incidenza, troviamo nell'opera sua accenni a condizioni economiche e sociali e politiche che gettano, se uno indaga e medita, una viva luce sulla storia dell'impero, ancora non privo di vigore e tuttavia avviato all'ultimo disfacimento). Ecco un esempio. C'è, nel capitolo secondo del libro terzo, una osservazione su cui vale la pena di soffermarsi. Dicendo che alcune città greche dell'Asia s'erano unite, quando Settimio Severo e Nigro stavano per combattere tra loro, quale all'uno e quale all'altro imperatore, e osservando che non per amore verso questo imperatore o quello, ma per odio tra loro, esse avevano scelto le parti avverse, Erodiano nota che la rivalità tra polù e polis, antico e ancor vivo male dei Greci, era stata la causa della fine della libertà di tutta la Grecia. Or di contro alla Grecia era Roma, di contro alle città divise e nemiche era l'impero costituito da innumerevoli città popolate da genti di stirpi diverse e tuttavia uguagliate nel diritto (almeno da quando Caracalla, di cui Erodiano racconta la storia ma non ricorda l'editto del 212, aveva concesso la cittadinanza di Roma ai provinciali): questa antitesi di storia greca e romana, sconosciuta a Tucidide, e, nella forma che aveva assunto nel 212, anche a Tacito e a Livio, poteva suscitare il problema dell'essenza dell'impero romano; ma Erodiano ignora il problema. E del pari Erodiano ignora l'altro problema dell'impero dei suoi tempi, ch'era, sl, unito nel diritto, ma non era unito negli animi e nei costumi, tanto che le lotte tra città e città rinascevano, e s'innestavano in lotte più ampie, tra eserciti dell'Oriente ed eserciti dell'Occidente, tra eserciti del Nord ed eserciti del Sud; in altre parole ignora il problema della mancata romanizzazione dell'impero, anche se, in qualche modo avvertendo che c'era un distacco profondo tra gente e gente, tra popolo e popolo, a Massimino, l'imperatore ch'era a capo di soldatesche dell'Illiria e d'altri paesi di confine, fa pronunciare parole come queste: Etto ora i Cartaginesi, infuriati, persuadere o rostringere - ~ proprio cosa che fa ddere un misero vecchio impauito {Gordiano I] a fare il re oome nel gioco che si fa nelle fes1e: in qual esercito fidando, essi che al servizio dell'imperatore possono mettere soltanto littori? con quali anni, essi che han solo dardi da gladiatori in lotta oon le fiere? oon quale esperiellZll cli guerra, essi che san solo lanciar frizzi e danzare?
Né meglio Erodiano intuisce il problema dei soldati, ch'cran soldati di professione ma per la massima parte reclutati dentro i confini dell'impero. Questi soldati, che non esitavano a fare e a disfare imperatori, ribelli a questo o a quel principe e insieme al senato, egli li giudica quasi un'accozzaglia di mercenari, bramosi soltanto di donativi, venali e infingardi: Qu11ndo l'imperatore annunciò che ri1ornJ11v1 a Roma - egli scrive, - una grande agitazione
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s'impadronl dei soldati, cM tutti volevano partire con lui, per non teSWC più in territorio nemico, ma godere il lusso di Roma.
E ancora: Allora furon conotti i costumi dei 50Jdati, che appresero a bramare rwpeme.nte ed insuiahiltnente il denlll'D e a spree:ìare il rispetto per i govemanti.
Tale giudizio è, indubbiamente, in parte vero; ma non è vero del tutto, se Io stesso Erodiano ricorda che i soldati amarono Settimio Severo e Caracalla e vollero imperatore Massimino perché erano generali capaci, e spregiarono Macrino per la sua mollezza, e non tollerarono Eliogabalo per la sua mancanza di dignità, Il problema dei soldati, reclutati nelle classi non abbienti delle province, era il problema stesso della classe politica dell'impero, perché erano essi quelli che difendevano e avrebbero ancora difeso Io Stato romano dai Parti e dai Germani. Ma se Erodiano, dopo avere ricordato che i soldati stessi avevano voluto imperatore Massimino, accenna, quando parla delle gravose esazioni dell'imperatore nelle province, alla irritazione che i soldati ne provarono, e fa sapere che da quella irritazione nacque il malcontento e la ribellione; se insomma in qualche modo getta luce sui problemi politici e sociali del terzo secolo, permettendoci d'intuire la parte che le classi non abbienti ddle province ebbero nella politica dell'impero, questi accenni egli li fa per incidenza, senza capire lui stesso i problemi sociali e politici, senza avvertire che la durata dell'impero era condizionata proprio dalla vitalità maggiore o minore, dalla sapienza maggiore o minore, dalla capacità maggiore o minore di concordia e di sacrificio di quelle classi. Chiuso a tutti questi problemi, e dunque incapace di capire e far rivivere il dramma storico dell'impero romano, ch'era piuttosto un'unione di popoli che un popolo uno, Erodiano, pur angosciato per le fatali discordie, non perde ogni fede, ma resta, per cosl dire, aggrappato ai precetti etici tramandati: e, mentre giudica e loda o condanna guardando alla filantropia o alla pazienza o al coraggio, pone le virtù sopra la forza. Dunque ancora, se pur l'impero di Roma, erede della civiltà greca, sta morendo, ed Erodiano ne preannuncia ignaro la fine, l'eco de1l'antica civiltà non è spenta del tutto: I doni della fornina possono toccare a uomini indegni; la vinù dell'anima dà gloria solo ai virtuosi Nobiltil dì nascita e ricchezza e beni simili sono pregiati, ma non acquistano lode, perdi~ vengon dall'esterno: la moderazione e la nobiltà del sentire sono invece alDJIJ.U'ate e dan gloria all'uomo dabbene.
Dopo Erodiano, altri storici raccontarono le vicende dell'impero romano, sconvolto da guerre esterne e da guerre intestine, e destinato, ormai, a morte non lontana: Dessippo, Eunapio, Olimpiodoro, Prisco. Ma di intera o quasi intera a noi non resta che la Nuova Storia {dai Severi all'assedio di Roma d'Aluico) di Zosimo, uno scrittore della seconda metà del V sec. Circa due secoli prima di Zosimo, Cassio Diane aveva messo a paragone il governo dei molti e il governo dell'uno, e aveva giudicato preferibile il governo dell'uno al governo dei molti: in quel tempo l'impero romano pareva ancora vigoroso, nonostante le molestie che gli venivano dalle popolazioni dell'Oriente e del Settentrione, e nonostante le lotte, che di quando in quando sorgevan nell'interno, tra gruppi di legioni che eleggevano a loro arbitrio qualche imperatore, ciascun gruppo il suo proprio generale. Cassio Dione aveva creduto preferibile tale forma di costituzione, pur non ottima, 11 quella che aveva dato origine alle continue e
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STORIOGRAFIA E STUDI VARI NEL PERIODO li.OMANO
sanguinose guerre civili di Mario e di Silla, di Cesare e di Pompeo, di Ottaviano e d'Antonio: e, costruendo una teoria sul fondamento della sua esperienza, aveva giudicato il governo monarchico migliore o meno peggiore del governo democratico. Zosimo aveva altra esperienza: dopo quell'Alessandro Severo, sotto il cui regno Cassio Diane aveva scritto la sua opera storica, le lotte intestine s'eran fatte incessanti, interrotte soltanto da brevi pause; le sconfitte romane eran divenute sempre più frequenti, e i Barbari erano penetrati nell'impero; la stessa Roma era stata incendiata da Alarico: forse gi~ Odoacre aveva deposto Romolo Augustale. E Zosimo, in contrasto con Cassio Diane, accolse l'opinione di chi vedeva nel governo monarchico l'origine prima di tanti mali: Fino a che durò il governo uisloctatico, i Romani continuarono ad accreseere ogni anno il loro impero, ciascun console volendo superare sii a.lui con la sua vi[tù. Ma, dopo che l'antica costituzione fu distrutta dalle guerre intestine di Silla e di Mario, e poi di Giulio Cesare e di Pompeo Magno, e dopo che, abbandonati gli istituti aristocratici, Ottaviano fu fatto unico reggitore, allora, affidata al senno di costui tutta l'anuninisuu.ione deUo Staio, le sperame di tutti furon messe a repentaglio, dal potere e dagli impulsi d'un uomo solo essendo f.uo dipendere un cosl grande impero. Perch~, se un monarca voleva sovemare con siustwa e rettirudine, non poteva da solo provvedere convenientemente a ogni co5a, essendogli impossibile prendersi prontamente cura lui stesso di regioni lontanissime, o trovare tanti governanti d'animo retto, che si vergognassero di tradire le speranze riposte in loro o fossero capaci di adattarSi alle dilluenzc di costumi di tante genti: se poi era un ti.tanno che sconvoJscva l'ordinamcn10 civile e tollerava gli abusi e vUldeva la giustizia e comiderava servi i suoi sudditi {e di tale modo sono stati per lo più, a.nzi, uanne pochi, rutti i monarchi), allora era inevitabile che il potere irresponsabile del reggitore fosse funesto a rutti gli uomini,
Cosl scrive Zosimo. E pare, la sua, un'impostatura simile a quella di PoHbio, che aveva giudicato che i vari successi delle varie città dipendessero dal vario modo delle costituzioni, e che quindi il mirabile successo delle armi romane nella guerra annibalica dipendesse dall'ottima costituzione di Roma. Ma la simiglianza è apparente piuttosto che reale, perché Polibio aveva giudicato le varie costituzioni con la misura dell'antica antitesi di ragione e passione, e Zosimo non sa vedere nei tempi antichi che l'emulazione, casuale, dei consoli, e non sa vedere nei tempi recenti che la vanità d'ogni fatica di qualsivoglia imperatore, anche dell'imperatore migliore. Un fato sembra cosl pesare, per lui, sulla storia: fato di gloria e conquista dapprima, fato, dopo, di morte e di vergogna. Fato che egli dice razionale e divino (~Nona forza d'uomini - leggiamo nel primo capitolo del primo libro, - si può attribuire tal corso d'eventi, ma alla necessità stabilita dalle Moire o al movimento sempre rinnovato degli astri o al volere d'un dio, che sempre lo determina secondo giustiz:a. Perché son questi che, intrecciando una serie di cause determinanti il futuro, fan nascere la retta opinione che una provvidenza divina governi il mondo, per tal modo che là dove ci son anime vigorose il corso degli eventi è prospero, e là dove le anime sono sterili si giungé a uno stato di cose com'è quello in cui ci troviamo »), ma che poi non sa presentare come razionale e divino, sl, piuttosto, come fortunoso. Strano uomo, Zosimo. Prima pare che voglia interpretare la storia pragmaticamente, al modo di Polibio, e poi, a distanza d'una pagina, fa suo, o vuol far suo, anche il concetto, distaccato se altro mai dal modo polibiano d'interpretazione, della provvidenza stoica! Strano uomo, che in realtà mal capisce le dottrine stoiche quanto mal capisce il pur da lui lodato Polibio. Perché per gli Stoici il corso della storia era tutto razionale, tutto detenninato ab aeterno dalla Ragione divina, e l'uomo si riscattava, e per l'eternità, dal male della storia solo comprendendone e accettan-
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done la razionalità: per Zosimo invece la provvidenza sembra determinare il corso deg]i eventi in relazione al mutevole sentire degli uomini diversi, premiandoli o castigandoli nel tempo piuttosto che nell'eterno, nel vuoto d'un trionfo o cli una sconfina effimeri piuttosto che nell'intimo cuore redento oppure irredento. Strano uomo, che, dopo aver parlato, nel primo libro, cli una provvidenza che premia il vigore dell'anima e ne castiga la sterilità, può scrivere altrove, parlando dell'errore compiuto da Valente quando affrontò i Goti senza attendere che le loro forze si logorassero in si;aramucce: Vinse l'opinione peggiore, percM anche la fortuna conducev. d peggio: cosi Valente portò
senz'alcu.n ordine l'e$CKito alla battaglia.
Fato, fortuna, volere degli dèi! Zosimo tanto crede nel potere del fato, che non solo registra tutte le predizioni avverate, ma anche crede che non possano mancare presagi sicuri cli avvenimenti importanti: tanto è vero che, parlando della fondazione di Costantinopoli, scrive: Spesso, considerando l'ingrandimento di Bisanzio, tale che nessuna città poto!: poi essete paragonata ad C$$a per grandezu e splendore, io mi sono domllfldato come mai nessuna predizione divina di tal buona fortuna l'avesse annunciato agi.i uomini d'un tempo; e, cosl pensando, ho letto molti libri storici e raccolte d'oncoli; e 1imtlmen1e, dopo avere speso gran tePlpD in questa ricerca, ho trowto un oracolo della ~ibilla detta Eritrea ...
Pare di qui che per Zosimo dovesse essere determinata ab aeterno la fondazione cli Costantinopoli, che preordinato ab aeterno fosse ogni accadimento. Ma a volte pare diversamente: pare diversamente, ad esempio, quando Zosimo scrive il passo or ora ricordato su Valente; e, dal modo dell'esposizione, pare diversamente quando, dicendo della morte cli un prefetto cli Costantino, la dichiara dovuta alla divina giustizia che volle punita una colpa di quello: · E allora fu ucciso Ablabio, prefetto della corie; fu opera della giustizia, che gli fece pagare la pena dell'uccisione del filosofo Sopatto, da lui fatto morire per invidia dell'amicizia che Costantino gli aveva.
Fato, fortuna, volere degli dèi: in realtà però Zosimo solo poche volte parla del fato e della fortuna e del volere degli dèi; rare volte si serve di tali concetti per tentare di capire o giustificare il corso della storia. Per lo più il racconto procede rigido e freddo: una serie cli eventi che si succedono, cli guerre coi nemici, di stragi di eserciti, di lotte tra imperatori, di delitti, di miserie: con qualche indugio a lodare le virtù d'un imperatore (Giuliano) o la prudenza di un generale o l'incorruttibilità di qualche personaggio; o, più spesso, a biasimare l'avidità e la lussuria e la crudeltà di altri personaggi (Costantino, Costante, Costanzo, Teodosio); qualche volta anche a notare il contrasto tra i tempi recenti, obliosi della gloria e del buon ordine, e il tempo antico, in cui splendida era la gloria e rispettata la legge, Ecco, ad esempio, com'egli parla cli Costantino, dopo aver biasimato due suoi provveclimenti, quello di togliere i poteri civili ai suoi generali, e quello cli costituire, diminuendo i presldi di confine, un forte esercito centrale da spostare rapidamente: Egli impose una contribuzione d'oro e d'ar.11et1to a chiunque, in ogni pun10 della iena, esercitasse un commercio o vendesse akuncho!:, anche se si m1ttava delle merci più vili; e a questa contribuzione sottopose perfino le et~re. Coil, quando stava per giungere il momento del quadriennio in cui si dovevano pagare le tasse, in tutta la città s'udivano gemiti e .lamenti, e poi, quando il
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momento era giunto, si vedevano puniti C(ln le sienc e con torture quelli che non potevano pagare per l'cnrcma loro povertà. Le madri vendevano i figli, i padri portavano le figlie nei lupanari, cercando di provvedccsi cosl, con l'opera loro, il denaro che dovevano pagare agli esattori. Volendo poi escogitare un provvedimento gravoso anche a chi si uovava in condizioni eccellenti, li chia.11uva alla digni1à di pretori, chiedendo grandi Soml!IC in cambio dell'onore che concedeva loro.
Cosl, ancora, parla di Teodosio, dopo aver condannato il provvedimento da lui preso di accrescere il numero dei comandanti degli eserciti: Le spese sconsiderate, e per uomini indegni, gli rendevano neçess11rio cercare smiprc nuovo denaro: cosl vendeva a chi li voleva i comandi delle province, non alla fama o all'eco:llcnza della vita guardando, ma giudicando adatto chi gli offriva di più. Per tal modo si po1cvan vedere banchieri e usurai e altri uomini esercitanti nel mercato i più rurpi inestieri portu le insegne dei c:oinandi ... Per tale pegsioramento del governo dello Stato, l'esen:ito in poco tempo fu ridotto a nulla, e le città furono privale d'ogni ricch=a, in parte per le contribuzioni eccessive cui erano assoggettale e in parte per l'avidità dei comandanti ... Tutto quello che la mitezza dei Barbari aveva lasciato, era portato via: perché non wlo il denaro si doveva de.re per i tributi, ma anche gli ornamenti e i vestiti delle donne.
Tasse e miseria: e le tasse sembra che per Zosimo siano imposte dagli imperatori sempre per avidità, e l'avidità sembra che sia sempre causata dall'amore del lusso o dalla lussuria. Delle necessità dell'impero egli non fa parola: le difficoltà generate dagli incessanti assalti dei Barbari, egli non le conosce; cosl come non conosce le difficoltà nascenti dalle lotte continue tra imperatore e imperatore, ciascuno costretto a scegliersi dei collaboratori, ciascuno costretto poi a lottare contro quelli; cosl come, ancora, non conosce il male massimo dell'impero romano, quello ch'era la causa prima delle lotte intestine e dell'indebolimento che rendeva p;ù facili e pericolosi gli assalti delle popolazioni straniere, vogliamo dire l'assenza di quel sentimento di patria che placa i dissidi, che fa tollerabili le fatiche e i disagi, che in qualche misura compone in armonia le ineliminabili diversità di interessi e di sentimenti dei cittadini di uno Stato. Per dire tutto in una parola, Zosimo come storico-politico è più lontano da Polibio, che aveva saputo _incentrare il suo racconto intorno al contrasto tra ragione e passione, che Polibio non sia da quel Tucidide che aveva saputo scorgere, di là dal contrasto tra ragione e passione, l'intelligenza magnanima che redime l'uomo dai mali del mondo, dalle inevitabili catastrofi della storia. Perché Zosimo parla, sl, di colpe e di virtù, delle colpe di Costantino e di Teodosio e delle virtù di Giuliano, ma non mostra di sapere perché le virtù siano virtù e le colpe sian colpe, di seguire un criterio di giudizio che trasformi l'esposizione di fatti in un'armoniosa opera rivelatrice. Se in Polibio c'era solo un ricordo dell'idealismo classico, in Zosimo, ci pare che si deva dire, dell'idealismo classico c'è solo il ricordo del ricordo.
DA
CASSIO DIONE
Monarchia e democrazia (Hisl. Rom., XLIV, 1-3) Cesare prese tali provvedimenti anche percM pensava alla spedizione contro i Parti; ma alcuni, invidiandogli il comando e odiandolo per gli onori che aveva, pteSi da insano furore, lo uteisero violando ogni legge, acquistandosi una gloria nuove. ed empia, e traendo di nuovo, om l'annullare i suoi dea:eti, i Romani dalla concordia a sedizioni e a guerre civili. Es,i dicevano
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d'essere, sl, gli ucdsori di Ccs•re, ma insieme i hòeratori del popolo; in realtil. ordirono un'empia t'Qngiura contro di lui e sconvolsero la cittil. ch'era omlfl ben governati;. La democrazia ha un bd nome, e sembra che con l'eguaglianza delle leggi conceda a ami uguali diritti, ma la realtà t in contrasto col nome; sgradevole è al contruio il nome di monarca, ma in realtà il governo monarchico t il più utile di tutti i governi. Perché t più facile trovare un uomo buono che trovarne molti, e se .oche questo ad alami sembra difficile, bisogna convenire che trovar molti buoni t impossibile, perché l'essere virtuosi non è di JDolti. li govemo poi di UDO solo che sia cattivo t senz'altro da preferirsi a quello di wia moltitudine di gente cattiva, come provano le storie dei Greci e dei Barbari e dei Romani: ché maggiori e più numerosi beni ebbero le città e i privati dai governi regali che dai governi popolari, e di più mali son cause le oclocrazie che le monarchie. Che se una volta fu prospero anche un governo popolare, I. sua prosperità dutò per breve tempo, fintantoché non ebbe né grandezza né forza, pcrc::hé la prosperità dette origine • violenze, e l'ambizione ad invidie; era infatti impossibile che una città sl potente, che dominava sulla più bella e più estesa parte del mondo conosciuto cd abbracciaw molte e varie genti e possedeva molte e grandi ticchczu: e traeva privatamente e pubblicamente profitti dal fortunato esito di varie imprese, era impossibile, dico, che, governala a democrazia, serbasse mode. razione, e ancora più impossibile che, non serbando moderazione, rimanesse concorde. Dunque, se M. Bruto e C. Cassio •vcsscro ben considerato queste cose, non avrebbero ucciso il capo e reggitore della città, né avrebbero cagionato infiniti mali a sé e ai loro contemporanei. Le cose andarono cosl, e questi; fu la causa della morte di Cesare. Cesare, certo, non si attirò l'odio senza sua colpa; però è da riconoscere che i senatori, innalzandolo con puovi e suaordinari onori, ne alimetttavano la superbia: e poi per quegli stessi onori lo biuimavmo e l'accusavano di accettarli volentieri e di essere arrogante. Talora sbagliò anche C.Csare, .ccogliendo gli ooori dcac1atigli e credendo di meritarli veramente; ma maggiore fu l'errore dei senatori, che, confermdogli onori come se li meri1use, coi loro dcaeti lo spinsero a farsi colpevole.
Nuove g,ue"e civili (Hist. Rom., XLVIII, 1) Cosl morirono Bruto e Cassio, trafitti dalle stesse spade con cui avevano ucciso Cesare. Gli altri congiur•ti furono, tranne pochi'5icni, tutti uccisi, alcun.i prlllUI, altri allora, cd altti dopo, perch~ la giustizia e il dio volevano che perissero quelli che avevano ucciso chi li aveva benctica1i e avev• avuto tanta vinù e tanta fortuna. Cesare e Antonio presero subito il sopravvento su Lepido che non aveva avuto parte nella vittoria; e ben presto si sarebbero volli l'uno conuo l'altro, perché era difficile che tre uomini o anche due di pari dignità serbassero moderazione dopo azioni belliche cosi impor1anti, e rimanessero concordi. Quindi, quello che 6no allora •vcvano ottenuto combattendo d'accordo contro i loro avversari, ora com.inciarooo a proporselo come premio dcll'ambWonc che li faceva rivali.
Ansie dei Romani alla partenza di Pompeo (Hist. Rom., XLI, 9) ... Non è facile immaginare quanta confusione e quanto lutto vi fu pcr I. partenza dei consoli e degli altri che li accompagnavano. Per tutla la notte s'aggiravB.llO qua e là, preparandosi a partire; e all'alba faccvan voti passando da Wl tempio all'altro, e Wl gran pianto si levava da tutti: invoo.vano gli dèi e baciavano il suolo e ricordavano quante volte e a quali pericoli erano sopravvissuti, e si dolevano di dover abbandonare la p•uia, COS3 che prima non avevano mai fatta. Anche presso le porte era un grande lamento: s'ebbracciavan l'wi l'altro, e salutavan la patri• come se non dovessero più rivederla, e si dolevano della propria sorte, e scambiav.no auguri, e molti imprecav.no sentendosi qu.si traditi, ché Il, alle porte, c'cr.no tutti, anche quelli che rimanevano coi figli e ('Qfi le mogli. Alcuni poi si avviavano, altri li seguivano, altri indugiavano trattenuti dai familiari, altri restavano a lungo abbncciati. Quelli che dovevano restare accompagnavano i partenti per lungo tratto, e li chiamavano • gran voce, e piangevano, e li scongiuravano in noroe degli dti di condur via anche loto o di rimanere mch'cssi. E intanto gemiti e lagrimc infinite vctsavano anche gli altri, ché in tali condizioni né quelli che partivano né quelli che restavano aprivano il cuore alla minima spennza che
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le cose po1cssero volgers.i in meglio, m1 presentivano solo sciagure e gli uni e gli a1tri. A vederli, si sarebbe detto che di una sola città si facessero due popoli e due città, e che l'uno si levasse e fuggisse, e l'altro, abbandonato, fosse conquistato d. nemici.
Ottaviano e Antonio (Hist. Rom., XLV, 8) .. .Vennero a colloquio, e akun.i credettero che si fossero paci.fi,;ati... Se ne uutem tranquilli per alcuni giorni, m11 poi per reciproci sospetti nati o da fatti reali o da false accuse, come suole avvenire, s'inimicarono di nuovo. Infatti, quando ci si riconcilia dopo grande inimi~a, fanno 01I1bra molte cose che non hanno importanza, e anche molte che capitano per easo, e per 1'1 passata inimicizia s'interpreta tulto nello stesso modo, come se tutto fosse fatto a bella posta e con malanimo. S'aggiungono anche i conoscenti comuni, che e«ilano, riferendo, sotto pretesto di amicizia, questa cosa o quell'alrra. Perché generalmente si desidera che tutti quelli che hanno potenza siano nemici tra loro, e si gode della loro inimicizia, e si soffia sul fuoco; ed ~ mollo facile che, quando ci sono già dei sospetti, uno si lasci ingannare dii disconi subdoli che sembrano suggeriti da amici7.ia sincera. E cosl anch'essi, che già prima sospeuavano l'uno dell'altro, divennero ancor più nemici ...
DA ERODIANO
Massimino (Ab exc. d. Mar., VII, 3} Tale fu in guerra; e glorioso sarebbe stato per questa sua attività, se non avesse esercitato su cittadini e sudditi un doininio crudele e spaventoso. A che trocidar Barbari, quando maggiori stragi compiva in Roma stessa e Ira i popoli soggetti? o uure prede dai nemici, se spogliava dei loro averi i propri concinadini~ La licenza dominava, e i delatori ne traevano incentivo a minacciare, e, se capitava l'occasione, a intentare acCU$e per fatti antichi, ignoti e inconfutabili. Bastava che uno fosse citato in tribunale da un delatore, perch~ ne ritornasse sconfitto e privato di tuuo quello che aveva: ogni g.iomo si potevano cosi vedere fatti mendicanti quelli che il giorno prima erano ricchissimi, tanto grande era l'avidità della tirannide che traeva pretesto dalle continue spese militari. Facilmente anche prestava ascolto elle calunnie, senza alcun risuardo per l'età e per la dignità delle persone. Per una piccola e insignificante accusa privava di nmo molti c;ui aveva affidato il governo di province e d'eserciti, dopo che avevano ottenuto l'onore del consolato e gloria di trofei, e ordinava che soli, senza seguito, viaggiando su carri di notte e di giorno, da Oriente e da Occidente e da Mcuogiomo si recassero tra i Peoni, dov'egli si trovava; e dopo maluauammti e sevizie d'ogni genere li condannava o all'esilio o alla morte. Fino a tbc ciò avveniva a singole penonc e la sventura colpiva uomini della corte, non importava alle popolazioni delle ciull o delle province, perch~ dei mali che colpiscono i fortunati o i ricchi non solo le moltitudini non si curano, ma ne godono talora i malevoli e i poveri, mossi da invidia per i potenti e i fortunati. Ma quando, ridonc ella miseria le maggiori case, Massimino, stimando il guadagno piccolo e non bastevole a ~ddisforc i suoi desideri, passò ai beni pubblici, e, se vi era denaro pubblico raccolto per clargfaioni ai plebei o destinato a teatri o associnioni, se ne impossessava, e fondeva doni votivi di templi e statue di d~i e premi di eroi e qualsiasi fregio di opera pubblica o orn11tt1ento di cittl o !llllteriale che potesse esser fatto moneta, allora se ne irritarono grandemente le popolazioni; quella forma di assedio SC!Wl battaglie e senz'armi produceva un luno seneralc, sl che alcuni tendevano le mani e facevano la guardia ai templi ccl eran risoluti a cader morii dinanzi agli altari prima che vedere depredata la patria. C.Osl nelle citti e nelle province ribolliva d'ira l'animo delle moltitudini; e anche i soldati erano malcontenti di quello tbc avveniva, poiché i parenti e i cittadini li rimproveravano aspramente di essere la causa di nmo quello clic Massimino faceva.
La filosofia nel periodo romano I.
PILONE
In Alessandria d'Egitto, la cittl che aveva accolto Callimaco e dove era la grande biblioteca, s'era stabilita, e viveva ancora d-.1rantc il periodo ellenistico e il periodo romano, una numerosa colonia di Ebrei: uomini attivi, bramosi di conoscere e pronti ad apprendete, gli Ebrei dell'Egitto impararon presto a parlare la lingua della città d'Alessandria, ch'era appunto la lingua greca; e insieme impararono a conoscere la cultura dei Greci. Dalla diffusione della lingua a:reca, tale da far dimenticare a molti la lingua dei padri, ebbe origine la necessità di tradurre in greco i libri sacri (la traduzione della Bibbitt, che per i libri del Pe11lateuco risale al III scc. a. C., fu compiuta in tempi diversi; ma la leggenda vuole che sia stata compiuta tutta nel III scc. a. C., in circa settanta giorni da circa settanta traduttori; e il nome di traduzione dei Settanta, dowto alla leggenda, è ancora in uso); dalla diffusione della cultura greca ebbe origine il bisogno di interpretare i libri antichi
in modo nuovo. A noi sono pervenute numerose opere di Filone, un ebreo di Alessandria vissuto tra la prima metà del primo secolo avanti e la prima metà del primo secolo dopo Cristo.1 Erede di una sapienza antichissima e conoscitore cli una sapienza nuova, Filone volle mostrare come nell'antica sapienza dei libri degli Ebrei fosse inclusa anche la sapienza nuova, di Platone e d'Aristotele e degli Stoici, anzi la sapienza di tutta la Grecia. Mirabile, anzi sublime, anzi divina doveva infatti essere la sapienza tramandata nei libri sacri, se per essa i figli degli Ebrei, vivessero nella terra loro o in Alessandria o a Roma, rimanevano fedeli al loro Dio, all'unico vero Dio, nonostante le persecuzioni spesso subite, e il lungo contatto con genti ricche e possenti e colte d'ahre civiltà, e la lontananza di molti dalla terra patria per generazioni e generazioni. Sapienza divina: che non solo doveva essere rivelata dalle leggi e dalle massime e dai proverbi, ma doveva essere celata in ogni racconto, anzi in ogni periodo e in ogni parola dei racconti degli scritti saai. di la=~
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~:!k~::
~~~r:.d:e~tt!::;!;~!•q~~e 'fe~iJ:à1i:~:::S~s:!11rean::; Pu::. 1 non quella che non dipendeva dal tempo e dalla fortuna, ma dalla fedeltà del suo cuore? Filone aveva imparato dai filoso.6 greci, da Platone prima cli tutti, che la felicità à distacco dai presunti beni del tempo: e la parola di Platone, se pur non coincideva, non era contraddetta dalla sapienza dei padri, che avevano educato 6gli e nipoti ad affrontare anche la morte per obbedire al Dio. Dunque era da credere che il Signote, là dove aveva comandato ad Abramo di distaccarsi dalla sua terra, avesse alluso al distacco della mente dalle brame del corpo e dei beni del corpo,
' POJ1cbomenllli IOiia le·- opere aepriche dd Vecchia Tn1uoen10 (KCDndo wa modo che, neUa .61'*'6 criscimi come Oriaene): si ricordate, U1I le al1re, le l111u,nltrVoni llllr,1oriri, ddU! lr,ii, lo 1Crit10 S11ll• imllf811NNlild di Dio, quello 1ulla Mivaion, di AbHmo, qudlo Sua. ffffd011t 4tl ,rw,ulo, quello StJl'ffff• 4ti bttd diflirii,
stasi Alest1ndril, ad squiio da lilomli pqani rome Platino e da poao11
quello 1111 M11111111nrlo Id nomi.
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LA PILOSOPIA NEL PERIODO ROMANO
e dove aveva parlato del distaèco dai parenti, avesse alluso alla liberazione della
mente dalla soggezione alle sensazioni (che hanno qualche parentela coi pensieri della mente), e dove aveva parlato del distacco dalla casa avesse alluso all'abbandono della vana pompa dei discorsi sofistici, in cui la mente dell'uomo impuro s'adagia e si compiace. Allegorica fu insomma l'interpretazione filoniana dei libri sacri. Sapienza antica del Vecchio Testamento, e sapienza nuova dei filosofi greci: difficile era accordarle, perché il Vecchio Testamento insegnava la fedeltà al Dio e i 610s06 greci insegnavan la ricerca di Dio, il Vecchio Testamento imponeva d'obbedire alla Legge e i filosofi greci volevano che si cercasse la buona legge. Per di più l'idealismo greco aveva avuto ual centro l'antitesi d'essere e di non essere, di forma e chio Testamento era di là . Filone, l'interprete de più e più volte ripete le antitesi e usa i termini stessi dei 610s06 greci, di Platone e d'Aristotele e degli Stoici: sennonché poi le antitesi greche, com'era inevitabile, in lui si trasformano secondo quella sua fede, che nulla concede al potere dell'uomo e tutto al potere di Dio. Ecco l'antitesi prima: Filone la formula cosl in quel commento dei primi versetti del Genesi che è intitolato Sulla creazione del mondo secondo Mos~: « Mosè conobbe che nelle cose che sono dev'esserci un principio attivo e un principio passivo». È la formulazione stoica. Quindi, dopo aver detto che il principio attivo è la mente ordinatrice del cosmo, e che il principio passivo per se stesso è inerte, Filone formula l'antitesi in modo nuovo, accostandosi ora a Platone; « Il grande Mosè, pensando che nulla più di ciò che non ha nascita è diverso da ciò ch'è visibile, attribul l'eternità all'invisibile e intelligibile ... e al percepibile dette il nome che gli compete, il nome di genesi ». Altre volte poi usa il termine aristotelico di materia per indicare l'elemento per se stesso inerte, inanimato, discorde da se stesso, corruttibile, contrapposto all'eternità e perfezione di Dio e dell'opera divina. Ma ecco che poi sembra trovare un valore formale anche nella materia, e dice che l'eccellenza dell'uomo sugli altri animali è dovuta anche alla eccellenza della materia usata nel crearlo, e del corpo dice che bisogna prendersene cura perché esso è sede (ancor più che carcere o tomba) dell'anima; e nel mondo intelligibile pone non solo l'idea dell'essere ma anche l'idea del vuoto, e non solo l'idea della conoscenza ma anche l'idea della percezione. Insomma pone nel mondo delle idee ciò che è, platonicamente, antitetico all'idea. E attivo poi fa non soltanto, come gli Stoici, l'elemento divino, ma, a volte, anche l'elemento corporeo terroso, che per gli Stoici è soltanto passivo. Ambiguo è del resto anche quel Logo, o mente divina, in cui sono per Filone tutte le idee; perché a volte esso pare concepito come pensiero pensato dal Dio, e a volte come realtà per sé stante, che agisce separando nel mondo del divenire i termini dell'antitesi (là dove, grecamente, dovrebbe essere esso il termine positivo dell'antitesi, di cui il mondo del divenire è il termine negativo); e ambiguo è anche il concetto di contemplazione, che pare a volte essere conoscenza della narura, e a volte conoscenza del Dio trascendente la natura. Si può insomma dire che Filone in qualche modo sembra tradire la filosofia greca, di cui pur accoglie le formulazioni. Gli è che le formulazioni dei Greci, adeguate alle filosofie di chi, come Platone, credeva eterna l'anima umana, o, come Aristotele, credeva separata da ogrti altra realtà la mente dell'uomo, o, come gli Stoici, credeva parte della Ragione universale la ragione umana, non erano adeguate a esprimere la certezza. di Filone, per cui anche la mente dell'uomo era corporea e creata e mortale, se pur in alcuni trasformata per grazia di Dio, in incorporea ed eterna. Inadeguate erano, per dire in altro modo, le formulazioni dei Greci, che
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contrapponevano, nell'interno dell'uomo, l'anima immortale al corpo mortale, a esprimere la fede giudaica di Filone, per cui un'unica veta antitesi fondamentale esisteva, quella che è tra il Dio creatore, che è tutto, e l'uomo e le cose, che non son nulla; tra il Dio, che può tutto, e l'uomo e le cose che non posson nulla. Neppure il cosmo intero - egli scrive, infatti, nelle Inlerputa:ioni allegoriche - potrebbe csscrc sede e dimora degna di Dio, pcrchl! Dio è Esfi luogo di se stesso, Egli pieno di se stesso, Egli bastevole a se nesso, Egli che riempie cd abbraccia tulle le cose, manchevoli e solitarie e wotc, mentre da nessuna cosa Egli è abbracciato, essendo Egli uno e tutto.
Solo quando formula l'antitesi nella forma ch'è più adeguata alla sua fede religiosa, Filone non è meno limpido dei filosofi greci. Anzi, il distacco ch'egli pone tra il creatore e la creatura è ancor più completo di quello che Parmenide poneva tra l'essere e il non essere, ed Eraclito tra il logo e le cose e Platone tra essere e divenire; perché per lui incolmabile è dalla creatura, anche dall'uomo che ha il dono del pensiero, l'abisso che separa essa creatura dal Dio creatore. Leggiamo ne.I trattato Sulla immutabilità di Dio: Perché se il Dio volesse giudicare scma misericordia il genere umano, pronunzierebbe un giudizio di condanna, nessun uomo da solo potendo percorrere il ciunnllno della vita da.Ila nascita alla morte senza cadcrc in errori, ora volontari e ora involontari.
È dentro questa cornice dell'antitesi tra il Dio onnipotente e le creature impotenti che prendono senso le antitesi dei Greci: se Filone può contrapporre la materia alla forma, assolutamente per sé disordinata quella e ordinatrice questa, e poi anche dire che c'è una materia eccellente, lo può dire perché nella fonna vede l'opera di Dio e nella materia eccellente quella materia che ha già ricevuto dal Dio un dono panicolare, un particolare ordine; e se può dire che solo Dio è attivo e tutto il resto è passivo, e poi, anche, che la mente dell'uomo e lo stesso suo corpo son attivi, lo può perché per lui il Dio onnipotente può rendere attivi la mente e il corpo dell'uomo, per se stessi inerti. Il pensiero greco dell'antitesi egli dunque lo accetta, trasformandolo secondo la sua giudaica certezza, che solo Dio è potente, anzi onnipotente, e tutto il resto per sé è impotente, e che il Dio onnipotente può dare forza a ciò che per sé è privo di forze, e ordine al disordine, e attività a ciò che per sé è passivo. Sia i Greci che Filone erano certi che l'uomo è sospeso tra la mortalità e l'immortalità, tra la miseria e la grandezza. Ma i Greci la grandezza e l'eternità dell'uomo la ponevano entro di lui, nell'anima sua, nella sua mente, per natura immortali, eterne, attive, Filone invece la grandezza l'attribul a un dono di Dio, che, nella sua infinita bontà, ispira nella mente dell'uomo una scintilla dell'essere suo, una scintilla di verità, un'intuizione del bene, un'intuizione di Lui. Leggiamo nelle Interpret11Zioni allegoriche: Tre devono essere gli elementi: quello che inspira, quello che accoglie ciò ch'è inspimo, e quello che ~ inspirato. Quel che inspira è Dio, quel che accoglie è la meote, quel che è inspirato è lo Spirito. Oic cosa ne concludiamo? I tre clcmenti s\miKQno pecchi Dio mediante lo Spirito tende il suo potere fino alla mente che l'accoglie: e perché mai., se non affinché noi possiamo acquistare conoscenza di Lui~ Come, infaui, potrebbe l'anima pensare il Dio, se egli non l'ispirasse e non la toccasse nel modo ch'è possibile~ La mente umana non potrebbe altrimenti ahani a tanto; non potrebbe, la men1e umana, cogliere la natura del Dio, se il Dio stesso non la traesse a sé.
Anzi Filone fu certo che l'uomo non può alzarsi a Dio, se pur ispirato dal Suo soffio nel giorno della nascita, se Egli non lo soccorre ancora e ancora mediante il
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LA FlLOSOPIA NEL PEll.10DO ROMANO
dono della rinnovata ispirazione del suo Spirito, che è Spirito di verità, Spirito di conoscenza, Spirito di sapienza; e fu certo che quel dono viene a volte a chi ricerca e a volte a c:hi non ricerca, e a volte non viene a chi non ricerca e a volte non viene a chi ricerca: Accade spesso - leggiamo nell'operetta Sul/4 immutabiliJiJ di Dio, - che chi faticosamente ricerca con trovi ciò che 1ia:rca, e che invece trovi facilmente anche ciò che DOD. ha mai pensato ~ uai dato peosiero.
di poter trovare, chi non se ne
La contemplazione era, nel pensiero dei filosofi greci, compenso alla ricerca ascetica: or il dono di Dio, o grazia, per Filone, che è? è compenso alla virtù o non è compenso, ma dono arbitrario che tocca del pari all'uomo virtuoso e all'uomo scellerato? Filone si pone la domanda nel trattato Sulla immutabilità di Dio: Che signi6Cl11 che N~ trovò grazia presso il Signore? ... Forse che ebbe in sor1c la grazia., oppure che fu ritenuto degno della grazia?
La prima ipotesi, per cui il Dio concederebbe capricciosamente i suoi doni, è subito respinta: « Non è neanche possibile fare l'ipotesi prima•- Più vicina al vero appare l'ipotesi seconda, ma - Filone dichiara - non vera del tutto: perché « chi può essere giudicato degno della grazia presso il Signore? Neanche il cosmo intero, ch'è la prima e la massima e la più perfetta delle opere divine». Il vero è dunque che la grazia, dono della sovrabbondante bontà divina, la grazia che non tocca i malvagi ed è compenso soverchio anche alle virtù dei buoni, è dono di misericordia, e dunque insieme non irrazionale e non dowto, ma concesso all'umile che prega e spera. Dicendo « la terra ch'io ti inditheW •, piuttosto che « la terra tbc ti indico • - leggiamo nella Migrazione di Ab,amo, - il Dio siabilisce il tempo futuro, non il presente, per il compimento della promessa; e volutamente si serve del tempo fu1uw, a testimonianza della fede c;he 1'1U1ima ha posto nel Dio, per cui non induce la sua grazia dal compimento avvenuto, ma dùl'aucsa del compimento: perc;M l'anima, ali:idandosi intera alla buona spetanza, e giudicando sicuramente presente il non presente per la fiducia saldissima in C.Olui che ha promesso, ouicnc qual premio uo bene perfetto.
Tutto viene da Dio, nulla dall'uomo: solo chi a Lui si rivolge, chi in Lui ha fede, chi soltanto in Lui ripone la sua speranza, è tratto fuori del tempo, nell'eterno, dalla grazia di Dio. L'eterno non è, dunque, per Filone, conquista, come i Greci credevano, dell'uomo indagante, ma grazia concessa all'umile che ama. Giudaica, non greca è quest'ispirazione di Filone, che in Dio, e non anche nell'uomo, pone la sua speranza di redenzione. Ma ben greca essa è là dove Filone concepisce il dono di Dio non come riscatto di tutto il popolo eletto in un futuro lontano, nel tempo sperato dell'avvento, nel giorno in cui il popolo d'Israele sarà signore delle genti, mediatore ua Dio e le genti, sacerdote di Dio tra le genti, ma come dono di una gioia intemporale, ch'è.assunzione nell'eternità, all'anima fedele. Greca e giudaica in quello che la filosofia dei Greci e la religione giudaica avevano di più puro, la sua ispirazione fu insomma vicina a quella dei cristiani, che medesimamente sapevano che nulla è l'uomo e onnipotente e misericordioso è il Dio che purifica i cuori, e dona la vita eterna all'umile che crede.
Giustizia e misericorditJ ( Quod Deus sit immuttJb,, 74-76) Dke che No~ uovò grazia presso di lui, mentre gli altri privi di grazia stavaDo per essere puniti, per unitt la miserico!"dia salvatrice alla condanna dei pecca.tori. Co51 canta mche il salmista:
PILONE
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• Misericordia e giustizia canterò per le•- Perdi~, se Dio volesse giudicare senza mbericordia il genere umano, pronunzierebbe UD giudizio di condanna, nessun uomo da solo potendo percorrere il cammino della vita dalla nasci1' alla morie senza cadere in errori, ora volontari e ora involontari. Affinchl dunque sopravviva la Stirpe anche se molti degli esseri che ne fan parte sono sommersi, usa misericordia beneficando anche gli indegni; e non solo l'usa dopo il giudizio, ma anche giudia con misericordia. Presso di lui la misericordia precede il giudu.io, percM :Ecl.i sa chi è colui che media il castigo non dopo aver giudicato, ma prima.
Beni terreni e beni caduchi ( Quod. Deus sit immutab., 148-151) Non un uomo solo può dire di avere appreso da Mod i principi della sapienza, ma UD intero numerosissimo popolo. Ne è prova il fatto che ciascuno dei suoi diso:poli arditamente osò dire al re di quelli che appaiono beni, l'Eden terreoo (o:M in realtà tencni sono rutti i beni apparenti): • Passerò ora attraverso la tua !etra e ne uscirò i.. Eccdsa, magni.6.a promessa! Ditemi, potrele voi lascio: da parte, ripudiare, respingere le cose che e.dono sotto i sensi e sono stimi.le i beni della 1erra? potrete continuue il vostro cammino 5CllZI lasciarvi arrestare da nulla? e, dinanu agli immani tesori della terra, vi volgerete altrove e non li degnerete d'uno sguardo? e degli onori degli antenati patemi e materni e della nobiltà della na5citll che i molti esaltano, potrete non fare alcun conto? e la gloria, per la quale gli uomini sono pronti a du tutto, la trascurerete come cosa spregevolissima? Che dico? la salute del corpo, l'aa.m:zza dei sensi, la bellezza brunata, la forza incontrastata e nme le altre t'Qse di cui si adorna la dimora o la 10,:nba dell'anima, o comunque si voglia chiamarla, le disprcizerete negando che siano beni? Sono questi i grandi ardimenti di un'anima divina e cdeste, che he. abbandonato la icru e s'~ innalzata e dimora con le nature divine; IISSOtla nella visione dei veri cd incorruttibili beni, non può non ripudiare i beni falsi e e.duchi.
La preghiera e l'allesa (De Migr. Abr., 56-58) Principio e fine dei beni, grandi e copiosi, che a noi sono t"Oocessi, è l'indefeuibile ricordo di Dio, e l'invocazione de[ suo aiuto nella gueru continue. e confusa e intima che si cornbaue durante la vita. La SaCFa Scrit111ra dice appunto: « Una nazione sapiente e unta è questa nostra grande nazione; perch~. qual almi grande nazione c'~, cui Dio s'avvicini, come il nostto Signore a noi s'avvicina ogniqualvolta noi l'invochiamo? • t evidente di qui che c'è in Dio una vigorosa potenza soccottitrice che ci assiste, e che lo stesso Reggitore s'avvicina e aiuta chi d'aiuto ~ degno. E chi ~ degno d'essere aiutato? oon forse rutti coloto che 1UDano sapienza e t"Onoscenza? Son costoro che formano la oazione sapiente e saggia, il popolo di uomini tu.lii nobilissimi perché aspirano rutti a grandi cose, anzi a una sopa tutte, a non essere separati dall'eccelso lddio, e ad attendere feJ1I1amen1e, immoti, il suo avvicinarsi.
Il redento (De Migr. Abr., 28-.3.3) Bisogna trasmigrare nella terra l)fltria, nella terra che è delle. Parola sacra, e, se !i può dir cosl, degli asceti di Dio: questa terra è le. sapienza, ottima dimora delle arùme virtuose. In essa vive le. stirpe che ha oome Isacco, la stirpe di chi non da altri impara ma ha dentro di ~ il suo maestro, di chi noo si nulre d'infantile stoliezze.: la stirpe di chi dalla Parola di Dio è smo impedito di scendere nell'Egitto per incontrarvi i seduuori piaceri della carne. Quando di questa terra ru avrai preso possesso, allora per necessità sarai liberato dalla fatica: riposo ti dat1lrul0 i beni sovrabbondanti e immediati che vi troverai. Perché fonte donde sgorsa il bene è l'incontto col Dio donatore. Per questo Dio stesso ti dice, sigillando il dono: « Sarò con te•· Qual bene ti può infatti mancare quando è presente il Dio onnipotente con le gruie, sue vergini figlie, incontaminate e pure? Cessano allora le cure e le fatiche e le ascesi, e rampollano insieme per Provvidenza, seil78 artificio, rutti i berù a rutti. Remissione si chi1UD1 questo flusso di beni che spontaneamente ti vengono, perch~ le. mente ~ sciolta dalla necessità di attività sue proprie, e com.: liberala dalle scelte, per la sovrabbondanza dei beni che t"Ontinuamente scendono dall'alto. Sono i beni più meravigliosi e più belli. PercM, quando l'anima partorisce da ~. i suoi parti sono in gran parte abortivi e immaruri, mentre perfetti compiuti eccelsi sono quelli irrorati dalla neve di Dio.
EPITTETO, MARC'AURELIO, MASSIMO DI TIRO
Il.
Dopo l'assoggettamento della Grecia a Roma, e soprattutto dopo l'istituzione del principato, Roma sembra essere divenuta il centro della cultura greca, o meglio di quella cultura ch'è insieme greca e latina: già s'è visto che la storia di Roma è divenuta il tema primo della storiografia in lingua greca durante il principato. Cosi, dopo gli Stoici e gli Epicurei del III sec. a. C. e i loro discepoli del II e del I, le dottrine :61oso6che dei Greci furono studiate e riprese dai Latini, o dagli uomini di cultura d'altri paesi divenuti Latini: con questo di nuovo, che i Latini per lo più s'accostavano agli eclettici anche quando accoglievano di prefereru:a una dottrina, convinti che qualche cosa di vero ci fosse anche nelle altre. Or a Roma fu portato quale schiavo, nella seconda metà del I sec. d. C., Epittcto, nato nella Frigia; e a Roma egli ascoltò lo stoico Musonio Rufo; poi, fatto libero e divenuto a sua volta maestro, fu mandato da Domiziano in esilio, a Nicopoli nell'Epiro, e ivi trascorse il resto della vita (forse finita intorno ,I 130 d. C.). Nulla ci rimane di lui: ma fedeli pare che siano i ricordi di Arriano, auto~. come già si disse, di otto libri di Diatribe (o Conversazioni) di EpitteJo, e di un Manuale di Epilleto. Impossibile è giudicare con certezza i rapporti tra il pensiero di Epitteto, a noi conosciuto solo dagli scritti d'Ardano (che, anche se fedeli, possono essere manchevoli), e il pensiero degli Stoici antichi, a noi conosciuto quasi solo da fram· menti: e tuttavia pare che Epitteto, come si distaccò dall'eclettismo di Cicerone e di Seneca, cosl rivivesse lo stoicismo antico in un modo suo proprio, mn una sua propria originalità. Manca infatti in lui, anche se egli parla di destino e di provvidenza divina, quella concezione rigida della predeterminaz.ione d'ogni evento, che negli Stoici antichi comportava il concetto d'un tempo finito e perfetto, infinite volte rinnovantesi nelle stesse forme: d'un tempo in cui quello che accade oggi, in questo momento d'un ciclo storico, già era accaduto nello stesso modo in un ciclo passato, e ancora accadrà nello stesso modo in un ciclo avvenire. La provvidenza divina, in Epitteto, sembra creare un modo d'ordine soltanto generico, in rui gli accadimenti non sono predeterminati rigidamente: quell'ordine generico per cui all'estate succede l'inverno e all'inverno l'estate, per cui gli uomini sono fomiti di ragione e gli altri animali ne sono privi, per cui l'uomo maschio ha la barba e la femmina non l'ha (affinché la differenza dei sessi appaia subito, e sia evitato un modo sconveniente di rivolgersi a persone di sesso diverso). Se Cleante scriveva che, di buon cuore o di mal cuore, avrebbe comunque fatto quello ch'era destino che facesse, perché cosl voleva la ragione divina, in Epitteto è invece vivo, in ogni pagina, il senso che l'uomo può scegliere di volta in volta l'azione da compiere: secondo l'animo suo, secondo la sua fede, secondo il suo senso di dignità personale. Basti ricordare come egli risponde al quesito se sia conforme a dignità presentare a chicchessia un vaso da notte per aver compenso di nutrimento o scansare qualche bastonata: Per uno
~
conforme a ragione portare un
V1LSO
da none a qualcuno, pensando che altrimenti
EPITTETO, MAllC'AURELIO, MASSIMO DI TlllO
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pttnde[à delle botte e non avrà nutrimento, mentre, se lo porterlli, non subirli alcunché di spiacevole e penoso; pc[ un altro ~ intolletabile non solo portare u.l vaso, ma anche lasciare che altri lo potti. Ché se tu mi domandi: c Devo o non devo portare il vaso da notte~ •, ti dirò che ~ meglio avere nutrimen10 che non averl6, e meglio non csscrc banoruno che esserlo: dunque, se tu per te scegli tale misw:a, va' e portalo.
E nello stesso modo Epitteto parla a clù è chiamato in giudizio: ~ impossibile che in un corpo come questo, voglio dire nel corpo del tutto, tra tutti quelli che vivono insieme, non accadeno cose di tal genere, a questi queste e ad altri altre. Compito tuO ~ dunque, se sci chiamato in giudizio, d'andarvi, e di dire quello che dcvi, e cli clisporre le cosc come bisogna. Che se poi il siuclicc dichiai:a: « Giudico che tu sci colpevole», rispondi: e Io ho fatto quello che dovevo: se anche ru hai fatto qucllo che dovevi, vedrai tu stesso•.
E poco dopo aggiunge: Crisanta, mentre nava per battere il nemico, udi lo squillo di tromba che lo richiamava, e si fermò: perché gli parve meglio obbedire al suo comandante che fare quello che avrebbe desiderato.
Ma la differenza tra Epitteto e gli antichi Stoici è, per quanto è possibile intravedere, inessenziale: quella di Epitteto è una concessione all'esperien2ll, cui gli Epicurei ricorrevano nella polemica contro gli Stoici; ma la concessione non incide la sostanza. Nella sostanza Epitteto è fedelissimo all'antitesi di Zenone, di Crisippo, di Cleante. Basta ricordare come egli parla della necessità, chi voglia essere virtuoso e felice e libero, di vivere secondo natura: Schiavo, questo voglio sapere, come tu alcune cose desideri e altre ripudi, come a qualche cosa ti volsi e da altt'll ti distogli, come ti comporti. e ti disponi e ti prepai:i, se in modo conforme o disforme dalla natura ...
o ca.me parla dell'unità delle cose nel mondo: Come dunque si può dire che delle cose cste[nc alcune sono secondo e altre sono contro natut'll? t come se si clicc:ssc che noi siamo sciolti da ogni legame. Del piede, io dico che per esso l secondo natut'll essere pulito, ma che, se tu lo pttncli come piede e non come cow sciolta d'ogni legame, egli pot[lli a volte andare nel fanso e calpesrai:e spine, e talvolta farsi amputare pt[ il bene del rutto: se no, non sarà piede. Or lo stesso vale per noi. Che cosa sci tu? Un uomo. Dunque, se guardi a te Stcs50 come a cos« senza legami, è confonne a natuta per te vivere lino alla vecchiaia, e farti ricco e aver buona salute: mA se pensi che sci uomo, e ci!X parte d'un tutto, per quel tutto dovt'lli subir malattia, e affrontare il mare, e correr rischi, e talvolta essere povero e magari morire prima del tempo. Dunque, pcrchi t'afiliggi? non sai che, come il piede, se fosse sciolto, non sarebbe piede, co,I tu, sciolto, non saresti uomo? Che cos'l un uomo? una parte della citcà, della città fatta cli d~i e d'uomini aru:itutto, e poi cli quella che ha questo nome cd ~ una piccola parte dell'intera città ...
o, ancora, com'egli parla dell'antitesi tra il corpo, che sembra appartenerci e non ci appartiene, e l'anima, ch'è nostra ed ~ libera: Che dice Zeus? Dice: « Epitteto, se fosse stato possibile, anche il tuo corpicciuolo e la tua sostanzuola avrei fatti liberi e senza impedimenti. Peasa però che coteste cose non sono tue, ma fllll80 bellamente modellato. Dunque, poiché non potevo, ti ho dato una parte di mc stesso, questa potenza di volgerti o cli clistoglierti, di desiderare o cli respingere, in una parola questa capacità cli usare delle rappresentazioni intellettive, pet cui, se tu bene te ne prenderai cura ben disponendo te stesso, tu non avrai alcun impaccio e impedimento più, e non più piangerai. né proverai collera né adulerai alcuno. Questo, ti scmbt'll poco? ,.
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LA PJLOSOPIA NEL PERJODO ROMANO
Per dire in breve: c'è un Dio perfet.tissimo, libero e liberatore, creatore d'un mondo perfettissimo: libero è l'uomo che vive in armonia col Dio nel mondo divino; schiavo è l'uomo che, dimentico di Dio, vede le patti molteplici del cosmo come se fossero staccate dal tutto, e a quelle si affida, sempre illuso, sempre deluso: Vado dunque dal vero interprete e vero sacerdote e gli dico: «Esaminale viscere, e dimmi
che cosa mi presagiscono,._ Egli le prende e le esamina e spiega: ., Uomo, libera è la scelte dell'anima tua, senza impedimenti; cosl sta scritto nelle vis«re. Te lo mostrerb parlando della facoltà tua cli assentire: forse che qualcuno può impedirti d'assentire al vero? Nessuno; o può qualcuno costringerti ad accogliere il falso? Nessuno. Dunque non t'accorgi che in questo libera e senia impacci e senza impedimenti è la sttlta dell'anima tua? E ora, guardiamo ai tuoi desideri ed impulsi: forse che non è lo stesso? che cosa pub vincere un impulso se non un e.luo impulso? che cosa pub vincere un desiderio se non un e.l!ro desiderio, o una ripugnanza se non wùùua ripugnan2a? "Se mi si minaceia la morte~ uno risponde, •io vengo costretto". Non la minaccia ti costringe, ma il fatto che tu giudichi meglio fare quello che ti si comanda che morire: dunque il tuo giudizio costringe le; una scelta vince una scelta diversa. Percho!: non sarebbe Dio il Dio, no!: si prenderebbe cura di noi, se permettesse che potesse essere costretta, o impedita, da lui o da altri, quella parte di se stesso che ha data a noi. Questo - dice - trovo nelle vittime. Dunque, se woi, sei libero: se vuoi, non t'irriterai con alcuno e non accuserai nessuno; se woi, tutto avverrà secondo il tuo volere e il volere del Dio•·
Nella seconda metà dello stesso II sec. d. C., mentre Sesto Empirico riprendeva
ed esponeva le dottrine degli Scettici confutando ogni dottrina dogmatica, scriveva un'opera, di pensieri, d'appunti, di esortazioni a se stesso, l'imperatore Marc'Aurelio, l'opera intitolata appunto A se stesso. Marc'Aurelio nacque nel 121 e morl nel 180 d. C.: imperatore fu fatto nel 161. Molti maestri ebbe in fanciullezza e in giovinezza: e tra tutti prediletto gli fu il padre adottivo, l'imperatore Antonino. Si può tuttavia dire che il suo vero maestro fu un morto, che maestro primissimo di lui, l'imperatore, fu Epitteto, il liberto morto in esilio. Sennonché da Epitteto in qualche modo l'imperatore Marc'Aurelio si stacca: in questo, che, mentre pacato era il conversare dell'esule Epitteto, Marc'Aurelio imperatore sembra vivere in un'ansia continua, come uno che anela a libertà, ma deve ogni giorno rinnovare lo sforzo per riconquistare tale libertà; come uno che è sfiorato ogni giorno, se non dal dubbio, dall'ombra del dubbio, e vuole cacciare da sé quel dubbio o quell'ombra di dubbio; come uno che vede nel mondo, ogni giorno, rinnovarsi il disordine, ma vuole convincersi che il disordine è apparente e deve riacquistare la sua convinzione; come uno che teme di non ritrovare il Dio e gli dèi, e rinnova ogni giorno la ricerca; come uno, infine, che tante e tante volte si sente solo e insieme circondato da una folla troppo 6tta, e deve sforzarsi di vincere il triste isolamento e di trovare insieme la preziosa solitudine: in altri termini, per usare la parola dello stesso Marc'Aurelio, come uno che crede al suo dèmone e ogni giorno deve ricercarlo si; vuole ritrovarlo: la filosofia sta tutta in questo, nel custodite il d~mone interiore lontano da ingiurie e senza. danni, più forte di piaceri e di travagli, nulla operante a caso o con menzogna e ipocrisia,
Perché Marc'Aurelio non è costruttore di sistemi filoso6ci, ma cercatore di libertà: se egli accetta lo stoicismo, ché lo stoicismo gli sembra teoria liberatrice, se, seguace dello stoicismo, parla più e più volte di una divina provvidenza e di un ordine perfetto del cosmo e d'un destino universale («Nella sostanza v'è - egli scrive - una sola armonia; e come da tutti i corpi si forma quel grande corpo universale ch'è il cosmo, cosl da tutte le cause si forma quella grande causa univer-
EPITTETO, MARC' AURELIO, MASSIMO DI TIRO
,n
sale ch'è il destino»;